Claudio Rugarli Professore Ordinario di Medicina Interna Università Vita-Salute S. Raffaele – Milano
Medicina interna s...
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Claudio Rugarli Professore Ordinario di Medicina Interna Università Vita-Salute S. Raffaele – Milano
Medicina interna sistematica QUINTA EDIZIONE
MASSON
(001) Parte prima (3LD) 15-07-2005 8:33 Pagina 1
PARTE PRIMA
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO a cura di M. OBBIASSI, C. RUGARLI con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di F. RADICE
Documento1 28-07-2005 11:56 Pagina 1
C A P I T O L O
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IPERTENSIONE ARTERIOSA M. C. BARBIERI
PREMESSE FISIOLOGICHE E GENERALITÀ Fattori fisici determinanti la pressione arteriosa Al fine di comprendere i meccanismi fisiologici che regolano la pressione sanguigna, è utile paragonare il sistema arterioso a un recipiente pieno di liquido, avente un foro di afflusso e uno di efflusso; il primo è rappresentato dall’aorta, attraverso cui il cuore pompa il sangue all’interno del recipiente, il secondo dalla moltitudine delle arteriole, attraverso cui il liquido lascia il sistema. In un modello di questo tipo, è evidente che variazioni a carico della pompa cardiaca o del calibro delle arteriole sono in grado di modificare la pressione all’interno del recipiente. I valori della pressione arteriosa possono essere, con una certa approssimazione, espressi con la formula: P=F×R dove la pressione P è data dal flusso F per la resistenza R. Il flusso è determinato dalla gettata cardiaca, la quale è sostanzialmente funzione di due fattori: il precarico e l’attività cardiaca. Il precarico è costituito dalla quantità di sangue che viene offerta alle camere cardiache durante la diastole; corrisponde al ritorno venoso. Esso dipende a sua volta da diversi fattori, il più importante dei quali è rappresentato dal volume ematico. L’attività cardiaca esprime l’efficienza della pompa all’interno del sistema. La resistenza R è data dalla formula: R=
8 L
r4
dove è la viscosità ematica, L è la lunghezza del tubo, r è il raggio medio arteriolare.
Di questi, nel caso della pressione arteriosa, L è trascurabile, in quanto la lunghezza delle arteriole è molto ridotta, mentre notevole importanza riveste il raggio arteriolare. I fattori in grado di influenzare in modo significativo la pressione arteriosa sono quindi essenzialmente quattro: il volume ematico, l’attività cardiaca, la viscosità del sangue e il raggio medio arteriolare. A. Volume ematico. È soggetto a variazioni diverse, le quali possono riguardare la parte corpuscolata o la parte fluida del sangue o entrambe. Diminuzioni critiche della massa circolante possono verificarsi in occasione di emorragie, con concomitante diminuzione della pressione arteriosa, che può giungere fino a un quadro di shock ipovolemico. Aumenti di volume a carico della parte corpuscolata si riscontrano per esempio nella policitemia, un’affezione caratterizzata da un aumento assoluto del numero dei globuli rossi. La componente fluida del sangue subisce delle modificazioni che sono strettamente legate alla concentrazione del sodio, il principale catione extracellulare. Il sodio è presente nel plasma alla concentrazione di 140 mEq/l ed è estremamente importante dal punto di vista osmotico, nel senso che sue variazioni in concentrazione sono in grado di aumentare o diminuire l’osmolalità plasmatica. Esistono diversi sistemi che regolano la concentrazione del sodio. Un primo sistema è rappresentato dal meccanismo della sete, che consente un aumentato apporto di acqua all’organismo dall’esterno, un secondo è costituito dalla secrezione dell’ormone antidiuretico, che agisce sui dotti collettori renali, rendendoli più permeabili all’acqua, e determinando ritenzione di acqua attraverso un maggior riassorbimento di questa rispetto ai soluti. L’attivazione di questi sistemi fa sì che un’aumentata quantità di sodio faccia aumentare la quantità di acqua nel compartimento extracellulare e, in seconda istanza, nel plasma, il quale si trova in
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equilibrio con esso: il risultato finale è costituito da un aumento della massa circolante e quindi della pressione sanguigna. È importante a questo punto osservare che esistono prove sperimentali del fatto che un’aumentata concentrazione di sodio nell’organismo aumenta la sensibilità delle arteriole agli stimoli costrittori. Accanto a questi meccanismi, bisogna prendere in considerazione anche la possibilità di una variazione non assoluta ma relativa della volemia, per ridistribuzione della massa sanguigna in determinati distretti. Per esempio, ha importanza il tono delle venule postcapillari. Bisogna tenere presente che le vene costituiscono il principale sistema di capacitanza dell’apparato circolatorio: il sangue risulta infatti distribuito per oltre il 50% all’interno del letto venoso. Se il tono venulare aumenta, la capacità complessiva del letto venoso diminuisce e questo fatto provoca una ridistribuzione del volume circolante, nel senso di un passaggio di liquidi verso l’area cardiopolmonare, con conseguente aumento del riempimento diastolico dei ventricoli e della gettata cardiaca. B. Attività cardiaca. È condizionata dal sistema autonomo vegetativo, attraverso il vago e il simpatico. Ai fini della regolazione della pressione arteriosa, la funzione più rilevante è svolta dal simpatico mediante la liberazione, a livello sinaptico, di sostanze neurormonali, la più comune delle quali è costituita dalla noradrenalina. In generale, esistono due tipi di recettori adrenergici, e . A livello cardiaco i recettori sono poco rappresentati. Per contro, i recettori , e specificamente i recettori 1, quando stimolati producono un aumento della frequenza e della forza di contrazione del cuore. Questo si traduce in un incremento della gettata cardiaca e, quindi, della pressione arteriosa. Un effetto contrario si avrà in caso di prevalenza dell’attività parasimpatica o di un danno intrinseco del muscolo miocardico. C. Viscosità ematica. Le modificazioni della viscosità ematica producono di fatto delle alterazioni pressorie di scarsa entità. Tra i fattori in grado di condizionare la viscosità del sangue, va citato per primo il rapporto tra plasma e globuli, il quale può essere alterato in caso di anemia in un senso, e di poliglobulia nell’altro. Un’altra causa di incremento della viscosità sanguigna è costituita dall’aumento nel plasma di determinate proteine, come si verifica nel mieloma multiplo o nel morbo di Waldenström. D. Raggio medio arteriolare. Costituisce il fattore più rilevante ai fini pressori, come può essere dedotto anche dalla formula fondamentale della resistenza, dalla quale risulta chiaro come il raggio appaia, al denominatore, elevato alla quarta potenza. I meccanismi che producono costrizione o, viceversa, dilatazione delle arteriole sono quindi di particolare importanza. Distinguiamo i fattori che influenzano il raggio medio arteriolare in tre categorie:
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
• influenze neurovegetative • azione dell’angiotensina II • attività di sostanze agenti a livello locale. 1. Influenze neurovegetative. La muscolatura liscia delle arteriole è sottoposta al controllo del sistema neurovegetativo; anche in questo caso, come per il cuore, l’influenza fondamentale è data dal sistema simpatico, che agisce sui recettori e . A livello arteriolare la stimolazione dei recettori provoca una blanda dilatazione, mentre la stimolazione dei recettori provoca vasocostrizione. L’attività prevalente è quella , e ciò equivale a dire che un importante stimolo simpatico porta a una riduzione del calibro arteriolare con concomitante aumento della pressione arteriosa. Il sistema parasimpatico ha invece un’attività vasodilatatrice, anche se quest’ultima è usualmente meno rilevante rispetto a quella opposta del simpatico. 2. Angiotensina II. Il raggio medio arteriolare è influenzato pure da vari mediatori solubili. Alcuni di questi hanno un effetto anche a distanza della sede nella quale sono prodotti (effetto endocrino). Questo è il caso dell’angiotensina II, sostanza derivata dall’angiotensina I (si veda di seguito) grazie all’azione di un enzima presente in tutte le cellule endoteliali, ma particolarmente a livello polmonare. L’angiotensina II è un potente vasocostrittore. 3. Sostanze agenti a livello locale. Altre sostanze agiscono invece solamente in stretta prossimità delle cellule che le hanno prodotte (effetto paracrino) e sono rilevanti nel determinare il calibro medio arteriolare in quanto sono generate nelle cellule endoteliali. Un’intensa attività vasocostrittrice (10 volte più potente di quella dell’angiotensina II) è esercitata dall’endotelina-1, membro di una famiglia di peptidi a 21 aminoacidi, dotati tutti di simili proprietà farmacologiche (ma probabilmente solo l’endotelina-1, che è formata nelle cellule endoteliali, è importante; non si sa dove venga sintetizzata l’endotelina-2, mentre l’endotelina-3 è principalmente associata con il sistema nervoso). L’endotelina-1 è formata a partire da un precursore di 38 o 39 aminoacidi per azione di un’endopeptidasi chiamata “enzima convertitore dell’endotelina”. La sua formazione è stimolata dall’epinefrina, dalla trombina e da altre sostanze e, in genere, è incrementata quando si verificano azioni lesive sull’endotelio. L’endotelina-1 ha certamente un ruolo in varie condizioni patologiche, ma è dubbio che contribuisca alla normale regolazione della pressione arteriosa. Il problema potrà essere meglio definito quando diverranno disponibili per la sperimentazione farmacologica degli inibitori dell’enzima convertitore dell’endotelina. Le cellule endoteliali producono anche una sostanza vasodilatatrice. Inizialmente indicata con il termine generico di EDRF (Endothelium-Derived Relaxing Factor, fattore rilassante di derivazione endoteliale), questa sostanza è stata identificata come ossido nitrico (NO2) ed è prodotta a partire dalla L-arginina. Questa scoperta è di grande interesse perché da tempo erano note le proprietà vasodilatatrici di vari nitrati (prototipo la ni-
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1 - IPERTENSIONE ARTERIOSA
troglicerina) impiegati a questo scopo in terapia medica. Oggi si può concludere che questi farmaci sono attivi in quanto possono condurre alla formazione di NO2 nelle pareti arteriose. Fisiologicamente, l’ossido nitrico è prodotto dalle cellule endoteliali per effetto dell’acetilcolina (e cioè dopo stimolazione parasimpatica) o come conseguenza dello stress longitudinale esercitato sulle pareti arteriose (cosiddetto “shear stress”; la parola inglese shear, in questo caso, significa che i diversi strati che compongono la parete arteriosa sono spostati longitudinalmente l’uno sull’altro). L’ossido nitrico ha sicuramente un ruolo nella regolazione della pressione arteriosa, in quanto la somministrazione ad animali da esperimento di analoghi della L-arginina che inibiscono la produzione di NO2 determina un effetto ipertensivo. All’endotelina-1 e all’ossido nitrico, che sono le più importanti sostanze vasoattive ad attività paracrina, se ne possono aggiungere altre che pur non essendo sprovviste di effetti generali sono probabilmente importanti soprattutto a livello locale. Tra le sostanze ad azione prevalentemente dilatatrice, vanno citate anzitutto le prostaglandine, derivati dall’acido arachidonico che possono venire considerati come degli ormoni a breve raggio d’azione. In particolare le prostaglandine della serie E (PGE) e I2 (prostaciclina) hanno un’azione prevalentemente dilatatrice, mentre i trombossani agiscono in senso contrario. Debbono infine venire ricordate le chinine, composti ad azione vasodilatatrice che vengono rilasciati a livello locale, in sede di infiammazione, e l’attività del sistema parasimpatico, anche se quest’ultima è usualmente meno rilevante rispetto a quella del simpatico.
E. Pressione massima e minima. Un ultimo dato di cui bisogna tenere conto nei fattori determinanti la pressione arteriosa è costituito dalla peculiarità del sistema cardiovascolare. In esso il cuore funziona come una pompa a intermittenza, provocando quindi modificazioni pressorie cicliche a livello vascolare. Tuttavia, il sistema vascolare non è rigido, ma è dotato di elasticità, che è evidente soprattutto a livello dell’arco aortico e dei grossi vasi; l’elasticità delle pareti è in grado di smorzare eccessive elevazioni di pressione legate alla sistole da un lato, ed è in grado di evitare eccessive cadute di pressione in diastole dall’altro. In sistole, infatti, i grossi vasi si dilatano, in diastole restituiscono forza all’interno del sistema con il ritorno elastico. L’intermittenza dell’azione cardiaca rende ragione della rilevazione dei valori pressori sistolici e diastolici, detti anche valori di pressione massima e minima; spiega inoltre la tendenza all’aumento della pressione sistolica e alla diminuzione della diastolica che si verifica con l’avanzare dell’età, quando un progressivo irrigidimento sclerotico dei vasi rende difettosa l’elasticità del sistema.
Sistemi di controllo della pressione arteriosa Il mantenimento dei valori pressori entro determinati limiti è essenziale per consentire un’adeguata perfusio-
ne di sangue a tutti i distretti corporei da un lato, ed evitare i danni vascolari provocati da una pressione troppo elevata dall’altro. Esistono dunque dei sistemi di regolazione della pressione sanguigna che possono agire con differente rapidità: entro pochi secondi, entro minuti, entro ore o giorni. Distinguiamo perciò meccanismi di controllo di prima linea, intermedi e a lungo termine. L’effetto dei primi è transitorio, mentre quello degli altri è duraturo. A. Meccanismi di controllo di prima linea. Come si è detto, questi entrano in funzione entro pochi secondi da possibili variazioni della pressione arteriosa, con il risultato di riportarla verso i suoi valori normali. I meccanismi di questo tipo sono tre: • baroriflessi arteriosi • ischemia del sistema nervoso centrale • attività di chemocettori arteriosi. 1. I baroriflessi arteriosi vengono messi in moto a partire da zone reflessogene presenti principalmente a livello del seno carotideo e, in seconda istanza, nell’arco aortico e nel ventricolo di sinistra. Queste zone “sentono” l’aumentata o diminuita sollecitazione meccanica che si ha quando si verificano delle variazioni della pressione in eccesso o in difetto ed inviano segnali adeguati al sistema nervoso centrale. Da quest’ultimo vengono emessi degli impulsi efferenti, attraverso il vago ed il simpatico. In presenza di valori pressori elevati, si ha un’inibizione del simpatico ed un’attivazione del vago, con conseguente riduzione della frequenza cardiaca e dilatazione arteriolare periferica. In caso contrario, si ha stimolazione del simpatico, con incremento dell’attività cardiaca e vasocostrizione periferica. Questo meccanismo, di tipo omeostatico, è finalizzato al mantenimento dei valori pressori a livelli i più costanti possibile. Esistono tuttavia delle eccezioni, o meglio il sistema è un poco più complesso di quanto finora descritto. Il sistema nervoso centrale è in grado di elaborare il tipo di segnali che gli vengono afferiti e di emettere a sua volta impulsi a questi adeguati: sarà per esempio differente il tipo di risposta nel caso che una pressione sistolica di 90 mmHg sia determinata da una brusca diminuzione della volemia, dovuta a un’emorragia, o piuttosto che una situazione pressoria del medesimo valore sia da attribuirsi a un meccanismo fisiologico nel corso del sonno. Nel primo caso si avrà una importante stimolazione del simpatico, mentre nel secondo non si verificherà alcuna controregolazione nervosa. In secondo luogo è opportuno rilevare che questo sistema sembra strutturato per intervenire nel breve periodo, onde affrontare variazioni nuove e repentine della pressione sanguigna. È dimostrato che con il passare del tempo il meccanismo sembra adeguarsi alle nuove condizioni variate: questo giustifica in parte lo stabilizzarsi di valori pressori elevati, una volta che questi siano occorsi. Questi riflessi sono molto importanti per evitare la caduta pressoria che si verificherebbe al passaggio dal clinostatismo all’ortostatismo, quando, per effetto della gravità, il sangue tenderebbe a dilatare, accumulandovi-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
si, i vasi venosi di capacitanza degli arti inferiori. I baroriflessi arteriosi assicurano una pronta vasocostrizione arteriolare e venulare che mantiene invariata la pressione, nonostante la variata posizione del corpo. Esistono d’altro canto persone, più facilmente in età avanzata, in cui questo sistema di regolazione è difettoso, e questo provoca una brusca caduta della pressione sanguigna al passaggio dalla posizione supina all’ortostatismo; questi pazienti sono soggetti ad episodi lipotimici, quando assumono la stazione eretta, per diminuito apporto di sangue al cervello, episodi che si risolvono con la caduta a terra, che ripristina una condizione di clinostatismo. 2. L’ischemia del sistema nervoso centrale si verifica ogni qual volta che, per effetto di una significativa diminuzione della pressione arteriosa, il flusso ematico al cervello diviene troppo basso per mantenere la normale attivazione dei neuroni cerebrali. Un centro nervoso situato nel bulbo risponde con un’intensa stimolazione simpatica che tende a riportare alla norma la pressione arteriosa. 3. I chemocettori arteriosi sono piccoli gruppi di cellule che sono raccolte in minuti ammassi (pochi millimetri di diametro) situati in prossimità dei barocettori. I chemocettori arteriosi inviano al sistema nervoso centrale segnali che inducono una stimolazione simpatica (e perciò una vasocostrizione e un aumento della pres-
Na+
Figura 1.2 - Rappresentazione schematica di un glomerulo renale. In grigio le cellule granulose dell’apparato iuxtaglomerulare e quelle della macula densa.
sione) ogni volta che percepiscono una diminuzione della pressione parziale di O2, o un aumento di quella di CO2 nel sangue arterioso. Sono particolarmente utili durante l’esercizio fisico, quando una dilatazione arteriolare a livello muscolare tenderebbe a far calare la pressione arteriosa. In queste circostanze i muscoli consumano O2 e producono CO2 creando le condizioni adatte per la stimolazione dei chemocettori.
Angiotensinogeno
Renina
Angiotensina 1
ACE2
Angiotensina 1-9
ACE
Angiotensina II
Aminopeptidasi Angiotensina 1-7
Angiotensina III
Figura 1.1 - Schema semplificato del sistema renina-angiotensina. (Da Boehm M., Nabel E.G.: Angiotensin-Converting Enzime 2. A new cardiac regulator. N. Engl. J. Med. 347: 1795, 2002, modificata.)
B. Meccanismi di controllo intermedi. Questi sono meccanismi che entrano in funzione entro alcuni minuti dall’instaurazione di variazioni della pressione arteriosa. Il più importante è rappresentato dal sistema renina-angiotensina (Fig. 1.1). Il merito della scoperta di questo sistema di regolazione va al fisiologo Goldblatt, il quale fu in grado di dimostrare che la riduzione mediante pinzatura del calibro dell’arteria renale è in grado di determinare nel cane l’insorgenza di un’ipertensione arteriosa. Tale ipertensione è mediata dalla liberazione di una sostanza prodotta dall’apparato iuxtaglomerulare renale e perciò denominata renina. In realtà la renina è prodotta a partire da un precursore originale, chiamato preprorenina che viene degradato a formare un precursore intermedio, detto prorenina. La preprorenina è sintetizzata e convertita a prorenina nelle cellule iuxtaglomerulari e in molti altri tessuti, quali il cervello, le cellule endoteliali del sistema vascolare periferico, le gonadi, la midollare e la corticale del surrene. La produzione di renina può perciò avvenire in molte sedi nell’organismo, ma l’apparato iuxtaglomerulare resta la più importante. La figura 1.2 mostra in modo schematico la struttura di tale apparato, di cui fanno parte le cellule granulose, presenti nella parte terminale dell’arteriola afferente, e le cellule della macula densa, che si trovano nel contesto del tubulo contorto prossimale, nella sua porzione
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1 - IPERTENSIONE ARTERIOSA
terminale, quando questo torna a livello del glomerulo renale. Le cellule del primo tipo sono destinate alla produzione di renina, che viene sintetizzata e liberata in rapporto a determinati, opportuni stimoli. Questi stimoli sono rappresentati da: • eccitazione del barostato renale, funzione che viene esercitata dalle cellule granulose dell’arteriola afferente; a una ridotta pressione di perfusione corrisponde un’aumentata produzione di renina, mentre il contrario avviene se i livelli pressori sono aumentati; • attività di feed-back negativo esercitate dall’angiotensina II e dal potassio dietetico, un eccesso del quale sopprime la produzione di renina; • azione del sistema simpatico, attraverso la stimolazione dei recettori -adrenergici, che inducono la produzione di renina; • contenuto di sodio a livello tubulare. Il sodio viene largamente riassorbito a livello del tubulo prossimale; se il carico di sodio al termine del tubulo prossimale è ridotto, viene emesso un segnale che stimola la produzione di renina. La funzione della macula densa è dunque quella di sensore della concentrazione di sodio al termine del tubulo contorto prossimale. Il sistema renina-angiotensina riveste una notevole importanza nella regolazione della pressione arteriosa. La renina è un enzima proteolitico, che agisce su un substrato prodotto dal fegato, l’angiotensinogeno, staccandone un decapeptide denominato angiotensina I. Tale sostanza perde due residui aminoacidici della sua molecola ad opera di un enzima, l’enzima convertitore (che viene prodotto soprattutto a livello polmonare) e si forma un octapeptide molto potente, l’angiotensina II. Dall’angiotensina II ha origine un eptapeptide, l’angiotensina III, che è dotata della stessa attività dell’angiotensina II, ma è presente in piccole quantità e gioca un ruolo poco rilevante rispetto alla preminente angiotensina II. Quest’ultima ha diverse azioni importanti. La prima consiste in un’attività vasocostrittrice diretta, con riduzione del raggio medio arteriolare e conseguente aumento della pressione sanguigna. L’attività vasocostrittrice dell’angiotensina II ha importanti effetti a livello renale, dove questa sostanza provoca una riduzione del filtrato glomerulare per “raggrinzimento” dei glomeruli e diminuzione della loro superficie filtrante. La contrazione della parete arteriolare a monte delle arteriole efferenti determina una riduzione della pressione in questi vasi e facilita il riassorbimento di sodio e acqua nei tubuli prossimali. Infatti, i capillari che circondano i tubuli prossimali derivano dalle arteriole efferenti e l’azione di richiamo sul fluido assorbito attivamente nei tubuli prossimali è tanto maggiore quanto più bassa è la loro pressione idrostatica, in relazione alla pressione osmotica delle proteine che vi sono contenute. L’effetto netto è una riduzione della diuresi e dell’escrezione del sodio. Un’altra azione fondamentale è quella svolta a livello della corteccia surrenalica, dove l’angiotensina II sti-
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mola la produzione di aldosterone. Questo ormone è di primaria importanza nella determinazione del riassorbimento del sodio e dell’acqua a livello del tubulo distale del rene. Il sodio urinario, sfuggito al riassorbimento nelle parti più a monte del nefrone, viene scambiato con altri ioni, e in prima istanza con il potassio, che viene così escreto, e secondariamente con l’H+, che viene ricavato in loco dalla reazione H2O e CO2, mediata dall’enzima anidrasi carbonica. Si forma acido carbonico, dissociato in H+ e HCO3–, e l’H+ che si ottiene viene scambiato con il sodio. Questo processo di riassorbimento del sodio è dunque promosso e condizionato dagli ormoni della corteccia surrenalica ad azione mineralattiva, primo fra tutti l’aldosterone. Un aumentato riassorbimento di sodio provoca aumento del riassorbimento dell’acqua, quindi un aumento della massa circolante e di qui della pressione arteriosa. Bisogna inoltre tenere presente che il sodio trattenuto aumenta la sensibilità delle arteriole a stimoli di costrizione, contribuendo quindi ulteriormente ad incrementare i valori pressori. L’incremento della pressione arteriosa per effetto dell’angiotensina II è dovuto anche a un terzo meccanismo e cioè all’inattivazione di due peptidi vasodilatatori, la bradichinina e la kallidina. È per questa ragione che, sia pure raramente, la terapia con inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina (ACE inibitori) può comportare degli edemi dovuti ad eccesso di attività di questi peptidi. Un’azione molto importante dell’angiotensina II si esercita a livello del cuore, dove induce ipertrofia e fibrosi miocardica. Una serie di studi ha dimostrato che gli ACE inibitori prevengono la fibrosi miocardica e migliorano il rimodellamento ventricolare dopo infarto del miocardio e nello scompenso cardiaco. Un particolare importante è che l’angiotensina II può essere direttamente generata nelle cellule endoteliali dei vasi del miocardio dopo che questo ha subito un’ingiuria di qualsiasi tipo. Questo è un caso particolare di un meccanismo più generale (la diretta produzione di angiotensina II da parte dei vasi nei tessuti danneggiati) che interessa in modo particolare anche il rene. Non si deve, però, pensare che l’attività di questo sistema sulla pressione arteriosa e sul cuore si esaurisca in questi effetti diretti: in realtà la situazione è più complicata. È stato infatti di recente dimostrato che accanto al classico enzima convertitore dell’angiotensina, ne esiste un secondo, ACE2, che agisce sull’angiotensina I, principalmente nel rene e nel cuore, e che induce la formazione di un nonapeptide, angiotensina 1-9, che, per effetto del classico ACE, diviene un eptapeptide, angiotensina 1-7, che è un vasodilatatore (si veda la Fig. 1.1). Perciò, l’effetto dell’angiotensina I è ambivalente. Da un lato attraverso l’angiotensina II e il suo prodotto angiotensina III ha una attività vasocostrittrice, ma dall’altro attraverso l’angiotensina 1-7 ha una attività opposta. Questa duplicità non è una novità nei sistemi biologici e ha l’evidente fine di moderare le punte eccessive dell’attività prevalente, che nel sistema renina-angiotensina ha il compito di preservare i livelli della pressione arteriosa. Tuttavia la conoscenza del-
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l’ACE2 presenta aspetti molto interessanti per comprendere la propensione geneticamente determinata all’ipertensione arteriosa. Per quanto riguarda gli effetti sul cuore, esistono dei modelli nel topo che suggeriscono che l’ACE2 cooperi con l’ACE classico nel determinismo dei già descritti effetti nocivi indotti sul miocardio dall’angiotensina II. Perciò, da questo punto di vista, non sembra che l’attività del sistema renina-angiotensina sia ambivalente. Un altro aspetto importante del sistema renina-angiotensina deve essere ricordato. Infatti, la sua attivazione induce nelle cellule endoteliali la produzione di specie reattive dell’ossigeno, almeno in parte attraverso l’azione delle ossidasi legate a NADH e NADPH presenti sulla membrana di queste cellule. Il risultato è un’incrementata degradazione dell’ossido nitrico da parte di queste specie reattive dell’ossigeno e una menomazione della vasodilatazione indotta dall’attività endoteliale. Sembra che questo effetto possa essere contrastato da un antiossidante come l’acido ascorbico. L’efficienza del sistema renina-angiotensina per effetto di soli meccanismi vasocostrittori (e cioè indipendentemente da variazioni nell’escrezione di sodio) comporta una correzione delle variazioni della pressione arteriosa compresa tra metà e due terzi. L’efficienza è però completa se si aggiunge l’effetto che la consensuale produzione di aldosterone esercita sull’escrezione di sodio. Esistono altri meccanismi intermedi di regolazione della pressione arteriosa che si verificano quando questa aumenta. Uno è rappresentato dal cosiddetto rilasciamento da stiramento, ossia da un rilasciamento della muscolatura liscia arteriolare per effetto dello stiramento prolungato di questi vasi indotto dalla sollecitazione meccanica, dovuta all’aumento della pressione. Questo rilasciamento incrementa il raggio medio arteriolare e tende a ridurre la pressione. Un altro meccanismo è conseguente all’aumentata filtrazione di fluido attraverso la parete dei capillari, causata dalla maggiore pressione idrostatica alla loro estremità arteriosa che si ha quando sale la pressione arteriosa sistemica. Questa aumentata filtrazione tende a ridurre la volemia e a fare scendere la pressione.
C. Meccanismi di controllo a lungo termine. I meccanismi di controllo di prima linea ed intermedi non sono in grado di correggere completamente le possibili variazioni della pressione arteriosa, ma debbono essere considerati come dei dispositivi di sicurezza che, entrando rapidamente in funzione, evitano che i valori pressori si discostino troppo da quelli normali. Il solo meccanismo di controllo che è in grado di ovviare in maniera completa alle variazioni di pressione è quello a lungo termine che è legato alla capacità del rene di eliminare più acqua e sodio di quanto ne venga introdotto nel caso di aumenti pressori, e di eliminarne meno se la pressione invece è diminuita. Questo meccanismo entra in funzione non prima di un’ora dal momento nel quale la pressione varia e mantiene il divario tra eliminazione ed introduzione di acqua e di sodio fino a quando i valori di pressione non sono ritornati normali. A
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questo punto, eliminazione ed introduzione si equilibrano nuovamente. Il processo (e perciò l’aggiustamento totale della pressione) si completa in 2-4 giorni, ma in condizioni di instabilità circolatoria, come nell’incipiente scompenso cardiaco, può richiedere anche alcune settimane. Il meccanismo fondamentale di questa regolazione è la cosiddetta natriuresi da pressione. Quando la pressione arteriosa sale, si verifica conseguentemente un aumento dell’escrezione di sodio (natriuresi) che, a sua volta, tende a ridurre la pressione e a riportarla ai valori precedenti. Infatti, la perdita di sodio riduce la massa circolante e rende la muscolatura liscia arteriolare meno sensibile agli stimoli vasocostrittivi. La natriuresi da pressione è solo parzialmente spiegata da una riduzione della produzione di renina e dipende da meccanismi non ancora totalmente chiariti. Una possibilità è che il fenomeno sia totalmente emodinamico. L’aumento di pressione incrementa di per sé il filtrato glomerulare; inoltre, se la pressione è aumentata anche nelle arteriole efferenti, il riassorbimento di sodio e di acqua nei tubuli, pur essendo maggiore in assoluto (come conseguenza dei più elevati valori di filtrato glomerulare), è di grado minore se calcolato come frazione del filtrato glomerulare (per ragioni opposte a quelle che abbiamo esposto a proposito dell’azione antidiuretica dell’angiotensina II). Calcolando che la quantità di liquido che filtra attraverso i glomeruli e che viene riassorbita nei tubuli è notevolmente superiore al volume urinario, è comprensibile che piccolissime variazioni di questi parametri possano avere importanza nel determinare sostanziali modificazioni nell’escrezione del sodio. Un altro meccanismo che è stato considerato è la produzione di ormoni natriuretici che può verificarsi quando sale la pressione arteriosa. Uno di questi è stato di recente identificato ed è chiamato “fattore natriuretico atriale” o “atriopeptina”. È un polipeptide derivato da un precursore contenuto in granuli secretori che si trovano nei miociti degli atri. Esso viene rilasciato quando gli atri sono distesi (come può capitare quando è aumentata la massa circolante o quando questa viene “centralizzata” per contrazione dei piccoli vasi, comprese le venule) ed agisce incrementando il filtrato glomerulare ed inibendo la secrezione di renina e aldosterone (altre sue azioni sono una dilatazione arteriosa e venulare). In realtà, dopo questo primo ormone natriuretico, detto “peptide natriuretico di tipo A”, ne sono stati scoperti altri due, denominati di tipo B e di tipo C, prodotti rispettivamente dai ventricoli cardiaci quando aumenta la pressione telediastolica e dai vasi sanguigni in conseguenza dello stress longitudinale sulle pareti arteriose (“shear stress”). Tra questi particolarmente importante è il peptide natriuretico di tipo B che ha un ruolo vantaggioso nello scompenso cardiaco, in quanto modera alcuni effetti (la stimolazione simpatica, l’attivazione del sistema renina-angiotensina, la produzione di endotelina-1) utili per mantenere i livelli della pressione arteriosa in presenza di una diminuzione della gettata cardiaca, ma a lungo andare dannosi per il miocardio.
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1 - IPERTENSIONE ARTERIOSA
CLASSIFICAZIONE L’ipertensione arteriosa viene definita da un aumento dei livelli pressori al di sopra dei valori che sono comuni nella popolazione normale. Dire quali valori debbano essere definiti eccessivi non è facile, dal momento che la pressione arteriosa della popolazione presenta delle variazioni che sono in rapporto a diversi fattori, tra i quali rilevanti sono l’età, il sesso e la razza. Così, gli studi di G. Pickering hanno potuto evidenziare come non sia possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra persone che possono venire definite ipertese e persone che possono venire definite normotese. In una rappresentazione grafica non è possibile identificare due picchi, uno per l’ipotetico gruppo di sani e l’altro per i presunti ammalati. Ci si trova di fronte a una sola curva ad andamento gaussiano, in cui il numero di soggetti che presentano valori che si discostano poco dai valori medi è molto elevato, mentre il numero di coloro che hanno valori di pressione via via più lontani dalla media è sempre più piccolo. È tuttavia dimostrato da estesissimi studi retrospettivi effettuati da compagnie assicuratrici, che a valori pressori elevati corrisponde un’aspettativa di vita che è ridotta in modo direttamente proporzionale all’aumento dei livelli della pressione arteriosa. Attualmente si tende a considerare l’ipertensione arteriosa non come una malattia in senso stretto, quanto piuttosto come un fattore di rischio per l’insorgenza di malattie, e specificamente di affezioni cardiovascolari (cardiopatia ipertensiva, incidenti vascolari cerebrali, insufficienza renale). L’aumento dei valori pressori può riguardare sia i livelli della pressione sistolica che quelli della pressione diastolica. Esistono infatti condizioni cliniche in cui si ha un incremento della sola pressione massima e forme in cui si ha un aumento sia della pressione massima che di quella minima. Questo è naturalmente in rapporto agli eventi patogenetici di volta in volta chiamati in causa: è importante ricordare che l’attività cardiaca e il volume ematico condizionano soprattutto la pressione sistolica, mentre sulla diastolica agiscono essenzialmente i fattori influenzanti le resistenze periferiche, quindi la viscosità ematica, ma soprattutto le resistenze arteriolari determinate dal raggio medio arteriolare. Si tratta, naturalmente, di una distinzione in parte artificiosa in quanto gli effetti dei diversi meccanismi si ripercuotono su entrambe le componenti pressorie. Per la definizione di ipertensione sarebbe certamente più conveniente poter fare riferimento a un solo valore numerico. In teoria questo potrebbe essere rappresentato dalla pressione arteriosa media, della quale una stima approssimativa potrebbe essere ottenuta aggiungendo al valore della pressione minima un terzo del valore della pressione differenziale (differenza tra pressione massima e pressione minima). Tuttavia, la constatazione che anche il solo aumento della pressione sistolica costituisce un fattore di rischio rende poco utile il riferimento alla pressione media.
È quindi essenziale, nella definizione di un soggetto iperteso, tenere conto sia dei valori di pressione sistolica che diastolica. Le alterazioni considerate significative sono quelle che indagini epidemiologiche hanno evidenziato comportare un aumentato rischio di malattie dell’apparato cardiovascolare. Tali valori sono stati stabiliti da organizzazioni mediche internazionali e variano in rapporto all’età. Per soggetti di età superiore ai 45 anni si parla di ipertensione sistolica per livelli di pressione massima ≥ 160 mmHg e di pressione sicuramente normale per valori di pressione massima ≤ 140 mmHg. I soggetti con valori pressori intermedi vengono definiti come portatori di un’ipertensione “borderline”. Per i soggetti di età inferiore ai 45 anni la pressione massima viene considerata sicuramente normale al di sotto dei 130 mmHg. Per quanto riguarda la pressione minima si parla di ipertensione diastolica per valori ≥ 90 mmHg. Per ipertensione labile si intende una condizione caratterizzata dal riscontro alternativo di valori pressori normali o alterati in occasione di ripetuti controlli. Una classificazione di tutte le forme d’ipertensione arteriosa è riportata nella tabella 1.1.
Ipertensione sistolica A. Arteriosclerosi dell’arco aortico. Si tratta di un fenomeno che si verifica piuttosto comunemente con Tabella 1.1 - Classificazione dell’ipertensione arteriosa. Ipertensione sistolica Arteriosclerosi dell’arco aortico Insufficienza aortica Anemia Fistole arterovenose Ipertiroidismo Ipertensione sistodiastolica
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Ipertensione essenziale 95% Ipertensione secondaria 5% Endocrina – Feocromocitoma – Iperaldosteronismo primitivo (morbo di Conn) – Sindrome di Cushing – Sindromi adrenogenitali – Acromegalia Renale – Renovascolare – Parenchimatosa: glomerulonefrite acuta glomerulonefrite cronica pielonefrite cronica rene policistico nefropatia diabetica nefropatia da farmaci – Tumori secernenti renina Neurogena Coartazione aortica Pre-eclampsia Policitemia Ipertensione da farmaci
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l’avanzare dell’età. L’aumento della rigidità delle pareti aortiche non consente il fisiologico smorzamento dell’onda sfigmica, e non si ha, durante la diastole, la restituzione dell’energia elastica accumulata in sistole. In queste circostanze si ha un aumento della pressione massima e una diminuzione della minima. B. Insufficienza aortica. È, per definizione, l’incapacità da parte delle valvole semilunari aortiche di impedire un flusso retrogrado dall’aorta: in diastole esse consentono al sangue di refluire dall’aorta in ventricolo sinistro, e questo comporta una diminuzione delle resistenze periferiche, quindi della pressione minima; il ventricolo di sinistra, pertanto, ad ogni sistole, deve pompare all’interno del sistema arterioso non solo il sangue che gli giunge dall’atrio sinistro, ma anche quello rigurgitato dall’aorta in diastole; una quantità quindi globalmente maggiore, in grado di provocare un aumento della pressione massima. C. Anemia. Una marcata diminuzione del numero di globuli rossi determina una riduzione della viscosità ematica, quindi delle resistenze periferiche e della pressione diastolica. D’altro canto, il mantenimento di una normale ossigenazione dei tessuti richiede l’apporto di una quantità di sangue maggiore nell’unità di tempo: si ha pertanto un aumento dell’attività cardiaca e conseguentemente della pressione sistolica. In corso di anemie gravi, in rapporto alla diversa combinazione dei fattori sopracitati, si può avere un aumento della pressione massima con valori della pressione minima normali o ridotti. D. Fistole arterovenose. Si tratta di alterazioni congenite o acquisite, spesso dovute a traumi, in conseguenza delle quali si stabilisce un cortocircuito tra un’arteria e una vena, con l’esclusione del distretto arteriolare e capillare: questo comporta una riduzione delle resistenze periferiche e quindi della pressione diastolica, ed un conseguente meccanismo di compenso caratterizzato da un aumento dell’attività cardiaca e della pressione sistolica. E. Ipertiroidismo. Gli ormoni tiroidei in eccesso esercitano un duplice effetto sulla pressione arteriosa. In primo luogo agiscono direttamente a livello cardiaco, condizionando un aumento dell’attività cardiaca. In secondo luogo agiscono sinergicamente con la stimolazione dei recettori -adrenergici determinando una dilatazione che riguarda soprattutto le arteriole muscolari, con riduzione delle resistenze periferiche e della pressione diastolica.
Ipertensione sistodiastolica L’ipertensione arteriosa sistodiastolica non riconosce, nella gran parte dei casi, un’eziologia chiaramente determinabile. In circa il 95% dei pazienti non è possibile porre in evidenza il o i fattori eziopatogenetici in grado di spiegare il perché dell’aumento dei valori pressori.
Questa limitazione diagnostica viene definita con il termine “ipertensione essenziale”, il quale di per sé tende a dare credito ad una giustificazione intrinseca dell’evento stesso, mentre è chiaro che esistono delle cause, anche se a noi non chiare e probabilmente molteplici, le quali rendono ragione dell’insorgenza della malattia: si tratta verosimilmente di un disturbo dei meccanismi di regolazione della pressione arteriosa. Per quanto riguarda la discussione sui possibili fattori responsabili dell’instaurarsi di un’ipertensione arteriosa essenziale, si rimanda al paragrafo ad essa dedicato. Qui importa ricordare che la diagnosi di ipertensione essenziale è una diagnosi di esclusione: può quindi venire posta solo e soltanto quando siano state escluse tutte le altre ragioni di aumento dei livelli pressori. In circa il 5% dei casi è infatti possibile stabilire con certezza l’eziologia della malattia: si tratta delle ipertensioni cosiddette secondarie, che si verificano cioè nel contesto di, o a causa di, altre affezioni.
IPERTENSIONE ARTERIOSA ESSENZIALE Viene definita “essenziale” un’ipertensione arteriosa per la quale non sia individuabile un chiaro fattore eziologico. L’ipertensione essenziale è perciò caratterizzata negativamente e non è escluso che si tratti di un’entità nosologica eterogenea. È tuttavia possibile darne una definizione positiva, anche se generica, ricordando che si tratta di una condizione caratterizzata da un’alterata regolazione dei meccanismi che controllano la pressione arteriosa. Una questione preliminare è se l’ipertensione arteriosa essenziale debba essere o no considerata una malattia. In realtà, tenendo conto del fatto che la maggior parte degli ipertesi essenziali è assolutamente priva di sintomi, è forse corretto considerare l’ipertensione essenziale più che come una malattia autonoma, come un fattore di rischio di altre malattie: emorragie cerebrali, aneurismi dissecanti, insufficienza cardiaca da sovraccarico ventricolare sinistro, cardiopatia ischemica e altre lesioni su base aterosclerotica (si veda in seguito). L’ipertensione arteriosa essenziale è di gran lunga la forma più frequente di ipertensione arteriosa, rappresentando circa il 95% di tutte le ipertensioni. La sua prevalenza è molto notevole. Si stima che negli USA esistano circa 60 milioni di ipertesi. Su una popolazione di circa 218 milioni di abitanti, questo corrisponde ad una prevalenza attorno al 28% (1). Naturalmente, valutazioni epidemiologiche di questo tipo sono influenzate dai livelli di pressione arteriosa che sono convenzionalmente assunti come limite della normalità. (1) Prevalenza di una malattia = numero totale di individui portatori di una determinata condizione morbosa in un dato momento. Incidenza di una malattia = numero di nuovi casi di una determinata condizione morbosa che si verificano in un determinato intervallo di tempo (usualmente 1 anno).
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1 - IPERTENSIONE ARTERIOSA
Nell’estesa valutazione epidemiologica compiuta nella cittadina statunitense di Framingham si accertò che la prevalenza dell’ipertensione arteriosa era di circa il 20% se si consideravano i valori pressori più elevati di 165/95 e del 45% se si allargava la definizione di ipertensione ai valori superiori a 140/90. Tenendo conto che l’ipertensione arteriosa essenziale costituisce il 95% di tutte le ipertensioni arteriose, si vede che la sua prevalenza doveva essere, su questa popolazione, del 19 e del 43% rispettivamente. A. Eziopatogenesi. Non è facile individuare l’eziopatogenesi dell’ipertensione arteriosa essenziale, probabilmente perché la sua genesi è multifattoriale e diversi meccanismi possono giocare un ruolo differente nei singoli individui. Esiste, tuttavia, a questo proposito una notevole letteratura e molte nozioni meritano di essere ricordate. Distingueremo, tuttavia, i fatti (accertati in campo umano o in modelli animali) e le teorie, che da questi sono state ricavate. 1. Fatti. • Associazione con l’età e con altri fattori. Nelle popolazioni occidentali la pressione arteriosa tende ad aumentare con l’età, gradualmente negli uomini, bruscamente, dopo la menopausa, nelle donne. In accordo con questo fatto, l’ipertensione essenziale è rara nei giovani e tende ad esordire in età media. Altri fattori associati con l’ipertensione essenziale sono l’obesità, l’iperuricemia, il diabete mellito e le iperlipoproteinemie. Questi ultimi sono tutti fattori di rischio per l’aterosclerosi (Cap. 3). • Ruolo dell’ereditarietà. Esiste una sicura propensione in alcune famiglie a sviluppare l’ipertensione essenziale. Il carattere non può essere collegato con un singolo gene trasmesso secondo le leggi di Mendel, ma è più verosimilmente legato ad influenze genetiche multiple. È molto interessante rilevare che, selezionando ceppi inbred di ratti, è stato possibile isolarne certi che sono ereditariamente ipertesi (ceppi Dahl, Milano, Okamoto). Alcuni di questi ratti diventano ipertesi solo dopo somministrazione di un eccesso di sale, ma altri lo fanno spontaneamente. Comunque, quando il rene di un giovane ratto di un ceppo normoteso viene trapiantato a un giovane ratto di un ceppo iperteso, quest’ultimo non sviluppa l’ipertensione. Il contrario avviene se il rene di un animale di un ceppo iperteso viene trapiantato a un ratto normoteso. Ossia, l’ipertensione segue il rene. I reni dei ceppi di ratti ipertesi sono caratterizzati da un difetto nella capacità di eliminare il sodio. Anche nell’uomo studi su gemelli monozigoti e dizigoti, normotesi, hanno dimostrato che la capacità di eliminare attraverso i reni un carico di sodio è geneticamente determinata. In parenti di primo grado di ipertesi si è visto che l’escrezione urinaria di sodio, dopo una lenta infusione di soluzione salina, è minore che di norma. È perciò verosimile che anche nell’uomo la propensione geneticamente determinata a sviluppare l’ipertensione essenziale sia, almeno in parte, collegata con una ridotta capacità dei reni ad eliminare il sodio.
11 Studi recenti hanno meglio precisato i condizionamenti genetici che facilitano livelli elevati di pressione arteriosa. In ratti è stato individuato un gene denominato BP1 (BP da “Blood Pressure”) che ha un’importante influenza sulla pressione arteriosa e che è collocato sul cromosoma 10, in stretta vicinanza con il gene che codifica l’enzima convertitore della angiotensina. Nell’uomo studi del genere sono più difficili, ma si è visto che giovani ipertesi i cui genitori erano pure ipertesi (e nei quali la componente genetica dell’ipertensione è presumibilmente più alta di quella ambientale) hanno nel plasma più alte concentrazioni di angiotensinogeno, cortisolo e 18-idrossi-corticosteroidi. Studi con tecniche di biologia molecolare hanno dimostrato in questi soggetti una frequenza significativamente più elevata di omozigosità per una certa variante di un gene che codifica per un recettore dei glicocorticoidi.
• Apporto dietetico di sodio. Il fabbisogno minimo di sodio per un adulto è di circa 400 mg al giorno. La dieta media di un abitante dei paesi sviluppati ne contiene una quantità da 10 a 25 volte superiore: un terzo aggiunto con la saliera e due terzi facenti parte del contenuto naturale degli alimenti. Fisiologicamente, il sistema renina-angiotensina e la natriuresi da pressione sono tanto efficienti che è possibile ingerire con gli alimenti tanto modestissime quantità di sale quanto dosi 50 volte più elevate senza che si abbiano variazioni della pressione. Tuttavia, studi epidemiologici compiuti su varie popolazioni hanno dimostrato che l’ipertensione essenziale è più frequente nelle popolazioni che, mediamente, hanno un maggior consumo dietetico di sale. Molto più difficile è dimostrare la correlazione tra apporto dietetico di sale e ipertensione essenziale nell’ambito delle singole popolazioni. Comunque, vari studi epidemiologici dimostrano che quando l’apporto dietetico di sodio è inferiore a 70 mEq al giorno (circa 1,6 g), ben poche persone sviluppano ipertensione arteriosa. • Influenza del sistema simpatico. L’aumento della pressione arteriosa dovrebbe esercitare un effetto deprimente sul tono del sistema simpatico attraverso la stimolazione delle zone reflessogene (barocettori) dell’arco aortico e del seno carotideo (baroriflessi). Perciò nella ipertensione essenziale l’attività del sistema simpatico dovrebbe risultare ridotta se i baroriflessi funzionassero normalmente. In realtà questo non avviene. Esistono due possibilità: a) potrebbe esistere un difetto primitivo nella sensibilità delle zone reflessogene dell’arco aortico e del seno carotideo e questa potrebbe essere la causa della ipertensione; b) il difetto di funzionamento dei baroriflessi potrebbe essere secondario all’ipertensione. La prima possibilità sembra esclusa dal confronto tra le caratteristiche cliniche dell’ipertensione essenziale e l’ipertensione che può essere realizzata sperimentalmente in cani cui vengano sezionate le vie afferenti provenienti dai barocettori arteriosi. Al contrario, la seconda possibilità sembra del tutto accettabile essendo stato dimostrato, in animali resi sperimentalmente ipertesi, che i baroriflessi vanno incontro ad un processo definito di “resetting” (parola inglese malamente traducibile come “risistemazione”), ossia si comportano come un meccanismo termostatico che venga portato ad un livello più elevato.
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Si è detto che negli ipertesi essenziali l’attività del sistema simpatico non è ridotta. Al contrario, esistono dati i quali fanno pensare che essa sia più elevata che di norma. Per esempio, gli ipertesi essenziali hanno, in media, una frequenza cardiaca leggermente più alta rispetto ai normotesi. Sembra che nell’ipertensione essenziale vi sia un aumento della noradrenalina nel plama e che vi sia una maggiore sensibilità dei vasi all’attività costrittrice della noradrenalina. Vari farmaci che interferiscono con l’attività del sistema simpatico hanno effetti terapeutici notevoli nell’ipertensione essenziale. Curiosamente sembra esistere una relazione tra la sensibilità all’apporto dietetico di sodio e l’attività del sistema simpatico. Studi in soggetti con ipertensione moderata hanno dimostrato che solo alcuni tendono ad avere una modificazione della pressione arteriosa consensuale con l’apporto dietetico di sodio (pazienti sodiosensibili), mentre in altri la pressione non viene modificata da queste variazioni dietetiche (pazienti sodioresistenti). La risposta pressoria alla noradrenalina è in media doppia nei soggetti sodio-sensibili rispetto a quelli sodio-resistenti. Si suppone che la sensibilità al sodio sia una conseguenza dell’ipersensibilità alle catecolamine. • Influenze psichiche. È notorio che in molti soggetti la misurazione della pressione arteriosa in ambienti estranei (per es., in ospedale), o da parte di persone con le quali non esiste familiarità, fa registrare valori più alti che d’abitudine, talora anche in misura sensibile. Curiosamente, questa pseudoipertensione si osserva più spesso in soggetti che non hanno segni oculari o elettrocardiografici attribuibili ad ipertensione. Si tratta perciò di una particolare reazione di difesa che è una testimonianza della capacità del sistema nervoso centrale di influenzare i livelli della pressione arteriosa. È stato anche dimostrato che l’esecuzione mentale di complicati calcoli matematici tende ad innalzare la pressione arteriosa, mentre vi è qualche segnalazione sul fatto che la pressione possa essere ridotta con il biofeed-back o con la meditazione trascendentale. Qual è quindi il ruolo dei fattori psichici nella genesi dell’ipertensione essenziale? Esistono studi animali molto indicativi a favore di questa possibilità. Quando dei ratti sono sottoposti a ripetuti ed inevitabili stimoli disturbanti, essi presentano valori pressori più elevati rispetto ad animali di controllo lasciati tranquilli, e questo effetto è mediato da un’iperattività del sistema simpatico. Nell’uomo, tuttavia, è molto difficile affermare che meccanismi simili possano essere operanti. Non si è dimostrata alcuna associazione tra l’ipertensione arteriosa e le sindromi psichiatriche definite. Studi eseguiti in Gran Bretagna ed in Svezia hanno dimostrato che gli ipertesi tendono ad accusare disagi (e a lamentarsi) meno dei normotesi. Potrebbe, tuttavia, anche darsi che l’ipertensione derivi proprio dalla repressione dell’espressione dei propri disagi. Il problema è di soluzione non agevole, considerando la difficoltà di eseguire studi ben controllati su questo argomento, e la facilità con la quale, in questo campo, si possono costruire delle ipotesi ad hoc.
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2. Teorie. Una teoria generale dell’eziopatogenesi dell’ipertensione essenziale può essere sviluppata tenendo conto dei dati sperimentali e clinici che assegnano un ruolo al rene, indipendentemente dalla preesistente presenza di una nefropatia (in tal caso la ipertensione non sarebbe più essenziale, ma secondaria). In realtà la ipertensione essenziale è un disordine complesso e probabilmente non ha una singola causa. Tuttavia, passi significativi sono stati fatti nella comprensione di una importante variante di questa condizione, definita ipertensione sensibile al sodio, ossia tale da moderarsi con un restrizione dell’apporto di questo elemento. Questa forma di ipertensione è meno comune nei giovani ipertesi, ma è abbastanza frequente negli ipertesi di età più matura e rappresenta un interessante modello per comprendere l’ipertensione essenziale. Si è parlato precedentemente della natriuresi da pressione, ossia del fatto che l’aumento della pressione arteriosa incrementa la natriuresi, ma la pressione che conta non è in realtà quella arteriosa sistemica, ma quella intrarenale, anche se ordinariamente le due pressioni si comportano parallelamente. In realtà la regolazione della pressione nei vasi sanguigni all’interno dei reni è sottoposta a una fine regolazione per il combinarsi di influenze vasocostrittrici e vasodilatatrici. Ai fini del presente discorso quelle che contano non sono tanto le influenze vasomotorie che coinvolgono i reni nel contesto di reazioni sistemiche, quanto quelle che hanno luogo a livello locale e che quindi possono modificare la percezione renale della situazione pressoria sistemica. Ossia, se i vasi renali sono costretti si avrà un calo della pressione a valle della costrizione e il segnale rappresentato dalla pressione arteriosa sistemica verrà attutito. Una vasocostrizione intrarenale può verificarsi per la produzione locale di angiotensina II, che può avvenire quando si verificano fenomeni lesivi a carico dei reni, o per la liberazione di endotelina-1. Gli stimoli vasodilatatori ad azione intrarenale sono forniti dalla sintesi di ossido nitrico, di kallikreina, di prostaglandine e di un vasodepressore endogeno, chiamato medullipina. Una serie di esperimenti eseguiti nei ratti ha dimostrato che, se si induce con vari mezzi un aumento transitorio della pressione arteriosa sistemica, questo può essere reversibile se l’incremento pressorio non dura troppo a lungo, ma che, in caso di durata più prolungata, residua uno stato ipertensivo che è sensibile alla riduzione del sodio dietetico. In questi esperimenti gli aumenti pressori erano indotti con la somministrazione di angiotensina II o di fenilefrina (per simulare un’aumentata attività simpatica) o di ciclosporina (un farmaco largamente impiegato nei trapianti d’organo e nelle malattie autoimmuni e che ha notoriamente un’attività nefrotossica), o provocando una ipopotassiemia, cui può conseguire la produzione di endotelina-1. La spiegazione che è stata data per l’effetto che può residuare alla sospensione di queste manipolazioni sperimentali è che tutti questi trattamenti provocano un’ischemia renale e che questa può mettere in moto un circolo vizioso che altera il bilancio tra vasocostrizione e vasodilata-
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zione intrarenale a favore della prima. L’ischemia renale, infatti, può indurre non solo la generazione locale di una sostanza vasocostrittrice come l’angiotensina II, ma anche la menomazione della produzione di sostanze vasodilatatrici come l’ossido nitrico. Questo può succedere non solo per un diretto effetto dell’angiotensina II, ma anche a seguito di un processo biologico più sottile e più importante. Infatti, l’ischemia renale regola verso l’alto nelle cellule dell’interstizio l’espressione di molecole che favoriscono l’adesione dei leucociti e determina un accumulo locale di cellule infiammatorie, le quali producono specie reattive dell’ossigeno che possono collaborare alla degradazione ossidativa dell’ossido nitrico. Questa spiegazione è in accordo con le alterazioni anatomiche che si osservano non solo negli animali sottoposti a questi esperimenti, ma anche in esseri umani affetti da ipertensione essenziale: una costrizione e un ispessimento della parete delle arteriole afferenti (per proliferazione delle cellule muscolari lisce) ed una infiltrazione leucocitaria interstiziale, di solito nella parte più esterna della midollare, che è la zona più sensibile all’ischemia, a causa della più alta attività metabolica della porzione a parete spessa della branca ascendente dell’ansa di Henle. Dal punto di vista funzionale si ha una riduzione del filtrato glomerulare per singolo nefrone e del coefficiente di ultrafiltrazione glomerulare. La conclusione è che qualsiasi sollecitazione che provochi un’ischemia renale, se sufficientemente prolungata, induce nel rene un’alterazione permanente che essenzialmente si traduce in un aumento delle resistenze vascolari intrarenali e in un’attenuazione della percezione dei livelli di pressione arteriosa sistemica. Conseguentemente, il rene, per ogni dato livello pressorio, tenderà a eliminare meno sodio di quanto dovrebbe fare normalmente. Gli autori che hanno condotto questi studi vedono tre fasi nello sviluppo dell’ipertensione sensibile al sodio. Nella prima fase, il rene è strutturalmente normale e il sodio è escreto normalmente. Tuttavia, possono verificarsi eventi che inducono una vasocostrizione renale, per esempio un’iperattività del sistema nervoso simpatico, fenomeno non raro negli ipertesi, e in questo caso si sviluppa un’ipertensione labile o borderline, che non è sensibile alla riduzione dell’apporto di sodio. In una seconda fase, il rene che ha subito numerose sollecitazioni che hanno condotto ad ischemia va incontro a un’alterazione permanente del bilancio tra vasocostrizione e vasodilatazione al suo interno che ridurrebbe la sua capacità di eliminare il sodio. In una terza fase, la ritenzione di sodio porta a un aumento della pressione arteriosa sistemica e questo fatto compensa il difetto nell’escrezione di sodio che si normalizza, ma a prezzo di livelli pressori più alti di quanto si dovrebbe avere normalmente. Questa ipertensione è sensibile alla riduzione del sodio dietetico, in quanto una ridotta esigenza di escrezione di sodio non ha bisogno di più elevati livelli di pressione arteriosa. È possibile che questa successione di eventi possa verificarsi più o meno facilmente in dipendenza di eventi concomitanti (come malattie tubulo-interstiziali, dosi
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eccessive di ciclosporina o prolungata ipopotassiemia) o di condizionamenti genetici. Questi ultimi sono stati messi in relazione con polimorfismi interessanti il trasporto del sodio attraverso le pareti dei tubuli renali o, come sostenuto recentemente, il numero dei nefroni presenti nei reni dei pazienti affetti da ipertensione essenziale. B. Fisiopatologia. L’aumento dei livelli pressori condiziona lo stabilirsi di una patologia vascolare: vengono danneggiati soprattutto alcuni organi particolarmente sensibili agli effetti delle variazioni della pressione arteriosa. L’ipertensione costituisce in primo luogo un fattore di rischio per l’insorgenza di aterosclerosi: si tratta di una forma particolare di arteriosclerosi (Cap. 3), la quale colpisce eminentemente le arterie di grande e medio calibro, in particolare le coronarie, ed è responsabile di un numero molto elevato di decessi (rappresenta la prima causa di morte negli USA). In secondo luogo, rilevanti aumenti pressori sono in grado di provocare una sofferenza anche a livello delle arteriole. Infatti, quando la pressione arteriosa aumenta, l’autoregolazione vasale interviene a determinare una costrizione, al fine di impedire che le arteriole stesse siano sottoposte ad un insulto meccanico eccessivo da parte dell’onda sfigmica. Tuttavia, tale autoregolazione può esercitarsi soltanto entro certi limiti, oltre i quali il meccanismo di protezione viene meno. In quest’ultimo caso, alcune macromolecole disciolte nel sangue vengono forzate attraverso le pareti arteriolari, dando una situazione patologica cui viene attribuito il nome di arteriolosclerosi. Tale processo, quando avviene in modo lento e prolungato, provoca l’insorgenza di una fibrosi della parete arteriolare. Quando invece l’evoluzione del quadro procede in modo brusco e tumultuoso, si può avere una fuoriuscita del contenuto ematico dalle arteriole, si possono cioè manifestare delle microemorragie ed evidenziarsi degli essudati: a livello delle pareti arteriolari si osservano lesioni necrotiche sotto forma di necrosi fibrinoide. La sofferenza arteriolare dovuta all’aumento dei valori pressori provoca effetti dannosi a livello di vari organi ed apparati, i quali possono venire considerati gli organi “bersaglio” dell’ipertensione: è infatti a carico di questi ultimi che tendono a svilupparsi quelle patologie per le quali l’ipertensione arteriosa viene considerata fattore di rischio, ed è in tali sedi che andranno ricercati i segni e i sintomi di un’eventuale compromissione. 1. Cuore. L’incremento dei valori pressori comporta un aumento del lavoro del ventricolo sinistro del cuore. Il protrarsi nel tempo di una tale situazione provoca ipertrofia del ventricolo sinistro e successivamente dilatazione, fino ad un quadro di scompenso cardiocircolatorio (si veda il Cap. 5). L’ipertrofia del ventricolo sinistro, peraltro, comporta un maggiore consumo di O2. Il flusso ematico a livello delle arterie coronarie, tuttavia, risulta spesso ridotto a causa di un’aterosclerosi, essa stessa favorita, come abbiamo precedentemente visto, dall’ipertensione arteriosa. Ne consegue che in pre-
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senza di ipertensione, più fattori concorrono allo svilupparsi di quella situazione patologica che va sotto il nome di cardiopatia ischemica, e che comprende una vasta gamma di quadri clinici (angina pectoris, infarto acuto del miocardio, ecc.), aventi tutti come denominatore comune un apporto di ossigeno al miocardio inadeguato rispetto al lavoro richiesto. 2. Encefalo. Disturbi vascolari cerebrali occorrono con maggior frequenza nei pazienti affetti da ipertensione arteriosa, sia sotto forma di trombosi che di emorragie. Le prime sono favorite dall’aterosclerosi, mentre le seconde sono frutto della rottura di microaneurismi cerebrali, in presenza di elevati livelli di pressione. In casi particolarmente gravi pazienti ipertesi possono andare incontro a coma, cui può seguire un recupero senza apparenti segni di lesioni a focolaio. Questa cosiddetta encefalopatia ipertensiva sembra dovuta a difetti dell’autoregolazione vasale nel circolo cerebrale, con l’instaurazione di numerose, minute lesioni diffuse, dovute ad edema o a piccole emorragie. 3. Rene. La sofferenza renale in corso di ipertensione è stata considerata a lungo conseguenza della ridotta irrorazione glomerulare dovuta a processi di arteriosclerosi ed arteriolosclerosi. Le moderne conoscenze sulla progressione dell’insufficienza renale cronica (Cap. 35) tendono piuttosto a valorizzare il danno emodinamico impartito ai glomeruli dall’aumento della tensione nei capillari glomerulari. • Ipertensione maligna (accelerata). Viene definita come ipertensione maligna o accelerata un’ipertensione caratterizzata da un aumento dei valori pressori di grado elevato, con pressione diastolica costantemente superiore a 130 mmHg. È opportuno ricordare che non tutti i pazienti con valori di pressione minima superiori a 130 mmHg sono affetti dalla forma maligna della malattia, mentre è vero il contrario. Dal punto di vista anatomopatologico, è presente necrosi fibrinoide arteriolare e contribuisce al quadro clinico una dilatazione delle arteriole cerebrali. L’ipertensione maligna, o accelerata, può esordire come tale, o rappresentare un aggravamento di qualsiasi altra forma di ipertensione arteriosa. Dal punto di vista patogenetico può essere attribuita ad un danneggiamento diretto dell’endotelio vascolare per effetto del trauma meccanico rappresentato dagli elevati livelli pressori. L’endotelio danneggiato libera a sua volta sostanze ad attività vasocostrittrice, come l’endotelina-1 di cui si è già parlato, e fa sì che la produzione di renina non venga inibita (come dovrebbe accadere per l’aumento della pressione arteriolare), ma incrementata (come conseguenza della vasocostrizione). Il risultato è che si instaura un circolo vizioso nel quale l’ipertensione genera sostanze vasocostrittrici e queste aggravano l’ipertensione. La malattia è caratterizzata da una compromissione grave, cardiaca, cerebrale e renale, che si realizza in un breve lasso di tempo dal momento della diagnosi, con evoluzione fatale entro l’anno, qualora non venga istituita prontamente terapia adeguata.
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Un’altra possibilità, per la verità rara, è che il danneggiamento endoteliale provochi una coagulazione disseminata intravascolare con difficoltà diagnostiche nei riguardi della porpora trombotica trombocitopenica e della sindrome emolitico-uremica (Cap. 52). C. Clinica. Da quanto fino a qui esposto, risulta chiaro che il quadro clinico dell’ipertensione arteriosa essenziale non complicata risulta assai scarno, mentre eventuali disturbi o alterazioni obiettive saranno presenti ed andranno ricercati a carico degli organi ed apparati “bersaglio”. Generalmente, il paziente iperteso, nel caso che l’ipertensione arteriosa non sia secondaria ad altre affezioni, risulta del tutto asintomatico. Viene descritta in alcune occasioni, in particolare in soggetti con ipertensione arteriosa grave, cefalea, prevalentemente occipitale, talvolta pulsante, e spesso più intensa al mattino al risveglio. Alcuni pazienti riferiscono vertigine soggettiva, acufeni, sensazione di instabilità, ma tali sintomi non sono costanti e molti di questi sono da attribuirsi più alla notevole sensibilità del pubblico nei confronti del problema che ad un reale malessere. D’altro canto la cefalea di per sé costituisce un disturbo estremamente comune, niente affatto caratteristico dell’ipertensione: semmai, vale la pena di ricordare che, nell’ambito dell’ipertensione, la cefalea è più comune nelle forme secondarie, in particolare nel feocromocitoma, in prima istanza, ma anche nell’iperaldosteronismo primitivo. Possono invece rendersi evidenti i sintomi e i segni della malattia vascolare provocata dall’ipertensione arteriosa. A carico dell’apparato cardiocircolatorio, i primi segni di una compromissione sono rappresentati da facile affaticabilità e dispnea da sforzo (vale a dire la difficoltà respiratoria che si manifesta per sforzi modesti e si prolunga per un tempo superiore a quello previsto). In alcune occasioni l’ipertensione arteriosa può essere svelata da un dolore anginoso e da un infarto acuto del miocardio. Un sintomo piuttosto comune è costituito altresì dall’epistassi, anch’essa imputabile a danno vascolare, così come da disturbi visivi, per compromissione retinica. Questi ultimi sono più frequenti nei pazienti affetti da ipertensione di grado elevato, e sono più spesso rappresentati da visione offuscata, scotomi (chiazze all’interno del campo visivo, scure o scintillanti), mosche volanti. Si sono registrati casi di cecità improvvisa. Non esistono segni clinici propri dell’ipertensione essenziale: l’unico dato obiettivabile è quello fornito dal manometro, in grado di rilevare le modificazioni dei valori della pressione stessa. Eventuali alterazioni a carico di altri organi ed apparati sono evidenziabili quando l’aumento dei valori pressori ha avuto modo di provocare effetti dannosi. Come abbiamo visto, la presenza di eventi patologici va ricercata a livello dell’apparato cardiocircolatorio, del sistema nervoso centrale, del rene. Per quanto riguarda la situazione cardiaca, possono essere presenti i reperti obiettivi caratteristici dello scompenso cardiaco nei suoi vari aspetti (Cap. 5).
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È utile l’esecuzione di un tracciato elettrocardiografico che può consentire, anche in assenza di qualsiasi sintomo, la rilevazione di alterazioni significative. Caratteristico dell’ipertensione arteriosa è il riscontro dei segni elettrocardiografici dell’ipertrofia ventricolare sinistra. Possono essere inoltre presenti alterazioni ischemiche di diversa entità. Una valutazione della compromissione vascolare può altresì ottenersi dall’esame del fondo dell’occhio mediante oftalmoscopio. Il fundus oculi, infatti, rappresenta l’unica sede in cui sono esplorabili le arteriole. Queste sono disposte in parte a decorso parallelo rispetto alle venule, in parte le incrociano. Nel caso di un’ipertensione di lieve entità, il fondo dell’occhio può apparire del tutto normale, ma quando l’ipertensione è grave o perdura nel tempo, provoca delle alterazioni arteriolari, documentabili a livello oculare. L’esame oftalmoscopico costituisce dunque un utile strumento di valutazione dell’entità della patologia vascolare ipertensiva. Le alterazioni retiniche possono essere naturalmente di entità varia, e sono state convenzionalmente suddivise (Keith-Wagener-Barker) in quattro gradi indicati con numero romano, in rapporto alla loro gravità; tale suddivisione in gradi costituisce tuttavia una forzatura, dal momento che non esiste una distinzione netta tra i vari quadri ed è attualmente poco adoperata. In condizioni normali, è possibile vedere con l’esame oftalmoscopico solo la colonna di sangue che riempie il lume dei vasi retinici, mentre la loro parete è invisibile. Una prima alterazione possibile, per effetto dell’ipertensione arteriosa, è il restringimento dei vasi arteriosi a causa dell’autoregolazione vasale (rapporto tra diametro delle arterie e diametro delle vene retiniche minore di 2:3). Questa alterazione (che corrisponde al I grado di retinopatia ipertensiva di Keith-WagenerBarker) non è assolutamente specifica dell’ipertensione e può verificarsi anche per una diminuzione della pressione arteriosa retinica in seguito a stenosi a monte dei vasi di calibro ridotto. Più significativo è il reperto di irregolarità del calibro delle arteriole, per l’esistenza di segmenti di dilatazione arteriolare dovuti a rottura dell’autoregolazione vasale in seguito all’aumento della pressione transmurale. Nella classificazione di Keith-Wagener-Barker il grado II della retinopatia ipertensiva è sostanzialmente rappresentato da alterazioni di natura arteriosclerotica. Si tratta di modificazioni che non sono specifiche dell’ipertensione arteriosa, ma che possono verificarsi anche in conseguenza dell’invecchiamento. Per effetto dell’arteriosclerosi, infatti, la parete arteriosa diventa visibile e si osserva una modificazione del colore delle arteriole che acquistano un colorito giallastro e, illuminate dalla fonte di luce dell’oftalmoscopio, assumono l’aspetto di un filo di rame. Sempre per effetto dell’arteriosclerosi, nel punto in cui le arteriole incrociano le venule, si ha uno schiacciamento dei vasellini venosi. All’esame oftalmoscopico si osserva un’interruzione del flusso ematico a livello venulare: questo fenomeno viene definito come “incroci arterovenosi”. Quando il trauma pressorio esercitato sulle arteriole retiniche è di grado particolarmente elevato, si possono verificare occlusioni con microinfarti o rotture della parete vasale. I microinfarti provocano la degenerazione di gruppi di fibre nervose retiniche in prossimità della lesione occlusiva, con un quadro oftalmologico di chiazze biancastre che sono state definite, per il loro aspetto, “essudati cotonosi”.
15 La rottura della parete arteriolare provoca invece vere e proprie emorragie, che appaiono come chiazze rosse: caratteristico è l’aspetto cosiddetto a fiamma, dovuto alla distribuzione del sangue lungo le fibre nervose. Gli essudati cotonosi e le emorragie a fiamma sono stati indicati per definire il III grado della retinopatia ipertensiva. In casi particolarmente gravi si può verificare un edema della papilla. La papilla ottica rappresenta la sede in cui le fibre del nervo ottico arrivano al bulbo e cominciano a sfioccarsi in direzione degli elementi retinici. Normalmente essa presenta margini netti che, nel caso di retinopatia di grado elevato, diventano caratteristicamente sfumati per la presenza di fluido tra le fibre nervose: questo segno indica l’esistenza di edema della papilla. Naturalmente il fenomeno condiziona in modo importante la funzione visiva e rende ragione dei vari e diversi disturbi oculari correlati all’ipertensione arteriosa: si tratta dei già descritti offuscamenti del visus, degli scotomi, ma anche di una temibile cecità improvvisa, soprattutto nel caso di un’ipertensione maligna. L’edema della papilla è stato indicato per definire la retinopatia ipertensiva di tipo IV. Tuttavia, gli essudati cotonosi e le emorragie a fiamma hanno lo stesso significato clinico dell’edema della papilla e cioè tutte queste alterazioni sono caratteristiche dell’ipertensione maligna (o accelerata).
D. Diagnosi. La grande maggioranza dei pazienti affetti da ipertensione, come risulta chiaro dall’analisi dei dati epidemiologici, è portatrice di un’ipertensione arteriosa essenziale. Scopo dell’indagine medica, con alcune riserve di cui discuteremo in seguito, è l’identificazione di quei soggetti nei quali l’aumento dei valori pressori è secondario ad un’altra patologia (rappresentano approssimativamente il 5% della popolazione degli ipertesi) e per i quali è possibile una soluzione terapeutica definitiva, più spesso chirurgica. Per una corretta valutazione del paziente, il primo passo diagnostico consiste nella conferma o meno dell’esistenza dell’ipertensione stessa. La rilevazione dei valori pressori deve venire effettuata a paziente in posizione supina da almeno dieci minuti e nelle condizioni di maggiore tranquillità possibile. Si è visto infatti che influenze emotive sono in grado di indurre oscillazioni anche importanti della pressione arteriosa. Inoltre, non ci si accontenterà di un’unica rilevazione, ma il dato eventualmente patologico andrà ricontrollato in più occasioni: in non pochi casi, un’ipertensione stabile può essere preceduta dal riscontro di valori in alcune occasioni alterati ed in altre entro i limiti di norma (ipertensione labile). Nella raccolta dei dati anamnestici, particolare attenzione deve venire posta all’eventuale presenza di una familiarità positiva, dal momento che questo dato è fortemente a favore di una forma essenziale. Inoltre, è opportuno rivolgere al paziente tutte quelle domande che possono orientare verso un’origine secondaria della malattia. A favore di un’ipertensione secondaria è l’insorgenza della stessa in giovane età, in presenza di valori particolarmente elevati sia di sistolica che di diastolica. D’altro canto, l’ipertensione arteriosa secondaria è di solito accompagnata da un corteo di sintomi e di segni, che ne faciliano l’individuazione. Questo è particolarmente vero per le ipertensioni di origine endocrina.
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Estrema attenzione deve venire rivolta a forme meno facilmente identificabili. È il caso per esempio della coartazione aortica: specie nei soggetti giovani, è opportuno effettuare sempre una rilevazione dei valori della pressione sia agli arti superiori che a quelli inferiori. Qualche problema diagnostico può insorgere nei confronti dell’ipertensione di origine renale, la quale può occorrere in completa assenza di sintomi o con sintomi e segni assai sudboli e poco appariscenti. Anche in questo caso un’anamnesi attenta (infezioni recidivanti delle vie urinarie, per es.) ed una visita accurata (soffio addominale da stenosi di un’arteria renale, aumento del volume di un rene alla manovra del ballottamento) potranno indirizzare verso l’eziologia dell’affezione. Non dovranno infine venire dimenticate eventuali influenze farmacologiche. La distinzione di un’ipertensione essenziale da un’ipertensione secondaria può tuttavia restare un quesito diagnostico difficile. Per quanto riguarda le particolari indagini di laboratorio strumentali da effettuarsi ai fini di questa distinzione, bisogna dire che alcune di queste vanno riservate soltanto a determinati pazienti. • Soggetti nei quali le indagini preliminari sono risultate indicative di una forma secondaria di ipertensione, suscettibile di trattamento eziologico definitivo. Questo è valido in particolare per i pazienti giovani, nei quali l’origine secondaria è più frequente, e per i quali un intervento chirurgico può essere definitivo. Spesso, per contro, persone anziane, pur con un’ipertensione secondaria, traggono solo scarsi vantaggi dal trattamento chirurgico, in quanto si sono ormai instaurate alterazioni vascolari sclerotiche irreversibili. • Soggetti con ipertensione di grado elevato, poco responsivi alla terapia medica. Vengono usualmente inclusi in questo secondo gruppo anche i pazienti che non riescono ad adeguarsi al regime prescritto (si parla, in tali casi, di scarsa “compliance” alla terapia). Questo metodo di procedere è dettato fondamentalmente da due considerazioni. La prima è che non tutte le indagini strumentali sono assolutamente prive di rischi per il paziente: in particolare, quelle per cui vengono utilizzati mezzi di contrasto iodati per via venosa comportano un pericolo, seppur ridotto, di reazioni di ipersensibilità, talvolta fatali. La seconda è che bisogna tener conto dei costi di questi esami. È dunque giustificato procedere all’approfondimento diagnostico solo a patto che sia ipotizzabile un successivo intervento terapeutico mirato, come conseguenza della diagnosi eziologica. Le valutazioni strumentali diagnostiche da eseguire verranno stabilite in rapporto all’orientamento fornito dall’esame clinico e dalle indagini di laboratorio e strumentali preliminari. Per quanto concerne i test più specifici, si rimanda ai capitoli relativi alle varie forme di ipertensione arteriosa secondaria.
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E. Decorso e prognosi. Come si è detto, l’ipertensione arteriosa predispone a numerose affezioni cardiovascolari. Nel già citato studio epidemiologico di Framingham, il 37% degli uomini e il 51% delle donne che morirono per cause cardiovascolari avevano presentato in precedenza, in almeno tre occasioni, dei livelli di pressione arteriosa superiori a 140/90 mmHg. Alcune di queste morti possono essere attribuite all’effetto diretto sui vasi dell’elevata pressione arteriosa, come è il caso delle morti per emorragia cerebrale o per aneurisma dissecante. Queste si osservano di solito con livelli di pressione arteriosa superiori a 180 mmHg di sistolica e sono pressoché interamente prevenibili moderando la pressione con adatta terapia. La grande maggioranza delle morti osservate negli ipertesi è dovuta a cardiopatia ischemica. Questi casi sono, in prevalenza, caratterizzati da livelli di pressione arteriosa meno elevati, attorno a 140-160 mmHg di sistolica. Si è discusso se la riduzione di questi livelli pressori serva a prevenire la cardiopatia ischemica: studi recenti sembrano suggerire di sì. In assenza di trattamento, la prognosi di un’ipertensione benigna di lieve entità è di circa 20 anni, mentre quella di un’ipertensione maligna è di meno di un anno. F. Terapia. Sono disponibili attualmente molti efficaci trattamenti medici per l’ipertensione arteriosa. Elenchiamo i più importanti. 1. Diuretici. Agiscono promuovendo l’escrezione di sodio. In un primo momento riducono la volemia e la gettata cardiaca, successivamente riducono la sensibilità delle arteriole agli stimoli vasocostrittori. 2. -bloccanti. Sono farmaci che bloccano le sollecitazioni sui recettori -adrenergici, importanti soprattutto a livello cardiaco (la loro sollecitazione comporta tachicardia, aumento della forza di contrazione e della eccitabilità del miocardio). Non è ben chiaro come questi farmaci agiscano. Le azioni possono essere multiple: • sul cuore, riducendone la gettata; • sulle terminazioni nervose simpatiche, bloccando un meccanismo che promuove la liberazione di noradrenalina; • sull’apparato iuxtaglomerulare, riducendo la produzione di renina che, come si è visto, può essere un fattore aggravante dell’ipertensione arteriosa. Empiricamente, i -bloccanti si sono rivelati farmaci molto efficaci. Sono controindicati nell’asma bronchiale e nelle broncopneumopatie ostruttive (i recettori -adrenergici hanno, infatti, un’attività broncodilatatrice. 3. Vasodilatatori. Agiscono riducendo direttamente il tono arteriolare e le resistenze periferiche. Tra i vasodilatatori sono particolarmente interessanti i farmaci che bloccano nelle cellule i cosiddetti “canali del calcio”. Questi non solo contrastano la tendenza alla contrazione delle cellule muscolari lisce, e perciò alla vasocostrizione, ma inibiscono anche l’aggressività piastrinica, un processo che ha importanza nella patogenesi del-
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l’aterosclerosi (Cap. 3) e nella progressione dell’insufficienza renale cronica (Cap. 35). 4. Farmaci attivi sul sistema nervoso centrale. Agiscono riducendo centralmente il tono del sistema simpatico (-metildopa) o potenziando i baroriflessi (clonidina). 5. Inibitori dell’angiotensina. Esistono attualmente numerosi farmaci in grado di inibire l’enzima convertitore dell’angiotensina (ACE, Angiotensin Converting Enzyme) e ridurre perciò la formazione di angiotensina II. In realtà questi farmaci sono efficaci non solamente nell’ipertensione renovascolare, ma anche nell’ipertensione essenziale. Uno dei vantaggi di questa inibizione sta nel fatto che viene contrastata l’azione dell’angiotensina II stimolante la proliferazione delle cellule mesangiali nel rene e delle cellule muscolari lisce nella parete dei vasi sanguigni. Questo fatto può conferire ai farmaci inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina un ruolo protettivo verso il danno renale e la progressione dell’aterosclerosi che potrebbero essere indotti dall’ipertensione arteriosa. Recentemente, sono stati introdotti nella pratica terapeutica anche farmaci capaci di inibire i recettori vascolari dell’angiotensina II.
IPERTENSIONI SECONDARIE Ipertensioni endocrine Feocromocitoma Il feocromocitoma rappresenta una causa rara di ipertensione e tuttavia il suo riconoscimento è estremamente importante in quanto la malattia è suscettibile di terapia chirurgica risolutiva. Si tratta di un tumore che interessa cellule di derivazione neuroectodermica, provenienti cioè dalla cresta neurale; alcune di queste, durante lo sviluppo embrionale, vanno incontro a migrazione in diversi distretti corporei, dove costituiscono aree di tessuto cromaffine (cosiddetto per la sua affinità per i sali di cromo). Queste cellule si ritrovano soprattutto nella midollare del surrene, ma anche a livello dei paragangli, strutture localizzate vicino ai gangli del sistema autonomo vegetativo: si tratta in genere di aree molto piccole, che tuttavia in alcune sedi, per esempio in corrispondenza dell’arteria mesenterica superiore o di alcuni rami simpatici, possono dare luogo, nel corso dello sviluppo embrionario o dei primi anni di vita, ad accumuli di dimensioni maggiori, come per esempio il cosiddetto organo di Zuckerkandl, destinato normalmente all’atrofia. Tessuto di questo tipo si trova anche in determinate zone sensibili dell’apparato arterioso, come il glomo carotideo; ma vi possono essere isole cromaffini, spesso di dimensioni molto ridotte, nelle sedi più diverse. La crescita tumorale può verificarsi a partire da uno qualsiasi di questi nuclei; nel 90% dei casi il tumore è
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localizzato nella midollare del surrene, nel 10% a livello di paragangli, cuore, vescica, prostata, ovaie. In questi ultimi casi il tumore è detto anche paraganglioma. La peculiarità di questi tumori è che essi mantengono la capacità di secernere catecolamine (adrenalina e noradrenalina) a partire dal substrato tirosina, e quindi di indurre una stimolazione dei recettori e -adrenergici. Fanno eccezione i paragangliomi derivati dai gangli parasimpatici di testa e collo, che non sono cromaffini e spesso non sono funzionali, ponendo solo dei problemi di massa in espansione. Questi tumori, spesso localizzati nel corpo carotideo e nel glomo, sono anche detti chemodectomi. La prevalenza di secrezione dell’una o dell’altra sostanza varia da tumore a tumore: in generale i tumori surrenalici producono con maggiore frequenza adrenalina, dal momento che le cellule della midollare del surrene sono più facilmente fornite dell’enzima metilante necessario a convertire la noradrenalina in adrenalina. In questo caso è comunque usuale la secrezione associata di adrenalina e noradrenalina, mentre il prevalere o la secrezione della sola adrenalina è eccezionale. I tumori extrasurrenalici, per contro, producono più facilmente noradrenalina. La secrezione dell’una o dell’altra amina, come vedremo in seguito, condiziona i sintomi e alcune delle caratteristiche dell’andamento della pressione arteriosa. Il riscontro, al tavolo anatomico, di feocromocitomi è stimato intorno a 1 caso su 1000, superiore alla frequenza clinica della malattia che è intorno allo 0,1% della popolazione degli ipertesi. Mentre nella maggior parte dei casi si tratta di un’unica neoformazione benigna surrenalica, nel 10% dei casi ci troviamo di fronte ad una forma maligna, nel 10% ad una forma extrasurrenalica ed in un altro 10% a neoformazioni bilaterali o multiple. A. Eziopatogenesi. Trattandosi di forme tumorali, l’eziologia è ignota. In una minoranza di pazienti, tuttavia, sono in atto delle influenze ereditarie: infatti, una quota di feocromocitomi si presenta come parte di disordini ereditari complessi, trasmessi come carattere autosomico dominante ad elevata penetranza. Nel 66% di questi ultimi si tratta di un feocromocitoma isolato, piuttosto comunemente multiplo o maligno. Altrimenti, il feocromocitoma può presentarsi nel contesto di un’affezione denominata neoplasia endocrina multipla (e abbreviata comunemente in MEN, Multiple Endocrine Neoplasia dalle iniziali del nome della malattia in inglese), caratterizzata dalla presenza contemporanea di diversi tumori endocrini. Il feocromocitoma si presenta inoltre nel 10% dei casi di neurofibromatosi, una condizione sempre ereditaria caratterizzata dalla presenza di numerosi fibromi e neurinomi, evidenti soprattutto a livello cutaneo. Tra le forme di feocromocitoma trasmesse ereditariamente ricordiamo da ultimo l’associazione con la malattia di von Hippel-Lindau (malformazioni vascolari della retina e del cervelletto). Recentemente, sono stati compiuti importanti progressi nell’individuazione dei geni che condizionano
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una predisposizione al feocromocitoma e ai paragangliomi. Sono stati individuati, infatti, quattro geni che predispongono a questi tumori. Il primo, denominato RET, è un proto-oncogene che, se soggetto a una mutazione che lo attiva, causa un’attivazione costitutiva del recettore tirosina-chinasi. Conseguentemente, le cellule parafollicolari della tiroide che producono calcitonina e quelle cromaffini della midollare del surrene vanno incontro a iperplasia con un’elevata frequenza di successiva trasformazione neoplastica. Le mutazioni del gene RET sono associate con una particolare variante di MEN (Multiple Endocrine Neoplasia), detta MEN-2 (e distinta in una MEN-2A che combina il carcinoma midollare della tiroide e l’iperparatiroidismo e in una MEN-2B, nella quale si hanno anche un abito costituzionale particolare, detto marfanoide (2), e multipli neuromi sulle mucose). In questo caso la probabilità di sviluppare un feocromocitoma è di circa il 50%. Il secondo gene, denominato VHL, è un gene onco-soppressore che, se inattivato per una mutazione, tende a provocare la sindrome di von Hippel-Lindau che, come già si è accennato, è caratterizzata da emangiomi retinici e del sistema nervoso centrale (ma anche dalla propensione a sviluppare cisti pancreatiche e renali e carcinomi renali). In questo caso il rischio di sviluppare un feocromocitoma e del 10-20%. Infine, più recentemente, sono stati individuati altri due geni, denominati SDHD e SDHB che, se mutati, predispongono allo sviluppo di tumori del corpo carotideo. La neurofibromatosi non dipende da mutazioni di uno di questi quattro geni e la frequenza della sua associazione con il feocromocitoma è bassa (circa 1%). L’idea generale è che il feocromocitoma, quando è sporadico e senza una storia familiare, dipenda da una mutazione somatica di uno dei geni predisponenti e negli altri casi da una mutazione nella linea germinale. Nel passato si sosteneva che le alterazioni nella linea germinale, condizionanti l’insorgenza di feocromocitoma nel contesto di disordini ereditari complessi, fossero presenti nel 10% dei casi di questa malattia. Un’indagine recente eseguita in una vasta coorte di casi di feocromocitoma apparentemente sporadico (Neumann et al., 2002, citato da Dluhy, 2002) ha invece dimostrato che circa il 25% dei casi studiati aveva nella linea germinale una mutazione a carico di uno dei quattro geni di suscettibilità. Il fatto che i casi studiati non avessero apparentemente alcun segno delle malattie complesse associate a queste mutazioni non deve sorprendere, dato che la loro manifestazione può essere parziale, tardiva o anche del tutto mancante. Tuttavia, la lezione che si ricava da questo studio è che quando si incontra un feocromocitoma sarà sempre opportuno un approfondimento clinico, anche con indagini particolari alla ricerca delle condizioni possibilmente associate e che queste vanno estese ai familiari. In futuro, un’analisi genetica sarà in ogni caso appropriata in questi ammalati. (2) La sindrome di Marfan è un’alterazione costituzionale caratterizzata da lassità legamentosa, alta statura, basso rapporto tra tronco e arti, largo angolo costale e più evidente angolatura tra braccia e avambracci con gli arti superiori adesi al corpo e in supinazione.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
B. Fisiopatologia. I segni clinici della malattia sono determinati dalla produzione, da parte del tumore, di catecolamine, adrenalina e/o noradrenalina. La noradrenalina ha un’attività prevalente sui recettori -adrenergici e la sua azione sull’apparato cardiocircolatorio si riflette fondamentalmente in una costrizione a livello delle arteriole, con conseguente riduzione del raggio medio arteriolare ed aumento dei valori pressori. L’adrenalina agisce sia sui recettori che -adrenergici. La stimolazione di questi ultimi provoca una vasodilatazione delle arteriole muscolari, con un effetto antipertensivo. Tuttavia, l’adrenalina svolge un’azione importante a livello cardiaco, in quanto l’attivazione dei recettori -adrenergici in tale sede causa un aumento della frequenza e della forza di contrazione del cuore, con effetti notevoli sui livelli della pressione arteriosa. La prevalenza della secrezione dell’una o dell’altra amina simpatica condiziona quindi i sintomi riferiti dal paziente. Spesso la liberazione delle catecolamine nel sangue (si veda in seguito) può avere degli incrementi eccezionali e l’ipertensione può essere episodica. Quando viene secreta soprattutto adrenalina, possono aversi, contemporaneamente all’aumento pressorio, crisi di malessere caratterizzate da fenomeni vasomotori, sudorazione, cefalea, tachicardia, fini tremori e sensazione di ansia o di angoscia (questi ultimi effetti sono dovuti all’azione dell’adrenalina sul sistema nervoso centrale). In alcuni casi, accanto o invece di episodi ipertensivi, si può avere ipotensione ortostatica. Questo può verificarsi nel caso di tumori che producono grandissime quantità di adrenalina, per un’azione periferica che è contraria all’ipertensione, e una tachicardia estrema che condiziona una diminuzione della gettata cardiaca, per riduzione del tempo di riempimento diastolico. Episodi ipotensivi possono aversi anche a seguito di cosiddette “tempeste catecolaminiche”, liberazioni parossistiche di elevate quantità di questi ormoni, in conseguenza di necrosi emorragica nel contesto di un feocromocitoma. In tali casi possono essere particolarmente evidenti fenomeni cardiocircolatori dovuti ad una diretta azione lesiva delle catecolamine in estremo eccesso sulle cellule miocardiche, e forse anche ad una loro azione incrementante la permeabilità delle cellule endoteliali della circolazione polmonare. C. Clinica. Una peculiarità dei feocromocitomi è legata al fatto che, almeno nella metà dei casi, la secrezione delle amine vasoattive non avviene con flusso costante, ma si ha un immagazzinamento delle sostanze all’interno delle cellule tumorali, con dismissione di grandi quantità in determinate circostanze. Lo stimolo al rilascio delle catecolamine, cui corrisponde evidentemente una sintomatologia con andamento tipicamente parossistico, è costituito in genere da un aumento della pressione endoaddominale: il piegamento del busto, crisi di starnuti, di riso, un pasto abbondante, sforzi di defecazione o la stessa minzione (è questo il caso dei rarissimi feocromocitomi vescicali; però lo sforzo della minzione può provocare la dismissione di catecolamine anche da sedi diverse dalla vescica) possono scatenare
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1 - IPERTENSIONE ARTERIOSA
la crisi ipertensiva. A volte può essere sufficiente l’esecuzione di una semplice urografia o persino una palpazione profonda dell’addome. In alcuni casi, peraltro, le crisi possono comparire senza un chiaro fattore scatenante; possono essere rare, con episodi a distanza di diversi mesi, oppure frequenti, più volte al giorno. La durata varia da pochi minuti a qualche ora, ma in genere non si tratta mai di periodi particolarmente lunghi; spesso si manifesta una tendenza ad un aumento della frequenza con il passare del tempo. L’andamento della pressione si può presentare sotto forme differenti. In un 25% circa di casi la pressione si mantiene usualmente a livelli normali, e su questi si inseriscono, ad intervalli più o meno ravvicinati, delle puntate ipertensive. In circa il 30% dei pazienti affetti da feocromocitoma, i valori pressori si presentano persistentemente elevati e a questa ipertensione di base si aggiungono puntate ipertensive parossistiche. Infine, in un altro 30% di pazienti, si rileva un’ipertensione stabile, senza crisi parossistiche. Un altro 15% ha un andamento dei valori pressori del tutto irregolare. È dunque importante rilevare che, se in un certo numero di casi i pazienti appaiono normotesi al di fuori dei periodi critici (ed è giusto quindi prendere in considerazione l’ipotesi di feocromocitoma di fronte ad episodi ipertensivi parossistici), la maggior parte dei pazienti presenta costantemente livelli pressori elevati e una parte di loro non ha mai crisi ipertensive. Dal punto di vista clinico, il paziente può essere del tutto asintomatico, per quanto questa evenienza sia rara, e correlata soprattutto a forme secernenti solo noradrenalina a flusso continuo. In genere tuttavia, il feocromocitoma comporta una forma di ipertensione più comunemente legata a sintomi, e quelli cardinali sono costituiti da cefalea, sudorazione profusa, cardiopalmo; a questi si possono aggiungere, particolarmente nelle forme secernenti adrenalina, sensazione di angoscia e tremori. Nei pazienti più anziani si possono manifestare sintomi tipo angina pectoris. Alla visita, oltre al rilievo di valori pressori spesso notevolmente elevati, si può osservare la presenza di magrezza, di sudorazione, stato di ansia estrema, con pupille dilatate, tremori. È inoltre importante ricercare in questi pazienti eventuali segni di poliendocrinopatie ed eventuali anomalie, quali neurofibromi. Più raramente il paziente si presenta con i sintomi e i segni di una cardiomiopatia dilatativa o ipertrofica (Cap. 8) e il quadro può costituire un’emergenza medica, per episodi acuti di ipotensione, accompagnati da tachicardia estrema ed edema polmonare. Le cause di questi fenomeni cardiocircolatori sono state illustrate a proposito della fisiopatologia. D. Diagnosi. La presenza di una pressione arteriosa ad andamento parossistico costituisce un elemento a favore della diagnosi di feocromocitoma, ma non ne dà la certezza. A questo scopo è necessario svolgere delle indagini di laboratorio e strumentali. Fino ad alcuni anni
orsono venivano utilizzate delle prove di scatenamento e/o di soppressione, il cui principio consiste nel somministrare sostanze in grado di scatenare ovvero di bloccare le crisi ipertensive. Tra le prime vanno citate l’istamina, che provoca un brusco rilascio di catecolamine, la tiramina oppure il glucagone. Queste prove sono attualmente cadute del tutto in disuso in quanto non scevre di pericoli per il paziente. Un’inibizione dell’azione delle amine vasoattive può essere ottenuta mediante la somministrazione di farmaci in grado di bloccare i recettori simpatici: in pazienti affetti da feocromocitoma un farmaco di questo tipo dovrebbe portare ad una riduzione dei valori pressori. A tale scopo viene usualmente utilizzata la fentolamina, un -bloccante: il test viene considerato positivo se dopo la somministrazione si ottiene una riduzione dei valori della pressione sistolica di 35 mmHg e della pressione diastolica di 25 mmHg. Bisogna tuttavia considerare che questo esame può dare fino ad un 25% di falsi positivi e che si presta alla valutazione dei soli pazienti che presentano un’ipertensione di base. Il metodo più sicuro consiste nel dosaggio delle catecolamine e dei loro metaboliti nel sangue e nelle urine (Fig. 1.3). Nelle urine si possono dosare adrenalina e noradrenalina, metanefrina e normetanefrina e l’acido vanilmandelico. La maggior parte delle catecolamine vengono escrete nelle urine metabolizzate: l’adrenalina e la noradrenalina vengono rinvenute in quantità dell’ordine di microgrammi, mentre l’acido vanilmandelico è nell’ordine dei milligrammi, pertanto il suo dosaggio risulta molto più semplice. Particolarmente utile risulta la valutazione dei derivati aminici dopo una crisi ipertensiva; quindi è opportuno iniziare la raccolta delle urine per 24 h subito dopo un episodio parossistico. L’unico inconveniente legato a questo esame è che molte sostanze sono in grado di modificare i livelli urinari di acido vanilmandelico, e tra queste innanzitutto molti alimenti contenenti vanillina, come i dolci, il tè, il caffè, diversi frutti (agrumi, banane) oltre ad innumerevoli farmaci. Alcuni laboratori particolarmente attrezzati sono in grado di effettuare il dosaggio di adrenalina e noradrenalina nel plasma.
Noradrenalina
Adrenalina COMT
Normetanefrina
Metanefrina MAO
Acido vanilmandelico COMT = catecol-orto-metiltransferasi MAO = monoaminossidasi
Figura 1.3 - Vie metaboliche di adrenalina e noradrenalina (schema semplificato).
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Una volta accertato un aumento dei livelli di catecolamine, si pone il problema della localizzazione del feocromocitoma: questo è abbastanza semplice se la neoformazione si trova a livello del surrene, cosa che accade approssimativamente nel 90% dei casi; l’ecografia è un esame strumentale incruento, in grado tuttavia di evidenziare neoformazioni di discrete dimensioni. Un analogo discorso si può fare per quanto riguarda la tomografia assiale computerizzata. L’arteriografia consente la visualizzazione di anomalie circolatorie del surrene colpito; un cateterismo venoso, in mani esperte, permette dosaggi selettivi delle catecolamine in diverse regioni, utili soprattutto nel sospetto di feocromocitomi extrasurrenalici. Queste manovre non sono del tutto esenti da rischi, in quanto possono esse stesse scatenare una crisi ipertensiva. Pertanto, di solito si pratica in loro concomitanza un blocco farmacologico dei recettori -adrenergici. E. Decorso - Prognosi - Terapia. La malattia è suscettibile di trattamento chirurgico radicale con una sopravvivenza media a 5 anni dall’intervento di oltre il 95% per le forme benigne. In circa il 75% di questi pazienti l’intervento comporta un ripristino dei valori pressori nell’ambito della normalità. Alternativamente la malattia conduce a tutte le conseguenze proprie dell’ipertensione arteriosa sugli organi bersaglio; in più esiste il rischio di puntate ipertensive estremamente pericolose e talvolta fatali. Nel 95% dei casi si tratta di un’eteroformazione benigna, tuttavia la diagnosi di malignità non può venire stabilita se non a posteriori, in rapporto alla tendenza o meno a dare metastasi. Le forme maligne sono più comuni nelle neoplasie extrasurrenaliche e interessano i linfonodi loco-regionali, quindi lo scheletro, il fegato, i polmoni, il sistema nervoso centrale. La prognosi delle forme maligne è variabile e, se in passato veniva descritta come particolarmente infausta, sono stati recentemente segnalati casi a più lunga sopravvivenza. Iperaldosteronismo primitivo L’iperaldosteronismo è una condizione caratterizzata dall’eccessiva produzione di aldosterone. Nella forma primitiva, meglio nota come sindrome di Conn, responsabile di tale iperproduzione è un adenoma, generalmente solitario, localizzato a livello surrenalico. Si tratta dunque di un tumore, pressoché invariabilmente benigno, delle cellule della zona glomerulosa della corteccia surrenalica, cellule capaci di secernere l’ormone mineralattivo. Nel 20-25% dei casi al tavolo operatorio non è possibile riconoscere una crescita neoplastica localizzata: l’eccesso di produzione di aldosterone risulta determinato da un’iperplasia bilaterale nodulare delle cellule corticali. L’iperaldosteronismo primario rappresenta una causa rara di ipertensione arteriosa, essendo responsabile di circa l’1% di tutte le anomalie pressorie. La malattia è molto più comune nel sesso femminile che in quello maschile, con un rapporto all’incirca di
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2:1 e con un’età di insorgenza media compresa tra i 35 e i 50 anni. A. Fisiopatologia. Le conseguenze cliniche della malattia sono legate essenzialmente all’aumentata produzione di aldosterone: l’azione principale di tale ormone, come noto, si esplica a livello del tubulo distale del rene, ove esso promuove il riassorbimento del sodio in cambio della escrezione di potassio e di idrogeno-ioni. L’aumento della concentrazione del sodio provoca due importanti effetti ipertensivi: in prima istanza si ha un aumento del volume del liquido extracellulare, e quindi della volemia; in secondo luogo, l’ipernatremia rende più sensibili le cellule muscolari lisce delle pareti arteriolari agli stimoli di vasocostrizione. Questo aumento del sodio nel compartimento extracellulare nell’iperaldosteronismo, caratteristicamente non si accompagna alla presenza di edemi. In condizioni ordinarie, la ritenzione di sodio comporta un incremento della pressione osmotica del fluido extracellulare e questa, attraverso la stimolazione della secrezione di ormone antidiuretico, determina una ritenzione idrica corrispondente. Il risultato è un’espansione del volume di fluido extracellulare che, se supera un certo limite, conduce alla formazione di edemi. Nell’iperaldosteronismo primitivo questo non si verifica perché interviene un meccanismo di “sfuggita” che arresta la ritenzione di sodio e di acqua ad un nuovo punto di equilibrio, sufficiente a produrre ipertensione senza che si arrivi alla formazione di edemi. La sfuggita sembra determinata da una riduzione del riassorbimento di sodio nei tubuli renali prossimali, la quale compensa l’incremento del suo riassorbimento che ha luogo nei tubuli distali per effetto dell’aldosterone prodotto in eccesso. Questo minore riassorbimento di sodio nei tubuli prossimali si pensa sia mediato da un ormone natriuretico, la cui esistenza è postulata in base a considerazioni teoriche più che dimostrata. A livello del tubulo distale il sodio viene scambiato con il potassio: la ritenzione di sodio provocata dall’aldosterone si accompagna quindi ad ipokaliemia. Il potassio si trova normalmente in concentrazioni piuttosto scarse nel liquido extracellulare (3,5-5 mEq/l), mentre rappresenta un catione intracellulare importante e, nello specifico, svolge un ruolo fondamentale nel determinare il potenziale di membrana. Variazioni della potassiemia producono effetti non trascurabili sulle cellule eccitabili, in particolare sulle cellule miocardiche e su quelle muscolari. Un’altra conseguenza dell’ipopotassiemia è legata al fatto che essa provoca una diminuita sensibilità dei dotti collettori dei nefroni all’ormone antidiuretico, condizionando un’alterazione del meccanismo di concentrazione delle urine, con comparsa di poliuria. L’ipokaliemia prolungata favorisce inoltre infezioni renali interstiziali, sotto forma di pielonefriti che possono evolvere in forma cronica. A livello del tubulo distale, il sodio può alternativamente venire scambiato con ioni H+. Per ciascuno ione H+ escreto con le urine un HCO3– viene riassorbito nel
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plasma; di conseguenza, la promozione dello scambio tra Na+ e H+ operata dall’aldosterone conduce ad un eccesso di bicarbonati nel sangue. Questo fatto ha delle conseguenze sull’equilibrio acido-base. Come evidente dall’equazione di Henderson-Hasselbalch: pH = pK + log
[HCO3– ] [H2CO3 ]
l’aumento della concentrazione di HCO3– provoca un innalzamento del pH ematico, un’alcalosi metabolica, che viene compensata da meccanismi regolatori i quali inducono un aumento della PCO2. Ad un aumento dei bicarbonati nel sangue, tuttavia, può corrispondere un aumento dei bicarbonati nelle urine. È quindi usuale, nei pazienti affetti da iperaldosteronismo, riscontrare un aumento della concentrazione dei bicarbonati nel sangue e nelle urine, che risultano pertanto avere spesso un pH neutro o alcalino. B. Clinica. I pazienti affetti da iperaldosteronismo primitivo, nella maggior parte dei casi, non presentano caratteristiche cliniche peculiari rispetto a quelli con ipertensione arteriosa essenziale. Il sintomo riferito con maggiore frequenza è costituito dalla cefalea. A questa si possono tuttavia aggiungere, in un certo numero di soggetti, una certa affaticabilità e la comparsa di astenia muscolare, con un quadro che talvolta può giungere fino alla paresi temporanea degli arti; questi sintomi sono in stretto rapporto con l’escrezione renale di potassio e con la riduzione di quest’ultimo a livello delle membrane cellulari, sedi in cui lo ione gioca un ruolo fondamentale nella determinazione del potenziale d’azione. Il paziente può descrivere inoltre la presenza di poliuria e di nicturia, da attribuirsi alla ridotta capacità di concentrazione delle urine. La rilevazione della pressione arteriosa documenta in genere una ipertensione sistodiastolica, con livelli pressori non particolarmente elevati. L’esame obiettivo non evidenzia, per il resto, alcun segno degno di nota. La registrazione dell’elettrocardiogramma consente spesso di riconoscere i segni caratteristici dell’ipopotassiemia, quali un’onda U prominente, oltre a frequenti disturbi del ritmo cardiaco: extrasistoli sopraventricolari e ventricolari, tachicardie, tachiaritmie. Anche queste alterazioni della funzione cardiaca sono causate da modificazioni del potenziale di membrana delle cellule miocardiche, indotte dall’ipokaliemia. Nelle forme inveterate è usuale riscontrare le alterazioni elettrocardiografiche caratteristiche della dilatazione del ventricolo di sinistra. Tale aumento di volume della camera sinistra del cuore può venire direttamente osservato anche ai radiogrammi del torace. C. Esami di laboratorio. Il riscontro di livelli plasmatici di potassio persistentemente ridotti in un paziente affetto da ipertensione arteriosa, non in trattamento con diuretici, è fortemente sospetto per un iperaldosteronismo primitivo. I livelli della kaliemia sono generalmente molto ridotti, al di sotto di 3 mEq/l. La sodiemia
non è invece sostanzialmente alterata: la ritenzione di sodio produce, infatti, un incremento della quantità di sodio presente nell’organismo piuttosto che della sua concentrazione nel plasma e nel fluido extracellulare (questo avviene a causa della ritenzione consensuale di acqua assieme al sodio). L’esame delle urine evidenzia un’alterata capacità di concentrazione e la presenza frequente di pH alcalino o neutro. A livello ematico si ha un aumento della concentrazione di HCO 3– come da alcalosi metabolica compensata. Nelle forme gravi caratteristica è anche la riduzione della magnesiemia. D. Diagnosi. Il riscontro di dati di laboratorio compatibili con l’aldosteronismo non documenta necessariamente la presenza di un iperaldosteronismo primitivo. Esistono infatti diverse condizioni in cui l’aumento dell’aldosterone plasmatico è conseguente ad alterazioni fisiologiche e parafisiologiche della concentrazione della renina, alterazioni che condizionano un incremento dell’aldosteronemia: si parla, in questi casi, di iperaldosteronismo secondario, entità nosografica ben distinta dall’iperaldosteronismo primitivo (Fig. 1.4). Nel caso dell’iperaldosteronismo primitivo, la causa prima dell’aumento dell’aldosterone plasmatico è costituita da un adenoma funzionante, in grado di secernere l’ormone mineralattivo, o da un’iperplasia bilaterale nodulare della corteccia surrenale che ha un comportamento anomalo rispetto al tessuto normale. L’aumento dell’aldosterone plasmatico, infatti, induce un incremento della quantità di sodio presente nell’organismo e quindi del volume circolante, cui consegue una netta riduzione della reninemia: l’adenoma iperfunzionante risulta tuttavia assolutamente insensibile al segnale di blocco, costituito dalla riduzione della renina plasmatica, e persiste nella secrezione dell’ormone mineralattivo. Nell’iperaldosteronismo secondario, per contro, lo stimolo primitivo alla secrezione di aldosterone è costituito da una riduzione del volume plasmatico, che con-
Iperaldosteronismo secondario
Iperaldosteronismo primitivo
*A
Aldosterone
Renina
E
Aldosterone
Na+ A
Vol.
A
Renina
A
Na+ A
A
*
Vol. E
* Evento iniziante
C Effetto inducente C Effetto contrastante Figura 1.4 - Differenze di risposte ai meccanismi di controllo nell’iperaldosteronismo primitivo e secondario. Vol. = volume plasmatico.
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diziona, attraverso il barostato renale localizzato nell’apparato iuxtaglomerulare, la liberazione di renina. Ne risulta che, a differenza dell’iperaldosteronismo primitivo, la renina è costantemente elevata nella forma secondaria, così come il volume plasmatico è ridotto. Le condizioni in grado di provocare un iperaldosteronismo secondario richiedono tutte una riduzione del volume circolante, o, più precisamente, del volume di sangue che giunge ai reni. Tali condizioni comprendono: • la stenosi di un’arteria renale, che provoca una riduzione della pressione di perfusione a livello dell’apparato iuxtaglomerulare del rene omolaterale, con aumentata liberazione di renina; • un’alterata ripartizione dei fluidi nel compartimento extracellulare, quale quella che si può verificare in presenza di edemi; questi ultimi possono essere la conseguenza o di un’alterazione della funzione cardiaca o di una marcata ipoproteinemia cui concomita riduzione della pressione oncotica: anche in questa situazione si ha una riduzione della massa circolante, con innesco del meccanismo renina-angiotensina-aldosterone; • una riduzione del sodio plasmatico secondaria ad un trattamento con diuretici; la ridotta concentrazione del sodio provoca una diminuzione del volume plasmatico, cui consegue l’attivazione dei meccanismi renali di regolazione. Quest’ultima è una condizione relativamente frequente, indubbiamente la più frequente delle tre sopracitate, e particolarmente insidiosa in quanto si presenta in soggetti ipertesi, spesso ipokaliemici, proprio a causa del trattamento con sostanze diuretiche. Ci troviamo di fronte quindi ad una situazione da tenere sempre presente in pazienti ipertesi in cui si sospetti un iperaldosteronismo primitivo. La diagnosi differenziale verrà dunque impostata innanzitutto sul dato anamnestico dell’assunzione o meno di sostanze ad azione diuretica. Queste, se eventualmente presenti, verranno sospese, e verrà somministrato potassio. Una potassiemia che non ritorna entro i limiti di norma nonostante la somministrazione di potassio in un paziente che non assuma diuretici è fortemente suggestiva di iperaldosteronismo. Si effettua quindi il dosaggio della renina plasmatica, in condizioni basali e in una situazione che normalmente favorisce l’innalzamento dei valori della reninemia, e cioè la stazione eretta. Viene misurata la renina plasmatica in clinostatismo e dopo due ore di stazione eretta: caratteristicamente, nel caso dell’iperaldosteronismo primitivo la renina è soppressa sia in clinostatismo che in ortostatismo. Anche altre prove di stimolazione, in grado di fare aumentare la reninemia in soggetti normali, risultano inefficaci nella sindrome di Conn. Si tratta in particolare del dosaggio della renina dopo somministrazione di diuretici o di dieta povera in sodio, entrambi provvedimenti che inducono una riduzione del volume plasmatico e condizionano, in situazione di normalità, un aumento della reninemia. Contemporaneamente, viene effettuato anche il dosaggio
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
dell’aldosterone, che è abitualmente elevato. Il test può essere reso maggiormente sensibile, stabilendo delle condizioni che normalmente inducono un decremento della concentrazione di aldosterone: questo può essere ottenuto con l’infusione di una soluzione di cloruro di sodio, la quale, provocando ipervolemia, favorisce la riduzione dell’aldosteronemia. Analogo risultato si può ottenere con la somministrazione di desossi-corticosterone (DOC). Nella diagnosi differenziale bisogna tenere conto anche di una situazione che dà luogo ad esami di laboratorio del tutto simili a quelli tipici dell’iperaldosteronismo primitivo e che è legata all’ingestione di quantità elevate di liquirizia: essa contiene acido glicirrizico, una sostanza ad azione sodio-ritentiva. Una volta stabilita la natura primitiva dell’affezione, la localizzazione dell’adenoma o l’evidenziazione di un’iperplasia bilaterale (la differenza è importante ai fini terapeutici) può venire documentata con un’ecografia addominale e/o con una tomografia assiale computerizzata. L’arteriografia mette in evidenza, pressoché nella totalità dei casi, la sede precisa dell’eteroformazione. Particolarmente utile la flebografia, che consente oltre alla visualizzazione dei vasi che drenano l’adenoma, anche l’esecuzione di prelievi ormonali selettivi. E. Terapia. Il trattamento degli adenomi solitari è strettamente chirurgico. Il risultato di tale terapia è tanto migliore quanto più precoce è la diagnosi, dal momento che in pazienti ipertesi da lungo tempo si sviluppano delle alterazioni renali irreversibili (nefropatia ipopotassiemica). Nelle forme secondarie ad iperplasia surrenalica bilaterale il trattamento chirurgico non è usualmente indicato, in quanto non risolutivo, e il controllo della pressione viene ottenuto mediante l’utilizzazione di una sostanza ad azione antialdosteronica, lo spironolattone. Sindrome di Cushing Si tratta di una malattia endocrina caratterizzata da una eccessiva produzione di cortisolo, ad opera delle cellule della corteccia surrenalica. Le cause di tale iperproduzione sono svariate, e per lo studio di questa patologia si rimanda al capitolo 55, ove sono trattate le affezioni di origine endocrina. Per quanto riguarda il meccanismo responsabile dell’ipertensione in tale malattia, basti ricordare che il cortisolo, pur svolgendo la sua azione principale nella regolazione del metabolismo glucidico, non è privo di effetti mineralattivi, con un’attività del tutto simile a quella dell’aldosterone. Sindromi adrenogenitali Comprendono un gruppo di affezioni congenite caratterizzate da alterazioni del metabolismo degli ormoni sessuali, alterazioni che occorrono a livello del surrene (Cap. 58). Nella corteccia surrenalica vengono prodotti rispettivamente androgeni nella zona reticolata, cortisolo nella zona fascicolata e aldosterone nella zona glomerulosa.
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In questo caso, tuttavia, caratteristica sarà l’assenza di secrezione di androgeni, con mancanza di maturazione sessuale, ipogonadismo, sia nel maschio che nella femmina. Anche nella femmina, infatti, gli androgeni sono indispensabili alla produzione delle sostanze ad azione estrogenica.
Colesterolo
Pregnenolone
DOC
Desossi-cortisolo
Androgeni
Corticosterone Cortisolo Aldosterone
– 11--idrossilasi 17--idrossilasi
Figura 1.5 - Schema semplificato della conversione metabolica del colesterolo nei principali steroidi surrenalici. È indicato il punto sul quale agiscono gli enzimi il cui deficit può comportare ipertensione arteriosa.
Il substrato è costituito dal colesterolo (Fig. 1.5). Le sindromi adrenogenitali sono da attribuirsi a difetti a carico degli enzimi deputati alla sintesi dei diversi ormoni surrenalici. Sono stati descritti almeno cinque diversi tipi di deficit enzimatici, a trasmissione verosimilmente autosomica recessiva, e ciò spiegherebbe la sporadicità della malattia. In presenza di uno qualsiasi dei blocchi enzimatici possibili, si verifica una riduzione della concentrazione di alcuni degli ormoni finali e in particolare, in ciascuna delle forme descritte, di cortisolo. Il cortisolo esercita usualmente un’azione a tipo feed-back negativo sull’ACTH, a sua volta responsabile dell’attivazione della catena biosintetica. Un mancato aumento della concentrazione di cortisolo condiziona una continua produzione di ACTH e quindi uno stimolo continuo alla produzione di ormoni. Essendo tuttavia bloccate, per deficit enzimatico, alcune delle possibili vie metaboliche, i precursori saranno presenti in eccesso e saranno tutti convertiti in quegli ormoni per la cui sintesi non esistono ostacoli (e cioè gli ormoni sessuali maschili). Ai fini dell’ipertensione, due sono i difetti enzimatici rilevanti. • Il deficit di 11--idrossilasi, enzima necessario alla trasformazione del desossi-corticosterone (DOC) in corticosterone e del desossi-cortisolo in cortisolo. In assenza di tale enzima, oltre all’iperproduzione di androgeni, responsabili dei segni di virilizzazione, si avrà anche un accumulo di DOC, sostanza ad azione sodio-ritentiva, e quindi in grado di dare ipertensione, con un meccanismo analogo a quello dell’aldosterone. L’eccessiva produzione di ormoni maschili condizionerà inoltre virilizzazione dei soggetti di sesso femminile. • Il deficit di 17--idrossilasi, che ostacola la sintesi sia del cortisolo che degli androgeni, e consente come unica via metabolica quella che porta a produzione di DOC e aldosterone. L’ipertensione si verifica con un meccanismo del tutto analogo al precedente.
È dunque importante prendere in considerazione tale tipo di ipertensione in soggetti con anomalie dello sviluppo sessuale e alterazioni dei valori pressori ad insorgenza precoce. Acromegalia Responsabile dell’affezione è una produzione eccessiva di ormone somatotropo (GH), secondaria, nella maggior parte dei casi, ad un adenoma ipofisario. Nei casi in cui la malattia insorge in età precoce, quando lo sviluppo fisico non è ancora completato, questa condiziona gigantismo. Nelle forme ad insorgenza nell’età adulta si hanno comunque alterazioni della struttura corporea, che interessano non solo le ossa (cranio, ossa delle mani, dei piedi), ma anche i tessuti molli. L’ipertensione che si riscontra nel 20-50% dei pazienti affetti da acromegalia è verosimilmente da attribuirsi a un aumento del volume plasmatico e a un’aumentata responsività dei vasi all’angiotensina II.
Ipertensioni renali Vengono classicamente suddivise in due gruppi, le ipertensioni renovascolari e le ipertensioni parenchimatose. Ipertensione renovascolare Occorre nel caso in cui l’arteria renale, o uno dei suoi rami principali, siano stenotici. La stenosi serrata provoca una riduzione della pressione di perfusione del rene interessato, con attivazione del meccanismo renina-angiotensina-aldosterone. Questa alterazione è provocata nel 90% dei casi da lesioni aterosclerotiche, per lo più estese dall’aorta e interessanti la parte prossimale delle arterie renali; in questo caso i soggetti più colpiti sono persone anziane. Tuttavia, nel 10% dei casi la stenosi dell’arteria renale è dovuta a un ispessimento della sua parete nel tratto più distale, denominato displasia fibromuscolare, che si verifica più facilmente nei giovani e soprattutto in donne tra i 15 e i 50 anni d’età e che è perciò particolarmente importante perché suscettibile, più che nel caso dell’aterosclerosi, a una correzione mediante ricanalizzazione chirurgica o con angioplastica e posizionamento di stent. La displasia fibromuscolare può interessare l’intima, la media o l’avventizia, ma nel 90% dei casi riguarda la media e, in questo caso, progredisce nel tempo anche se raramente è associata a trombosi locale. Nei più rari casi di interessamento dell’intima o dell’avventizia, al contrario, l’evoluzione verso la dissezione della parete arteriosa o la trombosi sono piuttosto comuni. Non sono note le cause della displasia fibromuscolare.
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A. Diagnosi. Se non complicata, l’ipertensione renovascolare non è distinguibile dal punto di vista clinico dall’ipertensione essenziale e perciò può essere riconosciuta solo con indagini appropriate. Tuttavia, l’esecuzione di queste indagini in tutti gli ipertesi indiscriminatamente non è raccomandabile, per i costi economici e medici (intendendo per tali i possibili effetti negativi di alcuni procedimenti diagnostici). Perciò gli accertamenti vanno eseguiti solamente in ipertesi che presentino delle particolari caratteristiche cliniche, che possono indurre a sospettare un’ipertensione renovascolare. Queste riguardano le caratteristiche dell’ipertensione, l’esame fisico del paziente e alcune anomalie nelle indagini strumentali e di laboratorio. Si deve sospettare una stenosi di un’arteria renale ogni volta che un’ipertensione si instaura repentinamente, soprattutto se in assenza di un’anamnesi familiare significativa per ipertensione essenziale: se il soggetto ha un’età inferiore ai 50 anni si deve sospettare una displasia fibromuscolare, se ha un’età superiore si deve sospettare una lesione aterosclerotica. Visitando il paziente è possibile ascoltare un soffio sull’addome, su un fianco o in entrambe le sedi. Infine, nel caso di un’ipertensione renovascolare è possibile evidenziare ecograficamente un rene più piccolo del controlaterale, o trovare un’iperazotemia altrimenti non spiegata, specialmente se questa si verifica dopo la somministrazione di farmaci ACE-inibitori, o un’ipopotassiemia pure non spiegata. Queste alterazioni di laboratorio sono più probabili se la stenosi di una arteria renale è di natura aterosclerotica, dato che in presenza di questa alterazione è più facile che qualche anomalia vascolare colpisca anche il rene controlaterale rispetto a quello che è responsabile dell’ipertensione. L’ipopotassiemia è spiegata con un aumento della produzione di renina e della secrezione di aldosterone; tuttavia, il dosaggio della renina plasmatica è di scarso affidamento in questa condizione, dato che, una volta che l’ipertensione si è stabilita a seguito della stenosi di un’arteria renale, la produzione di renina tende a diminuire. Quando si è deciso di procedere agli accertamenti, i primi da eseguire sono quelli non invasivi. Prima di tutto una valutazione del flusso nelle arterie renali con la tecnica detta della ultrasonografia Duplex, che mette a profitto la riflessione di ultrasuoni da parte del sangue in movimento. Questa è una tecnica totalmente innocua e poco costosa, ma molto dipendente dall’abilità dell’operatore e che può perciò dare dei falsi negativi. Più affidabili sono dei procedimenti radiologici, come un’angiografia con tomografia computerizzata, nella quale questa tecnica di visualizzazione a strati delle strutture corporee è combinata con un’evidenziazione dei vasi arteriosi, grazie all’iniezione endovenosa di un mezzo di contrasto iodato. Quest’ultimo, però, può essere nefrotossico e può precipitare un’insufficienza renale. Da questo punto di vista più sicura appare la risonanza magnetica con l’impiego di gadolinio come mezzo di contrasto. Il gadolinio, infatti, non è nefrotossico e può essere adoperato in pazienti con insufficienza renale. L’unico limite di questa metodica è che risulta disturbata se in un’arteria renale è già stato posto uno stent (tubi-
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cino rigido che serve a mantenere adeguatamente pervio il vaso sanguigno). Una volta che una stenosi di un’arteria renale è stata documentata, conviene passare alla valutazione dell’entità della stenosi e questo viene fatto con tecniche radioisotopiche. Ossia, viene rilevata la variazione nel tempo della radioattività sulle regioni renali dopo iniezione di composti contenenti tecnezio radioattivo, un elemento con brevissima vita media e che perciò non pone problemi di esposizione a radioattività. Con queste tecniche è possibile calcolare il filtrato glomerulare dei singoli reni e valutare se esiste una sua riduzione unilaterale. Infine, in vista di procedimenti correttivi, possono essere impiegate anche tecniche invasive. L’arteriografia renale selettiva si ottiene mediante cateterizzazione, attraverso l’arteria femorale e quindi l’aorta, dell’arteria renale; viene quindi iniettato in questa sede un mezzo di contrasto iodato, mezzo che consente la visualizzazione diretta di eventuali alterazioni anatomiche in senso stenotico. Il mezzo di contrasto può altresì venire iniettato per via venosa, per ottenere una cavografia, o meglio una flebografia selettiva: il catetere può cioè venire sospinto sino all’imbocco delle vene renali, ove è possibile effettuare dei prelievi ematici, allo scopo di ottenere dosaggi di renina distinti dal sangue refluo dalle due vene. B. Terapia. Da quando esistono i farmaci inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina (ACE-inibitori) la terapia dell’ipertensione renovascolare può essere anche solamente medica. Nei pazienti con displasia fibromuscolare generalmente si ha un buon controllo della pressione arteriosa con il solo impiego degli ACEinibitori. La questione è più controversa nel caso in cui la stenosi di un’arteria renale sia dovuta ad aterosclerosi, dato che questi farmaci riducono la pressione a valle della stenosi e che perciò possono indurre insufficienza renale acuta quando entrambe le arterie renali siano interessate, evenienza non impossibile in caso di aterosclerosi, che tende a essere una malattia diffusa. Perciò, sia in molti casi di lesioni aterosclerotiche, che nelle forme di displasia fibromuscolare resistenti alla terapia medica, possono essere considerate soluzioni invasive di rivascolarizzazione. In passato era largamente adoperato l’intervento di bypass unilaterale aorto-renale, ossia si stabiliva una connessione tra l’aorta addominale e l’arteria renale interessata, a valle della stenosi. Attualmente, in molti centri questa tecnica è stata sostituita con bypass extra-anatomici, nei quali il bypass origina da vasi differenti dall’aorta, come i tronchi celiaco o mesenterici. Più semplici, quando possibili, sono le tecniche percutanee nelle quali, mediante puntura dell’arteria femorale, un catetere viene inserito nell’arteria renale stenotica ed impiegato o per un’angioplastica, ossia una dilatazione passiva dell’arteria stenotica mediante gonfiamento di un palloncino, o per l’inserimento di uno stent, o per entrambi i procedimenti. I casi nei quali l’ipertensione può essere considerata guarita dopo questi trattamenti sono in numero superiore nei casi di displasia fibromuscolare che in
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1 - IPERTENSIONE ARTERIOSA
quelli nei quali la stenosi dell’arteria renale è dovuta ad aterosclerosi (60% verso < 30%). Esiste, tuttavia, la possibilità di una recidiva dell’ipertensione per una restenosi dell’arteria che era stata trattata. Ipertensione parenchimatosa Con il termine di ipertensioni parenchimatose renali vengono descritte le alterazioni pressorie legate ad una patologia primitiva renale, cioè le ipertensioni in corso di nefropatia. Il meccanismo responsabile dell’innalzamento della pressione arteriosa in questi pazienti appare complesso, e sono stati invocati diversi fattori responsabili. In prima istanza, è possibile che si instauri una situazione del tutto simile a quella dell’ipertensione renovascolare, per interessamento, invece che dell’arteria renale, di numerose arteriole afferenti, a livello dell’apparato iuxtaglomerulare, nelle sedi in cui il parenchima renale è interessato dall’evento patologico. Alternativamente, è stato ipotizzato che il rene danneggiato non sia più in grado di produrre sostanze ad azione ipotensiva, tra le quali vanno citate per prime le prostaglandine e la bradichinina o, al contrario, possa produrre in eccesso sostanze ad azione ipertensiva, eventualmente diverse dalla renina. Un’altra ipotesi, che ha recentemente ricevuto alcune conferme sperimentali, chiama in causa come responsabili dell’ipertensione un’alterazione della capacità di escrezione del sodio da parte del rene e la conseguente ritenzione idrica. Le più comuni patologie renali in grado di indurre aumento dei valori pressori sono numerose. A. Glomerulonefrite acuta. Entrambi i reni, acutamente, sono interessati dall’evento infiammatorio, che comporta una riduzione drastica della funzione di filtrazione e quindi dell’escrezione di acqua e sodio. Si parla in questo caso di ipertensione reno-priva, in quanto secondaria ad un mancato funzionamento renale. B. Glomerulonefrite cronica. Questa condizione porta ad una progressiva riduzione del numero dei glomeruli renali funzionanti. È questa la condizione nella quale i possibili meccanismi responsabili dell’ipertensione sono maggiormente discussi. Verosimilmente, uno o più dei meccanismi sopracitati, in maniera maggiore o minore a seconda delle diverse situazioni, può concorrere all’instaurarsi dell’ipertensione. C. Pielonefrite cronica. L’infiammazione interstiziale che si ha in questa condizione può coinvolgere le diramazioni dell’arteria renale inducendo processi endoarteritici che agiscono con meccanismi analoghi a quelli dell’ipertensione renovascolare. D. Nefropatia diabetica. È una complicanza della malattia diabetica, che può presentarsi con differenti tipi di lesioni: glomerulosclerosi (malattia di Kimmelstiel-Wilson), arteriolosclerosi delle arteriole afferenti
ed efferenti, aterosclerosi dell’arteria renale, depositi peritubulari di glicogeno. E. Nefropatia da analgesici. Secondaria all’utilizzazione prolungata e a dosi elevate di farmaci contenenti fenacetina. È stata descritta con notevole frequenza in Australia. Tumori secernenti renina Si tratta di una rara patologia che interessa le cellule dell’apparato iuxtaglomerulare, le quali possono andare incontro a crescita neoplastica, generalmente benigna, e secernere aumentate quantità di renina (emangiopericitomi).
Altre forme di ipertensione secondaria Ipertensione neurogena Talvolta l’aumento dei valori pressori è dovuto ad un’alterata interpretazione delle afferenze barocettive a livello del sistema nervoso centrale. Ciò può verificarsi in corso di malattie organiche che interessino l’encefalo quali traumi, neoplasie e in tutte le condizioni in grado di provocare un aumento della pressione intracranica. Coartazione aortica Si tratta di una malformazione congenita, caratterizzata da una stenosi che ha luogo subito al di sotto dell’arco aortico. Il restringimento del tronco arterioso è situato a valle delle diramazioni arteriose che portano sangue all’encefalo e agli arti superiori (arteria anonima, carotide comune di sinistra, arteria succlavia di sinistra) (Fig. 1.6). L’aumento della pressione arteriosa è dunque rilevabile agli arti superiori, mentre i distretti corporei irrorati da vasi a partenza al di sotto della stenosi presentano livelli pressori ridotti. Tra i meccanismi responsabili dell’insorgenza di questa ipertensione distrettuale vanno citati un aumento delle resistenze, provocato dalla coartazione stessa, ed un possibile meccanismo analogo a quello dell’ipertensione renovascolare, per ridotta pressione di perfusione renale. La diagnosi di questa affezione è semplice (esame obiettivo, che dimostra fra l’altro assenza o la forte riduzione dei polsi femorali, radiografia del torace); è importante prendere in considerazione questa eventualità, particolarmente nei soggetti giovani, e misurare i livelli della pressione agli arti inferiori, che ha valori molto bassi. Pre-eclampsia Questa è una forma particolarmente importante di ipertensione che può insorgere nel terzo trimestre di gravidanza delle primigravide e che è accompagnata da sofferenza di vari organi e sistemi: rene, con insorgenza di proteinuria ed edemi (si veda il Cap. 35); sistema nervoso, con iniziale iperreflessia ed eventual-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
A. Coartazione dell’aorta
I II III IV V
III VI VII VIII IX X
B. Tipo postduttale (adulto)
D. Arteria intercostale sollevata dalla costa per dimostrare l’erosione del solco costale operata dal vaso tortuoso
C. Tipo preduttale (bambino; 1 mese)
Figura 1.6 - Coartazione istmica dell’aorta e circoli collaterali.
mente convulsioni (eclampsia); sistema emocoagulativo, con coagulazione intravascolare disseminata (si veda il Cap. 52). La pre-eclampsia può perciò essere anche notevolmente grave e mettere in pericolo la vita della paziente. La patogenesi di questa condizione è ignota, ma un dato certo è che la malattia è determinata da qualche fattore prodotto dalla placenta, dato che, dopo il parto, l’ipertensione e le altre alterazioni morbose regrediscono. Sul meccanismo che determina la pre-eclampsia esistono alcuni indizi. Un’opinione largamente diffusa è che supposti fattori placentari agiscano sulle cellule endoteliali. Questa idea sembra confortata dal fatto che le lesioni anatomopatologiche nei reni sono caratterizzate da rigonfiamento dell’endotelio dei capillari glomerulari, con riduzione o addirittura obliterazione del loro lume. Esistono, d’altro canto, modelli animali che suggeriscono che nella preeclampsia sia ridotta la produzione di ossido nitrico, ossia, del fattore vasodilatatore di origine endoteliale. Nelle donne affette da questa condizione la dimostrazione di un meccanismo simile è però controversa.
È stato anche documentato che nelle donne affette da pre-eclampsia esiste un evidente incremento del tono del sistema simpatico, ma non è stato spiegato da che cosa questo dipenda. Nel 1997 è stato dimostrato che, nel siero sanguigno di donne affette da questa condizione, esiste un significativo aumento della concentrazione di due proteine chiamate rispettivamente “attivina A” e “inibina A” e che sono molto verosimilmente di origine placentare. Ma, posto che queste proteine, o altre di origine placentare, siano responsabili direttamente o indirettamente dei danni endoteliali e della iperattività simpatica, che cosa determina la loro iperproduzione nelle donne che sviluppano la pre-eclampsia? Una teoria largamente diffusa è che questo dipenda da un difetto della maturazione placentare, dovuto a mancata invasione del trofoblasto da parte delle arterie spirali, con conseguente ipossiemia placentare. Questa teoria è molto suggestiva perché stabilirebbe un parallelismo tra rene ischemico e placenta ischemica nella secrezione di sostanze che in ultima analisi determinano ipertensione arteriosa. Tuttavia, questo meccanismo patogenetico è ancora oggetto di discussione. Dal punto di vista clinico, la pre-eclampsia deve essere sospettata in donne nel terzo trimestre di gravidanza che presentano persistentemente valori pressori di almeno 140/85 mmHg. La terapia è quella solita dell’ipertensione (ma senza l’impiego di diuretici) e delle condizioni associate. Dato che la pre-eclampsia si risolve con il parto, questo deve essere anticipato nei casi più gravi. Policitemia L’aumento numerico dei globuli rossi provoca ipertensione con due meccanismi. Si ha infatti sia un’espansione della massa circolante che un incremento della viscosità ematica. Ipertensione da farmaci Numerosi sono i farmaci che, in via diretta o indirettamente, sono in grado di indurre ipertensione. Rappresentano una causa piuttosto frequente di ipertensione secondaria ed è opportuno documentarne l’assunzione al momento dell’anamnesi. • Corticosteroidi: sono dotati di attività mineralattiva, di entità maggiore o minore in rapporto ai diversi tipi di molecole di sintesi. Il meccanismo è analogo a quello responsabile della sindrome di Cushing. • Carbenoxolone: si tratta di un farmaco antiulceroso, ad attività molto simile, anche se inferiore per quanto concerne la potenza, all’aldosterone. • Liquirizia: l’acido glicirrizico, in essa contenuto, è dotato di attività aldosteronica. • Inibitori delle monoaminossidasi (I-MAO): utilizzati nella terapia delle sindromi depressive, possono scatenare l’attività ipertensiva di amine assunte con la dieta (tiramina). Tali sostanze sono infatti presenti in alcuni tipi di formaggi fermentati. Nu-
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merosi sciroppi per la tosse, inoltre, contengono un’amina, la fenilpropolamina, anch’essa ipertensiva se assunta in concomitanza agli I-MAO. • Contraccettivi orali contenenti estrogeni possono, non infrequentemente, indurre ipertensione. Il fenomeno sembra legato ad un’attivazione, per aumentata sintesi dei precursori a livello epatico, del sistema renina-angiotensina-aldosterone.
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Una crisi ipertensiva può infine essere scatenata dalla brusca sospensione di farmaci ipotensivi. La clonidina, per esempio, può ridurre i livelli pressori con un’azione a livello centrale associata a riduzione della produzione periferica di catecolamine. Il ripristino di livelli elevati di catecolamine, che fa seguito alla sospensione repentina del farmaco, può essere causa di una crisi ipertensiva del tutto simile a quella propria del feocromocitoma.
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C A P I T O L O
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IPOTENSIONE ARTERIOSA M. C. BARBIERI
Viene definita ipotensione arteriosa una riduzione dei livelli pressori al di sotto dei valori medi che si rilevano nella maggior parte dei soggetti apparentemente sani. Valori di pressione sanguigna al di sopra di 140/90 mmHg comportano un rischio aumentato di contrarre malattie a carico dell’apparato cardiovascolare; per contro, il riscontro, in assenza di malattie associate, di valori pressori anche alquanto inferiori ai sopracitati, ad esempio di una pressione sistolica intorno ai 100 mmHg, non si accompagna, usualmente, ad alcun sintomo o conseguenza clinica rilevante, e appare invece correlato a una maggiore spettanza di vita. Variazioni cospicue della pressione arteriosa, specie se repentine, sono peraltro responsabili di quadri clinici importanti, quali la sincope e lo shock.
Eziopatogenesi I fattori in grado di provocare una riduzione della pressione sanguigna sono i medesimi che, in senso inverso, condizionano ipertensione arteriosa. Tali fattori sono già stati esaminati nel capitolo 1 a proposito dei meccanismi di controllo della pressione, al quale si rimanda per un riesame degli aspetti fisiopatologici. Dei fattori eziopatogenetici, i più rilevanti nel condizionare ipotensione arteriosa sono rappresentati da: • gettata cardiaca (che, a sua volta, è in rapporto alla forza di contrazione e alla frequenza cardiaca); • volume circolante; • resistenze periferiche. L’insorgenza di ipotensione può dunque essere la conseguenza di alterazioni a ciascuno dei seguenti livelli. A. Riduzione della gettata cardiaca. Può essere determinata da varie cause. • Una riduzione della forza di contrazione del muscolo cardiaco, per diminuita efficienza del miocardio stes-
so: le affezioni cardiache in grado di provocare un tale effetto sono numerose e, prima fra tutte, va citata la cardiopatia ischemica nella sua manifestazione più importante, l’infarto massivo del miocardio. • Alterazioni del ritmo cardiaco, sia nel senso di un aumento eccessivo che di una riduzione a livelli estremi della frequenza. Le tachicardie e le tachiaritmie al di sopra dei 200 battiti/min non consentono un adeguato riempimento delle camere cardiache tra una contrazione e la successiva, per accorciamento delle diastole, con conseguente riduzione della gettata cardiaca e, quindi, della pressione arteriosa. Anche una frequenza cardiaca al di sotto di 35-40 battiti/min condiziona una caduta importante della gettata: quest’ultima è infatti data dal prodotto della gettata pulsatoria per la frequenza stessa. B. Diminuzione della massa circolante. La causa più evidente di riduzione della massa circolante è rappresentata dalle emorragie, siano esse interne o esterne. Esistono tuttavia numerose altre condizioni in grado di determinare una riduzione del volume plasmatico e, in particolare, la perdita di acqua e/o di sali, la quale può avvenire per via renale, gastroenterica, cutanea. A livello renale, come noto, la perdita di sodio o di altre sostanze osmoticamente attive si accompagna a quella di acqua. In questi casi la diminuzione di liquidi riguarda non soltanto la massa circolante, ma tutto il dipartimento extracellulare. La perdita di acqua per via renale può essere secondaria a varie cause. • Una eliminazione del sodio per deficit degli ormoni mineralattivi deputati al riassorbimento di questo catione: avremo dunque ipotensione nel caso di ipocorticosurrenalismo (Cap. 58). Oltre alla ben nota malattia di Addison, esistono altre condizioni, seppure più rare, in grado di determinare ipotensione arteriosa con questo meccanismo: si tratta, per esempio, delle sindromi adrenogenitali (Cap. 58). La forma più comune di questa sindrome è caratterizzata da un
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deficit dell’enzima C21, idrossilasi, che condiziona una ridotta sintesi tanto di cortisolo quanto di ormoni mineralattivi. • Diabete mellito. La presenza a livello del tubulo renale di glucosio in eccesso, dotato di attività osmotica, determina poliuria e, quindi, disidratazione in tutto il compartimento extracellulare. • Diabete insipido. La perdita di liquidi a livello renale è in questo caso secondaria o ad una ridotta liberazione di ADH a livello diencefalo-ipofisario, o ad un’alterata sensibilità renale all’ormone stesso: questo provoca un mancato riassorbimento di acqua e, di conseguenza, ipovolemia. A livello gastrico, una riduzione della massa circolante può essere determinata da vomito e/o diarrea importanti, cui si associa perdita di acqua e di sali, particolarmente grave se non si provvede tempestivamente a un’adeguata reintroduzione di liquidi. A livello cutaneo è soprattutto in occasione di ustioni estese che si ha perdita di acqua, per evaporazione: la temperatura corporea di 37 °C è infatti sufficiente, qualora la superficie cutanea sia gravemente lesa, a provocare una dispersione di notevoli quantità di liquidi. Si è già ricordato, a proposito delle emorragie, che queste possono determinare ipotensione non solamente quando sono esterne, ma anche quando si raccolgono all’interno, in una cavità naturale del corpo (pleura: emotorace; peritoneo: emoperitoneo) o in sedi particolari (per es., in corrispondenza di fratture). Lo stesso può avvenire quando copiosi versamenti non ematici si raccolgono in cavità naturali, particolarmente nel peritoneo (ascite in corso di cirrosi epatica, di pancreatite). C. Riduzione delle resistenze periferiche. Il tono delle arteriole periferiche è sotto il controllo del sistema autonomo vegetativo. Quando un soggetto passa dalla posizione clinostatica a quella ortostatica, per motivi di gravità in un primo momento si ha un aumento della capacitanza delle vene degli arti inferiori e una riduzione del ritorno venoso al cuore. Questa ridotta pressione di perfusione viene percepita dai pressocettori dell’arco aortico e del seno carotideo e determina una pronta attivazione del simpatico. La stimolazione delle terminazioni adrenergiche a livello cardiaco (recettori ) provoca un aumento della frequenza e della forza di contrazione del miocardio, mentre a livello delle arteriole (recettori ) si ha costrizione. Un tale meccanismo consente di mantenere adeguati livelli pressori in tutti i distretti in ogni postura. In numerosi soggetti giovani, particolarmente di sesso femminile, esiste una tendenza ad avere valori di pressione costantemente bassi, con pressione sistolica compresa tra i 110 e i 90 mmHg: si tratta in genere di un modesto calo del tono vasomotore simpatico, di scarsa rilevanza clinica. Tali pazienti possono lamentare una certa sensazione di astenia, sonnolenza, facile stancabilità, più spiccate al mattino. Per contro, esisto-
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
no soggetti in cui i fenomeni ipotensivi, al passaggio alla stazione eretta, sono importanti e tali da condizionare vertigini e, in alcune occasioni, sincope. Usualmente l’attivazione dei meccanismi omeostatici è molto rapida e comporta alterazioni della pressione soltanto minime: al passaggio in ortostatismo si assiste generalmente ad una riduzione della pressione sistolica non superiore ai 10 mmHg, prontamente corretta. I soggetti in cui tali meccanismi di controllo sono difettosi sono affetti dalla cosiddetta ipotensione ortostatica. Il disturbo può essere la conseguenza di alterazioni a carico del sistema autonomo vegetativo, sia centrali che periferiche, ma più spesso si tratta di alterazioni di origine aterosclerotica, di placche ateromasiche a livello dell’arco aortico, le quali rendono i pressocettori largamente insensibili alle variazioni del flusso sanguigno. I pazienti hanno generalmente età avanzata, sono più spesso uomini, in cui i disturbi tendono a divenire progressivamente più seri. Per contro, affezioni neurologiche e non, di diversa natura, tra le quali vanno incluse tutte quelle in grado di provocare, a qualsiasi livello, un’interruzione delle vie sinaptiche deputate al controllo del tono vasomotore, possono manifestarsi a qualsiasi età, e in questo caso le caratteristiche cliniche delle diverse sindromi indirizzano alla diagnosi della malattia di base. Da ultimo ricordiamo che la somministrazione di sostanze farmacologiche in grado di modulare le funzioni del sistema vegetativo può essere responsabile di ipotensione ortostatica, con quadri spesso conclamati, fino allo stato di shock.
SINCOPE Viene definita sincope una brusca, ma transitoria, perdita di coscienza causata da diminuzione dei valori pressori, tale da provocare una diffusa ischemia del cervello. Si dice invece lipotimia il quadro determinato da una riduzione di flusso meno marcata: si manifesta con senso di debolezza generale, obnubilamento visivo e ottundimento sensoriale. I meccanismi in grado di causare sincope sono di fatto gli stessi esaminati nel paragrafo precedente riguardante l’eziopatogenesi dell’ipotensione. Ricordiamo, di seguito, le cause più comuni di sincope. A. Cause neurogene. 1. Sincope vaso-vagale: la forma più comune di sincope o, più spesso, di semplice lipotimia, nelle persone altrimenti sane, riconosce un meccanismo neurogeno mediato dal vago, e scatenato da sensazioni, le più varie, più spesso emozionali (ansia, stress, dolore intenso, ecc.). Può derivare da un precedente aumento del tono simpatico cui consegue la stimolazione di alcuni meccano-recettori posti nella parete del ventricolo sinistro. Questi attivano un riflesso vagale che induce vasodilatazione e bradicardia.
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Si ha, una riduzione delle resistenze arteriolari periferiche, cui non corrisponde un aumento ma piuttosto una diminuzione della frequenza cardiaca. Assumere la posizione sdraiata, meglio se con gli arti inferiori sopraelevati, è sufficiente a ripristinare il flusso cerebrale e a risolvere il quadro. 2. Sindrome del seno carotideo: si verifica più comunemente in persone anziane, con alterazioni di natura aterosclerotica dei pressocettori del seno carotideo; in questi pazienti, stimolazioni anche banali, quali quelle che possono verificarsi per la pressione del colletto o del rasoio, possono innescare una risposta vagale a livello cardiaco oltre che arteriolare, le cui conseguenze sono del tutto analoghe a quelle descritte per la sindrome vaso-vagale. Si tratta di una forma piuttosto rara. 3. Ipotensione ortostatica: tutte le forme di ipotensione ortostatica (si veda il paragrafo precedente) di particolare gravità possono condizionare una riduzione seria del flusso sanguigno cerebrale cui concomita sincope. B. Cause cardiache. Rappresentano la forma più pericolosa di sincope in quanto segno di profonde alterazioni della funzione cardiaca, le quali provocano una brusca riduzione della gettata cardiaca. La causa più comune è rappresentata dalle aritmie, per aumento o riduzione estrema della frequenza cardiaca. Tra queste, l’instaurazione di un blocco atrioventricolare completo è quella che conduce ai ripetuti episodi sincopali noti come sindrome di Morgagni-Adams-Stokes. Altre cause relativamente frequenti di sincope di origine cardiaca per ridotta gettata sono rappresentate dall’infarto massivo del miocardio, dalla stenosi dell’aorta, sia valvolare che subaortica ipertrofica idiopatica. Sincopi possono altresì verificarsi per una brusca interruzione della circolazione intracardiaca. Si tratta di forme più rare, rappresentate essenzialmente dal mixoma atriale e dal trombo a palla. Il mixoma atriale è un raro tumore benigno della parete dell’atrio, in grado di occludere l’ostio atrioventricolare, con concomitante blocco della circolazione sanguigna. Per il trombo atriale a palla il meccanismo ipotensivo è del tutto analogo a quello del mixoma. Particolare attenzione meritano alcune anomalie congenite, geneticamente determinate, che provocano, in soggetti per altri versi apparentemente sani, una predisposizione a sviluppare episodi di fibrillazione ventricolare o di torsione di punta. Tra questi un particolare rilievo ha la sindrome del Q-T lungo (Cap. 7). C. Diagnosi. È importante diagnosticare la causa di una sincope perché la prognosi varia moltissimo a seconda che questa derivi da una causa neurogena o cardiogena. Nel secondo caso, e soprattutto nelle forme nelle quali si possono sviluppare aritmie, il rischio di morte improvvisa è rilevante (circa 10% di mortalità a 6 mesi). Al contrario, la sincope vaso-vagale non comporta pericoli. È perciò importante che ogni paziente che presenta una sincope venga esaminato accuratamente ed esegua un elettrocardiogramma.
Tilting test Il tilting test (dall’inglese “to tilt”: inclinare) è una prova sempre più in uso impiegata dai cardiologi nell’ambito della diagnostica differenziale delle sincopi di natura da determinare. È un test di tipo provocativo e serve per smascherare la sincope di natura vaso-vagale. Il termine tilting è dovuto al fatto che la prova viene effettuata ponendo il paziente su un lettino inclinato di 60° (con la testa in su). Durante la prova viene effettuata una registrazione periodica dell’elettrocardiogramma e un monitoraggio della pressione arteriosa. Il risultato che si vuole ottenere è quello di indurre un progressivo sequestro di sangue negli arti inferiori con una riduzione del ritorno venoso al cuore. Nel soggetto normale la riduzione del ritorno venoso al cuore determina un aumento riflesso del tono simpatico. L’aumento del tono simpatico si manifesta con un incremento della frequenza cardiaca e delle resistenze vascolari periferiche. L’aumento della frequenza cardiaca e delle resistenze vascolari consente di mantenere la perfusione cerebrale in un ambito ottimale. Nei pazienti che manifestano un tilting test positivo, la riduzione del ritorno venoso al cuore mette in atto l’attivazione di alcuni meccanocettori posti nella parete del ventricolo sinistro. Questi meccanocettori, a loro volta, attivano un riflesso vagale. Il riflesso vagale induce vasodilatazione e bradicardia. L’ipovolemia relativa (provocata dalla posizione inclinata di 60°), la bradicardia e la vasodilatazione provocano un insufficiente apporto di sangue all’encefalo e la conseguente sincope. Il sintomo regredisce rapidamente riportando il lettino in orizzontale.
SHOCK Viene definito come shock uno stato in cui una riduzione importante della pressione arteriosa determina un’ipoperfusione grave dei tessuti la quale, se prolungata, conduce ad alterazioni irreversibili delle funzioni cellulari. È importante sottolineare come lo stato di shock sia definito essenzialmente dal danno metabolico cellulare, secondario alla ridotta irrorazione sanguigna.
Classificazione e fisiopatologia Si è visto che la pressione arteriosa è determinata dal prodotto della gettata cardiaca per le resistenze periferiche (Cap. 1). Perciò un’ipotensione tale da determinare shock si ha quando o cala la gettata cardiaca o diminuiscono le resistenze periferiche in misura tale da non potere essere compensate dai meccanismi di controllo della pressione arteriosa. Una classificazione fisiopatologica dello shock è presentata nella tabella 2.1.
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32 Tabella 2.1 - Classificazione fisiopatologica dello shock. Diminuzione della gettata cardiaca • Shock cardiogeno – Miopatico (infarto, cardiomiopatia dilatativa) – Meccanico (insufficienza mitralica grave, difetti del setto interventricolare, stenosi aortica, cardiomiopatia ipertrofica) – Aritmico • Ostruzione circolatoria – Tamponamento pericardico – Embolia polmonare massiva – Mixoma atriale, trombo a palla – Pneumotorace a valvola • Shock ipovolemico – Postemorragico – Da disidratazione (vomito, diarrea, poliuria del diabete mellito e del diabete insipido) – Secondario a ustioni Diminuzione delle resistenze periferiche (shock distributivo) • Shock settico • Shock anafilattico • Shock neurogeno
Come si vede, una causa importante di riduzione della gettata cardiaca è rappresentata da eventi patologici riguardanti il cuore (shock cardiogeno), sia interessanti l’efficienza del miocardio (per es., infarto), sia dovuti ad anomalie meccaniche intracardiache (per es., vizi valvolari), sia conseguenti ad aritmie (estrema bradicardia, estrema tachicardia). Ma anche se il cuore è integro, la gettata cardiaca si riduce quando è notevolmente diminuito il precarico. Questo può dipendere da ostacoli meccanici che impediscono la dilatazione delle cavità cardiache (come nel tamponamento pericardico) o da ostacoli al ritorno venoso verso le cavità cardiache di sinistra (embolia polmonare massiva) o di destra (ipertensione intratoracica nel pneumotorace valvolare). Infine, e questa è una comunissima causa di shock, il precarico può essere diminuito per una riduzione della massa circolante o a seguito di emorragie, o per disidratazione conseguente a perdita di acqua e sodio (shock ipovolemico). In tutti questi casi, per effetto dei meccanismi di controllo della pressione arteriosa di cui si è parlato nel capitolo 1, si ha una vasocostrizione periferica. Questa è di qualche utilità nel preservare la circolazione cerebrale e quella coronarica, ma non riesce a compensare la diminuzione della pressione ed aggrava la scarsa perfusione degli altri tessuti. Nello shock da diminuzione delle resistenze periferiche si ha una ridistribuzione del sangue che si accumula nei vasi venosi e perciò questo viene anche detto shock distributivo. In questo caso più fattori possono coesistere, come succede nello shock settico nel quale alla vasodilatazione periferica consegue un aumento della gettata cardiaca che tuttavia è inadeguata (si veda in seguito) per un effetto nocivo dello stato settico non solo sui vasi periferici ma anche sul miocardio. Qualcosa di analogo succede anche nello shock anafilattico. Nello shock neurogeno, gli stessi fattori che provocano
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la vasodilatazione periferica sono responsabili della mancata iperattività cardiaca. Perciò si può concludere che la diminuzione delle resistenze periferiche provoca shock quando contemporaneamente il cuore non riesce a incrementare la sua gettata in maniera compensatoria. Questa classificazione fisiopatologica deve essere considerata in maniera non troppo rigida. Infatti, esistono condizioni nelle quali più meccanismi di shock sono operanti. Per esempio, negli stati avanzati dello shock settico e dello shock anafilattico un’aumentata permeabilità capillare può provocare ipovolemia e diminuzione della gettata cardiaca. I riferimenti fisiopatologici sono però utili per l’interpretazione di alcuni dati clinici. Abbiamo visto che la vasocostrizione periferica è una caratteristica comune degli shock con diminuzione della gettata cardiaca. Questa vasocostrizione fa sì che la cute, soprattutto a livello delle estremità, sia fredda, pallida e talora vagamente marezzata con chiazze cianotiche. Questo manca invece quando l’elemento patogenetico dominante è la vasodilatazione periferica, e in questi casi, se non si verifica una ipovolemia, le estremità non sono fredde e pallide e si parla di “shock caldo”. Altri dati clinici utili sono di rilievo meno immediato e richiedono procedimenti invasivi che sono oramai divenuti correnti nei reparti di terapia intensiva. Questi sono la misurazione della pressione venosa centrale (PVC) e della cosiddetta “pressione di incuneamento”. L’introduzione, attraverso una vena periferica, di un catetere spinto fino a livello intratoracico e la misurazione della PVC sono oggi pratiche correnti in clinica. La PVC così misurata, in una grande vena della circolazione generale, riflette la pressione di riempimento delle cavità cardiache destre e normalmente ha valori compresi tra 5 e 8 mmHg (7-11 cm H2O). La misurazione della pressione di riempimento delle cavità cardiache sinistre è più complicata, ma può essere effettuata con il catetere di Swan-Ganz. È questo un catetere cardiaco con un piccolo manicotto gonfiabile a palloncino in punta. Il catetere è introdotto, partendo da una vena periferica, nel ventricolo destro prima e in seguito nell’arteria polmonare. A questo punto il manicotto viene gonfiato e il catetere spinto avanti finché il palloncino occlude uno dei rami dell’arteria polmonare. La pressione così misurata dal catetere è uguale a quella che si ha a valle, nelle vene nelle quali confluiscono i rami non occlusi della circolazione polmonare. Questa pressione, cosiddetta di “incuneamento” (traduzione non del tutto perfetta del termine inglese “wedge”), può essere considerata indicativa della pressione di riempimento delle cavità cardiache sinistre e normalmente è intorno a 12 mmHg (16 cm H2O). Anche questo parametro è molto importante nelle valutazioni fisiopatologiche in corso di shock, perché le funzioni ventricolari di sinistra e di destra possono essere compromesse in misura differente. Occorre ancora una volta ricordare che la pressione in un distretto vascolare è rappresentata dal prodotto del flusso per le resistenze. Per quanto riguarda le grandi vene intratoraciche, il flusso (quantità di sangue in arrivo) è essenzialmente determinato dalla gettata cardiaca,
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mentre le resistenze (difficoltà ad alloggiare il sangue in arrivo) sono largamente influenzate dalla capacità delle cavità cardiache ad accogliere sangue in diastole (quelle destre per la circolazione generale, quelle sinistre per la circolazione polmonare). È intuitivo che questa capacità si riduce nel caso aumenti la quantità di sangue che residua in queste cavità al termine della sistole; quindi un inefficiente svuotamento cardiaco aumenta le resistenze. Un altro importante fattore che influenza le resistenze è costituito dal tono venoso diastolico. Se il tono venoso è aumentato, il lume delle vene si restringe, vale a dire che la capacitanza del sistema venoso è diminuita; allora una maggiore frazione della massa sanguigna deve essere contenuta nelle cavità cardiache in diastole: la resistenza al loro riempimento sarà perciò aumentata. Se il tono venoso è diminuito (e perciò la capacitanza del sistema venoso è aumentata), risulta minore la frazione della massa sanguigna contenuta nelle cavità cardiache in diastole: la resistenza al loro riempimento sarà perciò diminuita. Se lo shock è causato da una brusca diminuzione della gettata cardiaca si ha, per intervento dei barocettori, una notevole vasocostrizione periferica ed un aumento del tono venoso con ridistribuzione del sangue verso i distretti venosi centrali e le cavità cardiache. Queste ultime però, per il motivo che ha determinato lo shock, riusciranno a svuotarsi meno che di norma in sistole e perciò presenteranno una maggiore resistenza al loro riempimento in diastole. Perciò un aumento della “pressione di incuneamento” significa che esistono difficoltà nello svuotamento del ventricolo sinistro e questo è tipico dello shock cardiogeno. Un aumento della PVC significa invece che le difficoltà riguardano il ventricolo destro e questo si verifica negli stati di ostruzione circolatoria. In quest’ultimo caso l’aumento della PVC è isolato (e cioè non accompagnato da aumento della pressione di incuneamento) quando l’ostruzione è da embolia polmonare massiva. Infine, tanto la PVC che la pressione di incuneamento sono basse nello shock ipovolemico e non sono mai aumentate (possono essere ridotte o normali) nei vari casi di shock distributivo. Perciò queste valutazioni emodinamiche possono essere utili nella diagnosi delle cause di shock.
Eziopatogenesi A. Shock da diminuzione della gettata cardiaca. 1. Shock cardiogeno. La causa più comune è rappresentata dall’infarto del miocardio, con conseguente riduzione dell’efficienza di pompa ventricolare (Cap. 7). Possono essere responsabili di shock cardiogeno alterazioni importanti del ritmo (Cap. 6). 2. Shock da ostruzione circolatoria. Si tratta di situazioni in cui esiste un ostacolo alla circolazione del sangue nell’albero arterioso, mentre la funzione del miocardio stesso non è compromessa.
• Tamponamento pericardico (Cap. 12). La presenza di abbondante liquido nella cavità pericardica (in una quantità variabile in rapporto alla velocità di formazione del versamento stesso) impedisce la normale attività cardiaca, per impossibilità del miocardio a distendersi durante la diastole. • Embolia polmonare (Cap. 13). L’occlusione di un ramo principale delle arterie polmonari comporta il blocco della circolazione in una porzione considerevole (fino alla metà della stessa nel caso di occlusione di una delle due arterie polmonari) dell’albero arterioso. • Trombo a palla, mixoma. Qualora un trombo a palla o un mixoma occluda soltanto parzialmente, ma costantemente, l’ostio valvolare atrioventricolare si avrà, invece che sincope, una permanente e grave riduzione della gettata cardiaca. • Pneumotorace a valvola (Cap. 20). In questa forma di pneumotorace si ha accumulo di aria nella cavità pleurica ad ogni atto inspiratorio, che può giungere a provocare una compressione del cuore e dei grossi vasi, con conseguente ostacolo all’efflusso di sangue. 3. Shock ipovolemico. L’ipovolemia rappresenta la causa più comune di shock. La riduzione del volume circolante può essere secondaria ad emorragie esterne o interne di cospicua entità o a perdita di acqua e/o sali, attraverso la via renale, gastroenterica, cutanea (si veda, a questo proposito, il paragrafo sull’eziopatogenesi dell’ipotensione). L’insorgenza di ipotensione o di shock è in rapporto all’entità e alla rapidità delle perdite: la presenza di perdite importanti ma non rapide evoca infatti meccanismi riflessi atti a mantenere una perfusione adeguata degli organi vitali (principalmente cuore e cervello). Anche tali meccanismi possono tuttavia alla lunga provocare seri danni metabolici nei distretti già sacrificati, fino a compromettere irreversibilmente le funzioni cellulari. B. Shock da diminuzione delle resistenze periferiche. 1. Shock settico. La base dello shock settico sta nel fatto che prodotti di derivazione batterica, attraverso la liberazione di mediatori endogeni o l’attivazione di meccanismi umorali di difesa, provocano una serie di modificazioni vascolari che sono generalizzate nell’intero organismo. Si tratta perciò della variante sistemica di processi che abitualmente hanno luogo in forma circoscritta nei processi infiammatori indotti dalle infezioni batteriche. Tra i fattori eziologici che determinano lo shock settico vanno elencati i seguenti: • • • •
tossine esogene; citochine; altri mediatori endogeni; sistemi di difesa umorali.
• Tossine esogene. Sono derivate direttamente dai microrganismi infettanti. Sono rappresentate da componenti della parete batterica (peptido-glicani, muramil
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dipeptide, acido lipoteicoico), da alcune esotossine batteriche (enterotossina B dello stafilococco, “Toxic Shock Syndrome Toxin” dello stafilococco – si veda in seguito –, esotossina A dello Pseudomonas) e soprattutto dalle endotossine dei Gram– (E. coli, Klebsiella, Enterobacter, Pseudomonas e Serratia). • Citochine. È dubbio che le tossine esogene possano agire da sole ed è più probabile che lo facciano agendo su vari fattori endogeni. Tra questi hanno particolare importanza le citochine, ossia ormoni a breve raggio prodotti da cellule che hanno un ruolo nell’immunità e nell’infiammazione e che agiscono, in condizioni ordinarie, o sulle stesse cellule che li hanno prodotti (attività autocrina) o su cellule contigue (attività paracrina). La loro produzione massiccia in corso di shock settico le pone in grado di esercitare effetti generali. Tra le citochine che hanno particolare importanza a questo riguardo se ne possono citare due, prodotte dai macrofagi: la interleuchina-1 (IL-1) e il Tumor Necrosis Factor (TNF). Queste sostanze hanno una attività pirogena e proteico-catabolica. Il TNF provoca vasodilatazione ed ha un’azione deprimente sul miocardio. • Altri mediatori endogeni. I prodotti batterici possono attivare l’enzima fosfolipasi A2 in una pluralità di cellule, con produzione di derivati dell’acido arachidonico dotati di attività vasodilatatrice (prostaglandine, leucotrieni). Anche il cosiddetto PAF (Platelet Activating Factor), un fosfolipide derivato principalmente dai leucociti circolanti, dalle piastrine e dalle cellule endoteliali, può essere liberato per effetto dell’azione di prodotti batterici ed esercita un potente effetto vasodilatatore. Altri mediatori che possono essere liberati sono l’istamina (derivata dai mastociti), le endorfine (pure vasodilatatrici) e una sostanza detta Myocardial Depressant Substance (MDS) la cui attività è definita dal nome. Di quest’ultima si sa solo che è una molecola di medie dimensioni del peso molecolare di circa 10.000 dalton. • Sistemi di difesa umorali. Questi sono rappresentati dal complemento, dal sistema delle chinine e dalla emocoagulazione. Il complemento è attivato per via alternativa (Cap. 68) da parte delle endotossine, con liberazione di componenti intermedi (C3a, C5a) in grado di degranulare i mastociti. Il derivato C5a ha anche un’azione chemiotattica positiva a lungo raggio sui neutrofili e il complesso C5bC6C7 ha un’attività chemiotattica dello stesso tipo a breve raggio. L’azione chemiotattica sui neutrofili (con la liberazione dei loro enzimi lisosomiali) è un’importante causa di danno vascolare specie a livello polmonare (si veda in seguito). Il sistema delle chinine provvede la produzione di bradichinina (vasodilatatrice) dal chininogeno. Il sistema della coagulazione può essere attivato simultaneamente a quello della fibrinolisi. Questo fatto provoca la cosiddetta coagulazione disseminata intravascolare (DIC; Cap. 52) che è comune nelle sepsi da Gram–.
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Come si vede i fattori che possono essere implicati nello shock settico sono molti, ma la loro attività può essere ricondotta a due meccanismi molto semplici. • Un’attività sulle pareti vascolari con prevalenza di vasodilatazione. Per quanto questa sia la più importante (onde il meccanismo patogenetico di questo tipo di shock) non mancano fenomeni di vasocostrizione che appaiono intercalati con quelli di vasodilatazione. Questo fatto, unitamente all’apertura di shunt arteriolo-venulari, spiega l’apparente paradosso di una ridotta ossigenazione tissutale nonostante la diminuzione delle resistenze periferiche. • Un’attività deprimente sul miocardio che limita l’aumento della gettata cardiaca in modo che questa, pur essendo aumentata in assoluto, non lo è in misura sufficiente a compensare la diminuzione delle resistenze periferiche. Gli effetti sul miocardio nello shock settico sono stati studiati recentemente ed hanno condotto a risultati interessanti. Le cavità ventricolari appaiono dilatate in modo che, pur essendo aumentata la loro gettata pulsatoria, è diminuita la frazione di eiezione (Cap. 5), ossia la frazione della quantità di sangue contenuta in diastole che viene espulsa in sistole. Per le ragioni che abbiamo esposto precedentemente il maggior volume di sangue contenuto nelle cavità ventricolari dovrebbe comportare un aumento della pressione a monte. Questo invece non si verifica nello shock settico, nel quale la pressione di incuneamento non è aumentata e può essere addirittura diminuita. La spiegazione data a questo paradosso è che il tipo di danno miocardico che si ha in queste circostanze, e che sarebbe dovuto principalmente alla già citata Myocardial Depressant Substance, comporta un aumento della “compliance” miocardica, ossia della distensibilità delle cavità ventricolari. 2. Shock anafilattico. Per una discussione sui meccanismi eziopatogenetici responsabili della genesi dell’anafilassi si rimanda al capitolo 68, a questo dedicato. Qui ricordiamo che, per quanto riguarda l’insorgenza di ipotensione acuta, collasso circolatorio e shock in corso di una reazione anafilattica, vengono chiamati in causa vari mediatori. L’istamina provoca una vasodilatazione nei vasi di calibro più piccolo e una vasocostrizione nei vasi di calibro maggiore. I due effetti agiscono in senso contrario sulle resistenze periferiche, ma nell’uomo prevale il primo. Tuttavia, l’azione dell’istamina è importante anche perché incrementa la permeabilità capillare e determina la fuoriuscita di acqua e soluti dal compartimento intravascolare, provocando di fatto un’ipovolemia. Oltre all’istamina, altri fattori possono determinare una vasodilatazione nello shock anafilattico: • le piastrine, indotte all’aggregazione dal fattore di attivazione delle piastrine (PAF) rilasciato dai mastociti, con conseguenti fenomeni di coagulazione intravasale disseminata (DIC) e di liberazione di chinine vasodilatatrici; • le prostaglandine, in particolare quelle della classe D2, ad azione marcatamente ipotensiva.
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In conclusione lo shock anafilattico è causato dalla combinazione di un’ipovolemia (che di per sé solleciterebbe per via riflessa una vasocostrizione) con varie sollecitazioni vasodilatatrici da parte dell’istamina e di altri fattori umorali. Anche nello shock anafilattico l’attività cardiaca è inferiore a quanto sarebbe necessario ai fini compensatori. È possibile che questo dipenda da un effetto nocivo dei leucotrieni sulla circolazione coronarica. 3. Shock neurogeno. Riconosce come meccanismo patogenetico una diminuzione delle resistenze periferiche secondaria ad alterazioni dei riflessi deputati al controllo del tono vasomotore. Le forme più comuni sono secondarie all’assunzione di farmaci a scopo suicida (barbiturici, fenotiazine). Più raramente è descritto shock dopo somministrazione di ganglioplegici, utilizzati nel trattamento dell’ipertensione, o di sostanze anestetiche. Infine, lesioni del midollo spinale sono chiaramente responsabili di alterazioni importanti del tono vasomotore. C. Problemi patogenetici particolari nello shock. Quale che sia la causa dello shock, l’esito finale è una diminuzione della perfusione di organi vitali ed una anossia tissutale. Ne derivano varie conseguenze importanti. La prima è l’utilizzazione, a scopo energetico, della via metabolica della glicosi anaerobica (meno vantaggiosa) al posto di quella aerobica, e la produzione di acido lattico, con conseguente acidosi metabolica. In uno stadio successivo, la carenza di energia compromette il funzionamento della pompa sodio-potassio, essenziale per il mantenimento dell’integrità delle membrane cellulari: lesioni a carico delle membrane lisosomiali sono dunque responsabili della liberazione di enzimi proteolitici e della necrosi cellulare che ne consegue. La necrosi cellulare consente inoltre la liberazione di sostanze vasoattive e l’attivazione della catena di eventi che portano alla coagulazione intravascolare disseminata. Da ultimo, per alterazioni metaboliche delle cellule muscolari lisce delle arteriole, si assiste ad una insensibilità di queste ultime agli stimoli di vasocostrizione, con sequestro di sangue nel letto capillare e venoso e, in definitiva, all’instaurarsi di un circolo vizioso irreversibile. È importante rilevare che, tra tutte le forme di shock, quello settico si presenta come il più grave perché le tossine possono agire danneggiando i tessuti in due modi: indirettamente, provocando la diminuita perfusione e l’anossia tissutale, e direttamente, attraverso una loro propria azione lesiva. Ma i danni tissutali provocati da qualsiasi tipo di shock sono tali da autoaggravarsi, in quanto possono determinare la liberazione di enzimi lisosomiali (lesivi sui tessuti ancora integri) e di sostanze vasoattive (che interferiscono ulteriormente con la regolazione della circolazione). Questo fatto spiega chiaramente perché lo shock, se sufficientemente prolunga-
to, raggiunge invariabilmente un punto di non ritorno al di là del quale ogni misura terapeutica si rivela inutile. La sofferenza cellulare è particolarmente grave a carico di alcuni organi, sia per una peculiare sensibilità di questi ultimi alla carenza di ossigeno, sia per le conseguenze temibili che una loro compromissione determina in tutto l’organismo. L’anossia tissutale persistente propria dello shock a livello dell’intestino provoca un’alterazione della permeabilità delle membrane cellulari: ne deriva un assorbimento indiscriminato di sostanze potenzialmente dannose, primi fra tutti i prodotti dei microrganismi che si trovano abitualmente all’interno del lume intestinale: il passaggio di prodotti batterici in circolo, attraverso la via intestinale, può quindi mettere in atto in via secondaria tutti i gravi meccanismi propri dello shock settico. A livello del polmone, le modificazioni delle pareti del letto capillare possono provocare una trasudazione dal sangue verso l’interstizio, inizialmente di liquido con pochi soluti e successivamente di liquido ricco di macromolecole e derivati cellulari: ne conseguono alterazioni importanti degli scambi gassosi a livello alveolare e lo svilupparsi di una grave insufficienza respiratoria, nota come “polmone da shock”. Il quadro è inscrivibile nelle forme di cosiddetta ARDS (Adult Respiratory Distress Syndrome). Da ultimo, un organo particolarmente sensibile all’ipossia è rappresentato dal rene nel quale la ridotta perfusione provoca in prima istanza una necrosi tubulare e, in un secondo tempo, necrosi corticale: l’insufficienza renale prolungata che ne deriva è reversibile soltanto nel caso di necrosi a livello tubulare, in quanto la necrosi della corticale è definitiva.
Clinica L’instaurazione di uno stato di shock può essere più o meno brusca, in rapporto al fattore eziologico responsabile, e l’evoluzione progressiva (anche se più spesso rapida) via via che i meccanismi compensatori vengono reclutati, ma è bene ricordare che lo shock rappresenta un’emergenza medica in quanto soltanto la pronta correzione delle alterazioni emodinamiche evita lo svilupparsi di un circolo vizioso irreversibile. Nei casi con riduzione della gettata cardiaca e con ipovolemia, una riduzione della pressione di perfusione a livello dei recettori carotidei e aortici, come abbiamo detto, provoca una serie di riflessi atti alla salvaguardia di organi critici. In questi casi dunque, per attivazione del simpatico, si ha aumento della frequenza cardiaca e costrizione arteriolare: il paziente appare tachicardico, pallido, compare sudorazione fredda, piloerezione. Questi segni sono evidenziabili in tutte le forme di shock in cui esiste vasocostrizione periferica, mentre sono meno evidenti (esiste comunque sempre una diversione della massa circolante verso gli organi vitali) nelle forme in cui prevale una riduzione delle resistenze periferiche; in questo caso la cute del paziente appare calda e secca.
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A questi sintomi si aggiunge usualmente e progressivamente uno stato di agitazione ed irrequietezza (per ridotta perfusione cerebrale) ma, caratteristicamente, lo stato di coscienza è di norma conservato. La pressione arteriosa appare progressivamente ridotta, in particolare la pressione sistolica, con diminuzione crescente della pressione differenziale. Il polso periferico tende a divenire sempre più piccolo e frequente. A tutto questo si aggiunge una contrazione della diuresi, con quadri variabili dalla oliguria all’anuria franca. I sintomi respiratori comprendono tachipnea nelle fasi iniziali (mediata da riflessi neurovegetativi simpatici), ma possono progredire verso l’insufficienza respiratoria, sino ad un quadro di ARDS. A. Diagnosi. La diagnosi dello stato di shock è facile, mentre è più complicato individuare la forma particolare in causa e il suo meccanismo fisiopatologico. Come si è visto, un’informazione di vitale importanza è la valutazione della PVC. Al letto dell’ammalato, un giudizio orientativo per l’esistenza di una PVC alta può essere ricavato dalla constatazione di un turgore delle giugulari quando il collo del paziente è sollevato rispetto al piano del letto. Naturalmente è meglio che la PVC sia misurata direttamente con un catetere venoso. Una PVC alta, con estremità fredde, è un argomento a favore dello shock cardiogeno o di quello da ostruzione circolatoria. In caso di PVC bassa le possibilità sono due: o esiste ipovolemia (e allora le estremità sono fredde) o esiste vasodilatazione diffusa, come nello shock neurogeno (e allora le estremità sono calde). L’ipovolemia può essere determinata da un’emorragia non sempre manifesta (per es., in una cavità naturale o dell’apparato digerente prima che si verifichi una melena): in questo caso il valore dell’ematocrito sarà normale (se l’emorragia è recente) o diminuito (se non lo è). In tutti gli altri casi (disidratazione, ustioni, fasi avanzate dello shock settico) l’ematocrito sarà aumentato. La discriminazione di queste forme non è difficile per i dati anamnestici e clinici di accompagnamento. Lo shock anafilattico è facilmente riconoscibile sia per il dato anamnestico dell’introduzione, per lo più parenterale, di una sostanza estranea immediatamente prima della sua instaurazione, sia per i segni di accompagnamento (reazioni orticarioidi, broncospasmo). Deve, infine, essere sottolineato che i criteri diagnostici sopra indicati debbono essere impiegati con molto spirito critico perché non sono poche le forme di shock nelle quali coesistono più meccanismi (per es. sepsi in un paziente con infarto recente e che sia disidratato). B. Decorso e prognosi. Come si è detto, oltre una certa durata (ore) lo shock è irreversibile e conduce a morte del paziente nello spazio di uno o pochi giorni (per acidosi o per insufficienza respiratoria). È anche possibile che lo shock venga superato dalle terapie, ma che permanga il danneggiamento di qualche organo. Questo è soprattutto comune a livello renale, dove allo shock può conseguire un’insufficienza renale acuta per necrosi tubulare o corticale.
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C. Terapia. Gli stati di shock con PVC aumentata richiedono tempestivi provvedimenti volti alla rimozione dei fattori responsabili dell’instaurazione dello shock stesso. Un’insufficienza meccanica del miocardio può venire controllata dalla somministrazione di glicosidi della digitale o -mimetici (isoproterenolo). I -mimetici, ad azione inotropa positiva, aumentano tuttavia il consumo di O2 e possono provocare aritmie, con il rischio di un ulteriore aggravamento di un’ischemia preesistente. La dopamina, un precursore della noradrenalina, ha un effetto stimolante sul miocardio, senza provocare aumento delle resistenze periferiche. Presenta inoltre il vantaggio di aumentare il flusso di sangue a livello mesenterico e renale. In caso di aritmie è altresì importante una loro correzione tempestiva, a mezzo di antiaritmici, in quanto determinate aritmie riducono notevolmente la gettata cardiaca. La terapia degli stati di shock con PVC diminuita e con ipovolemia richiede in primo luogo il ripristino della massa circolante, quindi la pronta somministrazione di liquidi. Le soluzioni da infondere più idonee sono rappresentate non da quelle isotoniche, in quanto queste ultime tendono ad abbandonare, almeno in parte, il letto capillare, ma piuttosto soluzioni contenenti sostanze osmoticamente attive. A questo scopo vengono utilizzati, nell’immediato, il plasma o, meglio, i cosiddetti “plasma expanders”: si tratta di sostituti del plasma, costituiti da macromolecole dotate di potere osmotico, i quali, rispetto al plasma, presentano il vantaggio di non comportare rischi di infezione da virus dell’epatite. Nello shock emorragico, non appena possibile, si provvederà alla trasfusione di sangue. Gli -mimetici, ad azione vasocostrittrice, trovano indicazione soltanto nello shock neurogeno, con concomitante riduzione delle resistenze periferiche: negli altri casi, infatti, possono risultare addirittura dannosi, provocando un’ulteriore ipossia tissutale. La noradrenalina è però impiegata anche in altre forme di shock quando la dopamina non risulta sufficiente. Nel passato, i corticosteroidi sono stati lungamente usati ad alte dosi nello shock settico, per considerazioni teoriche (potrebbero stabilizzare le membrane lisosomiali) e perché la loro efficacia era stata documentata in qualche modello animale. Tuttavia, tre grandi studi clinici hanno recentemente dimostrato che non esiste alcuna differenza nella mortalità tra pazienti con shock settico trattati con corticosteroidi. Per di più i pazienti trattati con corticosteroidi erano più esposti a superinfezioni. Un’interessante terapia dello shock settico, che per ora è solo in fase sperimentale, è l’impiego di anticorpi monoclonali diretti contro le endotossine. Questo approccio sembra molto promettente. A questo trattamento andrà aggiunto un attento ed assiduo monitoraggio dei parametri vitali e dell’equilibrio metabolico: controllo della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca, diuresi oraria, bilancio idrico ed elettrolitico, equilibrio acido-base, ventilazione polmonare.
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L’attenzione andrà quindi rivolta al trattamento eziologico dei fattori responsabili dell’instaurazione dello stato di shock: tamponamento cardiaco, sepsi, pneumotorace a valvola, ecc.
APPENDICE Sindrome dello shock tossico Questa sindrome, descritta verso la fine degli anni Settanta, si distingue dallo shock settico perché non è provocata dalla batteriemia (che, in questo caso, è per definizione assente), ma dalla messa in circolo di tossine prodotte da stafilococchi che colonizzano, in circostanze particolarmente favorevoli, alcune zone del corpo. La forma più tipica di sindrome dello shock tossico è dovuta a colonizzazione della vagina da parte di ceppi di Staphylococcus aureus, propiziata dall’impiego di tamponi vaginali in corrispondenza dei flussi mestruali in giovani donne. La produzione di tossine responsabili di questa sindrome sembra favorita dalla ridotta disponibilità locale di magnesio, dovuta a chelazione di quest’ultimo metallo da parte delle fibre sintetiche presenti nel tampone. È certo che gli stafilococchi isolati in corso di sindrome dello shock tossico producono una particolare tossina, denominata TSST-s (da Toxic-Shock-Syndrome Toxin) che è un potente stimolatore di interleuchina-1 (IL-1) da parte dei monocitimacrofagi. La IL-1 è il più potente pirogeno endogeno (oltre ad avere importanti effetti favorenti le reazioni immunita-
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rie), e questo spiega la febbre elevata che caratterizza questa condizione. Non spiega però molti altri effetti patogeni, compreso lo shock, che debbono essere provocati da altre tossine, in modo particolare attive sulla permeabilità dei piccoli vasi. Si deve ad un incremento della permeabilità vascolare se si ha spostamento di fluido dal compartimento intravascolare a quello extravascolare, con ipovolemia e shock. Dal punto di vista clinico, la sindrome dello shock tossico è definita da sei caratteristiche: • temperatura corporea elevata, intorno a 39-40 °C; • un rash cutaneo, che ha l’aspetto di eritrodermia: localizzata in varie parti del corpo, ma comunque coinvolgente le palme delle mani e le piante dei piedi; • desquamazione cutanea, che si verifica tardivamente (di solito quando la malattia è iniziata da una settimana); • ipotensione arteriosa, che va dalla semplice ipotensione ortostatica allo shock; • anomalie di vario tipo cliniche e di laboratorio, di almeno tre apparati tra i seguenti: gastrointestinale, epatico, muscolare, renale, cardiovascolare, nervoso. Le alterazioni mucose possono pesare nella diagnosi quanto le anomalie di uno degli apparati sopracitati; • assenza di batteriemia. La terapia è in gran parte di supporto e basata sulla generosa infusione di fluidi. Sembra che i corticosteroidi possano essere di qualche utilità. L’impiego di antibiotici antistafilococcici può servire a prevenire le recidive.
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MALATTIE DEI VASI M. C. BARBIERI, C. RUGARLI
ATEROSCLEROSI E ALTRE FORME DI ARTERIOSCLEROSI Con il termine di arteriosclerosi viene definita in modo generico la presenza di ispessimento ed indurimento della parete arteriosa. L’aterosclerosi rappresenta una forma particolare di arteriosclerosi, caratterizzata dalla deposizione di lipidi nel contesto dell’intima, a livello di grossi e medi vasi arteriosi, con localizzazione prevalentemente focale. Le sedi maggiormente colpite dalla malattia sono rappresentate dall’aorta e dai suoi rami principali, dai vasi del circolo cerebrale e degli arti inferiori, ma soprattutto dalle coronarie, dove l’affezione condiziona lo svilupparsi di cardiopatia ischemica, cioè di una sofferenza del miocardio conseguente all’ipossiemia determinata dal ridotto flusso sanguigno nei vasi aterosclerotici. La cardiopatia ischemica, nelle sue varie forme (angina pectoris, infarto acuto del miocardio, morte improvvisa, ecc.) rappresenta la prima causa di morte negli USA e in numerosi paesi occidentali industrializzati. La valutazione clinica di un’affezione tanto importante non appare tuttavia del tutto semplice, in quanto le alterazioni anatomiche a carico dei vasi interessati possono svilupparsi in modo del tutto asintomatico per vari anni: esiste, tuttavia, un largo accordo sul fatto che la presenza di manifestazioni di cardiopatia ischemica rappresenti l’indice più utile per una diagnosi definitiva di aterosclerosi negli studi epidemiologici. In base a questo criterio, i paesi più colpiti dalla malattia sono rappresentati dagli USA, dalla Finlandia, dalla Scozia, dal Canada e dall’Australia, mentre assai meno interessati sono l’America Latina e il Giappone (l’Europa si colloca in una posizione intermedia).
Eziologia Le osservazioni riguardanti la diversa incidenza e prevalenza della malattia in aree dove le abitudini di vi-
ta e di alimentazione appaiono molto differenti ha da sempre colpito l’attenzione dei diversi studiosi. In particolare è risultato immediatamente evidente un rapporto tra consumo di grassi animali e tendenza a sviluppare la malattia. La relazione esistente tra ipercolesterolemia ed aterosclerosi è del resto nota da molto tempo, e numerose sono state le conferme sperimentali a favore di uno stretto rapporto tra apporto lipidico (o, meglio, di determinati lipidi) e aterosclerosi. Intorno al 1912 fu possibile indurre aterosclerosi sperimentale in conigli sottoposti ad alimentazione ricca di colesterolo. Più recentemente (1973) un veterinario giapponese, Watanabe, riuscì ad individuare un ceppo di conigli (che da allora vengono chiamati conigli Watanabe) con livelli di colesterolo dieci volte superiori a quelli normali e affetti da aterosclerosi delle coronarie. È stato successivamente dimostrato che tali conigli presentano un difetto recettoriale delle membrane epatiche, geneticamente trasmesso come carattere autosomico dominante, del tutto simile a quello responsabile dell’ipercolesterolemia familiare. L’eziologia dell’aterosclerosi appare tuttavia complessa ed esistono difficoltà a rintracciare un unico fattore responsabile della malattia. Come accade per molte patologie, è verosimile che allo sviluppo della placca aterosclerotica contribuiscano, in vari gradi, diversi fattori patogenetici, che ci troviamo cioè di fronte ad una genesi multifattoriale. Il più celebre degli studi volti alla ricerca di tali fattori è quello condotto nella cittadina statunitense di Framingham da circa trent’anni, che ha consentito di mettere in evidenza elementi riconoscibili con frequenza maggiore nei soggetti affetti dalla malattia rispetto alla popolazione dei soggetti sani; a questi è stato attribuito il nome di fattori di rischio ed essi sono stati distinti in fattori di rischio sicuri e probabili (Tab. 3.1). Dalla tabella 3.1, così come dagli studi sperimentali sopracitati, appare evidente che un ruolo non trascurabile nell’aterogenesi è svolto da lipidi plasmatici, per cui si rende necessaria un’ampia digressione sul significato delle lipoproteine e delle iperlipoproteinemie.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Tabella 3.1 Aterosclerosi. Fattori di rischio. SICURI • Età • Sesso • Ipercolesterolemia • Ipertensione • Fumo di sigarette • Diabete
PROBABILI
“CORE” Grassi non polari
• Obesità • Ipertrigliceridemia • Scarsa attività fisica • Personalità
Lipoproteine e iperlipoproteinemie A. Lipoproteine. I grassi usualmente riconoscibili nel plasma sanguigno sono rappresentati da: • trigliceridi; • colesterolo libero ed esterificato; • fosfolipidi; • acidi grassi non esterificati (liberi). Ad essi sono deputate importanti funzioni a livello cellulare e, in particolare, i fosfolipidi e il colesterolo rappresentano elementi fondamentali delle membrane cellulari, mentre i trigliceridi e gli acidi grassi liberi costituiscono importanti fonti energetiche per le cellule. Un problema comune ai grassi presenti nel plasma è la loro insolubilità in ambiente acquoso. In particolare, i trigliceridi sono grassi neutri, del tutto privi di gruppi polari e pertanto assolutamente non miscibili all’acqua. Del colesterolo presente in circolo, i due terzi circa sono esterificati con acidi grassi, e di conseguenza non solubili, mentre un terzo è libero; esso presenta tuttavia soltanto un radicale idrossilico libero, che rende tale forma solo un poco più idrosolubile. Per contro, i fosfolipidi mostrano minori problemi di solubilizzazione in acqua, in quanto una parte importante della loro molecola è fornita di gruppi polari. Il trasporto dei lipidi nel plasma, quindi, indispensabile affinché essi possano raggiungere le sedi di utilizzo, richiede la presenza di sostanze idrosolubili in grado di veicolarli. A questo scopo è deputato un vasto gruppo di proteine, denominate appunto apoproteine, le quali svolgono, oltre a numerose altre importanti funzioni, di cui discuteremo più avanti, il ruolo di sostanze solubilizzanti. Nel plasma, i grassi sono dunque presenti sotto forma di composti, le cosiddette lipoproteine, costituiti da lipidi, apoproteine e fosfolipidi. Le lipoproteine possono quindi venire considerate le unità fisiche di trasporto dei lipidi nel sangue. La configurazione di tali composti (Fig. 3.1) prevede il posizionamento della parte lipidica, insolubile, al centro delle particelle “CORE”, mentre a diretto contatto con il mezzo acquoso sono situati, quasi a schermo, le apoproteine e i fosfolipidi, con quella parte della loro molecola contenente i gruppi polari rivolta verso l’esterno, a scopo solubilizzante. Appare chiaro che il contenuto di fosfolipidi e apoproteine sarà percentualmente tanto più elevato quanto più le particelle saranno piccole, in quanto in questo caso le strutture di superficie, più dense, sono più numerose.
Apoproteine
Fosfolipidi
Figura 3.1 Struttura delle lipoproteine con i trigliceridi e il colesterolo al centro e le apoproteine e i gruppi polari dei fosfolipidi alla periferia.
Questo fatto, come vedremo in seguito, ha importanti risvolti pratici nella distinzione delle diverse lipoproteine. Per quanto riguarda gli acidi grassi liberi, questi ultimi circolano nel plasma legati all’albumina, proteina idrosolubile, in grado quindi di svolgere perfettamente il compito di “trasportatore” ematico. Ai lipidi fin qui citati va aggiunto un altro gruppo reperibile in circolo soltanto dopo un pasto ricco di grassi. Di fatto, se si esaminano il plasma o il siero di un soggetto a breve distanza di tempo dall’assunzione di cibo, si osserva che essi non sono perfettamente trasparenti come di norma (il colore giallastro è dovuto a presenza di piccole quantità di bilirubina), ma piuttosto torbidi, lattescenti: a una situazione del tutto analoga si potrebbe giungere addizionando al siero di un soggetto a digiuno alcune gocce di latte. Il fenomeno è dovuto alla presenza di particelle lipidiche relativamente grosse, in grado di intercettare la luce, e quindi di conferire aspetto torbido, del tutto simili a quelle presenti nel latte e responsabili del suo caratteristico aspetto. Tali particelle vengono definite chilomicroni. È dunque importante potere operare una distinzione tra i diversi tipi di lipidi o, meglio, di lipoproteine presenti in circolo. La metodica fondamentale impiegata per la classificazione delle lipoproteine si basa sull’utilizzazione dell’ultracentrifuga analitica, che consente di separare le lipoproteine in base alla loro densità. Il siero sanguigno viene diluito con una soluzione salina, in modo che il miscuglio abbia una densità standard (per convenzione 1063), quindi viene sottoposto a centrifugazione ad elevata velocità: ora, è chiaro che quanto maggiore è la componente lipidica delle lipoproteine, cioè quanto più grosse sono le lipoproteine, tanto minore sarà il loro peso specifico. Pertanto, le lipoproteine di dimensioni maggiori vengono a galla, subendo una flottazione, mentre le più piccole e pesanti vanno incontro a sedimentazione. In base a questo metodo, le lipoproteine usualmente presenti in circolo sono state distinte come segue: • chilomicroni (solo il 2% in peso è costituito da proteine);
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• VLDL Very Low Density Lipoproteins: lipoproteine a densità molto bassa; • LDL Low Density Lipoproteins: lipoproteine a densità bassa; • HDL High Density Lipoproteins: lipoproteine ad alta densità (il 50% in peso è costituito da proteine). Un metodo più semplice, di largo impiego clinico in passato, è l’elettroforesi: si utilizza come supporto una striscia di un mezzo poroso, usualmente acetato di cellulosa, imbevuto in una soluzione tampone elettrolitica, e con le estremità connesse con due elettrodi, con polo positivo e polo negativo. Si “semina” quindi il siero sanguigno a quella estremità della striscia che è prossima al polo negativo, e si fa passare corrente. Le proteine, in una soluzione tampone con un pH prossimo alla neutralità, migrano verso il polo positivo e tanto più velocemente quanto più sono dotate di cariche elettriche. Dopo aver ottenuto la migrazione, si asciuga e si effettua la colorazione con sudan nero, un colorante specifico per i grassi. Con un particolare dispositivo viene misurata l’intensità di colorazione per ogni millimetro della striscia. È possibile così costruire una curva, le cui cuspidi corrispondono ai diversi tipi di lipoproteine, mentre l’altezza delle cuspidi stesse è in rapporto alla loro quantità (Fig. 3.2). In un normale tracciato elettroforetico delle lipoproteine vengono individuate almeno tre cuspidi: una prima, che corrisponde alla migrazione massima nel campo elettrico, detta delle -lipoproteine; una seconda, che corrisponde alla migrazione minima, detta delle -lipoproteine; una terza, sovrapposta alla branca ascendente della cuspide beta, detta delle pre--lipoproteine. I chilomicroni non migrano significativamente. Con una certa approssimazione, si può dire che le -lipoproteine corrispondono alle HDL, che le -lipoproteine corrispondono alle LDL e le pre- alle VLDL. Vediamo di analizzare nei dettagli la composizione di tali lipoproteine (Tab. 3.2). Le lipoproteine meno dense sono rappresentate dai chilomicroni che, all’elettroforesi, non migrano ma rimangono al punto di semina. Questo perché il loro contenuto proteico è estremamente basso. I grassi contenu
pre-
Chilomicroni
Figura 3.2 Tracciato elettroforetico di lipoproteine di un siero normale.
Tabella 3.2 - Caratteristiche delle lipoproteine plasmatiche (sono elencate solo le lipoproteine normalmente presenti in concentrazioni significative nel plasma).
LIPOPROTEINE
LIPIDI DIAMETRO PREVALENTI APOPROTEINE (1) (Å) (CORE)
Chilomicroni
TRG (esogeni)
VLDL (pre-)
TRG (endogeni) COL E COL E
LDL () HDL ()
A (AI, AII, AIV) B 48 C (CI, CII, CIII) B100 C (CI, CII, CIII) B100 A (AI, AII) C (CI, CII, CIII) E
800-5000 300-800 180-280 50-120
TRG = trigliceridi COL E = colesterolo esterificato (1) Altre apoproteine sono state scoperte, tra le quali alcune denominate D, F, G e H. Le prime tre sono presenti nelle HDL e la loro funzione non è nota; l’apoproteina H è presente nei chilomicroni e ha il ruolo di cofattore per la lipasi delle lipoproteine. L’apoproteina (a) o apo(a) è presente in una frazione delle LDL cui viene attribuito il nome di lipoproteine (a).
ti nei chilomicroni, come abbiamo già detto, sono di provenienza alimentare. Sono rappresentati essenzialmente da trigliceridi cosiddetti esogeni, perché giungono all’organismo con la dieta, attraverso l’intestino. Abbiamo quindi le VLDL che, all’elettroforesi, costituiscono la cuspide delle pre-. I lipidi contenuti in queste lipoproteine sono ancora prevalentemente trigliceridi ma, questa volta, sintetizzati eminentemente dagli epatociti, e pertanto detti endogeni. Seguono le LDL, più dense, corrispondenti alle -lipoproteine. La parte lipidica è rappresentata largamente da colesterolo esterificato. Una frazione di queste lipoproteine ha una composizione particolare alla quale è stata recentemente attribuita importanza. Infatti, negli elementi che costituiscono questa frazione è presente non solamente l’apoproteina B100 (Tab. 3.2), ma anche una seconda apoproteina, che è legata alla B100 covalentemente con un ponte disolfuro e che è chiamata apo(a) (da non confondersi con la apoproteina A che si trova nei chilomicroni e nelle HDL). La apo(a) ha un alto grado di omologia con il plasminogeno, precursore della plasmina, l’enzima che degrada la fibrina e che perciò è in grado di solubilizzare i trombi (Cap. 52). Le lipoproteine LDL provviste della apo(a) sono anche chiamate lipoproteine (a). Da ultimo troviamo le HDL (-lipoproteine), le uniche che, all’ultracentrifugazione, sedimentano, a differenza di tutte le altre lipoproteine precedentemente citate, le quali flottano. Queste ultime contengono nella loro parte interna soltanto colesterolo esterificato. Ve ne sono, tuttavia, in circolo, anche altre, che normalmente non raggiungono concentrazioni significative a causa del loro rapido ricambio, e che sono di densità intermedia tra le VLDL e le LDL. Queste lipoproteine sono prodotte per effetto della degradazione dei chilomicroni e delle VLDL e contengono al loro interno trigliceridi ed esteri di colesterolo, in parti quasi uguali.
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ganismo. Innanzitutto è opportuno ricordare che esistono due tipi di vie, tra loro distinte: quella dei grassi di provenienza alimentare, la via esogena, e quella che dipende dalla mobilizzazione dei lipidi sintetizzati nell’organismo, la via endogena. Uno schema generale del trasporto dei lipidi nell’organismo è rappresentato dalla figura 3.3.
Sono dette IDL (Intermediate Density Lipoproteins) o “remnants” perché sono quanto rimane dalla degradazione di altre particelle. È importante osservare come esistano diversi tipi di apoproteine, tutte sintetizzate dal fegato, cui, come vedremo in seguito, sono deputate funzioni differenti. Le apoproteine vengono indicate con le lettere maiuscole dell’alfabeto e ulteriormente distinte in sottotipi con numeri romani. Le apoproteine non svolgono il semplice ruolo fisico di solubilizzare i lipidi, ma hanno un più importante significato funzionale, dato che alcune di esse possono influenzare il destino metabolico delle lipoproteine di cui fanno parte: sono esse, infatti, che si attaccano ai recettori delle cellule in cui è opportuno che il complesso lipoproteico penetri; e sono esse che attivano alcuni enzimi destinati a metabolizzare i grassi.
1. Via esogena. I lipidi assunti con la dieta sono rappresentati essenzialmente da trigliceridi (burro e derivati, grassi contenuti nella carne, oli vegetali) e da piccole quantità di colesterolo (uova). Il processo di digestione avviene ad opera delle lipasi, che scindono i trigliceridi in acidi grassi, ed è sotto questa forma che avviene l’assorbimento ad opera delle cellule epiteliali dell’intestino. Soltanto gli acidi grassi a catena breve possono essere indirizzati direttamente al fegato, attraverso la vena porta. Tutti gli altri, a livello della parete intestinale, vengono risintetizzati in trigliceridi e incorporati, insieme a piccole quantità di proteine, colesterolo e fosfolipidi, nei chilomicroni.
B. Trasporto dei lipidi. Esaminiamo quale sia il tragitto seguito abitualmente dai grassi all’interno dell’or-
Tessuti periferici Intestino
Recettore per B100
Macrofagi
COL
HDL
LCAT
FFA LDL B100
HDL C E
A C
CHY
IDL B100 C E
A B48 C E
LPL
COL E
COL E
RMN
VDL
B48 E
B100 C E
FFA
LPL
Fegato
Figura. 3.3 Trasporto dei lipidi. A sinistra, dall’intestino al fegato la via esogena; a destra, dal fegato ai tessuti la via endogena. Le linee continue indicano gli spostamenti delle apoproteine, le linee tratteggiate gli spostamenti dei lipidi. Le incorniciature rettangolari indicano il materiale che è scambiato tra le diverse lipoproteine, su fondo bianco se si tratta di apoproteine, su fondo grigio se si tratta di colesterolo (COL = colesterolo libero; COL E = colesterolo esterificato). L’incorniciatura ovale su fondo grigio indica gli acidi grassi liberi (FFA = Free Fatty Acids), che non sono scambiati tra lipoproteine, ma vengono utilizzati metabolicamente nella sede della loro liberazione (muscoli, tessuto adiposo), o veicolati nel plasma legati all’albumina. Nella figura, per ragioni di chiarezza, non sono indicate le vie di sintesi delle HDL (sono formate con una conformazione discoidale allo stato nascente nel fegato e nell’intestino) e, tra le vie cataboliche, è indicata solo quella in sede epatica. In realtà le HDL sono catabolizzate anche in altri tessuti e soprattutto nel rene. LPL = lipasi delle lipoproteine; LCAT = lecitina-colesterolo-acil-transferasi; A, C, E, B48 e B100 = corrispondono alle apoproteine indicate con la stessa lettera dell’alfabeto; IDL = Intermediate Density Lipoproteins; RMN = remnants.
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Entrano quindi nel circolo dei vasi linfatici, fino al dotto toracico e di qui nel circolo venoso. La loro presenza in circolo rende ragione, come abbiamo già osservato in precedenza, dell’aspetto lattescente del plasma sanguigno dopo un pasto, particolarmente se ricco di grassi. Il fenomeno ha una durata limitata, raggiungendo un massimo d’intensità circa quattro ore dopo il pasto, e regredendo in modo pressoché completo entro dodici ore. L’eliminazione dei chilomicroni dal circolo venoso avviene ad opera della lipasi delle lipoproteine (LPL) presente a livello dell’endotelio dei capillari del tessuto adiposo e del muscolo, ivi compreso il muscolo cardiaco: questa lipasi è attivata da un’apoproteina, l’apoproteina CII, presente nei chilomicroni, e induce la scissione dei trigliceridi e la liberazione di acidi grassi liberi. Questi ultimi a livello muscolare vengono utilizzati a scopo energetico, mentre nel tessuto adiposo sono risintetizzati sotto forma di trigliceridi, e quivi immagazzinati a scopo di riserva. Quando sono veicolati nel plasma, gli acidi grassi liberi non sono incorporati in lipoproteine, ma legati all’albumina. Altre modificazioni importanti riguardano la costituzione proteica dei chilomicroni impoveriti in trigliceridi a seguito dell’azione della lipasi delle lipoproteine. Avviene infatti una serie di scambi con le lipoproteine ad alta densità (HDL) presenti nel plasma. I chilomicroni cedono alle HDL le apoproteine A e C e ricevono in cambio apoproteina E e colesterolo esterificato. Le particelle che ne risultano, dette remnants dei chilomicroni, presentano perciò una costituzione profondamente modificata: meno trigliceridi e più colesterolo esterificato; inoltre, la presenza dell’apoproteina E è essenziale perché queste particelle siano captate dal fegato grazie all’interazione con un recettore specifico per questa apoproteina. A livello epatico, il colesterolo può venire utilizzato per la sintesi degli acidi biliari, e quindi venire eliminato, oppure essere eliminato con la bile senza alcuna metabolizzazione. Il colesterolo captato dal fegato viene peraltro utilizzato eminentemente per la sintesi di altre lipoproteine importanti nella via endogena. 2. Via endogena. Una larga parte dei grassi che vengono dosati nel sangue a digiuno non sono di origine alimentare, ma endogena e, come abbiamo appena avuto occasione di dire, vengono sintetizzati nell’organismo, principalmente a livello del fegato: si tratta soprattutto di colesterolo e trigliceridi, questi ultimi sintetizzati a partire dai carboidrati assunti con la dieta. La sintesi epatica è tale che, in condizioni di normalità, esiste una continua immissione di lipidi in circolo, indipendentemente dall’apporto esterno. Il trasporto di tali lipidi è affidato ad una classe specifica di lipoproteine, le VLDL: queste ultime contengono, oltre a colesterolo esterificato, una buona quantità di trigliceridi, e sono sottoposte esse stesse all’azione della lipasi lipoproteica (LPL) a livello dei capillari nei muscoli e nel tessuto adiposo. Il destino dei trigliceridi scissi in acidi grassi non esterificati da tale enzima è del tutto analo-
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go a quello degli stessi grassi derivanti dai chilomicroni: essi vengono infatti utilizzati come materiale energetico dalle cellule muscolari e immagazzinati sotto forma di trigliceridi negli adipociti. Dopo questo processo, le VLDL risultano modificate in particelle più piccole, più povere in trigliceridi e più ricche in colesterolo esterificato, anche perché ne ricevono una quota dalle HDL presenti nel plasma. Queste particelle sono i cosiddetti remnants delle VLDL o IDL, il cui destino è duplice. In parte esse possono essere captate dal fegato e sottoposte a trasformazione metabolica (il destino dei loro costituenti non è diverso da quello dei costituenti dei remnants dei chilomicroni). In parte esse possono essere ulteriormente trasformate nel plasma, cedendo le apoproteine C ed E alle HDL, e divenendo così LDL. Queste nuove lipoproteine, le LDL, derivano chiaramente dalle VLDL, dalle quali tuttavia si differenziano per contenuto in grassi e funzione: le LDL sono infatti deputate in prima istanza al trasporto di colesterolo esterificato ai tessuti diversi dal fegato, mentre le VLDL, come abbiamo visto, trasportano soprattutto trigliceridi. Le LDL sono catabolizzate più lentamente dei loro precursori e perciò queste lipoproteine sono più concentrate nel plasma, ove veicolano circa i tre quarti del colesterolo che vi è contenuto. È importante osservare che le LDL hanno ancora la possibilità di venire captate dal fegato, ma per la maggior parte sono destinate ad altri compiti. È infatti la captazione delle LDL da parte dei tessuti che rende ragione della clearance plasmatica di circa i due terzi di queste lipoproteine, e tale captazione è mediata dallo stesso tipo di recettori presenti sulle membrane degli epatociti (viene riconosciuta l’apoproteina B). I recettori tissutali sono soggetti a modulazione, nel senso che tendono ad essere più rappresentati nel caso che le cellule abbiano necessità di colesterolo, mentre tendono a diradarsi nel caso che le cellule siano sature di tale grasso (“down regulation”). Una riduzione dei recettori di membrana si verifica anche in presenza di un eccesso di molecole in grado di legarsi ad essi. Esistono cellule che captano colesterolo in modo consistente: si tratta delle cellule delle gonadi, ma soprattutto delle cellule della corteccia surrenalica, ove vengono sintetizzati gli ormoni steroidei. Inoltre, tutti i tessuti captano, seppure in quantità diversa, il colesterolo, in quanto quest’ultimo rappresenta un costituente essenziale delle membrane cellulari, che le rende meno “fluide”. 3. Assunzione da parte dei macrofagi. Le LDL circolanti possono essere captate dai macrofagi del sistema reticolo-endoteliale e dai monociti circolanti (precursori dei macrofagi tissutali) nell’ambito della loro funzione di cellule “spazzino”. Questa captazione è dipendente da un recettore diverso da quello tissutale per le LDL e che ha una elevata affinità per LDL chimicamente alterate mentre non riconosce le LDL native. Questo recettore è stato chiamato recettore “scavenger” (che in inglese significa spazzino) o recettore per le acetil-LDL (dato che la acetilazione è stata la prima al-
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terazione chimica delle LDL, sperimentalmente indotta, che ha condotto al riconoscimento di questo recettore) ed è stato trovato soltanto sui monociti-macrofagi, sulle cellule di Kupffer e sulle cellule endoteliali, specie su quelle dei sinusoidi epatici. I macrofagi che assumono le lipoproteine LDL alterate si caricano di goccioline lipidiche assumendo l’aspetto di “cellule schiumose”, di grande importanza per la patogenesi dell’aterosclerosi. Le alterazioni chimiche cui possono andare incontro in vivo i lipidi delle LDL sono di tre tipi: a) ossidazione di acidi grassi polinsaturi e generazione di radicali liberi dagli acidi grassi ossidati; b) degradazione della lecitina a isolecitina; c) coniugazione dei radicali liberi generati dall’ossidazione, mediante un legame covalente, con residui lisinici dell’apoproteina B100. Quest’ultimo processo è di particolare importanza perché comporta anche un’alterazione della porzione proteica delle LDL, conferendole una conformazione antigenica diversa da quella delle LDL native. Conseguentemente, l’organismo è in grado di mettere in moto una reazione immunitaria contro l’apoproteina B100 modificata, producendo anticorpi che si legano alle LDL alterate e facilitano la loro captazione da parte dei macrofagi. In questo caso, infatti, la captazione può avvenire anche indipendentemente dal recettore “scavenger”, grazie al recettore per la regione Fc delle immunoglobuline, di cui i macrofagi sono abbondantemente provvisti. Quest’ultimo meccanismo è particolarmente importante nei diabetici, nei quali l’apoproteina B100 può essere anche antigeneticamente modificata da legami con molecole di glucosio facilitati dall’iperglicemia (processo definito “glicazione”: Cap. 64). Occorre ricordare che queste alterazioni chimiche si verificano più facilmente su lipoproteine LDL che sono state impoverite del loro contenuto lipidico e sono perciò dette “piccole LDL dense”. È quindi comprensibile che queste siano particolarmente aterogenetiche. L’ossidazione degli acidi grassi resta comunque il meccanismo più importante di alterazione delle lipoproteine. Benché abbia poca tendenza a verificarsi nelle LDL circolanti, grazie alla protezione di sostanze antiossidanti presenti nel plasma, può avvenire con facilità quando le lipoproteine hanno uno stretto contatto con cellule, quali quelle endoteliali e gli stessi macrofagi, grazie all’azione di ossigenasi cellulari. Perciò una certa quantità di LDL ossidate si produce inevitabilmente anche in condizioni fisiologiche e la captazione da parte dei macrofagi assicura la loro rimozione. Questo è utile, perché è stato dimostrato che le LDL ossidate sono citotossiche e potrebbero danneggiare vari organi e tessuti. Il fatto che, in conseguenza della loro captazione, si formino cellule schiumose capaci, come si vedrà, di avviare i processi aterosclerotici, è una spiacevole conseguenza di questa utile funzione. 4. Rimozione del colesterolo dai tessuti. Quando le cellule muoiono, o nel normale processo di ricambio metabolico, si ha cessione di colesterolo libero. Questo colesterolo libero è assunto dalle HDL allo stato nascente (e cioè non ancora cariche di colesterolo). In questa forma le HDL sono sintetizzate dal fega-
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
to e dall’intestino e, venendo a contatto con le cellule, sono in grado di assumere l’eccesso di colesterolo libero che viene rilasciato da queste ultime. Il processo è completato dall’enzima plasmatico lecitina-colesteroloaciltransferasi (LCAT), che converte il colesterolo libero in esterificato. Così convertito, il colesterolo è trasferito nella parte interna delle HDL e questo conferisce loro una forma sferica (allo stato nascente queste particelle hanno una forma discoidale). Le HDL giocano un ruolo molto importante nel trasporto del colesterolo. Infatti asportano questa sostanza dai tessuti e la indirizzano, in forma esterificata, verso varie direzioni: a) verso i remnants dei chilomicroni e quindi al fegato; b) verso le VLDL e quindi, tramite le IDL, o al fegato o alle LDL che ne derivano (in quest’ultimo caso il colesterolo è riciclato verso i tessuti); c) direttamente al fegato attraverso il catabolismo delle HDL. Il destino metabolico del colesterolo nel fegato è già stato descritto. Le HDL, inoltre, sono molto importanti nel regolare la distribuzione delle apoproteine, che determina la conversione di alcune lipoproteine in altre. Assumono apoproteine A e C dai chilomicroni, cedendo la loro apoproteina E. Assumono anche apoproteine C ed E dalle IDL, consentendo la loro trasformazione in LDL. Non sorprende quindi che i livelli plasmatici di HDL siano di molta rilevanza. Si è visto che questo processo avviene principalmente nel fegato e nell’intestino ed è dipendente dalla sintesi delle appropriate apoproteine, tra le quali AI e AII sono le più importanti. La produzione dall’apoproteina AI è maggiore nelle donne che negli uomini ed è incrementata dalla somministrazione di estrogeni. È questo il motivo per cui le donne in età fertile hanno nel plasma livelli più elevati di HDL rispetto agli uomini. Il catabolismo delle HDL avviene in larga misura nel fegato e tuttavia può aver luogo anche in altre cellule. Oltre al fegato, il rene è un’importante sede di catabolismo delle HDL. La rilevanza delle lipoproteine nell’induzione di aterosclerosi è riportata nella tabella 3.3 Tabella 3.3 - Aterogenicità delle lipoproteine. (Da Havel e Rapaport, 1995, modificata.) Lipoproteine aterogenetiche – – – – –
Remnants dei chilomicroni Remnants delle VLDL IDL (Intermediate Density Lipoproteins) LDL (Low Density Lipoproteins) LP (a) (Lipoproteina “a piccolo”)
Nei comuni metodi analitici IDL, LDL e LP (a) sono dosate insieme e classificate tutte come LDL
Lipoproteine antiaterogenetiche – HDL Lipoproteine non aterogenetiche – Chilomicroni – VLDL (Very Low Density Lipoproteins)
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nei chilomicroni, mentre nel secondo di quelli endogeni, sintetizzati dal fegato e veicolati dalle VLDL.
Tabella 3.4 - Iperlipoproteinemie. COL I IIa IIb III IV V
TRG
VLDL
IDL
LDL
+ + + +
+ + + +
CHY +
+ +
+ + + +
+
C. Iperlipoproteinemie. Il complesso transito dei grassi nel sangue determina la presenza di lipidi nel plasma i cui livelli, nelle persone sane, sono contenuti entro valori prestabiliti. Esiste tuttavia la possibilità che si verifichino errori, o siano presenti deficit, i quali ostacolano il normale metabolismo dei grassi, con conseguente aumento dei livelli di una o più classi di lipoproteine. Approssimativamente venti anni or sono, le iperlipoproteinemie sono state classificate da Frederickson, il quale le ha indicate con i numeri romani (Tab. 3.4). 1. L’iperlipoproteinemia di tipo I è caratterizzata da un aumento di chilomicroni, e viene pertanto definita iperchilomicronemia o anche ipertrigliceridemia esogena, in quanto sono aumentati i trigliceridi di provenienza alimentare. I pazienti affetti caratteristicamente mostrano un aumento dei chilomicroni plasmatici dopo un pasto contenente grassi, che non è transitorio ma prolungato, e tale che il siero appare ancora lattescente oltre dodici ore dopo l’assunzione di cibo. 2. L’iperlipoproteinemia di tipo IIa è caratterizzata da un aumento delle LDL e quindi del colesterolo esterificato, il grasso che viene trasportato da tali lipoproteine. 3. L’iperlipoproteinemia di tipo IIb rappresenta una variante della forma IIa, in cui, oltre alle caratteristiche proprie della forma sopracitata (aumento di LDL e quindi di colesterolo esterificato) si ha un incremento anche delle VLDL, contenenti trigliceridi. 4. Nell’iperlipoproteinemia di tipo III si osserva un aumento tanto del colesterolo quanto dei trigliceridi, in assenza di incremento di alcuna lipoproteina normale: di fatto in questa forma di iperlipoproteinemia sono aumentati i remnants VLDL, cioè i prodotti intermedi derivanti dalla scissione delle VLDL ad opera della lipasi delle lipoproteine, e contenenti sia colesterolo che trigliceridi. L’elettroforesi dei pazienti affetti da questa forma mostra una banda lipoproteica allargata, in posizione anomala. 5. L’iperlipoproteinemia di tipo IV è caratterizzata da un aumento delle VLDL e quindi dei trigliceridi: è importante osservare come, sia nell’iperlipoproteinemia di tipo I che in quest’ultima di tipo IV, i livelli dei trigliceridi siano elevati. Nel primo caso, tuttavia, si tratta di un aumento dei trigliceridi di origine esogena, presenti
6. L’iperlipoproteinemia di tipo V è caratterizzata da un aumento dei trigliceridi sia endogeni che esogeni, cioè interessa sia i chilomicroni che le VLDL: può essere considerata come una combinazione della forma I e della forma IV. Delle forme sopra descritte, le più comuni sono rappresentate dalla forma IIa, IIb e IV, mentre le altre sono assai meno frequenti e di raro riscontro clinico. D. Cause di iperlipoproteinemia. Vediamo ora di esaminare quali sono le cause in grado di determinare un aumento delle lipoproteine nel sangue. Innanzitutto le iperlipoproteinemie possono essere distinte in forme primitive ovvero secondarie ad altre malattie. Per quanto riguarda le forme primitive, trasmesse ereditariamente con diverse modalità, come vedremo in seguito, è opportuno distinguere due tipi di alterazioni. Da un lato, infatti, ci sono particolari forme ereditarie (per lo più determinate da un singolo gene mutato), che sono in grado di condizionare livelli elevati di lipoproteine nel plasma, talora anche molto notevoli, indipendentemente da fattori esogeni. Dall’altro lato ci sono le forme più comuni, nelle quali l’iperlipoproteinemia si verifica solamente se l’assetto genetico interagisce con fattori dietetici. L’importanza della dieta è stata ampiamente dimostrata, evidenziando correlazioni positive tra determinati alimenti e/o quantità dell’apporto alimentare e aumento dei lipidi nel sangue. Uno studio epidemiologico importante su questo problema è stato condotto sui giapponesi che, come noto, tendono ad alimentarsi di meno e ad utilizzare cibi diversi rispetto alle popolazioni dei paesi occidentali. Si è visto che i giapponesi che vivono in Giappone presentano livelli di lipidi plasmatici e rischio di ammalare di aterosclerosi inferiori a quelli degli americani, ma i livelli lipidici e il rischio appaiono del tutto identici rispetto ai popoli occidentali nella popolazione giapponese immigrata negli Stati Uniti. I fattori alimentari in grado di favorire l’aumento di colesterolo nel sangue, per aumentata sintesi epatica (e delle lipoproteine deputate al trasporto di tale grasso, le LDL), sono risultati essere gli acidi grassi saturi, cioè quelli privi di doppi legami sulla catena molecolare. Tali grassi sono contenuti in quantità rilevanti nella carne (soprattutto di mammiferi), nel latte e nei suoi derivati, nelle uova, tutti alimenti assunti in abbondanza nelle popolazioni ad alto tenore di vita. Per contro, i grassi polinsaturi (ricchi di doppi legami), contenuti negli oli vegetali (non nell’olio d’oliva, dato che l’acido oleico presenta un solo doppio legame) e nel pesce, maggiormente utilizzati in determinati paesi (Giappone, Italia meridionale) svolgono un ruolo protettivo nei confronti dell’ipercolesterolemia. A questo scopo sembra avere importanza soprattutto l’acido linoleico. Per quanto riguarda i livelli plasmatici di trigliceridi, è stata invece documentata una correlazione positiva tra
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apporto calorico globale e ipertrigliceridemia, con concomitante aumento delle VLDL così come tra assunzione di alcool e ipertrigliceridemia. Per inciso, non a caso, questo è il tipo di iperlipoproteinemia più comune in Italia, ove è assai diffuso un apporto calorico eccedente le necessità organiche particolarmente ricco in carboidrati. È d’altro canto importante osservare come questi fattori ambientali non siano affatto svincolati da influenze genetiche, nel senso che, affinché si verifichi un’iperlipidemia, è necessario che si stabilisca un’interrelazione tra fattori alimentari e predisposizione genetica. Come interagiscano i due fattori non è ancora del tutto chiaro, ma è probabile che alterazioni anche minime o parziali del metabolismo lipidico possano, in condizioni di aumentato apporto dietetico, indurre aumenti dei lipidi plasmatici dagli effetti dannosi. È infine importante ricordare che, mentre la correlazione tra ipercolesterolemia e aterosclerosi è stata ampiamente documentata, non tutti gli studiosi sono d’accordo sul ruolo aterogeno dell’ipertrigliceridemia, che sembra avere un’azione sfavorevole soltanto se presente in concomitanza ad un aumento del colesterolo. E. Iperlipoproteinemie primitive. I disordini del metabolismo lipidico in grado di determinare iperlipoproteinemia possono venire ereditati con modalità differenti (Tab. 3.5). Possiamo così distinguere le iperlipidemie condizionate dalla mutazione di un singolo gene da quelle a trasmissione multifattoriale. Le prime sono ereditate come carattere mendeliano autosomico e vengono definite iperlipoproteinemie familiari. Sono descritte come trasmissibili con questa modalità tutte le 5 classi di iperlipidemie. Per molte di queste malattie è stato possibile definire anche il meccanismo responsabile dell’aumento dei diversi lipidi in circolo. L’iperlipoproteinemia familiare di tipo I comprende due varianti, il deficit familiare di lipasi delle lipoproteine e il deficit familiare di apoproteina CII (quest’ultimo può anche assumere la forma dell’iperlipoproteinemia di tipo V). Entrambe le condizioni sono trasmesse come carattere recessivo e sono dovute a difetto funzionale della lipasi delle lipoproteine, nel primo caso per un’anomalia della struttura dell’enzima, e nel secondo caso per assenza dell’apoproteina CII, che è un indispensabile cofattore per la sua attività. L’iperlipoproteinemia di tipo IIa, o ipercolesterolemia familiare, è trasmessa come carattere dominante (ma gli omozigoti hanno alterazioni dei lipidi plasmatici molto più gravi degli eterozigoti) ed è dovuta a un difetto del recettore cellulare delle LDL. Quest’alterazione comporta un rallentamento della captazione cellulare delle LDL e un aumento del loro livello nel sangue. Si è stimato che il tempo che normalmente le LDL passano nel sangue prima del loro catabolismo è di 2,5 giorni, mentre è di 4-5 giorni negli eterozigoti e più lungo ancora negli omozigoti con questa anomalia. In realtà, le mutazioni implicate possono essere diverse e finora sono stati descritti più di 700 tipi di varianti anomale del gene del recettore delle LDL.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Tabella 3.5. Iperlipoproteinemie primitive • Mutazione di un singolo gene – Iperlipoproteinemie familiari (tutti i tipi) – Iperlipoproteinemia multipla (o familiare combinata) • Multifattoriali – Ipercolesterolemia poligenica – Ipertrigliceridemia sporadica Iperlipoproteinemie secondarie (forme più comuni) • • • • • •
Diabete mellito Assunzione di alcool Contraccettivi orali Ipotiroidismo Sindrome nefrosica Malattie epatiche
Alcune di queste possono predisporre più di altre all’aterosclerosi. Negli omozigoti, ma anche occasionalmente in alcuni eterozigoti, lesioni ateromatose possono essere presenti nella radice dell’aorta ed estendersi nelle cuspidi valvolari aortiche, provocando una particolare forma di stenosi aortica sopravalvolare che può condurre a morte improvvisa. Esiste anche una rara forma di ipercolesterolemia familiare dovuta a una mutazione dell’apoproteina B100, che la rende meno adatta a legarsi a un normale recettore delle LDL. L’iperlipoproteinemia familiare di tipo III, o disbetalipoproteinemia familiare (per l’aspetto anomalo della banda delle -lipoproteine all’analisi elettroforetica) è trasmessa come carattere recessivo ed è dovuta ad una difettosa struttura dell’apoproteina E, che normalmente consente l’assunzione e il catabolismo dei remnants da parte del fegato. La frequenza degli omozigoti per questa anomalia è di circa 1:100, mentre la frequenza della disbetalipoproteinemia familiare è di circa 1:10.000. Devono perciò intervenire altri fattori in quell’1% degli omozigoti per questo carattere che sviluppano questa forma di iperlipoproteinemia. L’iperlipoproteinemia familiare di tipo IV, o ipertrigliceridemia familiare, è trasmessa come carattere autosomico dominante. Le forme più comuni sono dovute a un difetto funzionale della lipasi delle lipoproteine. Esiste anche una variante nella quale il difetto è a carico dell’apolipoproteina CII, che è l’attivatore di questa lipasi. L’aumento contemporaneo non solo delle VLDL, ma anche dei chilomicroni (tipo V), dipende dal fatto che entrambe queste lipoproteine competono per la stessa lipasi. Va ricordato che alcuni aumenti isolati della concentrazione dei trigliceridi nel sangue non escludono un aumento delle LDL, che possono essere presenti nella forma di “piccole LDL dense” povere di colesterolo, ma notevolmente aterogeniche. Il dosaggio dell’apoproteina B100 serve a individuare queste forme. Di tutte le iperlipoproteinemie familiari, il tipo IIa è quello gravato da una prognosi peggiore, in quanto i li-
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velli di colesterolo sono già tali alla nascita da danneggiare i diversi tessuti. Nei soggetti omozigoti, i livelli del colesterolo sono, in età adulta, pari a 6-8 volte i valori normali e in questi pazienti vengono descritti incidenti cardiaci prima del compimento dei vent’anni di età. La frequenza degli eterozigoti è stimata intorno a una persona ogni 500: si tratta di pazienti che presentano livelli di colesterolo da 3 a 4 volte superiori ai valori normali e il cui riconoscimento è estremamente importante per l’aumentato rischio di sviluppare precocemente patologie a carico dell’apparato cardiocircolatorio. In presenza di alti livelli di LDL è molto importante l’entità della frazione di queste lipoproteine che contiene anche la apo(a) – lipoproteine(a) –, in quanto il rischio di cardiopatia ischemica è tanto maggiore quanto più alto è il loro livello. Questo dipende da fattori genetici. La sintesi della apo(a) è infatti dipendente da un singolo locus che può essere occupato da vari alleli, ciascuno codificante una diversa isoforma della apo(a). A differenti isoforme corrispondono vari livelli quantitativi di sintesi della apo(a), e la concentrazione plasmatica di lipoproteine(a) di un singolo individuo è dipendente dal suo patrimonio genetico (uno stesso allele in duplicato nel caso di omozigoti, due alleli nel caso di eterozigoti). A parità di costituzione genetica determinante la sintesi di apo(a) gli individui con iperlipoproteinemia di tipo II hanno più alti livelli di lipoproteine(a) rispetto alla popolazione generale. Esiste poi una forma di iperlipoproteinemia, anch’essa ereditata come carattere autosomico dominante e caratterizzata da un aumento, in genere non particolarmente elevato, in alcune fasi della malattia di colesterolo e LDL (tipo IIa), in altre fasi di trigliceridi e VLDL (tipo IV), in altre ancora di colesterolo e trigliceridi (tipo IIb). Tipica della malattia è la modificazione delle alterazioni lipoproteiche nel tempo, che rende ragione della denominazione “multipla” o “familiare combinata”, oltre al riscontro, nel 50% circa dei parenti di primo grado, di una delle anomalie sopra descritte. In questi soggetti, generalmente il quadro lipidico appare normale fino ai vent’anni circa, con modificazioni progressive nel corso del tempo. Del secondo gruppo di iperlipoproteinemie fanno parte l’ipercolesterolemia poligenica e l’ipertrigliceridemia sporadica. Per entrambe queste affezioni non è stato possibile riconoscere un unico gene responsabile dell’insorgenza della malattia, ma è piuttosto probabile che proprio in queste forme giochi un ruolo determinante l’interrelazione che esisterebbe tra fattori alimentari e predisposizione genetica. In questi casi le lipoproteine LDL sono aumentate nel sangue non per un difetto del loro recettore, ma perché è incrementata la quantità di VLDL prodotte dal fegato. Le conseguenze cliniche delle iperlipoproteinemie variano in rapporto al tipo di errore metabolico e al componente lipidico eccedente in circolo. Un aumento consistente di chilomicroni (caratteristico delle dislipidemie di tipo I e V) comporta il grave pericolo di pancreatite acuta.
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Tutte le altre forme costituiscono un fattore di rischio importante per l’aterosclerosi. Dal punto di vista clinico, si tratta spesso di ammalati che non presentano alcun dato obiettivo peculiare al di fuori del riscontro, agli esami di laboratorio, di un aumento dei lipidi plasmatici. Una caratteristica importante dell’ipercolesterolemia familiare è la formazione di xantomi tendinei. Questi sono dovuti a un accumulo di colesterolo nella profondità dei tendini con una reazione fibrosa. Le sedi più comuni sono il tendine di Achille e i tendini sovrastanti alle nocche delle mani. Infiltrazioni dello stesso tipo si possono verificare in sede sottoperiostea, sulle tuberosità tibiali nella sede di inserzione del tendine patellare. Se in queste sedi si riscontrano tumefazioni ricoperte da cute normale e dure si deve controllare la colesterolemia. Gli xantomi nel tendine di Achille possono infiammarsi e provocare una tenosinovite. Istologicamente, queste lesioni assomigliano agli ateromi. L’arco corneale e gli xantelasmi non sono specifici dell’ipercolesterolemia familiare, ma in questa condizione si sviluppano più precocemente rispetto alla norma. Quando i depositi sono formati da trigliceridi (per esempio, nelle ipertrigliceridemie di tipo I, IV e V), si formano i cosiddetti xantomi eruttivi, ossia papule rilevate, con il centro giallastro e un alone eritematoso, localizzati prevalentemente alle natiche e agli altri punti di appoggio della superficie corporea. Nell’iperlipoproteinemia di tipo III coesistono entrambi i tipi di xantomi e, per di più, si osserva una colorazione giallastra delle creste cutanee delle palme e delle dita delle mani. È infine importante ricordare che si può avere ipercolesterolemia anche per un aumento delle lipoproteine HDL. Normalmente circa il 20% del colesterolo totale del plasma è veicolato da queste lipoproteine e tale quota percentuale è un poco più elevata nelle donne in età fertile e in coincidenza con particolari abitudini personali (attività fisica regolare, assunzione di quantità molto moderate di alcool). Tale aumento, che può essere conseguente anche ad una forma familiare (iperalfalipoproteinemia familiare), provoca in genere un modesto incremento del colesterolo totale e un discreto aumento della quota HDL; tale frazione lipoproteica è deputata all’eliminazione del colesterolo in eccesso e di fatto rappresenta un fattore di selezione positivo: i soggetti con questa particolarità presentano una maggiore longevità e una minore incidenza di infarto del miocardio. Per contro, soggetti con un deficit di colesterolo HDL tendono a manifestare aterosclerosi anche in assenza di ipercolesterolemia. F. Iperlipoproteinemie secondarie. Esistono diverse condizioni patologiche in grado di determinare iperlipoproteinemie secondarie. Vengono descritte in ordine di frequenza alcune forme tra le più comuni. 1. Diabete mellito. I pazienti affetti da diabete mellito possono sviluppare diverse forme di dislipidemie, la più comune delle quali è rappresentata da un aumento dei trigliceridi e delle VLDL (tipo IV). Questo dipende tanto da un aumento della produzione di VLDL dal fe-
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gato, quanto da una diminuzione dell’attività della lipasi delle lipoproteine. 2. Assunzione di alcool. L’assunzione di dosi elevate di alcool provoca un aumento dei trigliceridi e delle VLDL per inibizione dell’ossidazione degli acidi grassi e aumentata sintesi di trigliceridi a livello epatico. L’alcool rappresenta l’unico fattore dietetico in grado di dare da solo ipertrigliceridemia. 3. Contraccettivi orali. I contraccettivi contenenti estrogeni possono dare un aumento della trigliceridemia e delle VLDL plasmatiche (tipo IV) per aumentata secrezione epatica di lipoproteine particolarmente nelle donne che hanno una predisposizione genetica a sviluppare iperlipoproteinemie. 4. Ipotiroidismo. In corso di ipotiroidismo viene generalmente osservato un incremento del colesterolo e delle LDL (tipo IIa) per ridotto catabolismo delle LDL e dei remnants. 5. Sindrome nefrosica. Questa malattia è caratterizzata da una notevole perdita di proteine per gravi alterazioni renali, cui si associa generalmente un aumento di colesterolo e trigliceridi, con il carattere più spesso dell’iperlipoproteinemia di tipo IIb. 6. Malattie epatiche. La cirrosi biliare primitiva provoca un aumento di colesterolo, fosfolipidi e lipoproteine per mancata eliminazione del colesterolo in eccesso attraverso la bile. L’epatite acuta può condizionare un incremento delle VLDL per ridotta sintesi di enzimi di origine epatica (LCAT). G. Diagnosi delle iperlipoproteinemie. Nelle indagini di screening, eseguite per il riconoscimento del rischio di aterosclerosi, le determinazioni minime da effettuare sono il colesterolo e i trigliceridi nel siero e la valutazione della quantità di colesterolo legata alle lipoproteine HDL, che normalmente è circa il 20% del colesterolo totale del siero (un aumento di questa frazione è, infatti, un fattore di protezione piuttosto che di rischio). Per le valutazioni cliniche correnti non si adopera né l’ultracentrifuga, né l’elettroforesi, ma si dosano le concentrazioni di colesterolo totale nel siero e di colesterolo presente nelle HDL (quest’ultimo dopo avere isolato queste lipoproteine con un metodo fisico-chimico). La differenza tra i due valori permette di valutare la concentrazione nel siero del cosiddetto colesterolo non HDL, largamente rappresentato dal colesterolo presente nelle LDL. Per una stima migliore di quest’ultimo si possono dosare anche i trigliceridi e applicare la formula di Friedenwald: colesterolo LDL = colesterolemia totale – – [(trigliceridi del siero : 5) + colesterolo HDL] È anche possibile precipitare le lipoproteine LDL e dosare direttamente il colesterolo che contengono. La definizione di aumenti patologici dei lipidi plasmatici, tuttavia, non appare del tutto semplice, in quanto non esiste una distinzione netta tra valori nor-
mali e valori sicuramente patologici, ma si ha, al contrario, una notevole dispersione dei valori, con influenze legate all’ambiente e all’alimentazione. La relazione tra i livelli nel siero dei vari tipi di colesterolo e il rischio di malattia coronarica è riportata nella tabella 3.6. I valori normali sarebbero quelli che non comportano un rischio significativo. In realtà questo modo di esprimere i valori normali del colesterolo e dei trigliceridi del siero è del tutto convenzionale, perché la tendenza all’aumento si svolge gradualmente lungo tutto l’arco della vita e l’età di vent’anni è indicata solo per comodità di riferimento. Recentemente, il concetto di livelli di lipidi plasmatici normali (cioè presenti nella maggioranza degli individui normali di una data popolazione) è stato sostituito dal concetto di livelli “desiderabili”, cioè tali da comportare una significativa diminuzione del rischio di cardiopatia ischemica. In base a questo principio è stato suggerito che la colesterolemia venga mantenuta al di sotto di 200 mg/dl a tutte le età. La valutazione elettroforetica delle lipoproteine del siero è conveniente in tutti i casi, ma lo è soprattutto nell’iperlipoproteinemia di tipo III, dove una larga banda anomala è caratteristicamente riconoscibile nel tracciato. Anche l’esame diretto del siero sanguigno (dopo conservazione per almeno 18 ore a 4 °C) è utile per caratterizzare un’iperlipoproteinemia. Nelle forme con aumento delle VLDL (tipo IV) o dei remnants (tipo III) il siero apparirà diffusamente torbido. Nelle forme accompagnate da iperchilomicronemia si avrà uno stato lattescente che galleggia sul rimanente siero, limpido (nel tipo I) o diffusamente torbido (nel tipo V). H. Altre alterazioni delle lipoproteine. Queste, almeno in forma rilevante, sono molto rare e vengono qui ricordate solo brevemente. Distinguiamo tre casi. 1. Alterazioni qualitative delle lipoproteine LDL. Sono presenti in soggetti con xantomi tendinei in assenza di una significativa ipercolesterolemia. Per lo più il difetto consiste in un esagerato assorbimento di steroli vegetali nell’intestino. La condizione prende il nome di -sitosterolemia, dato che il -sitosterolo sostituisce il colesterolo delle LDL e nei depositi tissutali. In altri casi il difetto è nel fegato e consiste in una ridotta conversione metabolica del colesterolo in acido Tabella 3.6 - Rischio di eventi coronarici in pazienti classificati in base ai livelli di colesterolo plasmatico LDL o non HDL. (Da Havel e Rapaport, 1995.) CATEGORIA DI RISCHIO
COLESTEROLO LDL mg/dl)
COLESTEROLO non HDL (mg/dl)
≥ 190
> 220
Alto
≥ 160
> 190
Desiderabile
< 130
< 160
Ottimale per pazienti coronaropatici < 100
< 130
Molto alto
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cheno-desossicolico. Il precursore metabolico colestanolo si accumula nelle lipoproteine LDL del plasma. La condizione è denominata, in dipendenza del quadro clinico che ne consegue, xantomatosi cerebrotendinea. 2. Deficit di chilomicroni, VLDL e LDL. Sono solitamente dovuti a difetti genetici nei quali è assente o ridotta la capacità di sintetizzare le apoproteine B48 e B100. In questi casi, oltre alle alterazioni dei lipidi (ipocolesterolemia, ipotrigliceridemia) e delle lipoproteine (--lipoproteinemia) sono presenti manifestazioni neurologiche (atassia spinocerebellare, retinite pigmentosa atipica), intestinali (malassorbimento) ed ematologiche (alterata conformazione delle emazie, detta acantocitosi). Il deficit di sintesi della sola apoproteina B100 consente normali livelli di trigliceridi nel siero dopo pasto grasso. Questi pazienti sono affetti da ritardo mentale e deficit di vitamina E. Infine, bassi livelli di lipoproteine, di trigliceridi e di colesterolo possono essere secondari ad altre malattie: sindromi da malassorbimento, cachessia da qualsiasi causa, mieloma secernente. In quest’ultimo caso si pensa che la riduzione delle lipoproteine possa dipendere dalla loro interazione con la proteina monoclonale prodotta in eccesso. 3. Deficit di HDL. Queste alterazioni sono più importanti delle precedenti perché condizionano, per motivi ovvi se si ricorda il ruolo delle HDL nel trasporto dei lipidi, un’incrementata predisposizione all’aterosclerosi coronarica. Il deficit di HDL può essere geneticamente determinato e dipendere da uno dei seguenti fattori: a) difetto di sintesi globale delle HDL (ipoalfalipoproteinemia); b) difetto di sintesi delle apoproteine AI e CIII; c) alterazione qualitativa della apoproteina AI che determina un incremento del catabolismo delle HDL; d) deficienza di lecitina-colesterolo-aciltransferasi (LCAT). Considerando il ruolo centrale delle HDL nella conversione di alcune lipoproteine a bassa densità (chilomicroni, VLDL) in altre, non stupisce che in alcuni casi si abbia un aumento nel plasma di queste lipoproteine, talora con depositi di lipidi nei tessuti. La malattia di Tangier è un caso particolare in cui l’apoproteina AI è qualitativamente anomala e, almeno negli omozigoti, i depositi lipidici causano un ingrandimento delle tonsille (che appaiono di colore arancione), epato-splenomegalia, linfo-adenomegalia, neuropatia periferica ed un opacamento corneale. Alcuni pazienti con un deficit congenito di HDL presentano solo l’opacamento corneale. Questa condizione è definita “malattia dell’occhio di pesce”. Riduzioni più modeste dei livelli di HDL possono essere coincidenti con il sesso maschile, la vita sedentaria, l’obesità, l’ipertrigliceridemia e il fumo. Agenti infettivi Recentemente si è molto valorizzato il carattere infiammatorio delle lesioni aterosclerotiche e, in questo ambito, si è supposto che agenti microbici e virus possano cooperare con altri fattori di rischio nell’eziologia
dell’aterosclerosi. Argomenti a favore di questa ipotesi sono il fatto che anticorpi contro certi agenti infettanti, Chlamydia pneumoniae e cytomegalovirus, sono trovati con maggiore frequenza in pazienti coronaropatici che in soggetti indenni da questa malattia e, più ancora, la diretta dimostrazione di proteine appartenenti alla Chlamydia nelle placche ateromatose. Un gruppo di Autori italiani ha dimostrato che l’infezione dello stomaco con un ceppo particolarmente virulento di Helicobacter pylori (si veda il Cap. 23) si accompagna ad un’aumentata frequenza di cardiopatia ischemica. Lo stesso è stato sostenuto da Autori americani per i microrganismi che provocano infezioni dentarie. In questi ultimi casi, i microrganismi non vanno direttamente a localizzarsi nelle placche aterosclerotiche, ma potrebbero esercitare quello che viene definito un “effetto eco”, cioè un effetto a distanza con modalità che verranno discusse più oltre. Come si vedrà a proposito della patogenesi, l’eziologia infettiva sarebbe importante perché metterebbe in moto dei processi infiammatori. L’ipotesi di un’eziologia infettiva per l’aterosclerosi è stata presa tanto sul serio da tre grandi compagnie americane che producono antibiotici, attivi sulla Chlamydia, da indurle ad iniziare sperimentazioni su larga scala per vedere se la cronica somministrazione di questi antibiotici a soggetti a rischio può prevenire gli incidenti dovuti a coronaropatia.
Patogenesi Nella patogenesi dell’aterosclerosi è importante distinguere due tappe. La prima, preliminare e che dà luogo a una lesione potenzialmente reversibile, consiste nell’accumulo sottointimale di un certo numero di macrofagi carichi di lipidi, cellule schiumose, che determinano un’alterazione anatomica caratteristica, detta stria lipidica. La seconda, non più reversibile e destinata all’evoluzione, conduce alla formazione delle caratteristiche placche aterosclerotiche. Tradizionalmente l’aterosclerosi era considerata una malattia da accumulo: troppi lipidi nel sangue avrebbero portato alla loro deposizione nelle pareti arteriose. Attualmente questo modo di vedere la patogenesi dell’aterosclerosi viene ritenuto semplicistico e incompleto. Innanzitutto, i livelli di lipidi nel sangue sono un fattore di rischio, ossia esprimono una certa probabilità di sviluppare la malattia, ma non rappresentano un fattore causale obbligatorio. Inoltre, un’elevazione del colesterolo nel siero, soprattutto nella sua forma LDL, è presente in circa il 50% dei casi di cardiopatia ischemica, ma nei rimanenti deve esistere qualche altro fattore che è indipendente dai lipidi e che, attualmente, viene connesso con un processo infiammatorio. Secondo questo modo di vedere la patogenesi dell’aterosclerosi non si attribuisce a un processo degenerativo ma a un processo infiammatorio sistemico. L’aterosclerosi viene perciò considerata affine ad altri processi infiammatori a evoluzione cronica sclerotica, come la
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cirrosi epatica, l’artrite reumatoide, la glomerulosclerosi, la fibrosi polmonare e la pancreatite cronica. A favore di questa tesi è dimostrato che un’elevata concentrazione di proteina C reattiva (PCR) nel siero si correla positivamente con la propensione alla cardiopatia ischemica. In questo caso non si tratta degli aumenti marcati, che comunemente si osservano nelle infezioni, ma di incrementi marginali, che con i moderni metodi di dosaggio di questa proteina sono facilmente evidenziabili ma che potevano sfuggire ai metodi semiquantitativi del passato. Questo non significa che i livelli di lipoproteine nel siero non abbiano importanza, dato che il colesterolo è contenuto nelle placche aterosclerotiche, ma che occorre anche un fattore che ne favorisca la deposizione nella parete delle arterie: questo fattore è l’infiammazione. Per comprendere come avvenga questo tipo di infiammazione occorre soffermarsi sul ruolo di vari tipi di cellule e, in particolare, delle cellule endoteliali, dei monociti, delle cellule muscolari lisce e dei linfociti T. Occorre anche dire qualcosa sulle piastrine. Le cellule endoteliali tappezzano all’interno tutto l’albero vascolare e si ritengono da tempo dotate di importanti proprietà fisiologiche, in particolare della già citata attività vasodilatatrice (grazie alla produzione di ossido nitrico) e della capacità di prevenire la formazione locale di trombi (in conseguenza della produzione di un particolare derivato dell’acido arachidonico, la prostaciclina, che inbisce l’aggregazione piastrinica). Inoltre, le cellule endoteliali sono in grado di produrre l’endotelina-1, e, almeno in alcune sedi, l’angiotensina II, o il peptide natriuretico C di cui si è parlato a proposito dell’ipertensione arteriosa. Quando le cellule endoteliali sono sottoposte a vari tipi di stimoli nocivi possono andare incontro a una particolare disfunzione che si traduce in una loro aumentata permeabilità alle macromolecole, e quindi anche alle lipoproteine, e in una maggiore adesività di monociti e linfociti T circolanti sulla loro superficie. Questo avviene per la derepressione di geni che fanno esprimere alla superficie delle cellule endoteliali molecole di adesione per i monociti e i linfociti T e che fanno produrre fattori chemoattraenti che favoriscono l’accumulo di queste cellule nella parete arteriosa. In conclusione, uno stimolo nocivo sulle cellule endoteliali della parete arteriosa promuove tanto una penetrazione locale di lipoproteine, quanto una concentrazione locale di cellule infiammatorie. A questo proposito è interessante ricordare che la derepressione nelle cellule endoteliali dei geni che condizionano l’infiammazione avviene più facilmente nelle sedi dove viene ad attenuarsi lo stress longitudinale della corrente sanguigna sulle pareti vascolari (“shear stress”, già ricordato) ossia nelle biforcazioni, nelle ramificazioni e nelle curvature delle arterie, che sono sia i luoghi dove il flusso del sangue arterioso tende a essere turbolento sia le sedi più comuni delle lesioni aterosclerotiche. Va infine ricordato che, tra le cellule infiammatorie, richiamate dalla disfunzione delle cellule endoteliali, non sono inclusi i granulociti neutrofili. I monociti sono i precursori dei macrofagi presenti nei tessuti che svolgono importanti attività. In primo
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luogo sono cellule fagocitiche, capaci perciò di interiorizzare materiale estraneo, che, nelle pareti arteriose, è rappresentato dalle macromolecole filtrate e, in particolare, dalle lipoproteine. In secondo luogo, possono digerire il materiale proteico così introdotto al loro interno e presentare ai linfociti T i peptidi che ne derivano, montati su molecole HLA (di istocompatibilità) di classe II, in modo da sollecitare delle risposte immunitarie specifiche. In terzo luogo possono secernere fattori solubili (citochine) che promuovono l’infiammazione, come l’interleuchina-1, il Tumor Necrosis Factor (TNF) e altre. Infine, possono proliferare localmente per effetto di una citochina chiamata Macrophage Colony-Stimulating Factor (MCSF). È chiaro perciò che i monociti hanno un ruolo chiave nell’infiammazione che conduce alle lesioni aterosclerotiche. Le cellule muscolari lisce sono presenti nella tunica media delle arterie, in quantità più o meno prevalente rispetto alle fibre elastiche a seconda del calibro dei vasi, e sono normalmente circondate da fibre di collageno I e III, che esercita un’attività inibitoria sulla loro capacità proliferative. Se, come può succedere per effetto dell’infiammazione, il collageno viene degradato, si ha proliferazione delle cellule muscolari lisce e la loro migrazione in un ambiente diverso da quello fisiologico, come avviene nelle placche aterosclerotiche, nelle quali le cellule muscolari lisce sono circondate da proteoglicani che contengono rade fibre collagene lassamente sparpagliate. La proliferazione e la migrazione dalla media verso l’intima delle cellule muscolari lisce fa sì che questi elementi possano interiorizzare lipoproteine nelle lesioni aterosclerotiche e contribuire al processo infiammatorio. I linfociti T sono i protagonisti delle risposte immunitarie adattative (specifiche) in quanto sono in grado di attivare questi processi in conseguenza del riconoscimento di peptidi montati su molecole HLA di classe II di altre cellule che hanno la funzione di presentare gli antigeni. Nelle risposte primarie si pensa che queste cellule che presentano gli antigeni siano elementi specializzati detti cellule dendritiche. Ma nelle risposte secondarie anche altre cellule, tra le quali i macrofagi, possono svolgere la stessa funzione. Tra i linfociti T, quelli CD4 positivi, a seguito di un riconoscimento antigenico specifico, liberano interleuchina-2, che è un fattore di proliferazione degli stessi linfociti, e altre citochine che direttamente o indirettamente provocano infiammazione. Si comprende perciò il ruolo importante dei linfociti T nel caso che in una lesione aterosclerotica i macrofagi presentino loro un antigene al quale sono sensibili. Le piastrine sono rapidamente attivate se a contatto con l’endotelio danneggiato, ma si suppone che possano contribuire allo sviluppo locale di infiammazione. Infatti, non appena sono attivate, esprimono alla superficie una molecola denominata CD40 ligando (CD40L). Questo significa che si può legare con la molecola corrispondente, denominata CD40, che è presente sui linfociti B, sui monociti-macrofagi e anche sulle cellule endoteliali. Questo legame dà luogo a un segnale: per esempio, il CD40L si trova sui linfociti T e vie-
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ne considerato importante per la cooperazione con i linfociti B. È stato dimostrato che il CD40L sulle piastrine attivate interagisce con le cellule endoteliali e le induce a esprimere molecole di adesione che facilitano il passaggio di monociti e linfociti T nella parete arteriosa. Fatte queste premesse, si può così delineare la patogenesi della aterosclerosi. Il primo passo deve essere rappresentato da un insulto nocivo sulle cellule endoteliali, che può essere fisico, chimico, infettivo o immunologico. Qui di seguito ne riportiamo alcuni. 1. Ipertensione arteriosa. È un classico stimolo fisico, particolarmente nelle sedi dove il flusso sanguigno è turbolento. 2. Radicali liberi. Si formano con il fumo di sigarette e rappresentano per le cellule endoteliali un insulto chimico. 3. Livelli superiori alla norma di omocisteina nel sangue. Non è ben chiaro in quale modo questa sostanza danneggi le cellule endoteliali. Elevati livelli di omocisteina possono essere geneticamente determinati (Cap. 52). Nei soggetti omozigoti si hanno lesioni arteriose molto gravi in giovane età, ma gli eterozigoti sono apparentemente normali, salvo una predisposizione ai fenomeni trombotici. È possibile che questa condizione possa anche avere un ruolo nell’induzione di lesioni aterosclerotiche. 4. Lipoproteine chimicamente modificate. Della possibilità di queste modificazioni si è già parlato a proposito dello smaltimento delle lipoproteine. È chiaro che è più facile che le lipoproteine modificate siano in quantità elevata se i livelli ematici di LDL sono costituzionalmente alti e questo stabilisce un collegamento diretto tra le iperlipoproteinemie e l’aterosclerosi. Un’altra modificazione importante si verifica nel diabete, per glicazione delle lipoproteine. In questa malattia esiste una particolare predisposizione all’aterosclerosi. 5. Infezioni. Di queste si è già parlato. È evidente che la localizzazione di un agente infettante direttamente nelle cellule endoteliali può indurre un’infiammazione locale. Un problema più controverso è il ruolo di infezioni croniche in sedi remote dalle lesioni aterosclerotiche, come una bronchite cronica, una prostatite cronica o una gengivite (o, come si è supposto, un’infezione cronica nello stomaco da Helicobacter pylori). Questa possibilità è stata considerata con attenzione perché è opinione diffusa che gli alterati livelli di PCR che si osservano nella cardiopatia ischemica non derivano da produzione di questa proteina nelle lesioni aterosclerotiche, ma altrove. Una spiegazione possibile è che dalle sedi di infezione cronica vengano messe in circolazione le citochine infiammatorie e che queste favoriscano l’evoluzione delle placche aterosclerotiche preesistenti. Che sia così sembra dimostrato dal fatto che anche infiammazioni sistemiche non infettive, come nella artrite reumatoide, favoriscono lo sviluppo di aterosclerosi.
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6. Reazioni immunitarie. Possono essere generate in loco se i macrofagi che hanno assunto lipoproteine alterate e perciò divenute antigeniche, le presentano ai linfociti T nelle stesse lesioni aterosclerotiche. Lo stesso può avvenire per quei microrganismi che possono localizzarsi direttamente nelle cellule endoteliali che coprono le lesioni. La sequenza degli eventi patogenetici può essere così delineata. 1. Uno qualsiasi dei fattori sopra indicati può provocare un danno endoteliale. Tra questi un ruolo di particolare importanza può essere esercitato dagli alti livelli ematici di LDL. 2. A seguito di questo danno, monociti e linfociti T aderiscono alla sede di lesione endoteliale e l’attraversano. Aumenta anche la permeabilità locale alle macromolecole e le lipoproteine penetrano nelle pareti arteriose. A questo processo dà un contributo la PCR presente nelle lesioni aterosclerotiche, sia che venga prodotta localmente, sia che vi pervenga attraverso la corrente sanguigna da lesioni distanti. È stato dimostrato che la PCR è un chemoattraente per i monociti e che, legandosi alle LDL, facilita la loro interiorizzazione in queste cellule. 3. I monociti, divenuti macrofagi, interiorizzano le lipoproteine, assumendo un aspetto particolare che è detto di “cellule schiumose”, e le digeriscono. Se questo processo va a buon fine la lesione è reversibile. È questo il caso delle cosiddette strie lipidiche. 4. Tuttavia, i macrofagi secernono anche citochine infiammatorie e il fattore di crescita per la loro moltiplicazione, il già citato MCSF. Aumentano perciò di numero e, promuovendo l’infiammazione, incrementano la permeabilità locale della barriera endoteliale e la penetrazione di lipoproteine. 5. Qualora i macrofagi presenti nelle lesioni aterosclerotiche presentino alla loro superficie, montati su molecole HLA di classe II, peptidi riconoscibili da parte dei linfociti T come segnali antigenici (e questi possono derivare anche da LDL modificate), quest’ultime cellule possono rilasciare nell’ambiente le citochine che direttamente o indirettamente promuovono l’infiammazione. 6. Le piastrine aderiscono all’endotelio danneggiato e vengono attivate. Oltre a determinare un rischio di trombosi, viene incrementato il processo infiammatorio locale. 7. L’eccesso di lipoproteine, e in particolare delle LDL ricche in colesterolo, può superare le capacità digestive dei macrofagi e il colesterolo liberato dai legami con le apoproteine può precipitare in forma cristallina nel loro citoplasma. I macrofagi possono perciò morire per apoptosi o per necrosi. In quest’ultimo caso liberano nell’ambiente gli enzimi litici che derivano dai loro lisosomi.
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8. Gli enzimi litici rilasciati dai macrofagi degradano le fibre collagene e consentono la migrazione dalla media verso l’intima di cellule muscolari lisce in grado di proliferare. In presenza di un eccesso di lipoproteine, le cellule muscolari lisce possono assumerle e, caricandosi di lipidi, prendere l’aspetto di cellule schiumose (a somiglianza di quanto fanno i macrofagi che, come si è visto, costituiscono la maggioranza delle cellule con questo aspetto). Possono perciò contribuire alla formazione delle “strie grasse”, le lesioni iniziali dell’aterosclerosi. Più facilmente, le cellule muscolari lisce attivano le loro capacità sintetiche, producendo sostanza fondamentale e fibre del connettivo e così dando origine a lesioni fibrose. Il loro ruolo sarebbe perciò fondamentalmente di tipo riparativo. Perciò, gli effetti lesivi sono seguiti da processi riparativi che sono esplicati principalmente dalle cellule muscolari lisce che sono presenti nella parete arteriosa. Ma perché le cellule muscolari lisce si impegnino in questi processi, è necessario che esse siano stimolate da vari fattori di crescita. Il più importante è prodotto dalle piastrine che aderiscono all’endotelio alterato o al connettivo dell’intima messo a nudo dalla retrazione delle cellule endoteliali (da qui la tendenza alla trombosi sulle lesioni ateromatosiche). Le piastrine così adese secernono un fattore chiamato PDGF (Platelet Derived Growth Factor) che è in grado di stimolare la proliferazione di cellule muscolari lisce della parete arteriosa. La formazione delle placche aterosclerotiche provoca un ispessimento delle pareti arteriose che inizialmente è compensato da una dilatazione graduale di questi vasi (“rimodellamento”). Ma, con il passare del tempo è inevitabile una stenosi dei lumi arteriosi con problemi di perfusione dei tessuti che sono alla base delle conseguenze cliniche dell’aterosclerosi. È molto importante anche la tendenza alla formazione di trombi sulle placche aterosclerotiche, che possono condurre a occlusioni vasali. Questo avviene per l’aggregazione di piastrine nelle zone di danneggiamento endoteliale ed è facilitato dal contesto infiammatorio delle lesioni arteriose. I fenomeni trombotici si verificano per lo più repentinamente (il che ha conseguenze importanti, per esempio nell’infarto del miocardio) e sono collegati con una caratteristica delle placche aterosclerotiche che viene denominata la loro instabilità. È, infatti, possibile che la capsula fibrosa che le ricopre sia sottile e possa rompersi o per trauma meccanico o per azione di enzimi litici liberati dai macrofagi. Questa rottura, anche se, come più spesso accade, costituisce una semplice fissurazione, provoca l’aggregazione piastrinica e la liberazione locale del fattore tessutale ad attività tromboplastinica e altri fattori emostatici (Cap. 52). Perciò, le placche aterosclerotiche instabili sono le più pericolose.
Anatomia patologica La lesione morfologica fondamentale dell’aterosclerosi è la placca ateromasica; essa è una raccolta di ma-
teriale fibro-grassoso a sede subintimale, con un’area centrale lipidica formata da colesterolo e suoi esteri, in parte circondata da uno strato fibroso. La placca ateromasica talvolta, ma non obbligatoriamente, è preceduta dalla “stria lipidica”, presente anche nel bambino, che appare come un’area focale di edema costituita da un accumulo di lipidi nell’intima. Le placche sono di colore biancastro o bianco giallastro e al taglio appaiono costituite da materiale poltaceo granulare e grassoso. Istologicamente, esse sono costituite da un accumulo di fibre connettivali e di matrice connettivale, che costituiscono in gran parte la componente superficiale, la cosiddetta cappa fibrosa, e da una proliferazione di cellule muscolari lisce disperse in quantità variabile nella cappa fibrosa. Infine, si osserva anche una deposizione di lipidi, che costituiscono la porzione più profonda e centrale della placca. Il materiale lipidico costituisce una massa disorganizzata alla cui formazione contribuiscono cristalli di colesterolo, residui cellulari e quantità variabili di fibrina e di altre proteine plasmatiche. Le variazioni morfologiche delle placche dipendono dalla diversa combinazione di tutte queste componenti. La placca ateromasica, aumentando di volume, tende a protrudere nel lume; nel suo pieno sviluppo, essa può andare incontro ad una serie di modifiche che danno luogo alle “placche complicate”. • L’ulcerazione della superficie e la successiva rottura della placca determinano lo svuotamento dei residui necrotici nel lume del vaso con conseguenti microembolie (emboli di colesterolo). • Sulla placca così lesa e fissurata si può verificare una trombosi, complicanza temibile, perché, nelle arterie di medio e piccolo calibro, può determinare occlusione del lume. • L’emorragia entro l’ateroma, dovuta sia alla lesione dell’endotelio che alla rottura delle sottili pareti dei capillari che vascolarizzano la placca. • Nelle fasi più avanzate della malattia gli ateromi possono andare incontro a massive calcificazioni, sino a trasformare il vaso in un condotto rigido e con la fragilità di un guscio d’uovo. • Infine, la placca ateromasica, anche se a localizzazione principalmente subintimale e con tendenza a evolvere in tutte le sue complicanze all’interno del lume, può, nei casi più gravi, determinare atrofia, da compressione sulla media, e frammentazione della componente elastica, così da diminuire la minor resistenza della parete in grado tale da permettere la dilatazione aneurismatica del vaso colpito.
Profilassi e terapia Da quanto sopra esposto è chiaro che per l’aterosclerosi la profilassi è particolarmente importante ed è legata alla dieta e allo stile di vita. La dieta non deve essere ricca di gassi animali, mentre sono utili gli alimenti vegetali (cosiddetta dieta mediterranea) e quelli di derivazione ittica. Occorre evitare l’eccesso di peso, svol-
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gere attività fisica e non fumare. Tutto questo fa parte della sapienza popolare, ma esistono altri particolari che sono meno conosciuti. Per esempio, si ritiene che le donne in età fertile siano relativamente risparmiate dall’aterosclerosi alle coronarie, ma non è vero che la terapia sostitutiva con ormoni femminili dopo la menopausa prolunghi questa protezione (al contrario, si è visto che nelle donne così trattate i livelli ematici di PCR aumentano). Si sa che esistono farmaci in grado di ridurre i livelli di lipidi plasmatici, ma alcuni meccanismi protettivi di questi farmaci non sono completamente noti. I farmaci impiegati a questo fine appartengono a tre classi: le statine, i fibrati e i derivati dell’acido nicotinico. Le statine sono indicate nelle iperliproteinemie nelle quali prevale l’aumento del colesterolo; i fibrati nelle forme nelle quali prevale l’aumento dei trigliceridi e i derivati dell’acido nicotinico (non disponibili come tali in Italia) nelle forme miste. Le statine sono farmaci molto efficaci nel ridurre i livelli di colesterolo plasmatici, ma possono esercitare azioni lesive sui muscoli (e, se queste sono massive, con liberazione nel sangue di mioglobina, possono anche provocare insuffìcienza renale acuta). Questo effetto nocivo si verifica più facilmente se le statine sono associate ad altri farmaci, come gli stessi fibrati o l’immunosoppressore ciclosporina A. Per questo motivo, quando si somministrano le statine, occorre controllare periodicamente nel sangue la concentrazione di enzimi derivati dai muscoli, come la creatinfosfochinasi (CPK). Con queste cautele, tuttavia, la somministrazione delle statine si è rivelata relativamente sicura e questi farmaci si sono rivelati utili sia nella profilassi primaria dell’infarto del miocardio (somministrazione a soggetti ipercolesterolemici che non avevano ancora avuto un infarto) che nella profilassi secondaria (somministrazione a soggetti che avevano avuto un infarto, per prevenire una recidiva). Un punto di grande interesse è che la profilassi secondaria è risultata utile anche in pazienti che avevano livelli normali di colesterolo nel sangue. Questo fa pensare che le statine svolgano un’attività anche direttamente sulla parete delle arterie, come suggerisce il fatto che questi farmaci sono in grado di ridurre i livelli di PCR nel sangue di pazienti con cardiopatia ischemica e che il numero dei progenitori delle cellule endoteliali circolanti nel sangue può essere significativamente aumentato quando vengono impiegati. Per i dettagli della terapia delle iperlipoproteinemie si vedano i testi di terapia.
Altre forme di arteriosclerosi Accanto all’aterosclerosi, esistono altre forme di arteriosclerosi, più rare, e in genere di minore rilevanza clinica, le quali possono presentarsi isolate o complicare una precedente degenerazione aterosclerotica dei vasi. A. Sclerosi mediale calcifica. Questa forma di arteriosclerosi, nota anche come sclerosi della media di Mönckeberg, dal nome dell’anatomopatologo tedesco
che per primo ne fece una descrizione, è caratterizzata dalla presenza di calcificazioni focali a livello della media, le quali interessano usualmente tutta la circonferenza di vasi arteriosi di tipo muscolare, di calibro medio-piccolo. Sono colpite soprattutto le arterie muscolari degli arti, inferiori e superiori, e quelle dei vasi che irrorano i genitali. Morfologicamente la lesione è caratterizzata da calcificazioni ad anello o a placca nella media delle arterie di medio e piccolo calibro (arterie a trachea di pollo). Le lesioni non causano restringimento del lume, ma perdita di elasticità della parete. L’intima e l’avventizia sono indenni.
La malattia colpisce prevalentemente persone di età avanzata e ha usualmente uno scarso significato clinico, in quanto non produce un restringimento dei vasi arteriosi, a meno che non si accompagni ad aterosclerosi. B. Arteriolosclerosi. Rappresenta, nella maggior parte dei casi, una complicazione dell’ipertensione, ed è caratterizzata dalla comparsa di fenomeni di ialinizzazione a livello dell’intima e della media delle arteriole di piccolo calibro, particolarmente delle arteriole renali (arteriolosclerosi ialina); ne deriva una moderata riduzione del lume dell’arteriola, con eventuale ischemia renale diffusa e ipotrofia dei reni. Sul piano morfologico si identificano due tipi istologici. L’arteriolosclerosi ialina, caratterizzata da ispessimento della parete per deposizione di materiale amorfo omogeneo, con riduzione del lume. L’arteriolosclerosi iperplastica, tipica dei pazienti con grave ipertensione, è caratterizzata da ispessimento della parete a bulbo di cipolla e da marcata riduzione del lume; nella forma iperplastica sono frequenti i depositi di sostanza fibrinoide e la necrosi acuta della parete del vaso, che integrano il quadro dell’arteriolite necrotizzante.
Nel caso di ipertensione maligna, il danno renale può manifestarsi altresì con la comparsa di fenomeni molto più gravi, di proliferazione di cellule (derivate dai miociti, pare) nelle pareti dell’arteriola con grave riduzione del lume; a questo si possono aggiungere fenomeni infiammatori e necrosi fibrinoide. Il quadro è chiamato arteriolosclerosi iperplastica.
Principali sindromi cliniche di origine arteriosclerotica Le conseguenze cliniche dell’aterosclerosi sono legate alla riduzione del calibro dei vasi interessati dalla malattia ed al conseguente ridotto apporto di ossigeno ai tessuti che da tali vasi dipendono per il fabbisogno energetico. La situazione che si viene a creare viene definita come ischemia, intendendo con questo termine una disponibilità di ossigeno inferiore a quelle che sono le esigenze di quel determinato organo in una situazione data. Il grado di ischemia provocato dalla malattia dipende da vari fattori.
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Innanzitutto dalla presenza o meno di circoli collaterali, in grado di supplire al ramo arterioso ristretto. È chiaro che il danno è tanto maggiore se è interessato un vaso arterioso cosiddetto terminale, cioè privo di collegamenti arteriosi collaterali. In secondo luogo è importante la velocità di instaurazione del restringimento stesso, in quanto un processo lento favorisce lo sviluppo, quando possibile, dei sopracitati circoli collaterali vicari. Da ultimo, ma non ultimo in ordine di importanza, viene il lavoro svolto in quel determinato momento dall’organo in causa, lavoro che condiziona direttamente il consumo di O2: è chiaro che un vaso arterioso stenotico può essere in grado di fornire una quantità di ossigeno sufficiente in condizioni di riposo, ma non di supplire alle aumentate richieste sotto sforzo. Una seconda, importante conseguenza clinica dell’aterosclerosi è rappresentata dalla possibile formazione locale di trombi, con ostruzione completa o pressoché completa di un’arteria. L’occlusione di un’arteria terminale provoca una brusca mancata irrorazione dei tessuti tributari del vaso, con comparsa di fenomeni di necrosi, noti altresì con il termine di infarto. Le sedi maggiormente suscettibili ai danni provocati dall’aterosclerosi sono menzionate di seguito. 1. Miocardio. Le arterie coronarie sono interessate assai frequentemente da processi aterosclerotici. Le forme cliniche spaziano dall’angina pectoris (forma ischemica) all’infarto acuto del miocardio, conseguenza di una trombosi delle coronarie. Per una trattazione di questi argomenti, si rimanda al capitolo dedicato alla cardiopatia ischemica (Cap. 7). 2. Encefalo. Le richieste di ossigeno da parte dell’encefalo sono caratteristicamente piuttosto elevate, ma non conoscono ampie oscillazioni. Se da un lato un deficit cronico di ossigenazione, secondario ad aterosclerosi delle arterie cerebrali, conduce ad una progressiva riduzione dei neuroni funzionanti, l’insorgenza di una trombosi o di un’emorragia cerebrale conduce alla sequela di eventi meglio nota come “ictus cerebri” (Cap. 84). 3. Apparato gastroenterico. La presenza di placche aterosclerotiche a livello del tronco celiaco o delle arterie mesenteriche può dar luogo ad un’ischemia intestinale cronica, la quale si rende più spesso evidente nel momento in cui aumentano le richieste di ossigeno, e cioè al momento della digestione. Caratteristicamente, i pazienti affetti da questa malattia, che in analogia all’equivalente miocardico viene definita anche “angina abdominis”, lamentano dolore addominale ad insorgenza postprandiale, frequentemente protratto anche per diverse ore. Fenomeni occlusivi più gravi, e l’eventuale formazione di veri trombi mesenterici, portano all’instaurazione di infarto mesenterico, cui concomita gangrena dell’intestino e peritonite diffusa. 4. Rene. La presenza di placche ateromasiche, a livello dell’arteria renale o di uno dei suoi rami principali,
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tali da occludere in gran parte o tutto il lume arterioso, è responsabile dell’insorgenza di ipertensione renale. D’altro canto, modificazioni aterosclerotiche o, più frequentemente, arteriolosclerotiche, dei vasi renali, possono condurre all’instaurazione progressiva di insufficienza renale cronica. 5. Arti. Placche ateromasiche tendono a localizzarsi con frequenza significativa a livello delle arterie che vascolarizzano gli arti, e particolarmente gli arti inferiori. Le sedi maggiormente colpite sono rappresentate dalle arterie iliache comuni, dalle arterie femorali (più spesso a livello del canale degli adduttori), mentre le arterie poplitee sono generalmente risparmiate al di sotto dell’origine dei loro tre rami principali. Più distalmente vengono interessate le arterie tibiali posteriori e le tibiali anteriori alla loro origine. I sintomi dell’affezione compaiono caratteristicamente in concomitanza all’aumento locale di richieste di ossigeno, cioè a dire con l’esercizio. Il dolore si manifesta dunque con la deambulazione, tanto più precocemente (da qualche centinaio di metri a pochi passi) quanto più grave è il restringimento del vaso, e tende a risolversi con il riposo: è questo il quadro noto con il nome di “claudicatio intermittens”, per il tipico andamento dei sintomi. La sede del dolore è utile per la localizzazione della stenosi. Una forma particolare dell’affezione, caratterizzata da dolore e astenia a carico di entrambi gli arti inferiori, e impotenza nel maschio, è legata alla presenza di una placca aterosclerotica a livello della biforcazione dell’aorta, ed è nota come “sindrome di Leriche”. Al fine di valutare la sede del tratto stenotico, accanto alla localizzazione del dolore, è di primaria importanza la valutazione dei polsi periferici: polso femorale, polso popliteo, tibiale posteriore, pedidio. Si può osservare una ridotta pulsatilità rispetto all’arto controlaterale, o assenza della pulsatilità stessa. A livello dei vasi di calibro maggiore, in presenza di un’ostruzione non completa, è altresì apprezzabile la presenza di soffi. Altri segni indiretti di una ridotta perfusione arteriosa sono dati dalla temperatura dei distretti interessati, che appaiono più spesso ipotermici, pallidi, con segni di ridotto trofismo (riduzione dell’apparato pilifero, distrofie ungueali, ulcerazioni cutanee), fino ad un quadro di vera e propria gangrena, nel caso di occlusione completa del circolo. Per una più precisa valutazione dell’entità e della sede della stenosi è quindi possibile fare ricorso ad indagini strumentali. In primo luogo all’oscillometria: si tratta di uno strumento che si basa sullo stesso principio dello sfigmomanometro, con in più la possibilità di trascrivere le oscillazioni impresse dall’onda cardiaca; è quindi possibile documentare l’ampiezza di tali oscillazioni a vari livelli degli arti e stabilire la sede e il grado di riduzione del flusso.
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Analoghi risultati si possono ottenere mediante l’utilizzazione dell’ultrasonografia (Doppler degli arti). Da ultimo, l’arteriografia consente una localizzazione assolutamente precisa delle lesioni arteriosclerotiche: questo esame viene generalmente riservato ai pazienti candidati a una correzione chirurgica.
Embolie di colesterolo Cristalli di colesterolo possono distaccarsi da placche aterosclerotiche ulcerate ed arrestarsi distalmente in piccoli vasi ove provocano una reazione infiammatoria. Questa evenienza è favorita da tre circostanze: a) chirurgia vascolare, in particolare su aneurismi aortici; b) cateterismo dell’aorta e dei suoi rami in occasione di un’angiografia o di uno studio emodinamico del ventricolo sinistro; c) instaurazione di una terapia anticoagulante o trombolitica. Dal punto di vista anatomopatologico l’embolia di colesterolo determina la formazione nella parete delle arteriole di un granuloma macrofagico, contenente i cristalli di colesterolo, cui consegue un ispessimento fibrotico dell’intima. Il quadro clinico dipende dal sito di origine delle embolie di colesterolo. Se questo si trova nell’aorta, e ciò avviene più spesso nell’aorta addominale, gli emboli di colesterolo si localizzano prevalentemente agli arti inferiori dando origine a lesioni cutanee dolenti, eritematose ed infiltrate del diametro di qualche centimetro che possono evolvere in necrosi, o a dolore ed arrossamento diffuso di qualche dito dei piedi. Se il punto di partenza è in qualche ramo dell’aorta, le manifestazioni possono essere viscerali, in pratica in qualunque sede, ma in forma più importante a carico dei reni (insufficienza renale rapidamente progressiva) e del cervello (amaurosi fugace, emianopsia o quadrantopsia, allucinazioni visive, accidenti vascolari cerebrali, encefalopatia diffusa per embolie ripetute). Quando le embolizzazioni di colesterolo sono multiple si verificano alterazioni dei segni di laboratorio di fase acuta (aumento della velocità di eritrosedimentazione, della proteina C reattiva, leucocitosi con neutrofilia e talora eosinofilia) e qualche volta anche alcune modificazioni che suggeriscono una malattia immunopatologica, quali la diminuzione nel siero delle frazioni complementari C3 e C4 ed una positività degli anticorpi antinucleo. Sul piano clinico la presenza di lesioni infiammatorie discrete, prevalentemente cutanee ed agli arti inferiori, assieme a segni di laboratorio di fase acuta può suggerire l’esistenza di una vasculite (Cap. 69). Si deve sospettare l’embolia di colesterolo quando il quadro clinico interviene in un soggetto nel quale sono già state riconosciute alterazioni aterosclerotiche e che di recente è andato incontro, a fini diagnostici o terapeutici, ad una delle circostanze favorenti l’embolia di colesterolo che abbiamo prima ricordato. La diagnosi di certezza si fa con la biopsia di una lesione e con la dimostrazione della presenza di cristalli di colesterolo in campioni fissati con formalina o al congelatore. In casi “fortunati” i cristalli di colesterolo
possono direttamente essere osservati sul fondo dell’occhio. La terapia dell’embolia di colesterolo dà poca soddisfazione. È bene sostituire gli anticoagulanti con degli antiaggreganti delle piastrine. I fenomeni infiammatori possono essere ridotti con l’impiego della colchicina o dei corticosteroidi. Ma nel complesso i risultati terapeutici sono frequentemente modesti.
PRINCIPALI MALATTIE DELL’AORTA L’aorta, il grosso tronco arterioso direttamente connesso al cuore, subisce a ogni contrazione sistolica l’urto della massa sanguigna in uscita dal ventricolo sinistro. È naturale che tale vaso sia particolarmente suscettibile da un lato a eventuali aumenti della pressione arteriosa e dall’altro sede preferenziale di processi aterosclerotici. Una modesta dilatazione e aumento di opacità dell’aorta, con accentuazione del “bottone” aortico, è abituale dopo i 50 anni; la comparsa di una linea di calcificazione sul margine del “bottone” è parafisiologica dopo i 60 anni. Le principali conseguenze degli insulti emodinamici sono rappresentate dagli aneurismi e dalla dissecazione del vaso stesso.
Aneurismi Consistono in una dilatazione abnorme e circoscritta permanente di un vaso, il più delle volte dovuta a indebolimento della parete da aterosclerosi o da lue. In base alla forma, si identificano aneurismi sacculari, fusati, cilindroidi. L’aneurisma dissecante, così chiamato impropriamente perché non provoca dilatazione del vaso, è caratterizzato da una soluzione di continuo intimale da cui penetra sangue, che dissocia gli strati della parete arteriosa tra il terzo medio e il terzo esterno della media. La dissecazione procede in senso prossimale o più frequentemente in senso distale; a volte l’elevata pressione del sangue che disseca la parete vasale può causare una seconda lacerazione intimale; si costituisce così un tragitto completo che col tempo può essere endotelizzato. In ogni modo, conseguenza della dilatazione aneurismatica è un aumento della tensione in tale sede, e quindi una maggiore probabilità di rottura del vaso. La causa più comune di aneurisma dell’aorta è rappresentata dall’aterosclerosi, più spesso in associazione all’ipertensione arteriosa. La distruzione delle fibre elastiche consente, sotto la spinta dell’onda sfigmica, una progressiva dilatazione e tensione del lume arterioso, con pericolo ingravescente di rottura del vaso. La sede maggiormente colpita da aneurismi di origine aterosclerotica è rappresentata dal tratto addominale
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
dell’aorta, più frequentemente al di sotto delle arterie renali. Più raramente, aneurismi aterosclerotici possono localizzarsi a livello del tratto discendente, in genere distalmente all’origine dell’arteria succlavia di sinistra. I pazienti affetti dall’anomalia, per lo più soggetti anziani, affetti da aterosclerosi e/o ipertensione, sono in genere asintomatici o paucisintomatici (può venire riferito un dolore addominale o lombare), fino all’insorgenza della drammatica complicazione dell’aneurisma, rappresentata dalla rottura: in questo caso, i soggetti colpiti mostreranno una rapida evoluzione verso un grave stato di shock, in concomitanza a un violento dolore addominale, spesso riferito come posteriore. Alla visita, nel caso di aneurismi addominali non complicati, accanto a segni suggestivi di aterosclerosi, è frequentemente possibile apprezzare una pulsazione in sede meso-epigastrica e addominale. La palpazione bimanuale permette di apprezzare che la massa si espande a ogni sistole in senso latero-laterale. In alcuni soggetti è altresì auscultabile, nella medesima sede, un soffio. Nel sospetto di aneurisma dell’aorta, le indagini appropriate sono rappresentate in prima istanza da una radiografia dell’addome (che consente di osservare la presenza di calcificazioni a livello dell’aneurisma stesso), quindi dall’ecografia addominale e dalla tomografia assiale computerizzata. La prognosi della malattia è largamente influenzata dalle dimensioni dell’aneurisma e dalla presenza concomitante o meno di cardiopatia: negli aneurismi a rapida crescita o con un diametro maggiore di 6 cm è in genere indicato un intervento correttivo, in quanto la rottura dell’aneurisma è gravata da un tasso di mortalità assai elevato. La diagnosi differenziale deve venire posta con le dilatazioni aneurismatiche di origine infettiva o traumatica. Una causa un tempo molto frequente di aneurismi dell’aorta è rappresentata dalla sifilide: gli aneurismi luetici tendono peraltro a localizzarsi con frequenza molto maggiore a livello dell’aorta ascendente e sono più spesso di tipo sacculare. Bisogna inoltre ricordare che anche altri agenti infettivi possono essere responsabili dell’insorgenza di aneurismi e tra questi particolarmente frequenti sono gli aneurismi micotici (in questo contesto, micotici vuol dire: da batteri). Un’altra patologia in grado di causare aneurismi, a localizzazione preferenziale nel tratto ascendente, è infine rappresentata dalla necrosi cistica della media, alterazione della parete arteriosa associata in alcuni casi alla sindrome di Marfan.
Dissecazione dell’aorta È rappresentata da un’interruzione della continuità degli strati della parete del vaso, cui consegue un progressivo scollamento degli strati stessi e un avanzamento di sangue nel contesto della parete del vaso. Si crea dunque una falsa via, che conduce ad effetti drammatici, qualora non venga effettuata una tempestiva correzione chirurgica (Fig. 3.4).
Sotto la pressione dell’onda sfigmica, infatti, la massa sanguigna tende a progredire all’interno della parete aortica, generalmente in senso anterogrado (soprattutto nel caso della dissecazione dell’aorta ascendente), ma talvolta anche in senso retrogrado (dissecazioni dell’arco e del tratto discendente). La dissecazione dell’aorta ascendente rappresenta la forma gravata da una prognosi più infausta, per una rapida evoluzione con interessamento dei grossi tronchi arteriosi a partenza nelle immediate vicinanze della lesione. La distorsione e l’occlusione di questi rami determinano importanti conseguenze: alterazioni neurologiche, cardiache, della perfusione a livello di diversi distretti corporei. Esiste inoltre una spiccata tendenza al diretto coinvolgimento del cuore: in circa la metà dei pazienti si sviluppa un’insufficienza aortica (per distorsione dell’apparato valvolare) e la morte sopravviene per rottura dell’aneurisma nel pericardio. Il più importante fattore predisponente alla dissecazione è rappresentato dalla necrosi cistica della media, la quale può essere associata alla sindrome di Marfan o, più spesso, all’ipertensione, alla coartazione dell’aorta o a una valvola aortica bicuspide.
Lacerazione dell’intima
Lume aortico
Sonda Falsa camera
La falsa camera contiene solo una parte del perimetro dell’aorta Lume aortico
Falsa camera
Sonda
La falsa camera raggiunge tutta la circonferenza aortica Falsa camera
Lume aortico
Lume aortico Rottura della parete esterna
Falsa camera Porta di rientro (autosvuotamento)
Figura 3.4 - Dissecazione dell’aorta. Le due immagini piccole in basso mostrano come l’aneurisma possa rompersi, ma anche come il sangue possa ritornare nel lume dell’aorta.
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3 - MALATTIE DEI VASI
Il sintomo cardine della dissecazione dell’aorta è rappresentato dal dolore, improvviso e violento, toracico, vuoi anteriore, vuoi posteriore. La diagnosi, che deve essere sempre presa in considerazione nel caso di dolore toracico importante, spesso associato ad anomalie della pulsatilità delle carotidi e/o dei valori pressori a carico dei due arti superiori (per interessamento dei grossi vasi arteriosi), deve venire confermata da esami strumentali da eseguirsi d’urgenza. La radiografia del torace standard mostra in genere un allargamento dell’ombra mediastinica superiore; è comunque indispensabile, in caso di sospetto di dissecazione, sottoporre il paziente ad un’aortografia urgente, per una valutazione più precisa della sede e delle dimensioni della lesione. L’instaurazione di un tempestivo trattamento ipotensivo e una correzione chirurgica sono infatti in grado di salvare la vita a una percentuale non trascurabile di pazienti.
PRINCIPALI MALATTIE DELLE VENE Cenni di anatomia e di fisiologia Le più frequenti malattie a carico del sistema nervoso riguardano i vasi degli arti inferiori. Al fine di meglio comprendere gli aspetti fisiopatologici, si rende dunque necessario un rapido riassunto dell’anatomia del circolo venoso di questo distretto. Il sistema di drenaggio degli arti inferiori è composto da un circolo venoso superficiale e da uno profondo, i quali sono messi in comunicazione tra loro da numerosi vasi, i cosiddetti vasi perforanti; inoltre, le due principali vene superficiali, la grande e la piccola safena, sboccano, alla loro terminazione, in due grossi tronchi venosi profondi. La grande safena prende origine sul lato medio-dorsale del piede e risale lungo la faccia mediale della gamba fino al ginocchio, superato il quale scorre nella docciatura tra i muscoli adduttori e il quadricipite, fino all’area subinguinale, ove sbocca nella vena femorale. La piccola safena inizia invece sul versante laterale del piede, per portarsi posteriormente e risalire, sulla linea mediana lungo il solco fra i due gemelli, fino alla fossa poplitea, ove si approfonda per sboccare nella vena poplitea. Tutti i principali vasi venosi dell’arto inferiore, vale a dire la grande e la piccola safena, i vasi venosi profondi e i vasi perforanti, sono dotati di valvole, che impediscono il reflusso di sangue verso la periferia. Un corretto drenaggio del sangue venoso dalle estremità in direzione del cuore richiede: • la pervietà del lume venoso; • un corretto funzionamento della pompa muscolare; • un’adeguata continenza del sistema valvolare. L’occlusione di uno qualsiasi dei tronchi venosi principali provoca infatti un’alterazione del flusso sangui-
gno (che è previsto dalla periferia al centro e dai vasi superficiali a quelli profondi), con conseguente sfiancamento del sistema valvolare. Il funzionamento della pompa muscolare, d’altro canto, è indispensabile in quanto la contrazione muscolare comprime i sinusoidi muscolari e provoca la chiusura delle valvole, favorendo così la propulsione del sangue verso il cuore. Le valvole del sistema venoso degli arti inferiori, infine, sono strutturate in modo da favorire anch’esse la risalita del sangue verso il cuore destro, e consentono infatti il flusso solo dal basso verso l’alto e dal sistema superficiale a quello profondo, per quanto concerne i vasi perforanti. Ne consegue che una congenita mancanza o una riduzione numerica delle valvole, così come uno sfiancamento del sistema stesso, comporta importanti conseguenze cliniche. È bene infatti ricordare che la “continenza” del sistema valvolare può venire messa in pericolo tanto da un’occlusione quanto da una dilatazione dei vasi venosi.
Vene varicose Con il termine di vene varicose si indica la dilatazione e la tortuosità dei vasi venosi superficiali, cui si associa insufficienza del sistema valvolare. Si tratta di una patologia relativamente frequente, che colpisce entrambi i sessi, anche se interessa con frequenza molto maggiore il sesso femminile (rapporto circa 5:1) e con un’età di insorgenza differente: la comparsa di vene varicose è infatti spesso associata alla gravidanza o alla menopausa per le donne, mentre per gli uomini esiste una più ampia distribuzione d’età, potendosi osservare casi nella giovinezza o anche in età piuttosto avanzata. Le sedi più colpite dalla malattia, come noto, sono rappresentate dal sistema della grande e della piccola safena. L’eziologia della malattia non è ancora del tutto chiarita, anche se giocano sicuramente un ruolo importante fattori ormonali, da un lato, ed ereditari, dall’altro. Sono stati infatti riconosciuti soggetti con valvole congenitamente ridotte o assenti. Sono inoltre fattori favorenti l’aumento della pressione endoaddominale e la stazione eretta prolungata. Da segnalare infine i rari casi conseguenti alla presenza di fistole arterovenose, a causa di aumentata pressione all’interno del sistema venoso. Quale che sia la causa prima della dilatazione delle vene superficiali, ne consegue un’impossibilità da parte del sistema valvolare a contenere e a sospingere in avanti la massa sanguigna, con conseguente stasi venosa, ulteriore dilatazione delle vene superficiali, distruzione delle valvole, anche delle vene perforanti, e da ultimo instaurazione di un circolo vizioso. Le vene varicose vengono classicamente distinte in primarie e secondarie. Si parla di forma primaria quando non esiste una concomitante patologia a carico del sistema venoso profondo, mentre la forma secondaria della malattia è legata ad un’ostruzione del sistema profondo, cui consegue insufficienza delle valvole delle vene perforanti (si veda in seguito Trombosi delle vene profonde).
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
La sintomatologia della malattia è comunemente caratterizzata da senso di peso agli arti inferiori e affaticabilità, particolarmente evidenti dopo stazione eretta prolungata. Nelle forme più avanzate e in quelle secondarie i sintomi sono più appariscenti e, a quelli sopra indicati, si aggiunge caratteristicamente edema. La diagnosi dell’affezione è per lo più clinica. In una prima fase, le vene tese possono essere percepite alla palpazione, anche se non all’ispezione; successivamente, si possono osservare i caratteristici “gavoccioli” varicosi, localizzati prevalentemente nel territorio di drenaggio della piccola e della grande safena. La presenza di vene varicose in sedi atipiche deve invece indurre al sospetto di un’ostruzione a livello del sistema profondo e quindi di una forma secondaria della malattia, o alla presenza di fistole arterovenose. Al fine di distinguere tra le due forme è utile effettuare il test di Brodie-Trendelenburg: il paziente viene fatto sdraiare in posizione supina e gli viene chiesto di sollevare un arto al di sopra del livello del cuore al fine di svuotare il letto venoso. Si lega quindi un laccio a mezza coscia con lo scopo di occludere le vene superficiali. Si fa poi assumere al paziente la stazione eretta e si osservano le modalità di riempimento della grande safena, con e senza laccio. In condizioni di normalità, quando il laccio è ancora stretto, si osserva un riempimento relativamente lento della safena dal basso verso l’alto; non si osserva alcuna ulteriore dilatazione della safena quando il laccio viene rimosso. In caso di incontinenza del sistema valvolare della grande safena, la situazione sarà analoga a quella precedentemente descritta con il laccio, ma alla sua rimozione si osserverà invece riempimento e dilatazione molto rapidi della safena, a procedere dall’alto verso il basso. In caso di vene varicose secondarie, infine, si osservano riempimento e dilatazione rapidi della grande safena anche con il laccio stretto, a causa dell’insufficienza del sistema valvolare delle vene perforanti, con ulteriore dilatazione della safena in caso di insufficienza anche del sistema valvolare della safena stessa, alla rimozione del laccio. A questo test è comunque utile aggiungere un Doppler venoso e, nelle forme dubbie, una flebografia. La prognosi della malattia, nella sua forma primaria, è sicuramente buona, mentre la forma secondaria può dare conseguenze assai più gravi e potenzialmente letali, quali la tromboembolia polmonare. La terapia della forma primaria si fonda essenzialmente sull’utilizzazione di calze elastiche, le quali riescono, nella maggior parte dei casi, a frenare l’evoluzione del processo. Nei casi più gravi, che comportano anche disturbanti conseguenze estetiche, può essere indicata l’utilizzazione di iniezioni sclerosanti o, meglio, lo stripping delle safene, anche se, da quando queste ultime vengono utilizzate per eventuali by-pass, si tende, quando possibile, a preservarle.
Occlusione venosa acuta La trombosi venosa può interessare da un lato il sistema venoso superficiale e dall’altro quello profondo.
I due eventi hanno un significato clinico, una prognosi ed una terapia molto diversi fra loro, per cui vale la pena di discuterne separatamente. A. Tromboflebite acuta. Si tratta di una trombosi acuta che interessa un segmento venoso superficiale e in questo caso l’evento infiammatorio gioca un ruolo preponderante nella genesi e nell’evoluzione della malattia. La trombizzazione del vaso venoso superficiale è con ogni probabilità secondaria all’infiammazione della parete venosa, e l’estensione dell’occlusione al distretto venoso profondo non è dimostrata e rappresenta quasi con certezza un evento assai raro. L’eziologia della malattia, fatta eccezione per i rari casi dovuti a manovre strumentali poco corrette (flebite chimica di origine iatrogena), è ancora poco chiara. Viene attribuita importanza ad alterazioni della parete del vaso venoso e a favore di questa ipotesi sono le ripetute flebiti che si manifestano in corso di tromboangioite obliterante, mentre alterazioni a carico dei meccanismi della coagulazione sarebbero responsabili delle forme che si osservano nei pazienti neoplastici (tromboflebiti migranti). Costituisce comunque un sicuro fattore favorente la presenza di vene varicose, possibilmente per la maggiore facilità a microtraumatismi. L’esordio della malattia è in genere brusco, caratterizzato dalla comparsa di vivo dolore a carico del vaso venoso interessato, che si presenta come un cordone arrossato e dolente. Coesistono in genere eritema ed edema, a carico dell’arto compromesso, e febbre. La diagnosi della malattia è clinica, va esclusa una linfangite o una cellulite batterica: nei casi dubbi è utile sottoporre il paziente ad un Doppler venoso che, in caso di tromboflebite, mostra invariabilmente trombizzazione del segmento interessato. La prognosi della malattia è di solito buona e la terapia si fonda sull’utilizzo di farmaci antinfiammatori, sul riposo e sulla sopraelevazione dell’arto affetto. B. Trombosi delle vene profonde. A differenza del quadro precedente, si tratta di una patologia assai seria, sia per l’esordio e il decorso particolarmente insidiosi, sia per le conseguenze spesso gravi e in alcune occasioni fatali. Com’è noto, infatti, trombi localizzati a livello delle vene profonde possono dar luogo ad emboli che, attraverso le camere cardiache di destra, raggiungono il polmone e provocano tromboembolia polmonare. La prevalenza della malattia, poi, non è affatto trascurabile: basti pensare che si calcola che circa un terzo dei pazienti al di sopra dei 40 anni che subiscono un intervento chirurgico maggiore o vengono colpiti da infarto miocardico acuto sviluppa trombosi delle vene profonde, complicata o non da tromboembolia polmonare, e che di questi circa la metà non vengono riconosciuti se non mediante accurate indagini cliniche e strumentali. La patogenesi della malattia chiama in causa tre fattori, e specificamente: la stasi venosa, di qualsiasi origine essa sia; alterazioni a carico della parete venosa;
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3 - MALATTIE DEI VASI
modificazioni della coagulazione, che favoriscono la formazione di trombi. Quale che sia l’importanza reciproca di questi fattori, sono ben noti gli eventi che favoriscono l’insorgenza di una trombosi venosa profonda, rappresentati da: • immobilizzazione a letto prolungata, specie se in concomitanza ad interventi chirurgici maggiori; • presenza di neoplasie, in particolare a carico del tratto gastroenterico e del polmone; • paralisi; • puerperio; • somministrazione di estrogeni (contraccettivi orali); • coagulazione intravascolare disseminata. Le sedi maggiormente colpite dalla malattia sono rappresentate dai vasi profondi degli arti inferiori, giunzione iliaco-femorale, femorale, poplitea e vasi venosi del polpaccio. Di queste, la trombosi delle vene del polpaccio è la più insidiosa, in quanto questo territorio è drenato da almeno tre grossi vasi venosi; ciò rende molto meno appariscenti i sintomi e i segni di ingorgo venoso. Esiste poi una forma, in verità piuttosto rara, di trombosi della succlavia, che può comparire dopo uno sforzo intenso con un arto in abduzione massimale. L’esordio clinico della malattia è per lo più insidioso ed esistono non pochi casi in cui l’affezione si manifesta con una tromboembolia polmonare. Fatta eccezione per la trombosi massiva ileofemorale, che provoca segni evidenti per interessamento di tutto l’arto inferiore (flegmasia alba dolens), i sintomi sono spesso aspecifici o del tutto assenti: senso di peso a carico di un arto, aggravato dalla deambulazione, modesta dolenzia o, più raramente, franco dolore. I segni clinici più comuni sono rappresentati dall’edema, dall’aumento della temperatura cutanea locale e dalla dolorabilità, che può e deve venire ricercata mediante alcune manovre semeiotiche: per quanto concerne la trombosi venosa delle vene del polpaccio, la dorsiflessione brusca del piede provoca in genere vivo dolore (segno di Homan), anche se questo non è un segno del tutto specifico. Viene poi da alcuni consigliato di gonfiare intorno all’arto interessato il manicotto di uno sfigmomanometro fino a raggiungere valori di pressione di 150-180 mmHg; ciò, nel caso di trombosi delle vene profonde, evocherebbe dolore, che non si manifesta altrimenti. È in ogni caso indispensabile, viste le possibili gravi conseguenze di un misconoscimento della malattia, non accontentarsi dei semplici segni clinici, ma utilizzare tutti i mezzi diagnostici a disposizione: tra questi, i più facilmente disponibili sono rappresentati dall’ultrasonografia Doppler, dalla pletismografia ad impedenza e dalla compressione ultrasonica. Nei casi dubbi è indicato il ricorso ad indagini cruente, quali la flebografia, o a metodi radioisotopici, come la fissazione del fibrinogeno marcato. La prognosi della malattia, buona se non complicata da tromboembolia polmonare, può essere gravata da un alto indice di mortalità, quando sopravvenga questa complicanza. Non sono poi del tutto infrequenti alterazioni permanenti a carico dell’arto colpito (“sindrome post-trombotica”).
La terapia si basa sull’utilizzazione di anticoagulanti per via venosa, e più precisamente sull’uso di eparina, somministrata prima in bolo e quindi in infusione continua (meglio se mediante pompa d’infusione) con lo scopo di mantenere il PTT da due a tre volte il valore del controllo, per un periodo variabile a seconda dell’entità e delle eventuali complicanze della malattia.
Sindrome post-trombotica Questo quadro può presentarsi dopo uno o più episodi di trombosi venosa profonda; in seguito a tale evento, infatti, permane spesso un’occlusione parziale del sistema venoso profondo. Ne consegue che il flusso sanguigno, attraverso il sistema valvolare inevitabilmente compromesso, viene dirottato nel letto venoso superficiale. Nel lungo periodo, e particolarmente con la stazione eretta prolungata, questa circolazione anomala con sovraccarico del circolo superficiale provoca edema e spesso rottura di piccoli vasi capillari in prossimità dei vasi perforanti. Si osservano quindi pigmentazione brunastra della cute, atrofia cutanea ed ostruzione linfatica secondaria. Nelle forme più avanzate non sono infrequenti ulcere da stasi in seguito a traumi anche irrilevanti, che pongono seri problemi di trattamento, ulcere che tendono a localizzarsi prevalentemente a livello dei malleoli mediali. Dal punto di vista clinico, il quadro è caratterizzato da senso di peso, che generalmente si aggrava con il trascorrere delle ore della giornata e con la stazione eretta prolungata, ed edema, più raramente dolorabilità. La terapia si fonda sull’utilizzo di calze elastiche contenitive, che debbono venire indossate al mattino prima di alzarsi dal letto e tenute continuativamente per tutto il tempo in cui il paziente mantenga la stazione eretta, con lo scopo di ostacolare il flusso di sangue attraverso le vene perforanti nel distretto venoso superficiale. Nei casi complicati da ulcerazioni, sono necessarie medicazioni chirurgiche settimanali, associate al bendaggio dell’arto interessato dal processo morboso.
APPENDICE Metodiche diagnostiche strumentali Alcuni avanzamenti tecnologici hanno reso possibile un considerevole progresso nell’esplorazione dello stato anatomico e funzionale dei vasi, sia arteriosi che venosi. Descriviamo qui di seguito alcune metodiche impiegate a questo scopo, cercando di spiegare i principi che ne sono alla base. A. Ultrasonografia Doppler. Un fascio di ultrasuoni viene fatto penetrare entro una sezione corporea e l’analisi degli echi generati all’interfaccia di costituenti con diversa impedenza acustica permette la ricostruzione della struttura profonda di quella sezione.
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Quando tra i tessuti esaminati sono presenti cavità contenenti sangue in movimento (come è il caso dei vasi sanguigni), gli ultrasuoni riflessi possono andare incontro al ben noto effetto Doppler. Questo consiste in una variazione della frequenza, che è in aumento se la riflessione dell’eco è operata da globuli rossi in movimento verso la sorgente degli ultrasuoni, ed in diminuzione se, al contrario, i globuli rossi riflettenti si allontanano dalla sorgente degli ultrasuoni. L’effetto varia a seconda dell’angolo formato dal fascio di ultrasuoni e dalla corrente sanguigna: è nullo se sono perpendicolari, ed è tanto maggiore quanto più l’angolo è acuto. È possibile registrare queste variazioni di frequenza ottenendo un grafico in funzione del tempo, nel quale gli aumenti di frequenza sono rappresentati da punti al di sopra di una linea orizzontale e le diminuzioni da punti al di sotto della stessa linea, con scarti proporzionali all’entità della variazione di frequenza dell’ultrasuono riflesso. Esistono due fondamentali tecniche di ultrasonografia Doppler: a onda continua e pulsato. Nel Doppler a onda continua l’emissione di ultrasuoni (che è dovuta a cristallo piezoelettrico attraversato da corrente elettrica) è continua ed un secondo cristallo (che converte gli ultrasuoni riflessi in corrente) funge da ricevitore. Vengono registrati gli echi generati da molti globuli rossi che si muovono simultaneamente con velocità differenti: l’analisi computerizzata dell’effetto Doppler è in realtà un grafico che rappresenta le velocità in funzione del tempo. Questa tecnica è buona per accertare la velocità massima dei globuli rossi, ma non discrimina il livello di profondità al quale si verifica. Nel Doppler pulsato lo stesso cristallo funge da generatore e ricevitore degli ultrasuoni, con un sistema che è largamente diffuso in ecografia. Questo è possibile in quanto il cristallo viene eccitato in modo da generare brevissime emissioni di ultrasuoni, spaziato da un tempo sufficiente a ricevere gli echi di ritorno tra un’emissione e l’altra. È possibile tarare il sistema in modo che l’eco di ritorno venga registrata solo dopo un certo tempo. Quanto più questo sarà relativamente lungo, tanto più profonda sarà la struttura esaminata (gli ultrasuoni viaggiano nel corpo alla velocità di 1540 m/sec). Con questo metodo è possibile investigare l’effetto Doppler a livelli prestabiliti e ridurre nella sua rappresentazione il numero di punti che scartano in alto o in basso dalla orizzontale. L’ultrasonografia Doppler ha una pluralità di impieghi. Utilissima in ecocardiografia, si presta allo studio di vasi periferici. Nelle arterie può servire a evidenziare variazioni di flusso ematico a valle di tratti stenotici od occlusi (dove il flusso ematico è assicurato da circoli collaterali), dimostrando anomalie nella velocità conseguita dai globuli rossi in relazione alle varie fasi del ciclo cardiaco. Nelle grandi vene l’ultrasono-
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
grafia Doppler può dimostrare la pervietà vasale o, al contrario, la presenza di occlusioni trombotiche. B. Angiografia. L’angiografia è una tecnica radiografica che viene realizzata iniettando, in una particolare sezione dell’albero circolatorio, un mezzo di contrasto radiopaco. Le radiografie scattate dopo tale iniezione permettono la visualizzazione della pervietà del calibro dei vasi attraversati dal mezzo radiopaco. L’iniezione può avvenire in un’arteria (arteriografia) o in una vena (venografia). C. Pletismografia a impedenza. La pletismografia è una tecnica ben nota di misurazione delle variazioni di volume di una sezione corporea periferica in dipendenza delle fasi del ciclo cardiaco e dell’afflusso di sangue. La quantità di sangue presente in un arto non modifica solo il suo volume, ma anche l’impedenza elettrica di una corrente che lo attraversa. Per impedenza elettrica s’intende una proprietà di una rete di resistenze, induttanze e condensatori tale da modificare una corrente che l’attraversi. Un segmento corporeo è certamente molto diverso da una rete di questo tipo, ma si comporta in maniera simile in quanto ha una sua impedenza elettrica. La pletismografia ad impedenza è adoperata nella diagnosi delle trombosi venose profonde agli arti. Il principio consiste nel provocare una congestione sanguigna dell’arto con un manicotto posto prossimalmente rispetto alla regione che si intende esplorare (e cioè a valle nel caso della circolazione venosa). Simultaneamente si fa passare una corrente attraverso l’arto e si registra l’impedenza elettrica, che aumenta con la congestione venosa. Si rilascia quindi il manicotto, in modo da decongestionare l’arto. Se le vene sono normalmente pervie, l’impedenza elettrica cala rapidamente e ritorna ai valori di base entro 3 sec. Se esiste un’occlusione trombotica di una vena, l’impedenza elettrica cala lentamente e, dopo 3 sec, appare ridotta in maniera molto modesta. D. Compressione ultrasonica. È possibile impiegare le ordinarie tecniche di ecotomografia per esplorare i tessuti degli arti ed i grossi vasi che vi sono contenuti. In questo modo dovrebbe essere possibile dimostrare la trombosi di una vena profonda, ma il reperto presenta molte incertezze. Un notevole perfezionamento è derivato dalla semplice idea di verificare come si modifica l’immagine ecotomografica esercitando con il generatore di ultrasuoni una compressione tale da fare collabire le pareti di una vena sottostante. Se le pareti della vena non collabiscono, questo può essere considerato un segno di trombosi. La sensibilità e la specificità di questo procedimento sembrano, secondo le prime indagini, molto soddisfacenti.
C A P I T O L O
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SEMEIOTICA CARDIOLOGICA M. OBBIASSI
SEMEIOTICA FISICA Le malattie del cuore sono molto comuni e il medico deve pensare ad esse tutte le volte che vede un paziente, qualunque sia il motivo della visita. Una parte dell’anamnesi dev’essere diretta a stabilire se vi sono motivi di sospetto. In caso negativo, l’esame fisico del paziente potrà limitarsi a un rapido controllo del polso, del cuore e della pressione arteriosa; in caso positivo, dovrà essere molto accurato e finalizzato alle ipotesi diagnostiche che il medico avrà fatto. Se il sospetto è fondato, si dovranno eseguire degli esami di laboratorio pianificati con cura, in modo da ottenere le informazioni che servono con il minor disagio possibile per il paziente. Gli esami di laboratorio di stretta pertinenza cardiologica, in ordine crescente di disagio e rischio per il paziente e di costo (per il paziente stesso o per la società) sono: l’elettrocardiogramma, l’esame radiologico, l’ecocardiogramma e diversi altri esami (che saranno specificati in seguito) chiamati non invasivi perché non comportano manualità di tipo chirurgico. Infine vi sono gli accertamenti invasivi; questi ultimi e parte degli esami speciali non invasivi sono di competenza dello specialista non solo per l’esecuzione ma anche per stabilire se sono necessari e indicati. In ogni caso si deve arrivare a conoscere: • la causa della cardiopatia (infettiva, reumatica, ipertensiva, congenita, ecc.); • le anormalità anatomiche esistenti (ci sono vizi valvolari? quali cavità sono dilatate? ecc.); • la compromissione funzionale che deriva dalla cardiopatia (c’è insufficienza cardiaca? ci sono aritmie? ci sono segni di ischemia del miocardio? ecc.); • quanto è compromessa l’efficienza fisica del paziente (a che livello di sforzo insorgono sintomi?). La risposta a questi quesiti determina infatti la condotta terapeutica.
Sintomi Esiste un certo numero di disturbi soggettivi che sono comunemente associati alle cardiopatie. Opportune domande permettono di stabilire se essi esistono, di che entità sono, in quali circostanze si manifestano: queste precisazioni sono indispensabili per valutarne l’importanza e per differenziarli da sintomi simili che non hanno origine cardiaca. I sintomi più comuni e importanti sono discussi qui di seguito. A. Dispnea. È una consapevolezza di respirare che dà disagio, variamente descritta dai pazienti come fame d’aria o come fatica nel respirare o con espressioni equivalenti. Deriva da congestione dei capillari polmonari, con edema interstiziale che irrigidisce i tessuti del polmone. Può svilupparsi in due modi: il più comune è uno sviluppo lento e graduale, nel qual caso il paziente avverte che si è stabilita una ridotta capacità di sforzo. È necessario definire esattamente questa sensazione, ponendo una serie di opportune domande: se il paziente sale per le scale, a che piano deve fermarsi per riposare? Se cammina con altri, resta indietro? In passato era diverso? Quali attività abituali sono diventate così faticose che ora vengono evitate? Questa serie di domande permette di stabilire se la dispnea da sforzo esiste realmente (molti nevrotici dichiarano dispnea, però di intensità variabile in diverse occasioni e non correlabile a una data intensità dello sforzo) e consente di stabilire se la dispnea insorge solo per sforzi inabituali (correre, camminare in salita, portare valigie) o anche per gli sforzi richiesti dalla vita di tutti i giorni (rifare i letti, sbrigare faccende domestiche, salire uno o due piani di scale), o infine se si manifesta anche a riposo. Una commissione della New York Heart Association (NYHA) ha proposto una classificazione del livello di sforzo in corrispondenza del quale insorgono disturbi di origine cardiaca. Questa classificazione, universalmente usata, è molto comoda per il medico, perché permette di registrare con un’unica indicazione il risultato di molte domande e risposte. Essa non fa riferimento solo
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alla dispnea, ma anche al dolore o al cardiopalmo (si veda in seguito) ed è così strutturata: appartengono alla classe I i soggetti che non hanno i disturbi citati anche in caso di sforzi intensi; alla classe II quelli che li hanno solo per sforzi inconsueti (correre, ecc.); alla classe III quelli che ne hanno anche per sforzi richiesti dalla vita comune (faccende domestiche, ecc.); alla classe IV coloro che hanno disturbi anche quando sono a riposo. La dispnea può insorgere anche all’improvviso: sotto sforzo intenso o per un’aritmia o un’ischemia; oppure durante il riposo notturno. In questo ultimo caso la dispnea dipende dal fatto che il paziente ha accumulato durante la giornata dei liquidi stravasati (edemi inapparenti) a livello degli arti inferiori, e che questi liquidi rientrano in circolo durante la stazione supina prolungata, aumentando la massa circolante. Si parla allora di una dispnea parossistica notturna (Cap. 5). Un sintomo equivalente minore, da ricercare in ogni sospetto cardiopatico, è rappresentato dalla necessità avvertita a un certo punto dal paziente di dormire con un numero di cuscini maggiore di quello abituale: quando questa misura viene adottata dal paziente (“per comodità, così riesco a dormire meglio”, oppure “perché se no mi sveglio e non riesco a respirare se non mi metto seduto”), si dice che esiste ortopnea. L’ortopnea (respirare con il tronco eretto) facilita l’espansione delle basi polmonari con diminuzione della congestione nel letto capillare e possibilità di aumento delle aree polmonari ben ventilate. B. Dolore toracico. Il più importante è quello legato all’ischemia del miocardio e dev’essere analizzato con grande attenzione, perché in questo campo l’anamnesi può essere più importante di tutti gli accertamenti successivi. Del dolore ischemico si parlerà nel capitolo 7; qui basti dire che è essenzialmente retrosternale, con o senza irradiazioni, di intensità piuttosto elevata, oppressivo, che non varia né con gli atti del respiro, né con i movimenti, né con la posizione. Può durare a lungo (nell’infarto) o pochissimi minuti (angina). Le caratteristiche soggettive del dolore, la sua topografia, la durata (orologio alla mano!) e i sintomi di accompagnamento permettono quasi sempre di distinguere fra il dolore ischemico (stenocardico) e i numerosi altri tipi di dolore toracico: il dolore della pericardite, i dolori pleurici, i dolori che originano dalle strutture parietali del torace, i dolori che originano nel collo o nell’addome e vengono riferiti al torace. L’analisi del dolore anginoso (o sospetto tale) comporta anche una precisa definizione delle circostanze in cui insorge: perciò, per esempio, se il dolore insorge regolarmente per sforzi di una determinata entità, è facile dire che il paziente appartiene alla II, III o IV classe NYHA. C. Astenia (senso di debolezza, di affaticabilità). È un sintomo che può derivare da una bassa gettata cardiaca, come da molte altre condizioni. Se esiste evidenza di insufficienza cardiaca, si deve tenerne conto; in caso contrario, si devono cercare spiegazioni extracardiache per questo sintomo.
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D. Palpitazione (cardiopalmo). Significa avvertire il battito del cuore. Ciò si verifica normalmente sotto sforzo molto intenso o in caso di eccitazione; in condizioni patologiche si manifesta quando la frequenza cardiaca è molto alta (tachicardie) o bassa (bradicardie) o il battito non è ritmico. È frequente che il paziente avverta dei battiti isolati: sono segno di extrasistolia (viene di solito avvertito il primo battito postextrasistolico). La sensazione di cardiopalmo è descritta abbastanza variabilmente da paziente a paziente e non è necessariamente un dato patologico; ha importanza soprattutto come possibile segno di aritmia (Cap. 6). E. Emottisi. L’emissione di sangue con l’escreato è relativamente frequente in caso di dilatazione e ipertensione delle vene bronchiali, specialmente comune nella stenosi mitralica; è però possibile in ogni tipo di ipertensione polmonare. In caso di emottisi si deve anche pensare all’infarto polmonare, che non è raro nei cardiopatici. Un escreato rosato è infine comune nell’edema polmonare acuto. F. Tosse. Accompagna molto spesso la dispnea di origine cardiaca, in relazione alla congestione dei vasi bronchiali e all’ipersecrezione bronchiale, ovvero all’espulsione di trasudato dal polmone. Qualche volta la tosse è persistente; la genesi è quella detta o dipende da compressione di elementi nervosi da parte di strutture cardiovascolari fortemente dilatate. G. Sincope o sindromi minori (spesso riferite come lipotimia o vertigine soggettiva) riferibili a caduta transitoria dell’irrorazione sanguigna del cervello. Le cause di origine cardiaca sono essenzialmente tre: un’aritmia che produca un’asistolia relativamente prolungata; l’insorgenza di una serie di battiti associati a bassa gettata (specie all’inizio di certe tachicardie parossistiche, finché non intervengono meccanismi di compenso); fenomeni di occlusione parziale o subtotale del flusso (avvengono nella stenosi aortica, nella cardiomiopatia ipertrofica, nel mixoma atriale).
Segni A. Esame generale. Prima di tutto si devono esaminare le condizioni generali del paziente. Molto spesso un cardiopatico ha aspetto normale e non appare sofferente; ma se la gettata cardiaca è insufficiente, il paziente appare sofferente, dispnoico, ansioso, eventualmente denutrito, con un colorito malsano (grigiastro o giallastro) o evidentemente cianotico. La cianosi compare quando nel sangue capillare l’emoglobina ridotta supera i 5 g per 100 ml di sangue e si vede come un colorito grigio-bluastro, diffuso più o meno a tutta la cute e le mucose o limitato a certi distretti: labbra, lobi delle orecchie, eminenze palmari, dita. B. Polsi arteriosi. Un primo apprezzamento dell’attività cardiaca si può avere dai polsi, in particolare quello radiale e carotideo. Si parlerà altrove di altri pol-
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si, il cui esame riguarda la semeiotica dell’apparato vascolare più di quella del cuore, come pure dei caratteri particolari che il polso radiale assume in particolari condizioni. In condizioni normali il polso radiale si apprezza facilmente; una difficoltà a percepirlo deve far pensare a una gettata pulsatoria bassa, oppure a una pressione arteriosa differenziale ridotta per caduta della pressione arteriosa sistolica o per elevazione della diastolica (quest’ultimo dato indica aumento delle resistenze periferiche). Palpando il polso per qualche tempo (meglio un minuto), si conta la frequenza cardiaca e si apprezzano altri due dati: se i battiti sono tutti uguali fra loro come ampiezza e se l’intervallo di tempo fra un battito e l’altro è sempre uguale o non lo è. Eventuali variazioni di ampiezza faranno sospettare un polso alternante oppure paradosso o un’aritmia, mentre variazioni nel ritmo sono indicative di aritmia. L’esame del polso carotideo, che si apprezza bene medialmente al muscolo sternocleidomastoideo all’altezza della laringe, può servire a confermare reperti sospettati all’esame del polso radiale e nell’ambito della ascoltazione. C. Polsi venosi. Se il paziente è semiseduto con un’inclinazione del tronco uguale o superiore a 45° rispetto al piano del letto, l’esame del collo non rivela vene (giugulari interne o esterne) turgide, oppure esse sono turgide solo alla base del collo. Se si osserva turgore in dette vene, v’è ipertensione nell’atrio destro (insufficienza del ventricolo destro o passaggio difficoltoso del sangue verso di esso). Il livello fino al quale le giugulari sono turgide dà una idea approssimativa della entità della pressione venosa (Fig. 4.1); in caso di ipertensione venosa importante, le vene sono turgide anche a malato seduto, vale a dire con inclinazione del tronco rispetto al piano del letto di 90°. Con un po’ di abilità, ponendo il paziente più o meno supino e illuminando il collo con un fascio di luce che
AD VD
Figura 4.1 Ispezione delle vene giugulari e stima della pressione venosa. Il limite superiore del turgore giugulare è tanto più alto rispetto all’atrio destro quanto più è elevata la pressione venosa (AD = atrio destro; VD = ventricolo destro).
lo colpisca tangenzialmente, è possibile vedere delle pulsazioni a carico di una o più delle vene citate, pulsazioni che riflettono le variazioni di pressione che in ogni ciclo cardiaco si verificano nell’atrio destro. Si interpretano queste pulsazioni riferendosi al polso carotideo, contemporaneamente palpato, la pulsazione del quale indica la sistole. Per reflusso epatogiugulare, infine, si intende la comparsa di turgore alle giugulari a seguito di una compressione (per 30-60 sec) del fegato: indica che il sangue spremuto dal fegato non è stato rapidamente smaltito da atrio e ventricolo destro. D. Ispezione del torace anteriore e precordio. Durante questa fase dell’esame obiettivo si valutano la frequenza, la ritmicità e la profondità del respiro. Si controlla l’eventuale presenza di anormalità della conformazione del torace: un gibbo o anche una semplice depressione del corpo dello sterno (“pectus excavatum”) possono avere significato clinico e sicuramente devono essere presi in considerazione nella valutazione della radiografia del torace, perché modificano il rapporto fra scheletro e cuore. Si chiama bozza precordiale la protrusione della gabbia toracica sul precordio, indice di cardiopatia congenita con cardiomegalia. Infine, si cercherà se ci sono pulsazioni visibili; in caso affermativo, si controllerà attentamente questo reperto con la palpazione. E. Palpazione. Va eseguita con paziente supino, facendolo eventualmente ruotare sul fianco sinistro. È bene che l’esaminatore stia sulla destra del paziente. Si palpa prima col palmo della mano, poi usando i polpastrelli di due o tre dita. La palpazione permette di apprezzare l’itto della punta (che corrisponde all’inizio della contrazione del ventricolo sinistro) nella maggioranza dei soggetti, anche se non nella totalità, poiché negli obesi e negli enfisematosi spesso l’itto non si apprezza affatto. Una rotazione del paziente sul fianco sinistro può permettere di apprezzarlo anche in pazienti in cui non si rileva in posizione supina. L’itto è contemporaneo al I tono e (praticamente) al polso carotideo. 1. Sede dell’itto. Normalmente l’itto è percepibile in V spazio intercostale 1 cm all’interno della linea emiclaveare; nei brachitipi, in persone obese o con il diaframma sollevato l’itto della punta può essere situato un poco più in alto, in IV spazio intercostale sull’emiclaveare. In casi patologici l’itto della punta può essere spostato. La causa principale di spostamento dell’itto è la dilatazione delle cavità cardiache. Se è dilatato il ventricolo sinistro, l’itto si sposta in basso e a sinistra, per cui si percepisce in corrispondenza del VI-VII spazio intercostale all’esterno dell’emiclaveare, in certi casi sino all’ascellare anteriore. Se si dilata il ventricolo destro l’itto risulta spostato lateralmente all’emiclaveare, non verso il basso. Quindi la sola localizzazione dell’itto della punta dà importanti informazioni sulle dimensioni dei ventricoli (Fig. 4.2).
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• un impulso nel II spazio intercostale destro deriva da ectasia dell’aorta ascendente (vizi aortici, aneurisma aortico, persona anziana); • una pulsazione relativamente estesa, sita all’interno dell’itto, che si prolunga durante tutta la sistole, è indicativa di aneurisma anteriore del ventricolo sinistro, non rara complicazione dell’infarto; oppure (la pulsazione è debole) a ischemia anteriore in atto; • invece dell’itto, si può avere in sistole una retrazione toracica: ciò si verifica in certi casi di pericardite costrittiva. Pulsazioni abnormi non sincrone con l’itto (si parla di doppio impulso) si possono avere:
• in fase presistolica internamente alla punta quando, per di-
Figura 4.2 Disegno di parete anteriore del torace con proiezione del cuore ed indicazione della posizione normale dell’itto, dell’angolo di Louis e della linea emiclaveare sinistra.
2. Caratteri dell’itto. La zona che normalmente pulsa sotto le dita ha un diametro di 2 cm o poco più, ha un’escursione (di 1-2 mm) e una durata molto breve (circa 40 msec per una frequenza cardiaca di 60 battiti/min). Per valutare l’ipertrofia o la dilatazione del ventricolo sinistro, è conveniente palpare l’itto della punta con il paziente in decubito laterale sinistro. Un impulso localizzato, energico, e spostato all’esterno suggerisce l’esistenza di un’ipertrofia; un più diffuso sollevamento dell’area della punta è caratteristico della dilatazione. 3. Reperti palpatori nella dilatazione del ventricolo destro. In caso di ipertrofia e dilatazione del ventricolo destro, la parete anteriore del ventricolo entra in stretto contatto con la parete inferiore dello sterno. Si ha quindi un impulso contemporaneo all’itto in corrispondenza del IV e V spazio intercostale sulla linea parasternale sinistra e/o dell’estremità inferiore dello sterno sulla linea mediana (infossando le dita sotto lo sterno, esse sono spinte verso il basso). Si possono percepire altri impulsi contemporanei o no all’itto. Essi vengono nominati qui di seguito per completezza, in quanto solo un elenco completo dei reperti palpatori possibili permette di giungere a una diagnosi precisa. Dato, però, che essi sono di non comune osservazione, questo elenco stampato in carattere più piccolo non è da tenere in considerazione in prima lettura. Sono pulsazioni contemporanee all’itto:
• un impulso in corrispondenza del II spazio intercostale sinistro sulla parasternale: esso è fisiologico nei bambini e nei giovani adulti molto magri; negli altri indica dilatazione dell’arteria polmonare (idiopatica, poststenotica, da iperafflusso o da ipertensione);
minuita distensibilità del ventricolo sinistro (ipertrofia concentrica, cardiomiopatia ipertrofica nella quale il doppio impulso è caratteristico, esiti di infarto), il riempimento del ventricolo diventa difficile e questo fatto costringe l’atrio sinistro a ipertrofizzarsi, sicché la contrazione atriale diventa vigorosa e spinge nel ventricolo sangue con pressione aumentata. Il reperto si associa al IV tono; • in fase diastolica, per diminuita distensibilità del ventricolo sinistro. Ciò si verifica in associazione al III tono, nei casi citati al paragrafo precedente (raramente) e nelle cardiomiopatie restrittive; oppure, in associazione a knock pericardico (nell’ascoltazione) nella pericardite costrittiva; • una pulsazione parasternale sinistra in fase telesistolica si può avere in caso di grave insufficienza mitralica, perché il rigurgito nell’atrio sinistro dilatato spinge in avanti il ventricolo destro; • raramente si ha analogo reperto telesistolico a destra dello sterno, in caso di insufficienza tricuspidale. Un’ipocinesia dell’itto della punta può essere associata ai versamenti pericardici, alla pericardite costrittiva, a tutti i casi in cui la gettata pulsatoria è bassa.
4. Fremiti. La palpazione, infine, fa talora sentire delle vibrazioni relativamente prolungate, simili a quelle che si percepiscono sul torace di un gatto che fa le fusa. I fremiti rappresentano l’espressione tattile di soffi intensi e hanno la medesima cronologia, durata e localizzazione dei soffi cui sono associati. F. Percussione. È un metodo di esame poco usato perché dà poche informazioni affidabili. In particolare non serve a giudicare se un cuore è ingrandito: la percussione non aggiunge nulla a quanto rilevato con la palpazione, anzi può confondere le idee. Si usa solo: • per assicurarsi, percuotendo fegato e bolla gastrica, che non vi sia situs viscerum inversus; • talora per orientarsi a cercare l’itto della punta. La tecnica è quella di una percussione piuttosto leggera, raggiata: raggiata vuol dire che, sapendo qual è la proiezione abituale del cuore sulla parete anteriore del torace, si percuote dall’esterno all’interno lungo i vari spazi intercostali, tenendo il dito plessimetro parallelo al margine del cuore che si vuol delimitare. Il passaggio dal suono chiaro polmonare a un suono ipofonetico corrisponde al margine cardiaco. È possibile delimitare (grossolanamente) solo il margine sinistro.
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– II spazio sinistro sulla parasternale o focolaio polmonare; – IV spazio intercostale sinistro al margine dello sterno o focolaio tricuspidale; punta del cuore o focolaio mitralico.
Figura 4.3 I focolai di ascoltazione del cuore.
G. Ascoltazione. Un’ascoltazione corretta comporta esercizio, concentrazione e ragionamento. Si appoggia il fonendoscopio almeno su quattro punti della parete toracica (focolai d’ascoltazione, Fig. 4.3): – II spazio intercostale destro sulla parasternale o focolaio aortico;
Ogni volta il problema è afferrare dei rumori deboli e dar loro significato. Per afferrarli, bisogna concentrare l’attenzione sulle diverse fasi del ciclo cardiaco, partendo dal I tono. Questo viene identificato con facilità perché è contemporaneo all’itto della punta o al polso carotideo (non a quello radiale, che arriva in ritardo!). Identificato il I tono, ci si concentra sulla fase successiva, cercando di identificare il II tono; poi sull’intervallo fra I e II tono, cioè la sistole. Infine sulla diastole. Con queste avvertenze si associa a una determinata fase del ciclo cardiaco l’eventuale percezione di altri rumori. Questi possono essere molto brevi (toni) o prolungati (soffi). Alla percezione di un tono o soffio deve seguire di volta in volta la sua identificazione: in quale fase del ciclo cardiaco l’ho sentito? Qual è il focolaio su cui l’ho sentito meglio? Quali sono le sue caratteristiche? Avendo presente quali sono i rumori possibili, ipotizzo che si tratti di... Le caratteristiche note per quel rumore corrispondono alla mia ipotesi? Ciò dimostra che l’ascoltazione del cuore non è un esercizio passivo, ma attivo; che le caratteristiche di ogni tono o soffio devono essere ben conosciute (Fig. 4.4); che dire “soffio sistolico” non significa niente, bisogna precisarne ulteriormente i caratteri (se necessario con altri esami), fino a quando non si sa di quale tipo di
I
tono, II tono; I tono successivo
I II
tono di intensità aumentata tono di intensità diminuita
III tono
IV tono; II tono sdoppiato
Soffio mesosistolico rude, di intensità 3/6, in crescendo-decrescendo
Soffio mesosistolico dolce, di intensità 3/6, in crescendo-decrescendo
Soffio olosistolico, soffio diastolico in decrescendo
Click sistolico, schiocco d’apertura
Figura 4.4 Simboli usati nella registrazione grafica di reperti dell’ascoltazione cardiaca.
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soffio sistolico si tratta. Vi sono, infatti, soffi sistolici clinicamente del tutto irrilevanti e altri la cui percezione può comportare provvedimenti immediati, necessari per la vita del malato. 1. Due toni cardiaci. L’esatta origine delle vibrazioni che generano i due toni è tuttora oggetto di discussione, ma in pratica si ammette che il I tono è prodotto dalla chiusura della mitrale e della tricuspide all’inizio della sistole, mentre il II tono è prodotto dalla chiusura delle semilunari aortiche e polmonari alla fine della sistole. La mitrale produce un rumore che si sente bene su tutti i focolai, mentre la tricuspide, che si chiude con un leggero ritardo rispetto alla mitrale, produce un rumore più debole, che si sente bene solo sul focolaio tricuspidale. Su questo è normale sentire due rumori in immediata successione, mentre sugli altri focolai la componente tricuspidale del I tono è molto più debole della componente mitralica o non si sente affatto. Anche le due componenti del II tono hanno intensità diversa: quella aortica è nettamente più forte e si sente bene su tutti i focolai; la componente polmonare, che si produce con un leggero ritardo rispetto alla prima, si sente bene sul focolaio della polmonare, poco o niente sugli altri focolai. Il ritardo della componente polmonare rispetto all’aortica è facilmente apprezzabile durante l’inspirazione (fase del respiro che fa aumentare l’afflusso di sangue al ventricolo destro), mentre diventa impercettibile durante l’espirazione: quindi ascoltando il focolaio polmonare si sente un II tono fisiologicamente doppio durante l’inspirazione e unico durante l’espirazione. Uno “sdoppiamento fisso” del II tono (sdoppiamento che si mantiene anche in fase espiratoria) è patologico. Vale la pena di dedicare attenzione al comportamento dello sdoppiamento del II tono con le fasi del respiro perché in alcuni casi patologici è la componente aortica a essere in ritardo su quella polmonare; in questo caso lo sdoppiamento è espiratorio e non inspiratorio (sdoppiamento paradosso). In caso di aumento della pressione in arteria polmonare, la componente polmonare del II tono diventa più intensa, mentre la durata dell’intervallo fra le due componenti si modifica variabilmente, spesso riducendosi: per questo si dice che l’ipertensione polmonare dà essenzialmente un’accentuazione del II tono. L’accentuazione si sente bene sia sul focolaio polmonare che su quello aortico, meno bene sugli altri due focolai principali di ascoltazione. Si è già detto che è essenziale distinguere il I tono dal II tono. Se il paziente ha una frequenza cardiaca piuttosto bassa, la distinzione è facile, perché l’intervallo fra I e II tono è molto più breve di quello fra II tono e I tono del battito successivo. Se la frequenza è alta, questa differenza diventa però difficile da apprezzare e si devono usare altri criteri per distinguere I e II tono. Essi sono: il I tono è sincrono con l’itto della punta e col polso carotideo; il II tono è quasi sempre più forte del I sul focolaio aortico. Quindi in caso di tachicardia si palpa l’itto e si ascolta sul focolaio aortico, avendo due criteri per differenziare I e II tono; memorizzata bene la
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distinzione rispetto al reperto palpatorio, si sposta il fonendoscopio centimetro per centimetro verso la punta, palpando la carotide: l’identificazione di I e II tono diventa così sicura anche alla punta. Un altro dato da notare è l’intensità del I tono (componente mitralica). Essa è elevata se al momento in cui inizia la sistole i lembi della mitrale sono penduli nella cavità ventricolare che è ancora in parte vuota; è meno elevata se sono già in posizione di semichiusura, come avviene quando il ventricolo è ben pieno di sangue. Pertanto l’intensità è alta nella tachicardia (diastole breve), nell’aumento di gettata (alla fine della diastole c’è ancora sangue che sta affluendo dall’atrio), se c’è stenosi mitralica (che ostacola il deflusso atrioventricolare), se l’intervallo P-R dell’elettrocardiogramma (e quindi l’intervallo fra contrazione atriale e ventricolare) è breve. Se l’intensità del I tono è particolarmente bassa, si deve pensare a un intervallo P-R lungo, oppure a scarsa contrattilità del ventricolo, o più comunemente a una cattiva trasmissione del suono per interposizione fra mitrale e fonendoscopio di grasso (soggetti obesi), aria (enfisema polmonare) o liquido (versamenti pericardici). In caso di stenosi mitralica, un I tono non accentuato indica che la valvola è rigida e fortemente deformata. 2. Toni aggiunti. In varie circostanze l’ascoltazione fa apprezzare, oltre ai due principali, altri rumori brevi. Questi possono avere tonalità (frequenza di vibrazione) alta e si sentono pertanto bene con il diaframma del fonendoscopio, oppure tonalità bassa; in questo secondo caso essi non si sentono bene con il diaframma ed è meglio usare la campana del fonendoscopio. La descrizione dei toni aggiunti può essere compresa e memorizzata solo quando si siano acquisite nozioni che saranno esposte in seguito. Si consiglia perciò di non leggere la parte scritta in caratteri piccoli in fase di prima lettura. III tono (T3). È un rumore a bassa frequenza che deriva da una vibrazione particolarmente accentuata delle pareti ventricolari al termine del riempimento rapido (0,14-0,16 sec dopo la componente aortica del II tono), cioè in protodiastole. Può essere debole o abbastanza forte. Esso si sente quando la quantità di sangue che all’apertura delle valvole atrioventricolari passa dall’atrio al ventricolo è cospicua (alta gettata), ovvero quando la distensibilità delle pareti ventricolari è molto bassa. Nel bambino (gettata alta, pareti toraciche sottili) il T3 si sente spesso in condizioni di completa normalità; nel giovane adulto se la gettata è alta non è reperto patologico; oltre i 40 anni di età si sente solo in casi di riempimento ventricolare patologico (soprattutto nell’insufficienza mitralica) o in caso di scompenso cardiaco. Si può avere un T3 di origine sinistra, che si sente bene alla punta, oppure di origine destra, che si sente bene sul focolaio della tricuspide. Per distinguere un T3 destro da un sinistro, si esegue la manovra di RiveroCarvalho: si fa inspirare il paziente e se il T3 è di origine destra aumenta di intensità. Knock pericardico. Esiste un altro tipo di tono aggiunto che si verifica in protodiastole. Esso è un po’ più precoce del T3 (ma è difficile apprezzare questo dato all’ascoltazione), mentre serve a distinguere i due toni il fatto che il knock ha un’alta tonalità. Si sente nella pericardite costrittiva ed è do-
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vuto a vibrazioni delle pareti ventricolari ristrette dal pericardio ispessito all’atto in cui avviene il rapido riempimento. Si sente soprattutto alla punta o sul mesocardio. Schiocco d’apertura della mitrale. È un terzo tipo possibile di tono aggiunto protodiastolico, ad alta tonalità, secco che si sente bene su punta e mesocardio, ma anche ai due focolai della base. Questo fatto è importante, perché se a prima vista si può interpretare lo schiocco come una componente polmonare accentuata di un II tono largamente sdoppiato, l’attenta ascoltazione del focolaio polmonare permette di sentire tre rumori distinti: sono le due componenti del II tono e lo schiocco. Di solito lo schiocco è dovuto a mitrale rigida (nella stenosi mitralica); raramente a semplice aumento del contenuto in sangue dell’atrio (insufficienza mitralica, alcuni vizi congeniti con shunt sinistro-destro). IV tono o tono atriale (T4). Si sente a diastole avanzata (presistole) ed è determinato da vibrazioni delle pareti ventricolari per afflusso di sangue dall’atrio a causa di un’energica contrazione dell’atrio stesso. È un rumore a bassa tonalità, che si sente alla punta. Perché insorga, occorre che le pareti ventricolari abbiano una distensibilità anormalmente bassa (ipertrofia, scompenso); è raro che un aumento eccessivo della gettata sia causa unica di un T4 di origine sinistra; se il ventricolo ispessito è quello destro, il T4 si sente meglio sul focolaio della tricuspide e si accentua con l’inspirazione (manovra di Rivero-Carvalho). Toni di eiezione (click da eiezione). Sono toni aggiunti secchi e brevi, ad alta tonalità, che si sentono durante la sistole, poco dopo il I tono (protosistole). Sono schiocchi d’apertura delle semilunari aortiche (o polmonari), oppure rumori di distensione di un’aorta (o polmonare) dilatata che si distende all’arrivo del sangue del ventricolo sottostante. Quelli di origine sinistra si sentono bene alla punta, oltre che sul focolaio aortico; quelli di origine polmonare si sentono soprattutto sul focolaio polmonare. Toni meso-telesistolici non da eiezione (click sistolici non da eiezione). Più tardivi dei toni da eiezione (meso o telesistolici), spesso multipli, derivano soprattutto da improvvisa messa in tensione di corde tendinee mitraliche di lunghezza funzionalmente ineguale alle altre. Sono molto spesso associati a prolasso della mitrale. Dal punto di vista diagnostico, bisogna porre attenzione a non confondere uno di questi toni con il II tono, perché allora il II tono sarà preso per un T3 o uno schiocco d’apertura (cercare lo sdoppiamento durante inspirazione, che è proprio di T2!).
3. Soffi in generale. Vi sono due tipi di rumori che originano dal cuore e hanno una durata apprezzabile: sono i soffi e gli sfregamenti pericardici. Qui si discutono i primi, che originano dal sangue che scorre nelle cavità cardiache o nei vasi. Generalmente il sangue scorre in modo relativamente tranquillo, cioè laminare. In determinate circostanze lo scorrimento si fa turbolento, con formazione di vortici e ribollimenti, come avviene nei torrenti. La turbolenza, che genera rumore, insorge: • quando vi sono brusche variazioni di ampiezza del letto di scorrimento (il sangue è costretto ad accelerare la velocità nelle strettoie, finite le quali si mescola con sangue che fluisce lentamente in tratti di cuore o vasi aventi un lume ampio); • quando il sangue scorre molto velocemente; • quando il sangue ha una viscosità molto inferiore alla norma (anemia).
In pratica il moto turbolento, eventualmente favorito dalla seconda e terza delle cause citate, avviene in corrispondenza di brusche variazioni d’ampiezza del lume, il più delle volte subito a valle delle valvole cardiache. I soffi hanno pertanto un punto di origine (per es., a livello di valvole semilunari aortiche stenotiche) dove la loro intensità è massima; un’irradiazione che segue il cammino della corrente turbolenta (nell’esempio citato, l’aorta ascendente e i grandi vasi del collo); un tempo di insorgenza e durata (nell’esempio citato, la sistole, durante la quale il sangue passa attraverso le valvole stenotiche, che in diastole sono chiuse); un’intensità, che può essere più o meno costante o variare nel tempo (nell’esempio, il soffio è in crescendo-decrescendo); un timbro (determinato da condizioni locali) che è piuttosto caratteristico (nel solito esempio, il soffio viene descritto come rude). Infine, il soffio può talora variare se mutano alcune condizioni: per provocare tali mutamenti si invita il paziente a eseguire delle manovre (per es., fare un piccolo sforzo) o gli si somministrano farmaci capaci di modificare rapidamente le condizioni emodinamiche. È consuetudine classificare l’intensità dei soffi in gradi, indicati come 1 (il soffio si percepisce a fatica, facendo la massima attenzione), 2 (il soffio è debole ma si sente senza fatica), 3 (abbastanza forte), 4 (forte), 5 (molto forte) e 6 (così forte che si sente anche senza appoggiare il fonendoscopio sul torace). Riepilogando, il soffio da stenosi aortica esemplificato in precedenza potrebbe essere definito come segue: soffio sistolico a tipo di eiezione (soffi sistolici), con massimo di udibilità sul focolaio aortico, irradiato al collo, di intensità 3/6, in crescendo-decrescendo, rude. Questa descrizione permette a qualunque altro medico di farsene un’idea precisa; al contrario una descrizione sommaria (tipo: soffio sistolico forte alla base del cuore) non sarebbe di alcuna utilità. Un ottimo modo di descrivere i soffi è quello grafico: usando alcune convenzioni, si può rappresentare il soffio in modo preciso, impiegando meno tempo di quanto ci voglia a descriverlo con parole (Figg. 4.4 e 4.5). 4. Soffi sistolici. Se ne distinguono diversi. • Olosistolici (o pansistolici), che durano tutta la sistole e sono caratterizzati dal fatto di iniziare con il I tono (non c’è alcun intervallo di silenzio fra il rumore del tono e quello del soffio) e terminano fondendosi col II tono (anzi possono proseguire per pochissimo
I
II
Figura 4.5 Rappresentazione grafica del soffio citato nel testo.
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tempo dopo il II tono). Si producono quando c’è un’anomala comunicazione in sistole fra due cavità in cui vige una pressione molto diversa. Ciò avviene: nell’insufficienza mitralica fra ventricolo e atrio sinistri; nell’insufficienza tricuspidale fra ventricolo e atrio destri; nella comunicazione intraventricolare fra i ventricoli sinistro e destro; in certi casi di comunicazione fra aorta e arteria polmonare. Ulteriori caratteristiche dei soffi citati saranno precisate parlando delle singole affezioni. • Mesosistolici (di eiezione). Originano tipicamente, ma non esclusivamente, in corrispondenza delle valvole semilunari aortiche e polmonari e sono caratterizzati dal fatto che cominciano dopo il (e non insieme al) I tono e finiscono prima del (senza fondersi col) II tono. Essendo legati all’eiezione, hanno un’intensità che cresce fino verso la metà della sistole e poi decresce. Soffi di questo tipo si associano a numerose condizioni cliniche, alcune delle quali non hanno alcun significato patologico; soffi simili possono anche non essere originati in corrispondenza delle semilunari, ma al di sopra o al di sotto di esse o anche in corrispondenza delle atrioventricolari. Sono le caratteristiche associate (irradiazione, timbro, ecc.) che permettono di distinguere fra le diverse possibilità. • Telesistolici. Più tardivi e in genere più brevi dei mesosistolici, questi soffi sono associati a disfunzione dei muscoli papillari nella cardiopatia ischemica o a talune anormalità dell’apparato mitralico nel prolasso di questa valvola. 5. Soffi diastolici. • Protodiastolici, che iniziano quasi immediatamente dopo il II tono. Sono caratteristici dell’insufficienza aortica e polmonare, hanno alta frequenza (timbro dolce) e si prolungano decrescendo in intensità durante la diastole. I soffi possono essere proto o protomeso o olodiastolici. Il soffio diastolico dell’insufficienza polmonare si sente quasi solo nel focolaio polmonare; quello dell’insufficienza aortica, più che sul focolaio aortico, si sente al meglio sul III spazio intercostale di sinistra, spesso lungo tutta la marginosternale sinistra; se è debole, si sente solo premendo il diaframma sul III spazio, a paziente seduto leggermente chino in avanti in fase espiratoria.
• Meso-telediastolici. Sono dovuti a una stenosi assoluta oppure relativa (relativa a un flusso di sangue eccessivo) attraverso la mitrale o la tricuspide. Si sentono in un’area ristretta, rispettivamente alla punta (meglio se in decubito laterale sinistro) e sul focolaio tricuspidale. La frequenza è bassa (rullio), spesso sono in crescendo perché aumentano di intensità nella telediastole a causa della contrazione atriale (rinforzo presistolico). Più che l’intensità del soffio, è importante la sua durata: in caso di stenosi mitralica grave, il soffio (che inizia subito dopo lo schiocco d’apertura della mitrale) si prolunga fino al I tono. Un soffio meso o telediastolico caratteristico si ha in presenza di insufficienza aortica grave, in aggiunta al soffio
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già descritto: è il soffio Austin-Flint, che si sente alla punta e deriva da vibrazioni del lembo anteriore della mitrale in una fase in cui vi sono due vie di afflusso di sangue al ventricolo: il fisiologico flusso atrioventricolare e il patologico flusso che proviene dall’aorta insufficiente.
• Telediastolici, più spesso chiamati presistolici. Sono sostanzialmente soffi mesotelediastolici piuttosto deboli, e che pertanto si sentono solo quando la contrazione atriale determina un più elevato gradiente di pressione fra atrio e ventricolo. 6. Soffi continui o sistodiastolici. Occupano tutta o quasi la sistole e continuano più o meno a lungo in diastole. Derivano dall’esistenza di una comunicazione fra due compartimenti, in uno dei quali la pressione supera quella dell’altro sia in sistole sia in diastole. Tipico è il soffio del dotto di Botallo persistente, che mette in comunicazione l’aorta con il distretto dell’arteria polmonare. Reperti simili si hanno in vari casi di fistola arterovenosa, ovvero di grosso ostacolo sul decorso di un’arteria (per es., coartazione aortica) o anche di flusso abbondante in un circuito particolarmente tortuoso. Sono esempi di quest’ultima possibilità il “soffio mammario”, che si sente spesso sulla mammella durante l’ultima fase della gravidanza, l’“hum venoso” che si sente nella fossa sopraclaveare destra (ma anche altrove) in soggetti in posizione eretta (cessa se si comprime la giugulare interna), i soffi da aumentata circolazione bronchiale in certi pazienti con cardiopatie congenite. I due primi esempi citati non hanno alcun significato clinico: sono tipici soffi innocenti.
7. Sfregamenti pericardici. In caso di frizione fra foglietto parietale e viscerale del pericardio, associati in genere a pericardite con versamento ricco in fibrina, si sentono dei rumori prolungati, simili a soffi. Possono essere sistolici, protodiastolici o presistolici o combinati; possono avere localizzazione variabile, hanno tonalità abbastanza alta ma soprattutto un timbro grattante (la parola inglese “scratch” li riproduce bene). Altre caratteristiche degli sfregamenti, utili a differenziarli dai soffi, saranno esposte nel capitolo dedicato alle pericarditi.
METODI DI ESAME USATI IN CARDIOLOGIA Per studiare correttamente un cardiopatico, può essere necessario eseguire esami di laboratorio. Questi sono distinti in non specialistici, cioè quelli che si usano in ogni branca della medicina interna (velocità di sedimentazione, esame urine, ecc.) e specialistici, specifici della cardiologia. Di questi ultimi si darà una descrizione molto sommaria (perché spetta allo specialista sia chiederli che interpretarli) con tre eccezioni: l’elettrocardiogramma, l’esame radiologico del cuore e l’ecocardiogramma. Queste eccezioni rispondono alla logica che tutti i medici devono essere in grado di valutare alcuni aspetti essenziali della radiografia del torace e dell’elettrocardiogramma. Sono, infatti, gli esami che più servono a decidere se il paziente ha o non ha bisogno di ricorrere allo specialista; soprattutto, l’elettrocardio-
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grafo è in dotazione di qualunque Pronto Soccorso e permette in molti casi di stabilire se c’è o no una condizione clinica che richiede provvedimenti urgenti. L’ecocardiogramma, infine, ha sempre maggiori applicazioni nella pratica clinica.
Elettrocardiografia L’elettrocardiogramma (ECG) è una registrazione grafica che si ottiene misurando con un apposito apparecchio dei fenomeni elettrici che sono connessi con l’attività del cuore. Per comprendere l’elettrocardiografia conviene analizzare successivamente: • la genesi dell’attività elettrica del cuore a livello della singola cellula miocardica; • l’attività elettrica complessiva del cuore, come risultante dell’attività elettrica dei milioni di cellule che costituiscono il viscere cuore, le quali si attivano in una certa sequenza; • le modalità di registrazione dell’attività elettrica cardiaca sulla superficie corporea; • le caratteristiche dell’elettrocardiogramma normale. A. Genesi dell’attività elettrica cardiaca. L’attività elettrica cardiaca deriva da variazioni del potenziale di membrana, variazioni che sono parte integrante dell’eccitazione e precedono, determinandoli, i fenomeni meccanici che si verificano nel muscolo cardiaco. L’esposizione che segue, schematica e alquanto semplificata, serve a spiegare i fenomeni essenziali. Ogni cellula cardiaca è limitata da una membrana cellulare, la cui superficie esterna è in rapporto diretto con il liquido extracellulare, mentre la superficie interna di essa è in rapporto con il liquido intracellulare. La composizione del primo è diversa da quella del secondo, in particolare il liquido extracellulare contiene una concentrazione molto più elevata di ioni Na+ e Ca++, quello intracellulare una concentrazione più alta di ioni K+. Questi ioni non possono oltrepassare la membrana se non attraversando strutture proteiche specializzate: i “canali” rispettivamente di Na, K, Ca. I canali sono dotati di “chiuse” che, a seconda del grado di apertura, permettono o non permettono il passaggio degli ioni. Durante la fase di riposo delle cellule del miocardio comune (la minoranza delle “cellule pacemaker” ha un comportamento alquanto diverso e se ne parla nel capitolo delle aritmie), si può dire che i canali sono chiusi e che si ha una concentrazione complessiva di ioni positivi nei liquidi extracellulari leggermente maggiore di quella che si ha all’interno delle cellule; al contrario, ci sono un leggero eccesso di ioni negativi dentro le cellule e un leggero difetto di tali ioni all’esterno (le ragioni di questa differenza sono spiegate nel capitolo 6). Per questo motivo, il potenziale elettrico intracellulare è inferiore a quello extracellulare: se a questo si dà valore 0, il primo ha un valore di circa – 90 mV. Le cellule a riposo sono perciò polarizzate: dato che le cariche elettriche positive in eccesso all’esterno della membrana
Figura 4.6 Rappresentazione schematica del potenziale di membrana a riposo di una fibra miocardica (stilizzata come un rettangolo), sotto forma di cariche elettriche positive e negative che si fronteggiano ai due lati della membrana cellulare: membrana polarizzata.
cellulare e quelle negative in eccesso al suo interno tenderanno a fronteggiarsi, una rappresentazione schematica abbastanza realistica del potenziale di membrana a riposo è quella riportata nella figura 4.6. La differenza di potenziale fra esterno e interno della cellula che è stata descritta può essere misurata solo in laboratorio con una tecnica molto raffinata: l’apparecchio misuratore viene connesso da un lato a un elettrodo metallico posto sulla superficie del cuore (o tenuto con artifici a potenziale costante), dall’altro con un elettrodo ad ago estremamente sottile, che viene inserito all’interno di una singola cellula. Se invece gli elettrodi vengono posti sulla superficie del cuore a riposo, essi sono in relazione solo con la superficie esterna delle cellule, che sono tutte ugualmente polarizzate e hanno il medesimo potenziale elettrico: pertanto l’apparecchio misuratore registra differenza di potenziale zero. Per queste ragioni, quando tutte le fibre miocardiche sono a riposo non si registra alcuna attività elettrica cardiaca alla superficie del corpo, dato che i liquidi extracellulari (sia nel cuore che intorno ad esso, fino alla cute) hanno lo stesso valore di potenziale. Però quando il tessuto miocardico si eccita, le cose cambiano notevolmente. L’eccitazione può essere effettuata sperimentalmente in vari modi; fisiologicamente essa avviene perché si sono eccitate cellule vicine. L’essenza dell’eccitazione è rappresentata da una sottrazione di cariche positive dalla superficie delle cellule miocardiche, capace di ridurre in un singolo punto della membrana cellulare la polarizzazione di riposo. Questa riduzione provoca una brusca apertura dei canali del Na, sicché gli ioni Na+, che sono in concentrazione maggiore fuori della cellula, si precipitano all’interno di essa, riducendo il potenziale di membrana. In un tempo brevissimo (1 msec) si giunge all’annullamento del potenziale di membrana a riposo, ovvero alla depolarizzazione della membrana cellulare in quel punto. (Conviene ripetere che in realtà la sequenza dei fenomeni implicati nella generazione del potenziale d’azione delle cellule miocardiche è più complessa, ed è riportata in maggior dettaglio nel capitolo 6.) Una volta che l’eccitazione si è verificata in un punto, essa tende a propagarsi, in quanto la variazione di potenziale locale è in grado di sottrarre cariche elettriche positive dai punti contigui sulla membrana cellula-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
A A.
END
B
C
D
EP
Figura 4.8 Una serie di cellule cardiache che, per un’onda di eccitazione che procede da sinistra a destra, sono in parte depolarizzate (A, B) e in parte ancora polarizzate (C, D).
END
EP
C. END
EP
B.
Figura 4.7 Propagazione dell’eccitazione in una fibra miocardica le cui estremità sono state denominate, per comodità di discorso, endocardica (END) ed epicardica (EP). La depolarizzazione, limitata inizialmente all’estremità endocardica (A), si propaga verso l’estremità epicardica (B) ed alla fine interessa tutta la fibra (C).
re, in una sequenza che si arresta solo quando tutta la cellula è depolarizzata. Una rappresentazione schematica di questo processo è riportata nella figura 4.7 (in realtà in figure di questo tipo i punti all’esterno e all’interno della membrana cellulare nella zona eccitata andrebbero indicati come né positivi né negativi, quindi senza segno di cariche elettriche; per ragioni pratiche, tuttavia, impiegheremo in questo caso il segno di negatività all’esterno, dato che quello che conta ai fini del presente discorso è che nelle zone eccitate l’esterno della membrana cellulare è più negativo che nelle zone non eccitate). Alla depolarizzazione segue la ripolarizzazione, che consiste essenzialmente in un ripristino dello stato di riposo. Essa si svolge in più fasi (è un processo relativamente lento) e comporta movimento di ioni Na+, Ca++ e K+, in parte passivi e in parte attivi, cioè un impiego di energia. Una ripolarizzazione completa e tempestiva, pertanto, può svolgersi solo se le condizioni metaboliche delle cellule sono buone. In caso contrario, la ripolarizzazione è tardiva o incompleta. B. Attività elettrica cardiaca globale. L’eccitazione del cuore insorge normalmente nel nodo del seno e si propaga passando da ogni cellula alla cellula immediatamente vicina, con progressione analoga a quella
già descritta a proposito di una singola cellula. In breve tempo tutto il miocardio atriale e poi tutto il miocardio ventricolare vengono invasi dallo stato di eccitazione, vengono cioè depolarizzati. Durante questa propagazione coesistono cellule depolarizzate e cellule polarizzate, tuttora in riposo. Anche la ripolarizzazione avviene in tempi diversi nelle diverse parti del cuore, con conseguente coesistenza di cellule più o meno depolarizzate e cellule ripolarizzate. La figura 4.8 mostra quello che, per un fisico, è il fenomeno che conta; fenomeno che si verifica, come si è detto, sia durante l’eccitazione sia durante il recupero dello stato di riposo (ripolarizzazione). La figura illustra una fila di cellule in un dato istante dell’eccitazione del cuore, eccitazione che progredisce da sinistra a destra. Le cellule A e B sono già state eccitate e hanno perso la polarizzazione di riposo: sulla loro superficie esterna non c’è più l’accumulo di cariche elettriche positive proprio della condizione di riposo, dato che molti ioni Na+ e Ca++ sono penetrati entro le cellule. Le cellule C e D sono invece tuttora polarizzate e sulla loro superficie esiste un eccesso di ioni positivi. A un fisico che guardi la figura salta agli occhi che fra la superficie di A e quella di B non v’è alcuna differenza di potenziale; così come non ce n’è fra la superficie di C e quella di D. Ma al confine fra la superficie di B e quella di C v’è una differenza nettissima di potenziale, esattamente come se al confine fra B e C fosse situato un generatore elettrico. La situazione definita nella figura è pertanto identica a quella che si avrebbe se al confine fra B e C vi fosse una pila, con polo positivo a destra e polo negativo a sinistra (Fig. 4.9). Ora, se si considera che i liquidi extracellulari sono degli ottimi conduttori elettrici (essendo soluzioni elettrolitiche), una pila situata a livello del cuore determina una conseguenza immediata: essa dà origine a un campo elettrico che comprende tutto il corpo (Fig. 4.10). In con-
PILA
A
B
C
D
Figura 4.9 La condizione esposta nella figura equivale alla presenza di una pila elettrica al confine fra le cellule B e C.
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Figura 4.10 Se esiste una pila in corrispondenza del cuore, con polo positivo sulla sinistra e polo negativo sulla destra, si crea un campo elettrico diffuso a tutto il corpo. Un voltmetro (elettrocardiografo) connesso da un lato con l’arto superiore sinistro e dall’altro con l’arto superiore destro, misurerà l’esistenza di un certo valore di differenza di potenzialità fra il primo e il secondo.
seguenza di ciò, ogni punto del corpo acquista un certo valore di potenziale elettrico che, schematizzando, sarà positivo nei punti del corpo più vicini al polo positivo della pila e sarà negativo nei punti del corpo più vicini al polo negativo di essa. È questa la base della registrazione elettrocardiografica. Se, infatti, nell’esempio dato, si misura con un apparecchio sensibile se v’è differenza di potenziale fra spalla sinistra e spalla destra, si vede che tale differenza esiste e che la prima ha un valore di potenziale maggiore della seconda (Fig. 4.10). Il fisico aggiunge che, nel caso che qui interessa, conviene usare, al posto del termine generatore (o pila), il termine di dipolo (Fig. 4.11), che può essere a sua volta convenientemente rappresentato (seguendo le comuni convenzioni della fisica) da un vettore; questo è diretto dal polo negativo verso quello positivo del dipolo e viene disegnato di lunghezza proporzionale al voltaggio della forza elettromotrice del generatore. Per i meno esperti può essere opportuno ripetere il ragionamento del fisico ampliandolo un po’. Si è detto che una cellula (o una fila di cellule) del miocardio in
A
B
C
D
Figura 4.11 La condizione raffigurata nella figura, che equivale alla presenza di una pila fra B e C (Fig. 4.9), può essere espressa con altri tipi di equivalenze. Si può considerare che anziché la pila fra B e C vi sia un dipolo, oppure che vi sia un vettore rappresentativo della f.e.m. del dipolo (o della pila). Con determinate specificazioni, la f.e.m. può essere rappresentata infatti come un vettore.
corso di eccitazione o recupero determina effetti elettrici sovrapponibili a quelli di una pila avente i poli rispettivamente situati in corrispondenza della parte polarizzata e di quella depolarizzata della cellula stessa. Dato che, in questo contesto, la pila non interessa come oggetto materiale, ma come simbolo di un generatore elettrico, si può sostituire al termine pila il termine dipolo, che indica l’esistenza in vicinanza dell’uno o dell’altro di due poli di un generatore elettrico ideale. Oppure, dato che la grandezza fisica che dà origine al movimento delle cariche in una pila è chiamato forza elettromotrice (f.e.m.), si può discutere in termini di f.e.m. La f.e.m., in generale, è una grandezza scalare, completamente definita dall’indicazione dell’unità di misura (volt in questo caso) e da un valore numerico (per es., questa f.e.m. è di 5 volt). Nel caso del cuore, si può dire che la f.e.m. è determinata dalla quantità delle cariche, positive e negative, che si fronteggiano nel dipolo in un dato momento. Perciò, se la quantità di tessuto miocardico nella quale è in corso la depolarizzazione (o la ripolarizzazione) è piccola (per es., negli atri, nel ventricolo destro), le cariche che costituiscono il dipolo sono poche e la f.e.m. è modesta. Se, invece, la quantità di tessuto miocardico nella quale hanno luogo questi eventi elettrici è grande (per es., nel ventricolo sinistro, soprattutto se ipertrofico), le cariche che costituiscono il dipolo sono molte e la f.e.m. è maggiore. Occorre però aggiungere che, nel caso della attività cardiaca, la f.e.m. da sola non basta a definire un dipolo, per il quale sono anche rilevanti la direzione (ossia l’orientamento nello spazio dei suoi due poli) e il verso (ossia da che parte sta il polo positivo e da che parte il negativo). Quindi se una cellula miocardica allungata in senso verticale ha l’estremità superiore depolarizzata e quella inferiore ancora polarizzata, si può dire che corrisponde a dipolo con un polo negativo in alto e polo positivo in basso e rappresentare in modo esatto la f.e.m. di questo dipolo con un vettore (graficamente esprimibile con una freccia), che abbia direzione verticale, verso dall’alto in basso (punta della freccia in basso) e lunghezza proporzionale al valore in volt della f.e.m. del dipolo (per es., freccia lunga 1 cm ogni 5 mvolt). Questo tipo di rappresentazione è utile, perché fa comprendere come la situazione che realmente esiste nel cuore (sia durante la eccitazione sia durante il recupero), cioè la presenza di numerosi confini fra cellule depolarizzate e cellule polarizzate, equivale alla presenza contemporanea di moltissimi dipoli. Se questi sono stati rappresentati da vettori, con un calcolo semplice si può dire qual è il loro effetto elettrico complessivo, quale può essere visto alla superficie del corpo, cioè a una certa distanza dal cuore: i moltissimi dipoli coesistenti determinano lo stesso effetto di un dipolo equivalente, ovvero del vettore risultante dalla somma di tutti i vettori originali (Fig. 4.12). Riassumendo, è vero che in ogni istante della eccitazione o del recupero del cuore ci sono milioni di dipoli variamente orientati nell’ambito di un viscere di forma geometrica complicata, ma essi si comportano come se ce ne fosse uno solo quando noi eseguiamo un elettro-
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R
Figura 4.12 R è il vettore che risulta dalla somma dei molti vettori rappresentati.
cardiogramma, cioè misuriamo differenze di potenziale fra vari punti della superficie del corpo; il vettore risultante in ogni singolo istante del ciclo cardiaco è chiamato vettore cardiaco di quell’istante. C. Registrazione dell’attività elettrica cardiaca. Nella pratica sperimentale è possibile porre due fili elettrici (elettrodi) direttamente su due punti di una fibra miocardica, collegarli chiudendo il circuito e misurare con un voltmetro la differenza di potenziale che eventualmente si verifica. In clinica una simile misurazione deve essere fatta a distanza dal cuore, ponendo i due fili elettrici su due diversi punti della superficie corporea; in essi il potenziale risulta eventualmente differente come conseguenza del campo elettrico generato dall’attività cardiaca. La posizione nella quale vengono posti i due fili elettrici costituisce quella che viene chiamata una “derivazione”. I caratteri più importanti di una derivazione sono il suo orientamento nello spazio (si parla di asse della derivazione) e la sua polarità. Per spiegare meglio questo concetto, immaginiamo una sfera di metallo riempita di una soluzione elettrolitica nel cui centro è contenuto un dipolo. Se noi poniamo in corrispondenza di due punti qualsiasi A e B della superficie della sfera due fili elettrici collegati con un voltmetro, noi otterremo una derivazione che, in questo caso, è detta bipolare. L’asse di questa derivazione è rappresentato dall’orientamento nello spazio della retta che congiunge i due punti A e B. Noi, a seconda del nostro punto di vista, potremo definire l’asse orizzontale, verticale, sagittale, obliquo più o meno secondo vari angoli rispetto alle tre coordinate dello spazio tridimensionale euclideo. La polarità della derivazione dipende dal fatto che i due fili elettrici non sono indifferentemente scambiabili rispetto alla deflessione che l’indice del voltmetro subisce quando registra la differenza di potenziale. Convenzionalmente viene definito “elettrodo positivo” quella estremità che fa spostare verso l’alto l’indice del voltmetro quando si trova dalla parte positiva del campo elettrico, e lo fa spostare verso il basso quando si trova
dalla parte negativa. Corrispondentemente viene definito “elettrodo negativo” quella estremità che fa spostare verso l’alto l’indice del voltmetro quando si trova dalla parte negativa nel campo elettrico, e lo fa spostare verso il basso quando si trova dalla parte positiva. Perciò, se poniamo questi due elettrodi su due punti A e B dei quali A sia più positivo di B, avremo una deflessione dell’indice del voltmetro verso l’alto se poniamo l’elettrodo positivo in A e quello negativo in B; avremo una deflessione della stessa entità, ma verso il basso, se invertiamo la posizione degli elettrodi. Finora abbiamo descritto come si realizza una derivazione bipolare. Esiste, tuttavia, un altro modo di registrare l’attività elettrica di un dipolo contenuto in una sfera. È possibile porre un solo elettrodo del circuito collegato al voltmetro in un punto qualsiasi della superficie della sfera (elettrodo esploratore) e mantenere il secondo elettrodo con vari artifici a potenziale zero (elettrodo indifferente). Una derivazione così fatta si chiama derivazione unipolare. L’asse di una derivazione unipolare è rappresentato dall’orientamento spaziale della retta che congiunge il centro della sfera, dove è sito il dipolo, con il punto sul quale è stato posto l’elettrodo esploratore. La sua polarità è determinata da quale dei due elettrodi, positivo o negativo, funge da elettrodo esploratore e quale da elettrodo indifferente. Esiste una relazione tra derivazioni bipolari e unipolari. Supponiamo che su due punti A e B della sfera siano posti i due elettrodi collegati con il voltmetro, il positivo in A e il negativo in B (derivazione bipolare). La deflessione dell’indice dello strumento così ottenuta sarà uguale alla somma delle deflessioni ottenute con due registrazioni unipolari, la prima con elettrodo positivo in A e negativo indifferente, la seconda con elettrodo negativo in B e positivo indifferente. Deve però essere chiarito che questa è una situazione teorica, perché in elettrocardiografia clinica si usano sempre derivazioni unipolari, nelle quali l’elettrodo positivo è quello esploratore, mentre l’elettrodo negativo è quello indifferente. L’orientamento e la polarità di una derivazione (quale che sia, bipolare o unipolare) sono della massima importanza ai fini della registrazione delle differenze di potenziale generate da un dipolo che, come si ricorderà, può essere espresso sotto forma di un vettore. Vale in proposito la seguente regola: la deflessione dell’indice del voltmetro è proporzionale alla proiezione del vettore sull’asse della derivazione (1); la deflessione è verso l’alto (positiva) se il vettore è diretto verso l’elettrodo positivo della derivazione, è verso il basso (negativa) se il vettore è diretto verso l’elettrodo negativo della derivazione. Perciò, se la derivazione del vettore è parallela a quella dell’asse della derivazione, la deflessione dell’indice del voltmetro (verso l’alto o verso il basso a seconda di dove siano l’elettrodo positivo e quello negati-
(1) Per chi ama la matematica: è uguale al prodotto scalare del vettore cardiaco per il vettore asse della derivazione, che si assume avere sempre modulo 1.
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vo) sarà massima. Se la direzione del vettore è perpendicolare all’asse della derivazione, la deflessione sarà nulla. Se la direzione del vettore è obliqua, la deflessione sarà tanto più prossima alla massima quanto minore sarà l’angolo formato con l’asse della derivazione. Restando sempre all’esempio della sfera con al centro un dipolo, non sfuggirà che, se registriamo all’esterno le differenze di potenziale con tre derivazioni perpendicolari secondo le tre direzioni dello spazio euclideo e confrontiamo le deflessioni dell’indice del voltmetro nelle tre derivazioni in un dato istante, avremo tutti gli elementi per ricostruire grandezza, direzione e senso del vettore corrispondente al dipolo. Vediamo come queste considerazioni teoriche si applicano alla elettrocardiografia clinica. L’elettrocardiografo non è altro che un voltmetro dotato di scarsissima inerzia e pertanto capace di indicare con fedeltà variazioni molto rapide delle differenze di potenziale. Il suo indice è collegato con una penna scrivente che disegna su un nastro di carta (che scorre a velocità costante) un tracciato, che sintetizza la successione degli spostamenti verso l’alto o verso il basso dello stesso indice in conseguenza delle variazioni del campo elettrico prodotto dal cuore. Il nastro di carta è stampato con quadretti di 1 mm di lato e viene fatto scorrere alla velocità di 25 mm/sec. Pertanto, due punti del tracciato elettrocardiografico che distino in orizzontale di 1 mm rappresentano due misure prese ad intervallo di 0,04 sec. L’apparecchio è anche tarato in modo che una deflessione di 1 mm di un punto rispetto a un altro (in alto ovvero in basso) indica una differenza di potenziale (in più o in meno) di 0,1 mV (millivolt). L’apparecchio ha due fili le cui estremità corrispondono rispettivamente all’elettrodo positivo e all’elettrodo negativo (e che sono indicati come tali dato che, per le ragioni che abbiamo prima visto, le posizioni dei due elettrodi non possono essere scambiate indifferentemente). Più complicato è spiegare come gli elettrodi dell’elettrocardiografo possono essere appoggiati alla superficie corporea, dato che la geometria del corpo umano è, evidentemente, molto diversa da quella di una sfera (esempio al quale ci siamo riferiti per spiegare le derivazioni). Tutte le derivazioni che vengono applicate in elettrocardiografia clinica sono frutto di una serie di geniali semplificazioni enunciate all’inizio di questo secolo dal fisiologo olandese Einthoven. Queste semplificazioni sono tradotte nei cinque postulati seguenti. • Il cuore umano può essere concepito come un generatore elettrico puntiforme. Da questo punto e solo da esso originano tutti i vettori risultanti rappresentativi dell’attività elettrica del cuore in ogni momento del suo ciclo. • Il corpo umano è un conduttore omogeneo, ossia è analogo a un recipiente pieno di una soluzione elettrolitica. • La spalla destra (indicata con il simbolo R, da right, destra), la spalla sinistra (indicata con il simbolo L, da left, sinistra) e un punto a metà strada tra la radice degli arti inferiori (indicato con il simbolo F, da feet, piedi) costituiscono i vertici di un triangolo
equilatero, detto triangolo di Einthoven. Il cuore è al centro del triangolo di Einthoven. • I tre vertici del triangolo di Einthoven e il cuore giacciono sullo stesso piano. Assumendo come punto di vista quello del medico che osserva il paziente in posizione eretta, questo piano può essere definito frontale. • I tre vertici del triangolo di Einthoven sono a una distanza tale dal cuore da poter essere considerata, ai fini della registrazione dell’attività elettrica, come una distanza infinita. (Qui infinito non significa tale da rendere la registrazione dell’attività elettrica impossibile, ma tale da rendere irrilevanti le variazioni di posizione del cuore e dei vertici che si verificano da un caso all’altro, per differenze somatiche dei vari soggetti.) Nessuno di questi cinque postulati è rigorosamente vero ma, come si è anticipato, essi costituiscono una approssimazione tanto soddisfacente della realtà da aver dato copiosi frutti pratici. Sulla base dei suoi postulati Einthoven definì tre derivazioni bipolari, che da allora restano le tre derivazioni standard della elettrocardiografia clinica. La prima derivazione, detta D1 si realizza ponendo l’elettrodo positivo in L e quello negativo in R. La seconda derivazione, detta D2, si realizza ponendo l’elettrodo positivo in F e quello negativo in R. La terza derivazione, detta D3, si realizza ponendo l’elettrodo positivo in F e quello negativo in L (Fig. 4.13). Si deve ammettere che la conformazione anatomica dei vertici del triangolo di Einthoven è poco propizia alla fissazione degli elettrodi. Tuttavia è importante riflettere sul fatto che gli arti possono essere considerati omologhi a fili elettrici e realmente hanno potenziali elettrici sensibilmente uguali alle rispettive radici: spal-
D1
R
L
D3
D2
F
Figura 4.13 Il triangolo di Einthoven e le tre derivazioni bipolari standard.
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le e regione pubica. Così un elettrodo fissato al polso sinistro è da considerare collegato alla spalla sinistra (punto L), un elettrodo fissato al polso destro è da considerare collegato alla spalla destra (punto R) e un elettrodo fissato a una delle due caviglie è da considerare collegato al punto intermedio tra le radici degli arti inferiori (punto F). Quando si esegue un ECG si fissa in realtà anche un quarto elettrodo all’altra caviglia: serve come “messa a terra” dell’apparecchio; quindi, da un punto di vista medico, non ha importanza. È facile fissare gli elettrodi alle estremità degli arti mediante cinghie di gomma. Sulla base di quanto è stato detto prima, queste tre derivazioni giacciono sullo stesso piano frontale. Il loro orientamento spaziale viene definito dall’angolo che il loro asse fa con una linea orizzontale idealmente tracciata sul piano frontale (asse di riferimento). I valori numerici di questi angoli sono espressi in gradi, convenzionalmente indicando con il valore di 0° quella estremità della linea orizzontale che si trova a destra (dal nostro punto di vista, ma a sinistra dal punto di vista del soggetto nel quale viene eseguito l’elettrocardiogramma) e procedendo in senso orario. Per le derivazioni che con questo procedimento risulterebbero formare con l’asse di riferimento un angolo superiore a 180°, si trova conveniente procedere in senso antiorario e indicare l’angolo con il segno negativo (cioè, invece di parlare, per esempio, di un asse di 330°, è più conveniente dire che la stessa derivazione ha un asse di –30°). Risulta perciò evidente che, delle tre derivazioni standard, la D1, ha asse di 0°, la D2 ha asse di 60° e la D3 ha asse a 120° (Fig. 4.14).
–90° –120°
È merito del cardiologo americano Wilson avere individuato la possibilità di realizzare altre tre derivazioni, sempre sul piano frontale, queste ultime unipolari. Si è visto che in una derivazione unipolare l’elettrodo positivo del voltmetro viene adoperato come esploratore e quello negativo viene mantenuto a potenziale 0 e perciò è indifferente. Come può essere fatto questo con l’elettrocardiografo? Cominciamo dall’elettrodo negativo. Questo mantiene un potenziale fisso 0 (almeno in teoria) se è collegato con una resistenza che unisce (dentro l’apparecchio elettrocardiografico) i tre vertici del triangolo di Einthoven (cosiddetto “central-terminal” di Wilson). Allora si realizzano le derivazioni unipolari usando come elettrodo negativo il central-terminal e collegando l’elettrodo positivo, esploratore, con uno o l’altro dei vertici del triangolo di Einthoven. Sono appunto tre le derivazioni unipolari di cui stiamo parlando (Fig. 4.15). Esse sono chiamate rispettivamente: VR, se l’elettrodo esploratore è collegato al polso destro e, perciò, alla spalla destra; VL, se l’elettrodo esploratore è collegato al polso sinistro e, perciò, alla spalla sinistra; VF se l’elettrodo esploratore è collegato a una caviglia e perciò alla radice degli arti inferiori. Gli assi di queste derivazioni sono dati dalle rette che congiungono il cuore a ciascuno dei tre vertici del triangolo; essi sono rispettivamente –150° per VR, –30° per VL e 90° per VF (Fig. 4.16). Si è visto che la deflessione dell’indice del voltmetro registrata con una derivazione bipolare può essere considerata la somma delle deflessioni registrate con due unipolari. Perciò, in linea di massima, le deflessioni registrate con le derivazioni unipolari di Wilson dovrebbero essere di minore entità rispetto a quelle che si hanno con le derivazioni standard bipolari. Grazie ad un artificio, tuttavia, le deflessioni registrate con queste derivazioni unipolari pos-
–60°
–30° aVL
–150° aVR
+180° R
L
D10°
VR
VL
+30°
+150°
D3 +120°
D2 +60°
VF
aVF +90°
Figura 4.14 Gli assi delle derivazioni elettrocardiografiche periferiche. Si postula che gli assi siano tutti giacenti su uno stesso piano frontale al cui centro è situato il cuore. Le linee continue indicano gli assi effettivi delle derivazioni, le linee tratteggiate gli assi che si otterrebbero invertendo le posizioni degli elettrodi.
Figura 4.15 Metodi di registrazione delle derivazioni unipolari sul piano frontale con il “central-terminal” di Wilson.
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VR
VL
VF
V
Figura 4.16 Asse delle derivazioni unipolari di Wilson.
sono essere aumentate e rese comparabili a quelle che si hanno con le derivazioni bipolari. Basta scollegare ogni volta dal central-terminal il filo che corrisponde al vertice del triangolo sul quale si pone l’elettrodo esploratore (ossia: quando si registra VR, l’elettrodo indifferente è collegato solo con L e F; quando si registra VL, l’elettrodo indifferente è collegato solo con R e F; quando si registra VF, l’elettrodo indifferente è collegato solo con R e L). Le derivazioni così realizzate sono denominate rispettivamente aVR, aVL e aVF, dove la lettera “a” sta per “augmented”. Le sei derivazioni che si hanno sul piano frontale forniscono ben tre coppie di coordinate cartesiane, perpendicolari tra di loro (aVL e D2; D1 e aVF; aVR e D3). Se il corpo umano corrispondesse davvero al modello postulato da Einthoven, basterebbe una sola coppia di coordinate per ricostruire grandezza, direzione e senso del vettore cardiaco, in qualsiasi istante, sul piano frontale. Ossia, deve essere tenuto presente che queste sei derivazioni, dette anche derivazioni periferiche, consentono solo una descrizione bidimensionale del vettore cardiaco. Se, per esempio, in un dato istante l’attività elettrica del cuore generasse un vettore diretto dall’indietro in avanti, e perciò perpendicolare al piano frontale, nulla sarebbe possibile registrare con le derivazioni periferiche. Occorrono perciò delle altre derivazioni, giacenti in un altro piano, perpendicolare a quello frontale, e queste sono le derivazioni precordiali. Le derivazioni precordiali, che sono indicate con la lettera V seguita da un numero, sono tutte derivazioni unipolari realizzate mantenendo l’elettrodo negativo collegato con il central-terminal e ponendo l’elettrodo positivo su vari punti sulla superficie anteriore del torace, rispettivamente: al IV spazio intercostale destro sulla parasternale per la derivazione V1, al IV spazio sinistro sulla parasternale per la V2, a metà fra il punto di appli-
Figura 4.17 Sezione trasversa del torace e assi delle derivazioni precordiali. Si postula che questi assi giacciano tutti su un medesimo piano orizzontale (che coincide con quello raffigurato) e facciano tutti capo al cuore. È per consuetudine che di questi assi non si è disegnata la parte negativa, come si è fatto per gli assi delle derivazioni periferiche nella figura 4.14. La consuetudine deriva dal fatto che tutte le derivazioni precordiali sono unipolari; nulla impedisce però di immaginare il prolungamento (tratteggiato) degli assi al di là del “cuore”. È d’altra parte facile constatare che se si pone l’elettrodo esploratore sul dorso, in corrispondenza per esempio del prolungamento “negativo” dell’asse di V1, si registra un tracciato uguale (o quasi) a quello di V1, ma con polarità invertita (qR invece di rS). Il “quasi” deriva dal fatto che fra modello ideale e realtà fisica di un dato soggetto non vi è uguaglianza.
cazione di V2 e V4 per la V3, in V spazio sull’emiclaveare (punta del cuore) per la V4, in V spazio sull’ascellare anteriore per la V5 e in V spazio sull’ascellare media per la V6. Gli assi di tutte le derivazioni precordiali si postulano giacere su un medesimo piano orizzontale (trasversale) rispetto al corpo, che passa all’altezza del cuore; i vari assi uniscono il punto-cuore al punto di applicazione degli elettrodi, come in figura 4.17. Per quanto già spiegato nel testo che precede, ricordiamo in base a quali regole si possono avanzare deduzioni sul vettore cardiaco in base alle deflessioni registrate nelle varie derivazioni (e, rispettivamente, prevedere quali saranno le deflessioni in base alle caratteristiche del vettore). • Riassumendo: il vettore cardiaco di ogni istante del ciclo cardiaco influenza il potenziale elettrico di tutti i punti del corpo umano, in modo tale che l’elettrocardiografo registra in ogni derivazione una differenza di potenziale uguale alla proiezione del vettore stesso sull’asse di ogni derivazione. Nel medesimo istante del ciclo, pertanto, ogni derivazione registra un valore diverso; avendo tutti questi valori un rapporto che è noto con
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il vettore cardiaco (il rapporto è costituito dall’asse della derivazione), è possibile calcolare orientamento e grandezza del vettore cardiaco stesso. Per una valutazione semiquantitativa dei vettori, che in clinica è sufficiente, basta ricordare le regole seguenti (enunciate poco sopra): a) una deflessione positiva in una derivazione indica che il vettore è diretto verso l’elettrodo esploratore di essa (o, sulle bipolari, verso l’elettrodo connesso col polo positivo dell’elettrocardiografo); b) una deflessione negativa in una derivazione indica che il vettore che l’ha provocata è diretto in senso opposto all’elettrodo esploratore (o, nelle bipolari, come sopra); c) il voltaggio della deflessione è tanto più alto quanto più il vettore cardiaco è parallelo all’asse della derivazione; nel caso che il vettore sia perpendicolare all’asse stesso, la deflessione ha voltaggio zero. Per consolidata tradizione, in clinica si registrano 12 derivazioni, 6 periferiche e 6 precordiali, dalle quali è possibile farsi un’idea del vettore cardiaco nelle tre dimensioni dello spazio. D. Elettrocardiogramma normale. Il grafico in ogni derivazione è costituito da una serie di onde, positive o negative, intervallate da segmenti in cui la penna è sulla linea isoelettrica (posizione indicativa del fatto che in quel momento non vi era attività elettrica misurabile) (Fig. 4.18). L’esistenza di una serie di onde per ogni battito dipende dal fatto che l’attività elettrica correlata a ogni ciclo cardiaco è costituita da una serie di vettori di varia ampiezza e orientamento, come sarà specificato più avanti. Il grafico appare diverso nelle varie derivazioni semplicemente perché l’elettrodo esploratore di ciascuna di esse (o quello positivo nel caso delle bipolari) è situato in una posizione diversa da quella delle altre derivazioni; non è difficile constatare che se due derivazioni hanno assi con orientamento simile (per es. aVL con asse –30° e D1, con asse 0°) registrano grafici molto simili. In teoria si potrebbe registrare un minor numero di derivazioni ed estrapolare mentalmente o con un adatto apparecchio il tracciato delle altre: non lo si fa per ragioni storiche e perché la direzione degli assi, dedotta dai postulati secondo Einthoven, non è matematicamente esatta.
A
B A (a)
(c)
(d)
B
(b)
Figura 4.18 L’elettrocardiografo (rappresentato nella figura 4.10) ha misurato la differenza di potenziale fra due punti A e B della superficie del corpo umano. Nell’istante (a) la differenza fra A e B era 0, nell’istante (b) il potenziale di A era maggiore di quello di B, nell’istante (c) il potenziale di A era minore di quello di B, nell’istante (d) A e B avevano lo stesso valore di potenziale.
R T P Q
PQ
S
QRS
ST
QT
Figura 4.19 Nomenclatura dell’ECG. • Onda P: determinata dall’attivazione atriale. • Intervallo PR (o PQ): si misura dall’inizio della P all’inizio del QRS. • QRS: complesso delle deflessioni determinate dalla depolarizzazione dei ventricoli. Nell’ambito del QRS di ogni derivazione, viene chiamata Q l’onda negativa che precede un’onda positiva; viene chiamata R un’onda positiva (se vi è più di un’onda positiva la prima è R, la seconda R9, un’eventuale terza sarebbe R0); viene chiamata S un’onda negativa che segue la R (sarebbe S9 una S che seguisse R9). Se le onde citate hanno un voltaggio relativamente alto (4-5 mm o più), si indicano come Q, R e S con lettera maiuscola; se hanno un voltaggio basso, come q, r, s con lettera minuscola. • Tratto ST: dalla fine della S all’inizio dell’onda T, considerando valida la misura in cui esso è più lungo nelle derivazioni D1, D2 o D3. • Onda T: determinata dal recupero dei ventricoli. • Onda U (segue la T, non è rappresentata nella figura): incostante, di origine incerta (ripolarizzazione dei muscoli papillari?).
Ai fini della interpretazione clinica dell’ECG, d’altra parte, l’esattezza non serve: la variabilità individuale è infatti così elevata, che solo variazioni vistose rispetto al “normale” hanno significato. L’esperienza ha anche insegnato che non vi sono, oppure sono modeste, differenze fra ECG di uomo, donna, bambino (lattante escluso), soggetti magri e soggetti grassi. Per queste ragioni, le regole seguenti sono in prima approssimazione valide per tutti i soggetti. Prima di passare alla descrizione ragionata dell’ECG normale, occorre però che lo studente familiarizzi con la nomenclatura dell’ECG; questa è indicata nella didascalia della figura 4.19. L’eccitazione cardiaca, come è noto, comincia nel nodo del seno, che è situato in corrispondenza della parte alta dell’atrio destro al confine fra parete destra e posteriore. L’eccitazione del nodo del seno in sé – essendo il nodo piccolo – non dà manifestazioni elettriche rilevabili alla superficie del corpo. Poi la depolarizzazione, a partire dal nodo del seno, invade a macchia d’olio la muscolatura atriale, propagandosi verso l’avanti, fino a interessare tutto il miocardio dell’atrio destro, e verso sinistra fino a interessare tutto l’atrio sinistro. Il processo dura 0,08-0,10 sec e determina la prima onda dell’ECG, detta P. Questa ha forma arrotondata e corrisponde a vettori diretti verso l’avanti, il basso e a sinistra, sicché la P è positiva nelle derivazioni in cui l’e-
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lettrodo positivo (o l’elettrodo esploratore) è situato in basso, a sinistra e in avanti. È positiva cioè in D1, D2 aVF e in V1, (qui spesso c’è una breve negatività tardiva, in relazione all’eccitazione della parete posteriore dell’atrio sinistro), V2, e V3. È invece variabile (positiva, negativa o nulla) in aVL, V3, V4, V5, V6; è sempre negativa in aVR. Il voltaggio della P non supera ordinariamente i 2 mm e la sua durata deve essere inferiore a 0,12 sec. Attivati gli atri, l’eccitazione passa per il nodo atrioventricolare a bassa velocità: essendo il nodo piccolo, in ogni istante si eccitano poche cellule, quindi in questa fase l’attività elettrica è troppo scarsa per essere registrata. L’ECG in ogni derivazione presenta un tratto sulla linea isoelettrica: esso è posto fra la fine dell’onda P e l’inizio delle onde successive (QRS). È importante misurare l’intervallo di tempo che passa fra l’inizio della P e l’inizio del QRS: questo intervallo PR (o PQ) varia fra 0,12 e 0,20 sec (da 3 a 5 mm della carta). L’intervallo PQ finisce quando l’impulso, passato il nodo del seno, il fascio di His e le sue due branche, fino alle cellule di Purkinje del sottoendocardio, si diffonde nel miocardio comune dei ventricoli. Da questo momento il numero di cellule che si eccita in ogni istante è elevato (circa 20 milioni), sicché le onde dell’ECG che corrispondono all’attivazione dei ventricoli sono di voltaggi relativamente alti. Queste onde costituiscono nel loro insieme il “complesso QRS”, che ha morfologia diversa a seconda delle derivazioni e dura 0,08 sec in media (comunque meno di 0,12 sec). Conviene descrivere analiticamente il modo in cui avviene la diffusione dello stimolo nella massa ventricolare del cuore normale. 1. La zona di miocardio ventricolare che si depolarizza per prima è una regione della faccia sinistra del setto interventricolare; di qui l’eccitazione si approfondisce, in direzione della faccia destra del setto. Bisogna però ricordare che nel cuore in situ il setto è situato quasi parallelamente al piano frontale, col ventricolo destro in avanti e quello sinistro indietro. Quindi i primi vettori sono diretti verso l’avanti e a destra, determinando una deflessione negativa (q) in D1 aVL, V5 e V6 e un’onda positiva r in V1 e V2. Nelle altre derivazioni vi può essere r o q a seconda dei casi, come espressione di variabilità fisiologica. A brevissima distanza di tempo dall’inizio dell’attivazione del setto da sinistra a destra, comincia un’attivazione del setto da destra a sinistra (ad opera dell’impulso che ha percorso la branca destra del fascio di His). Però questa seconda ondata di depolarizzazione, essendo iniziata in ritardo rispetto alla prima, è completamente sopraffatta dalle f.e.m. dirette in senso opposto. Pertanto la fase iniziale del QRS, che dura circa 0,02 sec e corrisponde all’attivazione della parte media e inferiore del setto, è orientata a destra e in avanti e dà le onde prima nominate (Fig. 4.20A). 2. Dopo i primi 0,02 sec, inizia la fase di massiccia depolarizzazione delle pareti libere ventricolari, la quale procede dall’endocardio (dove vi è la rete di Purkinje) all’epicardio, interessando prima le regioni vicine
A.
B.
C.
D.
Figura 4.20 Diffusione dell’eccitazione nei ventricoli e vettori cardiaci corrispondenti alle diverse fasi. Sul lato sinistro di ogni figura è schematizzata una sezione frontale del cuore (ventricolo destro a sinistra), sul lato destro una sezione trasversale (ventricolo destro in basso) del cuore.
alla punta del cuore poi via via quelle vicine alla base. L’eccitazione interessa contemporaneamente il ventricolo sinistro e quello destro ma, dato che la massa del primo è molto maggiore, le f.e.m. prevalenti sono dirette a sinistra, indietro e leggermente verso il basso. In
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relazione ai vettori correlati si hanno grosse onde R in D1 aVF, V4, V5, V6; si hanno onde S in V1 e V2 e in aVR; il comportamento di D3, aVL e V3 è variabile. Questa fase dura almeno 0,04 sec e corrisponde ai due stadi indicati nella figura 4.20 come B e C.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
ASSE DI QRS = +90° –150° aVR –30° aVL
3. Infine, negli ultimi 0,02 sec del QRS, si attiva la parte alta dei due ventricoli e del setto, essendo particolarmente tardiva l’eccitazione delle porzioni più posteriori. Vi è però notevole variabilità individuale. I vettori di questa fase tardiva danno origine a una non costante deflessione negativa (S) in D1, D2, V5, V6. Nelle altre derivazioni il comportamento è variabile (Fig. 4.20D). 4. Riassumendo, nel soggetto normale l’attivazione dei ventricoli consta di tre fasi principali, rispettivamente responsabili dell’aspetto del QRS nella sua parte iniziale, media e terminale. La prima fase, attivazione del setto, avviene da sinistra verso destra e dall’indietro in avanti: dà origine a due reperti che nel soggetto normale sono costanti: r in V1, V2 e q in una o più delle derivazioni D1, aVL, V5, V6. La seconda fase, in cui si attivano le pareti libere dei due ventricoli, dà origine a deflessioni di alto voltaggio dirette a sinistra e indietro; sono conseguenza costante di questa fase una deflessione S in V1, V2, e una deflessione R in D1, D2, V5, V6. La terza fase dell’attivazione, infine, ha un comportamento variabile; l’unico segno di essa che sia costante è la negatività terminale del QRS in V1 e V2. Nelle altre derivazioni si può avere o meno una piccola onda terminale di direzione opposta a quella principale. Esiste una maniera sintetica di esprimere la direzione prevalente nel piano frontale dei vettori correlati all’eccitazione della massa ventricolare. È il cosiddetto asse elettrico medio del QRS, che viene calcolato con le regole esposte nella didascalia della figura 4.21. In modo analogo si possono calcolare l’asse medio dell’onda P e quello dell’onda T. Quando si esamina un ECG in sede diagnostica, l’eventuale assenza dei caratteri di normalità del QRS che sono stati sottolineati deve far ritenere molto probabile che l’ECG sia patologico (Fig. 4.22). Oltre ai caratteri di normalità già detti, si dovrà controllare che il QRS non abbia altre tre caratteristiche: • presenza in qualunque derivazione, eccetto aVR, di onde q o Q di durata uguale o maggiore di 0,04 sec. L’eventuale presenza di q con questo carattere fa sospettare (non diagnosticare) un infarto; • presenza di un voltaggio del QRS molto alto, in particolare tale che la somma delle S di V1 e delle R di maggior voltaggio fra V5 e V6 superi il valore di 36. Voltaggi alti fanno sospettare un’ipertrofia ventricolare sinistra; • presenza di un voltaggio del QRS troppo basso, tale che in nessuna delle derivazioni periferiche l’onda più alta del QRS sia maggiore di 5 mm e in nessuna delle precordiali sia maggiore di 10 mm. Il “basso voltaggio” è comune nella pericardite costrittiva.
I
D10°
III
+30°
II
D3 +120°
D1 +60° aVF +90°
Figura 4.21 Determinazione dell’asse medio del QRS. Indica la direzione dell’asse medio dei vettori del QRS nel piano frontale. È una misura che ha notevole significato descrittivo e diagnostico. Nel normale l’asse varia fra –15° e +105°; se è diretto a sinistra di –15°, è indice di ipertrofia ventricolare sinistra o di blocco a carico della branca sinistra; se è diretto a destra di +105°, è segno molto significativo di ipertrofia ventricolare destra. Si dovrebbe dedurre da misure di superficie delle onde componenti il QRS, ma è abituale una valutazione approssimativa, che si fa guardando l’ECG. Il sistema più semplice è quello di osservare il QRS nelle sei derivazioni periferiche, allo scopo di vedere: a) se vi è una derivazione in cui il QRS è nullo, ovvero in cui la componente negativa e positiva sono equivalenti (quanto a superficie o voltaggio). Se questa derivazione esiste, si può dire che l’asse medio del QRS deve essere perpendicolare all’asse di questa derivazione. Esempio (si veda la figura): se è l’ECG nella derivazione D1 (0°) ad avere le caratteristiche dette, l’asse medio del QRS deve essere diretto a –90° o a +90°. Nel primo caso il QRS di aVL dev’essere fortemente positivo e quello di aVF negativo; nel secondo caso aVL sarà negativo e aVF positivo, anzi più positivo che in qualunque altra derivazione. b) Se nessuna derivazione ha il QRS con le caratteristiche descritte al punto a), si cerca nell’ambito delle 6 derivazioni periferiche considerate nella successione aVL, D1, aVR (= aVR invertita), D2, aVF, D3 quali sono le due derivazioni adiacenti che hanno rispettivamente il QRS negativo e positivo di minor voltaggio, tali che sia facile immaginare che se ci fosse una derivazione a mezza strada fra le due, essa avrebbe un QRS piatto o con positività e negatività equivalenti. Esempio: se D2 (+60°) ha un QRS prevalentemente positivo di basso voltaggio e aVF (+90°) un QRS negativo di basso voltaggio, è logico immaginare che si potrebbe registrare un QRS piatto a +75°. In questo caso, dato che la positività del QRS è a sinistra di +75°, si può dire che l’asse di QRS è a –15°. Come controprova, si dovrebbero avere in D1 e aVL dei QRS fortemente positivi, di voltaggio simile. In una minoranza di casi l’asse medio di QRS non può essere determinato con attendibilità: si parla di asse indeterminabile. Questa eventualità è spesso associata a presenza di S profonde in D1, D2 e D3, fatto che non ha necessariamente significato patologico ed è detto “cuore con punta indietro”. Con il procedimento descritto si possono calcolare l’asse dell’onda P e quello dell’onda T (asse medio di P e asse medio di T).
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aVL
aVR
D1
D3
aVF
IM o IS della parete laterale VS IVS BBS
V6 V5
D2
IM o IS parete inferiore VS IVD
V1
IM o IS parete laterale VS IVS BBS
V4 V2
V3
IM o IS parete anteriore VS IVS BBD
Figura 4.22 Derivazioni in cui è più comune osservare segni riferibili ad alterazioni di particolari parti del cuore. IM = infarto miocardio VS = ventricolo sinistro IS = ischemia IVD = ipertrofia VD IVS = ipertrofia VS BBD = blocco di branca destra BBS = blocco di branca sinistra VD = ventricolo destro
Finita la depolarizzazione della massa ventricolare, comincia la ripolarizzazione. Questa si realizza separatamente in ciascuna cellula, essendo più o meno rapida a seconda delle condizioni metaboliche locali. Pertanto la ripolarizzazione non si diffonde da cellula a cellula come la depolarizzazione. L’attività elettrica correlata alla ripolarizzazione è peraltro anch’essa riferibile a un vettore risultante per ogni istante e deriva, come si è già detto, dalla coesistenza di cellule già ripolarizzate con altre tuttora depolarizzate o in fase di ripolarizzazione iniziale. In generale, si ripolarizzano prima le cellule del sottoepicardio di quelle del sottoendocardio, che pur si erano depolarizzate prima. Questo dipenderebbe dal fatto che le cellule sottoendocardiche sono sottoposte durante la contrazione a una compressione maggiore di quella subita dalle cellule sottoepicardiche; meno probabilmente dipende da una fisiologica maggior durata della depolarizzazione delle prime. Comunque sia, statisticamente la ripolarizzazione è più precoce nel sottoepicardico e ciò determina l’esistenza di cellule ancora depolarizzate nel sottoendocardio, mentre le cellule sono già polarizzate nel sottoepicardio. Esistono per questa ragione vettori diretti dal primo verso il secondo e l’onda della ripolarizzazione è generalmente positiva nelle stesse derivazioni in cui è positivo il QRS (benché i processi dell’eccitazione e del recupero siano opposti e ci si aspetterebbe che originassero fenomeni elettrici di opposta polarità). L’ECG mostra, finito il QRS, un tratto sulla isoelettrica (tratto ST, che non deve essere slivellato sopra e sotto l’isoelettrica più di 1 mm). Il tratto ST è seguito da un’onda T più o meno arrotondata e asimmetrica, per avere una branca iniziale che è meno ripida di quella terminale. Essa è grosso modo concordante con la deflessione principale del QRS; più esattamente è positiva in D1, D2, aVF, V3, V4, V5, V6, spesso ma non necessariamente negativa in V1 e V2, sempre negativa in aVR, variabile nelle altre derivazioni. L’intervallo fra l’inizio del QRS e la fine della T viene chiamato intervallo QT e ha una durata che è correlata alla frequenza cardiaca: per una frequenza di 70 battiti/min, per esempio, essa è 0,36 ± 0,04 sec (Fig. 4.23).
E. Ipertrofie. Per interpretare gli ECG è importante visualizzare mentalmente l’orientamento dei vettori più rappresentativi (quello medio delle onde P, quelli iniziali, intermedio e tardivo del QRS, quello medio della T) in relazione alle coordinate del corpo umano: sono i singoli vettori orientati in avanti o indietro, verso l’alto o il basso, la destra o la sinistra? Questo tipo di visualizzazione aiuta molto a comprendere la genesi degli ECG patologici, i quali non sono altro che ECG normali variati per l’interferire di processi anormali. Le caratteristiche degli ECG anormali saranno esposte di volta in volta nei capitoli successivi. Qui si esporranno solo i quadri dovuti alla ipertrofia degli atri e dei ventricoli (Fig. 4.22). 1. Ipertrofia atriale destra. Questo quadro può essere determinato da ipertrofia delle pareti dell’atrio, secondaria a ipertensione nell’atrio per difficoltoso scarico del sangue nel ventricolo sottostante, o a dilatazione dell’atrio stesso (i due fenomeni sono spesso concomitanti). Si ha una caratteristica variazione dell’onda P, dovuta ad aumento delle f.e.m. correlate alla depolarizzazione dell’atrio destro. La P diventa negativa o almeno appiattita in aVL (derivazione a destra dell’asse della P); aumenta di voltaggio oltre i 2,5 mm in D2 e i 2 mm in aVF e acquista in queste derivazioni un aspetto a ogiva; diventa di alto voltaggio (2 mm o più) in V1 e V2, dove può essere solo positiva o positivo-negativa; non aumenta di durata (Fig. 4.24).
Figura 4.23 ECG normale. Asse medio di QRS +75°.
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D1
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D1
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aVL
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V6
Figura 4.24 Ipertrofia atriale destra e ventricolare destra. Asse elettrico indeterminabile (S1, S2, S3).
Figura 4.25 Ipertrofia atriale sinistra e ventricolare destra. Asse elettrico del QRS +105°.
2. Ipertrofia atriale sinistra. Da ipertensione nell’atrio o da dilatazione dello stesso o da disturbi della conduzione nell’ambito dei due atri. Dato che l’atrio sinistro è attivato con un leggero ritardo rispetto al destro, l’ipertrofia è caratterizzata soprattutto da un aumento di durata dell’onda P, che dura 0,12 sec o più; la P, inoltre, dimostra: un contorno accidentato, spesso con due cuspidi in D1, D2, aVL; negatività in D3 e spesso anche in aVF (spostamento a sinistra dell’asse della P); presenza di una porzione negativa in V1 di durata maggiore di quella della porzione positiva che la precede (Fig. 4.25).
è tipica del “sovraccarico sistolico” o “di pressione” del ventricolo sinistro e dipende dal fatto che la depolarizzazione delle pareti ipertrofiche (quindi di spessore aumentato) impiega più tempo del normale a percorrere la distanza fra endocardio ed epicardio (in media il QRS dura 0,10 sec anziché 0,08). Perciò le cellule depolarizzate per prime fanno in tempo a ripolarizzarsi prima che lo facciano le sottoepicardiche, depolarizzate per ultime. Vale a dire che, contrariamente a quello che avviene nel cuore normale, la ripolarizzazione procede – in generale – in senso endoepicardico. Questa è la causa principale d’inversione dell’onda T, cui si aggiunge però spesso rallentamento della ripolarizzazione da alterazioni del metabolismo cellulare. • Segni di ipertrofia atriale sinistra, che deriva dalla necessità di spingere sangue in un ventricolo le cui pareti sono più rigide del giusto.
3. Ipertrofia ventricolare sinistra. Le alterazioni dell’ECG derivano da una predominanza di f.e.m. dirette a sinistra e indietro ancora maggiore che di norma (Fig. 4.26). Ne derivano i fenomeni seguenti. • Voltaggio del QRS elevato: sono considerati patologici un voltaggio di R in aVL maggiore di 11 mm; una somma di RD1 + SD3 che resta maggiore di 18 mm quando si sia sottratto dal totale il risultato della somma di q(o S)1 + SD3; una somma della S in V1 + la R più alta in V5 o V6 maggiore di 36 (indice di Sokolow). • Deviazione a sinistra dell’asse elettrico (a –30° o al di là di questo valore). Sono inoltre presenti nell’ipertrofia anche le alterazioni seguenti. • Un’alterazione della ripolarizzazione tale che il tratto ST assume decorso discendente e l’onda T diventa negativa (con una morfologia caratteristica) in V5, V6 e in D1-aVL (meno spesso in D3-aVF). Questa alterazione
La diagnosi di ipertrofia ventricolare sinistra è da considerare tanto più probabile quanto più sono numerosi i segni di essa presenti nel singolo caso. Tutti i segni citati sono presenti solo nei casi più gravi. 4. Ipertrofia ventricolare destra. In questo caso la fisiologica preponderanza del ventricolo sinistro risulta attenuata e sono di maggior voltaggio rispetto alla norma i vettori diretti in avanti e in basso. Per questo: • l’asse elettrico è diretto più a destra che nel normale (+90°, +105°), essendo le R più alte in D2, aVF, D3. Queste R non sono però di voltaggio elevato; • vi sono in V1-V2 delle onde R più alte che di norma; la diagnosi è certa se sono alte 7 mm o più; • in V5-V6 vi sono abitualmente onde S più profonde che di norma, esse sono di voltaggio uguale o mag-
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aVR
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V5
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Figura 4.26 Ipertrofia ventricolare sinistra di grado elevato. Asse elettrico –30°. In questo particolare ECG non vi è onda P.
giore di quello della R in V5 e maggiore della metà di quello della R in V6; • sia in V1-V2, sia in D2, D3, aVF le R sono seguite da T negative. Questo fatto è indicato come segno di sovraccarico del ventricolo destro (Fig. 4.27). F. ECG da sforzo. Vi sono pazienti con cardiopatia ischemica che hanno un ECG normale quando sono a
Figura 4.27 Ipertrofia ventricolare destra con segni marcati di sovraccarico. I voltaggi elevati fanno ritenere probabile una coesistenza di ipertrofia ventricolare sinistra. Asse elettrico +120°.
riposo, ma che dimostra anormalità sotto sforzo. Per studiare pazienti di questo tipo è stata elaborata una metodica ben standardizzata. Il soggetto viene connesso a un elettrocardiografo e fatto pedalare su un cicloergometro, che è regolato in modo che l’entità dello sforzo sia nota e possa essere variata. Si inizia con uno sforzo modesto, poi si incrementa il livello dello sforzo. Se l’ECG non dimostra anormalità, si eleva il livello fino a esaurimento fisico del paziente o a un limite dettato dall’esperienza, che varia con l’età del paziente e che è definito “limite massimale”. Molto spesso si usa un limite “sottomassimale” che corrisponde all’80-90% del primo. Si arresta la prova se compaiono disturbi seri o alterazioni significative dell’ECG, che sono essenzialmente costituite da uno slivellamento del tratto ST di 1 mm o più, con decorso discendente o orizzontale per 0,08 sec o più. Lo stesso test può essere impiegato per valutare l’entità dello sforzo che un cardiopatico può sopportare senza inconvenienti. In questo ambito è importante
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
rilevare, oltre alle eventuali alterazioni dell’ECG, l’entità della tachicardia connessa con un dato livello di sforzo e se la pressione arteriosa si eleva progressivamente con il livello dello sforzo o se a un certo punto manca di crescere: questo significa che il ventricolo sinistro non ce la fa a fornire il lavoro in più che gli viene chiesto. Altre applicazioni diagnostiche speciali dell’elettrocardiografia sono: • ECG dinamico secondo Holter; • ECG endocavitario e del fascio di His; • più una serie di procedure usate nell’ambito dell’esame elettrofisiologico del cuore. Dato che queste applicazioni hanno indicazioni in presenza di aritmie, saranno descritte nel capitolo 6.
Policardiografia Mediante opportuna apparecchiatura si possono registrare vari tipi di impulso o di vibrazioni connessi con l’attività cardiaca, gli impulsi meccanici vengono amplificati elettricamente e registrati come grafici. Questi servono come documentazione e possono essere analizzati con una precisione superiore a quella fornita dai sensi dell’osservatore. Tali sono la registrazione dei polsi arteriosi, dell’itto della punta, di polsi venosi (il polso giugulare riflette con una notevole fedeltà come varia durante ogni ciclo cardiaco la pressione nell’atrio di destra). Il fonocardiogramma traduce in un grafico le vibrazioni, che il medico apprezza come rumori (toni, soffi), prodotte dal cuore. Occorre però specificare che l’orecchio umano apprezza in modo diverso vibrazioni di differente frequenza (le sente a seconda dei casi più forti o più deboli di quello che esse realmente sono). Dato che questa caratteristica dell’orecchio umano non può essere riprodotta con assoluta fedeltà dalle apparecchiature (che, oggettivamente, sono più perfette), i grafici non riproducono esattamente le sensazioni del medico; sono però queste che costituiscono il parametro su cui è stata costruita la semeiotica dell’ascoltazione cardiaca. Pertanto il fonocardiogramma è utile in casi dubbi e permette in particolare misure accurate di tempo; non sostituisce l’ascoltazione.
Esami radiologici La radiografia del torace in proiezione postero-anteriore, con distanza tubo catodicoClastra superiore ai 2 m e paziente in piedi (teleradiografia standard del torace) rappresenta un esame prezioso e facile da ottenere. Se la distanza tubo catodicoClastra è minore, come avviene nelle radiografie fatte al letto, le radiazioni arrivano alla lastra non parallele e la grandezza del cuore non è valutabile. La radiografia standard del torace mostra l’ombra mediastinica in mezzo ai due campi polmonari, al di sopra del diaframma. Il limite destro si considera formato da
Figura 4.28 Rx torace standard, in proiezione postero-anteriore. (Da P.F. Cohn-J. Wynne, Metodiche diagnostiche in cardiologia clinica, Masson, Milano, 1985). Il paziente è affetto da insufficienza aortica. Il rapporto cardiotoracico si misura come segue: la distanza fra la linea mediana e il punto più sporgente dell’arco inferiore destro espresso in cm (C1) più la distanza fra linea mediana e il punto più sporgente dell’arco inferiore sinistro pure espresso in cm (C2), diviso per il diametro trasverso del torace all’altezza degli angoli cardiofrenici (T). Nel normale: C1 + C2 = v.n. <1/2 T
due “archi”. Quello superiore corrisponde al limite destro della vena cava inferiore e dell’aorta ascendente ed è praticamente rettilineo nel normale; diventa convesso nella dilatazione dell’aorta. L’inferiore è formato dall’atrio destro. A sinistra si considerano tre “archi”. Il superiore, che è costituito dall’arco della aorta, appare come una convessità a breve raggio. Il medio corrisponde al tronco dell’arteria polmonare e per un piccolo tratto all’atrio sinistro: esso appare leggermente concavo nel normale; se è rettilineo o convesso si deve pensare a un’arteria polmonare dilatata (prima ipotesi: ipertensione polmonare). L’arco inferiore corrisponde al ventricolo sinistro ed appare convesso, con la parte più sporgente (apice) qualche centimetro al di sopra del diaframma. Svariate condizioni patologiche modificano uno o più archi, sicché bisogna controllare l’aspetto di ciascuno. Importante è anche apprezzare se il cuore appare globalmente ingrandito; tale apprezzamento è abbastanza facile per chi è esperto e deriva dall’integrazione mentale di numerose annotazioni. La sola valutazione quantitativa cui può ricorrere l’inesperto è il rapporto cardiotoracico: esso si esprime dicendo che il diametro trasverso dell’ombra cardiaca (Fig. 4.28) deve essere meno della metà del diametro trasverso del torace all’altezza dell’angolo cardiofrenico destro. Altri dati importanti si deducono dall’esame dei campi polmonari, la cui normale trama è in gran parte determinata dai rami dell’arteria e delle vene polmo-
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nari. Normalmente i lobi superiori hanno una trama scarsa, quelli inferiori una trama più abbondante. La presenza di trama abbondante in alto è segno di ingorgo venoso polmonare (nella stenosi mitralica e nella insufficienza ventricolare sinistra), che in uno stadio più avanzato dà spesso delle brevi linee orizzontali alla periferia dei campi polmonari inferiori (strie B di Kerley, da edema nei setti interlobulari) e soprattutto aumento netto delle ombre perilari. Se a questo si aggiungono minute densità sparse e chiazze omogenee che diffondono dagli ili alla periferia, siamo in pieno edema polmonare. L’ipertensione nel circolo polmonare si manifesta con dilatazione dell’arteria polmonare (arco medio di sinistra, che diventa convesso) e dei suoi rami principali; mentre i rami periferici diventano particolarmente sottili. Ulteriori informazioni si possono avere radiografando il paziente in altre posizioni (latero-laterale e oblique), o utilizzando mezzi di contrasto. A questi si accennerà nel paragrafo dedicato al cateterismo cardiaco.
Ecocardiogramma Le basi fisiche e i principi teorici dell’ecotomografia sono esposti nell’appendice A. L’ecocardiografia rappresenta una variazione di questa tecnica, adatta ad esplorare organi in continuo movimento. Si parte da una “sonda” che emette un “pennello”, cioè un fascio di diametro ristretto di ultrasuoni. Questi vengono emessi mille o più volte al secondo e penetrano nei tessuti lungo una linea retta. A contatto con i tessuti, una parte degli ultrasuoni viene assorbita, una parte devia e una parte torna indietro come “eco”. Gli echi riflessi tornano alla sonda, che funziona da ricevitore negli intervalli fra un’emissione e l’altra. In rapporto alle caratteristiche dei tessuti, la riflessione degli ultrasuoni è più o meno intensa: per esempio, il sangue riflette poco, il tessuto fibroso delle valvole molto di più. Ma è soprattutto l’interfacie fra tessuti diversi a generare echi intensi. Questi sono quindi evocati particolarmente all’interfacie fra sangue e pareti dei ventricoli, o fra sangue e superficie delle valvole, ecc. La sonda applicata alla superficie del torace fa registrare su una carta sensibile gli echi riflessi lungo una linea verticale: in alto si situano gli echi provenienti da strutture vicine, via via più in basso gli echi che provengono da strutture più lontane (questi ci mettono più tempo a tornare, rispetto ai primi). Dunque lungo la verticale si registreranno per primi gli echi provenienti dalle strutture più superficiali, inclusa la parete del ventricolo destro; più in giù gli echi provenienti da strutture intermedie, come il setto interventricolare, nella parte bassa del grafico gli echi riflessi dalla parete posteriore del cuore. Gli echi intensi sono molto luminosi, quelli poco intensi sono pallidi (questa maniera di rappresentare l’intensità degli echi è chiamata B-mode, da “Brightness”, in inglese. Altre modalità non sono entrate nell’uso). È importante ricordare che certi tessuti, come le ossa e i polmoni aerati, riflettono gli ultrasuoni con gravi distorsioni e molto scarsamente. L’esame deve essere
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quindi eseguito ponendo la sonda in posizioni tali da evitare lo scheletro e da non avere interposizione fra sonda e cuore di lembi del polmone. Queste posizioni sono chiamate finestre acustiche. Sono: la parasternale (fra II e V spazio intercostale sinistro, entro 3 cm dal bordo dello sterno), l’apicale (in corrispondenza dell’itto della punta), la sottoxifoidea o sottocostale e la soprasternale (subito sopra il margine del manubrio dello sterno). Ciò premesso, ci sono tre diversi modi di rappresentare i dati cardiografici. A. Ecocardiogramma nonodimensionale. È detto anche M-mode, dove M deriva dalla parola inglese Motion. L’ecocardiogramma (Fig. 4.29) si esegue appoggiando la sonda su una finestra, in genere la parasternale; la sonda in un primo tempo è tenuta inclinata, in modo da assumere la direzione indicata come 1 nella figura 4.29A. Gli echi principali, come già detto, si scrivono su una linea verticale; essi appaiono come puntini luminosi e corrispondono, dall’alto al basso, a strutture via via più profonde. Le principali sono: parete del ventricolo destro, cavità del ventricolo destro, setto interventricolare, cavità del ventricolo sinistro, parete posteriore del ventricolo sinistro. Le cavità dei due ventricoli appaiono come tratti relativamente liberi da echi. Dato che il cuore è un organo in continuo movimento, in istanti successivi gli echi corrispondenti a ogni singola struttura (per es., alla faccia destra del setto interventricolare) modificano nel tempo la propria posizione. Gli echi corrispondenti si spostano in su o in giù, a seconda che lo spostamento corrisponda a un avvicinamento o a un allontanamento rispetto alla sonda. Tutto questo appare su un oscilloscopio ed è registrato su una carta sensibile, che scorre a velocità uniforme. Pertanto: gli echi prodotti dalle diverse strutture del cuore in un dato istante sono iscritti tutti su una medesima linea verticale; su linee verticali successive, via via più a destra, sono iscritti gli echi che le medesime strutture producono negli istanti seguenti. Un elettrocardiogramma registrato contemporaneamente permette di sapere a che punto del ciclo cardiaco corrisponde ogni linea verticale. Dopo aver registrato alcuni cicli cardiaci con le sonde in direzione 1, si inclina la sonda nelle direzioni 2, 3, ecc. Questo permette di rilevare gli echi prodotti da altre strutture del cuore, fra cui la mitrale, le valvole aortiche, l’atrio sinistro e la radice dell’aorta, l’esame del grafico permette di rilevare dati anatomici e funzionali. Per esempio, la distanza fra gli echi della parete sinistra del setto e quelli della parete posteriore del ventricolo sinistro, misurata su una verticale durante la diastole, indica il diametro della cavità del ventricolo sinistro in diastole. Il valore ci dice se il ventricolo sinistro è di dimensioni normali o è dilatato. La medesima misura, rilevata durante la sistole, ci dice se la contrazione ha ridotto di molto o di poco il diametro ventricolare. Analogamente, la misura dello spessore del setto indica se esso è normale o ipertrofico; il confronto fra la misura eseguita in sistole e in diastole dà indicazioni sulla contrattilità.
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T CW S
ARV IVS
RV
LV PPM 1
AMV
PLV
PMV
2 A.
AO
LA
3 4
B. B.
Figura 4.29 A. Sezione trasversa del cuore, che mostra le strutture attraverso le quali il fascio di ultrasuoni passa quando è diretto dall’apice verso la base del cuore. B. Presentazione schematica dell’ecocardiogramma M-mode quando il trasduttore è diretto dall’apice (1) alla base del cuore (4). Le aree tra le linee tratteggiate corrispondono alla posizione del trasduttore rappresentata in (A) AMV = lembo anteriore mitralico; AO = aorta; ARV = parete anteriore del ventricolo destro; AV = valvola aortica; CW = parete toracica (dall’inglese “Chest Wall”); EN = endocardio del ventricolo sinistro; EP = epicardio del ventricolo sinistro; IVS = setto interventricolare; LA = atrio sinistro; LS = setto sinistro; LV = ventricolo sinistro; PER = pericardio; PLA = parete posteriore dell’atrio sinistro; PLV = parete posteriore del ventricolo sinistro; PMV = lembo posteriore mitralico; PPM = muscolo papillare posteriore; RS = setto di destra; RV = ventricolo destro; S = sterno; T = trasduttore; Lung = polmone. (Da P.F. Cohn-J. Wynne, op. cit.).
Figura 4.30 Relazioni tra ecocardiogramma secondo il M-mode ed ecocardiogramma bidimensionale. In questo caso l’ecocardiogramma secondo il M-mode è praticato impiegando la linea di scansione che passa per i lembi della valvola mitrale. (Da British Medical Journal, 297:1071, October 1988).
Nello stesso modo, il grafico delle valvole dà indicazioni sulla loro normalità anatomica e funzionale, ovvero appare anormale, spesso in maniera caratteristica a seconda dell’affezione. Vi è da aggiungere che nella maggior parte dei casi è possibile ottenere dei grafici chiari, su cui si possono
eseguire misurazioni relativamente esatte. Inoltre, usando altre finestre si possono avere echi da strutture non esplorate con la metodica di routine. In pazienti con enfisema polmonare o altre anomalie del torace, tuttavia, i tracciati sono confusi e illeggibili e anche l’operatore più esperto incontra ostacoli insuperabili nel 5% dei casi.
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4 - SEMEIOTICA CARDIOLOGICA
AO
RV AoV
LA
LV MV
Ventricolo sinistro A
B
Figura 4.31 Piani di registrazione delle vedute parasternali secondo l’asse lungo A che esplora prevalentemente il ventricolo sinistro e B che esplora prevalentemente il ventricolo destro. (Da W. Hurst, Il cuore, 1ª ed. it. Mc Graw-Hill Libri Italia, Milano, 1987, modificata).
B. Ecocardiogramma bidimensionale (2D). L’apparecchiatura che utilizza questa metodica modifica velocemente la direzione della sonda degli ultrasuoni, in maniera che il pannello di ultrasuoni si sposta su un arco di 45° o 90° in 1/30 di sec. Questo significa che sull’oscilloscopio dell’apparecchio compaiono quasi contemporaneamente tutti gli echi che si producono in una sezione (piana) del torace, di cui fornisce un’immagine “a fetta di torta”. L’immagine è in movimento sull’oscilloscopio e può essere fotografata nei momenti più significativi (in pratica, sistole e diastole). Ciò che l’osservatore vede è dunque una mappa delle strutture cardiache ecoriflettenti contenute in una sezione del cuore. Dato che si esplorano varie sezioni, si trae dall’eco 2D una visione molto informativa della posizione reciproca delle varie pareti e cavità, dell’ampiezza di queste e di eventuali componenti abnormi, come trombi endocavitari, vegetazioni sulle valvole o presenza di versamento nel pericardio. Le relazioni dell’ecocardiografia bidimensionale con l’ecocardiografia secondo il M-mode sono illustrate nella figura 4.30. L’ecocardiografia bidimensionale utilizza prevalentemente le finestre parasternale e apicale. La finestra sottoxifoidea è impiegata esclusivamente in pazienti con enfisema polmonare e torace a botte. Quella soprasternale serve per lo studio dell’aorta e della vena cava superiore, più che del cuore. Oltre che dalla finestra impiegata, le immagini dell’ecocardiografia bidimensionale sono influenzate dal piano di rotazione. Convenzionalmente, quando si adopera la finestra parasternale si esplora il cuore secondo due piani che lo tagliano per il lungo (vedute para-
Figura 4.32 Ecocardiogramma bidimensionale: veduta parasternale secondo l’asse lungo che esplora il ventricolo sinistro. RV = ventricolo destro; AO = aorta; AoV = semilunari aortiche; LV = ventricolo sinistro; LA = atrio sinistro; MV = valvola mitrale
sternali secondo l’asse lungo) e vari piani che lo tagliano trasversalmente (vedute parasternali secondo l’asse corto). Le vedute parasternali secondo l’asse lungo sono due (Fig. 4.31): la prima è più adatta ad esplorare il ventricolo sinistro (Fig. 4.32) e la seconda il ventricolo destro. Le vedute parasternali secondo l’asse corto (Fig. 4.33) possono essere quattro; le tre rappresentate nella figura 4.34 tagliano il cuore a livello dei muscoli papillari, della valvola mitrale e delle semilunari aortiche. Quando si adopera la finestra apicale (Fig. 4.35), le vedute che si ottengono sono solitamente due: una prima che seziona il cuore attraversando i due atri e i due ventricoli (veduta apicale delle quattro camere) (Fig. 4.36) ed una seconda, grossolanamente perpendicolare a questa, che seziona l’atrio e il ventricolo sinistri (veduta apicale delle due camere).
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
nare il livello al quale le variazioni di velocità si verificano. L’applicazione dell’ultrasonografia Doppler all’ecocardiografia è importante non solo per valutare le variazioni nel tempo della velocità del sangue che attraversa gli osti valvolari (ciò è, ovviamente, utile nello studio dei vizi valvolari, Fig. 4.37), ma anche per individuare zone di turbolenza della corrente sanguigna (in questo caso il Doppler registrerà contemporaneamente molte velocità differenti in un dato momento).
A
B C
D
Figura 4.33 Piani di registrazione delle vedute parasternali secondo l’asse corto. (Da W. Hurst, op. cit., modificata).
Naturalmente un esperto ecocardiografista può esplorare anche altri piani, in modo da ricavare informazioni significative sullo stato anatomico e funzionale del cuore. C. Ecocardiografia Doppler. Si chiama effetto Doppler il fenomeno per cui suoni emessi a una frequenza data vengono riflessi a frequenza variata (più alta o più bassa) quando incontrano oggetti in movimento verso la fonte del suono o in senso opposto a essa. Tale fenomeno si verifica per l’impatto che gli ultrasuoni emessi da una sonda hanno con i globuli rossi del sangue che scorre nei vasi, attraverso gli orifizi valvolari e nelle cavità cardiache. Le variazioni di frequenza sonora possono essere convertite in vari tipi di segnale, comprese variazioni di colore su uno schermo (Doppler a colori). Gli apparecchi più sofisticati mostrano un eco 2D caratterizzato dal fatto che il sangue contenuto nelle cavità cardiache e vascolari ha un colore differente a seconda della direzione nella quale procede e alla sua velocità. Per esempio, in caso di insufficienza mitralica, durante la sistole ventricolare al sangue contenuto nell’atrio (che appare, per es., giallo) si mescola sangue rigurgitante, che si vede di colore blu. Per registrare l’effetto Doppler, occorre che la linea di scansione degli ultrasuoni sia diretta lungo la direzione nella quale si verificano le più importanti variazioni della velocità della corrente sanguigna. Lo studio dell’effetto Doppler può essere compiuto con ultrasuoni sia ad onda continua che “a impulsi”. La prima tecnica è più adatta a valutare le velocità massime raggiunte dal sangue, la seconda a determi-
Un’applicazione particolare dell’ecocardiografia Doppler è la possibilità di misurare la caduta di pressione in un ventricolo durante la diastole, con la seguente equazione di Bernoulli modificata: caduta di pressione = 4 × (velocità)2. Un’estensione di questa formula consente di calcolare il tempo di dimezzamento della pressione in una cavità durante la diastole. Dato che la velocità del sangue è proporzionale alla radice quadrata della caduta di pressione, ne consegue che quest’ultima sarà dimezzata quando la velocità iniziale del sangue si è ridotta al 70% (infatti, 0,70 è approssimativamente la radice quadrata di 0,50). Il tempo di dimezzamento della pressione nel ventricolo sinistro consente di valutare l’area dell’orifizio della valvola mitrale nella stenosi mitralica (a patto che questa area sia minore di 1,8 cm2) secondo la seguente formula: area dell’orifizio = 220/tempo di dimezzamento della pressione. La principale limitazione dell’ecocardiografia Doppler è che dà informazioni sui flussi ematici solamente lungo assi predeterminati e non mostra in tempo reale quello che avviene simultaneamente nelle varie sezioni spaziali del cuore. Questo può essere ottenuto con un’estensione delle tecniche “a impulsi” che consente di visualizzare su un piano bidimensionale la velocità e la direzione del sangue impartendo alle immagini un colore sovrapposto allo sfondo grigio. Il sangue che si muove verso il trasduttore è visualizzato in rosso, quello che se ne allontana in blu e le rispettive velocità sono rappresentate con sfumature di diversa intensità degli stessi colori. La varianza entro ogni segnale è considerata un segnale di turbolenza ed è rappresentata aggiungendo del verde a ogni immagine. Perciò, un flusso turbolento appare come un mosaico di colori.
• Riassumendo, ognuno dei metodi con cui si registra l’ecocardiogramma ha indicazioni, vantaggi e limitazioni. Già il M-mode e il 2D (che sono disponibili in tutti gli ospedali) forniscono dati preziosi sull’anatomia del cuore e delle valvole, sulle dimensioni delle cavità, lo spessore delle pareti, l’entità e le caratteristiche di movimento delle valvole e delle pareti ventricolari. Per esempio, una valvola stenotica si apre male; se c’è ischemia della parete anteriore, questa si contrae anormalmente. Da questi dati, si possono anche dedurre degli indici di efficienza delle contrazioni. L’eco-Doppler aggiunge altri dati, e in particolare permette di valutare rigurgiti e shunt; in più, combinando misure di diametro dei vasi od orifizi valvolari con misure di velocità del flusso, si possono avere informazioni su gettata, pressione del sangue, entità di eventuali stenosi.
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87
4 - SEMEIOTICA CARDIOLOGICA
RV
LV PM
Livello dei muscoli papillari
RV LV MV
Livello della valvola mitrale
AoV
TV
PV
RV
PA RA LA
Livello della valvola aortica
Figura 4.34 Ecocardiogramma bidimensionale: vedute parasternali secondo l’asse corto a livello dei muscoli papillari, della valvola mitrale e della valvola aortica. (Disegni tratti da W. Hurst, op. cit., modificati). RV = ventricolo destro; LV = ventricolo sinistro; PM = muscoli papillari; MV = valvola mitrale; AoV = semilunari aortiche; TV = valvola tricuspide; RA = atrio destro; LA = atrio sinistro; PA = arteria polmonare; PV = valvola polmonare.
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88
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
A
B
Figura 4.35 Piani di registrazione delle vedute apicali. (Da W. Hurst, op. cit., modificata).
progresso è impossibile (posizione occlusa), il catetere misura una pressione detta “capillare polmonare” (o pressione di incuneamento, “wedge pression”) le cui variazioni riflettono da vicino quelle della pressione nell’atrio sinistro. Durante le manovre si possono prelevare campioni di sangue delle varie cavità esplorate e introdurvi mezzi di contrasto o coloranti o altro. Apposite apparecchiature “leggono” il modo e la rapidità con cui si diluiscono talune sostanze iniettate e se ne deduce con attendibilità la gettata cardiaca. Attraverso il catetere si possono eseguire prelievi di miocardio ventricolare per esame istologico (biopsia del miocardio). Se si usa un catetere particolare (Swan-Ganz), il cateterismo destro può essere eseguito con grande facilità e poco traumatismo. Il catetere è di estrema utilità per tenere sotto controllo l’emodinamica centrale dei malati gravi. Un’altra manovra si può eseguire in un cateterismo destro: si introduce il catetere nel seno coronarico e si prelevano campioni di sangue refluo dalle coronarie in condizioni basali e dopo stimolazione artificiale (elettrica) del miocardio a varia frequenza. Il dosaggio dell’acido piruvico e lattico nei vari campioni permette di stabilire a quale livello di frequenza cardiaca (pertanto: di lavoro del cuore) il metabolismo miocardico aerobico diventa impossibile e il cuore è costretto a ricorrere alla glicolisi anaerobia.
Esami strettamente specialistici A. Cateterismo cardiaco destro. Si pratica introducendo un catetere radiopaco in una vena periferica (femorale, brachiale o giugulare) e lo si spinge fino all’atrio destro, poi nel ventricolo destro e nell’arteria polmonare. Si misurano le pressioni esistenti in ciascuna delle cavità, poi si spinge il catetere fino a quando è possibile in un ramo arterioso polmonare. Quando il
RV
B. Cateterismo cardiaco sinistro. È molto più traumatizzante, perché il catetere dev’essere introdotto in un’arteria periferica fino all’aorta e poi nel ventricolo sinistro. È peraltro procedura essenziale per ottenere dati quantitativi di tipo emodinamico, dati spesso necessari per valutazioni funzionali non approssimative. Si deve eseguire quasi sempre prima di interventi cardiochirurgici.
LV
TV
MV
RA
LA
4 CAMERE
Figura 4.36 Ecocardiogramma bidimensionale: veduta apicale delle quattro camere. (Disegno tratto da W. Hurst, op. cit., modificato). RV = ventricolo destro; LV = ventricolo sinistro; TV = valvola tricuspide; RA = atrio destro; MV = valvola mitrale; LA = atrio sinistro.
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4 - SEMEIOTICA CARDIOLOGICA
A.
89
B.
Figura 4.37 Ultrasonografia Doppler che registra la velocità del sangue che passa attraverso la valvola mitrale in diastole. A. Doppler “a impulsi”: si osservano due cuspidi che corrispondono la prima al riempimento passivo iniziale del ventricolo sinistro e la seconda alla contrazione atriale. B. Doppler ad onda continua, stenosi mitralica, la figura indica come si può misurare la velocità massima del sangue (Vmax) e quella (0,7 x Vmax) che corrisponde al tempo di dimezzamento della pressione nel ventricolo sinistro (T1/2). (Da British Medical Journal, 297:1072, October 1988).
Si misurano le pressioni, si può prelevare sangue, soprattutto si iniettano sostanze radiopache per eseguire esami radiologici insostituibili: per esempio, la cineventricolografia e la coronarografia. C. Angiografia, ventricolografia, coronarografia. Sono esami radiologici eseguiti con iniezione di mezzo di contrasto, per visualizzare i grandi vasi e le cavità del cuore. Le immagini radiografiche vengono filmate per poterle esaminare con cura. La cineventricolografia permette un’analisi molto chiara delle cavità del cuore e della loro cinetica. La coronarografia (che si esegue iniettando il mezzo di contrasto direttamente nella parte iniziale di ciascuna delle due coronarie) dà informazioni insostituibili sulle due arterie e sui loro rami. D. Esami con radioisotopi. 1. La cineventricolografia radioisotopica si esegue iniettando in una vena periferica del paziente tecnezio 99m sotto forma di ione pertecnetato, previo trattamento in vivo dei globuli rossi con una sostanza che li rende particolarmente affini ad esso. Mediante un’apparecchiatura complessa, connessa con un computer, si possono analizzare il movimento delle pareti ventricolari (anche di singoli settori di esse), la frazione di eiezione e i volumi di entrambi i ventricoli, deducendone la portata cardiaca e la gittata sistolica, e consentendo un buon giudizio sull’efficienza contrattile del cuore. Vi sono due tecniche di esecuzione dell’esame. • La prima, detta del “primo transito”, studia la funzione ventricolare sinistra durante il primo passaggio del tracciante radioattivo attraverso il circolo, visua-
lizzando separatamente il ventricolo destro e il sinistro. Offre pertanto il vantaggio di valutare la funzione dei due ventricoli indipendentemente, con una sensibilità molto elevata a piccole variazioni di comportamento. • La seconda tecnica, detta “all’equilibrio”, permette, dopo una sola iniezione di tracciante, di integrare le varie immagini ottenute durante le varie sequenze della contrazione miocardica, fornendo una chiara immagine cardiaca finale, ad alta risoluzione. Offre il vantaggio di poter eseguire numerose valutazioni successive, per esempio di cinetica parietale, in un certo arco di tempo (qualche ora), in svariate proiezioni. In realtà, registrando contemporaneamente l’emissione radioattiva delle quattro cavità cardiache, ne risulta inevitabilmente una tendenza delle varie strutture a condizionarsi reciprocamente. Eventuali anomalie di comportamento sono spesso rilevabili solo sotto sforzo; è perciò conveniente che questo tipo di esame, come pure lo scanning miocardico con tallio 201 siano abbinati a una prova da sforzo, i cui principi metodologici sono stati descritti a proposito dell’ECG da sforzo. 2. Scintigrafia (scanning) con tallio 201. Il tallio è uno ione che si distribuisce nel miocardio in modo analogo al potassio. Viene iniettato endovena nel paziente che esegue sforzo: se non ci sono difetti di perfusione coronarica, tutto il miocardio risulta omogeneamente radioattivo. Se vi sono zone mute o scarsamente radioattive, può trattarsi di ischemia oppure di sostituzione del miocardio da parte di connettivo. La ripetizione
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dell’osservazione dopo 2-4 h permette di distinguere fra le due possibilità: se si trattava di un’ischemia reversibile, la zona muta non si nota più. La stessa tecnica può rivelare un’area di necrosi fin dalle prime ore di un infarto miocardico; in seguito la sensibilità della metodica diminuisce e nel periodo 24 h-2 settimane dopo l’infarto è più produttivo eseguire una scintigrafia con pirofosfato di tecnezio 99m. Questo tracciante, che si complessa con il CA++ nel miocardio necrotico, evidenzia in positivo l’area di necrosi. Un altro tipo di scintigrafia, con gallio 67, è infine utile nelle miocarditi: il tracciante è captato da vari tipi di cellule infiammatorie e quindi un miocardio con infiltrato infiammatorio è più radioattivo dei tessuti circostanti.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
3. Risonanza magnetica nucleare. Metodica introdotta di recente, permette attraverso varianti tecniche di acquisire due diversissimi tipi di informazione: a) ottenere delle immagini di grande chiarezza delle strutture anatomiche che interessano, e anche di avere un’idea dei tessuti che le costituiscono; b) avere informazioni sul metabolismo delle cellule. E. Biopsia del miocardio. Attraverso una vena periferica, si raggiunge con un catetere-biotomo il ventricolo destro, da cui si prelevano frammenti di tessuto. L’esame istologico di cinque frammenti dà reperti attendibili nel 95% dei casi. L’esame dà complicanze molto raramente. Si usa per diagnosticare miocarditi, cardiomiopatie e per monitorare i trapianti cardiaci.
C A P I T O L O
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5
SCOMPENSO CARDIACO R. SATOLLI
Secondo la definizione classica, si dice che il cuore è scompensato (o insufficiente) quando risulta incapace di pompare un flusso di sangue adeguato alle necessità dell’organismo. Per comprendere bene tale stato fisiopatologico, di grande importanza clinica, è necessario conoscere a fondo la normale funzione del cuore come pompa e le leggi fondamentali che la governano. Perciò, prima di passare alla trattazione dello “scompenso cardiaco” vero e proprio, si premette un breve riepilogo di fisiologia, nel quale vengono sottolineate le nozioni più significative dal punto di vista della fisiopatologia e della clinica. L’esposizione ha anche lo scopo di fornire l’esatta definizione dei termini che saranno in seguito usati, senza costringere il lettore a riprendere il testo di fisiologia.
FISIOPATOLOGIA DELLA CONTRAZIONE CARDIACA La quantità di sangue espulsa dal cuore in ogni sistole è detta gettata sistolica. Essa rappresenta una frazione della quantità di sangue presente nella cavità ventricolare al termine della diastole precedente (frazione di eiezione, espressa in termini percentuali: normalmente pari al 60-70%). Il prodotto della gettata sistolica per il numero di battiti cardiaci al minuto (frequenza cardiaca) dà la gettata cardiaca, che è sostanzialmente identica per le metà destra e sinistra del cuore. L’espulsione della gettata sistolica avviene per contrazione muscolare. Il miocardio è costituito da cellule (dette anche fibre) muscolari striate, che vengono eccitate a ogni battito in maniera coordinata attraverso il tessuto di conduzione. Nei ventricoli, in sistole, ciò produce dapprima un aumento della pressione intracavitaria (contrazione isometrica). Poi, con l’apertura delle valvole semilunari, inizia l’espulsione: le fibre miocardiche si accorciano, il volume dei ventricoli si riduce e quindi un equivalente volume di sangue viene spinto nell’aorta e nell’arteria polmonare. Intanto la pressione endoventricolare, dopo aver raggiunto un
massimo, comincia a calare. Quando diviene inferiore alla pressione aortica (o polmonare), le valvole semilunari si richiudono: inizia il rilasciamento isometrico e la diastole. La pressione endoventricolare continua a scendere sino a quando diviene più bassa di quella presente negli atri e si aprono le valvole atrioventricolari. Inizia il riempimento diastolico passivo. Verso la fine della diastole un nuovo impulso elettrico ha origine nel nodo del seno e si propaga prima agli atri, che si contraggono e danno luogo al riempimento attivo dei ventricoli. Quando l’impulso raggiunge i ventricoli, in essi la pressione comincia a salire, le valvole atrioventricolari si richiudono e inizia la sistole con una nuova contrazione isometrica (Fig. 5.1). Come si vede, l’eccitazione delle fibre miocardiche produce due effetti, a seconda delle fasi del ciclo cardiaco: aumento di pressione intracavitaria (fasi isometriche) o riduzione di volume cavitario (fasi espulsive).
Meccanica del muscolo cardiaco Nel paragrafo precedente si è sottolineato che la sistole cardiaca si svolge in due tempi: una fase isometrica, in cui la contrazione del miocardio fa assumere al sangue contenuto nei ventricoli un certo valore di pressione, e una fase successiva, in cui il sangue sotto pressione viene espulso dai ventricoli. Queste due fasi sono conseguenza di un unico processo, quello della contrazione cardiaca. L’essenza della contrazione sarà discussa nei particolari nel paragrafo successivo, mentre qui se ne considerano gli effetti. La meccanica della contrazione è stata studiata a fondo dai fisiologi, che hanno individuato alcuni parametri in grado di definirne le caratteristiche. 1. L’esperimento base si esegue prelevando dal cuore, per esempio di cane, un muscolo papillare. L’estremità inferiore del muscolo viene fissata a uno strumento che misura la tensione, quella superiore al braccio
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Pressione (mmHg)
120
100
80
Aorta
inistro
60
Ventricolo s
40
20
n tri Ve
Arteria polmonare
Atrio sinistro Ventricolo sinistro
a 0
Atrio sinistro Atrio destro
c
z
v
x
y
Ventricolo
Atrio
Atrio destro Ventricolo destro
colo destro
Destro
Eiezione
Sinistro
Eiezione
Attività meccanica
CP AT
CTAP Destro
CA
AA
CM
Movimenti valvolari
AM
Sinistro
Curva di volume del ventricolo sinistro
c
a
Polso giugulare
S2 SAM
“CLICK” S1
S4
Toni
S3
v
z
y
x
E A IC Apicocardiogramma
SFW
IR P
ECG
T
O
RFW
QRS 0
0,1
0,2
0,3
0,4
0,5
0,6
Secondi
Figura 5.1 - Fasi del ciclo cardiaco. Lo schema consente di apprezzare i rapporti temporali tra i diversi eventi del ciclo cardiaco. In alto sono indicate le curve di pressione (aorta, ventricolo sinistro, atrio sinistro, arteria polmonare, ventricolo destro). Le lettere dell’alfabeto minuscole (a, z, c, x, v, y) indicano le diverse onde e depressioni caratteristiche della curva di pressione atriale. Sotto le curve di pressione è indicata l’attività meccanica delle quattro camere cardiache. Le parti tratteggiate in grigio della contrazione ventricolare indicano le fasi isometriche. Sotto sono indicati i movimenti di apertura (A) e chiusura (C) delle valvole: polmonare (P), aortica (A), tricuspide (T) e mitrale (M). SAM indica lo schiocco di apertura mitralica; S1, S2, S3 e S4 indicano il primo, secondo, terzo e quarto tono. Segue la curva di volume, che indica il riempimento e lo svuotamento del ventricolo sinistro. Vi è poi il polso giugulare, con le stesse notazioni della curva di pressione atriale. L’apicocardiogramma presenta un’onda A in corrispondenza della contrazione atriale, una salita isometrica (IC), un apice E all’inizio dell’eiezione e una caduta durante il rilasciamento isometrico (IR) sino a un punto minimo (O) corrispondente all’apertura della mitrale; seguono, infine, due tratti di riempimenti rapido (RFW) e lento (SFW). L’elettrocardiogramma alla base dello schema consente di valutare i rapporti tra attività meccanica e attività elettrica del cuore.
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5 - SCOMPENSO CARDIACO
Fermo
Leva
Muscolo papillare
Postcarico
Trasduttore di tensione A A.
Fermo spostato in alto Leva
Muscolo stirato
In esperimenti successivi, si applica volta per volta al braccio corto della leva un peso, che per il motivo detto in precedenza agisce sul muscolo solo dopo che la contrazione ha avuto inizio: per tale motivo prende il nome di postcarico (“afterload”, in inglese). Quando il muscolo viene eccitato, esso deve sollevare il peso per potersi accorciare: impiega cioè parte della forza sviluppata con la contrazione per sollevare il carico e parte per accorciarsi. Si constata sperimentalmente che quanto maggiore è il peso, tanto meno veloce è l’accorciamento. Se il carico è troppo pesante per poter essere sollevato, il muscolo si mette regolarmente in tensione, ma non si accorcia per niente; il fatto viene descritto dicendo che la velocità di accorciamento è zero. Il risultato degli esperimenti descritti si può esprimere con un grafico, in cui si pone sull’asse orizzontale la forza che il muscolo sviluppa sollevando valori crescenti di peso e sull’asse verticale la velocità con cui l’accorciamento è di volta in volta avvenuto. Ne risulta una curva di forza-velocità (Fig. 5.3). Questa rappresenta i valori intermedi tra le due condizioni estreme già citate: di velocità massima e di velocità zero.
Postcarico precarico
B B.
Figura 5.2 - Dispositivo sperimentale per lo studio della contrazione. (A.) Il fermo sulla leva è posto in modo che il muscolo papillare non sia stirato in condizioni di riposo. Variando il peso (postcarico) che il muscolo deve sollevare durante la contrazione, si ottengono i dati necessari per costruire la curva di forza-velocità (Fig. 5.3). (B.) Il fermo viene spostato in alto, consentendo un certo grado di stiramento del muscolo a riposo; in pratica una parte del carico agisce sul muscolo già prima della contrazione (precarico). Variando il precarico, a parità di postcarico, si ottengono i dati necessari per costruire la famiglia di curve della figura 5.5.
lungo di una leva; all’altro braccio della leva può essere attaccato un peso, che comunque non grava sul muscolo a riposo, perché un fermo impedisce al braccio lungo di sollevarsi (Fig. 5.2). Quando il muscolo viene eccitato elettricamente, le miofibrille in esso contenute tendono ad accorciarsi, cioè il muscolo si contrae. Se nulla impedisce che il muscolo si accorci liberamente (come quando nessun peso viene attaccato alla leva), si constata che ciò avviene con una velocità che è chiamata velocità massima (V max). Il valore numerico della V max (in millimetri al secondo) è una misura della contrattilità di quel muscolo, qualità intrinseca al muscolo stesso.
Velocità di accorciamento (mm/sec)
V max
10
V0
0
5 Carico (g)
10
Figura 5.3 - Curva di forza-velocità. Il grafico riassume i risultati degli esperimenti descritti nella figura 5.2. Sull’asse orizzontale (ascissa) sono indicati valori crescenti di carico cui il muscolo cardiaco è sottoposto durante la contrazione (peso in grammi). Sull’asse verticale (ordinata) è riportata la velocità di accorciamento che si osserva per ogni determinato carico. La velocità massima (V max) si ha con un carico zero. Quando il carico raggiunge un valore tale per cui il muscolo non si accorcia per nulla, la velocità si riduce a zero. La curva nel suo insieme è detta di forza-velocità.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Nel cuore in attività i ventricoli in telediastole sono pieni di sangue, con una pressione poco superiore a zero. Quando il miocardio che circonda questo sangue entra in contrazione, lo comprime. Il sangue, essendo liquido, non si può ridurre di volume: perciò l’effetto della compressione è quello di far acquisire al sangue un valore di pressione che cresce progressivamente fino a quando, per il ventricolo sinistro, supera il valore di pressione presente in aorta (circa 80 mmHg). A questo punto le valvole semilunari si aprono e comincia l’eiezione, mentre dal punto di vista del muscolo finisce la contrazione isometrica e comincia l’accorciamento della fibra (contrazione isotonica). È evidente perciò che, nel cuore in attività, la velocità di accorciamento delle fibre è sempre inferiore alla velocità massima misurabile nella condizione sperimentale del muscolo libero di accorciarsi senza alcun carico da sollevare. Un equivalente di questa velocità massima può essere però calcolato indirettamente e si indica come contrattilità di quel miocardio, qualità definibile in termini numerici. La contrattilità, o stato inotropo, è una caratteristica di un dato miocardio in un dato momento. Essa può peraltro variare: la noradrenalina, per esempio, la fa aumentare; la digitale la fa aumentare; in condizioni di insufficienza cardiaca diminuisce. L’aumento di contratti-
Basale Con noradrenalina
Velocità di accorciamento (mm/sec)
15
10
5
lità sposta in alto tutta la curva forza-velocità di quel miocardio (Fig. 5.4), la diminuzione la sposta tutta in basso. Se a un malato con insufficienza cardiaca si dà la digitale, la curva che era spostata in basso tende a tornare a un livello più o meno normale. 2. Vi è una seconda proprietà fondamentale del muscolo che deve essere tenuta presente. Questa proprietà induce il comportamento descritto dalla legge di Starling del cuore, dal nome del fisiologo che per primo l’ha individuata. Si torni al dispositivo sperimentale descritto con un muscolo papillare (Fig. 5.2). Però questa volta si sposti di qualche millimetro il fermo che blocca verso l’alto il braccio lungo della leva, in modo tale che le fibre muscolari possano essere stirate in parte, per effetto del peso applicato all’altro braccio, già prima della contrazione e acquistino una lunghezza a riposo un po’ maggiore della loro naturale. Il trasduttore applicato all’estremità inferiore del muscolo permette di misurare la tensione a cui viene sottoposto in tal modo il muscolo a riposo: a tale valore viene dato il nome di precarico (“preload”, in inglese), per sottolineare che agisce sul muscolo prima della contrazione (nel disegno B della figura 5.2 il precarico è indicato come una frazione del carico totale, frazione che può variare in funzione della posizione del fermo sulla leva). Ripetendo gli esperimenti, per esempio con un peso di carico costante e con valori di precarico crescenti, si constata che la velocità di accorciamento, per ogni dato carico, è tanto maggiore quanto più le fibre vengono stirate a riposo dal precarico, per lo meno sino a un certo valore di stiramento. Dunque, se la lunghezza iniziale (al termine della diastole o telediastolica) della fibra miocardica viene aumentata, aumenta l’efficienza della contrazione. Si ottiene cioè una curva forza-velocità spostata in alto (Fig. 5.5). Questo si verifica fino a un certo livello di stiramento telediastolico, che viene chiamato massimale; viceversa una fibra artificiosamente tenuta corta si contrae con efficienza minore. L’effetto fisiologico principale della relazione tra lunghezza iniziale della fibra ed efficienza della contrazione può essere qui anticipato: è quello di regolare con immediatezza eventuali variazioni del riempimento diastolico dei ventricoli. Di questo effetto e della legge di Starling si parlerà più diffusamente nei paragrafi successivi.
Basi cellulari della contrazione 0 1
2 Carico (g)
3
Figura 5.4 - Curva di forza-velocità e inotropismo. La curva con (basale) è simile a quella della figura 5.3. La curva con riporta i risultati ottenuti ripetendo l’esperimento dopo aver stimolato la contrattilità del muscolo con noradrenalina. Come si vede, l’effetto inotropo del farmaco sposta la curva di forza-velocità verso l’alto: per ogni determinato carico si osserva una velocità di accorciamento maggiore rispetto alle condizioni basali.
Le proprietà descritte delle fibre muscolari cardiache sono interpretabili a livello cellulare e molecolare. Le cellule miocardiche contengono fasci di miofibrille, disposte lungo l’asse maggiore della cellula. Le miofibrille sono costituite da una serie di sarcomeri, minuscoli cilindri che rappresentano la più piccola unità contrattile del miocardio. Conviene dunque studiare la struttura e la funzione del sarcomero per comprendere le proprietà del muscolo cardiaco. Il sarcomero è costi-
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95
5 - SCOMPENSO CARDIACO
Velocità di accorciamento (mm/sec)
10 Precarico (g)
Lunghezza iniziale del muscolo (mm)
1
11,7
2
12,4
4
13,0
6
13,3
8
13,4
5
0 0
5 Carico (g)
10
Figura 5.5 - Curva di forza-velocità e stiramento. Il grafico riporta cinque curve di forza-velocità ottenute stirando progressivamente il muscolo cardiaco a riposo con un piccolo peso (precarico). In tal modo la lunghezza iniziale del muscolo aumenta progressivamente, dalla curva con (basale) a quella con (massima lunghezza iniziale). Per ogni determinato carico cui il muscolo è sottoposto durante la contrazione, la velocità di accorciamento risulta tanto maggiore quanto maggiore è la lunghezza iniziale. È questa la base della legge di Starling. Come si vede dal grafico, vi è una differenza rispetto alla figura 5.4. La stimolazione inotropa provoca anche un aumento della velocità massima, a carico zero. Lo stiramento iniziale invece non modifica questa caratteristica intrinseca del muscolo.
tuito essenzialmente da due proteine filamentose, l’actina e la miosina, disposte parallelamente all’asse maggiore del sarcomero. I filamenti di miosina occupano il centro del sarcomero. I filamenti di actina sono invece saldamente fissati alle due estremità del sarcomero stesso, le bande Z. In condizioni di riposo, actina e miosina si sovrappongono in parte, costituendo la banda scura A visibile al microscopio. Le bande chiare I sono invece costituite da filamenti di actina soltanto (Fig. 5.6). Tra le due proteine si formano ponti, visibili al microscopio elettronico, costituiti da siti che contengono un enzima capace di scindere l’ATP. Durante la contrazione, grazie all’energia liberata dall’ATP, questi ponti si saldano e si sciolgono ciclicamente, facendo scorrere con forza i filamenti di actina verso quelli di miosina. In tal modo le bande Z si avvicinano, il sarcomero si accorcia e così pure si accorciano in toto le fibre miocardiche. La velocità e la forza dello scivolamento dipendono dal numero di ponti che si possono attivare contemporaneamente. Il numero di ponti dipende a sua volta dalla sovrapposizione reciproca di actina e miosina all’inizio
della contrazione e quindi dalla lunghezza iniziale del sarcomero. La lunghezza ottimale è compresa tra 2,0 e 2,2 m. Al di sotto di tale lunghezza i filamenti di actina tendono a sovrapporsi tra loro al centro del sarcomero, riducendo così la possibilità di ponti con la miosina. Al di sopra di 2,2 m i filamenti di actina si allontanano dal centro del sarcomero e anche in questo caso si riduce la sovrapposizione con la miosina (Fig. 5.7). In condizioni di rilasciamento (diastole) la formazione dei ponti è inibita da due proteine associate ai filamenti di actina: tropomiosina e troponina. Quando la cellula miocardica viene eccitata, questa inibizione viene rimossa, grazie all’azione degli ioni calcio, che si legano alla troponina e ne modificano la struttura. Più in dettaglio la successione degli eventi è la seguente. Durante la fase di plateau del potenziale d’azione elettrico (fase 2), una piccola quantità di Ca++ attraversa la membrana cellulare e raggiunge il reticolo sarcoplasmatico, un sistema di tubuli intracellulari che avvolge le miofibrille (Fig. 5.6). Eccitato dal modesto flusso di Ca++ proveniente dall’esterno, il reticolo libera massicciamente gli ioni calcio che contiene, lasciandoli diffondere verso le miofibrille, dove appunto si legano alla troponina e disinibiscono la formazione di ponti. In sostanza si verifica un’amplificazione a cascata, che libera la quantità di Ca++ necessaria per avviare la contrazione. L’accoppiamento tra eccitazione elettrica della cellula e contrazione meccanica dipende dunque da un flusso di Ca++ verso le miofibrille. Poi il reticolo sarcoplasmatico, grazie a una pompa ionica che consuma ATP, riprende ad accumulare attivamente Ca++, riducendone la concentrazione nelle miofibrille, sino a che prevale nuovamente l’inibizione di troponina e tropomiosina: ha inizio il rilassamento. Contemporaneamente anche attraverso la membrana cellulare viene espulsa la piccola quota di Ca++ entrata in precedenza, sempre con processi attivi che consumano energia, sino a quando la cellula è pronta per una nuova contrazione. Si deve sottolineare un preciso rapporto: quanto maggiore è il flusso di Ca++ verso le miofibrille, tanto maggiore è la velocità con cui si formano e si sciolgono ciclicamente i ponti tra actina e miosina. Ciò equivale a una maggiore velocità di contrazione a parità di altri fattori. È facile a questo punto tracciare le corrispondenze tra le proprietà meccaniche delle fibre miocardiche e gli eventi cellulari che le determinano. La curva forza-velocità dipende dalla lunghezza iniziale delle fibre perché da questa dipende il grado di sovrapposizione di actina e miosina. Aumentando la lunghezza iniziale delle fibre (sino a che il sarcomero raggiunge 2,2 m) aumenta il numero di ponti che si formano e quindi la forza della contrazione a parità di velocità. Al di sopra di 2,2 m tornano a ridursi di numero i ponti e quindi anche la forza sviluppata. La curva forza-velocità dipende anche, come si è visto, dalla stimolazione inotropa. Questa agisce aumentando il flusso di Ca++ verso le miofibrille e quindi aumentando la velocità dello scorrimento di actina e mio-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
A.
B.
C.
FIBRILLA
D. Banda I
Capillare Filamenti di actina
SARCOMERO
Nucleo
M
Banda A 1,5
Z
Dischi intercalari
Z Cellula o fibra
Filamenti di actina e miosina
Filamenti di miosina
Fibrille SEZIONI TRASVERSE
Sarcolemma
Reticolo sarcoplasmatico Disco intercalare Cisterne terminali
Sistema longitudinale Sistema a T
Miosina
Actina
Forza (% del massimo)
Figura 5.6 - Schema del sarcomero. Il disegno illustra la struttura della cellula miocardica, delle miofibrille in essa contenute e dei sarcomeri, che rappresentano le unità elementari contrattili costituenti le miofibrille.
A.
B.
Lunghezza del sarcomero m
(a+b)
(b+c)
Actina
(b)
(b-c) (a) (1/2 b) C.
Figura 5.7 - Lunghezza ottimale del sarcomero. La velocità e la forza di accorciamento del sarcomero (A) dipendono dal numero di ponti tra actina e miosina che si possono attivare contemporaneamente. Il numero dei ponti dipende a sua volta dalla sovrapposizione reciproca tra actina e miosina prima della contrazione e quindi dalla lunghezza iniziale del sarcomero. Come si vede da B, la lunghezza ottimale è compresa tra 2 e 2,2 mm, cui corrisponde la massima forza sviluppata. Al di sotto di tale lunghezza (C, fila 4, 5 e 6) i filamenti di actina tendono a sovrapporsi tra loro al centro del sarcomero, riducendo così la possibilità di stringere ponti con la miosina. Al di sopra di 2,2 mm (C, fila 1 e 2), invece, i filamenti di actina si allontanano dal centro del sarcomero e anche in questo caso si riduce la sovrapposizione con la miosina.
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sina. Perciò la stimolazione inotropa aumenta anche la velocità massima di contrazione (a carico zero) per qualsiasi lunghezza iniziale delle fibre.
Cioè il ventricolo sopporta un aumento di postcarico sia per aumento di pressione P (sovraccarico di pressione), sia per un aumento del raggio r (cioè di volume V, sovraccarico di volume). L’aumento di spessore della parete (h) riduce invece il postcarico.
prima della contrazione (telediastole) con le prestazioni in sistole (Fig. 5.8). Si immagini un dispositivo sperimentale che consente di aumentare a piacimento il riempimento (precarico) di un ventricolo mantenendo costanti gli altri fattori (inotropismo e postcarico). Per ogni aumento del precarico si misurerà un aumento della gettata sistolica, sino a quando non si arriva a distendere le fibre alla loro lunghezza ottimale. Oltre questo punto, ogni ulteriore distensione produce una riduzione della gettata sistolica. A questo non si arriva in condizioni fisiologiche perché la lunghezza ottimale delle fibre è quasi coincidente con la massima distensibilità elastica della parete ventricolare. Questo comportamento può essere espresso da un grafico in cui si ponga sull’asse orizzontale il precarico e su quello verticale la gettata sistolica. Ne risulta una curva, detta di funzione ventricolare (che prende il nome dal fisiologo londinese Ernest Henry Starling, che per primo formulò, all’inizio del ’900, la legge fondamentale del cuore, secondo cui le prestazioni sistoliche dipendono dal riempimento diastolico). Ogni curva (Fig. 5.8) di funzione presenta una porzione ascendente (dove la gettata aumenta con il precarico) e un plateau massimo. In condizioni patologiche si osserva anche una porzione discendente dove la gettata diminuisce aumentando il precarico. Si immagini ora di ripetere le misurazioni dopo aver fatto variare lo stato inotropo del ventricolo, per esempio con una stimolazione simpatica. Per ogni valore di precarico si misura allora una gettata sistolica maggiore che in precedenza. Nel grafico la porzione ascendente della curva risulta più ripida e il plateau massimo più elevato. Si dice allora che la stimolazione inotropa ha spostato in alto la curva di funzione ventricolare, mentre l’inverso avviene in caso di depressione dell’inotropismo. Esiste dunque per ogni ventricolo un’intera famiglia di curve, ciascuna caratterizzata da un particolare stato inotropo. Restano infine da considerare gli effetti del postcarico sulle curve di funzione ventricolare. Il postcarico, in base alla già citata legge di Laplace (si veda in precedenza), può aumentare per due ragioni: per effetto di un incremento della pressione all’interno del ventricolo in sistole (carico di pressione), oppure per un aumento delle dimensioni (cioè del raggio) del ventricolo stesso (carico di volume). Il carico di pressione varia proporzionalmente alla pressione arteriosa, e quindi ventricolare (1). Si immagini allora di aumentare del 50% la pressione aortica e ripetere poi le misurazioni che hanno consentito di disegnare una curva di funzione ventricolare. Per ogni valore di precarico si misurerà una gettata sistolica minore che in precedenza. Si può dire allora che un aumento del carico di pressione sposta in basso la curva di funzione ventricolare.
Curve di funzione ventricolare Tenendo conto di questi fattori, anche per il ventricolo integro è sperimentalmente possibile costruire grafici che mettono in relazione le condizioni del muscolo
(1) In questo, come in altri esempi che seguono, ci si riferisce al ventricolo sinistro. Il discorso è identico per il ventricolo destro, salvo che, in questo caso, la pressione importante è quella dell’arteria polmonare.
Contrazione del ventricolo Per passare dalla contrazione “lineare” del muscolo papillare isolato a quella “tridimensionale” dei ventricoli in toto, è necessario aggiustare alcuni concetti. Il volume e la pressione delle cavità ventricolari sono analoghi rispettivamente alla lunghezza e alla tensione delle fibre nel muscolo isolato. Oltre a ciò, occorre tener conto della geometria ventricolare, che nella trattazione che segue, per semplicità, verrà ricondotta a quella di una sfera. Nel ventricolo in toto la lunghezza delle fibre a riposo dipende dal volume di riempimento ventricolare in telediastole, che assume perciò il significato fisiologico di precarico (“preload”). Quanto più aumenta il riempimento in diastole, tanto maggiore è l’accorciamento successivo delle fibre e quindi l’espulsione. Inoltre, per ovvie ragioni geometriche, un ventricolo dilatato espelle una gettata sistolica maggiore anche a parità di accorciamento delle fibre che lo costituiscono. Il volume di riempimento è a sua volta in relazione con la pressione ventricolare in telediastole (pressione di riempimento), che è più facile da misurare e viene perciò spesso utilizzata come espressione del precarico. La relazione tra pressione e volume di riempimento dipende dalle caratteristiche di distensibilità del ventricolo in diastole, di cui si parlerà più avanti. Lo stato inotropo, o contrattilità del ventricolo in toto, è quello medio delle singole fibre e dipende essenzialmente dalle condizioni metaboliche dei vari elementi; dipende però anche dal sincronismo nella contrazione dei diversi settori ventricolari. Più complessa è la definizione del carico sopportato dalle fibre durante la contrazione del ventricolo in toto o postcarico (“afterload”): in sostanza è l’insieme delle resistenze che il ventricolo deve superare per espellere il sangue. In termini più rigorosi esso equivale allo stress o sforzo di parete (forza per unità di superficie trasversa della parete). Lo sforzo di parete (secondo una legge fisica che porta il nome del grande fisico francese settecentesco Pierre Simon de Laplace) è uguale al prodotto della pressione endocavitaria P per il raggio della cavità r, diviso per 2 volte lo spessore della parete h. In formula:
= Pr/2h.
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Lo stesso avviene per aumento del carico di volume, ma in grado assai minore. La ragione di ciò risiede ancora una volta nella legge di Laplace, nella cui formula entra il raggio e non il volume ventricolare. Se il volume del ventricolo, per esempio, raddoppia, il raggio (e quindi il postcarico), per evidenti ragioni geometriche, varia solo in proporzione alla radice cubica di 2 (1,26 circa), cioè in pratica aumenta del 26%.
Curve di funzione ventricolare
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Curve di pressione-volume in diastole
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Gettata o lavoro sistolico
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A. Volume telediastolico
Curve di pressione-volume
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Pressione telediastolica
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B. Volume telediastolico
Figura 5.8 - A. Curve di funzione ventricolare in tre diverse condizioni: normale, con ridotta contrattilità (insufficienza ventricolare) o con aumentata contrattilità (stimolazione inotropa). Le curve di funzione ventricolare si costruiscono mettendo in relazione in un grafico il precarico (volume telediastolico del ventricolo) con la prestazione contrattile (gettata o lavoro sistolico). B. Curve di pressione-volume in diastole in tre diverse condizioni: normale, con ridotta distensibilità (ipertrofia) e con aumentata distensibilità (dilatazione senza ipertrofia). Le curve di pressione-volume si costruiscono mettendo in relazione in un grafico il volume telediastolico del ventricolo con la sua pressione misurata sempre alla fine della diastole.
Oltre alle curve di funzione del ventricolo in sistole, che si sono sin qui trattate, è possibile costruire anche curve che descrivono le proprietà del ventricolo in diastole. Con il medesimo dispositivo sperimentale adottato in precedenza, si può aumentare progressivamente il volume di riempimento diastolico e misurare contemporaneamente i corrispondenti valori di pressione ventricolare. Si osserva che, quando il riempimento ventricolare è scarso, ampie variazioni di volume si accompagnano a modesti aumenti di pressione (in altre parole il ventricolo risulta molto distensibile); quando il ventricolo è vicino ai valori massimi di riempimento, invece, piccoli aumenti di volume sono associati a grandi variazioni di pressione. Questo comportamento può essere espresso da un grafico in cui si ponga sull’asse orizzontale il volume telediastolico e su quello verticale la pressione telediastolica. Ne risulta una curva, detta di pressione-volume, che presenta un andamento quasi orizzontale all’inizio e si impenna poi sempre più bruscamente per valori più elevati di volume (Fig. 5.8B). La curva rappresenta la distensibilità (“compliance”, in inglese) ventricolare. Quando il ventricolo diviene più rigido, per esempio in conseguenza di un aumento di spessore della parete (ipertrofia), la curva si sposta verso l’alto e a sinistra: cioè per lo stesso volume di riempimento il ventricolo presenta una pressione diastolica più elevata. L’inverso avviene quando il ventricolo diviene più distensibile, per esempio per effetto di una dilatazione senza ipertrofia. Occorre infine ricordare che, oltre alle caratteristiche del miocardio, in alcune circostanze patologiche anche le condizioni del pericardio influiscono sulla “compliance” complessiva (per es., la pericardite costrittiva e il tamponamento cardiaco). Le proprietà del ventricolo in diastole non si limitano però a una passiva distensibilità, come di un palloncino che viene riempito d’acqua. Durante le prime fasi della diastole avviene il processo di rilassamento, il quale comporta la rimozione attiva degli ioni calcio dal legame con la troponina e il loro accumulo nel reticolo sarcoplasmatico, in modo che tutto sia pronto per la contrazione successiva. È importante sottolineare che anche il rilassamento è un processo attivo, cioè condotto con consumo di energia (la pompa del calcio consuma ATP), ragion per cui in alcune circostanze patologiche (ipertrofia o ischemia miocardica, per es.) può risultare incompleto o rallentato. Ciò comporta, evidentemente, un’alterazione della distensibilità e quindi del riempimento ventricolare.
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Secondo alcuni Autori, infine, il ventricolo si riempie anche per effetto di un’azione attiva di risucchio del sangue. L’energia necessaria per tale effetto di “pompa aspirante” deriverebbe dalla forza elastica accumulata dal cuore durante la sistole. L’accumulo avviene in due modi: a) lo spostamento verso il basso dell’intero cuore durante la sistole (per effetto di rinculo all’espulsione del sangue), cui segue un ritorno elastico verso l’alto, incontro al sangue proveniente dal sistema venoso; b) la deformazione degli elementi elastici dei ventricoli durante la sistole, che tendono a riassumere la loro forma in diastole, provocando un effetto di risucchio. In condizioni patologiche, la riduzione della forza di contrazione e la diminuzione della gettata sistolica comportano anche una minor energia elastica per il riempimento attivo in diastole.
Regolazione della gettata cardiaca Il cuore adatta costantemente la propria gettata ai bisogni metabolici dell’organismo grazie al gioco combinato dei tre fattori che determinano la gettata sistolica (precarico, inotropismo, postcarico) e di un quarto fattore: la frequenza cardiaca (Fig. 5.9). In sintesi, il cuore aumenta la propria gettata, quando occorre (per es., in corso di esercizio fisico), soprattutto attraverso un aumento della frequenza cardiaca e della contrattilità, mentre il riempimento dei ventricoli viene mantenuto a valori normali grazie a un aumento del ritorno venoso. Gli ambiti entro cui possono avvenire utili aumenti della frequenza o della contrattilità prendono il nome di riserva di frequenza e riserva di contrattilità. Numerosi meccanismi di redistribuzione della massa di sangue circolante contribuiscono a impedire, in ogni circostanza, che il riempimento ventricolare (precarico) scenda al di sotto dei valori che garantiscono una normale efficienza della contrazione. All’inverso, il cuore può far fronte alle riduzioni della contrattilità o agli au-
menti del postcarico attraverso un aumento del riempimento (precarico) che consenta di mantenere comunque a livelli adeguati l’efficacia della contrazione. Ovviamente esiste un limite, oltre il quale l’aumento di riempimento dei ventricoli è impossibile o per lo meno controproducente (perché lo stiramento delle fibre miocardiche è eccessivo e l’aumento di diametro ventricolare fa crescere troppo il postcarico). L’ambito entro cui il riempimento può utilmente aumentare prende il nome di riserva di precarico. Vediamo ora in dettaglio i singoli fattori di questo equilibrio. A. Frequenza cardiaca. La gettata cardiaca è il prodotto della gettata sistolica per la frequenza cardiaca: perciò la frequenza cardiaca contribuisce in misura considerevole ad adeguare la gettata cardiaca in condizioni fisiologiche. Durante un esercizio fisico moderato, per esempio, la frequenza cardiaca aumenta parallelamente all’entità dello sforzo, mentre la gettata sistolica resta quasi costante o aumenta di poco. La frequenza cardiaca dipende dalla velocità di scarica del nodo del seno, il quale è sottoposto all’azione stimolante delle terminazioni nervose simpatiche e all’azione frenante di quelle vagali. La stimolazione nervosa del nodo del seno è opera di centri posti nel tronco cerebrale, a loro volta regolati da riflessi provenienti da varie zone del sistema cardiovascolare. I centri cardiovascolari sono sottoposti anche a influenze provenienti da centri nervosi superiori e dalla corteccia stessa. La stimolazione simpatica del cuore, oltre ad aumentare la frequenza cardiaca, produce un aumento della forza contrattile del miocardio, cioè dell’inotropismo. Quando la frequenza cardiaca supera i 150-160 battiti/min, la durata della diastole diviene troppo breve per consentire un buon riempimento del cuore. Di conseguenza la gettata sistolica diminuisce e ciò impedisce ulteriori aumenti della gettata cardiaca. È questo il limite della riserva di frequenza.
Tono e spremitura venosi
Precarico Frequenza cardiaca Contrattilità
Accorciamento delle fibre miocardiche
Gettata cardiaca Pressione arteriosa
Gettata sistolica Postcarico
Dimensioni del ventricolo
Resistenze periferiche
Figura 5.9 - Lo schema illustra i rapporti tra i vari fattori che entrano in gioco nella regolazione della gettata cardiaca. Le linee piene rappresentano effetti positivi (di aumento); le linee tratteggiate un effetto negativo (di diminuzione).
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B. Precarico. Nell’esercizio fisico l’aumento di frequenza cardiaca produce, come si è detto, un cospicuo aumento della gettata: ciò avviene perché contemporaneamente aumenta il ritorno venoso. Infatti, se si fa aumentare artificialmente la frequenza cardiaca in un soggetto a riposo (per es., stimolando elettricamente la contrazione del cuore con un catetere introdotto da una vena sino all’atrio destro), la gettata cardiaca resta pressoché invariata sino alla frequenza di 150-160 battiti/min (dopo tale valore la gettata cardiaca comincia a diminuire): a riposo infatti il ritorno venoso resta costante e si suddivide perciò su di un numero maggiore di battiti al minuto, facendo diminuire il precarico e quindi la gettata sistolica, ragion per cui il prodotto dei due fattori non varia (frequenza × gettata sistolica = gettata cardiaca). Nell’esercizio fisico, invece, la maggior quantità di sangue che torna al cuore, per effetto della spremitura muscolare e dell’aumentato tono venoso, pur suddividendosi su un maggior numero di battiti, è sufficiente a produrre un riempimento (precarico) dei ventricoli adeguato per ogni diastole, quindi la gettata sistolica resta invariata o aumenta. L’adeguamento della gettata cardiaca alle esigenze dei tessuti comporta in ogni caso il mantenimento di un precarico ottimale. Il riempimento ventricolare o precarico dipende da diversi fattori. 1. Volume totale di sangue. Questo influisce solo per riduzioni brusche della massa liquida circolante, superiori al 15% del totale (emorragie acute). Il precarico non risente invece di variazioni minori o croniche del volume totale di sangue. 2. Distribuzione del volume di sangue. Il sangue circola incessantemente, ma se si fotografa la situazione in un determinato istante, si trova che una certa quota di sangue è all’interno del torace e il resto si trova distribuito alla periferia dell’organismo. Il precarico dipende dal volume di sangue intratoracico (si chiama anche volume centrale), il quale a sua volta risulta da diversi fattori. • Posizione del corpo. In piedi una quota maggiore di sangue occupa le posizioni declivi e diminuisce quindi il volume centrale. • Tono venoso. La parete delle vene è capace di contrarsi, riducendo la quota di sangue periferico e aumentando quella centrale. Ciò avviene durante l’esercizio fisico o quando la pressione cala bruscamente o in corso di ischemia miocardica (per es., infarto). • Spremitura muscolare. La contrazione dei muscoli scheletrici (con il gioco delle valvole venose) tende a spingere una maggior quota di sangue verso il torace. • Pressione intratoracica. È negativa in inspirazione e perciò in questa fase del respiro aumenta il volume di sangue centrale. La pressione intratoracica diviene positiva nel pneumotorace iperteso, o temporaneamente durante accessi di tosse o altre espirazioni a glottide chiusa: in questi casi il volume centrale diminuisce, con effetti anche cospicui sul riempimento cardiaco.
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3. “Compliance” (distensibilità) cardiaca. È la capacità del cuore di aumentare di volume senza eccessivi aumenti della pressione intracavitaria. Dipende dalla “compliance” del miocardio e da quella del pericardio. La prima si riduce in caso di ischemia, di ipertrofia o per invecchiamento del tessuto miocardico. La “compliance” pericardica si riduce invece in caso di versamento pericardico o di pericardite cronica costrittiva. Quando un versamento pericardico compromette gravemente il riempimento ventricolare si parla di tamponamento cardiaco. 4. Effetto aspirante. Il rinculo del cuore e la forza elastica accumulata durante la sistole producono un effetto di risucchio sul sangue proveniente dalle vene nella fase iniziale della diastole. In condizioni patologiche (insufficienza miocardica), quando la sistole è meno energica, anche l’aspirazione diastolica risulta poco efficace. 5. Contrazione atriale. Contribuisce efficacemente a completare il riempimento dei ventricoli al termine della diastole. Quando il ventricolo diviene più rigido (per es., per ipertrofia) la perdita improvvisa della contrazione atriale (per es., per fibrillazione atriale) comporta una sensibile riduzione del riempimento e quindi dell’efficienza cardiaca. 6. Frequenza cardiaca. La tachicardia di per sé riduce la “compliance” ventricolare, per un incompleto rilassamento delle fibre muscolari. Inoltre, la riduzione del tempo a disposizione per il riempimento (durata della diastole) comporta a frequenze elevate (oltre i 150-160 battiti/min) una riduzione del precarico. C. Stato inotropo del miocardio. Durante l’esercizio fisico oltre alla frequenza cardiaca e al ritorno venoso, aumenta anche la forza contrattile del miocardio. Le terminazioni nervose simpatiche del cuore liberano una quota maggiore di noradrenalina, che stimola i recettori -adrenergici del miocardio. È questo il meccanismo fisiologico più importante che determina la riserva di contrattilità del cuore. Altri fattori possono però influenzare in più o in meno l’inotropismo. 1. Catecolamine circolanti. La noradrenalina e l’adrenalina liberate dal surrene, o altre catecolamine infuse per motivi terapeutici, stimolano la contrattilità miocardica. Le catecolamine più usate in terapia sono dopamina e isoproterenolo. 2. Farmaci inotropi positivi. Glicosidi cardioattivi (digitale e simili), amrinone e derivati, caffeina, teofillina e calcio aumentano la forza contrattile del miocardio. 3. Effetto inotropo della frequenza. Un aumento della frequenza cardiaca, nei limiti fisiologici, comporta di per sé un incremento di contrattilità; anche un’extrasistole isolata aumenta l’inotropismo per alcuni battiti successivi. 4. Ipossia, ipercapnia, acidosi. Le gravi alterazioni del trasporto gassoso e dell’equilibrio acido-base depri-
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mono in misura rilevante la forza contrattile del cuore. Si può quindi determinare un pericoloso circolo vizioso quando la funzione respiratoria è compromessa per motivi cardiaci (come nell’edema polmonare acuto) e ciò contribuisce a deprimere ancor più la funzione miocardica. 5. Farmaci inotropi negativi. Tutti gli antiaritmici (con l’eccezione del bretilio), i calcioantagonisti, gli anestetici locali e generali e i barbiturici deprimono la contrattilità. In teoria, questo effetto dovrebbe essere esercitato anche dai -bloccanti. Tuttavia, come si vedrà a proposito dello scompenso cardiaco, in condizioni patologiche la noradrenalina circolante o liberata localmente ha un effetto nocivo sul miocardio e perciò i farmaci -bloccanti possono essere di utilità terapeutica. 6. Perdita di tessuto contrattile. Se una porzione di miocardio va in necrosi (infarto miocardico) o perde temporaneamente la funzione contrattile (ischemia grave), l’efficienza complessiva del ventricolo colpito risulta compromessa. Quando la quota di tessuto meccanicamente inerte supera il 40% del totale, il cuore non è più in grado di assicurare una gettata sufficiente per la sopravvivenza (shock cardiogeno). 7. Depressione intrinseca della contrattilità. Stati patologici diffusi a tutto il miocardio (cardiomiopatie, miocarditi, cardiopatia ischemica, ipertensiva, valvolare, congenita) comportano una depressione della forza contrattile di ogni unità elementare del miocardio, per compromissione di vari processi metabolici. Questo avviene anche per effetto di sollecitazioni neuro-umorali che agiscono sul miocardio come meccanismi di compenso in caso di sua insufficienza, come la stimolazione simpatica (non solo sui -, ma anche sugli - recettori) e l’effetto dell’angiotensina II o dell’aldosterone. Queste sollecitazioni, utili nel breve periodo, determinano alla lunga ipertrofia, ma anche apoptosi (morte cellulare programmata) delle cellule miocardiche e fibrosi interstiziale, in un processo definito “rimodellamento del miocardio”. Questa condizione comporta non solo una depressione intrinseca della contrattilità miocardica, ma anche una menomazione della funzione diastolica del cuore. Se la contrattilità dei ventricoli subisce un’improvvisa riduzione (per es., per effetto di un’ischemia miocardica), si riduce l’entità di accorciamento delle fibre e quindi la gettata sistolica. Ciò comporta però che una maggior quantità di sangue resti nei ventricoli alla fine della sistole: a questa quota si aggiunge in diastole il normale riempimento di sangue venoso. In tal modo aumenta il precarico e, nel giro di qualche battito, la gettata sistolica torna a valori normali, grazie al maggior riempimento. In altre parole, il cuore si adatta a una brusca riduzione della contrattilità sfruttando la riserva di precarico, in modo da mantenere costante la gettata. Se poi la riduzione di contrattilità si prolunga nel tempo, intervengono altri meccanismi di compenso che saranno esaminati in dettaglio nelle pagine successive.
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D. Postcarico. Il postcarico, come si è visto, ha un effetto negativo sulle prestazioni ventricolari ed è proporzionale alla pressione ventricolare sistolica e al raggio del ventricolo. In sistole, la pressione ventricolare eguaglia la pressione aortica che a sua volta, secondo una nota legge fisica, equivale al prodotto della gettata cardiaca per le resistenze vascolari. In formula, P = Q × R, dove Q è la gettata e R la somma di tutte le resistenze opposte dall’albero arterioso al flusso del sangue. Tali resistenze sono concentrate soprattutto a livello arteriolare (vasi di resistenza), ma in parte dipendono anche dall’elasticità dei grandi vasi, soprattutto l’aorta stessa. Nell’esercizio fisico la gettata cardiaca aumenta e quindi anche la pressione aortica, comportando un aumento di postcarico e quindi una minore efficienza cardiaca. Per limitare questo effetto negativo, si verifica per via riflessa una dilatazione arteriolare (soprattutto nei distretti muscolari) che limita l’aumento di pressione. Si immagini ora, invece, che le resistenze vascolari aumentino acutamente. Sale la pressione arteriosa e il ventricolo, sottoposto a un postcarico maggiore, espelle una gettata sistolica minore. Resta così in ventricolo una quota maggiore di sangue al termine di ogni sistole. Questa quota si aggiunge al normale riempimento diastolico, aumentando il precarico. Entro pochi battiti la maggior dilatazione del ventricolo in diastole riporta la gettata sistolica ai valori di partenza. In altre parole, anche per adattarsi a un aumento del postcarico il cuore sfrutta la riserva di precarico, in modo da mantenere costante la gettata. Questo adeguamento ha però un prezzo che risulta evidente se si considera il lavoro del cuore. Il lavoro di una pompa che espelle un volume V di liquido a una pressione P è proporzionale al prodotto di P per V. Nel caso del cuore, il lavoro per ogni sistole è dato dal prodotto della pressione sistolica media per il volume della gettata sistolica. Quando il cuore si adatta a un aumento di pressione mantenendo costante la gettata sistolica, finisce quindi per compiere un lavoro maggiore. Ciò comporta un maggior consumo di energia per la contrazione; quindi anche un maggior consumo di ossigeno, indispensabile per i processi metabolici che liberano energia. Non solo, ma l’aumento di pressione comporta anche un minor rendimento cardiaco. Per rendimento di una macchina (tale è il cuore come pompa) si intende il rapporto tra lavoro svolto ed energia spesa. Il cuore normale ha un rendimento piuttosto basso: il lavoro prodotto è pari al 20-25% circa dell’energia consumata. Poiché si è dimostrato che il consumo energetico di un battito cardiaco dipende quasi esclusivamente dalla pressione sviluppata, e poco o nulla dal volume di sangue espulso, è ovvio che quanto maggiore è il fattore pressione nel determinare il lavoro cardiaco tanto minore è il rendimento. Quando la forza contrattile del cuore è depressa (per es., per una patologia del miocardio), l’adattamento a un aumento brusco di postcarico è più problematico. Infatti il cuore insufficiente mette in opera già in condizioni di base un incremento di precarico per mantenere una gettata normale e spesso la sua funzione dia-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
SCOMPENSO CARDIACO
Gettata cardiaca Ipertensione
Normale
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Resistenze all’eiezione
Figura 5.10 - Curva resistenze-gettata. Nel cuore normale un aumento acuto delle resistenze alla eiezione non provoca alcuna variazione della gettata, salvo che a valori estremi di vasocostrizione. Nel cuore insufficiente, invece, ogni aumento delle resistenze si accompagna a una riduzione della gettata cardiaca. La riduzione è tanto più marcata quanto più grave è il grado di insufficienza. Ovviamente è vero anche l’inverso: cioè ogni riduzione delle resistenze si accompagna a un aumento della gettata cardiaca nel cuore insufficiente, mentre ciò non avviene nel cuore normale.
stolica è alterata. Non può quindi aumentare di molto il riempimento per far fronte a un aumento acuto delle resistenze periferiche. In questo caso si dice che il cuore ha una ridotta riserva di precarico, oltre ad avere una ridotta riserva di contrattilità. Ne consegue che il cuore insufficiente reagisce a un aumento acuto delle resistenze periferiche (e quindi della pressione e del postcarico) con una riduzione della gettata cardiaca. Questa riduzione è tanto maggiore, a parità di incremento delle resistenze, quanto più è depressa la contrattilità miocardica. Nel cuore normale invece un aumento acuto delle resistenze periferiche non provoca alcuna variazione della gettata, per gli adattamenti già visti, salvo che a valori estremi di vasocostrizione. Il concetto può essere espresso con un grafico (Fig. 5.10) in cui sull’asse orizzontale si pongono le resistenze all’eiezione e su quello verticale la gettata cardiaca. Il comportamento del cuore normale è rappresentato da una retta orizzontale (nessuna variazione della gettata con l’aumentare delle resistenze), che deflette solo ai valori estremi di resistenze. Il comportamento di un cuore insufficiente è rappresentato da una linea discendente (riduzione della gettata con l’aumento delle resistenze) tanto più inclinata verso il basso quanto più compromessa è la contrattilità miocardica. Se l’aumento di postcarico si mantiene a lungo nel tempo, il ventricolo mette in atto un altro meccanismo di compenso (l’ipertrofia) che verrà esaminata più in dettaglio nelle pagine successive.
Lo scompenso cardiaco (o insufficienza cardiaca: i due termini sono sinonimi) è uno stato fisiopatologico in cui, per un’alterata funzione, il cuore risulta incapace di pompare un flusso di sangue adeguato alle necessità dell’organismo; oppure riesce a mantenere una portata sufficiente solo a prezzo di un aumento della pressione nel circolo venoso a monte. Ciò produce due conseguenze fondamentali. La prima è l’ipoperfusione periferica, che si manifesta appunto quando la gettata cardiaca è inadeguata alle necessità metaboliche dell’organismo. La seconda è la congestione venosa, che risulta dal tentativo dell’organismo di mantenere una gettata cardiaca adeguata sfruttando la riserva di precarico, cioè aumentando il riempimento dei ventricoli in diastole. Ipoperfusione e congestione sono le due vie ultime comuni attraverso cui si manifesta lo scompenso cardiaco e ne spiegano tutti i sintomi e segni clinici.
Eziopatogenesi Lo scompenso cardiaco è una condizione patologica di frequente riscontro per il medico. Secondo dati raccolti negli USA, dai 2 ai 3 milioni di americani soffrono di scompenso cardiaco, mentre circa 200.000 morti all’anno sono attribuibili a tale causa. L’incidenza dello scompenso nella popolazione aumenta con l’età e raddoppia (o più) per ogni decennio dai 40 agli 80 anni. A. Cause. Lo scompenso cardiaco è quasi sempre il risultato di un’insufficiente funzione miocardica. L’insufficienza miocardica può essere determinata dalla perdita (anatomica o funzionale) di parte del tessuto contrattile, oppure dal rimodellamento del miocardio determinato da cardiopatia ischemica o da altre condizioni patologiche. Per esempio, può essere dovuta a una compromissione diffusa delle fibre miocardiche, come nelle cardiomiopatie e nelle miocarditi. L’insufficienza miocardica può essere anche secondaria a un carico di lavoro cronico eccessivo, che causa ipertrofia del muscolo cardiaco (si veda in seguito: Ipertrofia del miocardio). Il sovraccarico cronico può essere di pressione, come nell’ipertensione arteriosa del circolo sistemico o polmonare, o nei casi di restringimento (stenosi) dell’ostio valvolare aortico o polmonare. Oppure può essere un sovraccarico di volume: ciò avviene quando, per esempio, i sistemi valvolari aortici o mitralici (e per le cavità destre quelli polmonari e tricuspidali) sono incontinenti (insufficienza valvolare) e il ventricolo deve pompare anche la quota di sangue che, ad ogni sistole, rigurgita all’indietro. Un sovraccarico di volume può anche essere determinato da condizioni che impongono cronicamente al cuore una gettata elevata. Ciò avviene, per esempio, nell’anemia grave, nell’ipertiroidismo, nei portatori di fistole arterovenose, nei malati di beri-beri o di morbo di Paget, in gravidanza, ecc. In questi casi,
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5 - SCOMPENSO CARDIACO
Tabella 5.1 - Cause di insufficienza. INSUFFICIENZA MIOCARDICA
INSUFFICIENZA CARDIACA
INSUFFICIENZA CIRCOLATORIA
Perdita di tessuto contrattile • Cardiopatia ischemica
Sovraccarico acuto di pressione • Ipertensione accelerata • Embolia polmonare
Riduzione brusca di massa ematica • Emorragia acuta
Depressione diffusa della contrattilità • Cardiomiopatie • Miocarditi
Sovraccarico acuto di volume • Rottura valvole
Riduzione brusca di HbO2 • Anemia acuta
Sovraccarico cronico di pressione • Ipertensione • Cardiopatie valvolari • Cardiopatie congenite
+
Ostacolo al riempimento • Tamponamento • Ostruzione ostio atrioventricolare
+
Aumento brusco di letto vasale • Anafilassi
Sovraccarico cronico di volume • Alta gettata • Cardiopatie valvolari • Cardiopatie congenite
144444444444 42444444444444 3 Cause di insufficienza cardiaca
1444444444444444 424444444444444444 3 Cause di insufficienza circolatoria
quando lo scompenso si manifesta, si parla di scompenso ad alta gettata. In molti di questi casi il rimodellamento del miocardio è conseguente, almeno in parte, a stimolazione simpatica. Si suppone che esista una predisposizione individuale, geneticamente determinata, a sviluppare queste azioni lesive sul miocardio, in conseguenza di un polimorfismo dei recettori adrenergici. Questa predisposizione è stata rilevata principalmente nei neri americani. L’insufficienza miocardica riguarda prevalentemente la funzione sistolica, cioè l’espulsione di sangue dai ventricoli, per effetto di una ridotta velocità e forza di contrazione. Spesso però risulta compromessa anche la funzione diastolica, cioè il riempimento dei ventricoli, per effetto di una ridotta distensibilità e di un rallentato o parziale rilassamento. Anzi, secondo alcuni Autori, in buona parte (dal 25 al 40%) dei casi di scompenso la funzione sistolica risulta normale, e il difetto di pompa deve essere attribuito per intero a un’insufficienza diastolica. In alcuni casi, invece, lo scompenso compare senza che sia presente alcuna anomalia della funzione miocardica (almeno inizialmente), in seguito a un carico di lavoro acuto improvviso per il cuore: per esempio, nell’ipertensione maligna accelerata o nella rottura di un lembo valvolare per endocardite. Anche un improvviso ostacolo al riempimento cardiaco, come il tamponamento pericardico o un’ostruzione dell’ostio atrioventricolare, provoca scompenso cardiaco senza alterazioni della funzione miocardica. Lo scompenso cardiaco deve essere ben distinto da altre forme di insufficienza circolatoria, nelle quali la
funzione di trasporto di ossigeno ai tessuti è compromessa per alterazione di una (o più d’una) delle altre componenti del circolo: massa ematica, concentrazione di emoglobina ossigenata, letto vascolare. Un esempio di insufficienza circolatoria con funzione cardiaca normale (almeno inizialmente) è lo shock ipovolemico da emorragia acuta. In conclusione: insufficienza miocardica, insufficienza cardiaca e insufficienza circolatoria non sono sinonimi, ma concetti di estensione crescente, ciascuno dei quali comprende i precedenti in una famiglia più ampia (Tab. 5.1). Tutte le cause di scompenso che abbiamo ora ricordato possono agire su particolari sezioni del cuore piuttosto che su altre. Le cavità sinistre sono quelle più spesso interessate inizialmente, per tre ragioni: a) la pressione nella circolazione arteriosa sistemica è più elevata che nella circolazione polmonare; inoltre l’ipertensione arteriosa sistemica è un evento comune: è più facile pertanto un sovraccarico cronico di pressione del ventricolo sinistro (cardiopatia ipertensiva); b) i vizi valvolari acquisiti (che sono in grado di provocare sia sovraccarico di pressione sia sovraccarico di volume di cavità cardiache) sono di gran lunga più frequenti a carico delle sezioni sinistre del cuore; c) la cardiopatia ischemica interessa con grandissima prevalenza il ventricolo sinistro. Le cavità destre sono compromesse inizialmente molto più raramente e prevalentemente a seguito di condizioni patologiche che interessano primitivamente il circolo polmonare (cuore polmonare cronico; Cap. 13). Più spesso lo scompenso delle cavità destre consegue a
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quello delle cavità sinistre (si veda a proposito della fisiopatologia, a pag. 107). Solo in condizioni di grave insufficienza miocardica (diffusa cardiopatia ischemica, miocarditi, cardiomiopatie) lo scompenso interessa fin dal principio allo stesso modo le cavità sinistre e quelle destre del cuore (scompenso globale). La distinzione delle cause di scompenso (tra quelle che interessano primitivamente le cavità sinistre e successivamente le destre, quelle che interessano primitivamente le cavità destre e quelle che interessano fin dall’inizio entrambe le sezioni del cuore) è scolasticamente utile, perché le conseguenze di questa diversa implicazione sono differenti sul piano fisiopatologico e clinico. B. Ipertrofia del miocardio. Per adattarsi a un carico di lavoro eccessivo cronico, il cuore dispone di tre meccanismi principali: l’aumento del precarico (legge di Starling), la stimolazione inotropa adrenergica e l’ipertrofia del miocardio. I primi due sono meccanismi già esaminati nel capitolo precedente, in quanto agiscono anche in condizioni fisiologiche per adeguare la portata a maggiori carichi di lavoro nel breve periodo. L’ipertrofia, invece, è una risposta a condizioni di maggior lavoro persistenti nel tempo. Nei giovani atleti, per esempio, si riscontra un modesto grado di ipertrofia, senza peraltro che ciò comporti nessuna apparente compromissione della funzione cardiaca. Le cellule miocardiche perdono, durante la loro differenziazione, la capacità di dividersi. Perciò la necessità di una maggiore massa di muscolo miocardico non può, nella vita adulta, essere soddisfatta con un aumento del numero di miociti (iperplasia), ma solo con un aumento di dimensioni delle singole cellule (ipertrofia). Non sono noti i meccanismi attraverso cui un maggior carico di lavoro produce ipertrofia. Probabilmente lo stimolo iniziale è l’aumento dello stress di parete (, si veda in precedenza) il quale attiva canali ionici sensibili alle variazioni di tale parametro. Un secondo messaggero intracellulare agisce poi sul nucleo, attivando alcuni geni normalmente latenti. Ne risulta un doppio effetto: una crescita quantitativa della cellula, con aumento del numero delle fibrille, dei sarcomeri e dei mitocondri, e una variazione qualitativa delle proteine che vengono sintetizzate per realizzare tale crescita. Il primo effetto è legato soprattutto all’attivazione di alcuni protoncogeni, come c-fos e c-myc. I protoncogeni fanno parte del normale meccanismo che regola la crescita e la divisione cellulare: il loro nome deriva dal fatto che, per mutazione o altra alterazione, possono trasformarsi in oncogeni, responsabili della degenerazione neoplastica nella cellula. Entro un’ora da un aumento del carico di lavoro, nel miocardio già si riscontra un accumulo di RNA messaggero prodotto dai protoncogeni attivati. Il secondo effetto consiste, invece, nella sintesi di varianti (isoforme) delle proteine contrattili o con altre funzioni: in genere durante il processo di ipertrofia si riattiva la sintesi di isoforme fetali. Ciò avviene, per
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esempio, per la miosina, la cui molecola è costituita da una catena leggera e da una pesante, che può essere o . La miosina con catena pesante , presente nell’adulto, possiede un’attività enzimatica di scissione dell’ATP durante la contrazione più elevata rispetto alla . Ne consegue che la miosina con catene produce una contrazione più veloce, con maggior consumo di energia in rapporto alla forza sviluppata. La miosina con catene , invece, dà una contrazione più lenta, ma con maggior rendimento, cioè con minor consumo di energia a parità di lavoro: le catene vengono prodotte durante la vita fetale, ma anche in caso di ipertrofia e durante il processo di invecchiamento. La produzione di isoforme fetali nel corso di ipertrofia è stata dimostrata per tutte le proteine che costituiscono le miofibre: quelle contrattili, ma anche quelle di sostegno, di regolazione, di canale transmembrana, di trasmissione dei segnali, di pompa e così via. Si tratta evidentemente di un meccanismo di adattamento, per cui il miocardio ipertrofico risulta diverso da quello normale non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente: la regola generale di tale adattamento sembra essere quella di un maggior risparmio energetico, a prezzo di una minore funzionalità, con la produzione di isoforme che consumano meno ATP. Ciò vale, per esempio, anche per la pompa dipendente da ATP che accumula gli ioni calcio nel reticolo sarcoplasmatico durante la diastole, consentendo il rilassamento: nei cuori ipertrofici questo processo risulta rallentato, con effetti negativi sulla funzione diastolica e anche su quella sistolica (la contrazione dipende dalla liberazione massiva del calcio sarcoplasmatico). Modificazioni molecolari assai simili (soprattutto la prevalenza di miosina con catene pesanti ) si osservano nel corso dell’invecchiamento, per cui anche il cuore dell’anziano si adatta a produrre lavoro con minor spesa energetica, a costo di una contrazione e di un rilassamento meno rapidi e intensi. Nell’ipertrofia del giovane atleta, invece, la composizione qualitativa delle proteine contrattili non si modifica (forse perché l’aumento del carico di lavoro sul cuore è solo intermittente e non permanente). Anche la struttura generale del ventricolo risulta alterata per effetto dell’ipertrofia. I fibroblasti producono una maggior quantità di collagene, per cui un certo grado di fibrosi accompagna il processo, conferendo una minor distensibilità alle pareti, la cui geometria cambia in maniera diversa secondo il tipo di sovraccarico a cui il cuore è sottoposto: poiché lo stimolo iniziale è costituito, come si è detto, dall’aumento dello stress di parete , l’ipertrofia si sviluppa in modo da mantenere tale parametro il più possibile entro limiti normali. Se il sovraccarico è di pressione, le pareti ventricolari si ispessiscono grazie al fatto che le singole cellule muscolari divengono più grosse. All’interno delle cellule si produce una replicazione parallela (uno di fianco all’altro) dei sarcomeri. Per la legge di Laplace ( = Pr/2h; si veda in precedenza), l’aumento di spessore h compensa l’aumento di pressione P, in modo da non lasciare crescere il postcarico.
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5 - SCOMPENSO CARDIACO
Normale P: Pressione ventricolare sistolica (mmHg)
r: Raggio ventricolare (mm)
h: Spessore parete (mm)
: Sforzo di parete (103 dine/cm2)
Sovraccarico di pressione
Sovraccarico di volume
120
240
140
24
27
32
8
15
10
180
216
224
N.B. valori medi per una popolazione di pazienti
Figura 5.11 - Tipi di ipertrofia. Nel sovraccarico di pressione le pareti ventricolari si ispessiscono grazie a una replicazione parallela dei sarcomeri. Ciò comporta un aumento più spiccato dello spessore di parete (h) rispetto al raggio della cavità (r). Per la legge di Laplace ( = Pr/2h), l’aumento di spessore (h) compensa l’aumento di pressione (P), in modo da far crescere di poco il postcarico o sforzo di parete (). Nel sovraccarico di volume, invece, la cavità si dilata grazie a una replicazione in serie dei sarcomeri. L’aumento di raggio (r) che ne consegue comporterebbe un aumento di postcarico, ma anche questo viene compensato da un corrispondente modesto aumento di spessore (h).
Se il sovraccarico è di volume, la cavità ventricolare si dilata grazie al fatto che le singole cellule muscolari diventano più lunghe: ciò si accompagna a una replicazione in serie (uno di fila all’altro) dei sarcomeri. L’aumento del raggio r che ne consegue comporterebbe un modesto incremento di postcarico, ma anche questo viene compensato da un corrispondente modesto aumento di spessore h (Fig. 5.11). L’ipertrofia è strettamente collegata a quelle sollecitazioni neuro-endocrine (in questo caso soprattutto la stimolazione dei recettori adrenergici 1) che, come si è visto, portano a rimodellamento miocardico e, in particolare, ventricolare. Perciò, alla lunga, l’ipertrofia miocardica che si verifica in condizioni patologiche è un processo dannoso. Tutte le modificazioni prodotte dall’ipertrofia permettono al cuore di sostenere, sino a un certo punto, il maggior carico continuativo di lavoro che viene richiesto. Oltre un certo limite, però, l’accentuarsi dell’ipertrofia e della fibrosi comporta a sua volta una notevole alterazione dell’equilibrio energetico (per es., nel rapporto tra il numero di mitocondri e di miofibrille) e della funzione sistolica e diastolica dei miociti.
Col persistere del sovraccarico, la struttura dei miociti e l’architettura dei ventricoli si altera e si assiste a una progressiva dilatazione delle cavità, con assottigliamento e fibrosi delle pareti, che compromette l’utilità dell’ipertrofia stessa. C. Valutazione clinica della funzione ventricolare. Sia il miocardio primitivamente compromesso sia il miocardio ipertrofico possiedono una contrattilità sistolica e un rilassamento diastolico entrambi depressi. Ciò significa che per mantenere una gettata sistolica entro limiti normali, il ventricolo insufficiente abbisogna di un riempimento (precarico) maggiore; oppure di una pressione venosa maggiore per ottenere un riempimento normale. La gettata cardiaca e quella sistolica sono misurabili in clinica con vari metodi: i due principali sono il metodo di Fick e quello della diluizione degli indicatori. Il metodo di Fick calcola la gettata cardiaca dai dati relativi al consumo di ossigeno (misurato facendo respirare il paziente in uno spirometro) e all’estrazione di ossigeno dal sangue da parte dell’organismo (si mi-
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sura la differenza di contenuto di O2 tra sangue arterioso e sangue venoso misto). Il metodo della diluizione valuta la gettata dalle variazioni rapide della concentrazione ematica di un indicatore (un colorante o una soluzione fredda, per es.) iniettato a monte di un ventricolo e misurato a valle. I due metodi citati danno misure precise, ma in moltissimi casi bastano misure approssimate e indirette ottenibili con metodi incruenti: con i radioisotopi o con l’ecografia, per esempio. La gettata cardiaca normale risulta di 5 l/min circa, mentre la gettata sistolica oscilla tra 65 e 85 ml. Nell’insufficienza cardiaca la gettata cardiaca e la gettata sistolica risultano per lo più entro limiti normali in condizioni di riposo, ma non aumentano normalmente sotto sforzo. Un altro parametro molto importante è la frazione di eiezione, che esprime la percentuale di sangue espulsa durante la sistole sul totale di sangue contenuto in un ventricolo al termine della diastole. Essa è quasi costantemente ridotta nell’insufficienza cardiaca. Per valutarla, occorre misurare i volumi ventricolari in sistole e in diastole. Ciò è possibile in modo incruento con l’ecografia bidimensionale, con metodi radioisotopici, con la tomografia computerizzata ultrarapida o con la risonanza magnetica; in modo cruento la frazione di eiezione si può valutare nel corso di una ventricolografia, esame che richiede l’inserimento di un catetere nelle cavità sinistre del cuore. La frazione di eiezione normale è compresa tra 60 e 75%. È molto significativa anche la misura della pressione in ventricolo al termine della diastole. Se il ventricolo sinistro non riesce a pompare in aorta tutto il sangue che gli arriva, si ha un aumento del contenuto di sangue nella cavità ventricolare, cui corrisponde anche un aumento della pressione telediastolica del ventricolo, che si ripercuote a monte su tutto il sistema venoso polmonare. L’aumento di pressione può verificarsi anche per effetto di una disfunzione puramente diastolica, cioè per un’alterazione della curva di pressionevolume in diastole. La pressione telediastolica può essere stimata con relativa facilità. Introducendo un catetere per via venosa, è possibile raggiungere le cavità destre del cuore e le arterie polmonari. Se la punta del catetere si incunea in un vasellino polmonare, si possono registrare le pressioni del sistema a valle (vene, atrio, ventricolo sinistro) che sono uniformi al termine della diastole. È questo il metodo per valutare la pressione di riempimento del ventricolo sinistro, che è in relazione col volume di riempimento, cioè col precarico. Attraverso lo stesso catetere è possibile misurare contemporaneamente la gettata cardiaca col metodo della diluizione. A riposo, la pressione ventricolare sinistra telediastolica risulta poco elevata (non supera di molto i 5-10 mmHg, che sono i valori normali) anche in un cuore insufficiente. Anche la gettata cardiaca, come si è detto, è nei limiti normali. Sotto sforzo le cose cambiano. La pressione ventricolare aumenta in misura sproporzionata all’aumento della gettata sistolica, se si confronta il comportamento di un cuore insufficiente con quello di un cuore normale. Lo
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
sforzo, o altri sovraccarichi artificialmente imposti al ventricolo, costituiscono quindi le condizioni ideali per valutare la funzione cardiaca: se la pressione ventricolare aumenta molto e la prestazione (cioè la gettata) varia poco, ciò equivale, in grafico, a una curva di funzione ventricolare con pendenza depressa rispetto al normale. Altre possibilità per valutare la funzione contrattile prendono in considerazione parametri diversi, come la velocità di accorciamento delle fibre o la velocità di aumento della pressione intracardiaca (dP/dt), misurata con metodi cruenti o incruenti. Tali indici risultano tutti per lo più depressi nell’insufficienza cardiaca di tipo sistolico. La funzione diastolica viene invece valutata misurando la velocità di rilassamento o di caduta della pressione ventricolare, oppure la velocità di riempimento, con vari metodi diretti o indiretti, tra cui l’ecocardiografia Doppler. Nella cardiopatia ischemica, infine, è utile valutare separatamente l’efficienza contrattile di diversi settori della parete ventricolare e del setto, in quanto possono esservi deficit localizzati di forza contrattile. La presenza di acinesie (assenza di contrazione), discinesie (espansione paradossa in sistole) o asinergie (contrazione fuori tempo) in aree localizzate può essere rilevata con ecografia, scintigrafia o ventricolografia. D. Basi metaboliche dello scompenso. Non è tuttora ben chiaro che cosa non funziona nel cuore scompensato a livello molecolare. Il miocardio insufficiente o ipertrofico produce un lavoro esterno inferiore al normale, a parità di tutte le altre condizioni. Si potrebbe quindi pensare che il difetto fondamentale consista in un’inefficiente produzione o conservazione dell’energia metabolica necessaria per la contrazione. Ciò accade sicuramente in alcune rare forme di scompenso, come, per esempio, nel beri-beri. Anche nel comune cuore ipertrofico vi sono buone ragioni perché si determini una carenza energetica: la rete dei capillari non riesce a tenere il passo con l’aumento della massa muscolare, mentre all’interno delle cellule il numero dei mitocondri aumenta meno rispetto al numero delle miofibrille. Nonostante ciò, vi sono dati discordanti circa la produzione e la concentrazione di fosfati con legami ad alta energia (creatinfosfato e ATP) nel miocardio insufficiente: in molti casi risultano del tutto normali, il che rende per lo meno improbabile che una carenza nella produzione di energia abbia un ruolo causale nel determinare lo scompenso; potrebbe però contribuire ad aggravare e perpetuare il processo. Vi è poi la possibilità che il difetto metabolico consista in una ridotta efficienza nell’utilizzo dell’energia. La scissione di ATP necessaria per la contrazione è opera di siti enzimatici posti sulle molecole di miosina. Esistono diverse forme di miosina e nel cuore scompensato o ipertrofico prevale la sintesi del tipo di miosina che possiede un’attività ATPasica meno rapida. Ciò, però, potrebbe essere un meccanismo compensatore, mirato a ottenere la massima quantità possibile di energia meccanica da ogni sin-
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gola molecola di ATP, a spese della velocità di contrazione. Vi è, infine, la possibilità che a livello molecolare un’alterazione fondamentale riguardi l’accoppiamento tra eccitazione e contrazione, mediato dal calcio intracellulare. Nel cuore insufficiente il reticolo sarcoplasmatico appare inefficiente nel recupero del calcio al termine della contrazione. Pertanto una quota del calcio che ha attivato le miofibrille viene assorbita dai mitocondri. All’eccitazione successiva, poco calcio è disponibile nel reticolo sarcoplasmatico per attivare la contrazione e questa dipende, perciò, in buona parte dal calcio proveniente dai mitocondri, i quali lo liberano però più lentamente. Ne risulta un flusso di calcio verso le miofibrille più esiguo e più lento, con depressione della forza e della velocità di contrazione, base dell’insufficienza sistolica. Inoltre l’inefficiente rimozione del calcio all’inizio della diastole rallenta il processo di rilassamento, o addirittura lo rende incompleto. Ne risulta un ostacolo al riempimento del ventricolo, base dell’insufficienza diastolica.
Fisiopatologia A. Meccanismi di adattamento sistemico. Le vie ultime comuni attraverso cui si manifesta un’insufficienza cardiaca sono due: ipoperfusione periferica e congestione venosa. Nei gradi lievi di scompenso queste condizioni si producono solo sotto sforzo intenso, nei casi più gravi possono comparire anche per sforzi lievi o a riposo. 1. Ipoperfusione periferica. Quando il cuore (a riposo o sotto sforzo) non riesce a pompare una quantità di sangue ossigenato sufficiente a soddisfare le esigenze metaboliche dei tessuti, si attivano alcuni meccanismi di compenso, che sono in realtà comuni a tutte le forme di insufficienza circolatoria, anche di origine non cardiaca. Innanzitutto si manifesta una maggior estrazione di ossigeno dal sangue arterioso che perfonde i tessuti. Ciò è facilitato da un aumento del 2,3 difosfoglicerato (2,3 DPG) negli eritrociti. Questa sostanza, prodotta dalla glicolisi, ha la proprietà di ridurre l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno. Il suo aumento quindi facilita la cessione di O2 ai tessuti periferici. Ne risulta una diminuzione della saturazione di O2 nel sangue venoso misto, che può ridursi dal normale 70% a meno del 55%. In secondo luogo, e soprattutto, si determina una ridistribuzione della gettata cardiaca. Il sistema nervoso simpatico viene attivato e in tal modo, oltre alla stimolazione adrenergica della frequenza e della contrattilità del cuore, si produce una vasocostrizione arteriolare in alcuni distretti, cute e visceri addominali soprattutto. In questo modo viene mantenuta una perfusione normale o quasi degli organi più nobili, cioè cuore e cervello, che hanno una regolazione autonoma delle resistenze vascolari, in gran parte indipendente dal tono simpatico sistemico e dagli effetti delle varie sostanze vasoattive circolanti che descriveremo di qui a poco.
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Il rene invece non viene protetto dall’ipoperfusione, che si traduce pertanto in una riduzione della pressione nelle arteriole renali che arrivano ai glomeruli. Ciò genera una complicata sequenza di eventi (Fig. 5.12) che dà come risultato una ritenzione di acqua e sodio. Nella risposta renale all’ipoperfusione riveste un ruolo centrale l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone (Cap. 1), che, oltre a produrre la ritenzione idrosalina, contribuisce a mantenere la vasocostrizione arteriolare. Inoltre, tanto la stimolazione -adrenergica quanto l’angiotensina II aumentano il trasporto di sodio nei tubuli prossimali. Per questa ragione, nei soggetti con scompenso cardiaco l’azione dell’aldosterone è più persistente rispetto a quelli normali, in quanto viene a mancare quel meccanismo di “sfuggita” all’azione di questo ormone che evita la formazione di edemi nell’iperaldosteronismo primitivo. In parallelo all’attivazione del sistema simpatico e del sistema renina-angiotensina si produce anche una maggiore liberazione, da parte dell’ipofisi, di arginina-vasopressina (ormone antidiuretico), che pure contribuisce alla vasocostrizione e alla ritenzione idrica. È importante ricordare che in questo caso la liberazione di arginina-vasopressina avviene per sollecitazioni sia osmotiche (aumento della pressione osmotica del liquido extracellulare conseguente alla ritenzione di sodio), sia non osmotiche. Infatti, la diminuzione del riempimento arterioso, che si può verificare nello scompenso cardiaco, viene avvertita dai barorecettori carotidei come un segnale di diminuzione del volume di fluido circolante, stimolando la produzione di arginina-vasopressina indipendentemente dalla pressione osmotica del liquido extracellulare. È perciò possibile che nello scompenso cardiaco si abbia iponatremia, che è un pessimo indicatore prognostico. La vasocostrizione, come si è detto, è utile per ridistribuire il flusso ematico verso gli organi vitali, ma comporta un aggravio di lavoro per il cuore (aumento del postcarico). Ciò puo instaurare un circolo vizioso verso il peggioramento dello scompenso. Per un cuore insufficiente, infatti, l’aumento delle resistenze periferiche (vasocostrizione) comporta un’ulteriore riduzione della portata cardiaca (Fig. 5.10); questa porta con sé la necessità di una maggiore vasocostrizione per ridistribuire il flusso insufficiente e così via. La base razionale per l’uso dei vasodilatatori arteriosi nella terapia dello scompenso consiste proprio nell’intento di interrompere tale circolo vizioso. E ciò vale soprattutto per i farmaci che inibiscono l’enzima convertitore dell’angiotensina I in angiotensina II, per il ruolo centrale svolto da tale sostanza vasoattiva nello scompenso. La ritenzione di sodio e acqua operata dal rene ipoperfuso è pure interpretabile come un meccanismo di compenso. Il sodio e l’acqua trattenuti espandono solo il volume del compartimento extracellulare dell’organismo, in quanto il sodio è espulso attivamente dalle cellule e l’acqua lo segue passivamente per gradiente osmotico. Il compartimento extracellulare comprende l’interstizio e il letto vascolare. Quindi la ritenzione idrosalina aumenta il volume ematico e il volume del li-
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che tendono a controbilanciare, almeno in parte, l’eccessiva e persistente vasocostrizione e la ritenzione di acqua e sodio. Il più importante è rappresentato dai peptidi natriuretici, sostanze vasoattive prodotte e liberate dalle cellule muscolari degli atri, dei ventricoli e della parete dei vasi in risposta a uno stiramento della parete delle cavità cardiache o ad un aumento dello stress longitudinale esercitato sui vasi (Cap. 1). I peptidi natriuretici producono, in via diretta, un potente effetto di vasodilatazione e di eliminazione di acqua e sali con le urine (natriuresi significa eliminazione di sodio con le urine): due azioni che tendono a riportare il volume atriale, e quindi il precarico, a valori più bassi. In aggiunta a ciò, i peptidi atriali frenano l’attività del sistema simpatico, della vasopressina e del sistema renina-angiotensina. Anche a livello renale vengono prodotte sostanze con effetto vasodilatatore, le prostaglandine, che contrastano in parte gli effetti dell’angiotensina sull’albero vascolare, ma contribuiscono a sostenere la filtrazione glomerulare quando il flusso renale si riduce a livelli critici, nelle fasi avanzate della malattia.
quido interstiziale. Per di più l’ipoperfusione, e quindi l’ipossia, inducono il rene a produrre eritropoietina, un ormone che stimola la maturazione midollare degli eritrociti: aumenta perciò anche la componente corpuscolata del volume ematico. Ciò avviene ovviamente solo quando l’ipoperfusione renale si mantiene per un tempo sufficientemente lungo. Il volume ematico totale influenza il riempimento ventricolare (precarico) e quindi il suo aumento tende a migliorare la prestazione cardiaca, almeno sino a che non si sia raggiunto il plateau della curva di Starling, che avviene più precocemente rispetto alla norma a seguito del rimodellamento ventricolare. Al di là di questo limite, l’espansione del volume ematico è solo dannosa. La base razionale per l’uso dei diuretici e dei vasodilatatori venosi nello scompenso consiste nell’intento di ridurre il volume ematico totale, o di ridistribuirlo verso la periferia, nei casi in cui ha superato i limiti utili per il miglioramento della prestazione cardiaca o rischia di produrre un’eccessiva trasudazione interstiziale (pericolosa soprattutto nei polmoni). Indipendentemente dagli interventi farmacologici, anche l’organismo prevede meccanismi di regolazione
Vasocostrizione simpatica Angiotensina II
Angiotensina II
Aumento delle resistenze periferiche
Cuore insufficiente
Ridotto metabolismo dell’aldosterone
Polmoni e plasma
Surrene Riduzione della pressione arteriosa o del flusso renale
Aumento dell’aldosterone circolante
Edema e ascite
Angiotensina II
Aumentata ritenzione di sodio e acqua Rene
Aldosterone
Fegato
Renina
Figura 5.12 - Ritenzione idrosalina renale. Lo scompenso produce una riduzione della perfusione renale. Ciò, attraverso l’attivazione del sistema renina-angiotensinaaldosterone, produce in ultima analisi una ritenzione di sodio e acqua, che è in gran parte responsabile di edemi e ascite. L’attivazione dell’angiotensina, per di più, contribuisce a mantenere la vasocostrizione periferica, che comporta un aggravio di lavoro per il cuore. Ciò può instaurare un circolo vizioso verso il peggioramento dello scompenso. Anche l’insufficiente irrorazione epatica, riducendo il metabolismo dell’aldosterone, può contribuire a mantenere elevata la ritenzione idrosalina.
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Un ultimo meccanismo di bilanciamento dei vari fattori neurormonali sinora citati è rappresentato dalla cosiddetta “down regulation” dei recettori specifici per ciascuno di essi: in termini generali, qualsiasi prolungata stimolazione di recettori, da parte di un ormone o di un neurotrasmettitore, comporta alla lunga una riduzione di numero o di sensibilità dei recettori stessi. È questo il motivo per cui, in corso di scompenso cronico, il cuore non risponde più al persistente aumento del tono simpatico con un adeguato incremento della contrattilità e della frequenza cardiaca. Lo stesso ottundimento di efficacia si verifica per tutti gli ormoni già ricordati, quando la loro iperstimolazione si protrae a lungo nel tempo. Oltre alla rete dei fattori neurormonali sistemici, nei vari organi e distretti vascolari agiscono altri fattori di regolazione locale, il cui studio è iniziato solo negli ultimi anni. I fattori locali più importanti sono quelli prodotti dalle cellule endoteliali, in primo luogo l’endotelina, un potente vasocostrittore che contribuisce a mantenere elevati valori di pressione soprattutto nel circolo polmonare, in corso di scompenso cardiaco come in altri stati patologici. Nelle fasi finali, agli altri meccanismi neurormonali si aggiunge un’elevata produzione di alcune citochine, in particolare il fattore di necrosi tumorale o cachessina, assai probabilmente responsabile del quadro di cachessia che si presenta nello scompenso terminale. Il risultato di questo complesso gioco di fattori neurormonali è un equilibrio continuamente mutevole, col progredire della malattia. In alcune fasi di relativo compenso, il sistema circolatorio riacquista un buon bilanciamento tra stimoli opposti; in altre, prevalgono invece, nettamente, i sistemi vasocostrittori di emergenza, a spese di un sovraccarico per il cuore già in difficoltà, e quindi di un ulteriore peggioramento della sua efficienza. 2. Congestione venosa. Si ha congestione venosa quando si verifica un aumento della pressione nelle grandi vene a monte delle cavità cardiache, che divengono insufficienti in corso di scompenso Questo aumento di pressione deriva da due fattori: a) diminuita efficienza della contrazione; b) ridistribuzione della massa sanguigna all’interno del corpo, che è una conseguenza del primo fatto. Il quale fatto, da solo, non sarebbe capace di produrre l’ipertensione venosa a monte. Per capire bene la questione, conviene partire da un modello semplice: una cavità cardiaca e la vena da cui affluisce il sangue che deve entrare nella cavità. La pressione nella vena è determinata dal prodotto del flusso sanguigno (portata) per la resistenza incontrata dal sangue (in questo caso, resistenza al deflusso di sangue dalla vena nella cavità). Ora, se a un certo momento il miocardio perde forza contrattile, diminuisce la frazione di eiezione, cioè, al termine della sistole, resta nella cavità più sangue del normale. Allora, se il sangue che arriva dalla vena fosse abbondante come il solito, dovrebbe distendere più del normale la cavità per potervi entrare: in questo caso aumenterebbe la resistenza e di conseguenza la pressio-
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ne nella vena. È per altro vero che, nell’atto stesso in cui diminuisce la frazione di eiezione, diminuisce la gettata sistolica, e quindi il ritorno venoso. Vale a dire che subito dopo che la cavità ha perso di contrattilità, diminuisce il flusso: e se il flusso diminuisce, pur aumentando la resistenza, non si hanno le condizioni perché aumenti la pressione. Con ciò si è dimostrato che il fattore primo (diminuita efficienza della contrazione) non può essere da solo causa dell’ipertensione venosa a monte della cavità cardiaca inefficiente. Adesso discutiamo il secondo fattore (ridistribuzione della massa sanguigna). Se il cuore diventa inefficiente e pompa meno sangue del normale, l’organismo mette in moto vari meccanismi di adattamento che servono, in sostanza, a riportare la gettata a valori prossimi al normale. In dettaglio si distinguono due tipi di adattamento generale: acuto e cronico. Quando lo scompenso si instaura acutamente (per es., in seguito a un infarto miocardico o ad una rottura valvolare) si verifica la già ricordata stimolazione del sistema simpatico con ridistribuzione della gettata cardiaca. Tra gli effetti di questa vi è una contrazione delle venule, con la cosiddetta centralizzazione della massa ematica. Il risultato netto è che una quota di sangue normalmente contenuto nelle venule viene trasferito nelle cavità cardiache. La cavità inefficiente viene perciò dilatata e, in forza della legge di Starling, migliora le sue prestazioni: la gettata pulsatoria risulta perciò diminuita solo moderatamente. Ma, in cambio, contenendo più sangue, questa cavità opporrà una resistenza ancora maggiore al suo riempimento diastolico di quanto avrebbe fatto in assenza di questo meccanismo compensatorio. Dei due fattori che determinano la pressione venosa a monte della camera inefficiente, uno, il flusso, sarà diminuito solo moderatamente, e l’altro, la resistenza, sarà aumentato in maniera notevole. Si spiega, perciò, perché la pressione venosa sarà aumentata a monte di una camera inefficiente. Quando lo scompenso si instaura cronicamente non vi sarà nemmeno più bisogno di questi meccanismi riflessi neurovegetativi per arrivare allo stesso risultato. Infatti sarà sufficiente l’espansione del volume ematico di cui si è già parlato ad incrementare la quantità di sangue presente nelle cavità cardiache e ad assicurare una maggiore dilatazione della camera cardiaca inefficiente. Ancora una volta si avrà (fintanto che ci si trova sulla fase ascendente della curva di Starling) un freno alla riduzione della gettata pulsatoria ed un aggravamento della resistenza che la camera cardiaca inefficiente oppone al suo riempimento diastolico. In aggiunta ai due fattori principali ora descritti, anche le proprietà delle cavità cardiache durante la diastole possono contribuire alla congestione venosa. Quando è presente un’ipertrofia da sovraccarico, oppure quando la causa dell’insufficienza cardiaca è un’ischemia miocardica, le pareti del ventricolo presentano spesso in diastole un ritardato rilasciamento e una ridotta distensibilità: entrambi i fatti producono un aumento della resistenza al riempimento della cavità ventricolare e quindi un aumento della pressione nell’atrio e nelle vene a monte.
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L’ostacolo al riempimento ventricolare, a sua volta, produce un’espulsione insufficiente alla sistole successiva, con tutti gli effetti già descritti sulla ridistribuzione della massa ematica: è questo il meccanismo dell’insufficienza diastolica, che si intreccia in varia misura con quella sistolica a determinare sia la congestione sia l’ipoperfusione. L’aumento di pressione negli atri, come abbiamo visto, costituisce lo stimolo per la liberazione dei peptidi natriuretici atriali, la cui azione tende quindi a contrastare, sin quando è possibile, l’insorgenza della congestione venosa. Al contrario, il sistema simpatico, la vasopressina, il sistema renina-angiotensina e l’endotelina tendono a facilitarla, attraverso i meccanismi descritti nel precedente paragrafo e anche attraverso il loro effetto lesivo diretto sul miocardio. Si può rilevare che il meccanismo di incremento della pressione venosa, che abbiamo descritto a proposito dello scompenso acuto, corrisponde a quel processo tradizionalmente descritto con il termine di scompenso retrogrado (perché gli eventi che lo determinano si svolgono a monte della cavità cardiaca inefficiente) e che il meccanismo che abbiamo descritto a proposito dello scompenso cronico corrisponde al processo tradizionalmente descritto con il termine di scompenso anterogrado (perché determinato in ultima analisi dall’ipoperfusione renale e cioè da eventi che si svolgono a valle della camera cardiaca inefficiente). Nella realtà, il meccanismo retrogrado e quello anterogrado sono per lo più variamente combinati tra loro e controbilanciati in parte dagli altri fattori di regolazione, come per esempio i peptidi natriuretici atriali. L’aumento della pressione venosa, per qualsiasi motivo si verifichi, si trasmette a monte sino ai capillari, dove produce alterazioni negli scambi di acqua e ioni. Come è noto, la parete dei capillari è impermeabile alle proteine e agli elementi corpuscolati del sangue, mentre lascia liberamente passare acqua, ioni e piccole molecole. Semplificando, gli scambi tra sangue e liquido interstiziale sono regolati dalla differenza tra la pressione idrostatica nei capillari (che tende a far uscire acqua verso l’interstizio) e la pressione osmotica del plasma (che tende a trattenere acqua nel letto vascolare). Via via che la pressione idrostatica nei capillari aumenta, sino a raggiungere o superare quella osmotica (che è in media di 25 mm di mercurio), la fuoriuscita di acqua verso l’interstizio diviene nettamente prevalente e si assiste alla formazione di edemi nei tessuti irrorati dai capillari. Il fatto che, come si è già accennato a proposito delle cause di scompenso, questo possa interessare prevalentemente una sola sezione del cuore ha notevoli conseguenze sul piano fisiopatologico. Infatti, se lo scompenso interessa il ventricolo e l’atrio sinistro, l’aumento di pressione venosa, la congestione e gli edemi si verificheranno nel circolo polmonare; se interessa il ventricolo e l’atrio destro, gli stessi processi patologici avranno luogo nella circolazione venosa sistemica. I sintomi e i segni saranno differenti (come si vedrà in seguito). Da questa considerazione nasce la distinzione scolastica tra scompenso sinistro e scompenso destro, distinzione che dev’essere accettata con molto spirito critico.
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Infatti l’aumento della pressione a monte del ventricolo sinistro costituisce di per sé un sovraccarico di lavoro per il ventricolo destro, che col tempo diviene a sua volta insufficiente nei casi più gravi. Invece, l’aumento di pressione nell’atrio destro provoca congestione delle vene coronarie e quindi riduce la distensibilità del ventricolo sinistro, causandone un’insufficienza diastolica. Infine, il miocardio dei due ventricoli è in realtà una struttura continua e le due camere sono separate da un setto comune: col tempo le alterazioni biochimiche e strutturali del miocardio insufficiente risultano omogeneamente distribuite in tutto il cuore. Per questi motivi, solo nei casi acuti o iniziali è possibile di norma distinguere uno scompenso del ventricolo sinistro da uno scompenso del ventricolo destro. Quando l’insufficienza è di vecchia data, lo scompenso riguarda in genere il cuore in toto. B. Principali disfunzioni di organi e apparati. Quando i meccanismi di compenso extracardiaci vengono sopraffatti dalla gravità dell’insufficienza cardiaca, diversi organi e apparati danno segni di sofferenza e non svolgono più adeguatamente le proprie funzioni. 1. L’ipoperfusione dei tessuti in genere produce acidosi, per l’aumento del metabolismo anaerobico che accompagna l’ipossia. 2. L’ipoperfusione del rene, oltre un certo limite, produce insufficienza renale, che, nei gradi estremi dello shock cardiogeno, arriva sino all’anuria completa. Anche nei casi più lievi si può riscontrare iperazotemia, iperpotassiemia, acidosi, ecc. 3. La congestione polmonare produce un’alterazione degli scambi gassosi, con ipossia. Ciò aggrava il quadro di insufficiente apporto di ossigeno ai tessuti. Per di più l’ipossia e l’acidosi peggiorano le prestazioni cardiache, avviando così un pericoloso circolo vizioso. Nei casi più gravi, quando si giunge all’edema alveolare, compare anche ipercapnia. 4. La congestione epatica (dovuta all’aumento di pressione venosa sistemica) associata alla ipoperfusione può condurre, nei casi gravi, alla necrosi centrolobulare, con le relative manifestazioni metaboliche di insufficienza epatica.
Clinica Tutti i sintomi e i segni che si presentano nel paziente scompensato sono riconducibili alla congestione venosa e all’ipoperfusione periferica. Segni e sintomi si sommano in vario modo a comporre i diversi quadri clinici, a seconda delle cause di base e scatenanti, della rapidità di insorgenza, della gravità, ecc. Deve, però, essere ricordato che una disfunzione sistolica del ventricolo sinistro può essere presente anche prima che i caratteristici sintomi e segni dello scompenso siano manifesti. Questo si verifica più facilmente in soggetti giovani con ipertensione o con pregresso infarto del miocardio. Recentemente, è stato suggerito
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che può essere utile, per riconoscere questa condizione, il dosaggio del peptide natriuretico B nel sangue. Come è già stato spiegato nel capitolo 1, questo peptide è prodotto dalla parete dei ventricoli quando aumenta al loro interno la pressione telediastolica. A. Sintomi. In questo paragrafo verranno esposti i sintomi dello scompenso, come si possono raccogliere durante l’anamnesi del paziente. Nel paragrafo successivo verranno poi esposti i segni, rilevabili con l’esame obiettivo, secondo l’ordine che si segue normalmente durante una visita. Per ogni sintomo e segno si farà un rapido cenno alla sua genesi (congestione venosa o ipoperfusione periferica). I sintomi principali riguardano il respiro, l’attività muscolare, le funzioni cerebrali, la quantità e il ritmo della diuresi. 1. La dispnea è il sintomo base dello scompenso. Consiste in una sensazione di sforzo o fatica per respirare più o meno associata ad una sensazione di fame d’aria, o mancanza di respiro. È la conseguenza della congestione polmonare che provoca edema interstiziale e riduce perciò la distensibilità dei polmoni. Ciò fa aumentare il lavoro dei muscoli respiratori, che sono per di più mal ossigenati per effetto dell’ipoperfusione periferica. Nei casi lievi o iniziali la dispnea si manifesta solo per sforzi intensi. Poi, col progredire della malattia, la dispnea compare anche per sforzi di minor entità e, alla fine, anche a riposo. Quando è grave, la dispnea si accompagna a tosse stizzosa. Sulla base dei rapporti tra dispnea e sforzo, è stata proposta anni fa, dalla New York Heart Association (NYHA), una classificazione funzionale dei pazienti cardiopatici. Tale classificazione ha avuto una notevole diffusione e merita quindi di essere conosciuta: la illustra la tabella 5.2. L’ortopnea è la necessità di mantenere il torace in posizione eretta per evitare l’insorgenza della dispnea. La posizione supina aumenta il ritorno venoso al cuore e quindi peggiora la congestione polmonare. Molti cardiopatici dormono perciò con due o più cuscini e si svegliano dispnoici se, durante il sonno, scivolano in posizione orizzontale. Questi episodi di dispnea parossistica notturna possono essere più o meno gravi. Il paziente si mette a sedere sul letto con i piedi penzoloni, o addirittura in poltrona. Oppure si porta alla finestra alla ricerca d’aria. Tossisce
stizzosamente e ha un respiro sibilante. L’edema interstiziale infatti comprime i bronchioli, provocando un aumento delle resistenze delle vie aeree (asma cardiaco). La scomparsa dei sintomi avviene rapidamente, con la posizione eretta, nei casi lievi; più lentamente nei casi gravi, che rappresentano un quadro di passaggio verso l’edema polmonare vero e proprio. Alcuni pazienti con grave scompenso cronico sono talvolta costretti a trascorrere intere notti seduti per evitare la dispnea. Oltre alla posizione supina, altri fattori contribuiscono durante la notte a facilitare la comparsa della dispnea. La depressione del centro del respiro, che provoca ipossia, e la riduzione del tono simpatico, che priva il miocardio di uno stimolo importante, sono forse i più importanti di tali fattori. Sta di fatto che la maggior parte degli episodi di dispnea parossistica non da sforzo e quasi tutti gli edemi polmonari si verificano durante la notte. L’edema polmonare (Fig. 5.13) vero e proprio si manifesta quando la congestione polmonare è tale da provocare, oltre all’edema interstiziale, anche edema alveolare. Compaiono, allora, alterazioni del respiro più gravi della dispnea. La tosse si accompagna a escreato schiumoso che, nei casi più gravi, assume una caratteristica sfumatura rosata. L’alterazione degli scambi gassosi, producendo ipossia, fa sì che il respiro divenga frequente e superficiale (tachipnea). La comparsa di ipercapnia grave comporta infine una ridotta sensibilità del centro del respiro che si manifesta con la comparsa di respiro periodico (di Cheyne-Stokes), crisi di apnea e, alla fine, arresto del respiro.
Vasi linfatici
Vene
Spazi perivascolare e interstiziale
Alveoli Capillari
H2O
Lamina di surfattante
Alveoli Pressione idrostatica Pressione osmotica
Endotelio capillare Membrana basale
Capillari Pneumocito di primo ordine Pneumocito di secondo ordine
Tabella 5.2 - Classificazione funzionale dei pazienti cardiopatici secondo la NYHA (New York Heart Association). • Classe I • Classe II • Classe III • Classe IV
Pazienti cardiopatici senza sintomi Pazienti cardiopatici che stanno bene a riposo e hanno sintomi (dispnea o altro) solo per sforzi di intensità ordinaria Pazienti cardiopatici che stanno bene a riposo e hanno sintomi anche per sforzi di intensità inferiore all’ordinaria Pazienti cardiopatici con sintomi anche a riposo
Versante Versante sottile spesso Setto interalveolare Assorbimeto fisiologico di liquido dai polmoni
Figura 5.13 - Meccanismo dell’edema polmonare. Quando il liquido si forma in eccesso nell’interstizio polmonare, per aumento della pressione idrostatica nelle estremità venose dei capillari, non può essere smaltito per via linfatica e trasuda negli alveoli.
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2. I sintomi relativi all’attività muscolare consistono in debolezza e facile affaticabilità, e sono secondari all’ipoperfusione dei muscoli. 3. I sintomi cerebrali compaiono solo nei gradi estremi di riduzione della portata cardiaca, oppure quando coesistono gravi alterazioni vascolari cerebrali. Normalmente infatti l’autoregolazione del flusso ematico cerebrale protegge l’encefalo dall’ipoperfusione. Quando si manifestano, i sintomi cerebrali dello scompenso consistono in perdita di memoria, difficoltà di concentrazione, insonnia e ansietà nei casi cronici. Nei casi acuti (edema polmonare e shock cardiogeno), si osservano confusione mentale, agitazione, sonnolenza e infine coma. 4. Nelle fasi iniziali dello scompenso vi è nicturia, cioè un aumento relativo della diuresi nelle ore notturne. Durante le ore diurne di attività muscolare l’ipoperfusione del rene è più accentuata, per cui la diuresi è scarsa. Con il riposo notturno la vasocostrizione diminuisce e la funzione renale migliora: la diuresi aumenta per smaltire anche il liquido accumulato durante la giornata. Nelle fasi più avanzate dello scompenso l’ipoperfusione renale è costante e produce oliguria (meno di 500-600 ml nelle 24 h) con aumento dell’azotemia e della creatininemia. Quando la gettata cardiaca è gravemente ridotta (shock cardiogeno), si giunge all’anuria completa. B. Segni. L’esame fisico del paziente con scompenso cardiaco permette di rilevare segni a carico dell’apparato cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del fegato e dell’addome, della cute, della diuresi. 1. La pressione arteriosa nei casi acuti è quasi sempre elevata, soprattutto la diastolica, per effetto della violenta vasocostrizione arteriolare (meccanismo compensatorio dell’ipoperfusione). Quando però la gettata sistolica è molto ridotta, anche la pressione (che equivale al prodotto della gettata per le resistenze) necessariamente scende, soprattutto la sistolica e la differenziale, sino a raggiungere valori minimi nello shock cardiogeno. Nei casi cronici, se non sussiste ipertensione per altre cause, la pressione è abitualmente normale o modestamente ridotta, soprattutto la sistolica e la differenziale. Quando la pressione differenziale è ridotta, il polso risulta piccolo e, di solito, frequente. Misurando la pressione con lo sfigmomanometro, si può rilevare anche la presenza di un polso alternante, che nei casi più evidenti si può apprezzare anche con la semplice palpazione dei polsi periferici. Il polso alternante consiste nell’alternarsi regolare di contrazioni cardiache energiche e deboli, per cui un’onda sfigmica debole segue regolarmente un’onda sfigmica più energica. È un segno di insufficienza cardiaca che si presenta più frequentemente nelle malattie del miocardio, primitive o secondarie. La pressione venosa centrale è solitamente elevata nello scompenso, salvo nei casi di insufficienza ventricolare sinistra pura iniziale. L’aumento è particolarmen-
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te spiccato nell’insufficienza ventricolare destra, ed è una manifestazione della congestione venosa sistemica. La pressione venosa centrale si valuta osservando il grado di turgore delle vene giugulari in posizione semiseduta (a 45°). In questa posizione le giugulari sono solo parzialmente distese, quando la pressione venosa è normale. Per una migliore valutazione conviene svuotare la giugulare facendovi scorrere due dita, una in senso craniale e l’altra in senso caudale, e lasciando poi riempire la vena solo dal basso (cioè mantenendo una pressione solo sul dito craniale). Se la vena si riempie sino in cima o quasi, la pressione venosa è aumentata. Una misura più precisa richiede l’inserimento di un sottile catetere da una vena periferica sino all’atrio destro (misura della pressione venosa centrale o PVC). Ciò si fa comunemente per monitorare il riempimento venoso nei pazienti gravemente compromessi, ricoverati in ospedale. 2. L’esame della cute nel paziente scompensato permette di valutare la vasocostrizione e l’edema. Quando la costrizione dei vasi cutanei (meccanismo compensatorio dell’ipoperfusione periferica) è intensa, la cute appare pallida, fredda e umida di sudore. Le estremità sono cianotiche. Ai gradi estremi di vasocostrizione il pallore cutaneo appare diffusamente marezzato di aree cianotiche, soprattutto agli arti. L’edema, dopo la dispnea, è una manifestazione cardinale dello scompenso. Come si è detto, esso non è solo il risultato dell’aumento di pressione nelle vene e nei capillari sistemici, ma anche e soprattutto della ritenzione idrosalina operata dal rene per effetto dell’ipoperfusione. In pazienti con scompenso puramente sinistro prolungato vi può essere edema in assenza di congestione venosa sistemica. All’inverso, in casi di scompenso destro insorto acutamente l’edema è inizialmente assente, nonostante un aumento notevole della pressione venosa sistemica. Ciò avviene perché è necessario un aumento minimo di 5 l del volume di liquido extracellulare prima che si manifesti un edema periferico: perché ciò avvenga, sono necessari alcuni giorni. L’edema compare, simmetricamente, prima nelle parti declivi, dove la pressione venosa è più elevata. Quindi nei soggetti che durante il giorno si muovono compare prima ai piedi e alle caviglie, e viene riassorbito durante la notte. Nei pazienti costretti a letto invece l’edema compare prima in regione sacrale. Per evidenziarlo è necessario comprimere l’area edematosa con un dito per rilevare il segno della fovea, cioè l’impronta del dito che scompare lentamente. Col tempo l’edema provoca indurimento della cute, con formazione di macchie brune o rossastre, soprattutto sul dorso del piede e alle caviglie. Solo in casi di grave scompenso prolungato l’edema può divenire generalizzato (anasarca), coinvolgendo gli arti superiori, il torace, l’addome e soprattutto i genitali. Nei bambini può esservi edema alla faccia, raro negli adulti per cause cardiache. 3. L’esame del cuore rivela, ovviamente, i segni relativi alla cardiopatia che sta alla base dello scompenso.
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In aggiunta possono essere presenti i segni di dilatazione cardiaca (salvo che nei casi insorti acutamente), oppure di dilatazione isolata del ventricolo sinistro o del ventricolo destro. La frequenza cardiaca è solitamente elevata (per effetto dell’ipertono simpatico) e all’ascoltazione è spesso presente un ritmo particolare, detto di galoppo. Il galoppo può essere dovuto alla presenza di un III tono cardiaco (galoppo protodiastolico), che è fortemente indicativo di insufficienza miocardica. Il III tono è prodotto dalla brusca decelerazione del riempimento ventricolare, al termine della parte iniziale della diastole. Il III tono è presente fisiologicamente solo nei bambini e nei giovani, mentre nell’età adulta è sempre patologico. Si rende udibile quando il flusso di sangue che riempie il ventricolo in diastole è aumentato (insufficienza della valvola mitralica o della valvola tricuspide oppure shunt sinistro-destro), oppure quando è ridotta la distensibilità delle pareti ventricolari, come avviene appunto nello scompenso o nella pericardite costrittiva (in quest’ultimo caso prende il nome di “knock pericardico”). Quindi, se si ascolta un III tono in una persona adulta e si possono escludere le altre possibili cause elencate (insufficienze atrioventricolari, shunt, pericardite) si deve concludere che esiste una condizione di insufficienza cardiaca. Il III tono è un rumore di tonalità molto bassa, che si ascolta meglio in area apicale col paziente inclinato sul fianco sinistro, quando origina dal ventricolo sinistro; quando origina dal ventricolo destro, si ascolta meglio in regione parasternale sinistra al IV o V spazio intercostale col paziente supino. Altri segni ascoltatori cardiaci dello scompenso possono essere l’intensificazione della componente polmonare del II tono (per l’aumento delle pressioni polmonari) o la comparsa di soffi olosistolici da insufficienza valvolare mitralica o tricuspidale (in conseguenza alla dilatazione delle rispettive camere ventricolari). 4. L’esame del torace può risultare normale nei casi di scompenso lieve. Quando l’aumento della pressione nelle vene e nei capillari polmonari provoca trasudazione di liquido nel tessuto polmonare, si cominciano ad ascoltare rumori umidi in corrispondenza delle due basi polmonari posteriormente. Questi rumori si definiscono come rantoli crepitanti e accompagnano l’inspirazione, tipicamente non si modificano dopo i colpi di tosse a differenza dei rantoli di origine bronchiale. Quando l’edema interstiziale e la congestione della mucosa bronchiale comprimono le vie aeree terminali, si possono ascoltare anche ronchi e sibili (asma cardiaco). Con l’aumento dell’edema alveolare i rantoli divengono sempre più grossolani e si diffondono progressivamente su tutti i campi polmonari (marea montante), accompagnati da escreato schiumoso ed eventualmente rosato. Nello scompenso cronico, l’aumento della pressione nei capillari pleurici (che drenano sia nel sistema venoso sistemico sia in quello polmonare) determina talvolta un versamento pleurico, più frequentemente a destra (idrotorace).
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5. L’esame dell’addome può mettere in evidenza un aumento di dimensioni del fegato e ascite. L’aumento della pressione venosa sistemica, nello scompenso destro o globale, provoca congestione delle vene epatiche e quindi epatomegalia. Se l’aumento di volume è acuto, l’organo risulta dolente alla palpazione. In alcuni casi una compressione sostenuta sul fegato fa comparire una distensione giugulare prima inapparente: questo segno prende il nome di “reflusso epatogiugulare”. Se la congestione epatica si prolunga, la compressione prodotta dalle venule sugli epatociti produce atrofia centrolobulare con segni clinici e di laboratorio di insufficienza epatica (ittero, iperbilirubinemia, alterazioni enzimatiche, ecc.). Quando la congestione venosa sistemica e l’epatomegalia sono gravi e prolungate, si può manifestare anche splenomegalia. L’ascite (come il versamento pleurico) è provocata da un prolungato aumento della pressione nelle vene epatiche e nei capillari peritoneali. Si manifesta più frequentemente nei casi di scompenso destro da ostruzione al riempimento cardiaco (stenosi della tricuspide o pericardite). Si è detto che, scolasticamente, è possibile distinguere uno scompenso sinistro e uno scompenso destro a seconda della prevalente localizzazione della congestione venosa (nel circolo polmonare o nel circolo sistemico). Nella tabella 5.3 sono riepilogati i sintomi e i segni descritti precedentemente con un riferimento alla loro patogenesi. Per completare l’esame del paziente scompensato, è spesso necessaria una radiografia del torace, che fornisce due importanti informazioni: la prima riguarda le dimensioni del cuore, la seconda la presenza e il grado della congestione polmonare. Le dimensioni del cuore si valutano calcolando il rapporto cardiotoracico, cioè il rapporto tra il diametro trasversale dell’ombra cardiaca e il diametro trasversale del torace a livello dei seni costofrenici: normalmente il diametro cardiaco non supera la metà di quello toracico (Fig. 5.14). La congestione polmonare si manifesta con quadri di gravità crescente. Quando la pressione nei capillari polmonari è solo leggermente aumentata (da 13 a 18 mmHg; normalmente non supera i 10 mmHg) si osserva solo la cosiddetta inversione di circolo: in altre parole risultano maggiormente evidenti i vasi venosi nei campi polmonari superiori, normalmente meno visibili rispetto a quelli dei campi inferiori. Se la pressione capillare è più alta (sino a 23 mmHg), si allarga l’opacità ilare e i contorni dei vasi perdono di nitidezza, per l’edema interstiziale perivascolare. Quando la pressione capillare aumenta oltre i 25 mmHg, si formano immagini di opacità parenchimale, più o meno diffuse e confluenti, dovute alla presenza di edema alveolare vero e proprio. C. Clinica. Le manifestazioni cliniche descritte si possono sommare tra loro in modo molto differente da paziente a paziente. Nonostante ciò è utile, a scopo didattico, delineare alcuni quadri clinici tipici, che si presentano con maggior frequenza nella pratica.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Tabella 5.3 - Patogenesi prevalente dei sintomi e dei segni dello scompenso cardiaco.
DA ALTERATA FUNZIONE MIOCARDICA
SINTOMI E SEGNI
Dispnea, ortopnea, crisi dispnoiche parossistiche Astenia Sintomi cerebrali Oliguria, nicturia Polso alternante Aumento PVC Pallore Edemi periferici Ritmo di galoppo Rantoli crepitanti Idrotorace Epatomegalia, ascite
DA IPOPERFUSIONE PERIFERICA
DA CONGESTIONE VENOSA NELLA CIRCOLAZIONE POLMONARE (1)
DA CONGESTIONE VENOSA NELLA CIRCOLAZIONE SISTEMICA (2)
+
+ + + + + + +
+
+ + +
+ +
(1) Sintomi e segni propri del cosiddetto scompenso sinistro. (2) Sintomi e segni propri del cosiddetto scompenso destro, che però, spesso, è concomitante con quello sinistro o lo segue.
Si illustreranno i quadri dell’insufficienza cardiaca cronica, dell’edema polmonare, dello shock cardiogeno, dello scompenso ad alta gettata.
dcd dcs
dt
Rapporto cardiotoracico =
dcd + dcs dt
Figura 5.14 - Rapporto cardiotoracico. Il rapporto cardiotoracico è il rapporto tra il diametro trasversale dell’ombra cardiaca e il diametro trasversale toracico a livello dei seni costofrenici. Il diametro trasverso cardiaco si misura sommando due emidiametri, destro e sinistro, ciascuno teso orizzontalmente tra la linea mediana e il punto più sporgente della silhouette cardiaca, come indicato nella figura (dcd è l’emidiametro cardiaco destro, dcs il sinistro; dt il diametro toracico). Normalmente il rapporto cardiotoracico è inferiore a 1/2, cioè il diametro cardiaco non supera la metà di quello toracico.
1. L’insufficienza cardiaca cronica si instaura lentamente, nel corso di mesi o anni. Le cause più frequenti sono malattie del miocardio o sovraccarichi cronici di pressione o di volume. Inizialmente i sintomi e i segni possono essere prevalentemente sinistri o destri, ma col tempo lo scompenso tende a divenire globale. I sintomi principali sono la dispnea (con i vari gradi di gravità della scala NYHA; Tab. 5.2) e gli edemi. Il paziente impara a convivere con la propria insufficienza cardiaca: limita l’attività, dorme con più cuscini, assume su base cronica diuretici, digitalici e vasodilatatori. Una terapia adeguata consente alla maggioranza dei pazienti di condurre una vita relativamente normale. Vi possono però essere aggravamenti improvvisi del quadro clinico, dovuti a cause precipitanti che alterano l’equilibrio raggiunto dal paziente, imponendo al cuore un carico supplementare. L’aggravamento può manifestarsi col passaggio a una classe funzionale (NYHA) più compromessa o con la comparsa di un quadro acuto di edema polmonare. In ogni caso è importante individuare la causa che ha determinato l’aggravamento, perché spesso si tratta di condizioni reversibili con adeguata terapia. Le principali cause precipitanti sono le seguenti. • Infezioni. La congestione polmonare predispone alle infezioni ricorrenti delle vie respiratorie. D’altra parte qualsiasi flogosi (con febbre, tachicardia, aumento delle richieste metaboliche dell’organismo) può favorire un aggravamento dello scompenso. • Aritmie. La comparsa di aritmie è un evento frequente nei pazienti portatori di cardiopatia di qualsiasi natura, e spesso l’aritmia fa precipitare uno scompenso
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cardiaco in equilibrio instabile. Nelle aritmie tachicardiche (ipercinetiche) si riduce troppo la durata della diastole, cosicché il riempimento ventricolare risulta insufficiente; in quelle bradicardiche (ipocinetiche) per mantenere la portata cardiaca a valori sufficienti la gettata sistolica dovrebbe aumentare al di sopra delle possibilità del ventricolo insufficiente. Inoltre spesso le aritmie comportano una dissociazione tra attività atriale e ventricolare, con perdita dell’apporto atriale al riempimento ventricolare. Infine, nelle aritmie ventricolari si perde la normale sincronizzazione della contrazione miocardica, con ulteriore perdita di efficacia. Ipertensione. La cardiopatia ipertensiva è una delle cause più frequenti di insufficienza cardiaca cronica. In questi pazienti possono verificarsi bruschi aumenti della pressione arteriosa, che fanno precipitare un aggravamento dello scompenso. Embolia polmonare. La formazione di trombi nelle vene degli arti inferiori e della pelvi è favorita dalla stasi e dall’inattività fisica. Tali trombi possono causare un’embolia polmonare, che comporta per il ventricolo destro un aumento del carico di lavoro tale da far precipitare un aggravamento dello scompenso. Stress fisico, psichico, alimentare, ambientale. Ogni brusco cambiamento delle condizioni di vita che comporti per il cuore un sovraccarico di lavoro (caldo, freddo, eccesso di sale nella dieta, emozione, superlavoro, ecc.) può far precipitare uno scompenso. Gravidanza. L’aumento della portata cardiaca che si produce durante la gestazione è talvolta la causa del primo manifestarsi di un’insufficienza cardiaca prima in equilibrio instabile. Spesso il compenso torna dopo il parto. Malattie cardiache. Il sovrapporsi di una nuova malattia cardiaca (infarto miocardico, endocardite infettiva, miocardite reumatica) alla cardiopatia di base fa precipitare, spesso catastroficamente, un’insufficienza cardiaca in equilibrio instabile. Anemia e tireotossicosi. Come la gravidanza, queste due condizioni patologiche inducono la necessità di un’aumentata portata cardiaca, imponendo al cuore insufficiente un sovraccarico di lavoro intollerabile.
Se il paziente supera la crisi acuta e la causa precipitante può essere eliminata, è spesso possibile recuperare il precedente stato di equilibrio. Oltre alla terapia dello scompenso, si dovranno però prendere provvedimenti per evitare che la causa o le cause precipitanti possano recidivare. Col tempo, però, le condizioni cliniche si aggravano, sino a condannare spesso a un quadro finale di cachessia, con perdita di peso e anoressia; una condizione indotta dall’aumentata produzione di alcune citochine, soprattutto fattore di necrosi tumorale, nelle fasi terminali dello scompenso. 2. L’edema polmonare è un’emergenza medica. Può essere il quadro di esordio di uno scompenso acuto o un episodio di aggravamento nel corso della storia naturale di un’insufficienza cardiaca cronica. Il paziente si presenta seduto sul letto, agitato, fortemente dispnoico e tachipnoico, con respiro rumoroso e
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gorgogliante. A volte il paziente lamenta anche dolore retrosternale: la causa scatenante dell’edema polmonare può essere un infarto miocardico, oppure, all’inverso, l’ipossia causata dall’edema può provocare una crisi anginosa in un portatore di cardiopatia ischemica. La cute del paziente in edema polmonare è fredda, sudata, cianotica alle labbra e alle estremità. Il polso è duro e tachicardico, la pressione è elevata, soprattutto la diastolica, con riduzione della differenziale. Si ascoltano rantoli inspiratori su tutti i campi polmonari; l’espirio è prolungato con sibili e ronchi. Il paziente tossisce un espettorato schiumoso, talvolta rosato. La diuresi è scarsa. Sono presenti acidosi (metabolica e respiratoria), ipossia e spesso ipercapnia. Se non si interviene con un trattamento tempestivo, l’edema polmonare tende a peggiorare progressivamente sino all’arresto del respiro, oppure si evolve verso lo shock (caduta della pressione) e l’arresto di circolo, con esito fatale. L’edema polmonare si manifesta quando la pressione nei capillari polmonari aumenta al di sopra dei 25 mmHg, per cui l’equilibrio tra pressione idrostatica e pressione oncotica (circa 25 mmHg) favorisce la trasudazione di liquido nell’interstizio e negli alveoli. Ne segue una compromissione della funzione polmonare, sia meccanica (ventilazione) sia dello scambio gassoso. L’ipossia e l’acidosi che ne derivano mettono in moto un circolo vizioso: provocano un ulteriore peggioramento della funzione cardiaca, con riduzione della portata e ancora aumento delle pressioni capillari polmonari. In senso anterogrado la riduzione della portata cardiaca attiva un altro circolo vizioso. Stimola il sistema adrenergico che, attraverso la vasocostrizione cutanea, muscolare e splancnica, tende a mantenere la perfusione cerebrale e cardiaca. Questo spiega la tachicardia, l’ipertensione, l’aspetto cutaneo e la contrazione della diuresi. L’aumento delle resistenze vascolari periferiche comporta però un aumento del carico di lavoro per il cuore insufficiente e quindi tende a peggiorare la prestazione cardiaca: ciò comporta un’ulteriore riduzione della portata cardiaca e quindi un aumento della vasocostrizione compensatoria e così via, sino a quando la portata cardiaca crolla al di sotto dei valori minimi necessari per mantenere una normale perfusione cardiaca e cerebrale. Si ha allora ipotensione, shock, arresto di circolo e di respiro, morte. Il corretto trattamento dell’edema polmonare deve perciò mirare a interrompere i due circoli viziosi principali: correggere l’ipossia e l’acidosi e ridurre la vasocostrizione periferica eccessiva. 3. Lo shock cardiogeno è la condizione estrema, preterminale, dell’insufficienza cardiaca (per la trattazione dello shock circolatorio si rimanda al Cap. 4). Può essere il quadro di esordio, soprattutto in caso di infarto miocardico, oppure la fase terminale di uno scompenso cardiaco in rapido peggioramento. Il paziente è disteso sul letto, semicosciente o in stato confusionale, spesso con dolore retrosternale (se vi è una sottostante cardiopatia ischemica), non necessariamente dispnoico. La cute è molto fredda e sudata, con
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ampie aree marezzate da sfumature cianotiche. I polsi radiali sono spesso imprendibili, i carotidei e femorali sono molli, piccoli e frequenti; la pressione è bassa o addirittura non misurabile. Spesso non sono presenti segni evidenti di congestione polmonare. La diuresi è molto scarsa o assente. È presente grave acidosi metabolica. Anche in caso di trattamento tempestivo e intensivo, il paziente con shock cardiogeno si evolve spesso verso l’arresto di circolo e la morte. Lo shock cardiogeno si manifesta quando la portata cardiaca scende al di sotto dei valori minimi necessari a mantenere la funzione degli organi vitali. In valori assoluti ciò accade frequentemente quando il cuore pompa meno di 2 l/min/m2 di superficie corporea (il rapporto tra portata cardiaca e superficie corporea consente meglio di valutare l’adeguatezza del flusso circolatorio e prende il nome di indice cardiaco, espresso in l/min/m2). La grave riduzione della portata cardiaca consegue abitualmente alla perdita funzionale di almeno il 40% della massa miocardica, spesso per un infarto miocardico, o ad altre rilevanti alterazioni della meccanica cardiaca (rotture di setto, di apparati valvolari, ecc.). La violenta vasocostrizione che si innesca per mantenere la perfusione degli organi nobili (cervello e cuore), unita all’ipossia e all’acidosi, finisce per compromettere irreversibilmente anche il circolo periferico (arteriole, capillari, venule) con gravi alterazioni della permeabilità e della contrattilità vascolari. Si ha allora un sequestro di massa ematica in periferia (per fuoriuscita di liquido nello spazio interstiziale e per dilatazione paralitica dei vasi) che compromette il riempimento cardiaco e riduce ulteriormente la portata, sino all’arresto di circolo. Prima che ciò avvenga (fase irreversibile di shock), la terapia deve tentare di interrompere, con vari mezzi farmacologici o meccanici che si vedranno nel paragrafo successivo, il circolo vizioso tra riduzione della portata cardiaca, vasocostrizione e alterazioni del microcircolo. 4. Lo scompenso ad alta gettata si manifesta quando l’organismo richiede, per vari motivi, un flusso ematico superiore al normale a cui il cuore non è in grado di far fronte. In pratica, per aumentare la gettata in risposta alle richieste dell’organismo il cuore è sottoposto a un sovraccarico di volume, simile a quello che si verifica, per esempio, nelle insufficienze valvolari. In alcuni casi, inoltre, la stessa condizione patologica che fa aumentare le richieste dell’organismo compromette anche la funzione miocardica in via diretta. Le condizioni più frequenti di scompenso ad alta gettata sono le seguenti. • Ipertiroidismo: l’aumentato metabolismo tissutale richiede un aumento della gettata cardiaca. Per di più la tireotossicosi compromette in via diretta anche il metabolismo cardiaco e modifica il tipo di proteine che costituiscono l’apparato contrattile, favorendo la sintesi di forme che comportano una contrazione più rapida ma energeticamente dispendiosa. Non sempre i segni clinici di ipertiroidismo sono evidenti; biso-
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gna sospettarne la presenza soprattutto quando sono presenti tachicardia o tachiaritmia atriale refrattarie alla terapia consueta dello scompenso. Il ripristino dell’eutiroidismo fa regredire lo scompenso, a meno che non vi sia una sottostante cardiopatia di cui l’ipertiroidismo è solo un fattore aggravante. • Anemia: per mantenere un normale trasporto di ossigeno in presenza di anemia è necessario un aumento di flusso. L’ipossia miocardica che l’anemia può comportare riduce inoltre le prestazioni miocardiche. Spesso sono presenti soffi sistolici, dovuti alla coincidenza di due fattori: ridotta viscosità del sangue e aumentata velocità di eiezione. • Fistole arterovenose: una quota del sangue pompato dal cuore non attraversa i capillari tissutali, ma passa direttamente dal circolo arterioso a quello venoso; per mantenere la perfusione la gettata deve aumentare. Si ha una condizione del genere anche nel morbo di Paget, per la presenza di un aumento del flusso ematico a livello osseo. • Beri-beri o alcolismo: in caso di grave deficit di tiamina, oltre ai disturbi nervosi periferici, si può manifestare uno scompenso da sovraccarico di volume. Il deficit vitaminico comporta infatti una notevole vasodilatazione periferica che fa aumentare il ritorno venoso e quindi la gettata cardiaca; d’altra parte il deficit di tiamina compromette anche direttamente il metabolismo miocardico, riducendo la produzione di energia per la contrazione. In realtà il beri-beri è raro in Occidente, mentre più frequente è una forma mista di scompenso in alcolisti cronici: in questi pazienti si mescolano in vario grado gli effetti tossici diretti dell’alcool sul miocardio (cardiomiopatia alcolica) con gli effetti del deficit nutrizionale, tra cui la carenza di tiamina con il sovraccarico di volume che essa comporta. Se la sospensione dell’assunzione di alcool avviene prima che il danno miocardico divenga irreversibile, vi può essere un notevole miglioramento delle condizioni cliniche. D. Principi di terapia. In questo paragrafo si illustrano esclusivamente le misure terapeutiche che mirano a ripristinare una situazione di compenso circolatorio in un paziente con insufficienza cardiaca. Gli interventi medici o chirurgici diretti a correggere le cardiopatie di base (coronaropatia, vizi valvolari, cardiopatie congenite, ecc.) e le misure dirette a prevenire o eliminare eventuali cause precipitanti dello scompenso (infezioni, aritmie, embolie, ecc.) sono invece trattati nei relativi capitoli. La terapia dello scompenso cardiaco si fonda su quattro pilastri: riposo e norme igieniche di vita; farmaci che riducono il precarico (diuretici e vasodilatatori venosi); farmaci che riducono il postcarico (vasodilatatori arteriosi); farmaci che contrastano il rimodellamento del miocardio. In passato si erano riposte molte speranze sulla disponibilità di farmaci in grado di aumentare la contrattilità del miocardio (farmaci inotropi), ma, come vedremo, questo è un obiettivo difficile. Di questo problema parleremo, tuttavia, prima di affrontare le altre possibilità di intervento farmacologico.
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2. Farmaci inotropi. Nello scompenso la contrattilità miocardica intrinseca è sempre insufficiente, in assoluto o relativamente al carico di lavoro che il cuore deve sopportare. Perciò una delle pietre miliari della terapia sarebbero i farmaci che stimolano l’inotropismo, soprattutto catecolamine e glicosidi digitalici. Le catecolamine spostano la curva di funzione ventricolare in alto a sinistra. In altre parole, per un determinato livello di precarico (riempimento) il cuore pompa di più; oppure il cuore può pompare la stessa quantità di sangue con un riempimento inferiore (Fig. 5.15). L’aumento del tono adrenergico e un normale meccanismo di compenso nel cuore insufficiente. A lungo andare però le scorte di noradrenalina nelle terminazioni nervose miocardiche si riducono (sino al 10% del normale) e la stimolazione inotropa del cuore diviene dipendente soprattutto dal livello di catecolamine circolanti, che permane elevato. Queste catecolamine circolanti sono in parte di origine extracardiaca (soprattutto surrenalica) e hanno lo svantaggio di indurre una vasocostrizione periferica che impone al cuore un carico di lavoro maggiore. Per questo motivo può essere razionale stimolare l’inotropismo cardiaco con catecolamine esogene, come dopamina, dobutamina o isoproterenolo, che comportano una vasocostrizione periferica minore rispetto a noradrenalina o adrenalina endogene. Dopamina o dobutamina facilitano anzi, selettivamente, la perfusione renale, migliorando la diuresi. Tutte le catecolamine a livello cardiaco agiscono stimolando i recettori -adrenergici e quindi aumentando il flusso di Ca++ verso le miofibrille (come è spiegato nel paragrafo sulla fisiopatologia della contrazione cardiaca). Contemporaneamente però aumentano anche la
frequenza cardiaca e l’eccitabilità miocardica, facilitando l’insorgenza di aritmie. Inoltre, le catecolamine aumentano anche il consumo miocardico di O2 con possibili effetti disastrosi in caso di ischemia. Per questi motivi, le catecolamine vengono impiegate solo per brevi periodi in casi particolarmente gravi e con somministrazione endovena, quasi esclusivamente per il trattamento dello shock cardiogeno. Anche i glicosidi digitalici spostano in alto e a sinistra la curva di funzione ventricolare dei pazienti scompensati. Essi agiscono bloccando la pompa sodiopotassio dipendente da ATP delle fibre miocardiche, con l’effetto ultimo di aumentare la disponibilità di calcio intracellulare per la contrazione. Oltre a ciò, i glicosidi digitalici riducono la frequenza cardiaca e la conduzione atrioventricolare (soprattutto per aumento del tono vagale) e stimolano in via diretta una discreta vasocostrizione periferica, soprattutto se sono somministrati rapidamente. Questo ultimo effetto, di per sé negativo nello scompenso, è però spesso controbilan-
Indice cardiaco l/min/m2
Normale
10
Inotropi 4
Grave insufficienza
Diuretici Inotropi
Diuretici e vasodilatatori venosi
2 Ipoperfusione periferica
1. Riposo e norme igieniche. Le norme di vita tendono a ridurre o evitare tutte le situazioni che impongono al cuore un lavoro eccessivo. Il riposo a letto o in poltrona è indispensabile in caso di scompenso acuto. In casi cronici, periodi di riposo programmati nell’arco della settimana possono consentire una discreta attività negli altri giorni. Il riposo a letto di per sé consente una miglior ridistribuzione della portata cardiaca e quindi, in molti casi, determina una diuresi soddisfacente con riduzione del precarico (si veda la discussione sui diuretici). Un’eccessiva restrizione dell’attività fisica, per altro, può avere effetti deleteri: favorisce la tromboembolia e riduce la tolleranza allo sforzo. Per questi motivi, si sono condotti negli ultimi anni esperimenti di cauto allenamento fisico di soggetti con insufficienza cardiaca moderata, con risultati positivi sui sintomi e sulla qualità della vita. Oltre agli sforzi fisici, il cardiopatico scompensato deve evitare gli stress emotivi (in alcuni casi è utile una blanda sedazione), le condizioni ambientali sfavorevoli (soprattutto la temperatura e l’umidità elevate impongono al cuore un carico di lavoro eccessivo) e gli eccessi alimentari (anzi, se il peso è sopra la norma, una restrizione calorica è essenziale). Sempre riguardo all’alimentazione, è della massima importanza contenere il più possibile l’assunzione di sale, per ridurre la ritenzione idrica e quindi il precarico.
Congestione venosa 10
20
Pressione telediastolica ventricolare (precarico) mmHg
Figura 5.15 - Curve di funzione e farmaci. Il grafico indica schematicamente le modificazioni della funzione ventricolare indotte acutamente (nel breve periodo) da varie classi di farmaci in un cuore normale o con grave insufficienza. I diuretici e i vasodilatatori venosi, nell’insufficienza, riducono la pressione di riempimento ventricolare (telediastolica) senza modificare di molto l’indice cardiaco (cioè la portata), o addirittura migliorandolo. Nel cuore normale invece i diuretici abbassano poco la pressione di riempimento e riducono nettamente la portata cardiaca. Oltre un certo limite, anche nello scompenso, diuretici e vasodilatatori venosi possono cominciare a ridurre troppo la portata cardiaca. Nell’insufficienza i farmaci inotropi aumentano nettamente la portata, riducendo di poco la pressione di riempimento. Nel normale gli inotropi producono invece scarse modificazioni.
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ciato dalla riduzione del tono adrenergico che consegue al miglioramento delle prestazioni cardiache. Nei soggetti normali invece, la vasocostrizione si manifesta appieno e smorza gli effetti cardiaci dei digitalici: è questa una delle ragioni per cui non si osserva alcun aumento della gettata cardiaca in seguito a somministrazione di digitalici a una persona sana. Tra gli effetti tossici dei glicosidi digitalici va ricordato soprattutto l’aumento dell’eccitabilità miocardica, con facilitazione delle aritmie. I glicosidi digitalici sono particolarmente efficaci nei casi di insufficienza cardiaca secondaria a un aumento del carico di lavoro (vizi valvolari, ipertensione, ecc.) e soprattutto quando sono presenti una notevole tachicardia o tachiaritmie atriali ad aggravare lo scompenso. In questi casi la riduzione della frequenza ventricolare che i glicosidi digitalici comportano (per riduzione della frequenza sinusale o della conduzione atrioventricolare) si somma all’effetto inotropo nel migliorare le prestazioni miocardiche. I glicosidi digitalici funzionano meno bene in caso di malattie primitive del miocardio (cardiomiopatie, miocarditi, ecc.), nelle quali manifestano la propria tossicità a dosi più basse. Anche in presenza di acidosi, ipossia e intensa vasocostrizione periferica i glicosidi digitalici risultano poco efficaci e molto tossici. Nuove classi di farmaci inotropi, come gli inibitori della fosfodiesterasi (aumentano la concentrazione cellulare di AMP ciclico bloccandone la degradazione: aurinone, milrinone, pimobendan e altri), possiedono anche un’azione di vasodilatazione, potenzialmente utile nel trattamento dello scompenso. Studi clinici controllati hanno poi dimostrato che, a lungo termine, gli inibitori della fosfodiesterasi, come le catecolamine, non migliorano né i sintomi né la sopravvivenza dei pazienti con scompenso. Il loro uso è quindi limitato alle fasi acute. Invece i glicosidi digitalici esercitano un effetto favorevole anche a lungo termine, probabilmente perché, oltre a stimolare l’inotropismo, riducono indirettamente l’attivazione del simpatico e del sistema renina-angiotensina. 3. Farmaci che riducono il precarico. L’aumento del riempimento ventricolare (precarico) è uno dei meccanismi di compenso del cuore insufficiente (meccanismo di Starling). Tuttavia, oltre un certo limite l’aumento del riempimento ventricolare non comporta più un aumento della gettata cardiaca (porzione piatta della curva di funzione ventricolare; Fig. 5.15); anzi in casi estremi l’aumento di riempimento può comportare una riduzione della gettata (porzione discendente della curva). Inoltre, quando il volume (e quindi la pressione) di riempimento ventricolare supera certi livelli, si determina una congestione venosa a monte che risulta dannosa di per sé. Questo vale soprattutto per il ventricolo sinistro, perché la congestione polmonare compromette la funzione respiratoria e quindi, attraverso l’ipossia, influisce negativamente sulle prestazioni cardiache.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
È dunque opportuno, in questi casi, ridurre il precarico anche a costo di una modesta riduzione della portata cardiaca, per evitare gli effetti disastrosi della congestione polmonare. Sono queste le basi razionali, ma anche i limiti, dell’impiego di diuretici e vasodilatatori venosi nello scompenso. I diuretici sono farmaci che aumentano in via diretta l’eliminazione di sodio e acqua con le urine e perciò riducono la massa liquida circolante e il volume di liquido interstiziale. Contrastano in tal modo la ritenzione idrosalina, che è uno dei meccanismi di adattamento messi in opera dall’organismo per far fronte allo scompenso, ma che oltre certi limiti risulta più dannosa che utile. I diuretici più usati sono i tiazidici e la furosemide, spesso in associazione con i diuretici risparmiatori di potassio. Questi farmaci sono utili in tutte le forme e in tutti i gradi dello scompenso, ma devono essere dosati con cura per evitare un’eccessiva riduzione del riempimento cardiaco. Ciò può comportare, infatti, una riduzione cospicua della portata cardiaca, con effetti disastrosi nei pazienti scompensati. Particolare attenzione deve anche essere rivolta ai possibili squilibri elettrolitici (soprattutto ipopotassiemia) indotti dai diuretici. La restrizione dell’assunzione di sale coi cibi è un utile complemento della terapia diuretica, cui si è già accennato in precedenza. I vasodilatatori venosi ridistribuiscono la massa liquida ematica dal centro verso la periferia. Aumentando la capacità del distretto venoso, sequestrano in questa sede parte della massa circolante e riducono così il riempimento cardiaco. Hanno quindi lo stesso effetto dei diuretici sulla curva di funzione ventricolare (Fig. 5.15), mentre non hanno alcun effetto diretto sul volume totale del liquido circolante e interstiziale. Valgono perciò, per i vasodilatatori venosi, le stesse cautele ricordate per i diuretici, al fine di non ridurre eccessivamente la portata cardiaca. I vasodilatatori venosi più importanti sono la nitroglicerina, somministrabile in varie forme, e i nitrati. Vi sono poi vasodilatatori misti, dotati cioè di effetti sia sul versante arterioso sia su quello venoso, come il nitroprussiato (utile per via venosa nei gravi casi acuti) e gli inibitori dell’enzima che converte l’angiotensina, di cui si parla nel prossimo punto. A lungo termine, inoltre, i diuretici da soli non sono in grado di mantenere stabile l’equilibrio di soggetti con insufficienza cardiaca cronica. Si fonda sullo stesso principio anche l’uso, nei casi acuti, di lacci venosi applicati agli arti, per sequestrare temporaneamente parte della massa ematica in periferia. 4. Farmaci che riducono il postcarico. Quando la portata cardiaca diminuisce al di sotto delle necessità dell’organismo, si determina una vasocostrizione cutanea e splancnica che ha lo scopo di mantenere una pressione di perfusione sufficiente negli organi vitali (cuore e cervello). Ciò è senz’altro utile nelle insufficienze circolatorie extracardiache (per es., nello shock ipovolemico), ma nello scompenso cardiaco tende a determinare un circolo vizioso che può risultare deleterio. La
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5 - SCOMPENSO CARDIACO
vasocostrizione, infatti, comporta un aumento delle resistenze al flusso, che impone al cuore già insufficiente un aggravio del postcarico. Un cuore normale sopporta un aumento delle resistenze periferiche anche notevole senza variare la gettata cardiaca: l’unico effetto della vasocostrizione è l’aumento della pressione arteriosa. In un cuore insufficiente, invece, la gettata cardiaca diminuisce progressivamente quanto più aumentano le resistenze (mentre la pressione varia poco) e l’effetto è tanto più marcato quanto più grave è la compromissione cardiaca (Fig. 5.10). Quindi la vasocostrizione periferica, che tenta di compensare una bassa portata, determina un’ulteriore riduzione della portata cardiaca, la quale, a sua volta provoca una maggiore vasocostrizione, e così via in un circolo vizioso. È questa la base razionale per l’uso dei vasodilatatori arteriosi nello scompenso, in particolare dei farmaci che inibiscono l’attivazione dell’angiotensina (i cosiddetti ACE-inibitori, di cui è capostipite il captopril). Riducendo le resistenze vascolari, i farmaci vasodilatatori possono far aumentare la portata cardiaca, senza che si modifichi significativamente la pressione arteriosa. Nel cuore normale, invece, la vasodilatazione si traduce tutta in ipotensione, con tachicardia riflessa, poiché non varia la portata (portata cardiaca × resistenze periferiche = pressione arteriosa). Il miglior svuotamento ventricolare, dovuto alle ridotte resistenze all’eiezione, produce inoltre, nel cuore scompensato, un minor residuo sistolico e quindi una riduzione del precarico, con tutti gli effetti benefici di cui si è detto in precedenza. Per questo motivo anche i vasodilatatori prevalentemente arteriosi (idralazina, nifedipina) agiscono in realtà anche sul precarico. È vero peraltro anche l’inverso, e cioè che i farmaci vasodilatatori misti (nitroprussiato, inibitori della conversione dell’angiotensina) o prevalentemente venosi (nitrati) riducono in realtà anche il postcarico. Ciò avviene in quanto tali farmaci fanno diminuire il volume ventricolare, che è uno dei fattori del postcarico (come è stato spiegato nel paragrafo sulla regolazione della gettata cardiaca). I farmaci inibitori dell’angiotensina, infine, agiscono sul precarico favorendo anche una minor ritenzione di acqua e sali. Nonostante tale interdipendenza stretta tra precarico e postcarico, la scelta tra i diversi tipi di farmaci vasoattivi può essere fatta considerando che la congestione venosa e la vasocostrizione periferica sono le due vie ultime comuni di tutti i segni e sintomi dello scompenso. Quando prevale la congestione, risulteranno più utili i vasodilatatori venosi; quando è più marcata la vasocostrizione, si dimostreranno più efficaci i dilatatori arteriosi. Oltre agli effetti emodinamici a breve termine, nella scelta vanno considerati anche i risultati dei trial clinici a lungo termine eseguiti negli ultimi anni. Deludendo molte aspettative, solo l’associazione di nitrati e idralazina e gli inibitori della conversione dell’angiotensina, tra i molti vasodilatatori sperimentati nello scompenso, hanno dimostrato una duratura efficacia sui sintomi e
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un prolungamento della sopravvivenza. In particolare, il rallentamento nella progressione della malattia risulta netto con gli inibitori dell’angiotensina, che quindi si possono utilizzare anche prima della comparsa dei sintomi. Tale efficacia è probabilmente da attribuire al fatto che essi non esercitano solo un effetto emodinamico (come gli altri vasodilatatori) ma riducono anche quella eccessiva risposta neuroumorale che accompagna lo scompenso e ne aggrava il decorso attraverso vari circoli viziosi già descritti. In base a un ragionamento simile, si è tentato anche l’impiego di farmaci -bloccanti, allo scopo di inibire l’attività del sistema simpatico, l’altro sistema effettore della risposta neuroumorale. Si sono ottenuti risultati modestamente positivi sui sintomi e sulla sopravvivenza, ma con il rischio di un peggioramento in un’alta percentuale di casi, legato all’azione inotropa negativa di tali farmaci: ragione per cui il loro impiego nello scompenso dev’essere considerato strettamente sperimentale. 5. Farmaci che contrastano il rimodellamento del miocardio. Si è visto che mediazioni neuroumorali che adempiono inizialmente a un ruolo di compenso sulla funzione cardiaca determinano alla lunga effetti dannosi sul miocardio: questi si compendiano, in ultima analisi, in un’ipertrofia, seguita però da apoptosi di cellule miocardiche e fibrosi, nel processo del rimodellamento del miocardio. Ciò dipende dalla stimolazione simpatica e dall’effetto delle catecolamine liberate localmente o che giungono dalla circolazione, che danneggiano direttamente il miocardio. È determinato anche dall’angiotensina II, che è liberata direttamente nel cuore anche dalla parete dei vasi sanguigni che lo perfondono, e la produzione della quale è sollecitata non solo dall’incrementata produzione di renina, ma anche, direttamente, dalla sofferenza del miocardio. Infine, lo stesso aldosterone sembra avere un effetto dannoso sul muscolo cardiaco. Questo ha portato a importanti riconsiderazioni sulla terapia dello scompenso cardiaco. Per cominciare, si è riconosciuta l’utilità dei farmaci bloccanti dei recettori -adrenergici. In passato questi venivano considerati controindicati, perché si supponeva contrastassero un effetto inotropo utile della stimolazione simpatica e delle catecolamine. Avendo riconosciuto l’effetto dannoso di queste ultime sul miocardio, diventa logico cercare di antagonizzarle. I farmaci -bloccanti debbono essere, però, impiegati con prudenza, partendo da dosi basse da incrementare con gradualità, e selezionandoli accuratamente. Per esempio, il primo -bloccante che è stato approvato nel 1997 dalla Food and Drug Administration degli USA per l’impiego nello scompenso cardiaco è stato il carvedilolo, in quanto provvisto anche di un’attività bloccante i recettori 1-adrenergici. Si è visto che questi ultimi hanno importanza nello sviluppo di ipertrofia miocardica e degli eventi nocivi che ne conseguono. I farmaci ACE-inibitori erano già raccomandati nello scompenso cardiaco in quanto vasodilatatori arteriosi. La loro utilità risulta, però, molto più evidente se si tiene conto dell’azione nociva sul cuore dell’angiotensina
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II. Per questo motivo gli ACE-inibitori sono adesso considerati farmaci di prima scelta nella terapia dello scompenso cardiaco. Infine, in uno studio cooperativo, si è dimostrato che piccole dosi di farmaci ad attività antialdosteronica, come lo spironolattone e il più moderno eplerenone, riducono del 30% la mortalità in pazienti con scompenso cardiaco e migliorano la funzione ventricolare e la tolleranza dell’attività fisica. Molti di questi pazienti prendevano già gli ACE-inibitori, che di per sé avrebbero dovuto ridurre la produzione di aldosterone. Tuttavia, con il passare del tempo si verifica una sfuggita all’azione degli ACE-inibitori e un farmaco antialdosteronico risulta utile. È stato dimostrato che l’aldosterone ha un’azione promuovente la fibrosi degli organi. Il limite di questa terapia è il pericolo di iperpotassiemia, perciò i farmaci antialdosteronici debbono essere somministrati a dosi basse e controllando la potassiemia. In conclusione, la triade rappresentata dai -bloccanti, ACE-inibitori e antialdosteronici è adesso considerata un pilastro delle terapia dello scompenso cardiaco. 6. Correzione delle alterazioni metaboliche. Spesso nessuno dei farmaci citati in precedenza risulta efficace sino a quando non sono state corrette con opportune misure terapeutiche l’acidosi e l’ipossia che accompagnano le forme gravi e acute di scompenso (edema polmonare e shock). In ogni caso la terapia dei pazienti più compromessi richiede un’attenta sorveglianza diretta a
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
valutare minuto per minuto la risposta ai farmaci, avvalendosi anche di strumenti di monitoraggio della pressione arteriosa, polmonare, atriale-destra, della portata cardiaca, della diuresi, del pH, della PO2 e di altri eventuali parametri fisiologici. 7. Prognosi dello scompenso cardiaco. In generale non è buona. Nelle statistiche del passato la probabilità di morte entro 4-5 anni dall’insorgenza dei sintomi era del 50% nei maschi e del 30% nelle femmine. In caso di scompenso grave, la probabilità di morte saliva al 65% entro un anno e superava l’80% entro tre anni. La metà circa di tali morti è improvvisa, mentre negli altri casi si assiste a un progressivo deterioramento cardiaco. Tuttavia, grazie ai progressi conseguiti con l’impiego di farmaci che contrastano il rimodellamento del miocardio, la mortalità nello scompenso cardiaco appare ridotta. Restano, tuttavia, numerosi i casi che alla lunga risultano refrattari a tutti i trattamenti. Per tali motivi, quando uno scompenso grave non risponde a una terapia razionale condotta con tutti gli strumenti disponibili, la probabilità di morte entro pochi mesi risulta assai alta. In questi casi l’unica soluzione può oggi essere trovata ricorrendo a un trapianto di cuore, intervento che presenta ormai un’alta percentuale di successi e una buona sopravvivenza (oltre 60% a cinque anni), grazie al miglioramento dei trattamenti immunosoppressivi, purché il trapianto venga eseguito in pazienti ben selezionati.
C A P I T O L O
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ARITMIE G. FERRARIO
Per aritmia si intende ogni condizione nella quale viene a mancare la normale frequenza o la regolarità del battito cardiaco, ovvero è alterata la fisiologica sequenza dell’attivazione atrioventricolare.
Anatomia del sistema di conduzione cardiaco L’attivazione normale del cuore inizia nel nodo del seno. Il nodo del seno è una struttura cilindrica lunga 15 × 5 mm, situata a livello della giunzione fra vena cava superiore e atrio destro. Esso è costituito da almeno tre tipi di cellule, di cui quelle funzionalmente più importanti sono le cellule P (pacemaker o segnapassi). Queste cellule hanno la proprietà di depolarizzarsi spontaneamente a intervalli regolari, con una frequenza che è condizionata principalmente da due fattori: dall’attività del sistema nervoso autonomo e dalle richieste emodinamiche dell’organismo. L’impulso sorto a livello del nodo del seno si diffonde negli atri e raggiunge il nodo atrioventricolare. È stata affermata, ma non dimostrata in modo definitivo, l’esistenza a livello atriale di alcuni fasci costituiti da cellule specializzate (distinte da quelle contrattili); lungo queste “vie internodali”, che connetterebbero il nodo del seno con il nodo atrioventricolare, l’impulso procederebbe più velocemente che nel miocardio comune. Sicuramente specializzate, ma sede di un rallentamento della velocità di conduzione, sono le cellule che costituiscono il nodo atrioventricolare (A-V) attraverso il quale l’impulso proveniente dagli atri può giungere ai ventricoli. Il nodo A-V, unica struttura muscolare che unisce fisiologicamente atri e ventricoli, è sito alla base del setto interatriale, a ridosso dell’anulus tricuspidale, 1-2 cm avanti al seno coronarico. Superato il nodo A-V, l’impulso prosegue attraverso il fascio di His, le due branche ed il sistema di Purkinje. Fascio di His, branche e sistema di Purkinje sono costituiti da tessuto di conduzione specializzato e in particolare da cellule tipo Purkinje (Fig. 6.1). Conviene aggiungere che l’insieme
Nodo del seno
Atri Nodo A-V Fascio comune Branche
Fibre di Purkinje Ventricoli
Figura 6.1 - Rappresentazione delle vie di conduzione cardiaca.
formato dal nodo atrioventricolare e dal tronco comune del fascio di His viene spesso denominato “giunzione atrioventricolare”. Il fascio di His è lungo circa 15 mm: nasce dal bordo antero-inferiore del nodo A-V e, correndo lungo la parte membranosa del setto interventricolare, raggiunge il setto interventricolare muscolare. Qui originano le branche. La branca destra è un fascio sottile, ben individualizzato, che scende lungo il lato destro della porzione muscolare del setto interventricolare. La branca sinistra è rappresentata invece da una serie di fibre che si sfilacciano dal fascio di His correndo lungo il lato sinistro del setto interventricolare muscolare. L’anatomia della branca sinistra mostra una spiccata variabilità individuale. Anche se ai fini clinici è utile considerare la presenza di due principali fascicoli (rispettivamente il
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
fascicolo anteriore e il fascicolo posteriore), è per lo più impossibile individuare nell’ambito della branca sinistra suddivisioni costanti e ben definite da un punto di vista anatomico. In prossimità dell’apice dei due ventricoli, branca destra e branca sinistra si suddividono in molti fascetti, che danno origine a una fitta rete di fibre, la quale si distribuisce sulla superficie endocardica dei ventricoli: è il sistema di Purkinje. Il sistema di Purkinje è in stretta connessione con le cellule miocardiche contrattili: a loro trasmette finalmente l’impulso dal quale prenderà avvio l’attività meccanica dei ventricoli. La funzione emodinamica del cuore si realizza in maniera ottimale solo quando la contrazione atriale e la contrazione ventricolare si susseguono con la sequenza che risulta dall’ordinata trasmissione dell’impulso dal nodo del seno ai ventricoli attraverso il tessuto atriale, il nodo A-V, il fascio di His, le branche e la rete di Purkinje. Il nodo del seno viene irrorato da un’arteria centrale, che prende origine in circa la metà dei casi dalla coronaria destra, nell’altra metà dall’arteria circonflessa della coronaria sinistra. Il nodo A-V è irrorato da un’arteria che origina dalla coronaria destra. Il fascio di His è irrorato per lo più da vari rami della coronaria sinistra.
Elettrofisiologia Il normale ciclo cardiaco prende origine dalla spontanea insorgenza dell’eccitazione nel nodo del seno; da qui l’eccitazione si propaga a tutto il miocardio. Sia la formazione degli impulsi sia la propagazione dello stato di eccitazione derivano da caratteristiche funzionali delle cellule, che possono essere descritte analizzando il potenziale d’azione di esse. Per potenziale d’azione, come è noto, si intende la curva che descrive le variazioni che subisce il potenziale elettrico esistente all’interno di ogni singola cellula in relazione alle fasi del ciclo cardiaco. A riposo, durante la diastole elettrica, l’interno delle cellule miocardiche ha un potenziale elettrico negativo, cioè inferiore a quello che esiste sulla superficie esterna della membrana cellulare (e nei liquidi circostanti): se in questi il potenziale è 0, all’interno di esso è di circa –90 mV. Tale potenziale di transmembrana a riposo dipende dal fatto che in questa fase del ciclo cardiaco la cellula è dotata di un patrimonio di ioni negativi che è leggermente maggiore del patrimonio di ioni positivi. Il contrario si verifica nel liquido extracellulare che circonda le cellule: esso contiene, cioè, un leggero eccesso di cariche positive. Per attrazione elettrostatica, il plus di cariche negative endocellulari si dispone in gran parte a ridosso della faccia interna della membrana cellulare, mentre il plus di cariche positive esocellulari si dispone a ridosso della faccia esterna della stessa membrana. È il “doppio strato” di cariche, che caratterizza la membrana “polarizzata”. Se, per influenze esterne, cariche positive esterne si allontanano, anche le cariche
negative interne, non subendo più l’attrazione elettrostatica, si allontanano dalla membrana (che perde così la sua polarizzazione). L’eccesso di cariche negative all’interno della cellula è conseguenza della struttura della membrana cellulare e del fatto che fisiologicamente le cellule hanno una distribuzione di ioni diversa da quella dei liquidi interstiziali. In particolare, dentro alle cellule vi è una concentrazione di ioni potassio (K) 30 volte superiore a quella che vi è all’esterno delle cellule: la concentrazione degli ioni sodio (Na) è 15 volte inferiore, quella degli ioni calcio (Ca) è 10.000 volte inferiore. L’ineguale distribuzione di questi ioni è controllata dall’attività di pompe scambiatrici di ioni che, usando energia, espellono ioni non voluti dalla cellula, scambiandoli con altri. Occorre energia perché questo scambio avviene contro la tendenza degli ioni stessi, che tenderebbero a parificare le rispettive concentrazioni ai due lati della membrana cellulare. Un eventuale deficit metabolico cellulare altera necessariamente i rapporti ottimali degli ioni in questione fra esterno ed interno delle cellule. L’attività delle pompe non sarebbe certo sufficiente a mantenere lo squilibrio descritto, se la membrana cellulare fosse liberamente permeabile agli ioni. Una descrizione semplificata ma sufficiente dei fenomeni permette di dire che, in effetti, la membrana è impermeabile agli ioni, salvo che in corrispondenza di particolari strutture proteiche, dette “canali”: questi possono essere chiusi, oppure più o meno aperti, e in questo caso il passaggio degli ioni attraverso la membrana è possibile. Si conoscono tre tipi di canali fisiologicamente molto importanti: per il Na, per il Ca, per il K. Dato che gli ioni sono dotati di carica elettrica, si può esprimere la chiusura o l’apertura di canali in termini di conduttanza della membrana rispetto ai singoli ioni; per esempio: conduttanza al Na nulla, scarsa, elevata. Come si dirà meglio in seguito, vi sono due tipi fondamentali di cellule miocardiche: le cellule del miocardio comune o “da lavoro” (atriali e ventricolari) e le cellule pacemaker. Entrambi i tipi di cellula sono caratterizzati da tre proprietà: l’eccitabilità, la conducibilità e la refrattarietà. Solo le cellule pacemaker hanno una quarta proprietà, che è l’automatismo. Per eccitabilità si intende l’attitudine di una cellula miocardica a sviluppare il potenziale d’azione (si veda in seguito). L’eccitazione subentra criticamente alla fase di riposo quando il potenziale di transmembrana viene ridotto (da eventi che saranno in seguito specificati) dal valore (indicativo) di –90 mV a un valore (indicativo) di –60 mV: a questo livello di potenziale, che si chiama potenziale-soglia, si scatena la serie di variazioni che determina il potenziale d’azione e che si traduce in perdita completa della polarizzazione caratteristica delle cellule a riposo. Per conducibilità si intende la velocità con la quale l’eccitazione di una cellula del miocardio si trasmette alle cellule vicine. Questa trasmissione avviene perché la cellula eccitata è completamente depolarizzata, cioè priva di cariche elettriche positive in superficie; questo “vuoto” di cariche positive attrae le cariche elettriche
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6 - ARITMIE
positive che tappezzano la faccia esterna della membrana delle cellule vicine. In conseguenza, il potenziale di transmembrana di tali cellule diventa minore di –90 mV, e quando raggiunge –60 mV le cellule si eccitano a loro volta. È evidente che la velocità con cui l’eccitazione si propaga da un punto all’altro del miocardio è funzione della velocità con cui si depolarizzano le singole cellule. Per refrattarietà si intende un fenomeno ben noto ai fisiologi: se una cellula opportunamente stimolata entra in stato d’eccitazione, occorre del tempo perché essa possa essere nuovamente eccitata. In un primo periodo nessuno stimolo potrà rieccitarla (periodo refrattario assoluto o effettivo); in un secondo periodo la rieccitazione è possibile, ma solo a opera di stimoli molto forti (periodo refrattario relativo). Si può dire che durante il primo periodo la cellula, essendo depolarizzata, non può ovviamente eccitarsi; durante il secondo periodo la cellula, che ha recuperato solo in parte la polarizzazione di riposo, si eccita lentamente e fornisce un potenziale d’azione imperfetto. Tutto ciò può essere trasferito in termini di conduzione nell’ambito del cuore: se un tratto di miocardio M (per es., i ventricoli) è stato eccitato da uno stimolo 1, esso può rieccitarsi ad opera di uno stimolo 2 solo se è trascorso un certo tempo. In particolare, se lo stimolo 2 segue lo stimolo 1 dopo un intervallo di tempo molto breve, il miocardio M, tuttora in periodo refrattario effettivo, non risponde affatto; se lo stimolo 2 segue lo stimolo 1 un po’ più tardi, quando M è in periodo refrattario relativo, M si eccita, ma lentamente; se lo stimolo 2 segue lo stimolo 1 quando M ha recuperato completamente, M si eccita subito. Nel primo caso la velocità di conduzione dell’eccitamento nell’ambito del miocardio M è zero, nel secondo caso è rallentata rispetto alla norma, nel terzo caso è normale. Per automatismo (caratteristica, come si è detto, esclusiva delle cellule pacemaker) si intende la capacità che queste cellule hanno di autoeccitarsi, mentre tutte le altre cellule miocardiche si eccitano solo se ricevono uno stimolo dall’esterno. Le cellule non pacemaker in stato di riposo, infatti, tendono a mantenere questo stato indefinitamente; le cellule pacemaker, invece, non hanno un potenziale di transmembrana a riposo stabile: questo potenziale tende a ridursi spontaneamente col tempo e, quando raggiunge il valore-soglia, la cellula si eccita. Nel cuore umano ci sono cellule con proprietà pacemaker nel nodo del seno, qua e là negli atri (specie vicino al nodo atrioventricolare, lungo le presunte vie internodali), nel nodo atrioventricolare e ve ne sono nel fascio di His con relative diramazioni, fino al sistema di Purkinje. In più, vi sono cellule appartenenti al sistema di conduzione (specie a livello fascio di His e distalmente a questo) che non sono pacemaker in condizioni normali, ma che possono acquisire automatismo in condizioni patologiche (per es., ischemia). Nell’ambito delle cellule pacemaker, esiste una fisiologica differenza fra i vari gruppi di cellule sopra citati: la rapidità con cui avviene la depolarizzazione spontanea durante la fase di riposo è maggiore nelle cellule del nodo del seno, è intermedia nelle cellule del nodo atrioventri-
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colare, è minore negli elementi pacemaker dei rami periferici del tessuto di conduzione. In relazione a ciò, la frequenza base di autoeccitazione è 70/min a livello del nodo del seno, 60 a livello della giunzione A-V, 30 a livello della rete di Purkinje. In condizioni normali la proprietà dell’automatismo si esprime solo a livello del nodo del seno. Le cellule degli altri pacemaker, infatti, vengono eccitate dall’impulso che origina dal nodo del seno prima di potersi autoeccitare. Questi pacemaker vengono definiti “sussidiari” o “latenti”. Lo svolgimento fisiologico del ciclo cardiaco trae origine, come già si è detto, dalla ritmica autoeccitazione di cellule pacemaker nel nodo del seno. Ogni volta, la depolarizzazione di queste cellule sottrae cariche elettriche positive dalla superficie esterna delle cellule circostanti; questo fatto riduce il potenziale di transmembrana di tali cellule fino al potenziale-soglia. A questo punto le cellule in questione si eccitano depolarizzandosi e ciò sottrae cariche positive dalla superficie delle cellule successive e così via: così si realizza la conduzione, che finisce per coinvolgere nell’eccitamento tutto il cuore. Per comprendere bene lo svolgimento dei fenomeni fisiologici e le possibili alterazioni patologiche, conviene ora descrivere il potenziale d’azione, che è già stato definito come una successione di eventi critici. Questi sono un po’ diversi nelle cellule pacemaker e in quelle che non lo sono; conviene cominciare con queste ultime. Le cellule in questione (tutto il miocardio comune atriale e ventricolare e buona parte delle cellule costituenti il tessuto di conduzione) hanno, come ripetutamente spiegato, un potenziale di transmembrana a riposo stabile di circa –90 mV (Fig. 6.2). Quando l’eccitazione delle cellule vicine sottrae cariche dalla superficie cellulare, il potenziale si riduce passivamente fino verso i –60 mV (potenziale-soglia). A questo punto si scatena una serie di eventi rapidi e importantissimi. Il primo di essi è costituito dall’improvvisa apertura dei canali per il Na della membrana cellulare. Attraverso questi “canali veloci”, nel giro di pochissimi millisecondi una certa quantità di ioni Na entra nelle cellule annullando il preesistente deficit di cariche positive intracellulari, fino a un leggero eccesso di cariche positive. Il potenziale di transmembrana passa perciò rapidissimamente (fase 0 del potenziale d’azione) da –60 mV a +20 mV. A un certo punto i canali del Na si chiudono e il Na non può più entrare. Intanto, però (per un comando potenziale-dipendente), si sono aperti i canali “lenti” del Ca, che permettono l’ingresso (più lento ma che dura più a lungo) di altre cariche positive nelle cellule. Quest’ulteriore squilibrio è peraltro controbilanciato da una quasi contemporanea apertura dei canali per il K, che, in relazione al rapporto di concentrazione fra interno ed esterno della membrana di questo ione, permette l’uscita di ioni K. In termini di potenziale di transmembrana questi fenomeni portano a: • una breve fase 1 del potenziale d’azione in cui prevale l’uscita di K+ sull’ingresso dei Ca++, sicché il potenziale scende attorno a zero;
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
0
1
+20 20 0
2
60 0 3
4
–90
Na+
Ca++
Na+
K+
K+
Cl –
Figura 6.2 - Rappresentazione schematica del potenziale d’azione di una fibrocellula cardiaca con i principali flussi ionici nelle diverse fasi.
• una fase 2 del potenziale in cui l’afflusso di Ca++ e l’efflusso di K+ si bilanciano, per cui il potenziale resta più o meno sullo zero (fase di plateau); • una fase 3 durante la quale cessa l’afflusso di Ca++ mentre prosegue l’efflusso di K+: al termine di questa fase (detta di ripolarizzazione) il potenziale di transmembrana a riposo si è ripristinato; durante questa fase 3 si ripristina pure l’eccitabilità cellulare, che passa dal periodo di refrattarietà effettiva a quello di refrattarietà relativa, verso la normalizzazione; • finita la fase 3, inizia la fase 4, che dura finché la cellula non venga eccitata di nuovo. Il potenziale è stabile intorno a –90 mV, ma all’inizio con oscillazioni, che stanno alla base del fatto che, finita la fase di refrattarietà relativa, l’eccitabilità può essere superiore alla norma (fase supernormale). Questa fase 4 non vede la cellula inoperosa, perché essa, con l’aiuto delle pompe scambiatrici di ioni (e con impiego di energia), provvede a ripristinare la composizione qualitativa del patrimonio ionico intracellulare: in particolare espelle ioni Na e Ca, scambiandoli con ioni K. Nelle cellule pacemaker le vicende sono un po’ diverse, perché in queste cellule non vi sono i canali veloci per il Na. Al momento in cui viene raggiunto il potenzia-
Figura 6.3 - Potenziale d’azione delle cellule del nodo del seno. I caratteri distintivi principali sono rappresentati da una fase 4 instabile (automatismo) e da una fase 0 relativamente lenta.
le-soglia, si aprono i canali lenti del Ca, con ingresso di Ca++: essendo però questo ingresso relativamente lento, la fase 0 del potenziale d’azione non è quasi verticale, ma obliqua (Fig. 6.3); la variazione di potenziale è alquanto graduale e non oltrepassa il valore 0 (per cui mancano la breve fase di positività intracellulare e successiva fase 1 del potenziale d’azione). Anche la fase 2 è breve, e la 3 è più graduale e prolungata. La 4, poi, è caratterizzata dal fatto (già descritto) che il potenziale di transmembrana non si mantiene: da un valore massimo iniziale, il potenziale si riduce lentamente, fino ad arrivare al potenziale-soglia. Come già detto, nel nodo del seno l’obliquità della fase 4 porta il potenziale endocellulare al valore soglia in circa un secondo, nelle cellule pacemaker intraventricolari l’obliquità è minore e per arrivare al valore-soglia occorrono circa 2 sec. In precedenza si è anche accennato a cellule che normalmente non sono pacemaker e che possono diventare tali in condizioni patologiche: la variazione intervenuta in questo caso sembra essere soprattutto l’inattivazione dei canali per il Na. Da quanto si è detto risulta anche comprensibile come diverse parti del cuore possano avere una diversa velocità di conduzione: nel nodo A-V, dove buona parte delle cellule non ha canali per il Na, la velocità di conduzione è di circa 200 mm/sec; nel fascio di His, branche e rete di Purkinje, dove le cellule tipo Purkinje hanno numerosi canali del Na, la conduzione è 4000 mm/sec; nei ventricoli è intermedia: 400 mm/sec. Tutto ciò perché, se la fase 0 di una cellula è ripida, essa sottrae rapidamente cariche elettriche positive dalla superficie delle cellule vicine e quindi le fa eccitare in poco tempo; se la fase 0 è obliqua, la propagazione dello stimolo sarà rallentata. Ultima considerazione generale: vi sono vari sottotipi di cellula cardiaca e in ognuno i passaggi sopra descritti sono concatenati fra loro; è evidente che se un qualunque fattore (stimolazione nervosa, stimolazione ormonale, farmaco, processo patologico) altera uno qualunque dei processi connessi con l’eccitazione cellulare, ciò può determinare varie e talora impreviste ripercussioni. Per esempio, la stimolazione del sistema nervoso simpatico aumenta la frequenza di autoeccitazione del nodo del seno, ma aumenta anche la velocità di conduzione, diminuisce la durata dei periodi refrattari e aumenta (facendo aprire più canali per il Ca) la contrat-
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tilità. Però la stimolazione simpatica non agisce allo stesso modo su tutte le cellule cardiache: alcune sono molto influenzate da questa stimolazione, altre molto di meno (per es., le cellule pacemaker intraventricolari non aumentano la frequenza di autoeccitazione). La generalizzazione di questo concetto permette di capire come gli effetti di un singolo evento morboso o di un farmaco possano essere molteplici e spesso variabili da caso a caso.
Meccanismi di formazione delle aritmie Non è possibile parlare dei meccanismi di formazione delle aritmie senza averne preliminarmente distinto le più importanti varianti. Secondo la nomenclatura attualmente in uso in Italia, le aritmie possono essere distinte in aritmie ipercinetiche ed aritmie ipocinetiche. In linea generale le aritmie ipercinetiche sono quelle in cui si tende ad avere un numero di impulsi maggiore del normale a livello degli atri (aritmie ipercinetiche atriali) o dei ventricoli (aritmie ipercinetiche ventricolari). Spesso accade, ma non necessariamente, che l’aumentato numero di impulsi atriali determini un aumentato numero di impulsi ai ventricoli. Non è detto pertanto che, per interferenze di vario tipo, il fenomeno iniziale “aumentato numero di impulsi sopraventricolari o ventricolari” si traduca in un aumentato numero di battiti nelle unità di tempo. Le aritmie ipocinetiche, atriali o ventricolari, sono viceversa quelle che tendono a produrre un minor numero di impulsi a livello atriale e/o ventricolare. Anche in questo caso, non è detto che fenomeni secondari non interferiscano con l’effettiva estrinsecazione di un numero di battiti che non è diminuito. Nonostante queste limitazioni, la nomenclatura risulta clinicamente utile. I meccanismi di formazione delle aritmie ipercinetiche sono quattro: • aumento della frequenza propria del nodo del seno; • acquisizione da parte di un pacemaker (latente o patologico) di una frequenza superiore a quella del nodo del seno; • fenomeno del rientro; • la cosiddetta “triggered activity”. 1. Come agisce il primo meccanismo, è di per sé evidente. Deve essere aggiunto che questo è il meccanismo meno importante per le aritmie ipercinetiche, non già perché si verifichi raramente, ma perché di significato patologico non primario e spesso indicativo di patologie extracardiache. 2. Considerazioni più interessanti si possono fare sul secondo meccanismo. Si è già visto che l’automatismo (cioè la capacità della cellula di depolarizzarsi spontaneamente) è una proprietà presente in tutte le cellule del tessuto di conduzione specializzato, ma che in condizioni normali si esprime solo a livello del nodo del seno. In alcune condizioni patologiche, un gruppo di cellule pacemaker latenti aumenta la rapidità della pro-
pria depolarizzazione spontanea, che diventa maggiore di quella delle cellule del nodo del seno. In conseguenza di ciò l’eccitazione che si origina nel “focus ectopico ipereccitabile” si diffonde ai tessuti vicini prima che questi siano raggiunti dall’onda di eccitazione che proviene dal nodo del seno. Si dirà allora che il focus ectopico ha preso il sopravvento sull’attività sinusale ed è esso a generare l’impulso “guida” che diffonde al resto del cuore. Con una similitudine efficace, l’assunzione del governo del ritmo cardiaco da parte di un focus ectopico è stata paragonata all’ammutinamento da parte dell’equipaggio di una nave: il capitano (il nodo del seno) viene esautorato da un suo subordinato (un pacemaker). In questo caso il ritmo ectopico è perciò detto “ritmo attivo”. Deve essere aggiunto che l’attività del focus ectopico può essere ripetitiva e durare nel tempo, ma può anche trovare il modo di esplicarsi solo saltuariamente con singoli battiti che si sovrappongono, disturbandolo, al ritmo sinusale di fondo. 3. Sono invece disturbi della propagazione dell’impulso (vale a dire della velocità di conduzione dell’eccitamento) quelli che costituiscono la base del cosiddetto meccanismo di “rientro” (terzo) che è responsabile di numerose forme di aritmia. Il meccanismo si spiega con lo schema che segue. In condizioni di normalità (Fig. 6.4, ➀) l’impulso che proviene dall’alto, quando incontra uno sdoppiamento segmentario del tragitto attraverso il quale viene condotto, si propaga parallelamente lungo le fibre di miocardio (atriale o ventricolare) che costituiscono la via sdoppiata (A e B nella figura) riunendosi nuovamente in un solo percorso quando le fibre sdoppiate si ricongiungono (C nella figura). Non esiste alcuna possibilità che l’impulso che si è propagato lungo il percorso A possa risalire in un senso retrogrado lungo il percorso B perché quest’ultimo, attraversato parallelamente ad A dall’impulso che proviene dall’alto, si troverà in periodo refrattario. Questa situazione può essere alterata da condizioni patologiche capaci di ridurre la conduttività delle due vie A e B. È possibile che l’impulso proveniente dalla via prossimale comune (Fig. 6.4, ➁) venga bloccato (per condizioni di refrattarietà assoluta) a livello della via B e rallentato (per condizione di refrattarietà relativa) a livello della via A. Quando l’eccitazione arriva attraverso A alla fibra distale comune C (Fig. 6.4, ➂), esso si diffonde regolarmente in C ma contemporaneamente si diffonde anche per via retrograda lungo B. Quando l’impulso arriva al tratto prossimale di B, al punto cioè in cui si era precedentemente bloccato, può diffondersi liberamente perché il rallentamento presente lungo la via A ha dato modo al tratto B di recuperare una condizione di normale eccitabilità (di superare cioè il periodo refrattario). Nel frattempo ha recuperato anche A, sicché l’impulso che ha percorso in via retrograda B può rieccitare A (“rientrare” lungo A) e trasmettere alla via distale comune C un secondo impulso: questo può dare origine a un terzo impulso e così via. Perché il rientro possa avere luogo, sono necessarie per-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
POSTDEPOLARIZZAZIONE PRECOCE Via prossimale comune
A
B
A. C
Via distale comune
POSTDEPOLARIZZAZIONE TARDIVA
Via prossimale comune
B
A Ritardo di conduzione
Blocco unidirezionale
B. C
Via distale comune
Via prossimale comune
Figura 6.5 - Postdepolarizzazioni e attività “triggered”. A. Postdepolarizzazione precoce. La ripolarizzazione viene interrotta da due depolarizzazioni secondarie, che possono attivare fibre adiacenti e indurre aritmie. B. Postdepolarizzazione tardiva. Si può manifestare quando il potenziale d’azione è tornato al valore di riposo. Se viene raggiunto il potenziale di soglia, si può indurre un secondo potenziale d’azione anomalo.
B
A
grande (come per esempio nelle tachicardie da sindrome di Wolff-Parkinson-White), di “macrorientro”.
C
Via distale comune
Figura 6.4 - Schema di rientro. (Vedi testo per la spiegazione).
tanto tre condizioni fondamentali: deve esistere un circuito anatomico o funzionale, piccolo o grande, caratterizzato da due vie comuni (distale e prossimale) e due vie che costituiscono uno sdoppiamento segmentario; deve instaurarsi un blocco unidirezionale (ovverossia l’impulso deve essere bloccato nella diffusione anterograda ma deve poter essere trasmesso per via retrograda) in una delle due vie sdoppiate (B nell’esempio della figura); la conduzione lungo la via non bloccata deve essere però rallentata, per consentire al tessuto in B prossimale al blocco di recuperare una condizione di eccitabilità. Se il circuito interessato al rientro è piccolo, il fenomeno viene chiamato di “microrientro”; se è
4. Il quarto meccanismo di formazione delle aritmie ipercinetiche è stato descritto recentemente ed è comunemente definito con il termine inglese di “triggered activity” (letteralmente: attività messa in moto premendo un grilletto). Si tratta di potenziali d’azione aggiuntivi (singoli o ripetuti) che si sovrappongono alla fase terminale di un potenziale d’azione normale o lo seguono di poco. La prima evenienza viene chiamata “postdepolarizzazione precoce” e la seconda “postdepolarizzazione tardiva” (rispettivamente “early” e “delayed afterdepolarization”). Nella postdepolarizzazione precoce cause patologiche fanno sì che in una particolare fibra miocardica la fase conclusiva di un potenziale d’azione normale non esiti nel ritorno alla ripolarizzazione (e al ristabilimento del normale potenziale di membrana a riposo), ma sia interrotta da uno o più cicli di nuova depolarizzazione (Fig. 6.5A). Il fenomeno può sorgere a livello delle fibre di Purkinje quando queste vengono stirate, per esempio quando si instaura acutamente una dilatazione ventricolare.
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6 - ARITMIE
La postdepolarizzazione tardiva non è altro che un’accentuazione di quella instabilità del potenziale di membrana a riposo che si verifica subito dopo la fine del potenziale di azione (e alla quale si è già fatto cenno). In condizioni patologiche questo potenziale di membrana a riposo tende a oscillare e può capitare che l’oscillazione sia di entità tale da raggiungere il potenziale di soglia che è in grado di scatenare un nuovo potenziale d’azione (Fig. 6.5B). Questo potenziale d’azione può essere isolato o seguito da altri, anch’essi indotti con meccanismo analogo. Il fenomeno si verifica a livello del fascio di His e delle fibre di Purkinje in corso di intossicazione digitalica. Sia nella sua forma di postdepolarizzazione precoce, sia in quella di postdepolarizzazione tardiva, la “triggered activity” è un’imperfezione del completamento di un potenziale di azione normale. Come si vede, tanto l’aumentato automatismo di un pacemaker latente quanto il fenomeno del rientro e la “triggered activity” fanno originare il ritmo cardiaco in una sede diversa dal nodo del seno e perciò detta ectopica. A questo riguardo ha un certo rilievo clinico se il ritmo cardiaco è generato negli atri o nella giunzione atrioventricolare (aritmie ipercinetiche sopraventricolari) o a livello dei ventricoli (aritmie ipercinetiche ventricolari). I meccanismi di formazione delle aritmie ipocinetiche sono tre: • diminuzione della frequenza del nodo del seno, che conserva il governo del ritmo cardiaco; • assunzione, per carenza di attività del nodo del seno, del governo del ritmo da parte di un pacemaker latente che agisce mantenendo invariato il proprio automatismo; • disturbi della conduzione A-V. 1. Il primo meccanismo può agire semplicemente rallentando la frequenza di fondo propria dell’automatismo del nodo del seno. Si realizza anche, però, quando la frequenza di fondo del nodo del seno non è ridotta, ma alcuni dei battiti che ne dovrebbero derivare vanno perduti. Quest’ultimo fenomeno dipende da episodici arresti dell’attività del nodo del seno (arresto sinusale) o dall’episodica incapacità dell’impulso ritmicamente generato dal nodo del seno di essere condotto alle cellule miocardiche contigue (blocco senoatriale). 2. Il secondo meccanismo si verifica quando i fenomeni descritti a proposito del primo meccanismo riducono talmente la frequenza degli impulsi efficaci generati dal nodo del seno, da renderla inferiore a quella di un pacemaker latente sottostante con una frequenza propria più elevata. In questo caso è per carenza di attività di pacemaker fisiologico che un altro centro pacemaker riesce ad esprimere la propria attività automatica, dando luogo a quelli che vengono chiamati ritmi di “sfuggita”. Per ripetere la similitudine precedente, è come se il capitano di una nave diventasse incapace al comando perché colto da malore e venisse sostituito dal suo secondo. In questo caso il ritmo ectopico è perciò detto “ritmo passivo” (o anche ritmo di sfuggita o di scappamento).
Quando difetta l’attività del nodo del seno, il centro ectopico che assume il governo dell’attività cardiaca è più spesso la regione giunzionale, la cui frequenza propria è più bassa di quella del nodo del seno ma più alta di quella di tutti gli altri pacemaker latenti. 3. Il terzo meccanismo si verifica quando esistono delle anomalie nella propagazione dell’eccitazione lungo il sistema di conduzione e in particolare nel suo passaggio dagli atri ai ventricoli. Perché si manifesti un’aritmia, occorre che si abbia una di queste due possibilità: episodicamente (in maniera periodica o meno) un impulso non passa dagli atri ai ventricoli; tutti gli impulsi non passano dagli atri ai ventricoli e questi si contraggono per l’attività (ritmo passivo) di un pacemaker latente collocato nel loro contesto. Nel primo caso si ha l’episodica mancanza di un battito ventricolare; nel secondo caso la frequenza cardiaca è molto bassa perché il centro ectopico che la determina ha una frequenza propria molto inferiore a quella del nodo del seno. Deve essere aggiunto che non tutti i disturbi di conduzione procurano aritmie. Alcuni determinano solo delle sindromi elettrocardiografiche che, per ragioni di convenienza, considereremo in appendice alle aritmie ipocinetiche.
Eziologia In base a quanto esposto precedentemente, è chiaro che qualsiasi fattore in grado di modificare l’automatismo, l’eccitabilità e la conduttività delle cellule miocardiche può essere causa di aritmia. In primo luogo fattori fisiologici: la stimolazione dei recettori -adrenergici (o una scarica catecolaminica da parte dei surreni) accentua l’automatismo delle cellule pacemaker per aumentata pendenza della fase 4 e l’eccitabilità e conduttività di tutte le cellule per aumentata rapidità della fase 0 e accorciamento delle fasi 2 e 3. La stimolazione parasimpatica agisce in modo grossolanamente opposto. Questi effetti, dovuti al sistema neurovegetativo, agiscono evidentemente sulla frequenza propria del nodo del seno aumentandola o diminuendola. Inoltre, la stimolazione dei recettori -adrenergici può esercitarsi in modo elettivo in zone diverse dal nodo del seno, rendendo possibile ritmi ectopici attivi. Non si deve pensare che quest’ultimo tipo di aritmie ipercinetiche dovute a iperattività simpatica siano un caso limite eccezionale. Al contrario costituiscono un’evenienza che può verificarsi nella vita di tutti i giorni favorita dagli sforzi, dai processi digestivi, dall’assunzione e dall’abuso di sostanze eccitanti: caffè, tè, tabacco. Ne consegue che le aritmie sono possibili (ed anche frequenti) nel cuore sano, ed in tal caso sono dette aritmie funzionali (Tab. 6.1). Più frequentemente le aritmie si manifestano nel cuore malato, sia nel caso che il cuore abbia una malattia primitiva, sia che esso sia coinvolto secondariamente a malattia di altri organi. Squilibri elettrolitici ed attività indesiderate di farmaci sono altre cause comuni di aritmie.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Tabella 6.1 - Cause principali di aritmie. Funzionali • Sforzi • Processi digestivi • Assunzione/abuso di sostanze eccitanti Organiche • Cardiache primitive: – Cardiopatie ischemiche – Cardiopatie valvolari – Cardiomiopatie primitive – Miocarditi • Cardiache secondarie a: – Tireotossicosi – Feocromocitoma – Squilibri elettrolitici – Farmaci
Le malattie primitive del cuore che più spesso inducono la formazione di aritmie sono: la cardiopatia ischemica, le cardiopatie valvolari, le cardiomiopatie primitive, le miocarditi. Si può affermare, in generale, che tutte le malattie del cuore possono manifestare ogni forma di aritmia. Esempi di malattie extracardiache che possono indurre aritmie sono la tireotossicosi ed il feocromocitoma (Tab. 6.1). Lo squilibrio elettrolitico che è più frequentemente responsabile dei disturbi del ritmo è l’ipopotassiemia. Tra i farmaci va ricordata la tossicità digitalica. Parlando dei meccanismi patogenetici delle aritmie ipercinetiche, si è detto che essi richiedono l’aumento dell’automatismo cellulare in focolai ectopici e la formazione dei circuiti di rientro. Entrambi i meccanismi possono essere indotti da condizioni che sono variamente presenti nelle situazioni sopra elencate. Fra le condizioni più spesso presenti si possono elencare la distensione delle fibre miocardiche, l’ipossia delle cellule, l’alterazione degli elettroliti, l’azione di ormoni, di sostanze eccitanti o di farmaci. Non esistono criteri sicuri per distinguere le aritmie che si manifestano per un esaltato automatismo, per rientro, o per “triggered activity”. Spesso tutti i meccanismi sono variamente in gioco nella genesi dell’aritmia; altre volte un meccanismo innesca l’aritmia e gli altri la perpetuano.
Fisiopatologia Le aritmie interferiscono con la corretta funzione del cuore attraverso numerosi meccanismi. Gli effetti di questi meccanismi possono essere così sintetizzati: • effetti legati alla modificazione della frequenza cardiaca; • effetti legati alla perdita della contrazione atriale (che può verificarsi in alcune aritmie); • effetti legati al consumo di ossigeno da parte del miocardio e alla riduzione del flusso coronarico; • effetti sul sincronismo della contrazione ventricolare.
A. Effetti secondari alla variazione della frequenza cardiaca. In condizioni di normalità il cuore sa mantenere costante la portata cardiaca (quantità che il sangue espelle in un minuto) anche con ampie variazioni della frequenza (da circa 40 a circa 160 battiti/min). Ciò è possibile perché il cuore normale varia adeguatamente la quantità di sangue espulsa ad ogni singola sistole (gettata sistolica): l’aumenta in caso di bradicardia e la riduce in caso di tachicardia. Quando il miocardio è malato, il cuore non riesce ad incrementare adeguatamente la gettata sistolica in corso di bradicardia e, nella situazione opposta, può ridurre eccessivamente la gettata sistolica in corso di tachicardia. Nell’un caso e nell’altro diminuisce la portata cardiaca e la prestazione di pompa del cuore è compromessa. B. Effetti secondari alla perdita della contrazione atriale. Gli atri, normalmente, completano il riempimento diastolico dei ventricoli. In alcune aritmie l’attivazione atriale è assente o incoordinata, in maniera tale che non si ha una contrazione efficace delle pareti atriali (per es., la fibrillazione atriale); in altre la sistole atriale si verifica, ma senza effetto emodinamicamente utile perché fuori tempo. Ciò avviene in certi blocchi atrioventricolari, nei ritmi giunzionali, nelle tachicardie ventricolari e, in molti casi, nelle tachicardie parossistiche e nei flutter atriali. Nel cuore normale la perdita della contrazione atriale comporta, in condizioni di riposo, solo un modesto effetto emodinamico. Durante l’esercizio fisico o in presenza di un’alterata funzione contrattile, la perdita della normale sistole atriale comporta una significativa riduzione della portata cardiaca. La sistole atriale è particolarmente importante ai fini di un riempimento ventricolare diastolico corretto nelle condizioni caratterizzate da ipertrofia del ventricolo. Quando il ventricolo è ipertrofico, la compliance (distensibilità) delle fibre miocardiche è compromessa: la riduzione della compliance ostacola il riempimento protodiastolico ventricolare. Ne deriva che il riempimento ventricolare dipende, in buona parte, dalla validità della sistole atriale. Condizioni patologiche caratterizzate da ipertrofia ventricolare sono: la stenosi aortica, l’ipertensione arteriosa e le cardiomiopatie ipertrofiche primitive. C. Effetti legati al consumo di ossigeno miocardico e al flusso coronarico. La frequenza cardiaca è uno dei determinanti principali del consumo di ossigeno miocardico. L’aumento della frequenza cardiaca aumenta il consumo di ossigeno; la riduzione della frequenza lo riduce. La frequenza cardiaca, inoltre, condiziona l’entità del riempimento coronarico. Le coronarie si riempiono durante la diastole e si svuotano durante la sistole. La diastole è più lunga in corso di bradicardia ed è più breve in corso di tachicardia. La conseguenza è che in presenza di coronaropatia il flusso coronarico può essere normale se la frequenza cardiaca è bassa, ma può ridursi criticamente se insorge una tachicardia. D. Effetto sul sincronismo della contrazione ventricolare. La funzione ottimale del ventricolo dipende in buona parte dalla contrazione sincrona, quasi simultanea, delle sue fibre.
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Alcune aritmie comportano un asincronismo della contrazione del ventricolo. Il caso estremo è rappresentato dalla fibrillazione ventricolare, in cui la contrazione del ventricolo è del tutto caotica e inefficace. Esistono gradi minori di asincronismo legati soprattutto a una diffusione irregolare dello stimolo a livello dei ventricoli: nella tachicardia ventricolare, nella extrasistolia ventricolare e nella tachicardia sopraventricolare con conduzione aberrante. L’effetto negativo di una contrazione asincrona è particolarmente importante quando si instaura in soggetti con gravi malattie a carico del miocardio.
Sintomi In generale non è possibile abbinare i vari disturbi del ritmo con sindromi e segni specifici. La formazione di essi è determinata dall’aritmia presente e da altre numerose variabili: condizioni contrattili del miocardio, stato del circolo coronarico, stato del circolo arterioso periferico, durata dell’aritmia, ecc. Queste variabili tendono a fare del sintomo un parametro molto personale. Ciononostante, è possibile costruire dei criteri di massima che, opportunamente corretti a seconda delle variabili presenti, possono costituire una traccia razionale per connettere fra loro i disturbi del ritmo con i sintomi. In linea generale si può dire che i sintomi determinati dalla presenza di un’aritmia possono derivare da tre meccanismi differenti: • interferenza da parte dell’aritmia con la funzione di pompa del cuore; • interferenza col riempimento coronarico; • percezione del battito cardiaco irregolare. Nelle aritmie ipercinetiche sopraventricolari il sintomo dominante è in genere legato alla percezione del cuore che batte velocemente (cardiopalmo). Il cardiopalmo può essere “ritmico” o “aritmico” a seconda dell’aritmia presente. Se il circolo coronarico è compromesso, possono comparire sintomi legati all’ipoperfusione coronarica (angina) perché si riduce il tempo di riempimento diastolico delle coronarie. Solitamente l’aritmia ipercinetica sopraventricolare consente una buona funzione dei ventricoli; quando però l’aritmia si manifesta in cuori con funzione contrattile ridotta, l’aumento della frequenza può ridurre significativamente la portata cardiaca. La riduzione della portata cardiaca si accompagna a segni di scompenso retrogrado (dispnea) e anterogrado (pallore, confusione mentale, sudorazione). Nelle aritmie ipercinetiche ventricolari dominano solitamente i sintomi legati alla riduzione della portata cardiaca. La portata cardiaca è variamente compromessa a seconda del tipo di aritmia: in genere poco o niente nei battiti prematuri (extrasistoli) ventricolari sporadici; gravemente nella tachicardia ventricolare e nella torsione di punta; nella fibrillazione ventricolare la portata cardiaca si riduce a zero. Nelle aritmie ipocinetiche la gittata sistolica aumenta per compensare la bradicardia. Se questo meccanismo di compenso non è sufficiente, la perfusione degli orga-
ni periferici è inadeguata. I sintomi maggiori derivano dall’ipoperfusione del cervello e sono: vertigini, lipotimie e sincopi. La durata e la gravità della sintomatologia dipendono dalla gravità dell’ischemia cerebrale; questa, a sua volta, dipende dalla durata e dalla gravità dell’aritmia ipocinetica.
Diagnosi Questo argomento sarà trattato in parte nella descrizione delle singole aritmie, in parte alla fine del paragrafo Problemi diagnostici particolari nelle aritmie. È opportuno però anticipare la descrizione di una manovra semplice e diagnosticamente importante: il massaggio del seno carotideo (MSC). La manovra è utile nella diagnosi differenziale di alcune aritmie ipercinetiche. Il principio su cui si basa è di indurre uno stimolo vagale che agisce soprattutto inibendo la conduzione a livello del nodo A-V. Il MSC si effettua a paziente supino con il capo esteso e ruotato dalla parte opposta a quella dove si intende applicare il massaggio. Il massaggio dev’essere praticato a livello della biforcazione della carotide, immediatamente al di sotto dell’angolo della mandibola. È necessario che durante il massaggio si registri l’ECG. Il massaggio non deve essere prolungato (non più di 5-6 sec), dev’essere inizialmente praticato con cautela (possibilità di riflessi eccessivi) e dev’essere evitato in presenza di un fremito carotideo. La presenza di un fremito, infatti, segnala un certo grado di ostruzione a carico del circolo carotideo; il massaggio del glomo potrebbe, pertanto, far precipitare una condizione di ischemia cerebrale.
Terapia A. Principi generali. Non sempre l’aritmia necessita di un trattamento farmacologico specifico. L’indicazione alla terapia si pone per tre ordini di motivi: 1) quando la presenza dell’aritmia compromette la funzione di pompa del cuore, alterandone l’emodinamica in maniera significativa; 2) quando l’aritmia anticipa potenzialmente aritmie più gravi (in particolare la fibrillazione ventricolare); 3) quando l’aritmia determina sintomi molesti. Queste condizioni possono essere presenti singolarmente o associate una all’altra. Si crea così una vasta gamma di circostanze nelle quali l’indicazione al trattamento è più o meno imperativa e urgente. Da quanto detto, risulta evidente che la stessa aritmia può richiedere o meno una terapia, secondo il contesto clinico nel quale si manifesta. Il concetto può essere illustrato meglio da alcuni esempi. I battiti prematuri ventricolari, che sono sporadici, insorgono in cuori sani, non vengono avvertiti dal paziente, non alterano la funzione cardiaca in modo significativo e non necessitano di un trattamento farmacologico antiaritmico. I battiti prematuri ventricolari devono invece essere trattati nella fase acuta dell’infarto (quando possono dare il
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
via ad aritmie più gravi), in presenza di anomalie contrattili del miocardio (dove possono precipitare una situazione di compenso labile) o quando sono avvertiti dal paziente in modo molesto. L’osservazione dei tre parametri ricordati (sintomi, potenzialità di aritmie gravi, conseguenze emodinamiche) guida anche il criterio di tempestività con la quale la terapia va instaurata. Altro esempio: la terapia di una tachicardia atriale parossistica oligosintomatica, che insorge in un soggetto giovane e privo di cardiopatia apparente, può essere dilazionata. La stessa aritmia che si presenti in un anziano con compromissione del sistema cardiovascolare e che induca sintomi (di ischemia cerebrale o miocardica, di shock o di scompenso cardiaco) richiede un trattamento d’urgenza. B. Farmaci antiaritmici. Come già visto, i meccanismi che inducono le aritmie ipercinetiche sono principalmente due: l’alterato automatismo e il rientro. La terapia farmacologica delle aritmie ipercinetiche deve quindi mirare a intervenire variamente su questi due meccanismi: modificando la pendenza della fase 4 del potenziale d’azione delle cellule automatiche e variando opportunamente la velocità di conduzione delle cellule che costituiscono un circuito di rientro. In alcuni sporadici casi il meccanismo patogenetico dell’aritmia è palese (per es., nelle aritmie da rientro della sindrome di Wolff-Parkinson-White). In questi casi la scelta del farmaco deve poggiare su basi razionali. In altri casi il meccanismo patogenetico è ipotetico e la scelta dei farmaci è più empirica. I farmaci antiaritmici modificano le proprietà bioritmiche delle cellule miocardiche, intervenendo variamente sul potenziale d’azione. Attualmente i farmaci antiaritmici impiegati nel trattamento delle aritmie specifiche vengono suddivisi in quattro classi, a seconda delle modalità con cui intervengono sul potenziale d’azione (Tab. 6.2).
Alla I classe appartengono farmaci cosiddetti stabilizzatori di membrana, perché deprimono principalmente il canale rapido del sodio durante la fase 0 del potenziale d’azione. La classe I viene a sua volta suddivisa in tre gruppi (A, B e C) a seconda dell’effetto procurato sulla fase 4 delle cellule automatiche, sulla velocità di conduzione e sulla durata del periodo refrattario. La II classe dei farmaci antiaritmici raggruppa i cosiddetti -bloccanti. I -bloccanti esercitano la loro azione antiaritmica antagonizzando l’azione aritmogena delle catecolamine (adrenalina e noradrenalina). La III classe è costituita da farmaci che allungano la fase 3 del potenziale d’azione, allungano la conduzione e il periodo refrattario delle cellule. La IV classe, infine, è costituita da alcuni dei cosiddetti farmaci calcio-antagonisti. Questo gruppo di antiaritmici inibisce la corrente lenta del calcio nella fase 2 del potenziale d’azione, rallenta la fase 4 delle cellule automatiche, riduce la velocità di conduzione e allunga il periodo refrattario. Il trattamento delle aritmie ipocinetiche dipende da due fattori principali: a) se l’aritmia è sintomatica; b) se esistono segni che fanno ragionevolmente ritenere che l’aritmia evolverà verso forme più gravi, pericolose per la vita del paziente. La terapia dell’aritmia ipocinetica può essere farmacologica o elettrica. La terapia farmacologica viene impiegata solo in condizioni di emergenza per via parenterale e per lo più quando si è nell’impossibilità pratica di ricorrere alla terapia elettrica. I farmaci impiegati sono: l’atropina endovena, che svolge un’azione vagolitica e i farmaci simpaticomimetici -stimolanti (isoproterenolo). Quando l’aritmia è sintomatica o minaccia una condizione più grave, è indicato il trattamento elettrico. Il trattamento elettrico consiste nella posa di un catetere stimolatore, che può essere temporaneo o definitivo a seconda che la causa dell’aritmia sia reversibile o meno.
Tabella 6.2 - Farmaci antiaritmici.
• I Classe
A) Chinidina Procamide Diisopiramide Ajmalina Propafenone B) Lidocaina Difenilidantoina Mexiletina C) Flecainide Encainide
FASE 4 (PENDENZA)
VELOCITÀ DI CONDUZIONE
PERIODO REFRATTARIO
↓↓
↓
↑↑
↓
↓↑
↓
↓↓↓
↓↓↓
↑↓
• II Classe
-bloccanti
↓
↓
↑
• III Classe
Amiodarone
↓
↓
↑↑
• IV Classe
Verapamil Diltiazem
↓
↓
↑
Riduzione: ↓ lieve Aumento: ↑ lieve
↓↓ moderata ↑↑ moderato
↓↓↓ marcata ↑↑↑ marcato
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6 - ARITMIE
L’elettrostimolazione consiste nell’inserire un catetere attraverso una vena periferica. Il catetere viene spinto fino alle sezioni destre del cuore. In particolare la punta del catetere dev’essere a contatto con l’endocardio del ventricolo destro. All’estremità opposta il catetere viene collegato con un pacemaker artificiale, che invia impulsi ritmici della frequenza desiderata. Se la stimolazione è temporanea, il catetere viene per lo più inserito attraverso la vena femorale. Il pacemaker viene collegato col catetere esternamente al paziente e ancorato a un supporto rigido (per es., il letto). Nella stimolazione definitiva il pacemaker è di piccole dimensioni. Viene applicato nel sottocute del paziente in un’apposita “tasca” precedentemente preparata. La tasca sottocutanea solitamente è situata sopra il muscolo pettorale. Nel caso della stimolazione definitiva, si introducono, a volte, due cateteri: l’estremità del primo viene posta a contatto con la parete dell’atrio, l’estremità del secondo con la parete del ventricolo destro. Il pacemaker artificiale al quale vengono collegati è in grado di emettere due impulsi separati fra loro da un piccolo intervallo: il primo impulso stimola l’atrio (e determina quindi la contrazione atriale), il secondo il ventricolo (contrazione ventricolare). L’intervallo fra due stimoli può essere variato dall’operatore. La stimolazione bicamerale consente di riprodurre una condizione molto simile a quella fisiologica. In particolare, viene conservato il vantaggio emodinamico fornito dalla sistole atriale. La stimolazione artificiale effettuata attraverso il catetere (o i cateteri nel caso della stimolazione bicamerale) dev’essere programmata secondo il tipo di aritmia ipocinetica che si vuole curare. Vale, di norma, il principio secondo il quale è opportuno preservare quel che rimane dell’attività elettrica spontanea del cuore. Per esempio, nel blocco atrioventricolare di III grado associato a una normale attività del nodo del seno (si veda il paragrafo sulle Aritmie ipocinetiche) è necessario garantire un’efficace stimolazione ventricolare artificiale che dev’essere sincronizzata in modo opportuno con quella, fisiologica, degli atri. Per ottenere questo risultato occorre inserire (come già detto) due cateteri: uno nell’atrio destro e uno nel ventricolo destro. Il catetere atriale, però, in questo caso non serve per stimolare gli atri (gli atri sono già attivati dall’onda di depolarizzazione che origina come di norma dal nodo del seno); ha solo la funzione di “sentire” l’onda di depolarizzazione spontanea e di trasmetterla al pacemaker artificiale. Quando il pacemaker artificiale riceve l’impulso atriale emette (dopo un intervallo ottimale stabilito dall’operatore) l’impulso di stimolazione ventricolare. Il vantaggio è evidente: viene preservata la normale attività sinusale e viene contemporaneamente garantito un rapporto temporale ottimale fra la contrazione degli atri e quella dei ventricoli. Diversa è la condizione del paziente che presenta una riduzione critica dell’attività sinusale. In questo caso è necessario che il pacemaker stimoli sia gli atri sia i ventricoli. Anche l’elettrodo atriale, quindi, dev’essere in grado di stimolare.
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Come già detto, la stimolazione attraverso l’elettrodo ventricolare avviene dopo un intervallo che può essere modificato dall’operatore. Quelli descritti sono solo due dei possibili, numerosi esempi che si configurano nelle diverse forme di aritmia ipocinetica. Per cercare di descrivere in modo semplice e immediato le caratteristiche dei vari pacemaker artificiali è entrato nell’uso corrente un codice a più lettere. Quello correntemente utilizzato è a tre lettere. La prima lettera stabilisce quale camera viene stimolata: V vuol dire ventricolo, A atrio e D sta per “Dual Chamber” ovvero: sia atrio sia ventricolo vengono stimolati attraverso due cateteri. La seconda lettera definisce la camera dove il catetere ha la cosiddetta funzione di “sensing” (dove, cioè, “sente” l’eventuale impulso spontaneo). Oltre alle ricordate lettere V, A e D in questo caso si aggiunge la O che sta ad indicare l’assenza di una funzione di sensing. La terza lettera definisce il tipo di stimolazione effettuata dal pacemaker in risposta al segnale di sensing. La lettera O stabilisce che il pacemaker impiegato non prevede alcun tipo di risposta ad un eventuale segnale di sensing; la lettera I indica che il pacemaker inibisce l’elettrodo stimolatore in risposta al segnale di sensing; la lettera T sta per “triggering”. Ovvero: quando il segnale di sensing raggiunge il pacemaker questo emette (dopo un intervallo programmato) una stimolazione che raggiunge la camera stimolata (definita dalla prima lettera). La lettera D, infine, indica una risposta duplice: a) l’attività spontanea atriale e ventricolare inibisce sia la stimolazione atriale sia quella ventricolare; b) l’attività atriale non seguita da quella ventricolare determina (secondo la modalità di “triggering”) la stimolazione ventricolare. La scelta del tipo di pacemaker da impiegare dipende dalla situazione clinica e dal tipo di aritmia ipocinetica da correggere. Il pacemaker più impiegati sono del tipo VVI e DDD. Il pacemaker DDD consente una stimolazione bicamerale; ha una funzione di sensing sia in atrio sia in ventricolo e una risposta al segnale di sensing che è di volta in volta di inibizione bicamerale o di stimolazione ventricolare sequenziale all’attività atriale spontanea. Il pacemaker VVI viene applicato soprattutto nei casi di fibrillazione atriale cronica a bassa frequenza ventricolare. Ha un singolo catetere che stimola in ventricolo (prima lettera V); “sente” in ventricolo (seconda lettera V) e risponde allo stimolo di sensing con un’inibizione (terza lettera I) della stimolazione. Il tilting test è positivo in circa il 40% delle sincopi di incerta natura: quelle, cioè, nelle quali l’eziologia è ignota nonostante l’esecuzione di tutti gli altri test diagnostici. In alcuni casi prevale la componente cardiodepressiva (si ha una spiccata bradicardia); in altri prevale la componente vasodepressiva (spiccata ipotensione); in altri, infine, si ha una risposta mista (bradicardia più ipotensione marcate). Il tipo di risposta ottenuto col tilting test fornisce alcune indicazioni sul tipo di provvedimento terapeutico da adottare; per esempio, l’impianto di un pacemaker stimolatore nei casi in cui la risposta cardiodepressiva è particolarmente marcata.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
A tutt’oggi mancano dati definitivi sulla reale efficacia di queste procedure a lungo termine. C. Cardioversione elettrica. È una metodica universalmente accettata per la risoluzione di numerosi disturbi del ritmo. Essa consiste nell’applicazione sul torace di una grossa scarica o shock elettrico a corrente continua. Lo shock ha lo scopo di provocare una depolarizzazione simultanea di tutto il miocardio, con conseguente egualizzazione rapida e omogenea dei potenziali transmembrana delle fibre miocardiche: si spengono così i foci ectopici e i rientri, dando modo ai centri fisiologici dell’automatismo di riprendere il comando della depolarizzazione del cuore. Le aritmie per le quali è indicata la cardioversione mediante shock elettrico sono le seguenti: fibrillazione atriale, tachicardia atriale parossistica, tachicardia ventricolare e fibrillazione ventricolare. Lo shock elettrico si effettua mediante un apparecchio chiamato defibrillatore. Il defibrillatore è in grado di erogare una corrente continua in quantità variabile attraverso due elettrodi. Gli elettrodi del defibrillatore vengono posti sul torace del paziente. La scarica elettrica viene erogata attraverso un comando manuale. Se lo shock elettrico è programmato e il paziente è cosciente, è necessario effettuare una breve anestesia perché lo shock è molto doloroso. Il paziente in fibrillazione ventricolare è incosciente. In questo caso lo shock deve essere erogato immediatamente. Se il primo shock non ha successo, nella cardioversione della fibrillazione ventricolare le scariche devono essere ripetute. D. Ablazione con radiofrequenza e procedimenti chirurgici. La moderna aritmologia ha sviluppato tecniche di “ablazione” di zone specifiche del miocardio, sottoponendole all’azione mirata di radiofrequenze veicolate da cateteri. Sono anche stati elaborati procedimenti chirurgici volti a interrompere circuiti rientranti. Di alcuni di questi interventi si parlerà a proposito della fibrillazione atriale. Qui vale la pena di sottolineare l’enorme importanza di questi sviluppi terapeutici che hanno portato alla nascita di una sottospecializzazione nell’ambito della specializzazione più vasta della cardiologia.
ARITMIE IPERCINETICHE Come si è anticipato, viene definita ipercinetica un’aritmia nella quale a livello sopraventricolare o a livello ventricolare, o a entrambi i livelli, singoli battiti o sequenze di battiti sono “guadagnati” rispetto al ritmo sinusale. La classificazione delle aritmie ipercinetiche si basa su due parametri: sede d’origine dell’aritmia (Tab. 6.3), tipo del disturbo del ritmo (Fig. 6.6A, B e C). L’aritmia può originare dal nodo del seno o, come più spesso avviene, da un focus ectopico (da aumentato automatismo o da rientro). In quest’ultimo caso, come si è già detto, ha rilevanza se l’origine dell’aritmia è negli
Tabella 6.3 - Classificazione delle aritmie ipercinetiche. • Extrasistoli (o battiti ectopici o battiti prematuri) – Atriali – Giunzionali – Ventricolari • Tachicardie sopraventricolari – Sinusale – Tachicardia atriale ectopica (con blocco) – Ritmo giunzionale accelerato – Sindromi da preeccitazione – Tachicardia parossistica sopraventricolare • Tachiaritmie sopraventricolari – Flutter atriale – Fibrillazione atriale • Tachicardie ventricolari – Ritmo ventricolare accelerato – Tachicardia parossistica ventricolare – Torsione di punta – Fibrillazione ventricolare
atri o nella regione giunzionale (aritmie ipercinetiche sopraventricolari) o a livello dei ventricoli (aritmie ipercinetiche ventricolari). Per quanto riguarda il tipo del disturbo del ritmo, esso può essere sporadico (per es., battiti prematuri), può determinare aumento ordinato della frequenza (tachicardia), oppure determinare aumento disordinato della frequenza (tachiaritmia).
Extrasistoli (o battiti ectopici o battiti prematuri) Si dicono extrasistoli impulsi singoli che episodicamente nascono in sedi diverse dal nodo del seno. Essi si sovrappongono al ritmo di base e ne interrompono la normale sequenza ritmica. Secondo la sede di origine, si distinguono in atriali, giunzionali (nodo atrioventricolare e fascio di His) e ventricolari. A. Extrasistoli atriali. Le extrasistoli possono insorgere in cuori sani o in cuori malati. Nel sano possono essere favorite dallo stress (psichico e fisico) e dall’abuso di sostanze eccitanti (tè, caffè, tabacco). Nel malato esse, solitamente, si manifestano nelle condizioni caratterizzate da una distensione della parete degli atri (cardiopatia mitralica e scompenso congestizio) e nelle cardiopatie ischemiche. A volte le extrasistoli atriali precedono aritmie più gravi, quali la fibrillazione atriale o la tachicardia atriale ectopica. Le extrasistoli atriali sono impulsi che nascono a livello atriale in foci distinti dal nodo del seno. All’ECG sono caratterizzate dalla presenza di onde P che hanno morfologia diversa da quella dell’onda P determinata dal normale ritmo sinusale. Solitamente l’onda P ectopica è separata dall’onda P sinusale del complesso precedente da un intervallo inferiore all’intervallo compreso fra due P sinusali. È per questo motivo che tali battiti vengono chiamati prematuri.
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6 - ARITMIE A. ARITMIE IPERCINETICHE
Extrasistole ventricolare (2A = B + B’) Extrasistole sopraventricolare (2A > B + B’)
Pre-eccitazione ventricolare (onda delta) Tachicardia sinusale
Tachicardia atriale
Tachicardia sopraventricolare
Flutter atriale (con blocco variabile)
Fibrillazione atriale
Ritmo ventricolare accelerato Tachicardia ventricolare
Torsione di punta
Fibrillazione ventricolare
Figura 6.6 - A. Rappresentazione schematica dei principali disturbi del ritmo: aritmie ipercinetiche. (Segue)
L’impulso che nasce dal focus ectopico atriale diffonde al nodo atrioventricolare e al fascio di His. Tale diffusione avviene per lo più in maniera del tutto normale e in questi casi la morfologia del complesso QRS del battito prematuro atriale è identica a quella dei battiti del ritmo sinusale di fondo. Tuttavia, se l’impulso ectopico è molto prematuro, diffonde al fascio di His mentre questo è ancora in condizioni di refrattarietà assoluta o relativa. Nel primo caso (refrattarietà assoluta) l’impulso ectopico viene “bloccato” e non raggiunge i ventricoli (all’onda P ectopica non segue il QRS): nel secondo caso (refrattarietà relativa) la conduzione a livello del nodo atrioventricolare e del fascio di His viene
rallentata con conseguente allungamento del tempo di conduzione atrioventricolare (P-R dell’ECG). Il recupero dal periodo refrattario a livello della parte più periferica del sistema di conduzione non è uniforme: in particolare, il periodo refrattario del ventricolo destro è più lungo di quello del ventricolo sinistro. L’onda di depolarizzazione di un battito ectopico atriale particolarmente precoce può quindi giungere alle branche mentre la branca destra è ancora in condizioni di refrattarietà e cioè funzionalmente bloccata. In questo caso l’unica via percorribile è la branca sinistra. Il QRS che segue la P ectopica è “aberrante” e mostra abitualmente una morfologia tipo blocco di branca destra (Fig. 6.7).
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO B. ARITMIE IPOCINETICHE
Bradicardia sinusale
Battito sfuggita giunzionale
Ritmo giunzionale
Blocco A-V di I grado PQ > 0,20 sec
Blocco A-V di II grado, Mobitz 1
Blocco A-V di II grado, Mobitz 2
Blocco A-V di III grado
C. BLOCCHI DI BRANCA
Blocco di branca sinistra completo
Blocco di branca destra completo
Figura 6.6 - B. Aritmie ipocinetiche. C. Blocchi di branca.
V1
Figura 6.7 - Extrasistolia sopraventricolare bigemina con conduzione aberrante tipo BBD.
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6 - ARITMIE
L’impulso ectopico atriale può penetrare nel nodo del seno e depolarizzare le cellule del segnapassi sinusale. Questa depolarizzazione precede quella del ritmo di base e “scarica” precocemente le cellule sinusali mentre queste sono avviate a raggiungere il potenziale di soglia nella fase 4 del potenziale d’azione. Il risultato è che anche il recupero delle cellule segnapassi e la successiva depolarizzazione spontanea vengono anticipati. L’esito finale è: a) la sequenza salta un battito (quello interrotto dalla depolarizzazione ectopica); b) il battito sinusale che segue il battito prematuro avviene prima del tempo che si avrebbe per la regolare cadenza del ritmo sinusale, se il battito interrotto dalla depolarizzazione ectopica non fosse stato saltato. Tuttavia, l’intervallo che segue il battito prematuro atriale è più lungo dell’intervallo tra due battiti normali, essendo costituito dalla somma del tempo impiegato dall’impulso prematuro a raggiungere e depolarizzare il nodo del seno più il tempo che il nodo del seno successivamente impiega per raggiungere nuovamente il potenziale di soglia, grazie al suo normale automatismo (è solo questa seconda Figura 6.8 - Lo schema serve a spiegare perché solitamente la pausa che segue un’extrasistole sopraventricolare è “parzialmente compensatoria”, mentre quella che segue un’extrasistole ventricolare è “compensatoria”. In questo tipo di rappresentazione l’asse orizzontale rappresenta il tempo, mentre quello verticale le diverse zone anatomiche del cuore: dall’alto al basso, il nodo senoatriale (S), gli atri (A), il nodo atrioventricolare (A-V) e i ventricoli (V) (questi ultimi sono indicati solo nella sezione B della figura). A. Sono rappresentati due battiti sinusali normali seguiti da un’extrasistole atriale (EX): questa si propaga in basso, verso il nodo atrioventricolare e i ventricoli, e in alto verso il nodo del seno che depolarizza. In questo caso, la terza depolarizzazione del nodo del seno (3) è rappresentata tra parentesi perché non è localmente generata, ma propagata dall’extrasistole. Dopo la depolarizzazione (3), il nodo del seno riprende il suo automatismo e l’intervallo tra (3) e 4 è uguale all’intervallo tra 1 e 2. A livello del nodo atrioventricolare (e dei ventricoli) l’intervallo tra l’extrasistole e il battito numero 4 è più lungo di un intervallo normale (come tra 1 e 2) perché è determinato, a livello del nodo del seno, dalla somma dell’intervallo normale (3)-4 più il tempo che l’impulso generato dall’extrasistole impiega a raggiungere il nodo del seno. Tuttavia la somma dei due intervalli, quello precedente e quello seguente l’extrasistole, è minore della somma di due intervalli normali (ossia la pausa non è compensatoria) perché in (3) il nodo del seno è stato depolarizzato in anticipo. B. Sono rappresentati due battiti sinusali normali, seguiti da un’extrasistole ventricolare (EX): questa si propaga in basso, verso le zone ventricolari non ancora eccitate; e in alto, verso il nodo atrioventricolare e gli atri. La propagazione verso gli atri è rallentata nel nodo atrioventricolare, cosicché l’impulso non fa in tempo a raggiungere il nodo del seno prima che questo si scarichi secondo il suo ritmo normale (impulso 3). Tuttavia, l’impulso 3 generato nel nodo del seno trova il tessuto miocardico in stato di refrattarietà per effetto dell’extrasistole ed arresta la sua propagazione. Solo l’impulso successivo, 4, che deriva dal nodo del seno, riesce a propagarsi. Il battito numero 4, a livello ventricolare, è separato dall’extrasistole da un intervallo più lungo rispetto a quello normale. La somma dei due intervalli, quello precedente e quello seguente l’extrasistole, è uguale alla somma di due intervalli normali (ossia la pausa è compensatoria) perché gli impulsi 2 e 4 sono stati generati normalmente nel nodo del seno, mentre l’impulso sinusale 3, pure generato normalmente, manca ed è sostituito dall’extrasistole.
componente quella che determina l’intervallo tra due sistoli normali). Se si sommano gli intervalli che separano il battito prematuro da quelli rispettivamente precedente e seguente, si ottiene un valore inferiore al doppio dell’intervallo tra due battiti normali: questo dipende dal già citato anticipo del battito sinusale che segue quello prematuro. Si può dire perciò che la pausa (allungata) che segue il battito prematuro non compensa l’accorciamento dell’intervallo che lo precede (pausa non compensatoria) (Fig. 6.8). Le extrasistoli atriali, solitamente, non modificano l’attività di pompa del cuore in modo significativo. Esse interferiscono con la gettata sistolica, essendo ridotte la durata della diastole ventricolare comandata dal battito prematuro e l’efficienza della contrazione atriale, ma queste alterazioni riguardano solo i battiti prematuri e sono di limitata importanza se le extrasistoli non sono numerosissime. Le extrasistoli atriali possono essere avvertite dal paziente oppure essere asintomatiche. Se vengono avvertite, vengono descritte come sensazione di cuore che si ferma o di sfarfallio nel petto.
1
2
(3)
4
S
A
EX
A-V
1
2
EX
4
A.
2
1
3
4
5
S A
A-V
V
B.
EX
1
2
EX
4
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Il medico che visita il paziente apprezza un polso nel quale il ritmo regolare è interrotto più o meno frequentemente dall’apparente salto di un battito o da un battito anticipato di scarsa ampiezza (la diminuita gettata sistolica del battito prematuro fa sì che l’onda sfigmica corrispondente sia ridotta e sia mal percepita al polso radiale). All’ascoltazione del cuore si avvertono, di tanto in tanto, dei toni anticipati. All’esame obiettivo è pressoché impossibile distinguere le extrasistoli atriali da quelle che originano in altre sedi (giunzione e ventricoli). Solitamente le extrasistoli atriali sono aritmie benigne che non richiedono uno specifico trattamento antiaritmico. Può essere utile suggerire l’abolizione degli eventuali fattori favorenti l’aritmia. Nei casi caratterizzati da distensione della parete atriale, si deve cercare di migliorare il compenso emodinamico. B. Extrasistoli giunzionali. Le extrasistoli giunzionali sono meno comuni di quelle atriali e ventricolari. Hanno origine nella giunzione (nodo atrioventricolare e fascio di His) e possono diffondere sia verso gli atri che verso i ventricoli. L’ordine con cui l’impulso ectopico diffonde verso atri e ventricoli dipende dalle condizioni in cui questi si trovano quando l’impulso ha origine (condizione di normale eccitabilità o di refrattarietà assoluta o relativa). Gli atri possono pertanto essere attivati prima, dopo o contemporaneamente ai ventricoli. All’ECG l’onda P ha morfologia chiaramente anomala ed è posta prima, dopo il QRS, oppure è sovrapposta ad esso (in questo caso non si vede). Solitamente le extrasistoli giunzionali diffondono ai ventricoli in modo regolare determinando la formazione di QRS con morfologia analoga a quella dei complessi di base. Se il battito prematuro giunzionale è molto precoce, la diffusione dello stimolo nei ventricoli può essere aberrante.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Cause, fisiopatologia, sintomi e segni clinici delle extrasistoli giunzionali sono analoghi a quelle dei battiti prematuri atriali. Anche le extrasistoli giunzionali hanno solitamente andamento benigno e non richiedono un trattamento specifico. Per le somiglianze elencate ed essendo talora difficile distinguere all’ECG le extrasistoli atriali da quelle giunzionali, i due tipi di extrasistoli vengono spesso raggruppati sotto il termine di extrasistoli sopraventricolari. C. Extrasistoli ventricolari (battiti ectopici, battiti prematuri ventricolari). Le extrasistoli ventricolari costituiscono la forma di aritmia più frequente. Si possono manifestare sia in presenza che in assenza di cardiopatia. In assenza di cardiopatia, riconoscono gli stessi fattori favorenti descritti per le extrasistoli atriali. In presenza di cardiopatia, si manifestano molto frequentemente in corso di infarto miocardico, di scompenso ventricolare o di sovradosaggio digitalico. All’ECG le extrasistoli ventricolari sono caratterizzate da complessi QRS più larghi di quelli normalmente condotti (di solito la durata è superiore a 0,14 sec); non sono precedute da onde P; sono separate dal complesso QRS che li precede da un intervallo più breve di quello che separa due complessi QRS del ritmo di base (Fig. 6.9). Nella maggior parte dei casi l’impulso ectopico ventricolare non penetra nel nodo del seno e non interferisce con la formazione ritmica dell’impulso sinusale. Tuttavia il battito del ritmo sinusale successivo a quello che ha preceduto il battito prematuro è mancante, perché quando l’impulso che dovrebbe dargli origine parte dal nodo del seno, trova il miocardio in periodo refrattario a causa del battito prematuro di origine ectopica che si è verificato immediatamente prima (Fig. 6.8). La pausa che separa l’extrasistole dal successivo battito sinusale normalmente condotto (primo battito post-
Figura 6.9 - Ritmo sinusale in un soggetto con infarto acuto del miocardio interrotto da due coppie di extrasistoli ventricolari. La prima extrasistole di ciascuna coppia è precoce secondo le caratteristiche del fenomeno R/T.
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6 - ARITMIE
extrasistolico) è pertanto completamente compensatoria: l’intervallo fra il complesso normale che precede e quello che segue il battito prematuro è uguale a due cicli sinusali. Quando la frequenza del nodo del seno è sufficientemente bassa, è possibile che il battito del ritmo sinusale successivo al battito prematuro giunga ai ventricoli quando questi hanno già recuperato una normale eccitabilità. In questo caso l’extrasistole ventricolare si pone fra due battiti del ritmo sinusale senza interferire con la loro naturale cadenza. Se si verifica questa circostanza, si parla di “extrasistole interpolata”. Alcuni battiti prematuri ventricolari possono diffondere per via retrograda agli atri (battiti “retrocondotti”): la retroconduzione determina la formazione di un’onda P chiaramente anomala che si inscrive sul tratto ST del complesso ectopico. A volte un battito prematuro insorto molto precocemente può dare luogo a quello che viene chiamato fenomeno “R su T” (R/T): il QRS ectopico si inscrive sull’onda T del complesso che lo precede. Questa inscrizione coincide con il periodo cosiddetto vulnerabile dei ventricoli, e quindi il fenomeno R/T può dare il via ad aritmie ventricolari gravi (tachicardie e fibrillazione ventricolare). Se ogni complesso normale viene seguito regolarmente da un’extrasistole, si parla di bigeminismo extrasistolico; se il battito ectopico compare ogni due complessi normali, si parla di trigeminismo e così via. Il bigeminismo è particolarmente frequente in corso di intossicazione digitalica. Le extrasistoli ventricolari possono o meno essere pericolose in base a due parametri: il quadro clinico nel quale si manifestano e i caratteri elettrocardiografici. Il contesto clinico di maggior pericolo è l’infarto miocardico acuto, dove l’extrasistole ventricolare può innescare aritmie mortali. I caratteri elettrocardiografici potenzialmente più pericolosi sono: a) la precocità (associata a fenomeno R/T); b) la ripetitività (battiti prematuri in sequenze di due o tre); c) il polimorfismo (battiti prematuri che originano da foci ventricolari differenti); d) la frequenza (numero in un’ora). In sintesi, si può dire che l’extrasistolia ventricolare sporadica del sano è un’aritmia benigna che non va trattata. L’extrasistolia frequente con eventuali fenomeni R/T, coppie (due battiti prematuri in sequenza) o triplette (tre battiti prematuri in sequenza) che insorge nella fase acuta dell’infarto è una grave emergenza medica. I battiti prematuri interrompono la successione del ritmo cardiaco sinusale e compromettono la sequenza temporale fisiologica di riempimento e svuotamento delle camere cardiache. In particolare, il battito prematuro ventricolare interrompe il riempimento protodiastolico rapido del ventricolo e priva il riempimento ventricolare della quota dovuta alla sistole atriale. Questa interferenza è tanto maggiore quanto più il battito ectopico è precoce. La sistole indotta dal battito prematuro svuota un ventricolo che ha potuto riempirsi solo parzialmente e genera pertanto una gettata sistolica ridotta. Il battito sinusale che segue il battito prematuro ha un tempo di riempimento diastolico più lungo (pausa com-
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pensatoria). Ne consegue che la quantità di sangue presente al termine della diastole ventricolare del battito sinusale postextrasistolico è maggiore di quella presente al termine della diastole di base (sequenza sinusale regolare) e la gittata sistolica è maggiore. La sistole postextrasistolica può essere avvertita dal paziente come “colpo nel petto”. L’interferenza dei battiti extrasistolici ventricolari sull’emodinamica cardiaca è insignificante quando questi sono isolati, ma può essere grave se i battiti prematuri sono frequenti e il miocardio è malato. I battiti prematuri ventricolari possono essere sintomatici oppure no. Se non sono sintomatici, di solito sono rari. Se sono sintomatici, possono determinare due tipi di disturbo. Il primo è legato alla percezione dell’aritmia: il malato avverte l’irregolarità del battito cardiaco e lo descrive come “cuore che si ferma, perde colpi, dà colpi più forti”, ecc. Il secondo è determinato dai segni dello scompenso (dispnea e segni di bassa portata periferica). I disturbi legati allo scompenso si presentano per lo più quando il cuore ha già gravi deficit contrattili di base. Il medico che visita un paziente con battiti prematuri ventricolari registra l’irregolarità del ritmo del cuore, avvertendo, alla palpazione del polso periferico, il battito extrasistolico come una pulsazione anticipata di scarsa ampiezza, oppure come assenza di un battito. Il primo battito postextrasistolico è invece particolarmente ampio. I battiti extrasistolici precoci, infatti, inducono contrazione dei ventricoli ancora vuoti di sangue o quasi, cosicché la gettata pulsatoria è scarsa o nulla. In questo caso l’ascoltazione del cuore fa percepire, in coincidenza con l’extrasistole, un primo tono isolato, vale a dire non seguito da secondo tono (questo manca perché le valvole semilunari non hanno fatto in tempo ad aprirsi). Questa è la ragione per cui l’ascoltazione del cuore deve sempre accompagnare la palpazione del polso radiale. La sola palpazione, infatti, può essere fonte di errore in presenza di un’extrasistolia ventricolare bigemina molto precoce: in questo caso, dato che al polso si sentono solo i battiti sinusali e non quelli extrasistolici, si avrebbe l’impressione di una bradicardia sinusale ritmica (per es., 50 battiti/min) mentre l’ascoltazione permette di capire che la frequenza cardiaca è di 100 (50 battiti efficaci e 50 extrasistoli inefficaci). La terapia delle extrasistoli ventricolari deve essere principalmente rivolta alla rimozione della condizione che ha favorito il manifestarsi dell’aritmia: in particolare, va interrotta l’eventuale assunzione di sostanze eccitanti, va interrotta la digitale in caso di sovradosaggio, va corretto uno stato di scompenso cardiaco o un’eventuale ipopotassiemia. L’indicazione a un trattamento antiaritmico farmacologico è legata alla frequenza con cui l’aritmia si manifesta (numero di extrasistoli all’ora), ai sintomi che induce e alla condizione patologica alla quale è associata. Durante infarto miocardico acuto, in particolare, i battiti prematuri ventricolari richiedono un trattamento farmacologico. I farmaci principalmente impiegati sono quelli della I classe e l’amiodarone. Nell’infarto miocardico si usa la lidocaina per somministrazione endovenosa.
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Tachicardie sopraventricolari A. Tachicardia sinusale. La tachicardia sinusale dell’adulto è caratterizzata da una sequenza ritmica di battiti con frequenza superiore a 100/min che partono, come di norma, dal nodo del seno e danno luogo a una regolare successione dell’onda di attivazione del cuore. La frequenza di battiti è variabile da un momento all’altro, ma solitamente è compresa fra 100 e 180. La tachicardia sinusale si presenta all’ECG con una successione regolare di onde P di morfologia normale seguite regolarmente dal QRS. L’intervallo PQ è uguale o lievemente accorciato rispetto a quello di base. Il massaggio del glomo carotideo procura solo una lieve riduzione della frequenza nel momento in cui viene effettuato. Al termine del massaggio la frequenza risale rapidamente ai valori precedenti. La tachicardia sinusale, solitamente, insorge e termina senza quelle variazioni repentine della frequenza cardiaca che sono proprie della tachicardie ectopiche, come effetto riflesso di circostanze fisiologiche (esercizio fisico, emozioni) e patologiche (febbre, ipertiroidismo, scompenso cardiaco, ipotensione). All’ascoltazione il medico avverte toni frequenti, leggermente variabili con gli atti del respiro: spesso l’intensità dei toni è ridotta quando la tachicardia è secondaria a scompenso cardiaco. In questo caso sono presenti anche gli altri segni dello scompenso. Il polso periferico è piccolo e frequente.
B. Tachicardia atriale ectopica con blocco. Si tratta di una forma non molto frequente ma importante dal punto di vista clinico; si manifesta praticamente solo in soggetti malati. La tachicardia atriale ectopica esprime, nella maggior parte dei casi, un quadro di intossicazione digitalica, che si manifesta specie in presenza di ipopotassiemia. A volte l’aritmia complica il decorso clinico di una pneumopatia ostruttiva cronica. Nella tachicardia atriale ectopica con blocco l’attivazione nasce a livello atriale, in una sede diversa da quella del nodo del seno. Il focus ectopico stimola gli atri con una frequenza compresa fra i 150 e i 220 impulsi/min, ma una parte degli impulsi non raggiunge i ventricoli perché viene bloccata a livello della giunzione. Il blocco è dovuto al fatto che il tessuto che costituisce le strutture della giunzione non riesce a recuperare, fra uno stimolo e l’altro, una condizione di normale eccitabilità. La frequenza con cui i ventricoli vengono stimolati è dunque più bassa di quella di stimolazione atriale: tanto più bassa quanto maggiore è il grado di blocco giunzionale. All’ECG si osservano onde P di aspetto anomalo in successione rapida, a volte seguite e a volte no da un QRS che solitamente ha una morfologia analoga a quella del complesso normale. Quando non precedono un complesso QRS, le onde P sono seguite da un tratto isoelettrico (Fig. 6.10). La frequenza del QRS deriva ovviamente dal grado di blocco atrioventricola-
Figura 6.10 - Tachicardia atriale con conduzione 1:1. Durante la registrazione di base l’onda di attivazione atriale può essere confusa con l’onda T del complesso che precede. Con la stimolazione del seno carotideo si ottiene un transitorio arresto dell’attività atriale (↓); segue (*) una ripresa dell’attività atriale, che conduce per una volta ai ventricoli. Dopo altre due onde atriali non condotte (↓↓), riprende la tachicardia atriale ectopica con conduzione 1:1.
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re. Il blocco può essere fisso (il QRS segue regolarmente ogni seconda, terza, quarta, ecc., P ectopica) e variabile. L’effetto del massaggio del glomo carotideo è quello di aumentare temporaneamente il grado di blocco con una conseguente riduzione della frequenza del QRS. I pazienti con tachicardia atriale ectopica avvertono cardiopalmo che di solito inizia all’improvviso. La tachicardia prolungata e con una frequenza ventricolare elevata (basso grado di blocco atrioventricolare) può fare precipitare un quadro di scompenso cardiaco o di angina. Il medico, all’ascoltazione e alla palpazione del polso, avverte una frequenza cardiaca elevata per lo più (quando il blocco è fisso) rigorosamente ritmica; mancano le variazioni respiratorie della tachicardia sinusale. Si può registrare un calo pressorio e possono essere presenti segni di una bassa portata periferica. La terapia dev’essere tempestiva se sostiene un quadro di scompenso o di angina. In questi casi può essere utile ricorrere senz’altro alla cardioversione elettrica. Se l’aritmia è tollerata bene, la cardioversione può essere dilazionata e deve essere preceduta dalla correzione di eventuali squilibri elettrolitici oltre che dalla sospensione della digitale. C. Ritmo giunzionale accelerato. Il ritmo giunzionale accelerato (detto anche tachicardia nodale non parossistica) è caratterizzato da un esaltato automatismo di pacemaker siti intorno al nodo atrioventricolare. In condizioni normali la frequenza di attivazione intrinseca di questi pacemaker è di circa 40-60 battiti/min. In condizioni normali la frequenza aumenta e il ritmo ectopico prende il sopravvento sull’attivazione fisiologica del nodo del seno. L’aritmia è frequente in condizioni di tossicità digitalica, di febbre reumatica o di infarto miocardico diaframmatico. Da un punto di vista elettrocardiografico, il ritmo giunzionale accelerato si esprime come la successione regolare di complessi QRS di morfologia normale con una frequenza compresa fra i 70 e 140 battiti/min. La frequenza di attivazione aumenta con l’esercizio fisico e non risente del massaggio del glomo carotideo. Gli atri possono essere attivati per via retrograda (a questo proposito, si confronti quanto già detto a proposito delle extrasistoli giunzionali). In altri casi l’attivazione atriale può derivare come di norma dal nodo del seno; si hanno così onde P di aspetto normale, ma dissociate dall’attività ventricolare. In altre parole atri e ventricoli sono sottoposti a due ritmi-guida differenti, che nascono da due pacemaker distinti e che non hanno alcun rapporto temporale fra di loro. Il ritmo giunzionale accelerato di solito non dà sintomi e raramente richiede una terapia specifica; è indicata solo la terapia delle condizioni che ne hanno favorito l’insorgenza. La diagnosi coi soli segni fisici è pressoché impossibile: occorre l’ECG. D. Sindromi di pre-eccitazione ventricolare. Col termine di sindrome di pre-eccitazione ventricolare si intende un gruppo di condizioni patologiche nelle quali
una parte del miocardio ventricolare riceve precocemente l’impulso di eccitazione che proviene dagli atri. In altre parole l’attivazione che proviene dagli atri stimola alcuni settori dei ventricoli prima di quanto avverrebbe se l’impulso seguisse solo la normale via di conduzione rappresentata dalla giunzione atrioventricolare. Si è già visto che atri e ventricoli, in condizioni normali, sono elettricamente isolati e che lo stimolo proveniente dagli atri può raggiungere i ventricoli solo attraverso le strutture nel nodo A-V. Le sindromi di pre-eccitazione ventricolare sono possibili per la presenza di vie accessorie anomale, che connettono atri e ventricoli in aggiunta alle strutture normali del nodo A-V. Tali vie accessorie, a loro volta, sono caratterizzate da strutture muscolari lungo le quali lo stimolo viene condotto più velocemente che lungo il nodo A-V. Le vie accessorie possono essere congenite o acquisite. Esse possono connettere (Figg. 6.11 e 6.12): • la muscolatura atriale con la muscolatura ventricolare (fascio di Kent); • la muscolatura atriale con la parte distale delle strutture del nodo A-V (fibre di James); • il nodo A-V con la muscolatura ventricolare (fibre di Mahaim). La forma più frequente di pre-eccitazione ventricolare è quella dovuta alla presenza del fascio di Kent responsabile della sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW).
Fascio di Kent Fibre di James Fibre di Mahaim
Figura 6.11 - Nel disegno sono rappresentate le principali vie anomale di connessione atrioventricolari. Il fascio di Kent connette la muscolatura atriale con quella ventricolare; il fascio di James la muscolatura atriale con le vie di conduzione atrioventricolari; le fibre di Mahaim mettono in connessione le vie di conduzione atrioventricolari con la muscolatura ventricolare.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
FASCIO DI KENT
DEVIAZIONE DI JAMES
PR corto Onda QRS ampio
PR corto QRS normale
FIBRE DI MAHAIM
JAMES + MAHAIM
PR normale Onda QRS ampio
PR corto Onda QRS ampio
Figura 6.12 - Nello schema sono riassunti i principali aspetti elettrocardiografici che caratterizzano la presenza di vie anomale.
Il fascio di Kent è un fascio muscolare anomalo, formato per lo più da fibre contrattili, che perfora lo scheletro fibroso del cuore e connette direttamente la muscolatura dell’atrio destro o sinistro con quella del ventricolo corrispondente a livello del setto e della parete libera. La sindrome di WPW è caratterizzata dalla presenza di: • normali onde P; • intervallo P-R più corto del normale (inferiore o uguale a 0,11 sec.); • presenza di un impastamento iniziale nel QRS (onda delta); • durata del QRS aumentata e complessi QRS di morfologia anomala; • elevata tendenza all’insorgenza di aritmie ipercinetiche sopraventricolari (in particolare tachicardie parossistiche). L’onda P è normale perché l’eccitazione atriale avviene come di norma. Il P-R è più corto del normale perché lo stimolo raggiunge i ventricoli attraverso la “scorciatoia” rappresentata dal fascio anomalo. L’onda è dovuta all’eccitazione di quel settore di muscolo ventricolare che riceve l’impulso precocemente attraverso la via anomala. Il QRS è allargato perché l’inizio è precoce per la presenza dell’onda . La morfologia del QRS è alterata perché il QRS rappresenta la “fusione” fra lo stimolo che scende precocemente lungo la via anomala e quello che raggiunge i ventricoli attraverso la via normale. La presenza della via anomala rende ragione dell’elevata incidenza di aritmie ipercinetiche sopraventricolari
presenti nei pazienti con WPW. Le aritmie dei pazienti con WPW sono dovute al fenomeno del rientro. Il rientro si attua utilizzando la via anomala e la normale via di conduzione A-V. Solitamente, il periodo refrattario della via anomala è maggiore di quello del nodo A-V. Un battito prematuro sopraventricolare può trovare la via anomala in condizioni di refrattarietà e il nodo A-V normalmente eccitabile. In conseguenza di ciò, l’impulso segue la via normale per via anterograda iniziando la depolarizzazione ventricolare. Quando il miocardio ventricolare viene eccitato, la via anomala può avere recuperato una normale eccitabilità: l’impulso può, pertanto, essere condotto per via retrograda lungo la via anomala. Dopo il rientro, l’impulso può nuovamente ripercorrere per via anterograda la via normale e così via. Ha inizio, pertanto, un’aritmia ipercinetica sopraventricolare che può essere interrotta da un nuovo battito sopraventricolare. Il battito prematuro può infatti modificare ancora le caratteristiche di refrattarietà delle due vie e interrompere il rientro. Classicamente vengono distinti due tipi di sindromi di WPW in relazione alla morfologia dell’onda delta e del QRS. La diversa morfologia dell’onda delta è espressione di una diversa collocazione del fascio di Kent. Il punto in cui il fascio di Kent “abbocca” il ventricolo stabilisce quale parte di miocardio viene eccitata per prima. La successione dell’eccitazione ventricolare rende ragione sia dell’aspetto dell’onda delta, sia di quello del QRS. Semplicisticamente si può distinguere un WPW di tipo A e uno di tipo B.
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Nel tipo A l’attivazione precoce è a carico del ventricolo sinistro; nel tipo B è a carico del ventricolo destro. Nel tipo A l’onda è diretta in avanti e i complessi QRS sono per lo più positivi nelle precordiali destre; nel tipo B l’onda è diretta posteriormente e a sinistra e i complessi QRS sono per lo più negativi nelle precordiali destre. E. Tachicardia atriale parossistica o tachicardia parossistica sopraventricolare. La tachicardia atriale parossistica deriva da un ritmo ectopico che insorge nella parte bassa degli atri o meglio nella giunzione atrioventricolare. È indicata con vari nomi (tachicardia giunzionale, tachicardia parossistica sopraventricolare reciprocante, tachicardia nodale parossistica), di cui i più usati sono quello di tachicardia parossistica atriale (è il termine più tradizionale) o di tachicardia parossistica sopraventricolare (questo termine sottolinea che la tachicardia origina sopra i ventricoli, senza compromettersi sull’esatta localizzazione anatomica dell’origine, che difficilmente può essere definita con certezza, e ciò, del resto, non ha molta importanza). Il termine di “parossistica” sottolinea che la tachicardia è generalmente accessionale, con inizio improvviso (percepito dal paziente) e fine improvvisa (non sempre percepita subito). La tachicardia atriale parossistica è la forma più comune di tachicardia parossistica nel bambino e nel giovane. Può manifestarsi per la prima volta a qualunque età e solitamente è innescata da un’extrasistole atriale, giunzionale o ventricolare che dà il via al rientro. Il meccanismo patogenetico ritenuto più frequente nella genesi di quest’aritmia è quello del rientro. Il rientro può avvenire o interamente nelle strutture del nodo atrioventricolare oppure utilizzando il nodo atrioventricolare e una via precostituita nell’ambito della giunzione atrioventricolare. Spesso si tratta di vie accessorie che connettono atri e ventricoli in modo anomalo (si veda la sindrome di Wolff-Parkinson-White). Nella tachicardia atriale parossistica gli atri vengono attivati per via retrograda. All’ECG la tachicardia atriale parossistica è caratterizzata dalla sequenza ritmica di complessi compresa fra i 150 e 230 e che nella maggior parte dei casi hanno morfologia normale. L’onda P ha morfologia chiaramente anomala e ha un rapporto fisso con il QRS. L’aritmia di solito esordisce e cessa in modo improvviso. Il massaggio del glomo carotideo eseguito in corso di tachicardia o non fa nulla o risolve l’aritmia ripristinando il ritmo sinusale. La sintomatologia e l’obiettività della tachicardia atriale parossistica sono simili a quelle già descritte per la tachicardia atriale ectopica. La terapia della tachicardia atriale parossistica può essere distinta a seconda che si debba trattare l’evento acuto o se ne voglia impedire l’insorgenza. Nel primo caso si devono applicare le comuni manovre vagali (massaggio del glomo carotideo, manovra di Valsalva)
eventualmente seguite dalla somministrazione di verapamil per via venosa. Qualora manovre vagali e verapamil fossero inefficaci, si può ricorrere alla cardioversione elettrica. La cardioversione elettrica è indicata specie se l’aritmia è prolungata e male tollerata dal paziente. Il trattamento cronico consiste nel cercare di prevenire le extrasistoli responsabili dell’avvio del rientro. Allo scopo si impiegano i farmaci antiaritmici della I classe o l’amiodarone. È possibile anche cercare di intervenire sul meccanismo di rientro impiegando farmaci che modificano la conduzione a livello del nodo atrioventricolare: digitale, propranololo, ecc.
Tachiaritmie sopraventricolari A. Flutter atriale. Il flutter atriale è caratterizzato da un’attivazione atriale anomala molto rapida (compresa solitamente tra 220 e 360 impulsi/min) e regolare. L’impulso che proviene dagli atri viene vanamente “bloccato” a livello della giunzione atrioventricolare. Dall’entità di questo blocco dipende la frequenza di stimolazione ventricolare. Il flutter atriale solitamente insorge in pazienti affetti da: a) cardiopatia caratterizzata da distensione delle pareti degli atri (scompenso congestizio, valvulopatie mitralica e tricuspidale); b) processi infiammatori a carico degli atri; c) processi infiltrativi atriali. Nel flutter atriale all’elettrocardiogramma l’attivazione atriale è rappresentata dalla successione regolare di onde d’aspetto costante (cosiddette F) ben visibili nelle derivazioni D2 D3, aVF e V (Fig. 6.13), specie quando il blocco atrioventricolare è più marcato (quando cioè più di due onde F in successione non trasmettono l’impulso al ventricolo). Le onde F non sono separate da tratti di linea isoelettrica, ma si succedono una dopo l’altra con un aspetto complessivo che è stato definito “a denti di sega”. Il complesso QRS segue l’attivazione atriale in modo per lo più irregolare (blocco variabile). La morfologia del complesso ventricolare è solitamente analoga a quella normale. Il massaggio del seno carotideo aumenta il grado di blocco giunzionale e riduce temporaneamente la frequenza dei QRS. Il flutter atriale determina un’alterazione dell’emodinamica del cuore caratterizzata dalla perdita di una sistole atriale efficace e dalla riduzione del tempo diastolico di riempimento ventricolare e coronarico. La riduzione del tempo diastolico di riempimento ventricolare e coronarico è tanto maggiore quanto è maggiore la frequenza ventricolare. Il paziente avverte cardiopalmo in misura proporzionale alla frequenza cardiaca. Il cardiopalmo può essere “ritmico” e “aritmico”, a seconda che il blocco sia regolare o variabile. Possono essere presenti angina e i sintomi dello scompenso. L’obiettività è caratterizzata dall’ascoltazione di toni frequenti (ritmici o aritmici) accompagnati eventualmente da una riduzione della pressione arteriosa e da segni di bassa portata. Il trattamento del flutter atriale deve
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
V1
F
F
F
V2
V3
Figura 6.13 - Flutter atriale con blocco 2:1. La frequenza delle onde F è di 280/min; quella dei QRS di 140.
essere tempestivo se c’è angina o scompenso. Il farmaco di prima scelta è la digitale. Se la digitale non è efficace, è opportuno ricorrere alla cardioversione elettrica. B. Fibrillazione atriale. Nella fibrillazione atriale gli atri vengono eccitati in maniera caotica, disorganizzata, con una frequenza di attivazione variabile da 400 a 650 impulsi/min. Per lo più questo deriva dalla formazione di multipli, piccoli circuiti rientranti originati negli atri che collidono, si estinguono e si riformano. Un secondo meccanismo è stato riconosciuto recentemente ed è dovuto alla presenza di un focus che si scarica rapidamente e che è di solito collocato vicino allo sbocco delle vene polmonari. Dal punto di vista elettrocardiografico questo focus può simulare la comparsa di fibrillazione atriale. In entrambi i casi l’impulso viene variamente bloccato a livello del nodo atrioventricolare: il grado di questo blocco determina la frequenza di attivazione dei ventricoli. L’attivazione dei ventricoli avviene in modo del tutto irregolare con una frequenza solitamente elevata: 140-160 impulsi/min (Fig. 6.14). La fibrillazione atriale può insorgere in soggetti normali (specie se anziani) o malati. Nel giovane, la fibrillazione atriale si associa spesso alla cardiopatia reuma-
Figura 6.14 - Fibrillazione atriale.
tica, ischemica, alla tireotossicosi e alla cardiopatia ipertensiva. Esistono, tuttavia, anche casi di persone che senza cause organiche apparenti presentano crisi di fibrillazione atriale. In questa forma, il disturbo del ritmo viene chiamato “fibrillazione atriale solitaria”. Da un punto di vista elettrocardiografico, la fibrillazione atriale è caratterizzata dall’assenza di onde P. Le onde P sono sostituite da deflessioni di piccola ampiezza assolutamente irregolari; a queste seguono complessi QRS che si succedono a intervalli sempre diversi tra loro. L’irregolarità della risposta ventricolare rende variabile il tempo di recupero della normale eccitabilità. Questa variabilità spiega la frequente formazione di complessi QRS con morfologia aberrante. Come si è visto, il tempo di conduzione del tessuto del ventricolo destro è più lungo di quello del ventricolo sinistro: ne consegue che il complesso QRS condotto con aberranza ha, di solito, una morfologia tipo blocco di branca destra. La fibrillazione atriale può verificarsi in crisi episodiche o può essere persistente. Esperimenti compiuti su animali nei quali erano indotti ripetuti episodi di fibrillazione atriale hanno dimostrato che alla fine l’aritmia diveniva persistente. L’effetto elettrofisiologico era un
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marcato accorciamento del periodo refrattario degli atri e la perdita del normale allungamento della refrattarietà atriale quando la crisi di fibrillazione era superata e la frequenza cardiaca rallentava. Questo fenomeno, che può essere reversibile se il ritmo sinusale è mantenuto, viene chiamato rimodellamento elettrico atriale. La persistente tachicardia ha anche effetti sul miocardio, che presenta alterazioni ultrastrutturali cui corrispondono disfunzioni ventricolari. Questa cardiomiopatia che è mediata dalla tachicardia è spesso reversibile dopo ritorno al ritmo sinusale o se, pur persistendo la fibrillazione, la frequenza ventricolare viene mantenuta bassa con la terapia. Il paziente con fibrillazione atriale può essere sintomatico oppure no. La mancanza di sintomi è abituale se la somministrazione di digitale ha reso la frequenza ventricolare normale. I sintomi possono essere legati alla percezione dell’aritmia e alle sue conseguenze emodinamiche. La percezione dell’aritmia consiste nel sentire battiti frequenti e irregolari. Le conseguenze emodinamiche sono secondarie sia alla variabilità della durata del riempimento ventricolare e coronarico, sia alla perdita completa della contrazione atriale. Se la frequenza è molto elevata, la contrattilità è compromessa e il circolo coronarico è insufficiente, la fibrillazione atriale può fare precipitare una condizione di scompenso o angina. Il medico può diagnosticare facilmente una fibrillazione atriale con l’ascoltazione del cuore: i toni sono completamente aritmici, con pause sempre diverse tra un tono e il corrispondente successivo; anche l’intensità del primo tono varia continuamente. In presenza di fibrillazione atriale la frequenza cardiaca va valutata con l’ascoltazione. Il polso periferico, infatti, consente di registrare solo le sistoli emodinamicamente efficaci; non possono essere percepite quelle che insorgono molto vicino alla sistole che le precede quando il riempimento ventricolare è insufficiente (si veda quanto già detto a proposito delle conseguenze emodinamiche delle extrasistoli ventricolari precoci). A parte alcuni casi di fibrillazione atriale solitaria, la prognosi di questo disturbo del ritmo deve esser considerata sfavorevole. È certamente vero che molte persone con questo disordine possono condurre a lungo una vita soddisfacente, ma è anche vero che questa condizione facilita l’insorgenza di scompenso cardiaco (per la perdita di quella quota del precarico dovuta alla contrazione atriale, oltre che per la cardiomiopatia dovuta alla tachicardia), il peggioramento della cardiopatia ischemica (per l’aumento del consumo di ossigeno dovuto alla tachicardia) e, soprattutto, espone al rischio di tromboembolie. Per ragioni anatomiche, queste si localizzano prevalentemente nel distretto encefalico e sono un’importante causa di attacchi ischemici e ictus cerebrali. Qui di seguito riportiamo le linee generali di terapia della fibrillazione atriale, precisando che sono ricavate da una sola fonte (Falk, 2001), che i dettagli vanno ricercati sui testi di terapia e che molti procedimenti terapeutici è bene che siano lasciati nelle mani di specialisti.
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1. Fibrillazione atriale di recente insorgenza. La cardioversione elettrica si rende necessaria in presenza di edema polmonare o angina instabile, negli altri casi è sufficiente un trattamento farmacologico. Occorre distinguere i procedimenti volti a ridurre la frequenza dei ventricoli e a dar sollievo all’ammalato e quelli diretti a reintrodurre il ritmo sinusale. La digossina è piuttosto efficace nel rallentare la frequenza cardiaca, ma la sua massima azione è conseguita soltanto dopo varie ore. Un controllo più rapido della frequenza cardiaca è ottenuto con la somministrazione endovenosa di farmaci -bloccanti o di calcio-antagonisti, come il diltiazem e il verapamil. La conversione spontanea a ritmo sinusale entro 24 ore dall’inizio della fibrillazione atriale è comune e si verifica in circa i due terzi dei casi. Dopo ritorno al ritmo normale, una terapia antiaritmica di fondo e un trattamento anticoagulante sono indicati solamente in pazienti che hanno avuto o rischiano un episodio tromboembolico. Naturalmente, non è possibile sapere in anticipo se la regressione della fibrillazione atriale avverrà spontaneamente e una terapia antiaritmica precoce può essere considerata allo scopo di ottenere una cardioversione farmacologica, ma solo in pazienti nei quali l’aritmia è durata meno di 48 ore, altrimenti esiste il rischio che si siano formati coaguli negli atri fibrillanti e che si possano verificare embolie. Se non c’è questa controindicazione si possono impiegare vari farmaci per via endovenosa (per es., amiodarone o procainamide) o anche orale (per es., flecainide, propafenone, chinidina o disopiramide). In molti pazienti non è possibile stabilire da quanto tempo duri effettivamente la fibrillazione. In questo caso è consigliabile instaurare una terapia anticoagulante e tentare la cardioversione farmacologica solo dopo tre settimane. Un metodo per accorciare i tempi è di controllare preventivamente l’esistenza di trombi negli atri mediante l’ecocardiografia transesofagea. Se in seguito a questo esame si può escludere la presenza di trombi negli atri, si può eseguire il trattamento antiaritmico anche dopo un periodo più breve di terapia anticoagulante. 2. Crisi parossistiche ricorrenti di fibrillazione atriale. Questi pazienti presentano un significativo rischio di episodi tromboembolici e perciò debbono essere posti in terapia anticoagulante. Questa indicazione non vale per i ripetuti episodi di fibrillazione solitaria, riconoscibili perché si verificano in soggetti di età inferiore ai 65 anni, normotesi ed esenti da qualsiasi cardiopatia rilevabile. I farmaci antiaritmici impiegati in questi casi includono il propafenone, la flecainide e il sotalolo. 3. Fibrillazione atriale persistente. Si definisce così quest’alterazione del ritmo quando dura più di sette giorni. In questo caso la decisione sull’opportunità di cercare di riportare al ritmo sinusale il paziente è delicata. In una fibrillazione atriale persistente la probabilità di successo della cardioversione farmacologica è compresa tra il 10 e il 30%. Comunque, nel caso di un recupero del ritmo sinusale, sia con cadioversione far-
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macologica che con quella elettrica, è opportuna una terapia continua per evitare la recidiva della fibrillazione. Non è detto che, se uno specifico farmaco antiaritmico ha fallito nel riportare la fibrillazione a ritmo sinusale, quello stesso farmaco non sia efficace nel mantenere il ritmo sinusale dopo cardioversione elettrica. Vi sono pochi studi che comparano a questo riguardo i vari farmaci antiaritmici, ma è stato dimostrato che l’amiodarone è più efficace del sotalolo e del propafenone. Ovviamente, in casi di fibrillazione persistente è molto raccomandata una terapia anticoagulante a lungo termine, per esempio per via orale con dicumarolici. Si è discusso se un trattamento con aspirina possa essere ugualmente efficace, ma non esistono dimostrazioni sicure in questo senso. In genere, il trattamento anticoagulante con dicumarolici viene considerato indicato in presenza dei seguenti fattori di rischio per episodi tromboembolici: pregressi attacchi ischemici o veri e propri episodi di ictus, scompenso cardiaco o comunque disfunzione del ventricolo sinistro, età superiore ai 75 anni. Questa indicazione deve essere pesata tenendo conto della compliance del paziente nei riguardi di un buon controllo della terapia anticoagulante e del fatto che le persone anziane, con questi trattamenti, sono più facilmente soggette a emorragie. Inoltre, uno scompenso che determini una stasi cronica a livello epatico rende molto sensibile un paziente all’azione dei dicumarolici. Perciò, nel giudizio sulla terapia anticoagulante si devono valutare vantaggi e pericoli. 4. Fibrillazione resistente ai trattamenti farmacologici. La combinazione di una fibrillazione atriale persistente e una disfunzione sistolica è un problema significativo quando la digossina non riesce a controllare la frequenza ventricolare. In questi casi sono necessari trattamenti più interventistici, che elenchiamo qui di seguito. • Ablazione del nodo atrio-ventricolare con radiofrequenze e impianto di un pacemaker. In questo modo si determina un blocco atrio-ventricolare completo e il ritmo cardiaco è comandato dal pacemaker. • Ablazione del focus a rapida scarica che, se collocato nei pressi dello sbocco delle vene polmonari, può essere causa di alcuni casi di fibrillazione atriale. • Intervento del “labirinto”. È un intervento cardiochirurgico e il suo impiego è stato suggerito quando esistono anche altre indicazioni per la cardiochirurgia. Consiste nell’esecuzione di incisioni nella parete degli atri, in modo da creare una via stretta e tortuosa per la propagazione dello stimolo dal nodo seno-atriale a quello atrio-ventricolare. Le incisioni sono collocate in modo tale che nessuna area sia larga abbastanza da consentire multipli circuiti di rientro. • Terapia con pacemaker. Questa serve a prevenire le crisi di fibrillazione ed è basata sul principio che, se gli atri sono stimolati da un pacemaker, si evita la conduzione interatriale o intra-atriale inomogenea o ritardata che predispone allo sviluppo della fibrillazione atriale.
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• Defibrillatori atriali impiantabili. Anche questi sono indicati nella fibrillazione atriale ricorrente e sono programmati in maniera da terminare la fibrillazione con uno shock elettrico ogni volta che questa interviene.
Tachicardie ventricolari A. Ritmo idioventricolare accelerato (RIVA). Il RIVA si manifesta per esaltato automatismo di un pacemaker situato nel tessuto di conduzione distalmente al fascio di His. I pacemaker ventricolari hanno una frequenza di eccitazione intrinseca che è di circa 30-40/min. In condizioni normali la loro attività è quindi completamente mascherata dall’attività automatica del nodo del seno. In condizioni patologiche l’automatismo idioventricolare può aumentare fino a 60120/min e costituire il ritmo-guida del cuore. Il RIVA compare soprattutto in presenza di infarto diaframmatico acuto, di tossicità digitalica, di ipopotassiemia e di blocco atrioventricolare completo. All’ECG l’aritmia si presenta con una frequenza ritmica di complessi QRS di aspetto chiaramente anomalo e con una durata superiore ai 0,14 sec. A volte sono visibili delle onde P sinusali, dissociate dai QRS; altre volte possono essere presenti dei “battiti di fusione”. I battiti di fusione sono complessi QRS con morfologia intermedia fra il complesso anomalo e quello normale: essi sono dovuti alla contemporanea diffusione nei ventricoli dello stimolo condotto dall’onda P sinusale attraverso il nodo atrioventricolare e quello originato dal pacemaker ventricolare ectopico. Solitamente il RIVA non dà sintomi: ha un’evoluzione favorevole e non richiede trattamento. Può essere necessaria una terapia medica quando la dissociazione fra attività atriale e ventricolare comporta una compromissione emodinamica. In questi sporadici casi sono solitamente sufficienti piccole dosi di atropina per via venosa per fare aumentare la frequenza sinusale e sopprimere l’attività del centro ectopico. La diagnosi di RIVA senza l’ausilio dell’ECG è spesso impossibile. B. Tachicardia ventricolare. La tachicardia ventricolare è un’aritmia ipercinetica caratterizzata dalla sequenza di un minimo di 3 (spesso sono molti) battiti ectopici a origine ventricolare in immediata successione, aventi una frequenza superiore ai 120/min. La tachicardia ventricolare può essere non sostenuta o sostenuta. È non sostenuta se dura meno di 30 sec; è sostenuta se dura più di 30 sec. La frequenza, contrariamente a quello che si osserva nelle tachicardie parossistiche sopraventricolari, non è rigidamente fissa, ma varia leggermente (più o meno di 5 battiti/min, per es.) da un minuto all’altro. La tachicardia ventricolare insorge quasi sempre in soggetti portatori di gravi cardiopatie: ischemica, reumatica, primitiva. In rapporto a ciò, gli accessi di tachicardia ventricolare tendono a ripetersi, più o meno prolungati, finché la condizione che li ha favoriti non sia migliorata.
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Figura 6.15 - Tachicardia ventricolare.
All’ECG la tachicardia ventricolare si presenta con una successione ritmica, rapida di complessi QRS di durata superiore ai 0,14 sec. La morfologia dei complessi è diversa a seconda della sede da cui origina l’aritmia (ventricolo destro o ventricolo sinistro; Fig. 6.15). La tachicardia ventricolare deve essere distinta dalla tachicardia sopraventricolare che viene condotta ai ventricoli con aberranza. La diagnosi differenziale spesso è possibile col solo ECG di superficie, osservando i seguenti tre criteri: a) nella tachicardia atriale il complesso QRS è spesso preceduto dall’onda P in rapporto costante; b) nella tachicardia atriale condotta con aberranza, il complesso QRS ha spesso morfologia tipo blocco di branca destra; c) nella tachicardia ventricolare possono essere visibili onde P dissociate dai complessi ventricolari. La tachicardia ventricolare interferisce con la normale funzione del cuore attraverso tre meccanismi: a) priva il riempimento diastolico ventricolare della componente dovuta alla sistole atriale; b) l’elevata frequenza cardiaca riduce il tempo di riempimento diastolico del ventricolo e delle coronarie; c) la contrazione ventricolare indotta dall’impulso ectopico non è coordinata in maniera fisiologica e pertanto non è completamente efficace. Tutto ciò in cardiopatici. La tachicardia ventricolare è un’emergenza medica da trattare con urgenza perché: riduce la portata cardiaca, riduce la perfusione coronarica e può anticipare l’arresto cardiaco per fibrillazione ventricolare. Il paziente con tachicardia ventricolare avverte principalmente i sintomi legati alla bassa portata e alla ridotta perfusione coronarica: scompenso e angina. Il medico riscontra i segni obiettivi della bassa portata: ipotensione, ipoperfusione cutanea, dispnea, sudorazione, oliguria. All’ascoltazione del cuore i toni sono di scarsa intensità, frequenti, ritmici. La dissociazione fra attività atriale e ventricolare determina un caratteristico fenomeno che si nota ascoltando il cuore: di tanto in tanto le sistoli atriali e ventricolari si sovrappongono dando origine a un tono molto intenso (colpo di cannone). Il polso è piccolo e frequente. La pressione arteriosa è ridotta. La terapia dev’essere instaurata con urgenza. Vanno distinte due possibilità in base al quadro clinico. Se il paziente è in shock, va effettuata subito la cardioversione elettrica in anestesia. Se la pressione sistolica si mantiene su valori superiori a 85 mmHg, la cardioversione elettrica può essere dilazionata di 10 min. In questo caso è possibile procedere a un tentativo di trattamento medico con lidocaina endovenosa. Se il tentativo non è efficace, bisogna effettuare subito la cardioversione elettrica.
La terapia dell’aritmia deve sempre essere accompagnata dall’individuazione e dalla correzione di eventuali fattori che ne hanno favorito l’insorgenza. In particolare vanno corretti eventuali squilibri elettrolitici. C. Torsione di punta (“torsade de pointe”). La torsione di punta è un’aritmia ipercinetica ventricolare con caratteri morfologici elettrocardiografici prossimi alla tachicardia ventricolare; da questa, però, va tenuta distinta per alcune peculiarità terapeutiche. Da un punto di vista elettrocardiografico la torsione di punta è costituita da tratti di tachicardia ventricolare nei quali il QRS cambia progressivamente la propria morfologia, come se ruotasse gradualmente intorno a un’immaginaria linea isoelettrica di base. La torsione di punta insorge in soggetti in ritmo sinusale che presentano un intervallo QT notevolmente allungato. Questo fatto indica che vi sono zone del miocardio ventricolare che si ripolarizzano con molto ritardo. Ciò costituisce una condizione favorevolissima per l’instaurazione di rientri. L’allungamento del QT può essere congenito, secondario a squilibri elettrolitici (ipopotassiemia), secondario all’uso di alcuni farmaci (chinidina, disopiramide, alcune fenotiazine, antidepressivi triciclici). L’aritmia viene per lo più iniziata da un’extrasistole ventricolare tardiva. Può risolversi spontaneamente, recidivare o degenerare in fibrillazione ventricolare. La terapia della torsione di punta deve mirare a: a) rimuovere la causa che ha favorito l’allungamento dell’intervallo QT (correzione degli squilibri elettrolitici e sospensione di eventuali farmaci); b) aumentare la frequenza cardiaca. La frequenza può essere aumentata con la stimolazione endocavitaria mediante catetere stimolatore. Se non è rapidamente disponibile un catetere stimolatore, è opportuno tentare di indurre un aumento della frequenza del cuore con isoproterenolo. D. Fibrillazione ventricolare. La fibrillazione ventricolare definisce una condizione di attività elettrica e meccanica caotica e disorganizzata. I ventricoli sono percorsi da onde di eccitazione multiple e incoordinate che si modificano in continuazione, in rapporto al fatto che ognuna di esse si trova davanti cellule che hanno recuperato o che sono ancora in fase refrattaria (Fig. 6.16). Una volta instaurata, la fibrillazione non tende a cessare e quindi l’esito abituale è la morte. Durante la fibrillazione i ventricoli non si contraggono in maniera efficace, per cui il circolo è interrotto. La fibrillazione ventricolare, in assenza di cardioversione
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elettrica immediata, è una condizione terminale. Quest’aritmia è frequente causa di morte improvvisa nei pazienti con infarto acuto del miocardio. Unica terapia della fibrillazione ventricolare è la cardioversione elettrica. Non potendo praticare subito la cardioversione, è indispensabile eseguire il massaggio cardiaco esterno e la ventilazione assistita. L’interruzione del circolo per un tempo superiore a 2-3 min comporta, infatti, lesioni cerebrali irreversibili. E. Sindrome del Q-T lungo. Si tratta di una condizione geneticamente determinata riconoscibile per un allungamento, nell’elettrocardiogramma, dell’intervallo Q-T corretto per la frequenza cardiaca. Quest’alterazione è dipendente da una tra sei possibili mutazioni genetiche (le varianti genetiche sono designate con una sigla che va da LQT1 a LQT6) che producono anomalie del funzionamento nel cuore dei canali del sodio o del potassio. La penetranza di questi geni è però ridotta e l’espressione fenotipica è variabile. I soggetti con la sindrome del Q-T lungo possono stare benissimo, ma hanno una predisposizione a sviluppare episodi di fibrillazione ventricolare o torsione di punta. Possono perciò andare incontro a ripetuti episodi di sincope, ma anche a morte improvvisa. Esistono argomenti per ritenere che almeno una parte delle cosiddette “morti in culla” siano dovute a quest’alterazione genetica. La “morte in culla”, o SIDS (Sudden Infant Death Sindrome), è una condizione ben nota che si verifica repentinamente in neonati apparentemente sani nel primo anno di vita. In passato, per evitare questo drammatico incidente ci si limitava a raccomandare di evitare di mettere a dormire il neonato in posizione prona. Attualmente il Q-T lungo può essere dimostrato all’elettrocardiogramma nei primi giorni di vita e un trattamento efficace può essere istituito con mexiletina (un bloccante dei canali del sodio che accorcia in questi pazienti l’intervallo Q-T) o con propranololo. In ogni caso una sindrome del Q-T lungo dev’essere sopettata in tutti i casi di persone giovani che presentano ripetuti episodi di sincope, soprattutto se esiste familiarità per questo disturbo, dato che un trattamento appropriato può salvare la vita. Altre forme predisponenti a queste stesse aritmie e geneticamente determinate sono la cardiomiopatia ipertrofica (Cap. 8) e altre anomalie ancora più rare, che qui ricordiamo a titolo di esempio, come la sindrome di Brugada (associata con elevazione del segmento S-T in V1, V2 e V3) e la displasia aritmogenica del ventricolo destro (spesso caratterizzata da inversione dell’onda T in V1, V2 e V3). Trovare in una persona giovane un’ano-
Figura 6.16 - Fibrillazione ventricolare.
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malia elettrocardiografia non spiegabile dovrebbe spingere ad approfondire il caso consultando la letteratura.
ARITMIE IPOCINETICHE Il termine di aritmia ipocinetica definisce una condizione nella quale la frequenza atriale o ventricolare si riduce al di sotto di 60 impulsi/min: ciò per bradicardia ritmica, o perché molti impulsi vanno perduti. Questa condizione, come si è visto, si può manifestare come anomalia della formazione dell’impulso, oppure come anomalia della sua propagazione.
Disfunzioni del nodo del seno A. Bradicardia sinusale. Nella bradicardia sinusale l’impulso nasce come di norma dal nodo del seno, ma con una frequenza inferiore ai 60 battiti/min. La bradicardia sinusale è una condizione fisiologica nei soggetti giovani e negli atleti; è una condizione patologica (si veda la malattia del nodo del seno) quando si presenta in circostanze che di norma si associano a un aumento della frequenza cardiaca: scompenso di cuore, esercizio fisico, emozioni, ecc. B. Malattia del nodo del seno. Il termine di malattia del nodo del seno viene riferito a una serie di anomalie elettrocardiografiche eterogenee che hanno come carattere comune una disfunzione del nodo del seno. Solitamente la malattia del nodo del seno comprende una o più delle seguenti condizioni: • bradicardia sinusale persistente e inopportuna (si veda sopra); • blocco seno-atriale; • arresto seno-atriale senza comparsa di ritmi di scappamento; • sindrome bradicardia-tachicardia. Nel blocco seno-atriale l’impulso nasce a livello del nodo del seno, ma viene bloccato prima che possa diffondere agli atri. Da un punto di vista elettrocardiografico, il blocco seno-atriale è rappresentato dall’assenza di uno o più complessi P-QRS che interrompe una loro successione regolare. L’intervallo fra l’onda P che precede e quella che segue l’impulso bloccato (quando è uno solo) è uguale a due volte l’intervallo P-P normale. L’arresto seno-atriale (cioè la mancata formazione dell’impulso a livello del nodo del seno) è, sull’ECG di
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superficie, simile al blocco seno-atriale. Nel primo caso, infatti, l’impulso non si forma; nel secondo si forma, ma non diffonde agli atri. In entrambi i casi gli atri non vengono attivati e non danno luogo alla formazione dell’onda P e del seguente QRS. La mancata formazione degli impulsi a livello del nodo del seno dovrebbe consentire ai pacemaker latenti più distali (atriali e giunzionali) di emergere e di dare vita a quelli che vengono chiamati “ritmi di sfuggita o scappamento” (Fig. 6.17). Nella malattia del nodo del seno il blocco o l’arresto sinusale non si accompagna a ritmi di sfuggita efficaci e può determinare periodi di asistolia prolungati. La sindrome bradicardia-tachicardia si verifica in conseguenza del mancato intervento di ritmi di sfuggita efficaci (per es., un ritmo giunzionale regolare, avente frequenza intorno a 50/min) in caso di inattivazione prolungata del nodo del seno. Dopo una breve asistolia completa, si scatena qualche ritmo atriale patologico, solitamente una tachicardia atriale parossistica o una fibrillazione atriale. Pertanto la sindrome è caratterizzata dall’alternanza di periodi di aritmia ipercinetica atriale con tratti di bradicardia sinusale di grado marcato. Caratteristicamente, durante le fasi di bradicardia mancano i ritmi di sfuggita dei pacemaker latenti. La malattia del nodo del seno è solitamente determinata da una lesione a carico del tessuto di conduzione. La lesione può essere circoscritta al nodo del seno o più estesa; in genere è determinata da un processo ischemico, infiammatorio o degenerativo. I sintomi della malattia del nodo del seno sono per lo più secondari a ipoperfusione del cervello e si manifestano quando la frequenza cardiaca è molto bassa. Il paziente accusa vertigini, lipotimie o sincopi. Le manifestazioni di ischemia cerebrale, che seguono al deficit acuto della funzione cardiaca per la presenza di pause più o meno prolungate della attività del nodo
del seno, sono raggruppate nella sindrome di Morgagni-Adam-Stokes (MAS). La sindrome di MAS può essere così riassunta: se l’ischemia cerebrale dura dai 2 ai 5 sec il paziente avverte una vertigine; se dura 510 sec perde conoscenza e cade; se l’ischemia persiste per più di 15 sec, il paziente perde feci e urine e compaiono convulsioni, cianosi e respiro stertoroso. Se l’ischemia si protrae oltre i 30 sec il paziente è apparentemente morto. La mancata perfusione del cervello che non si risolve entro 3-4 min porta a lesioni ischemiche irreversibili delle cellule del sistema nervoso centrale. Nella fase tachicardica della sindrome bradicardia-tachicardia i sintomi e segni sono quelli già descritti nelle aritmie ipercinetiche. Se il medico visita il paziente nel momento dei sintomi, riscontra una frequenza cardiaca molto bassa con toni ritmici o aritmici a seconda dell’aritmia presente. La pressione arteriosa sistolica è in genere aumentata mentre la diastolica è ridotta. Ciò è dovuto all’aumento della gettata sistolica, che aumenta per compensare la riduzione della frequenza cardiaca. Se il paziente viene visitato lontano dalla crisi, l’obiettività può essere assolutamente normale. C. Ritmo giunzionale. Il ritmo giunzionale nasce dai pacemaker della giunzione atrioventricolare; esso si esprime quando viene a mancare l’impulso “guida” a origine più prossimale (nodo del seno). Da un punto di vista elettrocardiografico, l’aritmia è caratterizzata dalla successione ritmica di complessi QRS di aspetto normale con frequenza che solitamente varia da 40 a 60/min. A volte si può osservare un’attivazione atriale per via retrograda: tale attivazione retrograda si esprime con la formazione di onde P di aspetto chiaramente anomalo, che hanno peraltro un rapporto costante col QRS. Il ritmo giunzionale è spesso espressione di un sovradosaggio digitalico.
D1
D2
D3
Figura 6.17 - Arresto seno-atriale con ritmo di sfuggita giunzionale.
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Solitamente l’aritmia è asintomatica. Può generare sintomi e segni di scompenso quando l’aumento della frequenza e la componente sistolica atriale del riempimento ventricolare sono necessari per mantenere una portata cardiaca normale. In assenza di scompenso l’esame obiettivo può essere normale: il medico avverte solo la bradicardia.
Blocco atrioventricolare Il blocco atrioventricolare è una condizione caratterizzata da un’anomala diffusione dell’impulso dagli atri ai ventricoli. Classicamente il blocco atrioventricolare viene suddiviso in tre gradi a seconda della gravità. • Nel blocco atrioventricolare di I grado tutti gli impulsi che originano a livello atriale vengono condotti ai ventricoli con una velocità ridotta rispetto al normale. Ciò si esprime all’ECG con un allungamento dell’intervallo PQ che supera il limite normale massimo che è di 0,20 sec. Il complesso QRS che segue il blocco di I grado è normale. • Nel blocco atrioventricolare di II grado alcuni impulsi atriali raggiungono i ventricoli, altri no. Il blocco di II grado viene ulteriormente suddiviso in due varietà: il tipo I (Mobitz 1) e il tipo II (Mobitz 2). (Mobitz è l’Autore che propose questa classificazione). Nel tipo I la conduzione a livello del nodo atrioventricolare si allunga progressivamente fino al blocco completo. L’ECG mostra una serie di complessi P-QRS in cui, mentre le P sono ritmiche, cioè con intervalli P-P sempre uguali, l’intervallo PQ è progressivamente più lungo, fino alla comparsa di un’onda P bloccata, vale a dire non seguita dal QRS. Il complesso P-QRS che segue l’onda P bloccata solitamente riprende con un intervallo PQ normale; esso inizia una nuova serie, che finirà con la P bloccata (Fig. 6.18). Il progressivo allungamento del tempo di conduzione atrioventricolare (segno di conduzione progressivamente “affaticata”) è denominato “fenomeno di LucianiWenckebach”. Si può precisare che nel blocco atrioventricolare di II grado tipo Mobitz 1 la lunghezza dei cicli RR (intervallo fra onda R di un QRS e onda R del QRS che segue) tende a ridursi progressivamente. Questa riduzione si ha perché l’entita degli incrementi percentuali dell’intervallo PR tende progressivamente a ridursi. Ne deriva che l’intervallo RR più breve è quello immediatamente precedente l’onda P bloccata. Nel blocco atrioventricolare di II grado tipo Mobitz 2 vige, per quanto riguarda la conduzione atrioventrico-
lare, la legge del tutto o nulla: alcune volte l’impulso atriale raggiunge i ventricoli; altre volte no. Quando l’impulso raggiunge i ventricoli il tempo di conduzione atrioventricolare è costante. All’ECG si sono osservate onde P seguite regolarmente dal QRS dopo un intervallo PR costante. A queste si alternano onde P bloccate, prive cioè del complesso QRS seguente (Fig. 6.19). Il blocco atrioventricolare può insorgere o meno secondo una cadenza fissa. Se il blocco ha cadenza regolare, si parla di blocco 2:1, 3:1, 4:1, ecc. a seconda che il blocco insorga regolarmente dopo una, due, tre, quattro ecc. onde P normalmente condotte ai ventricoli. • Nel blocco atrioventricolare di III grado nessun impulso che origina negli atri può essere condotto ai ventricoli. All’ECG si osserva una sequenza di onde P prive del QRS corrispondente. I ventricoli vengono attivati da un pacemaker posto distalmente al nodo atrioventricolare: nella parte distale della giunzione o nei ventricoli. Nel primo caso, i complessi QRS si succedono con una frequenza di 40-60/min e hanno una morfologia analoga a quella dei QRS normalmente condotti (QRS stretti: essi durano 0,08-0,10 sec) (Fig. 6.20). Nel secondo caso, la frequenza è più bassa (inferiore a 40 battiti/min) e il complesso QRS è largo (più di 0,10 sec e, di solito, più di 0,12 sec) (Fig. 6.21). Nel blocco atrioventricolare di III grado i complessi QRS si succedono indipendentemente dalle onde P: si dice che il ritmo è “dissociato” perché i rapporti temporali fra complesso atriale e ventricolare sono del tutto casuali e dipendono dalla frequenza indipendente di ciascuno dei due. Da un punto di vista pratico, è importante diagnosticare la sede dei blocchi atrioventricolari, differenziando i blocchi situati sopra il fascio di His da quelli situati sotto. È importante, cioè, stabilire in quale punto l’impulso che proviene dagli atri viene interrotto. La distinzione (blocchi sopra e sottohissiani) porta con sé conseguenze prognostiche e terapeutiche determinanti. Nei blocchi posti sopra al fascio di His, infatti, l’attività automatica del cuore e l’eccitazione ventricolare sono in genere garantite dalla funzione dei pacemaker posti a livello del nodo atrioventricolare e del fascio di His. La frequenza intrinseca di questi pacemaker (40-60/min) garantisce una buona funzione cardiaca e raramente è responsabile di riduzioni critiche della frequenza cardiaca.
Figura 6.18 - Blocco A-V di II grado tipo Mobitz 1 (fenomeno di Luciani-Wenckebach). L’intervallo PQ si allunga progressivamente fino a quando una P non conduce. Nel primo tratto il blocco della P si ha dopo 4 attivazioni atriali; nel secondo dopo 3.
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D1
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D3
aVR
aVL
aVF
Figura 6.19 - Blocco atrioventricolare di II grado tipo Mobitz 2. Il blocco è di tipo 2:1. Si ha infatti un’onda P regolarmente condotta ai ventricoli e pertanto seguita dal QRS-T; ad essa segue un’altra bloccata e pertanto priva del complesso ventricolare che dovrebbe seguire.
P
P
P
P
P
Figura 6.20 - Blocco atrioventricolare completo. Il ritmo delle onde P è dissociato da quello dei QRS. La frequenza delle P è di 100/min; quella dei QRS di 36. Quando l’onda P cade casualmente durante il QRS-T, può essere nascosta o deformata (si vedano la terza e la quinta di quelle evidenziate).
Figura 6.21 - Blocco atrioventricolare completo. Il ritmo della P è di circa 4 volte superiore a quello del QRS. A un primo esame può sembrare che il rapporto fra l’onda P e il QRS sia costante e che pertanto si configuri il blocco atrioventricolare di I grado Mobitz 2, 4:1. In realtà l’intervallo PQ varia: si tratta di un blocco di III grado, con una dissociazione completa. Il ritmo dei QRS è di circa 20/min, quello delle P è di 82.
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Nei blocchi più distali (sottohissiani) l’eccitazione dei ventricoli è affidata ai pacemaker ventricolari: questi pacemaker hanno solitamente una frequenza ventricolare troppo bassa (25-35) per garantire un compenso emodinamico duraturo. Spesso, inoltre, frequenze così basse anticipano aritmie più gravi (fibrillazione ventricolare). La diagnosi di sede del blocco è possibile con certezza solo mediante elettrocardiogramma endocavitario. Esistono comunque alcuni dati desumibili dall’ECG di superficie che consentono di porre una diagnosi di buona probabilità. I criteri sono i seguenti: a) i blocchi di I grado e quelli di II grado tipo Mobitz 1 sono solitamente soprahissiani; b) i blocchi di III grado nei quali il QRS dissociato (originato cioè dal pacemaker secondario che dà origine al ritmo di scappamento) ha durata normale sono probabilmente soprahissiani; c) i blocchi di II grado tipo Mobitz 2 e quelli di III grado nei quali il ritmo di scappamento è sostenuto da complessi QRS allargati (di durata superiore agli 0,10-0,11 sec) sono probabilmente sottohissiani. La morfologia del QRS, infatti, deriva da due fattori: la sede di origine dell’impulso e la via seguita dall’impulso stesso per attivare i ventricoli. Se l’impulso nasce in una posizione prossimale al fascio di His, l’attivazione dei ventricoli avviene come di norma (con attivazione contemporanea delle due branche) e il QRS è normale. Se la sede di formazione dell’impulso è distale al punto in cui il fascio di His si divide nelle branche, la morfologia del QRS è alterata perché l’attivazione dei ventricoli avviene in modo anomalo. In particolare, se la sede del pacemaker sussidiario che dà il via al ritmo di scappamento è situata nel ventricolo sinistro, la morfologia del QRS è analoga a quella che si osserva nel blocco di branca destra; se la sede è nel ventricolo destro, la morfologia del complesso QRS è analoga a quella presente nel blocco di branca sinistra (si veda in seguito). L’origine dell’impulso in uno dei due ventricoli fa sì che l’onda di eccitazione raggiunga il ventricolo controlaterale attraverso il miocardio contrattile, proprio come avviene quando la branca controlaterale è bloccata. I blocchi atrioventricolari possono essere congeniti o acquisiti. I blocchi congeniti sono percentualmente rari, possono avere andamento familiare ed eventualmente associarsi ad altre cardiopatie. I blocchi acquisiti possono essere secondari a processi infettivi, possono manifestarsi per la prima volta in corso di cardite reumatica, nella cardiopatia ischemica e nelle cardiomiopatie primitive. Forme acquisite di blocchi sono pure quelli indotti da farmaci e quelli chirurgici. I blocchi chirurgici sono causati dall’involontaria lesione delle vie di conduzione da parte del chirurgo in corso di intervento sul cuore. I farmaci più frequentemente responsabili di blocco atrioventricolare sono gli antiaritmici del gruppo I A, il verapamil, l’amiodarone e i -bloccanti. La conduzione atrioventricolare è sottoposta alla regolazione vagale. Forti stimoli vagali possono aggrava-
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
re turbe della conduzione preesistenti; a volte uno stimolo vagale molto intenso può indurre blocchi atrioventricolari di grado elevato anche in soggetti sani. Tra i blocchi atrioventricolari elencati meritano un commento quelli che insorgono in corso di infarto miocardico acuto. Da un punto di vista pratico, è opportuno distinguere i blocchi che compaiono in corso di infarto inferiore da quelli che compaiono in corso di infarto anteriore. Nell’infarto inferiore i blocchi sono in genere soprahissiani e le vie di conduzione poste al di sotto del blocco sono indenni. Nell’infarto anteriore il blocco è più distale (sottohissiano) e si associa alla compromissione delle vie di conduzione. Nell’infarto anteriore il blocco evolve rapidamente con una tendenza elevata verso il blocco atrioventricolare totale. I sintomi dei blocchi dipendono da due fattori: a) dalla gravità del blocco e quindi dalla frequenza dei pacemaker sussidiari; b) dalla cardiopatia di base che ha determinato il blocco e da altre cardiopatie eventualmente associate. Il blocco di I grado non complicato è asintomatico e non consente una diagnosi senza ECG. Il blocco di II grado può essere sintomatico se è di grado elevato e soprattutto nel corso del passaggio a blocco di III grado: la frequenza cardiaca si riduce in maniera critica e compaiono i sintomi neurologici già descritti per la malattia del nodo del seno. In particolare può verificarsi la sindrome di Morgagni-Adam-Stokes. Il blocco di III grado è quasi sempre sintomatico; i sintomi sono legati alla scarsa irrorazione cerebrale o, eventualmente, allo scompenso cardiaco. I sintomi secondari allo scompenso compaiono soprattutto quando il blocco si manifesta in soggetti in compenso labile a causa della cardiopatia di base. Il medico che visita un paziente in blocco avverte una frequenza molto bassa sia all’ascoltazione che alla palpazione del polso. Tipicamente, nel blocco di III grado la bradicardia non si riduce per effetto dell’esercizio fisico. All’esame fisico il medico avverte che il primo tono cardiaco ha intensità variabile. Ciò dipende dal fatto che il rapporto temporale fra la sistole atriale e la sistole ventricolare varia continuamente. Quando la sistole atriale è sincrona con la sistole ventricolare, il primo tono è particolarmente intenso e viene chiamato “colpo di cannone”.
APPENDICE Blocchi di branca Si definisce blocco di branca la condizione nella quale la conduzione dell’impulso trasmesso attraverso il fascio di His è alterata a livello di una delle sue suddivisioni. Si parla di blocco di branca destra se la conduzione è bloccata a livello della branca destra; di blocco di branca sinistra quando il blocco è a livello della branca sinistra. I blocchi di branca possono essere completi o incompleti. Nel blocco di branca completo la conduzione
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è completamente interrotta; nel blocco incompleto la conduzione è solo rallentata. Nei cenni di anatomia si è già visto che la branca destra è un’entità anatomica discreta mentre la branca sinistra si sfilaccia, poco dopo la suddivisione del fascio di His, in una specie di ventaglio di fibre. Sia da un punto di vista elettrocardiografico che funzionale si è soliti raggruppare queste fibre in due gruppi: il gruppo antero-superiore e il gruppo postero-inferiore. In alcune condizioni patologiche la noxa patogena interessa uno solo dei due gruppi di fibre e risparmia l’altro. Si possono pertanto avere degli “emiblocchi”: anteriore sinistro, se è leso il gruppo di fibre antero-superiore; posteriore sinistro, se è leso il gruppo postero-inferiore. Se è bloccata una branca o una delle suddivisioni della branca sinistra, lo stimolo che proviene dall’atrio può raggiungere comunque i ventricoli. L’impulso percorre la branca indenne e diffonde al ventricolo controlaterale (omolaterale rispetto alla branca lesa) attraverso il tessuto contrattile non specifico. Lo stesso avviene se si stabilisce una condizione di blocco cosiddetto bifascicolato. Nel blocco bifascicolato si ha il blocco della branca destra e di uno dei due gruppi di fibre che costituiscono la branca sinistra. In questo caso l’unica via percorribile è il gruppo indenne della branca sinistra. Se anche questo gruppo non riesce più a condurre lo stimolo, l’impulso che proviene dagli atri non raggiunge i ventricoli: si ha un blocco atrioventricolare completo (di III grado). Esiste anche una condizione definita blocco trifascicolato. Il blocco trifascicolato si ha nelle seguenti condizioni: blocco di branca destra più emiblocco sinistro (anteriore o posteriore) e allungamento della conduzione atrioventricolare (perché il fascicolo integro della branca sinistra rallenta la conduzione dello stimolo); blocco di branca destra più emiblocco anteriore sinistro (o posteriore) che si alterna con emiblocco posteriore (o anteriore); blocco di branca destra alternato a blocco di branca sinistra. Il blocco trifascicolato esprime, cioè, una condizione nella quale l’unica struttura che in un dato momento è ancora in grado di condurre l’impulso tra atri e ventricoli “zoppica”. Il blocco trifascicolato anticipa molto spesso un blocco atrioventricolare completo. La diagnosi di blocco di branca all’elettrocardiogramma è di grande importanza per i seguenti motivi: a) perché evidenzia l’interessamento del tessuto di conduzione da parte di una determinata noxa patogena; b) perché consente di seguire nel tempo l’eventuale evoluzione del danno a carico del tessuto di conduzione. Questo secondo punto riveste una grande importanza pratica. L’esempio più significativo è costituito dai blocchi di branca che si instaurano in corso di infarto acuto. Se durante infarto acuto insorge un blocco di branca o un emiblocco, vuol dire che è danneggiato il circolo coronarico deputato al nutrimento della branca o del fascicolo leso. Il blocco acuto isolato di una branca è una condizione d’allarme. La conduzione atrioventricolare però è garantita dalla branca indenne. Se al blocco di
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branca isolato segue un blocco bi- o trifascicolato, l’ischemia coinvolge entrambe le branche. Ciò significa che il danno è grave e ha carattere evolutivo. In corso d’infarto, una condizione di blocco di branca seguita da un blocco bi- o trifascicolato anticipa spesso un blocco atrioventricolare completo e richiede senz’altro la posa di un pacemaker artificiale di “protezione”. Il carattere evolutivo del blocco delle branche in corso di malattia cronica (ischemica o degenerativa) non richiede soluzioni ugualmente urgenti. L’indicazione al pacemaker artificiale va rivalutata periodicamente di volta in volta, a seconda della rapidità con cui la malattia del tessuto di conduzione evolve e dei sintomi che produce. A. Blocco di branca destra. Nel blocco di branca destra la durata dell’attivazione ventricolare è allungata. Questo allungamento si esprime con un aumento della durata del QRS. Per convenzione, il blocco è detto completo quando determina una durata del QRS uguale o maggiore di 0,12 sec. L’aumento di durata è dovuto al fatto che l’onda di attivazione del ventricolo destro non proviene come di norma dalla branca destra. Il ventricolo destro viene attivato da un’onda che proviene dal ventricolo sinistro attraverso il miocardio contrattile del setto interventricolare. Ma la velocità di conduzione del miocardio contrattile è molto meno rapida di quella del tessuto di conduzione che costituisce la branca, pertanto il completamento dell’attivazione ventricolare è prolungato. Per semplicità, la sequenza di attivazione ventricolare in presenza di blocco di branca destra può essere arbitrariamente distinta in quattro fasi (Fig. 6.22). Prima fase. È la fase di attivazione del setto. Il setto viene attivato come di norma da sinistra a destra perché la branca sinistra è intatta. L’attivazione del setto determina l’inscrizione di un’onda R normale in V1 e di una piccola q in V6 e in D1. Seconda fase. L’attivazione del setto continua sempre in direzione sinistra-destra perché la branca destra è bloccata. Durante la seconda fase inizia anche l’attivazione del ventricolo sinistro. I potenziali determinati dall’attivazione del ventricolo sinistro sono maggiori di quelli dovuti all’attivazione settale. Ne deriva che la risultante dei vettori di attivazione del setto e del ventricolo sinistro è diretta sempre in avanti, ma un po’ a sinistra. Nella seconda fase si ha il completamento dell’onda R nelle precordiali destre e l’inizio dell’onda R nelle precordiali sinistre e in D1. Terza fase. Continua l’attivazione del setto (sempre da sinistra a destra) e si completa quella del ventricolo sinistro nelle regioni antero-laterale e basale. Anche in questa fase i potenziali del ventricolo sinistro sono dominanti. Il vettore risultante è diretto verso sinistra, inferiormente e, più o meno, posteriormente. Durante questa fase si inscrive l’onda S nelle precordiali destre e l’onda R nelle precordiali sinistre e in D1 raggiunge lo zenit.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
DEPOLARIZZAZIONE VENTRICOLARE NEL BLOCCO DI BRANCA DESTRA
VETTORI DELLA ATTIVAZIONE VENTRICOLARE SUL PIANO ORIZZONTALE
Fase 1
Iniziale attivazione del setto (0,01 sec)
Fase 2
Continua l’attivazione del lato sinistro del setto e della porzione antero-apicale del ventricolo sinistro (0,04 sec)
Fase 3
Si completa l’attivazione del ventricolo sinistro e continua l’attivazione del setto (da 0,06 a 0,08 sec)
Fase 4
Si completa l’attivazione del setto e del ventricolo destro (0,12 sec o più)
COMPLESSI QRS NELLE DERIVAZIONI PRECORDIALI
3
3 3 3 V6 1
4
V2
2 4
2 V5
2 1
V1
3
4
V3
1
V4
2
2
2 4
1
1
2 4
1
4
1 4
3 3 V1
V2
V3
V4
V5
V6
Figura 6.22 - Rappresentazione schematica della depolarizzazione ventricolare nel blocco di branca destra.
Quarta fase. Si ha il completamento dell’attivazione settale, l’attivazione della parete apicale del ventricolo destro e infine della parete libera e della parte restante del ventricolo destro. Il vettore risultante della quarta fase è diretto a destra e anteriormente. Sul piano frontale può essere diretto sia superiormente che inferiormente. Durante questa fase si inscrive un’onda R nelle precordiali destre e una S nelle precordiali sinistre e in D1. Il blocco di branca destra apporta anche delle modificazioni dell’ripolarizzazione che derivano direttamente dall’alterata depolarizzazione ventricolare. Le alterazioni più significative si osservano nelle precordiali destre dove il segmento ST è slivellato verso il basso e l’onda T è invertita (Fig. 6.23). 1. Criteri riassuntivi elettrocardiografici di blocco di branca destra. • QRS di durata superiore a 0,12 sec. • Complesso RSR nelle precordiali destre (V1 e V2). L’onda R è solitamente di ampiezza maggiore di R. • Nelle precordiali sinistre (V5 e V6) complesso QRS con ampia S finale. • Ritardo di inscrizione della deflessione intrinsecoide
in V1 e V2 (oltre gli 0,07 sec). (Si dice deflessione intrinsecoide la durata dell’intervallo fra l’inizio del QRS e il momento in cui comincia la branca discendente della R. È una misura che si esegue solo nelle derivazioni precordiali.) • In D1 il complesso QRS mostra un’ampia S finale. • Il segmento ST è slivellato in basso e la T è negativa nelle precordiali destre. 2. Blocco di branca destra incompleto. I criteri elettrocardiografici sono analoghi a quelli del blocco completo, con la differenza che il QRS dura in genere fra 0,10 e 0,12 sec. B. Blocco di branca sinistra. Nel blocco di branca sinistra la durata dell’attivazione ventricolare è aumentata per motivi analoghi a quelli già descritti per il blocco di branca destra. Anche nel blocco di branca sinistra la sequenza di attivazione ventricolare può essere arbitrariamente divisa in quattro fasi (Fig. 6.24). Prima fase. È la fase di attivazione del setto che inizia dal lato destro perché la branca sinistra è bloccata. L’attivazione settale si dirige da destra a sinistra
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porzioni posteriore e basale del ventricolo sinistro. Il vettore risultante è diretto senz’altro a sinistra e posteriormente. In questa fase si ha il nadir della S in V1 e lo zenit della R in V6 e D1. Quarta fase. Si completa l’attivazione delle pareti anteriore e laterale del ventricolo sinistro. Il vettore della quarta fase è sempre diretto a sinistra, ma un po’ più anteriormente rispetto a quello della terza fase. Questo vettore determina l’inscrizione di una R in V6 e D1 e completa l’inscrizione della S in V1. Anche nel blocco di branca sinistra la ripolarizzazione è alterata secondariamente all’alterata sequenza della depolarizzazione ventricolare. In particolare, il segmento ST è slivellato verso il basso nelle precordiali sinistre e in D1. In queste derivazioni l’onda T è invertita.
Figura 6.23 - Blocco di branca destra completo.
e dall’apice verso la base. Contemporaneamente l’attivazione diffonde all’apice e alla porzione anteriore del ventricolo destro. Perciò nella prima fase abbiamo la coesistenza di vettori del setto e del ventricolo destro (quello sinistro non è ancora depolarizzato). Il vettore settale è diretto a sinistra, posteriormente e inferiormente. Il vettore del ventricolo destro è diretto a destra, in avanti e inferiormente. Il vettore risultante deriva dalla grandezza e dalla direzione dei due vettori che lo costituiscono. Se prevale il vettore settale, il vettore risultante è diretto a sinistra, inferiormente e posteriormente. In questo caso in V1 si inscrive l’inizio di un complesso QS e in V6 e in D1 l’inizio di un’onda R. Se prevalgono invece i potenziali del ventricolo destro, il vettore risultante è diretto ancora inferiormente e a sinistra ma è un po’ ruotato in avanti. In questo secondo caso, in V1 si inserisce una piccola r e in V6 e D1 si avrà sempre l’inizio di un’onda R. Seconda fase. Continua e si completa l’attivazione del setto (sempre in direzione destra-sinistra) e si completa l’attivazione del ventricolo destro. I potenziali settali sono dominanti. Ne deriva che il vettore risultante è diretto a sinistra e posteriormente. All’ECG continua l’inscrizione del QS (o rS) in V1 e della R in V6 e D1. Terza fase. Ha luogo l’attivazione del ventricolo sinistro. L’attivazione è anomala: inizia e si completa nelle
1. Criteri di diagnosi di blocco di branca sinistra (Fig. 6.25). • QRS di durata superiore a 0,12 sec nelle derivazioni periferiche. • Complesso QS o rS nelle precordiali destre. L’onda S è ampia e profonda. • Complesso R o RsR nelle precordiali sinistre. L’onda R è ampia e impastata. • La deflessione intrinsecoide in V6 è spesso ritardata (oltre 0,07 sec). • Nelle derivazioni periferiche: D1 e aVL sono simili alle precordiali sinistre; D2, D3, aVF sono simili alle precordiali destre. • Il segmento ST è slivellato in basso e la T è negativa nelle precordiali sinistre e in D1. 2. Blocco di branca sinistra incompleto. I criteri di diagnosi elettrocardiografica di blocco di branca sinistra incompleto sono analoghi a quelli descritti per il blocco completo. La differenza viene fatta sulla base del QRS, che nel blocco incompleto è più breve: 0,10-0,12 sec. C. Emiblocchi. Normalmente l’onda di eccitazione diffonde in modo uniforme lungo i due gruppi di fibre in cui schematicamente viene distinta la branca sinistra: l’antero-superiore e la postero-anteriore. Se la conduzione viene bloccata a livello di uno dei due gruppi di fibre, la sequenza di attivazione ventricolare viene alterata. Nell’emiblocco anteriore è bloccato il gruppo antero-superiore: l’onda di eccitazione percorre il gruppo postero-inferiore di fibre e diffonde solo in un secondo tempo in avanti e in alto, attraverso il miocardio contrattile. La conseguenza elettrocardiografica è che il vettore QRS terminale è diretto a sinistra e in alto; l’asse elettrico è ruotato a sinistra; il QRS può essere lievemente allungato. Se è bloccato il fascicolo postero-inferiore, l’onda di attivazione percorre il gruppo di fibre antero-superiore e poi diffonde inferiormente e posteriormente attraverso il tessuto di conduzione non specializzato. Come conseguenza si avrà che il vettore QRS terminale è diretto inferiormente e posteriormente; l’asse elettrico è ruotato inferiormente a destra; il QRS può essere lievemente allungato.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
DEPOLARIZZAZIONE VENTRICOLARE NEL BLOCCO DI BRANCA SINISTRA
VETTORI DELLA ATTIVAZIONE VENTRICOLARE SUL PIANO ORIZZONTALE
Fase 1
Attivazione del lato destro del setto e della porzione apico-anteriore del ventricolo destro (0,02 sec)
Fase 2
Completamento dell’attivazione del ventricolo destro e attivazione da destra a sinistra del setto (0,06 sec)
Fase 3
Attivazione della regione posterobasale del ventricolo sinistro (0,080,10 sec)
Fase 4
Attivazione della regione antero-laterale del ventricolo sinistro (0,12 sec o più)
COMPLESSI QRS NELLE DERIVAZIONI PRECORDIALI
3
3
4 4
2
4
3 1
1 V6 1
1
4
2
3
1
1 2
1 2
4
4
2
V5
4
2
2
3 3
V4 V1
V2
V3
3 V1
V2
V3
V4
V5
V6
Figura 6.24 - Rappresentazione schematica della depolarizzazione ventricolare nel blocco di branca sinistra.
1. Criteri di diagnosi di emiblocco. • Emiblocco anteriore sinistro – Asse elettrico del QRS deviato a sinistra oltre i –30°. – Piccole onde q in D1 e aVL. – Piccole onde r in D2, D3, aVF. • Emiblocco posteriore sinistro – Presenza di piccole onde r in D1 e aVL. – Piccole onde q in D2, D3 e aVF. – Asse elettrico ruotato verso destra oltre i 120°. • Blocchi bifascicolati. Il blocco bifascicolato è caratterizzato dal blocco della branca destra e di una delle due emibranche della branca sinistra. I criteri di diagnosi sono per lo più una somma dei criteri diagnostici dei singoli disturbi di conduzione. • Blocchi trifascicolati. Nel blocco trifascicolato l’ECG può mostrare: a) un blocco bifascicolato con un allungamento patologico (superiore a 0,20 sec) dell’intervallo PR; b) un blocco di branca destra e un emiblocco anteriore sinistro (o posteriore), alternato a un blocco di branca destra ed emiblocco posteriore sinistro (o anteriore); c) un blocco di branca destra alternato a un blocco di branca sinistra.
PROBLEMI DIAGNOSTICI PARTICOLARI NELLE ARITMIE L’aritmia può essere un evento costante, frequente o raro. Se è costante, è facilmente documentabile con un elettrocardiogramma di superficie eseguibile all’atto della visita del paziente. Un esempio di aritmia costante è la fibrillazione atriale cronica. Se l’aritmia è frequente (ma non costante), può essere assente nel momento in cui il medico visita il malato. In questo caso la diagnosi può a volte avvalersi del solo elemento anamnestico (è il caso dell’extrasistolia descritta come “la sensazione di perdita di battiti, di colpi irregolari, di sfarfallio”, ecc.) specie se chi la descrive non presenta segni obiettivi di cardiopatia e non manifesta sintomi riferibili a una compromissione emodinamica coincidente con la presunta aritmia. Diverso è il caso dell’aritmia frequente ma potenzialmente pericolosa, perché chi l’avverte è un cardiopatico (portatore per esempio di una cardiopatia ischemica), o perché l’aritmia si accompagna a sintomi gravi (neurologici o di scompenso). In questo caso lo strumento diagnostico più idoneo alla diagnosi è costituito dall’elettrocardiogramma dinamico (o ECG di Holter).
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6 - ARITMIE
D1
aVR
D2
aVL
D3
aVF
V1
V2
V3
V4
V5
V6
Figura 6.25 - Blocco di branca sinistra completo.
L’ECG di Holter consiste nella registrazione continua (in genere per 24 h) su nastro magnetico di una o due derivazioni (solitamente una derivazione degli atri e una precordiale) dell’elettrocardiogramma del paziente. La registrazione avviene mediante un registratore a batteria che il paziente indossa (le dimensioni del registratore sono quelle di una piccola radio a transistor) e porta con sé durante la normale attività di tutti i giorni. L’apparecchio è costruito in modo tale che il paziente può immettere un segnale nella registrazione del proprio ECG nel momento in cui avverte, eventualmente, sintomi. Il nastro viene poi stampato (o osservato su monitor o letto in maniera completamente automatizzata a seconda del modello dell’apparecchio), dando così modo di mettere in evidenza: a) il tipo di aritmia presente; b) se l’aritmia è responsabile o meno dei sintomi segnalati dal paziente. Diverso ancora è il caso dell’aritmia rara e potenzialmente pericolosa. L’elettrocardiogramma dinamico in questo caso è poco utile perché la probabilità di cogliere l’evento aritmico è bassa. Si ricorre allora a metodiche di tipo provocativo da riservare esclusivamente allo specialista fornito degli strumenti adeguati. Il modo più semplice per cercare di indurre l’aritmia è l’esercizio fisico. Si sottopone quindi il paziente a una prova da sforzo (il più delle volte viene impiegato il cicloergometro) con incrementi progressivi del carico di lavoro e con la registrazione continua dell’elettrocardiogramma (la registrazione dev’essere mantenuta per
qualche minuto anche nella cosiddetta fase di recupero dello sforzo, durante la quale frequentemente si manifestano alcune forme di aritmia). Nell’impossibilità clinica di eseguire una prova da sforzo o quando la prova da sforzo non è conclusiva, si può ricorrere allo studio elettrofisiologico. Lo studio elettrofisiologico è una metodica invasiva da riservare a un ambiente altamente specializzato, che consiste nel tentativo di creare, attraverso stimolazione elettrica dell’atrio e del ventricolo destro, le condizioni fisiopatologiche che sono alla base della formazione dell’aritmia. L’induzione programmata dell’aritmia consente di studiarne in dettaglio le caratteristiche, specie per quanto concerne la risposta ai vari farmaci antiaritmici. Lo studio elettrofisiologico viene effettuato introducendo un elettrodo stimolatore attraverso una vena periferica (solitamente la femorale) e spingendolo nel ventricolo destro sotto controllo fluoroscopico. L’elettrodo stimolatore è collegato all’esterno con un apparecchio in grado di inviare al ventricolo degli “extrastimoli”. Gli extrastimoli sono, di fatto, dei battiti prematuri indotti artificialmente, che possono essere sincronizzati con l’attività elettrica spontanea del cuore. Questa sincronizzazione consente all’operatore di fare “cadere” l’extrastimolo durante un momento prescelto della ripolarizzazione ventricolare. Questa tecnica cerca, in sostanza, di ricreare in laboratorio la condizione patologica che dà il via all’aritmia. Insieme col catetere dell’elettrodo stimolatore viene inserito (sempre per via femorale) anche un catetere re-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
ventricolare. La registrazione dei potenziali endocavitari consente di conoscere esattamente la sede nella quale è situato il blocco: nell’atrio se è allungato il tempo P-A; nel nodo atrioventricolare se è allungato il tempo A-H; nelle branche e nel sistema di Purkinje se è allungato il tempo H-V. La conoscenza della sede del blocco orienta verso le misure terapeutiche più idonee. In particolare, può suggerire l’impianto di un pacemaker artificiale. La conoscenza della via seguita dall’impulso è particolarmente importante nella diagnosi e nella terapia di alcune aritmie da rientro. La via seguita da un determinato impulso può essere ricostruita osservando la successione con la quale avviene l’inscrizione dei vari potenziali endocavitari. Normalmente l’attivazione è quella già descritta: P-A-H-V; in condizioni patologiche l’ordine può essere incompleto e in parte invertito. Si prenda l’esempio di un’extrasistole ventricolare che induce un rientro a livello del nodo atrioventricolare. Alla deflessione V del battito ectopico ventricolare (inizio QRS ectopico) segue un’onda H da attivazione retrograda del fascio di His. A questa segue poi un’altra V d’attivazione ventricolare (inizio di un secondo QRS ectopico) che consegue al rientro attraverso il nodo atrioventricolare. La conoscenza di questo meccanismo patogenetico consente di orientare la scelta del farmaco antiaritmico (nel caso citato, per esempio, si sceglierà un farmaco
gistratore, il cui compito è quello di registrare i cosiddetti potenziali endocavitari (Fig. 6.26). L’ECG di superficie consente di registrare solo variazioni di potenziale elettrico di voltaggio relativamente elevato: l’onda P di attivazione atriale; il QRS di attivazione ventricolare; l’onda T di ripolarizzazione ventricolare. La registrazione endocavitaria fornisce utili informazioni supplementari. Mediante questa tecnica, infatti, possono essere registrati il potenziale determinato dall’attivazione del fascio di His (deflessione H) e il potenziale originato dall’attivazione della parte distale, bassa dell’atrio destro (deflessione A). La registrazione contemporanea dei potenziali endocavitari e di una derivazione elettrocardiografica consente di avere due tipi di informazione: a) scomporre il tempo di conduzione atrioventricolare (PR nell’ECG di superficie) in tre componenti: P-A; A-H; H-V (P rappresenta l’inizio della P dell’ECG; V rappresenta l’inizio del QRS sempre nell’ECG di superficie); b) conoscere in dettaglio la via seguita dall’impulso. Si è già visto che il significato prognostico di un blocco atrioventricolare è diverso a seconda della sede del blocco: soprahissiano o sottohissiano. L’ECG di superficie fornisce solo un dato complessivo e si limita a segnalare che esiste un disturbo di conduzione compreso fra il momento in cui la depolarizzazione atriale ha origine e il momento in cui inizia la depolarizzazione
R
P VCS
D2 Q AS AD
NAV
S
V
A H
H
HBE A
VS VD
AD AS D2 H HBE NAV V VCI VCS VD VS
= Potenziale di attivazione dell’atrio destro = Atrio destro = Atrio sinistro = Derivazione dell’ECG di superficie = Fascio di HIS e potenziale hissiano sull’ECG endocavitario = Elettrocardiogramma endocavitario = Nodo atrioventricolare = Complesso ventricolare = Vena cava inferiore = Vena cava superiore = Ventricolo destro = Ventricolo sinistro
VCI
Figura 6.26 - Elettrocardiogramma endocavitario. Si registra introducendo un catetere rilevatore attraverso una vena periferica (di solito la femorale) e posizionandolo al di sotto della commissura mediale della tricuspide in corrispondenza del fascio di His. È così possibile registrare i potenziali di attivazione dell’atrio destro e del fascio di His. Il tempo di conduzione fra l’inizio dell’attivazione atriale (inizio onda P) e quello dell’attivazione ventricolare (inizio onda Q) può così essere scomposto in alcune componenti (P-A; A-H; H-V) e mettere in evidenza con maggiore precisione la sede di eventuali disturbi di conduzione.
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6 - ARITMIE
che allunghi la conduzione a livello del nodo atrioventricolare per impedire il rientro nodale). Il catetere stimolatore può essere utilizzato anche a scopo terapeutico con la tecnica detta “dell’over-drive”. L’over-drive si può usare nella terapia del flutter e della tachicardia atriale e per alcuni casi di tachicardia ventricolare. La tecnica dell’over-drive consiste nello stimolare la camera (atriale o ventricolare) dalla quale prende origine l’aritmia con una frequenza superiore a quella intrinseca dell’aritmia che si vuole curare. La stimolazione viene mantenuta per 10-15 sec poi viene bruscamente interrotta. Se la pratica ha successo, dopo l’interruzione della stimolazione segue un breve periodo di asistolia, seguito a sua volta dalla ripresa del normale ritmo sinusale. L’over-drive atriale (utile quindi solo nel flutter e nella tachicardia atriale) può essere effettuato con tecnica non invasiva mediante catetere esofageo. L’esofago è adiacente alla parete posteriore degli atri. Per via orale è possibile inserire un piccolo elettrodo collegato a un filo contrassegnato da alcune tacche equidistanti. Il paziente può deglutire l’elettrodo aiutandosi con qualche sorso d’acqua. Il medico regge con una mano il filo collegato all’elettrodo e, aiutandosi con le tacche poste sul filo, calcola la distanza percorsa dall’elettrodo nell’esofago del paziente. L’elettrodo dev’essere po-
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sto a ridosso della parete posteriore degli atri. L’elettrodo ha due funzioni: di registrazione (il filo dev’essere collegato a una derivazione dell’elettrocardiografo) e di stimolazione (filo collegato a un pacemaker). La posizione corretta dell’elettrodo viene segnalata dalla registrazione di ampie onde di depolarizzazione atriale. Collegando il filo a un pacemaker e stimolando, è possibile “catturare” gli atri ed eseguire correttamente un over-drive secondo le modalità già descritte. La registrazione dell’attività atriale mediante catetere esofageo è molto utile anche per la diagnosi differenziale fra una tachicardia ventricolare e una tachicardia sopraventricolare condotta con aberranza. Nella tachicardia ventricolare l’attività atriale è dissociata da quella ventricolare. Nella tachicardia sopraventricolare condotta con aberranza il rapporto fra onda P e onda QRS è costante. Sia nella tachicardia ventricolare sia nella tachicardia sopraventricolare condotta con aberranza il complesso QRS è allargato oltre 0,10-0,12 sec. L’elevata frequenza del complesso ventricolare e l’allungamento del QRS tendono a mascherare l’attività atriale (onda P). La registrazione mediante elettrodo esofageo amplifica l’onda P che può essere facilmente registrata. Se è dissociata dal QRS, la tachicardia è ventricolare; se è in rapporto fisso con il QRS, è sopraventricolare condotta con aberranza.
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C A P I T O L O
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CARDIOPATIA ISCHEMICA C. SCHWEIGER
Generalità Il termine cardiopatia ischemica definisce uno spettro di malattie a diversa eziologia, in cui il fattore fisiopatologico unificante è rappresentato da uno squilibrio tra la richiesta metabolica e l’apporto di ossigeno al miocardio. La cardiopatia ischemica è, nella stragrande maggioranza dei casi, secondaria ad aterosclerosi ostruttiva dell’albero coronarico. Tuttavia, coronaropatia ostruttiva e cardiopatia ischemica non sono sinonimi, dal momento che può esservi una coronaropatia aterosclerotica senza che vi siano evidenti segni clinici di cardiopatia ischemica e, viceversa, le manifestazioni cliniche della cardiopatia ischemica si presentano talvolta senza che sia evidenziabile una coronaropatia organica. Oltre che da stenosi “fisse” di natura aterosclerotica, il miocardio può essere reso ischemico da stenosi “dinamiche” delle coronarie: in questo caso il meccanismo più documentato è uno spasmo coronarico. Altre cause meno comuni di ostacolo al flusso coronarico sono: un’embolia, una coronarite ostiale da aortite luetica, un’arterite coronarica nell’ambito di una vasculite (per es., una poliarterite nodosa). In età neonatale può verificarsi una ischemia miocardica per un’anomalia congenita delle coronarie, con insorgenza di una coronaria dall’arteria polmonare, che quindi veicola sangue non ossigenato. Al contrario, lo sbilanciamento tra domanda metabolica e apporto di ossigeno al miocardio può verificarsi anche con coronarie normali, per un aumento sproporzionato delle richieste. Ciò, tuttavia, avviene solo quando le richieste metaboliche sono particolarmente elevate, come per esempio in presenza di una marcata ipertrofia miocardica, specie se associata ad una valvulopatia aortica. Non è infrequente che due o più meccanismi fisiopatologici siano simultaneamente presenti, come ad esempio aterosclerosi coronarica e spasmo coronarico: quest’ultimo è infatti più frequente, e comunque è più facilmente ischemizzante, proprio a livello di alterazioni aterosclerotiche.
Le manifestazioni cliniche della cardiopatia ischemica sono le seguenti. • Arresto cardiaco primario: esso evolve rapidamente verso la morte improvvisa, in assenza di manovre rianimatorie o quando la rianimazione è inefficace.
Arteria coronaria s. Ramo circonflesso dell’arteria coronaria s. Arteria coronaria d. Ramo interventricolare anteriore (o arteria discendente anteriore sinistra) dell’arteria coronaria s. A.
Ramo circonflesso dell’arteria coronaria s.
Arteria coronaria d.
B.
Figura 7.1 - Anatomia del circolo coronarico. A. Vasi coronarici, prospettiva sterno-costale. B. Vasi coronarici, prospettiva diaframmatica.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
• Angina pectoris: essa è legata a uno squilibrio transitorio tra domanda e apporto metabolico al miocardio. L’ischemia è reversibile e non provoca danno anatomico permanente. Nel caso non infrequente in cui l’ischemia miocardica non si associ a sintomi, si parla di ischemia silente. • Infarto miocardico: consegue a un’ischemia miocardica protratta, che porta a danno cellulare irreversibile o necrosi miocardica. • Scompenso cardiaco: esso può manifestarsi come complicanza di un infarto acuto o pregresso, oppure può essere precipitato da episodi di ischemia miocardica transitoria o da aritmie. Nei casi senza segni clinici e/o elettrocardiografici di cardiopatia ischemica, la diagnosi è sempre presuntiva. • Aritmie: esse possono essere l’unico segno di una cardiopatia ischemica. In questo caso la diagnosi è solo presuntiva, a meno che con esami strumentali non si dimostri una sicura ischemia miocardica oppure una coronarografia non evidenzi una coronaropatia ostruttiva.
Epidemiologia La cardiopatia ischemica è di gran lunga la cardiopatia a maggiore incidenza (numero di nuovi casi insorti in un certo periodo di tempo in una data popolazione) e prevalenza (numero di casi affetti dalla malattia in una certa popolazione a un dato momento) nei paesi industrializzati dell’Occidente. Negli USA ogni anno muoiono per cardiopatia ischemica circa 550.000 soggetti e la prevalenza della malattia è di oltre 5 milioni di individui. In Italia le malattie cardiovascolari sono causa del 45-50% della mortalità globale; la cardiopatia ischemica da sola è, a sua volta, responsabile del 35% dei decessi dovuti a malattie cardiovascolari. In base a questi dati, si stima che la mortalità annuale per le forme tipiche della cardiopatia ischemica (angina, infarto e morte improvvisa) sia tra 70.000 e 80.000 casi. L’incidenza annuale di nuovi casi di infarto è circa 110.000; la prevalenza di infarto pregresso è di circa 500.000 casi e quella di angina pectoris (senza infarto pregresso) si aggira anch’essa attorno ai 500.000 casi. In Italia, quindi, vivono circa un milione di soggetti affetti da cardiopatia ischemica nelle sue forme più tipiche.
Eziologia L’aterosclerosi coronarica è di gran lunga la causa più frequente di cardiopatia ischemica e da un punto di vista pratico essa può esserne considerata la causa esclusiva. L’eziologia e la patogenesi dell’aterosclerosi sono trattate in dettaglio nel capitolo 3. Numerosi studi epidemiologici, condotti negli ultimi venticinque anni, hanno consentito di individuare alcune variabili individuali che si associano a un maggior rischio di malattia; queste variabili sono state definite fattori di rischio coronarico.
La tabella 7.1 elenca i fattori di rischio più importanti. Per quanto riguarda l’ipercolesterolemia, non è possibile definire un valore soglia al di sopra del quale inizi il rischio coronarico e al di sotto del quale tale rischio non esista. Negli ultimi anni si è tuttavia convenuto di adottare il seguente schema: • colesterolo totale < 200 mg/dl, valori consigliati; • colesterolo totale tra 200 e 240 mg/dl, rischio moderato; • colesterolo totale > 240 mg/dl, rischio elevato. A questi fattori di rischio se ne aggiungono altri, che diversamente da essi non sono modificabili. I più importanti sono: sesso, età e familiarità. È interessante che, nelle donne, esiste una correlazione tra menopausa precoce e mortalità cardiovascolare (largamente legata alla cardiopatia ischemica). L’associazione di più fattori di rischio aumenta la probabilità di malattia in misura più che additiva. È importante notare che la maggior parte dei fattori di rischio coronarico sono modificabili, cioè possono essere prevenuti e sono reversibili con adatte norme igieniche di vita e, se necessario, con adeguata terapia farmacologica. Tuttavia, oggi si è consapevoli che i classici fattori di rischio dell’aterosclerosi elencati nella tabella 7.1 non sono sufficienti a spiegare esaurientemente la patogenesi della cardiopatia ischemica. Un ruolo importante ha anche l’esistenza di un certo livello di infiammazione. Si è già visto nel capitolo 3 che l’infiammazione contribuisce allo sviluppo delle placche aterosclerotiche, ma più ancora l’esistenza di cellule infiammatorie nelle lesioni arteriose contribuisce a renderle “attive”, cioè più adatte a determinare localmente eventi trombotici. Questo può succedere per la fissurazione dell’orlo delle placche, con diretta esposizione al sangue di tessuto sottoendoteliale che attiva la coagulazione (si veda il capitolo 52). Inoltre, la liberazione locale di citochine infiammatorie, come l’interleuchina-1 (IL-1) e il Tumor Necrosis Factor (TNF), determina l’espressione del fattore tissutale promuovente la coagulazione da parte delle cellule endoteliali e dei monociti e blocca l’attività anticoagulante della proteina C (fattore di controllo della coagulazione, da non confondersi con la proteina C reattiva). Un’infiammazione a livello delle placche aterosclerotiche può essere favorita da infezioni, generalmente di grado lieve e subcliniche. Microrganismi come il cytomegalovirus e la clamidia possono localizzarsi nelle Tabella 7.1 - Fattori di rischio coronarico. MAGGIORI • Ipercolesterolemia • Ipertensione • Fumo
MINORI • • • •
Diabete Obesità Sedentarietà Caratteristiche psicologiche e stress • Ipertrigliceridemia
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7 - CARDIOPATIA ISCHEMICA
cellule endoteliali. È però anche possibile che agenti infettanti localizzati al di fuori delle arterie forniscano citochine infiammatorie che entrano nella circolazione e vanno a sollecitare l’infiammazione nelle placche aterosclerotiche. In questo modo anche comunissime infezioni, come la localizzazione gastrica dell’Helicobacter pylori, potrebbero giocare un ruolo. In accordo con questo punto di vista è la constatazione che livelli basali di proteina C reattiva più elevati della media (anche se nell’ambito dei limiti accettati come normali) sono predittivi di un futuro infarto del miocardio o di una trombosi cerebrale, ma non di una trombosi venosa. Estesi studi epidemiologici hanno dimostrato che, quando aggiustato per una varietà di fattori di rischio tradizionali, un livello di proteina C reattiva elevato nel sangue, sia pure di poco, è un fattore di rischio equivalente agli alti livelli di lipoproteine LDL per predire un futuro accidente coronarico. Non si deve, tuttavia, dimenticare che gli stessi stati di ipercoagulabilità favoriscono la trombosi delle coronarie. Da anni è noto che elevati livelli basali di fibrinogeno e di attività coagulante del fattore VII sono fattori di rischio per lo sviluppo di eventi coronarici. Tale è anche un livello elevato nel sangue dell’inibitore di tipo I dell’attivatore del plasminogeno (inibitore, cioè, di un sistema che promuove la fibrinolisi, ossia la dissoluzione dei coaguli di fibrina una volta che si sono formati; si veda Cap. 52). Per la verità, collegati con il rischio di eventi coronarici sembrano anche i livelli ematici del substrato che viene inibito, ossia dello stesso attivatore tissutale del plasminogeno. Tuttavia, sembra che questo sia un fenomeno secondario, dovuto al fatto che l’inibitore in concentrazione aumentata trascina con sé nel sangue anche il substrato con il quale si trova ad essere legato. Queste osservazioni sono interessanti, ma lasciano aperta la questione se queste alterazioni dell’emostasi sono solamente una conseguenza dell’infiammazione e dell’alterazione endoteliale che ne deriva, o se sono anomalie costituzionali che predispongono i pazienti all’aterosclerosi delle coronarie o alla trombosi. Occorreranno ulteriori studi per risolvere la questione. In conclusione, deve essere considerata superata la visione tradizionale che faceva dipendere la cardiopatia ischemica solo dall’ipercolesterolemia e dagli altri fattori di rischio “classici” di aterosclerosi. La correzione di questi fattori di rischio, se possibile, è certamente utile, ma riferirsi solo ad essi non esaurisce l’intera teoria. Anche i segni indiretti di una sottostante infiammazione e di uno stato di ipercoagulabilità vanno considerati, sebbene sia prematuro indicare come questi ultimi fattori di rischio possano essere rimossi.
Fisiopatologia Come si è detto, i due fattori che intervengono nella genesi dell’ischemia miocardica sono da una parte la riduzione del flusso coronarico e dall’altra l’aumento del
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consumo miocardico di ossigeno (MVO2). Vengono qui di seguito illustrate la regolazione del circolo coronarico e i fattori che determinano il MVO2. Regolazione del circolo coronarico • I vasi coronarici possono essere suddivisi in: vasi di conduttanza (grossi rami epicardici e loro diramazioni principali) e vasi di resistenza (rami intramiocardici e arteriole). • In condizioni basali, nel cuore l’estrazione di O2 è molto alta (circa il 70%); ne consegue che se la domanda metabolica aumenta, l’unico meccanismo di compenso è rappresentato da un proporzionale aumento del flusso coronarico, che si attua attraverso la vasodilatazione del distretto coronarico arteriolare (vasi di resistenza). La capacità massima di vasodilatazione secondaria a uno stimolo metabolico è definita riserva coronarica. • I fattori che regolano il circolo coronarico sono molteplici. Tra essi il più importante è sicuramente rappresentato dalla richiesta metabolica del muscolo cardiaco. Quando questa aumenta, si determina idrolisi di ATP e conseguente liberazione di adenosina nell’interstizio. Essa induce una vasodilatazione soprattutto a livello dei vasi di resistenza, con un conseguente aumento del flusso coronarico proporzionale all’aumento delle richieste metaboliche. L’adenosina non è la sola sostanza implicata nel processo, ma è verosimilmente la principale. Tra gli altri elementi che contribuiscono all’omeostasi della circolazione coronarica, sono particolarmente importanti quelli di tipo neuroumorale, quali per esempio le interazioni simpatico-parasimpatico e le prostaglandine. • Gli strati subendocardici sono generalmente i più esposti all’ischemia, soprattutto perché maggiormente esposti alla pressione diastolica endocavitaria. • Il flusso coronarico si attua soprattutto in diastole, poiché in sistole i rami intramurali vengono virtualmente occlusi dalla contrazione ventricolare. A questo proposito va ricordato che la tachicardia predispone allo sviluppo di ischemia, poiché, accorciando la durata della diastole, diminuisce il tempo disponibile al flusso coronarico. Sulla base di queste premesse fisiologiche si possono analizzare i fenomeni che si verificano a livello del circolo coronarico, quando questo sia interessato dall’aterosclerosi. • La presenza di una lesione aterosclerotica di un ramo epicardico determina, a valle della stenosi, una caduta di pressione che è proporzionale alla riduzione del calibro vasale. Il gradiente pressorio che così si crea stimola la dilatazione dei vasi di resistenza, allo scopo di mantenere un flusso adeguato in condizioni basali. Questo spiega l’assenza di segni clinici ed elettrocardiografici di ischemia anche in presenza di significativa aterosclerosi coronarica. • Se la stenosi riduce la sezione del ramo epicardico di oltre l’80%, si ha una riduzione del flusso anche in condizioni basali; in questa situazione l’albero coro-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
narico è costretto ad impegnare gran parte della sua “riserva” per mantenere un apporto metabolico adeguato. • In questo caso, se la richiesta metabolica aumenta (si veda in seguito) il circolo coronarico non è più in grado di far fronte alle richieste, avendo esaurito la propria “riserva”, e quindi compare l’ischemia. • L’ischemia interessa inizialmente gli strati subendocardici che sono i più esposti. • Un aumento del tono coronarico legato a fattori neuroumorali può limitare temporaneamente la riserva coronarica, impedendo la vasodilatazione, e in questi casi l’ischemia può comparire per richieste metaboliche inferiori; questo spiega la variabilità della soglia ischemica che abitualmente si osserva in clinica.
sa: infatti lo spessore della parete è proporzionale alla radice cubica della sua massa, quindi lo spessore si accresce molto meno della massa miocardica e quindi l’effetto netto dell’ipertrofia è un aumento del consumo di O2. In clinica non è possibile rilevare tutte queste variabili; alcune di esse tuttavia sono facilmente misurabili, come la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa sistolica. Il prodotto tra queste due variabili (FC × PA sistolica) × 10–3 si chiama doppio prodotto ed è l’indice di MVO2 utilizzato nella pratica clinica.
Determinanti del consumo miocardico di O2
• alterazioni metaboliche; • alterazioni elettriche; • alterazioni meccaniche.
Il cuore è un organo aerobio e, in condizioni fisiologiche, la determinazione del fabbisogno miocardico di O2 fornisce un indice accurato del suo metabolismo complessivo. La quantità di energia richiesta per i processi metabolici basali e per l’attivazione elettrica dell’organo è minima. I principali determinanti del consumo miocardico di O2 sono invece: • frequenza cardiaca, • contrattilità, • tensione di parete. È intuitivo che l’aumento della frequenza cardiaca aumenti il MVO2; inoltre, la tachicardia agisce anche riducendo il flusso coronarico (si veda in precedenza). Il secondo fattore è la contrattilità: quanto essa è maggiore, tanto più alto è il consumo di O2. Il terzo fattore è la tensione della parete miocardica. Si è già visto, a proposito della meccanica miocardica (Cap. 5), che la tensione della parete di una cavità cardiaca o postcarico è dipendente direttamente da due fattori: a) la pressione sviluppata al suo interno; b) il raggio medio della cavità. La pressione sviluppata è determinata dalle resistenze all’eiezione del sangue. Il raggio medio è determinato dal riempimento della cavità, cioè sarà maggiore quanto più alto è il ritorno venoso o precarico. Quindi la tensione parietale dipende tanto dalla pressione endocavitaria quanto dal precarico; in pratica essa aumenta sia quando aumentano le resistenze, sia quando aumenta il ritorno venoso. Inoltre un aumento della tensione della parete di una cavità cardiaca (postcarico) determina la sua ipertrofia e quindi l’aumento della massa miocardica, a cui consegue un incremento del consumo di O2. L’instaurarsi dell’ipertrofia ha, tuttavia, anche un effetto indiretto favorevole, nel senso di ridurre il consumo di O2. Infatti essa tende a ridurre il postcarico, essendo questo inversamente proporzionale allo spessore della parete. Tuttavia quest’effetto favorevole sul consumo di O2 è annullato di fatto dall’aumento della mas-
Effetti dell’ischemia a livello miocardico Gli effetti indotti dall’ischemia a livello miocardico sono di tre tipi:
A. Alterazioni metaboliche. In condizioni di normale ossigenazione, il miocardio ha un metabolismo strettamento aerobio e catabolizza gli acidi grassi e il glucosio a CO2 e H2O. In presenza di ischemia gli acidi grassi non possono essere ossidati e il glucosio viene metabolizzato a lattato. Ciò comporta una diminuzione del pH intracellulare e una riduzione delle riserve di fosfati ad alta energia: l’adenosin-trifosfato (ATP) e il creatin-fosfato (CP). La riduzione delle riserve di ATP interferisce con lo scambio ionico a livello del sarcolemma, con aumento del Na+ e riduzione del K+ intracellulare. L’aumento del Na+ intracellulare ha come conseguenza un incremento del Ca++ intracellulare attraverso un aumentato scambio Na+-Ca++. La ridotta disponibilità di ATP abbassa anche l’assunzione di Ca++ da parte del reticolo sarcoplasmatico e riduce l’estrusione di Ca++ dalla cellula. L’aumento del Ca++ intracellulare produce un sovraccarico di Ca++ a livello dei mitocondri e ciò deprime ulteriormente la produzione di ATP. Il Ca++ risulta quindi avere un ruolo centrale nel circolo vizioso che porta al danno irreversibile della cellula in caso di ischemia persistente. A livello del tessuto ischemico si producono anche radicali liberi derivati dall’ossigeno, cioè molecole di ossigeno con un eccesso di elettroni che le rendono chimicamente reattive. I radicali dell’ossigeno, per mezzo di fenomeni di perossidazione, possono danneggiare la membrana cellulare e quindi contribuire al danno ischemico. Un fenomeno interessante e curioso è il fatto che il miocardio che ha subito un’ischemia diviene metabolicamente più resistente a un’ischemia successiva. Questo fenomeno, che è indipendente dalla neovascolarizzazione nelle ramificazioni delle coronarie, viene chiamato precondizionamento ischemico. Questo stato ha una fase precoce, che si verifica entro 2 ore da un episodio ischemico che non abbia condotto ad infarto, e una tardiva, che ha luogo 24 ore dopo e può durare da 1 a 3 giorni. Sembra che tanto la fase precoce quanto quella tardiva dipendano, almeno in parte, dalla libera-
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• l’allungamento della fase 3 comporta un allungamento dell’intervallo Q-T e soprattutto modificazioni dell’onda T; queste modificazioni sono di tre tipi: a) alterazioni della forma, che tende a divenire appuntita e simmetrica; b) alterazioni dell’ampiezza che, secondo i casi, può aumentare o ridursi; c) alterazioni dell’orientamento dipendenti dalla direzione del vettore di ripolarizzazione.
zione locale di adenosina come conseguenza della degradazione di ATP nelle cellule miocardiche. In accordo con l’esistenza del precondizionamento ischemico sono le osservazioni relative alla minore gravità dell’infarto del miocardio preceduto da episodi anginosi, rispetto a quello che si verifica “a ciel sereno”. B. Alterazioni elettriche. Secondariamente alle alterazioni metaboliche, l’anossia altera le proprietà elettriche delle cellule miocardiche; queste modificazioni possono essere rilevate all’elettrocardiogramma. I segni elettrocardiografici caratteristici sono quelli di “ischemia”, “lesione”, “necrosi”. È importante ricordare che questi termini sono utilizzati in elettrocardiografia clinica per definire degli aspetti morfologici dell’elettrocardiogramma, senza necessariamente corrispondere in maniera precisa allo stato anatomico o fisiopatologico che essi suggeriscono.
Queste alterazioni del vettore di ripolarizzazione sono illustrate nella figura 7.2. In A è rappresentato un quadro normale: la depolarizzazione procede dall’endocardio verso l’epicardio e la ripolarizzazione in senso inverso, quindi i due fenomeni hanno direzione opposta, ma anche una polarità opposta e di conseguenza i vettori che ne derivano hanno la medesima direzione. In pratica il QRS e la T hanno la stessa direzione. In B è rappresentato un caso di ischemia degli strati subepicardici: per il ritardo della ripolarizzazione questa zona rimane negativa rispetto alle zone subendocardiche, per cui la ripolarizzazione avviene dall’endocardio verso l’epicardio e quindi con una polarità inversa rispetto al normale. In pratica l’onda T risulta invertita. In C è rappresentato un caso di ischemia subendocardica: in questo caso il ritardo della ripolarizzazione non inverte il senso generale della ripolarizzazione, ma ne altera la progressione. Il vettore di ischemia si aggiunge al vettore di ripolarizzazione normale dirigendosi dalla zona ischemica alla zona sana. Ne consegue che l’onda T registrata da un elettrodo epicardico è positiva e di ampiezza aumentata. In conclusione, nel caso di ischemia subepicardica si registra un’onda T negativa e in caso di ischemia subendocardica un’onda T positiva, alta e appuntita (Figg. 7.3 e 7.4).
1. Ischemia. Caratteristiche elettrofisiologiche: • la polarizzazione diastolica e il livello del potenziale a riposo sono normali (per le caratteristiche normali, si veda il capitolo 6); • anche la fase iniziale del potenziale d’azione non è alterata; infatti sono normali la fase 0 di ascensione rapida e le fasi 1 e 2 di caduta iniziale e di esordio della ripolarizzazione; • l’alterazione fondamentale è il prolungamento della fase 3 della ripolarizzazione. Conseguenze elettrocardiografiche: • l’assenza di alterazioni delle fasi 0, 1 e 2 ha come conseguenza l’assenza di modificazioni del QRS e del tratto S-T;
Normale
Ischemia subepicardica
Ischemia subendocardica
Endocardio PA
D
D R
D
R I
PA I
R Epicardio
ECG
A.
B.
PA = Potenziale d’azione D = Direzione del vettore di depolarizzazione
C.
R I
= Direzione del vettore di ripolarizzazione = Vettore patologico di ischemia
Figura 7.2 - Vettore di ripolarizzazione: orientamento normale e orientamento in caso di alterazioni.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
I
II
III
aVR
aVL
aVF
V1
V2
V3
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V5
V6
Figura 7.3 - Donna di 70 anni con angina da sforzo e spontanea; marcata ischemia subepicardica anteriore estesa.
2. Lesione. Caratteristiche elettrofisiologiche: • la polarizzazione diastolica è incompleta con un potenziale a riposo attorno a –70 mV invece che a –90 mV; ne deriva un flusso di corrente diastolica dal tessuto anossico al tessuto sano; • anche la depolarizzazione è incompleta, con una riduzione dell’ampiezza del potenziale d’azione e rallentamento della velocità di ascesa (fase 0);
• la ripolarizzazione è di durata ridotta con accorciamento delle fasi 2 e 3 del potenziale d’azione; ne deriva un flusso di corrente sistolica, dal tessuto sano al tessuto anossico. Conseguenze elettrocardiografiche: • malgrado dal punto di vista elettrofisiologico sia presente una doppia corrente di lesione, diastolica e sistolica, all’elettrocardiogramma è visibile solo
I
II
III
aVR
aVL
aVF
V1
V2
V3
V4
V5
V6
Figura 7.4 - Uomo di 50 anni con angina da sforzo da oltre un anno; ischemia subendocardica anteriore.
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7 - CARDIOPATIA ISCHEMICA
•
• •
•
•
quella sistolica. Questo paradosso si spiega col fatto che la corrente di lesione diastolica sposta la linea isoelettrica, ma questo spostamento non è rilevabile per la mancanza di un punto di riferimento, essendo la linea isoelettrica stessa il punto di riferimento. Durante la sistole la corrente di lesione diviene evidente per l’influenza di due fattori: lo spostamento dovuto alla corrente diastolica, che a questo punto diviene svelato, e lo spostamento dovuto alla corrente sistolica vera e propria; i due fenomeni si sommano, essendo di senso opposto (Fig. 7.5). In termini vettoriali è come se comparisse un vettore di lesione che si dirige dal tessuto sano verso il tessuto anossico. In caso di lesione degli strati sottoepicardici, si genererà quindi un vettore di lesione diretto dall’endocardio all’epicardio e quindi all’ECG comparirà un sopraslivellamento del tratto S-T nel caso in cui l’elettrodo esplorante sia posto sulla superficie epicardica. In caso di lesione degli strati sottoendocardici, si genererà un vettore diretto dall’epicardio all’endocardio e quindi all’ECG comparirà un sottoslivellamento del tratto S-T nel caso in cui l’elettrodo sia posto sulla superficie epicardica (Figg. 7.6 e 7.7). Il complesso QRS, teoricamente, dovrebbe essere modificato per le alterazioni della fase iniziale del potenziale d’azione; in pratica, tuttavia, tali modificazioni sono troppo modeste per essere rilevate all’ECG convenzionale. Solo in circostanze particolari, quando è presente un’anossia molto marcata, come nel caso di infarto in fase iniziale o angina di Prinzmetal (si veda in seguito), si possono avere alterazioni dell’ampiezza e della durata del QRS.
Diastole
Sistole
0
Tessuto anossico Tessuto sano 90
Epicardio Tessuto anossico Tessuto sano Endocardio
Slivellamento visibile Sottoslivellamento diastolico
Sopraslivellamento sistolico
Figura 7.5 - Elettrogenesi della lesione subepicardica in rapporto alle alterazioni del potenziale cellulare a riposo e d’azione. (Si veda il testo.)
I
II
III
aVR
aVL
aVF
V1
V2
V3
V4
V5
V6
Figura 7.6 - Donna di 65 anni con angina da sforzo e spontanea da alcune settimane; lesione subendocardica anteriore.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
D1
D2
D3
aVR
aVL
aVF
A.
B.
Figura 7.7 - Uomo di 57 anni sofferente di episodi di angina spontanea. A. Il tracciato registrato durante angina mostra una lesione subepicardica in sede inferiore (D2-D3-aVF) con aspetto speculare di lesione subendocardica in sede laterale alta (D1-aVL). In D1 è presente un’extrasistole. B. Il tracciato registrato subito dopo la regressione del dolore è normale.
3. Necrosi. Caratteristiche elettrofisiologiche. Nel caso di morte cellulare il tessuto miocardico perde la capacità di depolarizzazione e ripolarizzazione: esso diviene “elettricamente muto”. Conseguenze elettrocardiografiche. Il segno elettrocardiografico della necrosi è un’onda Q patologica nelle derivazioni prospicienti la necrosi. Una delle possibili spiegazioni di questo segno elettrocardiografico è la seguente. Il complesso QRS è generato da una serie di vettori che si producono in rapida successione per la depolarizzazione delle pareti ventricolari; questi vettori hanno direzione dall’endocardio all’epicardio; quindi i vettori di depolarizzazione della parete anteriore sono diretti verso l’avanti, quelli della parete inferiore verso il basso, quelli della parete posteriore posteriormente e così via. Quando si genera la necrosi di una certa zona di miocardio, a causa del venir meno dei vettori di quella zona, si genera uno squilibrio dovuto al prevalere dei vettori diretti in senso opposto. Il risultato finale è pertanto la comparsa di un vettore che “fugge” dalla zona di necrosi. Nel caso in cui l’elettrodo esplorante si trovi di fronte alla zona di necrosi, si avrà pertanto un’onda negativa che interessa la parte iniziale del complesso rapido ventricolare, cioè un’onda Q (Fig. 7.8). L’onda Q di necrosi ha alcune caratteristiche particolari che permettono di distinguerla dalla Q fisiologica presente in alcune derivazioni dell’elettrocardiogramma normale. Essa deve essere di durata superiore a 0,04 sec, spesso presenta delle uncinature, specie nella sua branca discendente iniziale, inoltre deve avere una determinata profondità il cui valore varia in rapporto alle derivazioni (si veda ECG nell’infarto). L’onda Q è il segno caratteristico della necrosi miocardica transmurale; vi possono essere, tuttavia, infarti che non interessano la parete miocardica per tutto il suo spessore e che vengono definiti intramurali.
Centrale N
n
Opposto
Marginale
Figura 7.8 - È rappresentata schematicamente una necrosi della parete libera del ventricolo sinistro (n). Il vettore N è il vettore patologico di necrosi che “fugge” dalla zona di necrosi (si veda il testo). Un elettrodo posto alla superficie epicardica prospiciente la necrosi registra un complesso QS; un elettrodo posto alla superficie epicardica in una zona di confine della necrosi registra un complesso QR; un elettrodo posto alla superficie epicardica in una zona opposta a quella della necrosi registra un complesso caratterizzato da un’alta onda R (aspetto speculare del complesso QS).
L’infarto interessante solo gli strati subepicardici è eccezionale; il suo aspetto elettrocardiografico sembra essere lo stesso della necrosi transmurale. L’infarto subendocardico è molto più comune; quando è interessata dalla necrosi più della metà dello spessore della parete, l’aspetto elettrocardiografico è simile a quello dell’infarto transmurale. Più spesso non si rilevano segni elettrici di necrosi, ma solamente alterazioni della ripolarizzazione. Si distinguono due tipi: • il primo è caratterizzato da marcato e persistente sottoslivellamento del tratto S-T, di solito anteriore e solo raramente inferiore; sembra che questo quadro elettrocardiografico corrisponda ad infarti subendocardici diffusi in soggetti con alterazioni coronariche gravi;
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7 - CARDIOPATIA ISCHEMICA
• il secondo è caratterizzato da un’ischemia subepicardica con inversione profonda e duratura delle onde T, in un territorio ben circoscritto; quest’aspetto, simile a quello dell’ischemia perinfartuale di una necrosi transmurale, corrisponderebbe ad una necrosi subendocardica limitata e ben circoscritta. C. Alterazioni meccaniche. 1. Effetti sulla contrazione ventricolare. In presenza di ischemia la funzione contrattile del miocardio risulta depressa; nella zona di miocardio ventricolare ischemico si manifesta un’asinergia segmentaria e una riduzione o abolizione del normale ispessimento sistolico. Indipendentemente dal fatto che l’ischemia sia transitoria o prolungata, se l’area ischemica è sufficientemente ampia si ha una depressione della funzione globale del ventricolo sinistro con riduzione della gettata sistolica, della portata cardiaca e della frazione di eiezione. Se l’ischemia interessa il 20-25% della massa ventricolare sinistra si ha evidenza clinica di scompenso. Se infine l’ischemia interessa i muscoli papillari o altri segmenti del miocardio, responsabili del normale funzionamento dell’apparato mitralico, si può instaurare un’insufficienza mitralica. Questi dati appaiono meglio spiegabili se si tiene conto che l’ischemia provoca apoptosi a carico delle cellule ischemiche. L’apoptosi è una forma di morte programmata nella quale le cellule si frammentano in piccoli corpiccioli, detti corpi apoptotici, ancora avvolti da una membrana cellulare. I corpi apoptotici sono particolarmente adatti, grazie a particolari modificazioni della membrana cellulare che li limita, ad essere fagocitati da altre cellule. Questo è utile per evitare gli effetti lesivi locali degli enzimi litici lisosomiali che vengono riversati nell’ambiente quando le cellule vanno incontro a necrosi. In passato si pensava che l’alterata funzione miocardica, che può causare scompenso cardiaco nella cardiopatia ischemica, fosse dovuta al sommarsi di minute lesioni necrotiche con successiva riparazione sclerotica (onde il termine ormai abbandonato, di “miocardiosclerosi”). Oggi si comprende, invece, che questo dipende dalla successione di apoptosi di alcune cellule miocardiche e successivo rimodellamento ventricolare. 2. Effetti sulla funzione diastolica. L’ischemia miocardica altera anche il rilasciamento ventricolare, come dimostra il rallentamento della riduzione della pressione (dP/dt negativo); altera, inoltre, l’assottigliamento della parete in diastole e prolunga il periodo di rilasciamento isovolumetrico. Queste alterazioni delle proprietà diastoliche ostacolano il normale riempimento del ventricolo e, assieme alla disfunzione contrattile, provocano un aumento della pressione diastolica che conduce ad una congestione venosa a monte. Per motivi non ancora ben chiariti, le alterazioni meccaniche conseguenti all’ischemia possono protrarsi anche a lungo, dopo la risoluzione dell’ischemia stessa. In alcuni casi sono sufficienti anche solo 15 min di ischemia, ovviamente senza danno necrotico conseguente, per dare luogo ad una depressione meccanica che può durare ore o giorni. Questo fenomeno è stato chiamato “miocardio contuso” (“stunned myocardium”).
ANGINA PECTORIS È una sindrome clinica derivante da un’ischemia miocardica transitoria, che non dà luogo a un danno miocardico permanente; il sintomo fondamentale è un dolore retrosternale oppressivo o costrittivo di breve durata.
Classificazione Per classificare l’angina si può fare riferimento a criteri fisiopatologici, a criteri descrittivi e infine a criteri clinico-prognostici. Nella tabella 7.2 viene riportato uno schema di classificazione; un’analisi dettagliata viene descritta di seguito nel testo. Criteri fisiopatologici L’ischemia miocardica può essere ricondotta a due meccanismi principali. 1. Una riduzione primitiva del flusso ematico miocardico, legato a variazioni dinamiche dell’area vascolare coronarica. È questa la cosiddetta angina primaria, il cui esempio più tipico, quasi paradigmatico, è rappresentato dall’angina variante di Prinzmetal, in cui uno spasmo di un grosso ramo epicardico determina un’ischemia transitoria. Condizioni meno drammatiche, ma certamente più frequenti sono rappresentate da: • variazioni del tono coronarico a livello di placche aterosclerotiche critiche ed eccentriche; • spasmo microvascolare del territorio dei vasi di resistenza; • microembolizzazione del letto distale con secondaria lisi; • variazioni del calibro vascolare epicardico legate a trombosi transitorie, sovrapposte a placche aterosclerotiche ulcerate. 2. Un aumento del fabbisogno metabolico miocardico, che eccede la possibilità di aumento del flusso coronarico, limitato dalla presenza di stenosi coronariche emodinamicamente significative. È questa la cosiddetta angina secondaria (Fig. 7.9). Possono essere incluse nell’angina secondaria anche le forme ischemiche legate ad alterazioni della capacità di vasodilatazione dei piccoli vasi intramiocardici che, pur in assenza di stenosi aterosclerotiche dei vasi epiTabella 7.2 - Classificazione dell’angina. • Criteri fisiopatologici
Angina primaria Angina secondaria
• Criteri descrittivi
Angina spontanea Angina mista Angina da sforzo
• Criteri clinico-prognostici
Angina stabile Angina instabile
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
15 B A
B
4 VARIABILE Riserva coronarica 3 residua
B C
10 METS
A
METS
10
15
4 FISSA Riserva coronarica 3 residua
A
A
CC
5
2
5
1
1
1
2
1 D
0
6
12 Ore
18
24
0
6
12
18
24
Ore
Figura 7.9 - La figura a sinistra illustra schematicamente un’angina secondaria pura. A causa di stenosi coronariche fisse, il flusso coronarico non può aumentare di oltre 3 volte rispetto al basale. Il soggetto non ha sintomi di angina in presenza di sforzi inferiori a 10 METS (1 MET corrisponde al consumo di ossigeno in condizione di riposo) (A). L’angina compare invariabilmente ogni volta che la richiesta metabolica supera i 10 METS (B). Nella figura a destra è invece illustrato un caso di angina mista (primaria e secondaria). In questo caso, come nel precedente, il flusso coronarico non può aumentare oltre 3 volte rispetto al normale, per cui il paziente ha l’angina ogni volta che le richieste metaboliche superano i 10 METS. Ma in questo caso la soglia di ischemia non è fissa, perché la riserva coronarica è variabile durante le ore del giorno a causa di ostruzioni dinamiche delle coronarie. Per esempio, in corrispondenza dei punti C, il paziente ha angina anche per sforzi inferiori a 10 METS, a causa di una sensibile riduzione della riserva coronarica per fattori funzionali. Infine, in corrispondenza del punto D, il paziente ha un grado di angina, pur in assenza di incremento delle richieste metaboliche; in questo caso la riserva coronarica è talmente ridotta (per es. per uno sforzo) che anche il flusso coronarico a riposo è insufficiente. (Da Maseri, Role of coronary artery spasm, JACC, vol. 9, n. 2, 1987).
cardici, riducono la riserva coronarica, che diventa così insufficiente a soddisfare un aumento delle richieste metaboliche miocardiche. È questo il meccanismo fisiopatologico ipotizzato nella cosiddetta sindrome X, che include pazienti che presentano evidenza clinica e strumentale tipica per ischemia, coronarie angiograficamente normali e assenza di fenomeni vasospastici del tipo di quelli descritti per l’angina primaria. Criteri descrittivi In clinica i meccanismi fisiopatologici alla base dell’angina primaria e dell’angina secondaria spesso sono presenti nello stesso paziente e questo dà luogo a uno spettro di quadri clinici estremamente variabile. Ad un estremo dello spettro vi è il paziente con angina spontanea (angina primaria pura), che presenta sempre episodi anginosi a riposo o comunque ad insorgenza imprevedibile, senza che sia possibile individuare una causa scatenante. All’estremo opposto vi è il paziente con angina da sforzo a soglia fissa (angina secondaria pura). In esso la sintomatologia è evocata, in modo riproducibile e prevedibile, sempre dallo stesso livello di attività fisica. Ma il quadro di più comune riscontro in clinica è rappresentato dal paziente con angina mista (angina primaria e secondaria associate). In questo caso sono presenti episodi a riposo ed episodi da sforzo; questi ultimi quasi sempre presentano una soglia di ischemia variabile. Il paziente, cioè, “nei giorni buoni” è in grado di fare sforzi di discreta entità senza che si manifesti ischemia; “nei giorni cattivi” è nettamente limitato e l’angina compare per la salita di due rampe di scale. In
pratica la presenza di stenosi coronariche emodinamicamente significative causa ischemia quando il consumo di O2 del miocardio raggiunge il livello soglia (componente secondaria), ma i molteplici e variabili meccanismi che alterano il flusso coronarico (componente primaria) modificano costantemente la soglia di ischemia. Nella pratica clinica, spesso si utilizzano definizioni come: “angina da freddo”, “angina postprandiale”, “angina da stress”, “angina da decubito”. In questi casi il termine serve solo ad individuare la causa scatenante l’episodio ischemico, alla base del quale sono comunque sempre presenti, anche se in misura diversa, i meccanismi fisiopatologici prima enunciati. Criteri clinico-prognostici In base a questi criteri, l’angina viene distinta in due forme nettamente diverse tra loro per la gravità del quadro clinico, ma soprattutto per la diversa evolutività. L’angina stabile è la forma cronica dell’angina. Essa può essere spontanea o mista, ma comunque è caratterizzata dalla sostanziale stabilità del quadro clinico con scarsa evolutività. L’angina instabile, raggruppa alcuni tipi particolari di angina, che mostrano una spiccata tendenza a evolvere verso l’infarto miocardico e/o la morte improvvisa. Sotto la dizione di angina instabile sono comprese: • angina di recente insorgenza (entro 4 settimane); • angina in crescendo: in questo caso una forma stabile mostra una riduzione progressiva della soglia d’ischemia; l’angina compare per sforzi sempre minori;
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7 - CARDIOPATIA ISCHEMICA
• angina a riposo: in questo caso l’angina si presenta a riposo, ma non con episodi isolati, bensì subentranti, di durata protratta e con scarsa sensibilità alla trinitrina; • angina precoce postinfartuale: in questo caso nella fase subacuta di un infarto si ripresentano dolori a riposo o per minimi sforzi. Nel caso dell’angina instabile il quadro coronarico (anatomico e angiografico) e i meccanismi fisiopatologici sono in parte diversi da quelli dell’angina stabile; in essa, infatti, l’alterazione dell’endotelio, l’aggregazione piastrinica e la trombosi giocano un ruolo preminente (Cap. 8). Dall’angina stabile alle sindromi coronariche acute Negli anni recenti l’analisi congiunta dei reperti anatomopatologici, dei quadri coronarografici (e ora anche coronaroscopici) e la più approfondita conoscenza dei meccanismi fisiopatologici ha consentito di elaborare una teoria unificante che spieghi i molteplici quadri della cardiopatia ischemica e soprattutto il passaggio da un quadro di stabilità clinica (angina cronica) ai vari quadri delle sindromi coronariche acute (angina instabile, infarto intramurale, infarto transmurale). • L’alterazione anatomopatologica fondamentale rimane la placca aterosclerotica che provoca la stenosi coronarica. • Nel caso di angina stabile, l’endotelio che ricopre la placca è integro e la superficie liscia. I meccanismi dell’angina sono quelli precedentemente enunciati. • Nel caso di angina in crescendo (la forma meno grave di angina instabile), la superficie endoteliale appare ulcerata e si rilevano emorragie subintimali, ma abitualmente non vi è trombosi. Il meccanismo per cui l’ulcerazione della placca provoca l’instabilità può essere la liberazione di sostanze vasocostrittrici, come il trombossano A2, da parte delle piastrine che si aggregano nella sede dell’ulcerazione. • Gli aggregati piastrinici possono dare luogo a microembolizzazioni coronariche. Secondo un’ipotesi, questo fenomeno può dar luogo a due distinti quadri clinici: a) la morte improvvisa dovuta ad aritmie fatali innescate dall’ischemia causata dall’embolizzazione; b) lo sviluppo di cardiomiopatia ischemica, conseguenza di ripetuti danni miocardici senza evidenza clinica o elettrocardiografica di infarto. • Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i sintomi di instabilità regrediscono; il corrispettivo anatomico di questa stabilizzazione del quadro clinico è la riparazione dell’endotelio a livello della placca, la quale però mostra spesso un incremento delle proprie dimensioni. Ne consegue un’angina stabile con una soglia ischemica più bassa che in precedenza. In sintesi, si può schematizzare il seguente ciclo istopatologico a livello della placca aterosclerotica: ulcerazione, aggregazione piastrinica, possibili microembolizzazioni periferiche di aggregati piastrinici, riparazione dell’ulcerazione con progressione della placca. I
quadri clinici corrispondenti sono: angina in crescendo, eventuale morte improvvisa o sviluppo di cardiomiopatia, oppure ritorno a un quadro di angina stabile con soglia ischemica più bassa. A questo ciclo se ne può affiancare un altro a diversa evoluzione. Dopo l’ulcerazione dell’endotelio, all’iniziale aggregazione piastrinica può seguire la formazione di un trombo. Ma la trombosi è un fenomeno altamente dinamico: il trombo può progredire più o meno rapidamente, oppure può andare incontro a lisi spontanea ed eventualmente essere incorporato nella placca che si ricompone nella sua forma stabile. Da queste diverse possibilità evolutive derivano diversi quadri clinici. • Quando il trombo non è occlusivo, si può presentare la forma più grave di angina instabile: l’angina a riposo. Successive lisi e ricostituzioni del trombo giustificano l’andamento dei sintomi. • Quando il trombo progredisce rapidamente, senza tuttavia portare alla completa occlusione della coronaria, si può instaurare il quadro dell’infarto miocardico intramurale (infarto “non-Q”). • Se il trombo progredisce sino all’occlusione completa, si manifesta un infarto transmurale. Se la progressione del trombo è rapida, si può avere un infarto non preceduto da angina, come prima e imprevedibile manifestazione della cardiopatia ischemica. • Ultima possibilità evolutiva è l’organizzazione del trombo, con riparazione dell’ulcerazione e progressione della placca, che tuttavia si ricompone nella sua forma stabile; in questo caso si ritorna a un quadro di angina cronica, spesso a soglia più bassa. Questo schema a doppio ciclo, pur soffrendo di eccessiva semplificazione, consente di interpretare in modo unitario le diverse sindromi coronariche, spiegando i passaggi che legano le une alle altre (Fig. 7.10). Inoltre ha il grande pregio di centrare l’attenzione sull’endotelio, sull’aggregazione piastrinica e sulla trombosi. Di conseguenza sarebbero necessari interventi terapeutici che agissero selettivamente su quattro specifici bersagli: prevenire l’ulcerazione dell’endotelio, inibire l’aggregazione piastrinica, indurre la trombolisi e stimolare la riparazione dell’endotelio. Su due di questi obiettivi i risultati terapeutici sono già consolidati: gli antiaggreganti hanno dimezzato il numero di infarti e la mortalità dell’angina instabile; i farmaci trombolitici sono l’arma principale della terapia dell’infarto acuto.
Clinica A. Sintomi. La diagnosi di angina si basa soprattutto sulle caratteristiche del dolore toracico. Il sintomo tipico è un dolore oppressivo o costrittivo retrosternale: il paziente lo indica quasi sempre ponendo la mano aperta sulla regione sternale. A volte il dolore è irradiato al collo, alle spalle, alla superficie ulnare dell’arto superiore sinistro (ma anche del destro). La durata è variabile da 1-2 a 20 min. In molti casi (non sempre) è individuabile un fattore scatenante.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Ateroma stabile
Ateroma stabile Angina stabile
Riparazione dell’ulcera
Ulcerazione
Trombosi parziale
Organizzazione del trombo
Progressione della stenosi
Angina accelerata
Angina instabile
Pressione della stenosi
Aggregazione piastrinica Morte improvvisa Cardiomiopatia ischemica
Trombosi occlusiva Infarto miocardico
Figura 7.10 - Possibili quadri istopatologici che si sviluppano a partire dall’ateroma stabile e sindromi cliniche corrispondenti.
Questo è il quadro tipico, che difficilmente sfugge ad una diagnosi sulla base della sola anamnesi; tuttavia in molti casi la qualità del dolore è di natura più vaga, le sue proiezioni sono atipiche, manca assolutamente un fattore scatenante; è pertanto importante raccogliere un’anamnesi prossima accurata, seguendo uno schema che tenga presente le seguenti variabili. 1. Qualità del dolore: oppressione o pesantezza, bruciore, tensione, senso di affanno, sensazione di dolore profondo e non superficiale, inizio e cessazione graduali. Il dolore non è influenzato dagli atti respiratori, dalla posizione del corpo né dalla pressione della parete toracica. 2. Localizzazione: abitualmente il dolore è retrosternale mediano. Esso ha molteplici irradiazioni (si veda in seguito). Raramente si presenta solo nelle sedi di irradiazione senza essere presente in sede retrosternale. 3. Durata: da 1-2 a 20 min. Naturalmente durate diverse hanno significato diverso: quanto più prolungato è il dolore, tanto più grave è la situazione. 4. Fattori precipitanti: esercizio fisico, temperatura rigida, periodo postprandiale, rapporto sessuale, emozione (questi fattori non sono presenti in caso di angina spontanea). 5. Risposta alla trinitrina: regressione graduale del dolore dopo 1-5 min dall’assunzione sublinguale. 6. Irradiazioni: superficie ulnare dell’arto superiore sinistro (raramente del destro), spalle, mandibola, epigastrio, regione interscapolo-vertebrale. Nella valutazione dell’anginoso è importante tenere presente il grado di limitazione funzionale indotto dalla malattia, poiché questo è un indice, per quanto grossolano, della gravità del danno anatomico. A tale riguardo la Società Canadese di Cardiologia raccomanda la seguente classificazione. • Classe I: l’angina è provocata solo da sforzi fisici molto intensi ed inusuali per il soggetto; tutte le atti-
vità ordinarie possono essere svolte senza problemi. • Classe II: è presente una modesta limitazione dell’attività fisica; il soggetto ha angina se deve fare, per esempio, due rampe di scale, particolarmente in condizioni sfavorevoli (dopo un pasto o in una giornata fredda). • Classe III: il paziente è decisamente limitato nella sua attività fisica ed è sintomatico per sforzi lievi. • Classe IV: qualunque tipo di sforzo provoca angina, che può essere presente anche a riposo. A conclusione di questo paragrafo dedicato ai sintomi, va ricordato che il termine “angina” non è equivalente a “episodio ischemico transitorio”. Angina è il sintomo doloroso, ma l’ischemia transitoria si può manifestare anche con: • sintomi di insufficienza ventricolare sinistra; come è già stato detto in precedenza, l’ischemia altera la funzione diastolica e sistolica del ventricolo con aumento della pressione telediastolica; questo determina un incremento della pressione nei capillari polmonari, con conseguente dispnea; • in alcuni casi si può presentare una sintomatologia caratterizzata solo da astenia; essa è legata a una riduzione transitoria della funzione sistolica con diminuzione della portata e ipoperfusione muscolare; • l’ischemia miocardica provoca anche instabilità elettrica con conseguente possibilità di aritmie anche gravi; il paziente può avvertire cardiopalmo, soffrire di sincope o lipotimia, e in alcuni casi anche andare incontro a morte improvvisa; • in un certo numero di casi, molto più frequenti di quanto si ritenesse in passato, l’episodio ischemico transitorio può essere totalmente asintomatico; in questi casi si parla di “ischemia silente”. B. Esame obiettivo. L’esame obiettivo contribuisce in minima parte alla diagnosi di angina pectoris per due motivi: a) solo raramente è possibile esaminare il paziente durante un attacco anginoso; b) sia durante la
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7 - CARDIOPATIA ISCHEMICA
crisi, sia soprattutto nei periodi intervallari, l’obiettività può essere negativa. Un esame obiettivo generale può fornire indicazioni indirette, mettendo in evidenza un maggior rischio di cardiopatia ischemica: esempi di rilievo possono essere i segni di ipertensione, di obesità o di xantomi. L’esame obiettivo cardiaco potrà rilevare la presenza di patologie che possono essere causa di dolore toracico ed ischemia miocardica, pur in assenza di coronaropatie, quali la valvulopatia aortica o la cardiomiopatia ipertrofica. Si potrà inoltre escludere il prolasso mitralico, causa frequente di dolore toracico atipico, soprattutto in giovani donne. Sia il terzo che il quarto tono possono essere udibili in un soggetto anginoso, sia in fase cronica sia, particolarmente, durante l’episodio acuto. Sono legati alla ridotta funzione sistodiastolica indotta dall’ischemia. In alcuni casi si può rilevare la comparsa di un soffio da insufficienza mitralica, che regredisce con il passare della crisi, legato ad un malfunzionamento dei muscoli papillari, se l’ischemia interessa tale distretto. La comparsa di un impulso precordiale è indice di una transitoria discinesia indotta dall’ischemia. Infine, nel caso che l’ischemia interessi una cospicua porzione di miocardio, si possono manifestare segni di scompenso acuto del ventricolo sinistro; in alcuni casi la dispnea può essere l’unico segno dell’ischemia. Caratteristicamente questi segni, se non sono già presenti prima dell’episodio anginoso, regrediscono con la sua cessazione.
Esami strumentali Nella diagnostica strumentale dell’angina, si utilizzano varie metodiche, alcune semplici altre complesse, nella maggior parte dei casi non invasive. Solo quando non si riesce ad ottenere una ragionevole certezza diagnostica con gli esami più semplici si deve ricorrere agli esami più sofisticati. La strategia deve essere quella di procedere per passi successivi, ognuno dei quali deve essere giustificato dall’esito dell’indagine svolta al livello precedente. Le indagini strumentali sono principalmente le seguenti: • elettrocardiogrammi: a) a riposo; b) da sforzo; c) dinamico secondo Holter; • ecocardiogramma; • test radioisotopici: ventricolografia radioisotopica con tecnezio 99; scintigrafia miocardica con tallio 201 (entrambe le metodiche possono essere eseguite a riposo o associate allo sforzo); • coronarografia. A. ECG a riposo. In molti pazienti con angina pectoris, l’elettrocardiogramma a riposo può essere perfettamente normale (dal 25% al 50% dei casi). Eventuali modificazioni possono riguardare: 1. Il QRS: per la presenza di segni di un pregresso infarto o di un blocco di branca.
2. Il tratto ST: rispetto all’isoelettrica, le modificazioni si possono esprimere come: • sopraslivellamento: tradizionalmente questo aspetto è considerato espressione di ischemia subepicardica, anche se in realtà esso equivale a severa sofferenza ischemica transmurale del ventricolo sinistro. Tipico della fase acuta dell’infarto, si può osservare transitoriamente anche nell’angina cosiddetta di Prinzmetal, usualmente dovuta a spasmo occlusivo di un ramo epicardico; • sottoslivellamento: espressione di ischemia subendocardica; è la modificazione più tipica e frequente dell’angina pectoris. Per essere diagnostico, deve essere di entità superiore a 0,1 mV, con aspetto rettilineo o discendente. Più spesso è evidente solo in fase acuta; il tratto ST può comunque essere depresso anche cronicamente. 3. L’onda T: in un tracciato normale, questa deflessione è consensuale al QRS e quindi, generalmente, positiva. Significato ischemico possono avere onde T francamente negative o piatte; ancora una volta, queste modificazioni possono essere transitorie o croniche. Durante ischemia, può inoltre essere osservata: • una marcata positivizzazione ed appuntimento di onde T prima poco evidenti; • una positivizzazione di T prima negative (fenomeno della “pseudonormalizzazione”). Sulla base delle derivazioni interessate del tratto ST, si può ricavare un’indicazione della localizzazione dell’ischemia: • • • • •
D1-aVL, parete laterale alta; D2-D3-aVF, parete inferiore; V1-V2, setto interventricolare; V1-V4, parete antero-settale; V3-V6, parete antero-laterale. Va infine ricordato che:
• in presenza di ischemia subendocardica indotta da aumento del consumo di ossigeno, quale quella osservata tipicamente durante prove da sforzo, il maggior sottoslivellamento del tratto ST è quasi invariabilmente in V5, indipendentemente dalla sede anatomica dell’ischemia; • la specificità delle alterazioni elettrocardiografiche è sempre e comunque tanto maggiore quanto più esse sono correlabili alla sintomatologia; • alterazioni elettrolitiche (in particolare l’ipokaliemia) e alcuni farmaci (in particolare la digitale) possono indurre alterazioni del tratto ST non legate ad ischemia. B. ECG da sforzo. Come già accennato nelle premesse fisiopatologiche, lo scopo fondamentale del test da sforzo è quello di valutare la riserva coronarica, che è tanto più compromessa quanto maggiori sono la severità e l’estensione del danno aterosclerotico coronarico.
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La prova può essere eseguita essenzialmente in due modi: • con cicloergometro; il paziente pedala su una cyclette; • con tappeto rotante; il paziente cammina su di esso. In ambedue i casi, e secondo protocolli prefissati, lo sforzo compiuto dal soggetto può essere progressivamente incrementato (aumentando la resistenza della pedaliera nel primo caso e variando la velocità e l’inclinazione della pedana nel secondo), mantenendo un monitoraggio continuo dell’elettrocardiogramma e della pressione arteriosa. Il test verrà interrotto per esaurimento muscolare, per la comparsa di aritmie maggiori, di angina o per lo sviluppo di modificazioni ischemiche del tratto ST; un altro criterio di interruzione è rappresentato dalla comparsa di ipotensione, indice di severa disfunzione contrattile del ventricolo sinistro a sua volta secondaria a grave ischemia. Il monitoraggio continuo dell’elettrocardiogramma, della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa e la loro risposta a carichi di lavoro crescenti permettono di valutare i livelli di consumo miocardico di ossigeno che il paziente può tollerare senza sviluppare ischemia. Queste informazioni possono essere ottenute sia in assenza di terapia che per valutarne gli effetti. Se un test da sforzo è positivo, è importante considerare: • a quale carico di lavoro si manifestano le alterazioni ischemiche; ovviamente, alterazioni elettrocardiografiche che compaiono pochi minuti dopo l’inizio dell’esercizio o per bassi livelli di doppio prodotto hanno un significato più grave di quelle che si verificano per sforzi intensi; • il tempo necessario per il ritorno alle condizioni basali del tracciato; recuperi lenti (oltre i 5 min) indicano una sofferenza ischemica particolarmente grave del miocardio. Come ogni test, anche quello da sforzo è gravato da un certo numero di possibili: • falsi positivi; pazienti in cui il test è positivo, ma tutte le altre indagini non confermano la diagnosi di ischemia miocardica; è particolarmente frequente in soggetti con una bassa probabilità “pre-test” di presentare malattie aterosclerotiche (per es., donne giovani senza fattori di rischio); • falsi negativi; pazienti in cui il test è negativo, ma le altre indagini evidenziano ischemia; questi casi sono più frequenti nei soggetti in cui l’ischemia coinvolge la parete postero-inferiore del cuore, spesso difficile da esplorare elettrocardiograficamente. C. ECG dinamico secondo Holter. È definita in questo modo la registrazione ambulatoriale continua dell’elettrocardiogramma per lunghi periodi (24-48 h). L’apparecchiatura necessaria consta di un piccolo registratore portatile collegato a elettrodi posti sul torace del soggetto in esame. Sono generalmente registrate su
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cassetta, in continuo, due derivazioni elettrocardiografiche; il paziente tiene inoltre un diario della sintomatologia e delle sue attività giornaliere. Al termine dello studio, l’elettrocardiogramma viene analizzato mediante un “replay” ad alta velocità che consente di visualizzare in pochi minuti i dati registrati in 24 h. I vari sistemi disponibili consentono sia una valutazione visuale mediante un oscilloscopio a memoria sia l’analisi automatica basata sull’impiego di tecniche computerizzate. La metodica consente una valutazione sia delle modificazioni (sintomatiche e non) del tratto ST sia di eventuali aritmie. Il maggior vantaggio della tecnica è di permettere la valutazione del soggetto durante le sue normali attività quotidiane e di consentire la quantizzazione degli episodi ischemici e delle eventuali aritmie. Da un punto di vista diagnostico, essa è particolarmente indicata in pazienti con angina prevalentemente a riposo e in quelli in cui si sospetta la presenza di numerosi episodi asintomatici, per verificare l’efficacia del trattamento. D. Metodiche di medicina nucleare. Un contributo importante alla diagnosi di angina può essere dato dai test che utilizzano radioisotopi; essi non debbono essere considerati test routinari e quindi trovano indicazione solo nel caso di persistente dubbio diagnostico dopo l’espletamento degli esami più semplici. Vengono descritte le due metodiche più utilizzate. 1. Ventricolografia isotopica con 99Tc. Serve a “visualizzare” le cavità ventricolari e a dare informazioni sulla cinetica parietale. La tecnica consiste nella marcatura dei globuli rossi con 99Tc; con una gammacamera posta sul precordio e con una sincronizzazione elettrocardiografica è possibile misurare le variazioni di radioattività legate alle varie fasi del ciclo cardiaco; in questo modo si possono valutare i volumi sistolico e diastolico, la gettata sistolica, la funzione di eiezione (essa è il rapporto tra la gettata sistolica e il volume telediastolico) e, con un’opportuna elaborazione elettronica, è possibile valutare la cinesi delle pareti del ventricolo sinistro e destro. In pratica essa dà le stesse informazioni di una ventricolografia con mezzo di contrasto, ma non richiede il cateterismo del cuore ed espone ad una dose inferiore di radiazioni. Il test può essere eseguito a riposo o sotto sforzo. In presenza di un’ischemia transitoria spontanea o indotta dallo sforzo, si evidenziano temporanee alterazioni della cinesi parietale, conseguenti all’ischemia. Inoltre, nel paziente con cardiopatia ischemica, la frazione di eiezione, che sotto sforzo abitualmente aumenta, nel normale rimane fissa o addirittura si riduce. 2. Scintigrafia miocardica con 201Tl. Serve a valutare la perfusione miocardica. Il 201Tl è un analogo radioattivo del potassio. Iniettato in vena, questo tracciante viene rapidamente captato dalle cellule miocardiche. La sua estrazione dal sangue e la sua captazione da parte delle cellule miocardiche è funzione della perfusione coronarica e dell’integrità delle cellule.
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Quindi, in presenza di una riduzione del flusso e di un’ischemia cellulare si evidenzierà una zona “fredda” ipocaptante rispetto alle circostanti zone con flusso normale e senza ischemia. Per sensibilizzare la metodica, essa viene associata allo sforzo o ad altre forme di stress. La sua sensibilità e specificità sembrerebbero essere superiori a quelle dell’ECG da sforzo. Inoltre essa trova specifico impiego proprio nei casi in cui l’ECG da sforzo non è correttamente interpretabile come nel caso di blocco di branca sinistra, WPW, ipertrofia ventricolare sinistra, anomalie della ripolarizzazione da squilibrio elettrolitico o da farmaci come la digitale e molti antiaritmici (tutte queste situazioni alterano autonomamente la ripolarizzazione indipendentemente dalla presenza o meno di ischemia). E. Radiografia del torace. È generalmente del tutto normale in un soggetto affetto da angina pectoris senza storia di infarto pregresso. Può eventualmente evidenziare una dilatazione aortica se egli è iperteso, o se esiste una valvulopatia aortica associata, oppure una cardiomegalia con eventuali segni di impegno polmonare qualora esistano dei precedenti infartuali importanti. In alcuni casi si può utilizzare la scopia del torace con intensificatore di brillanza per la ricerca di calcificazioni coronariche: la loro eventuale presenza indica che esiste una coronaropatia e quindi rende più probabile la natura anginosa di eventuali dolori toracici. F. Ecocardiogramma. È una metodica di ultrasuoni che consente una valutazione accurata (ed assolutamente innocua per il paziente) di morfologia, dimensioni e contrattilità delle camere cardiache. In condizioni basali, può evidenziare alterazioni regionali della cinesi ventricolare legate a pregresso infarto, con zone di ipo- o acinesia e, talora, di discinesia (espansione paradossa sistolica della parete ventricolare). Alterazioni transitorie della cinesi ventricolare regionale possono anche essere documentate durante un episodio ischemico che si verifica durante l’esecuzione del test sia spontaneamente che a seguito di manovre provocative (esercizio isometrico, somministrazione di farmaci vasoattivi). Questo esame può rivelarsi molto utile qualora si sospetti la presenza di alterazioni reversibili della cinesi ventricolare che regrediscono dopo somministrazione di coronarodilatatori per via sublinguale o endovenosa. G. Cateterismo cardiaco e coronarografia. È una metodica diagnostica che prevede il cateterismo retrogrado dei grossi vasi e delle cavità cardiache mediante cateteri preformati, introdotti previa preparazione chirurgica dell’arteria brachiale e della vena basilica o la puntura percutanea dell’arteria e della vena femorale. Ovviamente il cateterismo delle cavità cardiache di destra e dei vasi polmonari comporterà un accesso venoso, mentre quello dell’aorta e della sezione sinistra richiederà l’approccio arterioso. Lo studio viene eseguito in anestesia locale utilizzando un’apparecchiatura radiologica che, permettendo la visualizzazione dei cateteri radiopachi, ne consente il posizionamento nelle varie cavità cardiache.
La metodica permette di: • misurare le pressioni delle sezioni destra e sinistra del cuore; • visualizzare con mezzo di contrasto radiopaco sia i grossi vasi che le cavità cardiache, in particolare, nel caso di pazienti con coronaropatia, il ventricolo sinistro, e valutarne la funzione contrattile; • iniettare selettivamente mezzo di contrasto nell’albero coronarico e visualizzarne dettagliatamente l’anatomia, evidenziando le eventuali lesioni aterosclerotiche (coronarografia). Per quanto in mani esperte il cateterismo sinistro con coronarografia presenti un bassissimo rischio di complicazioni maggiori e una mortalità inferiore all’1%, esso prevede notevoli competenze oltre che un grosso supporto tecnologico e va quindi eseguito in ambiente altamente specializzato. L’esame coronarografico fornisce un’informazione quasi esclusivamente anatomica e fondamentalmente statica dell’albero coronarico. Va ancora ricordato che esistono da un lato pazienti con coronarie angiograficamente normali ma evidenza clinico-strumentale di ischemia legata a fattori dinamici; dall’altro soggetti con aterosclerosi diffusa ma circoli collaterali ben sviluppati e modesta evidenza clinica di ischemia. La gravità della cardiopatia organica si correla quindi solo parzialmente con la severità clinica della malattia. Inoltre, l’assenza di alterazioni anatomiche documentabili all’angiografia non esclude necessariamente la diagnosi di cardiopatia ischemica. A questo proposito, è opportuno ricordare che in pazienti con coronarie normali nei quali il sospetto clinico di cardiopatia ischemica venga fortemente sostenuto sulla base di sintomi tipici, va considerata la possibilità che uno spasmo coronarico sia responsabile dei dolori anginosi. La condizione caratterizzata da dolori toracici, anomalie elettrocardiografiche sotto sforzo, ma con coronarografia normale è stata definita sindrome X cardiaca. Varie spiegazioni sono state date per la sua patogenesi, la quale da alcuni è addirittura associata ad un’anormale percezione sensitiva del dolore cardiaco. Tuttavia, studi compiuti con tecniche sofisticate hanno suggerito che in questi casi sia in atto un’ischemia secondaria a diminuita o assente vasodilatazione della microvascolatura coronaria, che conduce a relativa ipoperfusione del subendocardio. H. Iter diagnostico. A conclusione di questo paragrafo, è importante dare alcune indicazioni sull’approccio diagnostico al paziente anginoso, tenendo presente che ogni esame ha un costo per la collettività e che, nel caso della coronarografia, vanno anche considerate la pur bassa mortalità e la morbilità legate alla metodica. Vanno quindi scelti per ogni caso i test necessari ed appropriati. Possiamo supporre alcune condizioni. 1. Soggetti con dolore toracico atipico, assenza di particolari fattori di rischio, obiettività ed elettrocardiogramma normali: la presenza di angina pectoris può essere ragionevolmente esclusa.
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2. Pazienti con storia tipica di angina: il primo accertamento da considerare nella sequenza diagnostica è il test da sforzo:
aiuta nella diagnosi differenziale, che può essere definitivamente confermata con indagini radiologiche ed endoscopiche.
• se francamente negativo ad alto carico, la necessità di procedere ad una scintigrafia da sforzo si baserà su un’attenta valutazione clinica; è comunque improbabile la presenza di coronaropatia ostruttiva di grado severo e quindi non si pone indicazione per una valutazione angiografica invasiva; • se dubbio, prima di procedere ad una coronarografia sarà dirimente una scintigrafia da sforzo; • se positivo per alti carichi di lavoro, può essere logico instaurare una terapia e rivalutare il paziente a distanza; la coronarografia verrà eventualmente considerata se la risposta al trattamento medico è insoddisfacente; • se il test da sforzo è positivo a basso carico, si dispone di un’indicazione assoluta alla coronarografia.
3. Di origine psicologica: psiconevrosi e somatizzazioni.
La coronarografia è inoltre indicata nei casi in cui tutte le metodiche non invasive non siano riuscite a dirimere con ragionevole certezza il dubbio diagnostico e, soprattutto, in pazienti ospedalizzati con cardiopatia ischemica documentata e sintomi mal controllabili dal trattamento medico. Come si vede, nell’inter diagnostico una corretta valutazione clinica ed il test da sforzo sono gli elementi fondamentali e il ricorso a metodiche più sofisticate e costose (quali la scintigrafia e la coronarografia) va riservato a casi selezionati. L’elettrocardiografia dinamica secondo Holter è particolarmente indicata nei pazienti con episodi ischemici insorgenti prevalentemente a riposo, o test da sforzo positivo a basso carico, dove sarà importante valutare l’incidenza complessiva degli eventi ischemici.
Diagnosi differenziale Nella diagnosi differenziale dell’angina pectoris possono essere prese in considerazione svariate condizioni patologiche, tutte caratterizzate dalla presenza di dolore toracico. Le patologie più comuni possono essere classificate nel modo seguente. A. Disturbi non cardiovascolari. 1. Di origine neuromuscolare: costocondrite, sindrome radicolare cervico-dorsale, sindromi infiammatorie dell’articolazione scapolo-omerale. In questi casi il dolore ha localizzazioni diverse e non è correlato allo sforzo, ha durata a volte protratta, viene tipicamente esacerbato dai movimenti e/o dalla compressione. 2. Di origine gastrointestinale: esofagite, ernia iatale, gastrite, ulcera peptica e, meno frequentemente, colecistopatia. Nel caso di esofagite ed ernia iatale, la diagnosi differenziale può essere difficile perché la localizzazione è spesso retrosternale e, come in alcuni casi di angina, il dolore è “urente”: manca tuttavia l’associazione con lo sforzo, mentre è caratteristica l’esacerbazione postprandiale. La risposta alla terapia antiacida
B. Disturbi cardiovascolari. A questo gruppo appartengono alcune patologie cardiache e vascolari che oltre ad altri sintomi e segni presentano, anche se non costantemente, un dolore toracico. 1. Prolasso della mitrale. In alcuni casi il dolore può essere difficilmente differenziabile, altre volte è localizzato all’emitorace sinistro. I reperti ascoltatori e l’ecocardiogramma consentono il chiarimento diagnostico. 2. Cardiomiopatia ipertrofica. In questo caso il dolore può essere indistinguibile da quello dell’angina: l’esame obiettivo e l’ecocardiografia sono diagnostici. 3. Pericardite. Il sintomo dolore è in questo caso significativamente diverso: spesso la localizzazione non è retrosternale, si accentua con gli atti del respiro, classicamente si riduce con l’assunzione della posizione seduta; la diagnosi è confermata dal rilievo di sfregamenti pericardici (tuttavia spesso fugaci e quindi non sempre rilevabili). 4. Dissecazione aortica. Nel 90% dei casi è presente un fortissimo dolore retrosternale; esso esordisce improvvisamente e ha un’intensità massima sin dall’inizio, diversamente dal dolore ischemico che ha un andamento in crescendo; caratteristica è la proiezione del dolore al dorso e a volte anche posteriormente in basso (la sede del dolore segue la progressione della dissecazione aortica). 5. Embolia polmonare. Nel caso di embolia massiva si manifesta un improvviso dolore retrosternale, difficilmente distinguibile da quello dell’angina o dell’infarto miocardico: ad esso si associano dispnea intensa, cianosi, shock; se l’embolia non interessa un grosso tronco polmonare, il quadro può passare inosservato e il dolore toracico può comparire dopo alcune ore o giorni e in questo caso ha le caratteristiche del dolore pleuritico. C. Disturbi polmonari. 1. Pneumotorace. Il dolore è ad insorgenza acuta, localizzato all’emitorace interessato e proiettato alla spalla e all’arto superiore omolaterale; al dolore si associa dispnea. 2. Pleurite. Abitualmente la diagnosi differenziale è in questo caso semplice per la localizzazione del dolore, l’accentuazione con gli atti respiratori, le alterazioni dell’obiettività toracica.
Cenni di terapia La terapia si articola su varie componenti che sono: norme igieniche di vita, terapia farmacologica, terapia
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chirurgica. Abolizione del fumo, controllo di un’eventuale ipertensione arteriosa, riduzione dell’eccesso ponderale e correzione di un’eventuale dislipidemia prima con la dieta e, solo se questa non ottiene risultati o non è osservata, con i farmaci, sono interventi terapeutici indiretti ma da non dimenticare assolutamente. Nel caso di angina stabile da sforzo è stato recentemente consigliato anche l’esercizio fisico regolare ad un livello inferiore alla soglia d’angina; con l’allenamento si ottiene una riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa per livelli sottomassimali di sforzo: in questo modo il consumo di O2 miocardico si riduce e quindi la soglia d’angina durante sforzo si innalza. La terapia dell’attacco anginoso è l’assunzione di una perla di trinitroglicerina (o di altro nitroderivato ad azione pronta) per via sublinguale. La profilassi farmacologica delle crisi anginose deve trarre la propria impostazione dalla conoscenza dei meccanismi fisiopatologici dell’angina. Ciò che si tenta di ottenere con i farmaci è soprattutto una riduzione del MVO2 nel caso di angina secondaria, e un aumento del flusso coronarico nell’angina primaria. I farmaci abitualmente usati appartengono a tre gruppi: nitroderivati, calcio-antagonisti, -bloccanti. I nitroderivati agiscono per mezzo di una dilatazione prevalentemente a livello del distretto venoso; ciò riduce il ritorno venoso al cuore e quindi riduce il precarico che è uno dei fattori del MVO2. I nitroderivati provocano anche una dilatazione coronarica e questo meccanismo è utile nel caso di angina primaria. I calcio-antagonisti agiscono per mezzo di una dilatazione prevalente a livello del distretto arterioso, in questo modo essi riducono le resistenze periferiche (postcarico) e quindi riducono il MVO2; per quest’azione sono indicati nell’angina secondaria. Anch’essi come i nitroderivati, ed anzi in misura superiore ad essi, possiedono la capacità di dilatare le coronarie e quindi sono i farmaci di scelta nel caso di angina primaria su base vasospastica. Alcuni di essi come il verapamil hanno anche un effetto di depressione della contrattilità e quindi un ulteriore effetto di riduzione del MVO2. I -bloccanti agiscono esclusivamente riducendo il MVO2 attraverso la riduzione della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e della contrattilità. Essi sono pertanto indicati soprattutto nell’angina secondaria. È importante tenere presente che il quadro clinico più comune è quello dell’angina mista, per cui i farmaci dei tre gruppi, avendo meccanismi diversi tra loro, possono essere utilmente associati, se la monoterapia è insufficiente. In caso di pazienti anginosi che presentino anche uno scompenso cardiaco o comunque una marcata riduzione della funzione ventricolare sinistra, i -bloccanti sono controindicati per il loro effetto negativo sulla contrattilità; viceversa, in questi casi possono risultare utili la digitale e i diuretici, non solo per la terapia dello scompenso, ma anche per quella dell’angina. Infatti, in presenza di un cuore dilatato è aumentata la tensione di parete e di conseguenza è aumentato il MVO2. Con l’utilizzo di digitale e diuretici si può ottenere una riduzio-
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ne della dimensione della cavità ventricolare e quindi un abbassamento del MVO2. Viceversa in cuori non dilatati la digitale è controindicata perché il suo effetto inotropo positivo aumenta il MVO2. Terapia chirurgica. Le procedure chirurgiche di rivascolarizzazione miocardica si basano sull’innesto di by-pass aortocoronarici con vena safena autologa e sull’impianto a livello coronarico delle arterie mammarie interne sinistra e destra, e recentemente anche dell’arteria gastroepiploica. Le tecniche di impianto arterioso garantiscono una durata maggiore rispetto alle tecniche di by-pass con vena safena. Attualmente è possibile operare con minimo rischio anche pazienti con grave compromissione della funzione ventricolare sinistra ed effettuare by-pass multipli senza aumentare il rischio operatorio, consentendo una rivascolarizzazione completa di tutti i distretti ischemici. L’indicazione è attualmente accettata per tutti i pazienti con angina invalidante, refrattaria alla terapia medica, purché il quadro coronarografico dimostri la fattibilità della rivascolarizzazione. Viceversa, nei pazienti asintomatici o paucisintomatici con la terapia medica, l’indicazione al by-pass è concordemente accettata nel caso di stenosi del tronco comune e nei pazienti con lesioni ostruttive a carico dei tre rami coronarici principali, specie se si associa una ridotta funzione ventricolare sinistra. Negli ultimi anni è andata affermandosi un’altra procedura di rivascolarizzazione miocardica: l’angioplastica coronarica. La procedura consiste nell’introdurre in coronaria appositi cateteri muniti, all’estremo distale, di un palloncino dilatabile. Posizionato il palloncino nella sede della stenosi, si procede alla dilatazione del tratto stenotico. Inizialmente la procedura era limitata alle stenosi prossimali interessanti un solo ramo coronarico; attualmente la sofisticazione tecnologica e la maggior esperienza acquisita consentono di dilatare anche stenosi multiple e periferiche. I limiti dell’angioplastica sono rappresentati dalla possibilità che la coronaria dilatata si occluda acutamente (ciò avviene in circa il 5% dei casi e per questo è necessario che la procedura venga eseguita con un’équipe chirurgica pronta ad intervenire immediatamente per effettuare un by-pass); inoltre, in una percentuale variabile tra il 25 e il 30% la coronaria dilatata va incontro a restenosi nei mesi successivi. La procedura è ripetibile a livello della restenosi. Pur con queste limitazioni, l’angioplastica presenta, nei casi correttamente selezionati, ovvi vantaggi rispetto al by-pass, a cui si affianca senza naturalmente sostituirlo. A conferma dell’efficacia di questa nuova tecnica sta il numero di procedure effettuate, che attualmente negli USA ha raggiunto e superato la cifra di 130.000 all’anno. Terapia dell’angina instabile Nel caso di angina instabile è assolutamente necessario il ricovero ospedaliero in rapporto al rischio di evoluzione verso l’infarto e/o la morte improvvisa.
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Se si tiene presente il quadro istopatologico coronarico che caratterizza i vari quadri dell’angina instabile, appare logico il ricorso a farmaci che inibiscono l’aggregazione piastrinica e facilitano la lisi del trombo. L’aspirina è in grado di dimezzare la mortalità e l’incidenza dell’infarto. I farmaci trombolitici sono stati usati con successo nelle forme più gravi e resistenti. Ovviamente, accanto a questi farmaci vengono utilizzati anche gli stessi farmaci indicati per l’angina stabile, spesso a dosaggio più elevato e per via venosa. In alcuni casi resistenti alla terapia farmacologia può essere indicata la coronarografia d’urgenza e il ricorso all’angioplastica coronarica o al by-pass.
INFARTO MIOCARDICO L’infarto miocardico è dovuto ad un’ischemia acuta che persiste sufficientemente a lungo da provocare la necrosi cellulare. Esso, pertanto, è caratterizzato da un’alterazione anatomica irreversibile del miocardio, diversamente da quanto accade nell’angina in cui l’alterazione è reversibile.
Patogenesi Nella maggior parte degli infarti transmurali (in questi casi la parete miocardica è interessata per tutto il suo spessore) l’esame coronarografico eseguito nelle prime ore ha permesso di evidenziare un’occlusione completa. Essa è dovuta nella stragrande maggioranza dei casi ad una trombosi; con molta minor frequenza è dovuta ad uno spasmo coronarico. Entrambi gli eventi si verificano preferenzialmente, per non dire esclusivamente, a livello di lesioni aterosclerotiche. Trombosi e spasmo possono coesistere ed anzi influenzarsi vicendevolmente; basta pensare al ruolo delle piastrine nella genesi del trombo e al fatto che esse liberano sostanze vasoattive, come il trombossano A2 che possiede una potente azione vasocostrittrice. A distanza di poche ore o anche di giorni si può verificare la ricanalizzazione della coronaria per lisi spontanea del trombo e risoluzione dello spasmo. Questo fatto spiegherebbe la minor incidenza di occlusioni coronariche rilevate agli esami autoptici e il riscontro (seppur occasionale) di vasi perfettamente normali in soggetti con precedente infarto. Nel caso di infarto intramurale (in questo caso la parete non è interessata per tutto il suo spessore ma solo nei suoi strati subendocardici) il rilievo più frequente è quello di un’occlusione subtotale o di un’occlusione totale in presenza di circolo collaterale. L’occlusione coronarica è dunque il fattore patogenetico più importante della necrosi miocardica, ma non è l’unico: ad esso se ne possono associare altri, che contribuiscono a far precipitare la necrosi o almeno a renderla più estesa. In presenza di un’ischemia miocardica da improvvisa riduzione del flusso in un distretto coronarico, si verifica un’aumentata increzione di catecolamine: questo fatto ha ripercussioni negative a livello miocardico. Infatti
un aumento delle catecolamine circolanti provoca un incremento della frequenza cardiaca e un aumento delle resistenze periferiche; inoltre esso stimola un aumento della contrattilità miocardica nelle zone non direttamente interessate dall’ischemia. Tutti questi eventi comportano un sensibile incremento del consumo miocardico di O2 e possono innescare un circolo vizioso che aggrava e prolunga l’ischemia miocardica sino a far precipitare la necrosi. Se la necrosi è già in atto, questa sequela di eventi fa sì che essa, alla fine, risulti più estesa.
Anatomia patologica L’infarto miocardico è determinato da improvvisa riduzione, anche relativa, o da arresto del flusso coronarico; esso, in rapporto all’estensione dello spessore della parete, può essere transmurale, subendocardico e subepicardico. Generalmente, le prime modificazioni macroscopiche si rendono visibili dopo 18-24 h dall’inizio della sintomatologia dolorosa. Sulla superficie di taglio il miocardio colpito appare pallido e secco e spicca sul tessuto normale circostante. Fra il 2° e il 4° giorno la zona dell’infarto mostra un sottile alone giallo prodotto dall’infiltrazione neutrofila. Questa zona si estende progressivamente, talora assumendo un colorito giallo-verdastro, verso il centro, che viene raggiunto intorno alla 5ª-6ª giornata. Lo spessore della parete cardiaca nell’area infartuata appare ridotto in conseguenza della rimozione della muscolatura necrotica. Successivamente l’area infartuata appare delimitata da una linea depressa rosso-porpora di tessuto di granulazione, che intorno alla 8ª-10ª giornata si estende rapidamente su tutta l’area. Dopo 4 settimane, l’area infartuale acquista gradualmente un aspetto gelatinoso grigiastro, sino a trasformarsi in cicatrice dura e retratta nel corso dei successivi 3-4 mesi. Il tempo richiesto per una completa sostituzione del tessuto necrotico e cicatrizzazione dipende dalle dimensioni dell’infarto originale. Tutte queste modificazioni morfologiche macroscopiche corrispondono a precisi quadri microscopici. Le miocellule, danneggiate in modo irreversibile, vanno incontro a necrosi coagulativa che con le normali colorazioni è visibile non prima che siano trascorse 12-15 h. Prima di tale tempo possono essere visibili, ma non sempre identificabili, un certo grado di edema, perdita delle strie trasversali, picnosi o cariolisi. La necrosi del muscolo e la scomparsa delle fibre si rendono evidenti dopo 48 ore, quando alla periferia dell’infarto comincia ad apparire un essudato ricco di neutrofili che si estende su tutta l’area infartuata in 4ª-5ª giornata e che con la liberazione di enzimi proteolitici determina la demolizione e la digestione del materiale necrotico. I neutrofili vengono sostituiti dai linfociti e contemporaneamente, intorno alla 7ª giornata, alla periferia dell’infarto compare una sottile zona di tessuto di granulazione. Entro 6-7 settimane, la zona necrotica viene totalmente sostituita dal tessuto di granulazione che si
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fa sempre meno ricco di cellule e vasi, mentre ha luogo un’abbondante neoformazione di fibre collagene. Entro 3-6 mesi la sclerosi cicatriziale è completata. Queste alterazioni morfologiche, caratteristiche dell’infarto transmurale, subiscono alcune modificazioni nell’infarto subendocardico, che consiste di aree multifocali di necrosi limitate al terzo-metà interna della parete ventricolare sinistra. Le lesioni focali sono meno chiaramente delimitate rispetto a quelle dell’infarto transmurale e possono essere sufficientemente sfumate, così da non essere visibili macroscopicamente. L’utilizzo dei sali di tetrazolio facilita l’evidenziazione e la demarcazione di queste aree necrotiche. Le miocellule normali, al contrario di quelle necrotiche, possiedono enzimi ossidativi che fanno assumere ad una soluzione incolore di sali di tetrazolio un colore bluporpora. Una sezione macroscopica di miocardio posta ad incubare in questa soluzione resterà totalmente incolore nelle zone infartuate. Numerose complicazioni si associano all’infarto miocardico; esse sono suddivise in precoci e tardive. Tra le prime, si ricorda la pericardite fibrinosa o fibrinoemorragica che si sviluppa in 2ª-3ª giornata, e che si localizza al di sopra della zona lesa e più raramente può essere generalizzata. Guarendo l’infarto, regredisce anche la pericardite, che a volte può lasciare esiti aderenziali, generalmente di tipo lasso. Negli infarti transmurali e subendocardici è frequente la trombosi parietale, dovuta alla concomitante lesione endocardica, favorita anche dalla diminuita forza contrattile del miocardio leso. La trombosi a sua volta può essere causa di emboli a localizzazione varia (encefalo, reni, milza, ecc.). La rottura di cuore, che si verifica nell’1-5% dei casi di infarto, è seguita da morte per tamponamento cardiaco. Essa è più frequente intorno alla 5ª-6ª giornata, corrispondente al momento di minor resistenza meccanica del focolaio ischemico, totalmente infiltrato da granulociti. Rotture si possono verificare anche nel setto interventricolare, con creazione di uno shunt, e nei muscoli papillari, in particolare il muscolo papillare postero-mediale; la rottura di un muscolo papillare può causare insufficienza acuta della valvola mitrale. Complicanza più tardiva è invece l’aneurisma ventricolare, che si verifica in infarti estesi in cui l’ampia cicatrice fibrosa può andare incontro a progressiva estroflessione nel corso di mesi o anni.
Localizzazione dell’infarto La sede di un infarto è in rapporto alla coronaria occlusa e la sua estensione dipende dal punto in cui l’occlusione è avvenuta (quanto più prossimale l’ostruzione tanto più estesa la necrosi). L’estensione della necrosi dipende anche dalla presenza o assenza di circoli collaterali. L’albero coronarico è formato da due rami a origine separata: • la coronaria sinistra; essa, dopo un breve tratto chiamato tronco comune, si divide in due rami: la di-
scendente anteriore o interventricolare anteriore e la circonflessa; • la coronaria destra. Abitualmente la coronaria sinistra irrora tutta la parte anteriore e laterale del cuore, la punta e gran parte del setto: dei due rami, quello più importante è sicuramente la discendente anteriore. La coronaria destra irrora la porzione infero-basale del ventricolo sinistro, la parte posteriore del setto e il ventricolo destro. Va tenuto tuttavia presente che la distribuzione dell’albero coronarico non è costante: si possono verificare casi in cui il territorio di distribuzione è più o meno esteso; si parla allora di predominanza sinistra e di predominanza destra. Quindi con una certa approssimazione si può dire che un’occlusione della discendente anteriore dà luogo ad un infarto anteriore e del setto, che l’occlusione isolata della circonflessa dà luogo ad una necrosi circoscritta in sede laterale. Un’occlusione della coronaria destra dà origine ad una necrosi inferiore ed eventualmente posteriore. In un terzo-un quarto dei casi di occlusione della coronaria destra è interessato anche il ventricolo destro.
Clinica A. Sintomi. Nella maggior parte dei pazienti l’anamnesi cardiovascolare può essere negativa: l’infarto è la prima manifestazione della cardiopatia ischemica. In altri casi l’anamnesi rivela un’angina stabile o un’angina instabile, oppure un pregresso infarto. Nella maggior parte dei pazienti non è identificabile alcun fattore scatenante; la maggior parte degli infarti avviene durante il riposo e durante lo svolgimento di un’attività leggera. Solo in una percentuale variabile dal 2 al 13% l’evento si verifica durante un esercizio fisico intenso; la percentuale che si manifesta durante il sonno varia dall’8 al 23%. Recentemente è stato segnalato un ritmo circadiano nell’insorgenza dell’infarto acuto: esso si manifesta con maggior frequenza nelle ore del mattino, dalle 6 alle 12 con il picco massimo attorno alle 9. Nelle prime ore del mattino sono stati pure riscontrati un aumento dell’aggregabilità piastrinica e un incremento delle catecolamine plasmatiche. È quindi possibile che alcune variazioni circadiane di fattori vasospastici e protrombotici siano alla base di questo fenomeno. Il sintomo fondamentale, come nel caso dell’angina, è il dolore. Esso è simile per qualità a quello anginoso, ma abitualmente è più intenso ed è di durata maggiore, di solito alcune ore. Al dolore spesso si associano astenia intensa, sudorazione algida, nausea e vomito (si veda in seguito). Quando il dolore compare durante uno sforzo, diversamente dal dolore anginoso, non regredisce con il riposo. Sebbene il dolore sia il sintomo fondamentale, esso non è sempre presente: una percentuale variabile dal 15 al 20% dei casi è senza dolore. Probabilmente la quota
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
di infarti senza dolore è anche maggiore perché, se non vi sono altri sintomi o segni, spesso il paziente non ricorre al medico. L’incidenza di infarti senza dolore è più alta nei diabetici ed aumenta con l’avanzare dell’età. Nei soggetti anziani l’infarto si può presentare solo con la comparsa di una dispnea improvvisa e a volte ingravescente, sino al quadro di edema polmonare acuto. Altre forme meno comuni di presentazione possono essere: una sincope, un’ipotensione non giustificata da altra causa, la comparsa di aritmie. B. Segni. A volte l’unico dato obiettivo rilevabile è solo quello della reazione al dolore: il paziente è caratteristicamente ansioso ed agitato, alla ricerca di diverse posizioni per alleviare il dolore. Questo comportamento è diverso da quello dell’angina, nel qual caso il paziente rimane fermo nel timore che il movimento accentui il dolore. Spesso il paziente è pallido e con sudorazione fredda; questi fenomeni sono legati ad un’increzione catecolaminica. In altri casi sono presenti nausea e vomito, mediati da una stimolazione vagale (soprattutto frequente nel caso di infarto inferiore). Il polso può presentare bradicardia, tachicardia o normofrequenza; molto comune è il rilievo di extrasistoli. La palpazione del precordio, specie nel caso di necrosi anteriore, può rilevare un impulso precordiale. All’ascoltazione si possono rilevare le aritmie già constatate alla palpazione del polso; molto frequente è il rilievo di quarto tono; la comparsa di un terzo tono può essere espressione di una necrosi estesa con compromissione della funzione ventricolare sinistra. In presenza di un malfunzionamento dei muscoli papillari è udibile un soffio meso-telesistolico alla punta. L’ascoltazione del torace nei casi non complicati non pone in evidenza alterazioni particolari: la presenza di rantoli bibasilari è espressione di insufficienza cardiaca. In alcuni casi quest’insufficienza può evolvere rapidamente verso l’edema polmonare acuto. Nei casi più gravi, in cui la compromissione della funzione di pompa del cuore è molto importante, il quadro clinico può essere quello dello shock: ipotensione, ipotermia e cianosi periferica, confusione mentale ed oliguria. In casi non complicati la pressione arteriosa nella fase iniziale non presenta un andamento costante: essa può rimanere invariata, aumentare o ridursi rispetto ai valori abituali del paziente. La temperatura cutanea mostra un transitorio innalzamento, abitualmente non superiore ai 38 °C, che si manifesta dopo 24-48 h dall’inizio dei sintomi.
Esami strumentali Si possono distinguere diversi gruppi di indagini strumentali che vengono eseguite nell’infarto o per
confermare la diagnosi o per valutare l’entità della necrosi: • • • • • •
indici aspecifici di necrosi e infiammazione. ECG. enzimi cardiaci. Rx torace. ecocardiogramma. test con radioisotopi.
A. Indici aspecifici di necrosi e infiammazione. Questi esami sono di scarsa importanza soprattutto perché non sono assolutamente specifici per l’infarto. Iperleucocitosi: inizia poche ore dopo l’infarto, raggiunge il suo massimo dopo 2-4 giorni e si normalizza di solito entro la settimana. VES: aumenta dopo 1-2 giorni dall’inizio dei sintomi e raggiunge i valori massimi dopo 4-5 giorni. Glicemia: comune è il riscontro di un’iperglicemia precoce e transitoria legata ad un’iperincrezione catecolaminica. B. ECG. I segni elettrocardiografici di infarto (Tab. 7.3) in fase acuta non sono stabili: la necrosi miocardica è un evento dinamico che evolve nel tempo e l’elettrocardiogramma testimonia, con la propria evoluzione, le successive alterazioni fisiopatologiche a livello miocardico. Abitualmente si distinguono quattro stadi di evoluzione (Fig. 7.11). I stadio. È caratterizzato da iniziali segni di necrosi (piccola onda Q) e marcati segni di lesione subepicardica (sopraslivellamento del tratto S-T). In questa fase il sopraslivellamento è talmente marcato che tende ad inglobare l’onda T e quindi maschera l’ischemia subepicardica (onda T negativa) della zona perinfartuale. Quest’aspetto è rilevabile nelle derivazioni prospicienti la necrosi; in quelle opposte si rilevano segni speculari: particolarmente comune una lesione subendocardica (sottoslivellamento di S-T) in sede inferiore, nel caso di necrosi anteriore, oppure una lesione subendocardica antero-settale in caso di necrosi inferiore. Le alterazioni elettrocardiografiche del I stadio sono caratteristiche delle prime ore dall’esordio dei sintomi. II stadio. In questa fase la lesione subepicardica (sopraslivellamento del tratto S-T) si attenua; i segni di ne-
I
II
III
IV
A. B.
Figura 7.11 - Rappresentazione schematica dell’evoluzione elettrocardiografica in 4 stadi in corso di infarto miocardico. A. Aspetto nelle derivazioni prospicienti la zona necrotica; B. aspetto nelle zone opposte alla zona necrotica (aspetto speculare).
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7 - CARDIOPATIA ISCHEMICA
crosi divengono più evidenti (l’onda Q si approfondisce), compare l’ischemia subepicardica (si rende evidente una T negativa). Questo stadio è quindi caratterizzato dalla simultanea presenza di necrosi-lesioneischemia. La durata di questo stadio è molto variabile: queste alterazioni elettrocardiografiche possono durare da poche ore a parecchi giorni. La persistenza per lungo tempo della lesione subepicardica (sopraslivellamento del tratto S-T), particolarmente comune negli infarti anteriori, può essere espressione di un aneurisma del ventricolo sinistro nella sede della necrosi.
Tabella 7.3 - Segni elettrocardiografici degli infarti.
• Anteriore – antero-settale – antero-puntale – anteriore esteso
• Settale profondo o “ad H” • Subendocardico
(Si vedano le Figg. 7.12-7.14).
Poiché in alcune derivazioni la presenza di onda Q è fisiologica, è necessario delineare alcune caratteristiche tipiche dell’onda Q patologica, indicativa di necrosi:
IV stadio. In alcuni casi, dopo alcune settimane o anche più precocemente, si può assistere alla progressiva riduzione dei segni di ischemia subepicardica (onde T negative) e a volte anche alla normalizzazione della ripolarizzazione. In questi casi l’unico segno elettrocardiografico del precedente infarto è un’onda Q di necrosi.
II
III
aVR
aVL
Onda Q in V1-V2-V3 Onda Q in V3-V4-V5 Onda Q in V1-V2-V3-V4-V5V6-D1-aVL Onda Q in V5-V6-D1-aVL Onda Q in D2-D3-aVF Onda R alta in V1-V2 con T positiva Onda Q in V7-V8-V9 Onda Q in D2-D3-aVF-V1V2-V3 Assenza di onde Q; alterazioni persistenti della ripolarizzazione.
• Laterale • Inferiore • Posteriore
III stadio. Questa fase è caratterizzata dalla scomparsa della lesione subepicardica (sopraslivellamento del tratto S-T) e dall’approfondimento dei segni di ischemia subepicardica (approfondimento delle onde T negative). I segni elettrocardiografici sono quindi quelli di necrosi e ischemia. In molti casi questo stadio si prolunga nel tempo, tanto da rimanere testimonianza definitiva dell’infarto pregresso.
I
QUADRO ELETTROCARDIOGRAFICO
SEDE
• durata superiore a 0,04 sec; • presenza frequente di uncinature o irregolarità nella sua branca discendente iniziale; • profondità variabile nelle diverse derivazioni.
aVF
V1
V2
V3
V4
V5
V6
6a ora
40a ora
21° giorno
Figura 7.12 - Uomo di 55 anni. Evoluzione elettrocardiografica tipica in caso di infarto inferiore o diaframmatico. Nelle derivazioni prospicienti la necrosi (D2-D3-aVF) si rileva alla 6ª ora una marcata onda di lesione subepicardica e un’iniziale necrosi; alla 40ª ora sono simultaneamente presenti segni di necrosi-lesione subepicardica ed ischemia; in 21ª giornata sono rilevabili solo necrosi e ischemia. Nelle derivazioni opposte alla zona di necrosi (da V1 a V4) sono rilevabili i classici segni speculari.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
I
II
III
aVR
aVL
aVF
V1
V2
V3
V4
V5
V6
Figura 7.13 - Uomo di 59 anni. Esiti di infarto anteriore esteso. Sono presenti segni di necrosi da V1 a V6 e associati a segni di ischemia subepicardica, che si estendono anche in D1 e aVL. Persistono modesti segni di lesione subepicardica, che possono far sospettare una discinesia in sede di necrosi.
ratteristiche: a) presenza simultanea di Q in D2 e aVF; b) assenza di riduzione della profondità durante inspirazione forzata; c) profondità > 6 mm.
Quest’ultimo punto richiede le seguenti precisazioni: • • • • •
in aVL > 2 mm e > 25% della R; in D1 > 2 mm e > 50% della R; in D2 e aVF > 2 mm e > 25% della R; in V5 e V6 > 2 mm e > 15% della R; in D3 la diagnosi di Q patologica è spesso difficile; la diagnosi sarà più certa in presenza delle seguenti ca-
L’ECG non solo consente la diagnosi di infarto, ma anche la sua localizzazione approssimativa e il giudizio sulla sua estensione. Va tuttavia ricordato che la terminologia elettrocardiografica non rispecchia in modo assolutamente fedele la localizzazione anatomica.
I
II
III
aVR
aVL
aVF
V1
V2
V3
V4
V5
V6
V7
V8
V9
Figura 7.14 - Uomo di 66 anni. Infarto posteriore alla 3ª settimana. Sono presenti segni di necrosi-ischemia nelle derivazioni V8 e V9 prospicienti la necrosi. Sono pure rilevabili segni speculari della necrosi in V1 e V2 con ampia onda R e onda T positiva e simmetrica.
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C. Esami emato-chimici. Gli enzimi abitualmente contenuti nelle cellule miocardiche sono presenti solo in minima quantità in circolo in condizioni normali. In caso di necrosi delle cellule queste sostanze vengono liberate in grande quantità nel sangue e quindi raggiungono valori nettamente superiori a quelli dell’ambito di normalità. Gli enzimi abitualmente utilizzati nella diagnosi di infarto sono: • CPK: (creatin-fosfo-chinasi), • SGOT: (transaminasi glutammico-ossalacetica), • LDH: (lattico-deidrogenasi). La cronologia di liberazione di queste sostanze non è la stessa; essa varia da enzima ad enzima, per cui per la diagnosi di infarto non solo è importante la concentrazione plasmatica degli enzimi, ma anche il loro anda-
6X Livelli plasmatici degli enzimi X normali
In base all’elettrocardiogramma gli infarti si distinguono come descritto nella tabella 7.3. Questa classificazione resta utile per la definizione dei vari tipi di infarto cardiaco, ma è inadeguata per individuare a livello di quale arteria coronarica si sia verificata l’occlusione. In linea di massima si può dire che l’infarto anteriore interessi la coronaria sinistra anteriore discendente, quello laterale la circonflessa e quello inferiore, nell’80% dei casi, la coronaria destra e, nei rimanenti, la coronaria sinistra circonflessa. Studi più accurati condotti analizzando le alterazioni che si hanno precocemente a carico del tratto S-T (e che sono un indicatore migliore dell’onda Q che può mancare negli infarti intramurali) hanno consentito analisi più precise. Nel caso degli infarti anteriori, un’elevazione del tratto S-T in V1, V2, V3 e aVL con un sottoslivellamento di più di 1 mm in aVF indica un’occlusione prossimale della coronaria sinistra anteriore discendente. L’elevazione di S-T in V1, V2 e V3, senza che in altre derivazioni vi siano sottoslivellamenti di questo tratto, indica un’occlusione di questa stessa arteria distalmente all’origine del primo ramo diagonale. Per quanto riguarda gli infarti inferiori, un’elevazione del tratto S-T in D3 di entità maggiore che in D2, e con sottoslivellamento di questo tratto di più di 1 mm in D1 e aVL, indica un’occlusione della coronaria destra. Invece, un’elevazione di S-T in D3 non superiore rispetto a D2 e con S-T isoelettrico o elevato in aVL indica un’occlusione della coronaria sinistra circonflessa. L’evoluzione nel tempo delle alterazioni del tratto ST sono anche un ottimo indice della riperfusione che consegue a un infarto del miocardio. Infatti, si pensa che quanto più rapidamente il tratto S-T si riporta sulla isoelettrica tanto migliore è la riperfusione del miocardio che segue l’infarto. Una rapida riduzione di più del 70% dell’elevazione del tratto S-T nelle derivazioni dove era più alterato è associata con il decorso più favorevole. L’assenza di una risoluzione delle alterazioni del tratto S-T dopo 90 minuti dall’esecuzione di una terapia fibrinolitica dovrebbe spingere a prendere in considerazione un’angioplastica (si veda in seguito a proposito della terapia).
CPK 4X
2X
LDH SGOT
1
2
3 4 5 6 7 8 Giorni dopo l’inizio dei sintomi
9
10
Figura 7.15 - Tipico andamento delle curve enzimatiche dopo infarto miocardico. CPK = creatin-fosfo-chinasi; SGOT = transaminasi glutammico-ossalacetica; LDH = idrossi-butirrico-deidrogenasi.
mento temporale (il tempo di comparsa e di ritorno ai valori basali). La figura 7.15 mostra appunto l’andamento temporale delle curve enzimatiche. Gli enzimi non solo confermano la diagnosi, ma permettono anche di dare un giudizio grossolano sull’entità della necrosi: infatti quanto più alta è la loro concentrazione nel plasma, tanto più estesa è la necrosi. Una valutazione più precisa della massa miocardica interessata dalla necrosi è possibile solo con l’analisi di una curva concentrazione-tempo, conoscendo la cinetica di rilasciamento, distribuzione ed eliminazione dell’enzima. Ciò raramente è fattibile in clinica; pertanto, spesso ci si basa sul picco massimo di concentrazione. In questo caso va tenuto presente che per dare un giudizio attendibile, il prelievo degli enzimi, specie di quelli che compaiono e scompaiono rapidamente, come CPK e SGOT, deve essere ripetuto almeno 3-4 volte al giorno, nelle prime 48 ore; altrimenti il picco di concentrazione plasmatica dell’enzima può sfuggire. Infine, è importante ricordare che la cardioversione elettrica ad alta energia, specie se ripetuta più volte, come per esempio nel caso di fibrillazioni ventricolari recidivanti, può far aumentare la concentrazione degli enzimi. L’utilizzo degli enzimi nella diagnostica dell’infarto presenta tuttavia un limite: essi non sono strettamente specifici, infatti queste sostanze non sono contenute solo nel miocardio, ma sono presenti anche in altri organi. Pertanto si può verificare un loro aumento in presenza di malattie muscolari, ictus cerebrale, soprattutto epatopatie (in questo caso si ha una riduzione del rapporto tra SGOT e transaminasi glutammico-piruvica; Cap. 25), crisi emolitiche. La CPK può aumentare anche semplicemente in seguito ad uno sforzo muscolare intenso o ad iniezioni intramuscolari. Per quanto riguarda la CPK sono stati identificati tre isoenzimi: MM di origine muscolare; BB di origine cerebrale; MB di origine miocardica. La CPK MB può essere considerata un enzima specifico del miocardio, almeno per quanto riguarda l’utilizzo clinico: essa è infatti presente in minime quantità anche nella prostata, nell’utero, nel dia-
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framma e nel piccolo intestino; tuttavia un suo incremento nel plasma a partenza da questi organi è possibile solo nel caso di interventi chirurgici che coinvolgano gli organi stessi. Nei pazienti sottoposti a trombolisi precoce, con efficace riperfusione della zona ischemico-infartuale, si ha una più rapida immissione in circolo degli enzimi miocardici; il picco delle CPK, che in media si raggiunge attorno alle 24 ore, in questi pazienti può verificarsi attorno alla 12ª ora. Pertanto la precocità del picco delle CPK può essere utilizzato in clinica come elemento indiretto che indica l’avvenuta riperfusione. Un indice molto sensibile di danneggiamento miocardico è stato sviluppato negli anni più recenti e consiste nel dosaggio, con anticorpi monoclonali, di alcune proteine che vengono rilasciate dal miocardio nel sangue e che sono la troponina T e la troponina I cardiache. Insieme con la troponina C, queste proteine regolano l’interazione calcio-dipendente tra miosina e actina nelle cellule muscolari. Mentre la troponina C del miocardio è identica a quella che si trova nelle cellule dei muscoli scheletrici, la sequenza aminoacidica delle troponine T e I cardiache è diversa da quella delle molecole corrispondenti che si trovano in altri muscoli. Questo ha permesso lo sviluppo di anticorpi monoclonali che ne consentono il dosaggio. La valutazione delle concentrazioni ematiche di troponina T e I è molto utile per accertare un danno miocardico nel caso del cosiddetto infarto non Q (privo cioè dei segni elettrocardiografici di necrosi). Livelli di troponina T superiori a 0,1 ng per millilitro, o di troponina I superiori a 0,4 ng per millilitro, si correlano con una mortalità più elevata dopo episodi ischemici cardiaci. Si è visto nel capitolo 3 che le piastrine attivate esprimono alla loro superficie la molecola del ligando del CD40 (CD40L). Questa molecola viene rapidamente rilasciata nella circolazione ed è stato stimato che più del 95% del CD40L circolante è derivato dalle piastrine. I livelli di questa molecola nel sangue sono stati valutati in pazienti con dolore precordiale per ottenere una stima dell’attivazione piastrinica e della formazione di un trombo. È chiaro che questo sarebbe un indice di infarto in atto più precoce della liberazione di enzimi o troponina da parte del miocardio danneggiato. In effetti, si è constatato che un’elevazione nel sangue del CD40L non indica di per sé che un infarto si è verificato, ma è associata con un significativo aumento del rischio di questo evento. D. Ecocardiogramma. Nei pazienti con infarto miocardico l’ecocardiogramma bidimensionale mette costantemente in evidenza zone di alterata cinesi: il rilievo di zone ipocinetiche o acinetiche permette non solo di confermare la diagnosi di infarto, ma anche di definire la sede in misura molto più precisa di quanto non consenta l’elettrocardiogramma. Oltre all’alterata cinesi, la zona infartuale presenta anche un minor spessore rispetto alle zone di miocardio non necrotico. La stima della funzione ventricolare sinistra, effettuata con l’ecocardiogramma, si correla bene a quella angiografica, ed è un utile elemento per formulare un giudizio prognostico.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Se l’ecocardiografia è affidabile nello scoprire e localizzare un infarto, meno precisa è nel quantizzarne l’estensione, poiché non è in grado di distinguere con esattezza tra tessuto necrotico e tessuto ischemico: entrambi, infatti, si contraggono in modo anomalo e quindi spesso l’ecocardiografia può sovrastimare la reale estensione della necrosi. Ulteriori sviluppi nella caratterizzazione dei tessuti per mezzo degli ultrasuoni potranno consentire una maggior affidabilità anche rispetto a questo problema. Particolarmente utile appare questo esame nella diagnosi precoce, al letto del malato, della maggior parte delle complicanze meccaniche dell’infarto: aneurisma, difetto interventricolare, malfunzionamento o rottura di un muscolo papillare, rottura della parete libera con tamponamento cardiaco. Inoltre è la tecnica più semplice e affidabile per diagnosticare un versamento pericardico o l’eventuale presenza di trombi ventricolari. Infine, con l’ecocardiografia si può rilevare un’alterata motilità delle pareti del ventricolo destro, una sua eventuale dilatazione e una riduzione della sua frazione di eiezione; questi sono tutti elementi che consentono di diagnosticare con sicurezza un infarto ventricolare destro, la cui diagnosi in base a criteri clinici ed elettrocardiografici può essere spesso difficile se non impossibile. E. Tecniche radioisotopiche. 1. Scintigrafia con 99Tc-pirofosfato. Con questa tecnica l’area infartuale appare come una zona “calda”; l’isotopo si localizza nella zona necrotica a seguito della maggiore concentrazione di calcio in tale tessuto. L’applicazione clinica è limitata: appare utile in quei casi di sospetto infarto in cui gli enzimi siano già negativi per ricovero tardivo e l’elettrocardiogramma non sia diagnostico. 2. Scintigrafia con 201Tl. Questa metodica ha un utilizzo limitato nelle fasi acute dell’infarto. Può servire a confermare la presenza di una zona necrotica, che in questo caso apparirà come un’area “fredda”. Molto maggiore è la sua importanza nella valutazione postinfartuale; in questo contesto la scintigrafia viene utilizzata in associazione allo sforzo o all’infusione di dipiridamolo, nei pazienti che non possono effettuare uno sforzo. Essa serve a individuare i pazienti con ischemia residua postinfartuale, che sono pertanto ad elevato rischio di futuri eventi ischemici. La sua effettuazione va tuttavia limitata a quei pazienti in cui esami più semplici e meno costosi, come l’elettrocardiogramma da sforzo, non siano diagnostici. Esempi di questo tipo sono i pazienti con quadri elettrocardiografici di base che non consentono l’analisi dell’ECG da sforzo (per es., blocco di branca sinistra) o molti pazienti con infarto anteriore in cui la sensibilità dell’elettrocardiogramma da sforzo è particolarmente bassa. 3. Ventricolografia con 99Tc. Con questa metodica è possibile valutare la cinesi delle pareti del ventricolo sinistro e del ventricolo destro. Essa quindi, come l’eco-
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7 - CARDIOPATIA ISCHEMICA
cardiografia, consente la localizzazione della necrosi e la valutazione della sua estensione. Con il calcolo dei volumi e della frazione di eiezione è possibile formulare un giudizio preciso sulla funzione ventricolare. Questo elemento è essenziale per formulare un giudizio prognostico: quanto maggiore è la compromissione della funzione ventricolare sinistra, tanto peggiore è la prognosi. 4. Tomografia ad emissione di positroni (PET). È una tecnica di recente introduzione, che per ora ha avuto limitate applicazioni in clinica. Merita di essere citata perché, diversamente dalle altre tecniche di “imaging”, che evidenziano alterazioni di morfologia e funzione, essa consente di valutare alterazioni di tipo metabolico a livello miocardico. Utilizzando l’isotopo FDG (18F2-fluoro-2-desossiglucosio) si può indagare il metabolismo del glucosio nel miocardio; in questo modo è possibile giudicare con precisione la “vitalità” o meno del miocardio ischemico. Se per esempio una zona giudicata asinergica all’ecocardiogramma o alla ventricolografia con 99Tc mostra alla PET la capacità di metabolizzare glucosio, essa deve essere considerata ancora vitale; viceversa, se tale zona mostra la perdita o la marcata depressione di tale capacità, il danno ischemico deve considerarsi irreversibile. Acquisire questo dato è di fondamentale importanza per decidere se il paziente potrà giovarsi di un intervento di rivascolarizzazione miocardica.
Complicanze Le complicanze di un infarto possono essere suddivise in tre grandi gruppi: 1. Complicanze aritmiche. 2. Complicanze emodinamiche: • compromissione della funzione di pompa; • rotture: – del setto, – del muscolo papillare, – della parete libera; • infarto del ventricolo destro; • aneurisma. 3. Complicanze ischemiche: • estensione della necrosi; • angina precoce postinfartuale. A queste se ne aggiungono altre non inquadrabili unitariamente. Esse sono: fenomeni tromboembolici; pericardite; sindrome di Dressler; sindrome spallamano. È importante tenere presente che molte di queste complicanze possono coesistere e complicare simultaneamente o in tempi successivi l’evoluzione di un medesimo infarto. A. Aritmie. 1. Premessa. Nella fase acuta di un infarto possono insorgere pressoché tutte le aritmie; in questo contesto esse assumono un significato particolarmente grave perché: a) possono influire negativamente sulla funzio-
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ne di pompa del cuore, che è già compromessa; b) possono portare ad un’estensione della necrosi sia attraverso una ridotta perfusione coronarica, sia attraverso l’aumento del consumo di O2; c) possono infine, anche le meno pericolose, evolvere rapidamente verso le aritmie maggiori, come la fibrillazione ventricolare o il blocco atrioventricolare totale e l’asistolia. Poiché le aritmie complicano le fasi precoci dell’infarto, spesso al suo esordio, e poiché alcune di esse non possono essere trattate efficacemente se non in ambiente ospedaliero, il ricovero immediato è l’unico modo efficace per poter ridurre la mortalità precoce. 2. Extrasistoli ventricolari. Esse compaiono probabilmente nel 100% dei casi di infarto: quando hanno alcune caratteristiche particolari, possono evolvere rapidamente verso la tarchicardia ventricolare e verso la fibrillazione ventricolare. Le caratteristiche di pericolosità delle extrasistoli ventricolari sono le seguenti: frequenza elevata (superiore a 10/min), bigeminismo e trigeminismo, presenza di coppie, precocità (all’ECG si rileva il fenomeno R/T, cioè l’extrasistole insorge in corrispondenza dell’onda T del complesso precedente), insorgenza da foci diversi (multifocali o polimorfe). 3. Tachicardia ventricolare. Quando tre o più extrasistoli ventricolari si presentano in rapida successione si parla di tachicardia ventricolare. Le tachicardie ventricolari possono presentarsi come brevi salve di extrasistoli, oppure essere persistenti. Nel caso delle brevi salve, spesso non si hanno conseguenze emodinamiche ma il rischio di fibrillazione ventricolare è molto elevato, specie nella fase acuta dell’infarto. Nel caso di tachicardia ventricolare persistente, che abitualmente ha una frequenza tra 150 e 200/min si verifica una riduzione marcata della portata cardiaca a cui si associa ipotensione, la perfusione coronarica si riduce, l’ischemia del miocardio si accentua, la portata si riduce ulteriormente. Si instaura un circolo vizioso che rapidamente aggrava il quadro clinico; in alcuni casi l’esordio della tachicardia ventricolare si accompagna a sincope per la brusca riduzione della portata a livello cerebrale. Per tutti questi motivi, le manovre terapeutiche (farmacologiche o cardioversione elettrica) debbono essere immediate. Una forma particolare di tachicardia ventricolare è il cosiddetto ritmo idioventricolare accelerato: in questo caso la frequenza della tachicardia è molto più bassa (90-100/min) e le conseguenze emodinamiche sono minori, il rischio di evoluzione verso la fibrillazione è molto modesto. Spesso quest’aritmia insorge in presenza di una bradicardia sinusale di base e regredisce con la tachicardizzazione. 4. Fibrillazione ventricolare. In questo caso i ventricoli si contraggono con una frequenza tra 400 e 600/min, in modo desincronizzato; il cuore è praticamente fermo e si instaura il quadro dell’arresto circolatorio. Un danno cerebrale irreversibile si instaura nel giro di pochi minuti. L’unica possibilità di sopravvivenza è legata alla pronta effettuazione di manovre di rianimazione cardiorespiratoria (massaggio cardiaco ester-
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no e respirazione artificiale) e all’effettuazione di una defibrillazione con shock elettrico. La fibrillazione ventricolare viene suddivisa dal punto di vista clinico in due tipi: la fibrillazione primitiva e la fibrillazione secondaria. Nel primo caso essa insorge in pazienti per il resto non complicati e con una buona situazione emodinamica; la seconda complica i quadri di grave deficit emodinamico e spesso ne rappresenta l’episodio terminale. La risposta alla terapia è molto buona nel primo caso, è modesta nel secondo caso. È di fondamentale importanza ricordare che la quasi totalità delle morti preospedaliere in caso di infarto sono dovute a fibrillazione ventricolare primitiva; essa, quindi, non è legata alla gravità della necrosi dal punto di vista emodinamico; perciò molti pazienti che muoiono per quest’aritmia, se potessero essere assistiti immediatamente, avrebbero una prognosi a distanza favorevole sia per la sopravvivenza che per la qualità di vita. Per tali motivi è assolutamente necessario ricoverare urgentemente ogni paziente; non solo quelli con diagnosi certa di infarto, ma anche quelli in cui il sospetto diagnostico sia fondato su base clinica. Tuttavia, poiché la maggior latenza nei tempi di ricovero di un infarto è legata al ritardo con cui il paziente avverte il medico, o comunque richiede un’assistenza, la soluzione di questo problema si basa fondamentalmente su una corretta educazione sanitaria che informi la gente sui sintomi d’allarme di un attacco coronarico. B. Aritmie sopraventricolari. La comparsa di flutter o fibrillazione atriale complica il 5-10% degli infarti miocardici. La loro insorgenza è spesso espressione di una compromissione funzionale del ventricolo sinistro con aumento della pressione telediastolica e conseguente dilatazione dell’atrio sinistro; probabilmente è proprio la dilatazione atriale il meccanismo più comune di innesco di queste aritmie. Pur essendo molto meno gravi delle aritmie ventricolari maggiori, esse richiedono una diagnosi precoce e un trattamento immediato per due ragioni: a) l’elevata frequenza ventricolare, che caratterizza queste aritmie nella maggior parte dei casi, comporta un aumento del consumo miocardico di O2 e quindi tende ad aggravare l’ischemia e può comportare un’estensione della necrosi; b) la mancanza della sistole atriale (specie in questi casi con funzione ventricolare sinistra già depressa) comporta una riduzione della portata cardiaca e quindi peggiora il quadro emodinamico. C. Aritmie ipocinetiche. 1. Bradicardia sinusale. Complica più frequentemente le fasi iniziali di un infarto inferiore ed è causata da un ipertono vagale. La sua importanza è legata al fatto che può ridurre (se di grado elevato) la portata cardiaca. Inoltre, l’esperienza acquisita con il monitoraggio elettrocardiografico precoce ha dimostrato che spesso la fibrillazione ventricolare insorge improvvisamente proprio in presenza di bradicardia spiccata.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
2. Blocchi atrioventricolari. Da un punto di vista elettrofisiologico, ma anche da un punto di vista clinico-pratico, è utile distinguere i blocchi che si verificano per interessamento delle strutture del tessuto di conduzione al di sopra del fascio di His (blocchi soprahissiani) dai blocchi che si manifestano per alterazioni a livello del fascio di His o della sua suddivisione nelle branche (blocchi hissiani o sottohissiani). I blocchi soprahissiani complicano più spesso un infarto inferiore, ma raramente sono espressione di una lesione necrotica interessante direttamente il tessuto di conduzione; più spesso essi sono dovuti ad ischemia o a edema perinfartuale e pertanto sono transitori. All’ECG si presentano come blocchi di I grado che possono evolvere verso un blocco di II grado tipo Mobitz 1 (con fenomeno di Luciani-Wenckebach) e quindi verso un blocco di grado elevato, sino al blocco atrioventricolare totale. Abitualmente, la progressione verso i gradi maggiori di blocco è lenta, i complessi ventricolari sono solitamente stretti. La risposta all’infusione di atropina è spesso favorevole e ciò consente di limitare l’applicazione di un pacemaker temporaneo per via transvenosa solo ai casi più avanzati e insensibili all’atropina. La prognosi è di solito favorevole. I blocchi sottohissiani si manifestano inizialmente con un blocco di conduzione intraventricolare, che all’ECG si manifesta come blocco di branca. Gli aspetti elettrocardiografici più frequenti sono l’emiblocco anteriore sinistro, il blocco di branca sinistro, l’associazione di emiblocco anteriore sinistro con blocco di branca destra e infine l’associazione di blocco di branca destra con emiblocco posteriore sinistro. Il P-Q può essere normale oppure può essere presente un blocco A-V di I grado. Questi quadri sono espressione di un interessamento diretto del tessuto di conduzione da parte della necrosi; si associano ad infarto anteriore e sono più comuni negli infarti particolarmente estesi. La loro pericolosità sta nel fatto che possono improvvisamente evolvere in modo brusco verso il blocco totale o addirittura verso l’asistolia. La prognosi è sfavorevole sia per la concomitante estensione della necrosi sia per il rischio di improvvisa comparsa del blocco A-V totale. Nei casi di comparsa di blocco di branca sinistra, blocco di branca destra associato ad emiblocco anteriore sinistro o ad emiblocco posteriore sinistro, è opportuno applicare un pacemaker temporaneo a scopo profilattico. In questi casi l’atropina è inefficace (Tab. 7.4). D. Complicanze emodinamiche. 1. Shock cardiogeno e scompenso. Sono le complicanze più gravi, caratterizzate dalla prognosi peggiore e da limitate possibilità terapeutiche. La loro trattazione in comune è giustificata dal fatto che entrambe conseguono ad una grave depressione della funzione di pompa del ventricolo sinistro. Esistono vari gradi di passaggio dal quadro dello scompenso a quello dello shock, secondo che prevalga un aumento della pressione telediastolica del ventricolo sinistro o una riduzione della portata cardiaca. Nei casi più gravi sono presenti entrambi i fenomeni.
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Tabella 7.4 - Diverse caratteristiche dei blocchi soprahissiani e sottohissiani nell’infarto miocardico acuto. MOBITZ 1 (SOPRAHISSIANO) • • • • • • • •
Lesione del nodo atrioventricolare Infarto inferiore Scompenso o shock in 1/3 Ritmo di sfuggita valido Rara progressione al blocco completo Mortalità non aumentata QRS stretto Sensibile all’influenza vagale (atropina efficace)
Clinicamente, l’aumento della pressione telediastolica del ventricolo sinistro si manifesta con un aumento della pressione a livello dei capillari polmonari. Quando questa pressione supera il valore di 15 mmHg, può iniziare la congestione vascolare polmonare (rilevabile all’Rx torace); quando supera i 20 mmHg, può iniziare la trasudazione negli alveoli e compaiono rantoli bibasilari; quando supera i 25 mmHg, si può manifestare il quadro di edema polmonare acuto. Viceversa, la riduzione della portata cardiaca è caratterizzata clinicamente da ipotensione (PA sistolica inferiore a 90 mmHg) con segni di ipoperfusione periferica quali: oliguria, confusione mentale, cute ipotermica. Queste manifestazioni cliniche di shock conclamato non si manifestano abitualmente sino a che l’indice cardiaco (cioè la portata cardiaca per m2 di superficie corporea) non scende sotto il valore di 2,2 l/min/m2. Attualmente in unità coronarica è possibile effettuare un monitoraggio emodinamico, introducendo da una vena del braccio un catetere sottile e flessibile munito in punta di un palloncino gonfiabile. Questo catetere, noto come catetere di Swan-Ganz, viene fatto procedere con relativa facilità sino a un ramo periferico dell’arteria polmonare destra o sinistra. Gonfiando il palloncino, si occlude temporaneamente il ramo periferico dell’arteria polmonare e quindi si può rilevare la pressione capillare polmonare che rispecchia fedelmente la pressione telediastolica del ventricolo sinistro. In alcuni casi, con lo stesso catetere, è possibile misurare anche la portata cardiaca con il metodo della termodiluizione; in alternativa, la portata cardiaca può essere misurata con altri metodi incruenti. In questo modo è possibile effettuare una valutazione emodinamica, sufficientemente precisa, direttamente al letto del malato, misurando sia la portata sia la pressione telediastolica del ventricolo sinistro. In questo modo è stato possibile suddividere, dal punto di vista emodinamico, i pazienti infartuati in quattro classi, in base al valore della pressione telediastolica e al valore dell’indice cardiaco. Nella tabella 7.5 il valore discriminante per la pressione capillare è 18 mmHg e quello per l’indice cardiaco è 2,2 l/min/m2. • Alla I classe appartengono i pazienti non complicati dal punto di vista emodinamico. • Alla II classe appartengono i pazienti con quadro di scompenso.
MOBITZ 2 (SOTTOHISSIANO) • • • • • • • •
Lesione del fascio di His o delle branche Infarto anteriore Scompenso o shock in 2/3 Ritmo di sfuggita instabile (a volte asistolia) Frequente progressione al blocco completo Mortalità aumentata QRS allargato Insensibile all’influenza vagale (atropina inefficace)
• Alla III classe i pazienti con quadro di shock. • Alla IV classe i pazienti con shock e scompenso. Come si vede, la mortalità ospedaliera cresce dalla I alla IV classe. Un quadro particolare di shock, con prognosi molto più favorevole rispetto a quella dello shock cardiogeno, è lo shock indotto da ipovolemia. Questo quadro non è raro nella fase acuta di un infarto. Fattori che contribuiscono al suo manifestarsi sono il vomito, la sudorazione profusa e l’aumentato tono vagale con vasodilatazione secondaria. Inoltre l’uso inappropriato di diuretici e di vasodilatatori può facilitarne l’insorgenza. In questi casi l’infusione di liquidi può rapidamente portare alla normalità il quadro emodinamico. 2. Perforazione del setto interventricolare. Quando la necrosi interessa il setto interventricolare, è possibile che nella sua porzione muscolare si verifichi una rottura. Il quadro emodinamico è caratterizzato da un brusco aumento della portata a livello del circolo polmonare per la presenza di shunt sinistro-destro che si viene ad instaurare acutamente; la portata sistemica si riduce e il ventricolo sinistro è sottoposto a un improvviso sovraccarico di volume. Ne consegue rapidamente un quadro di scompenso e/o di shock. L’incidenza è di circa 1% dei pazienti morti per infarto. Clinicamente la diagnosi può essere posta in base alla comparsa di un soffio olosistolico abitualmente di intensità elevata, massimo al mesocardio e a volte irradiato anche verso destra, associato a un fremito. Il secondo tono può apparire ampiamente sdoppiato. La diagnosi può essere confermata con l’ausilio del cateterismo cardiaco destro (che mostra in particolare la presenza di sangue con alto contenuto di ossigeno in arteria polmonare), dell’ecocardiografia bidimensionale e dell’angiocardiografia radioisotopica. Tabella 7.5 - Classificazione emodinamica dell’infarto in fase acuta e mortalità ospedaliera, secondo Forrester.
CLASSE
PRESSIONE CAPILLARE POLMONARE > 18 mmHg
INDICE CARDIACO < 2,2 l/min/m2
MORTALITÀ (%)
I II III IV
– + – +
– – + +
3 9 23 51
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L’evoluzione può essere rapidamente peggiorativa nell’arco di poche ore; in questo caso l’unica possibilità terapeutica è la correzione chirurgica urgente. In altri casi si può ottenere la stabilizzazione del quadro emodinamico e l’intervento correttivo può essere posposto. 3. Rottura o malfunzionamento del muscolo papillare. Quando la necrosi interessa anche uno dei muscoli papillari, sono possibili due evenienze: • malfunzionamento del muscolo, con conseguente rigurgito mitralico di variabile entità; • rottura del muscolo, con rigurgito mitralico massivo. La prima evenienza è abbastanza comune ed è diagnosticabile clinicamente per la comparsa di un soffio meso-telesistolico alla punta; il grado di compromissione emodinamica è in funzione dell’entità del rigurgito. Il fenomeno può essere transitorio. La seconda evenienza è per fortuna rara (circa l’1% dei pazienti morti per infarto) e si diagnostica per la comparsa di un soffio olosistolico alla punta, che si associa a un quadro di scompenso acuto dovuto all’improvviso sovraccarico di volume del ventricolo sinistro. Il cateterismo destro e l’ecocardiografia sono di ausilio nel confermare la diagnosi e nel porre la diagnosi differenziale con la perforazione del setto interventricolare. L’evoluzione è quasi sempre rapidamente peggiorativa; l’unica terapia efficace è quella chirurgica, con la sostituzione della valvola mitrale. 4. Rottura della parete libera. Circa il 5% degli infarti transmurali si complica con la formazione di una breccia a livello della parete libera del ventricolo sinistro. La complicanza è più frequente nelle persone anziane e nel sesso femminile; essa abitualmente compare tra la 3ª e la 10ª giornata dall’infarto. I segni clinici sono quelli del tamponamento cardiaco acuto. Un caratteristico aspetto è quello della dissociazione elettromeccanica: mentre il polso è completamente assente, l’attività elettrica del cuore si mantiene e all’ECG si rileva la persistenza di complessi ventricolari. Questa complicanza è rapidamente mortale. 5. Infarto ventricolare destro. Abitualmente la necrosi interessa il miocardio ventricolare sinistro e settale, tuttavia circa un terzo degli infarti inferiori mostrano anche un coinvolgimento del miocardio del ventricolo destro. Questa localizzazione passa spesso inosservata per la scarsità dei segni clinici ed elettrocardiografici; se l’interessamento del ventricolo destro è esteso, si possono manifestare segni di scompenso destro (congestione giugulare ed epatica) con o senza ipotensione. L’ecocardiografia bidimensionale e la ventricolografia radioisotopica hanno permesso di formulare questa diagnosi con molta maggior frequenza rispetto al passato. 6. Aneurisma ventricolare. Compare circa nel 1215% dei pazienti sopravvissuti a un infarto. Esso è rappresentato da una zona della parete ventricolare che non solo rimane acinetica, ma diviene discinetica, cioè si estroflette durante la sistole. Le zone più frequentemente interessate sono la punta e la parete anteriore del ventricolo sinistro. Le conseguenze di un aneurisma
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ventricolare possono essere di tre tipi: a) la sua presenza compromette la regolare dinamica di contrazione e riduce ulteriormente la frazione di eiezione; ne può conseguire un quadro di scompenso; b) in presenza di un aneurisma sono più frequenti le aritmie ventricolari minacciose (per es., la tachicardia ventricolare ricorrente) persistenti dopo la fase acuta; c) all’interno dell’aneurisma si formano più facilmente trombi murali che possono dare origine ad episodi embolici sistemici. All’obiettività si rileva un itto sollevante o un evidente impulso sistolico precordiale; quasi sempre è presente un terzo tono. All’ECG un segno comune è la persistenza di un sopraslivellamento del tratto S-T nella sede della necrosi, anche a distanza di tempo dalla fase acuta. La Rx torace può evidenziare un’alterazione del contorno del margine ventricolare; tuttavia un aneurisma può essere presente anche con un’ombra cardiaca assolutamente normale. L’ecocardiografia e la ventricolografia radioisotopica consentono la conferma della diagnosi di aneurisma, la valutazione della sua estensione e la sua localizzazione. Con l’ecocardiografia è possibile anche evidenziare la presenza di trombi. E. Complicanze ischemiche. La maggior parte dei pazienti non lamenta dolori anginosi nell’immediato periodo postinfartuale. Tuttavia, alcuni di essi possono presentare dolori spontanei o per sforzi modesti al momento della mobilizzazione; la comparsa di questi sintomi può essere premonitrice di una recidiva e di un’estensione dell’infarto. L’angina precoce postinfartuale ha assunto negli ultimi anni particolare rilevanza in rapporto all’effettuazione in fase acuta della terapia trombolitica. Se con la trombolisi si ottiene un’efficace riperfusione, ne consegue una limitazione dell’area necrotica, ma simultaneamente viene a crearsi una zona di miocardio “a rischio” costituita dalla zona di miocardio che è stato salvato, dalla trombolisi, ma che è esposto al danno ischemico. Questo rischio è legato sia alla possibile riocclusione trombotica della coronaria, sia alla presenza di una grave stenosi residua, su cui il trombo occlusivo si era precedentemente formato. Per questi motivi, anche se non si manifestano sintomi di angina, è importante valutare, abitualmente prima della dimissione, la presenza di un’eventuale ischemia residua. Ciò si attua eseguendo un test da sforzo sottomassimale, se necessario associato alla scintigrafia miocardica con 201Tl. Tutti i pazienti con ischemia residua, sia essa spontanea o indotta dal test da sforzo, hanno indicazione a coronarografia per valutare l’eventuale necessità di una rivascolarizzazione miocardica con by-pass o angioplastica coronarica. F. Complicanze varie. 1. Pericardite epistenocardica. In caso di infarto miocardico transmurale è possibile rilevare, dal punto di vista anatomopatologico, la presenza di una pericardite localizzata alla regione che sovrasta la necrosi mio-
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7 - CARDIOPATIA ISCHEMICA
cardica nel 50% dei casi. Una pericardite diffusa fibrinosa o sierofibrinosa è presente nel 15% dei casi. Questa complicanza si verifica abitualmente tra il 2° e il 4° giorno dall’infarto. In una percentuale variabile dal 7 al 16% dei pazienti con infarto miocardico si rilevano sfregamenti pericardici; questa percentuale tuttavia sottostima la reale incidenza della pericardite, perché spesso gli sfregamenti sono fugaci e quindi sfuggono all’osservazione. Oltre agli sfregamenti, la caratteristica clinica più importante è il dolore toracico; spesso si pone un problema di diagnosi differenziale con un dolore ischemico, specie se non si rilevano sfregamenti; tuttavia, le caratteristiche del dolore pericardico (che aumenta con l’inspirazione, si riduce con l’assunzione della posizione seduta e abitualmente ha localizzazione e proiezioni diverse di quello ischemico) consentono la differenziazione. L’ECG può non presentare modificazioni, oppure mostrare una ripresa della lesione subepicardica e/o un’accentuazione dell’ischemia. Nel caso di una reazione pericarditica localizzata, Rx torace ed ecocardiogramma non sono diagnostici; lo diventano, specie il secondo, in presenza di un versamento pericardico diffuso. In questo caso è opportuno sospendere un’eventuale terapia anticoagulante in corso, per il rischio di emopericardio. 2. Sindrome di Dressler o pericardite postinfartuale. Questa sindrome (che è in sostanza un caso particolare di pericardite postpericardiotomica) è caratterizzata da febbre e da dolore pleuropericardico. Si ritiene che la sua genesi sia dovuta a un meccanismo autoimmune. Essa insorge da 1 a 6, talora a 12 settimane dopo un infarto. Il quadro clinico è dominato dalla febbre, che può raggiungere anche i 40 °C, e dal dolore con le caratteristiche della pericardite ed eventualmente della pleurite. La presenza di sfregamenti pericardici è costante, ma spesso fugace e per questo essi possono sfuggire all’esame obiettivo. L’ECG può mostrare i segni distintivi della pericardite; in questo caso essi sono più facilmente riconoscibili, perché abitualmente compaiono quando, ormai, i segni elettrocardiografici della necrosi sono stabilizzati. La Rx torace può dimostrare un ingrandimento dell’ombra cardiaca da versamento pericardico ed anche un versamento pleurico. L’ecocardiogramma mostra la presenza di versamento pericardico. 3. Tromboembolia. L’infarto miocardico è una situazione favorevole all’insorgenza di embolia polmonare e sistemica. L’embolia è più frequente negli infarti estesi, complicati da shock e scompenso. L’embolia polmonare è un reperto relativamente frequente in sede autoptica; a livello clinico, la sua insorgenza sfugge spesso all’osservazione se l’embolia è di modesta entità. L’attuale atteggiamento favorevole alla mobilizzazione precoce e all’uso di dosi profilattiche di eparina ne ha ridotto l’incidenza. L’embolia sistemica può conseguire alla formazione di trombi murali a livello del ventricolo sinistro; essa è più frequente nell’infarto anteriore e della punta, specie in presenza di aneurisma.
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Con l’ecocardiografia, trombi murali sono stati rilevati in oltre un terzo di tutti i pazienti con infarto anteriore o apicale. G. Cenni di terapia. Un sostanziale miglioramento della prognosi immediata di un infarto miocardico è stato ottenuto negli ultimi venti anni con l’istituzione delle Unità di Cura Coronarica (UCC). Queste aree di terapia intensiva consentono l’osservazione clinica continua, il monitoraggio elettrocardiografico, il monitoraggio emodinamico (quando indicato) e un immediato intervento terapeutico in caso di complicanze. Il settore in cui le UCC hanno dato i migliori risultati in termini di riduzione della mortalità è stato quello delle aritmie. Il monitoraggio elettrocardiografico consente il precocissimo rilievo dell’aritmia; la disponibilità immediata di strumentazione adeguata consente di effettuare la cardioversione elettrica in caso di fibrillazione ventricolare e la stimolazione cardiaca temporanea per via transvenosa in caso di blocchi atrioventricolari o intraventricolari. Le UCC hanno permesso anche di ridurre, seppur in misura limitata, la mortalità per complicanze emodinamiche. Il monitoraggio clinico e quello emodinamico consentono il rilievo precoce dei segni di shock e scompenso, permettono una valutazione precisa e infine guidano in modo razionale gli interventi terapeutici. Negli ultimi anni la terapia dell’infarto acuto ha subito sostanziali avanzamenti; essi si basano su tre presupposti: • la necrosi miocardica è conseguente all’occlusione trombotica di una coronaria; • la necrosi miocardica è un evento dinamico; prima che il danno ischemico irreversibile raggiunga le sue dimensioni definitive passano parecchie ore; • la prognosi del paziente che non muore acutamente per aritmie dipende dall’estensione della necrosi. Ne consegue che l’intervento terapeutico deve: • essere il più precoce possibile; • ottenere la ricanalizzazione della coronaria; • proteggere il miocardio ischemico. Per ottenere risultati significativi a livello di popolazione e non solo in singoli individui, questi interventi terapeutici devono essere di esecuzione relativamente facile e rapida e soprattutto effettuabili in qualsiasi struttura ospedaliera. 1. Ricanalizzazione della coronaria. Poiché l’occlusione coronarica è dovuta a un trombo, la sua ricanalizzazione dipende dalla lisi del trombo. Vari studi hanno dimostrato che alcuni farmaci trombolitici, tra cui la streptochinasi e l’attivatore tissutale del plasminogeno sono i più studiati, sono in grado di ricanalizzare l’arteria, se iniettati direttamente in coronaria. Ciò, tuttavia, limita enormemente la diffusione della terapia trombolitica, che può essere effettuata solo in strutture con laboratorio di emodinamica funzionante 24 ore al giorno. Inoltre, il tempo necessario all’effettuazione della coronarografia allunga i tempi della trombolisi. L’infusione venosa del farmaco trombolitico supera queste limitazioni. L’efficacia della trombolisi per via
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sistemica nel ridurre la mortalità e nel limitare l’estensione dell’infarto è stata ormai dimostrata da numerosi studi su larga scala. Il primo di questi è stato lo studio italiano GISSI (Gruppo Italiano per lo Studio della Streptochinasi nell’Infarto) che ha evidenziato una riduzione media della mortalità di circa il 20%, con una riduzione di poco inferiore al 50% nei soggetti trattati entro la prima ora dalla comparsa dei sintomi. In questo e in altri studi l’agente trombolitico impiegato è stata la streptochinasi. In seguito si è visto che l’alteplasi (100 mg infusi endovena in 90 minuti, con metà dose entro 30 minuti) può ridurre ulteriormente la mortalità. Sono anche stati sperimentati vari analoghi dell’alteplasi che possono essere somministrati in bolo. Tuttavia, il trattamento trombolitico ha dei limiti. In primo luogo, il trombo si può frammentare e dare origine a una microembolizzazione distale. In secondo luogo, il trattamento con un farmaco trombolitico risolve soltanto la parte ricca in fibrina del trombo rosso, mentre la parte ricca di piastrine del trombo bianco resta inalterata. Infine, la fibrinolisi genera aumentate concentrazioni di trombina libera e attiva l’aggregazione piastrinica, il che può causare un ulteriore peggioramento della microcircolazione. Per ovviare a questi inconvenienti è opportuno anche praticare un trattamento antipiastrinico e antitrombinico (Cap. 52). Il più ovvio trattamento antipiastrinico è con aspirina. Questo farmaco ha una debole attività antipiastrinica, dato che agisce soltanto inibendo la sintesi di trombossano A2. Più efficaci sono i trattamenti che agiscono sul recettore glicoproteico IIb/IIIa, come l’anticorpo monoclonale abciximab, o altri farmaci con la stessa azione. Un trattamento antitrombinico può essere effettuato con eparina. L’eparina non frazionata agisce indirettamente, dato che richiede la presenza di antitrombina III. In una meta-analisi eseguita su pazienti con infarto precoce è stato dimostrato che inibitori diretti della trombina, come l’irudina, possono ridurre significativamente la mortalità a 30 giorni rispetto all’uso di eparina non frazionata. Tuttavia, l’eparina a basso peso molecolare offre gli stessi vantaggi. Poiché la trombolisi agisce solo sul trombo, ma non ha alcun effetto sulla stenosi aterosclerotica, su cui abitualmente il trombo si sviluppa, da alcuni studiosi è stato proposto di far seguire alla trombolisi la coronarografia di routine e l’eventuale effettuazione di un’angioplastica coronarica. Questa consiste in una dilatazione di una coronaria stenotica gonfiando un palloncino posto al termine del catetere che è stato introdotto nell’arteria. Un’altra possibilità è il posizionamento nella coronaria stenotica di uno stent, cioè un tubicino rigido che la mantenga pervia. Una meta-analisi su 23 studi randomizzati ha concluso che questi interventi sulle coronarie, che sono eseguiti per via percutanea, ma che richiedono adeguata organizzazione e abilità da parte dell’operatore, comportano una significativa riduzione della mortalità rispetto alla trombolisi farmacologica. Perciò, molto recentemente, l’European Society of Cardiology ha raccomandato che gli interventi di ricanalizzazione delle coronarie per via percutanea siano da considerare l’op-
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zione terapeutica da preferire quando possono essere eseguiti entro 90 minuti dopo il primo contatto medico. Rispetto all’angioplastica con palloncino, l’applicazione primaria di uno stent sembra ridurre la frequenza del reinfarto. È opportuno che tutte queste manovre siano eseguite sotto protezione di un inibitore della glicoproteina IIb/IIIa sulle piastrine. In ogni caso, l’efficacia di questi trattamenti è fortemente influenzata dal tempo che intercorre dai primi sintomi dell’infarto alla messa in atto della terapia. La coronarografia con angioplastica o l’introduzione di uno stent richiede più tempo per essere iniziata e, per questa ragione, spesso la trombolisi farmacologica è eseguita per prima (si è giunti addirittura a raccomandare che venga eseguita a domicilio del paziente, prima che venga trasportato in ospedale). In un esteso studio si è visto che la mortalità aumentava se il tempo che trascorreva tra l’uscita di casa e l’introduzione del palloncino superava le 2 ore. 2. Terapia delle complicanze. Ovviamente, a questa terapia aggressiva dell’infarto nelle sue fasi iniziali, si associa la classica terapia delle sue complicanze. Obiettivi iniziali sono la sedazione e il controllo del dolore. In caso di aritmie ventricolari, premonitrici di aritmie maggiori, il farmaco antiaritmico di prima scelta è la lidocaina. In alcune UCC questo farmaco viene somministrato profilatticamente a tutti i pazienti con infarto acuto, per prevenire l’insorgenza di fibrillazione ventricolare; quest’approccio non è tuttavia condiviso da tutti. In caso di aritmie sopraventricolari, tenuto anche conto del loro meccanismo di insorgenza, il farmaco di prima scelta è la digitale. La terapia dello shock ipovolemico si basa sull’infusione di liquidi: soluzione fisiologica o plasma expanders. Nel caso di compromissione della funzione ventricolare sinistra con quadri di shock cardiogeno e/o scompenso, si utilizzano due tipi di farmaci: i vasodilatatori e i farmaci inotropi. Purtroppo nei casi conclamati di compromissione della funzione ventricolare sinistra, conseguenti ad una necrosi miocardica estesa, la prognosi immediata rimane molto grave e la terapia farmacologica riesce ad ottenere successi solo parziali; inoltre, nei pazienti sopravvissuti persiste un grave deficit di pompa che condiziona pesantemente la prognosi a breve e lungo termine. L’unico intervento terapeutico realmente efficace è quello di riuscire a limitare, nelle fasi precoci dell’infarto, l’estensione della necrosi. 3. Prevenzione e trattamento a lungo termine. In pazienti ad alto rischio nei quali un intervento di ricanalizzazione delle coronarie non è stato eseguito in fase acuta, questo può essere programmato successivamente. In ogni caso lo stile di vita deve essere particolarmente curato, praticando esercizio fisico, evitando di essere sovrappeso, limitando gli acidi grassi saturi nella dieta e astenendosi dal fumo. Quattro farmaci sono importanti e possono essere raccomandati per una somministrazione ininterrotta in pazienti che hanno sofferto di un infarto
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del miocardio e nei quali si voglia mettere in atto una prevenzione secondaria: l’aspirina, i -bloccanti, gli ACEinibitori e le statine. L’aspirina si è rivelata, in molti studi, efficace quanto gli anticoagulanti nel prevenire un nuovo infarto. Sembra che la somministrazione in associazione di aspirina e anticoagulanti possa offrire una protezione migliore, anche se aumentano i rischi di emorragie. Nel passato si era raccomandato di sospendere la somministrazione di aspirina subito prima e immediatamente dopo gli interventi di bypass sulle arterie coronarie per il rischio di complicanze emorragiche. Attualmente sembra che un’assunzione precoce di aspirina sia vantaggiosa e in una recente Consensus Conference dei cardiologi americani è stato raccomandato di iniziare la sua somministrazione 6 ore dopo l’intervento. I -bloccanti, se non controindicati, e gli ACE-inibitori possono controllare il processo di rimodellamento ventricolare che può far seguito a un infarto e condurre a scompenso cardiaco. Le statine possono ridurre la mortalità e anche la probabilità di un nuovo infarto miocardico non fatale, indipendentemente dai livelli dei lipidi plasmatici del paziente. H. Postinfarto. Il paziente che non presenta complicanze viene mobilizzato dopo 4-5 giorni e dimesso in 10ª-12ª giornata. Per formulare un preciso giudizio prognostico, e fornire documentati consigli di vita e prescrizioni terapeutiche, è tuttavia necessario sottoporre il paziente ad una completa valutazione clinica e strumentale. Questa valutazione si basa su alcune indagini incruente; le principali sono tre: • ECG dinamico secondo Holter, per valutare la presenza di aritmie e l’eventuale comparsa di ischemia silente; • ecocardiografia e/o ventricolografia con 99Tc, per valutare la funzione di pompa del ventricolo sinistro; • ECG da sforzo, per valutare la capacità funzionale ed evidenziare un’eventuale ischemia residua non presente in condizioni di riposo. In casi selezionati l’ECG da sforzo andrà integrato con l’esecuzione di una scintigrafia miocardica con 201Tl. Associando l’esito di queste indagini, è possibile una stratificazione prognostica accurata. I pazienti senza aritmie significative, con buona funzione ventricolare e senza ischemia residua, hanno un rischio di morte e di eventi coronarici futuri molto basso (inferiore al 2% nel primo anno). Essi possono riprendere una vita normalmente attiva, senza particolari limitazioni. All’estremo opposto, i pazienti con una marcata riduzione della funzione di pompa (frazione di eiezione inferiore al 30%) e con persistenza di aritmie ventricolari complesse, hanno un elevato rischio di mortalità (circa 30-35% a un anno) e dovranno accettare sostanziali limitazioni alla propria attività. Infine, i pazienti che, pur essendo asintomatici, mostrano una risposta ischemica al test da sforzo, hanno un rischio elevato di andare incontro ad eventi ischemici. Se la soglia di ischemia è medio-bassa, è indicato uno studio coronarografico. Negli altri casi è indicata una terapia farmacologica; nel caso di persistenza di
ischemia da sforzo anche con adeguata terapia, è indicata la coronarografia. La terapia farmacologica cronica sarà dettata, nei pazienti con complicanza, dal tipo di complicanza e dall’esito della valutazione: terapia antischemica, terapia antiaritmica ed eventuale terapia dello scompenso. Tuttavia anche i pazienti senza complicanze possono giovarsi di alcune terapie farmacologiche, che in questo caso hanno semplicemente la funzione di prevenzione farmacologica secondaria; le uniche due terapie che hanno dimostrato un’efficacia a questo riguardo sono la terapia -bloccante e la terapia con antiaggreganti piastrinici. Nell’ottica della prevenzione secondaria sono di estrema importanza anche alcune norme igieniche di vita: abolizione del fumo, correzione dietetica di una eventuale dislipidemia e di un eccesso ponderale e infine una regolare attività fisica tarata sulla capacità funzionale del soggetto.
ISCHEMIA SILENTE In alcuni cani l’ischemia miocardica non si associa al classico sintomo di “angina”. In questi casi si parla di ischemia silente. La classificazione semplificata dell’ischemia silente distingue due gruppi: • ischemia costantemente silente (tipo I); • ischemia episodicamente silente (tipo II). Al primo gruppo appartengono: soggetti apparentemente sani, soggetti che hanno sofferto di un infarto miocardico senza sintomi (che viene occasionalmente scoperto in occasione della registrazione di un elettrocardiogramma) e soggetti che sviluppano una cardiomiopatia ischemica dovuta a progressivo danno ischemico del miocardio, senza che sia identificabile un pregresso infarto e in assenza di angina. Al secondo gruppo appartengono: soggetti con angina spontanea, da sforzo o mista, in cui una parte degli episodi di ischemia transitoria sono asintomatici; soggetti che dopo un infarto (sintomatico) presentano un test da sforzo con segni di ischemia miocardica in assenza di sintomi.
Frequenza L’incidenza dell’ischemia costantemente silente è difficilmente quantizzabile: in base allo studio di Framingham si può dire che in un quarto dei casi l’infarto è risultato “misconosciuto” e che in circa la metà di essi è stato veramente “silente”. Ancor più difficile è stabilire la prevalenza dell’ischemia silente nel sottogruppo di soggetti apparentemente sani. In una popolazione norvegese di 2000 soggetti maschi di età tra 40 e 59 anni apparentemente sani essa è risultata essere del 2,5%. Il rischio di morte cardiaca è stato calcolato in 0,7% all’anno; nella stragrande maggioranza dei casi l’evento morte è stato preceduto dalla comparsa di angina o infarto. Sulla base di questi dati, seppur limitati, non si ri-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
tiene attualmente giustificato uno screening di massa per evidenziare un’eventuale ischemia silente nella popolazione adulta apparentemente sana. Molto più precisi sono i dati riguardanti l’incidenza dell’ischemia episodicamente silente: in base a studi con ECG dinamico secondo Holter, eseguiti in soggetti anginosi noti, ben tre quarti degli episodi di ischemia transitoria sono asintomatici. Infine, nei pazienti con esiti di infarto sottoposti a test da sforzo, quando il test risulta positivo per ischemia residua la positività è silente nella metà circa dei casi.
Fisiopatologia In base alle conoscenze sino ad ora acquisite, non vi sono elementi per affermare che i meccanismi fisiopatologici alla base dell’ischemia silente siano diversi da quelli dell’ischemia sintomatica. Prova indiretta di ciò è che gli episodi silenti e quelli sintomatici hanno la stessa distribuzione nell’arco della giornata e che rispondono allo stesso modo ai diversi interventi terapeutici. Resta da spiegare perché a volte sia presente il sintomo e altre volte esso manchi completamente. Si è ipotizzato che i pazienti con ischemia silente abbiano una soglia del dolore più alta. Ad avvalorare questa ipotesi vi è il riscontro di livelli di endorfine più elevati in questi soggetti rispetto a quelli con ischemia sintomatica. Quest’ipotesi può essere tuttavia valida per i soggetti con ischemia costantemente silente, mentre difficilmente può spiegare perché nello stesso paziente, e in tempi molto ravvicinati, un episodio sia silente e l’altro sintomatico. Per questo gruppo, che è il più numeroso, si
è avanzata l’ipotesi che il sintomo compaia in rapporto ad episodi di ischemia più gravi e prolungati. Difatti, durante le registrazioni Holter si è verificato che gli episodi sintomatici tendono ad associarsi a sottoslivellamenti del tratto S-T più marcati e più prolungati. Ma questo comportamento non è costante: anche nello stesso individuo si possono avere episodi prolungati, asintomatici ed episodi brevi accompagnati da angina. Anche l’ipotesi che la sensazione dolorosa sia legata alla stimolazione dei meccanocettori miocardici, e che quindi sia presente solo in presenza di un’acuta e marcata dilatazione ventricolare conseguente all’ischemia, non è stata confermata dalle osservazioni cliniche.
Prognosi e terapia L’esperienza sino ad ora accumulata non ha evidenziato significative differenze, da un punto di vista prognostico, tra l’ischemia sintomatica e quella silente, anche se si può speculare che l’assenza del dolore esponga il paziente a un maggior rischio, poiché non è spinto a interrompere l’attività o comunque ad attenuare o ad abolire l’eventuale causa scatenante. Poiché i meccanismi fisiopatologici sono gli stessi dell’ischemia, sintomatica, la terapia dell’ischemia silente non differisce sostanzialmente da quella dell’angina. Semmai, la consapevolezza che la maggior parte degli episodi ischemici sono asintomatici potrà consigliare di verificare l’efficacia della terapia non solo sulla base dell’andamento dei sintomi, ma anche con periodici controlli dell’ECG dinamico ed eventualmente del test da sforzo.
C A P I T O L O
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CARDIOMIOPATIE E MIOCARDITI M. OBBIASSI
Premessa Può essere utile iniziare questo capitolo ricordando che gran parte delle cardiopatie può essere ricondotta a poche alterazioni fisiopatologiche fondamentali, da cui deriva, per conseguenza, il quadro anatomo-clinico delle singole forme. Ecco un elenco delle cardiopatie principali correlate con le alterazioni fisiopatologiche che le caratterizzano. A. Cardiopatia ipertensiva. Deriva dall’esistenza prolungata di ipertensione arteriosa sistemica; questa aumenta le resistenze periferiche e quindi il postcarico del ventricolo sinistro. B. Cuore polmonare cronico. È conseguenza di ipertensione arteriosa polmonare, secondaria a broncopneumopatia cronica o ad affezioni dei vasi polmonari: l’ipertensione polmonare esercita sul ventricolo destro gli stessi effetti che l’ipertensione arteriosa sistemica esercita sul ventricolo sinistro. C. Vizi valvolari acquisiti. La stenosi di una o più valvole ostacola la fuoriuscita del sangue dalla cavità a monte, con aumento del lavoro cardiaco per sovraccarico di pressione mentre l’insufficienza valvolare, determinando rigurgito, dà origine a un sovraccarico di volume della cavità a monte e anche di quella a valle, con aumento del lavoro cardiaco. D. Difetti cardiaci congeniti. Si traducono in vizi valvolari, oppure in comunicazioni anomale fra cavità cardiache o fra cavità e vasi. L’effetto finale è di sovraccarico di pressione o di volume a carico di una o più sezioni del cuore. E. Pericarditi. Fondamentalmente ostacolano la dilatazione delle cavità cardiache, diminuendone la capacità; di qui una serie di conseguenze che vengono descritte nel capitolo pertinente e che si traducono soprattutto in riduzione del ritorno venoso e secondariamente del precarico.
F. Cardiopatia ischemica. Come conseguenza dell’ischemia di uno o più distretti, si hanno diminuzioni di contrattilità da parte del miocardio in stato di ischemia o perdita completa e definitiva di contrattilità per sostituzione di aree di miocardio con tessuto fibroso. In una minoranza di casi il paziente con restrizioni diffuse delle coronarie (pur non esitate nel classico infarto del miocardio) sviluppa piccoli focolai multipli di necrosi, che danno origine a numerose chiazze di fibrosi, disseminate qua e là. Il risultato è che la massa muscolare capace di produrre lavoro è fortemente diminuita. Alcuni chiamano questa condizione cardiomiopatia ischemica, ma è meglio non usare questo termine di cardiomiopatia per riservarlo alle affezioni in cui il miocardio rappresenta la struttura cardiaca primitivamente colpita da un processo morboso. In sintesi, i primi quattro tipi di cardiopatia elencati sono caratterizzati da anormalità emodinamiche, che costringono il miocardio (di per sé normale) a un superlavoro. Il quinto è caratterizzato da anormalità periviscerali, che impediscono al miocardio (di per sé normale) di svolgere bene il proprio lavoro. Il sesto quadro è caratterizzato dal fatto che restrizioni a carico delle grosse coronarie extramurali impediscono l’arrivo di rifornimenti indispensabili al metabolismo del miocardio, con conseguente sofferenza o morte di un miocardio di per sé normale. G. Cardiomiopatie. Esiste un settimo gruppo di cardiopatie, chiamate cardiomiopatie, che deriva dalla presenza di processi che danneggiano direttamente il miocardio, alterandone la funzionalità. I processi lesivi sono di vario tipo e agiscono in modo diverso da caso a caso, ma finiscono per produrre tre soli quadri fondamentali (si veda in seguito). Secondo l’elaborazione di una commissione internazionale, queste malattie sono così definite: le cardiomiopatie sono malattie che colpiscono il miocardio primariamente e non come conseguenza di ipertensione (sistemica o polmonare) o di anomalie congenite o valvolari, pericardiche o delle co-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
ronarie. Si distinguono: a) cardiomiopatie primitive, a causa ignota, e b) cardiomiopatie secondarie, le quali hanno una causa nota o sono associate a malattie che coinvolgono altri organi o sistemi. Le cardiomiopatie rappresentano un capitolo della cardiologia che è stato sistematizzato di recente. Per questa ragione, fino a pochi anni fa, gran parte dei casi veniva interpretata erroneamente, come variante atipica di cardiomiopatia ischemica o ipertensiva, o altro; solo negli ultimi anni si è imparato a diagnosticarle e si è compreso che, nel loro complesso, non sono malattie rare. La figura 8.1 fornisce un elenco delle cardiomiopatie considerate dal punto di vista dell’eziologia o patogenesi. Nelle pagine che seguono, però, le varie forme sa-
Schema del ventricolo sinistro di cuore normale
Cardiomiopatia dilatativa
ranno discusse seguendo un’altra classificazione (Tab. 8.1) basata sul quadro clinico. Come già accennato, infatti, dal punto di vista clinico le varie cardiomiopatie (primitive o secondarie che siano) si presentano in tre sole maniere: col quadro clinico della cardiomiopatia dilatativa o con quello della cardiomiopatia ipertrofica Tabella 8.1 - Classificazione su base eziologica delle cardiomiopatie. I. Cardiomiopatia dilatativa 1. Idiopatica 2. Secondaria A. Cause infettive Virus Funghi Protozoi Metazoi B. Difetti del metabolismo Glicogenosi Mucopolisaccaridosi Deficienze elettrolitiche Deficit nutritivo C. Malattie immunopatologiche Lupus eritematoso sistemico Poliarterite nodosa Artrite reumatoide Sclerosi sistemica progressiva D. Malattie neuromuscolari Distrofia muscolare Distrofia miotonica Malattia di Friedreich Malattia di Refsum E. Reazioni tossiche e da ipersensibilità Alcool Farmaci Radiazioni ionizzanti F. Cardiomiopatia peripartum II. Cardiomiopatia ipertrofica
con gradiente (setto asimmetrico)
1. Idiopatica familiare 2. Idiopatica sporadica III. Cardiomiopatia restrittiva
Cardiomiopatia ipertrofica senza gradiente
Cardiomiopatia restrittiva
l’endocardio ispessito o il miocardio sono rigidi e inestensibili
Figura 8.1 - Rappresentazione schematica delle alterazioni che caratterizzano i tre tipi fondamentali di cardiomiopatia.
1. Miocardica A. Non infiltrativa Cardiomiopatia idiopatica Cardiomiopatia familiare Cardiomiopatia ipertrofica Sclerodermia Cardiomiopatia diabetica B. Infiltrativa Amiloidosi Sarcoidosi Malattia di Gaucher Malattia di Hurler Infiltrazione grassa C. Da accumulo Emocromatosi Glicogenosi 2. Endomiocardica Fibrosi endomiocardica Sindrome ipereosinofila Cardiopatia nel carcinoide Radiazioni Neoplasie metastatiche Farmaci (antracicline, serotonina, metisergide, ergotamina, busulfan)
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8 - CARDIOMIOPATIE E MIOCARDITI
o con quello della cardiomiopatia restrittiva. Prima di esporre questi tre quadri, verranno però discusse le miocarditi, che sono anch’esse delle cardiomiopatie, con caratteristiche particolari, però, dal punto di vista clinico e anatomopatologico, essendo forme schiettamente infiammatorie. Le miocarditi, a differenza delle cardiomiopatie propriamente dette, sono note da tempo ed è tradizione descriverle separatamente.
MIOCARDITI La miocardite è una cardiopatia che deriva da infiammazione del miocardio. La causa più comune è infettiva e quasi tutti gli agenti infettivi possono produrre miocardite, anche se con frequenza molto variabile da agente ad agente. Gli agenti infettivi che producono miocardite con frequenza elevata sono peraltro pochi, in particolare sono i virus coxsackie B, non rare sono le forme da virus echo e coxsackie A, rare quelle da adenovirus, virus influenzale, altri virus o batteri. Anche il virus HIV è stato considerato una possible causa di miocardite, data l’alta incidenza di questa malattia in pazienti positivi per infezione da questo virus. Tuttavia, mentre per gli enterovirus, come i coxsackie e gli echo, esistono dimostrazioni del loro genoma nel miocardio in corso di miocardite, una dimostrazione simile non si è mai avuta in occasione di infezione da HIV. Questo fatto rende incerto se il virus HIV provochi direttamente una miocardite o se questa sia dovuta ad altri virus che traggono vantaggio dall’immunodepressione. La lista degli altri agenti infettanti che sono stati associati con miocardite è lunga e include, oltre a vari batteri, anche miceti, protozoi, vermi e rickettsie. Basti qui ricordare che la più comune miocardite nel mondo è la malattia di Chagas, una malattia infiammatoria provocata dal protozoo Trypanosoma cruzi, che è endemica nelle zone rurali dell’America centrale e meridionale. Una miocardite può anche essere dovuta a cause non infettive. Tra queste vanno ricordate le reazioni allergiche a vari farmaci e il coinvolgimento del miocardio in malattie autoimmuni o comunque immunopatologiche, come il lupus eritematoso sistemico, la sclerosi sistemica (sclerodermia) e la sarcoidosi. Ma qualsiasi malattia di questo tipo può provocare una miocardite. Curiosamente, la polimiosite, che pure può comportare una miocardite, non lo fa comunemente. Con il termine di miocarditi tossiche si intendono processi infiammatori del miocardio provocati direttamente da sostanze chimiche (cioè senza la mediazione di una reazione allergica) o da agenti fisici (come lo shock elettrico, l’iperpiressia o le radiazioni). Tra queste, le forme più comuni sono quelle dovute al chemioterapico antitumorale doxorubicina e alla cocaina. Riguardo alla patogenesi delle miocarditi, è probabile che i processi immunopatologici abbiano un ruolo anche nelle forme nelle quali viene riconosciuta un’eziologia virale o tossica. Per riferirci alle più comuni miocarditi virali, è indubbio che i virus possono esercitare un’azione citotossica sui miociti e indurre una rea-
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zione infiammatoria che danneggia ulteriormente il miocardio. Il processo si può arrestare con l’eliminazione del virus e questo corrisponde al decorso acuto della malattia. Ma questa si presenta talora in forma subacuta o cronica: in questo caso è possibile che l’infezione inneschi un processo autoimmune. È stato dimostrato che l’iniezione a ceppi di topi geneticamente suscettibili di miosina cardiaca (ma non di miosina da muscolo scheletrico) induce una miocardite. Gli agenti infettanti potrebbero indurre uno stesso tipo di autoimmunità nel miocardio con un processo noto come “mimesi molecolare”, ossia una reazione immunitaria nei loro riguardi che coinvolge anche il cuore se questo possiede delle strutture molecolari simili a quelle che essi stessi posseggono. In effetti, sono stati dimostrati su vari agenti infettanti degli epitopi (unità molecolari di riconoscimento antigenico) che cross-reagiscono con la miosina cardiaca. Anche in assenza di mimesi molecolare, il danneggiamento diretto impartito al miocardio da infezioni, agenti tossici o insulti fisici può facilitare un processo autoimmune. Esiste, infine, una rara forma di miocardite, che colpisce prevalentemente i giovani e che ha un decorso molto sfavorevole, detta “miocardite a cellule giganti”, o di Fiedler, nella quale non si individua un agente e che, a giudicare dagli esiti di certe terapie, sembra comunque di natura autoimmune. I meccanismi immunopatologici messi in atto in corso di miocardite sono prevalentemente di tipo cellulare, anche se, come si vedrà a proposito della cardiomiopatia dilatativa, pure mecanismi di immunità umorale sembrano implicati. I meccanismi cellulari comportano tanto la risposta di linfociti T CD4 positivi, che direttamente o indirettamente provocano la produzione locale di citochine infiammatorie, quanto quella di linfociti T CD8 positivi, che esercitano un effetto citolitico diretto su cellule infettate da virus o che presentano alla superficie molecole nei riguardi delle quali si è scatenata una reazione autoimmune. Le alterazioni anatomo-patologiche proprie delle miocarditi possono essere rilevate non solo nelle autopsie, ma anche, in corso di malattia, mediante biopsie endomiocardiche. Esse consistono di due elementi: lisi dei miociti e infiltrazione linfocitaria. Secondo quelli che, a seguito di una Consensus Conference, sono detti “Criteri di Dallas”, una biopsia fornisce una diagnosi sicura di miocardite se alla microscopia ottica si osservano entrambe queste alterazioni e la diagnosi di endocardite borderline o in corso di sviluppo se esiste solo l’infiltrazione linfocitaria. Nella miocardite-prototipo, quella da coxsackie B, si ha infiammazione diffusa con infiltrati linfomonocitari nel connettivo interposto fra le travate di cellule miocardiche; una parte di queste va incontro a necrosi, non tanto all’inizio della malattia per azione diretta del virus, quanto nelle settimane successive per reazione immunitaria cellulo-mediata. Frequente è una piccola partecipazione pericardica. La guarigione è associata a fibrosi, di entità proporzionale all’estensione della necrosi. Infiltrati, edema e ne-
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crosi riducono la compliance miocardica e la sofferenza metabolica dei miociti esita in riduzione della contrattilità. Per questo si ha insufficienza cardiaca nei casi gravi, comparsa di disturbi di conduzione, se viene interessato il tessuto specifico, comparsa di aritmie ipercinetiche (che sono possibili finché il processo non sia completamente esaurito). È da rilevare che la miocardite è spesso asintomatica, anche se è una causa importante di morte improvvisa in adulti di meno di 40 anni di età (circa il 20% dei casi), ed è comune che venga riconosciuta soltanto ad esami autoptici. In pratica si pone diagnosi di miocardite quando, nell’ambito di una malattia infettiva, o durante la convalescenza, o in altre circostanze notoriamente associate con miocardite, compaiono segni di interessamento cardiaco. Questi sono variabilissimi come qualità ed entità: si va da una semplice tachicardia non giustificata dall’entità della febbre, a spossatezza, ad aritmie di ogni tipo, a dilatazione acuta o subacuta del cuore con eventuale comparsa di soffi da insufficienza valvolare (specie mitralica), a un franco scompenso cardiaco. Bisogna fare attenzione a segni anche modesti e praticare un ECG, che dimostra quasi sempre delle anormalità (più spesso a carico del tratto ST e della T, a volte anche del QRS, o aritmie). In caso di anormalità manifeste, si approfondirà la diagnosi con Rx, ecocardiogramma, ecc. Si eseguiranno anche prelievi per accertare il titolo di anticorpi anti-coxsackie B nel siero (ha valore un aumento di 4 volte del titolo in 15 giorni). La diagnosi è importante, perché solo quando ogni segno di miocardite sarà scomparso, il paziente potrà riprendere la vita normale; fino a quando esiste infiammazione c’è rischio, specie sotto sforzo, di aritmie anche mortali. In gran parte dei casi la miocardite guarisce in 4-6 settimane. In un numero imprecisato di casi però (senza rapporto evidente con la gravità della miocardite, che spesso passa del tutto inosservata), si pensa che questa si converta in cardiomiopatia dilatativa “idiopatica”. Raramente la malattia infiammatoria ha decorso protratto o cronico; in questo caso va seguita con biopsie del miocardio. La terapia delle miocarditi è basata, prima di tutto, sull’adozione di misure di supporto della funzione ventricolare, come descritto nella terapia dello scompenso cardiaco, e sul trattamento dei disturbi del ritmo possibilmente associati. In passato, è stata pratica comune la somministrazione di digossina a pazienti con miocardite. Tuttavia, studi recenti in un modello murino di miocardite virale hanno dimostrato che la digossina aumenta l’espressione di citochine infiammatorie e la mortalità. Perciò, nei pazienti con questa malattia è bene che la digossina sia somministrata con cautela e a basse dosi. Dato che le conseguenze a lungo termine di una miocardite sembrano legate a processi immunopatologici, molti ritengono che una terapia immunosoppressiva possa essere utile in questa malattia. Tuttavia, studi controllati che confrontavano questa terapia (inclusa la somministrazione di gamma-globuline endovena) con un placebo non hanno dimostrato alcun effetto benefico. Perciò,
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l’immunosoppressione non dovrebbe essere usata come trattamento di routine nella terapia delle miocarditi. Diverso è il caso delle miocarditi in corso di malattie autoimmuni. In questi casi la terapia immunosoppressiva è decisamente raccomandata. Lo stesso vale per la miocardite a cellule giganti, nella quale trattamenti terapeutici immunosoppressivi hanno mostrato di alleviare la malattia e di prolungare la sopravvivenza.
CARDIOMIOPATIA DILATATIVA Il termine dilatativa sostituisce quello di cardiomiopatia congestizia (che si usava fino a qualche anno fa) perché la diagnosi è possibile anche prima che si sviluppi il quadro dell’insufficienza cardiaca. La malattia è caratterizzata da: • dilatazione del ventricolo sinistro (o di quello destro, o di entrambi) che si presenta ingrandito ma con pareti sottili; • riduzione della funzione contrattile che si evidenzia con riduzione della frazione di eiezione (che, indicativamente, è del 25% in luogo del 60% o più come di ogni altro indice di contrattilità); • assenza di motivi per ritenere che il quadro sia dovuto a cardiopatia ipertensiva, ischemica, valvolare o a difetti congeniti (come sottolineato nella premessa a questo capitolo). Questa descrizione si applica alla cardiomiopatia dilatativa idiopatica (o primitiva) che costituisce il prototipo di un gruppo di cardiomiopatie dilatative molto simili o identiche fra loro dal punto di vista del quadro clinico. Il gruppo comprende, oltre alla forma idiopatica, varie forme secondarie a causa nota o associate a malattie di altri organi o tessuti; le principali saranno elencate in seguito.
Cardiomiopatia dilatativa idiopatica Il primum movens è la perdita di efficienza contrattile da parte dei ventricoli, con riduzione della frazione di eiezione e persistenza di importante residuo telesistolico. In conseguenza di ciò i ventricoli si dilatano (aumenta il diametro delle cavità ventricolari), mentre le pareti ventricolari si ipertrofizzano ma di poco (molto meno di quanto avviene nell’insufficienza aortica per analogo sovraccarico di volume). La difficoltà di scarico in ventricoli, già quasi pieni all’inizio della diastole, fa dilatare anche gli altri. In più, è comune la presenza di trombi parietali in una o più cavità. Il quadro istologico nella forma idiopatica non è caratteristico: c’è un modico aumento del connettivo interstiziale; le cellule miocardiche hanno alcuni caratteri che ricordano le cellule ipertrofiche, ma non sono aumentate di diametro perché sono assottigliate dalla distensione delle cavità; non ci sono infiltrati infiamma-
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tori significativi. Al microscopio elettronico si notano segni non specifici di sofferenza cellulare. A. Eziologia. Si pensa che il quadro clinico della cardiomiopatia dilatativa sia la conseguenza ultima di un danno grave e diffuso della funzionalità del miocardio. Il danno può essere conseguenza dell’azione di fattori svariati, che sono spesso noti nelle forme secondarie (per es., fattori tossici nella forma alcolica, accumulo di ferro endocellulare nell’emocromatosi, carenza di fosfati nell’ipofosfatemia, fenomeni infiammatori nelle malattie immunopatologiche), ignoti nella forma idiopatica. Quest’ultima viene diagnosticata quando manca un’ipotesi eziologica ragionevole e probabilmente non tutti i casi hanno la stessa eziologia. Si ritiene però, pur senza prove definitive, che la maggior parte dei casi “idiopatici” derivi da un processo autoimmune. Vi sono vari studi che appoggiano questo punto di vista. Infatti, in pazienti affetti da cardiomiopatia dilatativa sono stati individuati nel sangue vari autoanticorpi. Tra questi, tuttavia, non sono stati trovati quelli anti-nucleo e altri che sono comunemente rilevati nelle connettiviti sistemiche. Questa abbondanza di autoanticorpi nella cardiomiopatia dilatativa primitiva non significa che tutti siano patogenetici. Potrebbe solo significare che la cardiomiopatia dilatativa è l’evoluzione di una miocardite autoimmune nella quale, oltre ai ben noti meccanismi di immunità cellulare, sono implicati anche meccanismi di immunità umorale. È possibile che alcuni di questi anticorpi (anti-miosina? Anti-recettori adrenergici 1?) abbiano un ruolo nella patogenesi della malattia e che altri significhino solamente che il soggetto ha una propensione a sviluppare autoimmunità. Potrebbe anche darsi che queste reazioni umorali siano l’epifenomeno di un processo di immunità cellulare diretto contro antigeni differenti rispetto a quelli riconosciuti dagli autoanticorpi. L’alterazione anatomo-patologica propria della cardiomiopatia dilatativa, dominata dalla fibrosi, non è di aiuto per giudicare sull’origine autoimmune di questa malattia. Deve essere ricordato che esistono argomenti per ammettere che almeno alcune forme di cardiomiopatia dilatativa primitiva abbiano una base genetica. Sono stati selezionati ceppi di topi nei quali la mutazione di determinati geni comporta una cardiomiopatia di questo tipo. La mutazione del gene che codifica la proteina distrofina (che lega il citoscheletro di actina alla matrice extracellulare) provoca la morte dei miociti cardiaci e la cardiomiopatia dilatativa legata al cromosoma X in giovani uomini con distrofia muscolare di Duchenne. Mutazioni di altri geni collegati alla sintesi di glicoproteine associate alla distrofina possono pure provocare cardiomiopatia dilatativa nell’uomo. È importante il fatto che in uno studio prospettico quasi un terzo dei familiari asintomatici di pazienti con cardiomiopatia dilatativa mostrava segni ecocardiografici di disfunzione ventricolare sinistra. È perciò possibile che in questa malattia i fattori genetici abbiano più importanza di quanto si è finora pensato. Tuttavia, è probabile che, nella maggior parte dei casi, l’influenza dei geni non sia diretta, ma che invece costituisca un fattore predisponente all’effetto nocivo di altri meccanismi. Infatti, i già citati autoanticorpi si trovano
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più frequentemente tra i parenti di primo grado di pazienti con cardiomiopatia dilatativa primitiva che nella popolazione generale. Mediante tecniche di ibridizzazione degli acidi nucleici, è stato osservato che in una metà dei casi studiati (alcune decine) il miocardio conteneva frammenti di genoma di virus coxsackie. La scoperta fornisce un’alternativa all’ipotesi autoimmune per spiegare l’eziopatogenesi della cardiomiopatia dilatativa idiopatica: essa potrebbe essere conseguenza di un’infezione virale persistente. In alcuni individui la miocardite virale potrebbe non esitare, come di norma, in completa eliminazione dei virus. Questi, essendosi in qualche modo modificati, persisterebbero nelle cellule (senza ucciderle). A questa variazione funzionale dei virus dovrebbe essere necessariamente associato un altro fenomeno: mancanza di espressione sulla superficie delle cellule infettate di antigeni derivati dai virus, altrimenti i linfociti T citotossici e le cellule naturali killer li distruggerebbero. I virus modificati, che potrebbero anche propagarsi in modo diretto da cellula a cellula senza essere notati dal sistema immunitario, di tanto in tanto potrebbero però riacquisire patogenicità: il fatto si tradurrebbe di volta in volta in morte di poche cellule: troppo poche per dar luogo a manifestazioni cliniche o anche solo istologiche evidenti; ma abbastanza per determinare, col tempo, distruzione progressiva del parenchima. È però necessario sottolineare che, se esistono molti esempi noti di infezione virale persistente con riaccensioni, i virus coinvolti sono dotati di caratteristiche biologiche molto diverse da quelle dei coxsackie. Riassumendo: il quadro clinico della cardiomiopatia dilatativa può essere determinato da molte cause note, o costituire una delle manifestazioni di svariate malattie sistemiche; oppure non ha causa apparente. In questa ultima eventualità la causa rimane ignota perché non sono state fatte indagini sufficienti, o perché non esistono al giorno d’oggi indagini capaci di evidenziarla. È verosimile che la maggior parte dei casi in cui ciò avviene abbiano avuto un’infezione persistente, ovvero inusualmente esitata in una gravissima malattia autoimmune. B. Clinica. La malattia insorge subdolamente, all’inizio senza sintomatologia soggettiva; un esame fisico evidenzierà ingrandimento del cuore, III o IV tono. L’ecocardiogramma dimostra dilatazione delle cavità cardiache e dimostra che le pareti ventricolari sono sottili e ipocinetiche in ogni punto (mentre nella cardiopatia ischemica l’ipocinesia è segmentale, in corrispondenza delle zone ischemiche). Con il progredire del processo compaiono i sintomi soggettivi e i segni obiettivi dell’insufficienza cardiaca (sinistra, destra o globale) eventualmente arricchiti da: a) insufficienza mitralica relativa; b) disturbi della conduzione interventricolare (blocchi di branca); i relativi reperti si aggiungono ai segni elettrocardiografici di ipertrofia-dilatazione del ventricolo sinistro e ad alterazioni non specifiche del tratto ST e dell’onda T; c) presenza di aritmie, in particolare extrasistolia ventricolare o fibrillazione atriale (da distensione degli atri); d) embolie sistemiche o polmonari; e) dolore toracico, forse secondario a spasmo di piccoli rami coro-
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narici. In presenza di una sindrome anginosa è opportuna una coronarografia, che dimostrerà che le coronarie extramurali sono integre. Altro esame non routinario che è indicato in questi pazienti è la biopsia del miocardio. Questa serve a distinguere la cardiomiopatia dilatativa idiopatica (il reperto che si trova è stato descritto in precedenza) da forme di miocardite a decorso cronico, di cardiomiopatia secondaria non sospettata o nelle quali il quadro istologico è molto diverso. La maggioranza dei pazienti muore entro due-tre anni dall’inizio dei sintomi per insufficienza cardiaca incontrollabile. Il trattamento è quello dello scompenso ma ha poco successo: la sola risorsa a lungo termine è il trapianto cardiaco. Attualmente la cardiomiopatia dilatativa (idiopatica) è la causa più frequente di trapianto.
Cardiomiopatie dilatative secondarie Le forme cliniche principali sono le seguenti. A. Cardiomiopatia alcolica. Relativamente comune nei grandi bevitori. Il quadro è indistinguibile da quello della forma idiopatica, ma mentre quest’ultima è inesorabilmente progressiva, la cardiomiopatia alcolica si arresta e può regredire se il paziente sospende completamente e definitivamente l’ingestione di alcolici. Si noti che la cardiomiopatia alcolica è diversa dalla cardiopatia da beri-beri, pure non rara negli alcolisti; in quest’ultima la gettata cardiaca è elevata e le resistenze periferiche sono basse, da cui il quadro clinico di scompenso ad alta gettata. B. Cardiomiopatia peripartum. Si sviluppa durante l’ultimo mese di gravidanza o nei primi mesi dopo il parto, specialmente in pluripare di oltre 30 anni. L’eziologia è sconosciuta. Nella maggior parte dei casi lo scompenso regredisce dopo mesi, con ritorno del cuore a volume normale o con persistenza delle dilatazioni. Nel secondo caso una gravidanza successiva è di solito fatale, nel primo caso la sintomatologia imprevedibilmente si ripresenta o meno. C. Cardiomiopatie nelle malattie neuromuscolari. Nella distrofia muscolare progressiva di Duchenne, in cui vi sono alterazioni congenite del miocardio che determinano tipicamente alte R, con rapporto R/S maggiore di 1 in V1, V2, si sviluppa a un certo punto una cardiomiopatia dilatativa incontrollabile. In altre malattie del gruppo (distrofia miotonica, distrofie segmentali) ciò avviene più raramente. In alcune forme viene elettivamente compromesso il tessuto di conduzione, con comparsa di blocchi. D. Cardiomiopatie da farmaci. Tipica è la forma da derivati dell’antraciclina (specie adriamicina) che insorge per azione tossica dose-dipendente. Sono stati anche descritti parecchi casi da antidepressivi triciclici, fenotiazine, emetina, litio, propellente per aerosol, irradiazione.
E. Cardiomiopatie secondarie a malattie sistemiche o di altri organi e tessuti. Quadri cardiaci simili a quello tipico, con qualche variante da caso a caso e con prognosi riferibile alla malattia principale, sono relativamente comuni nella maggior parte delle cosiddette malattie del connettivo e in presenza di tumori (Tab. 8.1). In tutte queste forme si ha il quadro clinico della cardiomiopatia dilatativa, con scompenso, quando il miocardio è diffusamente interessato, mentre in una fase meno avanzata il pericolo maggiore è rappresentato da possibili aritmie. Queste sono frequente causa di morte, particolarmente nella sclerosi sistemica progressiva.
CARDIOMIOPATIA IPERTROFICA Questa forma di cardiomiopatia è caratterizzata da un’importante ipertrofia del ventricolo sinistro, che non è associata a dilatazione (la cavità ventricolare è anzi piccola) e non è associata ad alcuna delle condizioni che notoriamente producono ipertrofia ventricolare sinistra, come l’ipertensione arteriosa o la stenosi aortica. In un’elevata percentuale di casi l’ipertrofia è più spiccata a livello del setto interventricolare, soprattutto della parte alta di questo, meno a livello delle pareti libere (ipertrofia asimmetrica). La contrazione del miocardio è molto valida, con una frazione d’eiezione superiore alla norma (70-90%). La principale conseguenza di questa condizione di ipertrofia è costituita dal fatto che la compliance del ventricolo sinistro è ridotta, vale a dire che il ventricolo è rigido, non cedevole. Inoltre, come si è detto, la cavità ventricolare è relativamente piccola. Da ciò deriva aumento della pressione che deve esercitare l’atrio sinistro per spingere sangue nel ventricolo sottostante. Questo fatto determina grave difficoltà ad aumentare la gettata quando il paziente compie sforzi e conseguentemente: • dispnea da sforzo; • lipotimie o sincopi da sforzo; • dilatazione dell’atrio sinistro e stasi che, alla lunga, si ripercuote sul circolo polmonare. L’insufficiente rilasciamento diastolico del ventricolo è inoltre causa frequente di angina pectoris, per ostacolo al flusso intramurale del sangue arterioso coronarico. Una seconda – anche se meno importante – caratteristica di questa cardiomiopatia è costituita dalla possibilità che, data l’ipertrofia massiva della parte alta del setto, si costituisca in sistole una sporgenza a livello subaortico (qualche volta la sporgenza c’è anche a destra, a livello subpolmonare), capace di ostacolare l’efflusso di sangue durante la sistole. In realtà l’eventuale ostacolo è dato dal sommarsi della sporgenza con un caratteristico spostamento in avanti della valvola mitralica (SAM) che si addossa al setto, e al piccolo volume della cavità ventricolare; per questo si parla di entità dinamica nel senso che l’ostruzione varia di entità in numerose circostanze. L’ostruzione aumenta se
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8 - CARDIOMIOPATIE E MIOCARDITI
aumenta la contrattilità (di qui controindicazione della digitale, dell’isoproterenolo, dello sforzo estremo) e se si riduce il volume della cavità (come avviene per diminuzione del ritorno venoso, se il paziente si mette improvvisamente in stazione eretta), o se diminuiscono le resistenze a valle (come avviene con la tachicardia o con la somministrazione di vasodilatatori o diuretici). Una terza, importante caratteristica della malattia, è la frequenza di aritmie, in particolare fibrillazione atriale (che è seguita da un rapido scompenso cardiaco), sindromi di pre-eccitazione, aritmie ventricolari gravi, che inducono morte improvvisa nel 50% dei casi. A. Eziopatogenesi. Nella maggioranza dei casi la forma è ereditaria come carattere dominante autosomico: i parenti stretti asintomatici presentano forme fruste della malattia. Negli altri casi non vi è familiarità. I casi con familiarità hanno, molto più spesso dei casi sporadici, ipertrofia asimmetrica, spesso con ostruzione e un caratteristico reperto istologico: le fibre miocardiche, specie nel setto, invece di essere più o meno regolarmente allineate, sono tipicamente “scompigliate”. Questo reperto istologico non è specifico ma indica un adattamento dell’architettura miocardica a condizioni di contrazione anormali che esistono già in uno stadio precoce dello sviluppo. Quanto al difetto che sta alla base della cardiomiopatia, si possono fare solo delle ipotesi sostenute da dati sperimentali non definitivi; in sostanza si pensa a un’eccessiva stimolazione catecolaminica o a un eccesso di Ca++ entro le cellule (in entrambi i casi si ha ipercontrattilità). B. Clinica. La sintomatologia e la compliance sono già state discusse. L’esame obiettivo è caratteristico nelle forme con ostruzione, più sfumato nelle altre. L’impulso apicale è doppio o triplo, si apprezza un polso carotideo che sale rapidamente ed è spesso doppio, si ha un IV tono; il reperto più comune e tipico è un soffio di eiezione in crescendo-decrescendo, che comincia abbastanza in ritardo rispetto al I tono e che ha il massimo di intensità in III-IV spazio, sulla parasternale sinistra, ma che si sente bene anche alla punta. In questa sede gli si somma un soffio olosistolico nei rari casi in cui si ha anche insufficienza mitralica. L’ECG mostra segni vistosi di ipertrofia ventricolare sinistra, spesso associati a Q pseudoinfartuali (dovute alla anormale distribuzione della massa settale) e ad aritmie. La Rx del torace mostra un cuore normale o leggermente ingrandito, con aorta ascendente non dilatata. Essenziale è l’ecocardiogramma, che dimostra uno spessore del setto fortemente aumentato e maggiore di quello della parte posteriore; nelle forme con ostruzione ci sono in più il SAM e chiusura precoce delle valvole aortiche. C. Prognosi. Il decorso è difficilmente prevedibile. La morte improvvisa colpisce più spesso i pazienti asintomatici che quelli sintomatici.
CARDIOMIOPATIA RESTRITTIVA Sono caratterizzate dal fatto che le pareti ventricolari sono aumentate di consistenza, così da aver perso la normale compliance: esse, quindi, non si dilatano durante la diastole, ostacolando il riempimento del ventricolo destro, di quello sinistro, o di entrambi i ventricoli. L’aumento di consistenza può derivare da fibrosi estesa del miocardio, da ipertrofia massiva, da infiltrazione del miocardio da parte di sostanze estranee (amiloidosi, emocromatosi, glicogenosi, neoplasie), oppure da un massiccio ispessimento dell’endocardio. In quest’ultimo caso la cavità ventricolare è rimpicciolita e parzialmente obliterata da connettivo fibroso e spesso anche da trombi endocavitari. Anche la contrazione può essere compromessa, ma l’anormalità essenziale è a carico della diastole, con forte aumento della resistenza al riempimento e riduzione della capacità dei ventricoli. Clinicamente i segni più appariscenti derivano dalla difficoltà di riempimento del ventricolo destro, con conseguente ipertensione venosa sistemica. Di qui giugulari turgide, epatomegalia, edemi, ascite. La pressione delle giugulari non si abbassa con l’inspirazione, può anzi aumentare (segno di Kussmaul). L’itto della punta si palpa di solito normalmente, e questo può essere criterio differenziale dalla pericardite costrittiva. I toni cardiaci sono di bassa intensità, spesso vi sono III e IV tono. L’ecocardiogramma mostra pareti ventricolari ispessite in modo simmetrico, con funzione sistolica normale o lievemente diminuita. Esso dimostra inoltre che non vi è pericardite. La Rx del torace mostra un cuore di volume leggermente aumentato e assenza di calcificazioni. Il cateterismo cardiaco dimostra che il grafico della pressione diastolica nei due ventricoli ha una caratteristica forma a radice quadrata (“dip” iniziale subito seguito da plateau), che le pressioni telediastoliche sono alte, che la gettata è bassa. L’ECG mostra basso voltaggio del QRS, alterazioni non specifiche di ST e T, aritmie. In corso di interessamento prevalente o isolato del ventricolo sinistro, il quadro è invece dominato dalla congestione polmonare. In tutti i casi possono essere coinvolte dal processo le valvole atrioventricolari, con relativa sintomatologia, e sono frequenti le embolie. I malati devono essere studiati a fondo, in primo luogo per distinguere se si tratta di cardiomiopatia restrittiva o di pericardite costrittiva (distinzione che può essere difficile), in secondo luogo per identificare la causa della cardiomiopatia: per questo è spesso utile la biopsia del miocardio. Il quadro clinico della cardiomiopatia restrittiva si riscontra nella fibrosi endomiocardica, malattia relativamente comune in certe regioni dell’Africa, e nella malattia endomiocardica di Loeffler, malattia rara ma presente anche nei nostri climi. La malattia di Loeffler è da considerare come una variante clinica con preminente interessamento cardiaco della sindrome ipereosinofila. Questa comprende manifestazioni cliniche a carico di
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vari organi o apparati, associate a un’ipereosinofilia persistente (1600 eosinofili/mm3 o più, per almeno 6 mesi) ed è descritta nel capitolo 19. La malattia endomiocardica di Loeffler inizia con una miocardite acuta, con reperto istologico di infiltrati cellulari ricchi di eosinofili e presenza quasi costante di trombi murali. In seguito si sviluppano fibrosi del miocardio e dell’endocardio, mentre scompaiono gli eosinofili. Dato che il quadro tardivo della malattia è uguale a quello della fibrosi endomiocardica, molti ritengono che le due malattie siano in realtà una sola. Per ragioni non spiegate, nella fibrosi endomiocardica mancherebbe la fase di malattia acuta iniziale (con febbre, rash cutanei, segni generali). Negli ultimi anni la malattia di Loeffler è stata interpretata come una malattia da ipersensibilità e si è visto che gli eosinofili, che sono anormalmente “attivati”, secernono sostanze cardiotossiche. Per questo si è cominciato a trattare i pazienti con cortisonici e immunosoppressori, modificando la prognosi di soprav-
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
vivenza: era in media di 1 anno, adesso è di oltre 5 anni; anzi, il 50% dei casi ha una remissione di durata indefinita. Il quadro della cardiomiopatia restrittiva è anche presente: • nella fibroelastosi endocardica dell’infante, caratterizzata da ispessimento massiccio dell’endocardio, che è ricchissimo di fibre elastiche; • nel quadro di un’amiloidosi (spesso nell’amiloidosi primaria, raramente nelle forme secondarie); l’amiloide infiltra massivamente l’interstizio fra le travate di miocardio, sicché le pareti ventricolari sono spesse e rigide; l’ECG dimostra caratteristicamente basso voltaggio (QRS inferiore a 5 mm in tutte le derivazioni periferiche, inferiore a 10 nelle precordiali); in fase conclamata, segni di stasi sistemica; • in una parte dei soggetti con sarcoidosi, emocromatosi, glicogenosi, mucopolisaccaridosi e neoplasie, in cui depositi estranei o granulomi o l’infiltrazione cellulare irrigidiscono le pareti del cuore.
C A P I T O L O
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ENDOCARDITI C. RUGARLI
Il termine endocardite indica un’infiammazione dell’endocardio che può interessare soprattutto, ma non esclusivamente, i lembi valvolari. Le cause di questa infiammazione possono essere infettive, immunologiche, o direttamente rappresentate da traumatismi esercitati dalla corrente sanguigna sull’endocardio. L’endocardite infettiva configura un’entità clinica autonoma, mentre le rimanenti endocarditi si inscrivono nel quadro clinico di altre malattie, nelle quali l’endocardite è un caso particolare dell’interessamento di vari organi e apparati.
ENDOCARDITE INFETTIVA A.
Il termine endocardite infettiva è più appropriato di quello, pure impiegato frequentemente, di endocardite batterica. Infatti, pur essendo i batteri gli agenti eziologici più comunemente implicati in questa malattia, il processo morboso può essere determinato anche da miceti. L’endocardite infettiva è caratterizzata dalla localizzazione all’endocardio, e per lo più sui lembi valvolari, di microrganismi, che anche se di per sé poco patogeni, i poteri di difesa dell’organismo non sono in grado di eliminare (Fig. 9.1). Per questo motivo si verificano un danno delle strutture valvolari e la persistente immissione in circolo di microrganismi, con prolungata stimolazione del sistema immunitario. Questa stimolazione è responsabile di molti dei sintomi e dei segni propri della malattia. Se non adeguatamente trattata, l’endocardite infettiva è mortale. Anche se i soggetti potenzialmente suscettibili all’endocardite infettiva sono molti, la malattia è relativamente rara.
Classificazione Una classificazione tradizionale distingue due forme di endocardite infettiva: acuta e subacuta.
B. B.
Figura 9.1 - Vegetazioni sulle valvole cardiache in corso di endocardite infettiva. A. Sulle semilunari aortiche, una delle quali è perforata. B. Sulla valvola mitrale.
Secondo questa distinzione, l’endocardite infettiva acuta è provocata da microrganismi virulenti, invasivi, che si impiantano anche su valvole cardiache sane, ove esercitano notevoli processi distruttivi. La immissione in circolo di questi microrganismi provoca frequentemente focolai infettivi metastatici in varie sedi. La durata della malattia, senza terapia, è di giorni o settimane. Anche con terapia appropriata la mortalità resta superiore al 50%.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
L’endocardite infettiva subacuta è invece provocata da microrganismi poco virulenti e non invasivi, che praticamente si fissano solo su valvole cardiache già lese da precedenti processi patologici. A causa della scarsa virulenza dei microrganismi, la loro immissione in circolo difficilmente dà luogo a focolai infettivi metastatici, mentre prevalgono gli effetti della prolungata stimolazione del sistema immunitario. La durata della malattia, senza terapia, va da alcuni mesi fino a 1-2 anni. Con terapia appropriata si ha una frequenza elevata di guarigione. Questa distinzione non è più corrispondente alla realtà clinica comune. L’impiego precoce di antibiotici, se pure non a dosi sufficienti per una terapia efficace dell’endocardite infettiva, fa sì che, anche quando sono in causa microrganismi virulenti e invasivi, il quadro della malattia sia spostato verso quello proprio della forma subacuta. Perciò al giorno d’oggi, quest’ultima è la variante di endocardite di gran lunga più frequente, anche se esistono casi nei quali la malattia ha un’espressione che è a metà tra i due quadri tipici. Una classificazione più appropriata dell’endocardite infettiva è perciò basata sull’agente eziologico che l’ha prodotta.
Eziologia Numerosi microrganismi possono provocare l’endocardite infettiva. Essi sono per lo più derivati dal cavo orale e dalle alte vie aeree, dalla cute, dal colon, dall’apparato urogenitale. Il loro passaggio in circolazione è favorito da manovre, quali interventi odontoiatrici anche modesti, traumatismi cutanei anche banali (come nel caso di drogati da aghi per iniezione usati con scarsi accorgimenti igienici, o nella pratica medica da cateteri venosi mantenuti troppo a lungo in sede), indagini endoscopiche a livello del retto o del colon, cateterismi delle vie urinarie, raschiamenti uterini, inserimento di contraccettivi del tipo degli IUD (Intra Uterine Devices). Tuttavia, nella maggioranza dei casi di endocardite infettiva non si riesce ad individuare un fattore esogeno determinante la batteriemia (la stessa masticazione può provocare batteriemia in condizioni difettose di igiene del cavo orale). La tabella 9.1 elenca in forma sommaria gli agenti eziologici di endocardite infettiva. Per quanto la lista sia lunga, si può vedere che nel 60-80% dei casi sono implicati degli streptococchi poco patogeni. In era preantibiotica gli agenti eziologici erano, nella stragrande maggioranza dei casi, rappresentati da streptococchi del tipo viridans (ossia -emolitici), di solito provenienti dal cavo orale o dal faringe. Oggi la prevalenza di queste infezioni è diminuita e viene stimata inferiore al 50% di tutti i casi di endocardite infettiva, mentre sono aumentate le endocarditi da altri streptococchi, tra i quali particolarmente importanti lo S. faecalis (enterococco) e lo S. bovis, provenienti più spesso dall’intestino, dalle vie urinarie e dalle vie genitali femminili. Questi microrganismi hanno attitudine ad infettare valvole cardiache già precedentemente lese.
Tabella 9.1 - Agenti eziologici di endocardite infettiva. MICRORGANISMI • Streptococchi poco patogeni S. viridans S. faecalis S. bovis Altri streptococchi microaerofilici e di gruppo D • Stafilococchi S. aureus (1) S. epidermidis (2) • Altri microrganismi Streptococchi -emolitici di gruppo A (1) S. pneumoniae (1) N. gonorrhoeae (1) Brucelle (1) Enterici Gram– (1)(2) Funghi (2) – Candida – Aspergillus – Altri Rickettsie – Coxiella burneti (1) – Chlamydia psittaci
PREVALENZA APPROSSIMATIVA 60-80%
10-30%
10%
(1) Capacità significativa di infettare valvole sane. (2) Più frequenti in drogati e portatori di protesi valvolari.
Gli stafilococchi vengono al secondo posto come causa di endocardite infettiva e la loro provenienza è solitamente dalla cute (perciò sono una comune causa di endocardite nei drogati). Lo Staphylococcus aureus, che è notevolmente patogeno, può infettare anche valvole assolutamente integre (allora il quadro della malattia somiglia di più a quello descritto per la variante acuta), mentre lo Staphylococcus epidermidis colpisce più facilmente portatori di protesi valvolari. Rare sono invece le endocarditi da tutti gli altri microrganismi elencati nella tabella 9.1. Esse possono verificarsi come complicanza della malattia fondamentale (angina da streptococco -emolitico di gruppo A, polmonite da Streptococcus pneumoniae, gonorrea, brucellosi, febbre Q, psittacosi), ma gli agenti eziologici possono penetrare in circolo nella maniera già descritta, indipendentemente da altra patologia, per lo più attraverso la cute o le mucose. Tra questi ultimi, gli enterici Gram– e i funghi microscopici prevalgono tra i drogati e i portatori di protesi valvolari (a somiglianza dello Staphylococcus epidermidis). Molti di questi microrganismi possono insediarsi su valvole precedentemente sane.
Fattori di localizzazione Perché l’endocardite infettiva possa iniziarsi, occorre che i microrganismi si attacchino all’endocardio. Solo i microrganismi più virulenti possono farlo direttamente su cellule endoteliali integre, mentre quelli meno virulenti possono farlo solo se trovano delle circostanze favorevoli alla loro fissazione. Queste si verificano quando le cellule endoteliali vengono danneggiate e, in con-
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seguenza di questo danneggiamento, si ha la deposizione sull’endocardio di piastrine con o senza fibrina. I fattori meccanici che possono condurre a questo danneggiamento endoteliale sono stati studiati da Rodbard, il quale ha dimostrato che la condizione più propizia perché si verifichi questo processo e si abbia la fissazione di microrganismi sull’endocardio è rappresentata da un getto ematico spinto da una pressione elevata che, attraverso un orifizio ristretto, si riversi in una camera cardiaca a pressione bassa. Una condizione di questo tipo si può verificare, per esempio, in certi vizi valvolari. Nell’insufficienza mitralica, il getto è rappresentato dal sangue che rigurgita in sistole nell’atrio sinistro; nell’insufficienza aortica, dal sangue che rigurgita nel ventricolo sinistro in diastole; nella pervietà interventricolare, dal sangue che passa in sistole dal ventricolo sinistro (a pressione elevata) in quello destro (a pressione bassa). In tutti questi casi gli esperimenti di Rodbard hanno dimostrato che, a causa del flusso vorticoso, si ha un danno endoteliale, e una conseguente adesione dei microrganismi, immediatamente a valle dell’orifizio ristretto attraverso cui passa il getto ematico e, subordinatamente (localizzazione satellite), sulle strutture che sono investite direttamente dal getto ematico. Perciò, per restare agli esempi precedenti, nell’insufficienza mitralica la localizzazione delle lesioni avverrà preferibilmente sulla faccia atriale dei lembi valvolari e (localizzazione satellite) sulla parete dell’atrio sinistro; nell’insufficienza aortica avverrà sulla faccia ventricolare delle semilunari aortiche e (localizzazione satellite) sulle corde tendinee del ventricolo sinistro; nella pervietà interventricolare avverrà sul lato destro del setto interventricolare e (localizzazione satellite) sulla valvola tricuspidale e sulla parete opposta al setto del ventricolo destro. È importante tenere presente che, in assenza di batteriemia, in queste sedi di traumatismo endocardico possono episodicamente aversi piccoli depositi di piastrine, che però sono destinati a dissolversi rapidamente senza conseguenze. È solo quando alla deposizione di piastrine segue la fissazione di microrganismi che si innesca un processo irreversibile che conduce alla lesione tipica dell’endocardite infettiva. Il deposito di piastrine sull’endocardio è indispensabile per fornire ai microrganismi un punto di aggancio. Ma, una volta che i microrganismi si sono fissati, essi danneggiano ulteriormente l’endocardio amplificando la formazione del trombo e favorendo così, nel suo contesto, un ambiente adatto alla colonizzazione microbica. Da quanto fin qui detto risulta evidente che esistono fattori predisponenti allo sviluppo di un’endocardite infettiva. Essi sono infatti rappresentati da quelle anomalie cardiache acquisite o congenite (tra le quali i vizi valvolari) che creano le condizioni adatte alla fissazione dei microrganismi all’endocardio. I soggetti che presentano queste anomalie sono a rischio, mentre coloro che hanno un cuore integro lo sono molto meno e solamente nei riguardi di microrganismi molto virulenti. Nel passato circa il 90% dei casi di endocardite infettiva si verificava in soggetti con valvulopatie reumatiche e più spesso con malattie della valvola mitrale. Oggi, grazie alla diminuita
prevalenza della malattia reumatica, una valvulopatia acquisita di questo tipo si trova in meno della metà dei casi, mentre si riconoscono sempre più spesso endocarditi infettive che si sovrappongono a lesioni valvolari degenerative negli anziani, di solito a carico delle semilunari aortiche (più facili in caso di valvola bicuspide), ma anche possibili a livello dell’anulus della valvola mitrale. Anche le cardiopatie congenite possono predisporre all’endocardite infettiva. Tra queste ultime, il massimo di rischio si ha nella pervietà interventricolare e il minimo nella pervietà interatriale (anzi, in questa il rischio sembra nullo se non coesiste un’alterazione della valvola mitrale). Attualmente la più comune diagnosi di alterazione cardiovascolare riconosciuta come fattore predisponente all’endocardite infettiva è il prolasso della mitrale. Ciò dipende dall’elevata frequenza di questa condizione nella popolazione generale. Un rischio significativo sarebbe collegato anche con la persistenza del dotto di Botallo (e in questo caso la malattia viene definita “endocardite” in un senso lievemente improprio), se questa anomalia non venisse di solito corretta chirurgicamente piuttosto precocemente. Un altro fattore predisponente importante è la presenza, in contiguità con l’endocardio, di materiale estraneo, come avviene nei portatori di protesi valvolari. Un problema particolare riguarda i tossicomani da eroina i quali, oltre ad essere a rischio di endocardite per i ripetuti traumatismi cutanei da iniezione, possono anche sviluppare lesioni predisponenti all’endocardite a causa delle sostanze adulteranti che vengono mescolate alla droga. Si stima, infatti, che solo il 10% circa delle dosi iniettate sia formato da eroina, mentre il rimanente sia largamente rappresentato da lattosio e amido. L’iniezione endovenosa di questi contaminanti può ledere l’endocardio delle sezioni destre del cuore (le prime che vengono raggiunte dalla sede di iniezione) e creare le condizioni predisponenti alla fissazione di microrganismi. Per questo motivo l’endocardite infettiva nei drogati colpisce più facilmente la valvola tricuspide. Accanto a questi fattori predisponenti di natura meccanica, ne esistono altri di natura più propriamente biologica che è però difficile quantificare. Questi ultimi sono connessi con la risposta immunitaria dell’organismo che, anziché proteggere dalla malattia, sembra in questo caso favorirla, probabilmente perché i microrganismi parzialmente agglutinati dagli anticorpi si fissano più facilmente sull’endocardio. Si spiegherebbe in tal modo perché gli agenti più comuni di endocardite infettiva siano per lo più microrganismi largamente diffusi nell’ambiente, che hanno occasione di stimolare il sistema immunitario praticamente di tutti gli individui.
Meccanismi patogenetici La lesione elementare dell’endocardite infettiva è rappresentata da una vegetazione costituita da piastrine e fibrina, adesa da un lato all’endocardio e per il resto sporgente in una cavità cardiaca. Il volume della vege-
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tazione è per lo più modesto, ma in certi casi, particolarmente quando l’endocardite è provocata da miceti, può essere tanto grande da interferire con il passaggio del sangue attraverso la valvola colpita. Questa vegetazione costituisce un ottimo habitat per i microrganismi, i quali vi si possono moltiplicare in una situazione relativamente protetta rispetto all’azione delle cellule fagocitiche e degli anticorpi. Infatti, gli strati subendocardici, e particolarmente i lembi valvolari, non sono forniti di capillari e perciò le cellule fagocitiche (neutrofili, monociti) non possono concentrarvisi come fanno solitamente in altre sedi anatomiche quando esiste una localizzazione infettiva. D’altro canto, le stratificazioni di piastrine e di fibrina sulle vegetazioni coprono i microrganismi e li proteggono in qualche modo dall’azione degli anticorpi circolanti. È per questo motivo che, in assenza di terapia antibiotica, l’endocardite infettiva non guarisce spontaneamente. D’altro canto, la presenza delle vegetazioni cariche di microrganismi determina alcuni importanti effetti che così possiamo schematizzare: • azioni lesive locali, importanti soprattutto sui lembi valvolari; • il distacco di frammenti dalle vegetazioni che, trasportati dalla corrente sanguigna, possono provocare embolizzazione di vasi periferici; • la formazione di focolai infettivi metastatici da parte dei microrganismi veicolati dagli emboli infetti; • la persistente immissione in circolo di complessi antigene-anticorpo, nei quali l’antigene è rappresentato da prodotti microbici; • la cronica stimolazione del sistema immunitario. A. Azioni lesive locali. Sono rappresentate inizialmente dalla necrosi delle cellule endoteliali in corrispondenza della vegetazione e, successivamente, da un approfondimento dei fenomeni necrotici nel connettivo immediatamente sottostante. Si formano perciò delle lesioni cosiddette “ulcerative” che, in casi particolari, possono approfondirsi tanto da bucare da parte a parte un lembo valvolare, o da determinare il distacco di una corda tendinea, che resta perciò fluttuante nella cavità ventricolare. L’entità di queste lesioni ulcerative è dipendente dalla patogenicità del microrganismo: è perciò massima nelle più rare forme della variante “acuta”, mentre è più limitata nelle forme più comuni della variante “subacuta”, provocata da microrganismi poco patogeni. Alle volte, alla periferia delle vegetazioni possono formarsi dei veri e propri microascessi, i quali, se raggiungono l’anulus fibrosus di una valvola, possono farsi strada nella cavità pericardica determinando una pericardite. Questa evoluzione è, tuttavia, rara e si può verificare solo quando i microrganismi infettanti sono molto patogeni. Quando il processo endocarditico è localizzato alle valvole semilunari aortiche, la sua propagazione può anche danneggiare il sistema di conduzione cardiaco e determinare vari tipi di blocchi. B. Embolizzazione periferica. È più spesso determinata da frammenti molto piccoli delle vegetazioni.
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Questa microembolizzazione è sicuramente molto più comune di quanto sia clinicamente rilevabile e può provocare lesioni cutanee e mucose (si veda in seguito), retiniche e soprattutto renali sotto forma di una glomerulonefrite focale. Più rara, ma possibile, è anche la macroembolizzazione, con la conseguente comparsa di fenomeni ischemici in distretti dipendenti da vasi arteriosi periferici che risultano occlusi. Gli emboli di grosso volume sono provenienti più spesso da vegetazioni endocarditiche determinate da miceti (le quali, come si è visto, sono particolarmente grandi), ma sono possibili in qualsiasi tipo di endocardite. La loro localizzazione più comune è nella grande circolazione (dato che l’endocardite infettiva è più spesso localizzata nelle cavità sinistre del cuore), ma è possibile l’embolia polmonare quando l’endocardite è nelle cavità destre (come avviene quando il fattore favorente è la pervietà interventricolare, o nelle localizzazioni alla valvola tricuspide). C. Formazione di focolai infettivi metastatici. È una forma rara. Più spesso il fatto che i microemboli siano infetti conferisce una caratteristica infiammatoria alle lesioni periferiche determinate da questi. Solo con microrganismi molto patogeni (per esempio Staphilococcus aureus) è possibile la formazione di veri ascessi metastatici (per esempio in sede cerebrale o renale). Meno rara e più insidiosa è l’evenienza che si verifichi la lesione delle pareti di vasi arteriosi di medio calibro, o per localizzazioni metastatiche endoarteriche o per microembolizzazione infetta dei vasa vasorum. Questo determina la formazione di piccoli aneurismi (detti micotici) particolarmente importanti nella circolazione cerebrale, ove la loro rottura può portare ad emorragie subaracnoidee mortali. D. Persistente immissione in circolo di complessi antigene-anticorpo. È la caratteristica patogenetica più importante dell’endocardite infettiva nella forma più comunemente osservata al giorno d’oggi. In realtà, se anche i microrganismi non esercitano un’azione lesiva diretta particolarmente grave (sia perché scarsamente patogeni sia perché antagonizzati dalla terapia antibiotica), è inevitabile che essi riversino in circolo dei prodotti di loro derivazione e sollecitino la formazione dei corrispondenti anticorpi. In eccesso di antigene si possono formare complessi antigene-anticorpo solubili che sono trasportati con la circolazione e si depositano sulle pareti dei vasi sanguigni, determinando localmente dei fenomeni infiammatori per l’attivazione della sequenza complementare (Cap. 66). In questo processo si possono avere manifestazioni del tipo della “malattia da siero”, tra le quali meritano particolarmente di essere ricordate le artralgie (o addirittura l’artrite) e le infiammazioni delle sierose, inclusa l’evenienza che si sviluppi una pericardite. L’effetto più importante della circolazione di complessi antigene-anticorpo nell’endocardite infettiva è però la possibilità di una glomerulonefrite acuta diffusa, per la cui patogenesi si rimanda al capitolo 35. Un problema controverso è se alcune o tutte le lesioni mucocutanee e retiniche dell’endocardite infettiva,
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tradizionalmente attribuite a microembolizzazione infetta, non siano in realtà di natura “vasculitica” e determinate perciò da complessi antigene-anticorpo circolanti. In realtà i due meccanismi patogenetici non sono mutuamente esclusivi (i microemboli potrebbero veicolare microrganismi legati ai corrispondenti anticorpi). E. Stimolazione cronica del sistema immunitario. È dovuta non solamente alla risposta specifica nei confronti degli antigeni propri dei microrganismi infettanti, ma anche a sollecitazioni aspecifiche. Infatti, molti prodotti batterici stimolano la proliferazione dei linfociti B, indipendentemente dalla specificità antigenica contro cui questi sono diretti. La conseguenza è un’attivazione cosiddetta “policlonale” (perché interessa simultaneamente parecchi cloni di linfociti) della produzione anticorpale, che comporta lo sviluppo di un’ipergammaglobulinemia e la comparsa a titolo significativo di vari tipi di anticorpi non direttamente correlati con l’agente infettante: fattore reumatoide (talora con le caratteristiche di crioglobuline), anticorpi anticardiolipina (con falsa positività per le reazioni sierologiche per la sifilide), anticorpi anticuore. La formazione di questi ultimi è tuttavia favorita dal danneggiamento del miocardio dovuto all’estensione del processo endocarditico.
Clinica La forma di presentazione comune dell’endocardite infettiva è quella di un processo febbrile, di entità più o meno elevata, che risulta persistente e poco influenzato (o influenzato solo transitoriamente) da eventuali terapie antibiotiche condotte “alla cieca” in dosaggi convenzionali. Il sintomo che accompagna più frequentemente la febbre è rappresentato dalle artralgie, che possono spesso interessare uno o poche delle grandi articolazioni e talora assumere l’aspetto dell’artrite migrante. I pazienti più giovani depongono spesso di avere sofferto di malattia reumatica nell’infanzia o di aver presentato molte tonsilliti febbrili (e magari di essere stati tonsillectomizzati per questo), o di essere stati nel passato riconosciuti portatori di un “soffio” cardiaco. In altri casi il paziente è consapevole di essere portatore di un vizio congenito di cuore o di una protesi valvolare o di prolasso della mitrale. Nei pazienti più anziani questi riferimenti anamnestici spesso mancano, dato che, come si è visto, il fattore favorente l’endocardite è per lo più rappresentato da lesioni valvolari degenerative, spesso non rilevate o sottovalutate. In una minoranza dei casi, nell’anamnesi recente è deposto qualche intervento odontoiatrico o qualche altra pratica strumentale favorente la batteriemia. L’esame obiettivo dimostra una tachicardia (spesso in eccesso rispetto a quanto dovuto alla febbre) e un reperto cardiaco rappresentato da soffi di vario tipo. Nei giovani questi soffi coincidono con il reperto dei vizi valvolari deposti nell’anamnesi, negli anziani più spesso viene percepito un soffio sistolico di eiezione al focolaio aortico. La diffusione dell’impiego diagnostico
della ecocardiografia ha chiarito che possono darsi casi nei quali una vegetazione endocarditica è presente e un soffio non è percepibile. Questo avviene generalmente quando l’endocardite infettiva si sviluppa su valvole sane ed è in fase iniziale. Occorre precisare che, nella endocardite infettiva, i soffi percepiti inizialmente (e che sono dovuti ai fattori cardiaci predisponenti alla endocardite) possono modificarsi per il sopravvenire delle lesioni valvolari destruenti indotte dal processo patologico e per l’aggravamento dei vizi valvolari preesistenti o, in caso di rottura dei lembi valvolari, per l’instaurazione di vizi valvolari nuovi (per es., una insufficienza valvolare mitralica o aortica, dove prima esisteva solo una stenosi). In questo caso i soffi hanno spesso un particolare timbro musicale o sono percepiti come un “pigolio” (rumore che è stato attribuito ad una corda tendinea fluttuante libera in una cavità ventricolare). È importante ricordare che la rilevazione di un soffio cardiaco non è un reperto obbligatorio nella endocardite infettiva. Infatti nelle endocarditi del cuore destro (per es. nei drogati) e, più raramente, quando l’endocardite è localizzata in un trombo murale infetto, il reperto di un soffio può totalmente mancare. Solo raramente possono essere percepiti al cuore degli sfregamenti pericardici dovuti, come si è visto, a una pericardite indotta, o da propagazione di un focolaio infettivo o da sierosite nell’ambito di una reazione tipo “malattia da siero”. Piuttosto comunemente, nelle forme di endocardite infettiva della variante subacuta, viene constatata una splenomegalia. Se l’endocardite infettiva dura sufficientemente a lungo, si può avere una deformazione delle unghie “a vetrino d’orologio” (dita ippocratiche). Al giorno d’oggi è raro che l’esame obiettivo in una endocardite infettiva mostri molto di più di quanto precedentemente descritto. Tuttavia, il quadro classico della malattia comprende una serie di alterazioni mucocutanee e retiniche che oggi sono divenute relativamente rare, ma che meritano di essere ricordate. Le alterazioni meno infrequenti sono rappresentate da petecchie (piccoli punti rosso scuro delle dimensioni della capocchia di uno spillo che non scompaiono con la pressione) a localizzazione cutanea (ovunque sulla cute, ma soprattutto sulla porzione superiore della faccia anteriore del torace) e mucosa (palato, faringe, congiuntive). Le petecchie sottoungueali hanno una forma lineare e sono definite “a scheggia”, quelle mucose hanno spesso un centro chiaro. Più rare sono altre manifestazioni, come i noduli di Osler, le lesioni di Janeway e le chiazze di Roth. I noduli di Osler sono a localizzazione sottocutanea, del diametro di quasi un centimetro, arrossati e dolenti e si trovano più comunemente ai polpastrelli delle dita delle mani e dei piedi. Le lesioni di Janeway sono alterazioni maculari rilevate sul palmo delle mani. Le chiazze di Roth vengono rilevate all’osservazione con l’oftalmoscopio del fondo dell’occhio e consistono in emorragie retiniche con area centrale chiara. Il quadro clinico dell’endocardite infettiva può essere notevolmente aggravato dal sopravvenire di macroem-
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bolizzazione. Possono perciò verificarsi repentinamente perdita completa del visus in un occhio (occlusione embolica di un’arteria retinica), emiplegia (embolizzazione di un’arteria cerebrale), dolore, pallore e ipotermia in un arto (embolizzazione in un’arteria periferica), dolore in sede splenica (infarto splenico), dolore in sede renale seguito da ematuria macroscopica (infarto renale), dolore addominale con quadro di addome acuto (infarto mesenterico), infarto del miocardio (occlusione embolica di una coronaria). Il sopravvenire di un’emorragia subaracnoidea (rottura di un aneurisma) provoca un quadro drammatico, caratterizzato da cefalea con rigidità nucale e gravi alterazioni neurologiche, con evoluzione più spesso mortale.
Esami di laboratorio e strumentali I cosiddetti segni “di fase acuta” sono positivi e perciò si ha un aumento della velocità di eritrosedimentazione e positività per la proteina C reattiva nel siero. L’esame emocromocitometrico dimostra una leucocitosi con neutrofilia e, se il processo infettivo dura a lungo, un’anemia normocitica che è quella delle malattie croniche (infatti, si accompagna a sideremia ridotta con transferrinemia bassa; Cap. 44, Anemia delle malattie infiammatorie croniche). Un reperto caratteristico nell’endocardite infettiva è la presenza di macrofagi osservabili nello striscio di sangue, specialmente se eseguito con la prima goccia di sangue ricavata da puntura del lobo dell’orecchio. È molto comune la presenza di alterazioni del reperto urinario, che riflettono la frequente implicazione del rene nel processo morboso. Queste sono rappresentate più spesso da modesta proteinuria e microematuria. Tra gli altri esami di laboratorio, meritano di essere ricordati quelli che sono significativi di una prolungata stimolazione del sistema immunitario: ipergammaglobulinemia all’elettroforesi delle proteine del siero (frequente), positività del reuma-test in circa la metà dei casi, ma non della reazione di Waaler-Rose (Cap. 68), talora falsa positività della VDRL (reazione sierologica per la sifilide) o presenza di crioglobuline. In laboratori specializzati, possono essere messi in evidenza nel siero anticorpi anticuore in circa il 60% dei casi, complessi antigene-anticorpo circolanti nel 60-90% dei casi, e frequentemente una diminuzione dell’attività emolitica del complemento e della concentrazione della frazione C3 nel siero (segno di consumo del complemento da parte dei complessi antigene-anticorpo circolanti). La dimostrazione di batteriemia mediante emocoltura è frequentemente (ma non costantemente) positiva quando il sangue è prelevato in assenza di concomitante terapia antibiotica. Soltanto il 5-7% dei pazienti nei quali è stata formulata la diagnosi di endocardite infettiva con rigorosi criteri clinici, e nei quali non sono stati somministrati antibiotici, si presenta con emocolture sterili. Quando, in pazienti sospetti, le emocolture rimangono sterili dopo 48-72 ore, il clinico deve avvisa-
re il laboratorio della necessità di effettuare indagini più approfondite, come un’incubazione più prolungata e subculture su mezzi più arricchiti. La tecnica della “polymerase chain reaction” è stata impiegata per dimostrare microrganismi non coltivabili su vegetazioni escisse chirurgicamente, ed è una promettente possibilità per il futuro per la ricerca di agenti infettanti nel sangue nel caso di endocarditi infettive con emocolture negative. Un’indagine strumentale molto utile è rappresentata dall’ecocardiografia, che non solo è in grado di mettere in evidenza vizi valvolari preesistenti, ma anche di visualizzare direttamente le vegetazioni endocardiche. Queste ultime possono, tuttavia, sfuggire a questo tipo di indagine se hanno un diametro inferiore a 2 mm. Esistono casi nei quali una vegetazione endocarditica è rilevabile solo con l’ecocardiogramma transesofageo (generatore di ultrasuoni posto con una sonda in esofago) e non con la tecnica classica transtoracica. Infatti, un ecocardiogramma transtoracico può essere inadeguato in circa il 20% dei pazienti adulti, a causa di obesità, broncopneumopatia cronica ostruttiva o deformità toraciche. Nel complesso, tenendo conto della possibilità di falsi negativi (che sono più comuni nelle endocarditi su valvole protesiche), la sensibilità di un ecocardiogramma transtoracico nel rivelare vegetazioni endocarditiche può essere meno del 60-70%. L’ecocardiogramma transesofageo è più costoso e più invasivo, ma ha una sensibilità tra il 75 e il 95%. Come regola generale, è stato suggerito che la decisione sul tipo di ecocardiogramma da impiegare come prima scelta dipenda dalla probabilità a priori della diagnosi di endocardite infettiva. Questa probabilità è soggettiva e dipende dal giudizio clinico, e perciò attribuirle dei numeri può apparire molto approssimativo. Tuttavia, è stato proposto che, se la probabilità a priori di questa diagnosi è inferiore al 4% (cioè piuttosto bassa) un ecocardiogramma transtoracico è efficace in relazione al costo e clinicamente soddisfacente per escludere un’endocardite infettiva. Se la probabilià a priori è superiore al 60% (cioè alta) un ecocardiogramma transtoracico come prima scelta è pure conveniente, dato che è molto probabile che risulti dimostrativo e che siano pochi i casi nei quali bisogna eseguire successivamente anche un ecocardiogramma transesofageo. Se la probabilità a priori è intermedia, conviene adottare come prima scelta l’ecocardiogramma transesofageo, dato che non sarebbero pochi i casi nei quali un ecocardiogramma transtoracico negativo dovrebbe essere comunque seguito da un ecocardiogramma transesofageo.
Diagnosi L’endocardite infettiva dev’essere sospettata in presenza di ogni febbre di natura indeterminata che sia prolungata ed accompagnata da artralgie. Nel complesso il quadro clinico è piuttosto simile a quello di altre malattie a patogenesi immunopatologica, quali la malattia reumatica, la malattia da siero e il lupus eritematoso sistemico (Cap. 67). Il medico che pretendesse di
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trovare tutti i segni classici mucocutanei e retinici per riconoscere l’endocardite infettiva rischierebbe seriamente di mancare la diagnosi (con conseguenze disastrose). Infatti, come si è già detto, questi segni sono attualmente divenuti rari. Un altro indice di sospetto può essere conferito al quadro clinico dalla rilevazione di qualche soffio cardiaco. Tuttavia, questo reperto non è patognomonico perché può essere causato da altre condizioni (per es., recidiva di malattia reumatica: in questo caso il vizio valvolare si è instaurato nel primo episodio), oppure può essere dovuto alla coincidenza di un vizio valvolare pregresso con una malattia del tutto indipendente. Per contro, come si è detto, in presenza di endocardite del cuore destro può mancare qualsiasi soffio. Molto significativa è invece una variazione delle caratteristiche del soffio che, però, deve essere clamorosa, perché variazioni lievi possono essere dovute a cause banali (per es., cambiamenti nella frequenza cardiaca). Gli elementi più utili per la diagnosi sono le emocolture (che debbono essere prelevate più volte) e l’ecocardiografia bidimensionale. Si è visto che le emocolture sono spesso, ma non sempre, positive. Una negatività può essere dovuta al fatto che il paziente è stato trattato alla cieca con antibiotici prima del prelievo (e in questo caso possono passare vari giorni prima che le emocolture divengano positive) o al fatto che l’agente eziologico è un microrganismo insolito, oppure (per es., nel caso che sia uno streptococco anaerobio) che richieda terreni colturali particolari. Si è visto che anche l’ecocardiografia non è costantemente positiva (non oltre l’80% dei casi). Tuttavia la negatività contemporanea di emocolture ed ecocardiografia è piuttosto improbabile.
Terapia Il fondamento della terapia dell’endocardite infettiva consiste nella somministrazione quotidiana, per infusione venosa continua o con molte dosi refratte per via parenterale, di elevate quantità di antibiotici battericidi per un periodo prolungato di tempo (4 settimane o più). Dato che gli streptococchi, che sono gli agenti eziologici più comuni di questa malattia, sono di solito molto sensibili alla penicillina G, questo è il farmaco che viene adoperato più comunemente, di solito alla dose di 20.000.000 U o più, quotidianamente e per via venosa. Nel caso di endocardite da S. faecalis (enterococco) è consigliata la simultanea somministrazione di streptomicina, che è sinergica con la penicillina, o di un altro aminoglicoside. Altri antibiotici possono essere scelti in base alla sensibilità del microrganismo infettante isolato nelle emocolture, purché siano battericidi e siano impiegati a dosi elevate per via parenterale. In assenza di un’indicazione clinica per una causa sospetta, nelle endocarditi con emocolture negative che insorgono su valvole native il trattamento è individualizzato e basato sull’impiego di antibiotici come la penicillina, l’ampicillina, il ceftriaxone o la vancomicina, spesso in combinazione con un aminoglicoside. Nel ca-
so di endocardite su valvola protesica che insorga 12 mesi o più dopo l’intervento cardiochirurgico, è importante che il trattamento includa il ceftriaxone o il cefotaxime, per colpire anche alcuni organismi che raramente sono trovati sulle valvole native (cosiddetti organismi HACEK, acronimo che indica una pluralità di specie tra le quali alcune di Haemophilus, diverse da quello influenzae). Un caso particolarmene delicato è la terapia dell’endocardite della febbre Q (che, per fortuna, è assente in Italia da molti decenni). Per questa malattia, che ha una fortissima tendenza a recidivare, è indicata una terapia con doxiciclina e un fluorochinolonico per alcuni anni. L’associazione di doxiciclina con idrossiclorochina sembra dare buoni risultati anche per una durata di trattamento di “soli” 26 mesi. La terapia anticoagulante non è risultata efficace nel prevenire gli episodi tromboembolici e può facilitare le emorragie da aneurismi intracranici. Non è perciò raccomandata. La terapia chirurgica, con sostituzione della valvola ammalata, è utile in vari casi. Prima di tutto in pazienti che sviluppano uno scompenso cardiaco, ascessi perivalvolari o un’infezione che non si riesce a controllare nonostante una terapia antimicrobica molto energica. Secondariamente, in pazienti con endocardite provocata da microrganismi per i quali la terapia medica ha elevate probabilità di non essere coronata da successo, come nel caso di endocardite da Pseudomonas aeruginosa, da brucelle, da Coxiella burnetii (il già citato agente della febbre Q), da candida e altri funghi e probabilmente anche da enterococchi per i quali le indagini microbiologiche non dimostrano un regime battericida sinergistico. Le caratteristiche delle vegetazioni endocarditiche raramente giustificano un intervento chirurgico. Non sono state individuate caratteristiche “soglia”, di sede o dimensioni delle vegetazioni, che indichino una particolare predisposizione alle embolizzazioni, in modo che possa essere calcolato se i benefici dell’intervento chirurgico compensino i suoi rischi. Per di più, la persistenza delle vegetazioni, determinate ecograficamente, è comune dopo una terapia antibiotica coronata da successo e non, è necessariamente associata con complicanze tardive. Un punto delicato è se siste un’indicazione chirurgica per prevenire ulteriori embolizzazioni, dopo che una di queste si è verificata. È dimostrato che la frequenza degli emboli decresce rapidamente con un’efficace terapia antimicrobica e perciò una singola embolia non è un’indicazione per l’intervento se è in corso una terapia medica efficace. Al contrario, l’intervento chirurgico può comportare rischi di deterioramento neurologico e di morte, e perciò una recente complicanza neurologica dell’endocardite infettiva è stata considerata una relativa controindicazione a un intervento di protesi valvolare. Un approccio prudente è di ritardare la sostituzione valvolare, se fattibile, di 2-3 settimane dopo un infarto embolico del sistema nervoso centrale e di almeno un mese dopo un’emorragia cerebrale. Diverso è il caso se l’embolizzazione si ripete.
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Decorso e prognosi In assenza di terapia antibiotica, l’endocardite infettiva è invariabilmente mortale. La morte consegue ad emorragia subaracnoidea, incidenti embolici o scompenso cardiaco per gravi lesioni valvolari. Al giorno d’oggi è molto improbabile che un’endocardite infettiva, se pure non diagnosticata, venga lasciata priva di ogni terapia. Più facile è che terapie antibiotiche vengano date alla cieca secondo schemi convenzionali. Questa pratica è molto dannosa perché non è in grado di guarire l’endocardite, al massimo di attenuarne l’espressione clinica e di prolungarne il decorso. Inoltre può rendere negative le emocolture rendendo difficile la diagnosi clinica ed eziologica. Può perciò capitare che pazienti non diagnosticati ed inappropriatamente trattati, vadano avanti per mesi o anni con febbri recidivanti che restano inspiegate. Questi pazienti, prima o poi, sviluppano le complicanze proprie dell’endocardite infettiva e la loro prognosi è infausta. Se il processo morboso è sufficientemente prolungato, la compromissione renale può anche esitare in insufficienza renale cronica. Quando appropriatamente trattata, l’endocardite infettiva guarisce nella maggioranza dei casi se i microrganismi sono poco virulenti e in quasi la metà dei casi se i microrganismi sono molto virulenti. La mortalità complessiva resta tra il 20 e il 25% tanto per le endocarditi su valvole native, che per quella su valvole protesiche. Dal punto di vista anatomico, la guarigione è caratterizzata dalla sostituzione delle vegetazioni e delle lesioni valvolari con tessuto cicatriziale che si retrae. Possono perciò aggravarsi vizi valvolari preesistenti o crearsene di nuovi (insufficienza mitralica o aortica). Questi danni non sono, in genere, molto gravi se la malattia è diagnosticata e trattata precocemente.
ALTRE ENDOCARDITI Come si è anticipato, altre endocarditi possono essere provocate da meccanismi immunologici o da vari processi nel quadro di altre malattie. Di queste faremo
solo un breve cenno, rimandando ai rispettivi capitoli per una trattazione più estesa.
Endocarditi immunologiche Tra queste, va ricordata in primo luogo l’endocardite della malattia reumatica di cui si parlerà nel capitolo 67 e che è della massima importanza come causa di vizi valvolari in giovane età. Ha una patogenesi immunologica anche l’endocardite in corso di lupus eritematoso sistemico o endocardite verrucosa non batterica di Libman-Sacks, che è solitamente localizzata alle sezioni destre del cuore più frequentemente di quanto lo siano l’endocardite reumatica e quella batterica. In genere non provoca emboli, né è importante come causa di vizi valvolari acquisiti.
Endocarditi da meccanismi vari In questo gruppo può essere considerata l’endocardite delle sindromi ipereosinofile o endocardite di Loeffler (Cap. 48). Nel corso di queste sindromi si ha diffusa infiltrazione sottoendocardica sia nella sezione sinistra che in quella destra del cuore, con evoluzione fibrotica. Il quadro clinico è quello di una cardiomiopatia restrittiva (Cap. 8). Sull’endocardio possono tuttavia formarsi dei trombi, che possono dar luogo a embolizzazioni. Con il nome di endocardite trombotica abatterica o endocardite marantica si indica quello che costituisce, per lo più, solamente un rilievo patologico in alcune autopsie. In genere in pazienti defedati vengono trovate vegetazioni sterili sui lembi valvolari. Sul piano clinico l’importanza di questa endocardite sta nella possibilità di episodi embolici nella fase terminale della malattia fondamentale. L’endocardite trombotica in corso di neoplasie è legata a uno stato di ipercoagulabilità. L’associazione di flebotrombosi, endocardite trombotica ed embolizzazioni multiple in corso di neoplasie viene chiamata sindrome di Trousseau, dal nome del grande clinico del secolo XIX che non solo descrisse questa condizione morbosa, ma che ne fu affetto egli stesso e ne morì.
C A P I T O L O
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VIZI VALVOLARI R. SATOLLI, C. SCHWEIGER
CLASSIFICAZIONE
docardite infettiva, cardiopatia ischemica, cardiomiopatie, alterazioni primitive del connettivo.
I vizi valvolari sono anomalie di funzione delle valvole cardiache conseguenti ad alterazioni anatomiche dei lembi e/o dell’apparato valvolare nel suo complesso. Schematicamente, i vizi valvolari possono essere classificati in base a tre criteri principali:
VIZI VALVOLARI MITRALICI
1. Natura del vizio: • stenosi. L’ostio valvolare è ristretto e ostacola in misura più o meno grave il passaggio del sangue in senso anterogrado; • insufficienza. La valvola non è continente e quindi consente al sangue il rigurgito in senso retrogrado. L’insufficienza può essere dipendente o da lesione diretta della valvola oppure essere secondaria a dilatazione delle cavità cardiache; • steno-insufficienza. Le due alterazioni funzionali coesistono e quindi si verifica tanto un ostacolo al flusso anterogrado quanto un rigurgito in senso retrogrado; nel caso di vizi valvolari reumatici questa è la condizione più comune. 2. Sede del vizio: stenosi, insufficienza o steno-insufficienza possono verificarsi in ciascuna valvola o essere presenti in più valvole simultaneamente. Nell’adulto le valvole più comunemente interessate sono quelle delle sezioni sinistre del cuore (mitrale e aorta). In caso di eziologia reumatica, comune è l’associazione di vizi mitroaortici. Le valvole delle sezioni destre del cuore (tricuspide e polmonare) raramente sono sede di vizi primitivi nell’adulto; spesso il loro coinvolgimento è secondario alle conseguenze emodinamiche dei vizi valvolari di sinistra. Un interessamento primitivo delle valvole delle sezioni destre è più comunemente di natura congenita. 3. Eziologia del vizio: l’endocardite reumatica, anche se in costante declino, rimane la causa più comune dei vizi valvolari; altre cause sono anomalie congenite, en-
Stenosi mitralica A. Eziologia. Tra tutti i vizi valvolari, la stenosi mitralica è quello più strettamente dipendente da un’eziologia reumatica. Rarissimi casi sono di natura congenita. Da un punto di vista pratico, dunque, ogni stenosi mitralica può essere considerata di origine reumatica; tuttavia un’anamnesi positiva per malattia reumatica è presente solo nel 50% dei casi. Per ragioni sconosciute la stenosi mitralica è molto più frequente tra le donne, che rappresentano oltre i due terzi dei casi. B. Anatomia patologica. La stenosi mitralica è caratterizzata da lembi valvolari diffusamente ispessiti da tessuto fibroso e/o da depositi calcifici. Le commissure sono fuse, le corde tendinee sono accorciate e fuse. Ne consegue che le cuspidi valvolari diventano ipomobili e rigide e ciò causa il restringimento della valvola, che assume una forma ad imbuto. La superficie dell’ostio valvolare può passare dai 4-6 cm2 dell’adulto normale a valori inferiori a 1 cm2. Mentre il primitivo danno valvolare è causato direttamente dall’endocardite reumatica, la successiva progressione delle alterazioni, a volte molto lenta, avviene anche in assenza di recidive reumatiche. La spiegazione più probabile di questo fenomeno è che la progressione delle lesioni sia dipendente dal trauma cronico causato dalle alterazioni del flusso sulle strutture valvolari. In pratica l’insulto reumatico innesca un processo che poi si automantiene per ragioni emodinamiche. L’atrio sinistro appare dilatato e a volte si può rilevare la presenza di depositi di calcio nella sua parete. A livello delle arteriole polmonari, nelle fasi avanzate della malattia si possono verificare ipertrofia della
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media e fibrosi dell’intima; esse sono secondarie all’ipertensione venosa e a loro volta sono causa dell’ipertensione arteriosa polmonare che complica gli stadi avanzati della malattia. C. Fisiopatologia. Nell’adulto normale la superficie dell’ostio valvolare è di circa 4-6 cm2. Quando, a causa della stenosi, la superficie della valvola si riduce a meno di 2 cm2, il passaggio di sangue in diastole dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro può essere mantenuto entro limiti fisiologici solo aumentando la pressione a livello dell’atrio sinistro; si genera quindi un aumento del gradiente diastolico di pressione transmitralico: da un punto di vista emodinamico è questa la caratteristica fondamentale della stenosi mitralica, a cui conseguono le altre. Quanto più stenotica sarà la valvola, tanto maggiore sarà il gradiente di pressione transmitralico. L’aumento di pressione a livello dell’atrio sinistro provoca a sua volta un incremento di pressione nelle vene e nei capillari polmonari; questa congestione venosa polmonare provoca aumento della rigidità del polmone ed è la causa prima della dispnea da sforzo. Ulteriori aumenti di pressione a livello dei capillari polmonari, specie se avvengono bruscamente, comportano una trasudazione all’interno degli alveoli e conducono al quadro clinico dell’edema polmonare. Un altro fenomeno conseguente all’ipertensione polmonare può essere la rottura di connessioni venose polmonari-bronchiali, che sono la causa di emottisi. Il gradiente transvalvolare è dipendente non solo dal grado di stenosi, ma anche da altri due fattori: la portata cardiaca e la frequenza cardiaca. Infatti quanto più alta è la quantità di sangue che nell’unità di tempo deve passare attraverso la valvola stenotica (portata cardiaca), tanto maggiore sarà la pressione a monte della valvola; infatti la pressione è direttamente proporzionale al flusso (portata cardiaca) e alle resistenze (grado di stenosi). Quindi, dato un certo grado di stenosi a livello mitralico, il gradiente aumenterà ogni volta che aumenta la portata. L’altro fattore determinante il gradiente transvalvolare è la frequenza cardiaca: in presenza di tachicardia, si accorcia la durata della diastole ed è proprio in diastole che avviene il passaggio di sangue dall’atrio al ventricolo; quindi in presenza di tachicardia, si riduce il tempo in cui una certa quantità di sangue deve passare attraverso la valvola, aumenta di conseguenza il flusso, per unità di tempo, e poiché la pressione è direttamente proporzionale al flusso, aumenta la pressione a livello atriale. Pertanto tutte le situazioni che aumentano la portata cardiaca e/o la frequenza causano un critico aggravamento del quadro emodinamico della stenosi mitralica. Per esempio, un soggetto totalmente asintomatico a riposo può presentare una grave dispnea in rapporto ad uno sforzo fisico (aumento della portata e della frequenza) o per la comparsa di fibrillazione atriale, che abitualmente al suo esordio è caratterizzata da un’elevata frequenza ventricolare. L’evoluzione successiva del quadro fisiopatologico e clinico della stenosi mitralica è legata allo sviluppo del-
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
l’ipertensione arteriosa polmonare; l’ipertensione venosa polmonare, attraverso meccanismi in gran parte ignoti, provoca una vasocostrizione a livello delle arteriole polmonari; si instaura progressivamente un’ipertensione arteriosa polmonare, che all’inizio è solo di tipo funzionale, cioè legata ad un aumento del tono della parete arteriolare, e quindi facilmente reversibile. All’ipertensione su base funzionale seguono col tempo alterazioni anatomiche con ipertrofia della media e fibrosi dell’intima delle arteriole polmonari; queste alterazioni provocano un’ipertensione parzialmente irreversibile, su base anatomica. Lo sviluppo di questa ipertensione arteriosa polmonare può essere considerato come un meccanismo di difesa: il “barrage” a livello delle arteriole crea un ostacolo a monte del sistema venoso polmonare, quindi tende a ridurre la congestione venosa e i sintomi ad essa legati. Tuttavia la comparsa di elevate resistenze arteriolari polmonari causa un sovraccarico di pressione a livello del ventricolo destro (aumento del postcarico). Questa camera cardiaca si ipertrofizza e quindi si dilata e può andare incontro a scompenso, dando origine ad un’insufficienza tricuspidale secondaria. La portata cardiaca si riduce, i fenomeni legati alla congestione polmonare si riducono ed anche scompaiono, ma si rendono manifesti i segni della bassa gettata e dello scompenso cardiaco destro (turgore giugulare, epatomegalia, edemi, facile affaticamento e astenia). In questo iter evolutivo della fisiopatologia della stenosi mitralica, l’unica camera cardiaca a non essere interessata è il ventricolo sinistro; nella stenosi pura esso infatti è protetto da qualsiasi ripercussione emodinamica, essendo posto a valle dell’ostacolo. Pertanto in questo vizio valvolare le dimensioni e la funzione del ventricolo sinistro sono normali, salvo che non coesistano fattori primitivamente miocardici, come per esempio una miocardiopatia reumatica. D. Clinica. 1. Sintomi. L’evoluzione della malattia è abitualmente lenta: tra l’episodio di cardite reumatica che provoca l’iniziale lesione valvolare e la comparsa dei primi sintomi intercorrono in media due decenni; per questo motivo è comune il rilievo dei segni cardiaci di stenosi mitralica, pur in assenza di qualsiasi disturbo. Abitualmente i primi sintomi compaiono in situazioni particolari caratterizzate da aumento della portata cardiaca e/o della frequenza cardiaca, come per esempio sforzo strenuo, gravidanza, anemia grave, tireotossicosi, febbre, fibrillazione atriale. Per l’aumento della pressione atriale sinistra e venosa polmonare causato da queste evenienze, compare dispnea; a volte l’esordio può essere costituito direttamente dal quadro dell’edema polmonare acuto. Con la progressione della stenosi, l’entità dello stress capace di indurre la dispnea si riduce progressivamente e il paziente comincia a subire limitazioni nelle proprie attività quotidiane. Successivamente o contemporaneamente si manifestano dispnea parossistica notturna ed ortopnea, legate
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al fatto che, con il decubito supino, si ha una ridistribuzione del pool ematico e ciò è sufficiente ad incrementare la stasi a livello delle vene e dei capillari polmonari. L’evoluzione seguente è caratterizzata dalla comparsa di episodi di edema polmonare acuto, quasi sempre innescati da bruschi aumenti del flusso transmitralico (sforzo, ecc.) o da insorgenza di fibrillazione atriale. La comparsa di fibrillazione atriale stabile è un segno prognostico negativo; tuttavia va segnalato che vi sono casi di stenosi mitralica serrata con grave ipertensione polmonare, con persistenza di ritmo sinusale stabile. L’emottisi può essere il primo segno di una stenosi mitralica e comunque complica la fase della malattia caratterizzata da elevata pressione venosa polmonare. Quando e se si sviluppa l’ipertensione polmonare, i sintomi legati alla congestione polmonare si riducono e quindi diminuiscono di frequenza e gravità gli episodi di edema polmonare, dispnea parossistica, emottisi; viceversa compaiono o si aggravano i sintomi di scompenso destro e di bassa gettata: dolori addominali da distensione epatica, edemi, astenia, facile affaticabilità. Una complicanza abbastanza frequente della stenosi mitralica sono le embolie sistemiche: secondo alcune casistiche esse si manifestano nel 20% dei casi. Sono legate alla formazione di trombi nell’atrio sinistro, particolarmente nell’auricola, e la loro formazione è facilitata dalla presenza di fibrillazione atriale. I fenomeni embolici di conseguenza complicano abitualmente le fasi non precoci della malattia.
gravità della stenosi. Poiché esso si verifica nell’istante in cui la pressione nel ventricolo sinistro scende a valori inferiori a quelli nell’atrio sinistro e quindi la mitrale si apre, esso sarà tanto più precoce quanto più alta è la pressione nell’atrio sinistro, cioè quanto più grave è la stenosi. Subito dopo il tono o schiocco di apertura della mitrale inizia un soffio a bassa frequenza (rullio), che occupa la diastole per un periodo più o meno lungo in rapporto alla gravità della stenosi. Infatti quanto più serrata è la stenosi, tanto maggiore e costante durante la diastole è il gradiente di pressione (Figg. 10.1 e 10.2). In presenza di ritmo sinusale, nella fase presistolica, si ha una riaccentuazione del soffio (rinforzo presistolico), legata all’aumento del flusso transmitralico conseguente alla sistole atriale; se compare la fibrillazione atriale, scompare il rinforzo presistolico. Questi reperti ascoltatori sono più facilmente udibili alla punta e in decubito laterale sinistro. Essi sono resi più evidenti da
A.
AS
VS I
E. Esame obiettivo. L’obiettività cardiaca varia in rapporto alla gravità della lesione valvolare e in rapporto alla presenza o meno di ipertensione polmonare. 1. Palpazione: l’itto della punta è percepito in sede normale perché, come si è detto, il ventricolo sinistro non è interessato dalle ripercussioni emodinamiche della stenosi mitralica. In sede precordiale è avvertibile un fremito diastolico legato ai vortici creati dal passaggio di sangue attraverso la valvola stenotica. 2. Ascoltazione: il I tono appare di intensità accentuata e di breve durata. Una possibile spiegazione di questo reperto è la seguente: a causa della stenosi si mantiene un gradiente di pressione tra atrio e ventricolo durante tutta la diastole per cui la valvola rimane aperta anche in telediastole; per questo motivo quando aumenta la pressione ventricolare all’inizio della sistole e la valvola si chiude, i lembi collabiscono con maggior forza. La pausa sistolica nella stenosi mitralica pura è completamente libera. Il II tono è normale; esso risulta di intensità aumentata quando si sviluppa un’ipertensione arteriosa polmonare. In protodiastole è udibile un tono aggiunto caratteristico della stenosi mitralica: viene definito schiocco o tono di apertura della mitrale; esso è di breve durata e di alta frequenza (ben udibile con la membrana del fonendo) e segue la componente aortica del II tono con un intervallo variabile da 0,04 a 0,12 sec. La sua distanza dal II tono è inversamente proporzionale alla
T A II M
RD
B.
AS VS
I
T A II M
RD
Figura 10.1 - Rappresentazione schematica della durata del rullio diastolico e della sua intensità in rapporto alle pressioni intracavitarie. Il rullio persiste sino a quando è presente un significativo gradiente diastolico di pressione tra atrio sinistro e ventricolo sinistro; inoltre esso è tanto più intenso quanto maggiore è il gradiente. Pertanto in caso di stenosi serrata (A) il rullio occupa tutta la diastole dopo il tono di apertura della mitrale. In caso di stenosi lieve (B), esso occupa la protodiastole, indi scompare, per riapparire in telediastole quando il gradiente di pressione aumenta nuovamente per la presenza della sistole atriale (in caso di persistenza del ritmo sinusale). AS = atrio sinistro; VS = ventricolo sinistro; TAM = tono di apertura della mitrale; RD = rullio diastolico.
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Figura 10.2 - Stenosi mitralica. Il tracciato fonocardiografico mostra un I tono accentuato; poco dopo il II tono è presente un tono di apertura della mitrale (TAM), seguito da un rullio diastolico con lieve accentuazione presistolica. La simultanea registrazione di un apicocardiogramma dimostra che il TAM è sincrono con il punto Q.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
In presenza di ipertensione polmonare e di bassa portata, si manifestano segni di scompenso destro con congestione venosa sistemica. Il paziente può apparire pallido e cianotico: infatti per la riduzione della portata cardiaca si ha una vasocostrizione periferica che è particolarmente spiccata nei distretti circolatori non essenziali, come per esempio la cute; la stasi venosa facilita la comparsa di cianosi periferica dovuta alla maggiore estrazione di ossigeno dal sangue capillare in distretti ipoperfusi; questi eventi possono spiegare la cosiddetta “facies mitralica”, caratterizzata da turgore giugulare, pallore cutaneo ma con cianosi dei pomelli e delle labbra. Con il progredire dello scompenso destro, si manifestano altri segni, come epatomegalia, edemi, astenia intensa. A livello cardiaco, per la dilatazione del ventricolo destro si può sviluppare un’insufficienza tricuspidale secondaria; in questo caso è udibile un soffio olosistolico ad alta frequenza sulla margino-sternale sinistra verso l’appendice ensiforme. Caratteristicamente il soffio da insufficienza tricuspidale si accentua con l’inspirazione e si riduce con la manovra di Valsalva: la prima infatti aumenta il ritorno venoso, la seconda lo riduce. F. Esami strumentali.
tutte quelle manovre che aumentano la portata e la frequenza cardiaca; per esempio, un reperto ascoltatorio dubbio può essere reso molto evidente facendo fare al paziente un esercizio fisico anche lieve. Quelli sino ad ora descritti sono i classici reperti della stenosi mitralica pura nella sua fase di ipertensione venosa e con lembi valvolari ancora mobili. Essi possono modificarsi nel tempo in rapporto all’evoluzione della malattia. Il I tono può ridursi di intensità per la presenza di calcificazioni e di ridotta mobilità dei lembi valvolari. Lo stesso può avvenire per il tono di apertura della mitrale, sempre in rapporto ad una maggiore rigidità dei lembi valvolari. Il rullio diastolico può ridursi di intensità e durata quando, per il progredire della stenosi e/o l’instaurarsi dell’ipertensione polmonare, si riduce la portata cardiaca. In sintesi, una stenosi mitralica grave può associarsi alla riduzione o anche alla scomparsa dei classici segni ascoltatori: in questo caso si parla di stenosi mitralica silente. Quando si sviluppa l’ipertensione polmonare arteriosa, si possono rilevare altri segni legati alla dilatazione dell’arteria polmonare: essi sono un click protosistolico sul focolaio della polmonare e un soffio diastolico in decrescendo ad alta frequenza sul focolaio della polmonare o sulla margino-sternale sinistra, espressione di un’insufficienza polmonare secondaria (soffio di Graham-Steel). È importante ricordare però che un soffio di questo tipo è, nella maggior parte dei casi, espressione di un’insufficienza aortica associata alla valvulopatia mitralica; la diagnosi differenziale delle due condizioni è molto difficile solo sulla base dell’ascoltazione.
1. Elettrocardiogramma. Tra le varie tecniche diagnostiche, l’ECG non è certamente la più sensibile e specifica per la diagnosi di stenosi mitralica, essa infatti non è in grado di evidenziare direttamente alterazioni valvolari, ma semplicemente di porre in evidenza eventuali dilatazioni e/o ipertrofie delle camere cardiache conseguenti al vizio valvolare. Pertanto il segno elettrocardiografico più caratteristico della stenosi mitralica è la dilatazione dell’atrio sinistro, rilevabile nel 90% dei pazienti con stenosi mitralica significativa. Essa è caratterizzata da un aumento della durata e dell’ampiezza della componente terminale della P. In D2 si rileva un’onda P bifida di durata superiore a 0,12 sec. In V1 la componente terminale negativa della P appare di durata superiore a 0,05 sec e di ampiezza superiore a 0,3 mV. I segni di dilatazione atriale sinistra si correlano più con il volume dell’atrio che con la pressione atriale. Con la comparsa di fibrillazione atriale, i segni di dilatazione atriale sinistra all’ECG non sono più rilevabili, ma caratteristicamente le onde di fibrillazione atriale, rilevabili soprattutto in V1, appaiono grossolane e di ampiezza superiore a 0,1 mV: quest’aspetto suggerisce appunto la presenza di dilatazione atriale sinistra. Nei casi in cui si instaura un’ipertensione arteriosa polmonare, si possono evidenziare i segni di ipertrofia ventricolare destra, caratterizzati da una rotazione verso destra dell’asse elettrico del QRS sul piano frontale e da un rapporto R/S in V1 superiore a 1. 2. Esame radiologico. In presenza di una stenosi mitralica pura di entità lieve-moderata, l’ombra cardiaca non appare ingrandita; la sua morfologia può essere alterata inizialmente solo per la dilatazione atriale sinistra.
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Ciò è rilevabile in proiezione antero-posteriore per la presenza di un doppio contorno a livello dell’arco inferiore di destra e per la rettilineizzazione o la lieve prominenza dell’arco medio di sinistra, al di sotto dell’arco polmonare. In questa proiezione, e con una lastra a raggi duri, è facilmente rilevabile anche il sollevamento e l’orizzontalizzazione del bronco di sinistra, spinto dall’atrio sinistro dilatato. In proiezione laterale od obliqua anteriore destra è ben visibile la dilatazione dell’atrio di sinistra che si sviluppa posteriormente e provoca un’impronta sull’esofago (che può essere visualizzata con il solfato di bario) (Figg. 10.3 e 10.4). Con il progressivo aumento della dilatazione atriale sinistra e anche per la comparsa di ipertensione arteriosa polmonare, si ha un’accentuazione delle alterazioni morfologiche dell’ombra cardiaca, con una netta salienza sull’arco medio di sinistra per dilatazione dell’arteria polmonare e dell’auricola sinistra. In alcuni casi all’esame radiologico sono visibili calcificazioni a livello valvolare; tale reperto è di più facile riscontro all’esame radioscopico con intensificatore di brillanza. Di particolare interesse nello studio radiologico della stenosi mitralica è l’osservazione dei campi polmonari. In una fase iniziale della malattia caratterizzata da ipertensione venosa passiva, si può rilevare una ridistribuzione del flusso verso i campi polmonari superiori, le cui vene appaiono dilatate. In presenza di un’ipertensio-
Figura 10.3 - Donna di 47 anni con stenosi mitralica serrata. Rx torace in proiezione antero-posteriore. La dilatazione dell’atrio sinistro è visibile a livello dell’arco inferiore di destra per la presenza di un doppio contorno (A). La prominenza dell’arco medio di sinistra è dovuta alla dilatazione dell’auricula sinistra (B). Il bronco principale di sinistra appare sollevato e orizzontalizzato dall’atrio sinistro dilatato (D). A livello del seno costofrenico di destra sono presenti alcune brevi linee orizzontali (linee di Kerley B) dovute a edema e/o fibrosi dei setti interlobulari (C). (Da J.F. Stapleton, Essentials of Clinical Cardiology, F.A. Davis Company, Philadelphia, 1983).
A.
B.
Figura 10.4 - Stenosi mitralica. Proiezione obliqua anteriore destra. A. Aspetto radiologico con evidente impronta sull’esofago da parte dell’atrio sinistro dilatato; B. Rappresentazione schematica del reperto radiologico.
ne venosa cronica si possono rilevare alcune alterazioni caratteristiche: le linee di Kerley B; queste sono sottili linee radiopache orizzontali, più evidenti ai campi polmonari inferiori a livello del seno costofrenico laterale. Esse sono dovute a setti interlobulari ispessiti per edema e fibrosi. In caso di stenosi gravi e di lunga durata si possono rilevare anche le linee di Kerley A, più lunghe e spesse delle linee B e localizzate in sede parailare. Nei pazienti con ripetute emottisi si possono rilevare depositi di emosiderina: i macrofagi contenenti emosiderina riempiono gli spazi aerei e, se confluiscono tra loro, danno luogo a una fine nodulazione più evidente nei campi polmonari inferiori. 3. Ecocardiogramma. È questa la tecnica non invasiva più sensibile per la diagnosi di stenosi mitralica. La registrazione M-mode evidenzia uno spostamento anteriore in diastole del lembo mitralico posteriore. Diversamente da quanto accade nel normale, in cui i due lembi mitralici hanno in diastole un andamento tra loro speculare, anche se di diversa ampiezza, nella stenosi mitralica i due lembi mantengono durante la diastole un andamento parallelo, cioè si spostano entrambi anteriormente. All’esame si rileva anche una ridotta pendenza del tratto E-F del lembo anteriore in protodiastole. Ciò dipende dal fatto che il lembo anteriore non tende a ritornare in posizione in mesodiastole (il punto E corrisponde nell’ecocardiogramma alla massima apertura della valvola mitrale, quello F alla fase di riavvicinamento dei lembi che precede la contrazione atriale; Figg. 10.5 e 10.8). Questo segno ecocardiografico può verificarsi in altre condizioni, per esempio in presenza di una ridotta compliance del ventricolo sinistro, come nella cardiomiopatia ipertrofica. In presenza di lembi valvolari ancora mobili e quando la portata cardiaca non è sensibilmente ridotta, la riduzione di pendenza del tratto E-F è correlata alla gravità della stenosi.
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Figura 10.5 - Stenosi mitralica serrata con lembi ispessiti ma ancora mobili. Sono ben rilevabili i segni caratteristici della stenosi mitralica: ridotta pendenza diastolica del lembo anteriore; spostamento consensuale del lembo posteriore che assume un andamento parallelo rispetto al lembo anteriore; ispessimento e aumentata ecoriflettenza dei lembi.
L’ecocardiogramma può anche evidenziare un ispessimento ed un’aumentata ecoriflettenza dei lembi mitralici. Questi segni dipendono dalla fibrosi e/o calcificazione dei lembi mitralici. Gli echi appaiono multipli ed ispessiti. Con l’eco bidimensionale, oltre alle alterazioni sopra ricordate, è possibile valutare con relativa precisione anche l’area dell’orifizio mitralico. Dell’impiego dell’ecocardiografia Doppler per misurare l’area dell’orifizio della valvola mitrale nella stenosi mitralica si è già parlato nel capitolo 4 a proposito di questa tecnica diagnostica. Oltre alle alterazioni a carico della valvola, l’ecocardiografia consente di mettere in evidenza le ripercussioni della stenosi sulle altre strutture cardiache. Nella stenosi pura il ventricolo sinistro appare di dimensioni normali o ridotte; una sua dilatazione deve far pensare ad una patologia associata: insufficienza mitralica o valvulopatia aortica, oppure cardiomiopatia reumatica. L’atrio sinistro appare sempre dilatato e l’ecocardiogramma consente una misura precisa del grado di dilatazione. In caso di ipertensione arteriosa polmonare e di sovraccarico di pressione del ventricolo destro, si può rilevare un ventricolo destro dilatato. Segni indiretti, e non particolarmente affidabili, del grado di ipertensione polmonare possono essere desunti dalle alterazioni della valvola polmonare. 4. Cateterismo cardiaco. Il dato emodinamico caratteristico della stenosi mitralica è un gradiente di pressione transmitralico che permane per tutta la diastole. La sua misura si ottiene dal rilievo simultaneo delle curve pressorie nel ventricolo sinistro e nei capillari polmonari. La misura delle pressioni nel ventricolo sinistro viene ottenuta con cateterismo arterioso retrogra-
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do. La pressione nell’atrio sinistro non si ottiene direttamente, ma è equiparabile a quella ottenuta con un catetere in un’arteriola polmonare in posizione occludente (pressione capillare polmonare). Misurando poi le pressioni in arteria polmonare, si possono misurare le resistenze polmonari totali, che esprimono la somma delle resistenze dovute all’ostacolo a livello mitralico e di quelle dovute alle eventuali alterazioni secondarie a livello delle arteriole polmonari. In questo modo è quindi possibile calcolare il grado di ostacolo dovuto direttamente alla stenosi e quello dovuto al “barrage” precapillare. La conoscenza di questi dati è importante per una corretta indicazione chirurgica. Tuttavia, attualmente non si ritiene necessario sottoporre a cateterismo cardiaco tutti i soggetti per porre l’indicazione chirurgica, dal momento che l’ecocardiografia fornisce informazioni sufficienti in molti pazienti. G. Diagnosi differenziale. Un soffio diastolico puntale può essere rilevato in corso di cardite reumatica in fase acuta (soffio di Carey-Coombs), espressione di una “valvulite” con edema e ispessimento dei lembi valvulari. Esso si differenzia dal rullio della stenosi mitralica perché è un soffio dolce ad alta frequenza limitato alla protodiastole. Nell’insufficienza aortica grave si può rilevare un soffio diastolico a bassa frequenza in sede apicale (soffio di Austin-Flint). Questo soffio sembrerebbe dovuto al flusso anterogrado attraverso la mitrale, che è parzialmente chiusa dal brusco aumento della pressione telediastolica sinistra conseguente alla grave insufficienza aortica (si veda in seguito). Diversamente da quanto accade nella stenosi mitralica, questo soffio è solo meso-telediastolico e non si accompagna ad accentuazione del I tono e allo schiocco di apertura della mitrale. La patologia che più da vicino simula i reperti ascoltatori della stenosi mitralica è il mixoma dell’atrio sinistro. In questo caso la diagnosi differenziale può essere sospettata su base clinica per la variabilità dei reperti ascoltatori da un momento all’altro e da un decubito all’altro. Inoltre spesso sono presenti febbre, VES elevata e iperglobulinemia. La diagnosi definitiva viene facilmente posta per mezzo dell’ecocardiografia. H. Cenni di terapia. Tutti i pazienti portatori di un vizio valvolare reumatico devono effettuare la profilassi reumatica e la profilassi dell’endocardite infettiva. Nei pazienti sintomatici per dispnea è indicata la terapia diuretica; la terapia digitalica, viceversa, non trova indicazione nei pazienti con ritmo sinusale e senza segni di scompenso destro: infatti in questa fase della malattia i sintomi sono dovuti semplicemente all’ipertensione venosa polmonare passiva e il cardiocinetico non provocherebbe alcun miglioramento del quadro emodinamico. Nel caso di insorgenza di fibrillazione atriale, la digitale è indicata per controllare la frequenza cardiaca evitando la tachicardia che è particolarmente dannosa per i motivi già ricordati. Ovviamente la di-
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gitale va somministrata in caso di scompenso destro. In coloro che hanno avuto complicanze emboliche e che non vengono subito avviati all’intervento va instaurata una profilassi con farmaci anticoagulanti. I pazienti che manifestano una fibrillazione atriale relativamente recente, ma che non hanno un quadro emodinamico tale da giustificare un intervento, possono essere sottoposti ad una cardioversione elettrica o farmacologica. Se i sintomi non sono lievi, e soprattutto se vi è evidenza di un inizio di ipertensione polmonare, sono indicate misure di disostruzione meccanica della valvola mitrale, dato che un ulteriore ritardo peggiorerebbe la prognosi. In molti casi, la valvulotomia con un palloncino (dilatazione dell’ostio stenotico utilizzando un catetere) assicura un eccellente sollievo meccanico. La presenza di importanti calcificazioni valvolari, di grave distorsione sottovalvolare o di una coesistente insufficienza mitralica di qualche entità sconsiglia questa tecnica. In questi casi un miglioramento della sopravvivenza e una riduzione dei sintomi possono essere ottenuti con la commissurotomia (dilatazione dell’ostio stenotico a torace aperto), o con la ricostruzione della valvola o con la sostituzione.
Insufficienza mitralica A. Classificazione ed eziologia. L’apparato valvolare mitralico è composto dall’anulus mitralico, dai lembi valvolari, dalle corde tendinee e dai muscoli papillari; l’alterazione di ognuna di queste quattro strutture può causare insufficienza mitralica. Diversamente da quanto accade per la stenosi mitralica, la cui origine è pressoché esclusivamente reumatica, l’insufficienza mitralica ha diverse eziologie. In base alle strutture dell’apparato mitralico interessate e in base alle diverse eziologie, le varie forme di insufficienza mitralica possono essere classificate come in tabella 10.1. Una forma particolare di disfunzione dell’apparato mitralico che spesso si associa ad insufficienza mitralica è il prolasso mitralico: esso, per la sua specificità, verrà trattato a parte. Con il progressivo ridursi dell’incidenza della cardiopatia reumatica, l’insufficienza mitralica di origine reumatica rappresenta una percentuale sempre minore soprattutto delle insufficienze mitraliche pure; infatti, nel caso di eziologia reumatica, frequente è l’associazione con la stenosi mitralica e con la valvulopatia aortica. Diversamente da quanto accade per la stenosi, l’insufficienza mitralica reumatica non ha una maggior incidenza nel sesso femminile. Oltre che per la loro eziologia e per la struttura interessata, le insufficienze mitraliche si possono classificare anche in base alle modalità di insorgenza: acute e croniche. Questa distinzione è molto importante perché diverso è il comportamento fisiopatologico e quindi anche l’evoluzione clinica. Esempio classico di un’insufficienza mitralica cronica è quella di origine reumatica; gli esempi più comuni di insufficienza mitralica acuta
sono quelli da endocardite infettiva e da rottura del muscolo papillare da infarto miocardico. B. Fisiopatologia. Il meccanismo di chiusura normale della valvola mitrale è complesso. La chiusura mitralica è quasi completa ancor prima del periodo di contrazione isometrica e in questo gioca un ruolo la sistole atriale. Essa riempie il ventricolo che, in questa fase del ciclo cardiaco, non è in grado di distendersi ulteriormente; ciò provoca una brusca decelerazione della colonna sanguigna e i lembi valvolari si accostano. Al momento della sistole ventricolare la circonferenza dell’anello mitralico si riduce e questo consente ai lembi valvolari di collabire. L’anello scende un po’ nella cavità ventricolare sinistra, le pareti ventricolari si avvicinano, l’accorciamento dei muscoli papillari mantiene in tensione le corde e previene il prolasso dei lembi mitralici nell’atrio sinistro. L’ostio mitralico non continente rappresenta per il sangue contenuto nel ventricolo sinistro una via di uscita accessoria, in parallelo rispetto all’ostio aortico; per questa ragione la resistenza allo svuotamento del ventricolo sinistro in sistole è ridotta nei soggetti con insufficienza mitralica. Anzi, essendo la pressione atriale molto più bassa di quella aortica, il sangue può rigurgitare in atrio sinistro già durante la fase di contrazione isometrica. La quantità del rigurgito dipende dalle dimensioni della breccia e dal gradiente di pressione tra ventricolo sinistro e atrio sinistro. Perciò tutti gli eventi che comportano un aumento della pressione a livello
Tabella 10.1 - Varie forme di insufficienza mitralica. A. Alterazioni dei lembi valvolari • Endocardite reumatica • Endocardite infettiva • Anomalie congenite (difetto dei cuscinetti endocardici) • Alterazioni del connettivo (Marfan, Ehlers-Danlos) B. Alterazioni dell’anulus • Calcificazione idiopatica • Secondarie a dilatazione del ventricolo sinistro C. Alterazioni delle corde tendinee • Rottura – Idiopatica – Endocardite reumatica – Endocardite infettiva – Cardiopatia ischemica – Trauma • Allungamento – Idiopatico – Alterazioni del collagene (Marfan, Ehlers-Danlos) D. Muscoli papillari • Disfunzione o rottura – Cardiopatia ischemica – Trauma • Malallineamento – Aneurisma ventricolare sinistro – Cardiomiopatia ipertrofica – Fibroelastosi endomiocardica
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del ventricolo sinistro (per es., stenosi aortica associata o vasocostrizione periferica) comportano un aumento del rigurgito; viceversa, la riduzione delle resistenze all’efflusso dal ventricolo sinistro comporta una riduzione del rigurgito. Quindi nel caso dell’insufficienza mitralica si ha un coinvolgimento tanto della camera a valle quanto di quella a monte della valvola lesa e questa è la differenza sostanziale rispetto alla stenosi mitralica. A livello del ventricolo sinistro si crea un sovraccarico di volume: infatti ad ogni diastole ritorna al ventricolo sinistro, oltre alla quantità di sangue affluito dal circolo polmonare in atrio sinistro, anche la quota di sangue rigurgitato dal ventricolo all’atrio sinistro nella sistole precedente. Il ventricolo quindi si adatta dilatandosi e ipertrofizzandosi, pur conservando un rapporto tra spessore della parete e raggio della cavità abbastanza normale. La quantità di sangue espulso in aorta, cioè la gettata cardiaca efficace, tende a ridursi e quindi l’esito finale è quello di una riduzione della portata cardiaca. Nelle fasi iniziali della malattia, e comunque in assenza di un rigurgito massivo, la funzione contrattile del ventricolo sinistro si mantiene normale. La frazione di eiezione, che è una misura comunemente usata della funzione ventricolare (F.E. = vol. telediastolico – vol. telesistolico/vol. telediastolico), è normale in questa fase della malattia, anzi spesso appare aumentata. Infatti, il volume telediastolico è aumentato mentre il volume telesistolico è normale o ridotto perché l’espulsione del sangue dal ventricolo sinistro è facilitata dalla presenza del rigurgito in atrio. Pertanto il rilievo di una frazione di eiezione ai limiti inferiori della norma, nel caso dell’insufficienza mitralica, è già indice di una sensibile compromissione della funzione ventricolare sinistra, una sua riduzione anche modesta sotto i valori normali testimonia una grave compromissione della performance del ventricolo. A livello dell’atrio sinistro il rigurgito mitralico può causare fenomeni diversi in rapporto alla sua entità, ma soprattutto in rapporto alla modalità di insorgenza: acuta o cronica. Nel caso di insufficienza cronica si verifica un progressivo adattamento dell’atrio che tende a dilatarsi, raggiungendo a volte dimensioni enormi. La pressione all’interno dell’atrio, di conseguenza, non si innalza molto e quindi non si crea un’ipertensione venosa passiva a livello polmonare, o comunque non in misura pari a quanto avviene nella stenosi mitralica. Il disturbo emodinamico principale in questi pazienti è pertanto una riduzione della portata cardiaca, mentre non si manifestano i segni della stasi polmonare e quindi la dispnea è modesta o assente. Per questo motivo l’insufficienza mitralica cronica pura è il vizio meglio tollerato dal paziente e quello con la storia naturale più favorevole a lungo termine. Col passare del tempo, tuttavia, il ventricolo sinistro sottoposto al sovraccarico di volume può andare incontro a un deficit contrattile con aumento della pressione telediastolica, inoltre la dilatazione del ventricolo sinistro può causare una dilatazione dell’anulus mitralico e quindi un aumento secondario del rigurgito, instaurando un circolo vizioso che porta allo scompenso. Evidentemente quest’evoluzione
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peggiorativa è più rapida in presenza di patologie associate che interessano direttamente il miocardio ventricolare sinistro, come per esempio una cardiopatia ischemica o una cardiopatia ipertensiva. Completamente diversa è la situazione che si crea in presenza di un’insufficienza mitralica acuta, per esempio nel caso di rottura di corde tendinee in corso di endocardite infettiva o di rottura di un muscolo papillare in corso di infarto miocardico. In questi casi l’associazione di rigurgito massivo e di insorgenza brusca non consentono l’adattamento progressivo dell’atrio sinistro, il quale non si dilata. Pertanto si ha una rapida ascesa della pressione atriale sinistra e conseguentemente delle pressioni venose polmonari. L’evoluzione è rapidamente peggiorativa verso l’edema polmonare acuto. Tra questi due estremi esiste tutta una gamma di quadri intermedi in rapporto sia all’entità del rigurgito sia alle proprietà intrinseche dell’atrio sinistro, che può tendere più o meno a dilatarsi. C. Clinica. 1. Sintomi. Nei pazienti con insufficienza mitralica cronica non compaiono sintomi sino a quando il ventricolo sinistro non si scompensa. Pertanto, in molti casi, l’intervallo tra l’instaurarsi dell’insufficienza mitralica e la comparsa di sintomi è di decenni; alcuni casi con insufficienza lieve o moderata restano asintomatici per tutta la vita. Per i meccanismi sopra ricordati, i sintomi possono variare: nel caso che prevalga la dilatazione dell’atrio sinistro non vi è dispnea, mentre possono manifestarsi facile affaticamento e ridotta capacità di sforzo, in conseguenza della riduzione della portata cardiaca. L’insorgenza della fibrillazione atriale, che è pressoché costante nei pazienti con dilatazione dell’atrio sinistro, può aggravare i sintomi comportando una riduzione della portata cardiaca. Viceversa, nei pazienti con insufficienza acuta o comunque in quelli in cui non si verifica una dilatazione atriale sinistra, i sintomi sono simili a quelli della stenosi mitralica legati alla congestione venosa ed eventualmente all’ipertensione arteriosa polmonare secondaria. 2. Segni. La palpazione rileva un itto della punta sollevante e rapido, spesso spostato a sinistra e in basso rispetto alla localizzazione abituale in V spazio, 1 cm all’interno dell’emiclaveare. In protodiastole può essere palpabile all’apice un breve impulso che è l’equivalente palpatorio del III tono (si veda in seguito). All’ascoltazione il I tono è attutito e spesso difficilmente rilevabile, perché coperto da un soffio sistolico molto precoce. Se il I tono è forte, si deve pensare all’associazione di stenosi mitralica o comunque ad un’insufficienza mitralica non grave. La sistole è completamente occupata da un soffio detto appunto olosistolico, ad alta frequenza, ben udibile alla punta e irradiato all’ascella, dovuto al rigurgito di sangue in atrio sinistro. La sua intensità è abitualmente costante durante tutta la sistole; nei casi di insuf-
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ficienza acuta grave, può apparire in decrescendo perché l’elevata pressione all’interno dell’atrio riduce il gradiente pressorio ventricolo-atriale in telesistole. Il II tono è normale; può essere aumentato in caso di ipertensione polmonare secondaria. A distanza di 0,12-0,16 sec dalla componente aortica del II tono è rilevabile un tono aggiunto protodiastolico: si tratta di un III tono, legato alla brusca messa in tensione delle corde tendinee, dei muscoli papillari e dei lembi valvolari, al termine del riempimento rapido del ventricolo sinistro. Esso non va confuso con lo schiocco di apertura della mitrale: rispetto a questo è più tardivo e ha intensità e frequenza minori (si sente meglio con la campana del fonendo). In alcuni casi sono rilevabili entrambi ed allora si è di fronte ad una steno-insufficienza. L’assenza del III tono depone per un’insufficienza mitralica emodinamicamente non rilevante. La diastole abitualmente è libera, ma in casi di insufficienza mitralica massiva si può rilevare un soffio diastolico legato non già ad una stenosi mitralica associata, ma al fatto che l’elevata quantità di sangue che passa attraverso la mitrale in diastole (ritorno venoso polmonare più frazione di rigurgito) crea una stenosi mitralica relativa (Fig. 10.6). Al termine della diastole, in fase presistolica, è udibile un IV tono nei casi di insufficienza acuta massiva in ritmo sinusale: esso è legato ad una ridotta compliance del ventricolo sinistro. Reperti particolari si rilevano in presenza di cause specifiche di insufficienza mitralica: un malfunzionamento del muscolo papillare può dare origine ad un soffio che occupa solo la meso-telesistole; anche l’irradiazione del soffio può, in questo caso, essere diversa dall’abituale: l’interessamento del lembo valvolare po-
Figura 10.6 - Insufficienza mitralica pura. Il tracciato fonocardiografico mostra un I tono di intensità ridotta immediatamente seguito da un soffio olosistolico ad alta frequenza. È presente un evidente III tono sincrono con l’onda di riempimento rapido dell’apicocardiogramma (RR); ad esso fa seguito un breve soffio diastolico, che non indica la presenza di una stenosi mitralica organica, ma è espressione di una “stenosi relativa” rispetto all’elevato flusso diastolico secondario al rigurgito mitralico massivo (si veda il testo).
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steriore o del suo muscolo papillare o delle sue corde tendinee può dare un’irradiazione verso il mesocardio e la base. Infine, in presenza di rottura di corde tendinee si può avere un soffio di intensità e frequenza molto elevate, che si definisce soffio “a grido di gabbiano”. D. Esami strumentali. 1. Elettrocardiogramma. I principali segni elettrocardiografici conseguenti a insufficienza mitralica sono i seguenti. Segni di dilatazione atriale sinistra (si veda Stenosi mitralica) sono presenti in tutti i pazienti con insufficienza mitralica emodinamicamente significativa che mantengano il ritmo sinusale. La presenza di fibrillazione atriale è pressoché costante in caso di sensibile dilatazione dell’atrio sinistro. I segni di ipertrofia e sovraccarico del ventricolo sinistro sono presenti in circa la metà dei pazienti con insufficienza mitralica di grado elevato (Cap. 4). Circa il 15% dei pazienti mostra evidenza elettrocardiografica di ipertrofia ventricolare destra e solo il 5% di ipertrofia ventricolare combinata (sinistra e destra) (Cap. 4). 2. Esami radiologici. Alla lastra del torace la morfologia e la volumetria cardiaca appaiono alterate per dilatazione atriale e ventricolare sinistra, purché l’insufficienza sia di grado significativo. In proiezione anteroposteriore l’arco inferiore di sinistra è prominente e allungato; l’arco medio è sporgente per dilatazione atriale sinistra; il cappuccio aortico è normale; a destra è possibile rilevare un doppio contorno; il bronco sinistro può apparire orizzontalizzato. In proiezione laterale lo spazio retrocardiaco è ridotto e si può rilevare un’impronta sull’esofago baritato in conseguenza della dilatazione atriale e ventricolare sinistra (Fig. 10.7). Meno frequente che nella stenosi mitralica è il rilievo di calcificazioni mitraliche. I reperti a livello polmonare, tipici della stenosi mitralica, sono rilevabili solo nel caso di ipertensione polmonare secondaria a insufficienza acuta e/o a insufficienza coronarica grave con scompenso. Nel caso di insufficienza mitralica da calcificazione dell’anulus, tale calcificazione può essere rilevabile alla scopia con intensificatore di brillanza, in proiezione laterale od obliqua anteriore destra, come una C radiopaca. Il metodo più comune di valutazione semiquantitativa del rigurgito mitralico è la ventricolografia con mezzo di contrasto; questa tecnica richiede il cateterismo sinistro e l’iniezione di mezzo di contrasto nel ventricolo sinistro. In base al grado di opacizzazione dell’atrio sinistro e al tempo di lavaggio del mezzo di contrasto dall’atrio sinistro, il rigurgito può essere classificato in vari gradi. La ventricolografia sinistra con mezzo di contrasto consente anche di identificare il tipo e l’eziologia dell’insufficienza mitralica, per esempio evidenziando la rottura di una corda tendinea o la fissurazione di un lembo mitralico.
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A.
B.
Figura 10.7 - Insufficienza mitralica grave. Aspetto radiologico in proiezione antero-posteriore. A. Si rileva una cospicua cardiomegalia da dilatazione atriale e ventricolare sinistra. B. Lo stesso paziente dopo un intervento di anuloplastica mitralica: il buon esito dell’intervento è documentato dalla regressione della cardiomegalia. (Da F.J. Stapleton, op. cit.).
3. Ecocardiogramma. L’ecocardiogramma in molti casi consente di identificare direttamente la causa dell’insufficienza: in caso di endocardite batterica, possono rilevarsi delle vegetazioni a livello dei lembi o delle corde; in caso di rottura di una corda tendinea, si possono rilevare ampie e grossolane oscillazioni del lembo posteriore in diastole e un suo movimento posteriore in sistole; in caso di insufficienza mitralica da calcificazione dell’anulus è rilevabile una zona ecodensa tra la valvola e la parete posteriore del ventricolo. Qualunque sia la causa dell’insufficienza, all’ecocardiogramma sono rilevabili le sue conseguenze a livello atriale e ventricolare sinistro. Il ventricolo sinistro appare dilatato e caratteristicamente le sue pareti (setto interventricolare e parete posteriore) appaiono ipercinetiche, cioè mostrano ampie escursioni sistodiastoliche. L’atrio sinistro è dilatato. Con l’ecocardiogramma bidimensionale è spesso rilevabile direttamente il mancato collabimento dei lembi mitralici in sistole. Tuttavia, a differenza della stenosi mitralica, l’ecocardiografia provvede soltanto una valutazione semiquantitativa della gravità dell’insufficienza mitralica. Vari metodi sono stati elaborati per risolvere questo problema, ma nessuno è risultato pienamente soddisfacente. Successivi controlli ecocardiografici nel tempo (facilmente possibili perché la tecnica non è invasiva) permettono di valutare l’evoluzione della malattia. Un aumento del diametro diastolico del ventricolo sinistro, specie se associato ad una riduzione dell’ampiezza dei movimenti del setto e della parete posteriore, indica un deterioramento emodinamico e la comparsa di un deficit della funzione del ventricolo sinistro.
4. Tecniche radioisotopiche. La ventricolografia radioisotopica al primo passaggio consente non solo la valutazione dei volumi diastolico e sistolico del ventricolo sinistro e quindi la misura della frazione di eiezione, ma permette anche la misura quantitativa del rigurgito mitralico per mezzo del confronto tra gettata sistolica del ventricolo destro e gettata sistolica del ventricolo sinistro. In condizioni normali le due gettate sono sostanzialmente identiche; in caso di insufficienza mitralica la gettata sistolica del ventricolo sinistro è superiore, perché oltre alla quantità di sangue espulsa in aorta c’è la quantità di sangue che rigurgita in atrio sinistro; la differenza tra gettata sistolica del ventricolo sinistro e gettata sistolica del ventricolo destro esprime appunto l’entità del rigurgito. E. Diagnosi differenziale. La diagnosi differenziale con il soffio olosistolico da difetto interventricolare è molto difficile solo sulla base dell’ascoltazione, anche se nel caso del difetto interventricolare il soffio ha la massima intensità in sede parasternale sinistra e si irradia anche verso destra; le caratteristiche della lastra del torace, che evidenzia un iperafflusso polmonare nella pervietà interventricolare, consentono la diagnosi. Anche il soffio da insufficienza tricuspidale può creare problemi di diagnosi differenziale; esso tuttavia aumenta caratteristicamente durante l’inspirazione, mentre il soffio da insufficienza mitralica non viene influenzato dagli atti respiratori. F. Cenni di terapia. A differenza delle lesioni stenotiche, l’insufficienza mitralica può progredire insidiosamente, causando un danneggiamento del ventrico-
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lo sinistro anche prima che i sintomi di scompenso si verifichino. Per questa ragione, può essere indicato intervenire chirurgicamente anche in pazienti asintomatici se esistono segni strumentali di un eventuale danneggiamento del ventricolo sinistro. Due parametri possono essere considerati a questo riguardo: la frazione di eiezione e le dimensioni del ventricolo sinistro al termine della sistole. Come si è detto, in presenza di un’insufficienza mitralica la frazione di eiezione può essere aumentata, ma a patto che sia presente una normale funzione del miocardio. Se la frazione di eiezione scende a meno del 60% allora la prognosi peggiora. La valutazione delle dimensioni del ventricolo sinistro al termine della sistole ha il vantaggio, rispetto alla misura della frazione di eiezione, di essere meno dipendente dal precarico. Se, in caso di insufficienza mitralica, le dimensioni del ventricolo sinistro al termine della sistole superano i 45 mm, anche allora la prognosi peggiora. Perciò, in conclusione, vi è indicazione all’intervento chirurgico se si sviluppano sintomi non lievi, se la frazione di eiezione scende sotto il 60%, o se le dimensioni del ventricolo sinistro al termine della sistole sono superiori a 45 mm. La riparazione della valvola mitrale ha una mortalità operatoria più bassa e una migliore prognosi a distanza rispetto alla sostituzione valvolare con una protesi. In ogni caso è importante conservare le corde tendinee e le loro connessioni.
Prolasso della mitrale Il prolasso della mitrale è una sindrome clinica molto comune con un ampio spettro di gravità: si può passare dal soggetto completamente asintomatico, in cui l’anomalia è semplicemente un rilievo, ecocardiografico o ascoltatorio, al soggetto gravemente sintomatico per sincopi o per scompenso cardiaco. Il prolasso deriva da diversi meccanismi patogenetici che interferiscono con la normale funzione dell’apparato valvolare mitralico, e il fattore unificante è rappresentato dal fatto che durante la sistole, abitualmente in meso-telesistole, uno o entrambi i lembi valvolari, comunemente il lembo posteriore, prolassano all’interno dell’atrio sinistro. A. Incidenza e prevalenza. Il prolasso mitralico è probabilmente l’anomalia valvolare più comune; l’uso diffuso dell’ecocardiografia ha posto in evidenza la presenza di un prolasso in una percentuale variabile dal 5 al 10% di una popolazione generale. È importante non considerare “malati” tutti i portatori di segni ecocardiografici di prolasso; la maggior parte di costoro sono asintomatici e spesso divengono sintomatici per nevrosi d’ansia, quando ad essi viene comunicato con modalità non corrette che sono portatori di un’anomalia valvolare. L’anomalia è più frequente tra le donne giovani-adulte, ma è presente in entrambi i sessi e a tutte le età. B. Eziologia. Le cause del prolasso mitralico sono molteplici; nella maggior parte dei casi non è rilevabile alcuna causa specifica. In altri si riscontra una degene-
razione mixomatosa a livello dei lembi valvolari mitralici con aumento dei mucopolisaccaridi acidi; questo è un reperto frequente nei portatori di sindrome di Marfan. In altri casi il prolasso dipende da alterazioni di contrazione o allineamento dei muscoli papillari o da anomalie segmentarie di contrazione della parete del ventricolo sinistro; queste anomalie possono dipendere da cardiopatia ischemica o da cardiomiopatia ipertrofica o dilatativa. Un caso particolare è l’associazione di prolasso mitralico al difetto interatriale. Altre condizioni in cui è rilevabile il prolasso sono alcune anomalie scheletriche toraciche come il pectus excavatum e la “schiena diritta”. Si rileva, infine, un’aumentata incidenza familiare, che suggerirebbe una forma di ereditarietà autosomica dominante. C. Fisiopatologia. Le variazioni emodinamiche sono in rapporto all’entità del rigurgito mitralico, che in alcuni casi è assente e in altri può essere massivo. Comunque esse non si discostano, a parità di insufficienza, dalle ripercussioni emodinamiche rilevate nelle insufficienze mitraliche di altra natura. D. Clinica. 1. Sintomi. Le manifestazioni cliniche del prolasso sono estremamente variabili; in molti casi il rilievo è puramente ascoltatorio ed ecocardiografico, con assenza di sintomi. Quando presenti, i sintomi più comuni sono: palpitazioni, dolori toracici atipici, più raramente sincopi ed episodi di ischemia cerebrale transitoria. Nel caso di insufficienza mitralica importante si possono manifestare sintomi di scompenso. Le palpitazioni sono legate ad alcune aritmie particolarmente frequenti nel prolasso mitralico: extrasistoli ventricolari e sopraventricolari, tachiaritmie parossistiche sopraventricolari. In rarissimi casi sono presenti anche aritmie ventricolari maggiori, possibile causa degli sporadicissimi casi di morte improvvisa. I dolori toracici sono spesso atipici e facilmente distinguibili dal dolore toracico anginoso per la localizzazione in sede puntale e per la mancanza di correlazione con lo sforzo. In altri casi il dolore può mimare quello anginoso. La loro genesi non è sicuramente accertata, ma sembra essere legata alla tensione esercitata sui muscoli papillari dal lembo o dai lembi prolassanti. Le sincopi non sono frequenti; la loro origine può essere legata ad aritmie maggiori o in alcuni casi ad ipotensione posturale: infatti in alcuni pazienti è stata rilevata una disfunzione del sistema nervoso autonomo. Caratteristica comune a molti pazienti con prolasso della mitrale è un notevole grado di ansia, almeno in parte legato a sintomi fugaci e transitori come le palpitazioni, le sincopi e i dolori toracici. Nei portatori di prolasso mitralico sono più frequenti, rispetto alla popolazione generale, episodi ischemici cerebrali transitori, probabilmente su base embolica. Le manifestazioni di scompenso sono molto rare e comunque sempre legate ad un’insufficienza mitralica emodinamicamente rilevante.
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2. Segni. All’ispezione generale si possono rilevare pectus excavatum o schiena diritta, oppure alterazioni somatiche tipo Marfan. All’ascoltazione cardiaca il segno distintivo del prolasso è un click non espulsivo, cioè un click localizzato in meso-telesistole; occasionalmente vi sono più click. Il click a volte, ma non sempre, è seguito da un soffio ad alta frequenza che occupa la meso-telesistole. In genere la durata del soffio è proporzionale all’entità del rigurgito e quando esso è limitato alla telesistole il rigurgito è modesto. Questi reperti sono rilevabili alla punta e al mesocardio. Caratteristica è la variabilità nel tempo di questi reperti: nello stesso soggetto può essere udibile il click in un’occasione e il soffio senza click nella successiva; in altra occasione possono essere entrambi presenti oppure essere anche completamente scomparsi. Importante per la diagnosi è la variazione della cronologia del click e della durata del soffio in rapporto ad alcune specifiche manovre; si deve tenere presente infatti che la valvola mitrale comincia a prolassare quando la riduzione del volume ventricolare durante le sistole raggiunge un punto critico, in corrispondenza del quale i lembi valvolari non collabiscono più e prolassano nell’atrio; a questo punto si verifica il click e può iniziare il soffio. Pertanto, tutte le manovre che riducono il volume ventricolare sinistro e aumentano la contrattilità rendono il click precoce e il soffio più lungo; il contrario avviene per le manovre che aumentano il volume del ventricolo sinistro e riducono la contrattilità. Perciò, la manovra di Valsalva, l’assunzione rapida della posizione seduta e la tachicardia, riducendo il volume del ventricolo sinistro, producono un avvicinamento del click al I tono e un prolungamento del soffio; viceversa lo squatting (Cap. 11), l’esercizio isometrico intenso e la bradicardia, essendo manovre che tendono ad aumentare il volume del ventricolo sinistro, allontanano il click dal I tono e accorciano il soffio.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
ECG dinamico secondo Holter. Esso non è indicato in tutti i pazienti con prolasso, ma può essere di notevole utilità in quei pazienti che avvertono frequenti palpitazioni, nei pazienti con lipotimie e sincopi e in quei pazienti in cui si rilevano aritmie all’ECG basale. ECG da sforzo. La sua esecuzione è indicata in quei pazienti che abitualmente svolgono attività fisica intensa o in quelli con storia di lipotimia e sincope. In questi casi esso ha la funzione di verificare l’eventuale insorgenza di aritmie correlate allo sforzo. In altri casi esso può essere utile nei pazienti con dolori toracici per la diagnosi differenziale con l’angina. 2. Esami radiologici. La radiografia del torace può confermare la presenza di anomalie scheletriche toraciche. La morfologia e la volumetria cardiache non sono alterate nel prolasso della mitrale salvo che in presenza di marcato rigurgito; in questo caso le alterazioni sono simili a quelle presenti nell’insufficienza mitralica di altra natura. 3. Ecocardiografia. Sicuramente è questo l’esame diagnostico più importante. L’alterazione più caratteristica all’ecocardiogramma monodimensionale è un brusco movimento all’indietro del lembo posteriore mitralico che inizia in mesosistole ed occupa la telesistole. In altri casi è rilevabile un movimento posteriore di entrambi i lembi mitralici che occupa tutta la sistole e che dà un aspetto “ad amaca” (Figg. 10.8-10.10).
E
F
E. Esami strumentali. 1. Elettrocardiogramma. Il tracciato non pone in evidenza alterazioni specifiche del prolasso mitralico. Tuttavia in alcuni casi sono rilevabili alterazioni della ripolarizzazione, soprattutto in sede inferiore (D2, D3, aVF) e più raramente in sede laterale (V5, V6). L’anomalia più comune è l’inversione o la difasicità della T; può essere presente anche sottoslivellamento del tratto ST. Queste alterazioni sono probabilmente secondarie ad ischemia dei muscoli papillari e della parete ventricolare nel loro punto di inserzione. Queste anomalie sono molto più frequenti nei pazienti sintomatici che negli asintomatici. L’ECG può a volte mettere in evidenza alcune aritmie: le forme più comuni sono l’extrasistolia ventricolare, anche frequente e bigemina, e le tachiaritmie sopraventricolari. Raramente si evidenziano tachicardia ventricolare e bradiaritmie.
Mesotelesistolico
E
F
Olosistolico
Figura 10.8 - Rappresentazione schematica dell’aspetto ecocardiografico (M-mode) del prolasso mitralico.
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10 - VIZI VALVOLARI
Il lembo anteriore mitralico spesso mostra un’escursione diastolica molto ampia, che lo porta ad addossarsi al setto interventricolare in corrispondenza del punto E. Alcuni prolassi non ben identificabili all’ecocardiogramma monodimensionale sono rilevabili con l’ecocardiografia bidimensionale. F. Storia naturale. L’andamento della malattia è, nella stragrande maggioranza dei casi, estremamente benigno, raramente l’insufficienza mitralica è di tale grado da causare segni di scompenso. Anche gli altri sintomi non mostrano abitualmente un progressivo aggravamento. I pazienti con prolasso sono esposti al rischio di endocardite batterica in misura superiore alla popolazione generale; tuttavia questo rischio appare modestissimo per coloro che presentano solo un click in assenza di insufficienza mitralica.
Figura 10.9 - Ecocardiogramma di un caso di prolasso telesistolico (freccia). L’anomalo movimento dei lembi mitralici corrisponde cronologicamente a un soffio telesistolico rilevabile al fonocardiogramma (2 frecce). (Da H. Feigenbaum, Echocardiography, Lea & Febiger, Philadelphia, 1986).
G. Cenni di terapia. Il paziente asintomatico in cui viene occasionalmente riscontrato un prolasso va rassicurato sulla benignità dell’anomalia e non richiede alcun trattamento. In presenza di palpitazioni disturbanti, con conferma elettrocardiografica di aritmie, può essere indicata una terapia antiaritmica; il farmaco di scelta è il propranololo. I pochi pazienti con insufficienza mitralica importante e con segni di scompenso vanno trattati come gli altri casi di insufficienza mitralica. Un problema particolare è posto dalla profilassi dell’endocardite infettiva; le opinioni non sono univoche, ma la tendenza più comune è di non sottoporre a profilassi quei soggetti che hanno solo il click o alterazioni ecocardiografiche minori.
VIZI VALVOLARI TRICUSPIDALI Stenosi tricuspidale La stenosi tricuspidale è un vizio valvolare poco frequente. La sua eziologia è quasi sempre reumatica; altre cause di ostacolo al passaggio di sangue attraverso la tricuspide sono le anomalie congenite (atresia della tricuspide) e i tumori dell’atrio destro o la sindrome da carcinoide (che tuttavia dà origine prevalentemente ad insufficienza). Quando l’eziologia è reumatica, il vizio è più frequente nelle donne; abitualmente non si presenta come vizio isolato, bensì quasi sempre in associazione ad una stenosi mitralica: esso infatti è presente nel 1510% dei casi di valvulopatia mitralica grave e, al tavolo autoptico, si reperta nel 15% dei casi di cardiopatia reumatica. Figura 10.10 - Ecocardiogramma in un caso di prolasso mitralico olosistolico (freccia). In questo caso al fonocardiogramma si registra un soffio olosistolico (2 frecce). (Da. H. Feigenbaum, op. cit.).
A. Fisiopatologia. Come nel caso della stenosi mitralica, la caratteristica fisiopatologica fondamentale della stenosi tricuspidale è la presenza di un gradiente di pressione tra atrio e ventricolo.
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Questo gradiente aumenta quando il flusso transvalvolare si incrementa: pertanto il gradiente diviene maggiore ogni volta che aumenta il ritorno venoso al cuore destro, come per esempio durante l’inspirazione e durante l’esercizio fisico; viceversa il gradiente si riduce quando il ritorno venoso si abbassa, per esempio durante l’espirazione o la manovra di Valsalva. Ciò va tenuto presente perché giustifica alcuni reperti ascoltatori caratteristici delle stenosi tricuspidali (si veda in seguito). Poiché le pressioni nel sistema venoso a monte della tricuspide sono basse, basta un gradiente diastolico di 5 mmHg per causare una congestione venosa importante con turgore giugulare, edemi ed eventualmente ascite. Poiché la stenosi tricuspidale è quasi sempre associata ad una stenosi mitralica, essa spesso svolge una funzione protettiva riducendo l’ipertensione venosa e arteriosa polmonare tipica della stenosi mitralica; infatti, per l’ostacolo al passaggio di sangue attraverso la tricuspide la portata cardiaca è bassa a riposo e non aumenta normalmente durante lo sforzo e quindi il gradiente di pressione transmitralico viene per così dire “mascherato”. B. Clinica. 1. Sintomi. I sintomi sono legati alla bassa portata e alla congestione venosa sistemica. I pazienti con stenosi tricuspidale lamentano quindi facile affaticabilità, senso di distensione addominale per epatomegalia e ascite e, a volte, una fastidiosa pulsazione al collo, per la distensione delle giugulari. I sintomi di congestione polmonare (dispnea, emottisi, ecc.) caratteristici della stenosi mitralica sono tipicamente assenti nella stenosi tricuspidale; anzi nel caso di valvulopatia mitralica, l’assenza di questi sintomi deve indurre a ricercare con attenzione una stenosi tricuspidale. 2. Segni. Spesso i reperti ascoltatori della stenosi tricuspidale sono oscurati da quelli della stenosi mitralica associata, ma un esame obiettivo accurato consente di rilevare quanto segue: • rullio diastolico all’angolo sternale inferiore sinistro; in caso di persistenza di ritmo sinusale, è presente un rinforzo presistolico (a volte è udibile solo quest’ultimo); • il soffio aumenta con l’inspirazione e si riduce con l’espirazione; • può essere presente un tono di apertura della tricuspide in protodiastole; • turgore giugulare, epatomegalia, ascite ed edemi declivi completano il quadro. È opportuno ricordare che quando la stenosi tricuspidale provoca una marcata dilatazione dell’atrio di destra, le variazioni respiratorie del soffio possono attenuarsi e addirittura scomparire: infatti le variazioni respiratorie del ritorno venoso vengono smorzate nell’atrio destro dilatato. C. Esami strumentali. 1. Elettrocardiogramma. In caso di persistenza del ritmo sinusale, si rilevano segni di dilatazione atriale
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
destra: onda P alta e appuntita (> 0,25 mV) in D2 e V1. Se questi segni compaiono in assenza dei segni di ipertrofia ventricolare destra in un paziente con scompenso destro, la diagnosi di stenosi tricuspidale è molto probabile. Poiché la stenosi tricuspidale si associa quasi sempre a una valvulopatia mitralica, il reperto elettrocardiografico più comune è quello di una dilatazione biatriale. 2. Radiografia del torace. Il segno radiologico caratteristico è una cardiomegalia dovuta a dilatazione dell’atrio destro (prominenza dell’arco inferiore destro) che si continua cranialmente in una vena cava superiore dilatata. Se il vizio è isolato, mancano i segni radiologici dell’ipertensione venosa ed arteriosa polmonare (si veda Stenosi mitralica). 3. Ecocardiogramma. I reperti ecocardiografici a carico della tricuspide sono simili a quelli rilevabili a carico della mitrale: riduzione della pendenza diastolica del lembo anteriore e movimento diastolico anteriore del lembo settale. D. Evoluzione e prognosi. La stenosi tricuspidale, se non è particolarmente grave, può essere ben tollerata per anni; ciò è comprensibile se si pensa che i sintomi di bassa portata, edemi periferici ed ascite, sono molto meglio tollerabili dei sintomi legati alla congestione polmonare tipici della stenosi mitralica; anzi, nel caso di associazione dei due vizi, la stenosi tricuspidale protegge il circolo polmonare. La prognosi del vizio isolato non è ben conosciuta, perché raramente esso si presenta isolato; in pratica la prognosi è sempre legata alla malattia multivalvolare. E. Terapia. La terapia risolutiva della stenosi tricuspidale è chirurgica; tuttavia l’uso appropriato di diuretici, la riduzione dell’apporto di sodio e dell’attività fisica riducono i sintomi e i segni.
Insufficienza tricuspidale Questo vizio va distinto in due tipi sostanzialmente diversi sia per eziologia che per quadro fisiopatologico: • insufficienza tricuspidale funzionale o secondaria; • insufficienza tricuspidale organica o primitiva. Il primo tipo è il più comune e trae origine da una dilatazione del ventricolo destro: l’insufficienza deriva da malposizione dei muscoli papillari (che non permette una regolare “tenuta” dei lembi valvolari), da abnorme tensione sulle corde tendinee e da dilatazione dell’anulus. La dilatazione del ventricolo destro trae quasi sempre origine da un’ipertensione polmonare; essa può essere primitiva, oppure secondaria a valvulopatia mitralica, a cardiopatie congenite (per es., difetto interventricolare), a cuore polmonare cronico. Il secondo tipo può essere di natura congenita (anomalia di Ebstein) oppure acquisita. In questi casi le
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10 - VIZI VALVOLARI
eziologie più comuni sono: a) reumatica (il vizio è quasi sempre associato a valvulopatia mitralica); b) ischemica (infarto ventricolare destro); c) degenerativa (alterazioni mixomatose dei lembi con prolasso); d) infettiva (da endocardite); e) traumatica; f) una forma particolare è quella secondaria a sindrome da carcinoide (Cap. 24). In questo caso vengono prodotte alcune sostanze vasoattive come la serotonina, la bradichinina, ed altre che danneggiano l’endocardio del cuore destro, con deposizione di materiale fibroso sulle cuspidi valvolari che possono divenire incompetenti. A. Fisiopatologia. Nel caso di insufficienza tricuspidale organica, il quadro che si instaura progressivamente è quello del sovraccarico di volume del ventricolo destro. Questa cavità cardiaca, infatti, ad ogni diastole riceve il sangue refluo venoso a cui si aggiunge la quantità di sangue rigurgitato in atrio destro durante la sistole precedente. Abitualmente il vizio è tollerato bene e l’evoluzione verso lo scompenso destro è lenta, anche se l’insufficienza tricuspidale è insorta acutamente (per es., nel caso di endocardite infettiva). In questo comportamento l’insufficienza tricuspidale si differenzia nettamente da quella mitralica che, quando è acuta, ha un’evoluzione rapidamente progressiva. Col passare del tempo si può tuttavia manifestare una compromissione della funzione ventricolare destra e, conseguentemente, possono comparire i segni dello scompenso destro. Nel caso di insufficienza tricuspidale funzionale o secondaria, il quadro è diverso perché essa si instaura già in presenza di un sovraccarico ventricolare destro con dilatazione secondaria. In questo caso la comparsa dell’insufficienza fa precipitare i segni di scompenso destro spesso preesistenti. Nel caso in cui l’ipertensione polmonare sia secondaria ad altra valvulopatia, la comparsa di insufficienza tricuspidale tende a ridurre i segni e i sintomi della congestione venosa polmonare. B. Clinica. 1. Sintomi. In assenza di ipertensione polmonare (insufficienza primitiva), il vizio è molto ben tollerato. Nel caso più comune di insufficienza secondaria a ipertensione polmonare, la portata cardiaca si riduce e si intensificano i sintomi legati all’ipertensione del circolo venoso sistemico; il quadro quindi comprende: facile affaticabilità, astenia, tensione addominale e dolenzia da distensione epatica. 2. Segni. I reperti ascoltatori tipici dell’insufficienza tricuspidale sono i seguenti: in sede parasternale al IV spazio o nell’area subxifoidea è udibile un soffio olosistolico ad alta frequenza. Nel caso di insufficienza primitiva, per esempio da trauma o da endocardite, il soffio è lieve e può essere non olosistolico. In presenza di una marcata dilatazione del ventricolo destro, il soffio viene ad occupare gran parte della regione precordiale e il soffio può essere udibile alla punta del cuore. In questo caso è difficilmente distinguibile dal soffio dell’insufficienza mitralica.
Il suo comportamento con gli atti respiratori è molto utile nella diagnosi differenziale: il soffio da insufficienza tricuspidale aumenta durante l’inspirazione (aumenta il ritorno venoso) e si riduce durante l’espirazione e la manovra di Valsalva (si riduce il ritorno venoso). In caso di insufficienza di grado cospicuo, può essere udibile sullo stesso focolaio anche un rullio diastolico, dovuto al fatto che la quantità di sangue che passa attraverso l’orifizio valvolare in diastole è aumentata (si crea una stenosi relativa). Ultimo reperto ascoltatorio può essere la presenza di un III tono originante dal ventricolo destro. Alla palpazione si può rilevare un impulso in sede parasternale sinistra dovuto al ventricolo destro dilatato. Le vene giugulari appaiono distese. Il fegato appare ingrandito e può essere palpabile una pulsazione sistolica, almeno in presenza di una significativa insufficienza; con l’aggravarsi del quadro di scompenso, il fegato diventa più duro e la pulsazione sistolica può non essere più rilevabile. Comune è il rilievo di ascite e pressoché costanti sono gli edemi periferici. C. Esami strumentali. 1. Elettrocardiogramma. Comune è la fibrillazione atriale. Quando è presente il ritmo sinusale, sono rilevabili i segni di dilatazione dell’atrio destro (si veda Stenosi tricuspidale). Nel caso più comune d’insufficienza tricuspidale secondaria è quasi sempre presente una deviazione assiale destra del QRS e spesso si associano i segni di ipertrofia ventricolare destra con ampie onde R nelle precordiali destre e profonda S nelle precordiali sinistre. Nelle forme secondarie ad altre valvulopatie si associano i segni elettrocardiografici tipici di queste. 2. Radiografia del torace. Abitualmente è evidente una marcata cardiomegalia secondaria alla primitiva lesione responsabile della dilatazione del ventricolo destro (per es., valvulopatia mitralica). A questi segni si associano quelli della dilatazione dell’atrio destro (si veda Stenosi tricuspidale). 3. Ecocardiogramma. Il ventricolo destro appare dilatato e abitualmente è presente un movimento paradosso del setto interventricolare, come nel caso del difetto interatriale (infatti in entrambi i casi si viene a creare la stessa situazione emodinamica di sovraccarico di volume del ventricolo destro). In casi particolari di insufficienza tricuspidale primitiva (per es., anomalia di Ebstein o prolasso tricuspidale), l’ecocardiogramma consente di evidenziare specifiche alterazioni. Con la tecnica dell’ecocontrastografia può essere messo in evidenza il rigurgito tricuspidale: la tecnica consiste nell’iniettare rapidamente in vena una modesta quantità di soluzione fisiologica; ciò provoca la comparsa di microcavitazioni che sono facilmente rilevabili all’ecocardiogramma; quando il “bolo” giunge al ventricolo di destra, se è presente un’insufficienza tricuspidale, si può rilevare che, almeno in parte, esso ritorna all’atrio destro invece di procedere verso la polmonare.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
ECG
A V
C
A.
Y X
V
B.
A
C
Y
V
C.
Figura 10.11 - Registrazione del polso giugulare. Tracciato normale (A); tracciato in caso di stenosi (B) o di insufficienza (C) tricuspidale.
E. Terapia. La terapia medica dell’insufficienza tricuspidale secondaria è quella della lesione primitiva; con ciò si possono ottenere la riduzione del rigurgito e dei sintomi che ne conseguono. La terapia chirurgica si basa su due procedimenti diversi: la sostituzione della valvola con protesi meccanica o biologica, oppure, più semplicemente, l’anuloplastica che consiste nel restringere, attraverso una particolare tecnica chirurgica, l’anello valvolare in modo da ridurre l’insufficienza dovuta alla dilatazione. Quando l’insufficienza tricuspidale è secondaria ad una valvulopatia mitralica, l’eventuale correzione chirurgica si associa a quella della valvulopatia primitiva. Nel caso particolare di insufficienza tricuspidale da endocardite batterica, spesso si procede all’escissione della valvola, senza procedere immediatamente all’impianto di una protesi. Ciò viene fatto solo dopo alcune settimane o mesi: questa procedura è possibile perché i pazienti possono tollerare abbastanza bene l’assenza della valvola e d’altra parte l’impianto immediato di una protesi li esporrebbe ad un rischio notevole di infezione della protesi impiantata.
VIZI VALVOLARI AORTICI 4. Polso giugulare. Questa tecnica poligrafica rimane di una certa utilità nel caso di vizi valvolari tricuspidali perché consente di registrare fedelmente le variazioni di volume delle giugulari che rispecchiano le variazioni di pressione a livello dell’atrio destro. Nella figura 10.11 sono riportati un tracciato normale ➀ e quelli rilevabili in caso di stenosi ➁ e insufficienza ➂ tricuspidale (per i rapporti temporali tra le onde giugulari e le fasi del ciclo cardiaco, si veda figura 5.1). In presenza di stenosi, si ha un’onda A gigante che riflette l’aumento di pressione nell’atrio destro durante la sistole atriale per la presenza della stenosi. Inoltre, poiché il riempimento ventricolare rapido è parzialmente impedito dall’ostacolo valvolare, la branca discendente dell’onda V è meno ripida che nel normale. Nel caso di insufficienza tricuspidale per la presenza del rigurgito in atrio destro scompare quasi completamente il collasso sistolico X, e l’onda V diviene più pronunciata. Nei casi gravi si ha fusione dell’onda C con l’onda V. D. Evoluzione e prognosi. L’insufficienza tricuspidale primitiva, se non è di grado marcato, è abitualmente ben tollerata e a lenta evoluzione. Nei casi di insufficienza tricuspidale secondaria, l’evoluzione clinica è prevalentemente determinata dalla lesione primitiva (valvulopatia mitralica, ipertensione polmonare primitiva, ecc.); la sua comparsa, tuttavia, determina un peggioramento dello scompenso destro. In questi casi l’entità del rigurgito e il quadro emodinamico complessivo dipendono dal successo o meno dei vari interventi terapeutici tesi a ridurre l’ipertensione polmonare.
In questo capitolo sono trattate le alterazioni della valvola aortica che comportano un suo imperfetto funzionamento. Si distinguono vizi in cui l’anomalia consiste soprattutto in un ostacolo all’espulsione sistolica del sangue dal ventricolo sinistro (stenosi aortica) e vizi in cui la valvola perde la capacità di impedire in diastole il rigurgito di sangue dall’aorta al ventricolo (insufficienza aortica). Dopo quelli mitralici, i vizi aortici sono i più frequenti e rappresentano circa un terzo di tutti i vizi valvolari riscontrati clinicamente. Circa il 75% dei pazienti con vizi valvolari aortici sono maschi.
Stenosi aortica Oltre alla stenosi aortica propriamente detta, esistono anche altre condizioni di ostacolo all’efflusso del ventricolo sinistro (a causa di strutture diverse dalla valvola). Schematicamente, un’ostruzione del ventricolo sinistro può determinarsi a quattro diversi livelli (Fig. 10.12). Le ostruzioni valvolari sono dovute per lo più a processi infiammatori o degenerativi, che si sovrappongono in molti casi a malformazioni congenite di varia gravità (si veda il paragrafo Eziopatogenesi); perciò si manifestano nell’adulto o nell’anziano, a meno che la malformazione sia molto grave sin dalla nascita. Le ostruzioni sopra e sottovalvolari, invece, sono sempre congenite e si manifestano nell’infanzia o nella giovinezza: consistono in diaframmi o restringimenti nelle immediate vicinanze dell’ostio valvolare. Dal punto di vista clinico e fisiopatologico, esse sono quasi del tutto sovrapponibili alle stenosi valvolari congenite.
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10 - VIZI VALVOLARI
Setto membranoso
Aorta Arteria polmonare
Stenosi valvolare aortica
Atrio destro
Lembo settale della tricuspide
Atrio sinistro
Lembo aortico della mitrale
Ventricolo sinistro
Ventricolo destro
A. STENOSI VALVOLARE
Ostruzione sopravalvolare
Aorta Arteria polmonare
Setto membranoso Atrio destro
Lembo settale della tricuspide
Atrio sinistro
Lembo aortico della mitrale
Ventricolo sinistro
Ventricolo destro
B. STENOSI SOPRAVALVOLARE
Ostruzione sottovalvolare
Aorta Arteria polmonare
Setto membranoso Atrio destro
Lembo settale della tricuspide
Atrio sinistro
Lembo aortico della mitrale
Ventricolo sinistro
Ventricolo destro
C. STENOSI SOTTOVALVOLARE
Aorta
Setto membranoso Lembo settale della tricuspide
Arteria polmonare Atrio destro
Atrio sinistro
Lembo aortico della mitrale Ostruzione tra lembo aortico e setto ipertrofico
Ventricolo destro
Ventricolo sinistro D. CARDIOMIOPATIA IPERTROFICA
Figura 10.12 - Un’ostruzione dell’efflusso del ventricolo sinistro può determinarsi a quattro diversi livelli. A. Valvolare, spesso con perdita delle commissure e con piccolo orifizio centrale. B. Sopravalvolare, il più delle volte per restringimento a clessidra dell’aorta ascendente. C. Sottovalvolare, per la presenza di diaframmi fibrosi congeniti al di sotto del piano valvolare. D. Tra il setto e il lembo aortico della mitrale, come avviene nella cardiomiopatia ipertrofica, dove il setto risulta ipertrofico e il lembo aortico della mitrale si muove in avanti durante la sistole.
L’ostruzione caratteristica (ma non costante) della cardiomiopatia ipertrofica (malattia su base ereditaria che si manifesta per lo più in età adulta) si produce durante la contrazione sistolica per avvicinamento del lembo anteriore mitralico al setto ipertrofico. La stenosi subaortica della cardiomiopatia ipertrofica presenta però caratteristiche fisiopatologiche e cliniche peculiari, per le quali si rimanda al capitolo delle cardiomiopatie. A. Eziopatogenesi. In più della metà dei casi di stenosi aortica la valvola presenta una struttura anomala congenita. Al posto delle tre normali cuspidi semilunari divise da tre commissure regolari (Fig. 10.13), la valvola può avere una sola cuspide (monocuspide) con un piccolo orifizio eccentrico. In questo caso i segni di ostruzione aortica sono presenti dalla nascita. Più frequentemente la valvola è bicuspide e la malformazione (che colpisce quasi il 2% della popolazione) non comporta di per sé una significativa ostruzione. L’eccessiva turbolenza del sangue attorno ai lembi valvolari anomali produce però, col passare degli anni, la comparsa di fibrosi, calcificazione e quindi imperfetta apertura dell’apparato valvolare. L’alterazione strutturale rende anche più facile l’impianto di un’endocardite infettiva, in seguito alla quale la stenosi può aggravarsi con un’insufficienza valvolare da parziale distruzione dei lembi. Anche le valvole tricuspidali possono presentare lembi irregolari di diversa dimensione e con parziale fusione delle commissure. Se ciò crea un aumento della turbolenza al flusso, col tempo può determinarsi una stenosi con lo stesso meccanismo detto sopra. In alcuni casi, infine, la stenosi si produce su una valvola completamente normale alla nascita. La causa di questo fatto è sconosciuta, ma si pensa che dipenda da processi simili a quelli che producono l’aterosclerosi delle coronarie. Infatti, questo tipo di stenosi aortica è associato con gli stessi fattori di rischio dell’aterosclerosi delle coronarie, quali l’ipertensione e l’ipercolesterolemia. La stenosi aortica di origine reumatica è raramente isolata: si accompagna per lo più a insufficienza aortica e soprattutto a vizi valvolari mitralici. Il processo infiammatorio produce fusione delle commissure, quindi irrigidimento e retrazione dei bordi valvolari (donde l’associata insufficienza) e formazione di noduli calcifici sulle superfici libere. La stenosi aortica degenerativa, che si attribuisce al logoramento d’uso della valvola, compare in seguito a progressiva fibrosi e calcificazione alla radice dei lem-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Pressione (mmHg)
A.
240
200
Gradiente pressorio
160
B.
C.
120 AORTA 80
40
Atrio sinistro Ventricolo sinistro
0 Fonocardiogramma D.
P A
E. 1
2
ECG
0
0,2
0,4
0,6
0,8
1.0
Tempo (sec)
Figura 10.13 - Diverse morfologie valvolari in caso di stenosi aortica. A. Valvola normale tricuspide. B. Stenosi congenita con valvola praticamente monocuspide e piccolo orifizio eccentrico. C. Stenosi di origine reumatica con vegetazioni e fusioni dei lembi, che presentano bordi ispessiti e retratti (coesiste insufficienza). D. Stenosi aortica calcifica di una valvola bicuspide. E. Stenosi aortica senile con calcificazione delle cuspidi di una valvola originariamente normale.
bi valvolari (che non possono quindi aprirsi normalmente, anche se le commissure restano libere) nelle persone anziane (oltre i 65 anni), oppure ad alterazioni aterosclerotiche nelle persone con grave ipercolesterolemia. Anche i soggetti colpiti da malattia di Paget (Cap. 33) sono particolarmente predisposti alla precoce comparsa di stenosi aortica degenerativa. B. Fisiopatologia. Quando l’area di apertura (ostio) della valvola aortica è ridotta rispetto al normale, il sangue che viene espulso in sistole dal ventricolo forma vortici attorno alle strutture valvolari. Queste turbolenze danno luogo ai rumori patologici (soffi) udibili sul torace. I vortici, col tempo, producono anche una fibrosi calcifica dei lembi valvolari, che tende ad aggravare progressivamente la stenosi sino ad alterare la funzione cardiaca (stenosi emodinamicamente significativa). Il restringimento valvolare costituisce un ostacolo all’eiezione del sangue. Per vincere questa resistenza e mantenere un flusso normale, la pressione nel ventricolo sinistro in sistole deve sempre superare di una certa entità la pressione in aorta (Fig. 10.14). Questa diffe-
Figura 10.14 - Nel diagramma è evidente il gradiente pressorio che si determina in sistole tra ventricolo sinistro e aorta. Il soffio da eiezione (sotto) raggiunge il suo massimo quando il gradiente pressorio ha la maggiore entità.
renza si chiama gradiente pressorio tra ventricolo e aorta ed è proporzionale all’ostruzione. Quando l’ostio valvolare si riduce a meno di un quarto del normale, il gradiente pressorio sale oltre i 50 mmHg: si parla allora di stenosi critica, in concomitanza con la quale compaiono in genere i primi sintomi della malattia. Il sovraccarico di pressione sistolica stimola un’ipertrofia concentrica del ventricolo sinistro: le pareti si ispessiscono notevolmente, mentre la cavità non si dilata e quindi il volume in toto del cuore aumenta poco. L’aumento di spessore delle pareti controbilancia l’aumento di pressione ventricolare sistolica, in modo da mantenere a valori quasi normali lo sforzo (o stress) di parete, cioè il postcarico. Ciò è dovuto alla legge di Laplace ed è spiegato in dettaglio nel capitolo 5. Grazie a ciò il ventricolo riesce a mantenere a lungo una prestazione normale, per lo meno a riposo, nonostante l’ostruzione. Il meccanismo di compenso dell’ipertrofia comporta però due costi. 1. Aumenta il consumo di O2 miocardico, per l’aumento della massa muscolare. A ciò si aggiunge un’accentuata compressione delle arterie coronarie (per l’aumento della pressione endocavitaria), che ne ostacola il
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10 - VIZI VALVOLARI
flusso, e un prolungamento della sistole. Tutti questi fattori insieme possono determinare un’ischemia miocardica (apporto di sangue ossigenato insufficiente in rapporto alle esigenze), anche in assenza di coronaropatia. 2. Diminuisce la distensibilità (“compliance”) del ventricolo sinistro. La maggior rigidità fa aumentare la pressione diastolica ventricolare anche in assenza di scompenso. Per ottenere un riempimento completo del ventricolo, l’atrio sinistro deve esercitare una contrazione più energica e si ipertrofizza. L’apporto atriale diviene indispensabile al buon funzionamento cardiaco: l’insorgenza di una fibrillazione atriale o di un blocco atrioventricolare (due condizioni che comportano la perdita di un’utile contrazione atriale) possono perciò far precipitare questo equilibrio precario. Lo sforzo fisico rappresenta però la situazione più frequente, capace di mettere a dura prova i meccanismi di compenso del cuore con stenosi aortica. Durante lo sforzo possono perciò determinarsi più facilmente tre gravi fenomeni fisiopatologici. 1. Il consumo di O2 cardiaco aumenta notevolmente sotto sforzo, mentre la perfusione coronarica è ostacolata dalla compressione estrinseca esercitata dal miocardio ipertrofico in tensione. Questo spiega la comparsa di angina da sforzo. 2. La pressione ventricolare sistolica aumenta enormemente nel tentativo di mantenere il flusso richiesto dall’esercizio muscolare. Ciò provoca un’abnorme stimolazione dei barocettori (recettori sensibili alle variazioni di pressione) ventricolari, i quali a loro volta innescano un riflesso di brusca vasodilatazione periferica. Si tratta, probabilmente, di un meccanismo regolatore che nel soggetto normale tende a impedire aumenti pericolosi della pressione ventricolare, riducendo le resistenze periferiche. Nel soggetto con stenosi aortica, però, il punto di massima resistenza è posto all’ostio valvolare e non è modificabile. Il riflesso dei barocettori ventricolari allora fa crollare le resistenze sistemiche, senza riuscire a ridurre la pressione ventricolare. La riduzione delle resistenze non può essere compensata da un adeguato aumento della portata cardiaca, per via dell’ostruzione all’efflusso. Perciò la pressione sistemica cade, anziché aumentare come avviene normalmente sotto sforzo, sino a dare segni di ipoperfusione cerebrale: lipotimia e sincope. La comparsa di gravi aritmie, soprattutto ventricolari, può prolungare la sincope o, in alcuni casi, scatenarla anche a riposo. 3. L’aumento di pressione ventricolare sistolica sotto sforzo fa aumentare il postcarico (sforzo di parete) sinché il ventricolo non riesce più a espellere in sistole tutto il sangue che riceve in diastole. Allora salgono le pressioni in atrio sinistro e nel circolo polmonare e compaiono i segni della congestione polmonare (dispnea da sforzo). Con l’aggravarsi della situazione, l’insufficienza ventricolare sinistra si manifesta per sforzi di sempre minor entità e infine anche a riposo, con segni e sintomi di scompenso cardiaco, dapprima
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solo sinistro e poi globale. Il ventricolo si dilata e ciò comporta spesso la comparsa di un’insufficienza mitralica, che compromette ancor più la situazione. Senza un intervento terapeutico il paziente giunge a morte entro pochi anni dall’insorgenza dei primi sintomi rilevanti (angina, sincope o dispnea). C. Clinica. Il paziente con stenosi aortica non presenta sintomi per molti anni, mentre l’ostacolo si aggrava progressivamente sino a raggiungere un’entità critica. A questo punto compaiono i primi disturbi, segno del fatto che il ventricolo non riesce più a compensare gli effetti negativi dell’ostruzione. I sintomi cardinali della stenosi aortica sono tre: dispnea, angina, sincope. Tutti insorgono in genere in occasioni di sforzi fisici. Nella maggior parte dei casi il primo sintomo è la dispnea da sforzo, mentre altri sintomi di insufficienza ventricolare sinistra (ortopnea, dispnea parossistica, edema polmonare) intervengono solo in fasi avanzate della malattia. La dispnea si accompagna spesso a un senso di peso toracico, che non deve essere confuso con la vera e propria angina pectoris presente in molti pazienti con stenosi aortica. Questa angina non è diversa dall’angina da sforzo tipica della coronaropatia: anzi, spesso una più o meno grave aterosclerosi coronarica si associa alla stenosi aortica, soprattutto nelle persone anziane. La sincope è il sintomo più raro (presente in circa il 10% dei pazienti). Insorge per lo più sotto sforzo (a meno che non sia scatenata da un’aritmia) ed è preceduta da sintomi premonitori. Spesso durante la perdita di coscienza vi sono convulsioni e perdita involontaria di urine o feci. L’esame obiettivo del paziente con stenosi aortica consente di rilevare segni a carico dei polsi e del cuore. La pressione è normale, a meno che non coesista un’ipertensione di altra origine. Nelle fasi avanzate della malattia la pressione sistolica può essere “decapitata” (con riduzione della pressione differenziale) per effetto della diminuzione di gettata sistolica. I polsi arteriosi sono normali sino a quando la stenosi non diviene emodinamicamente significativa: allora divengono tardi, cioè presentano una lenta ascesa dell’onda pressoria, per via dell’ostruzione che rallenta l’eiezione. Ciò si rileva bene con la registrazione del polso carotideo (Fig. 10.15). Quando la pressione differenziale cade, il polso diventa piccolo. La palpazione precordiale consente di rilevare un itto della punta più energico e prolungato solo quando compare una significativa ipertrofia ventricolare sinistra. Poiché nella stenosi pura l’ipertrofia è di tipo concentrico, e quindi il volume in toto del cuore non è aumentato, l’itto si trova pressoché nella sua sede normale. Quando il cuore si dilata per la comparsa di grave scompenso (oppure per la presenza contemporanea di un’insufficienza aortica), l’itto si sposta a sinistra e in basso. Quando lo scompenso coinvolge anche il ventricolo destro, compare un impulso xifoideo o parasternale sinistro basso. Con la palpazione, infine, si può rilevare anche un fremito (che è la sensazione tattile corri-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Polso carotideo Trasmissione del soffio
1 2 Soffio da eiezione sistolico
1
2
Figura 10.15 - Lo schema indica i focolai di massima intensità del soffio sistolico da eiezione caratteristico della stenosi aortica, con la tipica irradiazione verso i vasi del collo. In alto, il tracciato del polso carotideo mostra un’ascesa lenta e un’escursione ridotta (polso tardo e piccolo).
spondente a un soffio di bassa frequenza) in regione parasternale alta o nel giugulo. L’ascoltazione permette di rilevare numerosi segni che consentono in genere di accertare la presenza e la gravità della stenosi. Il segno più caratteristico è un soffio sistolico udibile in regione parasternale alta destra, spesso irradiato verso i vasi del collo e verso l’apice cardiaco. Il soffio è dovuto alle turbolenze prodotte dal sangue espulso attraverso l’ostio valvolare ristretto. Inizia dopo il I tono, cresce sino a raggiungere un massimo al culmine dell’eiezione, poi decresce e cessa prima del II tono. Il soffio segue quindi un andamento parallelo all’espulsione del sangue durante la sistole. La forma in crescendo e decrescendo (che conferisce alla registrazione del soffio una configurazione a diamante; Fig. 10.15) e l’interruzione prima del II tono sono caratteristiche dei soffi espulsivi e ne consentono la distinzione dai soffi di rigurgito (per es., da insufficienza mitralica). Il soffio della stenosi aortica spesso scompare sopra allo sterno e riappare nell’area della punta, simulando il soffio sistolico dell’insufficienza mitralica (fenomeno di Gallivardin). Il soffio della stenosi aortica è di bassa frequenza (per questo quasi sempre si accompagna a fremito) e di
tonalità aspra. La sua intensità non è proporzionale al grado della stenosi. Anzi, nelle fasi terminali della malattia, quando l’eiezione è molto ridotta per la grave ostruzione, il soffio può divenire molto debole e breve. D’altra parte, il soffio può essere intenso anche quando la stenosi è del tutto insignificante sul piano emodinamico. È molto frequente, soprattutto nelle persone anziane, il reperto di un soffio espulsivo aortico dovuto a una modesta calcificazione degenerativa valvolare, senza che vi sia alcuna reale ostruzione all’espulsione del sangue. Un soffio espulsivo aortico è frequente anche nei bambini e nei giovani, legato alla turbolenza prodotta da un’eiezione particolarmente energica, senza che vi sia alcuna alterazione valvolare. Quindi la presenza di una stenosi aortica può essere indicata solo da un quadro clinico complessivo e non da un soffio sistolico isolato. Nelle fasi iniziali della malattia (e soprattutto nei casi congeniti) il soffio della stenosi aortica è preceduto da un click d’eiezione. Si tratta di un rumore breve e secco prodotto dall’apertura brusca della valvola irrigidita: segue perciò a breve distanza il I tono. Quando, col progressivo aggravarsi della malattia, la struttura valvolare si altera al punto da impedire quasi completamente i movimenti dei lembi, il click scompare. È sempre assente sin dall’inizio nei casi di stenosi congenita sopra o sottovalvolare, nei quali, appunto, la valvola funziona normalmente. La componente aortica del II tono (A2) risulta spesso ridotta di intensità (per la scarsa mobilità dei lembi) oppure fusa con la componente polmonare (P2), per il prolungamento dell’eiezione sinistra causata dall’ostruzione. In alcuni casi il prolungamento della fase di espulsione sinistra può essere tale da far cadere A2 dopo P2. Si parla allora di sdoppiamento paradosso del II tono: infatti in questi casi lo sdoppiamento aumenta durante l’espirazione (che accorcia la durata d’eiezione destra e prolunga quella sinistra ritardando ancor più A2; Cap. 4) e si riduce o si annulla durante l’inspirazione (che ha effetti opposti sulle durate d’eiezione ventricolari). Lo sdoppiamento fisiologico invece si manifesta durante l’inspirazione e scompare con l’espirazione, poiché normalmente P2 cade dopo A2. Un’altra possibile causa di sdoppiamento paradosso del II tono nei pazienti con stenosi aortica è il blocco di branca sinistra. Il disturbo di conduzione, ritardando la contrazione del ventricolo sinistro, può far cadere A2 dopo P2. Il blocco di branca sinistra non è raro nei pazienti con stenosi aortica per la possibile “colata” dell’infiltrazione calcifica della valvola al contiguo sistema di conduzione ventricolare. L’ipertrofia concentrica comporta una riduzione di compliance del ventricolo sinistro, che si manifesta spesso con un tono aggiunto presistolico (IV tono) in corrispondenza della più energica contrazione atriale. Invece un III tono (o protodiastolico) compare solo quando sopravviene lo scompenso. Si manifestano allora tutti i segni (cardiaci, toracici e generali) di insufficienza ventricolare, dapprima solo sinistra e poi, per effetto dell’ipertensione polmonare che si instaura, anche destra (Cap. 5).
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10 - VIZI VALVOLARI
Figura 10.16 - Schema del torace in proiezione antero-posteriore di un uomo con stenosi aortica grave. La freccia indica la dilatazione poststenotica dell’aorta ascendente. In questo caso è anche visibile un discreto grado di ipertrofia ventricolare sinistra.
La diagnosi di stenosi aortica deve essere confermata con una serie di esami strumentali che permettono anche di meglio valutarne l’entità. L’elettrocardiogramma consente di apprezzare i segni dell’ipertrofia ventricolare sinistra, indotta dal sovraccarico di pressione, quasi sempre presente nelle stenosi significative (per la descrizione di tali segni, si veda il Cap. 4). Sono spesso presenti anche segni di dilatazione atriale sinistra, provocata dalla maggior resistenza che il ventricolo ipertrofico oppone allo svuotamento atriale. In qualche caso si trovano disturbi di conduzione atrioventricolari o intraventricolari (si è già citato il blocco di branca sinistro: ancora più frequente è l’emiblocco anteriore sinistro) dovuti a calcificazioni. La radiografia del torace mostra nella maggior parte dei casi un cuore quasi normale (l’ipertrofia è concentrica) con una punta arrotondata e l’aorta ascendente dilatata (Fig. 10.16). Quest’ultimo segno, chiamato dilatazione poststenotica, è dovuto all’effetto meccanico sulle pareti aortiche delle turbolenze provocate dall’ostruzione valvolare. L’esame fluoroscopico consente di evidenziare le calcificazioni valvolari: se sono assenti, è poco probabile che la stenosi sia significativa; viceversa, nelle persone anziane, vi possono essere notevoli calcificazioni senza ostruzioni importanti. Quando inizia lo scompenso, il ventricolo e l’atrio sinistri si dilatano e compaiono i segni radiologici di congestione polmonare. Con l’ecocardiogramma, mono e bidimensionale, è spesso possibile confermare la presenza e la gravità della stenosi (scarsa apertura delle cuspidi in una radi-
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ce aortica allargata), la presenza di calcificazioni (echi multipli e ispessiti), l’ipertrofia ventricolare concentrica e gli eventuali segni di scompenso. Con l’ecocardiografia è facile riconoscere la presenza di una valvola aortica bicuspide, condizione congenita che spesso è alla base di una stenosi progressiva. L’ecografia Doppler, soprattutto, consente di calcolare con notevole precisione il gradiente pressorio tra ventricolo e aorta. Infine, l’ecografia consente di individuare eventuali altre anomalie valvolari associate. Per giungere a una decisione finale riguardo all’opportunità di un intervento chirurgico può essere comunque necessario eseguire un cateterismo sinistro con angiocardiografia e coronarografia. L’esame cruento consente di raccogliere numerosi elementi utili: il gradiente pressorio tra ventricolo e aorta; l’area dell’ostio valvolare; il sito preciso dell’ostruzione (nei casi congeniti non valvolari); l’entità dell’ipertrofia e lo stato funzionale del ventricolo sinistro. Con le informazioni che è possibile oggi ottenere dall’ecocardiografia, il cateterismo cardiaco è indicato soprattutto per individuare eventuali lesioni coronariche aterosclerotiche, presenti nel 50% dei soggetti maschi sopra i 40 anni di età. D. Prognosi e cenni di terapia. Come si è già accennato, la stenosi aortica resta silente e asintomatica per molti anni, grazie alle riserve di compenso del ventricolo sinistro. Quando compaiono i primi sintomi gravi (angina, sincope, dispnea), inizia però un rapido declino che conduce a morte il paziente, in mancanza di intervento, entro 2-6 anni in media. Nel 15-20% dei casi la morte è improvvisa. La decisione terapeutica più difficile è la scelta del momento migliore per eseguire l’intervento chirurgico di sostituzione della valvola malata con una protesi (meccanica o biologica) nei pazienti con stenosi critica (gradiente pressorio superiore a 50 mmHg e orifizio ridotto a 1/4 o meno del normale). A differenza della stenosi mitralica la valvulotomia con palloncino ha dato, in genere, cattivi risultati. Infatti, la frequenza di serie complicanze, quali morte improvvisa, ictus, rottura dell’aorta e insufficienza aortica, è superiore al 10%. La mortalità dopo questo trattamento è del 60% dopo 18 mesi, e cioè paragonabile a quella dei soggetti non trattati. Perciò, l’intervento migliore è la sostituzione valvolare. L’unica eccezione a questa regola è il caso di bambini o giovani con stenosi valvolari congenite non calcifiche, nei quali può essere utile eseguire una semplice valvulotomia (taglio delle commissure per allargare l’ostio) anche in fase ancora asintomatica. Lo scompenso cardiaco e l’angina vengono trattati con farmaci nel modo abituale. Si deve consigliare, anche al paziente asintomatico, l’astensione da sforzi intensi e la profilassi antibiotica contro il rischio di endocardite infettiva (grave ma non frequente complicazione delle alterazioni strutturali della valvola aortica) in caso di manovre cruente come le estrazioni dentarie. La profilassi deve continuare anche dopo la sostituzione valvolare con una protesi.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Tabella 10.2 - Cause di insufficienza aortica.
Lesioni valvolari
Lesioni parietali
CRONICA
ACUTA
• Endocardite reumatica • Malformazioni congenite – valvola bicuspide – difetto settale i.v. – collagenopatie
• Endocardite infettiva • Trauma
• • • • •
• Dissecazione aortica
Sifilide Spondilite anchilosante Sindrome di Reiter Sindromi con artrite Medionecrosi cistica – sindrome di Marfan – dilatazione idiopatica • Ipertensione grave
Insufficienza aortica Nell’insufficienza aortica una quota del sangue espulso in sistole rigurgita nel ventricolo sinistro durante la diastole. Ciò può avvenire per lesioni che producono direttamente la distruzione o la retrazione delle cuspidi semilunari, oppure per lesioni che provocano la dilatazione della radice aortica, tale da impedire la perfetta chiusura dei lembi valvolari. L’insufficienza valvolare si può instaurare progressivamente, dando tempo al ventricolo di compensare il difetto (insufficienza cronica), oppure rapidamente, con effetti spesso catastrofici (insufficienza acuta). A. Eziopatogenesi. La tabella 10.2 elenca le cause più frequenti di insufficienza, suddivise per sede della lesione e per rapidità di insorgenza. La causa più frequente dei vizi valvolari oggi osservabili è probabilmente l’endocardite reumatica, malattia la cui incidenza nei paesi sviluppati è peraltro diminuita rapidamente negli ultimi decenni. Colpendo le cuspidi valvolari, il reumatismo ne provoca l’infiltrazione infiammatoria e la retrazione, spesso associata ad una fusione delle commissure (vizio combinato di stenoinsufficienza aortica). Col tempo, le turbolenze che si creano attorno alla valvola alterata ne accentuano l’accartocciamento e la retrazione, peggiorando l’insufficienza. Tutte le malformazioni congenite che facilitano il prolasso di una cuspide in ventricolo durante la diastole possono condurre a insufficienza aortica. Si può ricordare tra queste la malformazione bicuspide (il lembo più grande può prolassare), il difetto del setto interventricolare (vien meno il sostegno a una delle cuspidi), le malattie ereditarie del connettivo (per es., la sindrome di Ehlers-Danlos, in cui le cuspidi sono eccessivamente flessibili). Tra le cause di insufficienza aortica cronica che colpiscono la parete aortica, era un tempo frequente la sifilide. Oggi la malattia, pur non essendo scomparsa, giunge raramente allo stadio avanzato in cui si produce l’infiltrazione e la necrosi della tunica media aortica, con dilatazione, aneurisma ed eventualmente insufficienza valvolare.
Anche nella spondilite anchilosante (Cap. 69) vi è spesso una dilatazione della radice aortica, deformata dalla fibrosi, che conduce a insufficienza valvolare. In alcuni casi sono presenti anche disturbi di conduzione, per estensione della fibrosi alla parte membranosa del setto interventricolare, attraverso cui passa il fascio di His. Lo stesso accade in altre sindromi artritiche con lesioni associate di vari organi, come la sindrome di Reiter (uretrite e congiuntivite), l’artrite psoriasica, l’artrite associata a malattie gastrointestinali (come la colite ulcerosa), la sindrome di Behçet (ulcere orogenitali). Un caso particolare di necrosi della tunica media aortica è la forma cistica, caratteristica della sindrome di Marfan e della dilatazione idiopatica della radice aortica. Anche una grave ipertensione può provocare dilatazione della radice aortica e quindi insufficienza. Le cause acute più frequenti di insufficienza aortica acuta sono tre: endocardite infettiva, trauma, dissecazione aortica. Tutte le lesioni valvolari predispongono all’impianto di batteri sulle cuspidi e sulle strutture adiacenti. Perciò un’endocardite infettiva si può sovrapporre a una malformazione o a un vizio cronico precedente (stenosi o insufficienza), facendo precipitare una grave insufficienza acuta da distruzione dei lembi valvolari. Ancora più repetina è la comparsa di insufficienza aortica quando un trauma comporta la lacerazione o il distacco di una cuspide valvolare. Infine tutte le condizioni patologiche che colpiscono l’aorta possono condurre a un’ improvvisa dissecazione della sua parete; se la dissecazione aortica coinvolge la radice del vaso può provocare anche un’insufficienza valvolare acuta. B. Fisiopatologia. Quando i lembi valvolari aortici non chiudono perfettamente l’ostio, una parte del sangue espulso in aorta ritorna nel ventricolo sinistro durante la diastole. Questa quota di sangue, passando attraverso le strutture valvolari imperfettamente chiuse, produce turbolenze che danno luogo a un soffio udibile sul torace. Il getto di sangue rigurgitante, inoltre, fa vibrare il lembo anteriore mitralico, che si trova subito sotto la valvola aortica: la vibrazione è visibile con l’ecografia. Tutto il sangue che rigurgita dev’essere espulso durante la sistole successiva insieme alla normale quota di sangue che procede in avanti lungo l’albero arterioso. Il ventricolo quindi deve pompare un maggior volume per ogni sistole, pari alla somma della normale gettata sistolica più la quota rigurgitante. Questa massa di sangue dev’essere tutta espulsa in aorta, cioè in una camera ad alta pressione: ciò differenzia l’insufficienza aortica da quella mitralica. Nel caso della valvola mitrale, infatti, la quota rigurgitante viene pompata dal ventricolo verso l’atrio, cioè una camera a bassa pressione. Il ventricolo riesce a far fronte all’aumentato carico di lavoro grazie alla dilatazione, cioè all’aumento del volume diastolico provocato dallo stesso rigurgito. Aumentando il volume diastolico (cioè il precarico), le fibre miocardiche iniziano la contrazione partendo da
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10 - VIZI VALVOLARI
Pressione (mmHg)
Sistole
120 B
A
100 Resistenze periferiche 80
Diastole Aorta distesa
Ventricolo sinistro
AORTA 60
Ventricolo sinistro
40
20
Figura 10.18 - In sistole l’aorta si distende e accumula energia potenziale elastica, che restituisce in diastole spingendo il sangue verso la periferia. Se esiste un rigurgito aortico, quanto più alte sono le resistenze periferiche, tanto maggiore è la quota di sangue che torna indietro in ventricolo in diastole, e viceversa.
Atrio sinistro
a a
c
c 0
Soffio da Fonocardiogramma eiezione AP 1
Soffio da rigurgito
2
1
ECG
0
0,2
0,4
0,6
0,8
10
Tempo (sec)
Figura 10.17 - Il diagramma mostra l’andamento delle pressioni in atrio sinistro e ventricolo sinistro e in aorta in caso di insufficienza aortica. Si notano in particolare l’aumento di pressione diastolica ventricolare e la corrispondenza del soffio da rigurgito con la fase precoce della diastole, quando è massima la differenza di pressione tra aorta e ventricolo. Il soffio da eiezione sistolico è dovuto alla maggior quantità di sangue che il ventricolo deve espellere. Al termine della diastole, la pressione aortica raggiunge valori molto bassi: ciò è utile, in quanto alla sistole successiva il ventricolo raggiunge più rapidamente la pressione di apertura della valvola aortica (breve contrazione isometrica) e quindi ha più tempo per l’espulsione del sangue.
una maggiore lunghezza e questo, per la legge di Starling, aumenta l’efficienza ventricolare. La dilatazione però comporta, per la legge di Laplace, un aumento dello sforzo di parete o postcarico, che dipende dal raggio della cavità ventricolare, oltre che da altri fattori (Cap. 5). A ciò il ventricolo risponde con un’ipertrofia, cioè con un aumento di spessore delle pareti, che controbilancia l’aumento del raggio ventricolare, riportando il postcarico a valori quasi normali. Nella stenosi aortica, come si è visto, l’ipertrofia è concentrica, cioè senza dilatazione della cavità, in quanto è dovuta a un sovraccarico di pressione. Nell’insufficienza aortica, invece, dove il sovraccarico è prevalentemente di volume, si combinano ipertrofia e dilatazione. Il cuore raggiunge così, talvolta, dimensio-
ni enormi, che giustificano la definizione di cor bovinum. In ventricolo, durante la diastole, la pressione risulta maggiore rispetto al normale, anche di molto (Fig. 10.17). Ciò è dovuto al sangue che rigurgita e, in parte, alla ridotta distensibilità prodotta dall’ipertrofia. L’aumentata pressione diastolica ventricolare comporta una minor apertura della valvola mitrale e una sua anticipata chiusura al termine della diastole, prima che inizi la contrazione sistolica. Tuttavia, sino a quando non interviene una insufficienza ventricolare, l’aumento della pressione diastolica non si ripercuote in senso retrogrado su atrio sinistro, circolo polmonare e cuore destro. Così pure, in senso anterogrado, il ventricolo riesce a mantenere una normale portata sistemica, nonostante la quota di sangue che rigurgita. Ciò comporta l’espulsione, a ogni sistole, di una quantità di sangue anche doppia del normale (quota che rigurgita più quota anterograda). Per questo motivo tende ad aumentare la pressione sistolica arteriosa e vengono stimolati i barocettori carotidei. Ne deriva una vasodilatazione periferica riflessa che costituisce un utile meccanismo di compenso. In diastole, infatti, il sangue presente nell’aorta ascendente si distribuisce tra circolazione sistemica e rigurgito in ventricolo in rapporto alle diverse resistenze che incontra: quanto più basse sono le resistenze periferiche, tanto minore è la quota di sangue che torna indietro in ventricolo (Fig. 10.18). La vasodilatazione e il rigurgito stesso fanno molto rapidamente defluire il sangue dall’aorta e quindi fanno diminuire la pressione arteriosa in diastole, sino a raggiungere valori anche molto bassi. Ciò è utile, in quanto nella sistole successiva il ventricolo raggiunge più rapidamente la pressione di apertura della valvola aortica (contrazione isometrica; Cap. 5, Fisiopatologia della contrazione cardiaca) e ha quindi più tempo a disposizione per l’espulsione della grande quantità di sangue che deve pompare (Fig. 10.17). Durante l’esercizio fisico la vasodilatazione periferica si accentua ancor più e ciò consente al ventricolo di aumentare la portata cardiaca in risposta alle aumentate richieste metaboliche. Inoltre, la riduzione di durata della diastole, conseguente all’aumento di frequenza
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cardiaca, fa sì che durante lo sforzo il rigurgito diminuisca: ciò spiega l’ottima resistenza all’esercizio fisico di molti pazienti con insufficienza aortica. In conclusione: dilatazione ventricolare con ipertrofia e vasodilatazione periferica consentono al cuore, nei casi cronici, di mantenere una normale efficienza per molti anni, nonostante il vizio valvolare. Tuttavia i meccanismi di compenso hanno un prezzo in termini di irrorazione miocardica. L’ipertrofia comporta un aumento del consumo miocardico di O2 mentre la vasodilatazione riduce la pressione di perfusione coronarica durante la diastole, quando normalmente si ha la quota maggiore del flusso coronarico. La combinazione di aumentata richiesta di O2 e di ridotto apporto rende facile l’insorgenza di ischemia miocardica. Quando poi, col trascorrere degli anni, la funzione ventricolare comincia a deteriorarsi (per effetto della fibrosi e delle alterazioni della funzione sistolica e diastolica che accompagnano l’ipertrofia) si assiste spesso a un rapido e quasi catastrofico peggioramento. Ciò è dovuto a un circolo vizioso che si instaura tra riduzione della portata cardiaca e aumento delle resistenze periferiche. Quando la portata cardiaca diviene insufficiente rispetto alle richieste dell’organismo, si instaura una vasocostrizione riflessa che tende a mantenere costante il flusso negli organi nobili. In presenza di un’insufficienza aortica, però, per i motivi detti prima (Fig. 10.18), l’aumento delle resistenze periferiche comporta un aumento della quota di sangue che rigurgita in ventricolo. Ne conseguono un’ulteriore riduzione della portata sistemica, un’accentuazione riflessa della vasocostrizione e così via in un circolo vizioso che può condurre rapidamente a morte il paziente in mancanza di un intervento terapeutico tempestivo. Altrettanto catastrofico è l’andamento in caso di insufficienza valvolare acuta. Il ventricolo non ha il tempo di adattarsi alla nuova situazione con dilatazione e ipertrofia; il paziente va quindi incontro a un rapido quadro di scompenso sinistro, con edema polmonare, grave insufficienza di circolo ed eventualmente morte, se non interviene una correzione chirurgica. C. Clinica. Anche il paziente con insufficienza aortica, come quello con stenosi della stessa valvola, non presenta sintomi gravi per molti anni, mentre il ventricolo sinistro si dilata e si ipertrofizza progressivamente e il vizio aortico si aggrava sempre più. In questa fase gli unici disturbi possono consistere in palpitazioni e consapevolezza del battito cardiaco, sensazione fastidiosa che compare soprattutto in posizione sdraiata. Si tratta di un sintomo del tutto aspecifico, comune tra l’altro in pazienti con sindrome ansiosa, ma che in questo caso dipende dall’aumentata gettata sistolica del ventricolo sinistro e rapido svuotamento dell’aorta in diastole. Quando il ventricolo non riesce più a far fronte al sovraccarico di volume cui è sottoposto, compaiono i primi sintomi gravi: dispnea e angina. La dispnea da sforzo compare per prima, seguita da ortopnea e dispnea parossistica notturna, via via che
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
l’insufficienza cardiaca si aggrava. Anche l’angina è molto frequente, sia da sforzo che da riposo, indipendentemente dalla presenza di coronaropatia: l’ipertrofia comporta un aumento del consumo miocardico di O2, mentre la bassa pressione aortica diastolica compromette la perfusione coronarica. Sia la dispnea che l’angina si accompagnano a sudorazione profusa in maniera molto caratteristica per l’insufficienza aortica. La ragione di tale facilità alla sudorazione è ignota, ma probabilmente dipende dall’attivazione delle fibre colinergiche vasodilatatorie che si produce nell’insufficienza aortica. Diversamente dalla stenosi, non si osserva nei pazienti con insufficienza aortica la comparsa di sincope da sforzo. L’esame obiettivo nei pazienti con insufficienza aortica permette di rilevare molti segni periferici, relativi alla pressione e ai polsi, e centrali, palpatori e ascoltatori. I segni periferici dipendono essenzialmente dal brusco deflusso di sangue dall’aorta, che si verifica in diastole per effetto combinato del rigurgito e della vasodilatazione. Per questo motivo tutti i segni periferici di seguito illustrati, pur essendo caratteristici dell’insufficienza aortica, possono presentarsi anche in altre condizioni patologiche che comportino un altrettanto brusco deflusso di sangue dall’aorta durante la diastole. Per esempio: ampio dotto arterioso pervio; finestra aortopolmonare; rottura di un aneurisma del seno di Valsalva in atrio destro; fistola arterovenosa di grandi dimensioni (è questa la condizione più comune, presente per esempio nei pazienti uremici che necessitano di fistole arterovenose per il collegamento alla macchina di dialisi). Nei pazienti con insufficienza aortica la pressione arteriosa sistolica è aumentata, la diastolica fortemente diminuita, in modo che la pressione differenziale risulta notevolmente più ampia del normale. Queste variazioni dipendono grossolanamente dall’entità dell’insufficienza: si ritiene in genere poco significativo un vizio valvolare quando la pressione diastolica non scende al di sotto di 70 mmHg, purché non siano presenti segni di scompenso cardiaco. Con lo scompenso, infatti, sopravviene anche una vasocostrizione periferica che fa risalire la pressione arteriosa diastolica e attenua in genere tutti i segni periferici legati al brusco deflusso di sangue dall’aorta. Ciò non deve ingannare il medico: si tratta di un segno di grave peggioramento e non di miglioramento delle condizioni cliniche. Anche tutti gli altri segni periferici dipendono dall’aumentata pressione differenziale e dalla brusca caduta della pressione diastolica. Il polso viene definito celere, in opposizione al polso tardo della stenosi aortica (Fig. 10.19); ha una rapida salita e un’altrettanto rapida discesa e viene chiamato anche polso a martello pneumatico o polso di Corrigan. Talvolta il polso ha due cuspidi: si parla di polso bisferiens. Spesso è visibile da lontano la vivace pulsatilità delle arterie superficiali, soprattutto delle carotidi. In alcuni casi la pulsazione imprime un movimento ritmico ad alcuni segmenti corporei, per esempio la testa (segno di De Musset, dal nome dello scrittore francese affetto da insufficienza aortica luetica). Se si appoggia il fonendo sull’arteria femorale, si ode in sistole un doppio rumo-
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Polso carotideo
Aree di massima intensità
1
2
1
2
Soffio protodiastolico in decrescendo
Figura 10.19 - Lo schema indica i focolai di massima intensità del soffio diastolico da rigurgito caratteristico dell’insufficienza aortica. In alto: il tracciato del polso carotideo mostra una rapida ascesa con una profonda incisura dicrota e un’altrettanto rapida discesa, con un’ampia escursione (polso celere e ampio).
re secco, descritto come un colpo di pistola (segno di Traube); se poi si preme il fonendo sulla stessa arteria, si può ascoltare un soffio sistolico o sistodiastolico (segno di Durozier). Entrambi questi segni sono legati alle celeri variazioni di pressione. Infine, vi è il polso capillare: se si preme un’unghia in modo sufficientemente leggero da far impallidire solo metà del letto ungueale, si osserva un’oscillazione della linea di demarcazione tra zona pallida e zona rosea, che rimane invece immobile nei soggetti normali (segno di Quincke). Un altro segno periferico di insufficienza aortica è il fatto che la pressione sistolica in un arto inferiore può essere trovata di almeno 30 mmHg più alta che in un arto superiore (segno di Hill). I segni cardiaci di insufficienza aortica consistono in alterazioni dell’itto e in soffi patologici. L’itto risulta spostato in basso e a sinistra per effetto combinato della dilatazione e dell’ipertrofia; inoltre risulta ampio e sollevante, in rapporto alla grande quantità di sangue che viene pompata per ogni sistole. Il soffio generato dal rigurgito di sangue dall’aorta in ventricolo si ascolta ovviamente in diastole (Fig. 10.19).
È un rumore ad alta frequenza che inizia subito dopo il II tono e va in decrescendo. In genere non è molto intenso e in alcuni casi è facile ignorarlo se non lo si cerca appositamente: si ascolta meglio col paziente in posizione seduta e col respiro fermo in espirazione, attraverso il diaframma del fonendoscopio. In genere, quando il vizio dipende da una lesione valvolare, l’area di massima intensità è la parasternale sinistra media (III-IV spazio); in caso di insufficienza da dilatazione dell’aorta, però, il soffio si sente meglio lungo la parasternale destra. La durata del soffio, più che la sua intensità, si correla con la gravità dell’insufficienza: quanto più a lungo dura il rigurgito, tanto più a lungo dura il soffio. Spesso si ode anche un soffio sistolico da eiezione aortica, con massimo di intensità alla base del cuore, dovuto semplicemente all’aumentata quantità di sangue espulsa dal ventricolo: di per sé non è indicativo della contemporanea presenza di stenosi aortica. Infine, nei casi di insufficienza grave, quando la pressione ventricolare aumenta molto durante la diastole per colpa del rigurgito, si ascolta un altro soffio nella fase media e terminale della diastole. È un rumore a bassa frequenza (definito rullio) assai simile al rumore prodotto da una stenosi mitralica. È dovuto alla parziale chiusura della mitrale per effetto dell’aumentata pressione ventricolare in diastole. Si chiama soffio di Austin-Flint e, a differenza del rullio da stenosi mitralica, non si accompagna a schiocco d’apertura né a rinforzo del I tono. In caso di insufficienza aortica acuta, tutti i segni periferici risultano più sfumati, a causa della grave vasocostrizione che si determina. Mancano anche i segni relativi a dilatazione e ipertrofia, che non hanno avuto tempo di prodursi, mentre i segni ascoltatori sono simili a quelli sopra descritti. In genere i pazienti con vizio acuto sono gravemente compromessi, tachicardici, con segni di ipoperfusione periferica sino allo shock e di congestione polmonare sino all’edema. Un quadro simile si verifica nell’insufficienza aortica cronica, quando insorge lo scompenso che tende rapidamente ad aggravarsi per la comparsa di vasocostrizione periferica. La valutazione di un paziente con insufficienza aortica comporta anche l’esecuzione di una serie di esami strumentali che confermano la diagnosi, contribuiscono a determinare la gravità del vizio, aiutano a indirizzare le decisioni terapeutiche. L’elettrocardiogramma, nei casi cronici, mostra i segni di ipertrofia ventricolare sinistra, indotta dal sovraccarico di volume: onde R alte nelle derivazioni sinistre e S profonde nelle destre, con sottoslivellamento di ST e T invertite in D1, aVL e V5-V6. Alcune cause di insufficienza aortica producono anche disturbi di conduzione tipo blocchi di branca (soprattutto sinistra) e blocchi atrioventricolari. Ciò è frequente, per esempio, nella spondilite anchilosante e in altre sindromi artritiche. Sono comuni nell’insufficienza aortica le aritmie ventricolari. La radiografia del torace mostra i segni di dilatazione e ipertrofia ventricolare sinistra: in proiezione anteroposteriore, allungamento dell’arco inferiore sinistro della silhouette, con spostamento in basso e in fuori della punta; in obliqua anteriore sinistra, sovrapposizione tra
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A.
B.
Figura 10.20 - Radiografie del torace in proiezione antero-posteriore (A) e laterale (B) di un uomo con insufficienza aortica. In antero-posteriore si nota il ventricolo sinistro ipertrofico e dilatato; in laterale si nota la riduzione dello spazio posteriore tra il ventricolo sinistro dilatato e la colonna vertebrale.
riore destro che, sommandosi alla sporgenza dell’arco inferiore sinistro, conferisce al cuore la caratteristica configurazione “a scarpa”. Talvolta si apprezza anche una dilatazione dell’atrio sinistro; sono invece rare le calcificazioni valvolari nei casi di insufficienza pura. Quando inizia lo scompenso, compaiono i segni radiologici di congestione polmonare.
profilo sinistro del cuore e colonna vertebrale; in proiezione laterale, riduzione dello spazio tra profilo ventricolare sinistro e colonna vertebrale (Fig. 10.20). È molto frequente anche la dilatazione dell’arco aortico ascendente, in modo particolare quando l’insufficienza è provocata da una lesione della parete aortica. La dilatazione aortica si manifesta con una sporgenza dell’arco supe-
Fluttering diastolico
Valvola mitrale
S1
S2
S2
S1
Fono
0,5 sec
Figura 10.21 - Ecocardiogramma di un caso di insufficienza aortica grave. Si notano le vibrazioni ad alta frequenza del lembo anteriore mitralico (dette “fluttering”) prodotte dal getto di sangue che rigurgita dall’aorta. (Da M. Sokolow, M.B. McIloniy, Clinical Cardiology, Lange Medical Publications, Los Altos, 1979).
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10 - VIZI VALVOLARI
Con l’ecocardiogramma è possibile valutare la dilatazione e l’ipertrofia del ventricolo, l’aumentata escursione dei movimenti del setto e della parete posteriore e alcuni movimenti caratteristici della mitrale. Questi ultimi consistono in vibrazioni ad alta frequenza del lembo anteriore mitralico in diastole, prodotte dal getto di sangue che rigurgita dall’aorta. Le vibrazioni, dette “fluttering” (Fig. 10.21), sono presenti anche nei casi lievi e si manifestano pure sul setto interventricolare. Lo studio dei movimenti della mitrale permette anche di rilevare, nei casi più gravi, una precoce chiusura della valvola atrioventricolare per aumento della pressione ventricolare diastolica. L’ecografia consente talvolta anche di rilevare le dilatazioni, gli aneurismi e le dissecazioni dell’aorta ascendente responsabili di insufficienza aortica. Lo studio della funzione ventricolare può essere eseguito con l’ecografia periodicamente, in modo da cogliere i primi segni di deterioramento. L’ecografia Doppler e l’ecografia bidimensionale con Doppler a colori consentono una valutazione semiquantitativa dell’entità del rigurgito. Anche l’angiografia con radionuclidi permette di calcolare la frazione di sangue che rigurgita in ventricolo. Quando si prevede la necessità di un intervento chirurgico, è necessario comunque eseguire anche un cateterismo sinistro con angiocardiografia ed eventualmente coronarografia. L’esame cruento consente di stabilire con certezza la diagnosi (talvolta dubbia nei casi acuti), di valutare con maggior precisione l’entità del rigurgito, lo stato funzionale del ventricolo sinistro, la presenza contemporanea di altri vizi valvolari o di lesioni coronariche, da correggere durante l’eventuale intervento. D. Prognosi e cenni di terapia. Complessivamente la prognosi dell’insufficienza aortica è più favorevole di quella della stenosi aortica, poiché il sovraccarico di volume è meno gravoso per il ventricolo rispetto al sovraccarico di pressione. Tuttavia, anche per i pazienti con insufficienza aortica la sopravvivenza è limitata a pochi anni dopo che siano comparse le prime gravi manifestazioni di scompenso o di ischemia miocardica. Anche in questo caso, dunque, la scelta cruciale riguarda il momento migliore per eseguire l’intervento chirurgico, che consiste nella sostituzione della valvola con vari tipi di protesi (meccaniche o biologiche) ed eventualmente nella riparazione, con tecniche diverse, delle lesioni della parete aortica. Nei casi acuti spesso l’intervento si impone da solo come unica scelta. Nei casi cronici, invece, si attende normalmente che compaiano i primi segni di deterioramento ventricolare valutati con l’ecocardiografia, prima della comparsa dei sintomi. Teoricamente, sarebbe meglio anticipare l’intervento, eseguendolo quando ancora la funzione ventricolare è integra. Purtroppo l’elevato rischio operatorio (in alcuni casi la riparazione chirurgica di un’insufficienza è molto più difficile rispetto a quella di una stenosi), l’incertezza sulla durata delle protesi e l’impossibilità di prevedere quando le riserve ventricolari cominceranno a esaurirsi rendono per ora improponibile la chirurgia in fase precoce della malattia. Una regola empirica per stabilire il momento di un intervento chirurgico è la cosiddetta “re-
gola del 55”, ossia la sostituzione valvolare dovrebbe essere eseguita prima che la frazione di eiezione scenda sotto al 55% o che le dimensioni del ventricolo sinistro al termine della sistole superino i 55 mm. La terapia medica dello scompenso (in attesa di un eventuale intervento) si avvale dei farmaci abituali: particolarmente efficaci risultano, in questi pazienti, i vasodilatatori arteriosi che riducono l’entità del rigurgito. L’angina si tratta con nitriti. È importante consigliare, anche ai pazienti asintomatici, l’astensione dagli sforzi intensi, la limitazione del sale alimentare e la profilassi contro l’endocardite infettiva prima di ogni manovra cruenta.
VIZI VALVOLARI POLMONARI La stenosi della valvola polmonare è quasi esclusivamente una malformazione (isolata o associata ad altre) ed è perciò trattata nel capitolo 11, dedicato alle cardiopatie congenite. Raramente l’endocardite reumatica e quella infettiva colpiscono la valvola polmonare, producendo vizi significativi. L’insufficienza polmonare, invece, è per lo più secondaria ad una grave ipertensione polmonare di qualsiasi origine. L’elevata pressione nel circolo arterioso polmonare produce una dilatazione dell’anello valvolare e ne risulta un’insufficienza. Le manifestazioni cliniche dell’insufficienza polmonare sono di gran lunga oscurate dalle più gravi conseguenze dell’ipertensione polmonare e del cuore polmonare che ne consegue (Cap. 13). L’unico segno diretto del rigurgito di sangue in ventricolo destro è un soffio diastolico, molto simile al soffio da insufficienza aortica, che prende il nome di soffio di Graham-Steel. Le differenze col molto più frequente soffio da rigurgito aortico sono poche: si accentua in inspirazione (perché aumenta la massa di sangue nel circolo polmonare); si riduce con la manovra di Valsalva (espirazione forzata a glottide chiusa: la manovra produce l’effetto opposto sulla massa ematica polmonare); si accompagna ai segni di ipertensione polmonare (accentuazione della componente polmonare del II tono e click d’eiezione polmonare); comincia dopo la componente polmonare del II tono (visibile con la registrazione del fonocardiogramma), che risulta ritardata per via dell’ipertensione polmonare. Tutti gli altri segni clinici e strumentali fanno riferimento all’ipertensione polmonare e al cuore polmonare che ne consegue. La terapia si rivolge a correggere le cause dell’ipertensione polmonare e a sostenere la funzione del ventricolo destro.
VIZI VALVOLARI MULTIPLI Una lesione organica contemporanea di più valvole è prodotta quasi esclusivamente dall’endocardite reumatica. La combinazione di due o più vizi valvolari può dar luogo a una grande varietà di quadri clinici diversi. In questa sede si prenderanno in considerazione solo le
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interferenze più importanti che si manifestano tra vizi mitralici e aortici. Come regola generale si può affermare che il vizio più a monte, rispetto al flusso del sangue, produce effetti clinici più evidenti di quello più a valle. Questa regola ha due corollari per quanto riguarda le valvole mitrale e aortica. Il primo corollario è che la stenosi mitralica tende in genere a oscurare i segni dei vizi aortici con cui si accompagna. Questo avviene per effetto della riduzione del riempimento ventricolare, e quindi della gettata sistolica, che la stenosi mitralica comporta. D’altro canto le manifestazioni cliniche della stenosi mitralica stessa risultano accentuate e accelerate. Risulta particolarmente difficile valutare la presenza contemporanea di stenosi mitralica e insufficienza aortica. L’associazione di un soffio diastolico da rigurgito e di un rullio mitralico non basta a confermare l’esistenza di un doppio vizio. Nell’insufficienza aortica pura è infatti spesso presente il soffio di Austin-Flint che simula la stenosi mitralica (si veda il paragrafo sull’insufficienza aortica). D’altro canto l’ipertensione polmonare prodotta da una grave stenosi mitralica può dar luogo a un’insufficienza polmonare da dilatazione (si veda il paragrafo sui vizi polmonari) con un soffio di Graham-Steel che simula un’insufficienza aortica. Esiste quindi il doppio rischio
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
di ignorare un vizio mitroaortico combinato o di diagnosticarlo falsamente. Il secondo corollario è che i vizi valvolari aortici tendono in genere ad aggravare le manifestazioni dell’insufficienza mitralica con cui si accompagnano, e a produrre un rapido deterioramento del quadro clinico complessivo. Nella stenosi aortica l’ostacolo all’efflusso ventricolare aumenta l’entità del rigurgito verso l’atrio sinistro. Nell’insufficienza aortica la dilatazione del ventricolo prodotta dal sangue rigurgitante accentua l’insufficienza della valvola atrioventricolare. Anzi, può essere difficile distinguere un vero vizio organico doppio da una semplice insufficienza mitralica funzionale da dilatazione. Per la terapia è ovviamente di estrema importanza il riconoscimento dei vizi associati, perché la correzione di un solo vizio potrebbe risultare non sufficiente o addirittura in molti casi (per es., stenosi mitralica più vizi aortici) potrebbe aggravare il quadro clinico in modo pericoloso. Perciò è importante, in vista dell’intervento, un accurato studio ecocardiografico, emodinamico e angiografico per valutare accuratamente lo stato delle due valvole. La sostituzione con protesi di due valvole contemporaneamente, d’altra parte, comporta un rischio operatorio maggiore e risultati postoperatori meno soddisfacenti.
C A P I T O L O
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11
CARDIOPATIE CONGENITE (DELL’ADULTO) G. FERRARIO
Premessa Per malattie cardiovascolari congenite si intendono le anomalie della struttura o della funzione cardiocircolatoria presenti alla nascita. In questo testo si descrivono solo le forme più comuni cosiddette dell’adulto, cioè le forme più comuni fra quelle cardiopatie congenite che non portano a morte nell’infanzia. Si ritiene che circa lo 0,8% dei bambini nati vivi sia affetto da cardiopatia congenita. Nella tabella 11.1 si riportano i dati relativi all’incidenza delle singole cardiopatie congenite per 10.000 nati vivi. Complessivamente i soggetti di sesso maschile sono più affetti di quelli di sesso femminile, ma esistono notevoli differenze nel rapporto maschi/femmine tra forma e forma.
• L’uso di alcuni farmaci da parte della madre durante la gravidanza favorisce l’insorgenza di cardiopatie congenite: la talidomide, la difenilidantoina, i barbiturici, alcuni antitumorali. • I nati nella cui famiglia vi sono casi di cardiopatie congenite hanno più probabilità di avere vizi cardiaci congeniti.
Classificazione Esistono molte classificazioni di cardiopatie congenite. Quella più seguita (e che adotteremo) divide i difetti cardiaci congeniti in due gruppi: cianogeni e non cianogeni. Nel primo gruppo i pazienti hanno cianosi, nel secondo gruppo no. Ciascun gruppo viene poi ul-
Eziologia Nella maggior parte dei casi la causa della cardiopatia congenita non è nota. Sono state però formulate alcune correlazioni eziologiche di carattere generale. • La rosolia contratta dalla madre durante il primo trimestre di gravidanza aumenta l’incidenza di pervietà del dotto arterioso. • L’abuso di bevande alcoliche durante la gravidanza aumenta il rischio complessivo di cardiopatie congenite.
Tabella 11.1 - Incidenza delle principali cardiopatie congenite per ogni 10.000 bambini nati vivi. • • • • • • • •
Difetti del setto interventricolare Difetti del setto interatriale Pervietà del dotto arterioso Stenosi polmonare Tetralogia di Fallot Coartazione aortica Trasposizione dei grossi vasi Stenosi aortica
20 7 6 6 5 5 3 3
Tabella 11.2 - Classificazione delle principali cardiopatie congenite. Cardiopatie non cianogene • Flusso polmonare aumentato – Pervietà del dotto arterioso di Botallo – Difetti del setto interatriale – Difetti del setto interventricolare – Ritorno venoso polmonare anomalo • Flusso polmonare normale – Stenosi polmonare – Stenosi aortica – Coartazione aortica – Malattie del miocardio e dell’endocardio – Ventricolo sinistro ipoplasico Cardiopatie cianogene • Flusso polmonare ridotto – Tetralogia di Fallot – Atresia della tricuspide – Anomalia di Ebstein • Flusso polmonare aumentato – Trasposizione dei grossi vasi – Ventricolo destro a doppia uscita – Fistola arterovenosa polmonare
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
teriormente suddiviso in due sottogruppi a seconda che il flusso di sangue nel circolo polmonare sia aumentato oppure normale (o ridotto). Nella tabella 11.2 vengono riassunte le principali cardiopatie congenite, raccolte secondo la classificazione enunciata. Le cardiopatie citate rappresentano circa il 90% di tutte le anomalie cardiache congenite. La distinzione in cardiopatie cianogene e non cianogene non è sempre rigorosa. Possono esistere cardiopatie cianogene nelle quali l’ipossiemia del sangue arterioso è lieve e in questi casi il paziente non appare evidentemente cianotico. E vi sono, al contrario, casi di cardiopatie non cianogene che sviluppano cianosi per una serie di modificazioni emodinamiche che verranno ricordate di volta in volta. Nel testo che segue verranno trattate solo le più importanti cardiopatie congenite. Per altre, che sono pure menzionate nella tabella 11.2, si rimanda a testi specialistici.
Aorta
Dotto arterioso pervio
Atrio destro Arteria polmonare
Atrio sinistro
Ventricolo sinistro
Ventricolo destro
CARDIOPATIE NON CIANOGENE CON FLUSSO POLMONARE AUMENTATO Pervietà del dotto arterioso (di Botallo) Il dotto arterioso di Botallo è un vaso che, durante la vita fetale, connette l’arteria polmonare con l’aorta. Esso abbocca l’aorta in una posizione immediatamente distale all’origine dell’arteria succlavia sinistra. Durante la vita fetale il sangue passa dall’arteria polmonare in aorta. Alla nascita il dotto si stringe fino a chiudersi. Lo stimolo che induce l’obliterazione del dotto di Botallo è l’aumento della pressione di ossigeno nel sangue arterioso che segue ai primi atti respiratori. La chiusura del dotto arterioso avviene solitamente nel primo giorno di vita extrauterina; a volte è più tardiva. La pervietà del dotto dopo i tre mesi di vita è da considerare senz’altro patologica. La pervietà del dotto arterioso può essere un difetto isolato (Fig. 11.1) o essere associata ad altri difetti cardiaci congeniti. Le conseguenze emodinamiche del difetto isolato sono legate principalmente a due fattori: le dimensioni del dotto e l’entità delle pressioni e delle resistenze vascolari (sia del circolo polmonare sia del circolo sistemico). Il diametro del dotto può variare da pochi mm a circa 1,5 cm. Normalmente, nella vita extrauterina la pressione presente nell’aorta supera quella della polmonare. Il flusso ematico nel dotto arterioso pervio è pertanto diretto dall’aorta alla polmonare. Se il dotto è di dimensioni ampie, il flusso di sangue nel circolo polmonare aumenta di molto. L’aumentato flusso polmonare aumenta la pressione del piccolo circolo. Inizialmente tale aumento pressorio è reversibile e le pressioni ritornano a valori normali se il dotto viene chiuso chirurgicamente.
Figura 11.1 - Il dotto arterioso prende origine dall’arco aortico distalmente all’arteria succlavia sinistra e imbocca la polmonare subito prima della biforcazione.
A lungo andare, però, può verificarsi un processo noto come reazione di Eisenmenger: le arterie polmonari sottoposte a costante aumento pressorio vanno incontro ad alterazioni anatomiche irreversibili, con aumento persistente delle resistenze polmonari, che diventano superiori alle resistenze del circolo sistemico. Di necessità, la pressione nell’arteria polmonare diventa molto alta, maggiore di quella aortica. Quando questo avviene, la direzione del flusso del dotto arterioso si inverte: dall’arteria polmonare il sangue (non ancora ossigenato) va nell’aorta. L’inversione del flusso comporta un’immissione di sangue venoso nel circolo arterioso sistemico e il paziente diventa cianotico. A questo punto, il quadro clinico risulta completamente cambiato e si dice che il paziente ha una sindrome di Eisenmenger. Si parla di sindrome di Einsenmenger perché il fenomeno “reazione di Einsenmenger”, precedentemente descritto, può verificarsi, oltre che nella persistenza del dotto di Botallo, anche in altre cardiopatie congenite, in particolare nei difetti interventricolari e, raramente, nella comunicazione interatriale. Quando la reazione di Eisenmenger si è verificata, ne deriva un quadro clinico che è lo stesso qualunque sia stata la cardiopatia originale. Tale quadro clinico si chiama, appunto, sindrome di Einsenmenger. A. Sintomi. Se il dotto è piccolo, il paziente è asintomatico. Se il dotto è più ampio, il ventricolo sinistro è sottoposto a un sovraccarico di volume; la quantità di sangue che deve pompare, infatti, è costituita dalla somma di due quantità: quella che serve a nutrire i tessuti più la quantità che ricircola lungo il percorso aortapolmoni-atrio sinistro-ventricolo sinistro. In questo ca-
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11 - CARDIOPATIE CONGENITE (DELL’ADULTO)
so possono comparire i segni iniziali dello scompenso cardiaco: dispnea da sforzo e facile affaticabilità. Se il difetto non viene corretto, possono manifestarsi in seguito i sintomi dell’insufficienza ventricolare sinistra conclamata. Il dotto arterioso pervio può essere facilmente sede di infezione: si tratta dell’endoarterite infettiva del dotto che ha le stesse caratteristiche dell’endocardite infettiva. Nei casi che vanno incontro a reazione di Eisenmenger si stabilisce una condizione di sovraccarico di pressione a carico del ventricolo destro. Di qui, scompenso cardiaco di tipo destro. B. Segni. La maggior parte dei pazienti con pervietà del dotto di Botallo è di sesso femminile. Il segno di maggiore rilevanza ai fini della diagnosi è il soffio continuo tipico della pervietà del dotto. Solitamente, la pressione in aorta supera quella in arteria polmonare sia in sistole sia in diastole. Il flusso ematico attraverso il dotto è pertanto sia sistolico sia diastolico. Il passaggio di sangue attraverso il dotto determina un soffio intenso, sistodiastolico, che ha la sua massima intensità sul focolaio di ascoltazione della polmonare. Il gradiente diastolico fra aorta e polmonare è massimo quando le valvole semilunari si chiudono all’inizio della diastole. Il soffio, pertanto, è in crescendo-decrescendo con acme in prossimità del II tono. Se il soffio è particolarmente intenso è accompagnato da fremito alla palpazione. Il reperto ascoltatorio classico può modificarsi se il vizio si complica con un aumento significativo delle pressioni polmonari. Se la pressione del piccolo circolo aumenta in modo significativo, il gradiente fra aorta e polmonare si riduce. La riduzione del gradiente comporta una riduzione di intensità del soffio. L’aumento della pressione polmonare determina la comparsa dei segni ascoltatori dell’ipertensione polmonare: in particolare l’intensità della componente polmonare del II tono aumenta. Può essere presente cianosi solo se il vizio è grave e l’ipertensione polmonare inverte la direzione del flusso attraverso il dotto. C. Elettrocardiogramma. L’elettrocardiogramma è normale quando il dotto è piccolo. Se la pervietà del dotto è ampia, il ventricolo sinistro è sottoposto a un aumento significativo di lavoro: all’elettrocardiogramma compaiono i segni di ipertrofia del ventricolo sinistro. Se c’è reazione di Einsenmenger è il ventricolo destro a essere sottoposto a un sovraccarico di lavoro. In questo caso l’elettrocardiogramma mostra i segni dell’ipertrofia ventricolare destra (o segni di ipertrofia destra e sinistra combinati). D. Radiografia del torace. Valgono gli stessi presupposti fisiopatologici elencati per l’elettrocardiogramma: nei casi non complicati sono presenti i segni radiologici di ipertrofia del ventricolo sinistro, ma soprattutto l’arteria polmonare e i rami arteriosi polmona-
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ri appaiono distesi e dilatati in relazione al grande flusso di sangue che percorre il circolo polmonare. Nella radiografia del torace in proiezione antero-posteriore l’arteria polmonare appare dilatata e la trama dei vasi arteriosi polmonari è aumentata (quadro radiologico di “iperafflusso polmonare”). La sindrome di Eisenmenger è invece caratterizzata dal persistere della dilatazione dell’arteria polmonare e dei suoi rami principali, ma le zone periferiche dei campi polmonari sono particolarmente povere di trama (perché i vasi sono ristretti). E. Ecocardiografia. L’ecocardiografia bidimensionale può mettere direttamente in evidenza il dotto arterioso pervio. Possono essere presenti i segni di sovraccarico mono o biventricolare. Con la tecnica Doppler è possibile identificare la direzione anomala dei flussi. Nei casi non complicati, in diastole il flusso di sangue è diretto dall’aorta alla polmonare. Ponendo il volume campione nell’arteria polmonare, è possibile registrare un flusso anomalo diastolico turbolento. Col color-Doppler è possibile visualizzare direttamente il dotto. F. Cateterismo cardiaco. L’arteria polmonare riceve sangue arterioso proveniente dall’aorta. La misurazione del grado di ossigenazione del sangue (ossimetria) mette pertanto in evidenza una differenza di ossigenazione fra i campioni di sangue prelevati nell’arteria polmonare e quelli prelevati nel ventricolo destro. Mediante cateterismo si possono anche misurare direttamente le pressioni e le resistenze del circolo polmonare. Le pressioni e le resistenze del piccolo circolo possono, come si è visto, essere normali o aumentate a seconda del flusso di sangue che passa attraverso il dotto. G. Decorso. Il decorso naturale della pervietà del dotto arterioso dipende dalle dimensioni del dotto e dalle condizioni del circolo polmonare. Se il dotto ha dimensioni piccole, il paziente è asintomatico e le sue prospettive di vita non sono influenzate dalla cardiopatia. Se il vizio è molto ampio, il paziente può morire nei primi mesi di vita per scompenso cardiaco. Nei più frequenti casi intermedi il decorso clinico è caratterizzato da: assenza di sintomi fino all’adolescenza; dispnea da sforzo e affaticabilità precoce intorno ai vent’anni di età; scompenso cardiaco verso i quarant’anni. Il flusso ematico anomalo nel dotto pervio crea condizioni favorevoli per l’insorgenza di infezioni batteriche (endoarteriti) a carico del dotto stesso. Le endoarteriti del dotto possono manifestarsi in qualsiasi momento della vita. H. Terapia. La terapia è di tipo chirurgico: consiste nella chiusura del dotto. L’intervento è semplice e presenta una bassa incidenza di complicazioni. Non richiede l’impiego della circolazione extracorporea. Nei casi
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
complicati da ipertensione polmonare il rischio operatorio è maggiore. Va praticata di regola la profilassi antibiotica per l’endoarterite batterica.
Difetti del setto interatriale I difetti del setto interatriale (DIA) rappresentano la più frequente anomalia cardiaca congenita. È stato calcolato che i difetti interatriali costituiscono da soli il 15% dei difetti cardiaci congeniti nei soggetti che arrivano al primo anno di vita. La diagnosi di difetto interatriale viene frequentemente posta per la prima volta nell’età adulta. I soggetti di sesso femminile ne sono interessati in misura circa doppia rispetto ai maschi. Nella vita extrauterina il circolo venoso e il circolo arterioso sono completamente separati. In particolare a livello atriale, il setto interatriale impedisce che il sangue arterioso presente nell’atrio sinistro si mescoli col sangue venoso presente nell’atrio destro. Nei difetti interatriali questa condizione viene a cadere: l’atrio sinistro comunica tramite il difetto settale con l’atrio destro e, dato che in quest’ultimo la pressione è minore, si ha passaggio di sangue (shunt) da sinistra a destra. I difetti interatriali vengono suddivisi in tre varietà principali a seconda della sede: • il difetto tipo ostium secundum; • il difetto tipo ostium primum; • il difetto del seno venoso. Nel tipo ostium secundum il difetto interatriale è posto nella porzione media del setto a livello della regione del forame ovale. Nel tipo ostium primum il difetto è posto nella parte inferiore del setto a ridosso del piano atrioventricolare. Nel difetto del seno venoso la comunicazione interatriale avviene in prossimità dello sbocco della vena cava superiore nell’atrio destro. Più dell’80% dei DIA sono del tipo ostium secundum. Le dimensioni del difetto interatriale variano da pochi millimetri a 4-5 cm. Difetto interatriale tipo ostium secundum Il DIA consente una comunicazione fra atrio sinistro e atrio destro. Nell’atrio sinistro la pressione è più alta che nell’atrio destro, pertanto il flusso del sangue attraverso la comunicazione va da sinistra a destra. Conseguenze: parte del sangue arterioso ossigenato presente in atrio sinistro si mescola col sangue venoso dell’atrio destro; il flusso nel circolo polmonare aumenta di una quota corrispondente alla quantità di sangue che passa da sinistra a destra attraverso il difetto. L’entità di questa conseguenza è proporzionale a due fattori: le dimensioni del difetto e la pressione presente nel circolo polmonare. Solitamente il difetto ha dimensioni superiori ai 2 cm2 e consente un significativo passaggio di sangue
nell’atrio destro: ciò comporta un aumento del flusso di sangue nel circolo polmonare. Inizialmente l’aumentato flusso polmonare non modifica significativamente le pressioni polmonari. La pressione polmonare può aumentare nell’età adulta: dapprima in maniera reversibile e talora irreversibile (si veda quanto detto per il dotto arterioso pervio: reazione di Eisenmenger). Nei rari casi in cui l’ipertensione polmonare secondaria all’iperafflusso di sangue determina un aumento della pressione nel ventricolo destro, e secondariamente nell’atrio destro, il flusso attraverso la comunicazione si inverte: sangue venoso entra nel circolo arterioso e il paziente diviene cianotico; si ha allora la sindrome di Eisenmenger. A. Sintomi. La sintomatologia dipende dalle dimensioni del difetto. Nei difetti di media grandezza il paziente è asintomatico fino ai 16-18 anni di età. I primi sintomi sono la dispnea da sforzo e la facile affaticabilità; questi sintomi tendono a progredire col passare degli anni. I grossi difetti interatriali possono favorire l’insorgenza di infezioni delle vie respiratorie. La distensione degli atri dovuta all’iperafflusso di sangue facilita l’insorgenza di aritmie ipercinetiche sopraventricolari. B. Segni. La diagnosi di DIA viene solitamente sospettata all’ascoltazione cardiaca e viene poi confermata dagli esami strumentali. Il segno più caratteristico dell’ascoltazione è costituito dallo sdoppiamento del II tono cosiddetto fisso. Il II tono è composto dalla componente aortica e dalla componente polmonare. In condizioni normali la componente aortica precede quella polmonare. L’intervallo che separa le due componenti dipende dagli atti del respiro: in inspirazione l’intervallo è maggiore; in espirazione è minore, fino ad essere praticamente nullo. L’inspirazione, infatti, riduce la pressione intratoracica e facilita il ritorno di sangue venoso nell’atrio destro. L’aumento del ritorno venoso nell’altrio destro aumenta il volume di sangue nel ventricolo destro. Questo a sua volta aumenta il tempo necessario per lo svuotamento sistolico del ventricolo destro. L’aumento della durata della sistole del ventricolo destro fa ritardare la chiusura della valvola polmonare e perciò ritarda l’inscrizione della componente polmonare del II tono. Il contrario avviene nell’espirazione. In presenza di DIA, il flusso attraverso atrio destro, ventricolo destro e arteria polmonare è aumentato e costante sia in inspirazione che in espirazione. In espirazione, infatti, la quota di sangue “persa” dal circolo refluo venoso periferico (per aumento della pressione intratoracica) viene compensata dall’aumento del flusso attraverso il difetto. L’intervallo che separa P2 (componente polmonare del II tono) da A2 (componente aortica) è pertanto ampio e non varia con le fasi del respiro. Allo sdoppiamento fisso del II tono si accompagnano altri due segni ascoltatori: il soffio sistolico eiettivo udibile sul focolaio della polmonare e il rumore meso-
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diastolico che si apprezza sul focolaio di ascoltazione della tricuspide. Il primo è dovuto all’aumento del flusso di sangue in sistole attraverso la valvola polmonare; il secondo al flusso diastolico torrenziale attraverso la tricuspide. C. Elettrocardiogramma. L’aumento di flusso nel ventricolo destro determina il quadro elettrocardiografico di sovraccarico di volume del ventricolo destro: in V1 è presente un complesso rSr che è molto caratteristico. Nei casi in cui compare ipertensione polmonare, l’elettrocardiografia può mostrare il quadro classico dell’ipertrofia del ventricolo destro con sovraccarico sistolico: R in V1 con T negativa. D. Radiografia del torace. Alla radiografia del torace compaiono i segni di dilatazione dell’atrio destro, del ventricolo destro, dell’arteria polmonare e dei suoi rami. La vascolarizzazione polmonare è accentuata (quadro di iperafflusso polmonare). All’esame radioscopico i rami principali dell’arteria polmonare appaiono vistosamente pulsanti (danza ilare). E. Ecocardiogramma. I segni ecografici di DIA sono per lo più indiretti e sono rappresentati dal sovraccarico del ventricolo destro. In particolare l’ecocardiogramma TM mostra un ventricolo destro dilatato e un movimento paradosso del setto interventricolare. I difetti di una certa entità sono visibili direttamente con l’ecografia bidimensionale. Con la tecnica Doppler si può mettere in evidenza il flusso anomalo di sangue che, nelle condizioni non complicate, è diretto dall’atrio sinistro all’atrio destro attraverso il difetto settale. Il color-Doppler mostra direttamente il flusso di sangue che attraversa il DIA nella direzione sinistra-destra. F. Cateterismo. Il cateterismo cardiaco serve per misurare il contenuto di ossigeno nel sangue e per determinare le pressioni nelle camere destre del cuore e del circolo polmonare. L’ossimetria mette in evidenza un gradiente nel contenuto di ossigeno fra i campioni di sangue prelevati nell’atrio destro e quelli prelevati nella vena cava. Solitamente, le pressioni nel circolo polmonare dei DIA di media gravità sono normali. G. Decorso. La chiusura spontanea del DIA tipo ostium secundum è molto rara. Nella massima parte dei casi i sintomi compaiono nell’età adulta e sono progressivi in assenza di una correzione chirurgica. Il 75% dei soggetti non operati muore per insufficienza cardiaca verso i 50 anni d’età. H. Terapia. La terapia è chirurgica e consiste nella chiusura del difetto o per sutura diretta o per applicazione di un “patch”. Difetto interatriale tipo ostium primum Durante lo sviluppo embrionale la parte distale del setto interatriale si completa insieme con la formazione
del piano atrioventricolare e della parte prossimale membranosa del setto interventricolare. La costruzione ottimale di ciascuna di queste strutture dipende dallo sviluppo armonico delle altre. È per questo che, spesso, le anomalie di formazione del setto interatriale distale (tipo ostium primum) si accompagnano a vizi congeniti a carico del setto interventricolare membranoso e delle valvole atrioventricolari. I difetti più frequenti dell’apparato valvolare mitralico e tricuspidale che si accompagnano al DIA tipo ostium primum sono: a) fissurazione (cleft) dei lembi valvolari; b) corde tendinee corte; c) inserzione anomala dei muscoli papillari. Queste anomalie (da sole o variamente combinate fra loro) determinano un’insufficienza delle valvole atrioventricolari. Al DIA tipo ostium primum può associarsi anche un difetto di formazione del setto interventricolare nella sua porzione membranosa: il ventricolo sinistro è in diretta comunicazione col ventricolo destro. Il complesso DIA tipo ostium primum più difetto del setto membranoso interventricolare prende anche il nome di canale atrioventricolare comune. Le caratteristiche emodinamiche dell’ostium primum dipendono dalla presenza o meno di vizi associati e dalla loro gravità. L’ostium primum isolato, privo cioè di vizi associati a carico del setto interventricolare e delle valvole atrioventricolari, ha caratteri emodinamici sovrapponibili a quelli descritti per l’ostium secundum. Anche l’esame obiettivo, radiologico ed ecocardiografico dell’ostium primum isolato sono simili a quelli descritti nell’ostium secundum. L’elettrocardiogramma dell’ostium primum ha (rispetto all’elettrocardiogramma dell’ostium secundum) una peculiarità. Questa peculiarità deriva dall’anomala formazione del setto interatriale distale (ed eventualmente del setto interventricolare membranoso) che spesso coinvolge il tessuto di conduzione. Il gruppo di fibre anteriori della branca sinistra è il distretto più frequentemente coinvolto: da ciò un’anormale diffusione dell’eccitamento nel ventricolo sinistro. L’elettrocardiogramma mostra (in circa il 90% dei casi di ostium primum) il quadro dell’emiblocco anteriore sinistro: deviazione assiale sinistra marcata (–30°) associata ad onda q evidente in D1 e aVL. L’evoluzione naturale dell’ostium primum è più grave di quella dell’ostium secundum: la mortalità è più precoce e complessivamente più elevata. La terapia è di tipo chirurgico. Il DIA tipo seno venoso è il più raro delle tre forme di DIA. Il quadro clinico del DIA tipo seno venoso è sovrapponibile a quello tipo ostium secundum.
Difetti del setto interventricolare Per difetto del setto interventricolare (DIV) si intende un difetto di formazione del setto che separa i due ventricoli. Il difetto mette in comunicazione diretta il ventricolo destro con il ventricolo sinistro.
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➀ ➁ ➂ ➃
Ventricolo destro
Figura 11.2 - Nel disegno sono rappresentate le quattro principali localizzazioni di difetto interventricolare. ➀ sopracristale; ➁ inferocristale; ➂ del setto membranoso; ➃ del setto muscolare.
I DIV sono un vizio cardiaco congenito frequente e vengono diagnosticati per lo più in età prepuberale; è rara la diagnosi di DIV nell’età adulta. Il DIV può presentarsi come vizio isolato o associato ad altre anomalie congenite. I DIV possono essere distinti in base a tre parametri: le dimensioni, la sede e il numero. • La dimensione del DIV può variare da pochi mm2 fino ad alcuni cm2. • La maggior parte dei DIV è posta a livello della porzione prossimale membranosa del setto. I difetti della porzione muscolare sono chiamati difetti settali muscolari. I difetti della porzione membranosa vengono ulteriormente suddivisi a seconda della loro collocazione relativamente alla crista ventricularis. La crista ventricularis è quella cresta muscolare che attraversa la parte posteriore del canale di efflusso del ventricolo destro. Si distinguono DIV sopracristali e inferocristali, a seconda che siano posti sopra o sotto la crista ventricularis (Fig. 11.2). La maggior parte dei DIV membranosi è sottocristale. I difetti sottocristali sono posti in prossimità della valvola aortica e possono accompagnarsi a difetti congeniti di questa valvola. I difetti sopracristali giacciono immediatamente al di sotto della valvola polmonare. • I difetti della porzione membranosa sono solitamente singoli. I difetti della porzione muscolare del setto interventricolare possono essere multipli.
A. Fisiopatologia. In presenza di difetto interventricolare, il sangue arterioso presente nel ventricolo sinistro può passare nel ventricolo destro. La direzione del flusso è da sinistra a destra perché la pressione nel ventricolo sinistro è maggiore di quella nel ventricolo destro. In presenza di DIV parte del sangue arterioso del ventricolo sinistro si mescola col sangue venoso presente nel ventricolo destro. L’entità del flusso attraverso il difetto dipende dalle dimensioni del difetto e dal gradiente pressorio presente fra ventricolo sinistro e ventricolo destro. Se il difetto è piccolo, il flusso di sangue verso il ventricolo destro è scarso; le pressioni nel ventricolo destro e nel circolo polmonare restano normali. Si usa spesso indicare questa condizione anomala, ma clinicamente innocua, come malattia di Roger. Se il difetto è grande, il flusso di sangue da sinistra a destra aumenta significativamente: aumenta la pressione del circolo polmonare. Inizialmente l’incremento pressorio è reversibile (si veda in precedenza Pervietà del dotto arterioso di Botallo); col tempo l’ipertensione polmonare può diventare irreversibile per la comparsa di anomalie dei vasi del piccolo circolo secondarie all’aumento del flusso (reazione di Eisenmenger). L’aumento di pressione nel circolo polmonare si ripercuote sul ventricolo destro. L’aumento di pressione del ventricolo destro riduce il flusso sinistra-destra attraverso il DIV. Se la pressione in ventricolo destro diventa simile a quella sistemica, il flusso attraverso il difetto può invertirsi: sangue venoso passa nel circolo sistemico arterioso con comparsa di cianosi (a questo punto si parlerà di sindrome di Eisenmenger). B. Sintomi. Se il difetto è piccolo, il paziente è asintomatico. I difetti più ampi determinano un aumento significativo del flusso e, al di là di una certa portata cardiaca, della pressione polmonare. I pazienti lamentano i sintomi della congestione polmonare: facile affaticabilità, dispnea da sforzo. Più tardi si può avere edema polmonare acuto. L’aumento del flusso polmonare altera i normali equilibri di ventilazione-perfusione e facilita (come nel DIA) la comparsa di infezioni a carico dei polmoni. La cianosi è presente solo nei casi con grave ipertensione polmonare e inversione del flusso attraverso il difetto. C. Segni. Il principale elemento di diagnosi di DIV deriva dall’ascoltazione del cuore. Il passaggio di sangue attraverso il difetto avviene in sistole, quando esiste un gradiente significativo tra la pressione del ventricolo sinistro e quella del ventricolo destro. Il flusso di sangue dal ventricolo sinistro al destro determina un rumore olosistolico. Il rumore si apprezza meglio sulla marginosternale sinistra a livello del IV spazio intercostale. Il soffio ha solitamente un’intensità compresa fra 4 e 6 sesti; ha forma per lo più “a plateau” (infatti il gradiente ventricolo sinistro-ventricolo destro si mantiene significativo per tutta la durata della sistole) e può accompagnarsi a fremito.
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11 - CARDIOPATIE CONGENITE (DELL’ADULTO)
In presenza di ipertensione polmonare grave, il flusso ventricolo sinistro-ventricolo destro è molto ridotto: il rumore tipico del DIV può essere assente e possono essere presenti solo i segni ascoltatori dell’ipertensione polmonare. I segni classici dell’ipertensione polmonare sono: un aumento d’intensità della componente polmonare del II tono, un soffio sistolico eiettivo sul focolaio polmonare ed eventualmente un click protosistolico di apertura della valvola polmonare. Se il DIV è sufficientemente ampio, il flusso polmonare è aumentato in modo significativo. L’aumento del flusso polmonare ritarda la chiusura della valvola polmonare: la componente P2 del II tono è ritardata. Lo sdoppiamento del II tono (più ampio quindi del normale) è comunque mobile con le fasi del respiro.
difetto è ampio è quello della gettata polmonare, che si considera eccessivamente alta se è 1,5 volte quella sistemica. I difetti ampi non operati portano a morte il 40% dei soggetti prima dei vent’anni e l’80% prima dei quaranta.
D. Elettrocardiogramma. Se il difetto è piccolo, l’elettrocardiogramma è normale. Se il difetto è ampio, sia il ventricolo sinistro che il ventricolo destro sono sottoposti ad un sovraccarico di lavoro. Questo aumento del lavoro determina la formazione di quadri elettrocardiografici di ipertrofia ventricolare sinistra, destra o biventricolare.
CARDIOPATIE NON CIANOGENE CON FLUSSO POLMONARE NORMALE
E. Radiografia del torace. L’aumento del lavoro dei ventricoli e l’aumento del flusso polmonare determinano i segni radiologici di dilatazione ventricolare (destra e sinistra), dilatazione dell’arteria polmonare e dei suoi rami principali, aumento della trama vascolare polmonare (iperafflusso polmonare). F. Ecocardiogramma. L’ecocardiogramma TM evidenzia i segni indiretti del sovraccarico del cuore: soprattutto aumento di diametro delle cavità. L’esame bidimensionale può, in alcuni casi, consentire la visione diretta del difetto. Per quanto riguarda la tecnica Doppler, si rimanda a quanto detto a proposito dell’uso della metodica nel DIA. Anche in questo caso l’esame mette in evidenza un flusso anomalo di corrispondenza del difetto. Il color-Doppler, inoltre, mette direttamente in evidenza il flusso anomalo. G. Cateterismo cardiaco. Il ventricolo destro riceve sangue arterioso dal ventricolo sinistro attraverso il DIV. Il sangue prelevato dal ventricolo destro è perciò più ossigenato di quello presente nell’atrio destro. Il cateterismo consente anche la misurazione delle pressioni nell’arteria polmonare. L’ossimetria e la misurazione delle pressioni polmonari consentono una stima indiretta dell’entità del difetto, mediante valutazione comparativa della portata (gettata/min) nel circolo polmonare e nel circolo sistemico. H. Evoluzione. I piccoli DIV possono chiudersi spontaneamente. Il difetto interventricolare piccolo che non si chiude ma ha scarsa rilevanza emodinamica (malattia di Roger) non necessita di intervento chirurgico. I difetti ampi non si chiudono spontaneamente e vanno sempre operati. Un parametro utile per decidere se un
Il flusso attraverso il difetto interventricolare crea una situazione emodinamica che facilita l’impianto di batteri a ridosso del difetto. L’infezione (endocardite) può avvenire anche se il difetto è piccolo. I. Terapia. La terapia è chirurgica e consiste nell’applicazione di un patch di materiale sintetico. Il DIV di qualunque dimensione richiede sempre la profilassi dell’endocardite batterica.
Stenosi polmonare Nella stenosi della polmonare è ostacolato lo svuotamento del ventricolo destro. L’ostruzione congenita allo svuotamento del ventricolo destro può avvenire per la presenza di malformazioni diverse. Queste malformazioni possono essere poste a livello della valvola polmonare ovvero nell’infundibolo sottovalvolare. L’ostruzione a livello valvolare è caratterizzata dall’assenza della valvola semilunare; la valvola è sostituita da un diaframma concavo che al centro ha una piccola apertura. L’ostruzione a livello dell’infundibolo può essere dovuta: a) alla presenza di una struttura fibrosa, posta immediatamente sotto il piano della valvola polmonare; b) a una diffusa ipertrofia muscolare dell’infundibolo. In ciascuna di queste varietà il ventricolo destro è sottoposto a un sovraccarico di lavoro, la cui entità dipende essenzialmente dalle dimensioni dell’ostruzione. Il sovraccarico di lavoro determina un’ipertrofia del ventricolo destro. L’ostruzione all’efflusso dal ventricolo destro fa aumentare la pressione all’interno del ventricolo e crea un gradiente pressorio sistolico fra ventricolo destro e arteria polmonare. Questo gradiente pressorio sistolico è necessario per mantenere il flusso attraverso l’ostruzione. L’aumento della pressione nel ventricolo destro può determinare, a monte, un aumento della pressione dell’atrio destro. Se l’aumento della pressione nell’atrio destro supera quella dell’atrio sinistro, si può avere l’apertura del forame ovale e passaggio di sangue venoso nel circolo arterioso. Il forame ovale, infatti, in molti casi si comporta come una porta incernierata su uno stipite: se viene spinta contro lo stipite resta chiusa, se viene spinta in direzione opposta si apre. In condizioni fisiologiche la struttura che chiude il forame ovale viene spinta da sinistra verso destra contro il profilo del forame (la pressione nell’atrio sinistro, infatti, supera quella del destro). Se la situazione pressoria si inverte, il forame ovale può aprirsi e consentire il passaggio di sangue da destra a sinistra.
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I sintomi dipendono dalla gravità dell’ostruzione. Se l’ostruzione è lieve, i sintomi sono assenti. L’ostruzione di media gravità solitamente è asintomatica fino all’età adulta. L’ostruzione grave è sintomatica anche nel bambino. I sintomi principali sono la dispnea e la facile affaticabilità. L’inversione del flusso attraverso il forame ovale può determinare la comparsa di cianosi. A. Segni. Il sangue che viene spinto dal ventricolo destro attraverso l’ostruzione determina la formazione del principale elemento di diagnosi: un rumore sistolico intenso, rude, udibile soprattutto sul focolaio di ascoltazione della polmonare. Il rumore della stenosi polmonare ha conformazione “a diamante” (in crescendo-decrescendo con acme centrale). L’intensità del soffio e la sua morfologia costituiscono una guida per stabilire la gravità dell’ostruzione. Quando il sangue passa attraverso l’ostruzione, infatti, il flusso cessa di essere laminare e diventa vorticoso, con rumore tanto più intenso quanto maggiore è l’ostruzione. Un secondo parametro è la morfologia del soffio. L’acme del soffio corrisponde al momento in cui è massimo il flusso di sangue attraverso l’ostruzione. Al flusso massimo corrisponde il massimo gradiente pressorio fra ventricolo destro e arteria polmonare. Se il massimo gradiente è precoce, l’ostruzione è lieve; se è tardivo, l’ostruzione è grave. Infatti, in presenza di una lieve ostruzione l’aumento di pressione endoventricolare, necessario per garantire il flusso attraverso l’ostruzione, è modesto. Tale modesto aumento viene raggiunto rapidamente. Se l’ostruzione è grave, l’incremento di pressione richiesto è più elevato e viene raggiunto solo tardivamente. L’ostruzione aumenta il tempo necessario per lo svuotamento del ventricolo destro. La valvola polmonare si chiude in ritardo e la componente polmonare del II tono è distante dalla componente aortica. Maggiore è l’intervallo, più grave è la stenosi. B. Elettrocardiogramma e radiografia del torace. Quando la pressione sistolica del ventricolo destro raggiunge o supera i 60 mmHg si ha sviluppo di un’ipertrofia ventricolare destra significativa che si manifesta all’ECG con onda R maggiore di 7 mm in V1 e V2, più deviazione a destra dell’asse di QRS e T negativa in V1-V2 e in D2, D3, aVF. La radiografia del torace mette in evidenza una dilatazione sovrastenotica dell’arteria polmonare e l’eventuale dilatazione del ventricolo destro. Sia la radiografia sia l’ecocardiografia sono alterate in misura proporzionale all’entità dell’ostruzione. Più l’ostruzione è grave, maggiore è il sovraccarico di lavoro cui è sottoposto il ventricolo destro. Il sovraccarico di lavoro determina un’ipertrofia del ventricolo destro che può essere apprezzata con gli esami strumentali. C. Ecocardiogramma. L’ecocardiogramma bidimensionale consente la visualizzazione diretta sia dell’infundibolo del ventricolo destro sia della valvola polmonare.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Con la tecnica Doppler si può mettere in evidenza il flusso turbolento sistolico presente nell’arteria polmonare a valle dell’ostruzione. La velocità massima del flusso registrata dopo l’ostruzione consente di risalire al gradiente pressorio transvalvolare. D. Cateterismo cardiaco. Mette in evidenza il gradiente pressorio a cavallo dell’ostruzione. A gradiente maggiore corrisponde un’ostruzione più grave. E. Evoluzione. Dipende dal grado di ostruzione. Ostruzioni lievi hanno un decorso favorevole: il paziente è asintomatico ed ha un’aspettativa di vita normale. Le ostruzioni gravi portano a morte il paziente prima della pubertà. La causa di morte principale è lo scompenso cardiaco intrattabile. I pazienti con stenosi polmonare sono esposti al rischio di endocarditi infettive. Il rischio è indipendente dalla gravità dell’ostruzione. F. Terapia. È di tipo chirurgico. È indicata in tutti i casi di stenosi polmonare ad eccezione dei casi lievi. Va praticata la profilassi dell’endocardite batterica.
Stenosi aortica A. Aorta bicuspide. L’aorta bicuspide è la cardiopatia congenita più frequente: può determinare stenosi oppure no. Nei casi di stenosi il quadro clinico è sovrapponibile a quello descritto per la stenosi acquisita. La bicuspidia che non genera stenosi è asintomatica. La diagnosi è per lo più occasionale. Viene posta spesso nel corso di un esame ecocardiografico eseguito per altri motivi. B. Coartazione dell’aorta. Per coartazione aortica si intende una costrizione congenita del vaso: l’aorta è di calibro ridotto per un tratto più o meno lungo. La sede più frequente di coartazione è a livello della parte superiore dell’aorta discendente. La coartazione aortica viene distinta in due forme principali: la forma “postduttale” o dell’adulto; la forma “preduttale” o infantile (Fig. 11.3). La forma postduttale viene anche chiamata dell’adulto perché consente la sopravvivenza fino all’età adulta. La forma infantile è più grave: difficilmente il paziente raggiunge l’età adulta. Sia la forma preduttale sia la forma postduttale ostacolano il regolare flusso di sangue dall’arco aortico all’aorta discendente. La diversità di prognosi dei due tipi di coartazione dipende dal diverso grado di ostruzione creato, il quale, a sua volta, dipende dalle diverse caratteristiche anatomiche. Nella forma dell’adulto la costrizione del vaso è solitamente circoscritta. L’ostruzione è situata in una posizione immediatamente distale al legamento arterioso (il residuo fibroso del dotto di Botallo). La forma infantile interessa l’aorta nel segmento prossimale al dotto di Botallo ed è di solito caratterizzata dall’ipoplasia di un tratto esteso dell’arco aortico.
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11 - CARDIOPATIE CONGENITE (DELL’ADULTO)
A.
Arteria succlavia sinistra
Aorta Legamento arterioso
Arteria polmonare
B. Aorta
Arteria succlavia sinistra Legamento arterioso Coartazione Arteria polmonare
Arteria succlavia sinistra C. Aorta
Coartazione Dotto arterioso Arteria polmonare
Figura 11.3 - I disegni confrontano un’aorta normale (A) con una coartazione postduttale (B) e una preduttale (C).
La coartazione aortica (nelle due forme) si può associare a costrizioni localizzate sia dell’arteria succlavia sinistra sia dell’aorta addominale. La forma infantile si associa spesso ad altri vizi cardiaci congeniti. I vizi più frequenti sono la valvola aortica bicuspide e la pervietà del dotto arterioso. C. Fisiopatologia. La coartazione aortica ostacola il regolare flusso di sangue attraverso il tratto prossimale dell’aorta discendente verso l’aorta toracica. Le conseguenze di questo ostacolo dipendono dalla gravità dell’ostruzione. La gravità dell’ostruzione, a sua volta, deriva dal calibro del vaso nel tratto coartato e dalla lunghezza della costrizione. L’ostacolo del flusso attraverso la coartazione determina due conseguenze emodinamiche principali: tutte le strutture vascolari che stanno a monte dell’ostruzione sono sottoposte ad aumento della pressione ematica; tutte quelle che stanno a valle sono sottoposte a riduzione della pressione. Aumenta perciò la pressione del sangue sia nell’arco aortico sia nei vasi che da esso originano: l’arteria succlavia sinistra, la carotide comune sinistra e l’arteria anonima. L’aumento di pressione nell’arco aortico aumenta la pressione sistolica del ventricolo sinistro. L’aumento di
pressione sistolica fa aumentare il lavoro del ventricolo sinistro. A valle dell’ostruzione la pressione diminuisce: è ridotta, in particolare, nell’aorta toracica e addominale e nei suoi rami principali. Si crea perciò un gradiente di pressione fra i vasi che originano dal tratto di aorta posto sopra e quelli che originano dal tratto posto sotto la coartazione; questo gradiente facilita il flusso di sangue attraverso le arterie che mettono in comunicazione i due distretti a lato della coartazione. Si sviluppa, cioè, un circolo collaterale costituito da arterie dilatate e tortuose. Il circolo collaterale contribuisce a ridurre il gradiente di pressione e di flusso determinato dalla coartazione. Il circolo collaterale principale è rappresentato dalle arterie succlavie e dai loro rami. Questi vasi, attraverso le arterie intercostali, portano sangue alle arterie mammarie interne. Le arterie mammarie interne sono variamente connesse col circolo arterioso collegato con l’aorta nella sua porzione distale alla coartazione. D. Sintomi. La varietà infantile di coartazione aortica è solitamente grave. Si manifesta molto precocemente con scompenso cardiaco. I sintomi della forma postduttale dipendono dal grado di ostruzione. Se l’ostruzione è lieve, il paziente può essere asintomatico fino all’età adulta. Nelle ostruzioni di media gravità i sintomi compaiono nell’adolescenza. La sintomatologia è quella dello scompenso ventricolare sinistro. A volte il paziente manifesta una facile affaticabilità, che viene riferita soprattutto agli arti inferiori. L’aorta, nella sede della coartazione, può essere sede di impianto di germi: i sintomi dell’arterite possono essere la prima manifestazione del vizio. E. Segni. I segni fisici principali della coartazione aortica sono rappresentati: a) dalla riduzione dei polsi femorali; b) dalla differenza di pressione arteriosa sistolica fra gli arti superiori e gli arti inferiori. Nel bambino piccolo questa differenza è dovuta essenzialmente alla riduzione della pressione arteriosa negli arti inferiori. Nell’adolescente e nell’adulto la differenza si accentua per un incremento progressivo della pressione negli arti superiori. Solitamente, il gradiente di pressione sistolica fra arti superiori e arti inferiori è superiore ai 30 mm di mercurio. Il sangue che passa attraverso l’ostruzione determina la formazione di un rumore sistolico che si apprezza sia sulla parasternale sinistra sia sul dorso in corrispondenza della colonna vertebrale toracica. Il soffio è in crescendo con un acme telesistolico. L’elettrocardiogramma mostra un’ipertrofia del ventricolo sinistro tanto più grave quanto maggiore è l’ostruzione. La radiografia del torace è caratteristica. Sono presenti i segni dell’ipertrofia ventricolare sinistra. I margini inferiori della parte posteriore delle coste presentano delle irregolarità. Queste irregolarità sono dovute all’erosione ossea determinata dalle arterie intercostali che, come si è visto, sono dilatate per la presenza del circolo collaterale.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Le incisure costali sono un segno radiologico tardivo, che solitamente compare dopo i 12 anni di età. L’ecocardiogramma bidimensionale può fornire la visione diretta della coartazione aortica. Il Doppler evidenza il flusso turbolento sistolico presente dopo la coartazione. La velocità massima del flusso registrata dopo l’ostruzione consente di valutare il gradiente di pressione posto a cavallo della coartazione. Se la coartazione non viene corretta, il paziente vive mediamente fino a 30-35 anni. F. Terapia. La terapia è chirurgica. L’età elettiva di intervento è fra 8 e 12 anni.
CARDIOPATIE CIANOGENE CON RIDOTTO FLUSSO POLMONARE Tetralogia di Fallot La tetralogia di Fallot è una cardiopatia congenita costituita da quattro fattori fondamentali: difetto del setto interventricolare; ostruzione all’efflusso dal ventricolo destro; destroposizione aortica; ipertrofia ventricolare destra. La tetralogia di Fallot è la più frequente cardiopatia cianogena congenita: rappresenta il 6% di tutti i vizi cardiaci congeniti. • Difetto interventricolare. Il difetto del setto interventricolare di solito è ampio; è per lo più localizzato a livello del setto membranoso. Nella maggior parte dei casi il difetto è posto sopra la crista ventricularis. • Ostruzione all’efflusso dal ventricolo destro. Solitamente l’ostruzione all’efflusso dal ventricolo destro è a livello infundibolare. L’alterazione anatomica può essere rappresentata sia da una costrizione di tutto l’infundibolo sia dalla presenza di una struttura fibrosa posta nella parte più bassa dell’infundibolo stesso. In circa il 20% dei casi l’ostruzione all’efflusso è rappresentata da una stenosi della valvola polmonare. • Destroposizione aortica. L’aorta, di solito, è posta a cavallo del setto interventricolare. Origina in parte dal ventricolo destro e in parte dal ventricolo sinistro. • Ipertrofia del ventricolo destro. L’ipertrofia del ventricolo destro deriva dalle condizioni emodinamiche che si vengono a creare per la presenza dei precedenti tre difetti. A. Fisiopatologia. Il sangue spinto dal ventricolo destro verso l’arteria polmonare viene ostacolato dall’ostruzione dell’infundibolo e solo in parte prende la via del circolo polmonare. I vasi polmonari sono pertanto ipoperfusi. La quota di sangue che non può passare nel circolo polmonare ha due vie alternative: l’aorta (che in parte origina dal ventricolo destro) e il difetto settale. L’aorta
nasce a cavaliere del difetto settale. Pertanto, anche il sangue che attraversa il setto entra nell’aorta, utilizzando la porzione del vaso che ha origine dal ventricolo sinistro. In entrambi i casi (direttamente in aorta o previo passaggio attraverso il setto) sangue venoso entra nel circolo sistemico. L’ingresso di sangue venoso nel circolo sistemico determina ipossiemia arteriosa e cianosi. Il ventricolo destro opera in condizioni di sovraccarico a causa delle elevate resistenze al flusso contro le quali deve lavorare: l’ostruzione polmonare e le pressioni sistemiche presenti sia nell’aorta sia nel ventricolo sinistro al di là del difetto settale. Il ventricolo destro, pertanto, diventa ipertrofico. L’entità del flusso relativo attraverso l’ostruzione polmonare e nel circolo periferico dipende dall’entità dell’ostruzione e dalle resistenze del circolo sia polmonare sia sistemico. B. Sintomi. La diagnosi avviene di solito precocemente. Il bambino piccolo è irritabile, piange con facilità e mangia poco. Durante il pianto compare o si accentua la cianosi. Ciò è dovuto a un aumento delle resistenze del circolo polmonare: l’aumento delle resistenze polmonari è secondario all’aumento della pressione intratoracica dovuta alla manovra di Valsalva effettuata durante il pianto. La stessa cosa avviene in altre condizioni caratterizzate da una manovra di Valsalva: tosse e defecazione. L’ipossigenazione arteriosa dovuta al passaggio di sangue venoso nel circolo arterioso comporta ipossigenazione del cervello. Se l’ipossigenazione cerebrale è marcata, si possono avere sincope e convulsioni. Il bambino con tetralogia di Fallot assume spesso la posizione di “squatting”. La posizione di squatting consiste in un accovacciamento a ginocchia piegate con le braccia che cingono le gambe. Questa posizione aumenta le resistenze arteriose periferiche. L’aumento delle resistenze del circolo arterioso ostacola il flusso di sangue verso l’aorta e verso il difetto settale. La manovra di squatting riduce pertanto l’ingresso di sangue venoso nel circolo sistemico e riduce la cianosi. I pazienti con tetralogia di Fallot accusano dispnea da sforzo. La dispnea è determinata dall’ipossigenazione del sangue arterioso e dall’ostacolo al circolo polmonare. C. Segni. Il paziente è cianotico. La cianosi si aggrava in corso di manovra di Valsalva. I segni ascoltatori sono dovuti principalmente all’ostacolo al flusso dal ventricolo destro e sono riconducibili a quanto già detto per la stenosi polmonare. 1. Elettrocardiogramma. Mette in evidenza un quadro massiccio di ipertrofia e sovraccarico del ventricolo destro. 2. Radiografia del torace. Sono presenti i segni di ipertrofia del ventricolo destro. L’aorta ascendente solitamente è dilatata. I campi polmonari sono ipoperfusi. 3. Ecocardiogramma. L’ecocardiografia mostra: a) i segni dell’ipertrofia del ventricolo destro; b) la collocazione a cavaliere dell’aorta.
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11 - CARDIOPATIE CONGENITE (DELL’ADULTO)
4. Cateterismo cardiaco. Si mette in evidenza: a) l’aumento di pressione del ventricolo destro; b) il passaggio diretto del catetere dal ventricolo destro nell’arco aortico; c) la ridotta ossigenazione del sangue arterioso. D. Evoluzione. Senza intervento, i pazienti con tetralogia di Fallot muoiono mediamente a 12 anni. Solo il 10% dei pazienti sopravvive fino all’età adulta. E. Terapia. La terapia è chirurgica e consiste nella chiusura del difetto interventricolare e nella rimozione dell’ostruzione del ventricolo destro.
Anomalia di Ebstein L’anomalia di Ebstein è una malformazione rara. Rappresenta circa l’1% di tutti i difetti cardiaci congeniti. La caratteristica principale dell’anomalia di Ebstein consiste nello spostamento verso il basso della valvola tricuspide. Nella sezione destra del cuore si creano due camere: una posta al di sopra e una al di sotto della tricuspide. La prima è costituita dall’atrio destro più la porzione di ventricolo destro posta al di sopra della tricuspide; la seconda dalla restante parte del ventricolo destro. Molto spesso la valvola tricuspide e l’apparato sottovalvolare hanno vari difetti di formazio-
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ne. L’anomalia di Ebstein si associa spesso ad altre cardiopatie congenite. La più frequente è il difetto interatriale. L’effetto emodinamico principale dell’anomalia di Ebstein è costituito dalla ridotta “performance” del ventricolo destro. Questa, a sua volta, è responsabile della riduzione di flusso di sangue nei polmoni e dell’ipertensione a monte: atrio destro e circolo venoso sistemico. Se la pressione nell’atrio destro supera quella nell’atrio sinistro, ci può essere passaggio di sangue in direzione destra-sinistra attraverso la pervietà del setto atriale. I sintomi principali sono la dispnea da sforzo e la facile affaticabilità. Nel 70-80% dei casi il paziente è cianotico per la presenza di un flusso destra-sinistra attraverso il setto interatriale. All’elettrocardiogramma si osservano P di tipo polmonare. Sono frequenti le aritmie ipercinetiche sopraventricolari dovute alla distensione dell’atrio destro. Alla radiografia del torace l’atrio destro è dilatato e la vascolarizzazione polmonare è ridotta. La diagnosi è confermata all’ecografia bidimensionale, dove è possibile avere la visione diretta dell’impianto anomalo della tricuspide. L’anomalia di Ebstein isolata ha di solito un decorso benigno. In assenza di cardiopatie associate, è sufficiente di solito la terapia medica per lo scompenso del ventricolo destro e per le aritmie.
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C A P I T O L O
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MALATTIE DEL PERICARDIO M. OBBIASSI
GENERALITÀ Il pericardio è un sacco a doppia parete che contiene il cuore. Le due pareti, che si continuano una con l’altra all’origine dei grandi vasi, sono rispettivamente il pericardio viscerale e quello parietale. Il pericardio viscerale avvolge la superficie esterna del cuore ed è costituito da uno strato di connettivo lasso e di adipe e da uno strato di cellule piatte mesoteliali; queste ultime tappezzano il versante viscerale della cavità pericardica (la cavità è virtuale nel senso che contiene solo 30-50 ml di liquido avente le caratteristiche di ultrafiltrato del plasma). Il pericardio viscerale è irrorato da rami arteriosi che provengono dalle coronarie e riceve linfa da rami che provengono dall’endocardio attraverso il miocardio. Il pericardio parietale è costituito, dall’interno all’esterno, da uno strato di cellule piatte analoghe a quelle del pericardio viscerale e da uno strato di connettivo fibroso; vasi e nervi derivano dal mediastino, e così i linfatici. Il pericardio parietale è collegato da legamenti fibrosi alle strutture vicine (sterno, diaframma, colonna); questo fatto impedisce spostamenti grossolani del viscere che potrebbero determinare ripiegature (inginocchiamento) dei grandi vasi. Il pericardio è utile, oltre che per questa funzione di fissazione, soprattutto perché riduce l’attrito tra cuore e organi vicini e perché costituisce una barriera al propagarsi di infezioni dal mediastino al cuore, non è però indispensabile, tanto che l’assenza congenita di esso, o l’eventuale asportazione chirurgica, non hanno conseguenze rilevanti. Le affezioni del pericardio non sono necessariamente associate a malattie del cuore, anzi nella maggior parte dei casi sono malattie che interessano essenzialmente il pericardio, o che sono associate a compromissione di altri organi. In quasi tutti i casi il fatto clinico fondamentale è costituito dalla comparsa nella cavità (che, come già detto, è normalmente quasi virtuale) di liquido più o
meno abbondante. Se il liquido (che può essere un trasudato, un essudato o sangue) penetra nella cavità pian piano, il pericardio parietale si sfianca facendo posto al liquido stesso senza che il cuore ne venga compromesso. In processi cronici si arriva a più litri (2 o 3, per es.) di liquido. Se, viceversa, il liquido si forma (o entra) nella cavità in un tempo breve, basta qualche centinaio di millilitri per produrre un effetto di compressione sul cuore che è responsabile di gravi conseguenze: tamponamento cardiaco. Di questo si parlerà in seguito. Quando il versamento liquido è un trasudato, si parla di idropericardio. Il liquido trasuda dai capillari quando si verifica un aumento persistente della pressione venosa nelle vene toraciche o quando esiste squilibrio fra pressione idrostatica e pressione oncotica. La causa più comune è lo scompenso cardiaco; meno spesso si tratta di sindrome nefrosica o altra condizione che porta all’anasarca. L’idropericardio è spesso associato a versamento pleurico destro o bilaterale. Si sviluppa quasi sempre lentamente e la sintomatologia è quella della malattia fondamentale. Si parla, invece, di emopericardio quando la cavità pericardica è invasa da sangue. Questo può provenire dal cuore (per rottura del cuore, per traumi o come complicanza dell’infarto del miocardio). In questo caso si ha tamponamento cardiaco e, in genere, morte rapida. In altri casi il sangue deriva da rottura di vasi che decorrono localmente: se si tratta di arterie, si sviluppa tamponamento; se si tratta di vene, specie piccole, e il sangue che penetra nella cavità è a bassa pressione e non è molto abbondante, il tamponamento manca, si instaura però un’infiammazione reattiva. La terza evenienza è che la cavità pericardica sia invasa da essudato, a causa di un’infiammazione della sierosa. Si parla allora di pericardite. Raramente esistono altre affezioni del pericardio come cisti e tumori. Questi ultimi si manifestano praticamente come una pericardite, e quindi saranno discussi nel paragrafo dedicato alle pericarditi.
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
PERICARDITI
Tabella 12.1 - Principali cause di pericardite. Cause infettive
Classificazione anatomo-clinica L’infiammazione del pericardio dà luogo a ispessimento del connettivo del foglietto viscerale o parietale o di entrambi, ma soprattutto l’essudato che si forma si riversa – superando il sottile mesotelio – nella cavità pericardica. L’infiammazione in atto è quindi sempre associata a versamento pericardico, più o meno abbondante. Il liquido ha i caratteri di un essudato. Se il liquido è scarso, contiene di solito parecchia fibrina. Si distinguono tre varianti di pericardite, con sintomatologia molto diversa. A. Pericardite acuta. Il versamento è scarso, mentre sono appariscenti i segni clinici della flogosi acuta: dolore, febbre, sfregamenti, quadro elettrocardiografico della pericardite acuta. Tutti questi sintomi e segni saranno descritti analiticamente in un paragrafo successivo. Nella maggior parte dei casi la pericardite acuta si risolve in qualche settimana. B. Pericardite cronica essudativa. Può seguire una pericardite acuta ma più spesso insorge subdolamente, per cui il quadro clinico è essenzialmente costituito dalla presenza di un versamento pericardico abbondante. Questo può passare inavvertito o dare i sintomi e i segni che saranno descritti in seguito. Il problema clinico è in questi casi costituito da un paziente con scarsa sintomatologia locale, in cui si evidenzia il versamento pericardico come manifestazione unica di malattia o come manifestazione di interessamento del pericardio nell’ambito di una malattia sistemica. C. Un terzo, molto diverso, quadro clinico è quello della pericardite cronica costrittiva, che si istituisce come esito di un processo infiammatorio di lunghissima durata (avvertito o non avvertito nel suo svolgimento), per ispessimento fibroso con coartazione del pericardio. Il quadro clinico deriva dal fatto che il cuore è “strozzato” dall’esterno, per cui non può dilatarsi in diastole quanto necessario. Per una corretta comprensione dei termini sopra impiegati, si precisa che, convenzionalmente, si intende per acuta una pericardite che dura meno di 6 settimane e per cronica una pericardite che dura più di 6 mesi. Una pericardite che dura tra 6 settimane e 6 mesi è detta subacuta, e può essere tanto una variante protratta della forma acuta, quanto una forma di passaggio tra pericardite acuta e pericardite cronica (essudativa o costrittiva).
Eziopatogenesi La tabella 12.1 fornisce un elenco delle cause di pericardite. Tutte le pericarditi possono esordire come forma acuta, molte possono cronicizzarsi o esordire senza
• Virus (idiopatica coxsackie B, echo, altri virus) • Batteri (M. tuberculosis, piogeni) • Miceti o protozoi (rare) Cause immunologiche • In corso di malattia reumatica • In corso di malattie “del connettivo” (lupus, sclerosi sistemica progressiva, artrite reumatoide) • In corso di “malattia da siero” e reazioni analoghe (per es., in corso di endocardite infettiva) • Consecutiva a lesioni del pericardio (postpericardiotomica, post-traumatica, sindrome di Dressler) • Pericardite recidivante Altre cause • • • •
Pericardite epistenocardica Pericardite neoplastica Radiazioni Emorragie intrapericardiche (traumi, terapia anticoagulante) • Uremia • Forme ad inquadramento nosologico incerto (per es., versamento pericardico in corso di mixedema)
sintomatologia vistosa e quindi presentarsi clinicamente come forme essudative croniche (in particolare la tubercolare, quelle secondarie a malattia del connettivo, quelle neoplastiche, quella da mixedema). Il termine di pericardite acuta (spesso detta benigna idiopatica) è tradizionale e serve a indicare una tipica pericardite acuta la cui causa non può essere accertata. È verosimile che si tratti di forma da virus. A. Pericarditi virali. Costituiscono il prototipo della pericardite acuta, che si risolve in 3-4 settimane. Nei casi in cui l’eziologia ha potuto essere accertata, sono risultati spesso coinvolti i virus coxsackie, gli echo, talora quelli della varicella o di Epstein-Barr. Va però rilevato che accertare l’eziologia virale non è facile ed è indaginoso: per questo nella maggior parte dei casi l’eziologia resta indeterminata e allora la pericardite viene classificata come “da virus indeterminato” o come “idiopatica”. B. Pericarditi batteriche. La più comune forma di pericardite batterica è quella tubercolare, che si presenta solitamente come pericardite cronica essudativa a esordio subdolo ed esita facilmente in pericardite costrittiva. Altre pericarditi batteriche sono rare e possono essere provocate da pneumococchi, streptococchi, stafilococchi, Haemophilus, Klebsiella, Pseudomonas, ecc. I germi possono arrivare al pericardio per via ematogena, attraverso una ferita, o provenire da visceri vicini. Sono esempi di quest’ultima possibilità le pericarditi che insorgono in corso di polmonite, da un ascesso sottodiaframmatico, per estensione da un’endocardite o da miocardite batterica. Ovviamente, le forme da piogeni daranno una pericardite purulenta.
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12 - MALATTIE DEL PERICARDIO
C. Pericardite reumatica. Oggi rara, fa parte della malattia reumatica. D. Pericardite nelle malattie del connettivo. Possibile nel lupus eritematoso sistemico (in forma acuta o cronica), nella sclerosi sistemica progressiva (piccoli versamenti cronici), nell’artrite reumatoide. E. Pericardite in corso di “malattia da siero” e reazioni analoghe. Più che dopo la somministrazione di sieri eterologhi (malattia da siero in senso stretto), questa forma di pericardite può essere osservata a seguito della somministrazione di farmaci o in altre condizioni morbose caratterizzate da complessi immuni circolanti (per es., nell’endocardite infettiva). F. Pericarditi a patogenesi immunitaria consecutive a lesioni del pericardio. Dopo interventi chirurgici che coinvolgono il pericardio, con sanguinamento nel pericardio stesso, è frequente (10-30% dei casi) che a distanza di 2 settimane-3 mesi insorga una pericardite acuta. Essa è attribuita a una reazione autoimmune rivolta contro antigeni del pericardio o del miocardio. Un’altra ipotesi (meno diffusa) postula un’infezione da virus facilitata dalla malattia chirurgica. Questa pericardite postpericardiotomica viene comunemente considerata unitariamente ad altre forme, tutte associate a lesioni del pericardio (o, data la sottigliezza del pericardio viscerale, del miocardio): la post-traumatica e la sindrome di Dressler; quest’ultima è una pericardite acuta che colpisce dopo 2 settimane-3 mesi fino al 5% dei pazienti con pregresso infarto del miocardio. G. Pericardite recidivante. Una complicanza possibile in ogni caso di pericardite acuta è costituita dalle recidive. In una notevole percentuale di casi (15% per dare una cifra indicativa), la guarigione della pericardite è seguita a distanza di settimane o qualche mese da una nuova pericardite acuta. Questa è verosimilmente di tipo immune, da considerare cioè una forma affine alla pericardite postpericardiotomica. Caratteristicamente, la pericardite recidivante guarisce facilmente, ma può ripetersi: in alcuni pazienti si hanno decine di recidive, una ogni 2 mesi. In alcuni casi, dopo anni di recidive, si è ottenuto spegnimento definitivo del processo solo dopo intervento chirurgico di pericardiectomia. H. Pericardite epistenocardica. Nell’infarto del miocardio transmurale la necrosi miocardica è associata a infiammazione (per presenza di enzimi proteolitici, ecc.) del pericardio sovrastante: in una parte dei pazienti la pericardite si rende clinicamente manifesta (in genere nella prima settimana). Dunque l’infarto può determinare due tipi di pericardite, a patogenesi differente. I. Pericardite neoplastica. Il pericardio appare coinvolto nel 5-10% dei riscontri autoptici in pazienti portatori di neoplasie. L’80% delle forme è associato a neoplasie polmonari, della mammella, leucemia, Hodgkin e linfomi non Hodgkin. Forme primarie neoplastiche sono
molto rare (mesoteliomi primari, fibrosarcomi, angiosarcomi). Il versamento assume per lo più caratteristiche emorragiche e spesso si assiste ad erosione di grossi vasi e della parete cardiaca stessa con emopericardio e tamponamento cardiaco. J. Pericardite da radiazioni. Complicanza frequente per grosse dosi applicate al torace nella terapia di tumori mammari, morbo di Hodgkin o altri linfomi mediastinici (terapie con dosi globali superiori a 4000 rads). Compare entro 12 mesi dal termine della terapia, anche se la forma cronica costrittiva si può manifestare molti anni dopo. Attualmente è la più comune causa di pericardite costrittiva nei bambini. K. Pericardite da uremia. Complicanza in corso di insufficienza renale cronica. L’eziologia è ignota, ma sostanzialmente legata a un’eccessiva esposizione a prodotti azotati. Si può ricordare che in passato, in era predialitica, la pericardite era considerata un indice molto significativo dell’uremia terminale: precedeva la morte di circa tre settimane. In genere questa pericardite regredisce dopo trattamento dialitico. Spesso però si mantiene in forma attenuata, a dimostrazione del fatto che sono vari i prodotti tossici non eliminati dai reni insufficienti (e non dializzabili) a provocarla. In alcuni casi il termine “pericardite” è impiegato per consuetudine, ma è di dubbia precisione. Si tratta di versamenti pericardici associati ad altre condizioni morbose, ma che non sono infiammatori. Tali sono il versamento pericardico che si può osservare in corso di mixedema, o quelli che raramente accompagnano le gravi anemie o la pervietà interatriale.
Fisiopatologia Prima di passare al quadro clinico delle pericarditi, conviene descriverne alcuni aspetti importanti e caratteristici. A. Dolore pericardico e sfregamento. Compaiono quando il versamento pericardico è di tipo essudativo, ricco in fibrina e di scarsa entità. Generalmente all’esordio delle pericarditi acute. In questi casi i foglietti del pericardio, divenuti “scabri”, sfregano l’uno sull’altro in conseguenza delle pulsazioni cardiache e per effetto delle sollecitazioni esercitate sul pericardio parietale dall’esterno (con gli atti respiratori, con il passaggio di boli nell’esofago, persino con alcuni movimenti della parete toracica). Questa situazione determina irritazione delle terminazioni nervose sensitive e provoca dolore, che è percepito per lo più in corrispondenza della parete toracica, ma che, quando l’irritazione origina dal pericardio parietale sovrapposto al diaframma, può essere localizzato ai lati del collo (questa porzione del pericardio è, infatti, innervata da rami del nervo frenico che origina dal plesso cervicale: il dolore è per-
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ciò riferito a metameri cervicali). Quando il fluido aumenta nel sacco pericardico, la fibrina viene diluita e i foglietti pericardici non sfregano più l’uno sull’altro. Il dolore si attenua e scompare. B. Versamento pericardico cospicuo. In una fase più avanzata delle pericarditi acute con versamento essudativo ricco in fibrina, in caso di versamenti essudatizi poveri in fibrina e in caso di versamenti trasudatizi (idrotorace), il liquido si accumula nel pericardio senza dare una sintomatologia vistosa. È caratteristico che in molti casi di pericardite essudativa cronica il versamento si costituisca e perduri senza che il paziente se ne accorga o quasi. All’inizio il paziente avvertirà solo una sensazione di “pienezza” o oppressione al torace, via via che il liquido si accumula, sfiancando il pericardio parietale. In seguito queste modeste sensazioni possono anche sparire, per ricomparire solo quando il liquido, essendo 2-3 l o più, costituisce una massa ingombrante, che interferisce con la distensione dei polmoni (da ciò “respiro corto”). Tutto ciò è correlato con un versamento che si istituisca lentamente e che abbia una bassa pressione: vicina a quella vigente negli atri del cuore, viscere che per tale ragione non viene compresso. C. Tamponamento cardiaco. Quando la pressione del versamento pericardico è alta, il liquido, oltre a spingere il pericardio parietale, comprime il cuore, interferendo con l’emodinamica degli atri e del ventricolo destro, che contengono sangue a bassa pressione. Il tamponamento è un’evenienza molto grave, che può insorgere all’improvviso e che può complicare ogni pericardite. È dovuto a improvviso aumento di essudazione nella cavità pericardica o a sanguinamento nella stessa (specie nei traumi, nei tumori o in caso di trattamento con anticoagulanti). Si definisce tamponamento la condizione in cui la presenza di liquido nella cavità pericardica interferisce con la funzione cardiaca, determinando compressione sugli atri ed essenzialmente sul ventricolo destro (che ha pareti sottili), con due conseguenze: a) impossibilità da parte del sangue di riempire il ventricolo destro compresso; da ciò deriva stasi acuta nell’atrio destro e nelle vene sistemiche; il paziente si presenta con intenso turgore giugulare e poi con stasi acuta del fegato; b) nei casi più gravi, il ridotto riempimento del ventricolo destro porta a una riduzione tale della gettata pulsatoria di questo ventricolo, che pochissimo sangue arriva al ventricolo sinistro; da ciò ipotensione arteriosa fino al collasso. Il tamponamento può realizzarsi per immissione di poche decine di ml di liquido se il pericardio parietale è inestensibile, mentre occorrono grandi quantità di liquido se il pericardio è sfiancato, come avviene nelle pericarditi essudative croniche. Il quadro è acutissimo nelle ferite del cuore (emopericardio da ferita), acuto nelle pericarditi acute, subacuto e generalmente incompleto (stasi a monte, senza collasso) nelle pericarditi essudative croniche. Nel tamponamento si osservano: pressione venosa elevata (superiore a 10 mmHg, spesso 20 o più); assenza in protodiastole della fisiologica discesa della pres-
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sione venosa, che si può osservare a livello delle giugulari come polso negativo Y; presenza di polso paradosso. Quest’ultimo fenomeno (che non è specifico del tamponamento ma deve farlo sospettare) è l’esagerazione di un fenomeno fisiologico: normalmente l’inspirazione è transitoriamente seguita da una diminuzione della pressione arteriosa; questa è secondaria a intrappolamento del sangue nel torace, la cui pressione negativa si accentua con l’inspirazione. Si ha polso paradosso se la caduta di pressione postinspirazione raggiunge o supera i 10 mmHg. Una possibile spiegazione del polso paradosso nel tamponamento cardiaco è che, in condizioni normali, la depressione intratoracica che si ha nell’inspirazione richiama sangue dalle grandi vene extratoraciche nelle cavità destre del cuore, perciò l’aumento del precarico che deriva da questo fatto compensa in parte l’intrappolamento inspiratorio di sangue nel torace. In corso di pericardite essudativa, il ventricolo destro è impedito nella sua distensione e perciò non si può avere un aumento del precarico nell’inspirazione. Oltre che nelle pericarditi, il polso paradosso può essere osservato nelle gravi sindromi respiratorie di tipo ostruttivo, quando l’aumento delle resistenze nelle vie respiratorie fa sì che nell’inspirazione la depressione intratoracica divenga particolarmente marcata. D. Disturbi emodinamici nella pericardite cronica costrittiva. Nella pericardite costrittiva il pericardio ispessito e rigido impedisce ai ventricoli di dilatarsi in diastole, fatto che determina come conseguenza un basso riempimento diastolico dei ventricoli stessi (soprattutto del destro), e una pressione necessariamente elevata nell’atrio e nelle vene a monte di esso. La gettata pulsatoria è bassa, nonostante la funzionalità del miocardio sia del tutto normale. Dunque si hanno una bassa gettata periferica più ipertensione e turgore delle vene giugulari, come di tutte le vene del grande circolo. Ne consegue epatomegalia da stasi che, essendo squisitamente cronica, dà origine al fegato ingrandito e duro della (pseudo) cirrosi tipica della stasi cronica. Ne derivano, pertanto, un’importante ascite, edemi periferici e, spesso, splenomegalia.
Clinica A. Pericardite acuta. Per pericardite acuta si intende un’affezione caratterizzata da infiammazione acuta del pericardio, le cui cause di questa sono già state ricordate e vi sono variazioni, a seconda dell’eziologia, del tipo di infiammazione e dell’estensione di questa. Però il quadro fondamentale è notevolmente uniforme. Esso ha come prototipo quello della pericardite da virus. Il quadro clinico è caratterizzato dai seguenti sintomi e segni. 1. Dolore localizzato al torace anteriore in sede precordiale o retrosternale, ma spesso irradiato al collo, alla spalla sinistra, ai due arti inferiori e al dorso. A volte è acuto, trafittivo, altre volte sordo e oppressivo, simile
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a quello dell’infarto miocardico. Un importante carattere differenziale è dato dal fatto che il dolore pericardico si accentua col respiro, con la rotazione del tronco, con la tosse. È spesso attenuato da una posizione seduta con busto inclinato in avanti. 2. Sintomatologia di accompagnamento. Si hanno febbre e spesso mialgie diffuse, malessere generale, astenia, tachicardia. 3. Sfregamenti. L’infiammazione del pericardio è costantemente accompagnata da formazione di essudato, che si versa nella cavità pericardica. L’essudato può essere più o meno abbondante e ricco di fibrina; i continui movimenti del cuore determinano la formazione, in corrispondenza della zona infiammata e nei suoi dintorni, di filamenti di fibrina (già gli antichi descrissero il caratteristico quadro anatomico del cor villosum). Questi filamenti, muovendosi a ogni contrazione cardiaca, fra un foglietto pericardico e l’altro fanno un rumore scrosciante, che si percepisce all’ascoltazione del cuore come rumore di sfregamento. Lo sfregamento può coincidere con la sistole, o con la presistole o con la protodiastole; si sente meglio comprimendo il fonendoscopio sul torace e facendo assumere al paziente la posizione seduta, con busto inclinato in avanti. Gli sfregamenti devono essere ricercati dal medico, che farà variare di posizione il paziente. Essi hanno la caratteristica di essere transitori: facilmente udibili in un’occasione, possono scomparire poche ore dopo (magari per riapparire modificati). Se il versamento aumenta di quantità, sicché la parete del pericardio parietale perde contatto con quella del pericardio viscerale, gli sfregamenti scompaiono. Se il versamento è abbondante, si può verificare il tamponamento cardiaco. Il paziente è ipoteso, presenta polso paradosso, turgore delle giugulari, epatomegalia. 4. Segni elettrocardiografici. È caratteristica della pericardite acuta nei primi giorni di malattia la presenza di uno slivellamento in alto del tratto ST, che interessa molte derivazioni (per es., 3-4 derivazioni periferiche e 4-5 precordiali). In aVR lo slivellamento è in basso, in V può essere in alto o in basso. Il QRS resta normale (carattere differenziale dall’infarto). Nei giorni successivi il tratto ST torna sull’isoelettrica, mentre nelle medesime derivazioni le T si appiattiscono e diventano negative; restano tali per diverse settimane, poi si rinormalizzano. Il QRS, invece, non varia come morfologia; però può, in caso di versamento abbondante, diminuire di voltaggio. Le variazioni ST-T sono secondarie a sofferenza degli strati più superficiali del miocardio, che ne altera la ripolarizzazione. La riduzione di voltaggio del QRS deriva da interposizione di uno spesso strato di liquido fra cuore e pericardio parietale, cioè fra cuore e superficie cutanea. 5. Aritmie. Non raramente il sottile miocardio degli atri soffre in modo notevole per l’infiammazione del pericardio sovrastante. Questo può manifestarsi all’ECG con aritmie atriali: extrasistolia atriale o fibrillazione atriale.
Figura 12.1 - Ecocardiogramma bidimensionale che mostra la presenza di un cospicuo versamento pericardico.
6. Diagnosi di versamento pericardico. La presenza di liquido presente in quantità eccessiva (più di 100 ml) nella cavità pericardica è facilmente accertabile con l’ecocardiogramma monodimensionale, che mostra una zona priva di echi fra la parete posteriore del ventricolo sinistro e il pericardio parietale sottostante; se il versamento è abbondante, c’è un’analoga immagine fra parete anteriore del torace e ventricolo destro. Le rimanenti strutture cardiache appaiono normali. L’ecocardiogramma bidimensionale fornisce immagini simili, però esso fornisce, talora, dati aggiuntivi in rapporto alla quantità del liquido (Fig. 12.1). 7. Ecocardiogramma. È un esame indispensabile se si sospetta una pericardite; molto meno importante la radiografia del torace, che mostra, solo in caso di versamento relativamente cospicuo, un allargamento dell’ombra cardiaca; e non è facile dire se questo sia dovuto a ingrandimento del cuore in sé o alla presenza di versamento, anche se nei casi tipici l’ombra cardiaca assume un aspetto “a fiasco”. 8. Esami ematochimici. Nella pericardite acuta vi sono i segni di fase acuta (aumento della VES, PCR, 2-globuline), e talora modestissimo aumento degli enzimi CPK (anche MB) e SGOT (Cap. 26); si sottolinea la parola modestissimo, perché questi esami sono utili per differenziare la pericardite acuta dall’infarto del miocardio, in cui detti valori sono chiaramente aumentati. 9. Pericardiocentesi. È un esame non privo di rischi (lacerazione del cuore o di una coronaria) e va eseguito solo da personale molto esperto nell’esecuzione del cateterismo cardiaco, ovvero da un chirurgo toracico. Si segue di solito la via sottoxifoidea, con controllo ecografico ed elettrocardiografico continuo. Ha un’indicazione diagnostica in caso di versamento persistente di dubbia diagnosi: i reperti che ci si possono attendere sono simili a quelli che si traggono dall’esame del liquido pleurico nelle pleuriti. C’è, inoltre, un’indicazione terapeutica rappresentata dal tamponamento cardiaco.
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10. Sintomatologia del tamponamento cardiaco. Questa grave complicazione può comparire in corso di pericardite o in assenza di malattia nota del pericardio (dopo traumi; se un tumore pericardico ignorato si mette a sanguinare). Può manifestarsi per versamento di soli 250 ml di liquido, o per versamento massivo. I sintomi fondamentali, come già detto, sono l’elevazione della pressione venosa (giugulari turgide, ecc.) e la caduta della pressione arteriosa. Il paziente è sofferente, dispnoico, tachicardico per compensare la bassa gettata pulsatoria. Oltre ai segni dell’ipertensione venosa, al polso piccolo, alla mancanza di soffi e toni aggiunti, al fatto che l’itto si sente poco o per nulla, si noteranno: il polso paradosso; a volte il segno di Kussmaul (turgore giugulare che non si riduce nell’inspirazione); la presenza sul radiogramma del torace di campi polmonari chiari; elettrocardiogramma con voltaggi ridotti o spesso alternanza elettrica (P, QRS e T hanno voltaggio quasi normale o nettamente ridotto a battiti alternati: ciò dipende dal fatto che il cuore fluttua nel sacco pericardico pieno di liquido); l’ecocardiogramma dimostra il versamento, il collasso diastolico del ventricolo destro, la fluttuazione responsabile dell’alternanza elettrica. Infine, un cateterismo cardiaco mostra i valori di pressione nelle cavità destre e le loro variazioni. Una pericardiocentesi d’urgenza può salvare la vita al malato. B. Pericardite cronica essudativa. Questa variante è provocata da molte cause, ma difficilmente da infezioni virali (che, come si è visto, provocano prevalentemente pericardite acuta). Un’importante causa di pericardite cronica essudativa è l’infezione tubercolare, così come lo sono molte forme a patogenesi immunitaria, o derivanti da cause varie non infettive né immunologiche. Nella pericardite cronica essudativa il versamento può raggiungere un volume molto cospicuo senza provocare tamponamento (che è peraltro possibile, sia pure come complicanza non frequente). Infatti, come si è detto, quando l’essudato si forma molto lentamente, il sacco pericardico può distendersi notevolmente. L’ingombro con fluido occupa perciò spazio nella cavità toracica causando dispnea, che è particolarmente avvertita a paziente supino. Per questo motivo il decubito preferito è quello ortopnoico. L’esame del cuore raramente consente la rilevazione di segni diagnostici (la diagnosi, infatti, come si vedrà, è strumentale). L’itto della punta, per lo più, non è palpabile, anche se talvolta può esserlo a paziente supino (in tal caso il liquido si sposta posteriormente) e allora viene rilevato in posizione normale (infatti il miocardio non è dilatato). Alla percussione l’aia cardiaca appare ingrandita cosicché, nei casi nei quali l’itto della punta è ancora palpabile, può succedere che questo risulti all’interno della punta del cuore determinata percussoriamente. Non esistono reperti ascoltatori caratteristici ed è difficile che si ascoltino sfregamenti. All’esame del torace è possibile rilevare un’ipofonesi al terzo inferiore dell’emitorace sinistro, dovuta alla compressione esercitata da un versamento particolarmente abbondante.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Quando interviene il tamponamento, i segni sono gli stessi già descritti discutendo della pericardite acuta: ipotensione arteriosa, polso paradosso, turgore delle giugulari, epatomegalia. Segni elettrocardiografici. Sono rappresentati da riduzione di voltaggio dei complessi QRS, oltre che dall’appiattimento o inversione dell’onda T in molte derivazioni. In molti casi, peraltro, specie se manca una fase acuta iniziale, l’ECG non presenta caratteristiche francamente patologiche. La radiografia del torace e l’ecocardiogramma mettono in evidenza i segni del versamento pericardico con le stesse modalità già descritte per la pericardite acuta. C. Pericardite cronica costrittiva. Rappresenta l’esito di una pericardite precedente, con formazione di tessuto di granulazione che oblitera buona parte della cavità pericardica e successivamente si retrae fino alla formazione di un tessuto fibroso cicatriziale che strozza il cuore, interferendo con il riempimento dei ventricoli. La pericardite iniziale può essere stata tubercolare (era il caso più comune in passato), oppure da piogeni, o da radiazioni, ma ogni possibile pericardite può avere un esito di questo tipo. Il paziente di solito lamenta astenia, che dipende dalla bassa gettata cardiaca, e, frequentemente, dispnea, ma solo da sforzo. All’esame obiettivo appare deperito (a causa della stasi venosa e linfatica a livello dell’intestino e a malassorbimento), subitterico (in conseguenza del fegato da stasi). L’addome è spesso globoso per la presenza di ascite e sono presenti edemi periferici. Dal punto di vista cardiocircolatorio spiccano alcuni segni importanti: a) le vene del collo sono turgide anche con il capo sollevato dal piano del letto, turgore che non si riduce nell’inspirazione profonda (segno di Kussmaul); b) l’ispezione delle vene giugulari turgide permette di osservare un brevissimo collasso sincrono con la protodiastole (infatti il ventricolo destro si distende rapidamente ma arresta bruscamente la sua dilatazione quando il sacco pericardico è messo in tensione); c) l’itto della punta non si palpa o se si palpa risulta in posizione normale; d) non ci sono soffi, ma può esserci un tono aggiunto protodiastolico, il “knock pericardico”, dovuto all’urto delle pareti ventricolari che si espandono in diastole contro il pericardio rigido. La radiografia del torace dimostra che l’ombra cardiaca non è ingrandita e che, nel 50% dei casi, presenta calcificazioni nel suo ambito. I campi polmonari sono chiari, senza la stasi venosa tipica dello scompenso globale e senza le gravi anormalità che si avrebbero in un cuore polmonare cronico. L’elettrocardiogramma non mostra alterazioni specifiche e il dato che prevale è la riduzione di voltaggio del QRS, con appiattimento o inversione dell’onda T in molte derivazioni. L’ecocardiogramma mostra soprattutto ispessimento del pericardio come un’eco ben definita, all’esterno della parete ventricolare, e una ridotta espansione diastolica. Molto tipico è il grafico della pressione endoventricolare: al termine della sistole la pressione cade per un tempo molto breve, per risalire quasi subito e re-
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stare più o meno allo stesso livello durante il resto della diastole (segno della radice quadrata, che si trova però anche nelle cardiomiopatie restrittive). In conclusione, i segni della pericardite cronica costrittiva sono molteplici e quasi sempre servono a far diagnosticare questa condizione. In qualche caso è difficile differenziare questo tipo di pericardite da una cardiomiopatia restrittiva e da qualche altra affezione: se il medico ha le idee chiare, moltiplicherà gli accertamenti fino ad arrivare a una diagnosi sicura. Se la diagnosi giusta è quella di pericardite costrittiva, infatti, il paziente può essere completamente guarito attraverso un intervento chirurgico di “decorticazione” del cuore. Tolto il pericardio, il paziente potrà avere delle difficoltà iniziali, da atrofia dei ventricoli sottoutilizzati per molto tempo, ma alla fine potrà riprendersi in modo completo.
Diagnosi Le pericarditi possono presentare vari problemi di diagnosi differenziale. Il dolore precordiale della pericardite acuta può essere scambiato per quello dell’infarto del miocardio, tanto più che anche in quest’ultima condizione possono essere rilevati degli sfregamenti pericardici (in caso di pericardite epistenocardica). Tuttavia, esistono importanti differenze che rendono facile la diagnosi differenziale. Infatti, il dolore della pericardite è influenzato dalla respirazione e, in certi casi, dai movimenti del torace e della deglutizione, mentre quello dell’infarto non lo è (anche in caso di pericardite epistenocardica). Inoltre, in corso di pericardite non si osserva mai nell’elettrocardiogramma la coesistenza di sopraslivellamento del tratto S-T e di inversione dell’onda T, mentre questo accade di regola nell’infarto (nel quale, inoltre, è comune la comparsa di onde Q patologiche). Infine, l’ecocardiogramma può mettere in evidenza il versamento proprio di una pericardite. La pericardite cronica essudativa, quando inizia subdolamente e non è preceduta da una pericardite acuta, può essere scambiata per uno scompenso cardiaco globale con cardiomegalia (questa impressione può essere rinforzata da una radiografia del torace che dimostri un ingrandimento del profilo cardiaco). La presenza di polso paradosso (in assenza di ostruzione delle vie respiratorie) è elemento indicativo solo in presenza di versamenti molto cospicui. Invece, l’ecocardiogramma è l’esame risolutivo, essendo molto sensibile nella dimostrazione dei versamenti pericardici. La pericardite cronica costrittiva presenta un quadro clinico somigliante a quello di tre condizioni morbose:
il tipo più comune di cirrosi epatica (Cap. 30), lo scompenso cardiaco cronico di tipo destro (Cap. 5), la cardiomiopatia restrittiva (Cap. 8). La presenza, nella pericardite cronica costrittiva, di turgore delle giugulari con segno di Kussmaul, non è giustificato nella cirrosi epatica di tipo comune (etilica o conseguente ad epatite cronica) e deve far sospettare l’origine cardiaca di sintomi e segni. Uno scompenso cronico di tipo destro, senza evidente cardiomegalia, è possibile nel cuore polmonare cronico (Cap. 13). Tuttavia, questo è per lo più associato a una pneumopatia cronica e le forme nelle quali i sintomi e i segni di una pneumopatia sono assenti sono poche (per es., esiti di embolizzazione polmonare multipla). Anche in quest’ultimo caso l’elettrocardiogramma dovrebbe presentare i segni dell’ipertrofia ventricolare e atriale destre, rendendo questa condizione distinguibile dalla pericardite costrittiva. La distinzione più difficile è quella con una cardiomiopatia restrittiva. In questo caso alcuni segni positivi (come le calcificazioni pericardiche alla radiografia del torace, alcuni segni ecocardiografici e, se necessario, esami invasivi, inclusa la biopsia del miocardio) permettono il riconoscimento della pericardite.
Decorso e prognosi La prognosi della pericardite acuta è di solito buona, salvo il pericolo di recidive. Le pericarditi croniche, essudative e costrittive, comportano una serie di conseguenze negative che interferiscono notevolmente sullo stato di validità. Pur essendo possibile una sopravvivenza di molti anni, le condizioni generali dei pazienti si deteriorano progressivamente e portano a uno stato di invalidità sempre più marcato e infine alla morte per qualche accidente sovrapposto.
Terapia La terapia delle pericarditi dovrebbe essere causale; ciò è possibile solo in pochi casi (pericarditi tubercolari, pericarditi da piogeni). Nelle pericarditi virali la terapia è perciò solo sintomatica, con antinfiammatori non steroidei impiegati prevalentemente per attutire il dolore. Nelle pericarditi immunologiche è molto utile l’impiego dei corticosteroidi. In tutte le altre forme il trattamento è quello della malattia fondamentale. In certe pericarditi croniche (essudative o costrittive) è indicato l’intervento chirurgico di pericardiectomia.
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CUORE POLMONARE R. SATOLLI
Si parla di cuore polmonare quando vi è dilatazione o ipertrofia del ventricolo destro conseguente a sovraccarico di pressione provocato da un’alterazione nella struttura o nella funzione dei polmoni. Sono escluse dalla definizione di cuore polmonare le dilatazioni o ipertrofie del ventricolo destro secondarie ad altre cause: dall’insufficienza del ventricolo sinistro alla stenosi mitralica, alle cardiopatie congenite. In tutti i casi di cuore polmonare la causa della dilatazione o ipertrofia ventricolare destra è un’ipertensione polmonare, cioè un aumento della pressione media oltre 20 mmHg, o della pressione sistolica oltre 30 mmHg. Si parla di cuore polmonare cronico quando l’ipertensione polmonare è tendenzialmente stabile e persistente, almeno sotto sforzo; di cuore polmonare acuto quando l’aumento della pressione polmonare è repentino e per lo più transitorio. La forma cronica è causata da alterazioni del letto vascolare (anatomiche) o dello scambio gassoso polmonare (funzionali). La forma acuta è provocata da un’embolia polmonare massiva. Nella forma cronica prevale l’ipertrofia e in quella acuta la dilatazione del ventricolo destro. Dalla definizione discendono alcuni importanti corollari. • Vi può essere ipertensione polmonare senza cuore polmonare. Ciò è vero sia quando l’ipertensione è causata da vizi congeniti o scompenso sinistro, sia quando l’ipertensione non è giunta a provocare un ingrandimento del ventricolo destro. Al contrario, non può esservi cuore polmonare senza ipertensione polmonare, almeno sotto sforzo. • Cuore polmonare non è sinonimo di scompenso destro. Quest’ultimo è una complicazione che sopravviene quando il sovraccarico di pressione supera i meccanismi di compenso (dilatazione, aumento del tono adrenergico, ipertrofia) del ventricolo destro. A sua volta lo scompenso destro può avere cause diverse dal cuore polmonare (cardiopatia ischemica, valvulopatie, vizi congeniti, scompenso sinistro, ecc.). • Poiché il primum movens del cuore polmonare risie-
de in una patologia polmonare, nessuna terapia risulta pienamente efficace se non mira in primo luogo a rimediare al problema polmonare.
CUORE POLMONARE CRONICO È una condizione patologica molto comune. Secondo stime approssimative rappresenta circa il 10% di tutte le cardiopatie e provoca quasi un terzo del totale dei casi di scompenso cardiaco. La broncopneumopatia cronica ostruttiva con enfisema è la malattia polmonare più frequentemente associata a cuore polmonare cronico e rappresenta oggi la quarta causa di morte nel mondo industriale. Ciò è dovuto in gran parte alla diffusione del fumo di sigaretta e degli altri inquinanti atmosferici. L’esposizione a tali fattori di rischio spiega perché il cuore polmonare sia più frequente nei maschi al di sopra dei 45 anni di età.
Eziopatogenesi e fisiopatologia All’origine del cuore polmonare vi è sempre una malattia o disfunzione dell’apparato respiratorio. Non tutte le pneumopatie, però, producono ipertrofia del ventricolo destro: il cuore polmonare è molto comune, per esempio, nella bronchite cronica mentre è raro nell’asma allergica. Il fattore determinante è l’ipertensione del piccolo circolo: in altre parole la malattia di base deve provocare in qualche modo un aumento delle resistenze vascolari polmonari. Ciò può avvenire teoricamente in due modi: o per alterazioni anatomiche dei vasi o per vasocostrizione (Tab. 13.1). Il circolo polmonare, come è noto, è dotato di un letto arterioso di grande capacità che può accogliere sotto sforzo un flusso di sangue tre volte maggiore del basale con modesti incrementi di pressione. La notevole capacità del letto polmonare, grazie alla quale il ventrico-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Tabella 13.1 - Cause di cuore polmonare cronico. MALATTIE O DISFUNZIONI RESPIRATORIE • Malattie vascolari – Ipertensione polmonare primitiva – Embolia polmonare ricorrente • Malattie interstiziali – Fibrosi interstiziali – Granulomatosi aspecifiche – Pneumoconiosi – Carcinoma infiltrante • Ipoventilazione alveolare generalizzata – Deficit neurologico – Deficit muscolare – Alterazioni della cassa toracica – Ostruzione delle vie aeree superiori – Obesità grave • Alterato rapporto ventilazione/perfusione – Pneumopatia cronica ostruttiva – Fibrosi cistica
MECCANISMI PATOGENETICI INTERMEDI
CAUSE DI IPERTENSIONE POLMONARE
A. Ostruzione e occlusione vascolare 1. Riduzione anatomica del letto vascolare polmonare
B. Distruzione, compressione, irrigidimento vascolare
C. Ipossia, acidosi
2. Vasocostrizione polmonare
D. Policitemia secondaria
3. Aumento della viscosità ematica
Combinazione di B, C e D
Combinazione di 1, 2 e 3
lo destro risulta protetto da aumenti di pressione che non potrebbe sopportare, si fonda soprattutto sul reclutamento progressivo di vasi arteriosi che rimangono chiusi in condizioni di riposo. Questi vasi costituiscono una riserva che consente di mantenere basse le resistenze vascolari polmonari in tutte le circostanze. L’esistenza di una tale riserva spiega perché è necessario che le alterazioni anatomiche dei vasi siano molto estese prima che si manifesti un’ipertensione polmonare. È noto che anche l’asportazione di un intero polmone (cioè il dimezzamento del letto vascolare) provoca solo modesti aumenti della pressione arteriosa nel polmone residuo. Si ritiene comunque che occorra la distruzione di due terzi del letto vascolare perché si manifesti una rilevante ipertensione polmonare. È quindi poco frequente che il cuore polmonare sia secondario a un’alterazione puramente anatomica dei vasi polmonari. Ciò avviene tuttavia, per esempio, in caso di ipertensione polmonare primitiva, una rara condizione a eziologia ignota (vedi appendice) in cui le resistenze del piccolo circolo risultano aumentate senza alcuna causa apparente, come accade per le resistenze del grande circolo nella molto più frequente ipertensione sistemica essenziale. Col tempo, l’ipertensione polmonare primitiva si accompagna a diffuse lesioni occlusive delle arteriole polmonari. Vi sono poi casi di embolia polmonare ricorrente (per lo più occulta) in cui pure si determina un’occlusione massiccia del letto vascolare polmonare. Oppure, infine, vi può essere una distruzione vasale per fibrosi diffusa dell’interstizio polmonare, pneumoconiosi (malattie polmonari dovute a inalazioni di polveri) o cancro. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, le resistenze polmonari aumentano, almeno in parte, se non prevalentemente, in conseguenza di una vasocostrizione generalizzata del piccolo circolo.
Lo stimolo più potente per la costrizione dei vasi polmonari è l’ipossia (cioè la riduzione della pressione parziale di ossigeno) alveolare e arteriosa sistemica. L’ipossia alveolare provoca vasocostrizione per effetto diretto sulle arteriole e sui precapillari adiacenti. Si tratta di un meccanismo di compenso fisiologico, che tende a ridurre la perfusione “inutile” degli alveoli che sono poco o per niente ventilati. L’ipossia sistemica, meno importante per la patogenesi dell’ipertensione polmonare, agisce invece indirettamente, attraverso il sistema nervoso simpatico, e provoca costrizione non delle arteriole, ma delle arterie polmonari vere e proprie. L’ipossia alveolare è dovuta per lo più a un’ipoventilazione alveolare, cioè a una riduzione del flusso di aria negli alveoli polmonari. L’ipoventilazione può essere generalizzata quando il flusso d’aria è uniformemente ridotto in tutto il polmone. Ciò avviene in caso di alterazioni della cassa toracica (come nei pazienti con grave cifoscoliosi); oppure in caso di deficit neuromuscolare (paralisi dei muscoli respiratori, miastenia grave, distrofia muscolare, ecc.); o quando è inadeguata la funzione del centro nervoso respiratorio in presenza o in assenza di ostruzione delle vie aeree superiori: grave obesità e sindrome di Pickwick (vedi appendice), sindrome dell’apnea durante il sonno, ecc. Più spesso, però, la ventilazione è ridotta in alcuni distretti polmonari (per es., per ostruzione di alcune vie aeree) e normale in altri. In questi casi l’ipossia è prodotta da un cattivo equilibrio tra ventilazione e perfusione, che può determinarsi nonostante il meccanismo di adeguamento cui si accennava prima. Se gli alveoli poco ventilati sono normalmente perfusi, mentre quelli normalmente ventilati sono perfusi scarsamente, il risultato netto è identico a quello di un’ipoventilazione generalizzata, cioè l’ipossia. Ciò avviene nelle pneumopatie croniche ostruttive (che sono complessivamente la causa principale di cuore polmonare), so-
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prattutto nelle forme in cui la bronchite cronica prevale sull’enfisema. L’ipoventilazione alveolare provoca anche ritenzione di CO2, cioè ipercapnia. Di per sé la CO2 non esercita alcun effetto sui vasi polmonari, ma provoca acidosi respiratoria quando l’ipercapnia è di entità tale da superare i meccanismi di regolazione del pH ematico. L’acidosi, a sua volta, esalta fortemente gli effetti vasocostrittori polmonari dell’ipossia. L’ipercapnia, invece, provoca di per sé un’importante dilatazione delle arterie cerebrali con disturbi neurologici che, nei casi più gravi e acuti, giungono sino al coma. Per di più i centri nervosi respiratori si adattano all’ipercapnia, col rischio che si aggravi l’ipoventilazione se manca una sufficiente sollecitazione da parte dell’ipossia (come avviene in alcuni soggetti e specialmente in quelli affetti dalla cosiddetta sindrome di Pickwick). Perciò la somministrazione di ossigeno può, in alcuni casi, scatenare un aggravamento dell’ipoventilazione e dell’ipercapnia. L’ipossia provoca ipertensione polmonare anche con un altro meccanismo, oltre alla vasocostrizione. Quando il trasporto di ossigeno ai tessuti è insufficiente, il midollo osseo, stimolato dall’eritropoietina renale, produce una maggiore quantità di eritrociti, come tentativo di compenso. Questa policitemia secondaria, assai frequente nei pneumopatici cronici, comporta una maggiore viscosità del sangue e quindi anche una maggior resistenza al flusso. È questa un’altra causa di aumento delle resistenze polmonari, che tende ad aggravare l’ipertensione polmonare. Infine, anche l’aumento della portata cardiaca, che è pure un meccanismo di compenso quando il trasporto di ossigeno è insufficiente, provoca un aumento della pressione polmonare quando la riserva del letto vascolare è ridotta per distruzione anatomica o per vasocostrizione. Tutti questi fattori patogenetici (che possono sommarsi tra loro in vario modo) nelle prime fasi della malattia polmonare agiscono solo sotto sforzo o in occasione di un processo infettivo intercorrente o di altri eventi che aumentano le richieste metaboliche dell’organismo. L’ipertensione è quindi, dapprima, solo episodica. Qualunque sia la causa iniziale, l’ipertensione polmonare non è mai un fatto puramente meccanico, ma coinvolge i complessi meccanismi di regolazione svolti dall’endotelio; il quale, danneggiato da una pressione elevata, manifesta una disfunzione che contribuisce a mantenere e aggravare l’ipertensione stessa. Diminuisce la produzione endoteliale di fattori dotati di azione vasodilatante locale, come prostaciclina e ossido di azoto, mentre aumenta la liberazione di endotelina, un potente vasocostrittore. Per effetto delle stesse alterazioni, sono facilitate l’adesione all’endotelio e l’attivazione delle piastrine, mentre anche l’equilibrio dei fattori endoteliali che regolano la coagulazione si spostano a favore della formazione di fibrina (diminuiscono trombomodulina, eparan solfato, attivatore del plasminogeno, tutti fattori anticoagulanti o fibrinolitici; si veda Cap. 52).
L’endotelio sofferente libera anche fattori di crescita e citochine, che inducono migrazione e proliferazione delle cellule muscolari lisce, mentre sulla superficie endoteliale aumenta l’espressione di molecole di adesione, cui si legano piastrine e leucociti, aumentando la permeabilità e contribuendo al danno vascolare. Col tempo, tutto ciò produce alterazioni anatomiche irreversibili nelle arteriole polmonari (ispessimento dell’intima, con proliferazione di fibre muscolari, sino a raggiungere un aspetto simile a quello dei vasi sistemici), tendendo ad aumentare ancor più le resistenze al flusso. Contemporaneamente, l’aggravarsi della malattia polmonare di base riduce sempre più le riserve, anatomiche e funzionali, del letto vascolare polmonare. Come risultato, da un certo momento in poi l’ipertensione polmonare è costante anche a riposo. Ciò comporta per il ventricolo destro un notevole sovraccarico di lavoro, che viene compensato con la dilatazione e l’ipertrofia: è il cuore polmonare. In questa fase la pressione di riempimento del ventricolo destro (cioè la pressione al termine della diastole) aumenta per effetto combinato di un non completo svuotamento (dovuto alla dilatazione) e di una ridotta compliance o distensibilità (dovuta all’ipertrofia). Nonostante ciò, la gettata del ventricolo risulta normale o addirittura aumentata a riposo e si incrementa normalmente sotto sforzo. Il ventricolo diviene insufficiente quando non riesce a mantenere una gettata adeguata, dapprima sotto sforzo e poi anche a riposo. A questo punto aumentano molto le pressioni a monte, con congestione venosa sistemica, formazione di edemi periferici ed epatomegalia. Se l’insufficienza ventricolare destra persiste, si manifestano poi anche gli effetti dell’ipoperfusione periferica, che conducono, alla fine, al quadro di uno scompenso globale di circolo (Cap. 5), facilitato dall’ipossia miocardica.
Clinica La diagnosi di cuore polmonare non è sempre facile, almeno sinché non si manifesta un’insufficienza ventricolare destra. L’ipertrofia del ventricolo destro, di per sé, non produce sintomi e anche i segni clinici e strumentali sono spesso oscurati dalle alterazioni della cassa toracica provocate dalla malattia polmonare di base. Dal punto di vista soggettivo, solo in occasione di bruschi aumenti della pressione polmonare (per es., in occasione di uno sforzo intenso o di un’infezione respiratoria intercorrente) qualche paziente può talvolta accusare sincope od oppressione toracica simile ad angina. Si tratta probabilmente di episodi ischemici del ventricolo destro ipertrofico e ipossico. Tutti gli altri sintomi dipendono esclusivamente dalla malattia polmonare e sono prevalentemente rappresentati da dispnea e tosse. Per questo motivo, di fronte a un paziente che presenta una grave patologia respiratoria cronica, il medico deve sempre sospettare la presenza di un cuore polmonare, prima che insorga lo scompenso destro, e cer-
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care accuratamente i segni clinici e strumentali di ipertrofia destra. Il segno obiettivo più diretto di ipertrofia ventricolare destra è un impulso in regione parasternale sinistra inferiore; spesso, però, questo segno è mascherato dall’eccessiva distensione del parenchima polmonare. L’ascoltazione del cuore può rilevare alcuni segni indiretti di ipertensione polmonare: accentuazione della componente polmonare del II tono e click di eiezione polmonare, entrambi udibili soprattutto in II spazio intercostale sinistro sulla parasternale. Il click è un rumore secco ad alta frequenza, all’inizio della sistole, prodotto dall’apertura delle semilunari polmonari e talvolta seguito da un soffio d’eiezione legato al fatto che l’arteria polmonare è dilatata. Oltre che nell’ipertensione polmonare, il click è presente anche nella stenosi valvolare polmonare, ma in questo caso dipende da distensione della parete arteriosa. Poiché l’inspirazione riduce la pressione arteriosa polmonare, in questa fase del respiro si riduce anche l’intensità di click e soffio d’eiezione. Altri rumori patologici possono originare dal ventricolo destro. L’ipertrofia riduce la distensibilità del ventricolo e ciò può produrre un tono aggiunto al termine della diastole (telediastolico) o IV tono, in corrispondenza della contrazione atriale, che diviene più energica per vincere la resistenza ventricolare al riempimento. Quando il ventricolo diviene insufficiente, può comparire anche un tono aggiunto all’inizio della diastole (protodiastolico) o III tono, legato alla brusca dilatazione della parete ventricolare poco dopo l’apertura della tricuspide. Quest’ultima valvola può divenire insufficiente quando il ventricolo si dilata eccessivamente e compare allora un soffio di rigurgito, per tutta la durata della sistole (olosistolico). Poiché con l’inspirazione aumenta la quantità di sangue che affluisce al cuore destro, tutti i rumori patologici che originano dal ventricolo destro o dalla tricuspide aumentano durante tale fase del respiro. La ricerca di questo fenomeno costituisce la manovra di Rivero-Carvalho. L’energica contrazione atriale che produce il IV tono dà luogo anche a un’ampia pulsazione giugulare poco prima della sistole (comunemente chiamata onda A gigante). Se è presente un’insufficienza tricuspidale, compaiono pulsazioni giugulari sistoliche patologiche.
D1
D2
D3
Quando il cuore polmonare si complica con uno scompenso destro, compaiono i segni legati alla congestione venosa sistemica: edemi periferici, ascite, epatomegalia. Altri segni di cuore polmonare possono essere raccolti con esami strumentali, soprattutto elettrocardiogramma, radiografia del torace ed ecocardiografia. Sull’elettrocardiogramma si cercano i segni classici di ipertrofia e sovraccarico del ventricolo destro e di dilatazione dell’atrio destro. L’ipertrofia del ventricolo destro (Cap. 4) provoca una rotazione a destra e in avanti dei vettori prevalenti di depolarizzazione ventricolare: dalla normale posizione verso sinistra e indietro, i vettori si portano verso destra e in avanti. Ne risultano, sul piano orizzontale, onde R più alte in V (con rapporto tra R e S maggiore di 1) e onde S più profonde in V5-V6 (con rapporto tra R e S uguale o minore di 1). Inoltre, sul piano frontale l’asse elettrico risulta deviato a destra sino a oltre +110°. Si manifesta spesso, sul piano frontale, anche un’alterazione dei vettori ventricolari iniziale (depolarizzazione del setto) e finale (depolarizzazione della base), per accentuazione della componente destra rispetto a quella sinistra. Si osserva così un’onda iniziale dovuta a un vettore diretto da destra verso sinistra e in alto (onda Q in D3) e un’onda finale dovuta a un vettore diretto verso destra (onda S in D1). Il quadro elettrocardiografico che ne risulta si indica concisamente con la notazione S1Q3 (Fig. 13.1). Può comparire anche blocco incompleto o completo di branca destra. Il sovraccarico si manifesta con un’inversione delle onde T nelle precordiali destre e una depressione del tratto ST nelle derivazioni periferiche inferiori (D2-D3-aVF). La dilatazione atriale destra (i cui segni spesso precedono quelli ventricolari) provoca un aumento di voltaggio e di durata del vettore di depolarizzazione dell’atrio destro, rivolto grosso modo in basso e anteriormente. Ne risulta un aumento di voltaggio dell’onda P nelle derivazioni periferiche inferiori (P alta 2 mm o più, appuntita, detta “polmonare” in D2-D3-aVF) e nelle precordiali destre, dove si riduce la seconda fase negativa della P, normalmente presente in V1. Tutte queste alterazioni sono quasi sempre ben riconoscibili nei casi di cuore polmonare cronico non dovuto a broncopneumopatia ostruttiva.
V1
V3
V6
Figura 13.1 - Elettrocardiogramma in un caso di ipertrofia ventricolare destra. L’asse elettrico sul piano frontale è deviato a destra oltre i 110°. Vi sono una profonda onda S in D1 e un’onda Q in D3 (S1Q3). In V1 l’onda positiva è prevalente su quella negativa, mentre le due onde si equivalgono in V6. L’onda T è negativa in V1.
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Le cose cambiano quando è presente una malattia polmonare che provoca un’eccessiva distensione del parenchima polmonare: questo, purtroppo, è il caso più frequente nei malati di cuore polmonare. L’iperdistensione polmonare provoca una generale alterazione dei rapporti tra cuore e parete del torace, che manda all’aria tutti i classici segni elettrocardiografici appena descritti. Il cuore si abbassa (per abbassamento del diaframma), si verticalizza, ruota, si allontana dalla parete per interposizione di tessuto polmonare. Se poi, per qualsiasi motivo, coesiste anche un’ipertrofia del ventricolo sinistro, le cose divengono ancora più complicate. Il quadro abituale in presenza di enfisema polmonare è caratterizzato da onde S, che hanno un voltaggio maggiore delle R corrispondenti in tutte le precordiali o almeno da V1 a V5. Ciò è dovuto essenzialmente all’enfisema e non permette di valutare con sicurezza l’entità dell’ipertrofia ventricolare destra. L’asse elettrico del QRS sul piano frontale è spesso deviato a destra, talvolta molto a sinistra (–30°, –60°, –150°). Tenuto conto di ciò, la diagnosi non è facile. In pratica si devono ricordare tre concetti generali: a) il quadro elettrocardiografico classico di ipertrofia ventricolare destra è presente in meno di un terzo dei casi di cuore polmonare cronico con bronchite; b) quando il quadro elettrocardiografico classico è presente, di solito l’ipertrofia ventricolare è grave; c) spesso contano di più le variazioni nel tempo dell’elettrocardiogramma che la lettura di una singola registrazione. Per esempio, in corso di riacutizzazioni polmonari con ipertensione, possono comparire segni elettrocardiografici prima assenti, per poi scomparire al termine dell’episodio acuto: questo comportamento è molto significativo ai fini della diagnosi. Gli stessi criteri generali valgono per la radiografia del torace. L’ingrandimento delle cavità destre è spesso mascherato dalla distensione polmonare e dalla posizione verticale del cuore. Perciò anche in questo caso è necessario valutare l’evoluzione nel tempo del profilo cardiaco. Soprattutto, sono importanti le brusche variazioni di dimensione del cuore che si osservano in corso di episodi infiammatori acuti intercorrenti, che provocano ipertensione polmonare. L’ipertensione polmonare di grado elevato può essere però apprezzata radiologicamente quando appare una dilatazione delle arterie polmonari centrali con brusca “potatura” dell’albero vascolare verso la periferia. La radiografia è comunque preziosa per la valutazione della malattia polmonare di base. L’ecocardiografia mono e bidimensionale e Doppler permette di apprezzare la dilatazione e l’ipertrofia del ventricolo destro e l’ipertensione polmonare (quest’ultima indirettamente, attraverso i movimenti della valvola polmonare o dal profilo di flusso registrato col metodo Doppler). L’esecuzione di un buon ecocardiogramma è però assai difficile nei bronchitici cronici, per l’interposizione di tessuto aerato che è pessimo conduttore degli ultrasuoni. Alcuni esami di laboratorio possono completare la valutazione del paziente con cuore polmonare. L’esame
emocromocitometrico mette in evidenza la poliglobulia secondaria all’ipossia cronica. L’analisi dei gas ematici permette di valutare il grado di ipossia presente; l’ipercapnia si accompagna all’ipossia solo nei casi di ipoventilazione alveolare, mentre la tensione parziale di CO2 è normale o ridotta nei casi di ipertensione polmonare da alterazioni vascolari anatomiche. I test di funzione respiratoria permettono di valutare le alterazioni prodotte dalla malattia polmonare di base.
Prognosi e cenni di terapia La prognosi del cuore polmonare cronico dipende soprattutto dal decorso della malattia polmonare di base ed è comunque, generalmente, piuttosto grave. Nei pazienti con broncopneumopatia ostruttiva grave la mortalità è del 50% circa entro 5 anni. Nei casi con ostruzione anatomica cronica dei vasi polmonari, il decorso è solitamente infausto entro tempi ancor più brevi. I maggiori sforzi devono perciò essere rivolti a migliorare il quadro della malattia polmonare. Per impedire il progredire della malattia polmonare la misura di gran lunga più importante, nella maggioranza dei casi, è la sospensione dell’abitudine del fumo. Sul piano terapeutico sintomatico è di fondamentale importanza la somministrazione di ossigeno, quando è presente ipossia, purché si ponga particolare attenzione all’eventuale compresenza di ipercapnia, per il rischio già accennato di compromettere la ventilazione alveolare. Durante gli episodi di insufficienza respiratoria acuta è necessaria un’assistenza assidua del malato, con particolare attenzione al problema delle secrezioni, della terapia antibiotica e antinfiammatoria, dell’equilibrio gassoso e idroelettrolitico. Quando l’ipertensione polmonare non è secondaria all’ipossia, può essere utile la somministrazione di vasodilatatori arteriosi (per es., calcioantagonisti, idralazina o altro): quest’uso è però ancora sperimentale e dà risultati variabili. Quando infine il cuore destro diviene insufficiente è utile la consueta terapia con restrizione di sale, diuretici, vasodilatatori venosi. I farmaci inotropi, come digitalici e simili, sono meno efficaci sul ventricolo destro (per la scarsa massa muscolare, nonostante l’ipertrofia), soprattutto in presenza di grave acidosi e ipossia, che ne aumentano la tossicità riducendone l’effetto inotropo.
APPENDICE Ipertensione polmonare primitiva. Sindrome di Pickwick Due condizioni cliniche già citate come causa di cuore polmonare cronico meritano una breve trattazione particolare in questa sede. Sono l’ipertensione polmonare primitiva e la sindrome di Pickwick. A. Ipertensione polmonare primitiva. È una grave e rara malattia che colpisce prevalentemente le donne
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(rapporto donne:uomini = 2:1) in genere (ma non esclusivamente) tra i 20 e i 40 anni di età. Si definisce con questo termine un’alterazione del circolo polmonare inizialmente su base funzionale (vasocostrizione) e poi anatomica (restringimento delle fini diramazioni del circolo polmonare, obliterazione di alcune sue ramificazioni) in assenza di una causa evidente. Dal punto di vista anatomopatologico si distinguono tre tipi di alterazioni del circolo polmonare: arteriopatia polmonare plessogenica, arteriopatia polmonare trombotica, malattia veno-occlusiva polmonare. 1. L’arteriopatia polmonare plessogenica è presente nel 30-60% dei pazienti con ipertensione polmonare primitiva, in modo particolare nelle donne, ed è caratterizzata da un’ipertrofia muscolare ed iperplasia intimale delle arteriole polmonari, con strati fibrosi concentrici a mo’ di cipolla, fino all’ostruzione completa. Particolarmente caratteristica è la formazione di piccole lesioni plessiformi a parete sottile, connesse con le piccole arterie muscolari. Si pensa che si formino al seguito di necrosi della parete vascolare, dilatazione aneurismatica, trombosi locale, ricanalizzazione e proliferazione cellulare. 2. L’arteriopatia polmonare trombotica è presente nel 40-50% dei casi di ipertensione polmonare primitiva e colpisce uomini e donne in eguale misura. È caratterizzata da ispessimenti intimali eccentrici e da cuscinetti fibro-muscolari nella parete di arteriole polmonari. Queste alterazioni si accompagnano ad altre che più chiaramente dimostrano la precedente formazione di un trombo con successiva ricanalizzazione. Si potrebbe sospettare che questa sia l’evoluzione di una malattia tromboembolica polmonare, ma la presenza di questa arteriopatia in casi autoptici, nei quali la fonte di una embolizzazione polmonare non può essere dimostrata, suggerisce che, in realtà, i trombi siano formati localmente. 3. La malattia veno-occlusiva polmonare è molto rara (ne sono stati descritti circa 50 casi) ed è caratterizzata da una diffusa proliferazione e fibrosi intimale delle vene e venule polmonari. L’ipertensione arteriosa polmonare è secondaria all’ostruzione che si ha a livello venoso. L’eziopatogenesi dell’ipertensione polmonare primitiva è sconosciuta, ma si hanno in proposito alcune plausibili ipotesi. Si è visto che in questa malattia è frequentemente presente l’arteriopatia polmonare plessogenica. Ebbene, questa alterazione patologica non è caratteristica della sola ipertensione polmonare primitiva, ma si può verificare anche in casi di ipertensione polmonare secondaria, in modo particolare da iperafflusso, come capita in bambini con alterazioni congenite cardiovascolari, come shunt sinistra-destra e dotto arterioso patente. Si può perciò pensare che sia l’evoluzione anatomica di una vasocostrizione polmonare reattiva indotta da cause varie. D’altro canto, si è visto che l’ipertensione polmonare primitiva, pur avendo una diffusione mondiale, è presente con particolare frequenza ai tropici e alle altitudini elevate. Ne sono state descritte
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aggregazioni di casi in particolari aree geografiche e in famiglie. Per questi ultimi è stata proposta un’ereditarietà sia autosomica recessiva che autosomica dominante. La conclusione è che l’ipertensione polmonare primitiva potrebbe semplicemente rappresentare una risposta ipereattiva a stimoli multipli in persone suscettibili. La causa dell’ipertensione polmonare primitiva è sconosciuta nella maggior parte dei casi, ma alcune associazioni sono state notate. All’inizio degli anni Sessanta, in Europa, fu descritta un’epidemia di ipertensione polmonare primitiva in soggetti che assumevano, per sopprimere l’appetito, un analogo dell’amfetamina chiamato aminorex fumarato. Si è dimostrato che questo farmaco ha la capacità di costringere le arteriole polmonari, ma solo in soggetti predisposti lo fa in maniera significativa ai fini dello sviluppo della malattia. In seguito si è constatato che altri farmaci che sopprimono l’appetito, quali la fenfluramina e la dexfenfluramina, e la stessa amfetamina, possono essere associati con ipertensione polmonare. Lo stesso avviene in soggetti che hanno l’abitudine di inalare cocaina. Un altro fattore importante potrebbe essere di natura immunopatologica, dato che si è notato che la malattia è talora associata con il fenomeno di Raynaud (che può anche precederla di anni), la cui presenza in alcune connettiviti sistemiche è ben nota (Cap. 69). Anche la positività per autoanticorpi, in modo particolare per anticorpi antinucleo, è segnalata in alcuni casi di ipertensione polmonare primitiva. Si potrebbe così spiegare anche la prevalenza di questa malattia in giovani donne, dato che queste sono più suscettibili a molte malattie immunopatologiche. Un’ulteriore associazione segnalata è quella con la cirrosi epatica. In questa malattia non è raro che si abbia un certo grado di ipossia per l’apertura di shunt artero-venosi nel circolo polmonare. L’ipossia potrebbe determinare una costrizione arteriolare polmonare importante in soggetti predisposti, tanto da condurre a ipertensione polmonare primitiva. Un’ipotesi alternativa è che l’intestino produca delle tossine in grado di costringere il circolo polmonare e che queste tossine siano normalmente neutralizzate nel fegato. Il salto del fegato connesso con i circoli collaterali dell’ipertensione portale consentirebbe a queste tossine di provocare l’ipertensione polmonare primitiva in soggetti predisposti. Un’altra circostanza nella quale si osserva ipertensione portale senza altra causa apparente è l’infezione da HIV (0,5-2% di casi). In tutti i casi di ipertensione polmonare primitiva si è osservato che le cellule endoteliali del circolo polmonare producono aumentate quantità di trombossano e diminuite quantità di prostaciclina, con uno spostamento dell’equilibrio tra queste sostanze a favore di un’attività vasocostrittrice e protrombotica. Così pure, queste cellule endoteliali producono ridotte quantità di ossido nitrico, vasodilatatore, e incrementano le secrezioni del fattore vasocostrittore endotelina. Non è però noto se queste alterazioni siano primitive o secondarie a qualche altro meccanismo patogenetico.
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La fisiopatologia dell’ipertensione polmonare primitiva è spiegata dalle alterazioni arteriolari. Esiste incapacità di aumentare il flusso ematico attraverso il circolo polmonare e questo comporta vari disturbi sotto sforzo, che vanno dalla comunissima dispnea da sforzo alla sincope (vasodilatazione delle arteriole muscolari che non è bilanciata da un aumento della gettata cardiaca). L’ipertensione polmonare provoca il cuore polmonare cronico con tutte le conseguenze che abbiamo già descritto. La clinica è caratterizzata da una progressione molto graduale e ingravescente con il tempo. I sintomi più comuni sono la dispnea, l’astenia, la sincope (o malessere mal definito), il dolore toracico (da dilatazione dell’arteria polmonare) e le palpitazioni, tutti occasionati o aggravati dallo sforzo. L’esame obiettivo del torace non dà reperti significativi e quello del cuore dà segni di ipertrofia ventricolare destra solo in fase avanzata (Cap. 4). La Rx del torace mostra crampi respiratori chiari, con allargamento dei vasi polmonari centrali e un brusco restringimento di quelli periferici. La determinazione dei gas nel sangue arterioso rivela modesta ipossiemia senza ipercapnia. Le indagini emodinamiche dimostrano aumento della pressione nel ventricolo destro e nell’arteria polmonare con pressione di incuneamento normale (quest’ultima, si ricorda, misura la pressione nei capillari polmonari). Solo in due casi la pressione di incuneamento può essere elevata: negli stadi molto avanzati della malattia, quando l’estrema ipertrofia ventricolare destra disloca il setto e riduce la capacità di riempimento del ventricolo sinistro; nei rari casi di malattia veno-occlusiva polmonare, nei quali l’ostacolo è a valle dei capillari polmonari. La prognosi è generalmente cattiva e la morte si verifica entro alcuni anni, per lo più all’improvviso. Si pensa che sia dovuta al sopravvenire di fibrillazione atriale; nei casi avanzati il sovraccarico di pressione del ventricolo destro è tale che il venir meno dell’attività meccanica dell’atrio destro è bastante per determinare un’insufficienza circolatoria acuta. La diagnosi richiede l’esclusione delle cause note di ipertensione polmonare. È abbastanza facile dimostrare che non esistono malattie polmonari ostruttive o restrittive con interessamento interstiziale. Più difficile è escludere una pioggia di microembolizzazioni polmonari. La scintigrafia polmonare di ventilazione-perfusione può dimostrare delle anomalie in quest’ultimo caso, ma non sempre è risolutiva. Occorre perciò valutare attentamente gli elementi clinici. La terapia è basata sull’impiego di misure che possano rallentare la progressione della malattia. Gli antinfiammatori, corticosteroidei e non, e gli immunosoppressori si sono rivelati privi di efficacia. Utili, invece, sono risultati gli anticoagulanti (non gli antiaggreganti), l’ossigenoterapia e i vasodilatatori, in modo particolare i calcio-antagonisti e l’epoprostenolo. L’assunzione di estroprogestinici a scopo contraccettivo e la gravidanza possono peggiorare l’ipertensione polmonare primitiva.
B. Sindrome di Pickwick. Consiste in un’associazione di grave obesità, ipoventilazione alveolare, sonnolenza, cianosi, respirazione periodica, poliglobulia secondaria e infine cuore polmonare cronico. Il nome deriva dal titolo del libro di Charles Dickens (Pickwick Papers) in cui compare un ragazzo grasso, Joe, che si addormenta continuamente a metà dei discorsi. Il meccanismo fisiopatologico della sindrome è rappresentato dall’ipoventilazione alveolare, a sua volta probabilmente determinata dall’obesità (enorme aumento del lavoro respiratorio). La presenza contemporanea di sonnolenza e iperfagia suggeriscono, però, anche l’esistenza di qualche anomalia del sistema nervoso centrale, che potrebbe riguardare anche i centri respiratori. Nei pickwickiani la riduzione del peso comporta un rapido miglioramento clinico, con scomparsa dei segni di insufficienza respiratoria e di insufficienza cardiaca destra. La sindrome di Pickwick, salvo che per l’obesità, assomiglia a un’altra sindrome, nota come ipoventilazione idiopatica, che pure conduce a cuore polmonare cronico. Vi è infine una condizione, nota come sindrome dell’apnea durante il sonno (“sleep apnea”), nella quale il respiro cessa (per periodi di tempo superiori ai 10 sec) diverse decine di volte per ogni ora di sonno. La sindrome ha una variante centrale, per difetto dei centri respiratori, e una ostruttiva, che si manifesta nei grandi russatori con ostruzione delle vie aeree superiori, soprattutto a livello faringeo. Durante le apnee si manifestano ipossia arteriosa e ipercapnia, compaiono aritmie cardiache anche gravi e aumentano le pressioni arteriose polmonari e sistemiche. I pazienti, che non sono obesi, lamentano durante la veglia cefalea e sonnolenza, per l’insufficiente riposo notturno. Col trascorrere degli anni, la sindrome determina cuore polmonare e ipertensione sistemica, con tutte le possibili sequele. Nella variante ostruttiva può essere decisiva una terapia chirurgica.
CUORE POLMONARE ACUTO ED EMBOLIA POLMONARE Il cuore polmonare acuto è la brusca dilatazione del ventricolo destro causata da una repentina e grave ipertensione polmonare. La causa in assoluto più frequente è l’embolia polmonare, per cui questo capitolo è dedicato prevalentemente a tale condizione morbosa. Quadri di cuore polmonare acuto sono stati descritti, però, anche per altre cause che producono un brusco aumento della pressione polmonare, alcune delle quali, per la verità, rare o eccezionali (Tab. 13.2). L’embolia polmonare è un’ostruzione, più o meno estesa, dell’albero arterioso polmonare da parte di materiale estraneo che proviene da altri distretti vascolari (vene sistemiche o cuore destro) e raggiunge il piccolo circolo con la corrente ematica. Il materiale embolico è costituito, nella stragrande maggioranza dei casi, da frammenti di trombi che si staccano dalla sede in cui si sono formati: si parla perciò di tromboembolia polmo-
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MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Tabella 13.2 - Cause di cuore polmonare acuto. Ostruzione vascolare acuta
–
Embolia polmonare
Compressione e dislocazione vascolare acuta
– – – –
Pneumotorace iperteso Atelettasia massiccia Emotorace Enfisema mediastinico
La diagnosi clinica in vita è assai meno frequente (non più del 10-30% dei casi riscontrati all’autopsia), perché spesso l’embolia polmonare decorre inavvertita o quasi. L’ostruzione di una o poche arteriole polmonari non provoca infatti, solitamente, grossi danni né locali né generali. Nei successivi paragrafi si tratterà della tromboembolia in generale, oltre che delle sue manifestazioni più gravi: il cuore polmonare acuto e l’infarto polmonare.
Iperafflusso polmonare acuto
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Eziopatogenesi e fisiopatologia
Rottura di aneurisma aortico in arteria polmonare (o atrio o ventricolo destri) Rottura di setto (infarto miocardico)
nare. Più raramente l’embolo può essere costituito da altri materiali, come midollo adiposo o liquido amniotico (Tab. 13.3). La tromboembolia è una condizione assai frequente, soprattutto nei soggetti ricoverati in ospedale. Si trovano tracce di embolia recente o passata nel 25-30% del totale delle autopsie. In gruppi di pazienti più anziani e con fattori di rischio (di cui si parlerà in seguito) l’incidenza può superare, sempre all’autopsia, il 60% dei casi.
Tabella 13.3 - Natura degli emboli polmonari. Materiale solido – Frammenti di trombi (tromboembolia) – Tessuto adiposo midollare (traumi) – Frammenti di neoplasie Materiale liquido – Liquido amniotico (taglio cesareo o parto difficile) Materiale gassoso – Aria (ferite del collo o incidenti endovenosi)
Gli emboli polmonari originano nell’80-90% dei casi da trombi formatisi nelle vene profonde degli arti inferiori, (Fig. 13.2) in particolare in quelle sopra il ginocchio. Altre sedi di formazione dei trombi sono elencate nella tabella 13.4. La formazione di trombi direttamente nelle arterie polmonari è rara, salvo che nei pazienti con anemia falciforme (Cap. 44) e nei tossicodipendenti, che usano somministrarsi per via venosa farmaci o eccipienti capaci di produrre vasculiti e trombosi (per es., il talco). Secondo la classica teoria elaborata da Rudolf Virchow già alla fine dell’Ottocento, tre fattori possono favorire lo sviluppo di trombi venosi: la stasi, cioè il rallentamento della circolazione ematica; una lesione dell’endotelio; uno stato di ipercoagulabilità ematica. In pratica il fattore di gran lunga più importante è la stasi, che facilita l’aggregazione delle piastrine e la loro adesione all’endotelio. Prende così il via una catena di eventi che può condurre alla formazione del trombo (Cap. 52). La stasi nelle vene profonde degli arti inferiori è favorita soprattutto dalle condizioni di immobilità prolungata, che risultano perciò particolarmente rischiose per la tromboembolia (per altri fattori di rischio, si veda la tabella 13.4). Molto meno pericolose sono le trombosi infiammatorie (tromboflebiti) delle vene superficiali, da cui difficilmente si staccano frammenti embolici, in quanto il processo infiammatorio rende il trombo assai meno friabile.
Tabella 13.4 - Fattori di rischio per tromboembolia. SEDE DEL TROMBO
FATTORI PREDISPONENTI STASI
LESIONI DI PARETE
IPERCOAGULABILITÀ
• Vene profonde arti inferiori
Immobilità (paralisi, fratture, interventi chirurgici, viaggi aerei) Congestione venosa (scompenso cardiaco, gravidanza, insufficienza valvolare venosa)
Traumi agli arti Flebiti Lesioni degenerative (età, diabete, aterosclerosi)
Uso di estrogeni Carcinomi (ovaio, panreas, stomaco) Trombocitosi (post partum, postoperatoria) Deficit di proteine C, S o di antitrombina III
• Vene pelviche
Post partum Immobilità
Interventi chirurgici addominali Traumi pelvici
(come sopra)
• Atrio destro
Fibrillazione atriale Scompenso destro
Endocardite infettiva destra
(come sopra)
• Ventricolo destro
Trombi cavitari
Infarto della parete o del setto Cardiomiopatie
(come sopra)
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13 - CUORE POLMONARE
Origini principali
Origini poco comuni
Sezioni destre del cuore Vene ovariche o testicolari Vena iliaca esterna Vena femorale Vena femorale profonda Vena poplitea Vene tibiali Plesso soleale delle vene
Vena uterina Plesso pelvico Vena femorale circonflessa laterale Vena grande safena Vena piccola safena
Figura 13.2 - Origine delle embolie polmonari.
Altri fattori di rischio sono l’obesità, il fumo di sigarette e l’ipertensione arteriosa. Invece, nessuna associazione è stata osservata tra il rischio di embolia polmonare e l’ipercolesterolemia e il diabete. Fattori endocrini possono avere importanza nel predisporre all’embolia polmonare. Nelle donne questo avviene in gravidanza con l’assunzione della pillola contraccettiva. I contraccettivi di seconda generazione, che contengono come progestinico il norgestrel, o il levonorgestral o il norgestrienone, e basse dosi di estrogeni (meno di 50 g) incrementano di circa tre volte il rischio di embolia polmonare. I contraccettivi di terza generazione, che contengono come progestinico il desogestrel, o il gestodene o il norgestimato, impiegati allo scopo di ridurre effetti collaterali come l’acne o l’irsutismo, sembra che raddoppino il rischio di embolia polmonare rispetto a quelli di seconda generazione. Infine, un importante fattore predisponente all’embolia polmonare è rappresentato dall’esistenza di neoplasie, le cui cellule possono mettere in circolazione sostanze favorenti la formazione di trombina. Allo stesso modo, tutti gli stati di ipercoagulabilità (si veda Cap. 52) possono facilitare le trombosi venose e l’embolia polmonare.
L’embolo che si stacca dal trombo può essere singolo o multiplo, di piccole o grandi dimensioni. Un singolo embolo che occlude una piccola arteria polmonare il più delle volte non darà segni apparenti e verrà poi eliminato grazie al sistema fibrinolitico. Il circolo polmonare, infatti, è riccamente anastomizzato (cioè collegato da ponti vascolari) con la rete arteriosa bronchiale, di origine sistemica, che è in grado di vicariare il flusso a valle dell’ostruzione di singole arterie polmonari. Per di più, il parenchima polmonare è ossigenato anche direttamente dalla ventilazione alveolare. È questo il motivo per cui è raro il vero e proprio infarto polmonare, cioè la necrosi del tessuto polmonare, come avviene per esempio nel tessuto miocardico per ostruzione di un ramo coronarico. Perché l’infarto polmonare si verifichi sono necessarie alcune condizioni particolari: a) che sia ostruita un’arteria molto periferica, quasi sempre sottopleurica; b) che la circolazione nella rete arteriosa bronchiale e la ventilazione alveolare siano in qualche modo compromesse nella sede dell’embolia. Ciò si verifica, per esempio, nei pazienti con scompenso sinistro, stenosi mitralica, broncopneumopatia ostruttiva. L’infarto polmonare è sempre di tipo emorragico, al contrario dell’infarto miocardico che è invece ischemico. Poiché l’infarto è spesso sottopleurico, si ha frequentemente anche un versamento pleurico, talvolta emorragico, e una reazione infiammatoria della pleura. Numerosi piccoli emboli che si ripetono nel tempo (microembolia recidivante) possono arrivare ad occludere poco alla volta una notevole quota dell’albero arterioso polmonare (anche se molti vasi si riaprono in seguito grazie alla fibrinolisi). Ciò comporta un’ipertensione polmonare che si instaura lentamente e quindi un cuore polmonare cronico, come si è visto nel capitolo precedente. Perché si produca un cuore polmonare acuto, è necessario un grosso embolo che occluda l’arteria polmonare o le sue diramazioni principali, oppure una pioggia di emboli più piccoli che occludano contemporaneamente numerosi vasi minori. Come si è ricordato in precedenza, il circolo polmonare possiede una grande riserva di capacità, per cui è sperimentalmente possibile escludere più di metà dell’albero arterioso senza osservare ipertensione. In caso di embolia polmonare, si manifesta spesso una notevole ipertensione polmonare anche con ostruzioni ben inferiori al 50%. Questa discrepanza può avere due spiegazioni: a) i metodi di valutazione in vita (angiografia, si veda in seguito) o all’autopsia del grado di ostruzione arteriosa polmonare sottostimano la reale entità dell’embolia; b) oltre all’ostruzione meccanica, altri fattori nervosi o umorali contribuiscono, attraverso una vasocostrizione, ad aumentare le resistenze e quindi la pressione polmonare. Su questo punto la discussione è tuttora molto accesa, anche se la maggior parte degli studiosi propende per la seconda ipotesi. Sarebbero importanti soprattutto fattori umorali liberati dalle piastrine che aderiscono alla superficie dell’embolo incuneato nel lume arterioso. Questi fattori, soprattutto serotonina e alcune prosta-
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glandine (in particolare trombossano), possiedono un’intensa attività vasocostrittrice che potrebbe spiegare la discrepanza tra l’entità dell’embolia e gli effetti circolatori che provoca. Inoltre, il danno endoteliale prodotto dalla deposizione di fibrina innesca quella catena di alterazioni nei fattori di regolazione endoteliale già descritta precedentemente, col risultato di aumentare la vasocostrizione nel circolo polmonare. La grave ostruzione al flusso polmonare (meccanica o funzionale che sia) produce effetti sia a valle che a monte. A valle, la caduta del flusso provoca un insufficiente riempimento del ventricolo sinistro, aggravato dallo spostamento verso sinistra del setto interventricolare, per effetto della dilatazione del ventricolo destro. Perciò si riduce la gettata sistemica e compare ipoperfusione periferica di vario grado, sino allo shock. Si attivano ovviamente i meccanismi di compenso circolatori (vasocostrizione, stimolazione adrenergica, tachicardia) che tendono a mantenere una perfusione sufficiente negli organi nobili: cuore e cervello. Se queste compensazioni non sono sufficienti, vi può essere la sincope (improvvisa perdita di coscienza da insufficiente irrorazione cerebrale) quando l’ostruzione al flusso è transitoria, oppure la morte improvvisa quando la grave ostruzione persiste più a lungo. Questi eventi si verificano all’esordio dell’embolia, prima che i processi fibrinolitici e altri meccanismi compensatori possano intervenire a ripristinare il flusso in una parte almeno dell’albero arterioso polmonare. All’esordio, anche un diverso meccanismo può produrre la sincope: una forte stimolazione vagale, con vasodilatazione periferica e aritmie ipocinetiche, cioè con brusca riduzione della frequenza cardiaca. A monte dell’ostruzione aumenta la pressione nell’albero arterioso polmonare e nel ventricolo destro, che si dilata perché non riesce ad espellere in sistole tutto il sangue che contiene. La dilatazione comporta, per la legge di Starling, un aumento della forza di contrazione del ventricolo. Ciò consente, sino a un certo punto, di far fronte all’aumento del postcarico determinato dall’ipertensione polmonare e dalla dilatazione stessa (per la legge di Laplace l’aumento del raggio ventricolare produce aumento della tensione della parete ventricolare; Cap. 5). Oltre un certo limite la dilatazione risulta però controproducente e il ventricolo diviene insufficiente. L’aumento del lavoro ventricolare e la dilatazione comportano anche un aumento del consumo di ossigeno che, associato a un’eventuale ipoperfusione coronarica locale o generalizzata, può comportare un’ischemia miocardica, con i relativi sintomi. Quando il ventricolo destro diviene insufficiente, salgono le pressioni nell’atrio destro e nelle vene sistemiche e il fegato si distende acutamente. Se la dilatazione sfianca l’anello valvolare, compare anche un’insufficienza della valvola tricuspide, che aggrava la congestione venosa. L’aumento di pressione nel sistema venoso fa aumentare il riassorbimento di sodio e acqua a livello renale, mentre l’ipoperfusione del rene riduce la filtrazione nei glomeruli: compaiono oliguria e anuria. Gli effetti di un’embolia polmonare massiccia sull’apparato respiratorio non sono meno rilevanti.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Una grossa porzione degli alveoli non è più perfusa dal circolo polmonare, mentre continua a essere ventilata. Ciò equivale a un aumento rilevante dello spazio morto respiratorio: in altre parole, la ventilazione della superficie alveolare non perfusa è “persa” dal punto di vista funzionale. Negli alveoli non perfusi, rapidamente si riduce la CO2 (perché questa non viene più rifornita dal sangue) e l’ipocapnia alveolare è un potente stimolo alla costrizione di dotti alveolari e bronchioli. Si tratta di un meccanismo di compenso che tende a ridurre la ventilazione “inutile” degli alveoli non perfusi: è un effetto speculare rispetto alla vasocostrizione polmonare indotta dall’ipossia alveolare, che riduce la perfusione “inutile” degli alveoli non ventilati. Col passare delle ore, nel tessuto polmonare colpito dall’embolia si riduce anche la produzione del tensioattivo, una lipoproteina dotata della proprietà di ridurre la tensione di superficie del liquido che bagna la superficie interna degli alveoli, contribuendo a mantenerli pervi. Tale sostanza viene prodotta da cellule della parete alveolare, che richiedono per la sintesi una sufficiente ossigenazione. Quando il flusso ematico si interrompe per l’embolia, la produzione locale di tensioattivo diminuisce e, nel giro di 12-24 ore, gli alveoli collassano. Il risultato è un’atelettasia del parenchima polmonare colpito dall’embolia, che tardivamente ha lo stesso effetto compensatorio della precoce broncocostrizione. La ventilazione delle zone di polmone non colpite tende invece ad aumentare, nel tentativo di mantenere normali gli scambi gassosi. Ciò comporta iperpnea e tachipnea, con conseguente ipocapnia arteriosa sistemica (riduzione della CO2) e talvolta alcalosi respiratoria. Nonostante ciò, l’ossigenazione del sangue non è soddisfacente e si manifestano, quasi regolarmente, ipossia e ridotta saturazione in O2 del sangue arterioso sistemico. La causa dell’ipossia nell’embolia polmonare è tuttora oggetto di discussione tra gli studiosi. Possono essere in gioco diversi fattori: • l’ipoperfusione sistemica comporta un’accentuata estrazione di O2 da parte dei tessuti (aumenta cioè la differenza artero-venosa per la saturazione di O2); • il sangue venoso giunge allora ai polmoni più povero di O2 e non riesce a ossigenarsi completamente perché è molto aumentata la velocità di transito attraverso le poche zone ancora perfuse (la CO2, molto più diffusibile, fa invece in tempo a essere eliminata); • una broncocostrizione si produce anche al di fuori delle zone colpite dall’embolia, per effetto degli stessi fattori umorali che producono la vasocostrizione (serotonina e prostaglandine). La disomogenea distribuzione di broncocostrizione e vasocostrizione determina, nel complesso, una diffusa alterazione del rapporto tra ventilazione e perfusione. Vi sono alveoli poco perfusi ma ben ventilati (equivalenti a uno spazio morto) e alveoli poco ventilati ma ben perfusi (equivalenti a uno shunt destro-sinistro). Il risultato finale è un’ipossia arteriosa sistemica. Tutti questi effetti circolatori e respiratori si manifestano nelle prime ore successive a un’embolia polmo-
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13 - CUORE POLMONARE
nare grave. Intanto iniziano alcuni processi di recupero, che conducono (se il paziente non muore in fase acuta) al ripristino di una normale circolazione polmonare con normali scambi gassosi. I primi aggiustamenti sono meccanici: gli emboli vengono spinti dall’aumentata pressione arteriosa polmonare verso regioni più periferiche, dove fanno minor danno (perché la superficie di sezione del letto vasale è maggiore in periferia); si aprono rami arteriosi di riserva, normalmente non utilizzati; si arricchiscono le connessioni tra il circolo polmonare e le arterie bronchiali. Questi fenomeni ripristinano un flusso normale in molte zone prima occluse già entro poche ore. Intanto la fibrinolisi agisce sull’embolo riassorbendolo progressivamente, purché si tratti di materiale staccatosi da trombi non organizzati, cioè non invasi da tessuto connettivo. La fibrinolisi giunge a eliminare gli emboli freschi nel giro di qualche giorno. Un altro processo, più lento, che conduce alla riapertura di vasi occlusi è l’organizzazione. Le porzioni di embolo non ancora riassorbite vengono invase da cellule infiammatorie e fibroblasti e gradualmente trasformate in piccole placche di connettivo cicatriziale aderente alla parete del vaso. Questo processo richiede 2 o 3 settimane. Tuttavia, un recupero anatomico ed emodinamico incompleto dopo un episodio acuto di embolia polmonare è più comune di quanto prima si pensasse. Non è stata identificata alcuna anomalia della coagulazione, o della fibrinolisi o dell’endotelio dei vasi polmonari che spieghi questo effetto, con l’eccezione della positività degli anticorpi anticardiolipina, che sono stati trovati positivi nel 10% di questi casi. La condizione che consegue a un mancato ritorno alla normalità dopo uno o più episodi di embolia polmonare viene denominata ipertensione polmonare cronica tromboembolica. Questa è molto insidiosa perché i pazienti che ne sono affetti possono rimanere asintomatici per mesi o anni e, per la maggior parte, si presentano al clinico tardivamente nel corso dello sviluppo della malattia. La ragione per la quale questa malattia progredisce con il passare del tempo non è stata bene individuata. La progressione emodinamica può dipendere dal ricorrere di nuovi episodi tromboembolici o da trombosi in situ dell’arteria polmonare. Tuttavia, in molti pazienti è stato dimostrato un rimodellamento vascolare polmonare, con dimostrazione istopatologica di alterazioni delle pareti arteriose, tanto nei vasi coinvolti dall’embolia polmonare, quanto negli altri vasi.
Clinica La trombosi di vene profonde dà pochi o nulli segni di sé: solo nei casi più evidenti si manifesta con edemi e dolenzia dell’arto colpito. Perciò, nel tentativo di riconoscere in tempo la comparsa della trombosi, prima che embolizzi, sono stati proposti numerosi esami strumentali. Il più noto è il test del fibrinogeno marcato, che consiste nell’iniettare fibrinogeno marcato con iodio 125 (radioisotopo), aspettare che venga incorporato nel trombo e misurare dall’esterno la radioattività con-
centrata nella sede della lesione. Purtroppo il metodo funziona bene soltanto per i trombi della gamba e della coscia inferiore. Per trombi più alti è utile la pletismografia a impedenza, un metodo che evidenzia l’ostruzione al flusso venoso. In mani esperte, dà risultati abbastanza buoni l’esame Doppler, che misura il flusso venoso con l’impiego di ultrasuoni. Anche questo metodo, però, riconosce solo trombi che diano una marcata ostruzione del flusso ematico. Recentemente è stata documentata l’alta affidabilità di un test semplice, che valuta la comprimibilità delle vene femorali e poplitee con la sonda di un normale ecografo. Nei casi dubbi si esegue una flebografia con contrasto, ma si tratta comunque di un esame cruento. Si sta sviluppando la possibilità di eseguire una flebografia radioisotopica che consente anche di ottenere, contemporaneamente, una scintigrafia polmonare (si veda in seguito), che potrebbe risultare preziosa, per confronto, in occasione di un successivo sospetto episodio embolico. Nonostante questi esami, capita spesso che la trombosi venosa venga riconosciuta solo dopo che ha prodotto un’embolia polmonare. Se si tratta di una embolia polmonare di modesta entità, il paziente si limiterà ad accusare un’improvvisa dispnea, senza causa apparente, con leggera ipotensione e tachicardia. Il laboratorio può rilevare una modesta ipossia arteriosa. Questi episodi minori possono talvolta essere trascurati dal paziente, ma non devono mai essere sottovalutati da parte del medico, in quanto possono precedere invii embolici più massicci. Se l’embolia, pur essendo modesta, provoca un infarto polmonare (per la presenza di condizioni favorenti, come scompenso sinistro o stenosi mitralica), i sintomi e segni sono più numerosi. Oltre alla dispnea e alla tachipnea (aumentata frequenza respiratoria), compare dolore trafittivo toracico che si accentua con gli atti del respiro: è dovuto all’irritazione pleurica in corrispondenza dell’infarto e può comparire anche un giorno dopo l’embolia. Al dolore si associa spesso la tosse con un caratteristico espettorato ematico “rugginoso”. L’infarto polmonare è emorragico e il sangue che si raccoglie negli alveoli, degradato dalle cellule infiammatorie, conferisce allo sputo il colore rugginoso. Il polso è frequente e la pressione normale o bassa. Nella sede dell’infarto si possono rilevare numerosi segni, nessuno dei quali è però costante: sfregamenti pleurici (dovuti all’infiammazione della pleura sovrastante l’infarto), rantoli crepitanti (dovuti alla parziale atelettasia, cioè schiacciamento degli alveoli), sibili (dovuti alla broncocostrizione), raramente ottusità alla percussione (dovuta al riempimento infartuale degli alveoli o a un piccolo versamento pleurico). Nel complesso il quadro può simulare un focolaio broncopneumonico infettivo. Nel caso dell’infarto, però, i sintomi insorgono più repentinamente e la febbre (dovuta al riassorbimento di materiale necrotico) compare in un secondo tempo e raramente è elevata.
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Spesso comunque, anche in caso di infarto, la dispnea improvvisa e la tachicardia sono gli unici segni rivelatori. L’embolia massiccia con grave ostruzione al flusso polmonare produce un quadro clinico più drammatico. All’esordio il paziente può avere una sincope (perdita di coscienza per insufficiente flusso cerebrale) o un arresto cardiaco (per insufficiente irrorazione miocardica), quando l’ostruzione al flusso è completa o quasi. Oppure, quando il flusso si riduce molto ma resta sufficiente a perfondere cuore e cervello, può comparire un quadro di shock circolatorio con grave ipotensione, tachicardia, cute fredda e sudata, anuria. Spesso è presente un dolore retrosternale oppressivo, diverso dal dolore pleurico che è localizzato nella sede dell’embolia e si accentua col respiro. Il dolore retrosternale non varia col respiro ed è dovuto all’ischemia miocardica (ipoperfusione più aumento del consumo per dilatazione acuta) o alla brusca dilatazione dei grandi vasi polmonari (simile perciò al dolore dell’aneurisma aortico). È sempre presente grave dispnea, spesso con respiro frequente e superficiale, quasi sempre con tosse, agitazione, sudorazione profusa, cianosi. L’esame del torace può rivelare solo qualche sibilo (broncocostrizione). L’esame del cuore può mettere in evidenza segni di ostruzione e ipertensione vascolare polmonare e segni di dilatazione e insufficienza ventricolare destra. I primi si rilevano con l’ascoltazione in regione parasternale sinistra alta e sono: rinforzo e ritardo della componente polmonare del II tono (con sdoppiamento quasi fisso, cioè non variabile col respiro, del II tono); soffio sistolico d’eiezione polmonare di tonalità aspra; talvolta soffio sistolico sui campi polmonari (dovuto alle turbolenze nella sede di ostruzione). La dilatazione ventricolare destra, quando è cospicua, produce un impulso palpabile in sede parasternale sinistra bassa o paraxifoidea. Si ascolta un galoppo atriale o IV tono, dovuto al fatto che la contrazione atriale deve vincere una pressione diastolica più elevata in ventricolo. A questo galoppo corrisponde un’onda giugulare di insolita ampiezza subito prima della sistole (onda A gigante). Le giugulari, contrariamente al solito, si distendono durante l’inspirazione anziché vuotarsi: è il segno di Kussmaul e indica un ostacolo al riempimento del ventricolo destro (è presente anche nella pericardite costrittiva e nel tamponamento cardiaco). Quando il ventricolo si dilata molto, può comparire un’insufficienza tricuspidale (per sfiancamento dell’anello valvolare) con i relativi segni: soffio che copre tutta la durata della sistole e si accentua in inspirazione; tono aggiunto diastolico precoce (protodiastolico) o III tono; onda giugulare sistolica. Il sommarsi del III e IV tono per la tachicardia può dare un ritmo caratteristico, chiamato galoppo di sommazione. Quando il ventricolo diviene insufficiente, compaiono i segni della congestione venosa sistemica (turgore giugulare) e l’epatomegalia. Se il paziente sopravvive (e ciò accade in meno del 10% dei casi e soprattutto entro le prime 2 ore dall’e-
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
sordio), tutti i sintomi e segni progressivamente si riducono e poi scompaiono entro le 2 settimane successive. Si è già detto che la presentazione clinica dell’ipertensione polmonare cronica tromboembolica può essere insidiosa. Come in tutte le forme di ipertensione polmonare, i primi sintomi sono rappresentati da dispnea da sforzo e diminuita resistenza all’attività fisica. In realtà, bisognerebbe pensare ad anomalie della circolazione polmonare ogni volta che si sviluppa una dispnea per la quale non si trovino cause sicure. Con il progredire della malattia si manifestano i sintomi e i segni che abbiamo già descritto per l’ipertensione polmonare primitiva. Caratteristica dell’ipertensione polmonare cronica tromboembolica è la percezione di soffi, sincroni con l’attività cardiaca, all’ascoltazione del torace. Questo reperto, che è descritto in circa il 30% dei casi, è dovuto a turbolenze del flusso sanguigno quando attraversa trombi parzialmente occludenti o ricanalizzati. Poiché sulla base dei soli dati clinici la diagnosi può essere solo sospettata, è sempre necessario eseguire alcuni accertamenti strumentali, relativamente semplici: analisi dei gas arteriosi (e di alcuni enzimi ematici), elettrocardiogramma, radiografia del torace, ecocardiografia. L’analisi dei gas dimostra spesso la presenza di ipossia arteriosa, per lo più accompagnata da ipocapnia (riduzione della tensione di CO2) e alcalosi respiratoria. Una gasanalisi normale o quasi, però, non permette di escludere l’embolia. La concentrazione nel sangue dell’enzima LDH (di cui è ricco il tessuto polmonare) può essere aumentata, soprattutto in presenza di infarto; talvolta è leggermente aumentata anche la bilirubinemia (per la stasi epatica ed eventualmente per la lisi delle emazie stravasate). Se c’è un infarto, possono esservi leucocitosi e aumento della VES. L’elettrocardiogramma può essere del tutto normale. In caso di embolia grave, compaiono i segni di dilatazione e sovraccarico del ventricolo destro: deviazione dell’asse elettrico verso destra; onde P alte e appuntite in D2-D3 di tipo polmonare; inversione della T in V1-V2 e D3. Queste alterazioni regrediscono nel giro di ore o giorni con la risoluzione dell’embolia. Anche la radiografia del torace può essere normale. Un esame accurato permette però, a volte, di individuare alcuni segni sospetti. I più importanti sono: a) una differenza di diametro di vasi che dovrebbero essere uguali (se l’embolia ostruisce, per esempio, l’arteria polmonare destra, il ramo sinistro si dilata per accogliere un maggior flusso e la differenza di diametro diventa visibile); b) il brusco troncamento di un vaso (se il flusso è interrotto, a valle dell’embolo non vi è la radiopacità dovuta alla presenza del sangue nei vasi; c) aree di radiolucenza in alcune zone del polmone, confrontate con le controlaterali (per assenza di flusso di sangue, più radiopaco del tessuto aerato); d) aree di opacità (se vi è un infarto l’opacità è dovuta alle emorragie intralveolari, è di forma triangolare con la base in corrispondenza del margine pleurico e si accompagna spesso a un piccolo versamento; in assenza di infarto la
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13 - CUORE POLMONARE
comparsa di atelettasie può dar luogo ad aree di opacità di forma lineare, talvolta con elevazione del diaframma); e) assenza di pulsatilità di un vaso alla radioscopia (un segno diretto di ostruzione del vaso). L’esecuzione di una tomografia computerizzata (TC) spirale con mezzo di contrasto permette l’acquisizione continua di immagini durante un singolo atto respiratorio ed è utile per la dimostrazione di un’embolia polmonare. La tecnica della risonanza magnetica (RM) con l’impiego di gadolinio si è rivelata recentemente quasi altrettanto sensibile dell’angiografia polmonare per la diagnosi di embolia polmonare. Infine, l’ecocardiografia, bidimensionale e Doppler, consente di stimare la dilatazione del ventricolo destro e l’ipertensione polmonare. Nella maggior parte dei casi, questi esami consentono di confermare la diagnosi con sufficiente sicurezza per iniziare la terapia. Nei casi più gravi, che richiedono interventi terapeutici energici o rischiosi, è però necessario raggiungere la certezza diagnostica: diviene allora indispensabile eseguire esami più complessi, come la scintigrafia polmonare con radioisotopi e l’angiografia polmonare con mezzo di contrasto. La scintigrafia si esegue iniettando endovena microaggregati di albumina marcati con tecnezio 99m (emittente raggi gamma) e fotografando poi, in diverse riprese, la distribuzione del tracciante nei campi polmonari con uno strumento sensibile ai raggi gamma (gammacamera). Se un’area polmonare è poco perfusa (per ostruzione embolica), riceverà poca albumina marcata e la gammacamera rileverà in quella zona una scarsa radioattività. È raro che la scintigrafia sia completamente normale in presenza di embolia. Però anche altri processi patologici a carico del parenchima polmonare, che riducono localmente il flusso, danno simili alterazioni scintigrafiche: per esempio polmoniti, atelettasie, pneumotoraci. Per distinguerli, si può associare una scintigrafia ventilatoria, eseguita facendo respirare al soggetto aria mista con xenon 133 (gas emittente gamma): in caso di embolia le zone ipoperfuse sono normalmente ventilate (la radioattività da xenon si diffonde omogeneamente nel parenchima ed omogeneamente viene espirata), mentre negli altri casi si rileva anche un’ipoventilazione (le zone ipoperfuse ricevono anche poca radioattività da xenon o la eliminano lentamente). L’angiografia polmonare si esegue introducendo un catetere da una vena periferica e spingendolo, attraverso il cuore destro, sino all’arteria polmonare. Quando il catetere è in sede, si inietta il mezzo di contrasto (che opacizza tutto l’albero vascolare polmonare) e contemporaneamente si scattano diverse radiografie in successione. In mani esperte questo esame consente di riconoscere con certezza la presenza e la distribuzione degli emboli, che appaiono sotto forma di difetti di riempimento o di brusche interruzioni dei vasi. Il catetere, inoltre, permette di misurare parametri emodinamici, come pressioni e resistenze polmonari, portata cardiaca, ecc. Si tratta però di un esame cruento, la cui esecuzione deve essere giu-
stificata dalla gravità del paziente e dai rischi della terapia che si prevede di applicare.
Prognosi e cenni di terapia La profilassi della trombosi venosa, e quindi, indirettamente, dell’embolia polmonare, è raccomandata in tutti i pazienti a rischio (Tab. 13.1) e soprattutto nei pazienti chirurgici (in ortopedia, urologia, ginecologia, neurochirurgia e chirurgia generale), in quelli con infarto miocardico, o scompenso cardiaco o con ictus non emorragico. La profilassi si avvale della somministrazione di anticoagulanti (soprattutto eparina sottocute a basse dosi) e del ricorso a mezzi meccanici per ridurre la stasi venosa agli arti. Quando l’embolia si è già verificata, gli obiettivi da raggiungere con la terapia sono tre: • prevenire le recidive emboliche; • facilitare l’eliminazione dell’embolo; • correggere le alterazioni circolatorie e respiratorie. Il primo obiettivo si raggiunge con terapia anticoagulante (eparina e poi anticoagulanti orali), che va instaurata appena sorge il sospetto di embolia, se non vi sono controindicazioni, e prosegue sino a quando sussiste il rischio di recidive. Una manovra invasiva, talora necessaria in presenza di embolie recidivanti a partire dagli arti inferiori, è il posizionamento di un filtro nella vena cava inferiore. Il secondo obiettivo è pure facilitato dall’eparina (la fibrinolisi spontanea non è contrastata dalla formazione di nuova fibrina). I farmaci fibrinolitici (streptochinasi, urochinasi e attivatore tissutale del plasminogeno o t-PA) sono indicati nei casi di embolia massiva o con persistente ipotensione o non sensibili alla terapia con eparina, purché non esistano controindicazioni. Esistono procedimenti chirurgici che sono importanti nella terapia dell’embolia polmonare: dall’embolectomia, praticabile negli episodi acuti, alla tromboendoarteriectomia, che può essere utile in alcuni casi di ipertensione polmonare cronica tromboembolica. In questo secondo caso l’intervento è differente perché il materiale tromboembolico organizzato è fibrotico e aderisce alle pareti vascolari. Prima dell’intervento è opportuno valutare angiograficamente qual è lo stato dell’albero vascolare polmonare, dato che i trombi che è possibile rimuovere sono solo quelli collocati nei tronchi principali, lobari o segmentari prossimali delle arterie polmonari. Occorre anche valutare se esiste proporzionalità tra l’occlusione angiograficamente documentabile del circolo polmonare e la situazione emodinamica, perché se la seconda fosse più grave di quanto spiegabile con l’angiografia, sarebbe giustificato pensare all’interessamento di piccoli vasi e a una situazione non completamente correggibile con l’intervento chirurgico. La rimozione dei trombi occludenti i più grossi rami delle arterie polmonari provoca, molto comunemente, problemi di riperfusione, con aumento della permeabilità dei vasi riperfusi e danneggiamento polmonare da infiltrazione con granulociti neutrofili. Tuttavia, nella maggior parte dei ca-
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si, questi sono lievi e l’intervento può essere superato con successo. Nelle serie pubblicate che riportano più di 10 pazienti sottoposti a questa operazione, la mortalità era compresa tra il 5 e il 24%. Per la maggior parte dei pazienti il risultato era favorevole e, in alcuni casi, si assisteva ad una completa normalizzazione della pressione arteriosa polmonare e delle resistenze vascolari polmonari.
MALATTIE DEL SISTEMA CIRCOLATORIO
Il terzo obiettivo comporta la correzione dell’ipossia con la somministrazione di ossigeno e il sostegno del circolo in caso di scompenso o shock. In genere, se il paziente non muore entro le prime ore per embolia massiva (ciò accade in meno del 10% dei casi), il recupero successivo è completo. Emboli multipli recidivanti, o anche singoli episodi non completamente risolti, possono condurre al cuore polmonare cronico.
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PARTE SECONDA
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO a cura di C. GRASSI, E. LONGHINI con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di A. CANTABONI
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C A P I T O L O
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APPARATO RESPIRATORIO: STRUTTURA E FUNZIONI R. PARDI
CENNI DI ANATOMIA FUNZIONALE Albero respiratorio
Bronchioli
Sottosegmentali (circa 5 generazioni)
Piccoli bronchi (circa 15 generazioni
Bronchioli
Le vie aeree sono deputate al trasporto dell’aria inspirata dalla bocca al distretto alveolare, sede dello scambio gassoso tra aria e sangue. Esse possono essere funzionalmente divise in una zona di conduzione, ove non avvengono scambi respiratori, in una zona di transizione, che ha funzioni eminentemente di trasporto ed in piccola parte di scambio gassoso, ed infine in una zona respiratoria propriamente detta, che è la più estesa ed è sede degli scambi gassosi (Fig. 14.1). La zona respiratoria presenta poi suddivisioni anatomiche in lobi e segmenti (Fig. 14.2). La zona di conduzione è costituita, al di sotto della laringe, dalla trachea, dai due bronchi principali e quindi dai bronchi lobari e segmentari fino ai bronchioli terminali, con diametro intorno ai 2 mm. Questa zona, nella quale non avvengono scambi respiratori, è inclusa funzionalmente nello spazio morto anatomico che ha, in condizioni normali, un volume di circa 150 ml; inoltre è a questo livello che si genera la maggior resistenza al flusso delle vie aeree, in parte a causa dell’elevata turbolenza che esso presenta nelle primissime generazioni bronchiali. Dal punto di vista anatomico le vie aeree di conduzione sono caratterizzate dalla presenza di uno stroma cartilagineo di sostegno, strutturato ad anelli disposti in serie nella trachea e nei grossi bronchi, e a placche irregolari nelle successive diramazioni bronchiali; distalmente ai bronchioli terminali la parete bronchiale è invece priva di un supporto rigido ed è largamente rappresentata da fasci intrecciati di fibre muscolari lisce, a disposizione spiraliforme, e da fibre elastiche disposte longitudinalmente e circolarmente. Nelle vie aeree di conduzione è pure situato l’intero apparato mucosecernente dell’albero respiratorio, costituito dalle ghiandole tubuloacinose a secrezione sieromucosa e dalle cellule mucipare caliciformi, o “goblet-cells”. Entrambe queste
Segmentali
Bronchioli terminali (< 2 mm ∅) Lobulo secondario
Bronchioli respiratori Condotti alveolari e sacchi alveolari
Acino (lobulo primario)
Figura 14.1 - Rappresentazione schematica dell’albero respiratorio.
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Figura 14.2 - Schema dei segmenti polmonari. 1, apicale; 2, anteriore; 3, posteriore; 4, ascellare. Lobo medio: 5, laterale; 6, mediale. Lobo inferiore destro: 7, apicale; 8, anteriore; 9, mediale o cardiaco; 10, laterale; 11, posteriore. Lobo superiore sinistro: 12, apico-dorsale; 13, anteriore; 14, ascellare; 15, lingulare superiore; 16, lingulare inferiore. Lobo inferiore sinistro: 17, apicale; 18, antero-mediale; 19, laterale; 20, posteriore.
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14 - APPARATO RESPIRATORIO: STRUTTURA E FUNZIONI
strutture sono molto rappresentate nelle prime generazioni bronchiali e vanno via via diradandosi in quelle successive: per esempio, il rapporto tra cellule epiteliali e goblet-cells è di 5:1 circa nelle vie aeree principali di un individuo adulto sano e sale a 100:1 e più nelle pareti dei più piccoli bronchi. Questo rapporto può alterarsi in alcune condizioni patologiche caratterizzate, come si vedrà in seguito, dalla ipertrofia dell’apparato ghiandolare mucosecernente e dall’aumento della secrezione bronchiale. Nei bronchioli terminali si osservano inoltre particolari elementi cellulari, definiti cellule di Clara, che secondo alcuni sarebbero le principali produttrici del surfattante bronchiolo-alveolare. La zona di transizione è caratterizzata dalla comparsa, nel contesto delle pareti bronchiolari, ormai prive di cartilagini, di alveoli ove possono verificarsi scambi gassosi tra aria e sangue. Le strutture che più tipicamente posseggono questa doppia funzione sono definite bronchioli respiratori; distalmente a queste formazioni si trovano i dotti alveolari, interamente tappezzati da alveoli, e i sacchi alveolari propriamente detti, che costituiscono la zona respiratoria, sede elettiva dello scambio di gas tra aria e sangue. Gli alveoli di un adulto normale ammontano a circa 300 milioni, con una superficie respiratoria globale che si aggira intorno ai 100 m2. L’unità funzionale di scambio respiratorio è rappresentata dall’acino, tributario di un singolo bronchiolo terminale, che comprende i bronchioli respiratori, i dotti alveolari, i sacchi alveolari e gli alveoli. Vengono poi distinti il lobulo primario, che è tributario di un bronchiolo respiratorio e non possiede una vera identità anatomica, e il lobulo secondario, tributario di 3-5 bronchioli terminali, che è la più piccola porzione di parenchima polmonare interamente circondata da tessuto connettivo settale. Vanno infine considerati, tra le strutture caratteristiche della zona respiratoria, i pori alveolari di Kohn, che hanno sede nelle pareti alveolari e mettono in comunicazione alveoli contigui, e i canali di Lambert, che uniscono strutture bronchiolo-alveolari a bronchioli terminali. Il significato di queste strutture non è del tutto chiarito, ma è certo che esse contribuiscono in larga misura al mantenimento di una ventilazione omogenea nei vari distretti polmonari.
Cellule alveolari La parete alveolare dei mammiferi è costituita da due tipi cellulari distinti morfologicamente e funzionalmente: gli pneumociti di I ordine o “membranosi” e gli pneumociti di II ordine o “granulari”. Un terzo tipo di cellula a sede alveolare, anche se non direttamente connessa alla sua struttura, è il macrofago alveolare, delle cui fondamentali caratteristiche funzionali si dirà nel paragrafo concernente l’immunologia del polmone. Gli pneumociti di I ordine o membranosi svolgono funzioni di rivestimento (coprono circa il 90% dell’intera superficie alveolare) e attraverso il loro sottile citoplasma
(< 0,1 ), in diretta connessione con le cellule endoteliali del capillare alveolare, si compie il passaggio dei gas tra sangue e aria alveolare. Queste cellule hanno una ridottissima attività fagocitica e sono sprovviste di capacità rigenerativa, contrariamente agli pneumociti di II ordine. È stata peraltro osservata la possibile trasformazione di uno pneumocita membranoso in uno di tipo granulare e la conseguente acquisizione della capacità rigenerativa. È inoltre importante rilevare che è possibile anche il fenomeno inverso, e cioè la graduale trasformazione di una cellula alveolare di II tipo in una di I tipo. Ciò assicura al parenchima polmonare una certa possibilità di rigenerazione. Le cellule alveolari di II ordine o granulari, pur meno numerose (rappresentano il 15% della popolazione cellulare alveolare), sembrano strutturalmente e funzionalmente più complesse di quelle membranose. Esse hanno aspetto cuboidale, con nucleo rilevato e citoplasma dotato di microvilli, e sono ricche di organuli citoplasmatici che ne indicano l’elevata attività metabolica e secretoria: questi elementi sono infatti i principali produttori del surfattante alveolare. A queste cellule sono state attribuite altre funzioni, tra cui la difesa contro agenti ossidanti e la partecipazione nel trasporto di fluidi ed elettroliti. Come già detto, in caso di trauma parenchimale queste cellule sono in grado di moltiplicarsi attivamente, trasformandosi in cellule alveolari di tipo membranoso.
Surfattante alveolare Il surfattante alveolare è una sostanza chimicamente complessa costituita da una frazione fosfolipidica, la dipalmitoil-fosfatidil-colina (o dipalmitoil-lecitina) associata ad una apoproteina. Esso è prodotto essenzialmente dalle cellule granulari della parete alveolare e in parte dalle cellule di Clara site nella mucosa dei bronchioli respiratori. La principale funzione del surfattante alveolare è quella di modulare la tensione superficiale delle pareti alveolari durante le fasi della respirazione, al fine di impedirne la rottura o il collabimento. Il surfattante è disposto come un film continuo sulla superficie alveolare (lining alveolare) e ha un turn-over rapidissimo, essendo continuamente degradato (sembra ad opera di macrofagi alveolari) e risintetizzato. Per meglio comprendere l’insostituibile funzione che il surfattante alveolare svolge nella dinamica respiratoria, è necessario considerare gli alveoli come bolle di gas di piccolissime dimensioni in comunicazione tra di loro (ciò non è molto lontano dalla realtà): sulle pareti alveolari agisce la tensione superficiale, dipendente dalla coesione tra le molecole della fase liquida della bolla (le pareti alveolari). Tale forza si genera in quanto i legami tra le molecole del liquido sono molto più forti di quelli tra il liquido e il gas, con il risultato che la superficie liquida tende a divenire la più piccola possibile (l’alveolo ha la tendenza a collabire). La pressione esercitata dalla tensione superficiale su una bolla di liquido è espressa dalla legge di Laplace:
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
P=
2T r
Interstizio alveolare A
dove T è la tensione superficiale e r il raggio della bolla (o dell’alveolo). Cosa avviene durante gli atti respiratori? Nella fase espiratoria, riducendosi il volume polmonare, il raggio alveolare si accorcia ed in tal modo la pressione (P) sulle pareti alveolari aumenta, tendendo a produrre il collabimento dell’alveolo: in questa fase il riarrangiamento delle molecole del surfattante alveolare riduce notevolmente la tensione superficiale dell’alveolo, prevenendone il collabimento. Processo inverso si ha durante la fase inspiratoria: l’aumento del raggio alveolare (al denominatore nella equazione) tende a ridurre la pressione (P) che agisce sull’alveolo e perciò tende a far “scoppiare” l’alveolo (come quando una bolla di liquido aumenta troppo di dimensioni): in questo caso, assumendo una nuova disposizione, il surfattante alveolare aumenta la tensione superficiale dell’alveolo ed in tal modo previene questa eventualità. La secrezione del surfattante alveolare è influenzata da molte sostanze; è noto per esempio che numerosi ormoni, tra cui i corticosteroidi, gli ormoni tiroidei o le prostaglandine sono in grado di favorirne la produzione. Questa sostanza si forma relativamente tardi nella vita fetale e una sua insufficiente produzione può impedire la regolare espansione del parenchima polmonare che si osserva alla nascita.
Interstizio polmonare Esso può essere funzionalmente suddiviso in due compartimenti, definibili come grosso interstizio, che comprende il connettivo peribroncovascolare e subpleurico, ed il piccolo interstizio, compreso tra il versante capillare e quello alveolare delle pareti degli alveoli: il piccolo interstizio riveste una grande importanza funzionale sia per le proprietà meccaniche dell’organo che per alcune attività metaboliche (Fig. 14.3). Il piccolo interstizio presenta delle zone cosiddette espansibili, ove più lassa è la giunzione alveolo-capillare e nelle quali si trovano cellule macrofagiche, fibroblasti e cellule mononucleate (linfociti e monociti), oltre ad una componente fibrillare costituita da collagene e in piccola parte da fibre elastiche; a questo livello si può avere accumulo di fluidi in condizioni patologiche o migrazione di cellule macrofagiche ripiene di materiale estraneo o, ancora, esuberante deposizione di tessuto fibroso. Le zone inespansibili del piccolo interstizio sono spazi virtuali presenti nelle regioni dove più stretto è il contatto tra cellule alveolari ed endotelio capillare e nelle quali avviene lo scambio gassoso aria-sangue.
Clearance mucociliare Un ruolo fondamentale nella difesa dell’apparato respiratorio è svolto dalla clearance mucociliare. A questo proposito è necessario prendere in considerazione le caratteristiche delle secrezioni bronchiali: le ghiandole
C
C
A
A
GR
C
C A
A
Figura 14.3 - Rappresentazione schematica della zona di scambio gassoso polmonare. A = alveolo; C = capillare; GR = globulo rosso.
bronchiali producono una secrezione viscoelastica composta da un mezzo acquoso in cui si ritrovano disciolte: • sostanze ad attività antibatterica tra cui il lisozima e la ferritina, che sottrae il ferro ai batteri; • sostanze proteiche in parte provenienti dal sangue (albumina), in parte di produzione locale (IgA); • sostanze mucopolisaccaridiche in prevalenza acide e in minor quota neutre. Queste ultime sono le responsabili della viscoelasticità del muco, il quale è disposto in un doppio strato, gel verso l’esterno e sol verso la superficie mucosa. È in questo strato di sol che si muovono le ciglia. Le ciglia sono capaci di movimenti ritmici di tipo pendolare, la cui fase rapida è rivolta verso la laringe. In questo modo il materiale particolato penetrato nell’apparato respiratorio e adeso allo strato di muco viene eliminato, procedendo ad una velocità di circa 2 cm/min. Qualsiasi alterazione della struttura delle ciglia, e quindi della loro funzione, o delle caratteristiche reologiche del muco con aumento della viscosità, determina gravi danni a carico dell’apparato respiratorio. Tra gli altri fattori in grado di indurre un rallentamento del battito ciliare, vanno ricordati l’abbassamento della temperatura dell’aria inspirata o l’eccessiva introduzione di bevande alcoliche, che giustifica la maggiore suscettibilità allo sviluppo di infezioni respiratorie da parte degli etilisti cronici.
CENNI DI IMMUNOLOGIA DELL’APPARATO RESPIRATORIO La superficie respiratoria (circa 100 m2) è la più estesa area corporea a diretto contatto con l’ambiente ester-
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no; a questo livello si sono perciò sviluppati numerosi meccanismi di difesa la cui azione combinata previene l’insorgenza di patologie causate da contaminanti esterni, siano essi di natura fisica, chimica o biologica. Accanto alle difese di tipo meccanico, quali, per esempio, la clearance mucociliare, esistono nell’apparato respiratorio meccanismi immunologici specializzati nella prevenzione di aggressioni da parte di agenti infettivi in particolare. Tali meccanismi coinvolgono il versante umorale della risposta immune (per es., le IgA secretorie) o quello cellulare (per es., i macrofagi alveolari).
Difese umorali: le IgA secretorie Le IgA normalmente presenti a livello dell’apparato respiratorio sono strutturate in dimeri dell’unità fondamentale immunoglobulinica (Cap. 50) legati tra loro da una catena polipeptidica non immunoglobulinica, detta catena J (junction), e da un secondo frammento definito componente secretoria, che conferisce al dimero la capacità di attraversare le cellule epiteliali della parete bronchiale. La sintesi della molecola completa delle IgA secretorie avviene in due fasi distinte: nella prima fase si verifica la sintesi della IgA monomerica e della componente J da parte delle plasmacellule presenti nella sottomucosa. Le IgA vengono poi secrete dalle plasmacellule sotto forma di dimeri uniti alla catena J. In una seconda fase, durante l’attraversamento delle cellule epiteliali della mucosa, il dimero viene saldamente legato, mediante ponti disolfurici, alla componente secretoria: questa frazione è infatti prodotta dalle cellule dell’epitelio bronchiale e intestinale, oltre che da altri organi (rene, dotti ghiandolari, ecc.). Il ruolo delle IgA secretorie a livello della mucosa bronchiale è riconducibile a quello di una vera vernice immunologica che protegge la superficie respiratoria dalla aggressione da parte di agenti estranei con caratteri di antigeni. Per quanto riguarda le infezioni virali, sembra che le IgA siano in grado di prevenire o comunque di limitare la colonizzazione virale sull’epitelio della mucosa bronchiale. Per quanto attiene alla possibilità di difesa antibatterica, sembra che le IgA svolgano questa funzione in base alla proprietà di attivare il complemento per la via alternativa (Cap. 68) quando sono legate all’antigene. È inoltre dimostrato che le IgA sono in grado di ridurre l’adesività batterica sulla superficie mucosa. L’importanza di queste immunoglobuline nell’organizzazione della difesa immunitaria locale del polmone è provata dalle complicanze infettive o dallo sviluppo di bronchiectasie che frequentemente colpiscono soggetti portatori di deficit congenito selettivo delle IgA.
Difese cellulari: il macrofago alveolare La difesa immunitaria non specifica del polmone si vale eminentemente della presenza dei macrofagi alveo-
lari, che costituiscono la popolazione cellulare prevalente (> 80%) osservabile nel liquido di lavaggio broncoalveolare. Queste cellule, di origine monocitaria, migrano nel compartimento alveolare ove vanno incontro a processi moltiplicativi e differenziativi per l’adattamento alle condizioni aerobiche presenti a questo livello. La funzione di queste cellule è essenzialmente quella di depurare gli spazi alveolari da materiali organici o inorganici o da microrganismi provenienti dall’ambiente esterno. Per svolgere questa attività il macrofago alveolare è dotato di attiva capacità fagocitica e di un corredo enzimatico estremamente ricco (proteasi acide, lipasi, desossiribonucleasi, ecc.) e in grado di degradare la maggior parte della sostanze fagocitate. Il comportamento del macrofago alveolare è largamente influenzato dalle caratteristiche fisico-chimiche delle sostanze fagocitate. Nel caso di polveri inerti (per es., catrame) il macrofago svolge appieno la propria funzione di “spazzino”, fagocitando e degradando la particella e successivamente migrando attivamente in una regione ove possa risalire verso l’esterno tramite la clearance mucociliare, oppure nelle guaine linfatiche peribroncovascolari, da dove viene poi trasportato in stazioni linfoghiandolari o negli spazi subpleurici. Solo se inalate in grande quantità queste polveri possono superare le capacità di depurazione del sistema macrofagico e restare depositate nell’interstizio polmonare (come si verifica nelle pneumoconiosi). Lo stesso accade quando l’agente inalato è una sostanza citotossica (per es., biossido di silicio o asbesto) con l’aggravante che, dopo aver fagocitato queste sostanze citotossiche, il macrofago va incontro a lisi cellulare e alla liberazione degli enzimi lisosomiali che fanno parte del suo corredo enzimatico, innescando un processo che conduce ad un profondo danneggiamento del polmone. L’azione battericida, a livello dell’apparato respiratorio, si vale anche dell’apporto di anticorpi, prevalentemente della classe IgG, che fungono da opsonine, agevolando cioè la fagocitosi del macrofago, cui sono adese mediante il proprio tratto Fc. È bene ricordare che, poiché le molteplici attività illustrate vengono dinamicamente e continuamente svolte da questo tipo cellulare, l’eccessivo impegno per la depurazione di un agente inalato può compromettere l’efficacia di altri meccanismi difensivi (per es., l’attività battericida). È per esempio dimostrato che nei fumatori il compartimento macrofagico è meno funzionale ed esiste una maggiore suscettibilità allo sviluppo di infezioni batteriche. Il macrofago svolge infine un’azione di elaborazione degli antigeni e di produzione di citochine, iniziando così il processo immunitario.
FISIOPATOLOGIA DELLA RESPIRAZIONE La respirazione è un atto automatico, ancorché soggetto a controllo volontario, che assolve la funzione di ricambio costante di gas tra l’aria e il sangue, permet-
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tendo il passaggio continuo di ossigeno (O2) dall’aria al torrente circolatorio e la contemporanea rimozione dell’anidride carbonica (CO2) prodottasi per effetto del metabolismo tissutale. Già si è visto nelle pagine precedenti come l’apparato respiratorio si sia evoluto mirabilmente dal punto di vista anatomico per assicurare l’efficienza degli scambi gassosi con il minimo dispendio energetico e il massimo rendimento. Basti pensare che la superficie respiratoria, sede di tale processo, è di gran lunga la più estesa area corporea (circa 100 m2) a contatto con l’ambiente esterno. L’efficienza della respirazione è inoltre assicurata dall’armonica e contemporanea attività di tre funzioni, che nelle prossime pagine verranno esaminate: la ventilazione, che consente all’ossigeno di raggiungere gli alveoli, sede dello scambio gassoso, e alla CO2 di essere espulsa all’esterno; la diffusione, mediante la quale i gas possono attraversare le sottili pareti alveolari in modo bidirezionale e, infine, la perfusione ematica del polmone, che assicura il trasporto dell’ossigeno alla periferia e quello della CO2 prodotta dai tessuti al distretto alveolare.
Controllo della respirazione Perché respiriamo? La corretta risposta a questa domanda, apparentemente ovvia, prevede la conoscenza dei meccanismi che regolano gli atti respiratori, consentendo di mantenere normalmente entro limiti ristretti le concentrazioni dei gas nel sangue arterioso, anche qualora il loro fabbisogno (per l’O2) o la loro produzione (per la CO2) aumentino in modo notevole. La ritmicità della respirazione è conseguente all’attività autonoma (pacemaker) ed interdipendente di due gruppi di cellule neuronali presenti nella formazione reticolare del bulbo (centri respiratori bulbari) e associate in parte all’inspirazione ed in parte all’espirazione. Tali centri sono collegati sia alla periferia, tramite fibre nervose afferenti del nervo vago e del nervo glossofaringeo (si veda in seguito), sia a formazioni nervose situate più cranialmente, e precisamente nella sostanza reticolare del ponte (centri respiratori del ponte). Il centro apneustico pontino agisce in senso stimolatorio sulle cellule inspiratorie bulbari (la sezione del SNC subito al di sopra di tale struttura produce atti inspiratori profondi seguiti da brevi e forzate espirazioni) ed è a sua volta controllato in senso inibitorio dal sovrastante centro pneumotassico (sezionando il SNC al di sopra di questo centro si ottiene una respirazione grossolanamente normale). I centri respiratori bulbari ricevono inoltre afferenze direttamente dalla corteccia cerebrale, sia di tipo eccitatorio sia inibitorio, che sono responsabili del possibile controllo volontario della respirazione. Su questo complesso sistema neurologico di regolazione intervengono in senso modulatorio stimoli di natura chimica e fisica. La ventilazione è infatti regolata dai livelli di CO2 e dal pH del sangue arterioso mediante chemoriflessi e da riflessi da trazione originati dal polmone, dalla parete toracica e da altre zone dell’albero respiratorio.
La risposta ventilatoria alla CO2 costituisce indubbiamente il segnale più sensibile ed importante per il controllo periferico della respirazione, ed è primariamente dovuta alle variazioni del pH del liquido cefalorachidiano che, come è noto, possono prodursi per alterazioni nella concentrazione di questo gas nel sangue arterioso. A livello del pavimento del IV ventricolo cerebrale esistono infatti chemorecettori sensibili a variazioni del pH microambientale, che stimolano la ventilazione in caso di incrementi anche modesti dell’acidità del liquido cefalorachidiano. La sensibilità di questo sistema regolatorio è accresciuta dal fatto che il liquido cefalorachidiano, a causa del suo scarso contenuto cellulare e proteico, ha un potere tampone molto inferiore a quello del sangue in toto. Meno ragguardevole è lo stimolo iperventilatorio conseguente in modo diretto ad aumenti della PCO2 arteriosa, che origina dai recettori vasosensibili aortici e carotidei. Pure una riduzione della PO2 arteriosa stimola la ventilazione, anche in questo caso mediante riflessi originati dai chemorecettori aortici e carotidei e condotti dai nervi vago e glossofaringeo. Va però affermato che tale stimolo di per sé non è efficace quanto quello rappresentato dagli incrementi di PCO2, e la sua maggiore importanza sta proprio nel sinergismo che si realizza quando le due condizioni (aumento della PCO2 e diminuzione della PO2) sono contemporaneamente presenti. Questo fenomeno, molto rilevante dal punto di vista fisiopatologico, viene chiamato interazione tra stimolo da alta CO2 e da basso O2. Tra gli stimoli fisici che regolano la respirazione, il più importante è il riflesso da inflazione, o riflesso di HeringBreuer, che origina da stimoli condotti dal vago e provenienti da recettori di distensione presenti a livello bronchiale e del parenchima polmonare, e che consiste nella interruzione dell’inspirazione quando il volume polmonare raggiunge un valore soglia. Osservazioni recenti hanno tuttavia ridimensionato il ruolo svolto da questo riflesso, particolarmente nei confronti dei volumi polmonari normali; esso si instaurerebbe quando il volume di aria introdotto ad ogni atto respiratorio (e definito volume corrente), supera i 1000 ml (cioè è circa doppio rispetto al normale). Avendo dato una prima parziale risposta al quesito “perché respiriamo”, è bene analizzare le modalità secondo le quali la respirazione si compie, che, come abbiamo visto, comprendono i meccanismi della ventilazione, della diffusione e della perfusione e le relazioni tra queste funzioni.
Ventilazione La ventilazione è il meccanismo mediante il quale l’aria presente a livello alveolare, desaturata di O2 ed arricchita in CO2 proveniente dal sangue venoso misto polmonare, viene costantemente ricambiata con aria atmosferica, che ha un’elevata PO2 ed è praticamente priva di CO2 (Tab. 14.1). Questo processo comprende aspetti statici, legati alle caratteristiche di elasticità del complesso polmoni-gabbia toracica, e dinamici, rappre-
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Tabella 14.1 - Pressioni parziali dei gas respiratori (in mmHg).
• • • • •
Aria inalata Vie aeree Alveoli Sangue arterioso Sangue venoso
PO2
PCO2
PN2
156 149 100 97 50
0 0 40 40 46
589 564 573 573 573
sentati prevalentemente dalle resistenze offerte al flusso aereo nelle vie respiratorie. L’attività ventilatoria è possibile grazie all’operato dei muscoli inspiratori principali, come il diaframma, mentre la fase espiratoria, in condizioni basali, si compie in modo passivo: il ritorno elastico polmonare tende a riportare l’organo al livello di volume preinspiratorio. La distensibilità del polmone isolato, che viene valutata con l’esame delle variazioni di volume dell’organo ottenibili applicando una pressione positiva all’interno delle vie aeree, è definita compliance polmonare, e ai volumi polmonari normali si aggira intorno ai 200 ml/cmH2O. La figura 14.4 rappresenta una tipica curva pressione-volume e dimostra come ai volumi polmonari
più alti la compliance tenda a ridursi progressivamente, essendo necessaria una pressione elevata per ottenere piccole variazioni di volume. Pur essendo questo parametro di fondamentale importanza per l’esplorazione funzionale delle caratteristiche statiche dell’organo, è bene considerare che in pratica polmoni e gabbia toracica formano un complesso mantenuto solidale dalla depressione intrapleurica e che va studiato nel suo insieme. Durante l’inspirazione si crea infatti una depressione nelle vie aeree che genera un flusso d’aria diretto dalla bocca agli alveoli, mentre nel corso dell’espirazione si realizza il fenomeno inverso. La figura 14.5 mostra la relazione pressione-volume del complesso polmoni-gabbia toracica, comparata alla stessa curva ottenibile sul polmone isolato (a destra nel diagramma) o sulla gabbia toracica isolata (a sinistra). La curva centrale è l’unica valutabile in vivo. Viene costruita facendo respirare un soggetto in uno spirometro e ponendo un sondino esofageo per misurare le variazioni di pressione. Il soggetto in esame viene invitato ad eseguire una manovra massimale inspiratoria e successivamente viene misurata la pressione esofagea a glottide
% CPT 100 –10 cmH2O 90
100%
70
60
–2,5 cmH2O
50
50%
Polm one (P)
Volume
Parete toracica a riposo
P+ G
80
Ga bbia tor. (G)
Pressione intrapleurica
Pausa espiratoria
CV
40
30
20 Polmone a riposo 0 +10
0
–10
–20
VR
10
–30
Pressione intrapleurica
0 –20
Figura 14.4 - Curva pressione-volume del polmone isolato: si noti la differente compliance rilevabile nelle varie zone polmonari (più elevata nelle zone basali, più bassa in quelle apicali). La linea tratteggiata rappresenta una curva ottenibile in patologie polmonari caratterizzate da una ridotta compliance.
–10
0
+10
+20
+30
Pressione nelle vie aeree (cmH2O)
Figura 14.5 - Curva pressione-volume del polmone isolato (P), della gabbia toracica isolata (G) e del complesso polmone-gabbia toracica (P + G). CPT = capacità polmonare totale. (Per la spiegazione si rimanda al testo.)
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tale (CV) corrisponde al massimo di aria ventilabile ed è ottenuta sottraendo il volume residuo alla capacità polmonare totale (CV = CPT – VR = 5000 ml circa). Vedremo nelle prossime pagine come la misura del VR, che riveste una grande importanza diagnostica, richieda il ricorso ad uno strumento particolare, il pletismografo corporeo, oppure a tecniche di diluizione di un gas indicatore. Respirando normalmente, ad una frequenza di 12-15 atti respiratori/min, l’aria totale ventilata è pari a circa 500 × 15 = 7500 ml/min. Non tutta questa quantità è tuttavia realmente disponibile agli scambi gassosi, poiché essa in parte si distribuisce nelle vie aeree di conduzione: questo volume è pari a circa 150 ml e viene definito spazio morto anatomico (SMA). La ventilazione alveolare al minuto è perciò ottenibile dalla formula (500 – 150) × 15/min ed è pari a circa 5200 ml/min. L’importanza pratica di tale assunto consiste nel fatto che per aumentare la quantità reale di aria disponibile per gli scambi gassosi è più conveniente incrementare la profondità degli atti respiratori (cioè il VC) piuttosto che la loro frequenza; in quest’ultimo caso infatti, poiché ad ogni atto respiratorio circa 150 ml di aria si distribuiscono nello spazio morto anatomico, si avrà un notevole aumento dell’aria non scambiabile a livello alveolare. Oltre allo spazio morto anatomico, deve essere considerato lo spazio morto fisiologico (SMF), che comprende, oltre allo spazio morto anatomico, anche quella quantità di aria che raggiunge unità alveolari non perfuse. Vedremo in seguito che questa condizione si realizza fisiologicamente in alcuni distretti alveolari delle regioni apicali, ma nel soggetto normale ha un’importanza trascurabile: lo SMF può invece aumentare considerevolmente in alcune situazioni patologiche. Un ulteriore aspetto fisiologico della ventilazione meritevole di approfondimento riguarda le differenze riscontrabili nelle varie regioni polmonari, dagli apici alle basi.
chiusa (in assenza di flusso, quindi). Desufflando progressivamente la gabbia toracica ad intervalli fissi e registrando le rispettive pressioni esofagee è possibile quindi ottenere la “curva pressione-volume in rilasciamento del sistema toraco-polmonare”. Si può osservare in figura come vi sia un punto in cui la pressione è 0: si tratta del punto di equilibrio tra le due forze contrastanti, quelle generate dal polmone che tende a rimpicciolirsi e quelle generate dalla gabbia toracica che tende a dilatarsi. Questo fenomeno è ben dimostrabile introducendo dell’aria nel cavo pleurico e annullando così la depressione intrapleurica (che mantiene solidali polmoni e gabbia toracica): si osservano allora una parziale dilatazione del torace e una contemporanea riduzione del volume polmonare. La figura 14.5 dimostra inoltre che il volume di equilibrio per il polmone (quello in cui l’organo non ha più tendenza a collassare spontaneamente) è addirittura inferiore al volume residuo (cioè al minimo volume polmonare ottenibile con una prolungata espirazione), mentre quello della gabbia toracica (quando viene meno la sua tendenza ad espandersi) corrisponde al 75% circa della capacità vitale (si veda in seguito). Veniamo ora alla definizione dei volumi polmonari statici, che sono illustrati nella figura 14.6. Durante la respirazione tranquilla si ha ad ogni atto respiratorio la costante immissione ed emissione di una certa quantità di aria, che viene definita volume corrente (VC) ed è pari a circa 500-700 ml nel normale. Un’inspirazione profonda consente di incrementare al massimo il volume polmonare, fino al raggiungimento della capacità polmonare totale (CPT), che è intorno ai 6 l nell’adulto. D’altra parte, prolungando quanto più è possibile la espirazione, si espelle una certa quantità di aria (riserva espiratoria), ma non tutta quella presente nei polmoni. Quest’ultima è detta volume residuo (VR) ed è pari a circa 1200 ml, mentre il volume di aria contenuto nei polmoni al termine di una espirazione tranquilla è definito capacità funzionale residua (CFR). La capacità vi-
CV = 5.000 ml ca. VC = 500 ml ca.
CV CPT = 6.000 ml ca. CFR = 2.500 ml ca. VR = 1.200 ml ca.
CPT
VC
CFR VR
Figura 14.6 - Valutazione dei volumi polmonari statici mediante spirometria. CV = capacità vitale; VC = volume corrente; CPT = capacità polmonare totale; CFR = capacità funzionale residua; VR = volume residuo.
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14 - APPARATO RESPIRATORIO: STRUTTURA E FUNZIONI
Le zone basali del polmone sono in condizioni normali più ventilate di quelle apicali e ciò è largamente dovuto a ragioni gravitazionali: facendo decombere un soggetto in posizione supina, si osserva infatti che in questo caso le zone posteriori dell’organo ventilano di più rispetto a quelle anteriori. La spiegazione di questo fenomeno sta nei diversi valori della depressione intrapleurica presenti ai vari livelli dell’organo (Fig. 14.4). Essa infatti è meno negativa nelle regioni basali, con un gradiente totale tra apici e basi di circa 10 cmH2O. Questa differenza pressoria permette di “sostenere” il polmone in ortostatismo, ma fa sì che le regioni basali (sottoposte ad una minore trazione da parte della depressione pleurica e quindi meno espanse) siano più distensibili, si trovino cioè in una porzione più ripida della curva pressione-volume. Al contrario, le regioni apicali sono relativamente più espanse di quelle basali a causa della maggiore depressione intrapleurica, e la loro compliance è perciò minore (si è in una porzione più piatta della curva pressione-volume). Questa situazione può essere meglio compresa se si paragonano le basi polmonari ad un palloncino semisgonfio e perciò più facile da insufflare, e gli apici ad un palloncino già molto gonfio, nel quale poca aria può essere introdotta ed unicamente insufflandola ad elevate pressioni. Dopo aver considerato gli aspetti statici della ventilazione, è bene soffermarsi brevemente su quelli dinamici, che acquistano grande rilievo in alcune condizioni patologiche; questi sono essenzialmente rappresentati dalla resistenza tissutale al processo di ventilazione, che ha in condizioni normali un’importanza trascurabile, ma può aumentare notevolmente in soggetti gravemente obesi, nella cifoscoliosi e nelle fibrosi polmonari, e dalla resistenza delle vie aeree, che costituisce invece uno dei fattori in grado di esercitare la maggiore influenza sulla funzione respiratoria. È noto dalla fisiologia che la resistenza è il fattore che determina una caduta di pressione ai due estremi di un tubo nel quale si abbia un flusso di gas o di liquido, ed è espressa dalla relazione R = P/V (R, resistenza; P, gradiente pressorio ai due estremi del tubo; V, flusso). Le caratteristiche della resistenza ad un flusso laminare in tubi rigidi sono ben descritte dalla legge di Poiseuille: V = ( P1 – P2 )
Resistenza (cmH2O/sec) vie aeree 0,8
0,6
0,4
r4 8l
dove (P1–P2) rappresenta il gradiente pressorio, r4 la sezione del tubo al quadrato, 1 la lunghezza del tubo e la viscosità del fluido. Da questa relazione si deduce che: R=
ca nel determinare la resistenza al flusso aereo: piccole riduzioni del calibro bronchiale possono produrre notevoli aumenti della resistenza nelle vie aeree. È doveroso ricordare che un flusso laminare è presente solo nelle vie aeree di piccolo calibro, mentre nella trachea e nei grossi bronchi si sviluppa fisiologicamente un flusso con caratteri di turbolenza, che impongono di considerare alcuni fattori addizionali (espressi in fisiologia dal numero di Reynold); ciò non altera tuttavia l’importanza dei fattori ricordati nel determinare la resistenza al flusso aereo nell’albero respiratorio. La figura 14.7 mostra che la maggiore resistenza al flusso aereo è situata nelle vie aeree di calibro maggiore, fino alla settima generazione bronchiale; le vie aeree di calibro inferiore ai 2 mm contribuiscono normalmente in misura trascurabile (inferiore al 20%) alla resistenza globale. La spiegazione di questo fenomeno, apparentemente paradossale, sta nel numero prodigioso di piccole vie aeree, che rende l’area totale di sezione trasversale di questo tratto dell’albero respiratorio molto grande (Fig. 14.8). Come variano le resistenze nell’albero bronchiale durante le fasi della respirazione? Durante l’inspirazione il progressivo aumento del volume polmonare determina un lieve incremento del calibro bronchiale, in quan-
0,2
Bronchioli terminali
Bronchi segmentali
8l r4
cioè la resistenza al flusso laminare è direttamente proporzionale alla lunghezza del tubo ed alla viscosità del fluido e, ciò che è più importante, inversamente proporzionale alla quarta potenza del raggio del tubo! Con riferimento all’apparato respiratorio, ciò significa che il calibro delle vie aeree ha un’importanza criti-
0
5
10 15 Generazioni vie aeree
20
Figura 14.7 - Valori di resistenza al flusso nelle vie aeree in rapporto al calibro bronchiale. La maggior resistenza è presente nelle prime generazioni bronchiali. (Per la spiegazione, si rimanda al testo.)
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284
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Flusso (l/sec)
Area totale di sezione (cm2)
A = Forzata B = Submassimale C = Prima lenta, quindi forzata
A
500
B
400
C
300
200 Zona di conduzione
Zona respiratoria
CPT
Volume
–5
100 Bronchioli terminali
0
5
10
15
VR
–7 0
–2
0
0
20
Generazione vie aeree
Figura 14.8 - Area totale delle vie aeree in rapporto alla generazione bronchiale. A causa del loro numero elevato, le piccole vie aeree presentano un’area totale di sezione molto grande.
to le pareti bronchiali si distendono, per effetto della trazione esercitata dal parenchima polmonare sullo stroma elastico-connettivale di sostegno dei bronchi: per questo motivo durante l’inspirazione e in generale ai volumi polmonari più elevati le resistenze al flusso aereo sono minori. Ciò che accade nel corso dell’espirazione è invece rappresentato in figura 14.9 e permette di capire perché sia virtualmente impossibile espellere completamente l’aria contenuta nei polmoni, anche producendo un’espirazione forzata. La figura 14.9 mostra che, al termine di un’inspirazione tranquilla (Fig. 14.9, 3), mantenendo la glottide aperta, non vi è alcun gradiente pressorio tra gli alveoli e la bocca, per cui vi è assenza di flusso aereo. Le vie aeree sono tuttavia mantenute pervie dalla depressione intrapleurica, che è tanto maggiore quanto più elevato è il volume polmonare, a causa del ritorno elastico dell’organo. All’inizio dell’espirazione (Fig. 14.9, 4) aumenta la pressione tanto nel cavo pleurico che negli alveoli. In questi ultimi la pressione è uguale a quella del cavo pleurico più quella dovuta al ritorno elastico del polmone: permane perciò una pressione maggiore all’interno delle vie aeree rispetto all’esterno, che mantiene un’azione distensiva sui bronchi. Il gradiente pressorio tra l’interno e l’esterno delle vie aeree tende però a ridursi lungo il decorso dell’albero bronchiale, dagli alveoli alla laringe; a causa della resistenza incontrata dal flusso aereo lungo il suo percorso, la pressione all’interno dei bronchi tende infatti a diminuire. In teoria, perciò, deve esistere un punto all’interno delle vie aeree, in cor-
2 - Inspirazione
1 - Preinspirazione
–8
+ 30 0
3 - Fine inspirazione
0
+ 38
0
4 - Espirazione forzata
Figura 14.9 - Variazione delle resistenze nelle vie aeree durante la respirazione. Il diagramma superiore dimostra come la velocità di flusso espiratorio sia indipendente dallo sforzo nella parte terminale dell’espirazione. La parte inferiore della figura mostra il fenomeno della compressione dinamica delle vie aeree. (Per la spiegazione, si rimanda al testo.)
rispondenza del quale la pressione all’interno dei bronchi sarà uguale a quella all’esterno, e a valle del quale i bronchi risulteranno compressi (dato che la pressione esterna supererà quella interna). Questo punto è spostato prossimalmente verso gli alveoli da tre fattori: • la riduzione del gradiente di pressione tra interno ed esterno degli alveoli, ovvero (che è lo stesso) la riduzione di quella frazione di pressione totale endoalveolare che è dovuta al ritorno elastico del polmone (si noti bene: la frazione, non necessariamente il valore assoluto!); • l’aumento della resistenza delle vie aeree; • la compressibilità dei bronchi. Quanto più prossimale è il punto nel quale la pressione endobronchiale eguaglia quella all’esterno, tanto maggiori divengono le resistenze e tanto più ridotto risulta il flusso espiratorio.
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14 - APPARATO RESPIRATORIO: STRUTTURA E FUNZIONI
Questo fatto è importante se si considera quanto avviene nell’espirazione forzata, che è realizzata contraendo i muscoli espiratori ed incrementando la pressione intrapleurica. Diventa allora operativo il fattore prima ricordato (il ritorno elastico è invariato, ma la pressione totale endoalveolare è aumentata) e l’uguaglianza tra pressione endobronchiale e pressione esterna si verifica in un punto anatomicamente individuabile anche nel polmone normale. Questo fatto determina una regolazione del flusso espiratorio massimo (MEF), indipendentemente dall’entità dello sforzo espiratorio, dato che si bilanciano i due effetti contrastanti dell’incremento della pressione intratoracica (che tende ad aumentare il flusso) e dell’aumento delle resistenze (che tende a diminuirlo). Il MEF è quindi dipendente dal volume del polmone (quando questo è elevato il ritorno elastico è maggiore), dalla sua elasticità, dalla resistenza delle vie aeree e dalla loro compressibilità. Sono perciò chiari tre fatti: • il flusso massimo che si ottiene con un’espirazione forzata è ai valori più alti quando il polmone è totalmente disteso e si riduce man mano che diminuisce di volume (mentre le resistenze si comportano in senso opposto); • a un volume polmonare particolarmente basso il ritorno elastico è talmente modesto da non riuscire a vincere l’aumento delle resistenze (di fatto a questo punto la pressione positiva intratoracica, comprimendo le più fini diramazioni bronchiali, può determinarne la chiusura): a questo punto il flusso espiratorio diviene 0 ed il volume polmonare corrisponde al volume residuo; • a parità di volume, il flusso massimo che si ottiene con un’espirazione forzata dipende da caratteristiche intrinseche del polmone, come la sua elasticità, la pervietà e la compressibilità delle vie aeree.
Diffusione La diffusione dei gas attraverso la membrana alveolocapillare si compie in modo passivo, e il passaggio avviene perciò dal versante in cui il gas è più concentrato (dove ha cioè la più elevata pressione parziale) a quello in cui lo è di meno. Il principio che regola la diffusione di un gas attraverso una lamina di tessuto è espresso dalla legge di Fick, che afferma che la quantità di gas che diffonde in un tessuto nell’unità di tempo è direttamente proporzionale all’area (A) del tessuto e alla differenza di concentrazione del gas nei due versanti (P1 – P2) e inversamente proporzionale allo spessore del tessuto stesso (T): V gas =
A ( P1 – P2 ) D T
La relazione comprende anche una costante di diffusione (D) che è caratteristica di ciascun gas e dipende dalla sua solubilità e dal peso molecolare. È intuitivo
285
come la diffusione dei gas respiratori sia estremamente agevolata dalle caratteristiche della superficie di scambio a livello polmonare, che ha un’area enorme (80-100 ml) ed uno spessore ridottissimo (inferiore ad 1 m). Sulla base di queste conoscenze, è possibile analizzare il comportamento dei due gas respiratori per quanto attiene alla loro diffusione, che dipenderà quindi in larga misura dal gradiente pressorio presente ai due lati della membrana alveolare e dalle caratteristiche intrinseche di diffusibilità dei due gas. La tabella 14.1 mostra la composizione dell’aria alveolare, che ha una concentrazione di O2 (circa 100 mmHg) inferiore a quella dell’aria atmosferica ed una concentrazione di CO2 (40 mmHg) molto superiore. Ciò è in relazione al fatto che a livello alveolare si ha una commistione tra i gas di provenienza ematica e quelli inalati dall’esterno. La pressione parziale dei gas nel sangue venoso misto che giunge ai capillari polmonari è invece di 50 mmHg per l’O2 (pressoché totalmente legato all’emoglobina) e di 46 mmHg per la CO2. Esiste dunque a livello della membrana alveolo-capillare un gradiente pressorio nettamente favorevole all’O2 (+ 50 mmHg in direzione alveolo-sangue) rispetto a quello della CO2 (+ 6 mmHg in direzione sangue-alveolo). Questo “vantaggio” in favore dell’O2 è peraltro eliminato dalla notevole diffusibilità della CO2, che è circa 20 volte superiore a quella dell’O2: i due gas diffondono dunque attraverso la membrana alveolare in direzione opposta ma con velocità pressappoco uguali. Altri fattori importanti, oltre a quelli ricordati, sono tuttavia in grado di influenzare la diffusione transmembrana dei gas respiratori: i principali sono costituiti dalla velocità del flusso ematico a livello del capillare polmonare e dalle modalità di combinazione di O2 e CO2 con l’emoglobina. La figura 14.10 dimostra che in condizioni normali sia l’O2 che la CO2 diffondono molto rapidamente attraverso la membrana alveolare e la reazione raggiunge l’equilibrio (cioè le pressioni parziali nel sangue e nell’alveolo si eguagliano) quando il sangue venoso misto polmonare ha trascorso solo un terzo del tempo normalmente impiegato ad attraversare l’alveolo. Ciò costituisce un’importante riserva di diffusione e dimostra che anche un notevole aumento della velocità del flusso ematico nel piccolo circolo (per es., in seguito ad uno sforzo) non altera minimamente le pressioni parziali raggiunte dai due gas nel sangue arterioso. Tale situazione può essere patologicamente alterata o per riduzione del gradiente pressorio transmembrana o per aumento di spessore della membrana alveolare o, infine, per grave riduzione della superficie globale di scambio respiratorio: tutti questi fattori rallentano in misura variabile la velocità di diffusione dei due gas potendo condurre ad un mancato raggiungimento dei valori normali di O2 e CO2 nel sangue arterioso. È interessante notare, a titolo di esempio, che l’unica condizione fisiologica in cui può realizzarsi un’ipossiemia arteriosa è rappresentata dal compimento di uno sforzo a grandi altitudini, ove è presente una ridotta pressione atmosferica (e quindi una bassa pressione alveolare di O2).
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
PaO2 (mmHg) 100
Normale PaO2 (mmHg)
ico olog Pat 45 ico patolog Molto
50
Pat olo gico
40
Sforzo
Normale Sforzo
0 0,25 A.
0,50
0,75
1,00
0,25 B.
Tempo nel capillare (sec)
0,50
0,75
1,00
Tempo nel capillare (sec)
Figura 14.10 - Modalità di diffusione dei gas respiratori attraverso la membrana alveolo-capillare. La riserva di diffusione dei due gas, dovuta alla rapidità con la quale essi raggiungono le condizioni di equilibrio ai due versanti della membrana, spiega perché in condizioni patologiche (linee tratteggiate) le pressioni parziali dei due gas possono mantenersi entro limiti normali. Un aumento della velocità del flusso ematico (per es., dopo uno sforzo) può però condurre ad ipossiemia (A) ed ipercapnia (B).
Un’ultima ma importante considerazione riguarda le modalità di combinazione dei due gas respiratori con l’emoglobina (Hb). La curva di dissociazione dell’Hb per l’O2 ha la nota morfologia a “S” italica, con andamento molto ripido al centro e piatto ai due estremi (Fig. 14.11): si noti che ai valori di PO2 normalmente vigenti nell’alveolo (100 mmHg) la percentuale di saturazione dell’Hb si approssima al 100%. Ciò significa che un incremento anche notevole della PO2 in un alveolo già ventilato in modo efficiente ha
Perfusione polmonare e relazioni ventilazione/perfusione
% Hb satura 100
80
60 t°
PCO2
60
80
pH
40
20
0
effetti trascurabili sulla percentuale di saturazione dell’Hb per questo gas. Al contrario, la dissociazione dell’emoglobina per la CO2 avviene in modo pressoché lineare, e quindi una riduzione della pressione di questo gas a livello alveolare si accompagna ad una proporzionale diminuzione della sua concentrazione nel sangue capillare che lascia gli alveoli. Le conseguenze cliniche di questo diverso comportamento sono notevolissime e verranno esaminate a proposito dell’insufficienza respiratoria.
20
40
100
PO2 (mmHg)
Figura 14.11 - Curva di dissociazione dell'emoglobina per l’O2. La curva è spostata a destra (diminuzione di affinità dell’Hb per l’O2) da aumenti della temperatura e della PCO2 oltre che da riduzioni del pH.
Il piccolo circolo, attraverso il quale passa ovviamente la stessa quantità di sangue che nel circolo sistemico, è un sistema vascolare a bassa resistenza, costituito da arterie prevalentemente a struttura elastica, regolato in senso vasomotorio dalle arteriole precapillari (1001000 di diametro) a struttura muscolare e che si distribuisce in un numero enorme di capillari (300 miliardi) lunghi 10-14 con diametro di 7-9 , nei quali i globuli rossi scorrono in unica fila. Nel piccolo circolo vige una pressione assai bassa e pertanto la circolazione polmonare risente in modo spiccato della forza di gravità. Distinguiamo tre zone polmonari: • una zona superiore, ove la pressione alveolare è più alta di quella arteriolare e venulare; qui la circolazione è assai ridotta e il rapporto ventilazione/perfusione è elevato; questa zona viene perfusa con aumenti di portata (sforzo) in caso di elevazione di pressione nel piccolo circolo e rappresenta quindi una zona di riserva (definita spazio morto fisiologico);
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14 - APPARATO RESPIRATORIO: STRUTTURA E FUNZIONI
• una zona intermedia, ove la pressione alveolare è superiore a quella venulare ma inferiore a quella arteriolare; • una zona inferiore, in cui sia la pressione arteriolare che quella venulare superano la pressione alveolare e la perfusione dipende dal gradiente pressorio arteriolo-venulare; il rapporto ventilazione/perfusione è inferiore all’unità in questa regione polmonare. Oltre alla forza di gravità, anche altri fattori sono in grado di interferire nella regolazione della perfusione polmonare: alcuni di essi sono di origine riflessa, come la arteriolocostrizione da stimolazione ipossica o da elevazione della pressione atriale sinistra; la ipossiemia, capace di produrre vasocostrizione diretta delle arteriole precapillari ha pertanto un significato finalistico: quello di deviare il sangue da regioni ipoventilate ad altre normoventilate, onde mantenere il più possibile omogeneo il rapporto ventilazione/perfusione. Anche l’acidosi possiede un’azione vasocostrittrice che può risultare sinergica con quella dell’ipossiemia. Molte sostanze hanno azione sul piccolo circolo ma il loro significato fisiologico è incerto (epinefrina, isoproterenolo, serotonina, istamina). Il polmone è dotato inoltre del circolo arterioso bronchiale che provvede all’irrorazione delle vie aeree, mentre la pleura viscerale è irrorata dal circolo polmonare.
Prove di funzionalità respiratoria L’esplorazione strumentale delle funzioni polmonari descritte nelle pagine precedenti rappresenta un presidio diagnostico indispensabile in ambito pneumologico. Inoltre, un corretto approccio terapeutico non può prescindere in questo campo dalla conoscenza il più possibile accurata della funzionalità respiratoria prima e dopo il trattamento che si intende instaurare. A. Ventilazione. Lo studio delle proprietà statiche del polmone viene eseguito misurando la compliance dell’organo ed i volumi polmonari statici. La valutazione della compliance è un’indagine piuttosto complessa poiché prevede l’introduzione di un palloncino pressostatico all’interno dell’esofago per la registrazione indiretta dei regimi pressori intrapleurici ai vari volumi polmonari (si tratta di costruire una curva pressione-volume), e viene perciò riservata a condizioni cliniche particolari. La valutazione della compliance polmonare può essere eseguita registrando la pressione intraesofagea dopo qualche secondo che il soggetto ha raggiunto un certo volume polmonare (compliance statica), ovvero nel corso di una respirazione continua a diverse frequenze respiratorie (compliance dinamica o dipendente dalla frequenza). Quest’ultima valutazione consente di mettere in luce l’eventuale presenza di unità polmonari meno ventilate rispetto alla norma, in quanto all’aumentare della frequenza respiratoria il difetto di venti-
287
lazione in queste zone tenderà ad aggravarsi (perché l’aria inspirata avrà meno tempo per raggiungere gli alveoli ipoventilati) e quindi le variazioni di volume globale del polmone, per una data pressione intraesofagea, saranno minori (si avrà cioè una progressiva riduzione della compliance all’aumentare della frequenza respiratoria). La compliance polmonare statica è aumentata nell’enfisema polmonare, a causa della perdita di ritorno elastico dell’organo, che diviene più distensibile, mentre è caratteristicamente ridotta nelle malattie interstiziali polmonari o qualora sia presente una congestione venosa del piccolo circolo (per es., in corso di insufficienza ventricolare sinistra). I volumi polmonari statici vengono misurati con uno spirometro, costituito da una campana mobile, collegata ad una penna scrivente, che oscilla in seguito agli atti respiratori che il soggetto compie in un boccaglio collegato allo strumento. Uno spirometro corredato di un analizzatore di gas, comunemente elio, consente di valutare la capacità funzionale residua (CFR) e di conseguenza anche il VR e la CPT. In alternativa può essere usato il pletismografo corporeo, costituito da un box chiuso entro il quale il soggetto compie atti respiratori mediante un boccaglio che permette la registrazione della P nelle vie aeree. Contemporaneamente vengono registrate le variazioni di volume all’interno del box, che sono proporzionali alle variazioni di volume della gabbia toracica nel suo insieme. Mediante la spirometria è possibile inoltre analizzare gli aspetti dinamici della ventilazione, cioè le variazioni di volume polmonare in funzione del tempo, che consentono anche, in misura diretta o indiretta, di valutare le resistenze delle vie aeree. La principale tra queste valutazioni, per i suoi risvolti pratici, è sicuramente rappresentata dal volume espiratorio massimo al primo secondo (VEMS o, per gli Autori anglosassoni, Forced Expiratory Volume, FEV1): questa prova funzionale consiste nel misurare la quantità di aria espulsa nel primo secondo di un’espirazione forzata partendo dalla CPT, e nel normale corrisponde all’80% circa della CV. Il rapporto tra il VEMS e la CV è definito indice di Tiffeneau e normalmente è appunto pari a 0,8 circa; si vedrà in seguito quale sia la sua importanza pratica nella diagnostica pneumologica. Indicazioni simili al VEMS fornisce la valutazione della massima velocità di flusso medio espiratorio (Maximal Middle Expiratory Flow Rate, MMFR) al 75% e al 25% della CV, la cui misurazione è illustrata nella figura 14.12 e che dà una stima della pendenza della curva ottenibile durante una espirazione forzata ponendo i volumi polmonari in funzione del tempo. Grande valore diagnostico ha inoltre l’esame della curva flusso/volume (Fig. 14.13), ottenuta con uno pneumotacografo, che mette in relazione la velocità del flusso espiratorio (in 1/sec) ai volumi polmonari. Questa valutazione viene ottenuta facendo espirare forzatamente il soggetto, al termine di una inspirazione profonda, dalla CPT al VR e misurando contemporaneamente il flusso espiratorio. La figura dimostra come la fase ascendente della curva presenti una notevole pendenza in condizioni norma-
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
0
Litri
1
MMFR 25-75
2 VEMS = 80% CV (FEV1) 3
4
0
1
2
3
4
Tempo (sec)
Figura 14.12 - Determinazione del VEMS e della MMFR su una curva di espirazione forzata. (Per la spiegazione si rimanda al testo.)
Normale Ostruttivo Restrittivo
Flusso (l/sec)
Volume polmonare CPT
VR
Figura 14.13 - Aspetto della curva flusso/volume in condizioni normali (linea continua) e patologiche (linea tratteggiata). (Per la spiegazione si rimanda al testo.)
li, mentre la fase discendente appare decisamente meno inclinata: la morfologia della curva flusso/volume è una diretta conseguenza delle resistenze presenti nelle vie aeree, che, come abbiamo visto, sono minime agli alti volumi polmonari (in cui il calibro bronchiale è maggiore) ed aumentano progressivamente via via che il volume polmonare si riduce e la compressione dinamica delle vie aeree si verifica sempre più prossimalmente rispetto agli alveoli. L’analisi della curva flusso/volume consente perciò di ottenere utili informazioni particolarmente sullo stato della resistenza nelle vie aeree. A questo proposito è bene ricordare che l’andamento della curva flusso/volume è influenzato prevalentemente dalla collocazione del punto in cui avviene la compressione delle vie aeree durante l’espirazione forzata, secondo le modalità illu-
strate nella figura 14.9; poiché la caduta di pressione nelle vie respiratorie si verifica secondo un gradiente in direzione alveoli-bocca, il punto in cui la pressione endobronchiale e quella intrapleurica sono in equilibrio sarà inizialmente nelle prime diramazioni bronchiali e tenderà a spostarsi via via più prossimalmente rispetto agli alveoli nel corso dell’espirazione, a causa della progressiva riduzione del gradiente pressorio che è all’origine del flusso aereo. Ciò significa che la parte iniziale della curva flusso/volume (ai più alti volumi polmonari) è influenzata dalla resistenza nelle vie aeree maggiori, mentre quella terminale (per es., a volumi corrispondenti al 50% o al 25% della CV) riflette il grado di resistenza presente nelle piccole vie aeree. Una valutazione approssimativa delle resistenze presenti nelle vie aeree di maggior calibro può quindi essere desunta misurando il picco di flusso, cioè la massima velocità del flusso aereo ottenibile nel corso di una espirazione forzata. Generalmente il picco di flusso (valori normali circa 10 l/sec) si raggiunge entro il primo secondo dell’espirazione forzata e il suo significato in termini funzionali non si discosta molto da quello del VEMS. Tale parametro è però facilmente valutabile con semplici apparecchi disponibili in commercio e che il paziente può impiegare da solo domiciliarmente, ottenendo così informazioni frequenti sul grado di resistenza delle vie aeree in condizioni basali o in seguito alle terapie praticate. L’esame del flusso espiratorio a volumi polmonari progressivamente minori (si usa il termine massimo flusso espiratorio al 75, 50, 25% della CV o, secondo la terminologia anglosassone, Maximal Expiratory Flow, MEF 75, 50, 25%) sembra invece fornire indicazioni sufficientemente attendibili sulla resistenza nelle piccole vie aeree, che, come ricordato in precedenza, non contribuiscono in condizioni normali per più del 20% alle resistenze globali e risultano quindi difficilmente valutabili con le comuni indagini funzionali. Esistono poi altri test specialistici che consentono di esaminare la resistenza nelle piccole vie aeree, ma la loro conoscenza va oltre gli scopi della presente trattazione. Oltre alla valutazione indiretta delle resistenze nelle vie aeree ottenibili con la misura del VEMS, del MMFR o con l’analisi della curva flusso/volume, è possibile una misurazione diretta di questo parametro mediante l’impiego del pletismografo corporeo, che consente di calcolare sia la pressione nelle vie aeree sia il flusso espiratorio. Le resistenze delle vie aeree si esprimono come differenza di pressione tra gli alveoli e la bocca per unità di flusso aereo (cmH2O/l/sec). Le prove funzionali esposte fino a questo momento, che esplorano gli aspetti statici e dinamici della ventilazione, consentono di individuare due tipi fondamentali di patologia: in un caso si ha un disturbo caratterizzato essenzialmente da un aumento delle resistenze nelle vie aeree (sindrome ostruttiva), mentre nell’altro caso le resistenze appaiono normali ma si osserva una armonica riduzione dei volumi polmonari statici (sindrome restrittiva); non infrequentemente, tuttavia, si hanno quadri misti (sindrome disventilatoria di tipo
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14 - APPARATO RESPIRATORIO: STRUTTURA E FUNZIONI
Volume
Normale
Tempo
0
1
2
Ostruttivo
CV
sec
0
1
2
3
Restrittivo
CV
sec
0
1
5l
CV
5l
CV
3l
VEMS
4l
VEMS
1l
VEMS
2,8 l
%
80
%
33
%
90
CV
CV
2 sec
Figura 14.14 - Morfologia della curva di espirazione forzata in condizioni normali e in presenza di alterazioni di tipo ostruttivo o restrittivo.
misto), che condividono alcune caratteristiche di ambedue le condizioni. La sindrome ostruttiva, espressione di incremento delle resistenze al flusso aereo, consegue più spesso a malattie in cui si abbia spasmo della muscolatura liscia bronchiale (asma) o riduzione del calibro bronchiale dovuta a edema della mucosa o ad ipersecrezione (bronchite cronica); infine, anche l’enfisema polmonare, caratterizzato da una perdita di strutture connettivali ed elastiche e da più facile collassabilità del polmone, può dare luogo ad alterazioni funzionali di tipo ostruttivo. Le alterazioni principali dal punto di vista funzionale consistono in un aumento del VR, dovuto al più precoce incremento delle resistenze nelle vie aeree durante l’espirazione, che condiziona un maggior intrappolamento di aria nei polmoni quando il flusso respiratorio diviene 0 e che può accompagnarsi ad un aumento consensuale della CPT; la CV è invece generalmente normale o al più lievemente ridotta. Poiché l’aumento del VR è particolarmente spiccato nell’enfisema, l’incremento del rapporto VR/CPT (o indice di Motley), normalmente inferiore a 0,3, viene considerato un indice funzionale di enfisema. Nella tipica sindrome ostruttiva si ha inoltre costantemente una riduzione del VEMS, del rapporto VEMS/CV (indice di Tiffeneau) e del MMFR (Figg. 14.14 e 14.15). Alterata è pure la morfologia della curva flusso/volume, che presenta una riduzione del picco di flusso ed un aspetto concavo nella fase discendente (Fig. 14.13) con riduzione del MEF50 e del MEF25, particolarmente quando si abbia un coinvolgimento delle piccole vie aeree. La sindrome restrittiva, caratterizzata da una riduzione di tutti i volumi polmonari statici, si realizza in
qualsiasi condizione morbosa, a carico del polmone o della gabbia toracica, in cui sia presente una ridotta distensibilità (compliance) dell’organo. Ciò può accadere per effetto di gravi malformazioni scheletriche (cifoscoliosi, ecc.), o ancora in seguito ad alterazioni fibrotiche dei foglietti pleurici o del parenchima polmonare (pneumopatie diffuse interstiziali); anche la congestione venosa del piccolo circolo, secondaria ad insufficienza ventricolare sinistra, rende il polmone meno distensibile producendo tipiche alterazioni restrittive. Va precisato tuttavia che la sindrome restrittiva pura è, come tale, piuttosto infrequente, associandosi non di rado ad un variabile grado di ostruzione. Dal punto di vista funzionale si osserva in questi casi la riduzione “armonica” (i rapporti tra le varie capacità sono cioè mantenuti) di CPT, CV e VR, mentre il VEMS è generalmente ridotto in valore assoluto, ma il rapporto VEMS/CV può essere normale o addirittura aumentato. Nella tipica sindrome restrittiva, essendo inalterate le resistenze, la curva flusso/volume ha l’aspetto illustrato in figura 14.13 con la fase iniziale della curva molto ripida (anche se il picco di flusso è in assoluto diminuito) e la fase terminale tendenzialmente convessa (cioè il MEF50, 25 è inalterato o aumentato rispetto al volume polmonare). B. Diffusione. Le prove di funzionalità respiratoria che riguardano l’esame della capacità di diffusione sono anch’esse di grande importanza, ma di più complessa esecuzione. Il test più utilizzato è quello della diffusione del monossido di carbonio (CO) mediante respiro singolo: il CO viene utilizzato poiché si lega molto avidamente con l’Hb e la sua diffusibilità è no-
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Normale
Restrittivo
Ostruttivo
CPT 75%
75%
75% 50%
Volume (I)
a
50%
a 25%
a
50%
b b
25%
25% b
MMFR: 1,4
MMFR: 3,5
VR
MMFR = Tempo (sec)
MMFR: 3,7
a b
Figura 14.15 - Determinazione del MMFR in condizioni normali e nelle sindromi di tipo ostruttivo o restrittivo.
tevolissima, caratteristiche che consentono un rapidissimo attraversamento della membrana alveolo-capillare, rendendo pressoché ininfluente in questo processo la perfusione alveolare (che, come abbiamo visto, può invece condizionare il più lento passaggio transmembrana di CO2 ed O2). Nel test del “respiro singolo” viene fatta inalare una concentrazione nota di CO in una miscela gassosa e viene misurata la sua concentrazione nell’aria espirata dopo 10 sec di apnea, risultando, quindi, inversamente proporzionale alla diffusione di questo gas. La capacità di diffusione è tipicamente ridotta qualora sia presente un ispessimento della membrana alveolo-capillare (come nelle pneumopatie diffuse interstiziali), ma anche in presenza di un’estesa distruzione delle superfici di scambio respiratorio; è questo il caso dell’enfisema di tipo panacinare (Cap. 16). Va infine ricordato che la completa esplorazione della funzione respiratoria non può prescindere dalla misurazione delle concentrazioni dei gas respiratori nel sangue arterioso (emogasanalisi): solo conoscendo questi valori è possibile diagnosticare l’entità e ricercare le esatte cause di una insufficienza respiratoria.
INSUFFICIENZA RESPIRATORIA Con il termine insufficienza respiratoria (IR) si definisce una condizione clinica caratterizzata da un difetto di ossigenazione del sangue, con riduzione della pressione arteriosa di O2 (ipossiemia), conseguente ad una alterazione dello scambio gassoso a livello polmonare. L’ipossiemia, che è l’elemento saliente dell’insufficienza respiratoria, può o meno essere associata ad incremento della pressione arteriosa di CO2 (ipercapnia). L’insufficienza respiratoria viene definita laten-
te quando le tensioni dei gas nel sangue arterioso sono normali in condizioni di riposo, ma tendono ad alterarsi in seguito a sforzi ben tollerati dal soggetto normale. Si parla invece di insufficienza respiratoria manifesta quando l’alterazione emogasanalitica è già presente a riposo. Eziopatogenesi. Una classificazione eziopatogenetica della IR è data nella tabella 14.2, ove sono illustrati i quattro meccanismi patogenetici principali che verranno descritti in seguito; è bene ricordare che nella maggior parte dei casi in ogni condizione morbosa capace di condurre ad IR sono operanti contemporaneamente due o più tra i meccanismi elencati ed è spesso difficile identificare con precisione l’alterazione patogenetica primariamente responsabile del disturbo.
Alterazioni del rapporto ventilazione/perfusione (VA/Q) È questo sicuramente il meccanismo patogenetico più comune in corso di insufficienza respiratoria (Fig. 14.16) e si verifica ogni qualvolta vi sia una diffusa disomogeneità sia della ventilazione polmonare che della perfusione dell’organo, con perdita dei normali rapporti tra le due funzioni. Si è già detto dell’esistenza di riflessi tesi a mantenere il più possibile omogeneo il rapporto VA/Q, come il riflesso di vasocostrizione ipossica di von Euler o quello di broncocostrizione, che esclude dalla ventilazione alveoli non adeguatamente perfusi. Tuttavia gli squilibri tra ventilazione e perfusione non sono completamente eliminabili, e il sangue che lascia gli alveoli più perfusi che ventilati sarà più ricco in CO2 e più povero in O2. Il sangue che lascia gli alveoli più ventilati che perfusi sarà invece più povero di CO2 ma non più ricco di O2 che di norma: questo deriva dalla
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14 - APPARATO RESPIRATORIO: STRUTTURA E FUNZIONI
Tabella 14.2 - Classificazione eziopatogenetica dell’insufficienza respiratoria (IR). 1. IR da prevalente difetto di ventilazione alveolare • Alterazioni del SNC con depressione dei centri respiratori – Tossiche (barbiturici, oppiacei, gas narcotici, CO, CO2 ad alte concentrazioni) – Traumatiche – Neoplastiche (tumori cerebrali con aumento della pressione endocranica) – Degenerative (sclerosi laterale amiotrofica) – Idiopatiche (sindrome di Pickwick) • Alterazioni midollari con difettosa funzione dei muscoli respiratori – Infettive (poliomielite anteriore acuta) – Traumatiche – Degenerative (sclerosi laterale amiotrofica) • Alterazioni del sistema nervoso periferico • Alterazioni neuromuscolari – Poliradicolonevriti (sindrome di Guillain-Barré) – Tossiche (stricnina, curaro, anticolinesterasici) – Infettive (tetano, botulismo, rabbia) – Degenerative (miopatie, miastenia gravis) • Malattie del torace e della pleura – Traumatiche (fratture costali multiple) – Degenerative (cifoscoliosi, spondilite anchilosante) – Pneumotorace valvolare, imponenti versamenti pleurici • Ostruzione delle alte vie aeree – Corpi estranei, edema glottideo, spasmi muscolari, tumori 2. IR da prevalente difetto di diffusione • ARDS • Malattie diffuse interstiziali del polmone • Edema polmonare acuto 3. IR da prevalente shunt arterovenoso • • • •
Cardiopatie congenite cianogene Bronchiectasie Fistole arterovenose polmonari, emangiomi Difetti di ventilazione regionali (atelettasie, polmoniti lobari, versamenti pleurici)
4. • • • •
IR da prevalente alterazione del rapporto VA/Q Enfisema cronico ostruttivo Asma bronchiale in stadio avanzato Bronchiolite obliterante Malattie diffuse interstiziali in stadio avanzato
diversa forma delle due curve di dissociazione della CO2 e dell’O2 per l’emoglobina. La mescolanza del sangue derivante dai due tipi di alveoli, e che si raccoglie nelle vene polmonari, tenderà perciò ad avere una normale PCO2 ed una bassa PO2. L’accresciuto lavoro respiratorio, necessario a mantenere un efficace compenso al difetto iniziale, rende i centri respiratori progressivamente meno sensibili agli incrementi di CO2 arteriosa, cosicché nelle fasi più avanzate del disturbo questi pazienti si adattano a valori di PCO2 più elevati che di norma, riducendo parzialmente il lavoro respiratorio. Per questo motivo non è infrequente, in presenza di un alterato rapporto VA/Q, il
Alterazioni del rapporto ventilazione-perfusione
C B A VA Q
PO2 = 50 mmHg
VA :N Q
PO2 = 97 mmHg
VA : Q
PO2 = 100 mmHg
Figura 14.16 - Rappresentazione schematica di una unità polmonare con alterato rapporto VA/Q. Accanto ad un alveolo normoventilato e normoperfuso (B), se ne osserva uno più perfuso che ventilato (A) ed uno più ventilato che perfuso (C). Tale situazione, in base ai principi fisiopatologici esposti, esita in un’ipossiemia arteriosa. Infatti: (50 + 97 + 100) : 3 = 82,3 mmHg di PO2.
riscontro di ipercapnia in associazione all’ipossiemia arteriosa. Nel caso dell’alterazione del rapporto VA/Q l’inalazione di miscele gassose ad elevato contenuto di O2 consente di correggere parzialmente l’ipossiemia arteriosa.
Alterazioni della cinetica di diffusione Questa situazione può verificarsi in ogni condizione morbosa che determini un ispessimento della membrana alveolo-capillare (Fig. 14.17) ovvero una estesa riduzione della superficie di scambio respiratorio; un primo meccanismo di compenso al difetto di diffusione dei gas respiratori è rappresentato dalla notevole “riserva di diffusione” posseduta da entrambi i gas che, come osservato nelle pagine precedenti, dipende dalla estrema velocità con cui ordinariamente si compie il loro passaggio attraverso la membrana alveolo-capillare. A meno che il difetto di diffusione non sia molto grave, quindi, le alterazioni dei valori di PO2 e la PCO2 saranno evidenti solo in seguito ad uno sforzo, quando il tempo di contatto tra sangue capillare ed alveolo tende fisiologicamente a ridursi. Molto spesso un difetto di diffusione dei gas a livello alveolare si accompagna ad ipossiemia associata a valori normali o ridotti di PCO2. Una tradizionale spiegazione di questa situazione si riconduce alla maggiore diffusibilità della CO2 rispetto all’O2 e da ciò dipenderebbe il fatto che l’ipoventilazione compensatoria corregge più facilmente l’ostacolo alla diffusione verso gli alveoli della CO2 che quello della diffusione verso i capillari dell’O2. Recentemente sono stati avanzati dubbi su questa spiegazione e si ritiene che, ad eccezione dei difetti di diffusione estesi a
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Difetto di diffusione O2 = 150 CO2 = 0
O2 = 100 CO2 = 40
O2 = 130 CO2 = 40
O250
O297
O250
O2
CO245
CO240
CO245
CO2NO
Figura 14.17 - Rappresentazione schematica delle variazioni dei gas respiratori in una unità polmonare con un deficit di diffusione (a destra) rispetto ad una unità normale (a sinistra).
tutto il parenchima polmonare, la ragione del diverso adeguamento dei due gas respiratori vada ricercata nel diverso profilo della curva di dissociazione dell’Hb per O2 e CO2, come illustrato a proposito delle disomogeneità del rapporto VA/Q. Come nel caso della ipoventilazione alveolare, anche in presenza di un difetto di diffusione l’ipossiemia arteriosa può essere corretta con l’inalazione di miscele ad elevato contenuto di O2 capaci di “forzare” il passaggio di questo gas attraverso la membrana alveolare alterata.
Shunt arterovenoso Questa condizione si realizza quando una parte del sangue venoso raggiunge il sistema arterioso senza passare da zone ventilate del polmone (Fig. 14.18). Gli shunt arterovenosi più frequenti sono extrapolmonari,
ma possono attuarsi in alcuni casi anche a livello polmonare quando una zona di parenchima viene esclusa dalla ventilazione pur essendo normalmente perfusa: è questo il caso della polmonite lobare, dell’atelettasia o di cospicui versamenti pleurici che esercitano una compressione su estese regioni del polmone. Nello shunt arterovenoso si instaura un’ipossiemia che caratteristicamente non è correggibile facendo inalare al soggetto O2 in elevata concentrazione: ciò dipende dal fatto che la mescolanza del sangue ossigenato con quello shuntato provoca sempre una notevole caduta dei livelli di PO2, non essendo possibile – per quanto si inali O2 – di aumentare la percentuale di saturazione di O2 nell’Hb che lascia gli alveoli già normalmente ventilati e perfusi (sempre in virtù della particolare morfologia della curva di dissociazione della Hb per l’O2). Anche in questo caso, come nel precedente, l’iperventilazione compensatoria sarà invece efficace nel ripristinare valori normali di PCO2, producendo talvolta una modesta ipocapnia.
Ipoventilazione alveolare In questo caso si realizza una riduzione del ricambio di aria a livello alveolare (Fig. 14.19) che fa sì che la composizione del gas alveolare tenda progressivamente ad approssimarsi ai valori presenti nel sangue venoso misto dei capillari polmonari, come dimostra la tabella 14.1. Questo meccanismo si instaura spesso a causa di malattie extrapolmonari ed è sempre caratterizzato dalla presenza di ipercapnia in associazione all’ipossiemia arteriosa. Ciò dipende dal fatto che esiste una relazione pressoché lineare tra l’entità della ventilazione alveolare e la concentrazione di CO2 nel sangue arterioso, per cui se, per esempio, la ventilazione alveolare si dimezza, la PCO2 si raddoppia. Esiste inoltre una precisa relazione (espressa in fisiologia dall’equazione dei gas alveolari) tra le concentrazioni di O2 e CO2 nel sangue arterioso che dimostra come, in presenza di un’ipoventilazione alveolare, ad un aumento della PCO2 corri-
Shunt a-v O2 = 150 CO2 = 0
O2 = 150 CO2 = 0
O2 = 100 CO2 = 40
O2 = 100 CO2 = 35
A.
O2 = 50 Normale CO2 = 45
B.
O2 = 97 CO2 = 40 O2 = 50 CO2 = 45
O2 = 100 CO2 = 35 O2 = 50 CO2 = 45
O2 = 75 CO2 = 40
Figura 14.18 - Variazione delle pressioni arteriose dei gas respiratori in una unità polmonare ove esiste uno shunt a-v (A) rispetto a una unità normale (B).
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14 - APPARATO RESPIRATORIO: STRUTTURA E FUNZIONI
Ipoventilazione alveolare
O2 = 150 CO2 = 0
O2 = 150 CO2 = 0
O2 = 100 CO2 = 40
O2 = 50 CO2 = 45
A.
B.
O2 = 50 Normale O2 = 97 CO2 = 45 CO2 = 40
O2 = 50 CO2 = 45
O2 CO2
Figura 14.19 - Variazione delle pressioni arteriose dei gas respiratori in una unità polmonare ipoventilata (B) rispetto ad una unità normale (A).
sponda invariabilmente un calo parallelo della PO2. È quindi possibile affermare che, se un paziente affetto da insufficienza respiratoria non presenta un aumento della PCO2, non ha una ipoventilazione alveolare. L’ipossiemia presente nel corso di un’ipoventilazione alveolare è correggibile in parte facendo inalare al soggetto miscele gassose ad elevato contenuto di O2, cioè incrementando notevolmente a livello alveolare il gradiente pressorio transmembrana per questo gas. Non è invece possibile eliminare l’accumulo di CO2 se non migliorando la ventilazione con farmaci o ricorrendo ad un ventilatore meccanico, e vedremo nella sezione dedicata alle terapie come questa misura terapeutica rappresenti l’unico rimedio realmente efficace in queste forme di insufficienza respiratoria.
Fisiopatologia e clinica L’esistenza di ipossia e ipercapnia comporta varie conseguenze a carico dell’organismo, che si esprimono principalmente a tre livelli: a) il metabolismo; b) la regolazione della ventilazione; c) il flusso ematico cerebrale. Quando esiste ipossia, l’apporto di ossigeno ai tessuti è ridotto e perciò è menomata l’ossidazione dell’acido piruvico, che deriva dalla glicolisi anaerobica dei carboidrati nel fegato e nei muscoli. Conseguentemente si accumula nell’organismo acido lattico e si verifica acidosi metabolica. L’apporto di energia ai tessuti è diminuito e la resintesi dei composti contenenti legami fosforici ad alta energia è compromessa. Varie funzioni cellulari risultano menomate. La ventilazione è aumentata perché l’ipossiemia determina stimolazione dei chemorecettori dell’arco aortico e del seno carotideo, oltre che direttamente del centro respiratorio. Tuttavia, quando l’ipossiemia è molto grave (PaO2 40 mmHg) la sofferenza cerebrale può condizionare, al contrario, una depressione della ventilazione che, in casi estremi, può giungere all’apnea.
Il flusso ematico cerebrale è aumentato in presenza di ipossia e l’incremento può raggiungere il 50% dei valori di base. Questo fatto rispecchia una regola più generale, per la quale un’ipossia di un qualsiasi tessuto determina un incremento della perfusione ematica; ciò evidentemente è utile perché consente un migliore apporto di ossigeno. Fanno eccezione le arteriole polmonari, ove l’ipossiemia determina una vasocostrizione (anch’essa utile perché riduce gli squilibri tra apporto ventilatorio di ossigeno e perfusione degli alveoli). L’aumento della perfusione ematica cerebrale dovuto all’ipossia può essere annullato se coesistono ipocapnia o alcalosi metabolica (per es., per troppo generoso impiego di diuretici). Questi eventi, quindi, possono, a parità di PaO2, precipitare i sintomi cerebrali dell’ipossia. L’ipercapnia provoca acidosi respiratoria e stimola la ventilazione. Quest’ultimo effetto è però legato alle variazioni brusche della PaCO2 e tende ad esaurirsi quando i livelli di CO2 nel sangue restano persistentemente elevati. L’esaurirsi dello stimolo iperventilatorio, facile se l’ipossiemia è contemporaneamente annullata da un’imprudente somministrazione di ossigeno, può consentire notevoli incrementi della PaCO2. L’ipercapnia provoca aumento del flusso ematico cerebrale, che può accrescersi fino al 200% e, in casi estremi, determinare addirittura edema cerebrale. Tra tutti gli organi e tessuti che soffrono per l’insufficienza respiratoria, il più vulnerabile è il cervello, la cui sofferenza condiziona il quadro clinico della encefalopatia respiratoria. L’ipossia cerebrale (che è parallela all’ipossiemia) determina effetti diversi, a seconda che si instauri acutamente o che sia cronica. Un’ipossia acuta produce alterazioni psichiche e incoordinazione motoria, con un quadro clinico che somiglia all’ebbrezza alcolica. Quando l’ipossia è cronica, i sintomi prevalenti sono l’astenia, la sonnolenza, l’apatia, la difficoltà di concentrazione e la ridotta capacità lavorativa. Come si è visto, le più importanti cause di ipossia – gli squilibri tra ventilazione e perfusione e l’ipoventilazione alveolare – sono, la prima spesso e la seconda sempre, accompagnate da ipercapnia. Il quadro clinico dell’encefalopatia respiratoria è perciò determinato dalla coesistenza di ipossia e di ipercapnia. Si ritiene conveniente distinguere quattro stadi. • Nel primo stadio il paziente lamenta frequentemente cefalea, presenta sonnolenza durante il giorno e insonnia di notte, lamenta deficit dell’attenzione e della memoria, turbe del carattere. • Nel secondo stadio si verificano vere e proprie turbe psichiche, riduzione della vigilanza, perdita della memoria recente, ridotta visione crepuscolare, ridotta acuità visiva e auditiva, allucinazioni, tremori. • Nel terzo stadio lo stato confusionale è completo, con disorientamento temporo-spaziale e delirio. Durante la contrazione dei muscoli volontari si possono verificare brevi successive interruzioni del tono muscolare di fondo, che danno luogo a quel fenomeno denominato “asterixis” (che è stato efficacemente definito anche come un mioclono negativo). L’asterixis si rende bene evidente agli arti superiori estesi e
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protesi in avanti, sotto forma di brevi piccole cadute, seguite da una pronta correzione, con l’aspetto complessivo di un tremore particolare che è stato definito “flapping” perché ricorda, con qualche fantasia, il battito delle ali di una farfalla (“to flap” in inglese significa “battere le ali”). I pazienti con encefalopatia respiratoria in terzo stadio possono porre problemi di diagnosi differenziale. L’asterixis può infatti essere presente anche in altre encefalopatie metaboliche e, in particolare, nell’insufficienza epatica grave. Inoltre, l’edema cerebrale può comportare alterazioni dell’esame del fondo dell’occhio quando viene osservato con un oftalmoscopio (si veda quanto scritto a proposito dell’ipertensione arteriosa nel capitolo 1), che possono fare nascere il dubbio dell’esistenza di un tumore cerebrale. • Nel quarto stadio esiste midriasi, i riflessi sono torbidi, si possono verificare mioclonie o convulsioni. Possono essere presenti turbe neurovegetative (sudorazione, bradicardia o tachicardia) e deficit neurologici a focolaio (paresi, paralisi). Il paziente alla fine entra in coma e, se la condizione non è corretta, va incontro a exitus.
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Terapia. Il principio fondamentale della terapia della IR è quello di ripristinare un adeguato apporto di ossigeno ai tessuti e, quando essa sia presente, di rimuovere efficacemente la CO2 ritenuta nel sangue arterioso. Il primo scopo può essere raggiunto mediante l’ossigenoterapia, basata sull’inalazione, con apparecchiature di diverso tipo, di miscele gassose ad elevato contenuto di O2 (dal 40 al 60% e oltre). Va tenuto presente che l’ossigenoterapia può avere conseguenze indesiderate per il paziente, soprattutto quando viene protratta nel tempo con concentrazioni elevate del gas. Tra le più temibili complicanze dell’ossigenoterapia va segnalata la depressione dei centri respiratori bulbari che, in soggetti con gravi e prolungate ipercapnie, sono stimolati unicamente dall’ipossiemia arteriosa. La riduzione dei valori di PCO2 può essere ottenuta solo migliorando la ventilazione alveolare del paziente; questo obiettivo può tuttavia essere difficoltoso e talvolta impossibile da raggiungere senza il ricorso alla ventilazione meccanica, una pratica rianimatoria talora indispensabile in pazienti portatori di IR in fase molto avanzata, non responsivi alle terapie mediche ordinarie.
C A P I T O L O
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15
SEMEIOTICA FISICA E STRUMENTALE DELL’APPARATO RESPIRATORIO R. PARDI
SEMEIOTICA FISICA Il progresso delle tecniche semeiologiche strumentali ha ormai raggiunto, anche per quanto attiene l’apparato respiratorio, un elevato grado di perfezionamento. Pur tuttavia non è minimamente svalutata l’importanza dell’approccio semeiologico fisico, semplicemente basato sui sensi dell’esaminatore, ed anzi esso ha tuttora un insostituibile valore diagnostico, fornendo inoltre la possibilità di contatto diretto, non mediato da strumentazioni tecniche, tra medico e paziente. Similmente a quanto accade per altri organi o apparati, anche l’esame semeiologico fisico del torace si vale dei quattro tempi fondamentali dell’esame obiettivo, costituiti da ispezione, palpazione, percussione ed auscultazione.
Ispezione Un corretto approccio semeiologico si basa sulla suddivisione delle zone da esaminare per mezzo di punti di repere o linee convenzionali che consentano di descri-
1
vere con maggiore precisione la localizzazione di un reperto. A livello toracico hanno importanza le seguenti linee (Fig. 15.1), le quali delimitano le regioni illustrate in figura 15.2. 1. Anteriormente Linee verticali (Fig. 15.1): • medio-sternale: nel punto di mezzo dello sterno (2); • margino-sternale: al margine laterale dello sterno (3); • parasternale: a circa un dito trasverso dalla precedente; • emiclaveare: dal punto di mezzo della clavicola (1); • ascellare anteriore: lungo il pilastro anteriore del cavo ascellare (9); • ascellare media: nel punto di mezzo del cavo ascellare (8). Linee orizzontali: • clavicolare: lungo la clavicola (4); • sottomammaria; inferiormente alla regione mammaria (sesta costa) (5);
23
4
7
8
5
6 Anteriore
Figura 15.1 - Ispezione del torace: linee di repere anteriori e laterali.
Laterale
9
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296
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
• xifo-costale: lungo il margine inferiore dell’arcata costale (6). 2. Posteriormente Linee verticali (Fig. 15.2): • spondiloidea: lungo le apofisi spinose vertebrali (1); • paravertebrale: circa 2 dita trasverse lateralmente alla precedente (2); • medioscapolare: nel punto di mezzo della scapola (3); • ascellare posteriore: lungo il pilastro posteriore del cavo ascellare (Fig. 15.1; 7). Linee orizzontali: • sovrascapolare: limite superiore della scapola (4); • angolare della scapola: limite inferiore della scapola (5). L’esame ispettivo del torace si completa con l’osservazione della conformazione del torace; esistono numerose anomalie della conformazione toracica che non hanno un equivalente clinico: tra esse, il torace imbutiforme, con depressione della metà inferiore dello sterno, o quello carenato, con sterno sporgente a forma di carena. Maggiore rilevanza presentano le deformazioni toraciche che possono condizionare in senso negativo la meccanica ventilatoria o che rappresentano le conseguenze di una patologia respiratoria. Si riconoscono così le alterazioni statiche e dinamiche. Tra le prime vanno segnalate le deviazioni del rachide, come la cifoscoliosi o il gibbo. Entrambe queste condizioni si accompagnano ad una variabile riduzione dei movimenti respiratori della gabbia toracica e possono esitare, nei casi gravi, in una forma di insufficienza respiratoria. Tra le alterazioni della gabbia toracica conseguenti a malattie respiratorie, deve essere ricordato il caso particolare del torace a botte, che presenta un aumento dei diametri trasversi e antero-posteriori e risulta notevolmente ipoespandibile. Esso è la conseguenza della cro-
12
3
B
4
C 5 A 6
Posteriore
Figura 15.2 - Ispezione del torace: linee di repere e aree da esse delimitate nelle regioni posteriori. A = regione mediobasale; B = regione sovrascapolare; C = regione interscapolo-vertebrale.
nica iperdistensione polmonare che caratterizza gli stati enfisematosi. Tra le alterazioni dinamiche possono essere obiettivabili in talune circostanze delle retrazioni o delle dilatazioni circoscritte ad un solo emitorace, che generalmente si accompagnano ad una ridotta motilità respiratoria. Retrazione si può avere in presenza di fibrosi polmonare retraente (definita fibrotorace e frequentemente esito di malattie infiammatorie croniche del parenchima polmonare) o in caso di atelettasia lobare (collasso degli alveoli polmonari per perdita del loro contenuto aereo). Talora l’emitorace retratto presenta notevole rientramento inspiratorio degli spazi intercostali, quale conseguenza dell’aumentata depressione intrapleurica che si oppone alla minore tendenza alla distensione del polmone affetto. Tra le dilatazioni circoscritte di un emitorace vanno segnalate quelle conseguenti a cospicui versamenti pleurici o a pneumotorace, che possono essere meglio discriminate sulla base degli altri tempi dell’esame obiettivo del torace.
Palpazione La palpazione del torace consente di ottenere una migliore definizione di alcuni reperti ispettivi, quali la simmetria della gabbia toracica e l’espandibilità dei due emitoraci. Utilizzando entrambe le mani, saldamente appoggiate sulla superficie cutanea e unite sulla linea mediana con l’estremità del primo dito, l’esaminatore ne osserva l’allontanamento dalla linea mediana durante l’inspirazione. Questa manovra deve essere ripetuta in più punti dalle regioni apicali a quelle basali, sia anteriormente che posteriormente. Sarà così meglio apprezzabile una eventuale asimmetria dinamica già osservata ispettivamente. La più elettiva informazione ottenibile dall’esame palpatorio del torace consiste tuttavia nel rilievo del fremito vocale tattile (FVT). È questa una sensazione vibratoria percepibile appoggiando la mano a piatto sul torace ed esercitando una modica pressione mentre il paziente pronuncia una parola ricca di consonanti. Il termine correntemente impiegato nel nostro Paese è costituito dalla parola “trentatré” mentre in altri Paesi, per esempio quelli anglosassoni, si usa far pronunciare il numero “ninety-nine” (99). Il FVT prende origine dalle vibrazioni delle corde vocali che hanno luogo durante la fonazione e che si trasmettono alle parti solide dell’albero respiratorio attraverso la colonna aerea tracheobronchiale. Il FVT deve essere rilevato appoggiando la mano in regioni simmetriche del torace (per comparare il reperto di un lato con quello controlaterale) e procedendo dalle zone apicali a quelle basali. È consigliabile l’impiego di una sola mano per evitare errori dovuti a differenze di sensibilità da parte dell’esaminatore. Perché il FVT possa essere normalmente trasmesso sono necessari: • l’integrità dell’organo di fonazione (corde vocali); • la pervietà delle vie aeree in tutto il loro decorso.
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15 - SEMEIOTICA FISICA E STRUMENTALE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
È ovvio che, in condizioni normali, il FVT sarà meglio percepito in soggetti con scarso pannicolo adiposo sottocutaneo e qualora l’intensità della voce sia sufficientemente elevata con una tonalità non troppo acuta. Va inoltre ricordato che il FVT è fisiologicamente più avvertibile nell’emitorace destro, per la diversa angolazione rispetto alla trachea del bronco principale di questo lato. A. Condizioni associate ad aumento del FVT. Il FVT aumenta ogni qualvolta si ha un aumento della componente solida nel parenchima polmonare che risparmi la pervietà delle vie aeree: ciò si verifica in presenza di un addensamento infiammatorio o di altra natura, di un infarto emorragico polmonare (necrosi circoscritta di tessuto polmonare a seguito di ostruzione di rami dell’arteria polmonare), di una fibrosi o di atelettasia da compressione, non causata cioè da una completa ostruzione bronchiale (che abolirebbe il FVT). Anche in presenza di cavità polmonari comunicanti con un bronco e non ripiene di liquido si avvertirà un rinforzo del FVT. B. Condizioni associate a riduzione del FVT. Riduzione o abolizione del FVT si ha in presenza di una malattia delle corde vocali che comprometta la capacità di fonazione, e ogni qualvolta si verifichi un’ostruzione bronchiale (per es., nell’atelettasia conseguente ad ostruzione bronchiale e successivo riassorbimento dell’aria negli alveoli del territorio dipendente). Inoltre il FVT è ridotto diffusamente nell’enfisema polmonare, in cui si ha estesa distruzione dei setti alveolari che trasmettono il FVT dalle vie bronchiali alla parete toracica. Ancora, una riduzione del FVT si accompagna all’interposizione di un mezzo estraneo tra polmone e parete toracica, come nel caso della presenza di una falda aerea (pneumotorace) o liquida (versamento pleurico) nella cavità pleurica. La presenza di un aumento o di una riduzione del FVT è critica per determinare se un’ottusità rilevabile alla percussione (si veda in seguito) sia da attribuire rispettivamente ad addensamento polmonare (HFVT) o a versamento pleurico (hFVT).
Percussione La percussione del torace, grazie alle caratteristiche di sonorità peculiari di questa struttura, è in grado di
Ottuso
Ipofonetico
fornire una quantità di informazioni che, associate a quelle ottenibili con le altre manovre semeiologiche, consentono in molti casi di definire in modo dettagliato un reperto patologico. La tecnica percussoria comunemente utilizzata nella semeiotica del torace o di altri apparati è quella digitodigitale, in cui l’esaminatore impiega un dito (generalmente il III della mano sinistra) come plessimetro, fermamente appoggiato sulla regione da percuotere, e con lo stesso dito della mano controlaterale, che funge da plessore, imprime dei colpi in rapida successione sul plessimetro. Il movimento del plessore dovrebbe essere il più fluido possibile e dovrebbe essere articolato sul polso piuttosto che sul gomito. Accanto a questa forma mediata di percussione, ne esiste una immediata, eseguita con una sola mano che funge da plessore, mentre il plessimetro può essere costituito da un segmento osseo (per es., la clavicola). Quest’ultima tecnica viene in genere impiegata per effettuare una percussione “orientativa”, grossolana, sulle regioni toraciche, al fine di rilevare reperti patologici molto evidenti. La percussione del torace genera un rumore (cioè un insieme di suoni provenienti da materiali a diversa densità) che trae origine dalla messa in vibrazione delle strutture sottostanti al plessimetro ed è rappresentativo del rapporto esistente tra materiale gassoso e materiale solido presente a questo livello. In condizioni normali il rumore ottenibile percuotendo la maggior parte delle zone del torace è definito suono chiaro polmonare ed è l’espressione del normale rapporto tra parenchima polmonare ed aria presente durante una respirazione tranquilla. Esso ha una discreta intensità, una frequenza piuttosto ridotta ed una durata alquanto prolungata (Fig. 15.3). Ogni qualvolta la componente solida a livello parenchimale aumenta a scapito di quella gassosa il suono evocato assume caratteri di minore intensità e durata e di maggiore frequenza: diviene cioè ipofonetico. Qualora, in particolari condizioni patologiche, il contenuto aereo del polmone venga completamente sostituito da materiale solido, il suono evocato viene definito ottuso (si parla anche di ottusità di coscia riferendosi alle caratteristiche di sonorità percussoria di questo segmento corporeo). Al contrario, nelle condizioni in cui il parenchima polmonare subisce un danno che ne aumenti la componente gassosa a scapito di quella solida, il suono
Chiaro
Iperfonetico
Aumento intensità Aumento frequenza
Figura 15.3 - Caratteristiche del suono percussorio a livello toracico.
Timpanico
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Laterale
Posteriore
Figura 15.4 - Modalità di esecuzione della percussione delimitativa delle regioni posteriori del torace.
percussorio assume un carattere più intenso, con minore frequenza e maggiore durata: diviene cioè iperfonetico (simile a quello ottenibile percuotendo un guanciale). In particolari condizioni il suono percussorio acquista una notevole sonorità ed un timbro timpanico, che ricorda quello emesso da una cassa di risonanza ricoperta da una membrana elastica in tensione. Le principali condizioni patologiche polmonari che si accompagnano ad ipofonesi plessica sono gli addensamenti di qualsiasi natura, la fibrosi polmonare, i versamenti pleurici e l’atelettasia, oltre al cospicuo aumento del pannicolo adiposo sottocutaneo. L’iperfonesi si osserva tipicamente nell’enfisema polmonare o in soggetti estremamente magri. In presenza di pneumotorace o di cavità estese a contenuto gassoso il suono percussorio può acquistare un timbro timpanico. Tali reperti acquistano ovviamente significato solo se adeguatamente comparati agli altri tempi dell’esame obiettivo ed in particolare alla palpazione ed alla auscultazione. La percussione del torace ha una duplice finalità: quella di delimitare il parenchima polmonare rispetto
Laterale
Figura 15.5 - Campi di Krönig (in tratteggio).
agli organi contigui (percussione delimitativa) e quella di confrontare un eventuale reperto con la regione simmetrica controlaterale (percussione comparativa). La percussione delimitativa deve essere eseguita mantenendo il dito che funge da plessimetro parallelo al margine che si intende delimitare (Fig. 15.4). Le regioni apicali dei polmoni sono delimitabili percuotendo simmetricamente la regione cutanea sita sul margine libero del muscolo trapezio (zona del cucullare). È possibile, in condizioni normali, delimitare a questo livello delle zone disposte “a bretella” in cui si avverte un suono chiaro polmonare, contrapposto all’ottusità delle parti molli site medialmente e lateralmente. Queste due regioni sono definite campi di Krönig e hanno una larghezza di 4-6 cm (Fig. 15.5). Processi patologici di natura infettiva o neoplastica a localizzazione apicale possono determinare la riduzione o la scomparsa dei campi di Krönig, evocando una ipofonesi o una franca ottusità in questa regione. La percussione delimitativa del torace si completa con la determinazione del margine inferiore del polmone sia anteriormente che posteriormente; in questo caso
Posteriore
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15 - SEMEIOTICA FISICA E STRUMENTALE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Respiro normale
Pausa inspiratoria
Figura 15.6 - Delimitazione percussoria delle basi polmonari. La figura illustra la necessità di eseguire una percussione leggera (ovale piccolo) onde evitare di mettere in risonanza gli organi sottostanti.
il dito plessimetro dovrà essere posto parallelamente agli spazi intercostali (1). Una volta stabilito il punto di passaggio tra il suono chiaro polmonare e l’ottusità degli organi sottostanti, l’esaminatore dovrà determinare la mobilità inspiratoria delle basi polmonari; per fare ciò è necessario porre il dito plessimetro immediatamente al di sotto della falda inferiore di suono chiaro polmonare e invitare il paziente a compiere una profonda inspirazione; eseguendo una percussione durante questa manovra, si avvertirà, in condizioni normali, una modificazione della sonorità percussoria che da ottusa diverrà chiara, a causa del riempimento dello sfondato costo-frenico da parte del polmone ripieno d’aria (Fig. 15.6). La normale escursione delle basi polmonari durante un’inspirazione forzata è di 3-4 cm. In numerose condizioni patologiche tale escursione è ridotta o abolita.
ro bronchiale ed il murmure vescicolare (Fig. 15.7). Il respiro bronchiale è un rumore soffiante percepibile in una piccola regione prossimale alla trachea, in prossimità della linea mediana, sia anteriormente che posteriormente. Esso è generato dal passaggio dell’aria nella trachea e nell’albero bronchiale e presenta un’intensità crescente durante l’inspirazione e gradualmente decrescente durante la fase espiratoria. Pur essendo generato anche dalle più fini diramazioni bronchiali, il respiro bronchiale è, nella maggior parte delle regioni toraciche, mascherato dal rumore proveniente dagli alveoli polmonari, le cui pareti sono messe in vibrazione dall’arrivo del flusso aereo durante l’inspirazione; tale rumore, che acquista intensità udibile a causa dell’enorme numero (circa 300.000.000) di alveoli, è definito murmure vescicolare ed è paragonabile al rumore generato dallo stormire delle foglie mosse dal vento. La sua caratteristica principale è quella di essere ben percepibile durante la fase inspiratoria, ma di avere un brusco calo di intensità durante l’espirazione. Le alterazioni patologiche dei rumori respiratori sono essenzialmente di tre tipi: • riduzione o abolizione del murmure vescicolare; • presenza del respiro (o soffio) bronchiale in una regione ove esso non sia normalmente percepibile; • presenza di rumori aggiunti di provenienza bronchiale, parenchimale o pleurica. Il murmure vescicolare si riduce o scompare qualora venga meno la ventilazione degli alveoli (come in presenza di un addensamento o di una atelettasia) ovvero quando le pareti alveolari siano estesamente distrutte, come nell’enfisema polmonare. Anche in presenza di un versamento pleurico o di uno pneumotorace il mur-
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Auscultazione Il processo di auscultazione del torace è una delle più raffinate indagini semeiologiche fisiche, per l’estrema ricchezza di dettagli che esso può fornire. L’orecchio esercitato potrà svelare alterazioni anche minime della funzione respiratoria, frequentemente non evidenziabili anche dalle più sensibili tecniche strumentali. L’auscultazione è una tecnica comunemente mediata da uno strumento, il fonendoscopio, costituito da una campana assai piatta ricoperta da un diaframma in materiale sintetico e raccordata mediante dei tubicini agli auricolari. Esso ha oggi pressoché rimpiazzato l’antica tecnica immediata di auscultazione, in cui l’esaminatore appoggiava direttamente l’orecchio al torace del paziente. I rumori respiratori normalmente percepibili all’auscultazione polmonare sono essenzialmente due, cioè il respi(1) La percussione delimitativa delle basi polmonari dovrà essere leggera, per evitare di mettere in vibrazione strutture profonde che renderebbero faticoso il rilievo del movimento inspiratorio delle basi.
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Soffio bronchiale Murmure vescicolare
Figura 15.7 - Respiro bronchiale e murmure vescicolare. 1, situazione normale; 2, addensamento polmonare, con abolizione del murmure e persistenza del respiro bronchiale; 3, versamento pleurico, con abolizione del murmure e smorzamento del respiro bronchiale (soffio bronchiale “dolce”).
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mure vescicolare risulta trasmesso in misura minore alla parete toracica. Spesso, in corrispondenza di una regione in cui gli alveoli sono meno ventilati, si rende evidente il respiro bronchiale, non più mascherato dai rumori di pertinenza alveolare: ciò si verifica in presenza di addensamenti parenchimali, purché non costituiti da essudati troppo fluidi (che generano altri rumori di cui si dirà in seguito). Un respiro bronchiale a tonalità dolce può essere apprezzabile al margine superiore di un versamento pleurico, laddove gli alveoli sono compressi dal liquido ed esso non ha uno spessore tale da abolire qualsiasi rumore respiratorio sottostante. Anche in presenza di un enfisema polmonare può comparire un respiro “aspro”, chiaramente percepibile durante la fase espiratoria, che risulta spesso prolungata in questi pazienti. Rumori aggiunti. I rumori respiratori aggiunti, cioè non presenti in condizioni normali, sono classificabili come umidi e secchi in base alla presenza o meno di secrezione fluida nelle vie aeree. I rumori umidi di provenienza bronchiale sono i rantoli, che vengono descritti come piccole, medie e grosse bolle a seconda del calibro del bronco nel quale si trova una abbondante secrezione. Il rumore generato in queste circostanze è paragonabile a quello delle bolle che si formano soffiando con cannucce di diverso calibro in un bicchiere pieno di liquido (Fig. 15.8). I rantoli sono generalmente percepibili durante l’intero ciclo respiratorio, anche se talora sono meglio avvertibili in inspirazione. La loro peculiare caratteristica è quella di modificarsi o di scomparire per qualche atto respiratorio allorquando il paziente emette un colpo di tosse, rimuovendo in tal modo le secrezioni bronchiali. I rumori umidi di provenienza parenchimale sono i crepitii (o rantoli crepitanti). Essi so-
no tipicamente avvertibili alla fine dell’inspirazione e spesso nelle regioni basali di entrambi i polmoni. Si è discusso sulla genesi dei crepitii polmonari: secondo la maggior parte degli Autori non è necessaria la presenza di un essudato (o di un trasudato) endoalveolare perché si generino i crepitii; sarebbe sufficiente un’imbibizione dell’interstizio capace di produrre il collabimento delle pareti alveolari. Ad esso farebbe seguito lo scollamento improvviso provocato dall’ingresso dell’aria negli alveoli che sarebbe alla base dell’insorgenza dei rantoli crepitanti. Questo reperto è caratteristico del polmone da stasi, in cui appunto si ha la presenza di una trasudazione di liquido negli spazi interstiziali. I crepitii inspiratori sono paragonabili al rumore generato dallo stropiccìo dei capelli sopra l’orecchio. Essi si modificano scarsamente dopo un colpo di tosse. I rumori secchi di origine bronchiale sono definiti ronchi e sono generati dal passaggio dell’aria attraverso le pareti bronchiali rese scabrose da essudati particolarmente densi, da edema della mucosa o da spasmo della muscolatura liscia bronchiale. A seconda del calibro del bronco interessato, i ronchi sono classificati come russanti (simili al rumore generato da una persona che russa), quando originano dalla trachea o dai grossi bronchi, gementi (o gemiti) e sibilanti (o sibili) qualora provengano dai bronchioli di più piccolo calibro. I rumori secchi sono generalmente avvertibili sia durante l’inspirazione che durante la fase espiratoria. Essi sono caratteristici delle flogosi bronchiali acute e croniche, in cui spesso sono associati a rantoli, e delle broncocostrizioni da processo espansivo endobronchiale o da spasmo della muscolatura liscia (asma bronchiale). In quest’ultimo caso sono udibili durante la fase espiratoria, che può risultare notevolmente prolungata.
Rantoli (rumori umidi)
Piccole bolle
Medie bolle
Grosse bolle
Ronchi (rumori secchi)
Sibilanti
Gementi
Russanti
Figura 15.8 - Rappresentazione schematica dei rumori patologici di provenienza bronchiale.
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Enfisema
Anteriore
Laterale
Is = Torace a botte
Pe = Iperfonesi plessica
Pa = Riduzione FVT
Au = Riduzione murmure vescicolare
Figura 15.9 - Semeiotica fisica dell'enfisema polmonare. Is = ispezione; Pa = palpazione; Pe = percussione; Au = auscultazione.
Vanno infine menzionati i rumori di provenienza pleurica: questi sono definiti sfregamenti e originano dalla confricazione dei foglietti pleurici resi scabrosi da un processo infiammatorio e dalla successiva deposizione di fibrina. È bene ricordare che in presenza di un versamento pleurico le due pleure, parietale e viscerale, vengono ad essere distaccate tra loro e quindi non possono generare alcun rumore. Gli sfregamenti pleurici sono caratteristici delle pleuriti fibrinose o “secche”, ovvero rappresentano l’esito permanente di un processo infiammatorio a questo livello.
Gli sfregamenti pleurici sono meglio avvertibili allorquando è maggiore la escursione delle due pleure, cioè all’inizio dell’inspirazione e dell’espirazione; ciò nonostante è spesso difficile distinguerli dai crepitii inspiratori. A questo proposito si veda la tabella 20.3, ove sono riportati i principali caratteri distintivi tra sfregamenti pleurici e crepitii inspiratori. Vengono riportati nelle figure 15.9 e 15.10, a titolo di esempio, i reperti semeiologici combinati di due quadri morbosi piuttosto comuni, l’enfisema polmonare e l’addensamento parenchimale.
Addensamento
Anteriore
Laterale
Is = Non significativa
Pe = Ipofonesi plessica
Pa = Rinforzo FVT
Au = Rantoli e/o soffio bronchiale
Figura 15.10 - Semeiotica fisica dell’addensamento parenchimale. Is = ispezione; Pa = palpazione; Pe = percussione; Au = auscultazione.
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Sintomi e segni fondamentali Nella semeiotica pneumologica meritano menzione per la loro frequenza ed importanza i seguenti sintomi e segni: la tosse, l’espettorato, l’emottisi, la cianosi e la dispnea. La tosse è un fenomeno riflesso, che partendo da recettori a carico delle prime e grandi vie aeree, ma anche dalla pleura e perfino da sedi extrapleuriche, quali l’orecchio medio, percorre la via afferente del vago e del glossofaringeo, giunge ad un centro bulbare della tosse e si realizza tramite impulsi che giungono alla laringe, al diaframma, ai muscoli intercostali e ai muscoli respiratori accessori. Si distinguono tre fasi: a) inspirazione profonda; b) espirazione violenta e glottide chiusa; c) improvvisa apertura della glottide ed emissione dell’aria ad alta velocità con rimozione di materiale contenuto nelle vie aeree. La tosse può essere a colpi isolati, accessionale, convulsiva con tirage finale. Può essere anche secca (tosse della stasi polmonare, della neoplasia iniziale, della pleurite, delle fasi iniziali di una crisi d’asma) o produttiva, con emissione di espettorato mucoso o purulento. È un sintomo spesso precoce nella bronchite cronica e nella neoplasia polmonare, ma purtroppo spesso trascurata da pazienti e medici. L’espettorato è l’esito di una abnorme produzione di muco da parte delle formazioni ghiandolari della mucosa bronchiale, che viene stimolata da fattori irritanti o infettivi. L’uomo normale produce 100 cm3 di muco al giorno, che viene eliminato dalle vie aeree ad opera della attività ciliare e deglutito inavvertitamente. Ma se la produzione di muco cresce, allora esso viene eliminato tramite la tosse. In questo caso il muco è diverso dalla norma anche per caratteristiche viscoelastiche e per composizione mucopolisaccaridica (aumento delle frazioni neutre sulle acide) e cellulare. In patologia sarà necessario rilevare variazioni quantitative e qualitative. Fra le prime ricordiamo l’espettorazione modica, da quella abbondante, fino alla broncorrea (tipica quella del carcinoma broncoalveolare) e alla vomica o emissione massiva di grande quantità di espettorato (fase di svuotamento di ascesso polmonare o di cisti idatidea). Qualitativamente distingueremo l’espettorato sieroso (cancro alveolo-bronchiolare), mucoso (asma bronchiale), mucopurulento (bronchiti), purulento (bronchiectasie, ascesso polmonare), putrido (gangrena polmonare), emorragico (neoplasie ed escavazione polmonare). Dallo studio citologico dell’espettorato riconosceremo la presenza di marker della flogosi (macrofagi, neutrofili), di processi allergici (eosinofili e cristalli di Charcot-Leyden), oppure di germi (BK, germi vari, materiale per studio colturale) e infine di cellule neoplastiche. L’emottisi (o emoftoe) è l’emissione di sangue con tosse dalle vie aeree. Può essere quantitativamente assai variabile, dalla striatura ematica dell’espettorato alla emottisi massima irrefrenabile. Può essere presente quasi in ogni malattia dell’apparato respiratorio, ma ac-
quista grande valore diagnostico per la frequente incidenza nelle neoplasie polmonari, nelle bronchiettasie, nelle polmoniti (espettorato rugginoso), nella tromboembolia dell’arteria polmonare. La cianosi è l’espressione clinica di un deficit di saturazione in O2 dell’emoglobina e compare quando sono presenti almeno 5 g/dl di emoglobina insatura. È una colorazione bluastra che interessa prevalentemente le estremità e le zone ove la cute è più trasparente (prolabi, letto ungueale). Può dipendere da un deficit di saturazione arteriosa (deficit del polmone) oppure da un eccesso di estrazione di O2 a livello dei tessuti (deficit di portata cardiaca). La cianosi da deficit polmonare può essere corretta da ossigenoterapia, mentre non lo è quella dovuta a shunt destro-sinistro cardiaco. L’anemia può mascherare una cianosi, che invece può essere facilitata dalla poliglobulia. Aspetti particolari come variazioni cromatiche possono dipendere dalla presenza di emoglobine abnormi (metaemoglobina, sulfoemoglobina) o da legami peculiari dell’Hb come nel caso della carbossiemoglobina (color ciliegia). Se la cianosi persiste a lungo, possono comparire le cosiddette dita a bacchetta di tamburo, caratterizzate da convessità dell’angolo fra parti molli e letto ungueale e da aumento di volume dell’ultima parte della falange. Anatomicamente esse corrispondono ad aumento del letto vascolare e del tessuto fibroso da cause non note. Esse possono comparire nelle malattie polmonari croniche con desaturazione arteriosa, precocemente nel cancro polmonare, nelle cardiopatie congenite cianogene, ma anche nella cirrosi epatica e nella colite ulcerosa. Per dispnea si intende la sensazione penosa di fame di aria, che deve essere distinta dalla semplice iperventilazione e dalla polipnea. La dispnea è clinicamente classificabile come: • dispnea da sforzo; • dispnea da cammino normale; • dispnea per gesti abituali del vivere (parlare, pettinarsi); • dispnea a riposo; • dispnea da posizione supina (che obbliga a stare seduti) o ortopnea. Molte sono le teorie patogenetiche e tutte probabilmente sono in parte vere: • alterata ematosi con ipossiemia (stimolo periferico sulle zone vasosensibili) e con ipercapnia (stimolo centrale); • fenomeni riflessi a partenza da recettori polmonari (recettori J alveolocapillari nelle stasi polmonari); • fenomeni di integrazione centrale per comando inviato in periferia (tensione) e variazione di volume polmonare ottenuta (lunghezza) con partenza da recettori muscolari; • conseguenza di affaticamento della muscolatura respiratoria per aumento di lavoro e quindi di costo energetico del respiro (broncopneumopatie croniche) o per alterazioni neuromuscolari (miastenia, miopatie, affezioni neurologiche);
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15 - SEMEIOTICA FISICA E STRUMENTALE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
• per elevazione della soglia corticale di percezione (dispnea psicogena). Clinicamente è importante il rilievo di respiro discinetico. Normalmente durante l’inspirazione la parete addominale per abbassamento del diaframma è spinta in fuori. Se il diaframma è affaticato, esso viene aspirato dalla pressione negativa endotoracica e l’espansione della cassa toracica è accompagnata da rientramento epigastrico. La dispnea può essere obiettivata quando il rapporto fra: ventilazione massima – ventilazione minuto × 100 ventilazione massima è inferiore a 70. Secondo le caratteristiche di presentazione, si distinguono una dispnea espiratoria (stenosi delle vie aeree intratoraciche ed intrapolmonari), una dispnea inspiratoria (stenosi delle vie aeree extratoraciche) ed una dispnea parossistica (a brusca insorgenza e di notevole intensità).
SEMEIOTICA STRUMENTALE Il ruolo fondamentale della semeiotica strumentale è sostenuto dalla radiologia. Abbiamo a disposizione i mezzi descritti di seguito. • Radioscopia: da usare con prudenza per l’elevato grado di esposizione cui sottopone pazienti ed operatori; ha un ruolo fondamentalmente orientativo e dinamico. • Teleradiografia nelle due posizioni ortogonali: queste sono rese necessarie per ridurre al minimo gli errori legati alla sovrapposizione di immagini. Può essere realizzata con finalità particolari in espirazione, ma generalmente viene effettuata in apnea inspiratoria. • Tomografia: tecnica che, sfruttando la rotazione del tubo radiogeno a paziente fermo, consente di studiare lo strato che coincide con il piano dell’asse del movimento. I piani sono numerati dal dorso al petto e dal mediastino alla periferia e registrati di centimetro in centimetro. • Metodiche utilizzanti un mezzo di contrasto: – pneumotorace diagnostico: l’introduzione di aria nel cavo pleurico consente di distinguere le alterazioni polmonari da quelle parietali e mediastiniche; – pneumomediastino: l’introduzione di aria attraverso il giugulo permette di definire meglio le caratteristiche di formazioni mediastiniche; – broncografia: l’introduzione mediante sonda di un preparato organico di iodio permette lo studio dettagliato della morfologia delle vie aeree; – angiografia: l’opacizzazione dei vasi polmonari con introduzione mediante catetere di un preparato organico idrosolubile di iodio consente lo studio
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morfologico del piccolo circolo. Più rare le indicazioni per la contrastografia del circolo bronchiale. Sono importanti per una buona interpretazione delle immagini radiologiche alcune indicazioni topografiche. Qui di seguito vengono riportati analiticamente gli aspetti radiologici delle più comuni patologie broncopolmonari, con elementi di diagnosi differenziale. Si consiglia il lettore di consultare questa sezione al termine dello studio delle diverse condizioni morbose, esposte dettagliatamente nei capitoli successivi. Nei campi polmonari distinguiamo le regioni parailari e mantellari, procedendo dal centro alla periferia, e le regioni apicali, sottoclaveari, mediopolmonari e basali, procedendo in senso verticale; nel radiogramma laterale lo spazio retrosternale, retrocardiaco e l’ombra mediastinica. Consideriamo in primo luogo le alterazioni della trasparenza polmonare. Il polmone, per il suo contenuto aereo, è più trasparente delle formazioni viciniori. Un aumento di trasparenza si avrà per un aumento assoluto o relativo del contenuto aereo. Si possono distinguere ipertrasparenze diffuse e localizzate. Fra le prime ricordiamo l’enfisema polmonare con segni di iperdistensione (diaframma basso, angoli costofrenici ottusi, torace a botte, aumento del diametro dello spazio retrosternale) e di distruzione parenchimale (struttura vascolare ad albero d’inverno, diminuzione della trama, presenza di bolle). Rientrano quivi le distrofie polmonari con rarefazioni più o meno estese del parenchima polmonare senza segni di iperdistensione. Infine ricordiamo lo pneumotorace (pnx) spontaneo con collasso polmonare parziale (pnx ipoteso) o con tendenza ad erniare verso l’altro lato a livello del mediastino supero-anteriore e di quello infero-posteriore (pnx iperteso). Le ipertrasparenze localizzate possono essere extrapolmonari (pnx saccato o ernie transdiaframmatiche di organi cavi addominali). Le più comuni sono quelle intrapolmonari. Fra queste, la bolla di enfisema (a margini sottili), le cavità uniche o multiple di origine malformativa (bronchiectasie congenite, sequestro extralobare, cisti broncogena, polmone policistico). Le più importanti ipertrasparenze localizzate sono quelle derivate da processi distruttivi a carico del parenchima polmonare. In questi casi le pareti della cavità sono ispessite. Vi può essere un livello idroaereo, oppure le pareti sono assai irregolari (neoplasia escavata). Cavità possono ancora derivare da infarto polmonare o da pneumoceli (escavazioni iperinsufflate della polmonite stafilococcica del bambino) o da ciste idatidea (contenente la membrana idatidea nei suoi vari aspetti). Particolare è il caso del micetoma legato allo sviluppo, nel contesto di una cavità preesistente, di un ammasso fungino (aspergillo), per cui la cavità assume la forma a mezzaluna. Ipertrasparenze di forma irregolare (a binario, a stria, a grappolo) si possono riscontrare in caso di bronchiectasie. Tutte le ipertrasparenze possono essere meglio studiate con l’esame tomografico. Una compromissione della trasparenza polmonare si ha nelle cosiddette opacità polmonari. Si devono distinguere anche qui quelle extrapolmonari da quelle intrapolmonari. Fra le prime, i versamenti pleurici, siano essi saccati, scissurali, del grande cavo con le tipiche disposizioni e le masse di origine mediastinica (adenopatie, timomi, aneurismi, ecc.). Per quanto concerne le opacità intrapolmonari, ricordiamo che il disegnarsi al loro interno di un broncogramma aereo, espressione di vie aeree pervie, è un segno di benignità.
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304 Le opacità polmonari rotondeggianti si classificano a seconda della loro dimensione: opacità nodulare miliarica 1-3 mm, opacità nodulare sopramiliarica 3 mm-1 cm, opacità rotondeggianti vere 1-6 cm, opacità massive sopra i 6 cm. Esse sono in genere uniche, rotondeggianti o bozzute, possono contenere calcificazioni o meno. Numerosissime malattie possono avere questa espressione radiologica, ma oggi l’evento più comune è rappresentato dalla neoplasia polmonare maligna. Molto più raro è il caso della neoformazione benigna (adenoma, amartoma, condroma) o metastasi isolate o infine forme flogistiche (tubercoloma) o parassitarie (cisti idatidea). Per la diagnosi differenziale possono essere utili la presenza di calcificazioni (tubercoloma) e di escavazioni, la sede e le dimensioni, i contorni a spicule (neoplasie maligne). Opacità nodulari: sono rappresentate da opacità multiple di diametro da 1-3 mm (miliariche) o fino a 1 cm (sopramiliariche). Possono avere queste caratteristiche la miliare tubercolare (piccoli noduli), la nodulazione emosiderosica (stasi cronica), la nodulazione pneumoconiotica, la nodulazione metastatica, la nodulazione sarcoidotica, la nodulazione della proteinosi alveolare, la nodulazione della carcinosi endolinfatica. Sono comunque più di 80 le malattie che possono dare questo tipo di alterazione polmonare. Opacità massive: sono di forma varia, di dimensione superiore ai 6 cm. Il caso più comune è ancora la neoplasia maligna che può essere ilare, periferica o tipo Pancoast quando occupa la regione apicale con frequenti alterazioni osteolitiche associate. Altrettanto rare sono le forme flogistiche e parassitarie (con tutte le caratteristiche della cisti idatidea quali il segno della membrana galleggiante). Possono infine tutte andare incontro ad escavazione con pareti spesse ed irregolari. Opacità a chiazze: corrispondono a processi flogistici endoalveolari, in genere a genesi batterica o da allergia collagenosica, di piccole dimensioni, contorni sfumati con tendenza a confluire e presenza di broncogramma aereo. Anche l’edema polmonare cardiogeno può assumere questo aspetto, tuttavia le alterazioni sono localizzate in zona peri-ilare (immagine a farfalla) e bibasilare. Opacità a stria: sono delle fini opacità di cui distinguiamo tre forme principali: • le strie basilari da ridotta ventilazione che possono comparire nei versamenti ascitici, nei casi di limitata ventilazione, da dolore puntorio; • le strie a chiazzette da fase iniziale di atelettasia da ostruzione bronchiale centrale (importanti per la diagnosi precoce di neoplasia broncogena); • le strie che accompagnano la stasi circolatoria o strie di Kerley da edema dei setti interlobulari, distinti in tipo A dei campi medio polmonari, in tipo B localizzate a livello dei seni costofrenici e perpendicolari alla pleura, in tipo C con disposizione a fine reticolo. Opacità segmentarie o lobari: in questo caso le opacità hanno disposizione di tipo segmentario o lobare e una loro esatta valutazione richiede l’esame nelle due proiezioni ortogonali. Due sono i casi più comuni: uno è il processo flogistico limitato dalle scissure, l’altro è l’atelettasia che consegue ad ostruzione bronchiale e a riassorbimento dell’aria negli alveoli. In questo secondo caso i margini scissurali sono concavi per la retrazione. L’infarto polmonare può presentarsi come un addensamento a triangolo, un nodulo unico o multiplo o infine un addensamento occupante l’angolo costofrenico. Quando un addensamento occupa tutto un emitorace, si parla
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
di opacità emitoraciche, anch’esse con tendenza all’espansione (versamento massivo) o alla retrazione (atelettasia totale con eventuale versamento ex vacuo). Un capitolo a parte è costituito dalle alterazioni del normale disegno polmonare nel senso della sua accentuazione. Possiamo distinguere le seguenti evenienze. A. Alterazioni originate da modificazioni vascolari. Fra queste vanno ricordati i quadri di iperafflusso (comunicazioni cardiache sinistro-destre) con ombre ilari arteriose accentuate, pulsanti ed aumento del disegno polmonare. Nel caso di ipertensione arteriosa polmonare da aumento delle resistenze, i vasi ilari sono accentuati, ma il disegno mantellare è ridotto. Nel caso infine di ostacolo al deflusso polmonare, si possono rilevare ingrandimento di arterie e vene ilari, sfumatura dei contorni e segni più o meno spiccati di stasi polmonare o di edema polmonare. L’esame della morfologia cardiaca sarà sempre di grande aiuto. B. Alterazioni originate da patologia dell’interstizio polmonare. In fase iniziale è caratteristico l’aspetto a vetro smerigliato, successivamente compare reticolazione sotto forma di fini strie intrecciate. In fase più avanzata vi sarà una reticolonodulazione ed infine il cosiddetto polmone ad alveare, caratteristico della fase terminale. Qualche volta la fase iniziale di un processo flogistico acuto può presentarsi sotto l’aspetto di una fine reticolazione. È la cosiddetta fase interstiziale della polmonite virale. C. Alterazioni da processo flogistico cronico a carico dei bronchi. In questo caso può comparire un’accentuazione del disegno polmonare fino ad immagini a stria e a binario, meglio individuabili con la tomografia. I processi bronchiectasici in fase avanzata possono dare immagini addensate e pluriconcamerate. Particolare attenzione va posta allo studio degli ili polmonari. Ili piccoli o assenti sono espressione di alterazioni ipoplastiche vascolari. Ili accentuati possono essere di origine vascolare (ipertensione polmonare), da masse di tessuto neoformato o da ingrandimento di linfoghiandole (aspetto polilobulato). Patognomoniche sono le calcificazioni della linfoadenite tubercolare di vecchia data e le calcificazioni a guscio d’uovo della silicosi. Da ultimo, consideriamo le alterazioni di trasparenza da causa pleurica. I versamenti pleurici modesti (meno di 300 cm3) sono spesso difficilmente dimostrabili perché nascosti nello sfondato pleurico. Se il versamento è di maggiore entità, esso assume il tipico aspetto risalente verso la periferia. Il margine superiore è spesso sfumato. Altre volte il versamento si distribuisce a camicia, riducendo uniformemente la trasparenza dell’emitorace. I versamenti interlobari avranno disposizione sospesa a seconda della scissura e vanno studiati con apposite proiezioni. Le neoplasie pleuriche forniscono addensamenti a diversa morfologia ma con angolo di attacco alla parete ottuso.
Un progresso nella diagnostica radiologica del torace è nato dall’utilizzazione della tomografia assiale computerizzata. Questa, infatti, consente lo studio di sezioni trasverse del torace con notevole dettaglio dell’anatomia. Le indicazioni principali per la sua utilizzazione sono: • ricerca di noduli metastatici; • ricerca di masse neoplastiche non evidenziabili dalla radiologia convenzionale; • studio del mediastino per la dimostrazione di masse o adenopatie.
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15 - SEMEIOTICA FISICA E STRUMENTALE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Grande importanza hanno assunto oggi in pneumologia, almeno per alcune specifiche indicazioni, le indagini basate sull’utilizzo di radionuclidi. L’esame più comunemente utilizzato è la scintigrafia da perfusione con macroaggregati. In questo modo si possono dimostrare difetti di perfusione da ostruzione vascolare, come nella tromboembolia dell’arteria polmonare e nelle obliterazioni del circolo da invasione neoplastica. Anche la ventilazione può essere indagata con questi mezzi diagnostici. Si possono usare traccianti gassosi (il più comune è lo 133Xenio), oppure particelle marcate aerosolizzate. Nel primo caso si evidenzieranno disomogeneità di ventilazione, velocità di clearance alveolare, volumetria polmonare regionale. Ma l’indicazione clinica più importante è la dimostrazione di preesistente ventilazione in regioni private della perfusione nella diagnosi di tromboembolia della polmonare. L’inalazione di particelle marcate dimostrerà anch’essa la distribuzione della ventilazione, ma si realizzeranno quadri diversi di deposizione, a seconda della sede di maggiore broncocostrizione. Inoltre si potrà avere una valutazione obiettiva dell’efficacia della clearance mucociliare seguendo nel tempo velocità e modalità di depurazione del materiale inalato (per es., ridotto nei deficit funzionali delle ciglia, come nella sindrome di Kartagener). Una terza utilizzazione dei radionuclidi è il fenomeno della captazione positiva da parte di tessuti patologici. Ricordiamo la captazione di 67Gallio da parte dei tessuti tumorali maligni (differenza con i tumori beni-
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gni) e da parte delle componenti cellulari dell’infiammazione. Quest’ultima proprietà è sfruttata per la dimostrazione di alveolite interstiziale in fase attiva. Uno spazio sempre più rilevante nella diagnostica pneumologica è oggi occupato dalla broncoscopia a fibre ottiche, che, utilizzando un mezzo flessibile, è realizzabile in quasi tutti i malati con poca sofferenza. Si può così avere visione diretta della lesione, anche se è situata nei lobi superiori, grazie alla manovrabilità della punta dello strumento, indirizzabile a piacere. È possibile prelevare campioni bioptici e realizzare una biopsia transbronchiale, così come, iniettando soluzione fisiologica e riaspirandola, si può ottenere il cosiddetto liquido di lavaggio broncoalveolare, sul quale dosare enzimi (aumento di collagenasi ed elastasi in processi flogistici a componente neutrofila), condurre studi citologici qualitativi (cellule neoplastiche) oppure quantitativi (quantificando le componenti di macrofagi, linfociti e neutrofili) o infine batteriologici (ricerca del BK, prelievi di campioni batteriologici nelle forme opportuniste o resistenti al trattamento antibiotico). Da ultimo, accenniamo alla necessità in alcuni casi di ricorrere al prelievo bioptico, poiché la biopsia transbronchiale spesso non fornisce una quantità di materiale sufficiente. La biopsia di formazioni solide polmonari può essere fatta tramite ago per puntura transparietale, con possibili complicanze quali lo pneumotorace e l’emotorace, oppure tramite intervento toracotomico per forme a carattere interstiziale. La biopsia pleurica, necessaria a volte per la diagnosi differenziale di versamenti e di tumori pleurici, può essere realizzata tramite toracoscopia e aghi appositi.
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C A P I T O L O
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MALATTIE DELLE VIE RESPIRATORIE E SINDROMI OSTRUTTIVE R. PARDI
INFEZIONI DELLE VIE RESPIRATORIE Le infezioni acute delle prime vie respiratorie sono certamente l’evento morboso più frequente, rappresentando da sole il 50-60% di tutte le malattie acute. Pur trattandosi, nella maggior parte dei casi, di patologie di scarsa gravità, tali infezioni sono responsabili, particolarmente nei bambini, del 20% circa dei decessi dovuti a malattie respiratorie; la maggior rilevanza sociale ed epidemiologica spettante a queste malattie riguarda però l’assenza scolastica o lavorativa, che è causata da infezioni delle prime vie aeree nel 30-50% dei casi negli adulti e nel 60-80% nei bambini in età scolare. Gli agenti eziologici di questo eterogeneo gruppo di manifestazioni cliniche sono in gran parte virali, ed il recente progresso delle tecniche diagnostiche di laboratorio ha consentito una loro più precisa identificazione (Tab. 16.1). L’enorme varietà di sierotipi virali presenti nell’ambiente (circa 150 appartenenti ad una dozzina di gruppi di virus) e potenzialmente responsabili di malattie respiratorie può ben spiegare l’elevata frequenza annuale di tali affezioni nella popolazione generale, oltre che nei singoli individui; è stato infatti calcolato che negli USA ogni individuo è soggetto in media ad 1,4 infezioni respiratorie all’anno, con differenze relative all’età, alle abitudini di vita ed alle condizioni igienico-sanitarie. Questo gruppo di malattie presenta forme morbose largamente sconfinanti l’una nell’altra e spesso con caratteri mal definiti. Vale perciò la pena di analizzare distintamente le loro caratteristiche da vari punti di vista: clinico, eziologico, epidemiologico. A. Clinica. Tutto l’albero respiratorio può essere attaccato da queste particolari infezioni, ma di solito vi è una localizzazione prevalente: nel naso e nei seni paranasali (rinite e sinusite), nel faringe (faringite), nella laringe (laringite), nella trachea (tracheite) e nei bronchi (bronchite). Spesso, tuttavia, più sezioni dell’albero re-
spiratorio possono essere colpite simultaneamente con quadri misti. L’importanza del quadro clinico può essere influenzata dall’età. Nei bambini che, per ragioni di taglia corporea, hanno bronchioli di piccolo calibro, una bronchiolite può indurre una grave insufficienza respiratoria. Sempre nei bambini, una laringite può essere accompagnata da spasmo dei muscoli della glottide con ostruzione respiratoria alta (crup). Possono essere presenti sintomi costituzionali consistenti in febbre, talora anche elevata, malessere generale, cefalea, dolori muscolari e ossei. A volte, come nell’influenza, questi sintomi possono essere nettamente prevalenti sulle manifestazioni dovute a interessamento delle vie respiratorie, con una netta sproporzione tra la compromissione generale e gli altri sintomi e segni. Al contrario, in molti altri casi le manifestazioni locali possono essere pressoché esclusive, senza o con pochi sintomi costituzionali. B. Eziopatogenesi. Nella maggior parte dei casi si tratta di infezioni virali. Anche alcuni altri microrganismi possono essere implicati, soprattutto nelle complicanze, ma, a parte l’impegno degli streptococchi in alcune forme di faringite, il loro ruolo è meno importante. Perciò, in questo discorso più generale parleremo di
Tabella 16.1 - Cause più comuni di infezioni delle vie respiratorie. • • • • • • • • • •
Rhinovirus Coronavirus Virus influenzali Virus respiratorio sinciziale Virus parainfluenzali Adenovirus Enterovirus (coxsackie, echovirus) Herpes virus Metapneumovirus Virus sconosciuti
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virus riservando dei cenni agli altri microrganismi nella trattazione delle singole forme morbose. Nella tabella 16.1 sono elencati i virus che più comunemente sono implicati nelle infezioni delle vie respiratorie. È rilevante il fatto che, pur essendo disponibili oggi metodi sensibili e specifici per identificare i virus su materiale facilmente accessibile, come le secrezioni mucose prodotte nelle infezioni delle vie respiratorie, esistono ancora non pochi casi nei quali si deve concludere che sono implicati virus ancora sconosciuti. Questo accade nel 20-30% dei casi di raffreddore comune. Lo stesso metapneumovirus è stato scoperto solo di recente in bambini con infezioni respiratorie. Eppure, le indagini sierologiche hanno dimostrato che questo virus colpiva gli esseri umani da almeno 50 anni, che aveva una diffusione mondiale e che in Olanda, dove si è studiato il problema, praticamente tutti i bambini entro i 5 anni di età ne erano stati infettati. I rhinovirus hanno una predilezione per le alte vie respiratorie e sono la più frequente causa di raffreddore in tutti i gruppi di età. È stato anche dimostrato che questi virus sono in grado di replicarsi nelle vie respiratorie basse e perciò possono provocare infiammazione anche di questa sezione dell’albero respiratorio, talora, in pazienti immunocompromessi, con quadri clinici gravi. Tuttavia, le infezioni da rhinovirus sono per lo più limitate e con scarsi sintomi costituzionali. Esistono più di 100 sierotipi di rhinovirus, il che rende l’immunità nei loro confronti molto problematica. In passato i coronavirus erano considerati solamente un agente eziologico secondario del raffreddore. Recentemente, in Asia si è manifestata una grave forma di sindrome acuta respiratoria con danneggiamento alveolare, denominata SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) che è stata riconosciuta essere provocata da un coronavirus. Di questa parleremo a proposito delle polmoniti, non trattandosi in senso stretto di un’infezione delle sole vie aeree superiori (si veda il Cap. 17). Dei virus influenzali parleremo più dettagliatamente in seguito. Il virus respiratorio sinciziale (Respiratory Syncytial Virus: RSV) e il virus parainfluenzale hanno caratteristiche simili. Questi virus sono principalmente noti come “virus dei bambini”, dato che l’RSV è, negli USA, la causa del 10-30% delle ospedalizzazioni infantili per tracheobronchite, del 50-90% delle ospedalizzazioni per bronchiolite e del 5-4% di quelle per polmonite. Il virus parainfluenzale (del quale esistono più sierotipi) causa uno spettro di malattie respiratorie simili a quelle provocate dall’RSV, ma con un minore numero di ospedalizzazioni. Nel complesso, il virus parainfluenzale provoca meno bronchioliti dell’RSV e più localizzazioni laringee con spasmo (crup). Reinfezioni con l’RSV e con il virus parainfluenzale possono verificarsi e sono comuni tanto nei bambini quanto negli adulti. Queste reinfezioni, per lo più lievi, sono però importanti in quanto le persone affette possono contagiare bambini che non hanno mai sperimentato un contatto con questi virus e che possono perciò sviluppare delle forme cliniche gravi. Inoltre, queste reinfezioni non sono sempre
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lievi e possono assumere, anche negli adulti, un quadro clinico indistinguibile da quello della influenza. I rimanenti virus (adenovirus, enterovirus) sono molto più raramente causa di infezioni delle vie respiratorie con quadri clinici variabili. Un problema importante è chiarire in quale modo i virus che abbiamo menzionato provochino un danno delle vie respiratorie. La spiegazione più ovvia è che essi abbiano un effetto citopatico sulle cellule epiteliali che ricoprono le vie respiratorie e che l’infiammazione sia conseguenza della liberazione di enzimi lisosomiali da parte delle cellule distrutte. Questo è certamente vero per i virus influenzali e per gli adenovirus. Tuttavia, almeno per i rhinovirus non sembra che le cose stiano così. Questi virus non sono citopatici, ma sembrano indurre infiammazione attraverso la produzione da parte delle cellule infettate di citochine infiammatorie, come, per esempio, l’interleuchina-6 e l’interleuchina-8, avviando una cascata nella generazione di tutta una serie di mediatori dell’infiammazione. Un altro aspetto interessante di queste infezioni è la loro capacità di scatenare asma bronchiale. Tutti i virus possono indurre questo effetto, ma in modo particolare l’RSV. Questo sembra dipendente dal fatto che la risposta immunitaria a questo virus è dipendente dai linfociti helper di tipo 2, che producono citochine che favoriscono le risposte immunitarie dello stesso tipo. Le reazioni allergiche sono pure determinate da queste risposte. C. Epidemiologia. Le infezioni virali delle vie respiratorie sono estremamente contagiose e, in ogni caso, il materiale infettante è rappresentato dalle secrezioni espulse nell’ambiente con i colpi di tosse o con gli starnuti. La trasmissione dei virus che provocano infezioni delle vie respiratorie può avvenire in tre modi. 1) Contatto delle mani con secrezioni che contengono il virus o direttamente da una persona infetta o indirettamente da superfici ambientali che possono essere contaminate. In questo caso il contatto è seguito da autoinoculazione nel naso o negli occhi mediante gesti inconsapevoli. 2) Particelle di aerosol di piccolo diametro disseminate nell’ambiente dalle persone infettate e che restano sospese nell’aria per un periodo prolungato. In questo caso il contagio può avvenire anche senza che ci sia stato un contatto diretto con una persona infetta. 3) Inalazione diretta di particelle di aerosol di maggior diametro eliminate da una persona infetta. Sebbene sia possibile che ognuno di questi meccanismi sia implicato in tutte le infezioni delle vie respiratorie, esistono delle vie di trasmissione preferenziali a seconda dei virus interessati. Così, il meccanismo numero 1, autoinoculazione con le mani contaminate, è la più efficiente via di trasmissione per i rhinovirus, mentre il meccanismo numero 2, inalazione di piccole particelle di aerosol da espettorato infetto persistenti nell’ambiente, è prevalente nell’influenza. Esiste un’evidente stagionalità nell’incidenza delle infezioni virali delle vie respiratorie, che hanno solitamente un picco di frequenza nella stagione fredda (e nella stagione delle piogge nei Paesi tropicali). Questo
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fatto ha portato alla comune credenza che siano favorite dalle basse temperature. Esperimenti eseguiti con i rhinovirus su volontari sani hanno smentito questa opinione. Forse la stagionalità dipende dal fatto che dall’autunno alla primavera è più probabile che molte persone si trovino assieme in luoghi affollati, a cominciare dalle scuole, e questo aumenta le occasioni di contagio. In genere, le infezioni virali delle vie respiratorie sono più frequenti nell’età infantile. Si è visto che l’incidenza di raffreddore è inversamente proporzionale all’età. Abbiamo già parlato della predilezione per l’infanzia dell’RSV e del virus parainfluenzale.
Rinite (raffreddore comune) Questa comunissima manifestazione morbosa (definita “common cold” dagli Autori in lingua inglese) è causata da una varietà di agenti virali. Tra questi i più comuni sono i rhinovirus, che sono responsabili di raffreddore nel 30-50% dei casi. Al secondo posto vengono i coronavirus (10-15%), al terzo i virus influenzali (5-15%), al quarto, alla pari, l’RSV e i virus parainfluenzali (circa 5%) e, in coda, gli adenovirus e gli enterovirus (meno del 5%). Nel 20-30% dei casi l’agente eziologico resta sconosciuto. È ignota la proporzione dei raffreddori provocati dai metapneumovirus. Le infezioni da rhinovirus sono le meglio conosciute perché sono state estesamente studiate nei volontari sani. La dose infettante dei rhinovirus è piccola. In esperimenti con volontari sani si è visto che oltre il 95% dei soggetti privi di anticorpi contro un determinato sierotipo di questi virus risultava infettato con l’inoculazione nasale di questo stesso sierotipo, almeno a giudicare dalla dimostrazione della presenza del virus nelle secrezioni nasali nei giorni seguenti. Tuttavia, per ragioni che restano non spiegate, solo il 75% degli individui infettati sviluppa i sintomi di raffreddore. Questo significa che ci si può contagiare anche a contatto con individui apparentemente sani, ma, in realtà, a loro volta infettati. L’eliminazione nasale dei rhinovirus nelle persone infettate ha il suo massimo 2 giorni dopo l’inoculazione nasale, ma piccole quantità di virus possono essere scoperte nelle secrezioni nasali fino a 3 settimane dopo l’infezione. Si calcola che i bambini in età prescolare abbiano da 6 a 12 raffreddori all’anno, mentre la media scende ad 1,8 all’anno per i soggetti in età adulta. Tra i fattori predisponenti a questo genere di affezione vanno menzionati l’eventuale preesistenza di rinite allergica ed il sesso, essendo il raffreddore più frequente, per motivi imprecisati, nei soggetti di sesso femminile, particolarmente durante la fase ovulatoria per le donne in età feconda. La reazione assai precoce che si instaura nei confronti dell’agente virale, che ne consente in genere la rapida eliminazione, sembra largamente attribuibile alla produzione di interferon da parte delle cellule infettate, ma è in questi casi regolarmente presente una reazione immunitaria, sia di tipo cellulo-me-
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diato che umorale, in grado di proteggere l’individuo da una successiva reinfezione (da parte dello stesso sierotipo virale) nei 2 anni seguenti il primo contatto. Tuttavia, questa immunità è di modesta utilità pratica dato che, come si è visto, il raffreddore può essere provocato da una pluralità di virus e che, tra gli stessi rhinovirus, esistono tanti diversi sierotipi che non danno immunità crociata. I rhinovirus si localizzano soprattutto nelle fosse nasali, ove sono presenti condizioni microambientali favorevoli alla loro sopravvivenza, quali una temperatura leggermente inferiore ai 37 °C ed un pH non troppo acido. È stato recentemente caratterizzato il recettore cellulare per i rhinovirus: si tratta di una molecola utilizzata nei processi adesivi cellula-cellula nel sistema immunitario, e definita ICAM-1 (Inter-cellular Adhesion Molecule-1). L’infezione virale della mucosa nasale determina una vasodilatazione e un aumento della permeabilità vascolare, che a sua volta causa ostruzione nasale e rinorrea. Una stimolazione colinergica fa aumentare la secrezione nella mucosa nasale e provoca starnuti È stato dimostrato che l’effetto del raffreddore nelle alte vie respiratorie non è limitato alle cavità nasali, ma interessa anche i seni paranasali. Perciò, una sinusite transitoria non è necessariamente espressione di una complicanza batterica. Clinica. Le manifestazioni cliniche della rinite insorgono generalmente dopo una breve preincubazione (24-48 ore) e consistono in secrezione nasale abbondante inizialmente acquosa, ma che tende nelle ore successive a divenire più viscosa, assumendo talora aspetto purulento; la secrezione nasale può essere associata a modesta faringodinia e, talora, a sensazione di malessere e di stordimento. L’estensione dell’infezione oltre la mucosa rinofaringea può rendersi responsabile di tosse e, più di rado, di processi otitici o sinusitici peraltro solitamente secondari ad una superinfezione batterica a carico delle mucose danneggiate dal virus. L’evoluzione di questa affezione respiratoria è in genere estremamente benigna, in quanto tende ad autolimitarsi nel volgere di 3 o 4 giorni. Non esistono al momento terapie o profilassi efficaci nei confronti del raffreddore, per cui ci si può limitare all’impiego di farmaci sintomatici, atti a ridurre la secrezione nasale (vasocostrittori ad azione locale) e la faringodinia. Tentativi di una terapia anti-virale sono stati praticati e sono ancora allo studio. L’uso dell’interferon-, che aveva suscitato molte speranze, si è rivelato inconcludente. Risultati modesti si sono avuti con terapie specifiche dirette contro i rhinovirus, per esempio con molecole adatte a bloccare l’interazione di questi virus con il loro recettore, ICAM-1. Recentemente, sono stati sperimentati alcuni nuovi antivirali, quali il pleconaril, una sostanza che si lega al capside virale, e il ruprintivir, un inibitore di una proteasi dei rhinovirus umani. Il pleconaril, che si assume per bocca ed è efficace non solo contro i rhinovirus, ma anche contro gli enterovirus, riduce di 1-1,5 giorni la durata del raf-
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
freddore purché sia assunto entro 24-36 ore dall’inizio dei sintomi.
Faringite Questa affezione, molto comune nei soggetti in età infantile, riconosce un’eziologia virale solo nella metà circa dei casi, mentre la restante percentuale è per lo più prodotta da batteri, tra i quali particolarmente importanti, per le complicanze che possono produrre, gli streptococchi -emolitici di gruppo A. I virus più comunemente implicati in questa patologia sono gli adenovirus e gli herpesvirus, ma potenzialmente ogni virus può localizzarsi ed esplicare i propri effetti citopatogeni a livello della mucosa faringea; tra gli altri devono essere ricordati i virus coxsackie, responsabili di una grave faringite acuta (detta erpangina) spesso associata a manifestazioni di carattere sistemico. L’agente virale è solitamente inalato, anche se è possibile (particolarmente per gli adenovirus) una sua penetrazione attraverso il sacco congiuntivale. Dopo 1 o 2 giorni di incubazione insorgono le manifestazioni cliniche, generalmente limitate ad una variabile faringodinia (mal di gola) che può essere avvertita dal paziente in modo continuo o unicamente durante la deglutizione. L’esame obiettivo della mucosa faringea dimostra in questi casi un diffuso arrossamento, talora associato alla presenza di placche biancastre, dovute all’accumulo di leucociti e per lo più localizzate sulle tonsille e sui pilastri palatini (faringite essudativa). Talora possono essere tumefatti i linfonodi latero-cervicali. Raramente possono comparire manifestazioni generalizzate (febbre, malessere generale) che, nel caso del virus di Epstein-Barr, configurano il quadro della mononucleosi infettiva. In corso di infezione da adenovirus può talvolta essere presente un chiaro interessamento congiuntivale, con arrossamento e bruciore oculare. Si parla allora di febbre faringo-congiuntivale. Anche in questo caso l’evoluzione della malattia è spesso benigna e i disturbi si attenuano fino a scomparire nel volgere di pochi giorni. La persistenza per più di una settimana di faringodinia, eventualmente associata a sintomi costituzionali, deve far pensare ad una forma sfumata di mononucleosi.
Laringite L’interessamento della mucosa laringea o laringo-tracheale da parte di un’infezione virale è appannaggio preferenziale dei virus parainfluenzali, di cui si conoscono 4 sierotipi patogeni. L’infezione è contratta per inalazione e si sviluppa prevalentemente in soggetti in età infantile, dopo un periodo di incubazione di 5 o 6 giorni. Il paziente lamenta dolore laringeo (cioè basso, a livello della cartilagine laringo-tracheale) comunemente associato a disfonia o a pressoché completa afonia.
Non di rado è presente tosse irritativa, non produttiva, dovuta al danneggiamento dell’epitelio tracheale. Molto raramente tale infezione può progredire fino a dare un quadro di polmonite virale, mentre più comune è l’eventualità di una sovrapposizione batterica, responsabile di processi otitici o sinusitici. Anche in questo caso la malattia è autolimitantesi e si giova unicamente di terapie sintomatiche.
Influenza Questa malattia, estremamente diffusa in tutto il mondo, deve essere considerata come la più grave tra le virosi respiratorie, non solo perché ad essa è associata, direttamente o indirettamente, un’elevata mortalità, ma anche perché è responsabile delle più consistenti perdite di ore lavorative o scolastiche annuali dovute a malattia. L’agente eziologico, il virus influenzale, è un piccolo virus a RNA a singola elica, appartenente alla famiglia delle Orthomixoviridae, di cui sono conosciute tre varianti (A, B e C), le cui peculiari caratteristiche strutturali sono alla base della singolare epidemiologia di questo evento morboso. 1. Caratteristiche del virus. Delle tre varianti conosciute di questo agente virale, il virus di tipo A è quello maggiormente patogeno per l’uomo. Esso è provvisto al suo interno di otto piccoli frammenti di RNA a singola elica e presenta un rivestimento proteico (capside) costituito principalmente da due glicoproteine strutturalmente differenti tra loro e responsabili sia della patogenicità del virus che della sua antigenicità (cioè della proprietà di evocare una risposta immunitaria da parte dell’organismo infetto). La prima, detta emoagglutinina (H per l’iniziale del termine inglese), consente al virus di ancorarsi alla superficie cellulare, ove esistono recettori specifici per la sostanza (il termine emoagglutinina si riferisce in particolare alla proprietà di legarsi alla superficie eritrocitaria); la seconda, detta neuraminidasi (N), possiede un’attività enzimatica deputata alla lisi delle molecole di acido neuraminico che mantengono legato il virus alla cellula e consente in tal modo il distacco della particella virale dalla superficie cellulare ed il suo passaggio da una cellula all’altra, necessario alla propagazione dell’infezione (Fig. 16.1). Entrambe queste strutture sono in grado di evocare una risposta immunitaria sia di tipo umorale che di tipo cellulare da parte dell’organismo infetto, che consente la prevenzione di una successiva reinfezione; a questo riguardo risultano particolarmente efficaci gli anticorpi antiemoagglutinina, che impediscono l’ancoraggio del virus alla cellula e quindi il suo ciclo replicativo intracitoplasmatico. L’immunità che si stabilisce in seguito all’infezione da virus influenzale è protettiva ed estremamente duratura, ma risulta spesso inefficace a causa dell’estrema variabilità del virus, che è soggetto a notevoli riarrangiamenti del proprio materiale genetico, cui corrispondono variazioni strutturali delle proteine capsidiche e quindi delle caratteristiche di antigenicità della particel-
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16 - MALATTIE DELLE VIE RESPIRATORIE E SINDROMI OSTRUTTIVE
La classificazione dei virus influenzali responsabili di epidemie viene operata facendo seguire al tipo del virus responsabile (A, B o C), la sede e l’anno di identificazione. Fa eccezione il virus responsabile della pandemia del 1918, che è stato identificato con molto ritardo rispetto all’epoca della malattia. Le caratteristiche antigeniche delle due glicoproteine di membrana vengono invece indicate con numeri progressivi.
N
H
Figura 16.1 - Rappresentazione schematica della struttura esterna del virus influenzale. N = neuraminidasi; H = emoagglutinina.
la. Tale fenomeno è conseguente all’elevata frequenza di ricombinazione del materiale genetico segmentato del virus, che avviene sia tra diversi sottotipi di virus umani, sia tra il virus influenzale umano e quello di altre specie animali (suini, equini, volatili domestici), e può realizzarsi qualora una cellula venga contemporaneamente infettata da due virus differenti. Il fenomeno della ricombinazione genica interessa principalmente la molecola di emoagglutinina ed è responsabile di periodiche (ogni 10-15 anni) variazioni strutturali del virus, che rendono conto delle più gravi e diffuse epidemie di influenza (pandemie), in quanto la popolazione diviene suscettibile all’infezione virale in misura proporzionale alla variazione antigenica occorsa. Variazioni antigeniche di entità minore, determinate da mutazioni puntiformi nei singoli frammenti di RNA, sono responsabili di piccole epidemie e, poiché si verificano pressoché costantemente, esse sostengono il livello endemico che questa malattia presenta in tutta la popolazione mondiale. 2. Epidemiologia (Tab. 16.2). La prima pandemia influenzale di cui si abbia conoscenza avvenne nel 1889, ma le caratteristiche del virus che la produsse sono ignote. In seguito si ebbero tre grosse pandemie, causate da altrettante consistenti variazioni nella struttura del virus. La prima, occorsa nel 1918 (e denominata “spagnola”), provocò la morte di più di 20 milioni di individui e fu causata da un virus con caratteristiche in parte simili all’agente eziologico di una grave epidemia influenzale suina accaduta in quegli anni nel continente americano; fu perciò denominato (la sua identificazione avvenne circa 15 anni più tardi) A/Swine/1931 e la sua struttura classificata come HswN1.
La seconda grande pandemia si ebbe nel 1957 (“asiatica”) e fu prodotta da un virus denominato A/Japan/1957, con struttura radicalmente differente (H2N2) rispetto a quello responsabile della “spagnola”. Questa pandemia interessò più di 40 milioni di persone nel solo continente americano. La terza pandemia influenzale (meno grave delle precedenti) si è avuta nel 1968 ed è stata prodotta da un virus (A/Hong Kong/1968; H3N2) con struttura solo parzialmente differente rispetto al precedente. È interessante notare che nelle due ultime pandemie (1957 e 1968) i soggetti più anziani hanno mostrato un certo grado di resistenza all’infezione, probabilmente dovuto a somiglianze strutturali di questi due virus con quello che produsse la pandemia del 1889. Nei periodi intercorrenti tra le tre grandi pandemie si ebbero epidemie influenzali di minore gravità, a causa della parziale somiglianza dei virus responsabili con quelli menzionati, che rendeva la popolazione meno suscettibile all’infezione. Si ebbero infatti epidemie nel 1933 (virus A/Puerto Rico/1934 con struttura H0N1) e nel 1947 (virus A/FM 1/1947 con struttura H1N1). Nel 1976 si ebbe un caso isolato di influenza fatale (a Fort Dix nel New Jersey su una recluta militare) prodotto da un virus con caratteristiche simili a quello responsabile della pandemia del 1918. Ciò destò molta preoccupazione per le potenziali conseguenze di una nuova pandemia di tale portata, ma fortunatamente quel virus, evidentemente meno adattato all’organismo umano, si propagò in modo limitato. Nel 1978 si è avuta infine l’inattesa ricomparsa del virus H1N1 che aveva prodotto l’epidemia del 1947. Tale evento contraddisse la convinzione che la comparsa di una nuova variante del virus dovesse necessariamente far scomparire quella precedente, in quanto da quell’anno coesistono due tipi di virus A strutturalmente molto diversi tra loro (con struttura H3N2 ed H1N1). Solo i soggetti nati dopo il 1957 (che non avevano quindi anticorpi protettivi per quel virus) si ammalaroTabella 16.2 - Principali tipi di virus influenzale responsabili di epidemie.
1889 1918 1933 1947 1957 1968 1978 1979
Pandemia Pandemia Epidemia Epidemia Pandemia Pandemia Epidemia Epidemia Epidemia 1980 Epidemia
VIRUS
STRUTTURA VIRALE
? A/Swine/1931 A/Puerto Rico/1934 A/FM 1/1947 A/Japan/1957 A/Hong Kong/1968 A/USSR/1978 A/Bangkok/1979 A/Brazil/1979 B/Singapore/1980
? HswN1 H0N1 H1N1 H2N2 H3N2 H1N1 H3N2 H1N1 –
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no di questa forma di influenza e l’epidemia fu perciò di modesta entità. Dopo quell’anno, si sono avute solo epidemie circoscritte, causate da mutazioni parcellari nel genoma virale (fenomeno della “deriva antigenica”) sia per i virus di tipo A che per quelli di tipo B. Nel 1997 a Hong Kong si verificò nel pollame una epidemia di influenza. Il virus fu identificato e classificato come H5N1. Il contagio umano da parte di questo virus non si rivelò impossibile, ma comunque fu raro. In totale furono riportati 18 casi confermati, ma si ebbero 6 decessi. Di fronte al pericolo di una nuova pandemia umana le autorità di Hong Kong ordinarono la soppressione di 1.300.000 polli. L’atteggiamento degli esperti di fronte al pericolo di una pandemia influenzale da virus H5N1 è duplice. Da un lato, la rarità dei contagi umani sembra rassicurante; ma, dall’altro lato, si teme che questo virus aviario possa infettare i maiali. Questi animali posseggono cellule dotate di recettori sia per l’emoagglutinina dei virus influenzali aviari sia di quelli umani. Una doppia infezione in questi animali potrebbe consentire una ricombinazione genetica in grado di originare un nuovo ceppo di virus patogeno nell’uomo. A. Patogenesi. Similmente a quanto accade per la maggior parte delle infezioni respiratorie, la penetrazione del virus influenzale nell’organismo avviene di solito per inalazione di secrezioni infette espulse con la tosse o con lo starnuto da soggetti portatori. Il virus è in grado di moltiplicarsi nel citoplasma di pressoché tutte le cellule dell’epitelio respiratorio (ciliate, mucosecernenti, ghiandolari) che, entro pochi giorni dall’infezione, presentano aspetti degenerativi nucleocitoplasmatici e vanno incontro a necrosi. Oltre alla mucosa rinofaringea, appare quasi costantemente interessata dal processo infettivo anche quella tracheobronchiale, mentre è infrequente l’interessamento di organi al di fuori dell’apparato respiratorio, quali per esempio il sistema nervoso centrale, con quadri di meningite o meningo-encefalite. Comunemente si ritiene che la mortalità e la morbilità dell’influenza aumentino negli anni estremi della vita, e cioè nei bambini e nei vecchi, ma ciò non è sempre vero. Nell’epidemia di “spagnola” del 1918 vi furono 20 milioni di morti e una parte sproporzionatamente grande di questi fu rappresentata da giovani adulti. Tra i 18 casi di infezione da virus H5N1 che si verificarono a Hong Kong nel 1997 si osservarono questi dati: 5 morti su 9 adulti infettati, un solo morto su 9 bambini sotto i 12 anni infettati. Appare evidente che esistono ceppi di virus influenzale che sono letali soprattutto per le persone giovani e robuste. In questo caso il fattore che conta è una vivace immunità innata, quella messa in atto dai macrofagi e che comporta la produzione di citochine quali gli interferoni e il TNF- (Tumour Necrosis Factor: TNF). Questa immunità è in grado di eliminare i virus, ma provoca anche effetti sistemici sull’organismo dai quali derivano principalmente i sintomi dell’influenza. Si pensa che alcuni virus influenzali, come quello dell’influenza suina e il virus H5N1, siano resistenti all’azione di queste cito-
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
chine, pur essendo capaci di stimolarne intensamente la produzione. Il risultato è che si mette in atto un circolo vizioso nel quale il virus continua a replicarsi e induce la secrezione di quantità progressivamente maggiori di interferon e TNF, che sono inutili per controllare l’infezione, ma molto dannosi per l’integrità dell’organismo. Il risultato finale può essere un distress acuto respiratorio (si veda Appendice, Cap. 17), l’emofagocitosi (eritrociti fagocitati da cellule macrofagiche attivate, segno di iperattività di questa linea cellulare) e una disfunzione multiorgano che può portare a morte. Questa caratteristica letale di alcuni virus influenzali sembra dovuta a mutazioni di un gene che codifica una proteina non strutturale del virus, denominata NS1. È interessante notare che questa resistenza all’immunità innata sembra esclusiva di virus di derivazione animale, e cioè geneticamente condizionati a un ambiente citochimico diverso da quello umano. B. Clinica. L’influenza colpisce individui di ogni età e ha una certa prevalenza stagionale, essendo più comune nei mesi invernali o all’inizio della primavera. Le manifestazioni cliniche della malattia insorgono dopo un breve periodo di incubazione (1-2 giorni) durante il quale il virus può già essere eliminato nell’ambiente dal soggetto infetto, e consistono prevalentemente in una febbre a carattere remittente-intermittente, che può raggiungere anche valori elevati (39,5 °C) e che si accompagna a dolori ossei e muscolari diffusi. Frequentemente sono presenti cefalea e dolore retrorbitale, oltre ad un notevole malessere generale, che accompagna l’aumento della temperatura corporea. Sintomi e segni di interessamento dell’albero respiratorio consistono spesso in una tosse scarsamente produttiva ed in una modesta faringodinia, cui talora si accompagna una secrezione nasale acquosa con sensazione di naso chiuso. L’esame obiettivo del malato affetto da influenza non complicato è in genere del tutto negativo e solo occasionalmente è possibile ravvisare, all’auscultazione del torace, ronchi diffusi dovuti all’interessamento flogistico della mucosa tracheobronchiale. Durante l’acme dell’alterazione febbrile il paziente si presenta notevolmente prostrato, con cute calda ed arrossata e una modesta tachicardia, anche se spesso l’entità di tale reperto può essere inferiore a quanto prevedibile sulla base dei valori della temperatura corporea (bradicardia relativa). Il corteo sintomatologico descritto, che è abbastanza caratteristico e non giustifica il troppo frequente ricorso al termine “influenza” usato per definire le comuni virosi respiratorie, tende a risolversi spontaneamente entro 3 o 4 giorni dalla sua insorgenza, con rare eccezioni in cui esso può protrarsi per 1 o 2 settimane. La completa guarigione si realizza in genere dopo un periodo più o meno prolungato, durante il quale il paziente avverte una sensazione di profonda astenia. L’evento più temibile dell’infezione da virus influenzale è certamente rappresentato dalle complicanze, che sono spesso fatali e che tendono per lo più ad insorgere
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16 - MALATTIE DELLE VIE RESPIRATORIE E SINDROMI OSTRUTTIVE
in soggetti anziani defedati o affetti da malattie cardiovascolari o polmonari croniche, in donne gravide o in bambini di età inferiore ad 1 anno. La complicanza più frequente è rappresentata da una polmonite, che nel 20% dei casi è dovuta al diretto interessamento dei setti alveolari da parte dell’agente virale, mentre nella restante percentuale è prodotta da una superinfezione batterica a questo livello, più spesso causata dallo Pneumococcus e dallo Staphylococcus aureus. La polmonite influenzale condivide le caratteristiche principali delle polmoniti virali ed assume frequentemente notevole gravità, a causa del diffuso interessamento flogistico-necrotico dei setti alveolari, che conduce il paziente ad un’insufficienza respiratoria acuta spesso fatale. L’esame obiettivo mostra in questi casi un paziente gravemente dispnoico, talora cianotico, con tosse scarsamente produttiva ed emissione di un escreato denso e spesso emoftoico. L’esame semeiologico del torace dà di regola scarse informazioni (a causa del prevalente interessamento interstiziale), mentre utili possono risultare l’indagine radiografica del torace ed alcuni esami ematochimici, che evidenzieranno un notevole aumento dei valori degli indici di flogosi per lo più associato ad una marcata leucopenia. Nel caso di una polmonite da superinfezione batterica, il paziente presenterà in genere tosse altamente produttiva con escreato mucopurulento, un quadro semeiologico del torace più indicativo ed una variabile leucocitosi neutrofila nel sangue periferico. Meno comune è la complicanza meningo-encefalitica, probabilmente dipendente da un particolare tropismo presentato da alcuni sottotipi virali nei confronti delle strutture del sistema nervoso centrale (tale evenienza fu frequente, per esempio, nel corso della pandemia del 1918), che si manifesta con i tipici sintomi di interessamento meningo-encefalico. Raramente, e per lo più nel corso di infezione da virus di tipo B e nei bambini, è stata descritta una complicanza caratterizzata da meningo-encefalite con edema cerebrale e steatosi epatica (sindrome di Reye), la cui patogenesi sembra in parte attribuibile all’inibizione indotta dal virus di alcune attività enzimatiche mitocondriali appartenenti al ciclo dell’urea; anche a questa complicanza, come a quelle precedentemente descritte, è associato un alto tasso di mortalità. C. Terapia e profilassi. Non esiste una terapia specifica per l’infezione da virus influenzale e nella maggior parte dei casi l’impiego degli antibiotici in tali circostanze, purtroppo molto diffuso, è controindicato per il rischio connesso alla selezione di ceppi batterici poliresistenti. Tale trattamento trova indicazione qualora sia presente una superinfezione batterica evidente, o nei soggetti a maggior rischio per lo sviluppo di tale complicanza (anziani defedati, cardiopatici, broncopneumopatici, ecc.). La vaccinoprofilassi antinfluenzale ha il suo maggior limite nel notevole trasformismo di questo agente virale, che muta periodicamente le proprie caratteristiche antigeniche.
La strategia seguita è quella di utilizzare per l’immunizzazione i ceppi virali più diffusi in un dato momento, modificando annualmente la composizione del vaccino e sottoponendo a profilassi antinfluenzale solo i soggetti a maggior rischio di complicanze fatali; tale procedura si dimostra efficace in senso protettivo nel 70-90% dei casi. Tutte le organizzazioni mediche statunitensi che hanno preso posizione sulla vaccinazione antinfluenzale raccomandano di effettuarla in soggetti con le caratteristiche indicate nella tabella 16.3 In genere, viene comunque consigliato di vaccinare anche tutti gli individui tra i 50 e i 64 anni d’età, dato che in questo gruppo sono numerose le persone ad alto rischio di complicanze, anche se non tutti sono d’accordo su questo punto. Comunque, la vaccinazione è ritenuta non inopportuna per chiunque ne faccia richiesta, con l’ eccezione di coloro che hanno una storia di allergia alle uova o abbiano avuto reazioni sospette con precedenti dosi del vaccino antinfluenzale. Le reazioni avverse in soggetti non allergici alle uova o ad altri componenti del vaccino sono rarissime e di solito di poco conto. Nel 1976, quando negli USA si affacciò il timore di un’epidemia influenzale provocata da un virus di Tabella 16.3 - Soggetti nei quali è consigliato praticare la vaccinazione antinfluenzale. Persone con aumentato rischio di complicanze • Persone di 65 anni o più anziane • Residenti in istituzioni di ricovero che accolgono persone di qualsiasi età affette da condizioni morbose croniche • Adulti o bambini con malattie croniche respiratorie (inclusa asma) o cardiovascolari • Adulti o bambini che nell’anno precedente hanno richiesto cure mediche continuate o ricoveri ospedalieri a causa di malattie croniche metaboliche (incluso il diabete mellito), disfunzioni renali, emoglobinopatie o immunosoppressione (inclusa l’immunosoppressione causata da terapie o dall’infezione da parte del virus HIV) • Bambini e adolescenti (di età dai 6 mesi ai 18 anni) che ricevono trattamenti cronici con Aspirina e che perciò sono a rischio di sindrome di Reye se contraggono l’influenza • Donne che si troveranno ad essere nel secondo o terzo trimestre di gravidanza durante la stagione dell’influenza Persone che possono trasmettere l’influenza ad altri che sono a rischio aumentato • Medici, infermiere e altro personale di ospedali o ambulatori, inclusi coloro che lavorano in servizi di ambulanza di pronto intervento • Impiegati di istituzioni di ricovero per cronici che hanno contatti con le persone che vi risiedono • Impiegati di pensionati per anziani • Persone che danno assistenza domiciliare a persone con rischio aumentato di complicanze • Membri della famiglia (inclusi i bambini) che convivono nello stesso domicilio con persone con rischio aumentato di complicanze
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
derivazione suina (e cioè simile a quella del 1918), fu iniziato un programma di vaccinazione di massa, che fu presto interrotto per l’emergenza di un certo numero di casi di sindrome di Guillain-Barré (poliradicolonevrite). Non sembra che esistano rischi significativi di questo tipo con i vaccini attualmente impiegati. Per le persone vaccinate nelle stagioni 1992-93 e 1993-94 è stato calcolato che si è avuto un eccesso di casi di sindrome di Guillain-Barré di uno su un milione. Nelle stagioni seguenti nemmeno questo eccesso è stato confermato. È stato anche dimostrato che la vaccinazione antinfluenzale non è nociva a bambini o adulti affetti da asma bronchiale, anche in forma grave. In effetti, è raccomandato che tutti coloro che sono affetti da asma ricevano questo vaccino annualmente. Un problema interessante è se il costo della vaccinazione di adulti giovani e sani sia bilanciato dai risparmi derivanti dalla riduzione delle assenze lavorative o anche dal ridotto impiego di antibiotici o dal minor numero di indagini cliniche o di ricoveri ospedalieri. Gli studi eseguiti in proposito hanno avuto risultati variabili, ma nel complesso un largo uso della vaccinazione antinfluenzale sembra economicamente vantaggioso quando i ceppi virali presenti nel vaccino sono simili a quelli che causano in un determinato momento la malattia, ma la spesa eccede i risparmi se i ceppi virali presenti nel vaccino sono abbastanza diversi da quelli diffusi nell’ambiente. Dato che il picco di attività dell’influenza è compreso tra la fine di dicembre e l’inizio di marzo, e che il tempo necessario perché un adulto sviluppi gli anticorpi protettivi è di un paio di settimane, è consigliabile che la vaccinazione antinfluenzale abbia luogo tra l’inizio di ottobre e la fine di novembre.
ALLERGIA RESPIRATORIA L’apparato respiratorio rappresenta una tra le sedi più comuni di localizzazione delle manifestazioni allergiche, poiché tutti gli individui sono costantemente esposti ad una moltitudine di antigeni presenti nell’aria atmosferica e quindi inalati, come polveri, muffe o pollini. Le classiche manifestazioni cliniche dell’allergia respiratoria sono la rinite allergica e l’asma. Queste malattie sono caratterizzate dall’esistenza di una predisposizione familiare, dall’insorgenza dei sintomi nell’infanzia o in età giovane adulta, dalla frequente esacerbazione stagionale e da una prognosi a lungo termine generalmente favorevole. Il meccanismo patogenetico in causa è quello illustrato nel paragrafo dedicato all’allergia (nel Cap. 68) e consiste nella degranulazione IgE-mediata delle mastzellen (il termine italiano è mastociti; nel testo i due termini verranno usati indifferentemente) presenti a livello della mucosa respiratoria e dei granulociti basofili, che rappresentano l’equivalente circolante delle mastzellen, con liberazione di mediatori chimici precostituiti o neoformati (prevalentemente istamina e SRS-A) in grado di produrre flogosi locale e contrazione della
muscolatura liscia bronchiale. Nel presente paragrafo verranno brevemente esaminate le caratteristiche dei principali allergeni respiratori e, successivamente, la rinite allergica; nel paragrafo seguente verrà invece trattata la sindrome asmatica nelle sue varianti cliniche.
Allergeni respiratori Si tratta di una immensa varietà di sostanze che presentano le caratteristiche morfostrutturali e le dimensioni (diametro tra 15 e 60 m) idonee alla penetrazione per via inalatoria nel tratto respiratorio e allo scatenamento di una reazione allergica negli individui sensibili. Gli allergeni sono molecole di 10.000-40.000 D (Dalton) di peso molecolare, di natura proteica o glicoproteica anche se, forse, anche grosse molecole glicidiche hanno tale proprietà. Tali molecole sono contenute in particelle di dimensioni inferiori ai 25 m di diametro aerodinamico medio (d.a.m.). Normalmente solo quelle di d.a.m. attorno ai 5 m penetrano al di sotto delle corde vocali, ma si sono rinvenuti pollini di diametro superiore nel lavaggio bronchiale di alcuni pazienti. La penetrazione di tali particelle, normalmente filtrate dalle vie aeree superiori, dipende dalla concentrazione delle stesse e dalla pervietà e integrità anatomica delle vie aeree superiori. Le principali tra tali sostanze comprendono i pollini, le muffe e i funghi, le polveri domestiche e i prodotti organici (deiezioni, forfora) di derivazione animale. Una loro parziale elencazione è data nella tabella 16.4. I pollini maggiormente implicati nei fenomeni allergici sono quelli anemofili (veicolati dall’aria), ma raramente anche quelli entomofili (veicolati dagli insetti), se presenti in notevoli concentrazioni, possono essere allergogeni. La componente responsabile dell’allergia nel polline è costituita da una glicoproteina che fuoriesce dai pori pollinici in ambiente umido e che ha normalmente la funzione di “segnale di riconoscimento” per il fiore della stessa specie che deve essere fecondato. Le manifestazioni allergiche presentano in questo caso un decorso più o meno rigorosamente stagionale, cioè legato al periodo di fioritura delle piante implicate, che varia generalmente da 2 a 8 settimane e durante il quale si ha la massima concentrazione atmosferica del polline corrispondente, il maggior grado di dispersione nell’aria dei pollini e, conseguentemente, la massima distanza dalla sorgente cui questi possono giungere. Per ogni regione geografica esiste un differente calendario della pollinazione, che è in relazione al tipo di vegetazione presente ed alle condizioni meteorologiche, in grado di influenzare grandemente il periodo di massima fioritura. Gli alberi i cui pollini sono responsabili più spesso di allergia respiratoria sono gli olivi e le querce, gli appartenenti alla famiglia del pioppo, gli aceri e, tra i sempreverdi, le cupressacee. Caratteristicamente gli alberi presentano una pollinazione particolarmente breve (di solito non superiore a 2 settimane) e limitata a zone relativamente prossime alla pianta produttrice. È quindi
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meno frequente il riscontro di pollinosi da alberi nelle zone urbane e industrializzate, ove tali pollini raggiungono per lo più concentrazioni trascurabili. Il periodo di fioritura precede generalmente quello di altre piante ed è limitato ai mesi di marzo-aprile. I pollini di altre piante, quali le graminacee, costituenti principali dell’erba da fieno (prato naturale), sono più spesso causa di allergia respiratoria. Il periodo di fioritura è in questi casi più prolungato (6-8 settimane) e si verifica più tardivamente rispetto a quello degli alberi, nei mesi di maggio-giugno. I pollini di queste piante sono di dimensioni ridotte e diffondono nell’aria atmosferica in zone molto vaste, fino a decine di chilometri dall’area di produzione. Concentrazioni anche molto ridotte di tali pollini (fino a 50 elementi/m3) possono peraltro scatenare una reazione allergica in individui sensibili. Le piante della famiglia delle Composite (tra cui: Ambrosia o Ragweed, e Artemisia) fioriscono invece più tardi rispetto alle precedenti, da metà agosto a inizio ottobre, e sono comunissima causa di allergia negli USA, anche se esistono insediamenti in Europa. Vanno infine ricordate le Orticacee, tra cui Parietaria officinalis, presente per lo più nelle regioni centro-meridionali italiane fino a 800 m di altitudine e in alcune aree della pianura padana, che presenta un periodo di fioritura da luglio a ottobre, ma in alcune zone anche più prolungato, potendo raggiungere i 7-8 mesi/anno e rendendosi in pratica responsabile, perciò, di manifestazioni allergiche perenni. I funghi e i lieviti possono essere responsabili, tramite le loro spore, di manifestazioni allergiche. Alcuni di essi sono presenti tutto l’anno e sono ubiquitari: Aspergillus sp., Cladosporium o Hormodendrum, Penicillus, Candida, anche se in alcuni periodi, generalmente in autunno, le loro spore sono presenti con maggior frequenza. Altri presentano una chiara stagionalità, essendo diffusi prevalentemente sui vegetali: Alternaria, Pul-
lularia, Epicoccum, ecc. Si può comunque affermare che la dispersione delle loro spore è strettamente correlata agli ambienti agricoli (grano, fieno, depositi vegetali) ma anche a particolari ambienti domestici con elevato grado di umidità. Va tenuta presente la possibilità che alcuni funghi o lieviti usati in campo industriale o alimentare (Penicillus, Aspergillus, Mucor nella produzione di antibiotici, enzimi, steroidi, acidi organici) possano determinare sensibilizzazioni nell’ambiente di lavoro o allergie alimentari (Candida, Mucor, Fusarium e lieviti in genere usati nell’industria alimentare o presenti come inquinante delle materie prime). Anche i condizionatori d’aria possono essere fonte di dispersione di spore fungine. Più raramente possono aversi reazioni allergiche in individui che ingeriscono alimenti contenenti funghi o lieviti, quali la birra, alcuni vini ed i formaggi fermentati. Tra gli allergeni perenni, cioè presenti costantemente in alcuni ambienti indipendentemente da fattori stagionali, vanno ricordati le polveri domestiche e i prodotti di derivazione animale. La polvere domestica è un composto eterogeneo derivato da fibre, funghi, batteri, insetti, piante, oltre a prodotti di desquamazione di origine umana o animale; sembra tuttavia che la maggior parte degli individui sensibili a tale complesso di allergeni, presenti per lo più allergia nei confronti di costituenti della cuticola e degli escrementi di un acaro microscopico, Dermatophagoides (presente in due varietà principali, D. pteronyssinus e D. farinae), che può raggiungere concentrazioni elevate nella polvere domestica (fino a 2000 elementi/g) e che si nutre dei prodotti di desquamazione epiteliale, annidandosi perciò nei cuscini, materassi, tappeti, ecc. Questi acari sono inoltre presenti nei granai e nei depositi alimentari. L’esposizione a tali allergeni è pressoché perenne, anche se si osservano esacerbazioni durante le procedure di pulizia domestica e miglioramento della sintomatolo-
Tabella 16.4 - Periodo di massima esposizione agli allergeni in Italia. ALLERGENE • Alberi – Betulla – Olivo – Nocciolo – Ontano • Erbe – Graminacee (Festuca, Poa, Lolium, Dactylis, Holcus, Phleum, ecc.) – Composite (Artemisia, Ambrosia) – Plantago – Parietaria • Polveri domestiche – Acari – Scarafaggi • Forfore animali (cani, gatti, cavalli) • Derivati degli insetti • Funghi e lieviti (Alternaria, Aspergillus, Cladosporium, ecc.)
ITALIA SETTENTRIONALE
ITALIA MERIDIONALE
Febbraio-Maggio Maggio Marzo-Aprile Marzo
Dicembre-Marzo Aprile-Maggio Gennaio-Febbraio Marzo-Aprile
Maggio-Agosto
Giugno-Luglio
Agosto-Settembre Maggio-Agosto Giugno-Settembre
Luglio-Settembre Giugno-Luglio Febbraio-Luglio/Settembre-Novembre
Perenne (inverno) Perenne (inverno) Perenne Perenne
Perenne Perenne Perenne Perenne
Perenni (autunno)
Perenni (estate-autunno)
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gia nei periodi estivi, allorquando si trascorre una maggiore quantità di tempo all’aria aperta. La forfora animale (derivati epiteliali, annessi cutanei, ma anche saliva, deiezioni, ecc.) è uno degli allergeni più spesso implicati nello sviluppo di allergia respiratoria: gli animali più spesso in causa sono i gatti, i cani e i cavalli e, in misura molto minore, i volatili domestici. Pur essendo le allergie a tali sostanze tanto più intense quanto maggiore e duratura risulti l’esposizione, va tenuto presente che alcuni di questi prodotti possono essere veicolati a distanza da oggetti, indumenti, ecc., presenti nei luoghi ove è soggiornato l’animale, determinando reazioni anche a distanza dall’animale responsabile. Recentemente sono stati compiuti notevoli progressi nella purificazione degli allergeni e si è stabilito un sistema di denominazione per le proteine che sono state identificate. Questo è basato su una sigla di quattro lettere, che si riferiscono al nome della specie implicata, seguita da un numero che rappresenta l’ordine di identificazione. Così Der p 1 e Der p 2 sono antigeni dell’acaro Dermatophagoides pteronyssinus, Bla g 1 e Bla g 2 si riferiscono allo scarafaggio Blatella germanica, e Fel d 1 è ricavato dal pelo di gatto, Felix domesticus. Con anticorpi monoclonali si può misurare la concentrazione di queste proteine sia nelle polveri domestiche, sia nell’aria. I geni per molti di questi allergeni sono stati clonati. Alcuni alimenti possono infine determinare una sintomatologia respiratoria di natura allergica, anche se la reale incidenza è ancora incerta. I soggetti più colpiti sembrano essere i bambini; gli allergeni più importanti sono: i latticini, le uova, la soia, il merluzzo, ecc. Va ricordato a questo proposito che tali allergeni possono essere presenti in alimenti apparentemente non correlati con la sostanza base, che tuttavia è presente come ingrediente: olio, sale, addensanti a base di colla di pesce, ecc.
leucotrieni e le prostaglandine, oltre ai fattori chemiotattici per gli eosinofili, sembrano le principali sostanze in grado di determinare l’aumento della permeabilità capillare, l’ipersecrezione mucosa e sierosa e l’accumulo locale di eosinofili che caratterizzano la malattia. La dimensione dell’allergene inalato sembra avere importanza critica per le conseguenze cliniche che esso è potenzialmente in grado di produrre: gli allergeni di più grosse dimensioni (20-60 ) sono quelli implicati nella patogenesi delle manifestazioni rinitiche, poiché vengono più facilmente trattenuti nelle fosse nasali e in questa sede sottoposti a parziale digestione enzimatica (ad opera del lisozima e di altri enzimi presenti nel secreto nasale), che ne facilita la penetrazione negli strati più profondi della mucosa nasale. In queste condizioni la mucosa nasale diviene particolarmente suscettibile a stimoli di natura irritativa (aria fredda, fumo, agenti irritanti aspecifici) che sono in grado di sollecitare l’arco riflesso colinergico (tramite i recettori irritativi subepiteliali) che determina l’aumento delle secrezioni nasali e bronchiali oltre che, talvolta, la contrazione della muscolatura liscia bronchiale (ciò può spiegare certe reazioni broncospastiche conseguenti all’inalazione di allergeni di grosse dimensioni). Analogamente, le conseguenze della risposta flogistica ad un particolare allergene rendono la mucosa nasale più sensibile al contatto ed alla sensibilizzazione verso ulteriori sostanze allergeniche, che hanno più facile accesso alle mastzellen situate in profondità nella mucosa nasale. In presenza di una rinite allergica di severa entità si possono poi verificare fenomeni di iperplasia della mucosa nasale, che portano allo sviluppo di formazioni polipoidi nelle fosse nasali, capaci di esacerbare i sintomi da ostruzione.
La rinite allergica (impropriamente definita da alcuni “febbre da fieno” in quanto il fieno non è l’unico agente causale e la febbre è di regola assente) è un’infiammazione IgE-mediata delle fosse nasali, frequentemente associata ad interessamento congiuntivale, che produce rinorrea, prurito, starnuti ed ostruzione nasale. Come nel caso dell’asma allergico, l’entità dei sintomi dipende dalle allergie individuali implicate, dalla loro intensità e dalle condizioni climatiche locali. Si calcola che soffra di questo disturbo il 10% circa della popolazione infantile (fino ai 5 anni di età) ed il 20% della popolazione fino ai 10 anni di età.
B. Clinica. Le manifestazioni cliniche caratteristiche della rinite allergica sono il prurito locale, la rinorrea (con secrezione abbondante ed acquosa) e gli starnuti (fino a 10-20 consecutivamente) accompagnati da progressiva ostruzione nasale. Tali disturbi presentano esacerbazioni stagionali, in relazione all’allergene responsabile, con periodi intervallari asintomatici; frequentemente la sintomatologia si accompagna a congiuntivite con prurito, arrossamento, lacrimazione e dolore oculare, mentre meno comuni sono i sintomi relativi ad un processo sinusitico o ad una faringite allergica concomitante. Quando l’ostruzione nasale è severa, l’accumulo di secrezioni all’interno dei seni paranasali può rendersi responsabile di intensi fenomeni cefalalgici, per lo più frontali, generalmente presenti unicamente nei periodi di esacerbazione della sintomatologia rinitica. In alcuni casi, in dipendenza dell’allergene implicato e di fattori di ordine individuale, la rinite può accompagnarsi o essere seguita da una sindrome asmatica a carattere accessionale o continuo.
A. Eziopatogenesi. Come già ripetutamente accennato, la maggior parte – se non tutte – delle manifestazioni cliniche della rinite allergica è conseguente alla liberazione locale delle sostanze di derivazione mastocitaria rilasciate in seguito al contatto con uno o più degli allergeni citati in precedenza. Tra queste, l’istamina, i
C. Esami di laboratorio. L’unico dato ematochimico di un certo interesse nel corso di un processo rinitico può essere il riscontro di una eosinofilia ematica. Di grande importanza è invece il riscontro di un incremento delle IgE sieriche totali (PRIST) o specifiche (RAST) per un determinato allergene, che contribuisce in modo
Rinite allergica
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determinante alla formulazione di una corretta diagnosi. In tempi recenti si sono inoltre diffusi metodi immunoenzimatici di dosaggio (per es., ELISA). D. Diagnosi. La diagnosi di rinite allergica non presenta in genere difficoltà particolari, date le caratteristiche cliniche ed il tipico andamento stagionale. È particolarmente importante in questi soggetti individuare l’allergene o gli allergeni responsabili del quadro clinico, e a tale scopo ci si avvale delle prove cutanee (PRICK-test) e sierologiche (PRIST-RAST) menzionate nel paragrafo sull’allergia (nel Cap. 68). Da questa condizione morbosa deve essere tenuta distinta la rinite vasomotoria non allergica, caratterizzata da un’iperreattività della mucosa nasale ad una varietà di stimoli ambientali e nella quale non è dimostrabile alcuna forma di allergia nasale. In questa condizione sono generalmente assenti il prurito nasale e le esacerbazioni stagionali, non si riscontra eosinofilia ematica ed i livelli di IgE totali e specifiche appaiono nella norma. In alcuni casi la rinite non allergica vasomotoria è associata ad una sintomatologia asmatica su base intrinseca, rendendo più difficoltoso l’approccio diagnostico. E. Basi razionali di terapia. La terapia farmacologica della rinite allergica prevede l’impiego locale di sostanze ad azione vasocostrittrice antinfiammatoria (corticosteroidi) o antistaminica, in grado di limitare gli effetti conseguenti alla liberazione dei mediatori mastocitari, ma il cui impiego prolungato può comportare effetti collaterali indesiderati. Interessante, ma non sempre efficace, appare l’impiego di farmaci la cui azione principale è l’inibizione della degranulazione mastocitaria (come il disodiocromoglicato), che devono essere utilizzati profilatticamente qualche tempo prima dell’inizio del periodo di pollinazione e che richiedono perciò la precisa nozione degli allergeni implicati nella malattia. Molto utile può rivelarsi in alcuni casi la terapia iposensibilizzante specifica, che consiste nella protratta e ripetuta somministrazione, per via sottocutanea, di dosi progressivamente crescenti dell’allergene responsabile; i principi fisiopatologici di tale trattamento, purtroppo non sempre efficace, sono illustrati nel capitolo dedicato all’allergia.
ASMA BRONCHIALE L’asma bronchiale è una sindrome (cioè un complesso di sintomi e segni che riconosce molteplici eziologie) (Tab. 16.5) caratterizzata da un aumento reversibile della resistenza delle vie aeree, generalmente a carattere accessionale, con periodi di crisi seguiti da intervalli asintomatici, conseguente a spasmo della muscolatura liscia bronchiale, eventualmente associato a edema della mucosa ed ipersecrezione di muco. Come si dirà in seguito, alla realizzazione di questa patologia concorrono fattori di origine esogena ed endogena, ampiamente sovrapposti tra loro nel determinare l’intensità, la periodicità ed in ultima analisi l’evolu-
Tabella 16.5 - Classificazione dell’asma. Asma allergico È il prodotto dell’interazione tra fattori costituzionali, locali ed ambientali. Fattore costituzionale è l’atopia (tendenza a rispondere all’esposizione a sostanze estranee con l’iperproduzione di IgE); fattore locale è l’iperreattività bronchiale eventualmente sostenuta da fattori esterni; fattore ambientale è l’esposizione ad irritanti, virus, allergeni. L’esposizione all’allergene verso cui sono state prodotte le IgE presenti su mastociti, basofili, macrofagi e piastrine provoca l’innesco di una serie di reazioni che, attraverso la liberazione di numerosi mediatori chimici, coinvolgono a cascata ulteriori cellule e mediatori in grado di scatenare e mantenere la contrazione della muscolatura liscia, l’edema della mucosa, le modificazioni delle secrezioni bronchiali, l’infiammazione bronchiale e quindi l’iperreattività e verosimilmente le modificazioni della circolazione polmonare e bronchiale. Altre forme di asma 1. “Asma da Aspirina”, in realtà determinato da uno squilibrio enzimatico, presente spesso senza causa apparente ma esacerbato in modo violento dall’assunzione di antinfiammatori non steroidei ad azione inibente le ciclo-ossigenasi. 2. Asma da additivi alimentari, con meccanismi eziopatogenetici diversi in parte sconosciuti; il più frequente sembra essere l’asma da solfiti, verosimilmente determinato dal deficit di sulfito-ossidasi, ma sono descritti l’asma da glutammato di sodio, da tartrazina, da benzoati, ecc. 3. Asma professionale, in cui possono intervenire meccanismi allergici, enzimatici, irritativi e altri sconosciuti. La forma più studiata è quella da toluendiisocianato, ma sono frequenti quelle da esposizione a farine, a polveri vegetali, soprattutto il cotone, a enzimi proteolitici, ecc. 4. Asma da sforzo, da inalazione di aria fredda, da inalazione di aerosol ipertonici o ipotonici; può essere manifestazione particolare di altri tipi di asma ed è determinato dall’eccitazione dei recettori di stiramento, dal brusco raffreddamento delle vie aeree, dallo squilibrio endo-extracellulare del sodio, ecc. 5. Asma da infezioni: le infezioni virali, in particolare, possono determinare broncospasmo per la disepitelizzazione e permeabilizzazione della mucosa bronchiale, particolarmente nei bambini, con conseguente “messa a nudo” dei recettori nervosi. 6. Asma psichico. 7. Asma da causa sconosciuta. In tutti questi tipi di asma entrano in gioco con maggior o minor intensità: • Fattori nervosi: maggiore o minore eccitabilità dei recettori afferenti, maggiore o minore presenza di recettori effettori, maggiore o minore funzionalità del sistema nervoso autonomo. • Fattori umorali: presenza in circolo di catecolamine e sensibilità dei recettori e . • Fattori cellulari: maggiore o minore presenza o efficacia di alcune cellule (mastociti, eosinofili, neutrofili, ecc.), diversa capacità di liberare mediatori chimici della anafilassi (“releaseability”). • Fattori scatenanti o aggravanti possono essere: – esposizione ad allergeni – esposizione ad aria fredda e sforzo – esposizione a nebbia – esposizione ad irritanti atmosferici – esposizione ad atmosfera inquinata da solfiti – infezione delle prime vie aeree – uso di farmaci (-bloccanti, antinfiammatori, ecc.) – turbe psichiche.
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zione della malattia, che in alcuni casi può risultare estremamente grave, potendo portare, fortunatamente in rari casi, alla morte del paziente per insufficienza respiratoria. L’asma bronchiale rappresenta una malattia di comune occorrenza, se si considera che ne soffre approssimativamente il 4-5% della popolazione in età infantile ed adulta, e ad esso si accompagna una mortalità non trascurabile, che secondo recenti statistiche raggiunge gli 0,4 × 100.000 soggetti ogni anno in età compresa tra i 5 ed i 40 anni ed i 10 × 100.000/anno in età superiore ai 60 anni. A. Premesse fisiopatologiche. Per meglio comprendere le basi patogenetiche dell’asma, è necessario soffermarsi sugli aspetti fisiopatologici della regolazione del tono della muscolatura liscia bronchiale, che solo in tempi recenti sono stati in buona parte definiti. Come illustrato nella figura 16.2, la regolazione del tono della muscolatura liscia bronchiale è il risultato di un fine equilibrio tra influenze di natura neuroendocrina, alcune delle quali tendono a produrre contrazione delle cellule muscolari lisce che fanno parte della parete bronchiale, mentre altre ne determinano il rilasciamento. 1. Il sistema parasimpatico esercita in condizioni normali la maggior influenza sul tono della muscolatura bronchiale. Tale influenza si concreta in una contrazione delle miocellule bronchiolari e la sua attività appare prevalentemente mediata da fibre vagali: queste generano un arco riflesso a partenza da recettori irrita-
tivi, presenti a livello subepiteliale nelle prime generazioni bronchiali (ne sono sprovvisti i bronchioli aventi diametro inferiore ad 1 mm) e costituiti da terminazioni nervose libere, che si spingono immediatamente al di sotto delle giunzioni intercellulari dell’epitelio di rivestimento delle vie aeree. Le fibre afferenti vagali si connettono ai nuclei centrali del nervo vago, da cui prendono origine fibre efferenti che, in ultima analisi, stabiliscono contatto con recettori di tipo prevalentemente muscarinico, presenti a livello delle membrane muscolari. I recettori irritativi bronchiali sono dotati di scarsa specificità, potendo essere stimolati da numerosi ed eterogenei fattori di natura esogena (particelle inalate, agenti chimici, abbassamento della temperatura dell’aria inalata, ecc.) o endogena (mediatori chimici, congestione venosa polmonare). Alla loro stimolazione concorrono inoltre condizioni che li rendono più esposti agli stimoli esogeni sopraindicati mediante il danneggiamento delle cellule epiteliali (come nel corso di un’infezione virale) o il semplice aumento della permeabilità dell’epitelio bronchiale (quale si può verificare nel corso di una reazione flogistica locale). In risposta a tale complessa varietà di stimolazioni, i recettori irritativi determinano, in via riflessa, broncospasmo come fenomeno più appariscente, ma anche iperventilazione, tosse ed aumento della funzione mucosecernente, in ragione dell’intensità e della durata dello stimolo iniziale. 2. Il sistema simpatico è il principale responsabile del rilasciamento della muscolatura liscia bronchiale, agendo in questo senso, come in numerosi altri distretti
-adrenergici Parasimpatico
Recettori irritativi
-adrenergici
PgE2
LT
cAMP
PgI2
PgF2 TXA2
H, LT
Inibisce la degranulazione
Figura 16.2 - Regolazione del tono broncomotore. Nella figura a sinistra sono rappresentati gli stimoli broncocostrittori e a destra quelli broncodilatatori. (Per la spiegazione si rimanda al testo.) cAMP = AMP ciclico; H = istamina; LT = leucotrieni; Pg = prostaglandine; TXA = trombossano.
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corporei, quale antagonista funzionale del sistema parasimpatico. L’attività ortosimpatica è legata alla presenza di recettori adrenergici, prevalentemente di tipo 2, a livello delle cellule muscolari lisce, che in risposta alla liberazione locale di noradrenalina (o alla presenza di adrenalina di origine surrenale e di provenienza ematogena) determinano la stimolazione del sistema adenilciclasico di membrana, cui conseguono l’innalzamento dei livelli intracellulari di 3,5 adenosin-monofosfato ciclico (cAMP) e il rilasciamento della muscolatura liscia. Il cAMP rappresenta indiscutibilmente il mediatore ultimo della broncodilatazione, com’è documentato dall’azione di molteplici sostanze che sono in grado di innalzarne i livelli intracitoplasmatici o mediante stimolazione dell’adenilciclasi (catecolamine, prostaglandine, ecc.) o tramite inibizione dell’enzima fosfodiesterasi (metilantine, i più utilizzati tra i farmaci broncodilatatori) deputato alla degradazione del cAMP neoformato. Oltre ai recettori 2, sono stati dimostrati, a livello della membrana delle cellule muscolari bronchiali, recettori adrenergici di tipo 1: tali recettori mediano la contrazione della muscolatura liscia, ma in condizioni normali la loro densità sulle miocellule bronchiali è estremamente ridotta (esiste un rapporto all’incirca di 9:1 tra recettori 2 ed 1) e, in seguito a stimolazione simpatica, viene a prevalere nettamente l’effetto di rilasciamento mediato dai recettori 2. Ad ulteriore conferma delle strette connessioni esistenti a questo livello tra sistema orto e parasimpatico, è stata di recente documentata la presenza di fibre adrenergiche inibitorie a livello dei gangli parasimpatici peribronchiali, con funzione di controllo diretto dell’influenza vagale sul tono broncomotore: quest’ultima funzione sarebbe la principale svolta dal sistema ortosimpatico nel controllo del tono broncomotore. Questa convinzione deriva dall’oggettiva difficoltà di dimostrare la presenza di fibre nervose di tipo adrenergico direttamente a livello delle cellule muscolari lisce bronchiali. Più recentemente è stata dimostrata a livello bronchiale, oltre che in altri distretti corporei (intestino, vescica, ecc.), la presenza di fibre di tipo non adrenergico e non colinergico (dette NANC) che, secondo alcuni, sarebbero le principali responsabili delle funzioni antagoniste a livello bronchiale nei confronti del sistema vagale. Il mediatore ultimo di questo sistema regolatorio (definito anche “purinergico”) sarebbe rappresentato da un oligopeptide molto simile o identico al peptide intestinale vasoattivo (Vasoactive Intestinal Peptide: VIP). 3. Il controllo endocrino della contrazione bronchiale è largamente dipendente dalla presenza locale dei prodotti di derivazione dell’acido arachidonico. Come illustrato nel capitolo dedicato all’allergia (Cap. 68), tali composti possono essere considerati ormoni a breve raggio di azione, prodotti cioè a partire da costituenti di natura fosfolipidica delle membrane cellulari (Fig. 16.3) e destinati ad agire localmente, causa la loro brevissima emivita. Per quanto attiene al tono broncomo-
tore, i componenti di maggiore interesse appaiono le prostaglandine (PgE1,2 e PgF2 in particolare), derivate dalla via ciclo-ossigenasica del metabolismo dell’acido arachidonico, ed i leucotrieni, prodotti dall’attivazione della via lipo-ossigenasica. Le PgE sono i principali composti di questo gruppo ad avere funzione di rilasciamento della muscolatura liscia bronchiale e tale funzione si compie tramite l’incremento dei livelli di cAMP conseguente all’attivazione del sistema adenilciclasico di membrana. Funzione broncocostrittrice possiedono invece le PgF2 e soprattutto i leucotrieni, in particolare il LTC4 e il LTD4, i quali sono per lo più derivati dagli eosinofili, dai mastociti e dai macrofagi interstiziali polmonari e si identificano con le sostanze a reazione lenta dell’anafilassi (SRS-A); questi due ultimi composti appaiono molto più efficaci (circa 500 volte) delle PgF2 e della stessa istamina (circa 1000 volte), anch’essa di derivazione prevalentemente mastocitaria e di cui è nota l’azione broncocostrittrice, mediata da recettori H1, nel determinare l’intensità e la durata della broncocostrizione. Oltre ad un’azione diretta sulla cellula muscolare liscia, i derivati dell’acido arachidonico, come del resto la stessa istamina, sono in grado di agire indirettamente in senso broncocostrittore, determinando vasodilatazione locale con aumento della permeabilità capillare e conseguente stimolazione dei recettori irritativi bronchiali. Nell’individuo normale il mantenimento del tono broncomotore dipende dall’equilibrio dinamico di tali complesse funzioni, ed in particolare dal rapporto antagonistico tra sistema parasimpatico da un lato e sistema simpatico, coadiuvato in misura minore da alcune classi di prostaglandine (PgE), dall’altro. Come vedremo, la perturbazione di questi delicati sistemi di regolazio-
Membrana cellulare
Fosfolipasi
Acido arachidonico
Ciclo-ossigenasi
Lipo-ossigenasi
Prostaglandine, trombossani
Leucotrieni
Figura 16.3 - Rappresentazione schematica della via sintetica dei prodotti di derivazione dell’acido arachidonico.
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ne, o l’eccessivo prevalere dell’uno sugli altri, può contribuire in modo determinante a creare il substrato patologico necessario affinché si determini la broncocostrizione caratteristica dell’asma. 4. L’intervento dei mediatori umorali di cui abbiamo appena parlato è subordinato a eventi cellulari che si verificano nella parete bronchiale e che coincidono con un certo tipo di processo infiammatorio. In questo hanno un ruolo importante i granulociti eosinofili. Queste cellule differiscono dai granulociti neutrofili per due caratteristiche. In primo luogo, pur essendo capaci di fagocitare ed uccidere batteri, non hanno un ruolo importante nella difesa contro i microrganismi patogeni, ma piuttosto hanno il compito di liberare nell’ambiente sostanze capaci di danneggiare i parassiti pluricellulari come gli elminti (queste sostanze sono dotate di capacità lesive anche sui tessuti sani dell’organismo quando sono infiltrati dagli eosinofili). In secondo luogo, si tratta di cellule a vita più lunga dei neutrofili e con una notevole attitudine a localizzarsi nei tessuti, dove possono sopravvivere per varie settimane. Tre tappe sono importanti perché gli eosinofili svolgano un ruolo in un processo patologico: uno stimolo alla loro produzione nel midollo, un’attrazione verso la sede dove sono destinati a concentrarsi grazie alla liberazione di fattori chemiotattici positivi e la loro “attivazione”, ossia la conversione in uno stato metabolicamente più attivo e di maggiore efficienza per quanto riguarda le funzioni effettrici. La produzione di eosinofili nel midollo è stimolata da varie citochine: il GM-CSF (Granulocyte-Monocyte Colony Stimulating Factor, Cap. 43), prodotto da linfociti T, monociti, fibroblasti e cellule endoteliali; l’interleuchina-3, prodotta dai soli linfociti T; l’interleuchina-5, prodotta da una sottopopolazione di linfociti T helper, detti Th2 (Cap. 68). Solo l’interleuchina-5 è specifica per gli eosinofili, mentre il GM-CSF e l’interleuchina-3 stimolano anche la produzione di altri leucociti. Una chemiotassi positiva verso gli eosinofili è esercitata da fattori umorali liberati dai linfociti T positivi per l’antigene di differenziazione CD4 (che includono i linfociti T helper), come l’interleuchina-2 e un fattore denominato genericamente “chemoattraente dei linfociti”. Questo potrebbe spiegare perché gli eosinofili sono più abbondanti nei tessuti con un’interfaccia epiteliale con l’ambiente esterno. È comprensibile che in questa sede le sollecitazioni antigeniche dall’ambiente esterno siano più frequenti e i linfociti T presenti localmente abbiano più spesso occasione di liberare chemoattraenti per gli eosinofili. L’attivazione degli eosinofili è provocata dalle stesse citochine che ne determinano la produzione: GM-CSF, interleuchina-3 e interleuchina-5. Altre citochine, tra le quali il PAF (Platelet Activating Factor), un fosfolipide modificato prodotto da piastrine, cellule endoteliali e leucociti (tra i quali gli stessi eosinofili), possono attivare queste cellule. Gli eosinofili attivati possono esercitare un potente effetto broncocostrittore e determinare un edema della mucosa e un’ipersecrezione di muco, grazie all’azione del leucotriene C4 (da cui derivano il D4 e l’E4) e del-
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lo stesso PAF, tutte sostanze che in queste condizioni vengono rilasciate da queste cellule nell’ambiente. Le medesime sostanze che sono in grado di lisare i parassiti pluricellulari (proteina basica maggiore, proteina cationica degli eosinofili ed altre) danneggiano l’epitelio bronchiale, un fenomeno ben noto in corso di asma bronchiale. È chiaro che gli eosinofili non sono le sole cellule infiammatorie capaci di indurre broncocostrizione. I macrofagi interstiziali liberano le stesse sostanze broncocostrittrici, ma non possono aumentare di numero altrettanto facilmente degli eosinofili. I granulociti neutrofili producono invece prevalentemente leucotriene B4, che è importante nei processi infiammatori, ma non ha un’azione diretta sui bronchi. D’altro canto la concentrazione locale nei bronchi e l’attivazione degli eosinofili sembra più importante della loro iperproduzione, dato che l’eosinofilia nel sangue periferico è rara nell’asma mentre, al contrario, eosinofilie estreme, come possono osservarsi nelle sindromi ipereosinofile (Cap. 48), non sono necessariamente accompagnate da asma. B. Eziopatogenesi. La patogenesi dell’asma bronchiale è estremamente complessa e a tutt’oggi non completamente delucidata, ma è rilevante sottolineare che l’ostruzione bronchiale caratteristica della malattia si verifica in risposta ad una varietà di stimoli di natura fisica, chimica o biologica, che, per la maggior parte degli individui, risultano del tutto privi di patogenicità. Questa considerazione implica l’esistenza di precise condizioni predisponenti allo sviluppo della sindrome asmatica, capaci di rendere le vie aeree iperreattive nei confronti di numerosi fattori ambientali altrimenti innocui. Lo schema generale della patogenesi dell’asma bronchiale è riportato nella figura 16.4. 1. Fattori predisponenti. Ci sono forti sospetti che esistano fattori costituzionali, su base ereditaria, che determinano un’iperreattività bronchiale e predispon-
Fattori predisponenti
Iperreattività bronchiale
Broncocostrizione
Stimoli
Infiammazione
Figura 16.4 - Patogenesi dell’asma bronchiale. Spesso più fattori causali sono alla base delle manifestazioni broncospastiche.
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gono all’asma. Naturalmente questa non è una malattia ereditaria e, se un condizionamento genetico esiste, è chiaro che deve essere poligenico e interagente con fattori esogeni. Un primo fattore da considerare è la predisposizione genetica alle malattie allergiche, cioè all’atopia, ossia una tendenza, accertata in certe famiglie, a dare con facilità risposte immunitarie con anticorpi della classe IgE. Questo però non è sufficiente a spiegare l’asma, perché esistono molte persone con rinite allergica che non soffrono di broncocostrizione. Recentemente si è constatato che esiste un polimorfismo, geneticamente determinato, dei recettori -2-adrenergici. Si è visto che gli individui con certi particolari recettori vanno incontro più facilmente al fenomeno della desensibilizzazione recettoriale, ossia alla perdita di sensibilità ai farmaci -2-agonisti dopo il loro impiego in un trattamento piuttosto prolungato. Quanto questo sia rilevante ai fini del condizionamento genetico alla predisposizione all’asma è oggetto di attenzione. Non è detto che i fattori predisponenti siano solamente di natura genetica. Essi possono essere acquisiti in conseguenza di determinate condizioni ambientali. Per esempio, si è visto che la frequenza di malattie allergiche, particolarmente l’eczema, ma possibilmente anche l’asma, è maggiore nei bambini figli di donne che fumano. In effetti, l’aumento della frequenza di asma nei Paesi sviluppati è andato di pari passo con la diffusione del fumo tra le donne in età fertile. Così pure si sospetta l’importanza di fattori dietetici: l’eccessivo consumo di sale e la riduzione nella assunzione di sostanze antiossidanti (per es., vitamina C) costituirebbero un fattore predisponente per l’asma. È stato anche dimostrato che la riduzione delle infezioni, o comunque dell’esposizioni microbiche in età infantile, rende più facile lo sviluppo successivo di asma. Questa constatazione, spiegata con la cosiddetta “ipotesi dell’igiene” (ossia troppa igiene favorisce l’asma) è di grande interesse per la spiegazione della patogenesi dell’allergia e verrà trattata più diffusamente nel capitolo 68. Infine è aperta la questione se fattori puramente psicologici possano predisporre all’asma con un meccanismo psicosomatico. Su questo punto le evidenze restano molto discutibili. 2. Iperreattività bronchiale. È chiaro che questa consiste in un alterato bilancio tra fattori fisiologici inducenti broncocostrizione e broncodilatazione (si vedano le premesse fisiopatologiche). I principali sospetti su un condizionamento genetico dell’asma si appuntano proprio su uno squilibrio di questo tipo. Tuttavia è anche importante ricordare che fattori esogeni, o direttamente, o indirettamente attraverso l’induzione di infiammazione, possono contribuire a determinare la iperreattività bronchiale. Il prevalente contributo alla patogenesi della malattia di fattori esogeni o endogeni (costituzionali) aveva, in passato, suggerito la distinzione tra asma estrinseco e asma intrinseco. L’iperreattività bronchiale è valutata misurando la broncocostrizione dopo inalazione di metacolina.
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3. Stimoli. Questi sono di natura specifica (allergeni) e aspecifica. Gli allergeni implicati sono tutti quelli elencati nella tabella 16.4. Deve essere però sottolineato che attualmente ha una notevole prevalenza l’asma provocato da allergeni ai quali si è esposti nell’ambito domestico, in modo particolare acari e pelo di gatto (meno frequentemente, antigeni da scarafaggio, pelo di cane e il fungo microscopico Alternaria). Gli allergeni più importanti per l’asma occupazionale sono gli isocianati, la polvere di farina, la polvere di legno e le proteine delle urine di animali da esperimento. I cosiddetti fattori irritativi hanno un ruolo più ambiguo, nel senso che non è chiaro se siano in grado di provocare autonomamente asma o se rendano il sistema bronchiale più sensibile all’azione di allergeni. La polluzione ambientale facilita certamente l’asma. L’aumento della prevalenza di questa malattia nei Paesi sviluppati si è accompagnato ad una diminuzione della concentrazione atmosferica di prodotti della combustione del carbon fossile (contaminanti particolati e anidride solforosa) e incremento della concentrazione di inquinanti derivati dalla combustione dei carburanti per veicoli a motore (biossido di azoto e ozono). Può darsi che questi ultimi abbiano particolare importanza nello scatenare l’asma. Comunque, studi accurati sulla rilevanza della polluzione atmosferica nella patogenesi di questa malattia sono difficili e le evidenze in proposito sono solo indirette. Anche in ambienti domestici la produzione di biossido di azoto può essere aumentata nelle cucine con fornelli a gas. Anche il ruolo di infezioni virali delle prime vie respiratorie è discutibile. È certo che le infezioni da rhinovirus hanno importanza nell’esacerbazione dell’asma, ma non ci sono prove sul fatto che questi virus inducano direttamente la malattia. Al contrario, i bambini che hanno avuto molte infezioni respiratorie non accompagnate da asma sembrano più resistenti allo sviluppo di questa malattia. È possibile che le infezioni facilitino l’orientamento dei linfociti T CD4+ verso l’atteggiamento funzionale Th1 che è antagonista allo sviluppo di allergia. 4. Infiammazione. Questa è solitamente conseguenza di una reazione allergica e dovuta alla liberazione di citochine infiammatorie da parte di mastociti e di cellule richiamate nella fase tardiva della reazione, principalmente eosinofili. In questo senso ha molta importanza che si sviluppi nelle vie respiratorie una reazione immunitaria mediata da linfociti CD4+ con orientamento funzionale Th2 (si veda il Cap. 68). Questo orientamento è favorito della citochina “interleuchina-4” (IL-4), prodotta dagli stessi linfociti Th2 e che agisce perciò con un meccanismo “autocrino”. L’IL-4 derivata dai linfociti Th2 ha una diretta attività broncocostrittrice. Questi linfociti determinano anche la secrezione di “interleuchina-5”; (IL-5), una citochina che stimola la produzione e l’attivazione di granulociti eosinofili, e di “interleuchina-13” (IL-13) che, almeno in modelli sperimentali nel topo, si è rivelata capace di un’intensa attività broncocostrittrice. Tuttavia, anche l’infiammazione non im-
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munologicamente mediata dà un contributo all’iperreattività bronchiale e determina broncocostrizione. È possibile che in questo senso agiscano gli stimoli, come gli inquinanti atmosferici e i virus, che rendono più sensibili i bronchi all’effetto degli allergeni. Come verrà spiegato più in dettaglio nel capitolo 68, l’orientamento Th2 dei linfociti T è inibito dai linfociti Th1, che esercitano tale effetto attraverso la produzione di interferon-. Recentemente, è stato scoperto un fattore di trascrizione, chiamato T-bet, che orienta la differenziazione dei linfociti T verso Th1. Studi immunoistochimici di campioni di tessuto polmonare umano hanno dimostrato che T-bet non era dimostrabile nei linfociti all’interno dei bronchi di soggetti asmatici, mentre lo era in quelli presenti all’interno dei bronchi di soggetti normali. In topi nei quali il gene T-bet era deliberatamente eliminato (topi knockout) si verificavano alterazioni bronchiali drammatiche, sotto forma di un’infiltrazione di eosinofili e linfociti e con un rimodellamento bronchiale identico a quello dell’asma allergico. Per di più questi animali presentavano un’iperresponsività delle vie aeree e il loro liquido di lavaggio bronchiale conteneva aumentate quantità di citochine prodotte da cellule Th2. È notevole il fatto che questi animali avevano alterazioni bronchiali così gravi senza alcuna sensibilizzazione e relativa reazione allergica. Questi dati suggeriscono che un difetto nella produzione di T-bet sia un importante fattore di predisposizione all’asma, non solamente allergico. Le cellule muscolari lisce della parete bronchiale e le mastcellule hanno un ruolo importante nell’infiammazione che conduce all’asma bronchiale. È stato dimostrato che le cellule muscolari lisce delle vie aeree possono proliferare quando stimolate da citochine infiammatorie e secernerne a loro volta, innescando un circolo vizioso. Per di più, quando sono così sollecitate le cellule muscolari lisce delle vie aeree esprimono alla loro superficie delle molecole di adesione e in questo modo attraggono localmente linfociti T e cellule infiammatorie. Tra queste sono molto importanti le mastcellule, perché capaci di rilasciare nell’ambiente istamina, leucotrieni e citochine infiammatorie, non solo per effetto della reazione tra allergeni e IgE specifiche presenti alla loro superficie, ma anche con meccanismi non immunologici, quali le variazioni della pressione osmotica nell’ambiente cellulare. Perciò, la proliferazione delle cellule muscolari lisce e il fatto che concentrino alla loro superficie i mastociti è un fondamentale fattore nel determinismo dell’iperreattività bronchiale. Una menzione particolare meritano le reazioni asmatiche conseguenti all’assunzione di farmaci, in particolare quelli appartenenti al gruppo degli anti-infiammatori non steroidei, come l’acido acetilsalicilico (Aspirina) o l’indometacina. Si stima che i pazienti con questa particolare forma di asma siano tra il 3 e il 10% di tutti gli asmatici. Si tratta anche di una forma con caratteristiche cliniche particolari, in quanto in questi casi l’asma è frequentemente accompagnato da rinorrea e, talora, da orticaria, reazioni vasomotorie o dolore addo-
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minale dopo l’assunzione di Aspirina o di altri farmaci con lo stesso meccanismo d’azione. Questi pazienti hanno spesso una grave rinosinusite e poliposi nasale. Tali reazioni non sono mediate da meccanismi immunologici, non sono cioè conseguenti a fenomeni di allergia nei confronti delle sostanze sopraindicate: esse sarebbero invece legate al particolare meccanismo d’azione dei farmaci di questo gruppo, che, come è noto, sono dei potenti inibitori dell’enzima ciclo-ossigenasi e della sintesi prostaglandinica. I farmaci responsabili della cosiddetta “asma da Aspirina” sono in realtà tutti gli inibitori della ciclo-ossigenasi-1 (COX-1), mentre gli inibitori della ciclo-ossigenasi-2 (COX-2) non sembrano provocare questo tipo di risposta. Il meccanismo della loro azione sembrerebbe legato al fatto che i soggetti sensibili a questi farmaci avrebbero sulle loro cellule un’aumentata espressione dei recettori per i leucotrieni LTC4 e LTD4, che hanno una potente attività broncocostrittrice. Tale reazione sarebbe poi aggravata dal contemporaneo incremento nella sintesi dei leucotrieni, dovuto anche al fatto che, risultando inibito l’enzima ciclo-ossigenasi, si realizzerebbe in questi casi una maggiore disponibilità di substrato (acido arachidonico) per la via metabolica lipo-ossigenasica. È interessante il fatto che, in questi soggetti la cauta somministrazione quotidiana di dosi progressivamente crescenti di Aspirina porta all’abolizione delle risposte patologiche respiratorie indotte da questo e da altri farmaci con lo stesso meccanismo di azione. Questa “insensibilità” è persa se si interrompe la somministrazione quotidiana del farmaco. A questo gruppo appartiene inoltre la rara forma di asma indotta dalla tartrazina, un colorante giallo usato nel passato quale additivo alimentare e ancor oggi come costituente delle capsule di molte sostanze farmacologiche. La tartrazina agirebbe direttamente provocando per via aspecifica, e non immunologica, la degranulazione delle mastcellule presenti a livello bronchiale, ma a tutt’oggi il suo meccanismo d’azione non è chiaro. C. Anatomia patologica. I lumi bronchiali e bronchiolari sono occupati da tappi composti da muco denso. I tappi di muco contengono aggregati in forma di spirale di cellule epiteliali sfaldate, granulociti eosinofili e cristalloidi proteici derivati dalla membrana dei granulociti eosinofili. La parete è edematosa ed è infiltrata da cellule infiammatorie fra cui spiccano i granulociti eosinofili, che a volte costituiscono sino al 50% degli elementi. Le ghiandole mucipare sottomucose sono aumentate di volume e, a causa dei prolungati periodi di broncocostrizione, vi è ipertrofia della muscolatura liscia. Occasionalmente, vi sono piccole aree di bronchiectasie sacculari e di atelettasia ed enfisema. Nei casi complicati da infezioni batteriche si sovrappone il quadro della bronchite. D. Fisiopatologia. L’elemento fisiopatologico dominante nell’asma è costituito dall’ostruzione bronchiale conseguente, come abbiamo visto, allo spasmo della muscolatura liscia ed eventualmente all’edema della
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mucosa ed alla stratificazione di muco sulle pareti bronchiali. Da un punto di vista funzionale si realizza perciò in questo caso una tipica sindrome ostruttiva con aumento della resistenza nelle vie aeree e riduzione di vario grado del VEMS, dell’indice di Tiffeneau e della capacità vitale forzata (CVF). L’incremento della resistenza nelle vie aeree è caratteristicamente più pronunciato durante l’espirazione, in quanto fisiologicamente il calibro bronchiale è ridotto in questa fase; l’espirazione risulta inoltre particolarmente penosa nel paziente in preda ad una crisi asmatica, poiché essa si compie normalmente in modo passivo, senza il sussidio dei muscoli respiratori. L’esame dei volumi statici dimostra un variabile incremento del volume residuo (VR), associato ad aumento della capacità polmonare totale (CPT): ciò appare in massima parte attribuibile ad un fenomeno di intrappolamento di aria distalmente ai bronchioli terminali, conseguente al precoce collabimento delle vie aeree ostruite che si realizza durante la fase espiratoria. L’ostruzione bronchiale determina infatti, durante la espirazione, una più precoce caduta della pressione dell’aria all’interno del lume bronchiale, lungo il decorso degli alveoli alla bocca; la pressione positiva che vige in questa fase a livello intrapleurico eguaglierà così in un punto più prossimale rispetto agli alveoli quella esistente all’interno delle vie aeree, producendo il collassamento dei bronchi. Questo fenomeno è ben evidenziabile mediante l’analisi della curva flusso-volume, che dimostra l’estrema riduzione della velocità e del picco di flusso aereo durante l’espirazione, ed è inoltre deducibile dalla differente valutazione ottenibile misurando il volume residuo col metodo pletismografico (ove risulta più elevato) rispetto al metodo di diluizione dell’elio. In questo senso l’asma bronchiale è comparabile ad uno stato enfisematoso acuto su base però puramente funzionale, in assenza delle caratteristiche alterazioni strutturali tipiche dell’enfisema polmonare. È bene tuttavia ricordare che, anche negli intervalli asintomatici, il soggetto asmatico presenta spesso un certo grado di ostruzione bronchiale, di regola associata a modeste alterazioni degli indici statici di funzionalità polmonare (aumento del VR, della CFR e della CPT). Anche gli scambi gassosi risultano alterati nel corso di una crisi asmatica, principalmente a causa di una notevole disomogeneità del rapporto ventilazione/perfusione (VA/QA). È anche questa una conseguenza della ostruzione bronchiolare, che determina una ridotta ventilazione di distretti alveolari normalmente perfusi (effetto shunt) in modo estremamente variabile da una regione all’altra del polmone (secondo alcuni a causa delle differenti concentrazioni raggiunte localmente dai mediatori ad azione broncocostrittrice). Come è noto dal capitolo 6, dove si tratta della fisiopatologia respiratoria, le alterazioni del rapporto VA/QA si accompagnano costantemente ad un certo grado di ipossiemia arteriosa, di regola associata a valori normali o ridotti di PCO2 (talora con modesta alcalosi respiratoria), conseguenti all’iperventilazione compensatoria, che risulta oltremodo efficace nel rimuove-
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re l’eccesso di CO2 alveolare ma non nel ripristinare normali valori di PO2. Nel corso di una crisi asmatica è inoltre presente un modesto grado di ipoventilazione alveolare, per lo più dovuto all’iperdistensione degli spazi alveolari, che si accompagna ad aumento dello spazio morto funzionale (cioè della quantità di aria, al centro dell’alveolo dilatato, non disponibile per gli scambi gassosi). Il fenomeno dell’ipoventilazione alveolare può invece divenire predominante nel cosiddetto stato di male asmatico, quando la broncocostrizione persiste per molte ore malgrado l’intervento terapeutico. In questi casi, a causa dell’affaticamento dei muscoli respiratori, l’iperventilazione compensatoria diviene progressivamente meno efficiente, con la conseguenza di un graduale incremento dei valori di PCO2, che in talune circostanze può esitare in carbonarcosi, acidosi respiratoria e morte per insufficienza respiratoria. In questi casi l’ossigenoterapia deve essere praticata malgrado ad essa possa accompagnarsi una riduzione dello stimolo ventilatorio centrale. Tale problema andrà affrontato per mezzo della ventilazione assistita. Va infine ricordato che in presenza di una grave crisi asmatica si possono avere conseguenze rilevanti sulla funzionalità cardiaca, che sono per lo più la risultante dell’incremento delle resistenze vascolari polmonari (a causa del fenomeno riflesso della vasocostrizione ipossica, che tende a deviare il sangue arterioso polmonare verso distretti alveolari normoventilati) con sovraccarico di pressione nella sezione destra del cuore. Si avranno perciò anomalie elettrocardiografiche con onde P di tipo “polmonare”, deviazione assiale destra ed inversione dell’onda T in alcune derivazioni precordiali: in alcuni casi possono poi manifestarsi disturbi di conduzione. Tutte queste condizioni sono solitamente transitorie e tendono a regredire al termine dell’attacco asmatico. E. Clinica. L’asma bronchiale può presentarsi in ogni età della vita e con modalità differenti in relazione agli agenti eziologici responsabili, al terreno genetico preesistente ed a numerosi altri fattori di ordine socioambientale. In generale, tuttavia, si deve affermare che l’asma su base allergica colpisce più spesso soggetti in età infantile o adolescenziale, nei quali è spesso presente una precisa familiarità per malattie allergiche, se non addirittura una storia individuale di allergopatie (orticaria, eczema atopico, ecc.). L’asma non allergico insorge invece preferibilmente in età medio-adulta, dopo i 30 anni, spesso senza che sia chiaramente individuabile una causa scatenante. La manifestazione caratteristica della sindrome asmatica è la dispnea, che può essere di variabile intensità e che generalmente esordisce in modo improvviso. La dispnea è in questi casi prevalentemente espiratoria e può accompagnarsi a sibili espiratori udibili anche a distanza; spesso il soggetto tende ad assumere spontaneamente una posizione semiortopnoica (frequentemente seduto con gomiti appoggiati al tavolo) per agevolare quanto più possibile gli atti respiratori.
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Molto comunemente la crisi asmatica si accompagna, o è seguita, da una tosse scarsamente produttiva, con espettorazione di muco estremamente viscoso. È bene ricordare che la tosse rappresenta spesso in questi pazienti un fenomeno riflesso conseguente alla stimolazione dei recettori irritativi bronchiali ed in alcuni casi essa può essere l’elemento rilevatore di una situazione asmatica. Come già ricordato nelle pagine precedenti, la presentazione più tipica dell’attacco asmatico è a crisi di durata estremamente variabile, da pochi minuti ad alcune ore, e generalmente seguite da intervalli liberi da sintomatologia (anche se, come descritto, persistono usualmente le alterazioni funzionali caratteristiche della sindrome ostruttiva). Meno comunemente l’asma può avere carattere subcontinuo, senza che si abbia tra una crisi e l’altra un completo ritorno ad una situazione di normalità. La condizione più grave è infine rappresentata dal cosiddetto stato di male asmatico in cui il paziente presenta per lunghi periodi (talora per giorni) intensi fenomeni broncospastici di regola scarsamente responsivi ai comuni presidi terapeutici. È in questa condizione che si può assistere all’evoluzione più grave della malattia asmatica, che sia pure raramente può esitare in una forma di insufficienza respiratoria fatale per il paziente. Qualora la crisi sia particolarmente grave, il paziente può presentare sudorazione profusa e cianosi labiale o ungueale. Le caratteristiche di periodicità della sintomatologia asmatica sono largamente dipendenti dall’eventuale esposizione all’agente causale implicato. Così nell’asma allergico generalmente la malattia si manifesta a carattere stagionale (quando siano implicati pollini di alberi e graminacee) e meno frequentemente a carattere continuo (nel caso di allergia a Dermatophagoides). Tipica è l’insorgenza di accessi asmatici notturni o nella prima mattina in soggetti che presentano allergie alle polveri domestiche ed in particolare al Dermatophagoides, che alligna frequentemente nei cuscini e nei materassi. Il manifestarsi di crisi asmatiche nell’ambiente di lavoro è, come abbiamo detto, altamente indicativo di un asma di natura “occupazionale”. Meno caratteristiche possono essere le circostanze in cui si manifesta l’asma non allergico o intrinseco: la sintomatologia può in questi casi presentarsi in seguito ad uno sforzo (talora anche a diverse ore di distanza), dopo esposizione all’aria fredda o essere precipitata da uno stress emotivo. Nel caso dell’asma causato da idiosincrasia a determinati farmaci, questo tende ovviamente a manifestarsi in seguito all’assunzione delle sostanze implicate, accompagnandosi eccezionalmente a fenomeni vasomotori, con ipotensione talora molto grave fino a quadri di shock. Più spesso tuttavia, particolarmente quando il farmaco responsabile venga assunto per lunghi periodi ed a bassi dosaggi, la sintomatologia può presentarsi in modo subdolo, con carattere di continuità, rendendo difficoltoso l’approccio diagnostico. È in ogni caso essenziale (nel corso della raccolta anamnestica) risalire con la massima accuratezza alle situazioni ambientali e cronologiche nelle quali il disturbo tende a manifestarsi. Solo in questo modo è possibile restringere il novero delle sindromi asmatiche su base idiopatica (cioè
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senza una causa apparente) ed individuare gli strumenti profilattici e terapeutici più efficaci. L’esame obiettivo di un soggetto in preda ad una crisi asmatica rivela in genere un paziente visibilmente sofferente, spesso con un caratteristico decubito ortopnoico o semiortopnoico e, nei casi più gravi, come si è detto, sudato e subcianotico. Il torace appare iperinflato in atteggiamento inspiratorio e sono spesso visibili i gruppi muscolari respiratori accessori contratti (per es., lo sternocleidomastoideo). La palpazione del torace non è in questi casi molto indicativa, potendo al più rilevare una modesta riduzione del FVT; più utile è l’esame percussorio, che dimostra un’iperfonesi diffusa compatibile con lo stato enfisematoso acuto che il paziente presenta. La percussione delimitativa del torace dimostrerà un allargamento dei campi di Krönig ed un abbassamento delle basi polmonari, che risulteranno ipomobili. L’auscultazione, infine, consentirà di apprezzare pressoché sull’intero ambito toracico ronchi gementi o sibilanti, prevalentemente espiratori, espressione dell’ostruzione bronchiale e bronchiolare in atto, salvo nei casi di broncospasmo serrato, in cui può non esservi alcun rumore espiratorio a causa dello stato enfisematoso acuto. F. Esami di laboratorio. Non esistono alterazioni ematochimiche caratteristiche dell’asma bronchiale, se si eccettua la frequente presenza, nei casi a patogenesi allergica, di una modesta eosinofilia (con numero di eosinofili superiore a 400/mm3), peraltro non specifica di questa patologia. Più utile è il ricorso ad esami più raffinati che consentano di meglio indagare l’eventuale presenza di allergia nei confronti di particolari sostanze: tra questi i principali sono il PRIST ed il RAST, dei cui dettagli tecnici si parla nel capitolo dedicato all’allergia, che andrebbero tuttavia riservati ai casi in cui l’anamnesi e le caratteristiche di decorso della malattia orientino verso un possibile stato atopico. Esami complementari che possono contribuire al perfezionamento della diagnosi sono rappresentati dalla analisi microscopica dell’espettorato prodotto nel corso di una crisi asmatica, che potrà, soprattutto nei casi a patogenesi allergica, dimostrare la presenza di abbondanti granulociti eosinofili e talora di particolari elementi figurati, quali i cristalli di Charcot-Leyden (esagonali, formati da prodotti del catabolismo degli eosinofili) o le spirali di Curshmann (di natura glicoproteica, riproduzioni a stampo del lume bronchiolare). L’esame radiologico del torace non fornisce di regola informazioni di maggiore utilità rispetto a quello semeiologico fisico, dimostrando tutt’al più lo stato iperdistensivo polmonare con iperdiafania dei campi polmonari ed appiattimento degli emidiaframmi. Tuttavia una radiografia standard del torace si impone in questi pazienti, al fine di escludere altre patologie polmonari responsabili di manifestazioni cliniche analoghe. G. Diagnosi. La diagnosi clinica di asma bronchiale non presenta in genere difficoltà, specie se adeguatamente confermata da un’attenta anamnesi personale e familiare dell’ammalato.
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Più difficoltoso e talora impossibile può essere il riconoscimento dell’agente o degli agenti responsabili della malattia, dato che spesso non si riesce a dimostrare in modo inequivocabile una precisa relazione di causa-effetto tra esposizione ad eventuali fattori asmigeni e scatenamento della sintomatologia. È comunque utile ricorrere in alcuni casi ad un completo esame allergologico del paziente, eseguendo esami sierologici quali il PRIST ed il RAST (per il dosaggio delle IgE totali e specifiche), test cutanei (PRICKtest) con batterie dei più comuni allergeni presenti nell’ambiente ed eventualmente test di provocazione bronchiale specifica (facendo inalare quantità infinitesimali di allergeni durante l’esecuzione di un test spirometrico) o aspecifica (utilizzando per lo più sostanze colinergiche, istamina, nebbia ultrasonica di H2O o facendo fare uno sforzo fisico). Di fondamentale importanza è l’esecuzione, in periodo di relativo benessere onde limitare i disagi per il paziente, di test di funzionalità respiratoria, che potranno dimostrare il grado di ostruzione bronchiale presente e la sua eventuale reversibilità dopo trattamento con farmaci broncodilatatori. Tra le patologie che entrano in diagnosi differenziale con l’asma bronchiale vanno citate essenzialmente le ostruzioni delle alte vie respiratorie e il cosiddetto asma cardiaco; le prime sono comuni soprattutto in età infantile e possono derivare da edema infiammatorio o allergico della glottide, da infezioni virali a livello laringeo (pseudocroup) o da inalazione di corpi estranei. In questi casi la dispnea è presente sia durante l’inspirazione che nel corso dell’espirazione e si accompagna ad un caratteristico stridore laringeo (“cornage” per gli Autori francesi). L’incremento della depressione intrapleurica che si accompagna all’inspirazione determina inoltre, in presenza di un’ostruzione alta delle vie aeree, il rientramento visibile delle fosse sovraclaveari e degli spazi intercostali (“tirage”). L’asma cardiaco è una condizione indicativa di insufficienza ventricolare sinistra e precede di regola l’evoluzione verso un quadro di edema polmonare acuto. Il broncospasmo nell’insufficienza ventricolare sinistra è dovuto all’imbibizione, per trasudazione di liquidi, degli spazi interstiziali peribronchiali, capace di produrre restringimenti del calibro dei bronchi e stimolazione riflessa dei recettori irritativi presenti a questo livello. È in questi casi pressoché costantemente presente un quadro di cardiopatia organica preesistente associato al rilievo auscultatorio di rantoli crepitanti alle basi, che sono assenti nell’asma bronchiale puro. H. Decorso e prognosi. Le caratteristiche evolutive della malattia asmatica sono molto diverse a seconda che essa sia insorta in età infantile o adulta. L’asma infantile, comparso entro i primi dieci anni di vita, tende a regredire completamente in un’elevata percentuale di casi (superiore al 60%), soprattutto nei soggetti che non presentano una significativa storia individuale di malattie allergiche. Meno buona è la prognosi per l’asma insorto in età adulta che, particolarmente quando ha carattere continuo o subcontinuo, tende a
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persistere nel tempo ed a complicarsi talora con infezioni bronchiali. È in questo gruppo di pazienti che si ravvisa la maggiore mortalità indotta dalla malattia. I. Terapia. Nel caso di asma allergico l’iposensibilizzazione con gli allergeni rilevanti può essere utile in molti, ma non in tutti i pazienti. Tuttavia, questo trattamento rappresenta una terapia di fondo e non esenta dai provvedimenti che debbono essere applicati in ogni caso quando l’asma è in atto. Questi sono di vario tipo e le relative indicazioni sono correlate alla gravità della malattia. Quando l’asma è lieve e si verificano solo attacchi sporadici, talora indotti dall’esercizio fisico, è sufficiente l’impiego al bisogno di farmaci -agonisti a breve durata di azione per inalazione (per es., salbutamolo e terbutalina). Questi farmaci non danno beneficio se assunti regolarmente e, così facendo, alcuni pazienti, secondo un punto di vista discusso, possono anche peggiorare. La pietra miliare del trattamento anti-asmatico è però rappresentata dai corticosteroidi inalati, quali il beclometasone, il fluticasone e la budesonide. Questi sono indicati in tutti i casi di asma relativamente lieve nei quali sarebbe necessaria più di un’inalazione al giorno di -agonisti per controllare gli attacchi. Con i corticosteroidi inalati si ottengono spesso buoni risultati con piccole dosi. In caso di risultati non completamente soddisfacenti, l’aumento delle dosi aggiunge poco all’efficacia e aumenta gli effetti collaterali, che sono rappresentati dagli stessi provocati dai corticosteroidi per via sistemica. Se le piccole dosi dei corticosteroidi inalati non bastano, è meglio aggiungere un farmaco di tipo diverso. Tra questi, un posto di rilievo hanno i -agonisti a lunga durata di azione, sempre per inalazione, come il salmeterolo e il formoterolo (che agisce più rapidamente del salmeterolo e può essere impiegato anche per il trattamento dgli attacchi acuti). Dopo inalazione, questi farmaci hanno una durata di azione di oltre 12 ore e possono essere somministrati regolarmente due volte al giorno con buoni risultati sul controllo dell’asma e sulla riduzione delle esacerbazioni della malattia. Sono anche disponibili trattamenti alternativi rappresentati dalla teofillina, dagli anti-leucotrieni (inibitori della lipo-ossigenasi, come lo zileuton, o antagonisti dei leucotrieni, come il montelukast e lo zafirlukast) e dagli anti-muscarinici (come l’ipratropio e l’ossitropio). È però da segnalare che la teofillina, che un tempo era un cardine dei trattamenti anti-asmatici, in somministrazione regolare si è dimostrata inferiore ai -antagonisti a lunga durata di azione per via inalatoria e per di più ha una bassa finestra terapeutica. Gli anti-leucotrieni sono assunti per via orale e possono essere utili per il trattamento dell’asma accompagnato da rinite. Gli anti-muscarinici sono particolarmente indicati nell’asma correlato a stimoli irritativi. Talora (circa nell’1% dei casi), l’asma resiste a tutti questi trattamenti e occorre adoperare i corticosteroidi per via sistemica. Dato che questi trattamenti debbono essere prolungati, è consigliabile ridurre gradualmente
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la dose di attacco fino a una dose di mantenimento modesta (per es., 5-7,5 mg di prednisone al giorno). Quando questa dose di mantenimento non è sufficiente è consigliabile aggiungere dei farmaci immunodepressori (per es., metotrexate o ciclosporina) che agiscono sinergicamente con i corticosteroidi e consentono di mantenerne bassa la dose.
MALATTIE CRONICHE OSTRUTTIVE DEL POLMONE Il presente capitolo tratterà principalmente di due condizioni patologiche croniche dell’apparato respiratorio estremamente diffuse nella popolazione e perciò di grande rilevanza sociale: la bronchite cronica e l’enfisema polmonare (BroncoPneumopatie Croniche Ostruttive: BPCO). Come vedremo, queste due entità nosologiche presentano ampie sovrapposizioni ed entrambe si accompagnano ad una cronica compromissione del flusso attraverso le vie aeree. È stato recentemente documentato che le BPCO sono causa diretta o indiretta di più di 20.000 decessi annui negli USA e sono seconde solo alle malattie cardiache quale causa di invalidità parziale o totale allo svolgimento dell’attività lavorativa. La prevalenza di queste malattie varia dal 2% nelle donne all’8% negli uomini nell’età compresa tra i 40 ed i 65 anni.
Bronchite cronica È questa una condizione irritativa cronica dell’albero respiratorio, caratterizzata da un’iperproduzione di muco a livello delle ghiandole mucose bronchiali. Secondo una definizione clinica, infatti, si considera bronchitico cronico un soggetto che presenti tosse produttiva quotidianamente per almeno 3 mesi di 2 anni consecutivi. Tale definizione in realtà, per quanto universalmente accettata, si è ben presto dimostrata insufficiente nel descrivere questa patologia broncopolmonare, in particolare per quanto riguarda il danno, sempre presente nei bronchitici cronici, a livello delle piccole vie aeree (< 2 mm di diametro): esse infatti contribuiscono in minima parte all’iperproduzione di muco, a causa della scarsissima presenza di ghiandole a questo livello, ma sono la sede principale dell’ostruzione cronica al flusso aereo, che tanta parte ha nel determinare le più gravi conseguenze fisiopatologiche e cliniche di questa malattia. A. Eziologia. Diversamente dalle bronchiti acute, per lo più causate, come abbiamo visto, da svariati agenti infettivi, la bronchite cronica è conseguente all’azione protratta di agenti irritanti sulla mucosa bronchiale: tra essi di gran lunga più frequenti risultano essere il fumo di sigaretta e la polluzione atmosferica. Sulla base delle menomazioni provocate dagli agenti menzionati, intervengono poi, come fattori concausali,
le ricorrenti complicanze infettive, batteriche o di altra natura, che contribuiscono ad aggravare il danno preesistente a livello delle vie aeree. La relazione tra fumo di sigaretta e bronchite cronica è lampante: è stato calcolato che il 20% dei fumatori di 15-20 sigarette al giorno in età superiore ai 40 anni soffre di bronchite cronica; questa percentuale può salire al 50-60% tra coloro che fumano 40 sigarette al giorno. Osservazioni recenti hanno inoltre dimostrato come anche i bambini conviventi con genitori dediti al fumo possono risentire dei suoi effetti dannosi, non andando incontro ad un pieno sviluppo delle capacità funzionali dell’apparato respiratorio. Il secondo fattore in causa nel determinare l’insorgenza di bronchite cronica è l’inquinamento atmosferico: la morbilità e la mortalità relative a questa patologia sono infatti nettamente più elevate nelle aree urbane e industrializzate rispetto a quelle rurali. Anche se non è stato finora identificato un particolare inquinante responsabile dello sviluppo di bronchite cronica, sembra che sostanze gassose quali l’anidride solforosa o gli agenti tossici in particelle, anche a causa della loro più elevata concentrazione in alcune aree urbane, siano più direttamente in causa. Va poi affermato che fumo ed inquinamento atmosferico agiscono sinergicamente nel produrre il danno alla mucosa respiratoria che è all’origine della bronchite cronica. B. Patogenesi. Gli aspetti patogenetici della bronchite cronica e dell’enfisema polmonare sono largamente interconnessi, e sono deducibili dall’esame dei danni strutturali provocati alla mucosa respiratoria dalla cronica inalazione dei prodotti catramosi contenuti nel fumo di sigaretta o di svariati inquinanti atmosferici. Nella mucosa delle prime generazioni bronchiali di un fumatore cronico sono evidenziabili modificazioni prevalentemente conseguenti all’azione irritativa di queste sostanze: si creano infatti aree più o meno estese di metaplasia squamosa dell’epitelio bronchiale e, soprattutto, si osserva una marcata ipertrofia dell’apparato ghiandolare mucosecernente, che giustifica ampiamente l’ipersecrezione mucosa caratteristica della malattia. A questo primo elemento rilevante si associano anche un variabile edema flogistico della mucosa bronchiale ed alterazioni morfologiche e funzionali delle ciglia vibratili, che appaiono più corte e meno mobili rispetto al normale. È stato suggerito che il fumo di tabacco contenga sostanze ciliotossiche capaci di interferire con alcuni enzimi ossidativi delle cellule ciliate, e quindi di compromettere la piena efficienza della clearance mucociliare. All’aumento della produzione di muco corrisponde perciò una menomazione delle strutture deputate alla sua espulsione. In alcuni casi nella bronchite cronica, oltre all’ipertrofia ghiandolare e all’edema infiammatorio della mucosa, si può sovrapporre un terzo elemento caratteristico che è costituito dallo spasmo della muscolatura li-
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scia bronchiale, che può insorgere precocemente ed interessare prevalentemente le piccole vie aeree (< 2 mm di diametro), contribuendo notevolmente a menomare la normale funzione respiratoria del paziente. Anche lo spasmo muscolare della parete bronchiale è ascrivibile all’irritazione cronica prodotta dal fumo di sigaretta; in questi soggetti, infatti, a causa delle già descritte alterazioni a carico della mucosa respiratoria, si rendono più accessibili all’aria inalata le terminazioni nervose sensitive, che costituiscono i recettori irritativi presenti nella sottomucosa delle vie aeree e che, come abbiamo visto, sono in grado di evocare per via riflessa (tramite il nervo vago) la contrazione della muscolatura liscia bronchiale. È stato inoltre osservato che, a causa dell’insulto flogistico sulle pareti bronchiali, si produce una deplezione dei recettori -1-adrenergici siti a livello delle miocellule bronchiali che, come abbiamo visto, svolgono un ruolo di protezione nei confronti di agenti broncocostrittori. La conseguenza è un cronico incremento del tono broncomotore di questi pazienti, che si accompagna ad una ridotta soglia di irritabilità delle vie bronchiali. Si potrà perciò creare un circolo vizioso che tenderà a perpetuare il fenomeno della broncocostrizione, rendendo il paziente più sensibile non solo al fumo di sigaretta ma anche ai molteplici fattori irritanti di natura chimica, fisica o biologica presenti nell’aria inalata. C. Anatomia patologica. La mucosa può essere arrossata ed irregolarmente ispessita, oppure biancastra e sottile; a volte essa è ricoperta da muco o muco-pus, talora così abbondante da riempire il lume dei bronchi e dei bronchioli. Le cellule mucipare calciformi sono aumentate di numero rispetto alle cellule di rivestimento; queste ultime possono presentare metaplasia malpighiana con displasia di grado variabile. L’elemento diagnostico più importante è il notevole aumento di volume delle ghiandole mucipare, che viene quantificato calcolando l’indice di Reid, cioè il rapporto fra lo spessore dello strato delle ghiandole e lo spessore della parete fino alla cartilagine. L’indice di Reid, normalmente inferiore a 0,4, aumenta nei bronchitici cronici proporzionalmente alla gravità e alla durata della malattia. Edema, infiammazione e fibrosi della mucosa, unitamente all’iperproduzione di muco tenacemente adeso alla parete, causano una cospicua riduzione del calibro del lume dei piccoli bronchi e dei bronchioli. L’organizzazione dell’essudato da parte di tessuto di granulazione e la successiva evoluzione cicatriziale causano la bronchiolite fibrosa obliterante. D. Fisiopatologia. La bronchite cronica è caratterizzata dalla discrepanza tra quantità di muco prodotta (che è aumentata) e clearance mucociliare (che è ridotta). È perciò impossibile l’eliminazione della secrezione bronchiale senza ricorrere al meccanismo ausiliario della tosse (in un individuo normale circa 100 ml al giorno di secrezione mucosa vengono eliminati dalla
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clearance mucociliare in assenza di tosse). Se l’alterazione delle vie aeree si ferma a questo stadio, si parla di bronchite cronica semplice. Esiste comunque sempre la possibilità che si abbia un certo grado di ostruzione delle vie respiratorie dovuto all’edema della mucosa delle più fini diramazioni bronchiali oltre che, come si è visto, alla tendenza alla broncocostrizione. Questa componente può essere molto variabile da un individuo all’altro, in alcuni determinando solamente una riduzione delle prestazioni ventilatorie sotto sforzo ed in altri una vera e propria sintomatologia asmatica. I livelli più elevati di broncospasmo sono verosimilmente favoriti da fattori costituzionali, come l’esistenza di uno stato atopico nel paziente. La bronchite cronica è caratterizzata da una notevole propensione alle infezioni respiratorie che, in questi pazienti, è ascrivibile in parte alla compromissione della normale attività ciliare, cui consegue un ristagno di secrezioni, e in parte alla ridotta efficienza dei macrofagi alveolari, costantemente impegnati nel processo di rimozione dei prodotti catramosi inalati col fumo. E. Clinica. La bronchite cronica si sviluppa più frequentemente nell’età adulta, sopra i 40 anni, ed interessa prevalentemente il sesso maschile, anche se questa differenza va attenuandosi a causa dell’ormai trascurabile divario tra i due sessi per quanto concerne le abitudini tabagiche. La caratteristica clinica più evidente, e a lungo isolata, della malattia, consiste in una tosse con espettorato particolarmente abbondante al risveglio, allorquando vengono eliminate le secrezioni accumulatesi nelle ore notturne (bronchite cronica semplice). Tipicamente il paziente tende ad assuefarsi rapidamente alla cosiddetta “tosse del fumatore”, tanto da non farne menzione quando viene intervistato dal medico. Tuttavia nel corso degli anni il ricorso all’aiuto del medico diviene più costante, sia perché il disturbo tende ad essere presente durante l’intera giornata, sia per la frequente insorgenza di sovrapposizioni infettive a carico delle prime vie respiratorie. Le complicanze infettive si manifestano più spesso nei mesi invernali (anche due o tre volte nella stessa stagione) e comportano un’esacerbazione della tosse e dell’espettorazione con modificazioni del carattere dell’escreato, che da grigio madreperlaceo tenderà a divenire giallastro o verdastro, di aspetto mucopurulento. A seconda dell’agente eziologico implicato, vi potranno poi essere febbre e talora la progressione verso un quadro di franca broncopolmonite. L’esame del malato affetto da bronchite cronica è nella maggior parte dei casi del tutto negativo. È comunque frequente rilevare, all’auscultazione del torace, rumori secchi di origine bronchiale, come ronchi a carattere “russante” generati dal passaggio dell’aria sulle pareti bronchiali alterate dal processo flogistico; talora si rendono evidenti rumori umidi grossolani, prodotti dall’eccesso di secrezioni a livello delle prime generazioni bronchiali mentre, in presenza di una sovrapposizione infettiva, tutti questi elementi possono essere presenti contemporaneamente, dando luogo a quello che viene definito un “concerto” di rumori.
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In una minoranza di pazienti può inoltre divenire prevalente dal punto di vista clinico la componente broncospastica, che si rende manifesta soggettivamente con dispnea e dal punto di vista obiettivo con la presenza all’auscultazione del torace di ronchi gementi o sibilanti, sia a carattere accessionale che ad andamento cronico e persistente. Questa condizione viene definita come bronchite cronica “asmatica”. Va infine ricordato che l’evoluzione naturale della bronchite cronica è rappresentata dall’enfisema polmonare, che è rilevabile autopticamente nell’80% e più dei soggetti che erano portatori di bronchite cronica. Come vedremo trattando più in dettaglio questa patologia, secondo alcuni un certo grado di enfisema polmonare si determinerebbe già nelle fasi precoci di un processo bronchitico cronico, allorquando si osserva un progressivo incremento delle resistenze al flusso nelle piccole vie aeree, che determina un costante “intrappolamento” di aria distalmente rispetto ai bronchioli terminali. F. Esami di laboratorio. Non esistono alterazioni bioumorali caratteristiche della bronchite cronica, perlomeno nella sua fase iniziale; in altre parole, la malattia tende lungamente a mantenersi localizzata all’albero respiratorio, senza produrre conseguenze sistemiche. In presenza di una riacutizzazione del processo bronchitico, conseguente ad una sovrapposizione batterica, potranno talvolta essere rilevabili alterazioni degli indici di flogosi (aumento della VES, delle 2-globuline, ecc.); solo nelle fasi avanzate del processo si avranno le alterazioni ematologiche, oltre che strumentali, caratteristiche dell’insufficienza respiratoria che consegue allo sviluppo di enfisema polmonare e di cui si parlerà nelle prossime pagine. G. Diagnosi. La diagnosi di bronchite cronica è, come abbiamo visto, eminentemente clinica, e si basa sul riscontro di tosse produttiva persistente con i caratteri già indicati. Più sensibili possono risultare le indagini strumentali di funzionalità respiratoria. Anche nei pazienti non ancora considerati enfisematosi, si assisterà infatti ad un progressivo decremento del VEMS (Tab. 16.6), associato ad un aumentato rapporto tra VR e CPT (indice di Motley). Queste alterazioni sono la testimonianza del danno ostruttivo presente a livello delle vie aeree, associato pressoché costantemente ad un’iperinflazione degli spazi aerei distali ai bronchioli terminali. È utile ricordare nuovamente che esistono test specifici, anche se meno standardizzati, per la valutazione della resistenza al flusso nelle piccole vie aeree, i quali possono risulta-
Tabella 16.6 - Decremento del VEMS in portatori di BPCO. DECLINO VEMS/ANNO Normali Fumatori senza BPCO Fumatori con BPCO
20-25 ml 40-45 ml 50-75 ml
re precocemente alterati nei pazienti affetti da bronchite cronica: tra questi, il “volume di chiusura” e la “compliance dipendente dalla frequenza”.
Enfisema polmonare Con il termine “enfisema” si definisce una condizione patologica caratterizzata dalla presenza di materiale gassoso in una sede nella quale esso è normalmente assente (per es., enfisema sottocutaneo) o, nel caso del polmone, di un’abnorme quantità di aria in rapporto al materiale solido che costituisce il parenchima dell’organo. Vengono perciò identificati, da un punto di vista anatomoclinico, vari tipi di enfisema: l’enfisema “vicariante”, che interessa un solo polmone nei soggetti che hanno perso l’uso di quello controlaterale; l’enfisema senile, caratterizzato da un’atrofia delle strutture polmonari con aumento relativo della quota di aria; l’enfisema acuto da iperdistensione alveolare, che si realizza durante una grave crisi asmatica. La variante più comune di enfisema polmonare non rientra però in queste categorie: essa è la conseguenza della più o meno estesa distruzione delle strutture fibrose, elastiche e collagene che formano la matrice dell’organo, a cui conseguono la riduzione del ritorno elastico del polmone disteso ed il mantenimento in stato di iperdistensione degli spazi alveolari. Questo tipo di enfisema, al quale si farà riferimento nel presente paragrafo, viene anche definito enfisema cronico ostruttivo per sottolineare le caratteristiche di ordine clinico e funzionale che, come abbiamo visto, sono in parte condivise dalla bronchite cronica. A. Eziopatogenesi. Come già accennato, l’elemento caratteristico dell’enfisema polmonare è rappresentato dalla distruzione delle strutture collagene ed elastiche dell’organo; è ormai accertato che tale fenomeno è largamente ascrivibile all’azione di enzimi proteolitici endogeni, ed in particolare dell’enzima elastasi, abbondante, come è noto, nel citoplasma delle cellule infiammatorie presenti nell’apparato respiratorio: i macrofagi alveolari ed i granulociti neutrofili. Poiché tali cellule sono costantemente coinvolte nei processi di difesa verso agenti provenienti dall’ambiente esterno, il loro potenziale lesivo nei confronti della struttura polmonare sarebbe enorme se non fosse operante un meccanismo atto a limitare l’azione delle proteasi endogene; tale meccanismo è costituito dall’1-antitripsina, una glicoproteina ad attività antiproteasica identificata circa vent’anni or sono, e la cui caratterizzazione biochimica e funzionale ha consentito significativi progressi nella comprensione della patogenesi dell’enfisema polmonare. È probabile, tuttavia, che anche altre anti-iproteasi abbiano un ruolo, anche se meno definito (per es., la 2-macroglobulina). La 1-antitripsina (1-AT) (il termine è riferito alla mobilità elettroforetica) è una sostanza glicoproteica, di peso molecolare 51.000 D, costantemente sintetizzata dal fegato ed immessa nel torrente circolatorio; essa ha la proprietà di legarsi avidamente agli enzimi proteoliti-
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ci che costituiscono il patrimonio enzimatico di macrofagi e polimorfonucleati, inattivandoli e limitando così le conseguenze della loro liberazione nell’ambiente alveolare. È ormai accertato che l’enfisema polmonare può svilupparsi qualora venga alterato il normale rapporto tra i livelli di proteasi endogene e quelli di antiproteasi (1-AT), a favore delle prime. Come vedremo, questa condizione può determinarsi come conseguenza di fattori di carattere genetico e/o ambientale. La sintesi dell’1-AT è soggetta ad un polimorfismo genetico, che ne determina sia le caratteristiche qualitative (ne esistono 25 varianti nell’uomo) sia i livelli plasmatici. Sono state fino a questo momento identificate tre varianti principali di 1-AT, codificate da geni differenti, e denominate con la sigla Pi (Protease Inhibitor) seguita da una lettera che ne indica la mobilità elettroforetica; M (= media velocità), S (= slow, cioè bassa velocità) e Z (che sta per “molto lenta”, essendo Z l’ultima lettera alfabetica). Queste varianti vengono ereditate con modalità autosomica recessiva a penetranza variabile e ad esse sono associati livelli plasmatici differenti di 1-AT. Il genotipo omozigote per il gene M (PiMM) è di gran lunga il più diffuso nella popolazione (Tab. 16.7) e ad esso corrispondono livelli normali di 1-AT. I genotipi omozigoti PiSS e PiZZ sono invece assai rari, ma associati a livelli progressivamente decrescenti di 1-AT, pari al 60% e al 15% del normale, rispettivamente. I portatori del genotipo omozigote ZZ, che costituiscono lo 0,1% circa della popolazione e che presentano i livelli più bassi di 1-AT (di solito inferiori a 50 mg/dl), sono quelli a maggior rischio per lo sviluppo di enfisema polmonare; esso insorge infatti nel 60-90% di tali soggetti entro i 50 anni di età, a seconda che sia presente o meno l’abitudine al fumo di sigaretta quale fattore concausale. I soggetti eterozigoti per i geni sopra menzionati, anch’essi relativamente rari nella popolazione, presentano livelli intermedi di 1-AT: per esempio, al genotipo PiMZ sembra corrispondere l’insorgenza di enfisema solo in alcune famiglie. Il motivo delle differenze così cospicue nei livelli ematici di certi particolari genotipi di 1-AT sembra risiedere in peculiarità di sintesi che rendono difficile alla proteina il rilasciamento da parte del fegato verso il sangue; è in-
Tabella 16.7 - Frequenza dei principali fenotipi relativi alla concentrazione di 1-AT e associazione con lo sviluppo di enfisema.
FENOTIPO
% DELLA CONCENTRAZIONE ASSOCIAZIONE CON POPOLAZIONE DI 1-AT (USA) (% DEL NORMALE) ENFISEMA
PiMM PiMS PiMZ
89,5 7,1 3,0
PiZZ PiZS
0,1 0,2
100 75 57 Famiglie 16 37
NO NO In alcune SI Ignota
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teressante notare, a titolo di esempio, che nei soggetti PiZZ si verifica un accumulo di 1-AT negli epatociti, cui consegue in una elevata percentuale di casi lo sviluppo di alterazioni anche notevoli della funzionalità epatica nel corso degli anni, tanto che il 15% di questi individui muore per grave epatopatia. A queste considerazioni di estremo interesse si contrappone però il dato che malgrado la frequenza di soggetti geneticamente predisposti all’enfisema sia assai modesta, questa patologia risulta estremamente diffusa nella popolazione. Esistono quindi fattori di ordine ambientale, oltre che ereditario, in grado di condurre allo squilibrio del rapporto proteasi/antiproteasi che determina l’insorgenza di enfisema. Ancora una volta si è potuto identificare che il fumo di sigaretta è il maggior responsabile all’origine di tale fenomeno, attraverso una serie di meccanismi che concorrono nel produrre il danno alle strutture collagene ed elastiche del polmone. In primo luogo è stato osservato che la percentuale di granulociti neutrofili, i maggiori produttori di proteasi ed elastasi, è nettamente più elevata nel liquido di lavaggio broncoalveolare dei fumatori e che i macrofagi alveolari liberano attivamente tali enzimi nell’ambiente alveolare in misura maggiore rispetto ai non fumatori; inoltre, si è potuto dimostrare che in soggetti dediti al fumo si verifica una parziale inattivazione dell’1-AT ad opera di agenti ossidanti contenuti nel fumo stesso o liberati nell’ambiente alveolare dalle cellule macrofagiche o dai granulociti neutrofili, che ne sono particolarmente ricchi. Infine, la più frequente occorrenza di infezioni batteriche e virali che caratterizza il decorso clinico dei bronchitici cronici, rappresenta un ulteriore fattore di accumulo di elementi infiammatori e quindi degli enzimi in essi contenuti, a livello dell’albero respiratorio. Questi ed altri fattori sembrano essere alla base dello stretto legame eziopatogenetico esistente tra fumo di sigaretta, bronchite cronica ed enfisema polmonare. Come ampiamente prevedibile dai dati emersi fino a questo momento, fattori genetici ed ambientali possono poi agire sinergicamente nel determinare l’entità e la precocità di insorgenza dell’enfisema polmonare. B. Anatomia patologica. L’enfisema polmonare è un aumento di volume permanente degli spazi aerei distali al bronchiolo terminale, associato a distruzione delle loro pareti. Ambedue i polmoni si presentano aumentati di volume, tanto che all’apertura della cavità toracica i margini anteriori possono raggiungere la linea mediana e coprire completamente il pericardio; la forma può essere irregolare per la presenza di bolle e per la diversa gravità delle lesioni in parti diverse del polmone. La pleura è normalmente liscia e lucente e lascia trasparire il colore pallido grigiastro o roseo del parenchima ed un reticolo antracotico a larghe maglie ed a grosse chiazze. La consistenza è soffice, la pressione sul polmone produce un lieve crepitio, simile a quello prodotto dalla compressione della neve fresca; la superficie mantiene l’impronta della mano.
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Istologicamente, le pareti alveolari sono sottili, ipovascolari, con riduzione e frammentazione delle fibre elastiche, e delimitano spazi aerei ampi, nei quali sporgono monconi di setti alveolari distrutti; la confluenza di spazi vicini e la sovradistensione danno origine alle bolle. Benché le alterazioni istologiche siano le medesime, la loro diversa distribuzione nell’ambito dell’acino polmonare dà luogo a quattro varianti morfologiche di enfisema, che possono essere riconosciute esaminando con una lente di ingrandimento la superficie di taglio dei polmoni. 1. Enfisema centroacinare: sono colpite le parti centrali dell’acino, che corrispondono ai bronchioli respiratori, mentre le parti periferiche (distali) sono normalmente indenni. È la forma più frequente in assoluto ed è la più comune nei fumatori. Predilige i segmenti apicali dei lobi superiori (Figg. 16.5 e 16.6). 2. Enfisema panacinare: le parti centrali e periferiche del lobulo sono ugualmente interessate. È la forma associata a deficit di 1-antitripsina. Predilige le parti basse del polmone, soprattutto le basi, ed i margini anteriori (Figg. 16.5 e 16.7). 3. Enfisema parasettale (o distale): le parti periferiche dell’acino sono sede delle lesioni, mentre le parti centrali sono normali. Predilige la zona sottopleurica
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della metà superiore dei polmoni e comunemente è prossimità di aree di fibrosi. Bolle enfisematose grosse dimensioni sono particolarmente frequenti; loro posizione sottopleurica è alla base di molti casi pneumotorace spontaneo in giovani.
in di la di
4. Enfisema irregolare: gli acini sono interessati irregolarmente, in prossimità di aree di fibrosi. Il termine enfisema è impropriamente usato in altre situazioni; nell’enfisema compensatorio aumenta il contenuto aereo del parenchima residuo dopo pneumonectomia o lobectomia senza distruzione dei setti alveolari. Anche nell’enfisema senile non vi è distruzione del parenchima, ma solo iperdistensione dei bronchioli respiratori e dei dotti alveolari, mentre gli alveoli sono addirittura più piccoli del normale. L’enfisema da ostruzione è anch’esso solo un’iperdistensione, da aria intrappolata a valle di un’ostruzione completa, e in questo caso l’aria entra dalle aree circostanti attraverso i pori di Kohn o i canali bronchiolo-alveolari di Lambert, o di un’ostruzione parziale con meccanismo a valvola. L’iperdistensione lobare congenita infantile è legata a quest’ultimo meccanismo: l’ipoplasia delle cartilagini bronchiali permette alla parete bronchiale di collabire durante l’espirazione, impedendo la fuoriuscita dell’aria inspirata. La definizione enfisema bolloso indica la presenza, in sede sub-
A.
B.
C.
Figura 16.5 - Calchi delle vie respiratorie terminali: (A) nel polmone normale; (B) nell’enfisema centroacinare; (C) nell’enfisema panacinare. (Da Casali L.: Manuale di malattie dell’apparato respiratorio. Masson, Milano, 2001.)
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ziale l’aumento del contenuto aereo non si verifica negli spazi aerei, come in tutti i casi sin qui considerati; da una lacerazione parenchimale l’aria entra negli spazi interstiziali del polmone durante l’inspirazione e vi rimane intrappolata durante l’espirazione. L’accumulo progressivo può spingere l’aria del polmone nel tessuto lasso mediastinico e poi nel sottocutaneo.
Figura 16.6 - Quadro radiologico di un enfisema centroacinare. (Da J. Chrétien, Pneumologia, Masson, Milano, IIa ed., 1984.)
pleurica, generalmente ai margini anteriori o agli apici, di spazi enfisematosi di diametro superiore a 1 cm; la loro rottura causa pneumotorace. Nell’enfisema intersti-
Figura 16.7 - Quadro radiologico di un enfisema panacinare. (Da J. Chrétien: Pneumologia, Masson, Milano, IIa ed., 1984)
C. Fisiopatologia. Il difetto fondamentale del polmone enfisematoso è una menomazione della capacità di ritorno elastico dopo la sua distensione inspiratoria, a causa della distruzione delle fibre elastiche. La spinta espiratoria (che fisiologicamente è rappresentata pressoché esclusivamente dal ritorno elastico polmonare) è perciò diminuita e gli alveoli tendono a restare iperdistesi. Tuttavia, quando l’alterazione è di grado elevato, i muscoli ausiliari espiratori vengono messi in azione. Ma questo determina un incremento della pressione intratoracica e i bronchioli periferici, privi di stroma cartilagineo, vengono compressi e ridotti di calibro in quella parte del loro decorso (di regola la meno prossima agli alveoli) nella quale la pressione intratoracica eccede la pressione dell’aria che fluisce al loro interno. Questo fatto incrementa le resistenze delle vie aeree durante la respirazione e rende ancora più difficile la espulsione dell’aria dagli alveoli iperdistesi. Per quanto riguarda gli scambi gassosi, è da ricordare che una menomazione caratteristica dell’enfisema è la riduzione della superficie alveolo-capillare a causa della distruzione di numerosi setti alveolari e della fusione di vari alveoli in sacche aeree di volume maggiore. Questo fatto comporta una riduzione della diffusione dei gas tra sangue e aria alveolare e un aumento dello spazio morto funzionale cui conseguono, se la ventilazione non viene aumentata, un’ipossiemia e un’ipercapnia (meno comunemente perché, come si è visto, la CO2 diffonde più facilmente dell’O2 attraverso la membrana alveolo-capillare). In realtà, le alterazioni più rilevanti sono dipendenti da squilibri tra ventilazione e perfusione. Questi sono particolarmente gravi nell’enfisema centroacinare, nel quale la dilatazione al centro dell’acino ha l’effetto di compromettere il trasferimento dell’O2 dai bronchioli terminali agli alveoli. Infatti, il trasporto di O2 per convenzione durante la ventilazione avviene normalmente solo fino ai bronchioli terminali e da questo punto agli alveoli ha luogo per diffusione. Nell’enfisema centroacinare è come se uno spazio morto fosse stato aggiunto in serie, lungo le vie respiratorie, immediatamente a monte degli alveoli. La distanza che dovrebbe essere percorsa dall’O2 per diffusione risulta perciò di fatto allungata e gli alveoli tributari dell’ectasia centroacinare finiscono per essere inevitabilmente ipoventilati. Ne consegue ipossiemia e, se la ventilazione non viene congruamente aumentata, anche ipercapnia. L’incremento della ventilazione in misura tale da correggere l’ipercapnia risulta particolarmente difficile quando coesiste un’ostruzione delle vie respiratorie. Come si vede, perciò, la capacità di prevenire alterazioni della PO2 e della PCO2 nel sangue arterioso è largamente dipendente dalla capacità del paziente di in-
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crementare la ventilazione. In relazione a questo meccanismo, assumono una certa importanza la cosiddetta “spinta ipossica” (“hypoxic drive”: ossia la sensibilità dei chemorecettori periferici all’ipossiemia) e la corrispondente sollecitazione da parte dell’ipercapnia (dipendente dalla sensibilità del centro midollare all’incremento della PCO2). La sensibilità ad entrambi questi stimoli varia cospicuamente da un soggetto all’altro, ma in tutti, quando per una ragione qualsiasi si realizza una prolungata ipercapnia, il centro midollare tende ad adattarsi ai più elevati livelli di PCO2. L’entità della “spinta ipossica” in un dato soggetto assume perciò una particolare importanza. Nel caso di un enfisema panacinare (e cioè con limitati squilibri tra ventilazione e perfusione) e con una buona “spinta ipossica”, si potrà avere un incremento della ventilazione tale da correggere completamente l’ipossiemia e da aumentare la eliminazione di CO2 in misura tale da determinare ipocapnia. In questi casi il soggetto evita l’ipossiemia (e la cianosi) a prezzo di una accentuazione della dispnea. Ne risulta il quadro clinico dello “sbuffatore rosa” (“pink puffer” nella letteratura anglosassone). Nel caso di un enfisema centroacinare (e cioè con notevoli squilibri tra ventilazione e perfusione) la correzione dell’ipossiemia con l’iperventilazione diviene difficile. Si aggiunga che, nel caso che la “spinta ipossica” sia debole, lo stimolo a iperventilare dipende prevalentemente dall’ipercapnia alla quale, come si è visto, il centro midollare tende ad adattarsi. Ne conseguono un incremento della ventilazione largamente inadeguato ed una grave ipossiemia. La cronica presenza di ipossiemia arteriosa ha inoltre altre conseguenze: essa produce l’increzione di eritropoietina da parte del rene, che ha lo scopo di incrementare l’eritropoiesi per compensare il ridotto apporto di O2 ai tessuti. Questo tende a determinare poliglobulia e ad aggravare la cianosi. A livello polmonare, come conseguenza, si verifica poi il fenomeno della vasocostrizione ipossica. La vasocostrizione arteriolare e l’aumento della viscosità ematica secondario alla poliglobulia determinano un progressivo incremento delle resistenze vascolari nel piccolo circolo, che si ripercuote sul ventricolo destro con un sovraccarico di pressione. A questi processi può conseguire un quadro di cuore polmonare cronico (Cap. 13) che può determinare, in fase di scompenso, l’insorgenza di edemi declivi (e perciò il paziente è gonfio). Ne risulta il quadro clinico del cosiddetto paziente “blu e gonfio” (“blue and bloated” nella letteratura anglosassone, detto anche “blue bloater”, che letteralmente significherebbe “aringa blu”, una definizione che sembrerebbe incomprensibile dal punto di vista fenomenologico se non celasse, verosimilmente, un gioco di parole). Queste due modalità di risposta, con i quadri clinici corrispondenti, debbono essere in realtà considerate gli estremi di uno spettro nel quale tutte le gradazioni intermedie sono possibili. I pazienti enfisematosi che sviluppano ipercapnia sono in condizione di andare incontro ad acidosi respiratoria, uno squilibrio che può divenire particolarmente pericoloso quando la ventilazione è depressa o per una
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ossigenoterapia mal condotta o per la somministrazione di farmaci (sedativi) che menomano le sollecitazioni respiratorie. D. Clinica. Gli aspetti clinici dell’enfisema polmonare sono estremamente variabili, anche se riconducibili a due quadri fondamentali, tra i quali si inscrive una varietà di situazioni intermedie. Nel quadro definito di tipo A è generalmente prevalente la componente enfisematosa, che corrisponde spesso, ma non costantemente, all’enfisema di tipo panacinare. Il quadro di tipo B è invece spesso caratterizzato dal prevalere della componente bronchitica, cui è associato l’enfisema centroacinare. Questi due quadri clinici sono stati in passato identificati con le due tipologie cliniche caratteristiche descritte nella fisiopatologia: in realtà è abbastanza accettabile dire che il tipo A comprende più spesso il quadro del pink puffer (sbuffatore rosa) in quanto è spesso intensamente dispnoico a riposo e non presenta cianosi mucosa e cutanea. Il tipo B include invece più spesso il quadro del blue bloated (blu e gonfio) con riferimento alla presenza di cianosi e all’habitus, che può tendere all’obesità ed è spesso caratterizzato dalla contemporanea presenza di edemi (Tab. 16.8). È bene ripetere che queste due espressioni cliniche caratteristiche dell’enfisema polmonare rappresentano gli estremi di una gamma assai più vasta di quadri nei quali possono prevalere le manifestazioni dell’uno o dell’altro tipo. L’esame obiettivo di un paziente enfisematoso può variare molto in ragione del prevalere della componente bronchitica o di quella enfisematosa pura. Rispettivamente potrà o meno essere rilevabile cianosi, più spesso in sede labiale e sottoungueale, ma talora presente anche a livello cutaneo; in linea generale questo segno è tanto più evidente quanto minore è l’intensità della dispnea a riposo. Un attento esame delle mani potrà talora svelare la presenza di ippocratismo digitale, cioè di quella alterazione dell’ultima falange che è caratteristica dei portatori di broncopneumopatia cronica, anche se può essere presente in altre patologie.
Tabella 16.8 - Aspetti clinici dell’enfisema polmonare. TIPO A TIPO B (PINK PUFFER) (BLUE BLOATED) Tosse Escreato
– –
Dispnea ++ Murmure vescicolare ↓ Habitus Magro Iperdiafania ai raggi X ++ Diaframma Abbassato Rapporto cuore/polmone < 1:2,5 Ematocrito < 50% Cuore polmonare cronico – Edemi declivi –
++ ++ (viscoso, opaco, mucopurulento) Variabile Normale Normale o obeso – Normale > 1:2,5 > 50% + +
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Il torace del paziente enfisematoso, a causa della cronica iperinflazione polmonare, appare aumentato in tutti i suoi diametri ed assume la caratteristica deformazione “a botte”, in modo analogo a quanto può accadere, acutamente e reversibilmente, nel corso di una grave crisi asmatica. All’aumento di volume della cassa toracica corrisponde però una sua ridotta mobilità inspiratoria ed espiratoria, causata dallo svantaggioso equilibrio dinamico presente ai grandi volumi polmonari tra gabbia toracica, parenchima polmonare e muscoli respiratori accessori. La palpazione del torace è in genere poco significativa in questi pazienti, in quanto questa tecnica possiede una ridotta sensibilità; solo nei più gravi enfisematosi, in cui il rapporto tra materiale gassoso e materiale solido a livello polmonare è molto aumentato, si potrà evidenziare una riduzione ubiquitaria del FVT. Alla situazione appena descritta può corrispondere inoltre, dal punto di vista percussorio, un quadro di iperfonesi plessica diffusa; a questo proposito un indice abbastanza sensibile della presenza di enfisema è dato dalla scomparsa dell’aia di ottusità cardiaca (Cap. 4) dovuta alla sovrapposizione dei polmoni iperinflati sul versante anteriore del cuore. La percussione delimitativa del torace dimostra inoltre l’abbassamento delle basi polmonari, che risulteranno ipomobili, ed un allargamento delle regioni corrispondenti agli apici polmonari (campi di Krönig); anche queste sono conferme indirette dello stato di iperinflazione cui vanno incontro i pazienti enfisematosi. Anche l’auscultazione del torace darà informazioni differenti a seconda del tipo di enfisema: nei pazienti prevalentemente bronchitici, il reperto sarà quello descritto per la bronchite cronica, con ronchi russanti o gementi diffusi, eventualmente associati a rantoli grossolani; nei soggetti enfisematosi puri, l’unico elemento rilevabile può invece essere rappresentato da un’ubiquitaria riduzione del murmure vescicolare, causata dall’estesa distruzione dei setti alveolari. Nella maggior parte dei casi in realtà questi elementi potranno essere contemporaneamente presenti ed il solo esame obiettivo del torace non consentirà di identificare con precisione il tipo di enfisema da cui il paziente è affetto. E. Esami di laboratorio. Come già detto a proposito della bronchite cronica, non esistono alterazioni ematochimiche patognomoniche di enfisema polmonare; tuttavia, anche se il deficit ereditario di 1-AT è come tale piuttosto raro, in presenza di un quadro di enfisema grave in un soggetto di età inferiore ai 50 anni si imporrà un’analisi elettroforetica delle proteine plasmatiche, con relativo dosaggio dei livelli dell’antiproteasi. Nelle fasi avanzate della malattia, e più spesso nei pazienti di tipo B, sarà possibile il riscontro di poliglobulia, con valore di ematocrito uguale o superiore a 50% e aumento del numero dei globuli rossi. Va ricordato che in presenza di poliglobulia il sangue diviene più viscoso e quindi la VES tende a ridursi progressivamente anche a livelli molto bassi (1-2 mm/h); qualora si abbia la sovrapposizione di un processo in-
fettivo o infiammatorio, in questi casi la VES può risultare “falsamente” normale. Infine, in presenza di un quadro di enfisema datante da molti anni, sarà utile ricorrere all’emogasanalisi su sangue arterioso, per definire meglio l’entità dell’ipossiemia arteriosa e l’eventuale presenza di ipercapnia ed acidosi respiratoria. F. Diagnosi. La diagnosi di enfisema polmonare, oltre che sull’indagine anamnestica e clinica, dovrà basarsi sull’esame radiologico del torace e sui dati relativi alle prove di funzionalità respiratoria. In presenza di enfisema puro (quadro di tipo A), l’Rx del torace mostra una caratteristica iperdiafania dei campi polmonari, dovuta alla rarefazione della trama connettivale e vascolare soprattutto nelle regioni periferiche del polmone; l’aumento del volume polmonare può essere inoltre desunto dall’orizzontalizzazione delle coste e dall’abbassamento del diaframma con perdita del normale profilo curvilineo delle due cupole diaframmatiche, che appaiono in questi casi appiattite e, all’esame radioscopico, estremamente ipomobili. Sempre a causa dell’iperinflazione polmonare caratteristica dell’enfisema, si potrà osservare un aumento dello spazio retrosternale, cioè della falda di tessuto polmonare compresa tra il margine posteriore dello sterno e quello anteriore del cuore. Nel quadro di tipo B prevalgono in genere i segni radiologici relativi all’impegno del cuore destro, che consegue all’aumento delle resistenze vascolari nel piccolo circolo, con congestione degli ili polmonari ed eventuale allargamento dell’ombra cardiaca. È da notare che in presenza di questo quadro radiologico si possono talora osservare i segni elettrocardiografici caratteristici del cuore polmonare cronico (Cap. 13), con spostamento a destra dell’asse elettrico sul piano frontale e onda P di tipo “polmonare”. Gli esami di funzionalità respiratoria documenteranno la presenza di una sindrome disventilatoria di tipo ostruttivo, con marcata riduzione del VEMS associata ad aumento del volume residuo e del rapporto VR/CPT (questo rapporto, detto indice di Motley, è considerato un segno assai indicativo della presenza di enfisema). G. Basi razionali di terapia. Non esiste al giorno d’oggi alcun rimedio farmacologico efficace per l’enfisema polmonare una volta che questo si sia instaurato, anche se in tempi recenti sono state proposte terapie sperimentali basate sulla somministrazione di 1-AT o di agenti in grado di aumentarne la sintesi a livello epatico. Più realisticamente, è conveniente agire in senso preventivo, limitando l’entità dei fattori di rischio ed intervenendo tempestivamente sulle complicanze, ad esempio infettive, che possono accelerare la progressione di una bronchite cronica verso un quadro di grave enfisema e di insufficienza respiratoria.
Bronchiectasie Il termine bronchiectasia definisce un’alterazione morfostrutturale dei bronchi di calibro superiore ai
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A.
B.
C.
Figura 16.8 - Aspetto alla TC del torace di bronchiectasie. (A) Cilindriche (frecce); (B) con esteso ristagno mucoso (cunei); (C) cistiche e varicose con livelli fluidi. (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003.)
2 mm, consistente in una dilatazione cronica della parete bronchiale, prodotta dalla distruzione più o meno circoscritta dello stroma muscolo-connettivale di sostegno. Quest’alterazione può essere focale, e cioè interessare solamente un lobo o uno o più segmenti, oppure può essere diffusa e coinvolgere entrambi i polmoni, prevalentemente nei loro lobi inferiori. Le manifestazioni cliniche che frequentemente si accompagnano a tale patologia derivano per lo più dalla sovrapposizione di processi infettivi o dall’insorgenza di fenomeni emorragici nel contesto delle pareti bronchiali alterate (Fig. 16.8). L’esatta incidenza di questa patologia nella popolazione generale non è facilmente determinabile, poiché il suo riconoscimento è legato alle complicanze settiche o emorragiche, e in assenza di queste il disturbo può decorrere del tutto inosservato. Sembra comunque che la prevalenza di bronchiectasie potesse essere stimata intorno all’1‰ verso la metà degli anni Cinquanta, ma che sia andata progressivamente riducendosi in seguito all’avvento degli antibiotici ad ampio spettro di azione, fino a valori inferiori allo 0,1‰ in tempi più recenti. A. Eziopatogenesi. Per quanto l’esatta patogenesi delle bronchiectasie sia ancora in parte non chiarita, è certo che molti fattori debbono concorrere a creare le condizioni locali capaci di alterare la struttura delle pareti bronchiali, producendone in seguito la dilatazione. Analogamente a quanto accade nella patogenesi dell’enfisema, sembra che i principali effettori del processo distruttivo a carico dello stroma muscolo-connettivale di sostegno del bronco siano le cellule infiammatorie, ed in particolare i granulociti neutrofili: è noto infatti che tali elementi cellulari possiedono un corredo di enzimi litici (proteasi ed elastasi in particolare) capaci di operare la distruzione intracitoplasmatica delle cellule batteriche fagocitate ma potenzialmente in grado, qualora siano liberati in grande quantità nell’ambiente extracellulare, di determinare la digestione enzimatica
dei tessuti circostanti. Poiché il maggiore afflusso di granulociti neutrofili a carico della mucosa bronchiale si realizza allorquando si sviluppa a questo livello un processo infettivo, specie se ripetuto nel tempo e di natura batterica, risulta evidente che l’insorgenza di bronchiectasie è influenzata in modo determinante dalle infezioni e da fattori che rendono l’albero respiratorio più suscettibile allo sviluppo di infezioni. Come vedremo tra breve, tali fattori possono essere acquisiti o congeniti, ed a ciò si deve la convinzione probabilmente errata che esistano bronchiectasie “primitive”, mentre al loro sviluppo concorrono costantemente fattori predisponenti, eventualmente già presenti alla nascita. Tra le condizioni predisponenti allo sviluppo di infezioni bronchiali ricorrenti e quindi di bronchiectasie, vanno soprattutto considerate quelle che si accompagnano ad una compromissione delle difese antibatteriche del soggetto oltre ad un eterogeneo gruppo di circostanze nelle quali si realizza un ristagno cronico di secrezioni a livello bronchiale, che facilita l’insediamento di focolai di infezione. 1. Infezioni. All’origine delle bronchiectasie vi possono essere infezioni contratte nell’infanzia. La diffusione della vaccinazione contro la pertosse ha molto ridotto questa evenienza. Tuttavia, altre infezioni infantili possono ancora avere un ruolo, soprattutto quelle provocate da Staphylococcus aureus, che sono particolarmente comuni in corso di fibrosi cistica. Un posto di rilievo come causa di bronchiectasie a tutte le età ha la infezione primaria con il Mycobacterium avium complex, che probabilmente conduce a questo tipo di alterazione per il coesistere di un’alterazione genetica che determina un difetto di processazione dei patogeni intracellulari. Anche l’infezione da Aspergillus fumigatus può provocare bronchiectasie. Questo fungo microscopico è spesso un commensale nelle vie respiratorie, ma l’aspergillosi broncopolmonare allergica è una condizione che può verificarsi in soggetti asmatici e che può danneggiare i bronchi prevalentemente con
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l’infiammazione conseguente alla reazione immunitaria al microrganismo, ma anche, come è stato dimostrato recentemente, per una azione lesiva diretta dell’aspergillo. Una volta che le bronchiectasie si sono sviluppate, la colonizzazione batterica è costantemente presente nei bronchi dilatati e contribuisce, in un circolo vizioso, al peggioramento della condizione patologica. I microrganismi più comunemente trovati nei bronchi di pazienti con bronchiettasie sono Haemophilus influenzae e Pseudomonas aeruginosa. È discusso se le infezioni virali abbiano un ruolo nel peggioramento delle bronchiectasie. Tuttavia, studi in vitro hanno dimostrato che i granulociti neutrofili di pazienti con bronchiectasie, quando sono infettati con ceppi di influenza A (ma non con ceppi di influenza B), riducono la produzione di lisozima e l’attività battericida. Potrebbe perciò darsi che questa infezione virale possa contribuire a un accresciuto carico batterico e all’esacerbazioni. 2. Condizioni associate a riduzione dei poteri di difesa antibatterica. Tale eventualità può realizzarsi in una varietà di condizioni, congenite o acquisite, di immunodeficienza, che frequentemente si manifestano con ricorrenti infezioni non solo broncopolmonari ma anche a carico di altri organi o apparati. Le principali immunodeficienze sono quelle caratterizzate da ipogammaglobulinemia, con riduzione più o meno marcata di una o più classi immunoglobuliniche. Con riferimento alla patogenesi delle bronchiectasie, ha particolare rilievo il difetto congenito selettivo di IgA, che oltre ad essere una tra le più frequenti immunodeficienze, è quella più spesso associata a complicanze infettive broncopolmonari. Il ruolo della deficienza di sottoclassi IgG in pazienti con livelli quasi normali di IgG totali è controverso, dato che le valutazioni di laboratorio presentano molte incertezze e i valori normali sono più bassi nei bambini e aumentano con l’età. In genere si può concludere che il deficit di qualche sottoclasse di IgG ha un ruolo nella patogenesi delle bronchiectasie se l’immunizzazione intenzionale con qualche antigene batterico, come con la vaccinazione contro l’Haemophilus influenzae o contro lo pneumococco, non dà luogo a una risposta anticorpale soddisfacente. Ai deficit qualitativi o quantitativi della sintesi anticorpale vanno poi associate le immunodeficienze da alterata capacità fagocitaria: la principale tra esse è la cosiddetta malattia cronica granulomatosa dell’infanzia, dovuta a congenite alterazioni metaboliche e funzionali delle cellule fagocitiche cui consegue il frequente sviluppo di processi infettivi, spesso causati da germi a ridotta virulenza (per es., Staphylococcus epidermidis). 3. Condizioni associate a ristagno di secrezioni bronchiali. Si tratta di disturbi molteplici e a differente eziologia, anche in questo caso di natura congenita o acquisita, che compromettono la normale efficienza della clearance mucociliare, la quale, come abbiamo visto, costituisce una fondamentale barriera dinamica nei confronti dei microrganismi provenienti dall’aria inala-
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ta. Tra le malattie generali che comportano un difetto di tale meccanismo, va innanzitutto ricordata la fibrosi cistica. Un’altra condizione morbosa che si accompagna al ristagno di secrezioni bronchiali e alle bronchiectasie è la rara discinesia primaria delle ciglia. Tale disturbo è conseguente ad un’alterazione strutturale delle ciglia vibratili, che si realizza ubiquitariamente nell’organismo e che porta alla loro completa immobilità. Questa è una condizione ereditata come carattere autosomico recessivo con penetranza variabile ed è dovuta a un’alterazione di una proteina chiamata dineina, che è responsabile della ripiegatura coordinata dell’asse ciliare. Approssimativamente metà dei pazienti con questa anomalia presentano la sindrome di Kartagener, che è caratterizzata da sinusiti croniche (o talvolta agenesia dei seni frontali) e bronchiectasie, causate dal ristagno di secrezioni, associate alla presenza di situs viscerum inversus (in quanto il movimento ciliare sembra coinvolto nella rotazione viscerale che si ha durante lo sviluppo embrionale). Inoltre i pazienti di sesso maschile presentano infertilità, dovuta alla presenza di spermatozoi privi di motilità. Tra le condizioni locali che determinano ristagno di secrezioni a livello bronchiale, devono essere ricordate le ostruzioni localizzate (da tumefazioni linfoghiandolari, da processi neoplastici endoluminali, da corpi estranei) o diffuse (asma bronchiale, bronchiolite obliterante). Vanno infine considerate le rare malformazioni dell’albero bronchiale, come le agenesie parziali, i difetti strutturali delle pareti (broncomalacia), il sequestro broncopolmonare (area di parenchima polmonare non ventilata, perfusa da un ramo arterioso aberrante di provenienza aortica) ed altre anomalie congenite che determinano un difettoso funzionamento dei meccanismi di clearance del secreto bronchiale. 4. Altre condizioni. Per ragioni che non sono state del tutto chiarite, le bronchiectasie si verificano più facilmente in corso di artrite reumatoide e di malattie infiammatorie intestinali, soprattutto nella colite ulcerosa. B. Anatomia patologica. I lobi inferiori, bilateralmente, sono i più colpiti; la lesione può essere limitata a un segmento polmonare, se le bronchiectasie sono secondarie ad ostruzione bronchiale. I bronchi colpiti sono dilatati lungo tutta la circonferenza (bronchiectasie cilindriche) o per un segmento di questa (bronchiectasie sacculari); sulla superficie di taglio del polmone i bronchi dilatati sono riconoscibili fino in prossimità della pleura; in casi particolarmente gravi il parenchima può avere aspetto cistico. I lumi bronchiali sono tappati da essudato purulento, al di sotto del quale frequentemente la mucosa è ulcerata. Istologicamente vi sono aree di necrosi purulenta della parete bronchiale nelle fasi acute; la riparazione avviene con tessuto fibroso che sostituisce le componenti elastiche e muscolari distrutte; dalle aree circostanti avviene la riepitelizzazione per scivolamento; spesso l’epitelio ha subito metaplasia malpighiana.
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C. Fisiopatologia. Come vedremo, le manifestazioni cliniche legate alla presenza di bronchiectasie sono spesso imponenti, anche qualora tali alterazioni siano in un’area molto circoscritta dell’albero respiratorio. Esse risultano dal ristagno e dal conseguente accumularsi delle secrezioni bronchiali a livello delle pareti bronchiali dilatate, ove con estrema facilità si verifica l’insediamento di focolai di infezione. Non altrettanto può dirsi per quanto concerne le anomalie funzionali, che insorgono generalmente in presenza di alterazioni bronchiectasiche diffuse e persistenti da lungo tempo. È in questi casi frequente il riscontro di un certo grado di ostruzione bronchiale (riduzione del VEMS) che sembra conseguire all’accumulo di secrezioni dense all’interno del lume bronchiale e che condiziona una ridotta ventilazione dei distretti alveolari distali ai bronchi alterati; raramente, tuttavia, tali anomalie funzionali sono in grado di compromettere seriamente l’efficienza globale degli scambi gassosi a livello polmonare, a meno che non siano contemporaneamente presenti altri fattori predisponenti, quali l’abitudine al fumo o una malattia ostruttiva polmonare cronica di altra natura (per es., enfisema polmonare). D. Clinica. Le bronchiectasie interessano prevalentemente individui in età infantile, ma talvolta possono decorrere in modo pressoché asintomatico fino all’età giovane adulta; l’elemento clinico più caratteristico di un paziente affetto da bronchiectasie è la tosse, che ha carattere cronico e produttivo, accompagnandosi ad emissione di un escreato mucopurulento, spesso molto copioso (fino a 50-100 ml). L’espettorazione è più abbondante al mattino e può essere agevolata da manovre di drenaggio posturale, attuate dallo stesso paziente che assume posizioni idonee allo svuotamento dei bronchi interessati (per es., in posizione prona con il capo rivolto verso il basso). Come già accennato precedentemente, è poi comune l’insorgenza di complicanze settiche, sotto forma di bronchiti e broncopolmoniti recidivanti, o emorragiche, causate dalla rottura di vasi arteriosi dilatati nel contesto delle pareti bronchiali alterate. Tali emorragie più spesso occorrono sotto forma di striature ematiche nell’espettorato (emoftoe) o, più raramente, come copiose emissioni di sangue rutilante (emottisi), che possono avere gravi conseguenze per il paziente. L’esame obiettivo del paziente affetto da bronchiectasia dimostra frequentemente la presenza di dita ippocratiche che spesso insorgono in associazione a malattie broncopolmonari croniche. L’esame palpatorio e percussorio del torace non è di regola molto indicativo, mentre può essere rilevante il riscontro auscultatorio di rantoli, spesso grossolani, in corrispondenza di una regione polmonare circoscritta; naturalmente, in presenza di una complicanza broncopneumonica, il quadro semeiologico assumerà le caratteristiche proprie di tale patologia. L’esame radiologico standard del torace può essere del tutto negativo in presenza di bronchiectasie circoscritte e non complicate, poiché esse sono spesso situate nelle regioni basali del polmone e risultano perciò mascherate dalle immagini delle cupole diaframmati-
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che. Trova in questi casi un’indicazione elettiva l’indagine broncografica, ottenuta iniettando nell’albero bronchiale un mezzo di contrasto, che consente la visualizzazione delle eventuali alterazioni morfologiche delle pareti bronchiali. E. Diagnosi. L’esistenza di bronchiectasie può essere sospettata su base clinica in presenza di tosse persistente con espettorato cronicamente purulento e ripetuti episodi di polmonite. La dimostrazione diretta della loro presenza era in passato ottenuta con la broncografia con mezzo di contrasto, introdotta in diagnostica nel 1922. Oggi questa tecnica è abbandonata ed è sostituita dalla TC (tomografia computerizzata) ad alta risoluzione. Questa viene condotta senza mezzo di contrasto e mostra, in caso di bronchiectasie, dilatazione del lume delle vie aeree, che le rende almeno 1,5 volte più larghe dei vasi vicini, mancanza del restringimento delle vie aree in direzione della periferia, costrizioni varicose lungo le vie aeree e, infine, dilatazioni cistiche al termine di un bronco. La TC spirale può rivelare più fini dettagli, perché riduce gli artefatti da movimento, ma richiede una maggiore dose di radiazioni. Le prove di funzionalità ventilatoria sono frequentemente alterate in senso ostruttivo. F. Terapia. La terapia delle bronchiectasie è basata sui seguenti provvedimenti: 1) igiene broncopolmonare; 2) soppressione della colonizzazione microbica; 3) trattamento delle esacerbazioni acute; 4) chirurgia. 1. Igiene broncopolmonare. È tradizionalmente ottenuta con il drenaggio posturale, ossia il paziente è posto prono su un letto, con la testa sporgente dall’orlo e tenuta bassa. La manovra riesce meglio se vengono dati dei colpi sul torace, paragonati a quanto si fa per svuotare del tutto una bottiglia con un contenuto viscoso (gli americani parlano di una bottiglia di ketchup). Queste manovre non sono confortevoli per il paziente e sono state largamente sostituite con apparati meccanici che ottengono lo stesso effetto. È anche conveniente che le secrezioni bronchiali siano fluide, e perciò sono opportuni una buona idratazione e l’impiego di fluidificanti, come l’acetilcisteina per aerosol. Per mantenere pervie le vie respiratorie si è anche fatto uso di corticosteroidi per via inalatoria ottenendo risultati vantaggiosi. 2. Soppressione della colonizzazione microbica. È importante, dato che la persistente infezione ha un ruolo di rilievo nel progressivo peggioramento delle bronchiectasie. Studi controllati hanno dimostrato che cicli di eritromicina, o altro macrolide, o di chinolonici (per es., ciprofloxacina o levofloxacina), che sono i soli farmaci per uso orale ai quali è sensibile la Pseudomonas aeruginosa, condotti a lungo, fino a 8 settimane, inducevano una riduzione del volume dell’espettorato e un miglioramento della funzione polmonare. Il problema, tuttavia, consiste nella facile acquisizione di resistenza agli antibiotici da parte dei microrganismi e nella possibilità di mancati risultati alla ripetizione delle terapie.
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Perciò è utile poter anche ricorrere a trattamenti alternativi, come la somministrazione di antibiotici per aerosol. In questo caso si può ricorrere a farmaci non utilizzabili per via orale. Due studi controllati impiegando per aerosol tobramicina o gentamicina hanno dimostrato qualche vantaggio. Per le infezioni provocate dal Mycobacterium avium complex, l’American Thoracic Society raccomanda un trattamento con azitromicina o claritromicina, rifampicina o rifabutina, ed etambutolo. La terapia tradizionale per l’aspergillosi broncopolmonare è basata sull’impiego di corticosteroidi, in accordo con l’idea che il danno ai bronchi sia provocato dalla reazione immunologica a questo fungo. Tuttavia, anche l’impiego di itraconazolo si è dimostrato utile. 3. Esacerbazione acuta. In un paziente con bronchiectasie si manifesta con un aumento del volume dell’espettorato, della tosse e della dispnea, oltre che con la comparsa di febbre. In questo caso occorre iniziare subito una terapia antibiotica e i chinolonici (ciprofloxacina o levofloxacina) per 7-10 giorni sono la terapia più indicata. 4. Chirurgia. È oggi meno impiegata che in passato e viene adottata per rimuovere un lobo o dei segmenti polmonari nelle forme focali o per ristabilire la pervietà bronchiale in caso di tumori benigni ostruenti o di corpi estranei.
Fibrosi cistica La fibrosi cistica è una malattia geneticamente determinata, autosomica e recessiva, che è causata da una mutazione in un gene, posto nel cromosoma 7, che codifica una proteina chiamata “Cystic Fibrosis Transmembrane Regulator”, o con l’acronimo CFTR (e perciò il gene è indicato con la stessa sigla in corsivo, CFTR), che, come dice il nome, ha un ruolo importante nella regolazione del flusso di ioni attraverso la membrana cellulare. In realtà, le mutazioni descritte a carico del gene CFTR sono più di 1000 e sono raggruppate in sei classi. Tuttavia, le anomalie possibili sono fondamentalmente tre: la proteina CFTR non è sintetizzata (classe 1); la proteina CFTR è ripiegata in maniera anomala dopo essere stata sintetizzata nel reticolo endoplasmico ed è perciò degradata all’interno delle cellule senza riuscire a raggiungere la membrana cellulare (classe 2); la proteina CFTR raggiunge la membrana cellulare, ma non funziona correttamente (classi 3, 4 e 6). Nella classe 5 vi è un difetto parziale della produzione o della ripiegatura della proteina CFTR. Tutte le classi della fibrosi cistica sono caratterizzate da problemi, che descriveremo in dettaglio, tra i quali prevalgono quelli respiratori derivanti da una particolare viscosità delle secrezioni bronchiali e da ripetute infezioni respiratorie. Le classi 1, 2 e 3, che sono le più comuni, sono anche associate con insufficienza pancreatica. La prevalenza della fibrosi cistica è di circa di 1 su 3.000 nascite tra le popolazioni caucasiche dell’Europa e del
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Nordamerica, mentre è molto più rara in altre popolazioni nelle quali è stata valutata, come negli afro-americani (1 su 17.000) o nella popolazione asiatica delle Hawaii (1 su 90.000). In Italia la prevalenza dei portatori sani (eterozigoti) è circa l’1%. È stato anche sostenuto che geni diversi da CFTR possano determinare un’alterazione patologica simile alla fibrosi cistica, ma spesso i pazienti con questa supposta forma variante della malattia presentavano sintomi che potevano essere spiegati con altre condizioni morbose. A. Patogenesi. La proteina CFTR funge da canale per il trasporto dei cloruri mediato da AMP-ciclico e regola le funzioni di altre vie di conduttanza transmembrana. La sua assenza o alterazione provoca conseguenze diverse in varie strutture anatomiche, diversità spiegate dalle distinte peculiarità delle loro funzioni fisiologiche. A livello dell’epitelio bronchiale si hanno una menomazione della secrezione dei cloruri verso l’esterno delle cellule e un incremento dell’assorbimento di sodio dal lume bronchiale. Questo assorbimento è un processo fisiologico che è normalmente sottoposto a una inibizione tonica da parte della proteina CFTR. Nella fibrosi cistica l’impermeabilità ai cloruri e l’aumentato assorbimento di sodio dovute alla mutazione del gene CFTR determinano un aumento della differenza di potenziale transepiteliale al di sopra dei normali 30 mV. Insieme all’assorbimento di sodio è anche aumentato l’assorbimento di acqua e, conseguentemente, il muco che tappezza le vie aeree diviene più denso, più difficile da espellere con la clearance muco-ciliare, tende a ristagnare e a formare dei blocchi che occludono le più fini vie respiratorie e ad essere colonizzato da microrganismi. Questa colonizzazione non sembra dipendente solo da fattori meccanici, dato che i microrganismi implicati appartengono selettivamente a due specie, Staphylococcus aureus e Pseudomonas aeruginosa. Una riduzione della secrezione di liquido si verifica anche nel lume dell’intestino, delle vie biliari e dei dotti deferenti. Nel pancreas l’assenza dei canali per il passaggio transmembrana degli ioni cloro limita il meccanismo di secrezione di bicarbonato e di acqua. Questo comporta un ristagno di enzimi pancreatici all’interno dell’organo, la loro attivazione e lo sviluppo di una pancreatite che conduce gradualmente alla distruzione dell’organo, per lo più limitata alla parte esocrina, ma, in alcuni casi quando il processo è avanzato, anche con il coinvolgimento delle insule e la comparsa di diabete mellito. Nei pazienti con fibrosi cistica la produzione di sudore da parte delle cellule acinari è normale. Tuttavia, a causa dell’incapacità di assorbire cloruri da parte delle cellule epiteliali dei dotti sudoripari, si ha una menomazione dell’assorbimento di NaCl contenuto nel sudore che attraversa i dotti e l’eliminazione di questo sale con il sudore è maggiore che di norma. B. Clinica. Dal punto di vista clinico esistono due varianti di fibrosi cistica, definite rispettivamente classica
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e non classica. Nella prima qualsiasi attività del gene CFTR è assente, nella seconda è invece presente almeno una copia di un gene che è mutato, ma che non elimina del tutto le funzioni della proteina CFTR. Nei pazienti con la variante classica della fibrosi cistica la concentrazione di NaCl nel sudore è decisamente aumentata ed è compresa tra 90 e 110 mmol per litro, mentre in quelli con la variante non classica la concentrazione è meno elevata, tra 60 e 90 mmol per litro, e talora borderline, tra 40 e 59 mmol per litro, o normale, ossia < 40 mmol per litro. Il quadro clinico della forma classica della fibrosi cistica è dominato da gravi e croniche infezioni delle vie respiratorie, provocate per lo più da S. aureus o P. aeruginosa, con progressivo deterioramento della funzione respiratoria e facilità allo siluppo di bronchiectasie. È comune anche la presenza di pansinusite e di polipi nasali. In conseguenza di questa importante compromissione respiratoria, i pazienti presentano comunemente dita ippocratiche, con unghie a vetrino di orologio. Nel 25-30% dei pazienti si hanno gravi alterazioni epatobiliari consistenti nella ritenzione della secrezione biliare e nello sviluppo di una cirrosi biliare focale, di proliferazione dei dotti biliari, di colecistite cronica e di colelitiasi. L’insufficienza pancreatica esocrina è costante, mentre lo sviluppo di diabete è relativamente raro. Alla nascita, nel 15-20% dei casi, in conseguenza della diminuita presenza di fluido nell’intestino, si può avere un ileo da meconio. Anche in seguito si possono avere episodi di occlusione intestinale o si può verificare un prolasso rettale. È presente anche una azoospermia ostruttiva che, nella vita adulta, conduce a infertilità. La perdita di eccessive quantità di NaCl con il sudore può portare a una situazione simile alla sindrome di Bartter (si veda il Cap. 37). Nella forma non classica della fibrosi cistica le infezioni batteriche delle vie respiratorie insorgono più tardivamente e sono meno gravi, mancano le alterazioni epatobiliari e la pancreatite si sviluppa solo nel 5-20% dei casi. Non si osservano problemi a proposito della pervietà dell’intestino, mentre l’azoospermia è comunque presente. In una parola, il quadro clinico è dominato dai problemi respiratori (ma sempre con l’infertilità), mentre le manifestazioni patologiche intestinali, epatobiliari e pancreatiche sono per lo più assenti. C. Decorso e prognosi. Trattandosi di una malattia genetica i sintomi e i segni si presentano per lo più già alla nascita o poco dopo. Si stima che i pazienti che raggiungono l’età adulta sono approssimativamente il 34% e che circa il 10% vive oltre l’età di 30 anni. La morte interviene a seguito di infezioni o di gravi carenze nutritizie. D. Diagnosi. Nella forma classica della fibrosi cistica la diagnosi è suggerita dal quadro clinico. Tuttavia, nella forma non classica il quadro clinico è più incerto e, in ogni caso, occorre una diagnosi sicura. Una diagnosi genetica analizzando il DNA, che pure è possibile, è resa complicata dall’elevatissimo numero di mutazioni che possono provocare questa malattia. Due test sono
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
perciò importanti: la misurazione del potenziale transepiteliale nella mucosa nasale e la valutazione del contenuto di NaCl nel sudore. E. Terapia. È possibile influenzare il contenuto di liquido nelle vie aeree somministrando ai pazienti un attivatore della secrezione di cloruri, come l’uridin-trifosfato (UTP) o un’inibitore dell’assorbimento cellulare di sodio, come l’amiloride. Entrambi questi farmaci hanno un’emivita breve, ma sono allo studio farmaci con lo stesso effetto, ma con un’emivita più lunga. La vera terapia dovrebbe consistere nel trapianto genico, in modo da restituire al paziente una normale funzione della proteina CFTR. Tentativi in questo senso sono stati fatti impiegando come vettori adenovirus o lipidi cationici, ma i risultati sono stati di breve durata. Per di più, la ripetizione della somministrazione di adenovirus porta a una reazione immunitaria nei loro confronti che rende inefficace il trapianto genico, mentre non è detto che i lipidi cationici veicolino il gene nelle cellule che normalmente producono la proteina CFTR. Quando la produzione di CFTR è ridotta e non completamente assente, un suo incremento può essere ottenuto con l’antibiotico gentamicina. Nel caso di fibrosi cistica di classe 2 si può fare in modo che almeno una parte della CFTR prodotta raggiunga la membrana cellulare somministrando sostanze che la legano e la accompagnano (funzione chaperon) come il fenilbutirrato, l’8-ciclopentil-1,3-dipropilxantina (CPX) e la genisteina. La terapia delle infezioni respiratorie è simile a quella descritta nel paragrafo relativo alle bronchiectasie. Una terapia anti-infiammatoria con cortisonici per via sistemica non può essere proseguita a lungo per gli effetti negativi sulla crescita nei pazienti in età infantile e per i seri effetti collaterali. I cortisonici per aerosol esercitano un beneficio sull’iperreattività bronchiale, ma non prevengono il deterioramento della funzione polmonare. L’ibuprofen a dosi elevate è stato impiegato con risultati promettenti, ma la finestra terapeutica di questo farmaco è stretta, dato che dosi troppo basse possono favorire l’accumulo di neutrofili nelle vie respiratorie e dosi troppo alte possono determinare importanti effetti collaterali, soprattutto a carico dell’apparato digerente. L’uso di citochine anti-infiammatorie o di inibitori delle citochine infiammatorie è ancora largamente sperimentale. Dato che nella fibrosi cistica i danni più importanti a carico delle vie aeree sono prodotti dagli enzimi proteolitici rilasciati dai neutrofili, inibitori di questi enzimi sono stati somministrati per aerosol con risultati promettenti. Si è anche cercato di aumentare la fluidità delle secrezioni bronchiali con inalazione di acetilcisteina, con risultati modesti, o con DNasi ricombinante, con risultati interessanti. Meno efficace, ma molto più economica, è l’inalazione di una soluzione salina ipertonica, che non sembra priva di utilità. Infine, una soluzione radicale è il doppio trapianto di polmoni o il trapianto cuore polmoni. La sopravvivenza a 3 anni si osserva in circa il 60% dei pazienti così trapiantati, con risultati migliori negli adulti che nei bambini.
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16 - MALATTIE DELLE VIE RESPIRATORIE E SINDROMI OSTRUTTIVE
APPENDICE Sindrome dell’apnea da sonno La sindrome dell’apnea da sonno (Sleep Apnea Syndrome: SAS) è un problema che colpisce circa il 10% delle persone di oltre 65 anni di età e consiste nell’insorgenza di brevi periodi di apnea durante il sonno. Per quanto brevi, questi periodi di apnea provocano il risveglio di chi ne è affetto e sono molto disturbanti in quanto non consentono un sonno riposante. Per di più, l’anossia che comportano può provocare, persistendo il disturbo, varie complicanze importanti a carico del cuore, come aritmie o scompenso cardiaco destro (si veda il Cap. 13). Anche lo sviluppo di ipertensione arteriosa non è raro, probabilmente facilitato dallo stato di tensione psichica derivante dalla mancanza di un sonno riposante. Esistono due meccanismi che provocano l’apnea da sonno. Il primo può essere considerato a pieno diritto come una sindrome ostruttiva delle vie respiratorie, solo che in questo caso le vie respiratorie interessate sono le primissime, a livello faringeo, e l’ostruzione deriva dall’inadeguato tono della muscolatura delle prime vie aeree che, durante il sonno, si rilassano e collassano quando il diaframma e i muscoli della gabbia toracica si contraggono negli atti inspiratori e creano una pressione negativa intratoracica. In questo modo si realizza una vera e propria ostruzione meccanica all’ingresso dell’aria nelle vie respiratorie più basse. Questo distur-
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bo si verifica più facilmente, ma non necessariamente, negli obesi ed è spesso accompagnato dal fenomeno del russare. Esiste una seconda variante della sindrome dell’apnea da sonno, di origine centrale, che consiste in transitori arresti delle contrazioni del diaframma e dei muscoli della gabbia toracica. Finora la terapia di questa sindrome è stata realizzata in maniera piuttosto ingombrante, grazie ad apparati meccanici, collegati con il naso del paziente, che provvedono in maniera costante o fasica a mantenere una pressione positiva nelle vie aeree. Questi apparati finiscono a loro volta per disturbare il sonno dei pazienti e anche quello dei loro coniugi, che sono per lo più costretti a dormire in un’altra stanza. Recentemente sono state fatte osservazioni che suscitano delle speranze in pazienti portatori di pacemaker per il controllo di aritmie e che soffrono di apnea da sonno. Si è visto che, in questi soggetti, la regolazione durante la notte della stimolazione atriale con una frequenza di 15 battiti superiore a quella osservata in una notte nella quale il pacemaker non era attivo preveniva le crisi di apnea. La supposizione è che questa aumentata frequenza atriale inibisca una prevalenza di tono vagale che sarebbe in realtà responsabile della sindrome della apnea da sonno. È notevole il fatto che queste osservazioni siano state compiute tanto in pazienti con la forma ostruttiva della sindrome, quanto in pazienti con la forma centrale. Perciò l’attenzione è attualmente rivolta all’inibizione vagale come possibilità terapeutica.
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C A P I T O L O
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POLMONITI R. PARDI
Con il termine “polmonite” si intende definire un processo infiammatorio, generalmente a decorso acuto o subacuto, che interessa il parenchima polmonare, distalmente ai bronchioli terminali, e che riconosce nella maggior parte dei casi una eziologia infettiva. Si tratta di malattie relativamente frequenti, con andamento spesso benigno, soprattutto da quando sono correntemente disponibili per l’impiego terapeutico gli antibiotici. Gli agenti eziologici che possono provocare polmonite sono vari e sono implicati con diversa frequenza a seconda che la polmonite sia contratta nella comunità (ossia al di fuori di ospedali o comunque istituzioni collettive di assistenza) o in ospedale. La ragione deriva dal fatto che la flora batterica che contamina gli ambienti ospedalieri è selezionata dai trattamenti antibiotici ai quali sono stati sottoposti i pazienti dai quali i microrganismi sono derivati. La tabella 17.1 riporta la prevalenza relativa di varie specie microbiche come gli agenti eziologici di polmonite contratta nella comunità nel periodo 1966-1995 negli USA. Questa tabella è certamente lacunosa, in quanto è possibile che l’identificazione di alcuni agenti eziologici sia stata particolarmente difficile e sia perciò sottovalutata. Inoltre, non si fanno riferimenti alla Legionella che, comunque, non è stata identificata prima del 1977 e si propaga con modalità particolari (si veda in seguito). Comunque è chiaramente percepibile che le cause più comuni di polmonite contratta nella comunità sono rappresentate da infezioni da parte di un numero limitato di batteri. È da rilevare che i microrganismi che più frequentemente provocano le polmoniti contratte in ambiente ospedaliero sono quelli che nella tabella 17.1 sono caratterizzati dalla più alta mortalità. Staphylococcus aureus, Pseudomonas aeruginosa, Klebsiella, Escherichia coli ed altre enterobatteriacee. Una possibile classificazione delle polmoniti può essere basata su alcune caratteristiche degli agenti eziologici. Si ritiene perciò pratico distinguere le polmoniti in tre gruppi.
1. Polmoniti da microrganismi patogeni largamente diffusi nell’ambiente, che possono trovarsi allo stato saprofitico nel cavo orale, nelle fosse nasali, sulla cute o nell’apparato digerente. In questo caso la malattia è largamente determinata dal venir meno dei meccanismi di protezione, che impediscono a questi microrganismi l’accesso agli alveoli e la loro moltiplicazione. Dal punto di vista anatomopatologico, esiste un importante essudato all’interno degli alveoli (polmoniti alveolari). La polmonite si presenta in forma sporadica e non contagiosa. 2. Polmoniti da diffusione aerogena e inalazione di microrganismi che non hanno ordinariamente un rapporto saprofitico con individui sani e che sono propagati da altri individui malati o indifferentemente attraverso la contaminazione ambientale. In queste polmoTabella 17.1 - Frequenza dei vari agenti eziologici di polmonite acquisita nella comunità negli USA, nel periodo 1966-1995. Studio su 7075 pazienti. (Da Fine M.J. et al., JAMA, 275: 13441, 1996, modificata.) AGENTE EZIOLOGICO • • • • • •
PAZIENTI CON AGENTE MORTALITÀ (%) IDENTIFICATO (%)
Streptococcus pneumoniae Haemophilus influenzae Mycoplasma pneumoniae Staphylococcus aureus Specie miste Altri batteri, tra i quali: – Pseudomonas aeruginosa – Klebsiella spp. – Escherichia coli – Chlamydia pneumoniae – Chlamydia psittaci – Proteus spp. • Virus, tra i quali: – influenza A – virus respiratorio sinciziale – adenovirus
63 12 7 2 4 9 – – – – – – 3 – – –
12,3 7,4 1,4 31,8 23,6 61,6 35,7 35,3 9,8 0,0 8,3 9,0 5,0 0,0
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
niti i meccanismi di protezione bronchiale hanno meno importanza che nelle precedenti, probabilmente perché gli agenti eziologici che le provocano hanno tendenza a coinvolgere anche la mucosa delle vie respiratorie, dalla quale l’infezione si propaga agli alveoli con un interessamento interstiziale (che può essere prevalente o aggiungersi alla componente alveolare). Alcune polmoniti di questo tipo possono presentarsi in piccole epidemie o, almeno, in più casi in una stessa famiglia. 3. Polmoniti in soggetti immunodepressi, provocate da virus, batteri, miceti e protozoi che sono largamente diffusi nell’ambiente, di regola innocui in persone con un sistema immunitario ben funzionante, ma che diventano “patogeni opportunisti” quando il sistema immunitario è menomato. Sono alveolari e/o interstiziali a seconda dell’agente eziologico. Si tratta di regola di complicanze di altre condizioni morbose che hanno determinato l’immunodepressione. Questa classificazione è, tuttavia, schematica, dato che alcune polmoniti del primo e del secondo tipo si verificano più facilmente in soggetti immunodepressi, anche se gli agenti eziologici implicati non possono essere considerati in senso stretto “patogeni opportunisti”.
Fattori predisponenti Una polmonite può svilupparsi in un soggetto completamente sano, ma nella maggior parte dei casi sono presenti condizioni che predispongono all’inalazione fino al distretto alveolare di un agente patogeno, limitando in misura variabile i meccanismi di difesa presenti a livello dell’albero respiratorio. Tali meccanismi di difesa sono già stati menzionati nei capitoli introduttivi di questa Parte e consistono nell’efficienza del riflesso della tosse, nella clearance mucociliare, nelle peculiari caratteristiche del secreto bronchiale (ricco in IgA secretorie), nel complesso sistema fagocitario alveolare (macrofagi in particolare) ed infine nelle caratteristiche dell’ambiente alveolare, che in condizioni normali è secco e rivestito dal surfattante alveolare, fattori questi fortemente sfavorenti l’attecchimento e il successivo sviluppo di eventuali agenti infettanti a questo livello. Il perfetto funzionamento di meccanismi suddetti rende virtualmente impossibile ad un microrganismo di qualsiasi natura la penetrazione fino al distretto alveolare, dove potrebbe esplicare effetti patogeni. Esistono tuttavia numerose condizioni in cui uno o più dei presidi difensivi sopra esposti risultano compromessi: il riflesso della tosse può mancare in patologie che condizionano la mancata chiusura della glottide (paralisi del nervo laringeo ricorrente, presenza di cateteri transtracheali, ecc.) o l’inefficiente contrazione della muscolatura espiratoria (malattie neuromuscolari o gravi alterazioni della gabbia toracica); l’efficienza della clearance mucociliare può essere compromessa da fattori che riducono o alterano il battito ciliare, come le infezioni virali delle prime vie aeree (che possono produrre necrosi delle cellule ciliate), l’alcool o la riduzione della tem-
peratura dell’aria inalata (per esposizione al freddo) e ancora l’assunzione di anestetici generali durante interventi chirurgici (tali farmaci hanno azione paralizzante sul movimento ciliare ed inibente il riflesso tussigeno); alterazioni delle proprietà fisico-chimiche del secreto bronchiale possono limitarne le funzioni difensive: tra queste, l’aumento della viscosità (come nella mucoviscidosi, una malattia ereditaria in cui si ha aumento della viscosità di tutte le secrezioni esocrine) o la ridotta concentrazione di IgA secretorie (ciò può verificarsi in presenza di difetti congeniti di questa classe di Ig). Vanno poi ricordate condizioni che possono compromettere le capacità fagocitiche del compartimento macrofagico alveolare, come il diabete, in cui si hanno alterazioni funzionali delle cellule ad attività fagocitica (granulociti, macrofagi), il fumo di sigaretta e la polluzione atmosferica, che costituiscono cause di sovraccarico funzionale per questo elemento cellulare. Infine, la secchezza dell’ambiente alveolare può venir meno in circostanze nelle quali si verifichi una trasudazione di fluidi a livello interstiziale o alveolare, prima fra tutte l’insufficienza ventricolare sinistra acuta e cronica. Va inoltre ricordato che la generica compromissione del sistema immunitario che consegue a malattie croniche debilitanti o a trattamenti farmacologici immunodeprimenti (cortisonici, citostatici, ecc.) è frequente causa di infezioni broncopolmonari, in cui risultano spesso coinvolti agenti definiti patogeni “opportunisti”.
POLMONITI DA MICRORGANISMI POSSIBILMENTE SAPROFITICI In epoca preantibiotica queste malattie costituivano un vero flagello per la popolazione, a causa della loro relativa frequenza e della povertà di mezzi diagnostici e terapeutici disponibili. Oggi le polmoniti di questo tipo non dovrebbero rappresentare in teoria un serio problema terapeutico per il medico, ma il progresso delle condizioni di assistenza e più in generale lo sviluppo sociale hanno determinato l’insorgenza di nuove condizioni predisponenti (vita in ambienti chiusi ed affollati, più frequente ospedalizzazione, impianti di condizionamento d’aria) e soprattutto la selezione di numerosi ceppi batterici resistenti alla maggior parte degli antibiotici disponibili. È recente, inoltre, il riconoscimento del ruolo di specie batteriche precedentemente non conosciute e capaci di produrre quadri clinici gravi e di difficile individuazione. A. Eziologia. La maggior parte dei microrganismi possibilmente saprofitici più frequentemente coinvolti nello sviluppo di una polmonite fa parte della normale flora batterica rinofaringea, che è generalmente confinata alle primissime vie aeree ed è costituita da varie specie batteriche, aerobie ed anaerobie, in equilibrio biologico tra loro (Tab. 17.2). Il potenziale patogeno di questi microrganismi può esplicarsi qualora essi raggiungano le più basse vie aeree o nei casi in cui un ceppo si svilup-
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17 - POLMONITI
Tabella 17.2 - Batteri più frequentemente causa di polmonite batterica in relazione alle diagnosi cliniche. • Soggetti precedentemente sani • Complicanza di malattia virale
S. pneumoniae S. pneumoniae S. aureus • Malattia polmonare cronica S. pneumoniae preesistente (BPCO); diabete; H. Influenzae etilismo K. pneumoniae • Pazienti immunodepressi S. pneumoniae (malattie neoplastiche, terapia P. aeruginosa steroidea o immunosoppressiva) Enterobacteriaceae Anaerobi • Polmoniti ab ingestis Enterobacteriaceae Anaerobi
pi grandemente a scapito degli altri (ciò può avvenire, per es., in seguito a protratte terapie antibiotiche). Lo pneumococco (Streptococcus pneumoniae) è un microrganismo capsulato Gram+ che rappresenta l’agente eziologico di gran lunga più frequente della polmonite batterica. Le componenti polisaccaridiche della capsula del germe determinano differenze nelle caratteristiche antigeniche di superficie, che rendono conto di un’ottantina di differenti sierotipi. Tra questi, quelli con la numerazione più bassa (dall’1 all’8), e il tipo III in particolare, sembrano possedere la maggiore virulenza. Lo pneumococco è presente come comune saprofita rinofaringeo nel 20-40% delle persone normali, anche se ciò si verifica soprattutto per i sierotipi non patogeni del microrganismo. Sierotipi patogeni possono essere isolati dal rinofaringe di soggetti sani nel periodo invernale o in corso di epidemie di polmonite, ma va ricordato che non è sufficiente la semplice presenza del germe a questo livello perché esso causi un interessamento polmonare. Il meccanismo della patogenicità dello pneumococco è stato diffusamente studiato. Si è visto che la capsula polisaccaridica è della massima importanza, in quanto rende resistenti questi microrganismi all’azione dei granulociti neutrofili. Solo dopo la formazione di anticorpi specifici contro gli antigeni polisaccaridici della capsula la fagocitosi è possibile. Perciò, in assenza di terapia antibiotica, gli pneumococchi sono liberi di proliferare per vari giorni fino a quando non viene raggiunto un livello sufficiente di anticorpi nel sangue. Tuttavia, i polisaccaridi capsulari di per sé non sono patogeni. Importanti in questo senso sono alcuni componenti della parete (sottocapsulare) della cellula batterica, che hanno un’importante attività proinfiammatoria, esercitano un notevole effetto chemotattico positivo sui granulociti neutrofili e facilitano l’edema e la migrazione degli elementi corpuscolati del sangue (compresi gli eritrociti) al di fuori dei capillari, determinando delle interruzioni nelle giunzioni tra le cellule endoteliali e quelle alveolari. Queste sostanze attivano anche notevolmente la cascata dell’emocoagulazione. I componenti solubili derivati dalla degradazione della parete cellulare degli pneumococchi sono particolarmente attivi e questo spiega perché i sintomi e i
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segni della polmonite possono peggiorare quando si ha fagocitosi dei microrganismi (una volta che si sono formati gli anticorpi anticapsulari) o la loro distruzione da parte degli antibiotici. Perciò, la mortalità di una polmonite da pneumococco non dipende dall’ipossiemia determinata dall’estensione del processo patologico, ma dalla concentrazione di componenti della parete cellulare che viene raggiunta. Se questa è elevata, la distruzione dei microrganismi può condurre a morte il paziente per shock settico. Infine, una proteina intracellulare degli pneumococchi, chiamata pneumolisina, è citotossica praticamente su tutte le cellule del polmone. La polmonite da pneumococco è comunemente preceduta da un’infezione virale delle prime vie aeree, che, come ampiamente illustrato, può ridurre sensibilmente le difese locali dell’apparato respiratorio. Nel caso degli pneumococchi, il ruolo di una precedente infezione virale è particolarmente importante perché quest’ultima induce sulle cellule alveolari la comparsa di recettori per un mediatore dell’infiammazione, il PAF (Platelet Activating Factor), che contiene fosforilcolina. Nella parete cellulare degli pneumococchi è presente pure fosforilcolina e perciò questi microrganismi possono sfruttare i recettori del PAF per aderire alle cellule alveolari (questa adesione non è impedita dalla capsula batterica). Lo Staphylococcus aureus è anch’esso un saprofita estremamente diffuso, a livello cutaneo in particolare. Come lo pneumococco, anche lo stafilococco può causare polmonite in persone precedentemente in buona salute, anche se molto frequentemente la polmonite da stafilococco si manifesta come complicanza di un’influenza; nel corso delle grandi epidemie influenzali, infatti, si osserva un marcato aumento nell’incidenza di polmoniti stafilococciche. Diversamente dalle due specie batteriche ora ricordate, gli altri batteri responsabili di polmonite, a causa della loro minore virulenza, colpiscono per lo più soggetti defedati, anziani o affetti da malattie croniche. Non di rado, inoltre, questi agenti infettivi sono causa di polmoniti in pazienti ospedalizzati. Così Klebsiella pneumoniae è un bacillo Gram– che può causare quadri anche molto gravi di polmonite, con mortalità che può giungere al 20-50%. Generalmente questo germe acquista particolare virulenza in soggetti alcolisti o affetti da malattie croniche come la bronchite cronica o il diabete. In questi soggetti Klebsiella pneumoniae può colonizzare stabilmente l’intero albero respiratorio. Haemophilus influenzae è generalmente considerato una non comune causa di polmonite batterica, ma casistiche nosocomiali dimostrano che nel 15% circa dei casi esso è responsabile di tale affezione. Questo coccobacillo Gram– colpisce più frequentemente soggetti in età infantile o portatori di bronchite cronica, nei quali viene spesso isolato dalle prime vie respiratorie. Vanno infine considerati quali possibili agenti eziologici di polmonite altri bacilli Gram–, quali Pseudomonas aeruginosa ed Enterobacteriaceae (Escherichia coli, Proteus, Serratia). Il primo colpisce soggetti estre-
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mamente defedati, nei quali la prognosi è generalmente influenzata negativamente dalla presenza di gravi malattie di base; non raramente la polmonite da Pseudomonas si sviluppa in soggetti precedentemente sottoposti a protratte terapie antibiotiche. Ciò è da mettere in relazione al venir meno in questi soggetti della flora batterica saprofita del cavo orale e del rinofaringe, che costituisce un fattore limitante all’attecchimento ed alla colonizzazione di queste strutture da parte di germi ad elevata virulenza. Le polmoniti da Enterobacteriaceae, estremamente rare, si verificano per lo più in ambienti ospedalieri, ove possono selezionarsi ceppi dotati di elevata resistenza ai più comuni antibiotici disponibili. Un caso particolare è la cosiddetta polmonite ab ingestis, derivata da inalazione di materiale rigurgitato dallo stomaco. Questa polmonite è determinata di regola da flora mista con prevalenza di enterici Gram– ed anaerobi ed è facilitata dalla compromissione dello stato generale del paziente, che comporta diminuzione della secrezione gastrica (la quale costituisce una barriera contro la colonizzazione batterica dello stomaco) e del riflesso della tosse. È possibile dopo interventi chirurgici. B. Patogenesi. Le diverse modalità di insorgenza di una polmonite sono in relazione, come abbiamo visto, sia all’entità delle difese messe in opera dall’organismo sia alle caratteristiche di virulenza proprie del germe infettante. In base a queste complesse interazioni, possono avere origine quadri estremamente polimorfi da un punto di vista clinico ed anatomopatologico. Quando la risposta flogistica ad un agente batterico risulti particolarmente intensa e prevalentemente costituita da essudato fluido, il processo può diffondere più o meno rapidamente dalla regione alveolare colpita a quelle contigue, fino a raggiungere la pleura viscerale; viene in questo caso a realizzarsi il quadro della polmonite lobare, cioè estesa ad un intero lobo. L’agente eziologico pressoché esclusivo della polmonite lobare è lo pneumococco, a causa della sua forte azione edemigena. Va tuttavia sottolineato che il quadro classico della polmonite lobare è oggi molto raro, molto verosimilmente come conseguenza indiretta dell’avvento della terapia antibiotica. Si ritiene utile, tuttavia, mantenere la trattazione separata delle due condizioni cliniche, soprattutto perché la polmonite lobare rappresenta un esempio paradigmatico di correlazione tra i reperti della semeiologia fisica del torace e quelli fisiopatologici ed istopatologici nelle varie fasi della malattia.
Nei casi in cui un microrganismo dia luogo ad una reazione flogistica di minore intensità o costituita da essudato particolarmente denso, incapace di diffondere ad alveoli contigui, il processo tende ad estendersi attraverso le più fini diramazioni bronchiali, propagandosi poi a piccoli gruppi di alveoli tributari. Si osserva così il quadro della broncopolmonite a focolai isolati o multipli, che raramente giunge ad interessare regioni molto estese di parenchima polmonare. Tra i due quadri descritti, si iscrive una varietà di condizioni intermedie, che dipendono dal rapporto che viene a stabilirsi tra agente infettante ed organismo af-
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
fetto, oltre che dall’efficacia e tempestività del trattamento farmacologico intrapreso. C. Anatomia patologica. Le polmoniti alveolari sono caratterizzate da essudazione purulenta negli spazi respiratori. Nella fase iniziale della malattia, i capillari alveolari sono dilatati; gli alveoli contengono essudato fluido, con pochi granulociti, in cui si possono riconoscere gli agenti causali mediante colorazioni speciali. Dopo un giorno i neutrofili riempiono e distendono gli spazi alveolari; i granulociti sono all’inizio ben conservati e nel loro citoplasma si possono identificare gli agenti causali; l’essudato, soprattutto in caso di polmonite lobare, è anche ricco di emazie stravasate e di fibrina, in forma di filamenti che continuano negli alveoli circostanti attraverso i pori di Kohn. Dopo alcuni giorni, i granulociti appaiono in degenerazione, le emazie sono lisate e la fibrina è ancora più abbondante. Attorno al settimo giorno dall’inizio della malattia l’essudato, in precedenza reso compatto dalla fibrina, inizia ad essere lisato dagli enzimi granulocitari e viene eliminato, in parte dai macrofagi, in parte per espettorazione. La velocità con cui gli agenti causali diffondono nel polmone condiziona l’estensione, a focolai o lobare, della polmonite. Nella forma lobare la diffusione molto rapida fa sì che gli eventi patologici sopra descritti siano sincroni, tanto che si possono riconoscere anche macroscopicamente i seguenti stadi evolutivi. 1. Congestione, in cui il lobo (o i lobi) interessato è arrossato, aumentato di volume e, modicamente, di consistenza. 2. Epatizzazione rossa, in cui il lobo ha colore rosso cupo, a causa del persistere della congestione e del gran numero di emazie stravasate, ed ha consistenza parenchimatosa, simile a quella del fegato, per l’accumulo di granulociti e di fibrina. L’estensione del processo sino al parenchima sottopleurico causa una pleurite fibrinosa o fibrinopurulenza. 3. Epatizzazione grigia, in cui la consistenza permane parenchimatosa per l’accumulo di essudato fibrinopurulento, ma il colore vira al grigio perché le emazie intralveolari vengono lisate e l’essudato, molto abbondante e compatto, comprime i capillari alveolari. La pleurite è più intensa e, se i germi invadono il cavo pleurico, si ha empiema. 4. Risoluzione, in cui, per la lisi dell’essudato, il lobo diminuisce di consistenza ed inizia a riassumere il colore roseo normale. La reazione pleurica, invece, raramente si risolve completamente; possono residuare ispessimenti fibrosi della pleura viscerale o aderenze fra i due foglietti. Nel caso della polmonite a focolai (broncopolmonite), la diffusione dei germi è meno massiva e meno rapida. Anche nei casi in cui i focolai confluiscono sino ad occupare un intero lobo, il processo infiammatorio non è sincrono in tutto il lobo, ma caratterizzato da focolai in diverso stadio. I focolai, di colore da grigio-ro-
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seo a giallastro, sono rilevati sulla superficie di taglio del polmone, finemente granulosi, di dimensioni variabili, in rapporto all’entità della confluenza, e a contorni policiclici. Nelle persone iporeattive, particolarmente anziani ospedalizzati, i focolai più che all’ispezione sono riconoscibili alla palpazione come aree nodulari di consistenza aumentata; minuscoli frammenti di parenchima prelevati dalle aree di polmonite affondano in acqua, essendo gli spazi aerei occupati da essudato (docimasia idrostatica). Alla risoluzione della polmonite segue la restitutio ad integrum. Microrganismi particolarmente virulenti possono però causare ascessi polmonari, con necrosi del parenchima che potrà essere riparata solo con tessuto cicatrizzante; altre volte, l’essudato va incontro a fluidificazione parziale e l’essudato residuo viene organizzato da tessuto di granulazione che, trasformandosi in tessuto fibroso, dà luogo ad aree di carnificazione polmonare. D. Fisiopatologia. La compromissione della funzione respiratoria durante una polmonite è direttamente proporzionale all’estensione del processo morboso. Nelle polmoniti lobari classiche un intero lobo può risultare temporaneamente escluso dalla ventilazione, determinando un quadro di shunt, in cui sangue venoso misto salta il distretto alveolare senza venire ossigenato e depurato del contenuto di CO2. Ne consegue un’ipossiemia di grado variabile, che contrariamente all’ipercapnia concomitante, non può essere completamente eliminata dall’iperventilazione compensatoria. Inoltre, anche la somministrazione di miscele gassose ad elevato contenuto di O2 (40-60%) non è in grado di correggere l’ipossiemia: come osservato in precedenza, è questa una caratteristica peculiare dello shunt arterovenoso polmonare. La polmonite lobare (in misura maggiore rispetto alla broncopolmonite) può divenire, specie se in presenza di malattie polmonari croniche preesistenti (o di altri fattori predisponenti, quali gravi anemie, scompenso cardiocircolatorio, ecc.), causa di grave insufficienza respiratoria.
Polmonite lobare A. Clinica. Nel 60-75% dei casi questa particolare e oggi infrequente forma di polmonite, causata quasi esclusivamente dallo pneumococco, è preceduta da un’affezione virale delle prime vie aeree. Il paziente, più spesso adulto e di sesso maschile, riferisce improvvisa comparsa di febbre elevata (38,5-39,0 °C), spesso accompagnata da brivido scuotente. Molto precocemente può insorgere dolore pleurico, più spesso nelle regioni posteriori del torace, che ha carattere puntorio, cioè acuto e localizzato in un’area molto circoscritta. A causa di tale dolore, determinato dalla confricazione dei foglietti pleurici interessati dal processo flogistico, il paziente presenta un respiro superficiale e frequente onde limitare, a scopo antalgico, le escursioni della gabbia toracica.
La dispnea antalgica, caratterizzata da atti respiratori superficiali e frequenti, ha conseguenze svantaggiose da un punto di vista funzionale, in quanto aumentano la quota di ventilazione dissipata (ad ogni atto respiratorio va sottratta la quantità di aria che non raggiunge gli alveoli ed è trattenuta a livello dello spazio morto) ed il consumo di ossigeno dovuto al lavoro respiratorio. È perciò questa una possibile causa ulteriore di insufficienza respiratoria e di cianosi in questi pazienti.
Precocemente il paziente lamenta l’insorgere di tosse, inizialmente secca ma ben presto con caratteri di maggior produttività. Nelle fasi avanzate della malattia l’escreato può assumere il caratteristico aspetto “croceo” (cioè di colore rugginoso, a causa della commistione con materiale di derivazione ematica). L’esame obiettivo di un paziente affetto da polmonite lobare può essere molto indicativo; è presente uno stato di marcata sofferenza soggettiva, con intensa dispnea e talvolta cianosi labiale ed ungueale. Non raramente sono osservabili lesioni erpetiche a livello labiale (la cosiddetta “febbre del labbro”) dovuta alla riattivazione del virus herpes simplex, che è presente talora in forma quiescente nei gangli paraspinali e nei gangli dei nervi cranici, e in condizioni particolari (tra le quali le infezioni pneumococciche e meningococciche) può migrare attraverso gli assoni fino alla cute dando luogo alle caratteristiche lesioni flogistiche circoscritte ad aspetto vescicolare. L’ispezione del torace può evidenziare una limitazione delle escursioni respiratorie dell’emitorace colpito; ciò è dovuto sia all’effettiva riduzione della distensibilità del polmone ripieno di essudato, sia all’atteggiamento antalgico messo in opera dal malato. La palpazione può documentare, in corrispondenza del lobo affetto, un rinforzo circoscritto del fremito vocale tattile, dovuto alla più facile trasmissibilità delle vibrazioni delle pareti bronchiali durante la fonazione, attraverso il materiale solido raccoltosi entro gli alveoli. Questo reperto è più evidente nelle fasi di consolidamento del processo, quando l’essudato endoalveolare assume maggiore consistenza. All’esame percussorio del torace, la zona affetta si presenta ipofonetica inizialmente, francamente ottusa nella fase di stato della malattia. I dati più indicativi potranno però derivare dall’esame auscultatorio del torace, che dà reperti variabili in funzione dello stadio della malattia. Nella fase iniziale (quando l’essudato è ancora fluido) si ascoltano rantoli crepitanti (definiti, nella trattatistica tradizionale, crepitatio indux). Quando interviene l’epatizzazione rossa, il reperto è dominato da un soffio bronchiale aspro. L’inizio della risoluzione del processo morboso è contrassegnato dalla ricomparsa di rantoli fini, non solo inspiratori, ma anche espiratori (crepitatio redux); la ricomparsa del murmure vescicolare è segno della completa eliminazione dell’essudato e della ripresa della ventilazione degli alveoli. B. Esami di laboratorio. L’elemento saliente, oltre al movimento degli indici di flogosi (aumento della VES, delle 2-globuline, positivita della proteina C reattiva), è in questi casi rappresentato dalla comparsa di una cospicua leucocitosi neutrofila con globuli bianchi in numero sensibilmente superiore ai 10.000/mm3 e
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notevole incremento percentuale dei granulociti neutrofili (80-90%). C. Diagnosi e aspetti radiologici. La diagnosi della polmonite lobare è in genere facile in presenza del quadro clinico tipico. La conferma viene dal quadro radiologico (Fig. 17.1). Nella polmonite pneumococcica classica si osserva un addensamento del parenchima polmonare, confinato ad un lobo (più spesso inferiore) e talvolta esteso anche ad altri lobi. La risoluzione del processo, che si completa generalmente entro l’8a-10a settimana, può lasciare quali reliquati delle più o meno evidenti aderenze pleuriche. Va tuttavia ricordato che un quadro radiologico simile è ormai di raro riscontro anche quando l’agente eziologico è lo pneumococco. D. Decorso e prognosi. L’evoluzione della polmonite lobare da pneumococco è generalmente benigna, considerata l’estrema sensibilità del germe ai più comuni antibiotici (penicillina). Tuttavia, almeno negli USA, si è constatato che è in aumento il numero dei ceppi di pneumococco insensibili ad antibiotici di largo impiego. Su un totale di 1527 ceppi isolati tra il novembre 1994 e l’aprile 1995 ne sono stati trovati il 9,5% con notevole resistenza alla penicillina, il 14,1% con una resistenza intermedia e il 23,6% con una sensibilità ridotta. Per quanto riguarda gli altri antibiotici, la resistenza era del 3% per il cefotaxime, 3% per il ceftriaxone, 12% per il cefuroxime, 10% per i macrolidi (eritromicina, claritromicina e azitromicina), 7,5% per la tetraciclina e 18% per il cotrimoxazolo. In passato, prima dell’impiego degli antibiotici, un momento critico della malattia si aveva intorno alla 7a giornata. In quel momento, la comparsa di un sufficiente titolo di anticorpi consentiva la distruzione di un elevato numero di microrganismi. Poteva seguire la guarigione,
A.
ma anche aversi il decesso per liberazione massiva di componenti proinfiammatori della parete della cellula batterica. Ancora adesso questo può succedere se un trattamento antibiotico efficace avviene in ritardo. In effetti, pur non essendo alta in percentuale la mortalità da polmonite da pneumococco, questa è la più alta in termini assoluti tra le polmoniti contratte in comunità (si veda Tab. 17.1) a causa della diffusione di questa infezione.
Broncopolmonite A. Clinica. Il quadro clinico più frequentemente osservabile, ma assai meno caratteristico di quello della polmonite lobare. Nella maggior parte dei casi il paziente è anziano o già da tempo portatore di malattie ad andamento cronico (diabete, bronchite cronica, neoplasie). Spesso una broncopolmonite può complicare la degenza ospedaliera e in questi casi non di rado è causata da germi poliresistenti alla terapia antibiotica. L’insorgenza è brusca, con febbre elevata e dispnea, ma raramente il paziente lamenta dolore toracico, essendo inconsueto l’interessamento pleurico. L’espettorato, nella maggior parte dei casi, non è indicativo di un particolare agente infettante, anche se viene descritto con aspetto a gelatina di ribes nella polmonite da K. pneumoniae, di colore verdastro in quella da P. aeruginosa o con odore fetido in quella causata da germi anaerobi. Nelle broncopolmoniti da pneumococco è molto comune, come già ricordato, il riscontro di lesioni erpetiche a livello della rima labiale. Anche l’esame obiettivo di un paziente affetto da broncopolmonite non apporta elementi decisivi per la diagnosi, in quanto spesso il processo è circoscritto e profondo; ispezione, palpazione e percussione del torace possono risultare del tutto negative, ad eccezione dei casi in cui i singoli focolai broncopneumonici abbiano tendenza a con-
B.
Figura 17.1 - Quadro radiologico di polmonite lobare interessante a destra il lobo medio: (A) proiezione antero-posteriore e (B) laterale. (Da Casali L.: Manuale di malattie dell’apparato respiratorio. Masson, Milano, 2001.)
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fluire; in questi casi sarà possibile obiettivare, generalmente nella regione basale del polmone, un’area più o meno circoscritta ove si renderanno percepibili un rinforzo del fremito vocale tattile ed una ipofonesi plessica. Purtuttavia, l’esame auscultatorio del torace può in questi casi fornire informazioni preziose sulla natura e sulla sede del processo. Data la notevole sovrapposizione delle varie fasi evolutive della malattia (diversamente da quanto accade nella polmonite lobare), saranno avvertibili rumori umidi fini (rantoli crepitanti o a piccole bolle) laddove l’essudato si presenti più fluido, associati a soffio bronchiale, espressione di essudato denso. Infrequenti, nel caso della broncopolmonite, i segni di interessamento pleurico, a causa della sede generalmente profonda del processo. B. Esami di laboratorio. Come nel caso della polmonite lobare, anche in presenza di broncopolmonite le alterazioni degli esami ematochimici sono del tutto aspecifiche e consistono in una leucocitosi neutrofila talora molto spiccata associata ad aumento degli indici di flogosi. Qualora l’agente batterico sia un Gram–, endotossine prodottesi nel corso di una setticemia possono determinare alterazioni a carico di vari organi, e dei reni in particolare. Non va tuttavia dimenticato che spesso un paziente affetto da broncopolmonite batterica presenta malattie organiche preesistenti ed eventualmente responsabili di alterazioni dei principali esami ematochimici. C. Diagnosi ed aspetti radiologici. In molti casi la diagnosi clinica di broncopolmonite è solo presuntiva, non essendovi elementi indicativi per questa condizione morbosa. La comparsa di febbre elevata e tosse produttiva in un paziente ospedalizzato o affetto da una delle malattie croniche ricordate in precedenza deve tuttavia suggerire questa possibilità. Decisivo risulta l’esame radiologico del torace il quale, se ben eseguito (focolai posteriori possono essere mascherati dall’ombra cardiaca nella proiezione postero-anteriore!), consente di evidenziare addensamenti multipli a margini sfumati e tendenti a confluire, spesso confinati ai segmenti basali o posteriori dei lobi inferiori (Fig. 17.2). Sulla base del solo esame radiologico non è quasi mai possibile ottenere informazioni sull’agente eziologico, anche se alcuni microrganismi tendono a dare con maggiore frequenza quadri radiologici particolari: è il caso dello S. aureus, che produce alterazioni tendenti ad ascessualizzarsi o a formare immagini bollose multiple, definite pneumatoceli. Anche la broncopolmonite da P. aeruginosa, peraltro assai infrequente, può assumere un aspetto peculiare, caratterizzato da immagini nodulari multiple, rotondeggianti, che sono espressione di focolai necrotici o ascessuali ripieni di liquido. Ulteriori conferme per la diagnosi eziologica possono derivare dalle emocolture eseguite durante una puntata febbrile o dall’esame batterioscopico dell’espettorato (colorato con metodo Gram), qualora esso dimostri l’assoluta prevalenza di una specie batterica sulle altre. Meno attendibile risulta l’esame colturale dell’espettorato, a causa della frequentissima presenza della flora batterica mista che colonizza le mucose rinofaringee.
Figura 17.2 - Broncopolmonite a focolai multipli: addensamenti disomogenei a carico dell’intero polmone destro.
D. Decorso e prognosi. Le broncopolmoniti batteriche sono nella maggior parte dei casi eventi circoscritti e perciò non in grado di determinare quadri di grave insufficienza respiratoria. La prognosi è quindi legata all’entità delle condizioni morbose eventualmente preesistenti, oltre che alle caratteristiche di virulenza proprie dell’agente eziologico: particolarmente gravi risultano essere le alterazioni del parenchima polmonare, e quindi della funzione respiratoria, conseguenti ad infezioni da P. aeruginosa. Un altro fattore prognosticamente sfavorevole è rappresentato dalla sempre più frequente insorgenza di ceppi batterici (stafilococco, pseudomonas, enterobatteri) resistenti alla maggior parte degli antibiotici disponibili. E. Terapia. La terapia della polmonite lobare e della broncopolmonite obbedisce agli stessi principi, cioè, si basa sulla somministrazione precoce di antibiotici ai quali l’agente eziologico accertato o presunto sia sensibile. Come si è visto, la causa più comune delle polmoniti di questo tipo acquisite in comunità è rappresentata dallo S. pneumoniae, o pneumococco, e perciò la terapia deve essere rivolta principalmente contro questo microrganismo. Prima dell’impiego di sulfamidici e antibiotici, la polmonite da pneumococco, per lo più nella forma di polmonite lobare, aveva una mortalità del 33%. I sulfamidici furono introdotti nella terapia delle polmoniti da pneumococco nel 1930 e, nel 1941, quando la sulfadiazina era il farmaco di elezione, la mortalità era ridotta a circa l’8%. La successiva introduzione in terapia della penicillina ridusse la mortalità a valori prossimi allo zero. Tuttavia, come si è già detto a proposito della polmonite lobare, con il passare del tempo la resistenza degli pneumococchi alla penicillina è progressivamente aumentata e si è diffusa nel mondo. Questo dipende dal fatto che, per agire, la penicillina deve legarsi a particolari proteine presenti sulla superficie degli pneumococchi e dal fatto che si sono selezionati ceppi che, per effetto di
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mutazioni, sintetizzano proteine con bassa affinità per la penicillina e altri antibiotici della stessa classe. Fortunatamente, non mancano altri antibiotici che possono essere efficaci, quali le cefalosporine e i macrolidi. Negli anni Novanta si è diffuso l’impiego dei fluorochinolonici come monoterapia e, in realtà, gli studi eseguiti in quel periodo dimostravano che i ceppi di pneumococco resistenti all’azione di questa classe di farmaci si mantenevano al di sotto dell’1%. Recentemente, sono stati trovati ceppi di pneumococco resistenti alla levofloxacina e perciò è possibile che anche nei riguardi di questi farmaci stia crescendo la percentuale di ceppi di pneumococco resistenti. Quindi, è stata fatta la raccomandazione di non impiegare per il trattamento di una polmonite batterica i fluorochinolonici se questi sono già stati impiegati recentemente per un’altra indicazione. Le cefalosporine di terza generazione e i fluorochinolonici hanno il vantaggio di avere un ampio spettro antibatterico e perciò di poter essere efficaci anche quando una polmonite è provocata da microrganismi diversi dagli pneumococchi. L’ideale sarebbe poter isolare il microrganismo responsabile della polmonite e scegliere la terapia in base alla sua sensibilità agli antibiotici. Tuttavia, questo avviene raramente e per lo più la scelta deve essere fatta in base ai dati clinici, empiricamente. A questo proposito è utile ricordare che le polmoniti contratte in comunità sono prevalentemente dovute a pneumococco, mentre quelle acquisite in ambiente ospedaliero sono più spesso provocate da stafilococchi o da Gram–.
POLMONITI DA DIFFUSIONE AEROGENA Spesso ed erroneamente si ritiene che le polmoniti di questo gruppo riconoscano tutte un’eziologia virale: in realtà numerosi sono gli agenti infettivi in grado di determinare questa affezione isolatamente o nel quadro di un interessamento multisistemico. Il termine “atipiche”, coniato da un Autore inglese alla fine degli anni Venti, si riferiva ad affezioni polmonari ad eziologia non chiara, il cui quadro clinico si allontanava più o meno vistosamente da quello delle polmoniti allora più diffuse. Fra gli elementi differenziali di maggiore rilievo devono essere considerati quelli epidemiologici, patogenetici e clinici. Diversamente dalle polmoniti del primo gruppo, queste tendono a presentarsi in piccole epidemie, spesso fulminanti, a causa della maggior virulenza degli agenti eziologici, che possono colpire soggetti del tutto sani, in cui non sono riscontrabili i fattori predisponenti comunemente in causa nelle polmoniti da batteri. Solo la polmonite da legionella colpisce più facilmente soggetti anziani o comunque immunodepressi. La propagazione della polmonite è dovuta a contagio interumano non sempre evidente (talora la persona contagiata è affetta da quella che appare una semplice infezione delle prime vie respiratorie), o a contagio simultaneo di parec-
Tabella 17.3 - Agenti eziologici di polmoniti da diffusione aerogena. • Schizomiceti: – Legionella • Procarioti difettivi: – Mycoplasma pneumoniae (1) – Chlamydia psittaci – Coxiella burneti • Virus: – virus influenzale – adenovirus – virus del morbillo – virus della varicella – virus respiratorio sinciziale (1) La polmonite da Mycoplasma pneumoniae costituisce da sola il 40-69% delle polmoniti di questo gruppo.
chi individui da una singola fonte di contaminazione ambientale (come avviene nella polmonite da legionella), o ancora a contagio di uno o più uomini da animali (come avviene nella febbre Q e nella psittacosi). Il processo infiammatorio si svolge prevalentemente, se non esclusivamente, nell’interstizio polmonare (polmonite interstiziale). I setti alveolari sono ispessiti da essudato, la cui parte corpuscolata è costituita da cellule infiammatorie mononucleate: linfociti, istiociti e, a volte, plasmacellule; solo nelle forme più gravi vi sono anche granulociti neutrofili. Gli alveoli sono liberi, ma a volte contengono materiale tenuemente eosinofilo, più denso in prossimità dei setti alveolari, dove assume l’aspetto di membrane ialine, simili a quelle della sindrome da sofferenza acuta respiratoria dell’adulto (ARDS). Le lesioni della polmonite interstiziale possono essere a focolai o estendersi ad interi lobi polmonari, anche bilateralmente. La guarigione avviene con restitutio ad integrum. Ciò determina una delle caratteristiche cliniche patognomoniche delle polmoniti non batteriche, e cioè la discrepanza tra il reperto obiettivo toracico, che può essere scarso o del tutto assente, e quello radiologico, che dimostra l’esteso coinvolgimento dell’interstizio polmonare nel processo patologico. Eziologia. L’incidenza delle polmoniti non batteriche è andata crescendo progressivamente negli ultimi anni, in parte grazie all’affinamento dei mezzi diagnostici, che ha contribuito ad assegnare ad agenti infettivi ben caratterizzati molte polmoniti in passato ad eziologia incerta. Al giorno d’oggi le polmoniti non batteriche rappresentano più del 50% delle affezioni polmonari su base infettiva. Nella tabella 17.3 viene dato un sommario elenco dei principali agenti eziologici e della loro rispettiva prevalenza.
Legionellosi Una menzione particolare merita la legionellosi, una polmonite di relativamente recente identificazione che ha caratteri clinici intermedi tra le forme batteriche e le forme virali o micoplasmiche.
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Questa singolare forma di polmonite deve la sua identificazione alla particolare occasione nella quale fu inizialmente riconosciuta: ne furono infatti colpiti simultaneamente 182 membri della Legione del Dipartimento della Pennsylvania, in occasione di una convenzione annuale della American Legion svoltasi a Philadelphia nel luglio del 1976. Più del 15% dei soggetti colpiti, tutti in età avanzata, morì senza che fosse possibile creare una difesa organizzata contro lo sconosciuto agente causale della fulminea epidemia. Ben presto si poté identificare il germe responsabile, un bacillo Gram– che, sebbene non caratterizzato, era già in precedenza implicato in numerose microepidemie di polmonite occorse in diversi Paesi. Oggi sono conosciute ben 40 differenti specie di legionella delle quali, però, meno di metà sono risultate patogene per l’uomo. In realtà, la Legionella pneumophila è la più patogena ed è responsabile del 90% dei casi di legionellosi nell’uomo. Per quanto più di 14 sierogruppi di questa specie di legionella siano stati identificati, il sierogruppo 1 è implicato nell’80% dei casi di polmonite da L. pneumophila. La trasmissione della legionellosi avviene per via indiretta, attraverso l’inalazione di minute goccioline derivate da acqua contaminata dal microrganismo. Questo, infatti, può restare vivo a lungo nell’acqua, anche in quella potabile, ed è facilitato nella sua sopravvivenza dalla presenza nell’acqua di batteri o protozoi, nel citoplasma dei quali si può moltiplicare. La fonte di propagazione all’uomo sono gli umidificatori negli impianti di condizionamento d’aria, le attrezzature ospedaliere di terapia respiratoria e i bagni con idromassaggio. È comprensibile, perciò, che si verifichi in piccole epidemie riguardanti persone esposte contemporaneamente a fonti di acque contaminate. Queste avvengono più facilmente in alberghi, ospedali, navi da crociera. Sono però non infrequenti casi sporadici. Secondo uno studio condotto a Pittsburg tra il 1988 e il 1997, l’incidenza delle polmoniti da legionella era tra il 2 e il 9% di tutte le polmoniti contratte in comunità (si confronti questo dato con quelli della Tab. 17.1). Fattori favorenti la polmonite da legionella sono il fumo, le broncopneumopatie croniche e l’immunosoppresione (specialmente quella causata da terapia corticosteroidea). Anche un recente intervento chirurgico è un fattore di rischio per le infezioni nosocomiali. Sorprendentemente, l’incidenza di polmoniti da legionella è bassa nei pazienti affetti da AIDS. Dal punto di vista anatomopatologico, la polmonite da legionella è fibrinopurulenta, a focolai, spesso confluenti sino ad occupare un intero lobo. La polmonite da legionella ha un’insorgenza generalmente brusca, con febbre elevata (39,5-40 °C) e tosse produttiva con espettorato talvolta ematico. Il paziente colpito è, come si è detto, spesso anziano o portatore di malattie immunodeprimenti (specie neoplasie ematologiche associate a diminuzione dei livelli di immunoglobuline circolanti). Frequentemente sono presenti segni di compromissione del sensorio rappresentati da torpore, sonnolenza, cefalea. Elementi clinici caratteristici sono inoltre la presenza di diarrea acquosa (nel 50% dei casi) e di bradicardia relativa.
Tabella 17.4 - Utilità dei metodi di laboratorio per la diagnosi di legionellosi. (Da Stout J.E., Yu V.L., 1997.) TEST
SENSIBILITÀ SPECIFICITÀ % %
• Coltura dello sputo 80 • Immunofluorescenza diretta sullo sputo 33-70 • Test per l’antigene urinario 70 • Test sierologico per anticorpi 40-60
100 96-99 100 96-99
L’esame obiettivo del torace non è molto indicativo e documenta di regola la presenza di una zona circoscritta di rinforzo del FVT, associata ad ipofonesi plessica e a rumori umidi localizzati; se non adeguatamente curata, la malattia tende a estendersi progressivamente interessando i lobi adiacenti e controlaterali e accompagnandosi spesso a versamento pleurico essudativo. L’esame radiologico del torace evidenzierà inizialmente un addensamento disomogeneo localizzato, con tendenza alla progressione in caso di insuccesso della terapia. La diagnosi di legionellosi può essere sospettata su base clinica, quando si osserva una polmonite nel corso di piccole epidemie limitate allo stesso ambiente, il malato presenta delle cause predisponenti, coesiste diarrea e l’iponatriemia è particolarmente spiccata. Esistono, tuttavia, delle tecniche diagnostiche di laboratorio che sono decisive per una diagnosi corretta. La sensibilità e la specificità di queste sono riportate nella tabella 17.4. La coltura dell’espettorato è raramente praticata perché tecnicamente difficile, anche se oggi sono stati sviluppati terreni colturali che rendono possibile l’identificazione delle legionelle. Più semplice la colorazione dello sputo con immunofluorescenza diretta, ossia il trattamento di uno striscio di espettorato con anticorpi specifici anti-legionella fluorescenti (meglio se monoclonali). Tuttavia, spesso l’espettorato manca perché la tosse non è produttiva. Perciò è utilissima la ricerca dell’antigene urinario della legionella. Questa tecnica è applicabile solo nel caso delle infezioni da L. pneumophila del sierogruppo 1, che però è, come si è visto, il microrganismo di questo genere più comunemente implicato nelle polmoniti nell’uomo. Questo test è molto pratico perché le urine sono molto più facili ad ottenersi dell’espettorato e perché può restare positivo a lungo anche dopo terapia antibiotica. Il test sierologico richiede, per lo più, l’esecuzione di vari prelievi, a distanza di tempo durante l’evoluzione della malattia, per dimostrare un’ascesa del titolo anticorpale. In genere, occorre che il titolo salga di almeno quattro volte dal primo prelievo e raggiunga al minimo un valore di 1:128. Tuttavia, un titolo di 1:256 è di per sé diagnostico. Nell’esecuzione del test sierologico debbono essere valutati gli anticorpi sia della classe IgG sia della classe IgM, perché, in alcuni casi, solo questi ultimi aumentano. Questa malattia presenta comunque caratteri di gravità che impongono l’esecuzione di una corretta e tempestiva diagnosi e la messa in opera della terapia più efficace.
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Fortunatamente molti antibiotici sono efficaci in questa malattia: prima di tutto i macrolidi (eritromicina, claritromicina, azitromicina, roxitromicina), ma anche i chinolonici (levofloxacina, ciprofloxacina, ofloxacina), le tetracicline (tetraciclina, doxiciclina, minociclina), il contrimoxazolo e la rifampicina. L’evoluzione naturale di questa malattia può inoltre complicarsi con l’insorgenza di un’insufficienza renale, che è stata attribuita alla liberazione di endotossine da parte della legionella.
Polmonite da Mycoplasma pneumoniae Il Mycoplasma pneumoniae (agente di Eaton o Pleuro Pneumoniae Like Organism: PPLO) è responsabile di più del 50% delle polmoniti non batteriche e l’andamento della malattia da esso causata può essere considerato il prototipo delle polmoniti atipiche (si parla anche di polmonite atipica primaria). Questo microrganismo ha proprietà in comune sia con i virus (filtrabilità) che con i batteri (contenuto sia di DNA che di RNA e capacità di replicarsi in sede extracellulare; sensibilità ad alcuni antibiotici) ed è estremamente patogeno per l’intero albero respiratorio, dalla mucosa otolaringea all’interstizio alveolare. A. Aspetti epidemiologici. La polmonite da micoplasma si sviluppa caratteristicamente in microepidemie, spesso a carattere familiare, anche se non sono rari i casi sporadici. Il microrganismo è veicolato nella mucosa delle prime vie aeree, spesso in bambini in età scolare, i quali possono trasmetterlo agli altri membri della famiglia attraverso goccioline di saliva volatili. È inoltre da ricordare che la polmonite causata da questo agente infettivo è presente allo stato endemico nei centri di addestramento per reclute militari, anche se solo una piccola percentuale (circa il 5%) dei soggetti portatori sviluppa una malattia clinicamente rilevabile. La polmonite da micoplasma non ha una prevalenza stagionale caratteristica, mentre vengono descritte periodiche epidemie di tale affezione (ad intervalli di qualche anno). B. Patogenesi. M. pneumoniae penetra nell’organismo attraverso l’aria inalata e si insedia nelle cellule ciliate della mucosa bronchiale. Contrariamente a quanto accade per molti virus, questo microrganismo è sprovvisto di effetto citopatogeno diretto, ma è in grado di evocare una marcata reazione flogistica locale, caratterizzata da massiva migrazione di elementi cellulari infiammatori (polimorfonucleati e macrofagi). Dalla sede iniziale il processo può propagarsi, attraverso il connettivo peribronchiale, fino all’interstizio alveolare e agli alveoli, generando in tal modo una polmonite. La più diretta conferma di questa modalità di propagazione sta nell’osservazione che gli addensamenti radiologicamente osservabili in corso di polmonite atipica primaria tendono a propagarsi, salvo rare eccezioni, dalle regio-
ni ilari in senso centrifugo verso il mantello polmonare. La vivace reazione flogistica che si determina nei confronti del micoplasma sembra dovuta all’elevato potere immunogeno degli antigeni glicolipidici di superficie del microrganismo; tali strutture verosimilmente possiedono caratteristiche in comune con antigeni dell’organismo in grado di evocare, attraverso un meccanismo di cross-reattività, fenomeni di natura autoimmunitaria. Nel 50% circa dei pazienti colpiti si osserva infatti la comparsa di autoanticorpi diretti contro antigeni di superficie dei globuli rossi (antigeni I, detti “pubblici” perché presenti nella maggior parte degli individui). Tali autoanticorpi hanno la peculiarità di agglutinare le emazie a temperature inferiori ai 25 °C e vengono perciò definiti “crioagglutinine”. La presenza di crioagglutinine può avere un valore diagnostico nel sospetto di infezione da micoplasma, anche se esse non sono specifiche di questa condizione, potendo essere presenti in altre infezioni virali (per es., mononucleosi infettiva) o nel corso di malattie linfoproliferative. Ulteriori testimonianze del particolare atteggiamento del sistema immunitario nei confronti del M. pneumoniae sono date dalla frequente falsa positività della reazione di Wassermann per la diagnosi di infezione luetica (in cui viene utilizzato un antigene lipidico bovino strutturalmente simile a costituenti delle membrane cellulari umane) e dall’associazione talora osservata tra infezione micoplasmica e alcune malattie articolari (per es., la sindrome di Reiter) per le quali è stata supposta una patogenesi autoimmunitaria. Va infine menzionata la frequente insorgenza in pazienti affetti da polmonite micoplasmica di anticorpi diretti contro un ceppo di streptococco non-emolitico (detto MG), il cui significato è oscuro ma che non sembrano legati alla patogenesi della malattia. La determinazione del titolo di tali anticorpi, sebbene non correntemente utilizzata, può possedere un significato diagnostico. C. Fisiopatologia. L’infezione da M. pneumoniae è relativamente frequente, ma ha caratteri di estrema benignità, per cui sono scarse le documentazioni anatomopatologiche del processo. La lesione principale consiste in un infiltrato flogistico, costituito in prevalenza da polimorfonucleati, che si estende dal connettivo peribronchiale lungo i vasi ematici e linfatici nei setti interlobulari e nel piccolo interstizio. Questa reazione flogistica può estendersi anche alle pareti alveolari, interessando interi segmenti del parenchima polmonare. Le lesioni non sono mai tali da interferire in maniera significativa con la funzionalità respiratoria, che perciò, a differenza delle polmoniti batteriche, non si presenta compromessa in questa malattia. Notevole e costante è invece l’irritazione delle vie respiratorie, che contribuisce ad alcuni aspetti determinanti del quadro clinico. D. Clinica. Il periodo di incubazione della malattia che, come detto, si sviluppa frequentemente in microepidemie, è di 2-3 settimane. Il paziente colpito da polmonite atipica primaria è più spesso un giovane adulto,
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generalmente di sesso maschile e in precedenza del tutto sano. I disturbi iniziali sono similinfluenzali e risultano dall’esteso interessamento da parte dell’agente eziologico della mucosa delle prime vie aeree. Il paziente presenta mal di gola, tosse stizzosa non produttiva e comunemente dolore auricolare, causato dalla propagazione della flogosi nell’orecchio medio fino alla membrana timpanica (quadro di miringite bollosa). La febbre è raramente assente, ma insorge per lo più gradualmente e non raggiunge di regola valori elevati (38,5-39 °C). Successivamente la malattia si propaga all’interstizio polmonare, non determinando tuttavia una sintomatologia rilevante, a causa dell’estensione in genere limitata del danno parenchimale. Sovente sono presenti sintomi costituzionali, quali malessere generale, cefalea frontale (talora fino ad un quadro di irritazione meningea) ed artromialgie diffuse. Diversamente dalle comuni virosi respiratorie, tale corteo sintomatologico tende a protrarsi nel tempo in mancanza di un intervento terapeutico efficace, ed è questo il motivo per il quale tali pazienti richiedono l’aiuto del medico. Anche se non trattata, tuttavia, questa forma di polmonite ha andamento benigno e, nella maggior parte dei casi, si risolve spontaneamente nel volgere di qualche settimana. L’esame obiettivo del torace di un paziente affetto da polmonite atipica primaria è in genere assai poco indicativo, a causa dell’interessamento prevalentemente interstiziale. Nel caso di addensamenti sufficientemente estesi si può apprezzare un’ipofonesi percussoria, talvolta associata alla presenza di rantoli crepitanti nelle regioni basali del polmone colpito, espressione di propagazione della flogosi a livello del distretto alveolare. Gli esami di laboratorio più comuni mostrano in genere alterazioni poco significative, che si traducono in un aumento degli indici di flogosi eventualmente associato ad una leucocitosi neutrofila per lo più modesta e talora del tutto assente. E. Diagnosi. La diagnosi di polmonite da micoplasma si basa essenzialmente su dati clinici ed epidemiologici: la malattia colpisce spesso più membri di una stessa famiglia e determina una sintomatologia per lo più scarsa, con febbre non elevata e tosse secca di tipo irritativo. Un utile contributo diagnostico può derivare dalla ricerca delle crioagglutinine, presenti in più della metà dei pazienti colpiti a partire dalla 1a-2a settimana dall’esordio clinico e tendenti a ridursi entro la 4a-6a settimana. Viene considerato significativo un titolo superiore a 1:32 o comunque soggetto ad un aumento di almeno 4 volte nel corso di 4-6 settimane dal primo riscontro. La diagnosi può inoltre essere agevolata dalla ricerca di anticorpi antimicoplasma fissanti il complemento, che possono però persistere in titoli elevati per molti anni dall’avvenuta infezione e sono di non comune esecuzione nella maggioranza dei laboratori. L’esame radiologico del torace è di decisiva importanza per la diagnosi di certezza di questa polmonite, in
ragione della povertà di indicazioni fornite dal quadro clinico e dagli esami di laboratorio. Vengono in genere osservati addensamenti tenui ed omogenei (detti a vetro smerigliato) più spesso ai lobi inferiori e con distribuzione dall’ilo alla periferia. Tali addensamenti possono avere carattere segmentario o sottosegmentario e sono generalmente unici, anche se la malattia trattata in modo non adeguato può propagarsi ad entrambi i lobi polmonari. Estremamente raro risulta l’interessamento pleurico. F. Decorso, prognosi e terapia. La polmonite atipica primaria è una malattia ad andamento benigno e generalmente guarisce con completa restitutio ad integrum nel volgere di 3-4 settimane o in un tempo sensibilmente più breve qualora venga instaurata una terapia antibiotica efficace (costituita in prima istanza dalle tetracicline o dall’eritromicina). Raramente può insorgere quale complicanza un’anemia emolitica autoimmune da crioagglutinine, ascrivibile ad un titolo anticorpale molto elevato o ad una escursione termica insolitamente ampia degli autoanticorpi prodottisi, che in tal modo possono determinare fenomeni di emoagglutinazione a temperature vicine a quella corporea.
Polmonite da Chlamydia Le clamidie sono microrganismi incapaci di replicarsi al di fuori delle cellule, ma che posseggono sia DNA che RNA, una parete cellulare e ribosomi simili a quelli dei batteri Gram–. Sono inoltre sensibili ad alcuni antibiotici (tetraciclina, eritromicina e derivati). Esistono tre specie di clamidie che possono infettare gli essere umani: Chlamydia trachomatis, C. pneumoniae e C. psittaci. La prima è responsabile di infezioni genitali e perinatali oltre che del tracoma e della congiuntivite a corpi inclusi. Sia pure raramente, può provocare endocardite infettiva, peritonite e pleurite. La seconda provoca una polmonite molto simile a quella da micoplasma. La terza è largamente diffusa nel mondo animale, infettando molte specie di mammiferi e uccelli. Solo da questi ultimi il microrganismo può passare all’uomo. In questo caso il microrganismo è veicolato dai pappagalli e da altri psittaciformi (dal greco “psittakós”: pappagallo), ma anche da molte altre varietà di uccelli (polli, piccioni, ecc.), per cui è stato introdotto il termine di ornitosi. C. pneumoniae può causare faringiti acute, sinusiti, bronchiti e polmoniti soprattutto nei giovani adulti. Anche negli adulti più anziani l’infezione è possibile e può essere molto grave se si tratta di un primo contatto o attenuata se il paziente ha avuto contatti con il microrganismo in precedenza e possiede anticorpi specifici. L’immunità dopo l’infezione è, infatti, di lunga durata, ma non permanente. Nei soggetti esposti, C. psittaci è in grado di determinare l’insorgenza di una grave forma di polmonite interstiziale e necrotizzante, che spesso può diffondersi ad estese aree di parenchima polmonare e causare in-
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sufficienza respiratoria (da necrosi diffusa delle cellule alveolari con limitazione dell’efficienza degli scambi gassosi). La malattia insorge insidiosamente, con scarsa sintomatologia respiratoria e maggiore evidenza di interessamento sistemico: sono spesso presenti febbre (non elevata), malessere generale e di solito una violenta cefalea frontale. Non raramente compaiono segni di compromissione miocardica (alterazioni elettrocardiografiche, turbe del ritmo) ed epatica (alterazione degli esami di funzionalità con evidenza di necrosi epatocellulare). Gli esami di laboratorio in corso di psittacosi sono poco indicativi: non è in genere presente leucocitosi e, anzi, nelle forme gravi si può osservare una transitoria leucopenia. Come accennato, gli indici di funzionalità epatica possono risultare alterati. È disponibile, anche se non frequentemente utilizzata, una tecnica di ricerca di anticorpi fissanti il complemento, che tuttavia possono risultare positivi per molti anni in soggetti che hanno in passato sviluppato un’infezione asintomatica da Chlamydia. La diagnosi di psittacosi si fonda sul dato anamnestico di esposizione agli uccelli portatori del microrganismo e sul quadro radiologico toracico, che evidenzia la presenza di addensamenti multipli e disomogenei, spesso diffusi ad entrambi i polmoni: anche in questa forma di polmonite è caratteristica la differenza tra l’entità delle lesioni radiologiche e l’obiettività toracica, che può essere del tutto negativa. La prognosi della malattia può essere grave se non viene attuato un trattamento antibiotico, analogo a quello efficace nella polmonite da micoplasma (tetraciclineeritromicina).
Polmonite da Coxiella burneti (febbre Q) Coxiella burneti è una rickettsia, microrganismo con caratteristiche batteriologiche simili a quelle delle Chlamydiaceae, presente in molte specie di animali allo stato saprofitico. Essa è all’origine di una malattia febbrile, fino a non molti anni or sono di origine oscura (da cui la denominazione “febbre Q” da “query”: non conosciuto), che si sviluppa particolarmente nei contadini e negli allevatori di bestiame. Il microrganismo è presente nelle deiezioni di tali animali (soprattutto ovini) o nella placenta espulsa durante il parto, e può dare polmonite se inalato sotto forma di aerosol. La malattia insorge dopo un periodo di 2-3 settimane di incubazione ed è caratterizzata da febbre di tipo generalmente remittente (mai comunque superiore ai 39 °C), linfoadenomegalia (più spesso dei linfonodi latero-cervicali) e splenomegalia. Anche in questo caso i segni clinici dell’interessamento polmonare sono assai modesti, e consistono in tosse secca, stizzosa e con scarso espettorato talvolta striato di sangue. L’esame del torace è indicativo della presenza di polmonite prevalentemente interstiziale, ma che talora può organizzarsi in addensamenti più omogenei, analoghi a quelli osservabili nella polmonite atipica primaria. Il
quadro è estremamente benigno e può risolversi rapidamente dopo trattamento antibiotico (con farmaci già riferiti a proposito della polmonite atipica primaria). Le possibili complicanze sono costituite da un’epatite acuta (in un terzo circa dei casi) o da un’endocardite clinicamente indistinguibile da quelle ad eziologia batterica.
Polmoniti virali Numerosi virus a RNA o DNA sono in grado di causare polmonite se inalati fino al distretto alveolare, anche se tale evenienza è assai infrequente grazie all’efficienza delle difese antivirali presenti nel tratto respiratorio, che generalmente impediscono la penetrazione dell’agente virale distalmente alle prime generazioni bronchiali. Le polmoniti virali hanno tuttavia spesso carattere di notevole gravità, sia per l’esteso interessamento interstiziale che ad esse consegue, sia per la mancanza di farmaci antivirali realmente efficaci. A. Eziologia. Diverse famiglie di virus, generalmente gli stessi che provocano infezioni delle prime vie respiratorie, sono implicate nelle infezioni polmonari, ma solo per alcuni di essi è stato possibile stabilire una precisa relazione causa-effetto tra infezione e genesi della polmonite, mentre nella maggior parte dei casi un’infezione virale può complicarsi con una polmonite ad eziologia batterica. La patogenesi delle polmoniti virali è strettamente legata al loro potere necrotizzante sulle cellule alveolari che è alla base di fenomeni di flogosi a livello dell’interstizio alveolare; ad essi frequentemente consegue la formazione a questo livello di membrane ialine, costituite da materiale amorfo prodottosi per precipitazione di proteine plasmatiche sui detriti cellulari accumulatisi nell’alveolo. Le membrane ialine formatesi per effetto del danno citopatogeno indotto dal virus hanno un duplice effetto sfavorevole sull’integrità funzionale polmonare: esse determinano infatti un globale irrigidimento dell’organo (diminuita compliance) e inoltre compromettono il normale scambio gassoso a livello della membrana alveolo-capillare. La conseguenza di queste alterazioni, quando esse siano estese a gran parte del parenchima polmonare, è un’insufficienza respiratoria acuta, spesso ad andamento fatale, denominata ARDS (Adult Respiratory Distress Syndrome). B. Clinica. Le manifestazioni cliniche delle polmoniti virali sono in gran parte comuni per i vari agenti implicati: sono tuttavia presenti aspetti epidemiologici e modalità di propagazione peculiari di alcuni virus, cui si farà cenno nelle pagine seguenti. La maggior parte dei pazienti colpiti da polmonite virale è in età pediatrica, ma non sono rari i casi in cui tale affezione si sviluppa nell’adulto. Le polmoniti virali in età adulta sono spesso caratterizzate dalla prognosi più sfavorevole, in quanto si sviluppano di frequente in organismi defedati da malattie preesistenti.
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L’esordio della malattia si identifica comunemente con un’affezione virale delle prime vie aeree, con febbre non elevata, tosse secca ed eventualmente faringodinia e congiuntivite. In questi casi, però, il quadro clinico tende a non risolversi spontaneamente entro qualche giorno come accade di regola nelle affezioni da virus respiratori; il paziente diviene via via più sofferente, con febbre più elevata, artromialgie diffuse, dispnea ingravescente e cianosi. L’esame obiettivo del torace risulterà tuttavia scarsamente alterato, mostrando al più la presenza di rantoli crepitanti nelle regioni inferiori dei polmoni. Gli esami di laboratorio potranno documentare un modesto aumento della VES e, spesso, una leucopenia di grado variabile. Ancora una volta sarà l’esame radiologico del torace a fornire le maggiori indicazioni, evidenziando addensamenti tenui, a vetro smerigliato generalmente diffusi ad entrambi i polmoni. In corso di polmonite virale è comune l’interessamento multisistemico conseguente alla fase viremica della malattia; saranno perciò spesso presenti tumefazioni linfonodali indolenti a carico di più stazioni ed un modesto grado di splenomegalia, oltre ad una sintomatologia neurologica caratterizzata da cefalea ed eventuali segni di irritazione meningea. Come ripetutamente accennato, le polmoniti virali sono malattie gravi nella più parte dei casi (l’eccezione più rilevante è la polmonite provocata da adenovirus), sia per le caratteristiche patogene intrinseche degli agenti responsabili sia per le frequenti complicanze che si originano nel corso del processo morboso. Tra queste vanno ricordate le sovrapposizioni batteriche a livello polmonare o extrapolmonare, di comune occorrenza e conseguenti al marcato effetto immunodeprimente di alcuni virus in particolare (per es., il virus del morbillo). L’ARDS è una complicanza respiratoria che può rappresentare l’evoluzione più grave di una polmonite virale, ma che non è affatto specifica di tale condizione, potendo conseguire ad una varietà di insulti fisicochimici o biologici a carico del parenchima polmonare (Tab. 17.5). C. Aspetti particolari delle polmoniti virali. La polmonite da virus influenzale è un’evenienza assai rara, in quanto l’interessamento polmonare in corso di influenza è generalmente dovuto ad una sovrapposizione batterica (S. aureus o pneumococco). La malattia è comunque assai grave e associata a elevata mortalità. Frequentemente il paziente affetto da polmonite influenzale è in età senile o presenta una cardiopatia (generalmente un vizio valvolare) da molti anni, che ha condizionato un progressivo indebolimento delle difese locali e sistemiche nei confronti delle infezioni virali. Gli adenovirus (ne esistono numerosi sierotipi) determinano nella maggior parte dei casi affezioni delle prime vie aeree, propagandosi alla mucosa bronchiale sia attraverso l’inalazione sia mediante inoculazione nel sacco congiuntivale. Si possono così osservare due sindromi caratteristiche: la “febbre faringo-congiuntivale”, frequente nei bambini e spesso contratta nelle piscine, e la “malattia acuta respiratoria” (Acute Respiratory Disease: ARD),
Tabella 17.5 - Principali cause di ARDS. • Polmoniti interstiziali su base infettiva (virus, miceti, ecc.) • Inalazione di sostanze tossiche (gas a base di cloro, NO2, ozono, O2 in alte concentrazioni) • Overdose di narcotici (eroina, metadone, ecc.) • Gravi e protratte ipotensioni arteriose (“polmone da shock”)
affezione delle vie aeree superiori che si sviluppa in microepidemie spesso tra le reclute militari. È in quest’ultima categoria di soggetti che talora può insorgere, quale complicanza, una polmonite interstiziale, che al solito ha andamento benigno. Il virus del morbillo può causare polmonite interstiziale quale rara complicanza nel decorso della malattia esantematica, e ciò si verifica per i giovani adulti che contraggono l’infezione. Anche il virus della varicella può essere associato, con maggiore frequenza negli adulti, allo sviluppo di una polmonite interstiziale, che tipicamente segue di 2 o 3 giorni la comparsa dell’esantema vescicolare, e tende a non risolversi con completa restitutio ad integrum dell’organo: frequentemente sono osservabili, anche a distanza di anni da tale forma di polmonite, microcalcificazioni diffuse all’intero parenchima polmonare. Deve infine essere ricordato il virus respiratorio sinciziale, responsabile di gravissime infezioni respiratorie in età neonatale o nella primissima infanzia, che consistono soprattutto in quadri di bronchiolite obliterante con elevati tassi di mortalità. Grave sindrome acuta respiratoria (SARS) (*) Nel novembre del 2002 si verificò il primo caso, che risultò mortale, di una grave malattia respiratoria con caratteristiche cliniche ed epidemiologiche particolari, che in seguito fu denominata grave sindrome respiratoria acuta (Severe Acute Respiratory Syndrome: SARS). Il caso si verificò nella provincia cinese di Guandong, un’area agricola con una popolazione di 75 milioni di abitanti, dediti per lo più all’agricoltura, e ricca di fattorie con abbondanza di grandi e piccoli animali. L’attenzione della comunità medica internazionale fu però sollecitata nel febbraio 2003, quando un medico proveniente dalla provincia di Guandong si ammalò mentre era alloggiato al nono piano di un hotel di Hong Kong e, successivamente, 12 ospiti dello stesso albergo, dei quali 7 che avevano le loro stanze al nono piano, svilupparono la stessa malattia. Queste persone viaggiarono e trasportarono la malattia nel Vietnam, a Singapore, in Canada, in Irlanda e negli USA. Un numero limitato di casi di SARS fu osservato anche in Italia. Il 17 aprile 2003 erano stati registrati 3389 casi e 165 decessi (una mortalità del 4,9%) in 27 Paesi. Successivamente, furono adottati severi (*) Con la collaborazione di A. Lazzarin.
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provvedimenti per il contenimento dell’epidemia, i casi registrati cominciarono a declinare e la malattia apparve eradicata già nell’estate del 2003. Tuttavia, rimasero i timori di una sua ricomparsa nei mesi invernali e, nel dicembre 2003, un primo nuovo caso fu descritto in Cina. Al momento in cui viene scritto questo testo non è possibile dire quale sarà in futuro l’importanza di questa nuova malattia, ma, per riuscire a contenerla, è utile che venga conosciuta. A. Eziologia ed epidemiologia. L’agente eziologico della SARS è stato rapidamente scoperto ed è stato identificato come un coronavirus, diverso da tutti quelli precedentemente noti, che è stato chiamato SARSCoV. La sequenza dei nucleotidi di questo RNA-virus è differente da quella di tutti i coronavirus già conosciuti e perciò si pensa che derivi da un ospite animale e che abbia acquisito la capacità di infettare l’uomo. Ordinariamente, i coronavirus noti provocano nell’uomo solo lievi infezioni della prime vie respiratorie, principalmente raffreddori, ma sono causa di gravi epidemie nel bestiame da allevamento e nei polli. Il SARS-CoV è stato isolato nell’espettorato dei pazienti affetti e nelle loro feci. Questo fa pensare che la via di trasmissione principale sia quella aerogena, come nel caso dell’influenza e di altre infezioni delle vie respiratorie, ma che sia possibile anche una trasmissione indiretta attraverso materiali contaminati dalle feci. Un problema interessante è se esista una riserva naturale di questo virus. Si è accertato che i soggetti infettati, ma che non hanno sviluppato ancora i sintomi della malattia, non eliminano il virus e questo sembra escludere la possibilità che esistano, tra gli esseri umani, dei portatori sani di questa infezione che possano diffonderla. L’esistenza di una riserva animale è più difficile da escludere. Sperimentalmente sono stati infettati con il SARS-CoV dei macachi che però si sono ammalati di una forma morbosa respiratoria simile a quella umana. Sarebbero pericolosi degli animali apparentemente sani che eliminassero questo virus. Virus simili al SARS-CoV sono stati isolati da zibetti dell’Hymalaia venduti a un mercato di animali vivi nella provincia di Guandong. I risultati di vari studi rendono credibile l’ipotesi che una riserva animale esista per il SARS-CoV e per altri virus a questo antigenicamente correlati. Tuttavia, al momento nel quale viene scritto questo testo non si hanno dati sufficienti per identificare con certezza la riserva naturale del SARS-CoV o gli animali responsabili della trasmissione interspecifica del virus. Va ricordato che la trasmissione interspecifica di un virus virulento e trasmissibile dovrebbe essere un evento raro. Si è detto che, prima di sviluppare la sintomatologia morbosa, i soggetti infettati non eliminano il virus e non propagano il contagio. Inoltre, la quantità di virus eliminato è scarsa nei primi giorni di malattia e cresce con il tempo, raggiungendo un massimo durante la 2a settimana di malattia. Questo dovrebbe rendere facile il controllo della diffusione dell’infezione se i pazienti venissero isolati dopo i primi sintomi, quando sono poco contagiosi. Sfortunatamente, non è facile capi-
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re tempestivamente se si tratta di SARS o no, dato che la presentazione è abbastanza simile a quella di altre malattie comuni, per esempio dell’influenza. B. Clinica. A differenza di altre infezioni respiratorie, la SARS ha un periodo di incubazione lungo, tra 4 e 7 giorni, ma talora fino a 14 giorni. Le vie aeree superiori non appaiono interessate, mentre si ha una progressiva diffusione del virus alle basse vie respiratorie con la comparsa di tosse secca e di quelle che sono le caratteristiche comuni alle polmoniti virali, ossia di scarsi reperti fisici all’esame del torace, ma segni di consolidamento osservati radiologicamente. Circa il 40% dei pazienti che hanno sviluppato questa malattia ha presentato insufficienza respiratoria e ha avuto necessità della ventilazione assistita. Si è già visto che la mortalità è superiore al 4%. Dal punto di vista degli esami di laboratorio sono state descritti una leucopenia con linfopenia, una trombocitopenia e un aumento delle transaminasi e della creatin-fosfochinasi (CPK). La sola terapia che è apparsa di qualche efficacia è stata l’impiego di ribavirina, meglio endovena, e, nei casi più gravi, di cortisonici.
POLMONITI IN SOGGETTI IMMUNODEPRESSI Alcuni agenti infettivi, che solo eccezionalmente sono causa di polmonite in soggetti con normale efficienza del sistema immunitario, possono risultare implicati nella patogenesi di questa patologia polmonare qualora sia presente una marcata compromissione della risposta immune. Tra questi agenti alcuni meritano particolare menzione: cytomegalovirus (CMV), Pneumocystis carinii e alcune specie di miceti (Candida e Aspergillus). L’elemento in comune ad agenti biologici così dissimili tra loro è rappresentato dal tipo di risposta che essi sono in grado di evocare da parte del sistema immunitario e che consiste nell’impegno prevalente del versante cellulare (particolarmente linfociti T e macrofagi) dell’immunità. È infatti in condizioni morbose nelle quali si determina un deficit prevalente dell’immunità cellulo-mediata che tali polmoniti possono svilupparsi, spesso a causa di una riattivazione degli agenti implicati, talora già presenti allo stato quiescente o saprofitico nell’organismo affetto. I pazienti a maggior rischio per lo sviluppo di una polmonite causata da uno o più dei microrganismi citati sono i soggetti portatori di neoplasie avanzate, specie se di tipo ematologico (leucemie acute e croniche, linfomi, discrasie plasmacellulari), quelli sottoposti a trapianti di organo (soprattutto rene e midollo osseo) o quelli a lungo trattati con farmaci immunosoppressori (cortisonici e citostatici). La causa principale del notevole aumento di incidenza delle polmoniti da P. carinii, CMV e miceti che si è registrato negli ultimi 7-8 anni è tuttavia, senza dubbio alcuno, la diffusione dell’AIDS, condizione che può esordire clinicamente con una grave
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infezione polmonare causata da uno o più dei microrganismi sopraccitati. Molte infezioni che si sviluppano in pazienti affetti da AIDS sono il risultato della riattivazione endogena, causata dal grave deficit dell’immunità cellulo-mediata, di microrganismi quiescenti, normali saprofiti facenti parte della flora batterica a livello cutaneo e mucoso o in precedenza responsabili di infezioni asintomatiche in questi individui. Per esempio, gli haitiani colpiti da AIDS spesso sviluppano gravi infezioni tubercolari e l’incidenza di tale infezione nella popolazione haitiana è superiore rispetto a quella di altre comunità, a riprova di una maggiore esposizione da parte di questa popolazione al bacillo tubercolare. Una recente casistica raccolta in centri statunitensi, ove la prevalenza di AIDS è particolarmente elevata, ha dimostrato che oltre la metà dei pazienti soffre di infezioni polmonari, per lo più causate da P. carinii, da solo o in associazione ad altri microrganismi. La polmonite da P. carinii è la più comune infezione, potenzialmente letale, in pazienti affetti da AIDS. Questo organismo è stato a lungo considerato un protozoo, ma studi recenti effettuati analizzando l’RNA ribosomiale hanno dimostrato che è più strettamente imparentato con i funghi. Recenti esperimenti suggeriscono che esiste una eterogeneità tra i vari ceppi di P. carinii e questo può avere importanza per spiegare alcune differenze nella patogenicità dell’organismo tra i diversi pazienti. P. carinii è largamente diffuso nell’ambiente e, praticamente, tutti hanno occasione di venirne a contatto per via inalatoria. A 3 anni la maggior parte dei bambini possiede anticorpi contro P. carinii, senza che si abbia alcuna manifestazione clinica della malattia, neppure nella forma lieve di rinite e bronchite. È aperta la questione se la polmonite, che può intervenire negli immunodepressi, sia dovuta ad invasività di P. carinii persistenti nella flora microbica residenziale dell’ospite o a reinfezione. A questo riguardo, la natura fungina di P. carinii suggerisce l’interessante possibilità che stadi di sviluppo dell’organismo non ancora identificati (per es., spore) possano giocare un ruolo importante nell’infezione. P. carinii provoca una polmonite interstiziale più spesso bilaterale e diffusa. Clinicamente, il disturbo esordisce spesso in modo subacuto, con febbre remittente-intermittente, fino a 39 °C, tosse scarsamente produttiva e dispnea con respiro tachipnoico. Come in altre polmoniti a prevalente interessamento interstiziale, il quadro semeiologico del torace è in genere povero di indicazioni, ma può essere di grande aiuto, nell’indirizzare correttamente la diagnosi, il contemporaneo riscontro di linfoadenopatie diffuse, candidiasi orale, ulcere perianali e sarcoma di Kaposi a livello cutaneo, tutte manifestazioni comunemente osservabili in pazienti colpiti da AIDS. Il quadro radiologico del torace tipicamente rivela infiltrati diffusi bilaterali o, più di rado, confinati ad un solo lobo o in sede apicale, nel qual caso il quadro può essere simile a quello di una tubercolosi apicale. In molti pazienti possono essere presenti linfonodi ilari e mediastinici aumentati di volume, ma questo riscontro è più spesso dovuto alla concomitante presenza di sarcoma di Kaposi o infezione tubercolare.
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Gli esami di laboratorio in genere non sono molto indicativi. Possono essere presenti leucopenia e, dato questo abbastanza tipico, incremento dei livelli plasmatici di lattico-deidrogenasi (LDH), verosimilmente a causa dell’esteso danno a carico delle cellule alveolari. In ragione dell’estensione dell’interessamento polmonare, possono poi comparire i segni ematochimici dell’insufficienza respiratoria, in particolare un’ipossiemia arteriosa di grado variabile. La diagnosi batteriologica, in genere agevole a causa dell’enorme numero di microrganismi presenti in sede di infezione, dovrebbe essere condotta su liquido di lavaggio broncoalveolare, ma è utile tentare preliminarmente l’isolamento del microrganismo dall’escreato, peraltro estremamente scarso in questi casi. Recentemente sono state sviluppate tecniche sensibili per identificare anche livelli molto bassi di infezione da P. carinii, grazie all’amplificazione delle sue sequenze geniche con la cosiddetta “Polymerase Chain Reaction” (PCR) o reazione a catena della polimerasi. La terapia dell’infezione da P. carinii si basa a tutt’oggi sull’impiego, preferibilmente per via parenterale, del trimethoprim sulfametoxazolo, un’associazione di antibiotici efficace contro questo microrganismo, anche se gravata da notevoli effetti tossici. La prognosi della polmonite da P. carinii è purtroppo non favorevole, particolarmente in pazienti affetti da AIDS. Basti pensare che la sopravvivenza media di pazienti con AIDS che si presentano con questa infezione è di soli 318 giorni, rispetto a 750 giorni per i pazienti in cui il disturbo iniziale è rappresentato da sarcoma di Kaposi extrapolmonare. L’infezione da cytomegalovirus (CMV) è in realtà un’evenienza assai frequente, com’è dimostrato dal fatto che più del 50% della popolazione adulta presenta anticorpi circolanti specifici per questo virus, ma eccezionalmente essa si rende sintomatica, realizzando quadri di polmonite interstiziale, isolati o nel quadro di un interessamento multisistemico. I soggetti più a rischio per lo sviluppo di questa affezione sono coloro che ricevono trapianti d’organo, nei quali l’incidenza della polmonite da CMV può raggiungere il 20%; sembra che lo squilibrio dell’immunità cellulo-mediata conseguente alle protratte terapie immunosoppressive o ad una reazione di rigetto nei confronti di un tessuto trapiantato (o, nel caso di trapianti di midollo osseo, ad una “graft versus host reaction”), sia determinante per la riattivazione del CMV, spesso presente, come molti altri virus consimili (per es., herpes simplex o zoster), allo stato quiescente nell’ospite. La polmonite da CMV insorge spesso insidiosamente, con febbre, tosse stizzosa e dispnea ingravescente, fino all’insufficienza respiratoria conclamata. Come per altre polmoniti interstiziali, l’esame obiettivo del torace è scarsamente indicativo, mentre il quadro radiologico è abbastanza caratteristico e dimostra diffuse alterazioni micronodulari, estese talvolta all’intero parenchima polmonare. Gli esami di laboratorio documentano in genere una leucopenia, contrariamente a quanto si verifica nelle infezioni da CMV in soggetti non immunodepressi, nei quali si può osservare una leucocitosi con linfocitosi
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atipica analoga a quella prodotta dal virus di EpsteinBarr nella mononucleosi infettiva. La diagnosi di polmonite da CMV, oltre che dal quadro clinico e radiologico, può essere agevolata dalla ricerca di anticorpi circolanti anti-CMV, peraltro presenti a basso titolo nella maggior parte dei soggetti normali. Nei casi dubbi potrebbe rendersi necessaria l’esecuzione di una biopsia polmonare, che evidenzierà una polmonite interstiziale con i caratteristici corpi inclusi intracellulari. Come per tutte le polmoniti che insorgono in soggetti immunodepressi, la prognosi di questa malattia è sfavorevole e la mortalità assai elevata (1040%), anche in ragione del fatto che non esiste una terapia specifica. Va inoltre ricordato che l’infezione da CMV è di per sé causa di ulteriore immunodepressione e predispone alla sovrapposizione di infezioni da altri patogeni opportunisti: non sarà perciò inconsueto il riscontro contemporaneo di infezioni polmonari da CMV e, per esempio, da P. carinii. In conclusione del paragrafo dedicato alle infezioni polmonari in soggetti immunodepressi, devono essere ricordate le infezioni micotiche, e in particolare quella da Candida, che sono estremamente rare ma di notevole gravità. L’interessamento polmonare è caratteristico delle forme disseminate di candidiasi, in cui molti organi (cute, esofago, endocardio, retina, ecc.) risultano colonizzati per via ematogena dal micete, nel quadro di un grave stato di immunodepressione. Oltre a difetti dell’immunità cellulare specifica (mediata da linfociti T e macrofagi), spesso questi pazienti presentano deficit del versante cellulare aspecifico della risposta immune (mediato prevalentemente da granulociti neutrofili), non di rado conseguenti a prolungati trattamenti corticosteroidei. La polmonite da Candida si sviluppa per lo più insidiosamente, con febbre, tosse stizzosa e dispnea; raramente sono assenti segni obiettivabili di disseminazione ematogena (soprattutto a livello cutaneo) dell’agente eziologico. Il quadro radiologico è del tutto aspecifico, non essendo distinguibile da quello di altre polmoniti interstiziali. La diagnosi si basa sull’identificazione del micete nel sangue prelevato nel corso della diffusione ematogena o in biopsie su tessuti affetti. La prognosi di questa grave polmonite è spesso fatale, malgrado esistano farmaci antimicotici efficaci, poiché la candidiasi disseminata è generalmente espressione di gravissima e talora irreversibile compromissione delle difese immunitarie.
APPENDICE Sindrome da sofferenza acuta respiratoria La sindrome da sofferenza acuta respiratoria (Adult Respiratory Distress Syndrome: ARDS) è una condizione patologica che può essere provocata da parecchie cause che producono tutte lo stesso risultato: un danneggiamento diffuso polmonare con un’insufficienza
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
respiratoria che non può essere corretta incrementando la quantità di ossigeno inalato. Inizialmente fu indicata con l’acronimo ARDS, con enfasi sul riferimento agli adulti, per distinguerla dalla “Neonatal Respiratory Distress Syndrome”, anche detta malattia delle membrane ialine, conseguente all’inadeguata produzione di surfattante alveolare durante lo sviluppo fetale. Attualmente, si preferisce la denominazione che è nel titolo di questo paragrafo (ma l’acronimo resta sempre ARDS), dato che gli stessi meccanismi che provocano questa condizione morbosa negli adulti possono essere operativi anche nei bambini. Recentemente, è stato anche introdotto il termine “danno acuto polmonare” per indicare le forme meno gravi di questa sindrome. A. Eziologia. Come si è anticipato, le cause di questa sindrome sono varie e sono tutte accomunate dal fatto che sono in grado di impartire un danneggiamento alle cellule endoteliali che rivestono i capillari polmonari e alle cellule epiteliali che tappezzano gli alveoli. Possiamo distinguerle in dirette e indirette. Tra le cause dirette, le più comuni sono le polmoniti e l’aspirazione del contenuto gastrico. Tra quelle indirette, sono importanti le sepsi e i traumi gravi con shock e trasfusioni multiple. Ma qualsiasi evento che porti a danneggiamento acuto del tessuto polmonare può causare una sindrome da sofferenza acuta respiratoria. B. Patogenesi. Il danneggiamento delle cellule endoteliali dei capillari polmonari determina una loro aumentata permeabilità e consente la trasudazione nell’interstizio di fluido ricco di proteine. La sofferenza delle cellule epiteliali che tappezzano gli alveoli giunge fino alla loro necrosi e al denudamento di buona parte delle pareti alveolari. Il venir meno delle funzioni degli pneumociti di tipo II ha gravi conseguenze, in quanto si annulla la loro capacità di trasportare gli ioni e così riassorbire l’acqua e gli elettroliti che si sono fatti strada nel lume alveolare. Nel caso di polmoniti in atto, i microrganismi riescono più facilmente a penetrare nel lume dei capillari polmonari e a sviluppare una sepsi, la quale, a sua volta, può essere una causa aggiuntiva di danno polmonare. Anche in assenza di processi infettivi, si sviluppa un processo infiammatorio con una notevole concentrazione di granulociti neutrofili nelle sedi di sofferenza polmonare. Si è discusso sul meccanismo di questa infiammazione sovrapposta, ma è molto probabile che in prima istanza dipenda dalla necrosi cellulare. È noto che le cellule necrotiche rilasciano sostanze che promuovono l’infiammazione ed è perciò ragionevole pensare che sia questo processo che mette in moto la liberazione di una cascata di mediatori locali proinfiammatori (citochine). Tutto questo ha gravi conseguenze, in quanto risulta diminuita la compliance polmonare e sono numerosi gli alveoli che divengono inutili per gli scambi respiratori poiché atelettasici o ripieni di fluido, e anche negli alveoli aerati è diminuito il trasporto di ossigeno attraverso la membrana alveolo-capillare. Per quanto molto grave, questo processo non è irreversibile. I pneumociti di tipo II possono rigenerare quelli di tipo I che erano stati distrutti e recuperare le funzioni
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perdute. Anche le proteine idrosolubili possono essere riassorbite, insieme con l’acqua e con gli elettroliti, e venire così rimosse dal lume alveolare. Più complicato è il riassorbimento delle proteine che hanno mutato il loro stato fisico e sono divenute idroinsolubili. Queste possono essere rimosse dagli alveoli solamente attraverso un processo di endocitosi da parte delle cellule alveolari o dei macrofagi. Tuttavia, la loro mancata rimozione porta alla loro stratificazione sulle pareti alveolari e alla formazione di membrane ialine. Queste non solo danneggiano gli scambi alveolo-capillari, ma costituiscono anche la base per una successiva evoluzione fibrotica. La fibrosi può anche essere facilitata da un processo di riparazione epiteliale insufficiente o disorganizzato. C. Clinica. La sindrome da sofferenza acuta respiratoria è dominata da in grave insufficienza respiratoria che non è corretta dalla somministrazione di ossigeno e che, radiologicamente, è caratterizzata da infiltrati polmonari bilaterali sparpagliati nei campi polmonari. Nel 1994 l’American-European Conference Committee ha stabilito alcuni criteri per la sua diagnosi, qui di seguito riportati. La sindrome deve avere un’insorgenza acuta, il quadro radiologico del torace deve essere caratteristico, deve essere escluso un aumento della pressione capillare polmonare o di quella presente nell’atrio sinistro (l’edema polmonare può dare, infatti, un quadro clinico simile) e, particolare più importante, deve essere significativamente ridotto il rapporto tra pressione di ossigeno nel sangue arterioso e frazione di ossigeno inspirato (rapporto tra la pressione dell’ossigeno e quella totale dell’aria inspirata). Secondo i criteri stabiliti in quella occasione, se questo rapporto è inferiore o uguale a 200 si può parlare di sindrome da sofferenza acuta respiratoria, se è inferiore o uguale a 300 si deve parlare solo di un danno acuto polmonare.
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D. Prognosi. La prognosi della sindrome da sofferenza acuta respiratoria è grave, con una mortalità che è stata stimata tra il 40 e il 60%. La mortalità è più alta tra i pazienti anziani, tra quelli affetti da malattie concomitanti, come le epatopatie croniche, o che per effetto di una sepsi hanno la contemporanea disfunzione di altri organi (principalmente reni e fegato). Tra i pazienti che sopravvivono, la funzione respiratoria ritorna nella maggior parte dei casi quasi normale entro 6-12 mesi. In una minoranza residua una menomazione importante a causa dello sviluppo di una fibrosi polmonare. E. Terapia. La terapia della sindrome da sofferenza acuta respiratoria è delicata. La ventilazione assistita è certamente utile, ma richiede particolari cautele perché, se condotta in maniera inappropriata, può causare di per sé danni ai polmoni (questa è materia difficile e controversa, che lasciamo interamente agli specialisti). Un certa restrizione di fluidi può essere utile per limitare la trasudazione di liquido negli alveoli, ma deve essere bilanciata dalla necessità di mantenere un adeguato volume circolatorio. I glicocorticoidi, somministrati nell’intento di ridurre la componente infiammatoria, si sono dimostrati di qualche efficacia solo dopo il superamento della fase acuta. Numerosi altri farmaci sono stati provati e trovati inefficaci. Le sole speranze derivano dal possibile effetto dei simpaticomimetici -agonisti, inalati o per via generale, che potrebbero accelerare la rimozione del fluido dagli spazi alveolari, e dalla possibilità di stimolare le capacità rigenerative degli pneumociti di tipo II con un fattore di crescita denominato keratinocyte growth factor. Sperimentalmente, questo fattore è apparso capace di esercitare un’azione protettiva nei riguardi di varie forme di danneggiamento polmonare.
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C A P I T O L O
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INFEZIONI SISTEMICHE A PREVALENTE LOCALIZZAZIONE POLMONARE R. PARDI
TUBERCOLOSI La tubercolosi (TBC) è una malattia infettiva e contagiosa, causata principalmente da Mycobacterium tuberculosis complex, che interessa nella maggior parte dei casi i polmoni, ma che può localizzarsi in numerosi altri organi, tra i quali il rene, l’apparato scheletrico, le meningi e l’apparato genitale. Questa malattia ha rappresentato per secoli una delle principali cause di morte in tutta la popolazione mondiale e ad essa spetta un ruolo di prim’ordine non solo nella letteratura medico-biologica degli ultimi due secoli, ma anche nell’opera di grandi letterati dell’epoca (si pensi, per es., alla Montagna incantata di Thomas Mann). Il processo più significativo nella conoscenza della natura della malattia si deve a Robert Koch, che per primo ne identificò chiaramente l’eziologia infettiva nel 1882. A questa scoperta ne sono seguite altre che hanno progressivamente ridotto la mortalità da infezione tubercolare; ma anche se attualmente la TBC non costituisce più un reale pericolo per l’umanità, alcuni aspetti della sua patogenesi permangono oscuri, e ad essi si aggiungono problemi derivanti dall’emergenza di ceppi batterici resistenti al trattamento farmacologico o dotati di particolare virulenza. Epidemiologia. L’incidenza e la prevalenza della malattia tubercolare si sono notevolmente ridotte dalla fine degli anni Quaranta, epoca in cui furono introdotti in terapia i primi farmaci antitubercolari, ai nostri giorni. Si calcola che nel 1980 vi siano stati circa 15.000 nuovi casi di TBC in Italia (ma questa cifra sottostima la reale incidenza della malattia poiché solo le forme bacillifere sono soggette a denuncia obbligatoria nel nostro Paese), con una prevalenza di circa 200.000 soggetti affetti da TBC nell’ambito dell’intera popolazione nazionale. Anche la mortalità per TBC ha subito una drastica riduzione negli ultimi 40 anni, passando nel nostro Paese
dai quasi 50.000 morti/anno del 1947 a poco meno di 2000 nel 1980. La tendenza al decremento della malattia è andata tuttavia arrestandosi in questi ultimi 3 o 4 anni e ciò è stato messo in relazione (particolarmente negli USA) ai fenomeni di immigrazione di profughi provenienti da regioni nelle quali la malattia è presente allo stato endemico (per es., Sud-Est asiatico). La ridotta morbosità tubercolare e, più in generale, il miglioramento delle condizioni di vita hanno inoltre determinato una notevole riduzione del numero di individui che viene precocemente a contatto con il bacillo tubercolare, indipendentemente dallo sviluppo successivo di malattia. La valutazione di questo parametro statistico, definito “indice di infezione” viene effettuata mediante le “prove tubercoliniche” di cui si dirà in seguito e ha dimostrato che attualmente circa il 10% dei soggetti in età inferiore ai 20 anni viene infettato dal germe, mentre agli inizi del Novecento questo valore percentuale superava l’80%. Tuttavia, la diffusione della tubercolosi nel mondo è aumentata negli ultimi anni a causa della propagazione dell’infezione da HIV. Si stima che circa l’11% dei nuovi casi di tubercolosi nel 2000 si siano verificati in soggetti infettati con il virus HIV, con notevoli variazioni tra le diverse zone geografiche: 38% nell’Africa subsahariana, 14% nei Paesi più sviluppati e solo l’1% nelle regioni del Pacifico occidentale. Circa due milioni di persone sono morte di tubercolosi nel 2000 e il 13% di queste era anche infettato con il virus HIV.
Eziopatogenesi I germi del genere Mycobacterium (famiglia Mycobacteriaceae, ordine Actinomycetales) che risultano patogeni per l’uomo appartengono al gruppo M. tuberculosis complex, che comprende M. hominis (anche definito bacillo di Koch, o BK), il più diffuso e dotato di maggiore virulenza, e M. bovis, principale agente eziologico della TBC bovina e di alcune forme, oggi rare, di TBC intestinale nell’uomo, contratta ingerendo latticini
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provenienti da animali infetti. Vanno poi ricordati i micobatteri atipici, di cui si dirà in seguito, che sono responsabili di quadri clinici sfumati ma spesso resistenti alle comuni terapie antitubercolari. Il Mycobacterium tuberculosis complex è un gruppo di germi a struttura bacillare, dotati di granuli polari ed estremamente resistenti ad una varietà di agenti chimico-fisici: essi sopravvivono per mesi all’essiccamento quando si trovano inglobati in materiali organici ed al riparo dalla luce; resistono inoltre ad elevate temperature (100 °C per 2 ore) e al trattamento con alcool e acidi. Quest’ultima caratteristica sta alla base della colorazione di Ziehl-Nielsen, che ne consente l’identificazione batterioscopica. Tra le altre proprietà del BK meritevoli di menzione vi è inoltre l’aerobiosi obbligata, che esprime l’assoluta necessità di elevate tensioni di O2 affinché il germe possa moltiplicarsi attivamente. Le sopraccitate caratteristiche di resistenza proprie del BK sono largamente ascrivibili alla sua peculiare struttura: tra i costituenti principali del corpo batterico si ricordano le cere (tra i cui costituenti vi è l’acido micolico, che conferisce l’alcool-acido resistenza), che sono responsabili del particolare tipo di risposta adottata dall’organismo nei confronti del bacillo tubercolare. Queste sostanze, per quanto protettive nei confronti dell’aggressione immunitaria, rendono scarsamente permeabile il corpo batterico ai substrati metabolici necessari per la crescita, e ciò spiega l’estrema lentezza di moltiplicazione caratteristica di questo germe. Vanno inoltre ricordate la componente proteica, ad elevato potere sensibilizzante, e quella lipidica, che comprende il “fattore cordale”, in grado di determinare un particolare tipo di aggregazione dei bacilli tubercolari in coltura (a serpentina). A. Interazione tra bacillo e organismo. Il bacillo tubercolare, a differenza della maggior parte dei batteri patogeni per l’uomo, è sprovvisto di costituenti propri (eso ed endotossine) capaci di esercitare un’azione lesiva diretta nei confronti dell’organismo infetto. Ciò che determina l’entità e la gravità del danno conseguente all’infezione tubercolare è esclusivamente il tipo di risposta immunitaria che contro di essa viene organizzato. Spesso, infatti, imponenti fenomeni flogistici e necrotici si verificano nei tessuti che sono teatro della “battaglia” che vede protagonisti il bacillo di Koch ed il sistema immunitario: le conseguenze dell’aggressione immunitaria sono spesso sproporzionate rispetto alla sua efficacia, dal momento che, come si vedrà in seguito, il germe sopravvive talvolta per anni all’interno dell’organismo infetto. La risposta immunitaria nei confronti del BK è un classico esempio di reazione cellulomediata, nella quale, cioè, svolgono un ruolo preminente linfociti T e macrofagi, con scarsa o nulla partecipazione di cellule produttrici di anticorpi (linfociti B e plasmacellule) o di altri fattori umorali (per es., il sistema del complemento). Schematicamente è possibile identificare due aspetti dell’immunità antitubercolare, che agiscono contemporaneamente ed in sinergismo fra loro.
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1. Immunità naturale. Costituisce la prima barriera atta a distruggere il germe non appena esso raggiunge la sede di infezione. I principali artefici di questo processo sono i macrofagi alveolari, dato che nella maggior parte dei casi il BK penetra nell’organismo attraverso la via inalatoria. La distruzione di BK in questa fase dipende sia dal potere battericida intrinseco del macrofago alveolare che dalle caratteristiche di virulenza del bacillo inalato. È ben dimostrato che, mentre i macrofagi immaturi, di recente derivazione dai monociti circolanti, hanno scarso potere battericida, quelli residenti negli alveoli, attivati in modo non specifico da particelle inalate o da altri fattori microambientali, sono rapidamente in grado di distruggere il BK inalato prima che esso possa moltiplicarsi. Il potere antibatterico dei macrofagi alveolari è indipendente dalla presenza o meno di una precedente sensibilizzazione nei confronti di tale agente, ma è soggetto a notevoli variazioni individuali, determinate da fattori congeniti o acquisiti. Ciò è stato ampiamente documentato sperimentalmente nell’animale (esistono ceppi di animali suscettibili ed altri resistenti all’infezione tubercolare), ma del resto è noto che anche nella specie umana esistono differenze etniche nella suscettibilità allo sviluppo di TBC. Le popolazioni caucasiche e del Nord Europa, selezionate da secoli di epidemie tubercolari letali, sono oggi più resistenti al bacillo di Koch rispetto ai neri africani, agli indiani americani o agli asiatici, tra i quali ancor oggi la TBC costituisce malattia di notevole gravità. Inoltre, nell’ambito dei singoli gruppi etnici, sono stati identificati fattori genetici che rendono l’organismo più o meno efficiente nel distruggere il bacillo tubercolare. Recentemente, la capacità del BK di potersi mantenere vivo e non essere distrutto dai macrofagi non attivati è stata messa in relazione con qualche attività di questo microrganismo che impedisce la fusione delle vescicole fagosomiche con i lisosomi. Quando un macrofago fagocita dei microrganismi, questi sono interiorizzati entro vescicole, i cosiddetti fagosomi, derivate da una introflessione della membrana plasmatica. Queste poi si fondono con le vescicole costituite dai lisosomi, vero apparato digerente delle cellule, che contengono enzimi proteolitici in ambiente acido. Nel “fagolisosoma” risultante dalla fusione dei due tipi di vescicole, i microrganismi sono uccisi, digeriti e smontati in peptidi espressi alla superficie cellulare, collegati con molecole MHC di classe II. È il complesso molecola MHC di classe II più peptidi di derivazione microbica che stimola i linfociti T CD4+ e avvia una reazione immunitaria specifica. Ebbene, come si è anticipato, questo processo è impedito in misura maggiore o minore (a seconda dello stato dei macrofagi, per condizionamento genetico o per circostanze acquisite) nel caso del BK. Per quanto riguarda i fattori genetici, qualche acquisizione recente è stata conseguita studiando la tubercolosi sperimentale del topo. In questo animale è stato individuato un gene che conferisce resistenza al BCG (ceppo di M. tuberculosis attenuato, del quale si parlerà anche in seguito) e ad altri microrganismi intracellulari. Questo gene è chiamato Nramp-1 (da Natural Resistance Associated Macrophage Protein-1). Un gene corri-
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spondente nell’uomo è stato trovato sul cromosoma 2 e si è dimostrato che il suo polimorfismo è associato con la diversa suscettibilità degli individui all’infezione tubercolare. La funzione della proteina codificata da questo gene non è nota, anche se si sa che è una molecola con una collocazione transmembrana plasmatica. Come già osservato in precedenza, la funzionalità del compartimento macrofagico alveolare può essere compromessa da una varietà di condizioni patologiche acquisite, che rendono queste cellule metabolicamente meno efficienti (per es., diabete, malattie immunodeprimenti, tra cui l’infezione da HIV, che può interessare direttamente i macrofagi) o ne producono un sovraccarico funzionale (per es., pneumoconiosi, fumo di sigaretta e polluzione atmosferica). Si può quindi affermare che, essendo il potere battericida dei macrofagi alveolari essenziale nel determinare la progressione o la regressione dell’infezione tubercolare, le condizioni che rendono questo processo meno efficiente costituiscono un fondamentale fattore di suscettibilità allo sviluppo della malattia conclamata. Qualora i macrofagi alveolari non riescano ad eliminare completamente i bacilli inalati, si può assistere ad una fase, detta simbiotica, nella quale i BK si moltiplicano attivamente in macrofagi immaturi, di derivazione ematica, senza che vengano stimolati i processi battericidi ad opera di questi ultimi ed in assenza di effetti citocidi da parte del BK. La crescita esponenziale del bacillo tubercolare in questa fase prelude all’intervento dell’immunità acquisita antitubercolare, mediata dai linfociti T. 2. Immunità acquisita. Si stabilisce quando l’antigene (o gli antigeni) bacillare, adeguatamente “presentato” da cellule specializzate che sono di tipo macrofagico, determina l’attivazione dei linfociti T specificamente sensibili verso i propri determinanti. Questo tipo di reazione, definita di ipersensibilità ritardata (o di tipo IV secondo Gell e Coombs), necessita di un certo periodo di tempo (alcuni giorni) per realizzarsi, richiedendo tra l’altro una dose soglia di antigene, che in questo caso implica l’iniziale moltiplicazione del BK inalato durante la cosiddetta fase simbiotica. Essa culmina nella liberazione locale di mediatori solubili, detti linfochine, da parte dei linfociti T, cui conseguono l’attivazione e la proliferazione, nella sede dell’antigene, di macrofagi di provenienza ematica e di altri linfociti T. Le citochine implicate in questo processo sono l’interleuchina-12 e l’interleuchina-18 che sono rilasciate dai macrofagi infettati e agiscono sui linfociti T, e l’interferon-, che è prodotto dai linfociti T e che agisce a sua volta sui macrofagi. Questo meccanismo è largamente in causa nel determinare l’intensità della risposta flogistica alla intradermoreazione tubercolinica, un test diagnostico di grande importanza che verrà considerato nelle pagine seguenti. I linfociti impegnati in questo processo sono linfociti T CD4+, che riconoscono alla superficie dei macrofagi dei peptidi derivati da tubercoloproteine, montati su molecole MHC (HLA nell’uomo) di classe II. Essi hanno due effetti, uno positivo ed un altro negativo. L’effetto positivo consiste nell’attivare i macrofagi e nel
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renderli capaci di uccidere i BK, evidentemente consentendo la fusione tra fagosomi e lisosomi. L’effetto negativo è invece rappresentato dal fatto che, in certe circostanze, i linfociti T derivati da questa sensibilizzazione uccidono i macrofagi. I macrofagi perciò rilasciano i loro enzimi litici nei tessuti e li danneggiano. Questo disfacimento cellulare dà luogo a quel particolare tipo di necrosi che, per la sua consistenza, viene definita con l’aggettivo “caseosa”. Sfortunatamente, i BK presenti nei macrofagi uccisi non muoiono, ma vengono riversati all’esterno e sono in grado di infettare altri macrofagi. Perciò, l’effetto negativo dell’attività dei linfociti T sensibilizzati agli antigeni del BK è privo di ogni azione protettiva, ma provoca solo danni. Per questo motivo è stato definito nel passato “allergia tubercolare”, un termine che non dovrebbe essere oggi più accettato (dato che l’allergia in senso stretto è quella mediata dagli anticorpi della classe IgE), ma che esprime bene il significato di una reazione immunitaria che è, di per sé, dannosa anziché protettiva. Non è perfettamente definito ciò che determina la differenza tra gli effetti positivi e quelli negativi, ma esistono molti motivi per ritenere che i secondi derivino da una stimolazione antigenica eccessiva, e cioè da un’elevata carica batterica. Questo spiega la particolare morfologia del granuloma tubercolare. Al centro, dove la concentrazione dei BK è più elevata, esiste necrosi caseosa, mentre alla periferia, dove la concentrazione batterica è più bassa, c’è il vallo di linfociti e macrofagi attivati (sotto forma di cellule epitelioidi e cellule giganti). La zona di caseificazione è piccola se localmente pochi bacilli hanno dato origine alla lesione. È grande se i bacilli impegnati sono molti e, in questo caso, il drenaggio del materiale caseoso attraverso i bronchi può dare origine alle caverne. La conclusione è che il particolare esito dell’infezione da BK è dipendente dalle interazioni tra le caratteristiche del microrganismo (quale, tra l’altro, la sua virulenza, ossia la capacità di replicarsi) e lo stato del sistema immunitario. Se la risposta immunitaria è mancante si determina uno stato, rapidamente mortale, definito tubercolosi disseminata areattiva. In questo caso il BK, pur essendo, come si è visto, sprovvisto di una virulenza propria, è letale perché interferisce metabolicamente con i tessuti dell’organismo. Se la risposta immunitaria è scarsa si ha una propagazione ematogena dell’infezione e si verifica quella che è detta tubercolosi miliare (si veda in seguito a proposito degli aspetti anatomopatologici). Se la risposta immunitaria è normale l’infezione può essere controllata. Se la risposta immunitaria è eccessiva si formano estese lesioni caseose che possono drenare nei bronchi. In questo caso l’infezione si può propagare attraverso le vie aeree da una zona del polmone ad altre. Le interazioni tra microrganismo e sistema immunitario possono variare da individuo a individuo ed anche nello stesso individuo in momenti diversi, in relazione a fattori capaci di alterare la normale efficacia della risposta.
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
B. Aspetti anatomopatologici delle lesioni tubercolari. La TBC è il prototipo delle malattie granulomatose dell’uomo; la lesione elementare prende il nome di tubercolo, una struttura microscopica oganizzata, costituita da cellule epitelioidi (macrofagi) e cellule giganti multinucleate di Langhans, circondate da un vallo di fibroblasti fra cui sono interposti linfociti. Assai spesso la parte centrale del tubercolo va incontro a necrosi caseosa. Le lesioni visibili a occhio nudo sono costituite da aggregati di tubercoli. L’entità della reazione fibroblastica, da un lato, e della necrosi, dall’altro, che sono il corrispettivo morfologico del tipo di reazione immunitaria del paziente, condiziona l’evoluzione della malattia ed è, in ultima analisi, responsabile delle varietà di quadri anatomoclinici con cui la TBC si può presentare nell’apparato respiratorio. Infatti, la lesione granulomatosa è l’espressione di una risposta immunitaria incapace di eliminare totalmente l’agente responsabile, che viene in tal modo confinato all’interno della lesione e reso innocuo; il bacillo di Koch è in grado di sopravvivere per anni all’interno delle lesioni granulomatose, ove esiste una bassa tensione di O2 che ne impedisce l’attiva moltiplicazione (il germe è aerobio obbligato) riducendone altresì le esigenze metaboliche e realizzando così una sorta di “ibernazione”. L’intensa reazione fibroblastica è caratteristica dei pazienti con immunità normale, infettati da una carica batterica modesta; la produzione di tessuto connettivo tende a delimitare il focolaio tubercolare ed a limitare quindi la diffusione del processo; la necrosi è modesta ed i bacilli di Koch restano confinati all’interno dei granulomi. Al contrario, risposte immunitarie eccessive, sia per caratteristiche proprie del paziente che per una carica batterica cospicua, causano abbondante e precoce necrosi caseosa, senza dar tempo ai fibroblasti di organizzare un vallo protettivo; l’estensione della necrosi causa disseminazione di bacilli che colonizzano progressivamente le zone circostanti e possono così essere esposti a tensioni di O2 sufficienti a riattivarli. Occorre aggiungere che lo stato immunitario del paziente influenza non solo il tipo delle lesioni, ma anche la loro diffusione. Quando le reazioni immunitarie sono normali o energiche, il processo patologico, più o meno grave, tende a restare circoscritto. Quando le reazioni immunitarie sono deboli, i bacilli tubercolari possono disseminarsi in varie parti dell’organismo e provocare una pluralità di lesioni, singolarmente piccole, ma tanto diffuse da provocare grave compromissione dell’organismo (tubercolosi miliare, cosiddetta per l’aspetto a grani di miglio delle singole lesioni).
delle interazioni che in un dato momento si stabiliscono tra il bacillo di Koch e le difese immunitarie dell’ospite. Su questa base si distinguono due forme principali di TBC, che vengono definite TBC primaria e TBC postprimaria: la forma primaria consegue al primo contatto che viene a stabilirsi tra il bacillo tubercolare e l’organismo ospite, mentre quella postprimaria si verifica in soggetti già in precedenza sensibilizzati nei confronti del germe, e nei quali sono perciò operanti i meccanismi dell’immunità acquisita di cui si è detto. Tra le due forme cliniche intercorre abitualmente un periodo di latenza la cui durata è però imprevedibile, potendo variare da pochi mesi a decine di anni. La dimostrazione dell’avvenuta sensibilizzazione nei confronti del bacillo di Koch è rappresentata dalla conversione, da negativa a positiva, dell’intradermoreazione tubercolinica (si veda in seguito), che costituisce perciò uno dei principali elementi discriminativi tra TBC primaria e postprimaria. Questa regola generale presenta tuttavia delle eccezioni, rappresentate da soggetti nei quali, malgrado l’esistenza di un precedente contatto col bacillo tubercolare, si assiste alla negativizzazione della reattività tubercolinica, a causa di molteplici fattori che verranno in seguito presi in esame e che tendono a deprimere la risposta immunitaria antitubercolare. In questi casi può talora essere difficoltoso, sulla base delle sole manifestazioni cliniche, distinguere tra forma primaria e postprimaria della malattia.
TUBERCOLOSI PRIMARIA La via di penetrazione di gran lunga più frequente (85-95% dei casi) del bacillo di Koch è quella inalatoria. Più spesso il germe si trova inglobato in minuscole goccioline di saliva, espulse con la tosse da soggetti malati e bacilliferi, cioè portatori di forme “aperte” di tubercolosi, nelle quali avviene una continua emissione di germi dalle lesioni polmonari all’esterno, attraverso l’albero respiratorio. Per completezza, tuttavia, devono essere segnalate altre vie di penetrazione, tra le quali quella enterogena (per ingestione di latticini provenienti da animali infetti da TBC bovina), quella cutanea (attraverso soluzioni di continuo sulla cute, frequente nel passato fra gli anatomopatologi) e quella faringea (attraverso piccole lesioni della mucosa del cavo orale). È infine ammessa una forma congenita di contagio, per lo più contratta tramite l’inalazione, con i primi atti respiratori, di liquido amniotico contaminato dal bacillo tubercolare in madri portatrici di tubercolosi in fase attiva.
Forme cliniche di tubercolosi nell’uomo
Patogenesi
La più convincente dimostrazione del ruolo svolto dal sistema immunitario nella patogenesi della tubercolosi nell’uomo deriva dalle diverse espressioni cliniche della malattia. Queste, come vedremo, sono il risultato
A. Via inalatoria. Qualora le goccioline di saliva contenenti il BK siano di dimensioni sufficientemente piccole (inferiori a 10 di diametro), esse possono raggiungere il distretto alveolare stabilendo a questo li-
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18 - INFEZIONI SISTEMICHE A PREVALENTE LOCALIZZAZIONE POLMONARE
CONTAGIO (via inalatoria in soggetti PPD-negativi) MODESTA CARICA INFETTANTE
ELEVATA CARICA INFETTANTE
Immunità normale
Immunità scarsa
Immunità vivace (allergia tubercolare
Complesso primario
Diffusione ematogena
Fenomeni essudativi a diffusione locale
Fenomeni essudativi a diffusione locale
Diffusione ematogena
Guarigione
TBC miliare acuta disseminata
Epitubercolosi Eritema nodoso Pleurite tubercolare
Polmonite caseosa Tisi primaria
TBC miliare acuta disseminata
Immunità vivace (allergia tubercolare)
Immunità normale
Immunità scarsa
Figura 18.1 - Patogenesi della TBC primaria.
Meningi Ossa Reni Surreni Epididimo Salpingi Linfonodi
Figura 18.2 - Sedi elettive di possibile localizzazione del bacillo tubercolare.
vello la sede primaria di infezione (Fig. 18.1). Tale sede è generalmente situata nei lobi inferiori (o alla base dei lobi superiori), sia per ragioni gravitazionali sia perché le regioni basali del polmone sono quelle maggiormente ventilate. La localizzazione primaria del BK è inoltre più frequente a destra, forse a causa della particolare conformazione dell’albero respiratorio (il bronco principale di destra forma un angolo più ottuso con la trachea rispetto a quello controlaterale). Una volta raggiunto il distretto alveolare, il BK subisce l’aggressione da parte dei macrofagi alveolari, costantemente attivi nei processi di fagocitosi di agenti estranei presenti nell’aria inalata. In condizioni di normale efficienza di questi elementi cellulari, e qualora la carica infettante sia molto mo-
desta, l’attecchimento del germe può essere impedito e l’infezione può decorrere in modo del tutto silente, senza lasciare reliquati. Invece, nei casi in cui la carica batterica inalata sia piuttosto rilevante o il compartimento macrofagico alveolare meno efficiente, il BK può persistere più a lungo nella sede di infezione, dando origine ai fenomeni flogistici e necrotici accennati in precedenza, che culminano nella sensibilizzazione dell’organismo verso il germe e nella successiva formazione dei granulomi tubercolari. Nel corso di tale periodo, che si protrae per alcune settimane e durante il quale la risposta immunitaria antitubercolare è ancora incompleta, è possibile che alcuni germi sfuggano al controllo locale operato dai macrofagi alveolari e tendano a propagarsi in sedi distanti da quella iniziale. La propagazione avviene di regola per via linfatica, attraverso i vasi linfatici dell’interstizio polmonare, fino ai linfonodi satelliti dell’ilo (interbronchiali, peribronchiali, paratracheali) e per via ematica attraverso le arteriole polmonari; il bacillo potrà così raggiungere altre regioni dello stesso polmone, mentre attraverso il sistema venoso dell’organo potrà disseminarsi, tramite la circolazione sistemica, in numerosi altri organi o tessuti. Per le sue particolari esigenze metaboliche, il BK si localizzerà preferenzialmente in organi nei quali sia presente un’elevata tensione di O2 quali appunto i polmoni (ed in particolare le regioni apicali, ove esiste un elevato rapporto ventilazione/perfusione e quindi una più alta pressione alveolare di O2), le epifisi ossee, i reni, le ghiandole surrenali, le meningi e l’apparato genitale (le salpingi nella donna e l’epididimo nell’uomo) (Fig. 18.2). Al termine del periodo necessario affinché si compiano i fenomeni di sensibilizzazione nei confronti del bacillo di Koch, questo viene prontamente circoscritto nella sede iniziale e in quelle che nel frattempo è riuscito a colonizzare; si formano così i granulomi tubercolari che risultano clinicamente innocui, se non fosse per il potenziale rischio connesso alla possibile sopravvivenza del BK all’interno dei centri necrotici.
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Il documento storico dell’avvenuta infezione tubercolare a livello polmonare è rappresentato dal “complesso primario”: esso consiste in una triade caratteristica, rappresentata da un focolaio viscerale (di Kuss-Ghon) nella sede ove è avvenuta la localizzazione iniziale del germe, associato ad una linfangite, cioè ad un processo flogistico nei linfatici che drenano il distretto alveolare ove è avvenuta la penetrazione, e da una linfonodite satellite nelle stazioni linfonodali ove si scarica la linfa proveniente dalla regione infetta. Le tre componenti del complesso primario spesso decorrono del tutto inosservate clinicamente e la loro presenza può essere svelata solo radiologicamente (in virtù delle calcificazioni talvolta presenti a livello del focolaio viscerale e di quello linfonodale). Quella descritta è l’evenienza, fortunatamente comune, di una risposta immunitaria normale ad una modesta carica infettante che ha come uniche conseguenze l’acquisizione della reattività tubercolinica e la possibile ibernazione di BK vivi e potenzialmente patogeni all’interno delle lesioni granulomatose. Esistono tuttavia condizioni particolari nelle quali anche l’infezione primaria può dare segno di sé: la prima di queste condizioni è quella in cui un soggetto presenta una ridotta risposta immunitaria nei confronti del bacillo di Koch non riuscendo a circoscriverlo completamente e ad arrestare il ciclo moltiplicativo. In questo caso si può assistere alla disseminazione imponente ed ubiquitaria del bacillo sia a livello polmonare che in molti altri organi, che realizza il quadro della cosiddetta TBC miliare (dall’aspetto “a grano di miglio” delle numerosissime lesioni tubercolari osservabili negli organi colpiti) e che può avere conseguenze cliniche gravissime per il paziente. Non a caso questa eventualità si osserva più spesso nei bambini di età inferiore ai 3-4 anni, nei quali non è ancora avvenuta una completa maturazione del sistema immunitario. Una seconda possibilità è che il soggetto presenti una intensa reattività nei confronti del bacillo tubercolare e i suoi costituenti ovvero che esso venga a contatto con un’elevata carica infettante. Si assisterà in questi casi ad imponenti fenomeni essudativi tendenti però a diffondere solo localmente, nella sede di penetrazione del BK ed in quelle immediatamente adiacenti, poiché in questi soggetti il sistema immunitario è oltremodo efficace, anche se con conseguenze non desiderate, nell’impedire la diffusione del germe. Si potrà allora rendere manifesto, sia clinicamente che radiologicamente, il complesso primario con le sue componenti viscerale e linfonodale; in queste condizioni, inoltre, i focolai viscerali sottopleurici potranno generare reazioni infiammatorie capaci di coinvolgere i foglietti pleurici, producendo quadri imponenti di pleurite essudativa, spesso apparentemente del tutto isolati. La persistenza di questi processi potrà infine produrre estese aree di necrosi caseosa e quindi la distruzione dei tessuti affetti, con evoluzione clinica talora sfavorevole. B. Altre vie di penetrazione. Anche quando il bacillo tubercolare penetra nell’organismo per vie differenti da quella inalatoria si viene a costituire la triade
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
caratteristica del complesso primario; nel caso della via enterogena, tramite la quale nel passato si sviluppava la infezione da M. bovis, il focolaio viscerale si trova nella mucosa intestinale (più spesso del tenue), mentre quello adenopatico ha sede nei linfonodi mesenterici satelliti. Il processo può rimanere circoscritto a queste strutture oppure, come nel caso delle infezioni polmonari, può diffondersi ad altri organi, secondo le stesse modalità illustrate in precedenza. La penetrazione del bacillo tubercolare a livello del cavo orale (anche in questo caso l’agente eziologico più frequente nel passato era M. bovis), con formazione del complesso primario a questo livello, può produrre l’interessamento dei linfonodi latero-cervicali che, in presenza di reazioni flogistiche particolarmente intense, possono ulcerarsi creando un quadro caratteristico definito “scrofola”. Tuttavia si ammette oggi che l’interessamento dei linfonodi latero-cervicali possa verificarsi anche come conseguenza della propagazione per via linfoematica del germe da un focolaio primario situato a livello polmonare.
Clinica, diagnosi, evoluzione e prognosi Le manifestazioni cliniche conseguenti all’infezione primaria da BK erano fino a tempi recenti appannaggio quasi esclusivo dell’età infantile; attualmente, però, solo il 10-15% degli individui viene a contatto con il bacillo tubercolare prima dei 20 anni di età e non di rado, quindi, la forma primaria tende a colpire soggetti in età giovane adulta. Come abbiamo visto, nella maggior parte dei casi il complesso primario a livello polmonare non dà alcun segno di sé o tutt’al più può determinare, di regola alcune settimane dopo l’infezione, una modesta alterazione febbrile (37,5-38 °C) dovuta alla reazione flogistica locale o ad occasionali gettate batteriemiche a partenza dalla sede primaria. Il focolaio viscerale tende in questi casi a regredire (più spesso con evoluzione fibrocalcifica) e la sua presenza può essere svelata radiologicamente alcuni mesi più tardi, sotto forma di un piccolo addensamento nodulare-calcifico nei due terzi inferiori del polmone. Più lenta è la guarigione del focolaio adenopatico, peraltro asintomatico nella maggior parte dei casi. Come già ricordato, entro 4-6 settimane al massimo dall’infezione si determina l’acquisizione della reattività tubercolinica, che indica l’avvenuta sensibilizzazione nei confronti del bacillo tubercolare. Nei soggetti che presentano una vivace reazione immunitaria verso il BK (“allergia tubercolare”) o che vengono infettati da notevoli quantità di bacilli, anche il complesso primario si rende clinicamente evidente: negli adulti è più comune un’intensa reazione flogistica perifocale nella sede di penetrazione (definita epitubercolosi), che si accompagna a febbre in genere non elevata ed a malessere generale, con un quadro similinfluenzale. L’esame obiettivo può essere del tutto negativo in questi pazienti, ma l’indagine radiologica eviden-
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18 - INFEZIONI SISTEMICHE A PREVALENTE LOCALIZZAZIONE POLMONARE
zierà un addensamento a contorni sfumati nella sede corrispondente al focolaio viscerale. Nei bambini sono invece le componenti linfangitica e adenopatica quelle che più spesso si rendono clinicamente manifeste: la tumefazione dei linfonodi ilari (che spesso tendono a confluire tra di loro) potrà creare un ingombro mediastinico svelabile sia obiettivamente (con una ipofonesi percussoria in regione paravertebrale inferiormente alla IV vertebra toracica) sia radiologicamente (allargamento, a contorni policiclici, dell’ombra mediastinica). L’aumento di dimensioni dei linfonodi ilari può avere conseguenze anche gravi per il paziente: la compressione esercitata sul bronco lobare medio (che ha pareti particolarmente sottili) da linfonodi interbronchiali tumefatti può determinare un’ipoventilazione del lobo corrispondente, fino ad una vera atelettasia da compressione bronchiale (sindrome del lobo medio). Va tuttavia precisato che la sindrome del lobo medio non è complicanza esclusiva dell’infezione tubercolare, ma può verificarsi ogni qualvolta linfonodi tumefatti per processi infiammatori o neoplastici comprimano dall’esterno le pareti del bronco lobare medio. Inoltre in alcuni casi la vivace reazione flogistica sul linfonodo interessato dal processo tubercolare può coinvolgere le pareti dei bronchi adiacenti fino alla creazione di tragitti fistolosi (fistole ganglio-bronchiali) cui consegue un importante corteo sintomatologico, con febbre elevata e tosse altamente produttiva, che produce l’espettorazione di bacilli tubercolari in grande quantità. Ulteriori manifestazioni cliniche indicative di un’intensa allergia tubercolare al primo contatto col germe sono rappresentate dalla pleurite tubercolare e dall’eritema nodoso: la pleurite tubercolare è un processo frequentemente essudativo, con abbondante versamento, che si verifica entro pochi mesi dall’infezione primaria, per lo più in giovani adulti in precedenza del tutto sani. È proprio l’insorgenza improvvisa di questo quadro, in assenza di un focolaio broncopneumonico precedente o concomitante, che deve suggerire la sua possibile eziologia tubercolare. Di scarsa utilità è di solito la ricerca del BK nel liquido essudatizio che costituisce il versamento, in quanto raramente (meno del 20% dei casi) è possibile isolare il germe a questo livello. Ciò è in accordo con il fatto che questa complicanza si verifica in soggetti che presentano intensi fenomeni di allergia tubercolare, che come abbiamo visto non necessitano del bacillo integro per manifestarsi, ma anche unicamente dei suoi costituenti di natura proteica o lipidica. In questi soggetti è infatti pressoché costantemente presente un’intensa reattività tubercolinica. L’eritema nodoso è un processo caratterizzato dalla comparsa di noduli sottocutanei arrossati e dolenti, più spesso sulla superficie estensoria degli arti inferiori, ed è espressione della deposizione a questo livello di complessi immuni circolanti nei quali verosimilmente l’antigene è in questi casi rappresentato da costituenti del bacillo tubercolare. Va ricordato che l’eritema nodoso non è affatto specifico dell’infezione tubercolare, potendosi riscontrare in numerose altre condizioni morbo-
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se (sarcoidosi, infezioni streptococciche, allergia a farmaci, ecc.). Tuttavia la sua presenza in un soggetto giovane con una modesta alterazione febbrile deve indurre il medico a ricercare una possibile infezione da bacillo di Koch. Vanno infine ricordate alcune rare complicanze dell’infezione tubercolare primaria in soggetti con vivace reazione immunitaria verso il BK: spesso queste si verificano per inalazione di massive quantità di bacilli e consistono in estesi processi infiammatori e necrotici del parenchima polmonare che tendono rapidamente ad estendersi dalla sede iniziale ed a confluire, creando quadri definiti di polmonite caseosa (ad interessamento lobare, sublobare o segmentario). La sintomatologia è in questi casi imponente, con febbre elevata (39 °C), tosse più o meno produttiva, marcata astenia e rapido dimagramento. L’esame obiettivo del torace dimostra la presenza dell’addensamento parenchimale quando esso è sufficientemente esteso: si avvertirà così un rinforzo localizzato del FVT, associato ad ipofonesi plessica ed a rumori prevalentemente umidi (rantoli crepitanti, subcrepitanti e a piccole bolle) alla auscultazione. Anche l’esame radiologico del torace potrà dare utili informazioni in questi pazienti, dimostrando addensamenti piuttosto omogenei, unici o multipli e con tendenza a confluire, più spesso, nei campi medi e inferiori del polmone. L’evoluzione di questi quadri morbosi può essere talora molto grave, con estesa necrosi tissutale ed escavazione nella sede del processo (la cosiddetta tisi primaria) cui può conseguire una grave compromissione della funzionalità polmonare. Il termine “tisi” che viene qui citato per la prima volta, deriva dalla parola greca “phtisis”, che letteralmente significa “consunzione” e si riferisce ai casi di tubercolosi caratterizzati da abbondante perdita di sostanza, con formazione di processi cavitari (caverne tubercolari) nelle aree tissutali sede dei fenomeni di necrosi caseosa.
L’infezione tubercolare primaria può avere conseguenze cliniche rilevanti anche in soggetti che presentano una scarsa reattività immunitaria verso il BK. Come abbiamo visto, si tratta spesso di bambini di età inferiore ai 3-4 anni, nei quali il bacillo tubercolare tende a disseminarsi in modo incontrollato per via ematogena non solo ad entrambi i polmoni, ma anche in numerosi altri organi. Si realizza così il quadro della tubercolosi miliare acuta disseminata, che si accompagna ad una grave compromissione generale del paziente, similmente a quanto accade negli stati setticemici (questo quadro è anche definito tifobacillosi o sepsi di Landouzy): il paziente presenta sopore, febbre elevata e dispnea. Le complicanze più gravi derivano dall’esteso interessamento polmonare, con grave compromissione del rapporto ventilazione/perfusione ed insufficienza respiratoria, o da quello miningeo, cui conseguono i segni neurologici caratteristici dei quadri di meningite. Talvolta la diffusione miliare tende a non estendersi ubiquitariamente ma a rimanere circoscritta ai polmoni (TBC miliare regionale o circoscritta), dove interessa preferibilmente le regioni apicali per i motivi esposti
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in precedenza. Il quadro radiologico del torace dimostrerà in questi casi un’uniforme distribuzione nei campi polmonari delle caratteristiche lesioni micronodulari “a grano di miglio” con scarsa tendenza a confluire tra loro. Altre condizioni morbose possono produrre quadri radiologici simili (sarcoidosi, pneumoconiosi), ma l’interessamento degli apici polmonari è abbastanza caratteristico dell’infezione tubercolare. A causa della debole reattività immunitaria antitubercolare che è alla base della tubercolosi miliare, questi soggetti non presentano in genere alcuna reattività tubercolinica. A. Esami di laboratorio. Le alterazioni ematochimiche proprie della tubercolosi primaria sono in genere del tutto aspecifiche e possono consistere in un modesto aumento degli indici di flogosi (VES, 2-globuline) associato ad una leucocitosi neutrofila di lieve entità. B. Diagnosi. La diagnosi di infezione primaria può essere molto difficoltosa quando essa decorre in modo paucisintomatico. È utile indagare sulla presenza di una possibile fonte di contagio (soggetti malati e bacilliferi) nell’ambiente (familiare o lavorativo) in cui vive il paziente. Di grande importanza può essere il riscontro, mediante l’esecuzione delle prove tubercoliniche, della acquisizione di reattività antitubercolare, in soggetti precedentemente negativi, proprio in coincidenza delle manifestazioni cliniche. Nei casi in cui sia possibile (versamenti pleurici, espettorazione abbondante, interessamento meningeo) si può rivelare utile la ricerca del BK su campioni di liquidi biologici provenienti dai tessuti affetti. Per quanto riguarda le tecniche di questa ricerca si veda in seguito. C. Evoluzione e prognosi. Nella maggioranza dei casi l’evoluzione dell’infezione primaria è del tutto benigna, anche se ad essa si accompagna il rischio di sviluppare in seguito una forma postprimaria. Tale rischio è stimato intorno al 5-15% entro 5 anni dalla prima infezione e al 3-5% in un periodo successivo ai 5 anni. Più grave può essere l’evoluzione dei quadri essudativi ad esteso interessamento polmonare o delle forme miliari disseminate: in questi casi sono determinanti la tempestività e l’efficacia dell’intervento terapeutico, cui si farà breve riferimento al termine del presente capitolo.
TUBERCOLOSI POSTPRIMARIA Le manifestazioni cliniche della TBC postprimaria si verificano nei soggetti nei quali si è già avuto in precedenza un contatto con il bacillo tubercolare, che ha determinato la sensibilizzazione del sistema immunitario e la conseguente acquisizione della reattività tubercolinica. Questa catena di eventi è ben riproducibile nell’animale sperimentale e sta alla base del cosiddetto fe-
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
nomeno di Koch: inoculando cavie con micobatteri tubercolari vivi o uccisi al calore, a distanza di 4-6 settimane da una precedente inoculazione, si ottiene localmente una reazione infiammatoria caratterizzata da arrossamento e da infiltrazione di elementi linfomonocitari, che tende in breve tempo a risolversi. Questa reazione esprime la liberazione locale di linfochine da parte dei linfociti T sensibilizzati verso il BK, a cui consegue l’arrivo in loco e l’attivazione di cellule macrofagiche e la successiva formazione delle tipiche lesioni infiammatorie tubercolari; trattandosi di una reazione immunitaria cellulo-mediata, essa richiede un certo periodo di tempo (48-72 h) per manifestarsi completamente. Da questo fenomeno trae origine l’intradermoreazione tubercolinica, il test diagnostico più comunemente utilizzato per documentare l’avvenuto contatto con il bacillo di Koch ed i cui dettagli pratici verranno esposti nelle pagine seguenti.
Patogenesi Nella maggior parte dei casi (80%) la forma postprimaria della malattia non origina da una reinfezione esogena con il bacillo tubercolare, bensì dalla riattivazione endogena di bacilli sopravvissuti all’interno delle lesioni caratteristiche del ciclo primario (Fig. 18.3). Questa affermazione deriva dal fatto che è spesso impossibile reperire in questi soggetti una fonte esogena di contagio e che in condizioni normali un individuo già precedentemente sensibilizzato nei confronti del BK è in grado di neutralizzare rapidamente una nuova carica bacillare di provenienza esogena a meno che questa non sia di entità considerevole. Si deve tuttavia ammettere che, affinché una riattivazione endogena abbia luogo, deve verificarsi un momentaneo indebolimento dei sistemi di controllo abitualmente efficaci nel prevenire questa eventualità. È in realtà dimostrato che l’efficacia delle difese immunitarie antitubercolari può risultare compromessa da numerose condizioni ambientali, tra le quali vanno ricordati la scarsa igiene o gli stati di denutrizione, la prolungata esposizione al freddo, la gravidanza, il surmenage fisico, la contemporanea insorgenza di malattie immunodeprimenti (alcune infezioni virali come il morbillo, il diabete mellito, le malattie neoplastiche), o, ancora, il trattamento con farmaci immunodepressori (corticosteroidi, citostatici). A queste condizioni, anche a molti anni di distanza dalla prima infezione, è possibile che bacilli contenuti all’interno delle lesioni granulomatose tissutali o linfoghiandolari sfuggano al controllo locale operato dalle cellule macrofagiche, ritrovando una situazione ambientale favorevole (elevata tensione di O2) alla propria crescita e moltiplicazione. Va da sé che in presenza di un tale indebolimento del sistema immunitario anche una reinfezione esogena ha maggiori probabilità di svilupparsi, ma, come già affermato, considerazioni di ordine epidemiologico sembrano indicare come questa opportunità sia poco frequente. La riattivazione e la successiva moltiplicazione dei bacilli tubercolari all’interno dell’organismo costitui-
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18 - INFEZIONI SISTEMICHE A PREVALENTE LOCALIZZAZIONE POLMONARE
RIATTIVAZIONE ENDOGENA (80% dei casi) (1) o reinfezione esogena in soggetti PPD-positivi
SCARSA CARICA INFETTANTE
ELEVATA CARICA INFETTANTE
Immunità vivace (allergia tubercolare)
Immunità normale
Immunità scarsa
Riattivazione locale
Diffusione ematogena
Diffusione ematogena, emolinfatica, linfatica o endocanalicolare
Diffusione ematogena
Focolai nodulari-apicali (TBC di Simon)
TBC miliare acuta o discreta
Infiltrato di Assmann-Redeker, forme essudative polmonari (polmonite caseosa, lobite, ecc.) o extrapolmonari
TBC miliare acuta o discreta
Guarigione
Immunità normale
Immunità scarsa
Evoluzione tisiogena
(1) Il termine “riattivazione endogena” si riferisce allo stato immunitario che si instaura dopo l’evento che ha consentito la diffusione dei bacilli dal focolaio latente, evento che di per sé spesso coincide con una depressione immunologica transitoria.
Figura 18.3 - Patogenesi della TBC postprimaria.
scono però un importante stimolo immunogenico e si accompagnano, nella maggior parte dei casi, ad una risposta secondaria da parte del sistema immunitario già sensibilizzato, che ha come conseguenza lo sviluppo delle lesioni tissutali caratteristiche della forma postprimaria della malattia: queste lesioni tenderanno a manifestarsi sia nelle sedi colonizzate dal bacillo di Koch durante la fase primaria che in quelle raggiunte successivamente alla riattivazione endogena. Anche in questo caso le vie di propagazione seguite saranno per lo più quella ematogena, quella linfatica (o emolinfatica, attraverso i linfatici tributari del dotto toracico e quindi, tramite la vena azygos, del circolo generale) o quella endocanalicolare: tale evenienza si realizza per esempio quando bacilli vivi o vitali vengono drenati da una lesione parenchimale all’interno di un bronco e da qui possono propagarsi in distretti alveolari distanti rispetto a quello inizialmente colonizzato (situazioni analoghe possono verificarsi a livello di altri canali naturali, quali gli ureteri, le tube, il dotto deferente, il tubo digerente, ecc.). La più comune manifestazione polmonare della forma postprimaria è probabilmente la cosiddetta TBC nodulare-apicale (di Simon) che ha luogo nella sede più frequentemente colonizzata dal bacillo di Koch nel corso delle gettate batteriemiche successive all’infezione primaria: questa variante clinica è il prodotto della riattivazione locale di bacilli precedentemente “ibernati” nel contesto delle lesioni granulomatose situate in regione apicale, e si accompagna generalmente a modesti fenomeni di essudazione perifocale con scarsa tendenza alla confluenza ed andamento per lo più benigno. Meno favorevole è invece l’evoluzione di un’altra variante clinica della TBC postprimaria, detta infiltrato tisiogeno precoce di Assmann-Redeker: questa lesione si verifica tipicamente in regione retro o sottoclaveare, cioè inferiormente rispetto alla forma precedentemen-
te descritta, ed è il risultato di una reinfezione esogena ad opera di una carica batterica elevata o della propagazione ematogena da un focolaio polmonare silente; in entrambi i casi si verificano imponenti fenomeni essudativi, espressione di intensa reattività tubercolare, che tendono a confluire ed a produrre estese aree di necrosi caseosa, con precoce evoluzione verso la formazione di caverne. I fenomeni necrotici, che culminano nella cavitazione, possono coinvolgere vasi arteriosi polmonari, producendo alterazioni morfologiche delle pareti (aneurismi di Rassmussen) ed eventualmente la rottura, cui conseguono talvolta importanti fenomeni emorragici. Ancora più sfavorevole è l’evenienza in cui materiale caseoso, proveniente da un focolaio riattivato e ricco di bacilli tubercolari, venga drenato in un bronco e da qui si propaghi per via endocanalicolare alle regioni polmonari tributarie del bronco interessato, realizzando quadri di broncopolmonite tubercolare a focolai multipli o di polmonite caseosa (difficilmente distinguibili sul piano clinico da quelle del ciclo primario). In casi estremi, fortunatamente rari, un intero lobo polmonare può essere interessato dai processi essudativi conseguenti alla riattivazione endogena del bacillo di Koch: si parla allora di lobite tubercolare (Fig. 18.4A-B). Il quadro delle manifestazioni polmonari della TBC postprimaria comprende inoltre la tubercolosi endobronchiale e laringea, in sedi cioè raggiunte dai bacilli tubercolari durante il drenaggio all’esterno di lesioni parenchimali infette, e la tubercolosi pleurica (contrapposta alla pleurite tubercolare del ciclo primario), dovuta allo svuotamento nel cavo pleurico di materiale caseoso contenente bacilli vivi e proveniente da un focolaio parenchimale sottopleurico. Tutte le lesioni parenchimali postprimarie che esprimono una vivace reazione immunitaria antitubercolare, e che sono cioè caratterizzate da intensi fenomeni essudativi, possono evolve-
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A.
B.
Figura 18.4 - Lobite tubercolare (lobo medio) in radiogrammi eseguiti in proiezione postero-anteriore (A) e latero-laterale (B). (Da J. Chrétien, Pneumologia, Masson, Milano, IIa ed., 1984.)
re nella formazione di caverne qualora il processo non venga tempestivamente arrestato dall’intervento terapeutico: le fasi dell’evoluzione verso la tisi, che può realizzarsi nel corso di molti anni, vengono definite ulcero-caseosa (con prevalenza di fenomeni necrotici), fibro-ulcerosa (con iniziale deposizione di tessuto fibroso intorno alla lesione) e fibro-sclerotica (con estesa sostituzione fibrotica del tessuto polmonare). Tale evoluzione è oggi fortunatamente rara, e i casi attualmente osservabili sono per lo più rappresentati da reliquati della malattia tubercolare contratta in epoca preantibiotica e prechemioterapica. L’altro versante delle manifestazioni cliniche della TBC postprimaria comprende le circostanze nelle quali il sistema immunitario non riesce a circoscrivere adeguatamente il bacillo tubercolare nella sede in cui esso si è riattivato. Si determina così l’ubiquitaria diffusione ematogena del germe, che caratterizza le forme miliari della TBC postprimaria e che produce l’esteso interessamento tubercolare del polmone (Fig. 18.5) oltre che di molti altri organi, similmente a quanto può accadere durante l’infezione primaria. La riattivazione endogena del bacillo tubercolare, con tutte le sequele dianzi esposte, a livello di focolai extrapolmonari prodottisi durante il ciclo primario, caratterizza il quadro della TBC extrapolmonare postprimaria, che interessa organi quali il rene, le ghiandole surrenali, l’apparato scheletrico o l’apparato genitale. Queste localizzazioni del processo tubercolare possono subire, similmente a quanto accade nel polmone, un’evoluzione tisiogena, con estesa necrosi caseosa e successiva cavitazione a livello dei parenchimi infetti. Questi organi, com’è ovvio, possono inoltre essere colonizzati durante la diffusione ematogena bacillare caratteristica delle forme miliari, e in essi verranno a costituirsi le tipiche lesioni granulomatose, talvolta tanto diffuse da compromettere seriamente l’integrità anatomica e funzionale dell’organo.
Figura 18.5 - Forma miliare tubercolare. (Da J. Chrétien, Pneumologia, Masson, Milano, IIa ed., 1984.)
Clinica La gravità delle manifestazioni cliniche della TBC postprimaria dipende ovviamente dalla sede interessata dal processo morboso e dall’entità di tale interessamento; in generale, comunque, è possibile affermare che l’esordio della malattia, oggi più comune in soggetti di età medio-adulta, è subdolo (in passato si parlava di “mal sottile”) e caratterizzato da astenia, dimagramento, malessere generale, spesso attribuiti dal paziente ad un periodo di sovraffaticamento o ad una dieta non adeguata. Elemento caratteristico di questa fase della malattia è la febbricola (37,5-38 °C) persistente, con prevalenza nelle ore serali, che tende a perdurare anche per parecchie settimane, contribuendo all’ulteriore compromissione delle condizioni generali del paziente. Tipicamente, durante le ore notturne, la defervescenza della
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febbre si accompagna a profusa sudorazione, spesso avvertita dal paziente in misura maggiore rispetto al disturbo che ne è la causa. Un altro elemento clinico rilevante, anche se poco specifico, è rappresentato dalla tosse, più spesso presente in soggetti portatori di forme essudative polmonari, specie se con drenaggio di materiale caseoso all’interno delle vie bronchiali; la tosse tende ad essere in questi casi scarsamente produttiva, talora (se vi è interessamento laringeo) con tonalità abbaiante, ma nella maggior parte dei casi essa può essere considerata dallo stesso paziente come “tosse da fumo” e perciò sottovalutata. Più indicativa può essere la comparsa nell’espettorato di striature ematiche (emoftoe) dovute alla erosione di piccoli vasi da parte del processo tubercolare. La rottura di vasi di maggiori dimensioni (aneurismi di Rassmussen) può invece causare cospicue emorragie di sangue venoso dal tratto respiratorio (emottisi), ad evoluzione talvolta fatale. Va comunque sottolineato che oggi tali episodi sono per lo più conseguenti a patologie diverse da quella tubercolare (per es., tumori polmonari). Nei casi in cui si verifica un esteso interessamento del parenchima polmonare da parte di un processo miliare o di un fenomeno essudativo che coinvolga un intero lobo, il sintomo fondamentale può essere la dispnea, espressione dello squilibrio ventilazione/ perfusione e della compromissione della funzione respiratoria. Più grave può essere l’espressione clinica della disseminazione miliare della malattia. Come osservato in precedenza, questa grave e spesso fatale condizione clinica è il risultato dell’estesa disseminazione per via ematogena del bacillo tubercolare, con successiva colonizzazione di molti organi. È bene ricordare che questa grave variante della TBC postprimaria tende ad essere oggi più frequente anche in Paesi socioeconomicamente avanzati per il crescente fenomeno dell’immigrazione e per la diffusione dell’AIDS, condizione che si associa a grave deficit dell’immunità cellulo-mediata. Le caratteristiche cliniche della TBC miliare variano grandemente nelle diverse comunità: nei paesi in via di sviluppo essa è principalmente una malattia infantile e si manifesta in modo acuto entro un anno dall’infezione primaria. Al contrario, nei Paesi industrializzati il disturbo colpisce per lo più soggetti in età avanzata o immunodepressi, nei quali può manifestarsi in modo insidioso, con una persistente febbricola come unico elemento rilevante clinicamente. Esistono tuttavia varianti meno gravi di disseminazione miliare, ad andamento torbido e protratto nel tempo, definite forme miliari discrete. L’esame obiettivo del torace di un paziente affetto da TBC polmonare postprimaria fornisce di regola informazioni assai scarse e talora può essere del tutto negativo (come nel caso di processi paucinodulari apicali). Tuttavia, in presenza di fenomeni essudativi parenchimali di una certa entità si potranno apprezzare aree di ipofonesi più o meno circoscritte, eventualmente associate al rilievo auscultatorio di rantoli crepitanti, subcrepitanti e a piccole bolle, un quadro peraltro indistinguibile da quello di una comune broncopolmonite batterica. Più caratteristico può essere il rilievo obiettivo in
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presenza di una lesione cavitaria di sufficienti dimensioni: se essa presenta contenuto liquido-caseoso, potrà dar luogo al reperto auscultatorio di rantoli a grosse bolle, mentre nel caso in cui essa abbia contenuto aereo (per drenaggio del materiale necrotico presente all’interno) e pareti distese dai fenomeni di fibrosi, si potrà avvertire un suono timpanico alle percussione ed un caratteristico soffio bronchiale “anforico” all’auscultazione. Infine, in presenza degli esiti in fibrosi di processi tubercolari che interessano la pleura (corticopleurite) o il parenchima polmonare nelle regioni apicali, si potrà rilevare la completa perdita del normale suono chiaro percussorio a questo livello, con riduzione o scomparsa dei campi di Krönig. L’esame radiologico delle lesioni tubercolari a livello polmonare può essere invece molto caratteristico, contribuendo in modo determinante alla formulazione della diagnosi (Fig. 18.6). La forma nodulare-apicale si rende visibile sotto forma di addensamenti nodulari unici o multipli, con aloni perifocali a margini sfumati e tendenti a confluire, più spesso confinati ad una sola regione apicale. L’evoluzione tisiogena, caratteristica dell’infiltrato di Assmann-Redeker, è denotata dalla comparsa di aree iperdiafane a margini irregolari nel contesto dell’addensamento in sede retro e sottoclaveare. Nel caso di forme essudative molto estese, si possono poi osservare addensamenti multipli ad aspetto cotonoso, talvolta confluenti e rigidamente limitati dai piani scissurali (lobite tubercolare). Ormai raro è il riscontro degli esiti fibrosclerotici di una tisi cronica a livello polmonare, che si evidenziano come tralci fibrosi o fibrocalcifici in grado di distorcere profondamente la struttura dell’organo, tanto da produrre retrazioni dell’emitorace corrispondente visibili all’esame obiettivo del malato. Già si è detto dell’aspetto radiologico della disseminazione miliare a livello polmonare; giova ricordare che essa è più frequente, nel caso della malattia tubercolare, nelle regioni apicali. Due casi particolari, anche se di raro riscontro, di lesioni radiologiche tubercolari sono infine rappresentati dal tubercoloma (Fig. 18.7), immagine radiopaca rotondeggiante, talora di grosse dimensioni, dovuta alla confluenza di più noduli o al mancato drenaggio di una caverna ripiena di materiale caseoso, e dall’infiltrato fugace che si evidenzia come addensamento sfumato, prevalentemente interstiziale, e può decorrere in presenza di eosinofilia ematica. A. Esami di laboratorio. La fase postprimaria della malattia non si accompagna ad alterazioni ematochimiche caratteristiche: durante i periodi di attività è comunque generalmente presente un modesto incremento degli indici di flogosi (VES, 2-globuline, ecc.), eventualmente associato ad una leucocitosi neutrofila di lieve entità. È stato in passato enfatizzato l’incremento percentuale dei monociti nel sangue periferico, fino all’inversione del normale rapporto tra linfociti e monociti. Fondamentale diviene il tentativo di isolare il bacillo tubercolare dalle lesioni sospette o, più comunemente, dai liquidi biologici provenienti da sedi infette (espettorato, liquido pleurico, urine o aspirato gastrico in soggetti che deglutiscono il materiale di provenienza bronchiale).
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A.
B.
C.
D.
Figura 18.6 - Vari aspetti di tubercolosi polmonare alla TC del torace: (A) tubercolosi miliare, (B) tubercolosi a diffusione broncogena con noduli acinari confluenti a distribuzione centrolobulare, (C) infiltrati peribronchiali, (D) addensamento lobare con multipli noduli acidari nell’altro lobo, indicanti una diffusione broncogena. (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003.)
za di lesioni “aperte”, cioè in comunicazione con l’albero bronchiale o con altri canali naturali, e quindi l’eventuale negatività delle prove batteriologiche dianzi esposte non esclude affatto che il paziente sia portatore di una malattia tubercolare in fase attiva.
Figura 18.7 - Aspetto alla TC del torace di tubercoloma. Si noti la zona centrale del nodulo calcificata. (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003.)
È bene ricordare che la semplice identificazione batterioscopica di bacilli acido-alcool resistenti non è di per sé sufficiente a porre diagnosi di TBC in fase attiva, in quanto esistono batteri saprofiti che condividono le caratteristiche batteriologiche e tintoriali del BK. Si rendono perciò necessarie prove colturali (su terreni appositi) o biologiche (oggi pressoché abbandonate) mediante inoculazione in animali di laboratorio (cavia, coniglio, topo o hamster) del materiale sospetto. L’effettuazione di tali indagini richiede però diverse settimane, un periodo talvolta eccessivo per consentire l’inizio di una terapia efficace e tempestiva. Esistono, però, tecniche di biologia molecolare, basate sull’amplificazione di materiale genetico del Mycobacterium tuberculosis, che consentono una diagnosi rapida con elevata sensibilità. Va inoltre ricordato che il bacillo tubercolare può essere espulso all’esterno solo in presen-
B. Diagnosi. La diagnosi di TBC postprimaria può non essere agevole, data la povertà e l’estrema aspecificità della sintomatologia; l’eventualità di una malattia tubercolare dovrebbe perciò essere considerata in tutti i casi di alterazioni febbricolari datanti da alcune settimane e caratterizzate da estrema astenia e dimagramento. Altre condizioni cliniche possono tuttavia decorrere con tale sintomatologia: tra queste l’ipertiroidismo ed alcune malattie infettive croniche (per es., la brucellosi cronica) o neoplastiche. Uno stato febbricolare può inoltre caratterizzare alcune situazioni nevrotiche (atteggiamenti neurodistonici), soprattutto in donne in giovane età. Il riscontro delle alterazioni radiologiche a livello toracico descritte in precedenza può essere di grande aiuto per giungere alla diagnosi corretta; tali alterazioni, particolarmente in soggetti anziani, pongono tuttavia problemi diagnostico-differenziali con le neoplasie broncopolmonari. Nei soggetti anziani o immunodepressi e negli immigrati asiatici con malattia criptica disseminata, la diagnosi viene spesso omessa poiché non viene presa in considerazione. Oltre alla sintomatologia descritta, possono comparire anomalie della crasi ematica, quali anemia, leucopenia o piastrinopenia, dovute ad ipersplenismo o ad interessamento midollare. Sono inoltre talora rilevabili alterazioni ematochimiche, quali iponatriemia dovuta ad inappropriata secrezione di ormone antidiuretico. L’intradermoreazione tubercolinica rappresenta una ulteriore e fondamentale indagine, che testimonia la sensibilizzazione del sistema immunitario nei confronti del BK e che in talune circostanze può rivestire un’importanza diagnostica decisiva. La prova era in passato
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eseguita utilizzando la vecchia tubercolina di Koch, ottenuta per esposizione al calore e successiva filtrazione di micobatteri tubercolari. Oggi si preferisce impiegare un derivato proteico purificato (Purified Protein Derivative: PPD) del bacillo tubercolare, dotato di elevato potere cutireattivo e privo di effetti non specifici. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito di assumere come Unità Tubercolinica (UT) la quantità di 0,2 g di PPD (pari a 10 g di vecchia tubercolina). Generalmente vengono iniettati per via intradermica 0,1 ml di un preparato contenente 50 UT/g/ml, pari dunque a 5 UT (preparazione “a forza intermedia”). Significato analogo possiede il “test-tine”, costituito da quattro punte metalliche montate su un supporto di plastica ed imbevute in una soluzione di PPD e poi essiccata, pari a 5 UT. Questo tipo di reazione, per la sua praticità, si presta meglio alle rilevazioni di massa. È importante sottolineare che la quantità standard di PPD utilizzata nella ID-reazione dovrebbe essere ridotta (a 1 UT o meno) quando si sospetti una malattia tubercolare in fase attiva, onde evitare reazioni troppo intense, fino alla formazione di escare nella sede di iniezione o nei linfonodi satelliti; in caso di risposta negativa alle dosi ordinarie, queste possono essere anche considerevolmente aumentate. La reazione all’iniezione intradermica del preparato (definita intradermoreazione alla Mantoux ed eseguita correntemente sulla faccia volare dell’avambraccio) consiste nella comparsa locale, 24-72 ore dopo la somministrazione, di un eritema cutaneo associato ad un indurimento palpabile. A scopo diagnostico devono essere considerate le dimensioni dell’indurimento, mentre quelle dell’eritema sono espressione di reattività non specifica. La reazione è considerata negativa quando l’indurimento ha diametro inferiore ai 5 mm, dubbia per diametro compreso tra 5 e 10 mm e positiva quando esso supera i 10 mm (Fig. 18.8). È importante segnalare che la positività della ID-reazione alla PPD non significa malattia in atto, ma unicamente l’avvenuta sensibilizzazione nei confronti del BK e possibilmente una tubercolosi latente. Solo nel caso di intense positività a basse concentrazioni di PPD e in presenza di elementi clinici e radiologici sospetti si è autorizzati a considerare possibile la diagnosi di TBC in fase attiva, diagnosi che dovrà poi essere confermata dalle indagini batteriologiche. Come già ricordato, la reattività tubercolinica può essere perduta in presenza di malattie immunodeprimenti (neoplasie, sarcoidosi, alcune virosi) o durante il trattamento con farmaci immunosoppressori; essa è inoltre caratteristicamente assente nel corso di forme miliari con estesa diffusione della malattia, espressione di debole reazione immunitaria antitubercolare. Anche nei soggetti con infezione da virus HIV la reazione alla tubercolina è molto variabile e non viene in genere raccomandata. Deve esser aggiunto che, pure in persone non immunologicamente compromesse, la reazione cutanea alla tubercolina non ha una sensibilità del 100% per diagnosticare un’infezione da M. tuberculosis. È stato dimostrato, infatti, che il 10-20% dei pazienti con una dimostrata infezione tubercolare e non
A.
B. sono
C.
Figura 18.8 - Tecnica della intradermoreazione alla tubercolina. A. Durante l’iniezione si mantiene il taglio obliquo della punta dell’ago rivolto verso l’alto per evitare una inoculazione troppo profonda. B. La lettura definitiva è dopo 72 ore. La zona infiltrata viene apprezzata con la palpazione e si segnano i suoi limiti. C. Si misura il diametro trasversale della zona infiltrata. Se è inferiore a 5 mm la reazione è considerata negativa.
immunocompromessi può risultare negativo al test tubercolinico. Un problema da considerare è che la preventiva vaccinazione con BCG può determinare una positività al test cutaneo alla tubercolina e rendere dubbio il significato di questa indagine diagnostica. Questa difficoltà non va sopravvalutata, dato che uno studio ha dimostrato che solo l’8% della persone che erano state vaccinate con BCG alla nascita erano positive alla tubercolina 15 anni dopo. Anche la reattività alla tubercolina di persone genuinamente infettate con il bacillo tubercolare può svanire con il passare degli anni. Il test eseguito in queste persone può però agire come richiamo e causare una positività a un test successivo, dando la falsa impressione di un’infezione recente. Perciò gli individui che sono
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sottoposti a questo test annualmente, come certi addetti a servizi sanitari, dovrebbero praticare la reazione in due tempi, con una seconda intradermoreazione effettuata un settimana dopo che una prima sia risultata negativa. Un avanzamento diagnostico interessante è stato lo sviluppo di un test in vitro basato sul rilasciamento di interferon- da parte di sangue intero in seguito all’aggiunta di PPD. La concordanza di questo test con la reatività cutanea alla tubercolina è assoluta. Nonostante alcune affermazioni contrarie, non sembra che questo test sfugga alle false positività dovute alla vaccinazione con BCG. Tuttavia, un perfezionamento è stato realizzato impiegando non più il PPD, ma l’antigene ESAT-6, che non è presente nel BCG, e, così modificato, il test del rilascio di interferon- da sangue intero rappresenta un sostanziale progresso. La tecnica più sicura per dimostrare un’infezione tubercolare in atto è però la dimostrazione dei bacilli tubercolari in materiali biologici ottenuti dai pazienti, principalmente dall’espettorato. A questo scopo il tradizionale esame batterioscopico su vetrino con la colorazione di Ziehl-Neelsen resta ancora molto utile, anche se è positivo solamente nel 50-80% dei casi in soggetti con infezione tubercolare documentata con esami colturali. È però accertato che gli individui con espettorato negativo all’esame batterioscopico sono meno infettanti di quelli positivi. Ciò non toglie che il 15-20% dei casi di trasmissione di tubercolosi avvenga da pazienti negativi all’indagine batterioscopica. Micobatteri atipici, particolarmente in pazienti infettati con il virus HIV, tendono a essere presenti nell’espettorato in quantità molto minori e perciò raramente sono osservati sui preparati batterioscopici. L’esame colturale, in presenza di un sospetto clinico, è perciò altamente raccomandabile, almeno nei Paesi con diffusione della tubercolosi limitata e perciò meno probabile a priori. La cultura può avvenire su mezzo solido (mezzo di Lowenstein-Jensen a base di uova o di Middlebrook a base di agar) o su mezzo liquido. Il primo ha il vantaggio di dare migliori informazioni sulla natura dei bacilli isolati, ma richiede 6 settimane o più per una crescita soddisfacente dei microrganismi, il secondo può dare positività già dopo 7-21 giorni; perciò entrambi dovrebbero essere eseguiti. Un esame colturale positivo presenta anche il vantaggio di poter valutare in vitro la sensibilità del microrganismo agli agenti terapeutici e perciò può essere opportuno anche in presenza di una positività all’esame batterioscopico. Sono anche state sviluppate tecniche di amplificazione degli acidi nucleici dei bacilli tubercolari con la PCR (Polymerase Chain Reaction, reazione a catena della polimerasi) direttamente su materiale biologico ricavato da pazienti con sospetta tubercolosi. La specificità di questi test è elevata, tra il 95 e il 98%, ma la sensibilità varia: alta – 95% – in pazienti con esame batterioscopico positivo (nei quali la loro utilità è limitata), ma solo del 48-53% nei pazienti con esame batterioscopico negativo. Questi test possono ancora essere positivi dopo un trattamento efficace, a causa della dimostrazione di residuo materiale genetico. Quindi non servono per monitorare l’efficacia della terapia.
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Infine, l’analisi del DNA dei microrganismi tubercolari può individuarne i ceppi (“fingerprinting”) ed essere utile per studiare l’epidemiologia della tubercolosi.
Terapia Non esiste una vaccinazione pienamente efficace contro la tubercolosi. La vaccinazione con il BCG (bacillo di Calmette-Guérin, un ceppo attenuato di bacillo tubercolare) ha una buona efficacia (intorno al 70%) nei bambini nel prevenire le forme più gravi di tubercolosi, come la miliare e la meningite tubercolare. I risultati sono molto più variabili negli adulti nella prevenzione della tubercolosi polmonare. La terapia della tubercolosi è basata sull’impiego di chemioterapici antitubercolari con strategie che variano a seconda che il trattamento sia impiegato nella tubercolosi attiva o nella tubercolosi latente. A. Tubercolosi attiva. Il trattamento della tubercolosi attiva è basato sull’impiego di più farmaci contemporaneamente. La terapia con un singolo farmaco non dovrebbe essere mai tentata, né un singolo farmaco dovrebbe essere aggiunto a un trattamento con più farmaci, qualora questo si rivelasse inefficace. Il rischio della acquisizione di resistenza a un singolo farmaco da parte del bacillo in corso di tubercolosi attiva, quando la replicazione dei microrganismi è sostenuta, è infatti consistente. Per i dettagli della terapia rimandiamo all’ottimo articolo di Frieden et al. del 2003) (si veda la bibliografia). Qui ne sintetizziamo i punti più importanti. I principali farmaci antitubercolari e le loro dosi negli adulti sono riportati nella tabella 18.1 Gli schemi di trattamento raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono riportati nella tabella 18.2 L’isoniazide, la rifampicina, la pirazinamide e l’etambutolo non sono teratogenici e possono essere impiegati in donne in gravidanza. Tutti possono essere responsabili di effetti tossici dei quali ricordiamo solo i più importanti: epatotossicità per isoniazide, rifampicina e pirazinamide; tossicità uditiva e renale per la streptomicina; neurite ottica per etambutolo. Nel caso che uno o più di questi farmaci debbano essere sospesi per tossicità (o che si rivelino inefficaci) è bene tenere presente che esistono farmaci di riserva dei quali diamo un semplice elenco: capreomicina, ciprofloxacina e altri fluorochinolonici, cicloserina, etionamide e protionamide, kanamicina e amicacina, acido amino-salicilico, rifabutina. B. Tubercolosi latente. Si considerano affetti da tubercolosi latente quei soggetti che non hanno alcun segno clinico di tubercolosi attiva, ma che sono positivi all’intradermoreazione alla tubercolina o al test di rilasciamento di interferon- in vitro su sangue intero. Questi individui possono essere considerati a rischio di sviluppare una tubercolosi attiva, ma questo rischio è molto differente da un caso all’altro. Esistono perciò due problemi: chi, tra persone che stanno clinicamente bene, de-
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18 - INFEZIONI SISTEMICHE A PREVALENTE LOCALIZZAZIONE POLMONARE
Tabella 18.1 - Principali farmaci antitubercolari e loro dosi negli adulti. FARMACI Isoniazide (H) Rifampicina (R) Pirazinamide (Z)
Etambutolo (E) Streptomicina (S)
DOSE QUOTIDIANA
DOSE 3 VOLTE ALLA SETTIMANA
5 mg/kg (Mx 300) 600 mg (Mx 600) 1,5 g (per peso < 50 kg) 2,0 g (per peso 50-74 kg) 2,5 g (per peso > 75 kg) 15-25 mg/kg (Mx 2,5 g) 15 mg/kg (Mx 1 g)
10 mg/kg (Mx 900) 600 mg (Mx 600) 2,0 g (per peso < 50 kg) 2,5 g (per peso 50-74 kg) 3,0 g (per peso > 75 kg) 30 mg/kg 15 mg/kg (Mx 1 g)
Mx = dose massima
Tabella 18.2 - Schemi di trattamento antitubercolare raccomandati dall’OMS. CONDIZIONE CLINICA
FASE INIZIALE
FASE DI PROSECUZIONE
Casi nuovi
HRZE oppure HRZS per 2 mesi (1) (quot. o 3 v/sett.)
HR per 4 mesi (quot. o 3 v/sett.) HE per 6 mesi (quot.)
Casi già trattati (2)
HRZES per 2 mesi e HRZE per 1 mese (quot. o 3 v/sett.)
HRE per 5 mesi (quot. o 3 v/sett.)
Le lettere maiuscole dell’alfabeto indicano i farmaci come riportato nella tabella 18.1. (quot. = quotidianamente; 3 v/sett. = tre volte alla settimana). (1) L’alternativa con streptomicina (S) in luogo dell’etambutolo (E) è raccomandabile nei casi gravi di tubercolosi polmonare ed extrapolmonare (soprattutto se associati a grave infezione da HIV) oppure nei casi di tubercolosi polmonare anche meno gravi, ma batterioscopicamente positivi. (2) Recidiva o interruzione di terapia.
ve essere sottoposto a un test cutaneo alla tubercolina (o, se possibile, al test in vitro dell’interferon-) e chi, una volta trovato positivo, deve essere trattato con farmaci. La risposta alla prima domanda è che debbono essere sottoposte a questa valutazione le persone che hanno buone probabilità di essere state infettate recentemente e quelle che hanno condizioni di vita che comportano un rischio aumentato di contrarre l’infezione con il bacillo della tubercolosi. Hanno buone probabilità di essere stati infettati recentemente i soggetti che hanno avuto contatti stretti con persone che sono affette da una tubercolosi attiva o lavoratori di area sanitaria che prestano servizio in strutture dove vengono trattati pazienti affetti da tubercolosi. Hanno condizioni di vita che comportano un rischio aumentato le persone di recente immigrate da aree economicamente disagiate e comunque tutti coloro che sono senza casa o che vivono in situazioni precarie. Per quanto riguarda chi sottoporre a trattamento, la decisione dipende dal grado di positività della reazione cutanea alla tubercolina, come indicato nella tabella 18.3, ricavata da Jasmer et al., 2002 (si veda la bibliografia). Per quanto riguarda il tipo di trattamento, questo è molto più semplice che nella tubercolosi attiva ed è per lo più basato sulla somministrazione di isoniazide come monoterapia (negli adulti, 300 mg al giorno), per 6-9 mesi. Come alternativa si può impiegare la rifampicina (negli adulti, 600 mg al giorno) per 4 mesi. Nei soggetti adulti per i quali non si può contare su una sufficiente affidabilità nell’eseguire terapie prolungate si può adottare un trattamento con due farmaci: rifampicina
Tabella 18.3 - Positività della cutireazione tubercolinica che indica la necessità di trattamento in caso di tubercolosi latente. (Da R.M. Jasmer et al., 2003.) DIAMETRO DELL’INFILTRATO > 5 mm
> 10 mm
SOGGETTI – Persone infettate con il virus HIV – Contatti stretti con ammalati di tubercolosi possibilmente infettante – Persone con una radiografia del torace indicativa di una pregressa tubercolosi – Pazienti immunosoppressi che ricevono una dose equivalente di prednisone > 15 mg/dì per almeno 1 mese – Immigrati recentemente arrivati (< 5 anni) da Paesi con alta prevalenza di tubercolosi – Persone con condizioni mediche che aumentano il rischio di tubercolosi (diabete, malnutrizione, silicosi, insufficienza renale, gastrectomia, neoplasie, ecc.) – Persone senza casa o viventi in condizioni disagiate – Lavoratori di area sanitaria – Bambini di età inferiore a 4 anni – Consumatori abituali di droghe iniettabili – Persone che hanno acquisito recentemente (entro 2 anni) una positività tubercolinica > 10 mm (conversione alla positività)
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
(300 mg al giorno) e pirazinamide (2 g al giorno) per due mesi. Questo trattamento non è raccomandato per le donne gravide e per i bambini.
MICOBATTERIOSI M. tuberculosis complex e M. leprae sono le due specie micobatteriche che più frequentemente causano malattia nell’uomo. Tuttavia, molte altre specie sono state isolate negli ultimi cento anni, le quali, pur normalmente presenti nell’ambiente, solo di rado sono patogene per l’uomo (Tab. 18.4). Per la maggior parte, infatti, esse sono specie opportunistiche, che acquistano potere patogeno in presenza di una grave compromissione delle difese immunitarie dell’ospite. A causa dello sviluppo della sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS), l’incidenza delle micobatteriosi è andata progressivamente aumentando negli ultimi anni, e questa condizione morbosa dovrebbe essere seriamente presa in considerazione di fronte ad un paziente immunodepresso con febbre di lunga durata. Dal punto di vista terminologico, poiché la definizione “tubercolosi” è di tipo istopatologico, non sarebbe scorretto definire in tal modo le infezioni causate da micobatteri diversi da M. tuberculosis complex, in quanto essi provocano lesioni istologicamente indistinguibili da quelle causate dal più diffuso micobatterio patogeno. Tuttavia, per maggiore chiarezza, si preferisce definire come “atipiche” le micobatteriosi che sono oggetto di questa trattazione. A. Epidemiologia e patogenesi. Sfortunatamente, sia l’epidemiologia che la patogenesi delle micobatteriosi sono a tutt’oggi poco note, ma è presumibile che il contatto con questi germi sia pressoché universale e che il loro ingresso per via transcutanea, inalatoria o gastroenterica decorra per lo più in modo asintomatico. La via di diffusione gastrointestinale sembra particolarmente comune nei soggetti affetti da AIDS, almeno nelle casistiche statunitensi, ove l’isolamento nelle feci di alcune specie di micobatteri, come M. avium complex, è di assai comune riscontro. Tabella 18.4 - Virulenza delle specie micobatteriche nell’uomo. SPECIE • • • • • • • • • • •
M. tuberculosis complex M. avium complex M. kansasii M. marinum M. szulgai M. simiae M. xenopi M. fortuitum complex M. gordonae M. terrae Molte altre
VIRULENZA ++++ +++ +++ +++ +++ ++ ++ + – – –
Istopatologicamente, le lesioni da micobatteri atipici sono molto simili a quelle causate da M. tuberculosis e solo l’isolamento colturale di una delle varie specie può essere di utilità diagnostica. È bene ricordare che talvolta, in pazienti con grave compromissione delle difese immunitarie, il quadro istopatologico può assumere caratteristiche inusuali. B. Clinica. In una minoranza di casi l’infenzione da micobatteri atipici, contratta per via inalatoria, digestiva o cutanea, si traduce in una serie di manifestazioni cliniche, in genere ad esordio insidioso, che comprendono l’interessamento polmonare (più comune), linfonodale, cutaneo e, più di rado, renale o genitale. Queste malattie colpiscono più spesso soggetti con preesistenti affezioni respiratorie croniche (bronchite cronica, pneumoconiosi, ecc.) e, a livello polmonare, tendono a produrre lesioni infiltrativo-nodulari con tendenza precoce alla cronicizzazione e all’evoluzione fibrosclerotica. L’interessamento linfonodale è invece più comune nei bambini e le sedi preferenziali sono quella latero-cervicale e sottomandibolare (si ritiene, in questi casi, che il germe penetri dalla mucosa del cavo orale). Vanno infine considerati l’interessamento cutaneo e quello oculare, talora causati da bagni in piscina (M. marinum). La diagnosi di micobatteriosi può essere molto difficoltosa a causa delle particolari caratteristiche batteriologiche degli agenti causali. C. Cenni di terapia. Malgrado questi germi possano dimostrarsi resistenti in vitro ai comuni farmaci antitubercolari, le infezioni da micobatteri atipici si giovano in genere di trattamenti combinati con i classici farmaci impiegati nella terapia antitubercolare, quali la rifampicina, l’isoniazide e l’etambutolo. Purtroppo, le infezioni polmonari da M. avium complex, frequenti in pazienti affetti da AIDS, sono in genere resistenti a tali trattamenti, ed è auspicabile che farmaci attualmente in fase sperimentale nell’uomo, come la rifabutina, che sembrano dotati di qualche efficacia, saranno disponibili nel prossimo futuro.
ACTINOMICOSI L’actinomicosi è una malattia cronica causata da microrganismi della famiglia delle Actinomycetaceae, la cui specie patogena più diffusa è rappresentata dall’Actinomyces israelii. Gli actinomiceti sono microrganismi filamentosi anaerobi, che colonizzano abitualmente la cavità orale ed occasionalmente si rendono responsabili di un’infezione clinicamente rilevabile. L’actinomicosi può localizzarsi a livello cervico-facciale, addominale o toracico. Solo quest’ultima condizione verrà trattata in questa sede. A. Epidemiologia e patogenesi. L’actinomicosi è endemica in tutto il mondo e colpisce individui di ambo i sessi in ogni età. Tipicamente, la malattia si svi-
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18 - INFEZIONI SISTEMICHE A PREVALENTE LOCALIZZAZIONE POLMONARE
luppa in soggetti affetti da carie dentarie o disturbi periodontali, condizioni in cui il numero di questi microrganismi può aumentare notevolmente, in seguito ad aspirazione di materiale infetto. A livello tissutale, il microrganismo si sviluppa in colonie che possono raggiungere alcuni millimetri di diametro e che danno luogo ad una intensa reazione infiammatoria, con partecipazione di granulociti neutrofili e macrofagi. Le lesioni hanno tendenza all’ascessualizzazione ed alla formazione di tragitti fistolosi, anche se a livello polmonare la lesione può precocemente consolidarsi senza dar luogo alla formazione di ascessi. In un secondo tempo si ha la comparsa in sede di lesione di fibroblasti, con deposizione di uno spesso vallo di tessuto fibroso. A differenza della lesione tubercolare, tuttavia, la formazione di un granuloma organizzato è in questo caso estremamente rara, così come il riscontro di cellule giganti. A causa della tendenza alla formazione di tragitti fistolosi, spesso l’actinomicosi si estende alle strutture contigue alla sede iniziale di lesione, non rispettando le normali vie anatomiche di diffusione. Lesioni actinomicotiche possono perciò apparire a livello cutaneo, sottocutaneo o scheletrico in sedi anche distanti dalla localizzazione primaria. B. Clinica. L’actinomicosi polmonare esordisce in modo subdolo ed il quadro sintomatologico è spesso molto modesto in relazione alla diffusione, sia locale che sistemica, della malattia. Il paziente presenta tosse, più spesso produttiva con escreato giallastro e inodore, accompagnata da febbricola e perdita di peso. L’esame obiettivo del torace può essere del tutto negativo se la lesione è profonda, o può mettere in evidenza ipofonesi plessica localizzata e rumori umidi all’auscultazione, qualora la lesione sia sufficientemente superficiale e in comunicazione con un bronco. Comunemente, per le ragioni espresse in precedenza, si può avere interessamento mediastinico, con empiema e pericardite, ovvero l’apertura di tragitti fistolosi, drenanti materiale purulento, a livello della parete toracica. C. Diagnosi. La radiografia del torace mette in evidenza infiltrati unici o multipli, generalmente ben circoscritti. Nella metà circa dei casi si osservano formazioni cavitarie. A causa della diffusione non limitata da barriere anatomiche, le lesioni possono coinvolgere più di un lobo, estendendosi attraverso le fessure interlobari. Il quadro radiologico, unitamente all’andamento clinico del disturbo, può porre problemi di diagnosi differenziale con altre malattie broncopolmonari croniche, come il tumore broncogeno o l’infezione tubercolare. Gli esami di laboratorio non sono in questi casi molto informativi, potendo tutt’al più evidenziare una leucocitosi con neutrofilia e, nei casi a più lungo decorso, una modesta anemia di tipo normocromico normocitico. La diagnosi batteriologica presenta difficoltà derivanti dal fatto che Actinomyces fa parte della normale flora batterica della cavità orale, per cui il suo riscontro nell’escreato è privo di significato diagnostico. La pre-
senza del microrganismo dovrebbe essere perciò ricercata in frammenti bioptici di tessuti affetti o in secrezioni normalmente sterili. Possono perciò essere utili in questi casi l’esecuzione di una biopsia transbronchiale sotto controllo broncoscopico e il successivo esame colturale sul materiale aspirato. Nei casi in cui sia presente una fistolizzazione con drenaggio all’esterno, sono raccomandabili l’esame microscopico e quello colturale delle secrezioni. D. Cenni di terapia. Actinomyces è estremamente sensibile alla penicillina, che rappresenta perciò il farmaco di scelta in questi casi. A causa dell’elevata tendenza di questa condizione morbosa alla recidiva, il trattamento dovrebbe essere protratto per alcuni mesi, con controllo periodico del quadro radiografico ed eventuale ripetizione degli esami batteriologici. Nei casi di marcato impegno mediastinico, può rendersi necessario un intervento chirurgico di drenaggio o di decompressione.
NOCARDIOSI La nocardiosi è un’infezione polmonare subacuta o cronica, causata dall’actinomicete aerobico Nocardia asteroides o, meno comunemente, da N. brasiliensis o da N. caviae. Oltre che al polmone, questa condizione può localizzarsi a livello cutaneo o sottocutaneo, mentre più raramente si può avere interessamento renale o del sistema nervoso centrale. A. Epidemiologia e patogenesi. Nocardia è abbondantemente presente nel concime naturale, ove contribuisce al decadimento della materia organica ivi contenuta, sotto forma di miceli anemofili, la cui inalazione è verosimilmente alla base dello sviluppo dell’infezione polmonare. Alternativamente, la malattia può essere contratta per inoculazione diretta, transcutanea, del microrganismo. La nocardiosi è una malattia infrequente (ne vengono diagnosticati 800-1000 nuovi casi ogni anno negli USA), ma la sua incidenza è in aumento, poiché particolarmente suscettibili all’infezione risultano i soggetti immunodepressi, sottoposti a trattamenti farmacologici immunosoppressivi o affetti da malattie infettive o infiammatorie croniche, tra cui l’AIDS. Come nel caso dell’actinomicosi, la lesione più tipica in corso di nocardiosi è l’ascesso, con abbondante presenza di granulociti neutrofili e macrofagi e spiccata tendenza alla colliquazione. B. Clinica e diagnosi. L’insorgenza della malattia è subdola, con tosse scarsamente produttiva, malessere generale, anoressia e febbre di grado moderato. Non di rado si possono avere periodi di remissione alternati a riesacerbazioni della durata di giorni o settimane. L’esame radiografico del torace evidenzia infiltrati di tipo nodulare, frequentemente con escavazioni centrali, mentre un empiema mediastinico può manifestarsi in
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un terzo circa dei casi. Anche in questo caso, come per l’actinomicosi, la diagnosi differenziale si pone con neoplasie broncopolmonari o tubercolosi. L’esame batteriologico dell’escreato può in questi casi risultare diagnostico, poiché la colonizzazione delle vie aeree da parte dei microrganismi, in assenza di malattia conclamata, è estremamente infrequente.
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
C. Cenni di terapia. I farmaci di scelta sono in questo caso le sulfonamidi, che andrebbero somministrate per periodi prolungati, onde ridurre il rischio di recidive. Nei casi in cui la malattia si sviluppa in pazienti sottoposti a terapie immunosoppressive, può essere indicata la riduzione dei dosaggi di tali farmaci.
C A P I T O L O
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MALATTIE INFIAMMATORIE POLMONARI NON INFETTIVE R. PARDI
Le malattie infiammatorie polmonari non infettive costituiscono un gruppo estremamente eterogeneo di condizioni morbose, alcune ad esclusivo interessamento polmonare, altre in cui il polmone è solo uno dei parenchimi colpiti. Esse verranno considerate in un unico capitolo a causa degli aspetti patogenetici e fisiopatologici in gran parte comuni alle varie condizioni. Verrà peraltro mantenuta una distinzione tra il vasto gruppo delle pneumopatie diffuse interstiziali (PDI) ed altre malattie in cui l’interessamento polmonare è più spesso rappresentato da infiltrati circoscritti, unici o, più spesso, multipli.
PNEUMOPATIE DIFFUSE INTERSTIZIALI È questo un gruppo di malattie in cui le strutture maggiormente colpite sono quelle alveolari e dell’interstizio polmonare, il quale, come osservato in precedenza (Cap. 14), comprende cellule epiteliali ed endoteliali oltre a strutture di derivazione mesenchimale. La grande maggioranza di queste condizioni morbose si sviluppa nell’arco di lunghi periodi di tempo (mesi o anni) poiché, se è vero che i singoli fattori eziologici possono causare disturbi ad insorgenza acuta, solo in seguito ad esposizioni protratte all’agente nocivo si determina il processo di fibrosi polmonare diffusa che accomuna queste malattie. A. Aspetti patogenetici. L’opinione corrente sulle modalità di insorgenza delle PDI è che esse seguano meccanismi patogenetici in gran parte comuni, indipendentemente dall’agente eziologico responsabile. Pressoché tutte le malattie interstiziali del polmone sembrano originare con una alveolite, cioè con un accumulo di cellule infiammatorie e/o linfociti entro gli spazi alveolari ed il piccolo interstizio. È dall’interazione tra un agente lesivo e queste cellule che origina la complessa serie di eventi biochimici e metabolici che culminerà
nella deposizione a questo livello di tessuto fibroso. Tra le molte interazioni sperimentalmente osservate tra agenti fibrogenici e cellule infiammatorie, alcune meritano particolare attenzione; sulla base del meccanismo patogenetico di partenza si riconoscono modalità immunologiche e non immunologiche di reazione ad un agente fibrogenico. 1. Interazioni non immunologiche. Interazione diretta tra agente fibrogenico e fibroblastico (Fig. 19.1). Una varietà di sostanze (per es., le fibre di asbesto) sono in grado di determinare alterazioni morfologiche e biochimiche dei fibroblasti, sconvolgendone in senso qualitativo e quantitativo alcune delle proprietà funzionali, quali la sintesi del collagene, la motilità o la capacità di fagocitare e degradare a livello intracellulare la matrice neosintetizzata. Interazione indiretta, mediata dal macrofago, dell’agente fibrogenico con il fibroblasto (Fig. 19.2). È questo il caso di alcune pneumoconiosi, come quelle prodotte dall’inalazione di particelle di silice: le cellule macrofagiche, danneggiate dalla fagocitosi dell’agente lesivo, muoiono liberando nel mezzo enzimi lisosomiali che distruggono altri macrofagi e in tal modo perpetuano il processo; si ha inoltre la liberazione di fattori solubili in grado di stimolare la proliferazione di fibroblasti e la Agente fibrogenico Alterazioni morfologiche e biochimiche F Proliferazione, sintesi di nuovo collagene Fibrosi
Figura 19.1 - Meccanismi patogenetici delle PDI: interazione diretta tra agente fibrogenico e fibroblasto. F = fibroblasto.
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Agente fibrogenico Fagocitosi e citolisi
M
fibroblasti, o, ancora, in alterazioni nella distribuzione e nei rapporti delle cellule parenchimali. In questo contesto è facile immaginare l’effetto devastante di una alveolite, diffusa e persistente, sulla struttura e sulla funzione del parenchima polmonare. Le figure da 19.1 a 19.4 rappresentano in modo schematico i principali meccanismi patogenetici che, indipendentemente dall’agente eziologico, possono contribuire allo sviluppo del processo alveolitico e, in ultima analisi, alla deposizione di tessuto fibroso a livello interstiziale.
Fattori stimolanti
F Proliferazione, sintesi di nuovo collagene Fibrosi
Figura 19.2 - Meccanismi patogenetici delle PDI: interazione indiretta, mediata dai macrofagi alveolari, tra agente fibrogenico e fibroblasto. M = macrofago; F = fibroblasto.
sintesi di nuovo collagene. Questa modalità di sviluppo della fibrosi, definita “teoria dei due stadi” (agente lesivo → macrofago → fibroblasto) ha trovato ampie conferme sperimentali per una grande varietà di PDI. 2. Interazioni immunologiche. Interazione indiretta, mediata da linfociti, dell’agente fibrogenico con il fibroblasto (Fig. 19.3). I linfociti probabilmente svolgono un ruolo essenziale nello sviluppo di lesioni granulomatose, in quanto la stimolazione antigenica da parte dell’agente responsabile può in alcuni casi dare origine a produzione di linfochine in grado di indurre la produzione di collagene da parte dei fibroblasti; tale processo può attuarsi direttamente o indirettamente, mediante il rilascio di fattori stimolanti la proliferazione fibroblastica da parte dei macrofagi alveolari. Interazione, complemento-mediata, dell’agente fibrogenico con granulociti neutrofili (PMN) (Fig. 19.4). Nei casi in cui l’agente lesivo possiede caratteristiche di antigene ed è in grado di mediare l’attivazione della cascata del complemento, si osserva una massiva migrazione di polimorfonucleati neutrofili nella sede del processo. La lisi di queste cellule esita nella liberazione di enzimi proteolitici (elastasi e collagenasi). Qualora si abbia un’insufficiente azione protettiva da parte delle antiproteasi endogene (1-antitripsina), si osserva la comparsa di lesioni parenchimali che possono essere prevalentemente distruttive (come nell’enfisema) o consistere invece in una abnorme rigenerazione connettivale (come nella fibrosi polmonare idiopatica). Le conseguenze di questa complessa rete di interazioni tra cellule infiammatorie e agente fibrogenico sono desumibili dallo studio istopatologico dei tessuti affetti; esse possono consistere in fenomeni di citotossicità o di proliferazione di specifici tipi cellulari, come appunto i
B. Aspetti fisiopatologici. Nel corso della sua evoluzione, una PDI determina una menomazione progressiva e spesso irreversibile della funzione respiratoria: le proprietà meccaniche e di elasticità dell’organo vengono precocemente alterate dalla deposizione di tessuto fibroso, cosicché i polmoni risultano rigidi, meno distensibili: si ha cioè una costante riduzione della compliance polmonare statica. Alte pressioni transpolmonari sono necessarie per produrre modesti incrementi del volume polmonare, come risulta dall’analisi della curva pressione-volume: le cause di tale fenomeno sono molteplici, comprendendo, oltre all’aumento della componente fibrosa-anelastica a livello interstiziale, anche una variabile riduzione della componente elastica e, inoltre, alterazioni qualitative e quantitative nella produzione del surfattante alveolare dovute al danneggiamento o alla desquamazione delle cellule produttrici, gli pneumociti di II ordine o “granulari”; la conseguenza di questo processo è la formazione di zone microatelettasiche, che contribuiscono a ridurre ulteriormente le
Agente fibrogenico Stimolazione antigenica
L
Linfochine
M
Fattori stimolanti
Fattori stimolanti
F Proliferazione Fibrosi
Figura 19.3 - Meccanismi patogenetici delle PDI: interazione mediata dai linfociti dell’agente fibrogenico con macrofagi alveolari e fibroblasti. L = linfocita; M = macrofago; F = fibroblasto.
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19 - MALATTIE INFIAMMATORIE POLMONARI NON INFETTIVE
Agente fibrogenico + Anticorpi
Complessi immuni
Attivazione del complemento
PMN M
Alterazioni morfologiche e funzionali
Fattori stimolanti F
Fibrosi
Figura 19.4 - Meccanismi patogenetici delle PDI: interazione complemento-mediata dell’agente fibrogenico con polimorfonucleati neutrofili (PMN) e fibroblasti (F). M = macrofagi.
caratteristiche di distensibilità del parenchima polmonare. A causa del globale irrigidimento del polmone fibrotico, il costo meccanico ed energetico della respirazione diviene elevato, rendendo necessario il mantenimento di elevate frequenze respiratorie con basso volume corrente, in grado di limitare al minimo le escursioni della gabbia toracica; il respiro superficiale e frequente è infatti, come vedremo, una delle caratteristiche cliniche più evidenti nel paziente affetto da PDI. Oltre alle proprietà meccaniche, anche quelle strettamente ventilatorie sono compromesse in modo caratteristico nella PDI conclamata. Si configura quindi il quadro della “sindrome disventilatoria restrittiva”, che nella sua accezione classica rappresenta l’equivalente, in termini funzionali, della fibrosi polmonare. Si assiste così ad una “armonica” riduzione dei volumi polmonari (CPT, CV, VR), mentre le resistenze delle vie aeree risultano inalterate, almeno nelle fasi iniziali della malattia. Anche il VEMS è diminuito in assoluto rispetto alla norma, ma non in rapporto alla globale riduzione della capacità polmonare, avendosi così la conservazione di un normale indice di Tiffeneau VEMS CV
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Questo fondamentale aspetto della sindrome restrittiva è ben valutabile osservando il profilo della curva flusso-volume: il flusso espiratorio massimo risulta ridotto, se paragonato ai valori assoluti, ma normale o addirittura aumentato in rapporto ai volumi polmonari propri di questa particolare condizione morbosa. È importante sottolineare che nelle fasi più avanzate della malattia la deposizione di tessuto fibroso e più in generale il sovvertimento strutturale dell’organo interessano anche il connettivo peribronchiolare, determinando stiramento e ostruzione delle più fini diramazioni bronchiali: alla primitiva e fondamentale componente restrittiva si viene così ad aggiungere una variabile quota di ostruzione, configurando in tal modo quadri disventilatori di tipo “misto”, restrittivi e ostruttivi. Vanno infine considerate le alterazioni degli scambi gassosi conseguenti all’insorgere di una PDI, che dimostrano come questo gruppo di malattie possa esitare in un’insufficienza respiratoria conclamata. Tra i meccanismi in grado di causare un’insufficienza respiratoria, quelli prevalenti nella PDI sono il cosiddetto blocco alveolo-capillare e la disomogeneità del rapporto ventilazione/perfusione. È dall’esame di questi due meccanismi patogenetici che si possono comprendere le cause della caratteristica alterazione del quadro emogasanalitico proprio della PDI, almeno nella sua fase iniziale, caratterizzata da un variabile grado di ipossiemia associato a valori di pressione arteriosa di CO2 normali o ridotti, in presenza di un pH arterioso pressoché normale. È facilmente intuibile come la deposizione di tessuto fibroso a livello dell’interstizio alveolare possa alterare la cinetica della diffusione dei gas attraverso la membrana alveolare, anche se va precisato che questa evenienza è propria delle fasi molto avanzate di un processo di fibrosi polmonare diffusa: la conseguenza di ciò è una riduzione dei valori di PO2 e un aumento del gradiente alveolo-arterioso di O2. Come è noto, questi squilibri della pressione parziale dei gas ematici sono in grado di provocare una stimolazione riflessa dei centri respiratori a partenza dai recettori vasosensibili aortici e carotidei con conseguente aumento della ventilazione; tale meccanismo di compenso è efficace nel ripristinare la normale tensione di CO2 nel sangue arterioso, in ragione della maggiore diffusibilità di questo gas (circa 20 volte superiore a quella dell’O2) e della particolare curva di dissociazione dell’emoglobina per questo gas; in alcuni casi è anzi osservabile un certo grado di ipocapnia. Tuttavia, tale meccanismo di compenso non consente di eliminare la presenza di una variabile ipossiemia, soprattutto a causa della contemporanea esistenza di disomogeneità del rapporto ventilazione/perfusione. Le alterazioni del rapporto ventilazione/perfusione sono ampiamente giustificate dal notevole sovvertimento strutturale sia a carico delle strutture alveolari sia, nelle fasi più avanzate della PDI, del letto vascolare polmonare. A questo si aggiunga che un processo di fibrosi interstiziale, per quanto diffuso a tutto il polmone, produce ispessimento della membrana alveolo-capillare con differente intensità da una regione all’altra dell’organo, in-
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troducendo un ulteriore sovvertimento del normale rapporto ventilazione/perfusione. Anche in questo caso, le unità ventilatorie conservate sono in grado di promuovere un efficace “lavaggio alveolare” della CO2 accumulata, ma non altrettanto di riportare a valori normali la pressione parziale di O2 nel sangue arterioso. Ciò può essere meglio compreso osservando la morfologia della curva di dissociazione dell’emoglobina per l’ossigeno. Le regioni iperventilate, con elevata PO2, si trovano in un punto della curva in cui l’emoglobina è già pressoché totalmente satura di O2: aumenti anche cospicui della PO2 in questi distretti non producono un significativo incremento della saturazione ossiemoglobinica. C. Clinica. Nella maggioranza dei casi le PDI presentano modalità di insorgenza e di decorso clinico in parte sovrapponibili, indipendentemente dall’agente eziologico responsabile, particolarmente a causa dei lunghi periodi di tempo necessari perché la malattia si manifesti appieno. Deve essere inoltre precisato che non esistono manifestazioni cliniche patognomoniche di PDI, per cui l’approccio diagnostico dovrà in molti casi valersi essenzialmente dei dati anamnestici e strumentali disponibili. Una delle più precoci e costanti manifestazioni cliniche che caratterizzano l’esordio di una PDI è la dispnea, inizialmente da sforzo, quindi presente anche a riposo. Il paziente presenta inoltre una costante e caratteristica tachipnea (respiro superficiale e frequente) che, come abbiamo visto, è finalistica per limitare il più possibile il lavoro respiratorio conseguente alla perdita di elasticità del parenchima polmonare. Le cause dell’aumento della frequenza degli atti respiratori vanno ricercate, oltre che nei motivi citati in precedenza, anche nella stimolazione dei recettori da stiramento siti a livello iuxtabronchiale e iuxtacapillare (recettori J), che è molto maggiore in un polmone fibrotico, sottoposto a notevoli forze di trazione, ed esita in un’esasperazione del fisiologico riflesso di Hering-Breuer. Nelle fasi più progredite della malattia compare invariabilmente tosse, generalmente di tipo irritativo, cioè secca e stizzosa, per la frequente assenza di ipersecrezione bronchiale in questi pazienti. Un terzo segno clinico fondamentale, anche se caratteristico delle fasi avanzate di una PDI, è la cianosi, inizialmente presente dopo il compimento di uno sforzo e generalmente limitata alle mucose labiale ed ungueale oltre che ai pomelli delle guance. L’osservazione che la cianosi, espressione della presenza nel sangue capillare di una quota di emoglobina ridotta superiore ai 5 g/100 ml, compare prevalentemente in seguito a sforzo, è ben in accordo col fatto che l’ossigeno presenta una “riserva di diffusione”, caratterizzata dal tempo di transito del sangue attraverso il capillare alveolare: in presenza di una membrana alveolare normale, la saturazione dell’emoglobina da parte dell’O2 alveolare è completa quando il sangue ha compiuto circa un terzo del suo percorso attraverso il capillare alveolare, ma può richiedere tutto il tempo di transito disponibile in presenza di un ispessimento della membrana che ostacoli la diffusione dei gas,
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come è appunto il caso della PDI. L’accelerazione del flusso ematico che fa seguito all’esecuzione di uno sforzo può rendere insufficiente il tempo necessario per una completa saturazione ossiemoglobinica a livello alveolare in questa malattia, determinando così l’insorgenza di cianosi. Tra le manifestazioni cliniche meno frequenti e caratteristiche in corso di PDI va infine menzionata la febbre, che tuttavia non ha mai caratteri particolari: essa è capricciosa, episodica e spesso compare solo in periodi di poco successivi all’esposizione all’agente patogeno. L’esame obiettivo del malato affetto da PDI è assai poco indicativo, almeno per quanto attiene all’apparato respiratorio; l’ispezione può evidenziare una caratteristica tachipnea che si accompagna, nelle fasi più avanzate, ad una variabile riduzione delle escursioni respiratorie del torace; in presenza di aree di fibrosi sufficientemente estese e tendenti alla confluenza, è possibile ravvisare un modesto rinforzo del FVT, associato a riduzione, nelle stesse regioni, della fonesi plessica. Più utile può essere l’auscultazione del torace, che in presenza di una modesta trasudazione di fluidi a livello alveolare evidenzia dei rantoli crepitanti, in genere limitati alla fase terminale dell’inspirazione e più spesso localizzati alle basi polmonari, anche nel caso di una fibrosi diffusa a tutto il parenchima polmonare. Quando siano presenti alterazioni stenosanti dei piccoli bronchi, ai quadri sopramenzionati si aggiungono segni di broncospasmo (sibili, gemiti), generalmente localizzati ad una o più regioni del torace. D. Aspetti radiologici. L’esame radiologico del torace riveste una grande importanza nell’approccio clinico e diagnostico ad una PDI, ma va subito precisato che esso consente di formulare una precisa diagnosi eziologica solo in una minoranza dei casi, poiché molte fibrosi interstiziali presentano aspetti radiologici non specifici, quale riflesso delle modalità di interessamento del parenchima polmonare che, come abbiamo visto, sono in gran parte comuni ai vari processi. Ciò nondimeno, la radiografia del torace costituisce un insostituibile strumento nelle mani del medico per apprezzare il grado di evoluzione di una malattia interstiziale del polmone, in quanto la progressione spesso inarrestabile, ancorché lenta, di questi processi patologici, si associa a particolari quadri radiologici; schematicamente l’evoluzione di una PDI riconosce quattro quadri radiologici fondamentali, anche se è doveroso precisare che tali malattie possono essere a lungo silenti da un punto di vista radiologico e, inoltre, che può esistere una notevole sovrapposizione tra i vari quadri sotto elencati. • Quadro a vetro smerigliato: questo quadro, del tutto aspecifico, corrisponde ad una ridotta trasparenza dei campi polmonari ed è in genere più evidente alle basi (anche per il maggior spessore del parenchima a questo livello). • Quadro nodulare: le opacità nodulari, estremamente variabili per dimensioni (da < 1,5 a > 10 mm) sono in genere ben distinte le une dalle altre, potendo an-
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che in questo caso essere diffuse o prevalentemente localizzate ad un’area del parenchima. • Quadro reticolare: questo aspetto, caratterizzato dalla presenza di linee radiopache tra loro intrecciate a delimitare areole ipertrasparenti, è di difficile interpretazione, non essendo, nei quadri meno conclamati, facilmente distinguibile dalla normalità, in particolare nei soggetti anziani. Molto frequente è la contemporanea presenza di immagini nodulari sovrapposte al quadro appena descritto a costituire l’aspetto “reticolo-nodulare” dell’immagine radiologica. • Quadro a nido d’ape (“honey-comb lung”): questo quadro rappresenta lo stadio più avanzato di una patologia dell’interstizio polmonare, indipendentemente dall’eziologia di base; è sempre associato ad una grave menomazione funzionale dell’organo. Radiologicamente è visibile un fitto reticolo a trama spessa, che delimita areole ipertrasparenti di piccole dimensioni (< 10 mm di diametro). I quadri radiologici delle PDI sono atti ad indicare il grado di danno ormai stabile più che l’attività del processo metabolico. Questo infatti non ha una propria espressione radiologica. Lo stesso tipo di informazione si può ottenere dalla valutazione del danno funzionale respiratorio (riduzione dei volumi polmonari e della compliance, diminuzione della diffusione di CO, aumento del gradiente alveolo-arterioso di O2). La diagnosi di alveolite ed una valutazione della sua intensità possono invece essere fornite da due altri tipi di indagine: la prima è basata sull’entità della captazione del radiogallio; l’altra deriva dallo studio citomorfologico del liquido di lavaggio broncoalveolare, che potrà evidenziare un aumento patologico della percentuale di linfociti o di polimorfonucleati neutrofili. Sullo stesso liquido è importante la valutazione delle concentrazioni degli enzimi collagenasi ed elastasi. E. Cenni di terapia. È bene precisare che la terapia farmacologica di queste condizioni morbose può incidere sulla fase iniziale, alveolitica, ma non ha alcun effetto sulla malattia stabilizzata. La terapia si basa sull’impiego dei corticosteroidi, per il loro elevato potere antinfiammatorio e per la loro possibile interferenza nei meccanismi patogenetici, in particolare di tipo immunologico, del processo. Nelle forme resistenti alla corticoterapia, secondo alcuni può essere efficace l’impiego di farmaci immunosoppressori, che limitano l’intensità dei processi immunologici cellulo-mediati (azatioprina, metotrexate, ciclofosfamide). La tabella 19.1 illustra una classificazione delle malattie infiammatorie polmonari non infettive operata sulla base dei meccanismi eziopatogenetici.
Pneumopatie interstiziali da agenti irritanti Come già ricordato in precedenza, l’apparato respiratorio rappresenta un’estesissima area a diretto contatto con l’ambiente esterno e con i suoi contaminanti di natura fisica, chimica o biologica.
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La presenza dei sistemi di depurazione meccanica delle vie aeree esposti in precedenza limita in misura considerevole il rischio di malattie da inalazione di sostanze dannose; queste si possono sviluppare quando le particelle inalate hanno un diametro compreso tra 1 e 5 m, tale da consentirne la penetrazione fino al distretto alveolare ed interstiziale. Anche in questo caso, però, il compartimento macrofagico alveolare è in genere efficace nel compiere una rapida eliminazione dell’agente introdotto, a meno che questo non sia citotossico, ovvero inalato in quantità eccessiva rispetto alla capacità di depurazione delle cellule macrofagiche. Esistono infine condizioni particolari in cui l’individuo esposto sviluppa un’ipersensibilità verso un particolare inalante che condiziona l’insorgenza della patologia respiratoria. Quasi tutte le reazioni polmonari prodotte dall’inalazione di agenti irritanti vanno considerate pneumopatie professionali, in quanto si sviluppano in soggetti esposti nell’ambiente di lavoro a sostanze tossiche. In linea generale è possibile distinguere manifestazioni polmonari acute, causate dall’esposizione massiva all’agente irritante, ed altre croniche, dovute alla prolungata inalazione di piccole quantità della sostanza. 1. Materiali gassosi. Il gas più comunemente implicato in un danno del parenchima polmonare è l’ossigeno, che viene impiegato nella pratica clinica in pazienti con insufficienza respiratoria. L’inalazione cronica di miscele ad alto contenuto di O2 (40-60%) può infatti produrre un danno interstiziale, sembra a causa di un’azione citotossica diretta del gas ad elevata concentrazione sull’epitelio alveolare. Altri gas sono raramente responsabili di danni polmonari cronici. Il potenziale lesivo di un gas dipende in larga misura dalla sua solubilità, oltre che dalla dose inalata; gas molto solubili (cloro, ammoniaca) determinano in genere un’irritazione delle prime vie aeree, cui consegue una sintomatologia acuta (tosse, broncospasmo) che provoca l’allontanamento della nube di gas. Qualora invece il gas sia scarsamente solubile (per es., anidride solforosa), esso è in grado di penetrare nelle vie aeree inferiori, dove può determinare una cronica irritazione e, in ultima analisi, una fibrosi interstiziale. Un caso particolare di pneumopatia professionale da cronica inalazione di gas è quello dei riempitori di silos, esposti cronicamente al biossido di azoto che si forma durante la fermentazione dei foraggi ivi contenuti. Il danno interstiziale conseguente all’inalazione di un gas è raramente obiettivabile e per lo più determina alterazioni delle prove di funzionalità respiratoria (diminuita capacità di diffusione di CO, diminuita compliance polmonare); solo in seguito ad esposizioni estremamente prolungate a basse concentrazioni del gas si sono osservati casi di insufficienza respiratoria conclamata. 2. Polveri organiche. La malattia da esposizione a polveri di cotone, definita bissinosi, rappresenta un’entità clinica riconosciuta da più di duecento anni, ma ancor oggi attuale, considerando ad esempio che negli USA più di 200.000 lavoratori sono professionalmente esposti a questa sostanza. Inoltre, effetti analoghi sono
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Tabella 19.1 - Classificazione delle malattie infiammatorie polmonari non infettive. A. Pneumopatie diffuse interstiziali (PDI) • Agenti irritanti – Materiali gassosi
– – –
Polveri organiche Polveri chimiche Polveri inorganiche
–
Radiazioni ionizzanti
• Cause immunologiche – Alveoliti allergiche estrinseche
– –
Fibrosi polmonare in corso di connettiviti Reazioni da farmaci
gas: cloro, anidride solforosa, ammoniaca, biossido di azoto, ossigeno fumi: ossido di Zn, Cu, Mn, Cd, Fe, Mg, Ni, ecc. bissinosi fibre sintetiche (poliesteri, nylon, acrilici), bachelite composti silicei: biossido di silice, asbesto, talco, caolino, silicati di Fe, Al, ecc., mica carbone: polvere di carbone, grafite metalli: berillio, cadmio, alluminio, titanio, tungsteno esterne (terapeutiche) inalate (accidente nucleare) paraquat polmone del contadino (M. faeni), bagassossi (T. saccari), coltivatori di funghi (M. faeni), umidificatori (T. vulgaris), formaggi (P. casci), lavoratori del legno (C. corticae, graphium), lavoratori del malto (A. clavatus e A. fumigatus), allevatori di piccioni (materiale organico), fiutatori di postipofisi (proteine bovine e suine), lavoratori delle pellicce, lavoratori del caffè, lavoratori dei detersivi (B. subtilis) lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide, polimiosite-dermatomiosite, sclerosi sistemica, sindrome di Sjögren citostatici: busulfan, bleomicina, ciclofosfamide, metotrexate, nitrosouree, mitomicina, clorambucil, azatioprina antibiotici: nitrofurantoina, penicillina, sulfonamide altri farmaci: difenilidantoina, sali d’oro, metisergide, carbamazepina, penicillamina, -bloccanti
• Stasi linfatica – Insufficienza cardiaca congestizia – Embolie polmonari ricorrenti – Linfangite carcinomatosa • Cause sconosciute – Polmoniti interstiziali idiopatiche – Proteinosi alveolare – Istiocitosi a cellule di Langerhans (granuloma eosinofilo) – Sarcoidosi B. Forme circoscritte o a focolai multipli • Infiltrati polmonari eosinofili
da farmaci, da miceti, da parassiti, da allergeni alimentari, da pollini, da cause sconosciute
• Vasculiti
a prevalente interessamento polmonare: malattia di Churg-Strauss, malattia di Wegener, granulomatosi linfomatoide
• Sindrome di Goodpasture
stati osservati per altre polveri organiche come quelle della juta, della canapa e del lino. La bissinosi è generalmente una malattia che si manifesta con crisi asmatiformi, più intense qualora l’inalazione della polvere di cotone riprenda dopo qualche giorno di intervallo (da cui la denominazione di “febbre del lunedì”). Esistono dimostrazioni che il broncospasmo provocato dall’inalazione di queste sostanze sia mediato dalla liberazione di istamina nelle vie aeree, con meccanismo non immunologico. La malattia è più grave in fumatori e nei soggetti atopici. Non sono state finora osservate alterazioni croniche ed irreversibili causate con certezza dall’inalazione di queste polveri organiche, anche se alcuni sostengono che l’incidenza di bronchite cronica, con ipersecrezione mucosa, sia maggiore nei lavoratori dei
cotonifici. Da più di un decennio si è inoltre potuto osservare che manifestazioni respiratorie simili a quelle della bissinosi insorgono in una piccola percentuale dei lavoratori di industrie tessili a contatto con fibre sintetiche (nylon, poliesteri, acrilici, ecc.). 3. Polveri inorganiche. È necessario menzionare innanzitutto le malattie causate da composti silicei (biossido di silicio ed altri silicati, composti dall’associazione del silicio con minerali diversi), che rappresentano le più frequenti pneumopatie professionali e sono anche denominate pneumoconiosi; secondo una accezione più vasta del termine, per pneumoconiosi si intende invece ogni malattia interstiziale polmonare causata da inalazione di polveri inorganiche. In base al potenziale fi-
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brogenico degli agenti inalati, le pneumoconiosi vengono anche suddivise in non collagenosiche (siderosi, antracosi), clinicamente meno gravi, e collagenosiche (silicosi, asbestosi, talcosi, berilliosi, alluminosi), che sono responsabili delle forme prognosticamente più sfavorevoli. La silicosi, l’asbestosi e le reazioni a metalli saranno trattate più diffusamente in seguito. L’antracosi polmonare è una pneumopatia molto comune, ma raramente dà manifestazioni clinicamente rilevanti, poiché essendo il carbone una polvere non citotossica, va incontro all’efficace depurazione operata dai macrofagi alveolari, che migrando nei linfatici e negli spazi subpleurici creano depositi funzionalmente innocui della sostanza. È stato calcolato che i due polmoni possono tollerare la deposizione di carbone in grande quantità (circa 30 g) senza apprezzabili conseguenze. 4. Radiazioni ionizzanti. L’irradiazione del polmone è una ben nota causa di pneumopatia diffusa interstiziale e si verifica più comunemente dopo cicli di radioterapia su neoplasie toraciche (carcinoma mammario, linfoma, ecc.). La probabilità di sviluppare una pneumopatia interstiziale è in questi casi correlata al volume polmonare irradiato ed alla frequenza di somministrazione. Generalmente le lesioni fibrotiche insorgono dopo 4-6 mesi dall’irradiazione. È doveroso sottolineare che esiste un preciso sinergismo tra farmaci citostatici, ossigenoterapia e radioterapia nel determinare l’insorgenza di fibrosi polmonare. Inoltre la terapia radiante sul torace sembra determinare una maggiore suscettibilità allo sviluppo di infezioni polmonari da Pneumocystis carinii, particolarmente in pazienti immunodepressi. 5. Veleni: paraquat. Quale causa di pneumopatia interstiziale da agenti irritanti è da ultimo meritevole di menzione il paraquat (1,1-dimetil-4,4 dipiridile cloridrato), un erbicida in grado di determinare, se ingerito, avvelenamenti acuti e mortali, con lesioni cardiache e renali oltre che polmonari. Il danno al parenchima polmonare che segue l’ingestione di paraquat sembra essere conseguente alla generazione di radicali ossidrilici altamente tossici verso l’epitelio alveolare. La deposizione di tessuto fibroso osservabile dopo intossicazione da paraquat è precoce ed interessa sia l’interstizio polmonare che gli stessi alveoli. Circa il 50% dei soggetti che presentano un avvelenamento da paraquat va incontro a morte prima che sia attuabile qualsiasi forma di terapia. Anche in questo caso l’inalazione “terapeutica” di O2 si è dimostrata in grado di accelerare il processo di fibrosi interstiziale, similmente a quanto osservato a proposito delle fibrosi da radiazioni.
Silicosi La più importante pneumoconiosi di tipo collagenosico, per la sua rilevanza clinica ed epidemiologica, è senz’altro la silicosi, malattia causata dall’inalazione
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protratta di biossido di silicio, un materiale cristallino che si presenta generalmente sotto forma di quarzo (cristalli esagonali), tridimite (cristalli esagonali) o cristobalite (cristalli cubici). Numerose categorie di lavoratori sono esposte alla cronica inalazione di polvere di silicio: tra queste, i minatori, i ceramisti, gli operai dei cementifici ed in particolare i sabbiatori, che sono sottoposti ad elevatissime concentrazioni atmosferiche di questa sostanza e possono sviluppare la malattia in tempi relativamente brevi. A. La patogenesi (Fig. 19.5) della silicosi è stata in passato sufficientemente indagata; il biossido di silicio rappresenta il prototipo di polvere citotossica per il macrofago alveolare, in grado cioè, una volta fagocitata, di provocare la perdita della motilità della cellula e la sua lisi intralveolare, con liberazione di enzimi litici e innesco della reazione flogistica, che porterà in ultima analisi alla deposizione di tessuto fibroso. Accanto a questo ben noto meccanismo patogenetico, ne devono però essere invocati altri, che sono in un certo senso peculiari della silicosi e che probabilmente sono connessi alla struttura del composto. Nei pazienti portatori di silicosi è comunemente osservabile una varietà di disordini imputabili ad una cronica stimolazione del sistema immunitario ed in particolare ad un’esaltazione di alcuni processi umorali che possono esitare nella produzione di autoanticorpi (anticorpi antinucleari, fattori reumatoidi) o nell’associazione di questa pneumoconiosi con malattie immunopatologiche (per es., artrite reumatoide, sclerosi sistemica progressiva). Secondo alcuni, la causa di un tale fenomeno sarebbe da attribuire ad un effetto “adiuvante” svolto dalle particelle di silice, che sarebbero cioè in grado di potenziare la risposta immune verso determinati antigeni. La presenza costante, nella sede delle lesioni silicotiche, di materiale nucleare di origine macrofagica o granulocitaria, giustificherebbe la frequente comparsa di autoanticorpi diretti contro tali strutture. Localmente, la messa in moto di meccanismi immunitari (formazione di complessi antigene-anticorpo, attivazione del sistema del complemento), contribuirebbe ad aggravare la reazione infiammatoria a livello interstiziale, rendendo più probabile lo sviluppo di fibrosi polmonare. Va inoltre segnalato che è stata suggerita una predisposizione genetica, legata al sistema HLA, per lo sviluppo della malattia conclamata: in particolare si è osservata una maggiore frequenza dell’aplotipo HLA BW21 in soggetti portatori di silicosi. B. Anatomia patologica. Le lesioni iniziali consistono nell’accumulo intralveolare di detriti lipoproteici e nella presenza di un infiltrato infiammatorio di linfociti ed istiociti nei setti alveolari. La successiva deposizione di collagene provoca una fine nodularità diffusa soprattutto nei lobi superiori, riconoscibile, più che all’ispezione, alla palpazione, come grani di sabbia. Lentamente i noduli aumentano di volume e confluiscono fino a formare, nell’arco di anni, grossolane cicatrici, con aree nerastre dovute alla deposizione di pigmento
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Biossido di silicio
Fagocitosi da parte dei macrofagi alveolari
Formazione di immunocomplessi e attivazione del complemento
M
Lisi cellulare
Chemiotassi su neutrofili M
Fattori stimolanti
Fibrosi interstiziale
PMN
Alveolite
Effetto adiuvante
Comparsa di autoanticorpi
Figura 19.5 - Patogenesi della silicosi. M = macrofago alveolare; PMN = polimorfonucleato.
antracotico, che impartiscono al parenchima colpito aspetto e consistenza di “copertone da camion”. A volte il centro delle aree cicatrizzanti va incontro a necrosi colliquativa, per ischemia o per sovrapposizione di TBC. Frequente è la deposizione di sali di calcio. Lesioni analoghe a quelle polmonari si trovano nei linfonodi ilomediastinici. Le lesioni avanzate contengono ormai poche cellule infiammatorie; il connettivo è ialinizzato e, poiché la sua deposizione è avvenuta per strati successivi, i noduli appaiono costituiti da bande concentriche; fra queste vi sono delle fessure che contengono cristalli, birifrangenti quando vengono osservati con i filtri polarizzatori incrociati a 90°. Il coinvolgimento da parte dei noduli silicotici di bronchi e bronchioli causa aree di enfisema e/o atelettasia; l’interessamento dei vasi causa ischemia. C. Clinica. Il quadro clinico della silicosi non è molto caratteristico e la diagnosi deve essere desunta dalla presenza di lesioni radiologiche compatibili, dalla storia di un’esposizione sufficientemente prolungata alla polvere di silice e dall’assenza di malattie polmonari capaci di produrre manifestazioni clinico-radiologiche sovrapponibili a quelle della silicosi (per es., sarcoidosi, granulomatosi polmonare). Negli anni passati la malattia generalmente si sviluppava dopo molti anni (10-20) di continua esposizione alle particelle di silice e aveva un esordio estremamen-
te insidioso; il recente progresso delle tecnologie lavorative ha fatto sì che le concentrazioni di biossido di silicio nell’aria inspirata possano essere molto superiori che in passato, determinando più precocemente l’insorgere di un danno obiettivabile. Ciò è particolarmente vero per i sabbiatori (adibiti alla pulitura delle facciate degli stabili mediante l’impiego di polveri abrasive), che talora sono esposti a concentrazioni di silice 300 volte superiori a quelle consentite a norma di legge. Nel 30% circa di questi lavoratori si è osservato lo sviluppo di lesioni silicotiche, spesso dopo periodi di esposizione relativamente brevi (7-8 anni). Il danno funzionale presente nei portatori di silicosi è documentabile con i comuni test di funzionalità respiratoria; nei casi avanzati è evidenziabile una tipica sindrome restrittiva, con riduzione dei volumi polmonari e della compliance e con diminuita capacità di diffusione per il CO. Solo nelle fasi tardive si svilupperà una forma irreversibile di insufficienza respiratoria, con dispnea e tachipnea a riposo, cianosi labiale e ungueale, con le tipiche alterazioni emogasanalitiche (ipossiemia associata a normoipocapnia). D. Esami radiografici. Le lesioni radiografiche della silicosi (Fig. 19.6) sono molto caratteristiche, anche se non sempre presenti in forma tipica: esse consistono in opacità rotondeggianti o irregolari di varie dimensio-
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portatori di asbestosi, di neoplasie broncopolmonari o di altra natura (mesoteliomi pleurici e peritoneali, tumori del tratto gastroenterico) a riprova della cancerogenicità di questo composto siliceo e della necessità di un’accurata opera di prevenzione. La malattia interessa prevalentemente i lavoratori a contatto con materiali contenenti asbesto, come i fresatori, i saldatori, gli isolatori o gli operai di industrie per la fabbricazione di tessuti o vernici isolanti a base di asbesto. L’asbesto è presente in natura in due forme principali: fibre serpentine costituite da materiale crisotile (silicato di Mg) e fibre anfibole formate principalmente da crocidolite (silicati di ferro e sodio). La forma crisotile è la più diffusa, costituendo da sola l’80-90% dell’asbesto presente sul mercato. Silicosi
Figura 19.6 - Lesioni radiologiche della silicosi. Formazioni nodulari di varie dimensioni compaiono più spesso nelle regioni superiori dei polmoni. A livello ilare sono possibili calcificazioni linfonodali “a bulbo di cipolla”.
ni, spesso con tendenza a confluire ed in genere confinate ai lobi superiori di entrambi i polmoni. Ciò sembra dovuto alla migliore efficienza del drenaggio linfatico nelle zone inferiori dell’organo, che consente la migrazione delle particelle di silice verso le stazioni linfonodali ilari, ove peraltro si evidenziano spesso lesioni radiologiche caratterizzate da aumento di volume dei linfonodi e da tipiche calcificazioni concentriche “a bulbo di cipolla”. Nelle fasi avanzate la trazione esercitata dalle zone di polmone fibrotico sul parenchima circostante può determinare l’insorgenza di bolle di enfisema. Come già accennato in precedenza, tipiche lesioni silicotiche possono essere associate a manifestazioni proprie di malattie immunopatologiche (LES, AR, SSP). L’associazione di silicosi con artrite reumatoide sieropositiva è definita sindrome di Caplan. In questi casi gli esami di laboratorio sveleranno un movimento degli indici di flogosi (VES, PCR, 2-globuline), associato alla presenza di ipergammaglobulinemia e di fattore reumatoide in titoli significativi. I pazienti silicotici sono inoltre particolarmente suscettibili allo sviluppo di infezioni polmonari, ed in particolare a quelle da micobatterio tubercolare e da micobatteri atipici. Va infine ricordato che nei casi dubbi la diagnosi di certezza può essere effettuata solo mediante prelievo bioptico ed analisi delle lesioni con luce polarizzata o in microscopia elettronica, per evidenziare i cristalli di biossido di silicio.
Asbestosi L’asbestosi è una pneumoconiosi prodotta dall’inalazione di fibre di asbesto, sotto varie forme e per lunghi periodi di tempo. L’importanza di questa malattia risiede in particolare nella maggiore incidenza, osservata nei
A. Nella patogenesi (Fig. 19.7) delle lesioni da asbesto ha molta importanza la forma delle fibre inalate: fibre lunghe (> 5) e sottili, aghiformi, penetrano più facilmente negli spazi alveolari, mentre fibre corte (< 5) e spesse sono generalmente rimosse dalla clearance mucociliare. Una volta raggiunti gli alveoli, le fibre di asbesto vengono fagocitate da macrofagi alveolari che le ricoprono di materiale proteico misto a ferro; questi corpi ferruginosi, a forma di bacchetta di tamburo, si possono trovare nell’escreato, come indizio d’avvenuta inalazione. L’asbesto è tossico per le cellule fagocitiche, determinandone, similmente a quanto avviene nella silicosi, la necrosi intralveolare con liberazione di mediatori litici in grado di innescare il processo fibrogenico. Inoltre, l’asbesto si è dimostrato capace di danneggiare l’epitelio alveolare direttamente o indirettamente, tramite l’attivazione, per la via alternativa, del sistema del complemento, con funzione chemiotattica sui neutrofili ed attività citolitica. L’azione cancerogena dell’asbesto è al centro di molte controversie: l’opinione corrente è che essa non si esplichi direttamente sulle cellule epiteliali e mesoteliali, ma che piuttosto consista nel predisporre tali cellule all’azione di sostanze a provata attività carcinogenetica, come gli idrocarburi aromatici del fumo di sigaretta. È infatti noto che l’azione combinata di asbesto e fumo di sigaretta aumenta esponenzialmente il rischio di sviluppare un tumore broncogeno, portandolo fino a 80-90 volte rispetto alla popolazione generale (il fumo da solo aumenta di circa 10 volte il rischio di neoplasia broncogena, mentre l’asbestosi isolata lo aumenta di circa 5 volte). Le alterazioni morfologiche legate all’asbestosi consistono in fibrosi interstiziale inizialmente più accentuata nei lobi inferiori; nelle aree fibrose si trovano fibre di asbesto e corpi ferruginosi. Sono inoltre caratteristiche le spesse placche ialine, a volte calcificate, della pleura parietale. B. Clinica. Le manifestazioni cliniche della asbestosi insorgono in modo generalmente insidioso, dopo molti anni di esposizione, e sono per lo più conseguenti al processo di fibrosi diffusa instauratosi (sindrome restrittiva). Non di rado però questi pazienti manifestano segni e sintomi di bronchite cronica, con tosse produttiva persistente. Ciò sembra essere l’esito
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Fibre di asbesto Fagocitosi e citolisi
Clearance mucociliare
Attivazione del complemento Azione diretta
M
PMN
Attivazione e proliferazione F M Corpi di asbesto nell’espettorato
Fibrosi Asbestosi
Figura 19.7 - Patogenesi dell’asbestosi. M = macrofago alveolare; PMN = polimorfonucleato; F = fibroblasto.
Figura 19.8 - Lesioni radiologiche dell’asbestosi. Sono caratteristiche le calcificazioni pleuriche, più spesso in sede sopradiaframmatica.
dell’impianto di fibre di asbesto nella mucosa bronchiale e bronchiolare, con irritazione cronica a questo livello. Come già detto, i pazienti portatori di asbestosi ammalano più spesso di neoplasie broncopolmonari o a carico di altri organi (mesoteliomi pleurici o peritoneali, neoplasie del tratto gastroenterico). L’insorgenza di una neoplasia fa seguito ad un periodo di latenza che può raggiungere i 10-20 anni dall’esposizione all’asbesto, ed è in genere tanto più frequente quanto maggiore è stata tale esposizione.
più frequentemente implicati in patologie respiratorie si ricordano l’alluminio, l’antimonio, il cadmio ed il berillio. Il cadmio, chiamato in causa come agente cancerogeno, è responsabile inoltre di lesioni a livello dell’interstizio renale. Le lesioni prodotte a carico dell’interstizio polmonare da parte del berillio sono di tipo granulomatoso, con aspetto similsarcoidotico, probabilmente come conseguenza di un coinvolgimento della immunità cellulo-mediata nei pazienti esposti.
C. Il quadro radiologico (Fig. 19.8) dell’asbestosi è caratteristico e consiste in una reticolonodulazione fine e diffusa a tutto il polmone, con eventuale prevalenza alle basi. Tipiche sono le placche calcifiche osservabili a livello pleurico (più spesso a livello della pleura diaframmatica), che sono espressione della migrazione e del successivo impianto dell’agente lesivo nei foglietti pleurici parietale e viscerale. Le lesioni pleuriche, che sono del tutto benigne e non sembrano avere alcuna relazione prognostica con lo sviluppo di mesoteliomi, possono decorrere isolatamente, senza che sia radiologicamente obiettivabile un interessamento del parenchima polmonare.
Pneumopatie interstiziali da cause immunologiche
D. La diagnosi di asbestosi si basa sulla presenza di un’anamnesi lavorativa compatibile con lo sviluppo della malattia e sul riscontro delle tipiche lesioni radiologiche. Indicativo, ma non patognomonico di asbestosi, è il riscontro di macrofagi alveolari contenenti corpi di asbesto nell’espettorato.
Lesioni da metalli Numerosi metalli sono in grado di produrre lesioni polmonari gravi ed irreversibili. Ciò si verifica generalmente in lavoratori esposti cronicamente all’inalazione dei vapori di questi metalli allo stato di fusione. Tra i
Alveoliti allergiche estrinseche (polmoniti da ipersensibilità) A. Eziopatogenesi. Le alveoliti allergiche estrinseche (AAE) sono penumopatie immunologiche che interessano numerose categorie di lavoratori e rappresentano il risultato dell’interazione, a livello alveolare, tra un antigene inalato e cellule immunocompetenti in un soggetto sensibile a tale antigene. Lo spettro delle manifestazioni cliniche conseguenti a tale interazione può andare da quadri lievi, similinfluenzali, a gravi ed irreversibili forme di fibrosi diffusa interstiziale. Due caratteristiche fondamentali differenziano in particolar modo queste malattie dall’asma bronchiale su base allergica. 1. Caratteristiche dell’antigene. Si tratta di antigeni complessi, generalmente costituiti da spore fungine (più spesso da ceppi di actinomiceti termofilici) o da detriti organici di derivazione animale. Tali sostanze devono avere dimensioni tali da consentirne la penetrazione fino al distretto alveolare (inferiori ai 5). Sulla base degli agenti eziologici fino ad oggi riconosciuti, è chiaro che numerose AAE con differenti denominazioni sono in realtà causate da un unico agente e dovrebbero virtualmente essere considerate come entità cliniche identiche.
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19 - MALATTIE INFIAMMATORIE POLMONARI NON INFETTIVE
2. Tipo di reazione immunologica. Le AAE sono il risultato di una reazione immunologica di III tipo secondo Gell e Coombs, in cui un antigene solubile reagisce con un anticorpo a livello di un tessuto, attivando il sistema del complemento. All’attivazione del complemento fa seguito l’innesco di una reazione flogistica locale, con chemiotassi sui polimorfonucleati neutrofili, liberazione di mediatori litici (proteasi acide, collagenasi) e danneggiamento locale del tessuto affetto (fenomeno di Arthus). L’anticorpo in causa in una reazione di questo tipo è di classe IgG, diversamente da quanto accade nell’asma allergico. A questo proposito, va sottolineato che il risultato della formazione di un complesso immune all’interno dell’organismo dipende, oltre che dalla quantità assoluta di antigene ed anticorpo che determina l’intensità della reazione flogistica, anche dalle proporzioni relative tra i due costituenti del complesso. In una situazione di eccesso di anticorpo o debole eccesso di antigene, gli immunocomplessi tendono a precipitare e a localizzarsi perciò nella sede di introduzione dell’antigene, mentre qualora si verifichi un notevole eccesso di antigene i complessi formatisi risultano solubili e perciò in grado di raggiungere, tramite il circolo, sedi distanti da quella dell’introduzione (in genere rene, cute ed articolazioni). La recente introduzione nella pratica clinica delle tecniche di lavaggio broncoalveolare ha inoltre dimostrato che nella patogenesi delle AAE svolgerebbero un ruolo importante i linfociti T, che predominano nella popolazione cellulare ottenibile dopo lavaggio alveolare in pazienti affetti da queste condizioni morbose. B. Epidemiologia. Le AAE si manifestano in una ridotta percentuale di lavoratori esposti, a dimostrazione della probabile predisposizione individuale (finora non dimostrata geneticamente) allo sviluppo del quadro morboso. Il polmone da contadino, che tra le AAE è quello che possiede la maggior rilevanza epidemiologica per il nostro Paese, ha una prevalenza del 310% tra i lavoratori del settore ed è più frequente nelle regioni molto piovose, ove il processo di essiccazione del fieno è meno completo e quindi più agevole risulta lo sviluppo dei miceti responsabili della malattia (Micropolyspora faeni). Maggiore è la prevalenza di AAE negli allevatori di piccioni o di pappagallini, tra i quali può raggiungere il 20%. Una tale forma di AAE è peraltro più comune nei Paesi anglosassoni, ove è più diffuso il costume dell’allevamento di volatili. Recentemente ha acquistato una crescente importanza la AAE causata da umidificatori e condizionatori d’aria, nei quali possono svilupparsi varie colonie di actinomiceti, che vengono poi diffusi nell’ambiente ed inalati da un gran numero di individui. Si è calcolato che la prevalenza di soggetti con manifestazioni respiratorie causate da umidificatori e condizionatori d’aria contaminati varia tra il 15 ed il 52% dei lavoratori esposti. C. Clinica. È unanimemente riconosciuto che esistono due modalità distinte di insorgenza delle manifestazioni cliniche di AAE. Nella forma acuta, 6-8 ore
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dopo (a causa della reazione di tipo semiritardato) l’inalazione dell’antigene si osserva la comparsa di un quadro similinfluenzale, con febbre, malessere generale, tosse e dispnea; in alcuni casi il quadro si manifesta alla ripresa dell’attività lavorativa, dopo qualche giorno di interruzione del contatto con l’antigene, similmente a quanto accade nella bissinosi. Tali manifestazioni sono però generalmente di breve durata e tendono a risolversi spontaneamente dopo alcune ore. È questo uno dei maggiori criteri differenziali tra AAE acute e polmoniti infettive, dato che il quadro radiologico ottenuto durante la fase di acuzie può essere molto simile, mostrando opacità polmonari multiple sfumate, con tendenza a confluire. Le alterazioni radiologiche generalmente scompaiono parallelamente alla remissione della sintomatologia. Le forme croniche di AAE si manifestano nei soggetti con minore grado di ipersensibilità verso l’antigene inalato e che perciò permangono più a lungo a contatto con tale sostanza; questi soggetti paradossalmente possono manifestare a lungo termine le complicanze più gravi di una AAE, che consistono in una fibrosi polmonare diffusa. Dopo mesi o anni di esposizione, compare una dispnea inizialmente da sforzo, quindi anche a riposo, eventualmente associata a tosse irritativa. Le prove di funzionalità respiratoria documenteranno in questi casi la tipica sindrome restrittiva, con riduzione dei volumi polmonari, della compliance e della capacità di diffusione per il CO. Lo stadio finale di una AAE è quello del polmone a nido d’ape, comune a tutte le forme molto avanzate di pneumopatia diffusa interstiziale. D. La diagnosi di AAE, specie nelle forme croniche, può essere molto difficoltosa. Essa si basa sul riscontro nel siero di pazienti affetti di anticorpi precipitanti, di classe IgG, diretti contro l’antigene in questione. Sfortunatamente questo test non è molto specifico, sia perché esso risulta positivo in numerosi soggetti esposti all’agente inalante ma che non presentano alcun sintomo di AAE, sia per la difficoltà di ottenere antigeni sufficientemente purificati. La recente introduzione dell’esame citologico sul liquido di lavaggio broncoalveolare può permettere di ottenere maggiori informazioni sull’intensità del danno alveolare. Nelle forme acute gli esami di laboratorio possono evidenziare alterazioni degli indici di flogosi (VES, 2-globuline, ecc.). E. La terapia delle AAE si identifica con quella delle pneumopatie diffuse interstiziali e consiste nell’impiego di corticosteroidi, farmaci in grado di limitare l’intensità del processo infiammatorio e di deprimere le reazioni immunitarie che ne sono responsabili. Questa terapia non è però di alcuna efficacia nelle forme avanzate della malattia in cui si è instaurato un processo irreversibile di fibrosi polmonare. Di fondamentale importanza è l’allontanamento dei soggetti ipersensibili dalla sorgente dell’antigene; quanto più precocemente ciò sarà ottenuto, tanto maggiori saranno le probabilità di successo della terapia intrapresa.
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Fibrosi polmonare in corso di connettiviti Una fibrosi polmonare può essere osservata in corso di varie connettiviti sistemiche, come il lupus eritematoso sistemico, l’artrite reumatoide, la polimiosite-dermatomiosite (particolarmente frequente nei pazienti con anticorpi anti transfer-RNA sintetasi, quali l’antigene Jo-1), la sclerosi sistemica (o sclerodermia) e la sindrome di Sjögren. Anche nella spondilite anchilosante, che non può, a rigor di termini, essere classificata tra le connettiviti, si può osservare una fibrosi bilaterale dei lobi superiori dei polmoni che può essere complicata da un’evoluzione fibro-cavitaria. La patogenesi della fibrosi polmonare in queste malattie è riconducibile a quei meccanismi immunopatologici che sono stati ricordati all’inizio di questo capitolo. Dal punto di vista clinico, queste forme non differiscono dalle altre pneumopatie diffuse interstiziali. Reazioni a farmaci Numerosi farmaci sono in grado di determinare un processo di fibrosi interstiziale polmonare, generalmente quando assunti in dosi cumulative molto alte, anche se sono state descritte reazioni idiosincrasiche, non dipendenti dalla dose impiegata. È generalmente accettato che le reazioni polmonari da farmaci siano la conseguenza di fenomeni di ipersensibilità, che culminano in reazioni immunologiche di III tipo a livello alveolare ed interstiziale, con processo identico a quello delle AAE, ma con la differenza che il farmaco giunge al polmone per via ematogena anziché inalatoria. A parziale conferma di ciò, starebbe la frequente presenza di eosinofilia ematica in pazienti che soffrono di questa complicanza. Tuttavia, almeno in alcuni casi è possibile che il danno polmonare indotto dal farmaco sia il risultato di una azione citotossica diretta sull’epitelio alveolare, eventualmente associata a stimolo alla produzione di collageno. Anche le reazioni polmonari da farmaci, come le AAE, hanno una duplice modalità di insorgenza. 1. Reazioni acute si sono osservate praticamente solo in seguito all’assunzione di nitrofurantoina, un disinfettante delle vie urinarie molto diffuso. Le manifestazioni cliniche consistono in questo caso in febbre, tosse e dispnea, mentre l’esame radiografico del torace evidenzia nella fase acuta opacità polmonari multiple e confluenti. 2. Forme croniche di ipersensibilità polmonare da farmaci sono talora osservate dopo l’uso di dosi elevate di chemioterapici antiblastici, farmaci utilizzati nella terapia farmacologica antitumorale. Tra essi i più frequentemente responsabili di una tale complicanza sono la bleomicina, il metotrexate, la mitomicina C, la ciclofosfamide ed il clorambucil. Più recentemente sono state descritte reazioni analoghe in pazienti che assumevano penicillamina o sali d’oro. Nelle forme croniche l’esordio è insidioso e la sintomatologia costituita da dispnea da sforzo e tosse stizzosa; le prove di funzionalità respiratoria documentano una riduzione globale dei volumi polmonari ed una ridotta diffusibilità
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
di CO. Queste forme sono generalmente irreversibili e l’unica terapia consiste nell’interruzione del farmaco responsabile. È opportuno ricordare che la gravità delle manifestazioni polmonari indotte da farmaci può essere maggiore in pazienti che contemporaneamente sono sottoposti a terapia radiante sul torace e/o a inalazione cronica di ossigeno.
Pneumopatie interstiziali da stasi linfatica La congestione venosa del piccolo circolo conseguente ad insufficienza cronica del ventricolo sinistro causata da vizi valvolari (per es., stenosi mitralica) o da altre malattie miocardiche, determina un aumento della pressione idrostatica nei capillari polmonari ed una persistente trasudazione di fluidi nell’interstizio polmonare, oltre ad una stasi linfatica di grado variabile. Ciò può rendersi responsabile a lungo termine di una più o meno intensa reazione fibrotica, secondo alcuni innescata dal cronico stravaso di emosiderina, o di altre sostanze, nel piccolo interstizio. Esistono altre condizioni associate ad un tale fenomeno. 1. Tromboembolie polmonari. Sono evenienze molto comuni e nella maggior parte dei casi responsabili di una sintomatologia acuta con elevata mortalità. Tuttavia in alcune circostanze si può avere la ricorrente insorgenza di tromboembolie di modesta entità, che possono determinare un accumulo interstiziale di fluidi ed una reazione flogistica perivascolare cronica; l’esito di queste forme consiste talora in una fibrosi polmonare diffusa. 2. Linfangite carcinomatosa. Costituisce una delle possibili modalità di presentazione delle metastasi tumorali (da qualsiasi sede esse provengano) a livello polmonare e consiste in una disseminazione interstiziale di foci neoplastici di piccole dimensioni, che vengono drenati dai linfatici e diffondono in estese zone del parenchima polmonare. La conseguenza di ciò può essere una fibrosi interstiziale, che generalmente è più intensa alle regioni basali e determina un quadro radiologico caratterizzato da una fine reticolo-nodulazione a questo livello. In ogni paziente, specie se si tratta di un soggetto anziano in condizioni generali assai scadute, che presenti questo quadro radiologico in assenza di un ovvio fattore causale, si dovrebbe sospettare una linfangite carcinomatosa e ricercare la presenza di un tumore primitivo in una sede distante dal polmone.
Pneumopatie interstiziali da cause sconosciute Polmoniti interstiziali idiopatiche Si tratta di un gruppo di malattie accomunate da un diffuso interessamento polmonare che esita in fibrosi,
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19 - MALATTIE INFIAMMATORIE POLMONARI NON INFETTIVE
con una progressiva e importante menomazione della funzione respiratoria. Dal punto di vista clinico sono accomunate dalla tosse non produttiva e dalla dispnea, prima solo da sforzo e poi anche a riposo. Inizialmente erano classificate globalmente sotto la voce “fibrosi polmonare idiopatica”, ma attualmente quest’ultima denominazione è riservata a quella che un tempo veniva chiamata “polmonite interstiziale di tipo usuale”, mentre è stata riconosciuta l’individualità anatomopatologica e clinica di altre forme che in passato erano confuse con questa malattia. Questi progressi sono stati conseguiti grazie ai perfezionamenti delle tecniche radiologiche e alla diffusione delle biopsie polmonari. Dal punto di vista anatomopatologico la polmonite desquamativa interstiziale (detta anche bronchiolite respiratoria con malattia interstiziale polmonare) è caratterizzata da un relativamente uniforme ispessimento, o da un ispessimento centrato sui bronchioli, dei setti alveolari, accompagnato da un notevole accumulo all’interno degli alveoli di macrofagi carichi di pigmento. Dal punto di vista clinico la polmonite desquamativa interstiziale è notevolmente collegata con il fumo di sigarette ed è discretamente responsiva alla terapia cortisonica. La polmonite interstiziale non specifica e la polmonite interstiziale acuta sono forme caratterizzate da una diffusa infiammazione con evoluzione in fibrosi dell’interstizio polmonare. L’aspetto anatomopatolgico è quello di un processo sincrono nell’intero polmone. Nella variante acuta si osservano segni di danneggiamento delle cellule di rivestimento alveolare con collasso dei setti alveolari denudati di cellule e una proliferazione degli pneumociti di tipo II, chiaramente con intenti riparativi. Entrambe queste polmoniti interstiziali idiopatiche sono sensibili alla terapia cortisonica. Di altre due forme parleremo più in dettaglio. Fibrosi polmonare idiopatica (o polmonite interstiziale di tipo usuale) La fibrosi polmonare idiopatica (FPI) era in passato considerata un processo infiammatorio che esitava in fibrosi. Questo punto di vista non è stato confermato e l’opinione attuale è che questa malattia dipenda da una successione di insulti polmonari non infiammatori che esitano direttamente in fibrosi. Il problema non sembra tanto legato al verificarsi degli insulti, quanto a un’anomalia dei processi riparativi e a un’abnorme reazione dell’organismo, con un’eccessiva propensione a sviluppare fibrosi nei polmoni (e forse anche altrove). Infatti, non esiste alcuna correlazione tra i dati di laboratorio indicanti infiammazione con lo stadio della malattia e la sua prognosi. Inoltre, la terapia corticosteroidea è del tutto inefficace. Dopo un’insulto, l’epitelio alveolare deve iniziare un processo di riparazione che consiste nella rapida riepitelizzazione dell’area denudata, attraverso un processo di proliferazione, migrazione e differenziazione cellulare. Nella fibrosi polmonare idiopatica questo processo sembra lento e difettoso. Infatti, in questa malattia la capacità degli pneumociti di tipo II di rigenerare gli
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pneumociti di tipo I danneggiati è seriamente menomata. Al contrario, le cellule alveolari liberano citochine, come, per esempio, il fattore di crescita trasformante- (TGF-), che promuovono la proliferazione di fibroblasti e miofibroblasti e l’evoluzione in fibrosi. È da notare che questo non è di per sé patologico ed è comune nei processi di riparazione dopo danno tissutale; ma, mentre normalmente l’efficacia dei processi riparativi inibisce l’eccesso di cicatrizzazione, questo non sembra avere luogo nella fibrosi polmonare idiopatica. Perché questo accada non è chiaro. Fino al 3% dei casi di fibrosi polmonare idiopatica sembra avere una aggregazione familiare, e perciò è possibile che esercitino un ruolo fattori genetici. Tuttavia, questo ruolo, se c’è, è certamente secondario e verosimilmente deve interagire con fattori ambientali. Tra questi i più importanti sembrano il fumo di sigaretta e le infezioni virali latenti, anche se nessun virus specifico è stato trovato associato con questa malatia. Dal punto di vista anatomopatologico il processo morboso appare come una successione di eventi, ciascuno dei quali esitante in focolai di fibroblasti che sono al centro di una fibrosi interstiziale che alla fine interessa entrambi i polmoni. Dal punto di vista clinico la fibrosi polmonare idiopatica è caratterizzata da tosse non produttiva e da dispnea ingravescente. Questa è dovuta a una progressiva riduzione della compliance polmonare e a un aumento del lavoro speso nella respirazione. Una tipica radiografia polmonare rivela opacità reticolari bilaterali che sono prevalenti alla periferia dei polmoni e ai lobi inferiori. Con il tempo si verificano dilatazioni degli spazi aerei distali, con l’acquisizione di un aspetto a nido d’ape (“honeycombing”). La cicatrizzazione può comportare la formazione di bronchiectasie da trazione. Il tipico aspetto dei polmoni a una TC ad alta risoluzione conferma questi reperti e mostra anche opacità lineari intralobulari e un irregolare ispessimento dei setti (Fig. 19.9). La malattia è progressivamente evolutiva e l’esito è mortale, anche se è difficile anticipare i tempi di progressione (ma la mediana di sopravvivenza dopo una diagnosi confermata dalla biopsia è di meno di 3 anni). Il 40% dei pazienti muore per insufficienza respiratoria, ma la morte spesso è dovuta a complicanze, quali infezioni di bronchiectasie e scompenso cardiaco. Dal punto di vista terapeutico, in assenza di una certezza diagnostica (l’incertezza è facile, tenendo conto della somiglianza con altre polmoniti interstiziali idiopatiche), conviene comunque provare un trattamento cortisonico; ma se, dopo tre mesi, questo risultasse inefficace, è meglio sospenderlo. Purtroppo, al momento non esistono altri mezzi terapeutici soddisfacenti. Gli studi in corso sono indirizzati all’impiego di sostanze in grado di inibire la formazione di collageno. Qualche speranza era stata suscitata dalla colchicina e dalla penicillamina, ma studi nei quali la diagnosi era controllata con criteri molto stretti non hanno dimostrato l’efficacia di queste sostanze. In altri studi si è cercato di indurre apoptosi (morte cellulare programmata) dei fibroblasti, come avviene nei normali processi di riparazione delle ferite, nei quali la formazione di cicatrice
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
A.
B.
C.
D.
Figura 19.9 - Vari aspetti radiologici di fibrosi polmonare alla TC del torace: (A) alveolite acuta, (B) chiazze di opacizzazione a vetro smerigliato con bronchiectasie da trazione, (C) fibrosi iniziale con una banda sottopleurica (in basso), (D) fibrosi avanzata con aspetto a nido d’ape e bronchiectasie da trazione. (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003.)
non deve essere esuberante. Non esiste al momento nessun farmaco specifico che eserciti questa azione, ma alcuni studi sperimentali con la lovastatina sono incoraggianti. Comunque, la ricerca è ancora attiva in questo campo.
bilisca la fibrosi, le aree infiltrate possono avere carattere migrante, svanire e ricomparire altrove (Fig. 19.10). La malattia ha un decorso cronico, ma ha prognosi migliore della fibrosi polmonare idiopatica, in quanto è sensibile alla terapia cortisonica.
Bronchiolite obliterante con polmonite organizzativa L’alterazione anatomopatologica caratteristica della brionchiolite obliterante con polmonite organizzativa (Bronchiolitis Obliterans with Organizing Pneumonia: BOOP) può essere secondaria a vari tipi di lesioni polmonari (infezioni, connettiviti, reazioni a farmaci, inalazione di sostanze irritanti, reazioni da ipersensibilità, aspirazione), ma più spesso è idiopatica e a questa ci si riferisce con la definizione sopra indicata o con quella di polmonite organizzativa criptogenetica. In questi casi esiste un’infiammazione centrata nell’interstizio peribronchiale e attorno ai dotti alveolari, mentre caratteristiche escrescenze, formate da tessuto di granulazione, occludono gli spazi aerei distali. Negli alveoli dipendenti da questi si verifica un’infiltrazione linfoistiocitica che evolve verso fibrosi. Caratteristicamente, questa fibrosi è collocata all’interno delle più piccole vie aeree, onde il nome della malattia. La malattia colpisce in eguale misura ambo i sessi e si verifica più comunemente tra i 40 e i 60 anni; l’insorgenza è subacuta in un lasso di tempo di settimane o mesi. I pazienti tipicamente si lamentano all’inizio di sintomi lievi, come una tosse cronica non produttiva e dispnea da sforzo. L’esame obiettivo del torace può fare percepire dei rantoli crepitanti bibasilari, ma può anche essere completamente negativo. La radiografia del torace mostra un quadro di diffuso interessamento interstiziale con aree bilaterali, asimmetriche di consolidamento e singoli o multipli noduli nel contesto dei polmoni. Alla TC si nota che le aree di consolidamento sono prevalentemente peribronchiali o sottopleuriche. Prima che si sta-
Proteinosi alveolare Questa entità clinica, recentemente riconosciuta, non è una malattia rigorosamente interstiziale, essendo causata dall’accumulo endoalveolare di materiale lipidico (probabilmente costituito in prevalenza da surfattante alveolare) e proteico. L’ipotesi patogenetica corrente è che la malattia consegua ad un’iperproduzione di surfattante alveolare da parte delle cellule alveolari di II tipo (granulari) ed alla successiva compromissione funzionale dei macrofagi alveolari, che fagocitano grandi quantità di tale sostanza. Le manifestazioni cliniche della proteinosi alveolare sono indistinguibili da quelle proprie di altre forme di fibrosi diffusa polmonare, ma questi pazienti presentano una particolare suscettibilità allo sviluppo di infezioni respiratorie ad eziologia batterica o micotica. La diagnosi è effettuata mediante il riscontro, su materiale bioptico, di un accumulo della sostanza lipoproteica, PAS-positiva, all’interno degli alveoli polmonari. Istiocitosi a cellule di Langerhans (granuloma eosinofilo) Si tratta di una malattia a eziologia sconosciuta e di incerto inquadramento nosografico, caratterizzata da accumuli localizzati di istiociti con aspetto anomalo in varie sedi corporeee. Inizialmente, considerando la difficoltà di caratterizzare questi istiociti, le varie forme di questa malattia erano complessivamente indicate con il termine di istiocitosi X. Ora si sa che questi istiociti sono forme anomale delle cellule di Langerhans, ossia di cellule che hanno il compito di assumere gli antigeni,
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A.
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Figura 19.10 - Vari aspetti radiologici della BOOP (Bronchiolitis Obliterans with Organizing Pneumonia) alla TC del torace. (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003.)
elaborarli e presentarli ai linfociti T. Questo è stato accertato con tecniche immuno-istochimiche che hanno permesso di riconoscere alla superficie delle cellule caratteristiche di questa malattia molecole che sono proprie delle cellule di Langerhans, chiamate CD1a e S-100. Per questo motivo è stata avanzata l’ipotesi che la malattia derivi da un disordine della regolazione del sistema immunitario tale da condurre a un’esagerata risposta fisiologica delle cellule di Langerhans a un antigene, che potrebbe essere anche un agente infettivo non identificato. L’aggregazione di queste cellule in differenti sedi caratteristiche ha portato a descrivere diverse forme morbose. Una forma acuta disseminata, di solito osservata in bambini sotto i due anni di età, è chiamata malattia di Letterer-Siwe ed è caratterizzata da febbre, rash cutaneo, epatosplenomegalia, anemia e trombocitopenia. Una forma cronica, osservata prevalentemente, ma non esclusivamente nei bambini, è stata chiamata malattia di Hand-Schuller-Christian ed è contrassegnata dalla triade diabete insipido (per localizzazione alla base del cranio e interessamento dell’ipofisi posteriore), proptosi (spostamento in avanti di uno o entrambi i bulbi oculari) e lesioni ossee distruttive. Non è detto che tutte queste lesioni debbano verificarsi contemporaneamente. Solo il 15% degli adulti affetti da istiocitosi a cellule di Langerhans presenta manifestazioni di questo tipo. La maggior parte è affetta da quello che viene chiamato granuloma eosinofilo, ossia un interessamento diffuso interstiziale dei polmoni. Il termine granuloma eosinofilo è stato anche impiegato per indicare lesioni isolate delle ossa. Il riferimento agli eosinofili dipende dalla presenza di queste cellule nelle lesioni, ma, come si è visto, esse non costituiscono l’elemento caratterizzante. Come per tutte le forme di questa malattia, la causa del granuloma eosinofilo è sconosciuta. Tuttavia, è stata constatata una forte associazione con il fumo di sigaretta. Dal punto di vista anatomopatologico la lesione polmonare è caratterizzata da numerosi noduli, formati da accumulo delle cellule anomale, sparpagliati nei
campi polmonari. Questi hanno tendenza con il tempo a evolvere in fibrosi e a provocare la formazione di cisti dovute a distruzione delle pareti delle più fini vie respiratorie e alla loro dilatazione. Dal punto di vista clinico, la malattia all’inizio può essere asintomatica, ma in seguito è caratterizzata da tosse e dispnea. Si possono anche verificare febbre e segni clinici e di laboratorio di un’infiammazione persistente, come anoressia, perdita di peso, aumento della velocità di sedimentazione e della proteina C reattiva nel sangue. Il quadro radiologico è caratterizzato da un interessamento interstiziale con presenza di noduli e piccole lesioni cistiche, localizzate prevalentemente ai lobi superiori con le basi che sono risparmiate. La malattia può avere un decorso recidivante, con risoluzione e ricomparsa dei noduli, e una durata di molti anni. L’esito è comunque in fibrosi con possibile insufficienza respiratoria. L’efficacia della terapia cortisonica è dubbia, mentre, nei fumatori, la cessazione del fumo è sicuramente utile. Sarcoidosi La sarcoidosi, o reticoloendoteliosi benigna, o malattia di Besnier-Boeck-Schaumann, è una malattia granulomatosa cronica, ad evoluzione sistemica, la cui eziologia è tuttora sconosciuta. Tale disordine può colpire qualsiasi organo, anche se le più comuni sedi di localizzazione sono i linfonodi (in particolare quelli intratoracici), i polmoni, il fegato e la milza, la cute e l’occhio. Per questo motivo il paziente affetto da sarcoidosi può presentarsi inizialmente a molti medici specialisti, ed è estremamente importante conoscere questa condizione morbosa la quale, ancorché rara in Italia, può creare serie difficoltà diagnostiche. A. Epidemiologia. I dati riguardanti l’esatta distribuzione geografica della sarcoidosi sono, come accade per molte altre condizioni morbose, largamente influenzati dall’accuratezza dei presidi diagnostici e dalla loro applicazione sulla popolazione, che variano grandemente nei diversi Paesi. In generale, è possibile affer-
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mare che la sarcoidosi è nettamente più frequente nei paesi a clima freddo, quali quelli nordeuropei. La prevalenza della sarcoidosi nei Paesi scandinavi varia infatti intorno al 50-65/100.000 abitanti, mentre essa è notevolmente minore nei Paesi a clima temperato, tra cui l’Italia, ove la prevalenza dei casi di sarcoidosi è stimata sui 10-11 casi/100.000 abitanti (vale a dire circa 5500-6000 pazienti sarcoidotici in tutto il Paese). Vanno inoltre segnalate differenze riguardanti la maggiore gravità clinica della sarcoidosi nei soggetti di razza nera. Inoltre, la malattia è molto meno frequente nella razza asiatica. B. Eziopatogenesi. L’eziologia della sarcoidosi è ignota. Il ruolo di vari fattori eziologici considerati nel passato (infeziosi tubercolari o da micobatteri atipici, agenti chimici, pollini di conifere, virus, miceti) non è stato confermato. Ricerche più recenti di amplificazione del DNA di microrganismi su materiale patologico di sarcoidosi hanno dato risultati contraddittori per quanto riguarda il Mycobacterium tuberculosis e più indicativi in riferimento al Propionibacterium acnes. Quest’ultimo dato sembra in armonia con il fatto che la sarcoidosi tende a manifestarsi in un’età nella quale l’acne è decisamente prevalente. Il processo patogenetico fondamentale sembra la cronica reazione immunitaria, con un processo implicante l’immunità cellulare, ad un antigene la cui eliminazione si presenta difficoltosa. L’invariabile compromissione polmonare della malattia ha fatto supporre che l’antigene sia esogeno e venga introdotto mediante inalazione. Comunque, l’opinione prevalente è che la sarcoidosi abbia più che una causa, ciascuna delle quali può promuovere un differente quadro della malattia. Un altro fattore importante è la predisposizione genetica. A favore di questa possibilità esistono vari argomenti, oltre alla già descritta diversa prevalenza in differenti popolazioni. In primo luogo, esiste una più alta probabilità di sviluppare la sarcoidosi (nei vari studi risultata da 36 a 73 volte più elevata rispetto ai controlli) nei familiari di primo e secondo grado dei pazienti con questa malattia. In secondo luogo, esiste un’associazione tra lo sviluppo di sarcoidosi e la presenza di certi antigeni del sistema maggiore di istocompatibilità. Gli alleli HLA-DR 11, 12, 14, 15 e 17 sembrano conferire suscettibilità alla malattia, mentre gli alleli HLA-DR 1 e 4 e quello HLA-DQ* 0202 sembrano protettivi. Gli studi immunologici hanno chiarito che le lesioni della sarcoidosi sono dipendenti da una risposta immunitaria prolungata a un antigene che l’organismo ha difficoltà ad eliminare, piuttosto che dall’azione lesiva diretta di un agente esogeno. La reazione propria della risposta è dovuta ai linfociti T CD4+ con l’atteggiamento funzionale definito Th1 (Cap. 68). Queste cellule, quando incontrano il corrispondente antigene, liberano citochine (ossia ormoni a breve raggio), quali l’interferone- e l’interleuchina-2. Queste citochine aiutano a reclutare altri linfociti T con lo stesso orientamento funzionale. Queste cellule reclutano ed attivano macrofagi che, a loro volta, secernono citochine ad attività
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proinfiammatoria, tra le quali un ruolo centrale sembra esercitato dall’interleuchina-18. La persistenza di questo processo conduce alla formazione del granuloma. Il granuloma sarcoidotico è costituito da un ammasso di istiociti, trasformati in cellule epitelioidi, fra cui si trovano cellule giganti di Langhans, o da un corpo estraneo circondato da un vallo fibroblastico, tanto più ricco di tessuto fibroso quanto più lunga è la durata della malattia. Questo granuloma è assai simile ai granulomi che si possono osservare in corso di sifilide terziaria, lebbra, infezioni da funghi, berilliosi; si distingue da quello della tubercolosi per l’assenza di necrosi. I corpi di Schaumann ed i corpi asteroidi, benché piuttosto frequenti nei granulomi della sarcoidosi, non sono tuttavia diagnostici. In più del 60% dei casi le lesioni granulomatose regrediscono entro 2-5 anni. In questi casi si ha un influsso entro le lesioni di linfociti CD8+. Questi linfociti venivano in passato indicati come linfociti “soppressori”, termine andato in disuso dopo che l’attenzione si era spostata verso altri linfociti, prevalentemente CD4+, definiti “regolatori”. Attualmente, il ruolo di freno alle reazioni immunitarie dei linfociti CD8+ è stato confermato e perciò il loro intervento nella risoluzione delle lesioni sarcoidotiche risulta comprensibile. Nei casi nei quali non si ha regressione delle lesioni, la sarcoidosi evolve cronicamente verso la fibrosi. In sede di lesione in corso di sarcoidosi il sistema immunitario appare iperattivo. Questa iperattività immunitaria è anche dimostrabile, genericamente, per quanto riguarda il sistema dell’immunità umorale (mediata da antigeni solubili e dipendente dai linfociti B). Infatti, in corso di sarcoidosi è comune rilevare un’iper--globulinemia (che corrisponde ad un incremento della concentrazione delle immunoglobuline nel siero), titoli anticorpali elevati, particolarmente verso agenti infettanti ubiquitari, come il virus di Epstein-Barr e Mycoplasma pneumoniae, e complessi antigene-anticorpo circolanti che sono rilevanti per la genesi di alcune manifestazioni della malattia (si veda in seguito). Un apparente paradosso appariva nel passato il fatto che, in contrasto con quanto visto per l’immunità umorale, in questa malattia i processi mediati dalla immunità cellulare (e cioè dai linfociti T) appaiono in genere menomati al di fuori delle sedi di lesione. Una testimonianza di questo fatto è l’anergia, comune in corso di sarcoidosi, alle reazioni cutanee di tipo ritardato ad antigeni ubiquitari quali Candida, Tricophyton, l’antigene parotitico e gli antigeni streptococcici streptochinasistreptodornasi. Anche la risposta alla PPD si negativizza in corso di sarcoidosi in soggetti precedentemente positivi, anche se questa negatività manca quando la tubercolosi è in fase attiva (e l’impegno del sistema immunitario è particolarmente intenso), ad indicare che il difetto dell’immunità cellulare è più quantitativo che qualitativo. Il paradosso è stato risolto recentemente grazie allo sviluppo di metodi che consentono di distinguere, nell’ambito dei linfociti T, quelli che influenzano le reazioni immunitarie promuovendole (detti “helper” o aiutanti) e quelli che le regolano (detti tradizionalmente soppressori, ma che sarebbe meglio chiamare regolatori).
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19 - MALATTIE INFIAMMATORIE POLMONARI NON INFETTIVE
Nella sarcoidosi il rapporto tra linfociti T helper e soppressori è aumentato rispetto alla norma in sede di lesione, ma è diminuito altrove. Questo potrebbe significare che i linfociti helper sono concentrati in sede di lesione, mentre diventano meno frequenti negli altri distretti corporei. La prevalenza relativa dei linfociti soppressori al di fuori delle lesioni sarcoidotiche sarebbe all’origine dell’anergia descritta per le reazioni della immunità cellulare in questa malattia. C. Fisiopatologia. Le manifestazioni morbose della sarcoidosi dipendono dal particolare impegno del sistema immunitario, dalla localizzazione anatomica dei granulomi sarcoidotici, dalla loro eventuale evoluzione fibrosa e da alcune conseguenze indirette di questo processo patologico. I sintomi e i segni derivanti dall’impegno del sistema immunitario si manifestano di solito nelle forme acute e consistono in generiche manifestazioni di malattia infiammatoria (febbre, segni di laboratorio di “fase acuta”) ed in fenomeni patologici particolari che possono essere attribuiti a deposizione nei tessuti di complessi antigene-anticorpo con attivazione locale del complemento e liberazione di alcuni suoi frammenti promuoventi l’infiammazione. Tali sono le artralgie o la franca artrite che si può osservare più spesso in soggetti giovani di sesso femminile all’esordio della malattia, alcune manifestazioni oculari come l’uveite e l’episclerite, e specialmente l’eritema nodoso, che è una lesione infiammatoria conseguente alla deposizione, a livello della giunzione dermoipodermica, di complessi immuni circolanti. Sfortunatamente i tentativi finora compiuti per caratterizzare l’antigene che costituisce tali immunocomplessi non hanno dato esito favorevole. È bene precisare che queste manifestazioni non sono specifiche della sarcoidosi e possono presentarsi ogni qualvolta la quantità di complessi immuni circolanti sia tale da superare la capacità di depurazione da parte dei macrofagi fissi del sistema reticolo-istiocitario. Lo stesso eritema nodoso può comparire con caratteristiche indistinguibili da quelle della sarcoidosi in altre condizioni morbose, come la TBC primaria, le infezioni da streptococco -emolitico o in corso di reazioni di ipersensibilità a farmaci (per es., sulfamidici, penicillina, ecc.). I sintomi e i segni derivanti dalla localizzazione anatomica dei granulomi sarcoidotici sono evidenti soprattutto nei polmoni, dove le localizzazioni nell’interstizio e la propensione all’evoluzione fibrosa possono configurare il quadro di una pneumopatia diffusa interstiziale con i caratteri descritti in precedenza. È però possibile avere localizzazioni sarcoidotiche in altre sedi quali i linfonodi, il fegato, la milza, la cute, le ghiandole salivari e lacrimali, l’occhio (uvea e corpo ciliare), le ossa, i muscoli, i nervi periferici. Alcune di queste localizzazioni possono essere prive di conseguenze, ma altre ne possono avere di importanti (si veda in seguito). Tra le conseguenze indirette della sarcoidosi esiste una non ben spiegata ipersensibilità alla vitamina D,
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probabilmente dipendente da una più marcata conversione di questa nella sua forma attiva 1-25 diidrossicolecalciferolo. Le conseguenze sono l’ipercalcemia (per gli effetti dell’ipercalcemia, si veda il Cap. 60) e soprattutto l’ipercalciuria, alla quale può conseguire nefrocalcinosi, cioè la deposizione di sali di calcio a livello dell’interstizio renale. D. Clinica. La sarcoidosi insorge prevalentemente durante il 3°-4° decennio di vita, con una lieve predilezione per il sesso femminile. L’esordio può essere acuto, con eventuale successiva cronicizzazione, o insidioso, assumendo dall’inizio caratteri di cronicità. Come già accennato in precedenza, la sarcoidosi può colpire ab initio ogni organo e quindi le manifestazioni più precoci possono essere estremamente variabili. Le stazioni linfoghiandolari profonde, a sede mediastinica, sono pressoché costantemente interessate dal processo, ma possono non dare alcun segno di per sé per lunghi periodi. È perciò più frequente l’evenienza di un giovane paziente che si presenta dal medico a causa di una persistente e capricciosa febbricola, che raramente supera i 38 °C ma che può essere resistente ai comuni farmaci antipiretici. Nel corso degli accertamenti strumentali il riscontro radiologico, spesso casuale, di un’adenopatia ilare bilaterale, con tipico aspetto “a farfalla”, assume un notevole valore diagnostico. Un’altra frequente possibilità (15-35% dei casi) è che la malattia esordisca con un eritema nodoso, manifestazione non specifica della sarcoidosi, ma estremamente indicativa: in presenza di un eritema nodoso è sempre consigliabile l’esecuzione di una radiografia del torace, che può evidenziare la caratteristica adenopatia ilare. L’associazione di adenopatia ilare, eritema nodoso, febbre e poliartralgie viene definita sindrome di Löfgren e rappresenta una forma in genere ad esordio acuto di sarcoidosi. Esiste inoltre una ulteriore modalità di presentazione della sarcoidosi, denominata febbre uveoparotidea di Heerfordt, in cui alla febbre, con i caratteri sopradescritti, si associano alterazioni oculari (uveite, congiuntivite) ed interessamento della ghiandola parotide, spesso con lesioni del nervo facciale omolaterale. La malattia conclamata può coinvolgere isolatamente o in contemporaneità numerosi organi o apparati. 1. Localizzazione intratoracica. È questa la più frequente localizzazione della sarcoidosi, essendo presente nella quasi totalità dei pazienti con malattia in fase attiva. Essa può decorrere isolata o in associazione ad altre manifestazioni; è bene precisare, tuttavia, che l’interessamento intratoracico può seguire quello degli altri organi e non deve perciò essere considerato come il più sicuro indice di sarcoidosi. I pazienti affetti da sarcoidosi intratoracica vengono schematicamente suddivisi in quattro stadi in base all’evoluzione clinica e radiologica della malattia. • I stadio (Fig. 19.11). Costituisce il 60% dei pazienti affetti da sarcoidosi, i quali presentano unicamente l’interessamento dei linfonodi ilari (adenopatia ilare
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Figura 19.11 - Sarcoidosi, I stadio. Si noti il reliquato di pneumoperitoneo a seguito di una laparoscopia per la ricerca di una localizzazione epatica. (Da J. Chrétien, Pneumologia, Masson, Milano, IIa ed., 1984.)
“a farfalla”) con assenza di lesioni a livello del parenchima polmonare. In questi pazienti è frequente, come unico sintomo, una tosse secca e stizzosa, causata da compressione e stiramento dei bronchi contigui e linfonodi aumentati di volume. • II stadio (Fig. 19.12). In questo gruppo di pazienti l’interessamento dei linfonodi ilari è associato a lesioni del parenchima polmonare, che possono essere micro o macronodulari (< 3 cm di diametro) e coinvolgono generalmente entrambi i polmoni in modo diffuso. La sintomatologia a carico dell’apparato respiratorio è, in questi pazienti, regolarmente presente, e generalmente consiste in una dispnea di intensità variabile, eventualmente associata a tosse irritativa. • III stadio. È costituito da pazienti che presentano l’interessamento del parenchima polmonare sopra descritto, ma nei quali si è avuta la scomparsa della adenopatia ilare. In questo stadio le lesioni polmonari sono ancora reversibili ed infatti una buona percentuale di questi pazienti viene a guarigione nell’arco di alcuni anni. • IV stadio. È costituito dalla piccola percentuale di pazienti nei quali la malattia evolve in fibrosi polmonare diffusa, con le conseguenze cliniche e funzionali menzionate nella parte introduttiva di questo capitolo. Questi pazienti sviluppano nel corso degli anni una insufficienza respiratoria conclamata, con il quadro radiologico del cosiddetto “polmone a nido d’ape” (“honeycomb lung”). 2. Sistema linfatico. Come affermato dianzi, sono i linfonodi profondi, mediastinici, ad essere più frequentemente interessati in corso di sarcoidosi. Tuttavia non di rado si osserva una linfoadenomegalia a carico di altre stazioni, come le latero-cervicali, sotto-mandibolari, retro-occipitali, epitrocleari ed in-
Adenopatie ilari poco visibili Opacità microreticolo nodulari diffuse
Figura 19.12 - Sarcoidosi, II stadio. (Da J. Chrétien, Pneumologia, Masson, Milano, IIa ed., 1984.)
guinali. I linfonodi colpiti appaiono aumentati di volume, indolenti alla palpazione e di consistenza duro-elastica. 3. Occhio. È colpito in un quarto dei pazienti con sarcoidosi, con modalità differenti a seconda che si abbia un esordio acuto, in cui spesso si osserva una congiuntivite, con arrossamento e lacrimazione, o insidioso: in questo caso compare più spesso una uveite, con forte tendenza alla cronicizzazione. Complicanza, fortunatamente rara, della sarcoidosi oculare è il glaucoma, che può esitare in una completa cecità. 4. Cute. L’eritema nodoso compare nel 15-35% dei pazienti, spesso come manifestazione precoce. È bene ricordare che esso non è specifico di sarcoidosi, potendo accompagnare numerose altre condizioni morbose (TBC, infezioni streptococciche, reazioni a farmaci). Quando presente, tende a risolversi spontaneamente entro 2-4 settimane dall’insorgenza. Tra le lesioni cutanee più tipiche della sarcoidosi cronica vi è il lupus pernio, caratterizzato da alterazioni circoscritte, rilevate, violacee, localizzate al viso, orecchie, dita e ginocchia. Anche nella forma acuta della malattia possono comparire lesioni cutanee, in genere di tipo maculopapuloso.
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5. Fegato e milza. Il coinvolgimento di questi organi è estremamente frequente (> 70%) in corso di sarcoidosi, ma di rado si accompagna a serie manifestazioni cliniche. Generalmente si può osservare una lieve epatosplenomegalia. Più raramente, qualora le lesioni granulomatose siano particolarmente numerose ed esercitino compressione sulle radici dei canalicoli biliari, può comparire un ittero colestatico. Pure infrequente è la sindrome da ipersplenismo, caratterizzata dalla triade anemia (normocromica e normocitica), leucopenia e piastrinopenia. Essa compare nei casi di notevole incremento volumetrico della milza, non essendo perciò specifica di sarcoidosi, ed è causata dal sequestro a livello dei sinusoidi splenici di elementi corpuscolati del sangue periferico (GR, GB, PP) con conseguente carenza relativa nel distretto circolatorio. 6. Lesioni miocardiche. Il granuloma sarcoidotico si localizza raramente al miocardio (< 5% dei casi); sede elettiva di localizzazione è il setto interventricolare. Le conseguenze cliniche sono in genere costituite da disturbi di conduzione o del ritmo. Solo in caso di massivo interessamento miocardico si può avere uno scompenso cardiaco manifesto. Va però ricordato che questo può conseguire all’aumento delle resistenze vascolari polmonari secondario alla fibrosi diffusa interstiziale: si realizza in questi casi il quadro del cuore polmonare cronico. 7. Lesioni renali. La localizzazione dei granulomi sarcoidotici a livello renale è un evento eccezionale. Danni renali possono però conseguire alla deposizione di sali di calcio a livello dell’interstizio renale, che porta al quadro della nefrocalcinosi. Questa infrequente complicanza è dovuta ad un disturbo metabolico, la cui patogenesi non è del tutto chiarita e che consiste in una variabile ipercalcemia e soprattutto in una marcata ipercalciuria. Sembra che questa evenienza sia dovuta ad una ipersensibilità, presente in alcuni sarcoidotici, all’azione favorente della vitamina D sull’assorbimento intestinale di Ca++: ne risulterebbe un aumento dei livelli ematici di Ca++, con ipoparatiroidismo secondario che determinerebbe un ridotto riassorbimento di calcio a livello tubulare e quindi ipercalciuria. La nefrocalcinosi è tuttavia un’evenienza infrequente in corso di sarcoidosi e tende a manifestarsi solo nelle forme ad evoluzione cronica della malattia. Fra le complicanze molto rare della sarcoidosi, è doveroso menzionare i danni neurologici che possono essere periferici (localizzazione a livello della guaina mielinica) o centrali (interessamento meningeo). È stata anche osservata una rara associazione con diabete insipido secondario ad una lesione dell’asse ipotalamoipofisario. E. Diagnosi. La diagnosi di sarcoidosi si fonda prevalentemente su elementi clinici, essendo – come abbiamo visto – molto caratteristico il quadro di adenopatia ilare bilaterale a farfalla, più o meno associato ad interessamento del parenchima polmonare o di
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altri organi. In questo senso hanno molta importanza le indagini radiologiche sui polmoni. L’uso routinario della TC è controverso, perché in molti casi non fornisce informazioni più utili ed è costoso. Tuttavia, vi sono caratteristici reperti alla TC che sono importanti per la diagnosi, anche se non sono specifici per la sarcoidosi, come la presenza di adenopatie mediastiniche e ilari, l’interessamento polmonare con prevalenza ai lobi superiori, le irregolarità peribronchiali e i noduli subpleurici. La TC può essere utile per la dimostrazione delle lesioni extrapolmonari della sarcoidosi, che possono essere pure evidenziate con la RM. Un utile contributo alla diagnosi può derivare dalla esecuzione di test cutanei di ipersensibilità ritardata ad antigeni ubiquitari (PPD, Candida, streptochinasi, streptodornasi), che possono evidenziare una completa anergia. Le prove di funzionalità respiratoria possono risultare alterate, anche in assenza di lesioni polmonari radiologicamente obiettivabili, tuttavia ciò è più frequente per le forme di sarcoidosi in III e IV stadio. Uno dei test più frequentemente alterati è quello della capacità di diffusione di CO. Nelle fasi avanzate si può realizzare un quadro di tipo restrittivo puro o misto restrittivo ed ostruttivo. La diagnosi di certezza della malattia deriva tuttavia dall’esecuzione di un prelievo bioptico, che può essere agevolmente eseguito qualora sia presente un interessamento cutaneo o linfonodale superficiale. Altre sedi utili per una biopsia, anche se con minori probabilità di successo, sono il pannicolo adiposo sovraclaveare ed il fegato (85% di positività nelle forme acute; 20% nelle forme croniche). Più recentemente si sono sviluppate metodiche molto sensibili per la diagnosi di sarcoidosi in fase attiva: tra queste, la scintigrafia polmonare con 67Gallio, un tracciante che si fissa al tessuto polmonare affetto dalla malattia; tuttavia, questo indicatore può fissarsi ad altri tessuti, infiammatori o neoplastici, a livello polmonare, non essendo perciò specifico di sarcoidosi. Va infine menzionato il dosaggio dei livelli plasmatici dell’enzima convertitore dell’angiotensina (ACE), che risultano frequentemente elevati in corso di sarcoidosi. Sfortunatamente, anche questo test è poco specifico. Da ultimo va ricordata l’estrema utilità dell’esame citologico del liquido di lavaggio broncoalveolare, che in corso di sarcoidosi in fase attiva evidenzia un completo sovvertimento dei naturali rapporti tra le cellule alveolari: in particolare si osserva un aumento percentuale dei linfociti (prevalentemente T), che potranno giungere al 60% della popolazione totale, rispetto al 7-10% presente in condizioni normali. La diagnosi differenziale per la sarcoidosi deve essere posta con altre malattie che possono localizzarsi a livello dei linfonodi mediastinici, come i linfomi o le neoplasie polmonari primitive e metastatiche; devono poi essere menzionate le altre malattie granulomatose a sede polmonare, come la TBC, la silicosi, alcune pneumoconiosi. F. Esami di laboratorio. Va subito ricordato che non esistono elementi caratteristici per questa malattia. Nella sarcoidosi in fase attiva è frequente il riscontro di
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un movimento degli indici di flogosi (VES, PCR, 2-globuline). Spesso sono inoltre osservabili una leucopenia, un aumento delle -globuline sieriche e, come già ricordato, un’ipercalciuria, associata o meno ad ipercalcemia. Può infine aversi, nelle forme acute, un aumento dei livelli di idrossiprolina urinaria. G. Decorso e prognosi. La sarcoidosi può durare a lungo, ma poi andare spontaneamente in remissione. In altri casi può restare attiva per tutto il resto della vita. I pazienti con la sindrome di Löfgren hanno la prognosi migliore. Nel caso della localizzazione intratoracica, la remissione si verifica nel 60-80% dei casi in I stadio, nel 50-60% di quelli in II stadio e in meno del 30% di quelli in III stadio. Sebbene, nel complesso, la prognosi della sarcoidosi sia buona, circa nel 50% dei pazienti residua qualche lieve segno di disfunzione d’organo. H. Terapia. È stato sostenuto che la terapia più soddisfacente della sarcoidosi, sia per il paziente che per il medico, è non fare alcuna terapia. In realtà, un trattamento si rende necessario solo in pazienti sintomatici e in casi particolari, come quando esistono problemi neurologici, cardiaci, oculari tali da mettere in pericolo la vista, grave coinvolgimento respiratorio o ipercalcemia. In questi casi un trattamento corticosteroideo (20-40 mg di prednisone al giorno, come attacco, e 5-10 mg al giorno, come mantenimento) è indicato. L’impiego dei corticocosteroidi per aerosol (budesonide, fluticasone) in aggiunta a quelli per via sistemica, nel caso che questi ultimi non diano risultati soddisfacenti alle dosi indicate, è una possibilità interessante, ma non si è dimostrato che siano realmente utili. Efficaci sono risultati invece altri farmaci, dagli antimalarici (clorochina, idrossiclorochina) a farmaci più impegnativi per i loro effetti collaterali, come l’azatioprina, il metotrexate, la ciclosporina e la ciclofosfamide. Interessante appare la possibile efficacia della pentossifillina (400-1200 mg al giorno), della talidomide (50-200 mg al giorno, utile per le lesioni cutanee, ma non per quelle polmonari) e di un anticorpo monoclonale anti-TNF (infliximab). Quest’ultimo agente terapeutico si è rivelato utile in casi di sarcoidosi refrattaria ad altri trattamenti, ma ha l’inconveniente di aumentare il rischio di tubercolosi, sia come riattivazione, sia come nuova infezione.
FORME CIRCOSCRITTE O A FOCOLAI MULTIPLI Infiltrati polmonari eosinofili In questa denominazione viene compreso un eterogeneo gruppo di condizioni cliniche caratterizzate dalla presenza di due manifestazioni principali: un infiltrato endoalveolare polmonare a carattere fugace, persistente o recidivante, ed un’intensa eosinofilia, generalmente riscontrabile sia nel sangue periferico sia, soprattutto,
nella sede del processo alveolitico (e quindi nell’espettorato o nel liquido di lavaggio broncoalveolare). Ciò che differenzia queste forme morbose da quelle precedentemente esposte (AAE, reazioni da farmaci) è essenzialmente la modalità di risposta dell’organismo ad un determinato agente, che può consistere in reazioni immunoallergiche di I tipo, di III tipo o di entrambi e che si concreta nel massivo impegno dei leucociti eosinofili a livello del parenchima polmonare. A. Eziopatogenesi. Numerosi fattori eziologici sono stati identificati come possibili responsabili di queste sindromi, ma in una percentuale non trascurabile di casi non è stato possibile evidenziare un agente sicuramente responsabile del quadro: si parla in questi casi di pneumopatia eosinofila idiopatica. Tra gli agenti causali più frequentemente implicati in una sindrome eosinofila polmonare, si ricordano: • parassiti (ascaridi, toxocara, filaria); • miceti (Aspergillus fumigatus, Candida albicans); • farmaci (streptomicina, penicillina, sulfamidici, antidiabetici orali). Da questi andrebbero tenuti distinti i quadri di eosinofilia periferica che talora si associano a forme di asma allergico, come quelle da pollini o da allergeni alimentari, in quanto è rarissima in questi casi la presenza di infiltrati polmonari radiologicamente obiettivabili. Inoltre, anche la presenza di eosinofilia eventualmente associata a vasculiti sistemiche o a prevalente interessamento polmonare deve essere considerata parte del quadro più generale di quelle situazioni morbose. Per meglio comprendere la patogenesi delle eosinofilie polmonari è necessario accennare alla complessa rete di interazioni nella quale sono coinvolti i leucociti eosinofili (Fig. 19.13). Numerose cellule immunocompetenti sono in grado di produrre fattori solubili chemiotattici per gli eosinofili (Eosinophil Chemotactic Factor: ECF) capaci di attirarli nella sede di una reazione immunologica; tra queste, i mastociti, in seguito alla degranulazione operata da una reazione tra un allergene e le IgE omocitotrope site sulla superficie cellulare (reazioni di I tipo). Gli stessi linfociti T CD4+, nel loro atteggiamento funzionale di linfociti Th2, secernono l’interleuchina-5, che agisce sul midollo osseo promuovendo la produzione di granulociti eosinofili. Infine, è accertato che alcune frazioni del complemento (C3 e C5), attivate dalla fissazione ad un complesso antigene-anticorpo (reazioni di III tipo), sono chemiotattiche sugli eosinofili circolanti, promuovendone in tal modo la massiva migrazione nella sede del processo. Gli eosinofili possiedono un patrimonio enzimatico in grado di limitare l’intensità delle reazioni precedentemente esposte o di esercitare un’azione destruente su alcuni agenti biologici (parassiti). I principali mediatori di tale funzione sono l’istaminasi (che catabolizza l’istamina), alcune proteine basiche ed una mieloperossidasi. Sfortunatamente in alcuni casi, e qualora vengano prodotte in eccesso, queste stesse sostanze esercitano un danno diretto sulle strutture epiteliali, aggravando
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2. Infiltrati persistenti. Spesso in questi casi non è individuabile una precisa eziologia e non di rado queste forme, pur non associate ad una sintomatologia acuta, tendono ad evolvere progressivamente verso una fibrosi diffusa. L’esame radiologico del torace svela la presenza di infiltrati più evidenti che nelle forme acute e con scarsa tendenza alla regressione. + Ag
T
(IV)
L
+ IgE + Ag E MZ (I)
Ag + IgG + C (III)
Figura 19.13 - Coinvolgimento dei leucociti eosinofili nei processi immunitari. Reazioni di I tipo (mediate da mastociti e basofili), di III tipo (mediate da immunocomplessi) e di IV tipo (mediate da linfociti T) sono in grado di convogliare gli eosinofili nella sede di lesione. L = linfocita T; MZ = mastocita; E = eosinofilo.
così le conseguenze dei processi flogistici che hanno determinato la migrazione e l’attivazione in situ degli eosinofili. B. Clinica. Come già affermato in precedenza, gli elementi comuni a queste sindromi sono l’eosinofilia periferica (variabile dall’8-10% al 40-60%) e la presenza di infiltrati polmonari, generalmente multipli, che interessano preferibilmente le zone del mantello polmonare, senza una precisa distribuzione lobare o segmentale, anche se sono più frequenti nelle regioni basali. Nella maggior parte dei casi eosinofilia e alterazioni polmonari decorrono associate, regredendo parallelamente nel tempo. Dal punto di vista clinico sono essenzialmente riconoscibili tre modalità di decorso di una pneumopatia eosinofila. 1. Infiltrati polmonari fugaci a tipo Löffler. Più frequentemente ad eziologia parassitaria (specie nei bambini) o nel quadro di una reazione a farmaci, possono decorrere del tutto asintomatici ed il reperto di un infiltrato polmonare, con i caratteri descritti, può essere del tutto casuale. Generalmente queste forme hanno la tendenza a regredire spontaneamente dopo qualche settimana, ma è descritta la possibilità di recidive, talvolta in sedi differenti da quella primitiva.
3. Infiltrati associati a sindrome asmatica. È questo il tipico caso dell’aspergillosi broncopolmonare allergica, malattia causata dal rigoglioso sviluppo nelle vie respiratorie di Aspergillus fumigatus, che si manifesta con insorgenza periodica di infiltrati polmonari mono o bilaterali associati ad una sintomatologia asmatica accessionale. Questo quadro, che insorge in pazienti atopici che manifestano reazioni sia di tipo immediato (IgE-mediate) che di tipo semiritardato (IgG-mediate) nei confronti dell’Aspergillus, va tenuto distinto dalle AAE causate dallo stesso agente (per es., nei lavoratori del malto), che non necessitano di un “terreno atopico” per estrinsecarsi. Si ritiene che in questi pazienti la sintomatologia asmatica sia conseguente alla reazione IgE-mediata nelle prime vie respiratorie, mentre gli infiltrati polmonari farebbero seguito ad immunoreazioni di III tipo (con attivazione del complemento) a livello alveolare. Non di rado l’aspergillosi broncopolmonare si accompagna a manifestazioni sistemiche con febbre (38,5-39 °C) e alterazioni degli indici di flogosi. C. Diagnosi. La diagnosi si basa sul riscontro di anticorpi precipitanti (IgG) nel siero dei pazienti affetti e sulla positività dei test allergometrici verso l’Aspergillus, quali il Prick-test o il Rast (che evidenzia anticorpi della classe IgE). Nelle forme acute e sintomatiche si può inoltre osservare un aumento degli indici di fase acuta (VES, 2-globuline, proteina C reattiva).
Vasculiti Per la trattazione sistematica di queste malattie si rimanda al capitolo 69. In questa sede è necessario ricordare che alcune vasculiti interessano elettivamente il polmone, pertanto in questi casi sono pressoché costanti sintomi e segni riferibili all’apparato respiratorio. Responsabili di un tale quadro sono, in particolare, la malattia di Churg-Strauss, la granulomatosi di Wegener e la granulomatosi linfomatoide. Esistono inoltre altre forme verosimilmente infiammatorie ma che pongono, sul piano anatomopatologico, problemi di diagnosi differenziale con i linfomi polmonari (Cap. 20). Tra queste, si ricordano lo pseudolinfoma, la polmonite interstiziale linfoide, la granulomatosi e angioite linfocitica benigna e la granulomatosi sarcoide necrotizzante. Si deve aggiungere che tutte queste diagnosi sono “anatomopatologiche” e che l’individualità nosografica delle malattie così denominate è ancora oggetto di studio.
Della granulomatosi di Wegener e della malattia di Churg-Strauss si parla estesamente nel capitolo 69. Verrà qui analizzata in maggior dettaglio la granulomatosi linfomatoide.
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È questa una malattia caratterizzata dall’infiltrazione di vari organi da parte di una popolazione cellulare polimorfa, costituita da cellule linfoidi e da elementi infiammatori organizzati in lesioni angiocentriche ed angiodistruttive di tipo pseudogranulomatoso. La malattia colpisce principalmente, ma non esclusivamente, il polmone; altri organi meno frequentemente interessati sono i reni, il sistema nervoso centrale e la cute. È ancora incerta l’attribuzione di questa entità morbosa al gruppo delle vasculiti piuttosto che a quello delle malattie emolinfoproliferative: l’evoluzione del quadro verso un linfoma è riportata solo nel 10-15% dei pazienti, ma raggiunge il 50% secondo altre casistiche, ed è la più comune causa di morte in questi pazienti. La malattia colpisce prevalentemente soggetti di sesso maschile in età medio-adulta e le manifestazioni cliniche all’esordio sono più spesso rappresentate da tosse secca, irritativa, associata a sintomi costituzionali (febbre, astenia, malessere generale). Meno comune è la presentazione con lesioni cutanee, anomalie neurologiche centrali o periferiche ed interessamento oculare o linfoghiandolare. La radiografia del torace dimostra la presenza di lesioni infiltrative di tipo nodulare, più spesso diffuse e bilaterali. Tali lesioni possono entrare in diagnosi differenziale con alcuni quadri di infezione tubercolare e con neoplasie polmonari, specialmente di tipo metastatico. Gli esami di laboratorio non danno purtroppo utili informazioni, per cui la diagnosi deve basarsi sull’esame istologico di materiale ottenuto mediante biopsia transbronchiale in corso di esame broncoscopico. La terapia si basa sull’impigo di steroidi e di farmaci citostatici, come la ciclofosfamide. Malgrado la risposta iniziale al trattamento sia spesso soddisfacente, la recidiva è comune e la prognosi a lungo termine del disturbo è infausta, con una mortalità del 60-90%.
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Mentre la malattia di Churg-Strauss e la granulomatosi linfomatoide interessano prevalentemente il circolo polmonare, nella granulomatosi di Wegener è frequente il coinvolgimento delle prime vie aeree (laringe, trachea, bronchi) da parte delle lesioni granulomatose che, ulcerandosi, possono produrre gravi disturbi locali oltre all’interessamento parenchimale. Nel caso delle vasculiti a prevalente interessamento sistemico (lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide, sclerosi sistemica progressiva), il coinvolgimento del parenchima polmonare sembra essere molto frequente, anche se nella maggior parte dei casi esso decorre in modo del tutto asintomatico. Qualora il danno polmonare si renda manifesto, esso consiste generalmente in una fibrosi interstiziale diffusa, che realizza un quadro di sindrome restrittiva.
Sindrome di Goodpasture È questa una rara malattia conseguente alla comparsa di autoanticorpi circolanti (prevalentemente di classe IgG) diretti contro la membrana basale glomerulare ed alveolare. La malattia sembra avere una base di ereditarietà, manifestandosi talvolta in gemelli monozigoti. Le manifestazioni polmonari della sindrome di Goodpasture consistono in emorragie dal tratto respiratorio, talvolta imponenti (emottisi), ma più frequentemente occulte. In alcuni casi possono insorgere reazioni fibrotiche diffuse interstiziali a rapida evoluzione. L’interessamento renale, per il quale si rimanda al capitolo 36, consiste in una forma di glomerulonefrite che generalmente determina entro un anno l’insorgenza di una grave insufficienza renale. La malattia ha in genere una rapida evoluzione e risulta fatale entro 2 anni dalla comparsa, anche perché attualmente non si conoscono terapie efficaci nel limitare l’intensità delle manifestazioni renali e polmonari.
C A P I T O L O
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MALATTIE DELLA PLEURA R. PARDI
La pleura viscerale e quella parietale formano una membrana sierosa senza soluzione di continuità, che riveste il polmone creando un piano di clivaggio atto ad agevolarne le escursioni respiratorie. In condizioni normali i due foglietti pleurici sono separati da uno spazio virtuale che contiene una piccola quantità di liquido, continuamente filtrato e riassorbito tra il compartimento vascolare e quello extravascolare, secondo modalità che verranno in seguito brevemente esposte. La pleura può essere primitivamente o secondariamente interessata da processi morbosi di svariata natura, che possono unicamente dare adito ad una sintomatologia dolorosa caratteristica (dovuta all’irritazione della pleura parietale, che è riccamente dotata di innervazione sensitiva) ovvero determinare un cospicuo aumento della quantità di liquido presente tra i due foglietti pleurici (versamento pleurico). Per meglio comprendere la patogenesi delle più frequenti forme di versamento pleurico, è necessario esaminare brevemente i meccanismi fisiologici che regolano la formazione ed il riassorbimento del liquido pleurico. Com’è noto dalla fisiologia, la dinamica di produzione di un fluido tra un versante vascolare ed uno extravascolare è regolata dalla legge di Starling (Tab. 20.1), che stabilisce il ruolo svolto in questo processo dalla pressione idrostatica e da quella colloidosmotica delle proteine plasmatiche nei due diversi compartimenti. La pressione idrostatica tende a far fuoriuscire fluido dai Tabella 20.1 - Legge di Starling. Accumulo di fluido = K [(Pc – Pi) – (pl – i)] – Q linf K Coefficiente di permeabilità Pc Pressione idrostatica capillare Pressione colloidosmotica interstiziale Fattore di permeabilità delle macromolecole Pi Pressione idrostatica del fluido interstiziale pl Pressione colloidosmotica del plasma Q linf Flusso linfatico
capillari verso la cavaità pleurica, mentre la pressione colloidosmotica delle proteine plasmatiche (che è sempre superiore a quella delle proteine che si trovano nel liquido contenuto nel cavo pleurico) tende a richiamare fluido verso l’interno dei capillari. Il primo processo prevale a livello dell’estremità arteriosa dei capillari ed il secondo a livello della estremità venosa. Nella circolazione generale, in condizioni normali, l’entità dei due processi si bilancia e non si ha trasferimento netto di fluido dal compartimento intravascolare a quello extravascolare. Questa regola vale anche per i vasi sanguigni che irrorano la pleura parietale, che appunto appartengono alla circolazione generale (rami delle arterie intercostali e mammaria interna). La pleura viscerale è però irrorata dal circolo polmonare, nel quale la pressione colloidosmotica delle proteine plasmatiche è, ovviamente, identica a quella nel circolo generale, ma la pressione idrostatica nei capillari è più bassa (circa 20 cmH2O in meno). Quindi, a questo livello, la tendenza al richiamo di fluido dal liquido pleurico verso i capillari è superiore alla tendenza della sua fuoriuscita. Ne consegue che nella pleura si ha fisiologicamente una netta prevalenza delle forze di richiamo del fluido verso il compartimento intravascolare. Una conseguenza di questa situazione è che la via di drenaggio preferenziale del liquido dovrebbe essere verso il circolo polmonare che irrora la pleura viscerale piuttosto che verso il circolo generale che irrora la pleura parietale. I versamenti pleurici possono verificarsi per tre meccanismi: • aumento della permeabilità capillare alle proteine del plasma, e in questo caso si tratta di essudati; • aumento della pressione idrostatica nei capillari e/o diminuzione della pressione colloidosmotica delle proteine del plasma, e in questo caso si tratta di trasudati; • fuoriuscita di linfa o sangue nella cavità pleurica. Gli essudati sono conseguenti a processi infiammatori della pleura o ad una invasione neoplastica. Se aumenta la permeabilità capillare alle proteine del plasma, una
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
parte di queste si trasferirà all’interno del cavo pleurico e verrà perciò a diminuire la differenza delle pressioni colloidosmotiche all’interno ed all’esterno dei capillari. Sarà perciò ridotta la forza che richiama il fluido dal cavo pleurico verso il sangue, mentre è invariata quella che agisce in senso opposto. Le conseguenze di questo squilibrio possono essere molto notevoli e si vedrà che gli essudati pleurici possono essere di notevole volume. Un essudato ha tipicamente un elevato contenuto proteico (> 3 g/dl) e densità uguale o superiore a 1,016-1,018. Un’altra caratteristica degli essudati è che essi contengono cellule infiammatorie: linfociti, monociti, granulociti neutrofili. Solitamente queste cellule sono messe in evidenza centrifugando il liquido di versamento ed esaminando microscopicamente il sedimento. Quando le cellule sono molto abbondanti, esse possono alterare le caratteristiche fisiche del liquido di versamento e renderlo opalescente o addirittura torbido. È il caso di certi versamenti infiammatori che accompagnano polmoniti batteriche: da pneumococco, da stafilococco aureo, da anaerobi, da klebsiella e da altri Gram–. In questi casi il liquido pleurico è talmente ricco di granulociti neutrofili da assumere un aspetto purulento. La malattia viene allora definita empiema pleurico (Fig. 20.1). L’empiema pleurico può anche avere un’eziologia tubercolare, ma questa evenienza è, al giorno d’oggi, molto rara. Un empiema pleurico può verificarsi anche per propagazione al cavo pleurico, per contiguità, di ascessi sottofrenici. I trasudati, come si è detto, possono essere determinati da due fattori. Il primo di questi, l’aumento della pressione idrostatica nei capillari, si verifica tipicamente in corso di scompenso cardiaco. Come è stato spiegato nel capitolo 5, lo scompenso cardiaco può essere schematicamente distinto in scompenso sinistro e destro. Nel primo caso l’aumento della pressione idrostatica nei capillari riguarda la circolazione polmonare e nel secondo la circolazione generale. In base a quanto scritto precedentemente, il maggior effetto ai fini della formazione di un trasudato pleurico dovrebbe essere uno scompenso sinistro, dato che il circolo polmonare
A.
B.
Figura 20.1 - Aspetti alla TC del torace di empiema pleurico (A) e di ascesso polmonare (B). Nel secondo caso sono evidenti gli angoli acuti ai confini con la pleura (frecce). (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003.)
sembra essere la via di drenaggio preferenziale del liquido pleurico. L’evidenza empirica indica, invece, che uno scompenso sinistro puro (tale da determinare in casi acuti asma cardiaco ed edema polmonare) ha poco effetto sulla formazione di un trasudato pleurico, mentre, viceversa, questo può essere significativo in coincidenza con trasudati in altra sede (edemi periferici, ascite) tipici di uno scompenso destro. D’altro canto uno scompenso destro in assenza di un aumento di pressione delle vene e dei capillari polmonari (per es., come conseguenza di un cuore polmonare cronico) ha scarsa tendenza a produrre idrotorace. Si deve perciò concludere che il trasudato pleurico si forma, in corso di scompenso cardiaco, quando la pressione capillare è aumentata tanto nel circolo polmonare che in quello generale e cioè in corso di scompenso globale, sia sinistro che destro (che è una condizione piuttosto comune). Il secondo fattore che può determinare un trasudato pleurico è, come si è visto, una diminuzione della pressione colloidosmotica delle proteine del plasma, che riduce la forza di richiamo del fluido dal cavo pleurico verso il sangue capillare, tanto nella pleura parietale che in quella viscerale. Questo si verifica nella sindrome nefrosica e nelle gravi sindromi da malassorbimento accompagnate da enteropatia protidodisperdente. Una combinazione di questi due fattori si ha nella cirrosi epatica, nella quale si può avere tanto un’ipoalbuminemia (e perciò una diminuzione della pressione colloidosmotica delle proteine del plasma) quanto un aumento della pressione nei capillari della pleura parietale. Questi sono infatti tributari della vena azygos e delle vene mammarie interne, nelle quali si riversa una parte dei circoli collaterali venosi che si formano in questa malattia come conseguenza dell’ipertensione portale. Perciò in questi vasi la pressione è aumentata a causa dell’iperafflusso. Un trasudato pleurico che si produce con un meccanismo che resta non chiarito è quello della cosiddetta sindrome di Meig, caratterizzata dalla presenza di un versamento pleurico in donne con un tumore pelvico, per lo più ovarico e di natura benigna (fibroma, cistoma). Tipicamente il trasudato pleurico ha un basso contenuto proteico (< 3 g/dl) e densità inferiore a 1,015. Per ragioni che non sono state sufficientemente chiarite, ma che evidentemente sono connesse con l’asimmetria del drenaggio venoso, il trasudato pleurico si verifica più facilmente (o comunque più intensamente) a destra che a sinistra. Nel linguaggio corrente un trasudato pleurico viene anche indicato con il termine di idrotorace. Il terzo meccanismo di formazione dei versamenti pleurici dipende da due possibilità. La prima è dovuta a ostruzione di vasi linfatici. Questa può avvenire a livello dei linfonodi mediastinici inferiori dei quali sono tributari i vasi linfatici della pleura viscerale, oppure a livello del dotto toracico (e in questo caso l’ostruzione è di solito neoplastica). In entrambi i casi si raccoglie nella cavità pleurica del liquido ricco di proteine ed il versamento si verifica con lo stesso meccanismo già descritto per gli essudati. Quando è ostruito il dotto toracico, si può avere fuoriu-
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scita del suo contenuto nel cavo pleurico; il versamento presenta un aspetto chiloso ed è perciò detto chilotorace. Un’altra possibilità è che un versamento pleurico si formi a seguito di un’emorragia in questa cavità sierosa, condizione che è detta emotorace. Questo può accadere per traumi, ma anche in corso di neoplasia broncopolmonare o pleurica ovvero secondariamente ad un esteso infarto emorragico polmonare. Le proteine del sangue riducono la differenza tra la pressione colloidosmotica del plasma e quella del contenuto della cavità pleurica, favorendo un trasferimento di fluido all’interno di questa ultima. Se perciò l’emorragia si instaura con gradualità, il versamento pleurico non sarà formato da sangue puro, ma da sangue variamente diluito, nel quale gli eritrociti possono essere largamente lisati e l’emoglobina trasformata (cosiddetti versamenti “laccati” comuni in corso di neoplasie). Esame del liquido pleurico. Il primo problema alla soluzione del quale l’esame del liquido pleurico può dare un importante contributo è la distinzione tra un essudato e un trasudato. A questo proposito sono applicati i criteri indicati per la prima volta nel 1972 da una serie di Autori e chiamati criteri di Light, dal nome del primo autore della pubblicazione che li ha analizzati. Questi criteri sono riportati nella tabella 20.2 Questi criteri hanno un’ottima sensibilità (individuazione dei veri positivi), ma in circa il 20% dei casi possono risultare positivi anche se il versamento è un trasudato, ossia hanno una specificità intorno all’80%. Perciò, nel caso che il contesto clinico faccia pensare a un trasudato e i criteri di Light fossero positivi, è bene ricorrere a un’altra valutazione e cioè alla differenza tra la concentrazione di albumina nel siero e la concentrazione di albumina nel versamento. Nel caso di un essudato questa non supera 1,2 g/dl. È sconsigliabile, tuttavia, basarsi solo su questo criterio perché la sua sensibilità non è molto elevata. Un altro importante aspetto dell’esame del liquido pleurico è la valutazione del suo contenuto cellulare. In genere, gli essudati contengono più cellule dei trasudati, ma è la valutazione della qualità del contenuto cellulare del versamento che ha la massima importanza per diagnosticare le cause di un versamento pleurico. Una prevalenza di neutrofili (più del 50%) indica un processo acuto e particolarmente una pleurite consensuale a una polmonite (pleurite para o metapneumonica), ma Tabella 20.2 - Criteri di Light per la distinzione tra essudati e trasudati pleurici.
Si ha essudato se si verifica uno o più dei seguenti punti: • Rapporto tra contenuto di proteine nel versamento e contenuto di proteine nel siero > 0,5 • Rapporto tra livelli di LDH nel versamento e livelli di LDH nel siero > 0,6 • Livelli di LDH nel versamento superiori ai due terzi del limite superiore di norma dei livelli di LDH nel siero LDH = lattico-deidrogenasi.
anche un’embolia polmonare, mentre rende poco probabile una diagnosi di neoplasia o di tubercolosi. Una prevalenza di cellule mononucleate indica invece un processo cronico. In particolare, una prevalenza di linfociti è caratteristica delle pleuriti tubercolari e dei processi neoplastici. Un contenuto di eosinofili superiore al 10% è insolito nella tubercolosi e nelle neoplasie, mentre può essere osservato in due terzi dei casi di infiammazione pleurica secondaria a penetrazione di aria (idropneumotorace) o di sangue (emotorace) nella cavità pleurica. Un’eosinofilia nel versamento pleurico è possibile in tutte le sindromi caratterizzate da ipereosinofilia (si veda il Cap. 48). Nel caso di neoplasie l’esame citologico del liquido pleurico può essere importante per determinare la natura neoplastica del versamento e per definire di quale neoplasia si tratta. L’esame microscopico di uno striscio del versamento pleurico e le indagini colturali possono essere utili in varie condizioni. Per esempio, l’esame di uno striscio colorato con il Gram e una coltura possono consentire la diagnosi eziologica di una pleurite para o metapneumonica. Raramente si riesce a dimostrare la presenza di micobatteri nei versamenti pleurici mediante un esame batterioscopico, tranne che nel caso di un empiema tubercolare o in corso di AIDS. Le colture, invece, possono essere informative. Dal punto di vista chimico esistono alcune valutazioni molto utili nell’analisi dei versamenti pleurici. Si è già parlato dei livelli di lattico-deidrogenasi (LDH): basti ricordare che il contenuto di LDH in un versamento pleurico è dipendente dal fatto che vi sono cellule in disfacimento ed è tanto più alto quanto maggiore è l’infiammazione, ma anche che può essere originato dal disfacimento di cellule neoplastiche. Anche il contenuto di glucosio può essere significativo. Bassi livelli di glucosio in un versamento pleurico (meno di 60 mg/dl) indicano che il paziente ha un versamento parapneumonico o neoplastico. Un’elevata concentrazione di amilasi è indicativa di una pancreatite. Il dosaggio dell’adenosina-deaminasi in un versamento pleurico può essere utile per riconoscere una pleurite tubercolare: livelli di questo enzima superiori a 40 U/l sono stati trovati quasi costantemente quando un versamento pleurico è di origine tubercolare e solo raramente quando le cause sono altre. Lo stesso vale per le concentrazioni di interferon- nel liquido pleurico.
PLEURITI A. Eziopatogenesi. La pleurite è un processo infiammatorio della membrana sierosa che riveste il polmone. Essa può decorrere isolatamente o, più comunemente, nel corso di un analogo interessamento polmonare e può essere associata o meno ad un versamento pleurico (pleurite essudativa). L’eziopatogenesi delle pleuriti è estremamente variabile ed è riconducibile a tre principali fattori causali: infettivi, immunologici e irritativi. Le pleuriti infettive sono nella maggior parte dei casi sostenute da microrganismi di natura batterica
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e non di rado si sviluppano come complicanze di un processo broncopneumonico. Si parla allora di pleurite parapneumonica, quando essa decorre associata all’infezione polmonare, o metapneumonica se essa insorge successivamente alla polmonite. L’interessamento pleurico in corso di polmonite dipende primariamente dalla sede dell’interessamento parenchimale (focolai sottopleurici daranno più spesso un coinvolgimento della sierosa) e secondariamente dalle caratteristiche del germe infettante (che può evocare risposte flogistiche con essudato più o meno fluido, in grado di estendersi in modo variabile dal focolaio iniziale a distretti parenchimali da esso distanti) e che può essere uno qualsiasi fra gli agenti eziologici di polmoniti batteriche. Una menzione particolare merita la pleurite tubercolare che, come si è visto, può costituire una complicanza tardiva di un’infezione primaria (nel qual caso decorre in genere isolata) o far parte di un quadro più complesso di TBC postprimaria, ma che in genere si sviluppa in soggetti con intensa allergia tubercolare, predisposti cioè a dare risposte flogistiche imponenti non solo nei confronti del bacillo tubercolare integro e vitale, ma anche di suoi costituenti di natura lipidica o proteica. Le pleuriti infettive di origine virale sono assai infrequenti; tra esse va ricordata la pleurodinia epidemica o sindrome di Bornholm, causata da un virus coxsackie B e consistente per lo più in una sintomatologia dolorosa di carattere pleurico associata a dolori muscolari a livello toracico. Tale processo morboso ha decorso generalmente benigno ed autolimitantesi nel volgere di 1 o 2 settimane, ed ha la tendenza e svilupparsi in giovani adulti o bambini sotto forma di piccole epidemie. Le pleuriti causate da processi immunitari sono piuttosto infrequenti e spesso insorgono nel contesto di un interessamento più generale delle membrane sierose quali il pericardio o il peritoneo, in un quadro definito di polisierosite. Le condizioni morbose che più tipicamente possono presentare tale complicanza sono le collagenopatie e, tra queste, in particolare il lupus eritematoso sistemico, malattia nella quale un coinvolgimento polisierositico avviene nel 40-45% dei casi. Meno frequentemente quadri di polisierosite possono insorgere in corso di artrite reumatoide, sclerosi sistemica progressiva e di altre collagenopatie. La patogenesi dell’interessamento pleurico nelle malattie del collagene non è del tutto chiarita, ma viene per lo più ascritta alla deposizione di immunocomplessi circolanti a livello delle pareti dei piccoli vasi pleurici, con conseguente attivazione del complemento e scatenamento di una reazione flogistica. Un caso particolare di pleurite su base immunitaria è rappresentato dalla sindrome di Dressler, o sindrome postinfartuale, che consiste nell’associazione di pericardite, pleurite e polmonite e che può insorgere da qualche giorno fino a 6 settimane dopo un infarto del miocardio. Secondo alcuni, la patogenesi della sindrome di Dressler potrebbe consistere in un processo di autoimmunità diretto contro antigeni di derivazione pericardica, liberatisi durante il processo necrotico che ha interessato miocardio ed epicardio. Il coinvolgimento pleurico sarebbe da attribuire ad una reazione
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
crociata dovuta a somiglianze antigeniche tra le diverse componenti delle membrane sierose. È bene ricordare che una sindrome con caratteristiche cliniche analoghe a quella descritta può complicare il decorso postoperatorio di interventi di cardiochirurgia. Vanno infine ricordate le pleuriti su base irritativa, che comprendono un eterogeneo gruppo di condizioni patologiche nelle quali l’esatto meccanismo patogenetico del coinvolgimento pleurico non è sempre noto, ma non sembra rientrare tra quelli illustrati precedentemente. Di questo gruppo fanno parte per esempio le pleuriti su base traumatica, quelle in corso di infarto polmonare, o ancora quelle causate da una neoplasia broncopolmonare che per contiguità abbia interessato il cavo pleurico. B. Fisiopatologia. Il processo infiammatorio provoca un’iperemia della pleura ed un’iniziale fuoriuscita di proteine dall’interno dei capillari: tra queste è incluso il fibrinogeno, che si converte in fibrina. Se il processo infiammatorio si arresta a questo stadio, la pleurite viene detta fibrinosa o secca (per l’assenza di un significativo versamento). La deposizione di fibrina tra i due foglietti pleurici ne rende scabrose le superfici e determina una stimolazione, esacerbata dai movimenti respiratori, delle terminazioni sensitive che innervano riccamente la pleura parietale. Il dolore che ne deriva è riferito per lo più alla regione cutanea sovrastante la lesione, ad eccezione dei casi di interessamento della pleura diaframmatica che, nella sua parte centrale, è innervata dal nervo frenico (radici sensitive da C3 a C5) e nelle sue parti periferiche da nervi intercostali e la cui stimolazione determina un dolore riferito alle spalle o all’addome superiore. Se la permeabilizzazione dei capillari pleurici è maggiore, si verifica un versamento con il meccanismo descritto precedentemente. Il versamento può anche essere molto abbondante (alcuni litri). La meccanica ventilatoria non subisce in genere alterazioni rilevanti in corso di pleurite. Ciò può verificarsi unicamente nel caso di imponenti versamenti pleurici che esercitino una compressione sul polmone omolaterale, tale da ridurne la capacità ventilatoria, fino a quadri di atelettasia (cioè di totale assenza di ventilazione nel distretto parenchimale interessato). In questi casi l’integrità funzionale del letto vascolare polmonare nei segmenti ipoventilati potrà realizzare quadri di shunt arterovenoso con ipossiemia associata a normo o ipocapnia (per effetto dell’iperventilazione compensatoria nei distretti alveolari integri). C. Clinica. Come osservato in precedenza, frequentemente una pleurite è preceduta o si accompagna ad un quadro morboso di altra natura, del quale può rappresentare una possibile complicanza. Sarà perciò in questi casi più evidente la sintomatologia riguardante la malattia di base, sia essa di natura infettiva, infiammatoria o neoplastica. Il sintomo principale causato da un processo flogistico che coinvolga la pleura parietale è il dolore, che come si è detto ha caratteristiche peculiari, in genere facilmente identificabili; esso è piuttosto superficiale, di tipo puntorio (“a pugnalata”), riferito ad una regione cutanea circoscritta sovrastante la lesione
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pleurica e tipicamente esacerbato dai movimenti respiratori. Già si è detto dell’irradiazione particolare della sintomatologia dolorosa che si realizza quando sia interessata la pleura diaframmatica. La presenza del dolore condiziona generalmente la dinamica della respirazione, che a scopo antalgico assume caratteri di maggiore superficialità e frequenza; può essere inoltre presente tosse secca, su base puramente irritativa. Qualora al primitivo processo infiammatorio si sovrapponga un cospicuo versamento o nel caso in cui esso insorga ab initio, il quadro clinico tende ad assumere caratteristiche differenti: è in queste circostanze modesto o assente il dolore, a causa della separazione dei due foglietti pleurici operata dalla raccolta liquida, mentre può comparire una dispnea a riposo qualora il versamento eserciti compressione su un’estesa area di parenchima polmonare, riducendone la capacità ventilatoria. L’esame obiettivo del torace può dare importanti informazioni, particolarmente nel caso in cui sia presente un versamento di una certa entità (Fig. 20.2). All’ispezione, il malato può presentare, oltre all’eventuale dispnea, una ridotta escursione respiratoria dell’emitorace colpito, che in caso di versamento potrà essere più espanso di quello controlaterale. Questi pazienti tendono inoltre ad assumere un decubito supino preferenziale, che è sul lato sano per i soggetti colpiti da pleurite fibrinosa, al fine di limitare la sensazione dolorosa, mentre è su quello malato in presenza di un abbondante versamento, che tenderebbe altrimenti a comprimere gli organi mediastinici ostacolando il ritorno venoso al cuore. All’esame palpatorio del torace solo la presenza di un versamento cospicuo potrà essere evidenziata, poiché in questo caso la falda liquida interposta tra i due foglietti pleurici (che tende a disporsi per ragioni gravitarie nelle zone declivi del torace) produrrà lo smorzamento o addirittura l’abolizione del fremito vocale tattile fisio-
logico. Questo potrà essere conservato superiormente al versamento, consentendo in alcuni casi, come vedremo, di ottenere informazioni sulla natura trasudatizia o essudatizia dello stesso. Quando il paziente è nella tipica posizione in cui viene eseguito l’esame obiettivo del torace (ossia è seduto), il versamento tenderà comunque a disporsi verso il basso, ma il suo limite superiore seguirà un decorso relativamente orizzontale solo nei trasudati. Negli essudati il livello superiore del versamento tenderà invece ad essere curvilineo, con convessità superiore, creando una linea di passaggio tra il suono chiaro polmonare e quello ipofonetico o francamente ottuso sottostante alla falda liquida (che ostacola la trasmissione delle vibrazioni generate dalla percussione digito-digitale). Tale linea è denominata di Damoiseau-Ellis ed ha generalmente decorso obliquo dal basso verso l’alto e da mediale a laterale. Solitamente questa particolare disposizione degli essudati viene attribuita alla superiore viscosità che in questi casi il versamento pleurico ha rispetto al trasudato: il liquido più viscoso potrebbe, in alcune zone, risalire per capillarità tra i foglietti pleurici. Questa spiegazione non sembra persuasiva, perché la risalita di un fluido per capillarità avviene solo per spessori sottilissimi, largamente al di sotto di quelli rilevabili con la percussione. Molto più convincente è un’altra spiegazione, che attribuisce importanza al fatto che i foglietti pleurici infiammati sarebbero appiccicosi. Per questo motivo il versamento potrebbe scollarli più facilmente in corrispondenza delle pareti laterali del torace, dove le forze elastiche che tendono a retrarre i polmoni sarebbero maggiori. Un ulteriore argomento a favore di questo punto di vista è che lo spostamento gravitario di un essudato pleurico, che si ha in conseguenza di un cambiamento del decubito del paziente (per es., passaggio dalla posizione seduta al decubito laterale dal lato del ver-
Versamento pleurico
Posteriore Is: emitorace dilatato Pa: FVT abolito
Laterale Pe: ottusità Au: soffio bronchiale
Figura 20.2 - Semeiotica del versamento pleurico. Is = ispezione; Pa = palpazione; Pe = percussione; Au = auscultazione. (Si veda anche il Cap. 15.)
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samento) e che può essere sempre rilevato dallo spostamento del confine della ipofonesi (od ottusità), avviene lentamente in corso di pleurite mentre è relativamente rapido in presenza di idrotorace. Deve essere aggiunto che queste regole che abbiamo ricordato a proposito della rilevazione percussoria dei confini dei versamenti pleurici hanno molte eccezioni. Infatti, la preesistenza di aderenze pleuriche (collegamenti connettivali tra pleura parietale e viscerale, esito di pregressi processi pleuritici) può imporre al versamento, sia esso essudatizio o trasudatizio, una disposizione variabile da caso a caso. In alcuni casi, in una ristretta regione paravertebrale, sita superiormente al versamento, sarà possibile apprezzare un’area iperfonetica (triangolo di Garland) con tendenza al timpanismo (suono di Skoda) dovuta allo spostamento superiore del polmone, che tende a “galleggiare” nel versamento. La compressione e la dislocazione controlaterale del mediastino da parte del versamento potranno talora dar luogo ad una ristretta area paravertebrale di ipofonesi, definita triangolo ipofonetico di Grocco. È bene tuttavia precisare che tali reperti sono mal definibili anche in presenza di cospicui essudati e che, come vedremo, il sussidio delle indagini strumentali (l’esame radiologico in particolare) è indispensabile per giungere ad una corretta diagnosi. La figura 20.3 mostra il reperto percussorio di un tipico essudato, peraltro non sempre presente e dipendente dalla entità della raccolta di liquido. L’auscultazione del torace darà reperti diversi a seconda che la pleurite sia solo fibrinosa o che comporti la formazione di un versamento. Nel primo caso, la confricazione dei due foglietti pleurici resi scabrosi da un processo infiammatorio, ma in assenza di versamento, genera degli sfregamenti udibili in una regione circoscritta in corrispondenza della lesione. I caratteri differenziali tra tali reperti di rantoli crepitanti comunemente udibili nei casi di congestione venosa del piccolo circolo sono illustrati nella tabella 20.3.
2
1
3
Posteriore 1 Linea di Damoiseau-Ellis 2 Triangolo di Garland 3 Triangolo di Grocco
Figura. 20.3 - Semeiotica della pleurite essudativa. (Per la spiegazione si veda il testo.)
Tabella 20.3 - Caratteri differenziali tra rantoli crepitanti e sfregamenti pleurici.
FASE DELLA RESPIRAZIONE
Modificazione dopo colpi di tosse Accentuazione per aumento di pressione del fonendoscopio Sede
RANTOLI CREPITANTI
SFREGAMENTI PLEURICI
FINE INSPIRAZIONE
INSPIRAZIONE ED ESPIRAZIONE
++
–
–
+
Frequentemente bibasilari
Più spesso in una regione circoscritta
Quando invece esiste un versamento di volume sufficiente, l’auscultazione evidenzierà una completa assenza del murmure vescicolare (silenzio respiratorio) in corrispondenza della parte più bassa della falda liquida, se si eccettua il suo limite superiore, ove il ridotto spessore del versamento consentirà di apprezzare un soffio bronchiale caratteristicamente attutito (soffio bronchiale dolce) dovuto alla compressione del polmone schiacciato dal versamento. Vanno infine menzionati alcuni reperti auscultatori meno comuni riscontrabili in presenza di un versamento pleurico ed il cui meccanismo patogenetico è riconducibile all’abolizione dei rumori di provenienza alveolare ed alla modificazione di quelli originati a livello bronchiale: si tratta dell’accentuazione della trasmissione della voce bisbigliata (pectoriloquia afona) e della modificazione della tonalità della voce (egofonia). L’esame radiologico del torace (Fig. 20.4) può essere particolarmente utile nel corso di una pleurite, soprattutto se associata ad un versamento. Si apprezza in questi casi un’area di opacità omogenea la cui estensione è direttamente proporzionale all’entità del versamento, potendo variare dalla semplice obliterazione dello sfondato costofrenico omolaterale alla pressoché totale scomparsa del disegno polmonare in un emitorace. Il margine superiore della opacità, rettilineo ed orizzontale nel caso di un trasudato, tenderà ad assumere aspetto sfumato ed obliquo in presenza di un essudato. In alcuni casi l’evacuazione del liquido pleurico accumulatosi può consentire di mettere in luce un processo patologico polmonare, infettivo o neoplastico, sottostante. Gli esami di laboratorio più comuni mostreranno, in corso di pleurite, le alterazioni proprie della malattia di base. È bene ricordare che gli indici di flogosi (VES, 2-globuline, PCR, ecc.) sono ovviamente alterati in presenza di una pleurite su base infiammatoria. D. Diagnosi. Quando il reperto obiettivo è rappresentato solamente dall’auscultazione di sfregamenti pleurici, la diagnosi di pleurite (in questo caso pleurite fibrinosa) è giustificata solamente in coincidenza con il caratteristico dolore ed i sintomi e segni di malattia acuta infiammatoria: febbre, indici di flogosi positivi
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talvolta l’interessamento pleurico, con o senza versamento, può apparire del tutto isolato. In questi casi si dovrebbe considerare, fino a prova contraria, l’eziologia della pleurite come tubercolare in soggetti in giovane età (inferiore ai 40 anni) e come tumorale in soggetti anziani. Di grande utilità risultano, quando tecnicamente eseguibili, l’aspirazione mediante toracentesi di un campione di liquido ed il successivo esame chimico-fisico. La toracentesi è una tecnica che consente di accedere alla cavità pleurica mediante la puntura della parete toracica a livello di uno spazio intercostale, ed ha il fine di aspirare il liquido di un cospicuo versamento a scopo diagnostico o evacuativo. La sede prescelta è in genere nella parete posteriore del torace, qualche centimetro al di sotto del livello superiore del versamento. L’ago viene fatto penetrare subito al di sopra del margine superiore della costa, onde evitare di ledere il fascio nervovascolare intercostale (che decorre lungo il margine inferiore di essa). Dell’analisi del liquido di versamento si è già parlato.
Figura 20.4 - Quadro radiologico (proiezione postero-anteriore) di un versamento pleurico massivo a livello dell’emitorace sinistro. (Da J. Chrétien, Pneumologia, Masson, Milano, IIa ed., 1984.)
agli esami di laboratorio. La rilevazione isolata di sfregamenti pleurici è priva di significato perché questi possono dipendere dagli esiti di una pregressa pleurite (si veda in seguito). Quando esiste un versamento pleurico, il problema è di esaminare se esso sia dovuto ad una pleurite essudativa o se sia un idrotorace. Alcuni elementi semeiologici già ricordati aiutano in questa differenziazione: l’essudato della pleurite si dispone secondo la linea di Damoiseau e si sposta lentamente con le variazioni del decubito; il trasudato dell’idrotorace ha margine superiore più orizzontale e si sposta prontamente con le variazioni del decubito. Tuttavia, come abbiamo già detto, esistono molte eccezioni a queste regole: per esempio, se in una cavità pleurica esistono delle aderenze per una pregressa pleurite, un versamento anche di natura trasudatizia potrà essere variamente saccato. Nella discriminazione tra pleurite ed idrotorace deve perciò sempre essere tenuto presente un criterio clinico globale e cioè ci si deve chiedere se esistano da un lato sintomi e segni di una malattia infiammatoria o neoplastica, e dall’altro se esistano i presupposti per un idrotorace: scompenso cardiaco o ipoprotidemia plasmatica. Una volta accertato che è in atto una pleurite, bisogna cercare di risalire alla sua causa. Questo non è sempre agevole; nella maggior parte dei casi sussistono condizioni predisponenti dovute ad una malattia preesistente, ma
E. Decorso e prognosi. Il decorso di una pleurite è strettamente connesso a quello della malattia nel contesto della quale essa si è sviluppata, anche se in alcuni casi gli esiti di un processo flogistico a carico della pleura possono persistere indefinitamente. Si tratta per lo più di aderenze cicatriziali visibili radiologicamente (“pinzature”) in corrispondenza delle quali si possono udire sfregamenti e che appaiono del tutto innocue dal punto di vista funzionale. Fanno eccezione alcuni reliquati fibrotici, per lo più conseguenti a processi tubercolari estesi (cotenne pleuriche) che possono gravemente alterare le proprietà meccaniche ed elastiche del polmone. F. Terapia. La terapia della pleurite o del versamento pleurico si deve uniformare a quella della malattia di base; in presenza di imponenti versamenti si rende tuttavia opportuna, in alcuni casi, una toracentesi evacuativa, che consenta un recupero funzionale del polmone altrimenti compresso dal liquido accumulatosi. Il trattamento dei versamenti pleurici di origine neoplastica richiede una descrizione più dettagliata: circa il 25% dei casi non richiede alcun intervento terapeutico, in quanto il versamento è di piccola entità, non provoca sintomi e si modifica molto lentamente. I versamenti causati da neoplasie sensibili ai farmaci antiproliferativi o ai trattamenti ormonali possono rispondere ad un trattamento sistemico. La toracentesi fornisce un beneficio sintomatico generalmente transitorio nei casi non più responsivi al trattamento sistemico e nelle neoplasie primariamente poco sensibili alla chemioterapia. Il ricorso ripetuto alla toracentesi può provocare l’infiltrazione neoplastica del tragitto traumatico e la successiva invasione della parete toracica. Si può impiantare stabilmente un tubo toracostomico per drenare, quando necessario, il versamento, ma questa metodica, da sola, non è efficace nell’assicurare un controllo a lungo termine. Si è così affermata la pratica di introdurre nel cavo pleurico agenti di per sé non dotati di attività anti-
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neoplastica (tetracicline, talco) o farmaci antiproliferativi (bleomicina, adriamicina, alchilanti, alcaloidi della Vinca, cis-platino), con l’obiettivo di provocare una fibrosi pleurica ed impedire in questo modo la riformazione del versamento. Con intento in parte differente (induzione di una risposta immune) sono instillati nel cavo pleurico anche modificatori della risposta biologica (Corynebacterium parvum, BCG, OK432, interferoni, interleuchina-2). I farmaci più estesamente testati e più comunemente utilizzati nella pratica clinica sono le tetracicline, la bleomicina e il Corynebacterium parvum. La loro attività è pressoché sovrapponibile, con capacità di controllo del versamento nel 70% dei casi. La pleurectomia ed il talcaggio (che devono essere effettuati in anestesia generale) sono manovre gravate da un’elevata mortalità e morbilità, e devono pertanto essere riservate ai casi refrattari.
PNEUMOTORACE SPONTANEO Il termine “pneumotorace” significa presenza di aria nella cavità pleurica e definisce una condizione patologica piuttosto infrequente ma potenzialmente di estrema gravità. In condizioni normali la cavità pleurica è costituita da uno spazio virtuale privo d’aria ove sono presenti valori negativi di pressione (depressione intrapleurica: valore medio 5 cm H2O) determinati dalla forza di retrazione elastica dei polmoni (che tendono a collassarsi) e della gabbia toracica (che tende ad espandersi). Il passaggio dei gas dal compartimento intravascolare all’interno della cavità pleurica è ostacolato dal fatto che la pressione dei gas ematici è normalmente inferiore a quella atmosferica (Fig. 20.5). L’aria può penetrare nella cavità pleurica qualora si abbia una soluzione di continuo nel foglietto parietale o in quello viscerale delle sierose. Ciò può accadere in seguito a traumi con ferite penetranti nel torace, per rottura spontanea di alveoli prossimali alla pleura viscerale ovvero per introduzione deliberata di aria nella cavità a scopo terapeutico o diagnostico: si parla, allora, rispettivamente, di pneumotorace traumatico, spontaneo o artificiale. In questo paragrafo verrà preso in esame unicamente lo pneumotorace spontaneo, che rappresenta la varietà più comune, ma va detto che le considerazioni fisiopatologiche e cliniche che riguardano lo pneumotorace spontaneo sono largamente sovrapponibili per le diverse forme di pneumotorace. A. Eziopatogenesi. Non è a tutt’oggi ben stabilita l’esatta eziologia dello pneumotorace spontaneo, che nel passato veniva attribuita erroneamente ad una possibile complicanza di un’infezione tubercolare. Sembra accertato che nella maggior parte dei casi tale evento consegua ad una rottura spontanea di bolle di enfisema congenite in sede sottopleurica. A parziale conferma di tale ipotesi stanno la non infrequente predisposizione familiare allo sviluppo di pneumotorace spontaneo ed il riscontro occasionale di un deficit di 1-antitripsina in
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questi pazienti. Cause più rare di pneumotorace spontaneo sono costituite dalla rottura di microascessi (pneumatoceli) in corso di polmoniti infettive, per lo più stafilococciche, o dalla formazione di cisti sottopleuriche da tensione distalmente ad un bronchiolo parzialmente ostruito, per esempio, da un processo neoplastico che consenta l’ingresso di aria nel distretto alveolare corrispondente ma non la sua fuoriuscita. Un passaggio di aria nella cavità pleurica può infine prodursi nel corso di brusche variazioni della pressione intratoracica, quali possono avvenire durante una rapida ascesa verso quote con pressione subatmosferica, o nel corso di una troppo celere decompressione attuata da coloro che operano in acque profonde. In presenza di una soluzione di continuo della membrana pleurica la depressione esistente nel cavo pleurico esercita un effetto di suzione che attira l’aria nel suo interno; tale processo, protraendosi a lungo, può ridurre o addirittura invertire i valori pressori intrapleurici, con gravi conseguenze funzionali per il polmone omolaterale, che,
A. Inspirazione.
B. Espirazione.
Figura 20.5 - Meccanismo dello pneumotorace valvolare. A. L’aria entra nella cavità pleurica attraverso una lesione della parete toracica o, più spesso, della superficie del polmone (entrambe rappresentate in figura ma raramente coesistenti). B. L’aria non può uscire dalla cavità pleurica perché un frustolo di tessuto chiude, come una valvola, la via di penetrazione.
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per effetto del proprio ritorno elastico, non più controbilanciato dalla pressione negativa intrapleurica, tenderà a collassarsi, addossandosi progressivamente all’ilo. Sono conosciute tre varietà di pneumotorace con riferimento alla sua patogenesi. Si parla di pneumotorace chiuso quando, in seguito all’ingresso di aria nella cavità pleurica, si realizza la repentina chiusura della lesione ed il flusso si interrompe; qualora la soluzione di continuo rimanga costantemente pervia, si realizza uno pneumotorace aperto, mentre la condizione più grave, e purtroppo più comune, si verifica allorquando un lembo di tessuto pleurico o polmonare fluttua con meccanismo a valvola sulla lesione, consentendo l’ingresso dell’aria nella cavità pleurica, ma non la sua fuoriuscita (pneumotorace valvolare). B. Fisiopatologia. Le conseguenze funzionali e cliniche di uno pneumotorace dipendono in larga misura dalla sua entità e dall’eventuale insorgenza di un meccanismo valvolare in grado di generare valori pressori fortemente positivi all’interno della cavità pleurica. Il collassamento del polmone che può realizzarsi in tale circostanza ne compromette la capacità ventilatoria, determinando uno squilibrio del rapporto ventilazione/ perfusione a questo livello. A ciò consegue una riduzione dei valori di PO2 che può avere conseguenze anche gravi, soprattutto in presenza di una preesistente broncopneumopatia cronica. L’iperventilazione compensatoria che si realizza nel polmone controlaterale è in genere efficace nel limitare gli incrementi della PCO2 arteriosa e solitamente i meccanismi riflessi di vasocostrizione ipossica a carico del polmone collassato (von Euler) riducono notevolmente lo squilibrio ventilazione/perfusione iniziale, ripristinando i precedenti valori di PO2 arteriosi. Oltre che per le proprietà funzionali polmonari, uno pneumotorace valvolare di notevole entità può avere conseguenze per gli organi mediastinici, ed in particolare per le grosse vene che afferiscono al cuore, la cui pervietà è assicurata dai valori negativi di pressione normalmente vigenti nel cavo pleurico. L’ostacolo al ritorno venoso dovuto alla compressione di tali vasi può in casi estremi condurre ad uno shock cardiogeno da ostruzione circolatoria. Nei casi più gravi l’aria sotto pressione presente nel cavo pleurico può progredire nel tessuto sottocutaneo verso il collo o la parete toracica, realizzando una condizione definita enfisema sottocutaneo, anch’esso potenzialmente grave per il rischio connesso alla compressione delle strutture vascolari decorrenti nel collo. C. Clinica. Lo pneumotorace spontaneo insorge più comunemente in soggetti in età medio-adulta (30-40 anni) di sesso maschile (rapporto M:F = 5/6:1), per lo più in buona salute, oppure in pazienti affetti da malattie broncopolmonari croniche. L’insorgenza della malattia è spesso improvvisa, manifestandosi talvolta durante l’esecuzione di un violento sforzo fisico, e si accompagna a dolore pleurico “a pugnalata” ed a dispnea. Tali manifestazioni possono gradualmente attenuarsi fino a scomparire nel caso di pneumotorace chiuso di modesta entità, ovvero possono aggravarsi nel volgere di poche ore se si instaura un meccanismo a
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valvola. Nei casi più gravi la dispnea diviene marcata e si associa a crescente ansietà ed agitazione, con polso rapido e filiforme, fino ad un quadro di shock che può condurre a morte il paziente. Cianosi cutanea marcata può comparire in corso di pneumotorace di notevole entità, ovvero per lesioni modeste in pazienti già affetti da insufficienza respiratoria. Occasionalmente può essere visibile e palpabile un enfisema sottocutaneo di variabile entità, per lo più evidenziabile a livello del collo, delle fosse sovra e sottoclaveari o della parete toracica. L’esame obiettivo del torace può fornire utili indicazioni in presenza di uno pneumotorace di una certa entità. L’emitorace corrispondente alla lesione può apparire iperespanso, soprattutto qualora si sia instaurato un meccanismo valvolare. La palpazione evidenzierà una riduzione del FVT in corrispondenza della falda aerea sottostante. A questo livello (ciò costituisce un elemento differenziale rispetto al versamento pleurico) la percussione evocherà un suono iperfonetico, talora con timbro timpanico. Auscultatoriamente si potrà apprezzare una riduzione, fino alla completa scomparsa, del murmure vescicolare. Nei casi di grave pneumotorace valvolare si potrà avere la positività del “segno della moneta”, ottenuto percuotendo una moneta appoggiata al torace con un’altra posta di taglio ed appoggiando il fonendoscopio dalla parte opposta del torace, ove sarà udibile un suono simile a un clangore metallico. Tutte le manovre semeiologiche saranno più indicative se eseguite facendo decombere il paziente sul lato sano e consentendo in tal modo alla falda aerea di spostarsi verso l’alto e di essere meglio evidenziabile. Il quadro radiologico (Fig. 20.6), essenziale per confermare la diagnosi di pneumotorace, dimostra la falda
Figura 20.6 - Quadro radiologico di pneumotorace spontaneo in proiezione posteroanteriore. Il polmone destro è collassato (i suoi margini sono indicati dai cunei). (Da Casali L.: Manuale di malattie dell’apparato respiratorio. Masson, Milano, 2001.)
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aerea intrapleurica, più spesso nelle regioni superiori del torace, come un’area di completa diafania, nella quale non è ravvisabile il normale disegno broncovascolare polmonare. Nei casi gravi il polmone appare rimpicciolito ed addossato al proprio ilo. Qualora fossero precedentemente presenti aderenze pleuriche, la raccolta aerea potrebbe apparire saccata e più spesso appare confinata nei campi superiori del polmone. La visione radioscopica in presenza di uno pneumotorace aperto evidenzierà un movimento pendolare del mediastino, attratto verso il lato sano durante l’inspirazione e spostato controlateralmente durante l’espirazione. D. Diagnosi. La diagnosi di pneumotorace spontaneo dovrebbe essere considerata in tutti i casi di dolore toracico puntorio ad insorgenza improvvisa, eventualmente associato a dispnea ingravescente. Altre patologie possono esordire con un quadro simile, come l’infarto miocardico o polmonare o la perforazione di un’ulcera peptica, ma generalmente l’esame obiettivo del malato, associato ad un’indagine radiologica del
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torace, è sufficiente a chiarire l’esatta natura del disturbo. E. Decorso, prognosi e terapia. Uno pneumotorace chiuso di modeste dimensioni può risolversi spontaneamente nel volgere di qualche settimana, per completo riassorbimento dell’aria presente nel cavo pleurico, senza determinare conseguenze cliniche o funzionali rilevanti. Molto meno favorevole può risultare il decorso di uno pneumotorace valvolare, che, se non tempestivamente diagnosticato e trattato, può condurre il paziente ad una insufficienza cardiorespiratoria letale. Si rende in questi casi necessario un pronto intervento terapeutico, basato sull’introduzione, mediante toracentesi, di un ago nella cavità pleurica che consenta la continua eliminazione dell’aria ivi presente. Nei casi di pneumotorace cronico o recidivante può essere utile il ricorso all’immissione in cavità pleurica di soluzioni sclerosanti che impediscano il distacco dei foglietti pleurici ed il conseguente accumulo di aria a quel livello.
C A P I T O L O
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MALATTIE DEL MEDIASTINO E DEL DIAFRAMMA E. LONGHINI
SINDROME MEDIASTINICA Si intende con questo termine un complesso di quadri clinici molto vario la cui patogenesi è per tutti legata o ad una perdita delle caratteristiche di lassità del tessuto connettivo mediastinico o all’occupazione da parte di tessuto abnorme dello spazio mediastinico. Nel primo caso, i diversi organi mediastinici perdono l’indipendenza funzionale per cui ognuno di essi subisce le conseguenze dell’attività di movimento degli altri. Nel secondo caso, la patologia si manifesterà in modo diverso con il variare delle dimensioni della massa abnorme, della sua velocità di crescita e della sua localizzazione. In primo luogo è opportuno considerare le conseguenze della compressione esercitata sui singoli organi e in un secondo tempo trarne notizie topografiche. Grandi vene intratoraciche. La pressione negativa endotoracica ha un’importante azione di facilitazione sul ritorno venoso del sangue al cuore. La perdita della lassità connettivale mediastinica può quindi determinare stasi venosa ed addirittura portare ad un aumento paradosso della pressione venosa durante l’inspirazione. Le conseguenze cliniche della compressione dei grossi vasi venosi afferenti al cuore destro sono già state esposte nel capitolo riguardante le neoplasie broncopolmonari, che rappresentano una causa tra le più comuni di questo quadro morboso. Una compressione del dotto toracico darà edemi agli arti inferiori e all’arto superiore sinistro con versamenti pleurici, la cui caratteristica sarà di essere chilosi. Per ragioni di rigidità strutturale non risulteranno compressibili le arterie sistemiche o polmonari; lo saranno invece le vene polmonari, con conseguente stasi ed edema che interesseranno i distretti polmonari ad esse affluenti. La compressione delle vie aeree, che si manifesterà all’inizio con dispnea e tosse irritativa, darà luogo in un secondo tempo, per compressione tracheale, a rumori inspiratori (tirage) con rientro del giugulo e degli spazi
intercostali ed a rumori espiratori (cornage). Se sarà compresso un bronco principale o una sua diramazione, si potrà reperire all’ascoltazione del torace un sibilo inspiratorio caratteristico. La compressione dell’esofago sarà rilevata dalla disfagia, dolorosa o meno, dapprima per cibi solidi. Varia sarà infine la sintomatologia da compressione delle formazioni nervose. Frequente il dolore con distribuzione intercostale, cervicale, o del nervo frenico (base del torace, collo). L’irritazione del nervo frenico darà singhiozzo e spasmi diaframmatici dolorosi. In un secondo tempo comparirà paralisi dell’emidiaframma corrispondente. La compressione del simpatico avrà anch’essa due fasi in successione. La fase irritativa con esoftalmo, midriasi pupillare, retrazione della palpebra superiore, e la fase paralitica con miosi, enoftalmo, ptosi palpebrale (quest’ultimo quadro è definito sindrome di BernardHorner). Saranno presenti alterazioni della circolazione nel distretto cervico-brachiale. Più clamorosi i segni di compressione del vago. In fase irritativa si avranno tosse, bradicardia, alterazioni del ritmo con deficit di conduzione; in fase paralitica, tachicardia e turbe del ritmo ipercinetiche sopraventricolari (flutter e fibrillazione atriale). L’irritazione del ricorrente sarà seguita da spasmo laringeo e la paralisi porterà a disfonia con voce bitonale. La paralisi bilaterale darà stenosi laringea grave da mancata abduzione delle corde vocali. I quadri clinico-sintomatologici sopra delineati compaiono in diversa associazione, a seconda della topografia della lesione mediastinica. Di conseguenza, si distinguono più sindromi. • Sindrome del mediastino superiore, in cui prevalgono i segni di compressione a carico della cava superiore, del vago e del simpatico. • Sindrome del mediastino anteriore, con interessamento della vena cava, dispnea e sintomatologia dolorosa retrosternale.
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• Sindrome del mediastino medio, con dispnea, tosse, cianosi e paralisi del ricorrente. • Sindrome del mediastino posteriore, con compressione delle radici spinali e dell’esofago. La semeiologia obiettiva permetterà di rivelare, alla ispezione, turgore delle giugulari, cianosi, edema con peculiare distribuzione, circoli collaterali, tumefazioni linfoghiandolari. Con la palpazione si potranno a volte accertare tumefazioni pulsanti (aneurismi) o meno (neoplasie). La percussione rivelerà ottusità abnormi e l’ascoltazione rumori respiratori di origine stenotica. Altri segni extratoracici potranno aiutare nell’indirizzo diagnosticoeziologico; fra questi, si ricordano l’ipertiroidismo, l’iperparatiroidismo, la miastenia (indicativa di neoplasia toracica), l’ippocratismo digitale e la sindrome di Pierre-Marie od osteoartropatia pneumica (indicativi di neoplasia bronchiale), i sintomi generali del morbo di Hodgkin ed i segni ematologici di leucemia. Di grande aiuto nella diagnosi di sindrome mediastinica, specie per quanto riguarda la possibile eziologia, è la radiografia del torace (aneurismi dell’aorta, neoplasie polmonari, adenopatie ilomediastiniche, masse retrosternali). Dati di maggiore dettaglio saranno ottenuti dalla stratigrafia, dalla TC, dal contrasto esofageo, dall’angiografia digitale per via venosa ed arteriosa. È utile, in casi particolari, lo pneumomediastino. L’introduzione di aria attraverso la fossa giugulare consente di contrastare in via negativa le varie formazioni contenute nel mediastino e di studiarle nei dettagli. Infine, cenno particolare merita la mediastinoscopia. Lo strumento introdotto attraverso il giugulo consente il prelievo bioptico sotto diretto controllo visivo. Il mediastino può essere interessato anche da processi flogistici acuti primitivi (apparentemente) o secondari (lesioni esofagee traumatiche, da corpo estraneo, neoplastiche). I sintomi saranno ipertermia, dolore intenso retrosternale e stato settico associati ai diversi segni prima elencati a proposito della sindrome mediastinica. Quando il mediastino è interessato da processi flogistici cronici, si ha invasione e sostituzione del tessuto connettivo lasso con lesioni granulomatose (TBC, lue) o con tessuto fibroso denso (patologia autoimmune, alterazione iatrogena da metisergide). Come già detto, accanto alla sintomatologia della malattia di base, avremo i segni della sindrome mediastinica legati alla perdita di indipendenza motoria dei vari organi. Con la definizione enfisema mediastinico si intende la fuga di aria attraverso i polmoni e le pleure lese verso il mediastino ed eventuale successiva diffusione al sottocutaneo. L’eziologia può essere traumatica, da lesione tumorale o infettiva, complicanza di pneumotorace spontaneo a valvola. La sintomatologia soggettiva è legata a compressione delle formazioni mediastiniche; si rilevano scomparsa delle normali ottusità alla percussione e crepitazione sottocutanea alla pressione. La radiografia rivela aria li-
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Tabella 21.1 - Cause di sindrome mediastinica. • Mediastino superiore
• Mediastino anteriore
• Mediastino medio • Mediastino posteriore
– Ipertrofia e tumori della tiroide (intratoracica) – Tumori delle paratiroidi – Tumori del timo – Disembriomi – Aneurisma aortico – Linfoadenopatia – Tumori del timo – Disembriomi – Cisti pleuropericardiche – Tumori connettivali – Ernie diaframmatiche (Morgagni) – Linfoadenopatie – Linfomi – Linfoadenopatie – Aneurisma aortico – Cisti broncogene – Tumori neurogeni – Cisti broncogene e gastroenterogene – Ernie diaframmatiche (Bochdalek) – Meningocele
bera fra i diversi visceri e nel sottocutaneo. Di per sé il quadro morboso non è in genere grave e la terapia è quella della malattia primitiva. Traumi o rotture spontanee di vasi possono causare emomediastino. Nel caso di rotture aortiche la morte è rapida. In caso di rottura del dotto toracico si può avere chilomediastino. Riportiamo in tabella 21.1 un elenco delle affezioni tumorali in seno al mediastino, che rappresentano il 90% della patologia mediastinica.
MALATTIE DEL DIAFRAMMA E DELLA MUSCOLATURA RESPIRATORIA Cenni di fisiopatologia Il diaframma è un muscolo dall’attività peculiare. Esso infatti si contrae parecchie volte al minuto per tutta la vita. È costituito da miofibrille di diversa composizione e significato strutturale: • fibre a rapida contrazione, basso contenuto di enzimi ossidativi e di mioglobina, con alta attività glicolitica e bassa resistenza alla fatica; • fibre a rapida contrazione, alto contenuto di enzimi ossidativi e di mioglobina, con alta resistenza alla fatica; • fibre a lenta contrazione, con caratteristiche intermedie alle precedenti e pure resistenti alla fatica. Come per ogni altro muscolo, nel diaframma l’optimum funzionale è legato al rapporto lunghezza-tensione. Vi è quindi una lunghezza ideale alla quale il muscolo esprime la forza maggiore. Se il torace è in atteggiamento inspiratorio, la lunghezza iniziale è minore e la forza espressa dal diaframma è pertanto minore.
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21 - MALATTIE DEL MEDIASTINO E DEL DIAFRAMMA
Il diaframma è il principale muscolo inspiratorio. Contraendosi, il muscolo si abbassa, aumenta il volume toracico e riduce quello addominale, sposta le coste in fuori e in avanti (movimento obbligato dall’asse delle articolazioni costo-vertebrali). Questa azione è facilitata dalla forma a cupola del diaframma e quindi dalla disposizione parallela diaframma-parete costale nelle zone periferiche del diaframma. Si comprende come sia negativo il fatto che il diaframma passi dalla forma a cupola a quella piatta, come nell’enfisema polmonare. Infatti in tal caso il rapporto tensione/lunghezza peggiora e le parti laterali del diaframma esercitano una trazione delle coste verso l’interno. Nell’enfisema e nella broncopneumopatia cronica ostruttiva si ha da un lato aumento del lavoro (per aumento delle resistenze delle vie aeree) e dall’altro un basso rendimento (diaframma piatto). Da qui la possibilità di giungere ad uno stato di fatica muscolare, che a sua volta diviene causa prima di insufficienza respiratoria. il segno semeiologico premonitore della fatica diaframmatica è il rientrare dell’epigastrio durante l’inspirazione. Sono muscoli ad attività inspiratoria gli intercostali esterni, gli scaleni e gli sternocleidomastoidei. Sono invece ad attività espiratoria gli intercostali interni e gli addominali. Scaleni e sternocleidomastoidei sono inspiratori accessori e intervengono solo quando l’attività inspiratoria aumenta; i muscoli espiratori sono inattivi nella respirazione a riposo, poiché l’espirazione è in tal caso passiva a spese della retrazione elastica del polmone. Il diaframma può essere colpito nella sua forza di contrazione fino alla paralisi per cause nervose, neuromuscolari o muscolari. Lesioni neurologiche centrali che possono compromettere l’attività del diaframma in toto sono riportate nella tabella 21.2. Nelle prime quattro, l’insufficienza respiratoria da alterata funzione muscolare fa parte del quadro terminale di forme ad evoluzione cronica. Nella poliomielite, invece, l’insufficienza respiratoria è acuta sia essa da lesione spinale (cellule delle corna anteriori) o da lesione bulbare (lesione dei centri respiratori). Anche nel tetano l’insufficienza respiratoria è acuta per contrazione tetanica del diaframma (blocco interneuronale). Lesioni neurologiche periferiche che possono portare a paralisi diaframmatiche sono pure riportate nella tabella 21.2. In particolare, le lesioni del nervo frenico possono essere bilaterali o unilaterali e precedute da fasi irritative il cui sintomo è il singhiozzo. Infine, insufficienze respiratorie da deficit muscolare si possono avere nelle miopatie primitive. Se la paresi o paralisi diaframmatica è bilaterale, consegue insufficienza respiratoria da ipoventilazione, aggravata dalla facile sovrapposizione di infezioni batteriche (deficit del meccanismo della tosse). Il diaframma, durante l’inspirazione, viene trascinato in alto e l’epi-
411 Tabella 21.2 - Lesioni neurologiche che compromettono l’attività diaframmatica. • Lesioni centrali – Sclerosi laterale amiotrofica – Patologia malformativa della cerniera atlante-occipitale – Sindrome siringomielica – Amiotrofie spinali – Poliomielite – Tetano – Traumi cervicali • Lesioni periferiche – Polineurite di Guillain-Barré – Polineurite difterica – Polineurite da porfiria acuta intermittente – Lesioni delle radici cervicali 3, 4, 5 – Lesioni del frenico (compressive, virali, tossiche) – Miastenia – Botulismo (blocco delle sinapsi colinergiche) – Intossicazione da magnesio – Veleni animali
gastrio pertanto rientra. È particolarmente mal tollerato il decubito supino, perché il peso degli organi addominali sospinge ulteriormente il diaframma in direzione craniale. La terapia è la ventilazione artificiale. Nel caso della paralisi diaframmatica unilaterale, un solo emidiaframma apparirà innalzato e ancor più innalzato durante l’inspirazione (utile l’osservazione in scopia) e il mediastino subirà sbandamento poiché sarà trascinato verso il lato sano durante l’inspirazione. Il danno funzionale consiste in una limitazione della funzione ventilatoria. È mal tollerato il decubito supino. Sempre ben tollerato è invece il cedimento di una parte della parete diaframmatica: la cosiddetta eventratio diaframmatica. In questo caso la compromissione funzionale è sempre modesta. Gravi quadri di insufficienza respiratoria possono invece accompagnare lesioni traumatiche del torace; per esempio, quando si realizzi una disconnessione costale multipla, la parete toracica del lato colpito può rientrare durante l’inspirazione. In questo caso durante l’inspirazione il polmone sano inalerà l’aria proveniente dal polmone del lato leso e viceversa durante l’espirazione (fenomeno dell’aria pendolare). L’insufficienza respiratoria può essere allora ovviata solo tramite ventilazione artificiale con pressione positiva alla bocca e successivo intervento chirurgico. Il diaframma può subire fratture da trauma addominale a glottide aperta o da trauma toracico a glottide chiusa. In questi casi si avrà una migrazione di organi addominali nel torace con quadri clinici assai complessi in cui si mescolano i segni dello shock emorragico e dell’insufficienza respiratoria. Radiologicamente si potranno rilevare sbandamento mediastinico e spazi aerei endotoracici da migrazione di organi cavi, da non confondersi con lo pneumotorace spontaneo.
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MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
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PARTE TERZA
MALATTIE DELL’APPARATO DIGERENTE a cura di C. RUGARLI con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di A. FARAVELLI
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C A P I T O L O
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MALATTIE DELL’ESOFAGO V. BALDINI
L’esofago si estende dall’ipofaringe allo stomaco e ha le caratteristiche anatomofunzionali di canale di transito dotato di strutture, prevalentemente muscolari, che adempiono ad un duplice compito: • facilitare la progressione degli ingesti; • ostacolare il reflusso di materiali (alimenti, chimo, succo gastrico) dalla cavità gastrica al lume esofageo e da questo nella cavità orofaringea. A. Il primo compito si realizza attraverso la coordinazione dell’attività, in parte volontaria e in parte involontaria, della deglutizione e dell’attività peristaltica, involontaria, della muscolatura liscia dell’esofago. L’attività propulsiva esofagea è dovuta soprattutto ad onde peristaltiche primarie, le quali, partendo dall’estremità prossimale, si propagano a tutto l’esofago; esse sono evocate da un meccanismo riflesso indotto dall’atto della deglutizione, ma nella loro propagazione ha fondamentale importanza la stimolazione del plesso nervoso intrinseco (analogo a quello di Auerbach dello stomaco e dell’intestino), determinata dalla distensione della parete esofagea da parte del bolo ingerito. La distensione locale dell’esofago provoca, inoltre, l’insorgenza di onde peristaltiche secondarie, che rafforzano l’effetto di quelle primarie; esse sono indipendenti dall’atto della deglutizione, partono a livello del restringimento aortico dell’esofago o subito al di sotto e si estinguono in corrispondenza dell’estremità inferiore del tratto toracico di questo organo. Esistono anche, almeno in certe condizioni correlate a disordini primitivi e secondari della motilità e del transito esofageo (si veda in seguito), onde peristaltiche terziarie, costituite da contrazioni autonome non coordinate, che interessano soltanto brevi tratti dell’esofago e non possiedono carattere propulsivo. Radiologicamente, le onde peristaltiche secondarie conferiscono spesso a questo organo un aspetto caratteristico denominato “a clessidra”, mentre quelle terziarie possono dare origine ad immagini bizzarre e variabili come quelle “a cavaturacciolo” e “a rosario”.
Per la comprensione del normale processo di transito esofageo, bisogna anche ricordare che la formazione dell’onda peristaltica primaria è preceduta di circa 0,5 secondi dall’insorgenza di un’onda negativa di rilasciamento, la quale percorre l’esofago più velocemente della prima, in maniera che lo sfintere esofageo inferiore sia rilasciato al momento dell’arrivo del bolo alimentare deglutito. B. Il secondo compito è legato alla presenza di meccanismi di tipo sfinterico sia a livello della giunzione faringoesofagea (sfintere esofageo superiore) sia di quella esofagogastrica. Le caratteristiche anatomofunzionali di quest’ultima, che è di fondamentale importanza nell’impedire il reflusso di materiale dallo stomaco nell’esofago, vengono descritte in questo stesso capitolo, trattando il problema del reflusso gastroesofageo (si veda in seguito). La patologia esofagea è tipicamente caratterizzata da una variabile compromissione delle funzioni proprie di questo organo (di cui si è detto al punto A e al punto B) e clinicamente si associa all’insorgenza di una triade di sintomi comprendente disfagia, rigurgito e dolore, i quali verranno presi in esame più dettagliatamente nei paragrafi successivi di questo capitolo. Per quanto riguarda il problema della diagnosi delle malattie dell’esofago, l’esame radiologico con solfato di bario rappresenta certamente la metodica più importante per lo studio di questo organo, mentre meno utile in molti casi, anche per le possibili complicanze (soprattutto emorragia e perforazione), è l’indagine endoscopica, la quale ha, peraltro, il vantaggio di consentire l’effettuazione di prelievi bioptici del tessuto esofageo per un eventuale esame istologico necessario in caso di dubbio diagnostico. Molto importante è anche, soprattutto in certi casi (come per esempio in presenza di neoplasia esofagea), la citologia esfoliativa dell’esofago, che può essere significativa dal punto di vista diagnostico in un’elevata percentuale di pazienti.
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MALATTIE DELL’APPARATO DIGERENTE
La semeiotica fisica è invece di scarsissima rilevanza in tutte le affezioni di questo organo, poiché l’esofago, per la maggior parte, è situato in posizione profonda ed è quindi pochissimo accessibile a manovre di questo tipo.
DISFAGIA S’intende con disfagia (difficoltà a mangiare) un disturbo della progressione del bolo alimentare, solido o liquido, nel suo passaggio attraverso l’esofago. A volte la disfagia è accompagnata da dolore, generalmente in regione retrosternale (odinofagia o disfagia dolorosa), e può essere provocata dalla semplice deglutizione di materiale salivare. Le disfagie possono essere di origine organica, per patologia intrinseca o estrinseca (da compressione) del canale digerente, oppure funzionale, conseguente ad affezioni neuromuscolari dell’esofago. Le prime, dette anche disfagie vere ed in genere progressivamente ingravescenti, sono prevalenti per i cibi solidi; le seconde si manifestano soprattutto per i liquidi.
Disfagie organiche Fra le disfagie organiche, cioè quelle conseguenti ad impedimento meccanico nella progressione degli alimenti, ricordiamo in particolare alcune forme. A. Disfagia da malattie esofagee regressivo-carenziali. La più frequente è quella correlata alla sindrome di Plummer-Vinson (o anche disfagia sideropenica), la quale si riscontra talvolta nell’ambito dell’anemia sideropenica. Infatti, in presenza di carenza di ferro, per effetto dell’alterazione del normale trofismo dei tessuti epiteliali conseguente a questa condizione, si può instaurare un processo infiammatorio a carico del faringe, che interessa soprattutto la porzione distale (ipofaringe), con formazione di strutture (simili a “creste”) che aggettano all’interno del lume dell’esofago, dando origine alla disfagia, la quale di solito ha le caratteristiche della disfagia dolorosa. Un quadro sovrapponibile a quello della sindrome di Plummer-Vinson può essere riscontrato a livello della porzione terminale dell’esofago e corrisponde alla presenza dei cosiddetti anelli di Schatzki, con la differenza che nel primo caso si tratta di “creste” o membrane, rivestite da epitelio squamoso, che occupano in genere solo una parte della parete esofagea, mentre gli anelli interessano l’intera circonferenza dell’organo e sono rivestiti da epitelio squamoso sulla superficie superiore e da epitelio colonnare su quella inferiore. L’eziologia degli anelli di Schatzki è sconosciuta; in genere non è presente alcun processo infiammatorio della mucosa; di solito sono asintomatici ed il loro riscontro è occasionale. In qualche caso si accompagnano a disfagia intermittente in relazione alla deglutizione di boli solidi, che causano una temporanea ostruzione, specialmente quando l’introduzione del cibo avviene in condizioni di stress.
B. Disfagia da sclerosi progressiva sistemica o sclerodermia (Cap. 69). Malattia del collageno in cui si ha deposizione generalizzata nella cute e nei visceri di tessuto connettivo. In questi casi è frequente l’interessamento dell’esofago che si trasforma in un tubo quasi inerte, per cui gli alimenti progrediscono soltanto in seguito alla deglutizione (i muscoli striati faringei sono in genere risparmiati dalla malattia) e per effetto della forza di gravità, instaurandosi pertanto disfagia con andamento progressivamente ingravescente nel tempo. C. Disfagia da dermatomiosite (Cap. 69). Altra malattia del collageno, che colpisce particolarmente la cute ed i muscoli ed in cui la disfagia è piuttosto frequente per l’interessamento, abbastanza comune, della muscolatura della porzione inferiore del faringe. D. Disfagia da diverticoli o tumori dell’esofago. È conseguente alla compressione che queste formazioni, soprattutto se di notevoli dimensioni, possono esercitare su questo organo, sia di tipo intrinseco che di tipo estrinseco, con graduale sviluppo di stenosi esofagea e, quindi, di disfagia da ostacolo meccanico. E. Disfagia da compressioni estrinseche dell’esofago. È correlata, per esempio, ad affezioni della tiroide (gozzo o tumore), per quanto riguarda la porzione superiore di questo organo oppure, per quanto riguarda l’esofago toracico, a patologia del mediastino (soprattutto neoplasie).
Disfagie funzionali Le disfagie funzionali sono dovute ad alterazioni motorie per patologia neuromuscolare dell’esofago. Disfagia da cause neuromuscolari La disfagia può essere conseguenza di svariate affezioni neuromuscolari, le quali possono coinvolgere differentemente le tre principali fasi della deglutizione: fase orale, fase faringea e fase esofagea propriamente detta (alcune di queste forme possono essere considerate anche di natura organica). • Disfagia orale: malattia di Parkinson, poliomielite bulbare, distrofia muscolare, malattia del motoneurone, siringomelia (per acinesia e debolezza muscolare con difficoltà nella masticazione a formare il bolo e ad iniziare la deglutizione). • Disfagia faringea: malattia del motoneurone, poliomielite, sindrome midollare laterale (da danno midollare), miastenia gravis, dermatomiosite, distrofia miotonica (da danno della muscolatura striata). • Disfagia esofagea: acalasia e malattia di Chagas (si veda in seguito), spasmo esofageo diffuso (si veda in seguito), neuropatia autonomica (come nel diabete mellito), sclerosi multipla (in tutti questi casi è presente un’alterazione di natura neurologica), sclerodermia, lupus eritematoso sistemico, distrofia mioto-
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nica (in questi casi è presente un deficit dell’attività muscolare). Le forme più importanti di questo gruppo sono in particolare lo spasmo esofageo diffuso e l’acalasia. Spasmo esofageo diffuso Questa condizione può dipendere da molteplici cause: lo spasmo esofageo è abbastanza frequente nelle persone anziane, indipendentemente da qualsiasi stimolo irritativo in rapporto alla naturale modificazione funzionale delle strutture neuromuscolari di questo organo che si instaura con l’invecchiamento; ma la causa più comune è il rigurgito gastroesofageo, in quanto l’HCl esercita un effetto irritativo sulla parete esofagea, che può provocare una contrazione spastica della muscolatura liscia. Altre volte lo spasmo esofageo è correlato alla neuropatia diabetica o alla sclerosi laterale amiotrofica; spesso esso non si accompagna ad alcuna causa evidente, soprattutto nelle persone ansiose, ed è provocato da ripetute deglutizioni di materiale salivare. I pazienti con spasmo esofageo possono lamentare disfagia e dolore retrosternale alla deglutizione di boli alimentari, soprattutto quelli ricchi di fibre collagene (come la carne) o di bevande fredde o gasate. Spesso, tuttavia, lo spasmo insorge del tutto indipendentemente dalla deglutizione, provocando una sensazione di costrizione, talora anche violenta, o anche di semplice fastidio, in regione retrosternale. Tale sintomatologia può rivestire particolare importanza, in quanto essa può simulare il dolore tipico dell’angina pectoris e dell’infarto del miocardio, condizioni con le quali va posta in questi casi la diagnosi differenziale. L’esame radiologico con pasto baritato conferma l’esistenza di un’alterazione della motilità esofagea, evidenziando la presenza al III inferiore di questo organo di immagini caratteristiche (esofago a clessidra, esofago a cavatappi, esofago a rosario) dovute all’esistenza di contrazioni segmentarie (peristalsi terziaria), non coordinate, che non consentono la progressione del bolo alimentare; tale alterazione della motilità esofagea può essere anche documentata mediante esofagomanometria. Acalasia È una condizione più importante, in cui l’alterazione della motilità esofagea non è soltanto funzionale, ma ha anche un particolare substrato anatomico, a differenza di quanto avviene nello spasmo esofageo diffuso. L’acalasia è un disordine cronico della motilità esofagea, caratterizzato da mancato rilasciamento dello sfintere esofageo inferiore; provoca ostacolo al transito del bolo alimentare a livello della giunzione esofagogastrica, ristagno del cibo a monte e conseguente dilatazione esofagea. La patogenesi di questa affezione è correlata a degenerazione delle cellule nervose del plesso gangliare mioenterico di Auerbach in corrispondenza del III inferiore dell’esofago, la quale determina ipertonia dello sfintere esofageo inferiore (onde la denominazione di cardiospasmo con cui viene anche chiamata l’acalasia) ed incoordinazione motoria, con scomparsa della peristalsi primaria e secondaria e con insorgenza di contra-
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zioni segmentarie non coordinate e non propulsive (peristalsi terziaria). A conferma di questo fatto, studi farmacologici hanno dimostrato che in questi pazienti la somministrazione di sostanze ad attività parasimpaticomimetica (acetil--metil-colina o Mecholyl) provoca violente contrazioni segmentarie dell’esofago riferibili, secondo la legge di Cannon, ad abnorme sensibilità da denervazione. Anche la risposta dello sfintere esofageo inferiore alla gastrina, che è mediata sempre dal sistema parasimpatico, appare aumentata in presenza di acalasia e fortemente incrementata con il test al Mecholyl. Questa malattia, che colpisce entrambi i sessi con lieve prevalenza per quello femminile, compare di regola tra i 20 e i 40 anni e la sua eziologia è sconosciuta; in Brasile l’acalasia è spesso associata alla malattia di Chagas, in cui la distruzione dei plessi intramurali esofagei è dovuta all’azione della neurotossina liberata dalla rottura delle pseudocisti di Trypanosoma cruzi, ma questa eziologia non porta chiarimenti sulle cause delle altre forme di questa affezione. L’acalasia ha un decorso cronico e la sintomatologia si instaura molto gradualmente; nelle prime fasi i disturbi sono più rari, provocati solo dalla deglutizione rapida e dall’ingestione di cibi liquidi (disfagia paradossa), specie se freddi e alcolici. Tale disfagia può essere risolta dalla manovra di Valsalva (espirazione forzata a glottide chiusa) che, aumentando la pressione esofagea, consente di vincere la resistenza rappresentata dallo spasmo dello sfintere esofageo inferiore, almeno finché lo sfintere esofageo superiore è continente. In seguito la disfagia diventa costante (100% dei casi); il paziente presenta spesso rigurgito (70%), precoce e poco abbondante in principio, successivamente più abbondante, costituito da materiale alimentare ingerito molto tempo prima, spesso maleodorante per fenomeni putrefattivi (foetor orale), nelle fasi avanzate. Il rigurgito è soprattutto frequente durante il riposo a letto in rapporto alla posizione orizzontale. La disfagia, che talvolta esordisce in relazione a grave stress, a gravidanza, a ingestione di grandi quantità di cibo, si accompagna spesso a sensazione di fastidio, di peso e talvolta (20% dei casi) anche di dolore retrosternale. Per effetto della disfagia, del rigurgito e della conseguente anoressia, si instaura una progressiva perdita di peso fino a vera e propria cachessia nelle forme più gravi e nelle fasi più avanzate. Il paziente, per ovviare al ristagno del materiale alimentare, è costretto ad assumere forti quantità di acqua, in maniera da aumentare la pressione all’interno dell’esofago, così da permettere il graduale passaggio del cibo attraverso il cardias. Tuttavia il ristagno degli alimenti determina a lungo andare una progressiva dilatazione dell’esofago a monte della lesione (megaesofago) per graduale sfiancamento della parete, la quale può anche arrivare a provocare fenomeni compressivi sugli organi limitrofi (cuore, polmoni, tronchi nervosi); quando l’ectasia esofagea è divenuta di alto grado, tosse capricciosa è presente frequentemente.
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Il quadro clinico può avere andamento continuo oppure intermittente con fasi di aggravamento parossistiche; nelle fasi più avanzate le complicanze possono essere varie e gravi: infezioni polmonari, spesso ab ingestis, perforazione esofagea, esofagite, carcinoma esofageo (5% dei casi). La diagnosi di acalasia è fondata soprattutto sul quadro clinico e su quello radiologico; quest’ultimo, nelle fasi precoci, quando mancano ancora i segni della dilatazione, mostra la scomparsa progressiva della bolla gastrica, l’assenza di peristalsi nella porzione distale dell’esofago e il ristagno di bario in regione sovracardiale. In presenza di megaesofago si evidenzia la dilatazione di tutta la parte toracica del viscere con progressivo restringimento del segmento inferiore, di aspetto uniforme, e passaggio centrale filiforme “a coda di topo” del mezzo di contrasto. La centralità del restringimento e la sua graduale accentuazione a partire dalla regione sovrastante dilatata sono elementi differenziali importanti nei confronti di stenosi neoplastiche o di altra natura. Nella porzione dilatata l’opacizzazione della colonna di bario può non essere uniforme per commistione con residui di alimenti che ristagnano nell’esofago; in scopìa i movimenti della parete non appaiono peristaltici, ma disordinati ed irregolari, dovuti a contrazioni di carattere segmentario non propulsive. L’esame endoscopico consente di evidenziare la scomparsa delle pliche mucose nella porzione dilatata, mentre in quella stenotica il disegno mucoso appare normale; inoltre tale indagine è importante per la diagnosi differenziale tra acalasia e stenosi organiche di altra natura. L’esofagomanometria dimostra in questi casi l’aumento della pressione esofagea, l’ipertonia dello sfintere esofageo inferiore e l’irregolare variazione delle pressioni intraluminali in rapporto all’alterazione della motilità con la scomparsa della normale attività peristaltica; inoltre tale indagine consente di registrare l’abnorme risposta contrattile della porzione distale dell’esofago con il test al Mecholyl. La terapia di questa malattia ha come scopo quello di ridurre lo spasmo dello sfintere esofageo inferiore senza ridurne la funzione antireflusso gastroesofageo: tale obiettivo viene perseguito con terapia medica (antispastici) o, più spesso, meccanica con dilatazione esofagea, mediante speciale apparecchio pneumatico, o chirurgica, con intervento di cardiotomia extramucosa. Bolo isterico Tra le forme di disfagia funzionale di origine faringea può essere ricordato, infine, il quadro del cosiddetto bolo isterico. Esso consiste nella sensazione di una ostruzione in gola che solo in una certa parte dei casi interferisce con la deglutizione; in genere non si osserva perdita di peso. Questa condizione può essere considerata come una disfagia di natura psicogena, ma la terminologia in realtà è impropria perché questo disturbo si verifica non tanto in associazione con personalità isteriche, quanto piuttosto ossessive e/o depresse.
MALATTIE DELL’APPARATO DIGERENTE
REFLUSSO GASTROESOFAGEO Si intende con questo termine il reflusso di materiale gastrico in esofago. Tale evento è fisiologicamente ostacolato da alcuni meccanismi anatomici e funzionali, rappresentati soprattutto dallo sfintere esofageo inferiore e dalla presenza di un angolo acuto (angolo di His) a livello del passaggio tra l’esofago e lo stomaco. 1. Di primaria importanza è sicuramente la funzione dello sfintere esofageo inferiore: esso non è un vero e proprio sfintere in senso anatomico, in quanto è costituito direttamente dalle tonache della parete della porzione terminale dell’esofago che, in sede sovracardiale, formano questa struttura dotata di attività sfinterica. Infatti, mediante l’esofagomanometria (che permette di determinare i livelli di pressione intraluminale nei diversi segmenti di questo organo), è possibile individuare, subito al di sopra del cardias, una zona di circa 3-4 cm dove si riscontra una elevata pressione (10-17 mmHg) nell’intervallo tra due successive deglutizioni. Durante la deglutizione, invece, per un meccanismo riflesso dovuto al passaggio del bolo alimentare in faringe, lo sfintere esofageo inferiore si rilascia prima dell’arrivo dell’onda peristaltica primaria propulsiva. Oltre che dal riflesso orofaringeo, il controllo di questo sfintere viene esercitato anche da riflessi locali modulati dal pH gastrico (un pH neutro tende ad aumentare il numero dei reflussi gastroesofagei) e da segnali a partenza gastrica mediati dalla gastrina, la cui increzione da parte delle cellule della regione antrale dello stomaco indurrebbe un aumento del tono dello sfintere esofageo inferiore. Anche la dieta sembra possedere una certa importanza nella regolazione di questo sfintere, nel senso che un pasto ricco di proteine tende ad aumentarne il tono, mentre i grassi sembrano ridurlo. 2. Un secondo meccanismo molto importante nel prevenire il reflusso di materiale gastrico in esofago è rappresentato dalle caratteristiche anatomofunzionali della giunzione gastroesofagea, in cui un ruolo determinante è quello svolto dall’angolo di His e, in minor misura, dalle fibre muscolari del diaframma. Infatti, l’impianto ad angolo acuto dell’esofago sullo stomaco, a livello del fondo, fa sì che per effetto della pressione all’interno della cavità gastrica si determini una chiusura a valvola dell’estremità inferiore dell’esofago quando lo stomaco è ripieno di ingesti, impedendo in tal modo il reflusso di materiale verso l’alto attraverso il cardias. Inoltre, in corrispondenza del passaggio dell’esofago attraverso il diaframma (a livello, cioè, del cosiddetto iato esofageo), questo organo è completamente delimitato dalle fibre del pilastro diaframmatico interno destro, le quali sono disposte come “a sciarpa” e, contraendosi, esercitano un’azione occludente di pinzettamento sull’estremità inferiore di quest’organo. Per questo motivo, viene mantenuta la normale angolatura al passaggio tra stomaco ed esofago da cui dipende in gran parte la fisiologica continenza dal cardias, anche
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durante la fase inspiratoria, quando l’abbassamento del diaframma tenderebbe ad appianare tale angolo e, inducendo una depressione all’interno del torace, favorirebbe il richiamo di materiale gastrico in esofago. Una funzione simile è svolta anche dalle fibre della tonaca muscolare del fondo dello stomaco, che sono disposte “a fionda” intorno alla giunzione gastroesofagea di cui concorrono a mantenere le normali caratteristiche anatomofunzionali. A. Eziopatogenesi. Il reflusso gastroesofageo può riconoscere cause diverse. 1. Incontinenza dello sfintere cardiale nel neonato, condizione che in genere va incontro a spontanea risoluzione verso i 2-3 anni, potendo, però, lasciare talvolta degli esiti dovuti ad importante esofagite, con possibile evoluzione verso una stenosi cicatriziale. 2. Sforzi fisici, che possono determinare un eccessivo aumento della pressione endoaddominale, in particolare se sostenuti dopo un pasto abbondante, specialmente se ricco di grassi che ritardano lo svuotamento gastrico, così come altre sostanze, quali il cioccolato, il fumo, il caffè o anche certi farmaci (per es., gli anticolinergici). 3. La causa più frequente di reflusso gastroesofageo è la presenza di ernia iatale, condizione in cui si ha la dislocazione dello stomaco o, comunque, come avviene di solito, di una parte di questo nella cavità toracica attraverso lo iato esofageo del diaframma. Le ernie iatali vengono distinte in tre tipi diversi secondo la classificazione di Akerlund: • da brachiesofago (o esofago corto); • da scivolamento; • da rotolamento (ernie paraesofagee). a) L’ernia da esofago corto si associa a brachiesofago, cioè a un diminuito sviluppo in lunghezza di questo organo per ragioni congenite o acquisite (per es., retrazione cicatriziale dell’esofago in seguito ad ingestione di caustici), per cui è possibile che il cardias e parte dello stomaco risalgano all’interno della cavità toracica (1-2% di tutte le ernie iatali). b) L’ernia da scivolamento costituisce l’80-90% di tutte le ernie iatali e risulta, quindi, in assoluto la principale causa di reflusso gastroesofageo. È presente in tutte le età (può essere congenita o acquisita), ma in particolar modo in quella adulta ed ancor più in quella senile, prediligendo il sesso femminile; talvolta si presenta con una certa tendenza alla familiarità, indicando l’esistenza di una predisposizione anatomica su base costituzionale. L’alterazione anatomica fondamentale è rappresentata da una particolare lunghezza o lassità del legamento frenoesofageo (che è una diretta continuazione della membrana esofagea vera e propria di Laimer), il quale normalmente si accolla alla superficie inferiore del diaframma in corrispondenza del passaggio dell’esofago attraverso lo iato, delimitando una zona di tessuto lasso in cui decorrono vasi e nervi.
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Il cedimento di questo legamento (la cui eccessiva lunghezza o maggiore lassità può essere di carattere congenito) e la conseguente erniazione dello stomaco possono essere favoriti da diverse condizioni, in particolar modo quelle che inducono un aumento della pressione endoaddominale (per es., accessi ripetuti di tosse o la presenza di obesità di grado rilevante con abbondante adipe addominale). In questi casi, se l’organo erniato è rappresentato soltanto dal cardias, si verificherà reflusso gastroesofageo con conseguente eventuale esofagite peptica di grado variabile; in altri casi può superare lo iato gran parte o addirittura l’intero stomaco e il quadro clinico si complica per la comparsa di sintomi dovuti alla compressione di organi presenti nel mediastino. Inoltre, è frequente, nelle forme più gravi, lo stiramento del legamento gastrosplenico, che provoca una congestione venosa nella rete vascolare della mucosa erniata con conseguente stillicidio emorragico (solo di rado emorragia massiva), responsabile di anemia sideropenica. c) L’ernia paraesofagea o da rotolamento, più rara della precedente, si instaura per un meccanismo di erniazione e di rotazione intorno allo iato, in seguito al quale il cardias rimane in sede normale sottodiaframmatica, mentre una parte dello stomaco migra all’interno del torace, disponendosi lateralmente all’esofago e formando una specie di tasca richiusa su se stessa. Questa varietà di ernia iatale comporta piuttosto raramente problemi importanti legati al reflusso gastroesofageo, mentre sono più rilevanti le manifestazioni conseguenti alle alterazioni vascolari ed alla compressione degli organi intratoracici. 4. Infezione da Helicobacter pylori. Alcuni studi clinici hanno suggerito che l’infezione dello stomaco da parte di H. pylori (si veda in seguito) possa proteggere contro il reflusso gastroesofageo. In realtà questa possibilità è ancora in discussione. Tuttavia, quando esiste rigurgito gastroesofageo ed è documentata la presenza di H. pylori, è conveniente praticare una terapia eradicante contro questo microrganismo perché la frequente assunzione di farmaci che sopprimono l’acidità gastrica, che è comune in presenza di rigurgito, può aggravare l’infiammazione del corpo gastrico indotta da questa infezione e aumentare il rischio di carcinoma gastrico. B. Clinica. Il quadro clinico del reflusso gastroesofageo è caratterizzato fondamentalmente da pirosi e rigurgito. La pirosi, cioè la sensazione di bruciore, è prevalentemente retrosternale o xifoidea, insorge di solito circa un’ora dopo i pasti e, soprattutto in presenza di ernia iatale, è accentuata dal decubito (specialmente in posizione supina, tanto che il paziente è spesso costretto a dormire con due cuscini), dall’esercizio fisico violento (per es., sollevando pesi) e dalla flessione del tronco in avanti (segno dell’“allacciamento della scarpa”). Talvolta, la pirosi è accompagnata o anche sostituita da dolore crampiforme retrosternale o epigastrico. Il rigurgito può essere postprandiale e, soprattutto, notturno (segno del “cuscino bagnato”) e talvolta assu-
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me le caratteristiche del mericismo (o ruminazione, cioè rinvio consapevole verso il cavo orale di alimenti già ingeriti o succo gastrico, i quali successivamente vengono di nuovo deglutiti). Frequente è anche la presenza di aerofagia. Tutti gli altri sintomi sono riconducibili alle complicanze che possono sopravvenire e sono rappresentati soprattutto da disfagia (conseguente alla stenosi cicatriziale che può complicare una grave esofagite peptica), anemia sideropenica (per la già ricordata sofferenza delle strutture vascolari della parete gastrica) e disturbi da compressione degli organi intratoracici, quali, in particolare, crisi di tipo anginoso (da compressione cardiaca diretta o da riflessi viscero-viscerali) e crisi di dispnea (da compressione polmonare). C. Complicanze. Se il reflusso di materiale gastrico è sporadico, raramente provoca problemi significativi; se, invece, si verifica un continuo contatto della mucosa esofagea con la secrezione acida dello stomaco, si sviluppa un quadro di esofagite peptica, la quale può evolvere in taluni casi verso una vera e propria ulcera con possibile successiva retrazione cicatriziale responsabile di stenosi esofagea. In particolare, la classificazione della esofagite secondo Savary-Miller-Monnier distingue quattro stadi: 1. erosioni non confluenti; 2. erosioni confluenti, ma non occupanti l’intera circonferenza dell’esofago; 3. erosioni occupanti tutta la circonferenza dell’esofago; 4. ulcera o stenosi. Lo stimolo irritativo può, inoltre, condurre nel tempo ad una metaplasia dell’epitelio pavimentoso dell’esofago che assume le caratteristiche di un epitelio cilindrico colonnare: in questo caso si parla più correttamente di esofago di Barrett (si veda in seguito), la cui importanza è soprattutto correlata al fatto che esso si associa con particolare frequenza con l’ulcera peptica e con il carcinoma dell’esofago (in genere adenocarcinoma). La flogosi cronica della porzione inferiore dell’esofago può anche predisporre ad una complicanza rara, ma grave, rappresentata dalla sindrome di Mallory-Weiss, la quale è caratterizzata dalla lacerazione della mucosa e della sottomucosa dell’esofago terminale, fino alla rottura del viscere, con insorgenza di disfagia dolorosa molto marcata oltre che di ematemesi e/o melena. In genere questa sindrome si verifica in corso di vomito ripetuto e abbondante ed è provocata dal brusco aumento della pressione intragastrica ed intraesofagea; il quadro clinico può anche essere caratterizzato da importanti manifestazioni di carattere generale, conseguenti soprattutto al grave squilibrio idroelettrolitico ed acidobasico (alcalosi ipocloremica). Infine, può essere ricordata la cosiddetta triade di Saint, associazione di ernia iatale, litiasi biliare e diverticolosi del colon, soprattutto frequente in donne anziane, verosimilmente correlata ad una comune predisposizione individuale legata ad una abnorme lassità tissutale (specialmente per quanto riguarda l’associazione di
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ernia iatale e diverticolosi del colon) ed al ruolo favorente esercitato dalla litiasi biliare, attraverso meccanismi riflessi viscero-viscerali, nei confronti sia della formazione di ernie dello iato sia di diverticoli del grosso intestino. D. Diagnosi. Esistono diverse indagini per lo studio del reflusso gastroesofageo e delle condizioni che ne provocano l’insorgenza, indagini che, di fatto, sono utili per la diagnosi di tutte le malattie dell’esofago. 1. L’esame radiologico dell’esofago con solfato di bario è il metodo più semplice e consente di evidenziare la presenza di ulcera o stenosi esofagea; eseguito con il paziente in diverse posizioni (soprattutto quella di Trendelenburg), può permettere di dimostrare il reflusso del bario in esofago e l’eventuale presenza di ernia iatale. 2. L’esofagoscopia è importante per rilevare l’esistenza di esofagite o di ulcera, consentendo anche di effettuare biopsie per l’esame istologico della mucosa (particolarmente utile per riconoscere l’esistenza di aree di metaplasia, come nell’esofago di Barrett, e per escludere la presenza di processi neoplastici). Per la descrizione di questa metodica diagnostica si rimanda al Cap. 22. 3. Una tecnica attendibile è il monitoraggio del pH esofageo mediante l’impiego di un sondino nasogastrico, che consente di evidenziare una variazione verso valori acidi in occasione di eventuali reflussi. 4. L’esofagomanometria è una metodica che permette di determinare le variazioni di pressione all’interno dell’esofago, potendosi in questo modo, per esempio, evidenziare una riduzione dei livelli pressori a carico dello sfintere esofageo inferiore, segno indiretto della sua incontinenza. Questa tecnica consiste nell’introduzione attraverso la bocca di una sottile sonda, la quale porta alla sua estremità terminale dei micropalloncini gonfiati con aria o dei piccoli fori collegati ad un circuito ad acqua: il sistema è connesso con un registratore e consente di valutare le variazioni di pressione all’interno dell’esofago indotte dall’attività contrattile della parete muscolare (la stessa metodica può essere utilizzata per qualsiasi altro tratto del canale alimentare). 5. Molto promettente e con il vantaggio di non essere invasivo è l’esame con il tecnezio radioattivo (99Tc) somministrato per via orale: la positività dell’indagine scaturisce dalla registrazione della presenza del radioisotopo nell’esofago correlata all’eventuale reflusso di materiale gastrico attraverso il cardias.
Altre cause di esofagite: esofagite non peptica A. Candidiasi esofagea. L’infezione clinica più importante dell’esofago è la candidiasi o moniliasi. Essa
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colpisce in genere soggetti compromessi dal punto di vista immunologico, affetti da neoplasie maligne, diabete mellito o ipotiroidismo, o sottoposti a prolungati trattamenti con farmaci immunosoppressivi (come i corticosteroidi) o con antibiotici a largo spettro. Il fenomeno è particolarmente comune in soggetti affetti da sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). Un altro fattore predisponente è l’alterazione dello svuotamento esofageo, come si verifica nel caso di carcinoma, di stenosi dell’esofago di altra natura o di disturbi significativi della motilità. La maggior parte dei pazienti è asintomatica, ma possono essere presenti disfagia o odinofagia di grado variabile. All’esame endoscopico la candidiasi si caratterizza per la presenza di chiazze biancastre aderenti (in genere osservabili anche sul palato duro e molle per la contemporanea esistenza di candidiasi del cavo orale), di variabile grandezza, costituite da aggregati di ife, sovrapposte ad una mucosa esofagea di aspetto iperemico e, nei casi più severi, anche ulcerata. La candidiasi può essere dimostrata microscopicamente sulle biopsie e sugli strisci citologici. L’esame radiologico può essere del tutto normale, ma può anche mostrare un profilo mucoso irregolare, frastagliato o nodulare, fino a evidenziare vere e proprie ulcerazioni, accompagnate occasionalmente da restringimento segmentario del lume esofageo. B. Esofagite erpetica. L’infezione esofagea da Herpes simplex (meno comune di quella da Candida, con la quale può essere clinicamente confusa) colpisce anch’essa pazienti immunocompromessi, gravemente debilitati o in condizioni terminali, ma è stata anche occasionalmente descritta in soggetti normali. Può essere del tutto asintomatica o produrre disfagia o odinofagia fino, raramente, a sanguinamento importante. Non vi sono caratteristiche radiologiche specifiche. L’esame endoscopico mostra, di solito, la presenza di ulcerazioni superficiali isolate o confluenti, mentre sono assenti le caratteristiche chiazze biancastre della candidiasi. La diagnosi viene confermata dal riscontro dei tipici corpi inclusi eosinofili nelle biopsie e da una elevazione nel siero degli anticorpi fissanti il complemento diretti contro l’Herpes simplex. C. Esofagite da farmaci. Numerosi farmaci sono ritenuti possibile causa della formazione di ulcere o stenosi esofagee. Tra questi si annoverano il bromuro di emepronio, i sali di potassio, le preparazioni di ferro, alcuni analgesici e antibiotici e perfino i -bloccanti. È stato inoltre ipotizzato che la somministrazione di farmaci antinfiammatori non steroidei si associ ad una maggiore incidenza di stenosi esofagee benigne. È particolarmente frequente che l’esofagite da farmaci colpisca pazienti anziani o debilitati, nei quali lo svuotamento esofageo può essere facilmente compromesso: le diverse sostanze farmacologiche possono restare nell’esofago più a lungo del normale, provocando danno tissutale locale.
D. Esofagite da radiazioni. L’irradiazione toracica (come quella abitualmente attuata in caso di neoplasie polmonari o, comunque, processi neoplastici mediastinici) può essere seguita da esofagite. I sintomi insorgono, in genere, settimane o mesi dopo l’inizio del trattamento e consistono in disfagia e odinofagia di variabile intensità. E. Esofagite da agenti chimici o fisici. L’esofagite da agenti chimici può essere conseguenza della ingestione accidentale (specialmente nei bambini) o a scopo suicida di acidi o, più comunemente, di alcali forti (tra i comuni detersivi domestici si trovano, per esempio, numerose sostanze corrosive, come la candeggina). L’ingestione di questi composti provoca necrosi coagulativa dei tessuti, con un grado variabile di penetrazione attraverso gli strati muscolari della parete esofagea, che dipende dal tempo di contatto e dalla concentrazione (quindi soprattutto a livello dei restringimenti fisiologici di questo organo), fino ad arrivare, nelle forme più gravi, a perforazione vera e propria con mediastinite satellite. Abitualmente, dopo trattamento d’emergenza adeguato (ingestione di una sostanza tampone per neutralizzare l’agente tossico, infusione abbondante di liquidi e terapia analgesica), dopo alcuni giorni avviene la guarigione con formazione di tessuto di granulazione, riepitelizzazione e successiva cicatrizzazione. La sintomatologia è caratterizzata da dolore urente retrosternale e/o epigastrico, accompagnato da disfagia, odinofagia, scialorrea, conati di vomito e vomito conclamato, spesso di materiale ematico, a volte contenente frammenti di mucosa necrotica; nelle forme più severe è presente shock. Per quanto riguarda l’esofagite da agenti fisici, va ricordato che l’esofago può essere soggetto a lesioni di tipo traumatico. Di queste la più frequente è quella che si può verificare in corso di vomito incoercibile, soprattutto se lo sfintere esofageo superiore si rilascia durante i conati, oppure quella dovuta a traumi stradali o a cause iatrogene (per es., esami endoscopici). In questi casi si possono verificare lacerazioni e perforazioni del viscere come nella cosiddetta sindrome di MalloryWeiss, di cui si è già parlato.
DIVERTICOLI DELL’ESOFAGO I diverticoli sono estroflessioni, in genere sacciformi, della parete o soltanto di parte delle tonache che costituiscono la parete dei vari tratti del canale alimentare; la formazione può essere unica (o solitaria) oppure multipla e può presentare varie dimensioni; la sacca diverticolare, composta da corpo e fondo, è dotata spesso di un restringimento (colletto) in corrispondenza del passaggio attraverso la parete del viscere. I diverticoli vengono distinti in congeniti ed acquisiti; possono essere presenti in tutto il canale alimentare con incidenza decrescente nel colon, nel duodeno e nell’esofago.
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Dal punto di vista eziopatogenetico, i diverticoli possono riconoscere due cause fondamentali: • diverticoli da pulsione, dovuti ad aumento della pressione endoluminale, in genere conseguente ad incoordinazione motoria fra segmenti contigui della parete del viscere; • diverticoli da trazione, dovuti alla presenza di aderenze per pregressi fenomeni flogistici, che determinano retrazione cicatriziale con trazione della parete del viscere verso l’esterno. Questi due meccanismi patogenetici possono essere talvolta contemporaneamente in gioco ed in questo caso si parla più correttamente di diverticoli di tipo misto, da trazione-pulsione. I diverticoli dell’esofago sono più frequentemente localizzati a livello dei restringimenti anatomici di questo organo e quindi soprattutto: • subito a monte dello sfintere esofageo superiore; • a livello del III medio dell’esofago (esofago toracico); • subito a monte dello sfintere esofageo inferiore. I diverticoli del primo tipo sono rappresentati dal cosiddetto diverticolo di Zenker (diverticolo da pulsione), erniazione della parete esofagea (in genere solo della mucosa, sottomucosa e, in parte, della tonaca muscolare) a livello dell’ipofaringe in corrispondenza del triangolo di Laimer (locus minoris resistentiae della tonaca muscolare dell’esofago delimitato dalle fibre orizzontali ed oblique del muscolo cricofaringeo). In questi casi, l’aumento di pressione, responsabile della formazione del diverticolo, è dovuto ad incoordinazione fra la contrazione della muscolatura striata dell’ipofaringe e quella dello sfintere esofageo superiore. La disfagia costituisce il sintomo fondamentale: dapprima intermittente e quindi continua, si manifesta prevalentemente per i cibi solidi ed è legata al riempimento e alla distensione della sacca diverticolare durante il pasto, per cui il paziente tende a sperimentare varie posizioni del capo e del collo per migliorare la deglutizione, modificando i rapporti tra diverticolo ed esofago. Frequente è la presenza di rigurgiti, specialmente in posizione supina, che talvolta sono tardivi rispetto al pasto oppure paradossi, costituiti cioè da alimenti di un pasto precedente, mentre i cibi ingeriti più di recente sono in grado di superare l’ostacolo. L’alito è spesso fetido in rapporto allo sviluppo di processi putrefattivi dei materiali trattenuti nella sacca diverticolare; si possono, inoltre, verificare complicanze, quali polmonite ab ingestis oppure quelle dovute a compressione degli organi vicini se le dimensioni del diverticolo sono notevoli: nervo laringeo ricorrente (disfonia), albero tracheobronchiale (crisi di dispnea e soffocamento). I diverticoli dell’esofago toracico (diverticoli paratracheali) sono diverticoli da trazione, in genere dovuti alla presenza di aderenze tra la parete esofagea e linfonodi mediastinici, spesso per esiti di processi flogistici tubercolari. Molte volte sono asintomatici; in altri casi
MALATTIE DELL’APPARATO DIGERENTE
sono presenti modesta disfagia, sensazione di arresto del cibo, talora dolore. Le complicanze sono identiche a quelle dei diverticoli dell’ipofaringe, ma in genere risultano assai più rare. I diverticoli dell’esofago inferiore sono detti anche epifrenici e sono di solito dovuti ad un meccanismo di pulsione, per un aumento di pressione correlato all’incoordinazione fra peristalsi esofagea propulsiva e rilasciamento dello sfintere esofageo inferiore in seguito alla presenza di discinesie funzionali. Il sintomo più importante è il rigurgito, specialmente durante le ore notturne, di cospicue quantità di liquido verosimilmente accumulatosi nel corso della giornata. La diagnosi dei diverticoli esofagei è fondata sull’esame radiologico con solfato di bario, che consente di evidenziare il riempimento della sacca diverticolare attraverso il colletto. La prognosi è favorevole, ma può essere aggravata dall’insorgenza di complicanze, soprattutto di polmoniti ab ingestis, ma anche dalla frequente sovrapposizione di processi infiammatori, quali diverticolite con possibile perforazione e mediastinite. La terapia dei diverticoli dell’esofago è essenzialmente chirurgica, ma l’intervento è solitamente limitato a quelli che raggiungono cospicue dimensioni e possono essere causa di gravi disturbi. La terapia medica può consistere nell’impiego di farmaci in grado di regolarizzare la motilità esofagea (metoclopramide, domperidone, cisapride); utili possono essere anche particolari accorgimenti dietetici (abolizione di cibi e bevande in grado di sviluppare gas), così come l’assunzione da parte del paziente, nel periodo postprandiale, di posture che favoriscano il drenaggio della sacca diverticolare.
ESOFAGO DI BARRETT L’esofago di Barrett è una condizione patologica descritta da questo Autore nel 1950 (viene anche definita “endobrachiesofago”), caratterizzata dalla presenza nel tratto distale dell’esofago di epitelio colonnare in luogo del normale epitelio squamoso. Per quanto l’esofago di Barrett possa comparire anche in età pediatrica, esso è di gran lunga più frequente nei soggetti adulti o anziani (l’età media alla diagnosi è di 60 anni); è più comune nell’uomo che nella donna (2:1), assai più comune negli individui di razza bianca che nelle altre razze. Dal punto di vista eziopatogenetico questa patologia si correla nella quasi totalità dei casi alla presenza di malattia da reflusso gastroesofageo: essa, infatti, si manifesta nel 10-15% dei pazienti con esofagite peptica, a sua volta provocata dal reflusso di materiale gastrico acido all’interno dell’esofago, in particolare a livello del tratto distale che è quello maggiormente coinvolto dal reflusso.
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L’epitelio squamoso dell’esofago viene danneggiato dal secreto gastrico e col tempo le cellule squamose vengono sostituite da un epitelio colonnare cosiddetto “specializzato” (in cui sono presenti “goblet cells”) che costituisce una forma di metaplasia intestinale incompleta (per la quale è noto che il rischio di degenerazione neoplastica è molto più elevato che per la metaplasia intestinale completa). La frequenza nella popolazione generale dell’esofago di Barrett è molto variabile nelle diverse casistiche (da 20 a 400 su 100.000), ma il dato statisticamente più rilevante è che la diagnosi di questa malattia è largamente sottostimata rispetto alla sua reale prevalenza (ben oltre il 50% dei casi non verrebbe riconosciuto in quanto, per l’esiguità dei sintomi, i pazienti non vengono sottoposti all’esofagoscopia, che è la metodica diagnostica fondamentale, la quale consente di identificare l’epitelio colonnare dell’esofago con il suo tipico colore rosso ed il suo aspetto vellutato che si distingue nettamente dall’epitelio squamoso, di aspetto più chiaro). Dal punto di vista clinico la sintomatologia è quella caratteristica del reflusso gastroesofageo: pirosi retrosternale, rigurgito, dolore retrosternale, in variabili combinazioni e differente intensità. L’importanza dell’esofago di Barrett risiede nel fatto, ormai ben acquisito, che esso rappresenta il maggiore fattore di rischio nei confronti dell’adenocarcinoma esofageo, neoplasia ad elevato grado di malignità la cui incidenza è andata progressivamente aumentando nel corso degli ultimi decenni.
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Attualmente la percentuale di sviluppo di questo tumore nei pazienti adulti con esofago di Barrett è stimata intorno all’1% per anno. Di qui la necessità che i soggetti affetti da questa malattia siano sottoposti a rigorosi programmi di sorveglianza (controlli regolari nel tempo, anche ogni 6-12 mesi, di marker oncofetali come il CEA, ma soprattutto dell’esofagoscopia con prelievi bioptici della mucosa esofagea distale o anche dell’ecografia endoscopica, quest’ultima in grado di documentare – in mani esperte – la presenza di displasia della mucosa) nell’ipotesi che la diagnosi precoce di cancro dell’esofago ne possa ridurre in qualche modo la morbilità e la mortalità, migliorando, di converso, la sopravvivenza. Quanto alla terapia dell’esofago di Barrett esistono segnalazioni, per altro non univoche, riguardo alla possibilità della sua ablazione mediante laser (laser Nd:YAG), ma non è chiaro se questo trattamento (di fotoablazione) sia in grado di ridurre il rischio di adenocarcinoma in questi pazienti. Per quanto riguarda la terapia medica è la stessa della malattia da reflusso gastroesofageo nelle sue forme più gravi e consiste nell’impiego di inibitori della pompa protonica (omeprazolo, lansoprazolo, pantoprazolo), di procinetici (cisapride, ecc.) e citoprotettori (sucralfato, alginato di sodio), per periodi piuttosto lunghi, di 6-12 mesi, eventualmente con ulteriori cicli di 2-3 mesi in rapporto all’andamento del quadro clinico.
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MALATTIE DELLO STOMACO E DEL DUODENO V. BALDINI
SEMEIOTICA FISICA E STRUMENTALE Aspetti anatomofunzionali Lo stomaco è la parte più espansa di tutto il canale alimentare; la sua notevole capacità contenitiva (10001500 ml) e le peculiari modalità di svuotamento attribuiscono a questo organo il ruolo di “serbatoio” dei materiali ingeriti, funzione che riveste grande importanza perché gli alimenti subiscano quelle modificazioni preliminari che sono necessarie per il regolare svolgimento dei processi digestivi propriamente detti che avvengono nell’intestino tenue. Un’adeguata permanenza degli ingesti nello stomaco, in presenza di un’efficiente attività secretoria, consente di realizzare: • la chimificazione, modificazione chimico-fisica del bolo alimentare in poltiglia semiliquida, adatta per il successivo attacco degli enzimi intestinali e pancreatici; • la sterilizzazione, strettamente dipendente dalla secrezione di HCl, che previene la colonizzazione batterica del tenue e le sue spesso rilevanti conseguenze (Cap. 24); • l’aggiustamento osmotico dei liquidi ingeriti, per diluizione con i secreti gastrici dei liquidi ipertonici e per concentrazione di quelli ipotonici attraverso parziale assorbimento di acqua. Inoltre, i meccanismi di regolazione dello svuotamento gastrico consentono il passaggio graduale del chimo acido in duodeno, altro fattore che garantisce l’ottimale svolgimento della digestione e dell’assorbimento a livello dell’intestino tenue. Dal punto di vista anatomofunzionale, è importante distinguere, nello stomaco: • regione cardiale; • fundus o fornice (al di sopra del piano orizzontale che passa a livello del margine superiore del cardias);
• corpo (compreso tra piano orizzontale e il piano che, partendo dall’incisura angolare della piccola curvatura, si dirige in basso verso la grande curvatura gastrica); • regione antrale (detta anche, più impropriamente, pilorica); • canale pilorico. Seguendo un criterio più strettamente funzionale, si possono invece distinguere nello stomaco due regioni principali: • quella del fondo e del corpo; • quella antrale (o pilorica). Il fondo e il corpo gastrico rappresentano una sorta di sacca di deposito per il materiale alimentare, mentre l’attività meccanica peristaltica è essenzialmente svolta dalla porzione antrale. Per quanto riguarda la funzione secretiva, il fondo e il corpo secernono il pepsinogeno e l’HCl, mentre la regione antrale produce il muco; le ghiandole della mucosa gastrica contengono tre tipi principali di cellule: le parietali, che secernono l’HCl e il fattore intrinseco; le principali, che secernono il pepsinogeno (in realtà si tratta di più frazioni); e le mucipare, che producono il muco. Ciò che interessa, perché ha una certa importanza per quanto riguarda la patologia, è ricordare la regolazione di questa secrezione, che è minima a digiuno, ma può aumentare, in seguito all’assunzione del cibo, anche in misura considerevole: per esempio, per quanto riguarda la secrezione di HCl, a digiuno è di 1-5 mEq di HCl/h; per uno stimolo massimale, per esempio con istamina o con pentagastrina (quest’ultima è una sostanza di sintesi formata da 5 AA, dei quali gli ultimi 4 sono gli stessi dell’estremità C terminale della gastrina, e viene somministrata per via im in misura di 6 g/kg), sale a 20-40 mEq di HCl/h. Fisiologicamente, un primo stimolo importante che si esercita sulle cellule secernenti pepsinogeno e HCl è rappresentato dall’attività vagale. Sembra che il vago
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agisca a due livelli: da una parte stimola direttamente le cellule gastriche, dall’altra agisce sui mastociti presenti nel connettivo della tonaca propria della mucosa; in seguito a tale stimolazione, i mastociti liberano istamina, la quale, agendo sui recettori H2, contribuisce alla secrezione di HCl. La stimolazione vagale si esercita anche a livello del settore distale dello stomaco, quello antropilorico, dove determina la secrezione di gastrina, sostanza ormonale prodotta dalle cellule antrali G, che fanno parte del cosiddetto sistema APUD (Cap. 24); tale secrezione è inoltre regolata da segnali che provengono dall’interno dello stomaco, alcuni dei quali sono stimolanti, altri inibenti: in particolare, i peptidi e gli aminoacidi hanno azione stimolante la produzione di gastrina, mentre invece l’acidità tende di per sé a frenarla. La gastrina entra quindi nel sangue e, agendo come un ormone, promuove la secrezione di HCl, il quale poi, a sua volta, blocca la produzione di gastrina (meccanismo di feedback negativo). Questo sistema di controllo della secrezione cloridropeptica è molto importante e diversamente efficace nei singoli individui, per cui di fatto esistono persone che secernono fisiologicamente quantità differenti di HCl (e pepsinogeno), come verrà descritto nel paragrafo dedicato all’ulcera peptica. Molte sono le cause di questo fenomeno e la più importante è la diversa entità della massa delle ghiandole presenti nel fondo e nel corpo gastrico. Fisiologicamente gli uomini hanno una massa superiore rispetto alle donne, avendo in effetti un’acidità gastrica un poco superiore, così come maggiore è normalmente nei soggetti di sesso maschile la produzione di gastrina (più cellule G presenti nella mucosa della regione antropilorica). Esistono quindi differenze individuali che si riflettono in diverse attitudini a sviluppare certe condizioni patologiche correlate alla differente produzione di HCl e pepsinogeno, che verranno esaminate nei paragrafi seguenti. Oltre alla gastrina, esistono altri ormoni, prodotti dalla mucosa duodenale e digiunale, ma anche da porzioni più distali dell’intestino, che hanno importanza variabile nel regolare svolgimento dei processi digestivi. Essi sono rappresentati soprattutto dalla secretina, dal GIP (Gastric Inhibitory Polypeptide) e dalla colecistochinina-pancreozimina. Lo svuotamento gastrico determina l’arrivo nel duodeno di un materiale che, anche se in parte neutralizzato dagli alimenti, mantiene una discreta acidità; la presenza degli ioni H+ stimola le cellule S della mucosa duodenale a secernere l’ormone secretina, il quale a sua volta stimola il pancreas esocrino a secernere bicarbonati ioni (HCO3– ). Questo è molto utile perché i bicarbonati reagiscono con gli ioni H+, si formano CO2 e H2O e l’acidità viene così neutralizzata: tale reazione è della massima importanza perché il duodeno non resiste ad un pH basso e quindi potrebbe essere danneggiato (di solito il contenuto duodenale è neutro o addirittura alcalino, perché la produzione di HCO3– pancreatica tende ad essere in eccesso).
MALATTIE DELL’APPARATO DIGERENTE
L’arrivo di glucosio e grassi in duodeno stimola invece la produzione del GIP, prodotto dalle cellule K della mucosa del tenue, il cui effetto principale è quello di inibire la secrezione e la motilità gastrica (oltre ad altre azioni minori, tra cui quella insulinotropa). D’altro canto, per effetto di enzimi digestivi, in duodeno e in digiuno si liberano aminoacidi e acidi grassi, i quali stimolano la formazione di CCK (colecistochinina) e PZ (pancreozimina) da parte delle cellule I. Mentre un tempo si pensava che fossero due ormoni diversi, attualmente è noto che si tratta di un’unica sostanza, dotata però di duplice azione; infatti la CCK-PZ determina la contrazione della colecisti e stimola il pancreas esocrino alla produzione di un secreto particolarmente ricco di enzimi. Della secretina e della colecistochinina-pancreozimina si parlerà più diffusamente nel capitolo dedicato alla fisiologia del pancreas (Cap. 32).
ESAMI STRUMENTALI La parte fondamentale della semeiotica fisica dell’apparato digerente è costituita dalla raccolta di una accurata anamnesi. Non esiste, infatti, per gli organi di questo apparato, una semeiotica fisica ricca come per l’apparato respiratorio o per quello cardiocircolatorio: in questo caso, la parte più importante dei dati che vengono offerti al medico è rappresentata dai sintomi, cioè dai disturbi soggettivi avvertiti dal paziente. Contro la modestia dei segni obiettivi, sta invece la ricchezza della semeiotica strumentale, costituita essenzialmente da indagini radiologiche ed endoscopiche, oltre ad altre di carattere più particolare. Per quanto riguarda lo stomaco e il duodeno, molto importante è lo studio di questi organi mediante esame radiologico con solfato di bario, soprattutto se eseguito con la tecnica del doppio contrasto. A differenza della rappresentazione del lume offerta dal pasto opaco convenzionale, la radiologia a doppio contrasto è una tecnica di visualizzazione della mucosa: in questa metodica lo stomaco e il duodeno vengono distesi mediante la somministrazione di compresse o granuli che liberano gas o facendo deglutire al paziente una bevanda con un alto contenuto di CO2; l’intera superficie mucosa viene ripetutamente verniciata con un sottile strato di bario (la quantità complessiva somministrata al paziente a digiuno varia tra 50 e 200 ml). Il pasto opaco a doppio contrasto è rapido, ben tollerato e non necessita di premedicazione; la migliore accuratezza diagnostica rispetto alla metodica convenzionale è fuori di dubbio: sensibilità e specificità diagnostiche si aggirano rispettivamente intorno al 90 e all’85%. Il principale svantaggio consiste nel fatto che l’interpretazione delle radiografie richiede considerevole esperienza e gli errori diagnostici derivano in genere da errata interpretazione piuttosto che da mancata visualizzazione della lesione. Fondamentale completamento dell’indagine radiologica è in molti casi l’esame endoscopico (gastroduodenoscopia), il quale consente l’osservazione diretta di
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eventuali affezioni gastriche o duodenali e permette di effettuare prelievi bioptici, quando l’incertezza della diagnosi renda necessario l’esame istologico. I moderni endoscopi, strumenti flessibili a fibre ottiche (generalmente a visione frontale), consentono una completa ispezione del lume dell’esofago, dello stomaco e del duodeno prossimale (fino a tutto il secondo tratto e, talora, anche parte del terzo). L’esame può essere effettuato anche ambulatorialmente; il paziente deve essere a digiuno da almeno 6-8 h e non aver fumato. Si pratica di solito una premedicazione, che consiste in un’anestesia faringolaringea con un gel o uno spray di xylocaina; inoltre, circa 30 min prima, si può somministrare al malato per via ev una piccola dose di sedativo (per es., 5-10 mg di diazepam = Valium) ed eventualmente anche un antispastico miorilassante (per es., 20-40 mg di butilbromuro di joscina) per migliorare la tollerabilità dell’esame e ottenere un’ipotonia duodenale, così da consentire l’esplorazione in condizioni ottimali. Con il paziente in decubito laterale sinistro, si introduce in faringe il gastroscopio attraverso un boccaglio di protezione tenuto tra i denti e si invita il malato a deglutire mentre lo strumento viene spinto, sotto visione diretta, lungo il lume esofageo e quindi, attraverso lo sfintere esofageo inferiore, nello stomaco fino all’antro e di qui, attraverso il piloro, nel bulbo e nella seconda porzione del duodeno. Se necessario, come già detto, si possono eseguire, nel corso dell’esame, biopsie mirate multiple per lo studio istopatologico; si possono anche prelevare dei campioni per l’esame citologico della mucosa, eventualmente con la tecnica del washing e/o del brushing. Nella maggior parte dei casi, l’esame è ben tollerato e in mani esperte richiede non più di 10-15 min per l’esecuzione; dopo l’endoscopia, se era stata praticata una premedicazione, è bene che il paziente non assuma nulla per bocca per almeno un’ora. Questa indagine è indicata di fronte a qualsiasi sintomatologia o affezione che richieda lo studio del tratto superiore dell’apparato digerente; praticamente non esistono vere controindicazioni, né per quanto riguarda l’età, né per la presenza di eventuali malformazioni vascolari (aneurismi, varici esofagee, ecc.) o malformazioni vertebrali. Gli incidenti di rilievo sono estremamente rari e la mortalità risulta eccezionale, con rischio più elevato per le endoscopie eseguite in situazioni di emergenza (la complicanza principale è la perforazione dell’esofago cervicale). Molte volte (per es., in caso di gastrite atrofica, ulcera peptica o neoplasia gastrica) può essere utile la valutazione della secrezione cloridropeptica dello stomaco, che può essere indagata mediante sondaggio gastrico, con studio della secrezione acida eseguito sia in condizioni basali sia dopo stimolazione con pentagastrina. Questa indagine viene effettuata raccogliendo campioni di secreto gastrico ogni 15 min per 2 h complessive a partire dal tempo 0 (0-15 min, 30 min, 45 min, 60 min; subito dopo il prelievo al sessantesimo minuto, si somministra la pentagastrina per via im (6 g/kg) e quindi si procede ancora, ogni 15 min, fino al termine della 2a h).
GASTRITI Sono malattie infiammatorie dello stomaco che vengono abitualmente distinte in gastriti acute e gastriti croniche.
Gastriti acute Le gastriti acute sono processi infiammatori della mucosa gastrica, che possono essere provocati da agenti eziologici di varia natura e, pertanto, possono presentare caratteristiche estremamente differenti. Anche la comune indigestione può essere considerata una forma frusta di gastrite acuta semplice: in questo caso si verifica una compromissione del normale processo digestivo, dovuta all’assunzione di alimenti che, per qualità e/o quantità, esplicano lo stesso effetto lesivo che, nelle gastriti vere e proprie, è correlato all’azione di sostanze irritanti sulla superficie mucosa dello stomaco. La forma più importante di gastrite acuta è la gastrite erosiva, denominata anche gastrite emorragica, la quale rappresenta una causa frequente di sanguinamento del tratto gastroenterico superiore. A. Anatomia patologica. Istologicamente la mucosa gastrica presenta segni di flogosi acuta con iperemia diffusa ed erosioni multiple, spesso sanguinanti, cioè soluzioni di continuità della superficie dello stomaco, le quali, a differenza di quanto avviene in caso di ulcera, non si estendono in profondità oltre la muscularis mucosae. Le erosioni possono rimarginarsi rapidamente e completamente con perfetta restitutio ad integrum della mucosa oppure, più raramente, allargarsi ed approfondirsi ulteriormente nella tonaca sottomucosa ed in quella muscolare, evolvendo in vere e proprie ulcere. B. Eziopatogenesi. Le cause di gastrite acuta erosiva sono varie: • farmaci, soprattutto acido acetilsalicilico e, in genere, tutti gli antinfiammatori non steroidei; • alcool, caffè, fumo di sigaretta; • ustioni, sepsi, traumi, interventi chirurgici, shock, gravi malattie polmonari o renali o epatiche. 1. La patogenesi dell’effetto lesivo dell’acido acetilsalicilico è stata ben individuata ed è correlata a due distinti meccanismi. Il primo è comune anche agli altri farmaci antinfiammatori non steroidei ed è legato al fatto che tutte queste sostanze possiedono un’attività inibitoria nei confronti dell’enzima ciclo-ossigenasi, necessario per la sintesi, a partire dall’acido arachidonico, delle prostaglandine, sostanze che svolgono un ruolo importante nella genesi dei processi infiammatori; poiché, d’altra parte, le prostaglandine esercitano anche un’azione protettiva nei riguardi dell’integrità della mucosa gastrica, l’inibizione della loro sintesi, indotta da questi farmaci, può favorire la comparsa di gastrite erosiva acuta. In realtà oggi è no-
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to che esistono due varianti di ciclo-ossigenasi, I (COXI) e II (COX-II); la prima, cosiddetta costitutiva, presiede alla sintesi delle prostaglandine che esercitano effetti benefici (a livello gastrico stimolando la produzione di muco e bicarbonati e aumentando il flusso sanguigno), mentre l’altra, chiamata induttiva, porta alla sintesi di prostaglandine che svolgono attività proinfiammatoria (i FANS agiscono indiscriminatamente su COX-I e COXII ed è prevalente il danno dovuto all’inibizione di COXI; il FANS ideale sarebbe quello in grado di bloccare soltanto COX-II, ma solo di recente sono state individuate molecole, come celecoxib e rofecoxib, con tali caratteristiche). Il secondo è invece caratteristico dell’acido acetilsalicilico ed è correlato al fatto che questo acido ha un basso pK, per cui al pH molto acido dello stomaco è in forma non dissociata. Le cellule della mucosa gastrica impediscono il passaggio delle sostanze in forma ionica, ma quelle indissociate e solubili nei lipidi sono in grado di attraversare la membrana cellulare per diffusione passiva. All’interno delle cellule il pH è neutro; l’acido acetilsalicilico si dissocia in forma ionica e, comportandosi da acido, danneggia le cellule stesse alterando la barriera mucosa: in tal modo si determina una sorta di breccia nell’epitelio di superficie che permette la retrodiffusione massiccia di H+ provenienti dalla secrezione gastrica, con caduta della differenza di potenziale ed estensione del danno a carico della mucosa. L’acido acetilsalicilico, a certe concentrazioni, provoca invariabilmente un’irritazione della mucosa gastrica e, se la dose singola è sufficientemente elevata, può essere causa di gastrite acuta erosiva (questo spiega l’opportunità di assumere questo farmaco preferibilmente a stomaco pieno, perché in questo modo viene diluito nel contenuto gastrico e la sua concentrazione a livello della mucosa è minore). 2. Anche l’assunzione di discrete quantità di alcool, per l’azione irritativa diretta di questo sulla mucosa gastrica, può essere responsabile della insorgenza di gastrite acuta, così come l’abituale assunzione di caffè poiché la caffeina (e le sostanze aromatiche presenti nel caffè decaffeinato) incrementano la produzione di acido da parte della mucosa. Analogo effetto può determinare il fumo di sigaretta, per l’azione lesiva che la nicotina esercita sull’epitelio di superficie, di cui viene alterata la normale funzione di “barriera”. 3. Infine, la gastrite acuta erosiva può insorgere in seguito ad ustioni estese, sepsi, traumi estesi, stati di shock, importanti interventi chirurgici o anche in corso di gravi malattie polmonari, renali e/o epatiche (per es., insufficienza renale acuta o cronica, cirrosi epatica avanzata, ecc.). In tutti questi casi la patogenesi non è ben chiara e probabilmente entrano in gioco di volta in volta condizioni predisponenti individuali: tuttavia si ammette che siano implicati meccanismi neuro-vegetativi mediati dal vago, che porterebbero ad un’alterazione dell’irrorazione sanguigna della mucosa gastrica con conseguente ipossia, la quale comprometterebbe l’inte-
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grità funzionale dell’epitelio di superficie, riducendone la resistenza nei confronti dell’HCl e favorendo in tal modo l’insorgenza di gastrite. C. Clinica. In molti casi la gastrite acuta erosiva decorre in maniera del tutto asintomatica; in altri casi, e sono la maggioranza, il quadro clinico è rappresentato da una sindrome dispeptica caratterizzata soprattutto da epigastralgie, che insorgono specialmente a stomaco vuoto, quando l’HCl non è mescolato con gli alimenti, oppure dopo l’ingestione di sostanze irritanti. In alcuni casi, però, la gastrite acuta erosiva può provocare ematemesi e/o melena, in quanto le erosioni possono sanguinare (gastrite acuta emorragica): in caso di ematemesi, il sangue, provenendo dallo stomaco che secerne HCl, presenta un caratteristico colorito marrone per denaturazione della Hb (vomito caffeano); in caso di emorragie di minore entità, il sangue viene eliminato con le feci ed assume un tipico colorito nerastro (melena). Queste emorragie, se cospicue, possono anche provocare la comparsa di shock emorragico e di anemia acuta postemorragica. La diagnosi di gastrite acuta è fondata sulla gastroscopia, poiché spesso l’esame radiologico con solfato di bario, anche con doppio contrasto, risulta negativo, in quanto le lesioni sono troppo superficiali per modificare l’immagine radiografica. La prognosi di questa malattia è di regola buona: infatti la gastrite acuta erosiva ha un decorso abitualmente di breve durata poiché, cessato l’effetto della noxa lesiva, le erosioni tendono a rimarginarsi completamente con restitutio ad integrum della mucosa. In qualche caso, però, le lesioni, persistendo l’azione irritativa nel tempo, possono approfondirsi ulteriormente, evolvendo in ulcere vere e proprie.
Gastriti croniche Le gastriti croniche sono state tradizionalmente distinte in due gruppi: • atrofiche; • ipertrofiche. Tuttavia, è oggi riconosciuto che la più importante forma di gastrite cronica è quella provocata dalla infezione da parte di Helicobacter pylori, che perciò tratteremo prima delle altre due. Gastrite cronica batterica (da H. pylori) A partire dal 1983, per merito di Warren e Marshall, è stata individuata la presenza nella mucosa gastrica di microrganismi spiraliformi Gram–, cui è stato dato il nome dapprima di Campylobacter pylori e, in seguito, di Helicobacter pylori, proprio in relazione alla loro forma elicoidale. H. pylori è un batterio Gram–, spiraliforme, curvo o al massimo con 3 spire e con 3-7 flagelli unipolari. Più recentemente è stato dimostrato che anche nell’uomo è possibile che lo stomaco venga infettato da un’altra specie microbica, H. heilmannii, un batterio
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spiraliforme trovato più comunemente in cani, gatti, maiali e primati non umani. La prevalenza di questa infezione negli esseri umani è di circa lo 0,5% e le conseguenze sono sostanzialmente le stesse di quelle descritte per H. pylori. L’infezione da H. pylori è una delle più diffuse nel mondo, essendo seconda solo alla infezione da Streptococcus mutans, l’agente eziologico della carie. Circa la metà della popolazione mondiale ne risulta colpita, anche se il batterio è più diffuso nei Paesi in via di sviluppo, verosimilmente perché favorito dalle precarie condizioni igienico-sanitarie. Nei paesi industrializzati dell’Europa e del Nord America l’infezione aumenta progressivamente dai primi anni di vita all’età adulta con un’incidenza di circa l’1% per una prevalenza del 50% dopo il 5° decennio di vita. Nei Paesi in via di sviluppo l’incidenza è più elevata (circa 10%) già nel primo decennio e la prevalenza in età giovane-adulta raggiunge valori dell’80-90%. Nei pazienti con diagnosi endoscopica ed istologica di gastrite cronica, la prevalenza oscilla tra il 60 e il 90%, in quelli con ulcera duodenale è compresa tra il 90 e il 100%, mentre in presenza di ulcera gastrica la prevalenza è un poco inferiore (circa 80%), probabilmente per l’esistenza nello stomaco di aree di metaplasia intestinale e di atrofia gastrica che non sono propizie per la crescita del batterio. Per quanto riguarda la trasmissione di H. pylori si ritiene che essa avvenga per via interumana, prevalentemente orale nei Paesi industrializzati (saliva, placca dentaria, secreto gastrico, manovre endoscopiche, ecc.) e fecale-orale in quelli in via di sviluppo (acqua inquinata, materiale fecale, vegetali contaminati con liquami fognari, ecc.). A. Fisiopatologia. La presenza di questo microrganismo riveste grande importanza, tenendo conto del fatto che, solitamente, l’ambiente gastrico è poco propizio alla colonizzazione batterica per la sua acidità. Per altro, H. pylori possiede tre caratteristiche che permettono al batterio di sopravvivere all’interno del lume, normalmente sterile, dello stomaco, di penetrare all’interno della mucosa e di svilupparsi in essa colonizzandola: la produzione di grandi quantità di ureasi, un alto grado di motilità per la presenza dei flagelli e una notevole capacità di aderire alle cellule epiteliali. In particolare H. pylori è in grado di scindere l’urea grazie all’enzima ureasi di cui è provvisto: perciò, a partire dall’urea presente nella secrezione gastrica, viene prodotta ammoniaca, la quale alcalinizza l’ambiente immediatamente circostante il batterio, neutralizzando l’HCl, e determina lo sviluppo di condizioni adatte alla sopravvivenza di questo microrganismo all’interno della mucosa dello stomaco (l’ureasi catalizza l’idrolisi dell’urea con produzione di ammoniaca e carbammato; quest’ultimo si scinde spontaneamente formando un’altra molecola di ammoniaca e acido carbonico). Qui la virulenza di H. pylori si esprime mediante l’adesione all’epitelio gastrico, proprietà, questa, che dipende dall’azione di alcune molecole presenti alla superficie del microrganismo, tra le quali la meglio carat-
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terizzata è una molecola di 78 kD, denominata Bab-A. Sembra che lo stesso processo di adesione sia rilevante nel determinare l’entità del danneggiamento gastrico. Tuttavia, una volta che è avvenuta l’adesione, la maggior parte dei ceppi di H. pylori agisce sull’epitelio gastrico producendo un’esotossina, che è una proteina di 95 kD chiamata Vac-A. Questa si inserisce nella membrana epiteliale e forma dei canali esamerici, voltaggiodipendenti, attraverso i quali bicarbonati e anioni organici possono essere rilasciati dall’interno delle cellule, contribuendo alla nutrizione dei microrganismi. Le cellule sottoposte all’azione di Vac-A sviluppano al loro interno dei vacuoli e risultano danneggiate. Un’altra delle esotossine prodotte da H. pylori è una proteina di peso molecolare tra 120 e 128 kD, estremamente immunogena (Cag-A), espressa in circa il 70% dei ceppi produttori di Vac-A, il cui meccanismo d’azione non è ancora del tutto conosciuto, ma che sembra stimolare la liberazione di citochine (come IL-6, IL-8, ecc.) in grado di favorire lo sviluppo di alterazioni infiammatorie a carico della mucosa gastrica. La risposta immunitaria dell’ospite nei riguardi della infezione da H. pylori dipende tanto dall’immunità innata che da quella adattiva, ma non è molto efficace nel distruggere il microrganismo, mentre può contribuire a danneggiare la mucosa gastrica. Le stesse cellule dell’epitelio gastrico possono produrre, come risposta all’infezione, quelle citochine proinfiammatorie che ordinariamente sono rilasciate dai macrofagi. Tra queste sono particolarmente importanti l’interleuchina-1, l’interleuchina-6, l’interleuchina-8 e il tumour necrosis factor . L’interleuchina-8 è una chemochina che ha un potente effetto di attrazione sui granulociti neutrofili e apparentemente ha un ruolo centrale nell’evoluzione dell’infezione. L’immunità adattiva dipende dall’azione dei linfociti T, che possono avere due orientamenti: Th1 e Th2. L’orientamento Th1 è importante per eliminare i microrganismi a localizzazione intracellulare, mentre quello Th2, che contribuisce alla formazione di anticorpi solubili, è utile per eliminare i microrganismi a localizzazione extracellulare, come nel caso di H. pylori. Paradossalmente, in questa infezione la risposta immunitaria è prevalentemente del tipo Th1. Questa distorsione della risposta immunitaria potrebbe contribuire alla persistenza del microrganismo sulla mucosa gastrica. B. Clinica. L’infezione da H. pylori può interessare prevalentemente l’antro pilorico (gastrite a prevalenza antrale, che è anche la forma più comune); lo stomaco intero (pangastrite non atrofica); o il corpo gastrico (gastrite atrofica). La prima forma è caratterizzata da iperacidità, la seconda da acidità normale e la terza da ipoacidità. Gli effetti più importanti dell’infezione consistono nella predisposizione allo sviluppo di altre e più importanti malattie. La più comune gastrite a prevalenza antrale predispone allo sviluppo di ulcera duodenale. In effetti, la maggioranza delle ulcere peptiche è dovuta all’infezione da H. pylori. Il rischio di sviluppare un’ulcera peptica nel corso della vita è stata stimata intorno
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al 3% negli USA e al 25% in Giappone. Questo rischio si riduce drasticamente se si provvede all’eradicazione del microrganismo. La pangastrite non atrofica predispone ai linfomi detti MALT (Mucosal Associated Lymphoma). In effetti, si è visto che tra il 72 e il 98% (a seconda delle casistiche studiate) dei linfomi gastrici MALT sono associati con l’infezione da H. pylori. Per di più, l’eradicazione con terapia antibiotica dell’infezione può indurre da sola la regressione di un linfoma gastrico MALT nel 70-80% dei casi. La gastrite atrofica da H. pylori predispone all’ulcera gastrica, alla metaplasia intestinale della mucosa gastrica, alla sua displasia e, in ultima analisi, al carcinoma gastrico. In uno studio prospettico giapponese, citato nella rassegna di Suerbaum e Michetti del 2002 (si veda la bibliografia di questo capitolo), furono seguiti per 7,8 anni 1526 soggetti affetti da infezione con H. pylori e si osservò che il 2,9% di questi sviluppava un carcinoma gastrico. Al contrario, nello stesso periodo di tempo, nessuno tra i 253 pazienti infettati che ricevettero una terapia eradicante sviluppò la neoplasia gastrica. È controverso se l’infezione da H. pylori possa essere responsabile di una sindrome dispeptica non associata con ulcera. Spesso la dispepsia dipende da altre ragioni. Uno studio controllato ha suggerito che l’eradicazione di questo microrganismo migliora i sintomi dispeptici in circa il 9% dei pazienti che presentano questi disturbi in assenza di ulcera, il che è francamente poco. La conclusione è che questa infezione può essere comunemente asintomatica. Delle relazioni tra infezione da H. pylori e rigurgito gastroesofageo si è già parlato a proposito di questa forma patologica. L’adesione di H. pylori alla mucosa gastrica determina alterazioni istologiche e modificazioni di tipo funzionale sulla secrezione acida e sulla produzione di enzimi ed ormoni quali gastrina, pepsinogeno e somatostatina. Per quanto riguarda il quadro istologico, la presenza del batterio determina un processo infiammatorio acuto o cronico prevalente in corrispondenza dell’antro gastrico, caratterizzato da un variabile infiltrato di granulociti, linfociti e plasmacellule oltre che da lesioni degenerative e vacuolari dell’epitelio e da rapido turnover cellulare. Le alterazioni fisiopatologiche indotte da H. pylori riguardano soprattutto la produzione di gastrina, HCl e pepsinogeno: in questi soggetti si riscontra, infatti, un aumento della gastrinemia (verosimilmente dovuto all’infiammazione causata dalla colonizzazione batterica dell’antro gastrico) e del pepsinogeno (come conseguenza dell’aumentato turn-over cellulare), mentre viene inibita la secrezione di somatostatina da parte delle cellule D. L’azione stimolante sulle cellule G ed inibente su quelle D determina una significativa ipergastrinemia con conseguente incremento della secrezione acida gastrica (queste modificazioni fisiopatologiche, peraltro, sono presenti soltanto in una parte dei pazienti H. pylori+). C. Diagnosi, decorso e prognosi. Per quanto riguarda la diagnosi, occasionalmente l’esame radiologico,
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altrimenti non significativo, può evidenziare una stenosi nella regione antrale confondibile con un’alterazione di tipo neoplastico. Nel siero di questi pazienti, a differenza di quanto avviene nella gastrite atrofica del fondo e del corpo, non si riscontrano anticorpi diretti contro le cellule parietali gastriche né contro il fattore intrinseco, né anticorpi antitiroide. La diagnosi è pertanto, anche in questo caso, fondamentalmente istologica e quindi si avvale soprattutto della gastroscopia, indispensabile anche per la differenziazione della gastrite dalle neoplasie della regione antro-pilorica, nei confronti delle quali, comunque, questa affezione sembra avere il significato di lesione precancerosa. Per quanto riguarda H. pylori, i test per la diagnosi di questa infezione possono essere distinti in: 1) invasivi e 2) non invasivi, a seconda che sia necessario o meno l’esame endoscopico. 1. Metodiche invasive a) Istologia. Questa tecnica è fondata sull’osservazione diretta di H. pylori dopo prelievi bioptici eseguiti a livello gastrico; i frammenti bioptici vengono colorati, di regola, con ematossilina-eosina o con Giemsa, oppure con colorazioni all’argento (colorazione di WarthinStarry). Il metodo possiede ottime sensibilità e specificità e permette di rilevare sia la carica batterica sia la gravità della gastrite. b) Test rapido all’ureasi. Il metodo sfrutta il fatto che questo microrganismo è in grado di produrre grandi quantità di ureasi; il test consiste nell’immergere il campione bioptico in apposite provette contenenti un mezzo di coltura ricco di urea che viene scissa con produzione di ammoniaca. L’aumento del pH che ne consegue viene rilevato da un indicatore (per es., impiegando brodo di carne, il colore passa dal giallo-bruno al rosa). Il viraggio del colore avviene entro 30-60; il test è molto semplice e viene eseguito direttamente dall’endoscopista; sensibilità e specificità sono intorno al 90-95%. c) Coltura. Certamente è l’indagine diagnostica più precisa, ma è eseguita assai di rado per i costi elevati e la complessità del suo allestimento; infatti, H. pylori è un germe difficile da coltivare, che richiede un accurato prelievo bioptico, la semina in appositi terreni di coltura e specifiche condizioni ambientali. Nella pratica clinica la coltura viene richiesta quando si vuole testare la sensibilità dei vari ceppi microbici agli antibiotici (per es., in caso di resistenza alla terapia); la specificità è del 100%. 2. Metodiche non invasive a) Sierologia. L’infezione da H. pylori determina una risposta immunitaria che persiste per tutta la sua durata: tale risposta è caratterizzata dall’iniziale transitoria produzione di IgM cui fa seguito un aumento, in poche settimane, di IgG e IgA. Il titolo delle Ig rimane persistentemente elevato in presenza di gastrite cronica
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attiva e tende lentamente a ridursi dopo l’eradicazione del batterio. Esso viene determinato mediante tecniche immunoenzimatiche (per es., ELISA) dotate di discreta sensibilità e specificità (95%), tuttavia il titolo da assumere come limite di significatività per definire un soggetto infetto (cut-off) può variare nei diversi laboratori. Esistono anche test rapidi che sono basati sulla determinazione di anticorpi IgG e/o IgA (specie anti-Cag-A) su sangue intero (una goccia di sangue capillare da un dito introdotta nel “pozzetto” del test; risposta entro 10; sensibilità e specificità: 90%). Per le sue caratteristiche l’indagine sierologica è molto utile per gli studi epidemiologici, ma non per valutare l’efficacia del trattamento (l’eradicazione determina una progressiva diminuzione del titolo anticorpale, ma sono necessari 6-12 mesi perché il titolo ritorni a livelli normali). b) Breath test. Il test si basa sulla capacità dell’ureasi prodotta da H. pylori di scindere l’urea marcata con carbonio radioattivo (13C) somministrata per os al paziente. La scissione dell’urea libera anidride carbonica marcata con 13C che passa nell’aria espirata e viene rilevata nei campioni raccolti ad intervalli di 10 mediante gascromatografo. Il test si esegue somministrando al paziente, tenuto a digiuno, 100 mg di urea marcata con 13C in 50 ml di acqua: il risultato è positivo se nei campioni di aria espirata il rapporto CO2 13/CO2 12 è > 5. Questa metodica è in grado di rilevare anche piccole tracce di ureasi e, quindi, di mettere in evidenza infezioni batteriche di minima entità; il test è innocuo, ma i costi sono piuttosto alti e la metodica è eseguibile soltanto in centri specializzati. c) Ricerca di antigene di H. pylori nelle feci. Questo test ha una sensibilità tra l’89 e il 98% e una specificità di oltre il 90%, ed è utile per seguire l’andamento dell’infezione, dato che si negativizza dopo l’eradicazione a patto che venga eseguito 8 settimane dopo il completamento della terapia. Si è rivelato il test più pratico per la valutazione dell’infezione nei bambini e può divenire il test non invasivo di scelta in questo gruppo di soggetti. D. Terapia. La Consensus Conference di Maastricht (settembre 1996) ha distinto tre categorie di pazienti per quanto riguarda l’indicazione al trattamento in caso di positività per H. pylori. 1. Trattamento raccomandato: ulcera peptica (gastrica e/o duodenale) attiva o no; linfoma MALT a basso grado; gastrite con importanti alterazioni morfologiche (metaplasia, displasia); gastrite associata a resezione di carcinoma gastrico. 2. Trattamento consigliato: storia familiare di carcinoma gastrico; gastrite associata a pregressa gastroresezione per ulcera peptica; gastrite associata a trattamento con FANS; (con opinione non unanime) dispepsia funzionale ed esofagite da reflusso. 3. Trattamento discutibile: portatori asintomatici; prevenzione di carcinoma gastrico.
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Il fondamento della terapia medica è la somministrazione simultanea di due antibiotici, insieme a un farmaco che riduca l’acidità gastrica, la quale potrebbe menomare la loro attività antibatterica. I trattamenti più diffusi perciò utilizzano un inibitore della pompa protonica e, a questo riguardo, si è visto che è adeguata la somministrazione per 2 volte al giorno, per tutta la durata della terapia, di 20 mg di omeprazolo o di dosi equivalenti di un altro farmaco della stessa classe. Per quanto riguarda gli antibiotici, più comunemente viene consigliata l’associazione di claritromicina (500 mg 3/die) con amoxicillina (1 g 2-3/die), oppure con metronidazolo o altro nitroimidazolo (500 mg 2/die). Anche la tetraciclina è efficace nei riguardi di H. pylori, ma è stata impiegata in misura assai minore. La durata della terapia consigliata è di 1 settimana in Europa e 2 settimane negli USA. Una meta-analisi ha indicato che una terapia di 2 settimane ottiene l’eradicazione del microrganismo in una percentuale di casi che è del 7-9% superiore rispetto ai risultati ottenuti con un trattamento di 1 settimana. Risultati corrispondenti sono stati ottenuti impiegando, invece di un inibitore della pompa protonica, la ranitidina (150 mg 2/die) insieme a bismuto colloidale subcitrato (240 mg 2/die). Gli antibiotici impiegati sono gli stessi che sono stati associati agli inibitori della pompa protonica, ma si è anche osservato che, quando si impiega il bismuto, buoni risultati si possono ottenere anche con la sola claritromicina non associata ad altro antibiotico. Nel caso che il trattamento non abbia condotto a una eliminazione di H. pylori, si possono applicare terapie di seconda linea. Se la terapia era stata attuata solo per 1 settimana, si possono ripetere gli stessi farmaci per 2 settimane. Più sicuro è effettuare una terapia con quattro farmaci, aggiungendo il bismuto alla tripla terapia che include un inbitore della pompa protonica. Sono stati studiati altri regimi antibiotici includenti la tetraciclina, il metronidazolo ad alte dosi e la rifabutina, ma per questi si rimanda alla letteratura specializzata. Gastrite da rigurgito duodeno-gastrico Questa forma di gastrite, detta anche impropriamente pilorica, è piuttosto frequente, ma spesso asintomatica. A. Eziopatogenesi. Fino a qualche anno fa si era ipotizzato che fosse provocata, nella maggior parte dei casi, dal reflusso del contenuto duodenale, in particolare dei sali biliari, attraverso il piloro, nello stomaco. Il piloro non ha le caratteristiche funzionali di uno sfintere vero e proprio, ma si comporta come un dispositivo valvolare, con una fase di rilasciamento all’arrivo dell’onda peristaltica per permettere il passaggio del contenuto gastrico e con una fase di contrazione che si protrae un poco più a lungo rispetto a quella delle porzioni duodenali immediatamente sottostanti, in maniera da impedire il reflusso di materiale intestinale nello stomaco. In presenza di situazioni patologiche a carico del duodeno ed in particolare a livello del bulbo duodenale, come si verifica soprattutto nell’ulcera peptica, si possono
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instaurare alterazioni della motilità con la comparsa di contrazioni peristaltiche abnormi, tali da permettere il rigurgito del contenuto duodenale attraverso il piloro. Tale fenomeno riveste particolare importanza, in quanto i sali biliari esercitano sulla mucosa gastrica un effetto lesivo analogo a quello dovuto all’acido acetilsalicilico e ad altre numerose sostanze (farmaci, alcool, ecc.) con comparsa di alterazioni della barriera mucosa che risultano inversamente proporzionali al pH gastrico, divenendo particolarmente spiccate in presenza di ipercloridria. I pazienti con ulcera peptica duodenale presentano quasi sempre una gastrite antrale, in quanto l’effetto lesivo del contenuto duodenale si ripercuote soprattutto in questa sede, che è quella immediatamente investita dal rigurgito. Nella maggior parte dei casi la gastrite antrale non si accompagna ad alcuna sintomatologia e non richiede alcun trattamento; eventualmente può essere presente la sintomatologia correlata all’ulcera peptica che l’ha provocata, quando questa, appunto, sia la causa di questa forma di gastrite. In altri casi può essere presente una sindrome dispeptica di tipo ipostenico (dispepsia dismotility-like) con sensazione di nausea, pesantezza epigastrica postprandiale, a volte dolorabilità modesta. Gastriti atrofiche Sono molto più comuni e possono, a loro volta, essere differenziate in due forme: • gastriti atrofiche del fondo e del corpo; • gastriti atrofiche della regione antrale. Gastrite atrofica del fondo e del corpo (gastrite di tipo A) È un’affezione piuttosto frequente, la cui incidenza e prevalenza sono andate via via aumentando con l’introduzione come metodo diagnostico dell’endoscopia e dell’esame istologico della mucosa gastrica mediante prelievi bioptici; si pensa, infatti, che questa forma di gastrite sia presente in circa il 25% dei soggetti in età adulta ed in oltre il 50% delle persone anziane. A. Anatomia patologica. Dal punto di vista anatomopatologico, la gastrite atrofica del fondo e del corpo può essere distinta in tre varianti principali: • gastrite superficiale; • gastrite atrofica; • atrofia gastrica. La mucosa gastrica comprende due strati: quello più superficiale, costituito da cellule epiteliali, privo di ghiandole, il quale è a diretto contatto con la cavità dello stomaco e ha normalmente un turn-over molto rapido, essendo completamente sostituito ogni 5 giorni; quello più profondo, lo strato ghiandolare, costituito da cellule il cui turn-over è molto più lento e dotate di specifiche funzioni; di queste fanno parte, per esempio, le cellule parietali produttrici di HCl e fattore intrinseco, le cellule principali che sintetizzano i pepsinogeni, le cellule ghiandolari della regione cardiale e di quella an-
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tropilorica produttrici di muco, e le cellule endocrine, come le cellule G della regione antrale, produttrici di gastrina. 1. Nella gastrite superficiale le alterazioni infiammatorie interessano soltanto lo strato epiteliale della mucosa, mentre le strutture ghiandolari restano indenni. 2. Gastrite atrofica. È una forma più grave, nella quale si riscontra un parziale sovvertimento della componente ghiandolare con notevole infiltrazione di linfociti e plasmacellule nella lamina propria; in misura variabile le cellule parietali e principali sono sostituite da cellule simili a quelle dell’epitelio intestinale (metaplasia intestinale) e da cellule secernenti mucina. 3. Atrofia gastrica. È la variante più grave, in cui sia lo strato epiteliale sia quello ghiandolare della mucosa sono completamente sovvertiti e sono presenti soltanto cellule producenti mucina e cellule di tipo intestinale. L’esistenza di una relazione fra queste tre varianti di gastrite cronica è incerta, sebbene alcuni studi bioptici sembrino indicare che la forma superficiale possa evolvere verso la forma atrofica e verso l’atrofia gastrica. B. Eziopatogenesi. Non è perfettamente conosciuta, tuttavia si ritiene che una buona parte dei casi (verosimilmente la maggioranza) sia dovuta ad una reazione autoimmunitaria diretta contro le cellule parietali della mucosa gastrica. Infatti, in una discreta percentuale di questi pazienti è possibile dimostrare nel siero e a livello del secreto gastrico, mediante la tecnica dell’immunofluorescenza, anticorpi diretti contro queste cellule (in presenza di anemia perniciosa, anticorpi anticellule parietali si riscontrano nel siero nell’85-90% dei casi e nel succo gastrico nel 75%; in assenza di anemia perniciosa, nel 30-60% dei casi; anticorpi di questo tipo si trovano, peraltro, anche nel 5% circa delle persone anziane indipendentemente dalla presenza di questa malattia). È stato anche sostenuto il ruolo della familiarità nella eziopatogenesi di questa forma di gastrite cronica ed è stato osservato che nei parenti dei pazienti affetti da gastrite atrofica di tipo A si riscontra con frequenza superiore a quella nella popolazione generale la presenza di anticorpi anticellule parietali gastriche. Un altro elemento a favore dell’ipotesi autoimmunitaria riguardo all’eziopatogenesi della gastrite atrofica di tipo A è la sua frequente associazione con altre malattie di dimostrata o verosimile natura autoimmune, come, per esempio, il diabete mellito, l’anemia perniciosa, la malattia di Addison, la tiroidite di Hashimoto. C. Fisiopatologia. I pazienti con gastrite cronica superficiale hanno di solito livelli normali di secrezione acida o, tutt’al più, questa è solo lievemente ridotta. Nella forma di gastrite atrofica, il numero delle cellule parietali e principali è diminuito e quindi dovrebbe essere diminuita anche la secrezione acida, ma questo è in parte compensato dal fatto che esiste una correlazione inversa tra la produzione di HCl e quella di gastrina, per cui la diminuita secrezione basale di acido determina
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un’aumentata secrezione di gastrina che corregge l’ipocloridria. In questi casi, pertanto, la secrezione basale tende ancora entro certi limiti a mantenersi normale (o a diminuire in misura non rilevante) in rapporto ad un aumento della secrezione di gastrina, mentre è variamente compromessa la secrezione acida massimale che è direttamente correlata al numero delle cellule parietali. In presenza di atrofia gastrica, infine, si riscontra achilia completa, con assenza sia della secrezione di HCl sia di pepsinogeni per la perdita totale delle cellule parietali e principali della mucosa. La secrezione di gastrina è elevata perché la regione antrale è indenne e la sua produzione da parte delle cellule G è aumentata per mancanza del feed-back negativo HCl-gastrina. D. Clinica. La maggior parte dei pazienti con gastrite cronica, soprattutto se di tipo superficiale o di tipo atrofico, non presenta alcuna sintomatologia e per questo la malattia, anche se molto frequente, viene spesso ignorata. Esiste in questo caso una discrepanza tra le alterazioni anatomiche e la situazione funzionale, per cui il quadro clinico non appare, di regola, correlato a quello anatomopatologico. Soltanto in presenza di atrofia gastrica, cioè di achilia completa, le funzioni digestive possono essere compromesse in misura significativa. In rapporto alla mancata secrezione acida si ha inappetenza, cioè anoressia, e, per il rallentato svuotamento gastrico, si manifesta dispepsia ipostenica (dispepsia dismotility-like) con sensazione di nausea, pesantezza epigastrica postprandiale, talora dolorabilità modesta. In questo caso, inoltre, è possibile l’instaurarsi di una sintomatologia di carattere sistemico, in rapporto all’alterato assorbimento della vitamina B12 per il deficit di fattore intrinseco con sviluppo di anemia perniciosa. È anche possibile l’insorgenza di anemia sideropenica per la diminuita produzione di HCl necessario per la riduzione del Fe+++ a Fe++, forma nella quale il Fe, non legato a strutture porfiriniche, viene assorbito nell’intestino tenue. E. Diagnosi. La diagnosi di gastrite cronica è fondamentalmente istologica e quindi è affidata soprattutto alla gastroscopia, che è senz’altro il metodo diagnostico di gran lunga più indicativo, mentre l’esame radiologico con pasto baritato non ha, di regola, grande utilità. Lo studio della secrezione gastrica basale e dopo stimolazione con pentagastrina è utile per la valutazione dell’ipoachilia, così come il dosaggio della gastrinemia, che risulta spesso elevata in queste forme di gastrite cronica in rapporto alla diminuita secrezione di HCl. Di particolare interesse sono infine alcuni dati di laboratorio, come l’esame emocromocitometrico, la sideremia, la transferrinemia, il test di Schilling e la ricerca nel siero di anticorpi anticellule parietali gastriche e antimicrosomi tiroidei. F. Decorso e prognosi. Le prove sperimentali riguardo l’evolutività di questa malattia nei vari stadi istologici sono ancora scarse, soprattutto in rapporto alla modesta sintomatologia, per cui la gastrite cronica viene di solito diagnosticata già in fase piuttosto avanzata.
La prognosi è di regola favorevole, ma può essere aggravata dalla comparsa di complicanze come l’anemia sideropenica e, soprattutto, l’anemia perniciosa. Per quanto riguarda, infine, l’associazione con il carcinoma gastrico, la gastrite cronica atrofica è considerata una lesione precancerosa: infatti, l’osservazione protratta (oltre 10 anni) di pazienti con questa malattia ha dimostrato che nell’8-10% dei casi si sviluppa un carcinoma gastrico e tale evoluzione è particolarmente evidente in presenza di atrofia gastrica con anemia perniciosa associata. G. Terapia. La gastrite cronica non consente al momento attuale una terapia specifica, ma soltanto un trattamento sintomatico volto alla correzione delle turbe della motilità e della secrezione gastrica ed all’abolizione dei fattori lesivi più probabili (spezie, caffè, alcool, farmaci, fumo). Di particolare importanza è, inoltre, la correzione degli eventuali stati carenziali con somministrazione di Fe e vitamina B12 in presenza di anemia sideropenica e di anemia perniciosa. Gastriti ipertrofiche Sono affezioni molto più rare delle gastriti atrofiche e, in verità, esse dovrebbero essere definite meglio iperplastiche, in quanto si associano non ad un aumento di volume (ipertrofia), ma di numero (iperplasia) delle cellule della mucosa gastrica. Si dovrebbe inoltre preferire il termine “gastropatia” a quello di gastrite, poiché in queste forme manca spesso l’evidenza istopatologica di un processo infiammatorio della mucosa o, se presente, esso non è di regola di entità cospicua. L’esatto inquadramento di queste forme di gastrite è ancora incerto ed esistono, al riguardo, diverse valutazioni da parte dei radiologi e degli endoscopisti; il concetto di gastrite iperplastica è stato inizialmente formulato in rapporto al riscontro all’esame radiologico dello stomaco a piccolo ingrandimento di pliche mucose più grosse e più spesse che nella norma. Tale aspetto, in molti casi, corrisponde soltanto ad un transitorio atteggiamento funzionale della mucosa, che non trova conferma all’esame endoscopico, per cui in questi pazienti il termine gastrite iperplastica non è appropriato, poiché non si tratta di modificazioni di carattere permanente. Nelle vere gastriti di questo tipo, le alterazioni della mucosa sono costanti, con la presenza di pliche ispessite e tortuose che conferiscono alla superficie interna dello stomaco, sia all’esame radiologico che a quello endoscopico, un aspetto che ricorda quello delle circonvoluzioni cerebrali (aspetto cerebriforme). Le gastriti iperplastiche vengono distinte in gastropatia ipersecretiva e malattia di Ménétrier. Gastropatia ipersecretiva È una forma assai poco comune ed è caratterizzata dall’aumento significativo della secrezione gastrica di HCl e pepsinogeni. Tale situazione può essere dovuta ad un aumento del numero delle cellule parietali e principali per l’iperplasia
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delle strutture ghiandolari che determina una secrezione gastrica, soprattutto di HCl, a livelli estremi rispetto alla media, tanto da provocare lo sviluppo di una gastropatia ipersecretiva. In questo caso i valori sierici di gastrina, sia basali sia dopo la stimolazione, risultano normali o anche diminuiti per il feedback negativo HCl-gastrina. Un’altra possibile causa è la presenza di una sindrome di Zollinger-Ellison che comporta una eccessiva produzione di gastrina, con conseguente incremento della secrezione di HCl (e di pepsinogeni) anche in assenza di un vero e proprio aumento del numero delle cellule ghiandolari gastriche. L’eccessiva produzione di acido, in entrambe le circostanze, determina modificazioni della mucosa tali da provocare l’insorgenza di gastrite ipersecretiva. Nella maggior parte dei casi questi soggetti non presentano alcuna sintomatologia o, tutt’al più, lamentano disturbi correlati alla presenza di ulcera duodenale che talvolta si associa a questa malattia o alla sindrome di Zollinger-Ellison che ne determina la comparsa. In una minoranza di questi pazienti, tuttavia, la mucosa gastrica presenta alterazioni di carattere infiammatorio simili a quelle della malattia di Ménétrier ed è possibile, in tal caso, la comparsa di una gastropatia protidodisperdente, di regola di modesta entità.
per effetto delle erosioni superficiali; talvolta si sviluppa ulcera gastrica, mentre la degenerazione neoplastica in carcinoma è piuttosto rara, ma possibile. La dispersione di proteine, quando è molto cospicua, può determinare ipoprotidemia e, in particolare, ipoalbuminemia con diminuzione della pressione oncotica, per cui è facilitata la formazione di edemi. La secrezione gastrica è caratterizzata da ipoacloridria e da abbondante presenza di mucina; radiologicamente le pliche sono ispessite e rilevate come è tipico nelle gastriti iperplastiche, ma la diagnosi richiede abitualmente la conferma endoscopica con esame istologico e citologico, necessari per la diagnosi differenziale nei confronti soprattutto del carcinoma gastrico. La terapia medica si basa sulla somministrazione di una dieta iperproteica e, nei casi più gravi, di plasma ed albumina per via parenterale. La terapia chirurgica si rende necessaria (di regola in forma di gastrectomia parziale) in caso di complicanze emorragiche gravi e per ridurre la protidodispersione gastrica.
Malattia di Ménétrier Anche questa è una forma di gastrite iperplastica poco comune, che è stata descritta per la prima volta da Ménétrier nel 1888 e la cui eziologia è sconosciuta. L’aspetto macroscopico è quello caratteristico della gastrite iperplastica, così come nella gastropatia ipersecretiva, con pliche ispessite e cerebriformi, ma l’ispessimento della mucosa è correlato all’iperplasia delle cellule producenti mucina, mentre si osserva una spiccata distruzione delle strutture ghiandolari con perdita delle cellule parietali e principali per cui non si verifica ipersecrezione, ma, al contrario, iposecrezione. La mucosa gastrica è interessata da un processo infiammatorio verosimilmente secondario alla rottura di cisti formate dalla proliferazione dell’epitelio mucoide che, in alcuni casi, si approfondano fino alla muscularis mucosae e tale processo infiammatorio è responsabile della distruzione delle formazioni ghiandolari e della conseguente iposecrezione gastrica. In genere le alterazioni della mucosa interessano soprattutto il fondo e il corpo dello stomaco, specialmente a livello della grande curvatura (la regione antrale è risparmiata in più del 50% dei casi), ma possono essere presenti anche in forma diffusa. La reazione flogistica determina modificazioni vascolari, con aumento della permeabilità delle pareti dei vasi sanguigni, soprattutto dell’endotelio dei capillari, con passaggio nella secrezione gastrica di notevole quantità di essudato, in cui sono particolarmente rappresentate le proteine, la cui perdita costituisce l’evento più rilevante di questa malattia. Questi pazienti lamentano di solito dolore spontaneo in epigastrio, ma soprattutto postprandiale, accompagnato da anoressia, nausea, vomito, perdita di peso e, talora, diarrea. Possono verificarsi emorragie gastriche
Il termine ulcera peptica viene impiegato per indicare un gruppo di affezioni dell’apparato gastroenterico caratterizzate dalla presenza di lesione ulcerosa e nella cui patogenesi avrebbe un ruolo comune la secrezione cloridropeptica. Per definizione, l’ulcera, a differenza dell’erosione, è una perdita di sostanza che si approfonda oltre la muscularis mucosae e raggiunge la tonaca muscolare. Da un punto di vista nosografico vengono distinte ulcere acute e ulcere croniche.
ULCERA PEPTICA
Ulcere acute Per quanto riguarda l’eziopatogenesi, le ulcere acute sono assimilabili alla gastrite acuta erosiva; infatti tutte le cause di gastrite acuta erosiva possono anche provocare ulcerazione della mucosa gastrica o duodenale (talvolta ulcere ed erosioni possono essere presenti contemporaneamente). In particolare, ulcere acute si possono verificare in seguito a gravi ustioni, shock e traumi chirurgici, in genere nelle prime 24-48 h; tali lesioni vengono definite ulcere da stress o di Curling e si ritiene che il meccanismo patogenetico più probabile sia correlato all’ischemia e alla conseguente ipossia che tali condizioni possono provocare a livello della mucosa gastrica. Esistono, inoltre, ulcere acute che si accompagnano a particolari situazioni in cui, per contro, non si riscontra gastrite erosiva: tali lesioni si verificano dopo traumi cranici o dopo interventi di neurochirurgia, o in presenza di tumori cerebrali e vengono chiamate ulcere di Cushing. Il meccanismo patogenetico di queste ulcere è ritenuto di natura neurogena, cioè legato a stimolazione di
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centri ipotalamici, che, attraverso un’iperattività vagale, provocherebbe un incremento della secrezione cloridropeptica tale da ledere la mucosa. Le ulcere acute si formano rapidamente in coincidenza con l’evento scatenante ed in genere rapidamente vanno incontro a guarigione, per cui la sintomatologia ad esse correlata è di regola assai modesta tranne che per il rischio di emorragie, che possono essere anche molto gravi (in pratica dal punto di vista clinico si comportano come le gastriti acute erosive).
Ulcere croniche Le forme più diffuse di ulcera peptica sono quelle a carico del duodeno e dello stomaco, ma di fatto l’ulcera può formarsi in tutte quelle sedi in cui la secrezione di HCl e pepsinogeni può giungere a contatto con la mucosa: giunzione esofagogastrica, dove la secrezione cloridropeptica può arrivare in seguito a rigurgito gastroesofageo; stomaco, che è la sede in cui la secrezione viene prodotta; duodeno, in cui la secrezione si riversa quando lo stomaco si svuota; diverticolo di Meckel, malformazione disontogenetica dovuta ad anomala involuzione del dotto onfalomesenterico, in presenza di isole ectopiche di mucosa gastrica. Anche la sindrome di ZollingerEllison, provocata da un tumore secernente gastrina (si veda in seguito), può essere considerata una forma particolare di ulcera peptica. Sebbene, allo stato attuale delle cose, l’eziologia dell’ulcera sia ancora in parte sconosciuta, numerosi studi sull’uomo e sugli animali hanno messo in luce il ruolo cruciale dell’acido cloridrico e della pepsina nello sviluppo di tale patologia. La presenza o meno di ulcera peptica è l’effetto della delicata interazione tra fattori aggressivi (secrezione cloridropeptica) e fattori protettivi (capacità di difesa della mucosa): l’ulcera peptica è il risultato della rottura di questo equilibrio, che determina il prevalere dell’azione aggressiva dell’acido e della pepsina sulla capacità di resistenza della mucosa gastrica e duodenale. Nel soggetto normale, la mucosa gastrica e del tratto prossimale del duodeno presenta una notevole capacità di difesa nei confronti dell’attività erosiva della secrezione cloridropeptica. Nessun altro tessuto è dotato di questa proprietà, come è dimostrato dalla possibile insorgenza di lesioni a carico della mucosa esofagea se esposta all’azione dei succhi gastrici o dalle frequenti ulcerazioni della mucosa dell’intestino tenue quando essa viene chirurgicamente connessa con la mucosa gastrica secernente. Molti progressi sono stati compiuti nella conoscenza dei meccanismi che regolano la secrezione gastrica e dei fattori che favoriscono lo sviluppo dell’ulcera peptica. In particolare, la conoscenza della fisiologia gastrica fornisce utili elementi per la definizione della patogenesi dell’ulcera e costituisce il fondamento anche degli interventi terapeutici in questa malattia. A. Fisiologia gastrica. Lo stomaco possiede una straordinaria capacità di secernere acido: le cellule pa-
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rietali (oxintiche) sono in grado di produrre acido cloridrico attraverso un processo che implica una fosforilazione ossidativa. Queste cellule, localizzate nelle ghiandole del fondo e del corpo gastrico, hanno la proprietà di secernere ioni idrogeno ad una concentrazione che è 3 milioni di volte superiore a quella ematica. In questo processo di secrezione di ioni H+ nel lume gastrico, un ruolo fondamentale è quello della cosiddetta pompa protonica, che implica l’intervento di uno specifico enzima (idrogeno-potassio adenosin-trifosfatasi, H+, K+ATPasi) localizzato sui microvilli dei canalicoli secretori delle cellule parietali. Questo enzima, chiamato anche pompa acida, scambia ioni H+ provenienti dalle cellule parietali con ioni K+ provenienti dai canalicoli secretori di questi elementi, che sono in diretta comunicazione con il lume dello stomaco: esso, in pratica, rappresenta la via finale comune di tutte le principali vie attraverso le quali si esercitano gli stimoli attivanti la produzione di HCl (Fig. 23.1). La concentrazione di acido cloridrico prodotto direttamente dalle cellule parietali è di circa 160 mM/l. Per ogni ione H+ secreto viene prodotto anche uno ione Cl–, mentre la secrezione di ioni Na+ è inversamente proporzionale a quella di ioni H+ (un meccanismo a pompa fa scambiare ioni Na+, che passano all’esterno delle cellule parietali, e ioni K+, che passano all’interno, con la formazione di NaHCO3 a livello della tonaca propria) (Fig. 23.2). Per ogni ione H+ immesso nel lume gastrico, uno ione bicarbonato è rilasciato nel torrente circolatorio, provocando la cosiddetta “onda alcalina”, la cui entità è proporzionale alla secrezione di H+. I bicarbonati vengono formati a partire dall’acido carbonico, prodotto dalla riduzione dell’anidride carbonica ad opera dell’enzima anidrasi carbonica, presente a livello delle cellule parietali (H2O + CO2 → H2CO3 → H+ e HCO3). Secondo un’ipotesi recente, definita “delle due componenti”, le cellule parietali secernono HCl puro che si mescola, in proporzioni variabili, con un secreto alcalino prodotto dalle cellule non parietali e simile, per composizione ionica, al liquido extracellulare. B. Meccanismi di regolazione della secrezione gastrica. La secrezione acida gastrica è regolata da numerosi fattori chimici, nervosi e ormonali. I principali agenti stimolanti sono la gastrina e le fibre vagali colinergiche postgangliari che agiscono a livello dei recettori muscarinici delle cellule parietali. 1. Gastrina. È una sostanza ad attività ormonale che viene secreta dalle cellule G della mucosa antropilorica e costituisce il più potente fattore stimolante la secrezione gastrica acida: esistono vari tipi di gastrina a diverso peso molecolare a seconda del numero di aminoacidi che compongono la catena polipeptidica di questo ormone; i più noti sono tre: “little” (G17, gastrina formata da 17 aminoacidi), “mini” (G14 = 14 AA) e “big” (G34 = 34 AA). La maggior parte della gastrina (oltre il 90%) presente a livello della mucosa antrale è in forma di G17 che esiste, a sua volta, in un tipo II con un residuo di tirosina solforilato in posizione 12 ed
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Farmaci antimuscarinici (pirenzepina)
Ca++ Inibitori della pompa protonica (omeprazolo)
Acetilcolina Ca++
H+
Gastrina
ATPasi
K+
Adenil-ciclasi cAMP Cl–
Istamina ATP
Figura 23.1 - Rappresentazione schematica delle principali vie attraverso le quali viene stimolata la produzione di HCl da parte delle cellule parietali della mucosa gastrica con i relativi mediatori (acetilcolina: vago, gastrina, istamina) e rappresentazione della pompa protonica H+/K+ quale via finale comune degli stimoli inducenti la secrezione gastrica di acido. Nella figura sono anche indicati, per completezza, i siti di azione dei principali farmaci impiegati nel trattamento dell’ipercloridria.
H2-antagonisti (cimetidina, ranitidina, famotidina, nizatidina)
Sierosa
Cellula parietale
Mucosa
in un tipo I con un residuo di tirosina in posizione 12 non solforilato; la G17 è presente anche a livello della mucosa duodenale, soprattutto nel tratto più prossimale. Per contro, circa i due terzi della gastrina presente in circolo sono rappresentati dalla G34, i cui 17 aminoacidi terminali ripetono la stessa sequenza della G17; i livelli plasmatici di gastrina nel soggetto normale sono compresi tra 40 e 80 pg/ml ed aumentano a circa 200300 pg/ml dopo un pasto normale. Va ricordato che l’effetto stimolante la secrezione gastrica acida è maggiore per la G17 (circa 6 volte) rispetto alla G34; inoltre la stessa azione della gastrina è posseduta anche dalla pentagastrina, che è un peptide sintetico di 5 AA, dei quali 4 sono gli stessi della porzione C terminale della gastrina e che viene utilizzato per i test funzionali di stimolazione. Nell’ulcera duodenale la produzione di gastrina è aumentata: infatti, mentre a digiuno i livelli di gastrinemia sono praticamente normali, dopo il pasto essi risultano nettamente aumentati così come sono aumentati in tal caso i livelli di gastrina a livello della mucosa antrale.
La ragione di questa aumentata produzione di gastrina nell’ulcera duodenale non è ben chiara: fattori liberatori della gastrina sono l’acetilcolina (nervo vago), le proteine che giungono nello stomaco, l’alcool, la distensione gastrica antrale, l’insulina, il calcio, l’adrenalina e la bombesina; quelli inibitori sono la diminuzione del pH antrale, il GIP (Gastric Inhibitory Polypeptide), la secretina, il VIP (Vasoactive Intestinal Polypeptide), il glucagone, la calcitonina, la noradrenalina (Cap. 23). Nell’ulcera duodenale è stato ipotizzato che vi possa essere un numero maggiore di cellule G geneticamente determinato, ma non si escude che la continua stimolazione gastrica a livelli più elevati presente in questa malattia possa provocare un’aumentata replicazione delle cellule parietali (per l’effetto positivo sul trofismo gastrico della gastrina) con conseguente aumento del loro numero e quindi una maggiore produzione di acido. 2. Vago. L’azione stimolante della gastrina e quella del nervo vago sulla secrezione acida gastrica sono strettamente correlate.
Tunica propria
Na+
K+
CO2
Figura 23.2 - Rappresentazione schematica del processo di formazione di HCl a livello delle cellule parietali della mucosa gastrica.
Lume
_
HCO3
CO2 + H2O _ HCO3 + H+
Cl–
Pompa
H+
Diffusione passiva
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L’azione del vago sulle cellule parietali si esercita attraverso tre differenti modalità: a) stimolazione diretta degli elementi oxintici; b) stimolazione delle cellule G della regione antrale alla produzione e secrezione di gastrina; c) aumento della sensibilità delle cellule parietali allo stimolo gastrinico. Per comprendere l’importanza, da un lato, e la non esclusività nel controllo, dall’altro, del vago nella secrezione gastrica acida, è interessante ricordare come la vagotomia porti ad una riduzione del 70% di tale secrezione, pur in presenza di cellule parietali normalmente funzionanti. La dimostrazione dell’esistenza di uno stato di iperattività vagale nei soggetti con ulcera duodenale appare assai difficile, in quanto valutabile solo indirettamente, tuttavia l’esperienza conferma che molti di questi pazienti sono vagotonici, cioè presentano anche altre manifestazioni caratteristiche di questa condizione, che, peraltro, non è necessariamente riscontrabile in ogni caso. 3. Istamina. Un’altra sostanza di grande importanza nell’ambito della fisiologia gastrica è l’istamina: essa è presente in concentrazioni elevate nei mastociti della tonaca propria al di sotto della porzione di mucosa in cui si trovano le cellule parietali. Gli elementi contenenti istamina sono a stretto contatto con le cellule oxintiche, nella proporzione di un mastocita per ogni 2-3 cellule parietali. Per molti anni, il ruolo dell’istamina nella stimolazione della secrezione acida gastrica è stata oggetto di controversie: da una parte, alcuni Autori sostenevano che l’istamina fosse l’effettore ultimo sia della gastrina sia del nervo vago, mentre da altri veniva posto in dubbio il ruolo di questo mediatore nel controllo della secrezione. L’interesse circa il ruolo dell’istamina nella regolazione della secrezione gastrica fu risvegliato dalla scoperta degli antagonisti dei recettori H2 (localizzati sulle cellule parietali gastriche, su quelle cardiache atriali e su quelle della muscolatura liscia uterina): questi farmaci hanno un effetto del tutto trascurabile sui recettori H1, sui quali agiscono invece gli antistaminici convenzionali, mentre inibiscono significativamente sia la secrezione gastrica acida basale sia la risposta secretoria indotta dai più diversi stimoli (pasto, gastrina, istamina, ipoglicemia, stimolazione vagale). Queste evidenze sperimentali conducono a tre importanti conclusioni: a) l’istamina gioca un ruolo rilevante nella regolazione della secrezione acida gastrica; b) essa esercita di fatto un’azione analoga a quella della gastrina e dell’acetilcolina, per cui sulle cellule parietali, in pratica, esistono tre tipi di recettori per questi tre diversi effettori; c) è ancora dubbio se l’istamina sia, in realtà, l’effettore ultimo comune nella stimolazione delle cellule parietali (Fig. 23.1). Lo stimolo fisiologico per la secrezione gastrica è senza dubbio l’ingestione di cibo. Abitualmente la risposta secretoria viene distinta in tre fasi in relazione ai molteplici fattori che contribuiscono alla sua regolazione: cefalica, gastrica e intestinale.
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La fase cefalica consiste nella risposta secretoria allo stimolo visivo ed olfattivo del cibo; la fase gastrica è indotta dall’arrivo degli alimenti nello stomaco; la fase intestinale viene innescata dal passaggio del chimo gastrico nel tratto prossimale dell’intestino. Di fatto, ciascuna delle tre fasi è estremamente complessa e sotto l’influenza di molteplici stimoli secretori. La fase cefalica sembra essere sotto l’esclusivo controllo del nervo vago, i cui effetti sulla secrezione gastrica sono già stati ricordati. Nella fase gastrica, in cui il cibo, giunto nello stomaco, stimola recettori chimici e meccanici situati sulle sue pareti, la distensione meccanica provoca un aumento della secrezione e, in misura minore, stimola il rilascio di gastrina. Tenendo conto che tale effetto è inibito dall’atropina, è verosimile ritenere che esso sia mediato da riflessi vagali; il cibo, nel lume gastrico, stimola la secrezione attraverso un incremento della liberazione di gastrina, soprattutto per effetto della componente proteica e dei relativi prodotti di digestione, mentre è debole, in questo senso, l’azione dei glucidi e dei lipidi, i quali, peraltro, non esercitano alcuno stimolo diretto sulla secrezione acida. L’arrivo del chimo gastrico nel tratto prossimale del tenue innesca la fase intestinale del processo digestivo. In condizioni sperimentali, l’introduzione di un pasto a base di peptoni (contenente proteine della carne parzialmente digerite) provoca un aumento della secrezione acida gastrica, ma non un incremento della gastrina; è stato ipotizzato, al riguardo, che il cibo nel tenue induca il rilascio di un ormone, presumibilmente un polipeptide, diverso dalla gastrina, che sarebbe completamente degradato a livello epatico. Molteplici sono, comunque, i fattori in grado di influenzare la secrezione gastrica. Dei fattori ambientali e voluttuari si parlerà più avanti a proposito degli agenti eziologici dell’ulcera peptica (si veda in seguito). Il passaggio del chimo acido nel duodeno inibisce la secrezione gastrica attraverso la stimolazione della secrezione di secretina (ormone polipeptidico di 27 AA, prodotto dalle cellule endocrine S dell’intestino tenue, soprattutto nel duodeno e nel digiuno). Anche la presenza di grassi nel duodeno inibisce la secrezione acida, forse attraverso la liberazione di GIP, prodotto dalle cellule K presenti in tutto il tenue (specialmente a livello del duodeno e del digiuno), il quale blocca la produzione della gastrina e inibisce la secrezione cloridropeptica comunque indotta. Molte altre sostanze di natura peptidica sono in grado di inibire la secrezione gastrica, come, per esempio, la somatostatina, l’urogastrone, il VIP e il glucagone (e peptidi ad esso simili come la glicetina); lo stesso effetto esercitano anche altre condizioni come l’ipercalcemia, l’iperglicemia e l’iperosmolarità intraduodenale, per quanto il meccanismo patogenetico non sia ben chiaro. C. Epidemiologia. L’ulcera peptica, gastrica e duodenale, è una malattia molto comune: considerando statistiche autoptiche di soggetti fra i 45 e i 65 anni di età e comprendenti sia ulcere in atto sia lesioni cicatriziali di ulcere pregresse è stata riscontrata la presenza di
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questa malattia nel 25-30% degli uomini e nel 15% circa delle donne. Una buona parte di questi casi è clinicamente asintomatica e la diagnosi avviene in maniera casuale; la malattia è più frequente negli uomini che nelle donne: per l’ulcera duodenale il rapporto uomo-donna è 2,2:1, per quella gastrica 1,1:1. L’ulcera duodenale, a sua volta, è molto più comune di quella gastrica: negli uomini il rapporto tra ulcera duodenale e ulcera gastrica è 5,5:1, nelle donne questo rapporto è 2,8:1. L’età di maggior incidenza è compresa tra i 20 e i 50 anni, ma soprattutto tra i 35 e i 45; con il passare degli anni diventa sempre più rara l’ulcera duodenale, mentre diventa più frequente quella gastrica; al di sopra dei 60 anni, quest’ultima diviene più comune di quella duodenale. L’ulcera è al 21° posto fra le cause di assenza dal lavoro in Italia ed al 15° posto fra le cause di morte. I dati epidemiologici sopra riportati sembrano indicare che i fattori eziopatogenetici agiscono soprattutto a livello del duodeno più che a livello dello stomaco e più nell’uomo che nella donna, e confermano la notevole diffusione di questa malattia nella popolazione generale. D. Eziopatogenesi. È possibile affermare che il processo ulcerativo è il risultato di un’anomala interazione fra la mucosa gastrica e duodenale e la secrezione cloridropeptica in rapporto o all’incremento di fattori aggressivi, prevalentemente nell’ulcera duodenale, o alla diminuzione di fattori protettivi, prevalente nell’ulcera gastrica. L’eziologia di questa malattia è senz’altro complessa e verosimilmente multifattoriale; in tal senso sono stati identificati diversi fattori di rischio, la cui contemporanea presenza in svariate combinazioni può rendere più probabile la comparsa dell’ulcera peptica senza che ciascuno di essi sia in grado di per sé di provocare la malattia. 1. Meccanismi di difesa della mucosa gastroduodenale (citoprotezione). Sono stati identificati diversi fattori in grado di esercitare un’azione protettiva della mucosa gastroduodenale nei confronti della secrezione acida. • Controllo dell’acidità gastrica attraverso un meccanismo di feed-back negativo HCl-gastrina. L’aumentata produzione di HCl, come si è già accennato a proposito delle gastriti, determina un’inibizione della liberazione di gastrina da parte delle cellule G antrali. Si può dire, quindi, che un effetto inibitorio sulla secrezione acida viene esercitato dall’acido stesso presente nello stomaco o nel duodeno. L’abbassamento del pH intragastrico al di sotto di 3 provoca una parziale inibizione della liberazione di gastrina, mentre un’ulteriore riduzione a 1,5 (o meno) ne blocca completamente il rilascio da parte di qualsiasi agente stimolante. Esistono prove sperimentali che indicano che la somatostatina sia coinvolta in questo meccanismo di inibizione del rilascio di gastrina a causa dell’acidificazione del contenuto gastrico: elevate concentrazioni di somatostatina sono state riscontrate a livello di
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cellule endocrine della mucosa antrale (cellule D), le quali possiedono propaggini citoplasmatiche che si estendono fino alle cellule G, a livello delle quali si esplicherebbe l’effetto inibente di questa sostanza; tuttavia non si esclude che la somatostatina possa agire direttamente, con analogo meccanismo, sulle cellule parietali della mucosa gastrica. Infine, anche la presenza di acido nel duodeno induce l’inibizione della secrezione acida gastrica, probabilmente attraverso il rilascio di secretina e/o di altri peptidi intestinali. • Secrezione di muco. Il muco gastrico, prodotto dalle cellule mucipare delle ghiandole cardiali, fundiche e piloriche, e dalle cellule mucipare del rivestimento epiteliale, è presente in due forme: in soluzione nel succo gastrico e adeso alle pareti dello stomaco a formare un sottile strato di gel. Si pensa che il muco abbia un ruolo importante nella prevenzione della formazione delle lesioni ulcerose; la sua secrezione viene favorita da stimoli chimici, meccanici e colinergici. Il muco gastrico contiene una glicoproteina ad alto peso molecolare (2 × 106), formata da quattro subunità unite da ponti disolfuro. La depolimerizzazione delle subunità della glicoproteina, ottenuta per digestione proteolitica o per rottura dei ponti disolfuro, rende il muco incapace di formare quello strato di gel viscoso, che normalmente si stratifica sulle pareti gastriche, permettendo la diffusione degli ioni, ma non la penetrazione di macromolecole, quali la pepsina (p.m. 34.000). I bicarbonati, secreti dalle cellule epiteliali, vengono trattenuti nello strato di muco, contribuendo così alla formazione di un gradiente di pH che risulta più alcalino nel punto di contatto con la parete gastrica e più acido verso il lume dello stomaco. Il muco gastrico, inoltre, contiene, negli individui cosiddetti “secretori” (che rappresentano il 75% della popolazione), le glicoproteine dei determinanti il gruppo sanguigno del sistema AB(H). • Capacità delle cellule della mucosa gastrica di impedire la retrodiffusione di H+. In condizioni normali, la retrodiffusione di ioni idrogeno viene impedita dallo strato di cellule epiteliali e dalle giunzioni serrate esistenti tra cellula e cellula. La barriera mucosa gastrica avrebbe un ruolo importante nell’impedire lo sviluppo dell’ulcera peptica: la rottura di questa barriera da parte di agenti quali acidi biliari, salicilati, alcool e acidi organici deboli determina la retrodiffusione degli ioni idrogeno dal lume agli spazi intra ed intercellulari. Le conseguenze di tale retrodiffusione sono molteplici: danno cellulare, rilascio di istamina da parte dei mastociti con ulteriore stimolazione della secrezione acida, danno dei piccoli vasi sanguigni, lesioni emorragiche della mucosa e, infine, lesioni ulcerose superficiali. Una rottura della barriera mucosa potrebbe avere un importante ruolo nella patogenesi anche delle gastriti acute e croniche emorragiche, di frequente associate all’uso di salicilati o altri FANS o alcool e di altre alterazioni della mucosa gastrica.
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• Vascolarizzazione. Un danneggiamento della mucosa potrebbe essere indotto anche da un diminuito afflusso sanguigno, associato a retrodiffusione di ioni idrogeno. Il mantenimento di un regolare e normale flusso di sangue, infatti, è essenziale per la conservazione dell’integrità della barriera. La particolare struttura degli strati muscolari dello stomaco (possibilità di episodi transitori di ischemia), la povertà di circoli anastomotici mucoso-sottomucosi e l’apporto ematico non cospicuo che caratterizza questo distretto sono fattori che possono predisporre al manifestarsi del processo ulcerativo. • Ruolo delle prostaglandine (PG). Le PG sono presenti in concentrazione elevata nella mucosa gastrica. Numerose classi di PG, in particolare quelle della serie E (PGE1 e, soprattutto, PGE2) e F, si sono dimostrate in grado di prevenire il danno della mucosa gastrica provocato dai più svariati agenti. È possibile che le PG endogene abbiano un ruolo importante nel mantenere l’integrità della barriera mucosa, esercitando un effetto citoprotettivo: piccoli danneggiamenti della mucosa possono indurre la sintesi di PG, potenziando così la sua resistenza a fattori aggressivi (il fenomeno viene definito citoprotezione adattiva o indiretta; si definisce, invece, citoprotezione diretta la capacità delle PG o di altre sostanze di proteggere la mucosa gastroduodenale dall’insulto di noxae lesive in dosi non antisecretive). L’azione delle PG è duplice: da una parte esse inibiscono la secrezione acida sia basale sia sotto stimolo e dall’altra potenziano i fattori di resistenza della mucosa (sono, cioè, come già detto, citoprotettive), anche se il meccanismo o i meccanismi alla base di questa azione non sono completamente chiariti. È stato osservato che le PG della classe E, oltre a inibire la secrezione, producono diversi effetti a livello gastrico: a) stimolano la secrezione di muco; b) stimolano la secrezione di bicarbonati a livello dello stomaco e del duodeno; c) mantengono un adeguato flusso ematico in corrispondenza della mucosa gastrica; d) concorrono al mantenimento della differenza di potenziale elettronegativo esistente tra il lume gastrico ed il versante sieroso agendo direttamente sulle pompe ioniche delle cellule gastriche; e) stimolano i processi di ricambio e quelli rigenerativi degli elementi epiteliali; f) stabilizzano i lisosomi intracellulari. È stata anche ipotizzata una possibile relazione tra l’effetto citoprotettivo delle PG e la presenza nell’epitelio gastrico di gruppi SH-sulfidrilici non proteici tra cui il più significativo sembra essere il glutatione ridotto (GSH), forse a causa della sua funzione “scavenger” dei radicali liberi coinvolti nel danno della membrana. 2. Agenti eziologici dell’ulcera peptica. Il danno tissutale che si traduce nella formazione dell’ulcera è in gran parte provocato dagli effetti proteolitici della pepsina e da quelli erosivi dell’HCl. L’HCl catalizza l’attivazione del pepsinogeno a pepsina e contribuisce a mantenere un pH idoneo all’azione dell’enzima. L’atti-
vità della pepsina appare ridotta a valori di pH superiori a 4, mentre è completamente e in modo irreversibile inattivata a pH neutro o alcalino. Nel succo gastrico sono presenti diversi tipi di pepsina e di pepsinogeno, le cui caratteristiche sono state definite per mezzo di metodiche immunochimiche; sono stati, in tal modo, distinti in due gruppi: pepsinogeno I (comprendente i pepsinogeni da 1 a 5) e pepsinogeno II (comprendente i pepsinogeni 6 e 7). Il pepsinogeno di tipo I è localizzato soprattutto in corrispondenza delle cellule principali e mucipare del corpo e del fondo gastrico, mentre il pepsinogeno II si trova, oltre che a livello degli elementi sopra citati, anche in quelli delle ghiandole di Brunner duodenali e nelle cellule mucipare delle ghiandole cardiali. Entrambi i tipi di pepsinogeno sono presenti nel plasma, mentre nelle urine si può rilevare soltanto il pepsinogeno I. Esiste una buona correlazione tra i livelli sierici di pepsinogeno I ed i valori di secrezione acida gastrica massimale; più in generale, si può affermare che gli stessi stimoli agenti sulla secrezione acida gastrica agiscono anche sulla secrezione di pepsinogeno e pepsina; la secretina, invece, per quanto sia in grado di esplicare un’azione inibitoria sulla secrezione di HCl, stimola quella di pepsinogeno. Esistono, comunque, per quanto riguarda la patogenesi dell’ulcera, differenze significative tra l’ulcera gastrica e l’ulcera duodenale: per esempio, è stato riscontrato che il numero delle cellule parietali delle ghiandole del fondo e del corpo gastrico, valutato con approssimazione in rapporto all’entità della loro secrezione, è diverso nei due tipi di ulcera peptica. Nello stomaco normale si stima che esista circa un miliardo di cellule parietali e la secrezione di HCl per ogni ora sotto stimolazione massimale (a digiuno la secrezione è molto scarsa: 1-5 mmoli/h) può arrivare fino a 40 mmoli con valore medio di 24 mmoli/h nell’uomo e 18 mmoli/h nella donna, tenendo conto, peraltro, che l’acidità tende a ridursi con l’età in modo progressivo. In sintesi, i valori di acidità dopo stimolazione massimale con pentagastrina o istamina (si veda in seguito) possono avere il seguente significato: 0 mmoli/h = acloridria 0-10 mmoli/h = ipocloridria 10-40 mmoli/h = normocloridria > 40 mmoli/h = ipercloridria. Nei pazienti con ulcera duodenale, il numero delle cellule parietali è maggiore (circa il doppio) e la secrezione massimale è quasi 2 volte quella che si ha normalmente (in media 40-45 mmoli/h), anche se al riguardo esiste una notevole variabilità individuale. I valori basali, inoltre, sono solitamente superiori a 5 mmoli/h, ma va ricordato, però, che circa il 40% dei soggetti con ulcera duodenale ha una secrezione acida nei limiti della norma (nella sindrome di Zollinger-Ellison, per esempio, la secrezione acida basale nei due terzi dei casi è superiore a 15 mmoli/h e talora anche a 100; si veda in seguito). Nell’ulcera gastrica, la situazione è differente; il numero delle cellule parietali è di circa 800 milioni e la
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Tabella 23.1 - Secrezione di HCL-H dopo stimolo con pentagastrina o istamina. N. CELLULE PARIETALI
DOSAGGI DOPO STIMOLAZIONE
Soggetto normale
1 × 109
18-24 mmoli/h (valore medio)
Ulcera duodenale
1,9 × 109
40-45 mmoli/h
Ulcera gastrica
0,8 × 109
15-20 mmoli/h
secrezione massimale è spesso (circa 60% dei casi) normale o anche di poco inferiore alla norma (valori medi: 15-20 mmoli/h) (Tab. 23.1). Anche i valori basali sono molto di frequente inferiori a quelli che si riscontrano nel soggetto sano. Se ne deduce che nell’ulcera duodenale è presente effettivamente un’ipersecrezione, mentre nell’ulcera gastrica di regola vi è piuttosto un’iposecrezione. Dunque è possibile affermare che esiste una differenza dal punto di vista patogenetico tra i due tipi di ulcera peptica, nel senso che l’ipersecrezione è il fattore patogenetico fondamentale nell’ulcera duodenale, mentre in quella gastrica è importante soprattutto la diminuita resistenza della mucosa nei confronti di svariate noxae lesive. Va comunque ricordato che esistono numerosi casi in cui la distinzione non è netta e in cui, quindi, l’ulcera è dovuta alla variabile combinazione di questi due fattori. 3. Principali agenti eziologici dell’ulcera peptica • Fattori ambientali e voluttuari. Sono importanti perché si tratta di situazioni modificabili almeno in parte, sulle quali è possibile intervenire sia in senso propriamente terapeutico sia in senso preventivo. Tra i fattori voluttuari, il solo che con certezza facilita l’insorgenza sia dell’ulcera gastrica sia di quella duodenale è il fumo di sigaretta; tra i fumatori, l’ulcera peptica è 2 volte più frequente che tra i non fumatori e nei soggetti sottoposti ad intervento chirurgico la frequenza di recidive è assai più elevata nei fumatori che nei non fumatori. Numerosi meccanismi sono stati ipotizzati per spiegare l’effetto del fumo di sigaretta: la stimolazione della secrezione acida, l’alterazione del flusso vascolare e della motilità gastroduodenale, l’induzione del reflusso biliare, la riduzione della produzione di prostaglandine. Si può dire, in sintesi, che l’effetto del fumo di sigaretta sia multifattoriale e variabile da individuo a individuo, tuttavia è probabile che l’azione più importante della nicotina sia l’inibizione della secrezione di bicarbonati da parte del pancreas esocrino, attraverso l’inibizione della secretina che stimola tale secrezione; in tal modo diminuisce la capacità di neutralizzazione della secrezione acida gastrica che giunge nel duodeno. In realtà sono stati presi in considerazione molti altri fattori ritenuti importanti per quanto riguarda l’insorgenza dell’ulcera e soprattutto è stata data importanza ai fattori dietetici, anche se al riguardo non esiste nulla di sicuramente provato; per esempio sembra
che alcune popolazioni che ricorrono abitualmente a diete più ricche di fibre vegetali presentino una minore incidenza di questa malattia, mentre è stato sostenuto l’effetto lesivo di alcuni alimenti irritanti come le spezie. Particolare attenzione merita l’alcool, il quale può sicuramente provocare ulcere acute, mentre non è certo che possa dare origine a ulcere croniche, per il fatto che gli alcolisti sono spesso anche epatopatici ed è difficile stabilire se l’ulcera sia conseguenza dell’alcool o dell’epatopatia; è certo comunque che nell’uomo l’ingestione di etanolo non determina abitualmente una stimolazione della secrezione acida né della produzione di gastrina (infatti, alla concentrazione sufficiente per superare la barriera mucosa gastrica, superiore al 14%, l’alcool riduce la secrezione cloridropeptica). Il caffè e tutte le sostanze contenenti caffeina stimolano la secrezione gastrica acida attraverso un meccanismo non ancora ben definito (ma sembra senza modificare la produzione di gastrina) e lo stesso effetto possono avere i cibi particolarmente ricchi di calcio, ma la correlazione fra queste sostanze e l’ulcera peptica non appare molto chiara. Anche i fattori lavorativi sono stati considerati importanti ed è stato detto che l’ulcera insorge più facilmente nel manager il quale è continuamente impegnato in attività di grande responsabilità: questo, in realtà, non sembra affatto vero, in quanto gli stress del manager (stress psicologici) agirebbero sfavorevolmente soprattutto sulle coronarie, mentre l’ulcera, soprattutto quella gastrica, risulta più frequente nella popolazione delle classi socioeconomiche inferiori dove, almeno di regola, lo stress è soprattutto di natura fisica. • Fattori genetici. Non si intende in alcun modo dire che l’ulcera peptica è una malattia ereditaria (si tratta infatti di una malattia acquisita), tuttavia, come accade in molti altri casi, può essere ereditata una certa predisposizione a sviluppare questa malattia. Fa parte dell’osservazione comune che in famiglie di ulcerosi la frequenza dell’ulcera peptica è maggiore che nella popolazione generale. A questo proposito si devono considerare alcuni marcatori genetici, cioè caratteristiche geneticamente determinate, la cui presenza nei soggetti con ulcera peptica è significativamente più elevata che nella popolazione generale tanto da potersi assumere, in un certo senso, come marker genetici di questa malattia. – Aumentati livelli di pepsinogeno I nel siero: il pepsinogeno è il proenzima proteolitico, precursore della pepsina, secreto dalle cellule principali delle ghiandole gastriche; si distinguono due frazioni: il pepsinogeno I, che è quello più specifico, prodotto dalle ghiandole del fondo e del corpo, e il pepsinogeno II, prodotto dalle ghiandole dell’antro pilorico (ghiandole di Brunner dell’intestino tenue). Il pepsinogeno I passa anche in circolo e quindi è possibile determinarne il livello; in tal modo è stato riscontrato che esistono soggetti che hanno livelli più alti di questa sostanza e che que-
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sti individui hanno più probabilità di ammalare di ulcera peptica. Il carattere “elevati livelli di pepsinogeno I” nel sangue si trasmette come autosomico dominante. – Gruppo sanguigno 0: i soggetti di gruppo 0 hanno un rischio di questa malattia moltiplicato per 1,4 (il gruppo A è invece correlato soprattutto al carcinoma dello stomaco). – Carattere non secretore: le sostanze gruppo-specifiche che si trovano sui globuli rossi e sulle altre cellule e che appartengono al sistema AB0 possono essere presenti in forma solubile in vari liquidi biologici, per esempio nel sangue, nella saliva e nel secreto di altre ghiandole. Coloro che hanno queste sostanze (A, B, sostanza H per i soggetti di gruppo 0) nelle secrezioni, compresa quella gastrica, si chiamano secretori; il carattere secretore viene trasmesso come autosomico dominante; il 75% della popolazione è secretore, il 25% non secretore. È stato visto che i non secretori hanno un rischio di ulcera peptica moltiplicato per 1,5. – 0 non secretore: la coesistenza del gruppo 0 con il carattere non secretore moltiplica il rischio per 2,5. – HLA-B5: è stato riscontrato che i soggetti con Ag di istocompatibilità HLA-B5 presentano un rischio di ammalare di ulcera peptica moltiplicato per 2,9 rispetto alla media della popolazione generale. • Farmaci. Sono gli stessi che provocano gastrite acuta erosiva e, quindi, in primo luogo, l’acido acetilsalicilico e tutti gli altri antinfiammatori non steroidei (FANS) per l’inibizione della sintesi delle prostaglandine attraverso il blocco della ciclo-ossigenasi (si veda Gastriti). L’incidenza di ulcera peptica clinicamente evidente in relazione al trattamento con FANS è stimata tra il 2 e il 4% per paziente/anno; inoltre, è stato osservato che questi farmaci determinano un incremento della frequenza di alcune complicanze dell’ulcera come, in particolare, l’emorragia e la perforazione (l’insorgenza sia di ulcera sia delle sue complicanze è più facile se sono presenti altri fattori predisponenti, come il fumo di sigaretta o l’abuso di alcolici o, comunque, una diatesi ulcerosa nell’anamnesi). Sembra certo che l’effetto di queste sostanze sia dose-dipendente, anche se i valori “soglia” non sono stati definiti con certezza (per es., per l’acido acetilsalicilico, il rischio di sanguinamento gastrointestinale aumenta in misura significativa a partire dalla dose di 325 mg/die); per quanto riguarda la durata del trattamento, si può affermare che gli effetti lesivi dei FANS si verificano per lo più nel corso della prima settimana e, comunque, di regola, entro il primo mese (ma in taluni casi anche dopo un intervallo ben maggiore, talora di qualche anno). In tutti i casi il rischio di ulcera è più elevato nei soggetti anziani, specialmente al di sopra dei 60 anni, ed è più alto a carico dello stomaco che del duodeno, mentre le complicanze dell’ulcera la cui insorgenza è riconducibile ai FANS si riscontrano con uguale frequenza nello stomaco e nel duodeno.
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Infine, va ricordato che la presenza di colonizzazione da Helicobacter pylori è riscontrabile nell’80% dei pazienti con ulcera gastrica non associata a FANS e solo nel 40% circa di quelli in cui l’ulcera si correla all’uso di questi farmaci: ciò può far pensare che possano sussistere due tipi di ulcera associata a FANS: il primo in cui la lesione si manifesta ex novo su una mucosa gastrica normale e l’altro in cui si abbia piuttosto una riesacerbazione, indotta da queste sostanze, di una sottostante diatesi ulcerosa (e che in quest’ultimo caso siano presenti, insieme, gastrite antrale e colonizzazione da H. pylori). • Helicobacter pylori. Del ruolo eziologico di H. pylori nell’ulcera peptica e nella gastrite antrale s’è già ampiamente parlato a proposito delle gastriti (si veda il paragrafo relativo). Qui si può ricordare che questo microrganismo è presente nel 90% circa dei casi di ulcera duodenale e nell’80% circa di ulcera gastrica. Il meccanismo d’azione di H. pylori nei confronti della mucosa gastroduodenale non è ancora ben conosciuto: è stato ipotizzato, per esempio, che questo bacillo possa alterare la composizione del secreto mucoso che riveste la parete dello stomaco compromettendo in tal modo la sua capacità di impedire la retrodiffusione di H+ (da questo punto di vista è interessante osservare che questo germe colonizza aree di mucosa duodenale coinvolte in processi infiammatori in cui sono presenti zone di metaplasia gastrica, mentre non è di regola dimostrabile in aree di mucosa duodenale del tutto indenni). Inoltre, per la sua ricchezza in ureasi, H. pylori potrebbe essere lesivo della mucosa attraverso la conversione dell’urea presente nel secreto gastrico in ammoniaca, la quale, a sua volta, potrebbe avere un effetto tossico diretto sulla parete dello stomaco o indiretto, modificando il pH pericellulare e alterando così la permeabilità della mucosa e l’attività delle pompe ioniche da cui dipendono i processi di trasporto transmembrana. H. pylori potrebbe, ancora, ledere la mucosa attraverso la produzione di una o più tossine non ancora identificate e, infine, è stato ipotizzato che esso potrebbe, attraverso la conversione di urea in ammoniaca, neutralizzare in parte l’acidità del succo gastrico inibendo il feed-back negativo HCl-gastrina, per cui quest’ultima verrebbe prodotta in quantità maggiore dalle cellule G antrali. • Fattori psicosomatici. Sono sicuramente importanti almeno nell’ulcera duodenale, mentre non sembrano avere rilevanza nell’ulcera gastrica; a questo proposito, secondo alcuni orientamenti di medicina psicosomatica, il meccanismo psicodinamico specifico dell’ulcera peptica consisterebbe nel conflitto tra il desiderio di rimanere in una condizione infantile di dipendenza e le aspirazioni di indipendenza dell’Io adulto. La frustrazione dei desideri recettivi di dipendenza e d’affetto da parte dell’Io adulto crea uno stimolo emotivo cronico, capace di esercitare un effetto stimolante sulle funzioni gastriche attraverso un meccanismo regressivo che converte il desiderio represso
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di affetto e di dipendenza in desiderio di essere nutrito. Si ritiene che questa situazione conflittuale costituisca un fattore importante nello scatenare l’ulcera duodenale, tenendo presente che la tensione emotiva sembra stimolare la secrezione acida, tuttavia i fattori psicosomatici non vanno mai presi in considerazione da soli, ma sempre in associazione ad altre condizioni predisponenti. • Stress. Le stesse ulcere acute, che sono provocate da traumi, ustioni, interventi chirurgici, shock, possono in qualche raro caso evolvere in ulcera cronica. • Altre malattie. L’ulcera peptica può essere associata con una certa frequenza ad alcune malattie; l’ulcera gastrica si associa a: – bronchite cronica ed enfisema polmonare: forse l’ipossia è responsabile della lesione della mucosa gastrica; – artrite reumatoide: la causa non è nota; in passato si pensava che fossero responsabili i farmaci impiegati nella terapia di questa malattia, tenendo conto che si tratta di sostanze (antinfiammatori non steroidei e cortisonici, soprattutto) in grado di esercitare un effetto lesivo sulla mucosa dello stomaco, ma questa ipotesi non sembra essere attendibile e si ritiene che l’associazione sia legata non alla terapia, ma alla malattia vera e propria, anche se la ragione di questo è sconosciuta. L’ulcera duodenale può essere associata a: – cirrosi epatica: l’esistenza di un’importante compromissione funzionale epatica comporterebbe la mancata neutralizzazione di sostanze ad attività istamino-simile di provenienza intestinale le quali potrebbero, in tal modo, passare nella circolazione generale stimolando la secrezione gastrica; – carcinoma del pancreas: in questa neoplasia si può avere secrezione di gastrina (come nella malattia di Zollinger-Ellison) con conseguente stimolazione della secrezione acida dello stomaco; – iperparatiroidismo: non è chiaro se l’ulcera sia correlata all’ipercalcemia presente in queste condizioni oppure alla produzione di gastrina da parte di adenomi paratiroidei. Ulcera gastrica o duodenale può anche essere presente nell’insufficienza renale cronica in stadi avanzati dell’uremia, in rapporto all’aumentata concentrazione di sostanze irritanti sulla mucosa gastroenterica, come l’urea e l’ammoniaca. I complessi meccanismi eziopatogenetici dell’ulcera peptica sono riassunti nella figura 23.3. E. Anatomia patologica. L’ulcera peptica si localizza in alcune sedi predilette: quelle in cui la mucosa che viene a contatto diretto con la secrezione cloridropeptica presenta secrezione alcalina; quelle in cui esiste una condizione circolatoria più sfavorevole; quelle di transizione tra zone formate da tessuti di tipo diverso; quelle soggette a reflusso acido (esofago terminale) o biliare (regione prepilorica o a livello dello stomaco nei gastroresecati).
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Per tali motivi l’ulcera predilige: • nello stomaco, la piccola curvatura (complessivamente l’85% dei casi, 3/4 nella porzione inferiore ed 1/4 in quella superiore) e, in particolare, l’angulus e la regione antrale (60%), considerando l’importanza del reflusso duodenogastrico come fattore patogenetico; molto meno frequente la localizzazione a livello della regione iuxtacardiale (2-5%), della parete posteriore (10-20%), della grande curvatura (poco più dell’1%) e della parete anteriore (1%); • nel duodeno, oltre il 90% dei casi è localizzato nel bulbo o sulla faccia anteriore o su quella posteriore o su quella superiore; nel 3-5% dei casi l’ulcera è nella seconda porzione del duodeno; eccezionale è la localizzazione nella III e IV porzione del duodeno, cioè sovra e sottovateriana. Le ulcere possono essere uniche o multiple (2-3 o più) e, in questo caso, in stadio a volte diverso. Dal punto di vista anatomopatologico, l’ulcera per definizione è una perdita di sostanza che si approfonda oltre la muscularis mucosae, a differenza dell’erosione superficiale. Il cratere è emisferico o imbutiforme; il bordo è di regola netto e rilevato per la presenza di fenomeni infiammatori; inoltre la presenza sui bordi di epitelio rigenerativo tendente a riepitelizzare l’ulcera differenzia questa malattia dal carcinoma gastrico (in questo epitelio non si trovano cellule parietali e principali, ma solo cellule producenti muco e talora isole di metaplasia intestinale). Il fondo della lesione presenta tre strati: uno superficiale formato da materiale necrotico, uno intermedio costituito da tessuto di granulazione ed uno profondo formato da tessuto fibrotico cicatriziale; se l’ulcera è recente, il fondo può presentare aspetto emorragico, mentre se l’ulcera è di vecchia data si possono avere fenomeni di stenosi per la retrazione della cicatrice fibrosa: la stessa reazione fibrosa può provocare ispessimento della parete delle arteriole sottostanti l’area ulcerosa, con sviluppo di stenosi e con possibile ischemia ed ipossia della mucosa.
Fumo di sigaretta Fattori genetici Stress
FANS H. pylori
HCl + pepsina Alterazioni dei meccanismi di difesa della mucosa Z–E
Ulcera
Figura 23.3 - Rappresentazione schematica dei principali meccanismi eziopatogenetici nell’ulcera peptica.
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F. Fisiopatologia. Il sintomo più importante dell’ulcera peptica (che può decorrere anche in forma asintomatica) è il dolore, che insorge quando la secrezione cloridropeptica viene a contatto con l’ulcera stessa; quindi esiste una stretta relazione tra l’insorgenza della sintomatologia dolorosa e la secrezione acida e poiché, d’altra parte, quest’ultima è correlata con l’assunzione del cibo, ne consegue che in questa malattia il dolore è tipicamente in relazione con l’introduzione dei pasti. Gli alimenti stimolano la produzione di HCl nello stomaco sia attraverso la fase cefalica sia attraverso quella gastrica, quest’ultima dovuta all’azione meccanica del cibo nello stomaco ed a quella più specifica delle proteine che provocano la liberazione di gastrina; quindi, l’introduzione del cibo rappresenta in questo senso un fattore svantaggioso, aumentando la secrezione di acido e di conseguenza la probabilità di insorgenza del dolore. D’altra parte gli alimenti svolgono anche un’azione favorevole perché il cibo mescolandosi con la secrezione gastrica diluisce l’HCl ed in parte lo neutralizza; naturalmente quando si parla di cibo si intendono miscele complesse di sostanze eterogenee e quindi le differenze sono molteplici in rapporto alla qualità ed alla quantità degli alimenti che vengono consumati. A questo proposito è provato che l’acidità gastrica è neutralizzata dai cibi più comuni e sembra che un’azione importante in questo senso sia svolta dalle proteine della dieta; infatti queste sostanze, oltre che stimolare la secrezione gastrica, possiedono anche la capacità di neutralizzare l’acido, tenendo conto della loro proprietà di poter essere dissociate sia come acidi sia come basi in rapporto al valore del pK e del pH del mezzo in cui le proteine si trovano. Poiché il pK delle proteine è intorno a 4 ed il pH dello stomaco è più basso, le proteine sono dissociate come basi e possono perciò reagire con gli H+ e neutralizzare parzialmente l’acidità gastrica. Il cibo, dunque, favorisce inizialmente la produzione di HCl e può quindi provocare l’insorgenza del dolore (dolore precoce), ma in seguito è capace di neutralizzare la secrezione favorendo la sua scomparsa; soltanto quando il materiale alimentare non è più nello stomaco e nel duodeno, l’HCl non viene più neutralizzato e di nuovo compare la sintomatologia dolorosa (dolore tardivo). Questo particolare meccanismo spiega la tipica modalità di insorgenza del dolore in questa malattia in rapporto alla differente localizzazione dell’ulcera. Nel caso di ulcera gastrica alta, l’ingestione di alimenti provoca immediatamente la comparsa di dolore perché la lesione è vicina alla porzione di stomaco (corpo e fondo) ricca di ghiandole con cellule parietali in cui viene secreta la maggior quantità di HCl quando si ha lo stimolo del cibo; queste ulcere presentano di regola dolore assai precoce e sono scarsamente suscettibili all’azione neutralizzante degli alimenti, per cui in questo caso il dolore precoce ed il dolore tardivo tendono a fondersi. Se l’ulcera gastrica è più bassa, il dolore può essere bifasico: si può avere un dolore immediato appena ingeriti gli alimenti, che in seguito scompare per l’azione
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neutralizzante del cibo che tende a raccogliersi nella porzione più distale dello stomaco; più tardi il dolore ritorna (dopo un paio d’ore), quando la cavità gastrica si svuota. In caso di ulcera duodenale, si ha solo il dolore tardivo: infatti quando inizia la secrezione acida per l’introduzione degli alimenti, non esiste comunicazione tra stomaco e duodeno, in quanto il piloro si chiude e quindi manca l’effetto immediato della secrezione gastrica sull’ulcera duodenale. Questo effetto si manifesta solamente quando lo stomaco si svuota e quando si svuota lo stesso bulbo del duodeno (che è la sede più frequente dell’ulcera) per cui in questi casi si ha solo un dolore tardivo che insorge circa 3-4 h dopo il pasto. Inoltre il dolore dell’ulcera duodenale ha anche la caratteristica di essere eliminato con l’introduzione di altro cibo; esso viene chiamato infatti dolore “da fame”, in quanto compare a distanza di tempo dal pasto e viene eliminato con l’ingestione di altri alimenti: ciò perché l’introduzione del cibo provoca la chiusura dell’anello pilorico e quindi il ristagno della secrezione acida nello stomaco, impedendo che questa raggiunga il duodeno. Anche di notte, che è il periodo più lungo della giornata in cui non si ingeriscono alimenti, si può avere dolore in caso di ulcera duodenale: infatti si raccoglie una certa quantità di secrezione a digiuno che, per quanto abitualmente piccola, può col tempo essere sufficiente a risvegliare il dolore; di regola questo insorge verso le prime ore del mattino, fra le 2 e le 3 di notte, in quanto manca l’azione neutralizzante degli alimenti sulla secrezione acida che si è nel frattempo formata. G. Clinica. I soggetti con ulcera peptica hanno più spesso un’età fra i 35 e i 45 anni e comunque nella gran parte dei casi fra i 20 e i 50; questi pazienti sono in genere in buone condizioni generali ed anche in buone condizioni di nutrizione, nonostante soffrano cronicamente di disturbi gastrici. Il dolore nell’ulcera peptica ha un andamento tipicamente ciclico (ci sono periodi in cui è presente ed altri in cui è assente), talvolta a carattere stagionale con accentuazione nelle stagioni intermedie, primavera ed autunno, per ragioni sconosciute (l’andamento stagionale è caratteristico soprattutto dell’ulcera duodenale). Il dolore è localizzato in corrispondenza dell’epigastrio ed è di tipo crampiforme; come tutti i dolori viscerali, la sua sede non è molto precisa, a differenza di quanto avviene per i dolori superficiali, che sono ben localizzati e circoscritti (infatti l’innervazione sensitiva delle strutture superficiali è molto ricca e quindi permette discriminazioni spaziali molto fini; al contrario, i dolori viscerali hanno sempre una localizzazione piuttosto vaga, perché le terminazioni sensitive viscerali sono meno fitte e quindi la proiezione superficiale del dolore è meno precisa). Il dolore dell’ulcera peptica, come già detto, compare in relazione con i pasti, ma con un andamento differente nell’ulcera gastrica rispetto a quella duodenale: poiché, in sintesi, il dolore è provocato dal pasto nell’ulcera gastrica, mentre è migliorato dagli alimenti in quella duodenale, ne consegue che nel primo caso i pa-
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zienti tendono a mangiare di meno ed a perdere peso, mentre nel secondo caso tendono a mangiare di più e più spesso ed a ingrassare. In qualche caso, in particolare nell’ulcera della faccia posteriore del bulbo, il dolore può essere avvertito in sede anomala in corrispondenza delle ultime vertebre dorsali, in rapporto al frequente interessamento del pancreas; in altri casi, specialmente nell’ulcera gastrica, che è sempre associata alla presenza di gastrite, il dolore può essere accompagnato da disturbi dispeptici, come nausea e vomito postprandiale, soprattutto in seguito ad alimentazioni troppo abbondanti o all’introduzione di cibi di per sé irritanti; lo stomaco, infatti, reagisce agli stimoli irritativi mediante movimenti antiperistaltici che provocano l’insorgenza del riflesso del vomito. D’altra parte questi pazienti imparano presto a correggere le abitudini alimentari sfavorevoli e, in particolare, ad evitare le bevande alcoliche e le sostanze irritanti, come le spezie cotte e i grassi fritti, che sono quelle che più favoriscono la secrezione acida e quindi la comparsa della sintomatologia dolorosa. Dal punto di vista obiettivo, i segni di questa malattia sono assai scarsi; in una certa percentuale dei casi è presente in questi soggetti una piega sul volto disposta parallelamente, ma più lateralmente, rispetto al solco naso-labiale. Questa ruga sarebbe dovuta al fatto che la sensazione di nausea tende a far contrarre i muscoli del viso, fissando in maniera permanente le pieghe provocate dalle espressioni mimiche più comuni (segno di Campanacci). L’esame obiettivo dell’addome è del tutto negativo in assenza del dolore spontaneo, mentre se questo è presente la palpazione in epigastrio lo accentua lievemente; esiste, perciò, in questa malattia una evidente sproporzione tra la sintomatologia dolorosa soggettiva, molto fastidiosa, e quella che si può evocare con la palpazione dell’addome. Non esiste, infine, alcuna alterazione ematochimica significativa dell’esistenza di ulcera peptica, se non in rapporto alla presenza di complicanze o ad altra malattia associata. Va sottolineato, comunque, a proposito degli aspetti clinici dell’ulcera peptica, che molti pazienti con malattia in fase attiva sono del tutto asintomatici: ciò condiziona una significativa, anche se non facilmente quantificabile, sottostima della reale frequenza della malattia. Studi recenti, condotti con l’ausilio di tecniche endoscopiche, hanno messo in luce una scarsa correlazione tra attività della malattia, risoluzione della sintomatologia e cicatrizzazione dell’ulcera. Dal momento che molti pazienti sono asintomatici, non si può escludere che un’ulcera, anche in assenza di dolore, sia potenzialmente causa di emorragia gastrointestinale, stenosi pilorica o di perforazione, cioè delle più frequenti complicanze di questa malattia. A questo proposito, si può ricordare che la cosiddetta ulcera “silente” è più frequente certamente di quanto si pensi (probabilmente intorno al 25% circa dei casi). Molti soggetti, per esempio, che fanno uso di FANS presentano delle complicanze come primo segno della malattia senza una storia clinica di ulcera preesistente;
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l’ulcera silente, infine, è particolarmente comune nelle persone anziane, così come è piuttosto frequente la comparsa di recidiva di malattia ulcerosa in pazienti con storia di ulcera peptica (con o senza terapia di mantenimento) a lungo del tutto asintomatici. H. Diagnosi. L’ulcera peptica è un esempio di malattia in cui l’anamnesi è di fondamentale importanza per quanto riguarda la diagnosi, soprattutto in presenza di una storia tipica di dolori epigastrici, crampiformi, in varia relazione con l’assunzione dei pasti. Tuttavia la diagnosi deve essere accertata con manovre strumentali e queste sono sostanzialmente rappresentate da: • radiografia dello stomaco e del duodeno con pasto di solfato di bario; • endoscopia. 1. L’esame radiologico del primo tratto del canale digerente è una tecnica di primaria importanza nella diagnosi di questa malattia e rappresenta l’esame che ha permesso le prime valide correlazioni fra sintomatologia clinica e presenza di ulcera peptica; inoltre questa indagine, oltre allo studio morfologico della parete dello stomaco e del duodeno, risulta di grande utilità per l’osservazione della motilità e dello svuotamento dei visceri, specialmente per quanto riguarda la diagnostica differenziale con le neoplasie gastriche, la patologia da reflusso e le complicanze dell’ulcera, soprattutto la stenosi. Il segno radiologico diretto più tipico dell’ulcera gastrica è la presenza della nicchia ulcerosa, rilevabile a riempimento completo nel 50-70% dei casi, che appare come un’immagine di “plus”, cioè come una estroflessione della parete, dovuta al bario che riempie il cratere dell’ulcera. A piccolo riempimento è possibile studiare il disegno delle pliche gastriche e in questo caso è considerato un segno indiretto della presenza di ulcera l’immagine delle pliche convergenti verso la nicchia ulcerosa, talora con andamento concentrico, o comunque convergenti verso un punto della parete anche senza che sia evidente il cratere dell’ulcera. Nel duodeno, se l’ulcera è localizzata sulla faccia anteriore o sulla faccia posteriore del bulbo, in una normale proiezione antero-posteriore, l’immagine radiologica più caratteristica è quella di un “bottone chiaro”, cioè un’area più intensamente radiopaca che si sovrappone alla normale opacità delle restanti porzioni del duodeno; se l’ulcera è, invece, situata sulla faccia superiore del bulbo, nelle stesse proiezioni l’immagine è quella della nicchia (quindi di plus) come per l’ulcera gastrica. Segni radiologici indiretti di ulcera duodenale sono considerati le deformazioni del bulbo stesso, che può assumere aspetti molto variabili (per es., a trifoglio o ad alabarda), con disposizione delle pliche assai irregolare. 2. L’esame endoscopico, eseguito con strumento a fibre ottiche, è sicuramente la metodica diagnostica più importante, soprattutto per l’ulcera gastrica in rapporto al problema della diagnosi fra ulcera e cancro dello sto-
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maco; infatti, mentre l’ulcera duodenale non ha tendenza a trasformarsi in tumore (le neoplasie del duodeno sono rarissime), il rischio esiste per l’ulcera gastrica, in quanto la rigenerazione degli elementi cellulari sui margini del cratere ulceroso facilita la comparsa di carcinoma sulle aree displasiche; d’altra parte il tumore più che una complicanza dell’ulcera può essere considerato una complicanza della gastrite cronica che ha dato origine all’ulcera, così come può accadere che l’ulcera insorga in corrispondenza di una neoplasia preesistente (carcinoma ulcerativo). L’endoscopia è in grado di risolvere il problema con la possibilità di eseguire prelievi bioptici mirati, così come può essere utile lo studio della citologia esfoliativa mediante tecnica del washing o del brushing della lesione. Accanto alla diagnostica strumentale esistono alcuni test funzionali, nell’ulcera peptica, di particolare rilevanza: la secrezione di HCl durante il pasto è 3 milioni di volte superiore alla quantità di HCl nel sangue; la secrezione basale è di 0-5 mmoli/h con minimo alle 5 e alle 11 e massimo alle 18 e all’1, quindi la secrezione di HCl, a differenza di quella di gastrina, presenta un ciclo circadiano. Il test di secrezione gastrica viene effettuato, con pazienti a digiuno, mediante l’introduzione di un sondino nasogastrico radiopaco fino a metà della regione antrale; dopo aver provveduto ad un completo svuotamento del viscere, si raccoglie, mediante aspirazione continua con manovra manuale, il succo gastrico, che viene diviso in quattro campioni, uno ogni 15 min; quindi si procede alla stimolazione della secrezione con l’impiego di sostanze idonee e si raccoglie di nuovo il succo gastrico per altri 4 o 8 campioni, sempre ogni quarto d’ora. Le sostanze che possono essere impiegate come stimolanti sono, in particolare: istamina (40 g/kg), insulina (0,2 U/kg) e pentagastrina (6 g/kg) per via im o sc (insulina solo per via ev); di regola si utilizza per comodità e per i minori effetti collaterali la pentagastrina. Con questo metodo si possono determinare i seguenti parametri: • BAO (Basal Acid Output): valore basale, espresso dalla somma dei valori ottenuti nella prima ora (3 ± 2,5 mEq/h); • PAO (Peak Acid Output): dopo stimolazione, esprime la somma dei due valori più alti e contigui ottenuti nella seconda ora moltiplicati per due (valore normale: 20 mEq/h); • MAO (Maximal Acid Output): dopo stimolazione, esprime la somma dei valori ottenuti nella seconda ora (valore medio: 20 mEq/h; valore massimo: 40 mEq/h). Come già ricordato altrove, in presenza di ulcera duodenale, i valori basali e dopo stimolazione sono tendenzialmente più elevati che nei soggetti sani, mentre, nell’ulcera gastrica, i valori basali sono più bassi rispetto ai controlli e quelli dopo stimolazione sono sovrapponibili a questi ultimi. Nell’ulcera peptica comune il BAO è spesso inferiore al 70% del MAO; per quanto riguarda la gastrina, i li-
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velli plasmatici nel soggetto normale si aggirano fra i 40 e gli 80 pg/ml ed aumentano a circa 200-300 pg/ml dopo il pasto. La gastrinemia può risultare al di sopra della norma nell’ulcera duodenale ormonedipendente ed in quella gastrica in cui si associ una gastrite cronica atrofica di tipo A per alterato feed-back HCl-gastrina, mentre non è alterata in molti casi di ulcera con ipercloridria per efficacia del feed-back HCl-gastrina (si veda anche Gastrite atrofica). I. Decorso e prognosi. L’ulcera peptica è una malattia ad andamento ciclico, cioè tende a recidivare e ha lunga durata; più che di vera guarigione si deve, quasi sempre, parlare di remissione della malattia con facilità alle riacutizzazioni, specie stagionali. Con adeguato trattamento, la prognosi è comunque sempre benigna e la recidiva eventuale può andare incontro a cicatrizzazione ancor più rapidamente della lesione primaria; la prognosi peggiora sensibilmente, per contro, quando la malattia sia caratterizzata dalle complicanze descritte di seguito. 1. Emorragia: si può verificare in tutte le ulcere peptiche (10-20% dei casi e nel 40% di questi si osservano emorragie ricorrenti) ed è dovuta ad erosione della parete di una vena o di un’arteria o al sanguinamento del tessuto di granulazione. L’ulcera può sanguinare in due modi: o con grosse emorragie singole che possono provocare shock emorragico, o con stillicidio occulto cronico (10-15 ml ogni volta). Nel primo caso, che può anche essere la prima manifestazione di un’ulcera acuta ignorata, il paziente presenterà ematemesi e melena con emissione di sangue trasformato, perché a contatto con l’HCl (vomito caffeano), e di feci nere (feci melenatose); talvolta l’ematemesi è rappresentata da sangue rosso vivo, non digerito, in quanto di provenienza esofagea o gastrica senza aver subito trasformazioni da parte dell’HCl; in tutti questi casi si possono avere i sintomi tipici dello shock ipovolemico: pallore, sudorazione, tachicardia, ipotensione, lipotimia. Nel secondo caso, la quantità di sangue è troppo piccola per essere evidente (non colora le feci e quindi non c’è melena, non dilata lo stomaco e quindi non è presente ematemesi), ma a lungo andare vengono depauperate le scorte di ferro e si instaura un’anemia sideropenica, che è la conseguenza dello stillicidio cronico; in questi pazienti è positiva comunque la ricerca di sangue occulto nelle feci. 2. Perforazione: avviene per rottura dell’ulcera nel cavo peritoneale ed è una delle cause più comuni di peritonite acuta; ha maggiore incidenza nei soggetti di sesso maschile di età soprattutto fra i 25 e i 40-50 anni, e si verifica in una percentuale variabile di casi (dal 2 al 25%; in media 5-10%; è 10 volte più frequente nell’ulcera duodenale che in quella gastrica); le sedi predilette sono: parete anteriore del duodeno (80-90%), piccola curva gastrica (10-20%), parete posteriore del duodeno (perforazione “coperta” con penetrazione negli organi vicini).
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La durata della malattia non sembra avere influenza sulla velocità con la quale i processi infiammatori ed ulcerativi penetrano attraverso la tonaca muscolare e la sierosa (la velocità può essere rapidissima o lentissima); in genere si ammette che tutte le ulcere croniche con sintomatologia grave persistente e ricorrente presentano il rischio di perforazione. In corrispondenza della superficie sierosa la perforazione a livello duodenale supera raramente i 2-3 mm di diametro, mentre le perforazioni gastriche possono raggiungere anche 1 cm di larghezza; la parete circostante è friabile, iperemica, rivestita da essudato fibrino-purulento. Il versamento peritoneale tende ad aumentare progressivamente nelle ore che seguono alla perforazione; verso la 12a h assume carattere purulento, mentre in principio è formato unicamente da succo gastrico o enterico; inoltre nella cavità peritoneale è presente gas costituito da aria deglutita. Si possono verificare due evenienze. • Perforazione libera: dolore a pugnalata con sede in epigastrio e variamente irradiato; il paziente è pallido, sudato, con addome retratto per contrattura di difesa e segno di Blumberg nettamente positivo (addome a tavola); il dolore si può irradiare da sinistra a destra, obliquamente lungo la radice del mesentere, e talora obbliga il soggetto a tenere le cosce flesse sul bacino per diminuire il tono della parete addominale in posizione di difesa; all’esame obiettivo è scomparsa l’area di ottusità epatica per la presenza di aria, mentre la radiografia dell’addome a vuoto dimostra in ortostatismo una raccolta gassosa in regione sottodiaframmatica; all’ascoltazione la peristalsi è assente per ileo paralitico. • Perforazione coperta: è tipica dell’ulcera della parete posteriore del duodeno; con la perforazione l’ulcera può penetrare negli organi vicini, soprattutto testa del pancreas, lobo sinistro del fegato, legamento gastroepatico, vie biliari. La sintomatologia consiste di solito in un’intensificazione dell’abituale dolore ulceroso, ma spesso, specialmente in caso di penetrazione nel pancreas, il dolore è irradiato al dorso, marcato, continuo, non trae giovamento dal cibo e dalle sostanze alcalinizzanti. La peritonite è circoscritta e la perforazione può essere documentata con esame radiografico dell’apparato digerente con Gastrografin (non con solfato di bario); l’evoluzione può portare ad un quadro di peritonite acuta diffusa; la diagnosi differenziale va posta nei confronti della peritonite da perforazione di altro viscere cavo, pancreatite, infarto intestinale, rottura o dissecazione di aneurisma dell’aorta. 3. Stenosi: è una complicanza frequente delle ulcere iuxtapiloriche, sia gastriche sia soprattutto duodenali (20-25% dei casi); all’inizio la stenosi è spastica per contrattura irritativa provocata dalla vicinanza dell’ulcera; in seguito si sviluppa una stenosi organica per linfangite intramurale, che, raggiungendo l’anello pilorico, ne provoca la sclerosi cicatriziale con restringimento permanente.
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In caso di stenosi discreta, lo stomaco si svuota con lentezza, ma con un’adeguata alimentazione il disturbo è tollerato abbastanza bene con periodiche riacutizzazioni legate ad ogni ripresa del processo ulcerativo (spasmo pilorico); in caso di stenosi serrata, il sintomo più importante è il vomito, che spesso è provocato dal paziente stesso per evitare l’eccessiva distensione gastrica; talvolta vengono espulsi anche gli alimenti ingeriti alcuni giorni prima e la conseguenza di questa situazione è la comparsa di disidratazione, perdita di peso, squilibrio elettrolitico (per eccessiva perdita di HCl si può instaurare tetania alcalosica). In questi soggetti il ristagno gastrico notturno è superiore a 50 ml (valore normale) ed alla palpazione dell’addome si avverte una sensazione di “guazzamento” in sede epigastrica. 4. Degenerazione carcinomatosa: è pressoché esclusiva dell’ulcera gastrica e di quella perianastomotica del gastroresecato (è calcolabile fra il 3 ed il 9% dei casi); di questo problema si discuterà nel capitolo 41. L. Terapia. La terapia dell’ulcera peptica può essere medica o chirurgica. 1. La terapia medica ha lo scopo di ridurre l’effetto lesivo dell’HCl sulla mucosa; questo può essere ottenuto con provvedimenti di vario genere. • Dieta. Sebbene numerosi regimi dietetici siano stati raccomandati nella terapia dell’ulcera peptica, non esiste alcuna evidenza sperimentale che una dieta leggera o priva di spezie e succhi di frutta riduca la secrezione acida, favorisca la cicatrizzazione della lesione o attenui la sintomatologia. Per molti anni è stata adottata una dieta a base di latte e panna, la cui efficacia terapeutica non è stata mai provata e che, per contro, può favorire lo sviluppo della sindrome da latte ed alcali (alcalosi metabolica ed ipercalcemia). Non essendo, quindi, chiaramente necessario uno stretto controllo dietetico, è opportuno consigliare al paziente di eliminare quei cibi che nella sua esperienza personale provocano un’esacerbazione della sintomatologia. Si può dire, in sintesi, che una dieta normale va associata alla terapia con antiacidi di vario tipo; se mai le uniche restrizioni dietetiche di carattere generale sono l’eliminazione del caffè, con o senza caffeina, delle bevande contenenti caffeina e la abolizione del consumo di alcool. Inoltre può essere ricordato che la quantità di proteine nella dieta non deve essere elevata, perché queste sostanze stimolano la secrezione di gastrina e quindi di HCl; i grassi, invece, purché cotti in maniera semplice, hanno un’azione favorevole in quanto stimolano la secrezione di GIP, colecistochinina e pancreozimina che inibiscono la produzione di acido; importante è inoltre l’abolizione anche di droghe, spezie e farmaci gastrolesivi. Tenendo poi conto della relazione esistente tra l’assunzione dei pasti e l’insorgenza del dolore, è opportuno frazionare i pasti in maniera da prevenire la comparsa del dolore tardivo (soprattutto nell’ulcera duodenale).
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• Antiacidi. Per lungo tempo la terapia con antiacidi ha costituito il trattamento più comunemente impiegato nell’ulcera peptica, gastrica e/o duodenale. Da studi endoscopici è stato osservato che queste sostanze accelerano il processo di cicatrizzazione della malattia. Nella pratica terapeutica sono stati utilizzati differenti tipi di antiacidi come, per esempio, il carbonato di calcio ed il bicarbonato di sodio (entrambe queste sostanze sono dei potenti antiacidi, ma non vengono più utilizzate nel trattamento dell’ulcera per la loro tendenza a provocare la sindrome da latte ed alcali). Attualmente i preparati antiacidi più largamente e comunemente impiegati sono miscele di idrossido di alluminio e magnesio con l’aggiunta, in alcuni casi, di altri composti, che possiedono capacità neutralizzante molto variabile (tra gli effetti collaterali, l’idrossido di alluminio tende a provocare stipsi, mentre l’idrossido di magnesio può indurre diarrea). • Farmaci anticolinergici. I farmaci anticolinergici, come l’atropina, agiscono sui recettori muscarinici antagonizzando l’azione dell’acetilcolina, ma i primi preparati di questo gruppo presentavano troppi effetti collaterali di carattere generale (secchezza delle fauci, disturbi dell’accomodazione, ecc.), per cui sono state studiate altre sostanze (come la pirenzepina) che agiscono selettivamente sull’innervazione vagale a livello gastrico, ma anche in questo caso gli effetti collaterali a livello generale sono ancora parzialmente presenti ed inoltre tutti gli antivagali non solo riducono la secrezione, ma anche la motilità dello stomaco che si svuota con ritardo, favorendo, perciò, una più prolungata stimolazione alla produzione di acido da parte degli alimenti. • H2 antagonisti. È noto da molti anni che gli antistaminici convenzionali, che inibiscono rapidamente gli effetti dell’istamina a livello della muscolatura liscia dell’intestino e dell’albero bronchiale, non hanno alcuna efficacia sulla secrezione acida stimolata dalla stessa istamina. I recettori delle cellule parietali gastriche per questa sostanza sono stati classificati come recettori H2, mentre quelli inibiti dai comuni antistaminici, come recettori H1. Gli antagonisti dei recettori H2, potenti inibitori della secrezione acida basale e sotto stimolo, hanno trovato un crescente impiego nella terapia dell’ulcera peptica, soprattutto in quella duodenale, dove l’ipersecrezione rappresenta, come si è visto, la condizione patogenetica fondamentale. Sebbene abbiano lo stesso meccanismo d’azione, gli anti-H2 in commercio differiscono tra loro per la struttura chimica: i più comuni sono la cimetidina (il primo anti-H2 disponibile nella pratica clinica), la ranitidina (6 volte più potente della cimetidina), la famotidina (da 8 a 10 volte più potente della ranitidina), la nizatidina, ecc. • Farmaci citoprotettivi. Vi sono numerose sostanze che non agiscono neutralizzando o inibendo la secrezione acida gastrica, ma attraverso il ripristino o il potenziamento delle difese della mucosa gastroduo-
denale (cosiddetti cito o gastroprotettori). Di questi preparati, i più noti e più comunemente utilizzati sono il sucralfato (che si stratifica sul tessuto di granulazione dell’ulcera impedendo la diffusione dell’acido verso il fondo della lesione), il bismuto colloidale subcitrato (che forma, in ambiente acido, a contatto con il succo gastrico un complesso bismuto-proteine sulla lesione ulcerosa che la protegge dall’azione corrosiva di HCl e pepsina), il carbenoxolone (che agisce a livello delle pompe ioniche favorendo il processo di riepitelizzazione della mucosa; la sua azione è simile a quella dell’aldosterone: di qui il maggiore assorbimento di Na a livello renale con rischio di ipertensione, per cui questo farmaco è oggi quasi del tutto abbandonato) e il sulglicotide. Di questo gruppo fanno parte i derivati sintetici delle prostaglandine della serie E1 e E2 (misoprostol, rioprostol, enprostil, ecc.), della cui azione citoprotettiva si è già parlato. Va ricordato, in particolare, che questi farmaci sono impiegati soprattutto nella prevenzione delle gastroduodenopatie da FANS in cui le prostaglandine di sintesi rappresentano la terapia più efficace in assoluto. • Omeprazolo. L’omeprazolo è, tra i farmaci attualmente disponibili, il più potente inibitore della secrezione acida gastrica. Il suo peculiare meccanismo d’azione consiste nell’inibizione specifica irreversibile della pompa protonica H+-K+-ATPasi-dipendente, che è la via finale comune degli stimoli inducenti la secrezione di acido nello stomaco (analogo meccanismo d’azione hanno altri composti benzilimidazolici come il pantoprazolo, il lansoprazolo e altri). • Terapia per H. pylori. Se n’è già parlato a proposito delle gastriti antrali (si veda). Di fatto la combinazione di due o tre farmaci s’è rivelata senza dubbio la scelta migliore per ottenere le più elevate percentuali di eradicazione. In particolare sembra che il sale citrato di bismuto colloidale rappresenti il cardine di tali associazioni di cui dovrebbero far parte antibiotici come l’amoxicillina ed il metronidazolo, ma anche claritromicina e tetracicline. 2. La terapia chirurgica va limitata alla minoranza dei casi in cui la terapia medica non si rivela efficace, quindi, soprattutto, quando l’ulcera ha particolare tendenza a recidivare o nelle ulcere gastriche con segni di atipia cellulare per il rischio di degenerazione neoplastica o in presenza di complicanze. L’intervento può consistere in vagotomia selettiva o superselettiva con o senza piloroplastica oppure in gastrectomia parziale (Billroth I con gastroduodenostomia o Billroth II con gastrodigiunostomia) o anche, in qualche caso, in gastrectomia subtotale.
Sindrome di Zollinger-Ellison La sindrome di Zollinger-Ellison è una condizione caratterizzata dalla presenza di ulcere multiple dell’apparato gastroenterico (stomaco, duodeno e, talora, esofago
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e digiuno) con spiccata ipersecrezione cloridro-peptica dovuta in genere a tumori di cellule G delle isole di Langerhans del pancreas, producenti la gastrina (normalmente presenti in questa sede soltanto nel periodo fetale), che è una sostanza responsabile di ipersecrezione gastrica e, quindi, della formazione delle ulcere. Circa il 90% dei tumori producenti gastrina è localizzato nel pancreas, il 5% nel tratto prossimale del duodeno, mentre in una piccola percentuale questi gastrinomi si trovano nella milza, nello stomaco, a livello delle paratiroidi o delle ovaie; quando i tumori sono presenti contemporaneamente in sedi diverse, si parla di adenomatosi multipla. È una condizione piuttosto rara in cui la secrezione gastrica basale è sensibilmente aumentata (la gastrinemia basale è molto elevata, al di sopra di 220-300 pg/ml con incremento notevole dopo i pasti, anche oltre 1000 pg/ml; il BAO è aumentato: 20-30 mEq/h), mentre dopo stimolazione massimale l’incremento è modesto, in quanto un’ulteriore stimolazione della massa delle cellule parietali è possibile soltanto in misura limitata (in questa sindrome il BAO è superiore al 60% del MAO). L’eccessiva secrezione acida provoca alterazioni anche in corrispondenza dell’intestino tenue: infatti la
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quantità di acido che raggiunge il duodeno ed il digiuno supera la capacità neutralizzante della secrezione pancreatica e svolge un’azione irritante con conseguente diarrea cronica di tipo acquoso, talvolta con i caratteri della steatorrea; questa diarrea sarebbe anche favorita dall’elevata gastrinemia, poiché la gastrina è in grado di inibire l’assorbimento digiunale di Na+ e H2O e di stimolare la secrezione di K+ da parte della mucosa intestinale: ne consegue in questi pazienti lo sviluppo di una sindrome da malassorbimento. La prognosi della sindrome di Zollinger-Ellison è grave, non tanto per la potenziale malignità di questi tumori (anche se nella maggior parte dei casi essi possono essere considerati maligni e possono dare tardivamente metastasi), quanto per l’aggressività della malattia ulcerosa che, per effetto dell’elevata ipercloridria, tende a dare con particolare frequenza gravi complicanze, come perforazione ed emorragia. La terapia di scelta è quella chirurgica e l’intervento di elezione è la gastrectomia totale o subtotale per asportare tutta la massa cellulare acidosecernente; la terapia medica, fondata sull’impiego di farmaci inibitori dei recettori H2 dell’istamina (cimetidina, ranitidina, ecc.) o anche dell’omeprazolo, va limitata ai casi meno gravi.
C A P I T O L O
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MALATTIE DELL’INTESTINO V. BALDINI
ENTERITI ASPECIFICHE Con il termine enterite aspecifica si intende ogni forma di patologia infiammatoria dell’intestino. Queste affezioni possono essere segmentarie o, più spesso, diffuse, coinvolgendo diversi tratti dell’apparato gastroenterico (gastroenterocoliti o comunque enterocoliti), primitive, dovute a cause che alterano le caratteristiche anatomofunzionali della mucosa intestinale (infezioni batteriche, parassitosi, azione lesiva di alcuni farmaci), o secondarie, conseguenti a malattie di altri organi o apparati (stati tossici, allergopatie, endocrinopatie, ecc.) rispetto alle quali possono evolvere in maniera autonoma. In relazione al decorso clinico, le enteriti vengono abitualmente distinte in acute e croniche.
Enteriti acute Le forme acute sono per lo più provocate da cause infettive; infatti, il contenuto intestinale anche in condizioni fisiologiche non è sterile: nel tenue i microrganismi presenti sono normalmente in piccola quantità, ma la loro concentrazione tende ad aumentare in senso craniocaudale fino al 107/g e oltre nel colon (si veda in seguito). La proliferazione eccessiva della normale flora saprofitica intestinale o la presenza di microrganismi di per sé patogeni può determinare l’insorgenza di un diffuso processo infiammatorio della mucosa, soprattutto a carico del colon. È possibile, infatti, che germi saprofitici naturali possano proliferare al di là del dovuto, specialmente in seguito ad un’imperfetta digestione degli alimenti, i quali, in questo caso, giungendo nel colon non ancora completamente digeriti, costituiscono certamente un ottimo terreno di crescita per la flora batterica presente normalmente in questo tratto dell’intestino, potendosi, pertanto, sviluppare un processo infiammatorio aven-
te prevalentemente le caratteristiche della colite acuta. Per quanto riguarda, invece, i microrganismi di per sé patogeni in grado di provocare enterocolite acuta (enterocolite specifica), si rimanda alla parte quattordicesima dedicata alle malattie infettive, dove vengono trattate le più importanti forme cliniche di questo tipo. Una considerazione a parte meritano, infine, le infiammazioni acute del colon correlate con l’assunzione di farmaci, soprattutto certi antibiotici come la licomicina, la clindamicina, le tetracicline e l’ampicillina (si veda in seguito). A. Clinica. Il quadro clinico è generalmente caratterizzato dai sintomi e segni propri della colite; la sintomatologia è, in genere, quella di una colica del grosso intestino con dolori e bruciori addominali diffusi, subcontinui o intermittenti, molto spesso associati a meteorismo, borborigmi e, talvolta, a tenesmo (stimolo doloroso alla defecazione non seguito dall’evacuazione del contenuto intestinale) in caso di prevalente irritazione rettale. Sono presenti, inoltre, disturbi dell’alvo, caratterizzati soprattutto da diarrea, cui si accompagna, di solito, diminuzione fino a completa scomparsa della sintomatologia dolorosa, la quale, peraltro, si ripresenta rapidamente. Le feci sono in genere abbondanti, liquide, di colore prevalentemente giallastro, ma non uniforme, per la scarsa miscelazione delle varie componenti secretive ed alimentari, acide, contenenti residui alimentari indigeriti. Frequentemente, i fenomeni putrefattivi possono prevalere su quelli fermentativi e le feci tendono ad assumere colore brunastro, diventano alcaline, ricche di muco e, in caso di flogosi purulente, acquistano carattere puruloide. Il numero delle scariche dell’alvo è, in genere, moderato (1-2 al giorno) nelle affezioni del colon destro, mentre è elevato (fino a 15-20) in quelle del colon sinistro. La febbre può essere presente con carattere remittente nelle coliti tossinfettive, mentre è di tipo intermittente in quelle da piogeni.
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Altri sintomi abbastanza comuni possono essere: nausea e vomito (da riflessi gastrocolici), cefalea, dolori articolari (conseguenti a stato infettivo o a localizzazioni piogeniche o a reazioni da immunocomplessi) ed alterazioni cutanee di tipo dermatosico. Nelle forme più gravi possono essere presenti marcata astenia, disidratazione (con lingua secca ed impaniata) e modificazione dei parametri circolatori (ipotensione e tachicardia). L’esame obiettivo dell’addome evidenzia, in genere, dolorabilità diffusa (ma spesso più evidente ai quadranti di sinistra, più di rado a quelli di destra) alla palpazione profonda, iperestesia cutanea, moderata difesa da contrattura della parete muscolare, spasmo diffuso, più accentuato di solito all’emiaddome di sinistra, dove il colon contratto viene apprezzato come una corda dolente alla palpazione (corda colica).
Enteriti (coliti) croniche Raramente conseguono alle forme acute, in quanto, per lo più, esordiscono in maniera subdola ed insidiosa. Il quadro clinico è caratterizzato prevalentemente da disturbi dell’alvo con diminuzione o, più frequentemente, aumento o, ancora più spesso, irregolarità delle scariche; tipica è la presenza di un certo numero di evacuazioni che insorgono subito dopo l’ingestione di cibi piuttosto caldi o ricchi di verdure e latticini o dopo stress ed esposizione al freddo. Le feci sono spesso ricche di muco, a volte solide e scarse, di frequente poltacee, più di rado liquide, quasi sempre fetide al mattino (diarrea notturna o “del risveglio”). È opportuno ricordare che, a differenza di quanto presente nella tipica sintomatologia da colon irritabile, le turbe dell’alvo, in caso di patologia organica del colon, possono insorgere anche nei periodi di riposo e, per esempio, risvegliare dal sonno. Dolori addominali localizzati o, più spesso, diffusi, più o meno intensi, sono piuttosto frequenti e si accompagnano, di regola, alle defecazioni. Contrariamente a quanto avviene per le coliti acute, non vi sono in genere sintomi di sofferenza generale al di là di variabile anoressia, modesta astenia, dispepsia ipostenica (si veda in seguito). A. Diagnosi. La diagnosi di colite è fondata, oltre che sull’anamnesi del paziente e sul quadro clinico, soggettivo ed obiettivo, sulle già ricordate caratteristiche delle feci, che devono essere studiate nei loro aspetti fisico-chimici e batteriologici e, inoltre, su tecniche strumentali, fra le quali in primo luogo l’esame radiologico, quello endoscopico e l’esame bioptico. Nelle coliti acute e croniche, l’esame radiologico con mezzo di contrasto per via orale può evidenziare l’esistenza di variabili alterazioni del transito intestinale, mentre il clisma opaco, specialmente se eseguito con la tecnica del “doppio contrasto”, può dimostrare la presenza di alterazioni anatomiche e funzionali, di cui è possibile anche, con questa metodica, definire l’estensione senza, naturalmente, precisare la causa del processo infiammatorio.
L’esame endoscopico (rettosigmoidoscopia o pancolonscopia) deve essere eseguito con prudenza nelle coliti acute per evitare fenomeni di sanguinamento della mucosa coinvolta dal processo infiammatorio, mentre normalmente non presenta controindicazioni nelle forme croniche. La sua importanza dal punto di vista diagnostico è rilevante in tutti i casi, poiché questa metodica consente l’osservazione diretta della mucosa e permette di effettuare prelievi bioptici per l’esame istologico del tessuto interessato al fine di ottenere una diagnosi di certezza della malattia. B. Terapia. La terapia delle enterocoliti è medica, tranne che in presenza di rare complicanze di tipo proliferativo o stenotico di particolare gravità, in cui è indicato l’intervento chirurgico. Il trattamento medico è generalmente correlato all’eziopatogenesi della malattia e, comunque, è fondato sulla restrizione alimentare (nelle coliti acute è spesso necessaria per un certo tempo una dieta liquida o semiliquida), eliminando, soprattutto, tutti i cibi irritanti e provvedendo, nel contempo, specialmente nelle forme acute, a mantenere una buona reidratazione e il normale equilibrio elettrolitico.
Enterocolite pseudomembranosa L’enterocolite pseudomembranosa è una malattia molto grave e spesso drammatica, caratterizzata da necrosi dell’intestino con interessamento prevalente a carico del retto e del sigma, ma che può localizzarsi in corrispondenza di qualunque tratto del colon e, talvolta, al tenue e perfino allo stomaco. A. Eziopatogenesi. Attualmente è noto che l’infezione da Clostridium difficile è responsabile praticamente di tutti i casi di colite pseudomembranosa e di oltre il 20% dei casi di diarrea associata ad antibiotici senza colite. Infatti il quadro clinico che si manifesta in questi pazienti è generalmente correlato all’uso prolungato di antibiotici, i quali alterano la normale flora microbica del colon (quest’ultimo è abitualmente sede di più di 500 specie diverse di batteri e le feci di un soggetto normale contengono circa 1012 germi/g); questo favorisce la colonizzazione di questo tratto dell’intestino da parte di C. difficile ed il rilascio delle sue tossine che sono responsabili dell’insorgenza di un processo infiammatorio con conseguente danno della mucosa. Quasi tutti gli antibiotici possono causare infezione da C. difficile, ma i più importanti, perché più frequentemente in gioco, sono la lincomicina e la clindamicina (che provocano diarrea in circa il 10% dei pazienti trattati e che nell’1% dei casi determinano colite pseudomembranosa) e, con minore frequenza, penicilline e cefalosporine, ma anche tetracicline, macrolidi, cloramfenicolo, sulfamidici (più raro che siano in causa i chinolonici ed estremamente raro che siano in gioco gli aminoglicosidi). Il C. difficile è un bacillo Gram+, anaerobico, identificato da Hall e O’Toole nel 1935 e così chiamato per la
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grande difficoltà di isolarlo in coltura per la sua crescita molto lenta. Esso produce due esotossine di natura proteica, la tossina A, di 308 kD, e la tossina B, di 250-270 kD: entrambe sono in grado di provocare una reazione infiammatoria a livello della mucosa intestinale danneggiandola (la tossina B è circa 1000 volte più potente della tossina A), ma il loro meccanismo d’azione in sede intracellulare è tuttora poco conosciuto. B. Anatomia patologica. Il quadro istologico della colite pseudomembranosa indotta dal C. difficile può essere distinto in tre forme diverse: il tipo I, che coincide con lo stadio più precoce delle lesioni, è caratterizzato da sporadica necrosi epiteliale accompagnata dalla presenza di infiltrato infiammatorio all’interno del lume del colon. Il tipo II presenta un essudato prominente alla superficie della mucosa che fuoriesce come “la lava di un vulcano in eruzione” (“summit lesion”) da un’area di ulcerazione dell’epitelio. Infine, il tipo III è caratterizzato da una più diffusa necrosi epiteliale e da ulcerazioni ricoperte da pseudomembrane grigiastre o giallastre, costituite da mucina, fibrina, neutrofili, detriti cellulari. Quando l’infezione da C. difficile si risolve, la mucosa ritorna del tutto normale, a parte una certa irregolarità delle strutture ghiandolari. C. Clinica. Le presentazioni cliniche dell’infezione da C. difficile comprendono, in ordine di crescente gravità, forme del tutto asintomatiche, la colite associata ad antibiotici senza pseudomembrane, la colite pseudomembranosa e la colite fulminante (fortunatamente le varianti più gravi sono anche quelle meno comuni). La colite da C. difficile è una condizione piuttosto frequente, generalmente acquisita in ambiente ospedaliero: più del 50% dei neonati sani sono portatori asintomatici di questo microrganismo contro circa l’1% degli adulti, ma grosso modo il 25% degli adulti recentemente trattati con antibiotici è positivo per C. difficile (negli USA circa il 60% dei bambini e degli adulti presenta anticorpi diretti contro le tossine di questo batterio). Il quadro clinico è caratterizzato da diarrea di variabile entità a seconda delle gravità dell’infezione: nella colite da antibiotici e soprattutto nella colite pseudomembranosa, la diarrea è di regola profusa (in qualche caso le feci sono “sierose”, fino a 10 l/die) e si accompagna a dolore e distensione addominale, febbre, nausea, anoressia, malessere generale, disidratazione. La diarrea e le altre manifestazioni cliniche insorgono, di solito, durante o poco dopo la fine del trattamento antibiotico, ma in certi casi, peraltro piuttosto rari, esse compaiono anche dopo parecchie settimane dall’interruzione della terapia. D. Diagnosi. La diagnosi di laboratorio dell’infezione da C. difficile è legata in primo luogo all’identificazione delle sue tossine nelle feci: è possibile riconoscere sia la tossina A che la tossina B mediante test
dotati di alta sensibilità (70-90%) e specificità (99%), ma va ricordato che non sussiste correlazione tra la quantità di queste tossine nelle feci e la gravità del quadro clinico. L’esame colturale delle feci per la ricerca del C. difficile è meno utile, in quanto non è possibile distinguere in questo modo tra le colonie di batteri produttori di tossine e quelle di batteri non produttori e, quindi, non patogeni. È possibile anche riconoscere nel siero dei pazienti la presenza di anticorpi specifici anti-C. difficile, metodica molto utile ai fini epidemiologici, ma di rilevanza clinica relativa poiché non è ancora chiaro il significato di questi anticorpi, se, cioè, siano effettivamente protettivi o no. E. Terapia. Il primo provvedimento nel trattamento della diarrea e/o della colite in caso di sospetta o accertata infezione da C. difficile è di interrompere, se possibile, la terapia antibiotica cui si correla l’insorgenza del quadro clinico. Se quest’ultimo è di grado modesto, nessun altro provvedimento è di solito necessario; se, per contro, le manifestazioni cliniche sono di grado cospicuo o sono persistenti (o anche se la terapia antibiotica non può essere interrotta per motivi clinici), sarà indispensabile ricorrere ad adeguata terapia medica. I farmaci più attivi, somministrati per os, sono il metronidazolo (250 mg × 4/die) e la vancomicina (125 mg × 4/die): un miglioramento sintomatologico può essere atteso entro 72 ore e la diarrea e la colite si risolvono completamente in più del 95% dei pazienti dopo 10 giorni di terapia (per i soggetti che non sono in grado di assumere farmaci per os spontaneamente si potrà ricorrere al posizionamento di sondino nasogastrico oppure al metronidazolo per via ev per la sua escrezione biliare, mentre per questa via la vancomicina non viene usata perché del tutto inefficace). Altri farmaci utili sono la bacitracina (25.000 U × 4/die), la colestiramina (4 g × 4/die), la teicoplanina e i chinolonici (questi ultimi, come la teicoplanina, utilizzabili anche per via parenterale). In caso di ripresa della diarrea dopo la sospensione del trattamento (10-20% dei casi entro 1-3 settimane), andrà ripetuto un nuovo ciclo di cura con metronidazolo o vancomicina oppure, in caso di resistenza a tali farmaci, sarà preferibile fare ricorso a terapia mirata dopo coltura delle feci per C. difficile e determinazione dell’antibiogramma.
TOSSINFEZIONI ALIMENTARI Per tossinfezioni alimentari si intendono quelle sindromi morbose a carattere generalmente gastroenterico acuto, con notevoli e prevalenti sintomi tossici, provocate dall’ingestione di alimenti contaminati da determinati microrganismi viventi o dalle sostanze specificamente da questi elaborate.
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A. Eziopatogenesi. Mentre in passato gli episodi di tossinfezione alimentare avevano prevalentemente carattere familiare e quindi potevano passare più facilmente inosservati, attualmente interessano un numero considerevole di persone in seguito alle modificazioni dei sistemi di vita (mense aziendali, pranzi consumati fuori casa) ed alla maggiore tendenza a consumare cibi conservati. Gli alimenti che più frequentemente risultano responsabili di intossicazioni sono: • latte e derivati: stafilococco enteritogeno, salmonelle; • carne: C. perfringens, stafilococco; • insaccati e cibi inscatolati sotto vuoto: C. botulinum (anaerobiosi), salmonelle; • uova: salmonelle, stafilococco enteritogeno; • pesce, molluschi: Vibrio cholerae, V. parahaemoliticus, salmonelle. Qualsiasi cibo, comunque, può essere contaminato mediante manipolazione anche da Escherichia coli, shigelle e salmonelle da parte di portatori sani di tali germi o in quanto veicolati da insetti. Le tossinfezioni alimentari, quindi, riconoscono fondamentalmente due grandi categorie di elementi eziologici: • tossine elaborate da germi che si sono riprodotti nell’alimento durante la sua preparazione, conservazione o manipolazione; • microrganismi che possono aver contaminato l’alimento anche immediatamente prima della sua consumazione e che si riproducono poi direttamente nell’apparato gastroenterico. Appartengono al primo gruppo germi detti enterotossici, quali C. botulinum, C. perfringens, Bacillus cereus, V. cholerae, E. coli enterotossica, V. parahaemoliticus; mentre vengono detti enteropatogeni o enteroinvasivi i germi capaci di agire direttamente ledendo la mucosa intestinale, quali shigelle, salmonelle, Yersinia enterocolitica e stafilococco enteritogeno (che però agi-
sce fondamentalmente mediante produzione di una esotossina). Il germe, penetrato all’interno dell’apparato gastroenterico, può impiantarsi semplicemente a livello della mucosa superficiale, oppure infiltrarsi anche profondamente, come avviene per le salmonelle. Le tossine, a loro volta, possono agire con meccanismo puramente funzionale, attivando l’adenilciclasi ed inducendo, quindi, tramite un incremento dell’AMP ciclico intracellulare, un aumento della secrezione endoluminale di ioni cloro ed una inibizione del riassorbimento del sodio. Tale modalità d’azione, tipica di V. cholerae ed E. coli, provocherebbe diarrea senza, peraltro, comportare alterazione organica della mucosa. In altri casi, invece, la tossina ha un’azione lesiva diretta sulla mucosa, producendo pertanto una vera e propria gastroenterite. B. Clinica. I quadri clinici che possono conseguire a tutti questi agenti e meccanismi eziologici sono estremamente vari (Tab. 24.1); esistono, tuttavia, delle caratteristiche comuni, anche se presenti in misura diversa nelle varie situazioni. • Prima di tutto, la tendenza alla diffusione in piccole epidemie. • Un periodo molto breve di incubazione (da 1 fino ad un massimo di 72 h), seguito da un esordio brusco della sintomatologia. • Sintomi prevalentemente a carico dell’apparato gastroenterico: nausea, vomito (particolarmente importante nell’intossicazione da stafilococco enteritogeno), scialorrea, distensione addominale, meteorismo, dolori colici, diarrea talvolta profusa (evenienza molto accentuata nell’infezione da C. perfringens e V. cholerae). • Mancanza o comunque modestia della febbre. • Regressione spontanea, se non sopravvengono complicazioni, nel giro di pochi giorni o addirittura di poche ore. Tali quadri possono complicarsi con sintomi extraintestinali, che si manifestano più facilmente nel bambino, come conseguenza di uno stato di disidratazione e di alterazione dell’equilibrio elettrolitico ed acido-basico.
Tabella 24.1 - Principali caratteristiche cliniche delle più comuni tossinfezioni alimentari. MICRORGANISMO E. coli (particolari sierotipi)
INCUBAZIONE (ORE) 24-72
VOMITO
DIARREA
FEBBRE
ALTRE CARATTERISTICHE
±
++
+
Quadro aspecifico; esordio brusco ed evoluzione spontanea in 2-3 giorni
Stafilococco enteritogeno
1-18
+++
+
–
Esordio brusco in piccole epidemie, evoluzione spontaneamente favorevole in 48 h
Salmonelle
8-48
±
++
+
Graduale o brusca comparsa di diarrea; evoluzione abitualmente favorevole; non è raro esito in portatore
C. perfringens
8-16
±
Rara
–
Evoluzione spontanea in 1-4 giorni
Shigellae
24-72
±
++
+
Brusca comparsa di diarrea con frequente emissione di sangue e muco con le feci; compromissione del sensorio
V. cholerae
24-72
+
+++
–
Diarrea profusa, rapidamente compromettente in forma grave le condizioni generali
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In altri casi, soprattutto in corso di infezione da C. botulinum, la sintomatologia a carico dell’apparato digerente può essere blanda e talvolta rimanere misconosciuta prevalendo, invece, alterazioni neurologiche (diplopia, disfagia, disfonia, dispnea, interessamento di altri nervi cranici), riferibili all’azione specifica della tossina entrata in circolo. Nel caso della presenza del germe a livello della mucosa intestinale, è sempre possibile il suo passaggio in circolo con conseguente stato settico, evenienza temibile in particolar modo nei bambini molto piccoli, nei quali vi è una certa immaturità della funzione di barriera della mucosa gastroenterica, specie nei confronti dei germi Gram–. Per quanto riguarda la descrizione più precisa dei quadri clinici delle tossinfezioni maggiormente diffuse, rimandiamo alla parte quattordicesima.
SINDROMI DA MALASSORBIMENTO Comprendono situazioni differenti e numerose, nelle quali è presente un’alterazione dell’assorbimento di svariati costituenti nutritivi. Queste condizioni non sono sempre correlate a malattie primitive dell’intestino tenue, poiché si possono verificare anche nell’ambito di patologie che interessano altri organi o apparati o anche nell’ambito di malattie sistemiche in cui si manifestano alterazioni funzionali in questa parte dell’apparato digerente cui può conseguire l’insorgenza di una sindrome di questo tipo. L’intestino tenue è la sede elettiva di queste manifestazioni, in quanto a questo livello avvengono i processi fondamentali di assorbimento di tutti i costituenti nutritivi essenziali (carboidrati, aminoacidi, acidi grassi, vitamine, sali minerali); il colon, invece, svolge una funzione importante soltanto nell’assorbimento dell’acqua (da cui la particolare frequenza con la quale la diarrea accompagna i processi patologici che si verificano in questa parte dell’intestino). Da un punto di vista didattico, è utile la classificazione di queste affezioni in due gruppi principali: • sindromi da malassorbimento parziale (in cui il difetto riguarda soltanto l’assorbimento di alcune sostanze); • sindromi da malassorbimento globale (in cui il difetto riguarda l’assorbimento di tutte le sostanze).
Sindromi da malassorbimento parziale Comprendono forme diverse, che sono riportate nella tabella 24.2. Malassorbimento solo di certi carboidrati Questa condizione è piuttosto frequente, anche se spesso viene sottovalutata, ed è dovuta ad un deficit di
enzimi, le disaccaridasi, che sono normalmente presenti nell’orletto a spazzola delle cellule dell’epitelio dell’intestino tenue. I carboidrati rappresentano una componente fondamentale della dieta di tutti gli individui in ogni età; i disaccaridi presenti negli alimenti o che derivano da molecole glucidiche più complesse sono quantitativamente molto importanti e sono costituiti soprattutto da lattosio (glucosio + galattosio) e saccarosio (lo zucchero comune formato da glucosio + fruttosio). Gli enzimi necessari per la scissione di questi composti nei corrispondenti monosaccaridi sono rispettivamente le lattasi e le invertasi (o saccarasi), di cui esistono tipi diversi per ciascun enzima. Più spesso il difetto enzimatico è quello a carico delle lattasi, le quali svolgono una funzione fondamentale nella prima infanzia quando, cioè, l’alimentazione lattea è insostituibile. Va ricordato che in genere nei mammiferi la concentrazione delle lattasi nell’orletto a spazzola delle cellule intestinali tende a diminuire nel tempo e questo fenomeno è particolarmente importante presso alcune popolazioni (per es., in quelle di razza negra ed in quelle orientali, la stragrande maggioranza degli individui perde quasi completamente questi enzimi in età adulta), mentre in altre è molto più limitato (per es., nelle popolazioni caucasiche e, quindi, anche tra gli europei, nel 75% dei soggetti la concentrazione delle lattasi non diminuisce per tutta la durata della vita). Il deficit acquisito di lattasi è, comunque, il più diffuso esempio di carenza di disaccaridasi: in questi casi il lattosio non viene normalmente idrolizzato in glucosio e galattosio e come tale non può essere assorbito (si tratta di un malassorbimento parziale, selettivo, perché riguarda soltanto il lattosio, mentre tutte le altre sostanze vengono assorbite normalmente). Le conseguenze di questa situazione sono molto importanti, non soltanto per la mancata utilizzazione metabolica del lattosio contenuto soprattutto nel latte e nei latticini, ma anche perché il lattosio non assorbito agisce osmoticamente richiamando acqua nel lume intestinale e provocando diarrea e, se è presente anche una certa distensione delle anse del tenue, anche borborigmi per meteorismo eccessivo e dolori addominali (se questi soggetti, però, si astengono dal bere latte, stanno del tutto bene). Esistono poi, dei casi più rari nei quali il deficit di lattasi è congenito; questo fatto rappresenta un problema molto grave perché il bambino alla nascita è comTabella 24.2 - Sindrome da malassorbimento parziale. • Malassorbimento solo di certi carboidrati (da deficit di disaccaridasi) • Malassorbimento di lipidi + vitamine liposolubili (da stasi biliare o da farmaci che provocano deficit di sali biliari) • Malassorbimento di lipidi + vitamine liposolubili + vitamina B12 (da lesioni dell’ileo terminale o da colonizzazione batterica del tenue) • Malassorbimento di lipidi + protidi + glucidi complessi + vitamine liposolubili (da insufficienza del pancreas esocrino)
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pletamente dipendente dal latte per quanto riguarda la sua alimentazione, per cui si tratta di una condizione molto seria ed importante cui possono conseguire notevoli alterazioni del trofismo di tutti i tessuti oltre che delicati problemi terapeutici (ma oggi esiste in commercio anche il latte a basso contenuto di lattosio). La diagnosi di deficit di lattasi non è sempre agevole, specialmente nell’infanzia, perché la stessa sintomatologia (soprattutto diarrea e dolori addominali) può insorgere anche nel caso di un’allergia alimentare ad alcuni costituenti, in special modo proteine, del latte (che è uno degli agenti più importanti di induzione di allergia alimentare). Per questa ragione nel bambino (nell’adulto di solito non è necessario) può essere opportuno eseguire, a scopo diagnostico, una prova da carico con lattosio per via orale: si somministrano, in genere, 25 g di lattosio in 250 ml di acqua a digiuno e quindi si determina la glicemia; se il lattosio viene idrolizzato normalmente, il glucosio così ottenuto viene rapidamente assorbito e la glicemia aumenta di almeno 20 mg/100 ml; se, invece, la glicemia non aumenta o l’incremento è inferiore, si può concludere che esiste un deficit dell’assorbimento del glucosio per carenza parziale o totale di lattasi. Come controprova si può dare al soggetto una miscela di glucosio e galattosio già scissi e si valutano le modificazioni della glicemia: se questa aumenta in seguito a tale prova, mentre non aumenta o aumenta poco somministrando il lattosio direttamente, il deficit di lattasi è confermato. Una maggiore sensibilità diagnostica può essere ottenuta, in questi pazienti, ove siano disponibili le necessarie apparecchiature, con il cosiddetto breath test all’H2. Nell’uomo la produzione di H2 è limitata al colon per fermentazione batterica dei carboidrati; l’H2 diffonde attraverso la parete intestinale e viene eliminato con il respiro. Il test viene eseguito somministrando a digiuno 12,5 g di lattosio (o 250 ml di latte); campioni d’aria aspirata vengono raccolti in condizioni basali e ad intervalli di 30 min; l’H2 viene determinato con tecnica gascromatografica: un incremento dell’H2 di 20 ppm (parti per milione) al di sopra del valore basale è indicativo di deficit di lattasi, in quanto il lattosio non assorbito costituisce un eccellente substrato per la produzione batterica di H2 nel colon. Un altro esempio di deficit di disaccaridasi è quello, peraltro molto più raro, che riguarda le invertasi (o saccarasi), enzimi che scindono il saccarosio in glucosio e fruttosio. Questo difetto enzimatico è di natura congenita ed è abbastanza facilmente riconoscibile in quanto questi soggetti, ingerendo sostanze zuccherate (il saccarosio è lo zucchero comune), lamentano l’insorgenza di diarrea e di dolori addominali, la cui intensità varia in rapporto con l’entità di questo deficit che, comunque, è in genere sempre di tipo parziale. Malassorbimento di lipidi + vitamine liposolubili Queste forme di malassorbimento parziale possono essere dovute a carenza di sali biliari o in seguito alla presenza di colestasi o, più di rado, per effetto dell’azione di alcuni farmaci.
MALATTIE DELL’APPARATO DIGERENTE
I sali biliari sono i sali che si formano nel fegato dalla coniugazione degli acidi biliari, acido colico e acido chenodesossicolico (questi sono gli acidi biliari primari; da questi, che derivano dal metabolismo del colesterolo, si possono formare quelli secondari, l’acido desossicolico e l’acido litocolico rispettivamente) con due sostanze aminoacidiche, la taurina e la glicina (il processo di coniugazione di questi acidi è molto importante per impedire la diffusione passiva di queste sostanze, una volta giunte nel lume intestinale, attraverso la mucosa, che ne ridurrebbe rapidamente la disponibilità). La produzione giornaliera di sali biliari da parte del fegato è di circa 400 mg, che corrisponde alla quantità di queste sostanze che viene eliminata con le feci, mentre la quantità che prende parte ai processi digestivi è molto superiore (circa 16 g nelle 24 h, ma anche 2030). Infatti, questi sali, una volta raggiunto l’intestino con la bile attraverso il coledoco e dopo aver svolto la propria attività a livello del tenue, vengono in gran parte riassorbiti in corrispondenza dell’ileo terminale (l’assorbimento non deve avvenire prima, perché altrimenti resterebbero troppo poco nell’intestino e sarebbero poco utilizzati) e tornano con il sangue portale al fegato per essere quindi “riciclati” nuovamente (esiste, cioè, un circolo enteroepatico dei sali biliari e solo una piccola quantità è effettivamente eliminata ogni giorno con le feci) (Fig. 24.1). L’azione dei sali biliari è duplice: • Spostano il pH ottimale della lipasi pancreatica da 8,5 a 6,5: questo è molto importante perché nel duodeno l’acidità gastrica è solo parzialmente neutralizzata dai bicarbonati prodotti dal pancreas, per cui non si arriva mai al pH di 8,5 ottimale per l’azione della lipasi pancreatica. I sali biliari permettono che questo enzima svolga al meglio la propria attività
400 mg
16 g
400 mg
Figura 24.1 - Metabolismo dei sali biliari nell’organismo. Dal fegato, dove vengono prodotte, queste sostanze giungono con la bile nell’intestino tenue dove partecipano ai processi digestivi, per essere quindi riassorbite in gran parte a livello dell’ileo terminale e ritornare al fegato (circolo enteroepatico dei sali biliari), mentre soltanto una piccola parte viene eliminata con le feci.
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a un pH lievemente acido (6,5), che è poi quello che di fatto è presente nel duodeno e nel digiuno. • L’azione più importante dei sali biliari è quella di consentire l’assorbimento dei grassi nel tenue: i trigliceridi presenti negli alimenti della dieta, per opera soprattutto della già menzionata lipasi pancreatica, vengono idrolizzati in glicerolo ed acidi grassi; normalmente la lipasi pancreatica scinde i trigliceridi in monogliceridi e due residui di acidi grassi; i monogliceridi, a loro volta, per opera della monogliceride lipasi, vengono idrolizzati a glicerolo e ad acidi grassi. L’importanza dei sali biliari nell’assorbimento di questi composti sta nel fatto che essi sono delle sostanze tensioattive, per cui possono concorrere alla formazione di piccole particelle chiamate “micelle”, dentro le quali sono contenuti acidi grassi e monogliceridi. Sotto questa forma i grassi possono essere assorbiti dalle cellule della mucosa intestinale; in caso contrario, essendo insolubili in acqua, formerebbero nell’intestino degli agglomerati piuttosto voluminosi le cui dimensioni impedirebbero l’assorbimento. Questo processo è molto importante anche perché nella parte centrale delle micelle, disciolte nei grassi, si trovano le vitamine liposolubili (A, D, E, K), per il cui assorbimento è quindi indispensabile la presenza dei sali biliari. Le cause di una carenza di queste sostanze nell’intestino tenue possono essere diverse, ma le più importanti sono le seguenti. Colestasi. La stasi biliare può insorgere in seguito ad un ostacolo al deflusso della bile o a livello delle vie biliari intraepatiche o a livello delle vie biliari extraepatiche: questa condizione corrisponde al quadro della cirrosi biliare, primitiva (se l’ostacolo è localizzato nelle fini ramificazioni biliari intraepatiche) o secondaria (quando, invece, l’ostruzione interessa le vie biliari extraepatiche). In entrambi i casi si verifica un’alterazione del normale deflusso della bile e, quindi, del passaggio dei sali biliari nell’intestino, cui può conseguire nel tempo l’insorgenza di una sindrome da malassorbimento (questa situazione, peraltro, si associa soltanto alle forme in cui l’ostacolo al deflusso biliare è parziale perché, se l’ostruzione è totale, il rapido sviluppo di grave insufficienza epatica risulta, in genere, essere letale prima che si possano avere i sintomi e i segni del malassorbimento). Farmaci. Alcuni farmaci interferiscono nel metabolismo dei sali biliari favorendo l’insorgenza di una sindrome da malassorbimento di questo tipo. I più importanti in questo senso sono la colestiramina e la neomicina. 1. Colestiramina. È una resina la quale, nell’intestino, lega i sali biliari e ne impedisce il riassorbimento determinandone una maggiore eliminazione con le feci (di solito viene impiegata proprio nei casi di colestasi per contrastare la maggiore ritenzione dei sali biliari che provoca prurito). Per effetto della sua azione, a livello epatico aumenta la sintesi dei sali biliari (perché
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ne vengono eliminati di più), ma se questi nell’intestino si legano alla colestiramina, vengono inattivati e viene compromesso l’assorbimento dei grassi e delle vitamine liposolubili. 2. Neomicina. Ha lo stesso meccanismo d’azione della colestiramina; è un antibiotico che non viene assorbito e viene per questo utilizzato di solito in caso di infezione intestinale; l’inattivazione dei sali biliari è responsabile di malassorbimento soltanto quando la somministrazione è prolungata e si accompagna sempre ad una certa azione irritativa sulla mucosa intestinale, che può aggravare tale condizione. Le conseguenze di un deficit dei sali biliari sono diverse ed importanti. In primo luogo si verifica un parziale malassorbimento dei grassi (parziale perché la carenza di queste sostanze non è mai assoluta), che vengono perciò eliminati con le feci in quantità maggiore con insorgenza di steatorrea (si veda in seguito). In secondo luogo si realizza un difetto di assorbimento delle vitamine liposolubili. 3. Vitamina A. Nelle forme più gravi si verifica emeralopia (perdita della visione crepuscolare; la vitamina A o axeroftolo o retinolo partecipa alla formazione della porpora retinica) o anche xeroftalmia (secchezza delle congiuntive) o cheratomalacia (intorbidamento della cornea), mentre anche in quelle più lievi, che sono le più frequenti, è piuttosto comune il riscontro di ipercheratosi follicolare (manifestazione cutanea caratterizzata da un processo infiammatorio a carico dei follicoli piliferi, follicolite, con accentuazione dello strato corneo dell’epidermide; la vitamina A regola il normale trofismo dei tessuti epiteliali, specialmente dell’epidermide). 4. Vitamina E. Questa vitamina (detta anche tocoferolo) possiede proprietà antiossidante, ma non sono chiare le conseguenze di una sua eventuale carenza nell’organismo. 5. Vitamina D. Questa sostanza è indispensabile per l’assorbimento intestinale del calcio (Ca++); la sua carenza comporta generalmente un’alterazione della normale distribuzione del calcio nell’organismo tra scheletro e liquidi biologici con perdita di calcio nelle ossa. Ne consegue lo sviluppo, nei bambini, di rachitismo e, negli adulti, di osteomalacia. Inoltre, per effetto della calcemia bassa si ha una stimolazione delle paratiroidi, le quali tendono a produrre una maggiore quantità di paratormone (iperparatiroidismo secondario), il quale, attraverso l’attivazione degli osteoclasti, provocherà un ulteriore danneggiamento delle ossa con successiva perdita di calcio per riportare nei limiti della norma di livello della calcemia. 6. Vitamina K. Questa vitamina è utile perché il fegato possa operare la sintesi di alcuni fattori della coagulazione (II, VII, IX, X), per cui il suo deficit può provocare l’insorgenza di una sindrome emorragica (si veda il Cap. 27, dedicato all’insufficienza epatica). Inoltre va ricordato che in questi casi, anche se l’assorbimento dei grassi è compromesso per la mancata
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formazione delle micelle, la loro digestione avviene comunque (anche se non del tutto normale) e gli acidi grassi non assorbiti legano nell’intestino il calcio presente negli alimenti della dieta formando dei saponi insolubili, per cui un’ulteriore quota di calcio viene sottratta all’assorbimento. Questo processo è svantaggioso anche perché il calcio serve normalmente per legare l’acido ossalico (contenuto in molti alimenti, soprattutto vegetali) con cui forma dei complessi insolubili di ossalato di calcio che non vengono assorbiti se non in minima parte. Se il calcio è sottratto in gran parte dagli acidi grassi, ne resterà di meno per legare l’acido ossalico; questo perciò verrà maggiormente assorbito ed aumenterà nel sangue la concentrazione di questa sostanza con possibile formazione di calcoli di ossalato di calcio (che sono tra i più comuni calcoli urinari). A. Clinica. Il quadro clinico di questi pazienti è caratterizzato soprattutto da un progressivo deterioramento delle condizioni generali per graduale perdita di peso, in quanto non sono in grado di utilizzare una buona parte del materiale calorico ingerito con la dieta (i grassi sono la principale fonte calorica per l’organismo, possedendo un elevato equivalente calorico: 9,3 cal/g). Ne consegue che se questi soggetti non introducono quantità elevate di altri alimenti, tenderanno a dimagrire pur mangiando normalmente (se un individuo perde peso senza che le sue abitudini alimentari siano cambiate, bisogna pensare alla possibilità che esista un malassorbimento, anche se possono essere in gioco altre cause, come, per es., un eccessivo consumo di calorie quale si verifica in caso di ipertiroidismo). Inoltre questi pazienti lamentano di regola modificazioni dell’alvo nel senso che, per effetto della presenza di una maggiore quantità di grassi, le feci appaiono untuose, schiumose, maleodoranti (steatorrea) con alvo tendenzialmente diarroico (e comunque non stitico). Se è presente colestasi, le feci sono ipocromiche per deficit dei bilinogeni fecali. Il difetto di assorbimento della vitamina D provocherà dolori ossei per osteomalacia; quello della vitamina K darà una particolare propensione alle emorragie, non spontanee, ma prolungate con facile insorgenza di ecchimosi per traumi anche modesti; il deficit di vitamina A potrà determinare ipercheratosi follicolare. B. Diagnosi. L’esame più importante è quello delle feci, le quali contengono una maggiore quantità di grassi (steatorrea), rappresentati soprattutto da acidi grassi e saponi e, in minor misura, da trigliceridi. L’esame delle feci può essere effettuato in due modi. • Stemperare le feci con acqua e colorare con Sudan III (colorante classico per i grassi); le goccioline di trigliceridi si colorano in rosso-arancione, quelle di acidi grassi in giallo e possono essere facilmente osservate al microscopio ottico (questo metodo non tiene conto della quantità dei grassi presenti nella dieta). • Può essere effettuato, più correttamente, dopo pasto contenente una quantità di grassi standardizzata (70120 g/die per 5-6 giorni, che è poi la quantità di gras-
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si che introduce normalmente un soggetto adulto che non si sottoponga a particolari restrizioni dietetiche). Si misura chimicamente la quantità di grassi presenti nelle feci per 72-96 h e quindi si calcola il valore medio giornaliero: la quantità normale è compresa tra 3 e 7 g nelle 24 h (normalmente, cioè, i grassi vengono quasi completamente assorbiti); in caso di steatorrea la quantità giornaliera di grassi eliminata con le feci è superiore a 7 g e può arrivare anche a valori molto elevati, talora fino a 50 g (soprattutto trigliceridi, ma anche acidi grassi e monogliceridi poiché l’attività della lipasi pancreatica è parzialmente conservata). Questo secondo metodo è poco utilizzato nella pratica comune, ma certamente più corretto e preciso. Per quanto riguarda gli esami del sangue, l’esistenza di una steatorrea può essere diagnosticata in modi diversi. • Determinando i livelli di carotene (provitamina A): questa sostanza viene assorbita insieme con i grassi, per cui, se esiste un malassorbimento di questi ultimi, i caroteni nel sangue saranno presenti in quantità ridotta (questo esame viene eseguito poco perché tecnicamente piuttosto complesso). • Si può riscontrare ipocalcemia (per il deficit di vitamina D); talvolta, però, pur essendoci un difetto nell’assorbimento del calcio, l’ipocalcemia non è evidente: infatti, si ha, in questi casi, un compenso da parte delle paratiroidi che producono paratormone in quantità maggiore, il quale mobilizza il calcio dalle ossa nel sangue per cui la calcemia tende ad essere riportata nei limiti della norma, mentre si riduce la fosforemia per effetto dell’aumentata escrezione urinaria del fosforo indotto da questo ormone. La conferma indiretta di questa iperattività delle paratiroidi può venire dall’aumento dei livelli plasmatici della fosfatasi alcalina (FA): infatti, quando le ossa sono sottoposte a rimaneggiamento, si ha un incremento dell’attività degli osteoblasti che producono questo enzima, mentre l’attività degli osteoclasti è correlata da un incremento della fosfatasi acida (questo dato deve essere valutato in rapporto all’età del soggetto: i valori normali della fosfatasi alcalina sono, infatti, molto più elevati fisiologicamente nei bambini e, in genere, negli individui in fase di crescita, in cui esiste una fisiologica iperattività degli osteoblasti). • Un altro dato importante è il tempo di protrombina (o tempo di Quick, che è un indice significativo della concentrazione nel plasma di vari fattori della coagulazione, protrombina innanzitutto, ma anche dei fattori VII, IX e X, la cui sintesi nel fegato necessita della presenza di vitamina K). Se esiste un deficit dell’assorbimento della vitamina K, si ha un allungamento del tempo di protrombina. D’altra parte, se l’attività protrombinica è bassa, non è scontato che sia presente un malassorbimento della vitamina K, perché può verificarsi la stessa situazione nei casi di grave insufficienza epatica, quando il fegato non è in grado di utilizzare questa sostanza.
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Per discriminare queste due possibilità, si esegue il test di Koller. Esso consiste nel determinare l’attività protrombinica prima e dopo la somministrazione per via parenterale di vitamina K, in maniera che questa possa giungere al fegato anche in presenza di malassorbimento intestinale. In questo modo, se esiste un malassorbimento, l’attività protrombinica si normalizza, mentre se il difetto è dovuto ad insufficienza epatica, essa rimane alterata (nel primo caso il tempo di Quick si accorcia, nel secondo rimane allungato rispetto ai valori normali). Malassorbimento di lipidi + vitamine liposolubili + vitamina B12 Questa forma di malassorbimento parziale può essere dovuta a due cause principali: • alterazioni dell’ileo terminale; • colonizzazione batterica del tenue. 1. In presenza di processi patologici che coinvolgono l’ileo terminale, come avviene per esempio nel morbo di Crohn (malattia infiammatoria cronica che predilige questa porzione dell’intestino, tanto che viene chiamata anche ileite terminale), è compromesso il riassorbimento dei sali biliari. L’escrezione fecale di queste sostanze è perciò aumentata (ciò provoca diarrea con meccanismo osmotico) ed è diminuito il pool di sali biliari ricircolanti attraverso il circolo enteroepatico. Conseguentemente, si ha una diminuzione dei sali biliari disponibili nell’intestino per l’assorbimento dei grassi, per cui si verifica malassorbimento di questi ultimi e delle vitamine liposolubili (come descritto in precedenza). Inoltre, poiché in questo tratto dell’intestino avviene l’assorbimento della vitamina B12, si aggiungerà anche un deficit di questa sostanza con possibile insorgenza di anemia megaloblastica. 2. Il contenuto del tenue non è sterile, ma i microrganismi presenti normalmente sono in piccola quantità, in quanto l’acidità gastrica ne distrugge un buon numero nello stomaco e, inoltre, il movimento del contenuto intestinale dallo stomaco verso le porzioni distali impedisce una colonizzazione ascendente di questo tratto dell’intestino. In condizioni normali, la concentrazione dei microrganismi tende ad aumentare procedendo in senso craniocaudale, come confermano i dati che seguono: • porzioni prossimali del tenue (duodeno e digiuno), 103/g di contenuto; • ileo terminale, 105/g di contenuto; • colon, 107/g di contenuto e anche oltre fino a 1012 nelle feci. Come si può vedere, il tenue, soprattutto nelle sue porzioni più prossimali, che sono quelle più importanti ai fini dell’assorbimento, è poco colonizzato, mentre i germi sono particolarmente numerosi nel colon (la normale flora batterica saprofitica intestinale è rappresentata soprattutto da streptococchi, lattobacilli, stafilococchi, E. coli, bacteroidi, bifidobatteri e clostridi, con discreta prevalenza di anaerobi; le specie batteriche iden-
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tificate sono non meno di 400-500, appartenenti a 4550 generi e 5-10 famiglie diverse). Si possono, però, verificare delle situazioni che determinano un aumento critico di questi microrganismi nell’intestino tenue, alcune delle quali sono dovute a particolari alterazioni anatomiche che coinvolgono questo tratto del canale gastroenterico. • Stenosi multiple. Si tratta di solito di restringimenti cicatriziali, conseguenti in genere a processi infiammatori granulomatosi (come, per es., il morbo di Crohn), che conferiscono all’intestino un caratteristico aspetto radiologico a salsicciotto. In questi casi si verifica un rallentamento del transito del contenuto del tenue e, poiché il normale movimento intestinale si oppone alla colonizzazione per via ascendente dal colon, quest’ultima diventa più probabile. • Fistole. Se si formano fistole tra due anse intestinali (morbo di Crohn, neoplasie intestinali), nell’ansa isolata, che resta esclusa dal normale transito rapido del contenuto intestinale, i microrganismi possono proliferare notevolmente e da questa sede la colonizzazione può in seguito estendersi variamente altrove. • Diverticoli. Nel tenue sono piuttosto rari e sono su base malformativa; si tratta di estroflessioni della parete intestinale, in cui il materiale ristagna creando una situazione propizia per lo sviluppo dei microrganismi. • Ansa cieca. È conseguenza di un intervento chirurgico per ulcera peptica (gastrectomia parziale con anastomosi gastrodigiunale secondo Billroth II) in cui viene interrotta la normale continuità fra stomaco e bulbo del duodeno e si stabilisce un’anastomosi fra lo stomaco e la regione dell’angolo formato dal passaggio del duodeno nel digiuno (angolo di Treitz). Questa tecnica chirurgica comporta la creazione di un’ansa duodenale cieca, in cui il ristagno del contenuto intestinale favorisce la colonizzazione batterica. La proliferazione di microrganismi nel tenue può essere provocata, inoltre, da alterazioni della motilità intestinale correlate all’esistenza di malattie di carattere sistemico. Tale condizione si può riscontrare, per esempio, nell’ambito della sclerodermia (o sclerosi progressiva sistemica) in seguito ad interessamento da parte del processo sclerotico della parete del tenue e di altre parti del canale alimentare con coinvolgimento dei plessi nervosi intramurali situati a livello della tonaca sottomucosa e muscolare; o anche in presenza di diabete mellito, in cui può manifestarsi una neuropatia periferica vegetativa con compromissione dei plessi nervosi della parete intestinale, conseguente deficit della motilità e successiva colonizzazione batterica. L’esistenza di proliferazione batterica nel tenue può essere dimostrata con il già ricordato breath test all’H2. Utilizzando come substrato, per esempio, del lattulosio somministrato per via orale, mentre nel soggetto normale si riscontra un picco di H2 nei campioni di aria espirata solo al momento dell’arrivo del lattulosio nel colon, in caso di colonizzazione batterica del tenue il picco di H2 di origine colica è preceduto da un picco
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più precoce corrispondente alla produzione batterica di H2 nel tenue. Il malassorbimento provocato dalla proliferazione dei microrganismi nel tenue è dovuto a cause diverse. I batteri deconiugano i sali biliari scindendo il legame tra acidi biliari e glicina e taurina; gli acidi biliari non coniugati vengono assorbiti rapidamente per diffusione passiva attraverso la mucosa, per cui ne viene ridotta la possibilità di utilizzazione nel lume intestinale. Questa situazione comporta in sostanza un difetto dei sali biliari con le stesse conseguenze già descritte. Inoltre i microrganismi che colonizzano il tenue consumano la vitamina B12, che è un eccellente fattore di crescita per i batteri, depauperando progressivamente le riserve di questa sostanza nell’organismo. Tuttavia le manifestazioni cliniche correlate alla carenza di questa vitamina si verificano soltanto dopo molto tempo, in quanto il fabbisogno giornaliero è piccolo e le scorte relativamente abbondanti (tale condizione deve protrarsi per 2-3 anni prima che le riserve si esauriscano). Il quadro clinico che si instaura è quello di una anemia megaloblastica, di cui si parla nel capitolo 44. Infine, i microrganismi presenti nel tenue provocano delle trasformazioni chimiche sui grassi non assorbiti per il deficit dei sali biliari con formazione di idrossiacidi; questi ultimi hanno un’azione irritativa sulla parete del tenue che determina diarrea, la quale si aggiunge alla steatorrea tipica di questi pazienti. Malassorbimento di lipidi + protidi + glucidi complessi + vitamine liposolubili Questa forma di malassorbimento parziale è dovuta ad insufficienza del pancreas esocrino, la quale può essere distinta in primaria e secondaria (Tab. 24.3). Insufficienza pancreatica esocrina primaria È quella che si instaura quando esiste qualche malattia del pancreas che determina un deficit della secrezione esocrina di questo organo. Le cause più comuni sono le seguenti. • Pancreatiti: in particolare le pancreatiti croniche recidivanti, che provocano con il tempo una progressiva sostituzione del tessuto parenchimale esocrino con tessuto cicatriziale fibroso e rappresentano la causa più frequente di insufficienza pancreatica. • Tumori: le neoplasie del pancreas possono provocare insufficienza della secrezione esocrina, sia per il grave sovvertimento della struttura di quest’organo, sia per l’ostruzione dei dotti pancreatici con conseguenTabella 24.3 - Insufficienza pancreatica esocrina. • Pancreatiti – Tumori – Resezioni – Mucoviscidosi • Secondaria – Sindrome di Zollinger-Ellison – Svuotamento gastrico rapido – Gastrectomia subtotale
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te impedimento al passaggio delle secrezioni nel duodeno. • Resezioni: gli interventi chirurgici di resezione parziale del pancreas conseguenti a pancreatiti o neoplasie possono determinare, per il danno anatomico che ne deriva, insufficienza esocrina. • Mucoviscidosi. Si veda il capitolo 32. Insufficienza pancreatica esocrina secondaria È quella che si instaura quando esiste qualche malattia al di fuori del pancreas che è in grado di provocare un danno a carico della componente esocrina di questo organo. Le cause più comuni sono rappresentate dalle condizioni qui sotto elencate. 1. Sindrome di Zollinger-Ellison. È una sindrome dovuta a tumori di cellule G producenti gastrina (Cap. 23), nel 90% dei casi localizzati nel pancreas. La gastrina, prodotta in eccesso, determina, anche in condizioni basali, una notevole secrezione gastrica acida che supera la capacità di neutralizzazione dei bicarbonati della secrezione pancreatica; l’insufficienza pancreatica è determinata dal fatto che gli enzimi pancreatici hanno un pH ottimale alcalino, per cui il mancato tamponamento dell’acidità gastrica ne riduce l’attività. 2. Svuotamento gastrico rapido. Questa evenienza non si verifica mai se lo stomaco è integro, mentre è la frequente conseguenza di interventi chirurgici di piloro-plastica (come avviene, per esempio, in caso di stenosi pilorica congenita o acquisita, quest’ultima spesso come complicanza di ulcera peptica). Se la tenuta del piloro, in seguito all’intervento, diventa imperfetta, come spesso accade se si esegue contemporaneamente una vagotomia, lo stomaco può svuotarsi troppo rapidamente ed il contenuto gastrico diluisce gli enzimi pancreatici la cui attività, pertanto, risulta diminuita. 3. Gastrectomia subtotale. Questo intervento, che viene eseguito spesso per tumori gastrici o anche per ulcera gastrica, può determinare un malassorbimento per due ragioni: • lo stomaco si svuota rapidamente ed il suo contenuto diluisce le secrezioni pancreatiche con conseguente ridotta attività di queste ultime; • la secrezione cloridropeptica è diminuita perché una larga parte dello stomaco è stata asportata; per questo parecchi residui proteici restano indigeriti nell’intestino, rappresentando un substrato favorevole allo sviluppo di microrganismi e, quindi, di colonizzazione batterica, altra causa di malassorbimento. A. Fisiopatologia. Il pancreas è una ghiandola molto importante nell’ambito dei processi digestivi che si svolgono nell’organismo, in quanto il suo secreto contiene enzimi che intervengono normalmente nella degradazione dei grassi (lipasi pancreatica), dei carboidrati (amilasi pancreatica) e delle proteine (tripsinogeno, chimotripsinogeno, endopeptidasi). Ne consegue che un deficit della secrezione pancreatica determina una imperfetta digestione di tutti i costituenti nutritivi
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essenziali, i quali, perciò, non potranno essere normalmente assorbiti. Nelle feci si avrà una quantità eccessiva di grassi, carboidrati e proteine: i primi, che non vengono assorbiti regolarmente anche se non esiste un deficit dei sali biliari perché questi esercitano meglio la propria azione se i grassi sono stati digeriti dalla lipasi pancreatica, provocheranno steatorrea, cui si assocerà un deficit delle vitamine liposolubili. La perdita di carboidrati e di proteine fa sì che nell’intestino tenue rimanga materiale che favorisce lo sviluppo di microrganismi e quindi la comparsa di colonizzazione batterica: di qui anche l’insorgenza di processi fermentativi e putrefattivi con formazione di diverse sostanze gassose in grado di provocare accentuato meteorismo e distensione delle anse intestinali. Inoltre, in tutti questi casi, la presenza di composti indigeriti, soprattutto quelli glucidici, nell’intestino, determinerà per meccanismo osmotico richiamo di acqua e, quindi, comparsa di diarrea (diarrea osmotica), che potrà associarsi alla già ricordata steatorrea. B. Clinica. Le conseguenze dal punto di vista clinico del malassorbimento dei grassi (e delle vitamine liposolubili) sono identiche a quelle descritte in altra parte di questo capitolo. In questi soggetti, però, le ripercussioni sulle condizioni generali sono ancora maggiori perché alla perdita dei grassi si aggiunge quella delle proteine e dei carboidrati; la prima, in particolare, è responsabile di debolezza muscolare e di astenia oltre che della comparsa di edemi correlati ad ipoalbuminemia (soprattutto al volto la mattina ed alle caviglie la sera). C. Diagnosi. L’esame delle feci è estremamente significativo. 1. La presenza di steatorrea può essere dimostrata con l’impiego del Sudan III, che permetterà di evidenziare la quantità eccessiva di trigliceridi o acidi grassi presente nelle feci. 2. La presenza di sostanze proteiche indigerite può essere dimostrata per il riscontro al microscopio ottico di fibre carnee (le proteine contenute negli alimenti sono di origine diversa, animale o vegetale, ma la maggior parte dell’apporto proteico è quello che deriva dalla carne), le quali sono fibre muscolari striate che presentano un caratteristico aspetto ovalare o cilindrico, spesso con striatura trasversale. 3. La presenza di materiale di natura glucidica può essere dimostrata con il riscontro nelle feci di particelle di amido che si possono evidenziare anche in questo caso con l’impiego di una soluzione iodata (liquido di Lugol) che colora in blu l’amido presente, il quale può essere, quindi, facilmente osservato al microscopio ottico. I test di laboratorio per lo studio dell’assorbimento intestinale forniscono gli stessi risultati descritti in altra parte di questo capitolo. Può essere utile, inoltre, distinguere il malassorbimento dovuto ad insufficienza pancreatica esocrina da
un difetto della parete intestinale, responsabile di malassorbimento globale (si veda in seguito). Per discriminare queste due possibilità, si può eseguire il cosiddetto test allo xilosio, il quale è uno zucchero (un pentoso) che viene bene assorbito attraverso la parete intestinale sia per diffusione passiva sia attraverso il sistema di assorbimento attivo del glucosio senza essere sottoposto alla metabolizzazione rapida cui vanno incontro gli altri carboidrati abitualmente introdotti con la dieta; per questo la sua concentrazione nel sangue aumenta anche in assenza di quegli enzimi che sono normalmente necessari per la digestione dei carboidrati, purché venga somministrato per os come tale, mentre tale concentrazione non aumenta se esiste un danno a carico della parete intestinale che impedisce l’assorbimento di questa sostanza. Il test viene effettuato somministrando 25 g di xilosio per via orale e valutando la sua escrezione urinaria nelle cinque ore successive: in condizioni normali (e comunque quando non esiste un’alterazione a carico della parete intestinale), vengono eliminati, in tale periodo di tempo, almeno 4,5 g di questa sostanza. In tutti i casi in cui l’escrezione urinaria è inferiore e, soprattutto, quando non raggiunge i 2,5 g, si può affermare che l’assorbimento dello xilosio è compromesso; quest’ultima condizione si verifica, come già detto, soltanto in presenza di danno della parete intestinale e, quindi, di malassorbimento globale, mentre nell’insufficienza pancreatica il test risulta normale. Significato ancora più probante ha la determinazione della xilosemia a 120 min dal carico orale di questo zucchero, che nel soggetto normale è superiore o uguale a 30 mg/100 ml (se inferiore, vuol dire che si è in presenza di malassorbimento globale). L’esistenza di un’insufficienza del pancreas esocrino può essere, peraltro, indagata mediante alcuni test di stimolazione, tra i quali può essere ricordato il test della secretina, sostanza ormonale, prodotta dalle cellule S dell’apparato gastroenterico (soprattutto nel duodeno e nel digiuno), che stimola la secrezione di bicarbonati da parte del pancreas esocrino. Per questo test, la secretina viene somministrata per via ev (1 U/kg) e si valuta la secrezione pancreatica mediante un sondino introdotto nel duodeno; se la concentrazione di bicarbonati è compresa tra 90 e 130 mEq/l, si può affermare che le vie pancreatiche sono regolarmente pervie e che la funzionalità del pancreas esocrino è normale.
Sindromi da malassorbimento globale Possono essere dovute a cause diverse in cui si verifica una diminuzione della capacità complessiva di assorbimento o in seguito ad un deficit globale di tutte le funzioni cellulari o per effetto della riduzione della superficie (e quindi del numero complessivo delle cellule assorbenti). Le cause principali di questa forma di malassorbimento sono riportate nella tabella 24.4.
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Tabella 24.4 - Sindromi da malassorbimento globale. CAUSE PRINCIPALI • • • • • • •
Malattia celiaca Malattia di Whipple Enterite da radiazioni Malattia di Crohn Ischemia del tenue Amiloidosi intestinale
• • • • • •
Ostruzione linfatica Stasi venosa Infezioni Resezioni intestinali Farmaci Altre cause
Gastroenterite allergica
Malattia celiaca e malattia di Whipple Sono trattati a parte in relazione alla loro particolare importanza (soprattutto per il primo) dal punto di vista nosologico. Enterite da radiazioni La terapia radiante (raggi X), che viene spesso impiegata nel trattamento delle neoplasie addominali e pelviche, produce alterazioni intestinali variabili in rapporto alla dose ed alla durata del trattamento. Queste radiazioni inibiscono la proliferazione cellulare ed il loro effetto risulta più accentuato a livello di quei tessuti che presentano un elevato turn-over, come è il caso della mucosa intestinale, che può facilmente andare incontro ad atrofia con conseguente sviluppo di sindrome da malassorbimento globale (in fasi avanzate si potranno avere anche ulcerazioni, fibrosi, stenosi intestinale). Malattia di Crohn In questa malattia è comune il malassorbimento dei grassi per effetto della perdita di sali biliari (il circolo enteroepatico di queste sostanze è alterato perché il loro recupero avviene soprattutto nell’ileo terminale, che è la regione più colpita nel Crohn). Con quello dei grassi si ha anche il malassorbimento delle vitamine liposolubili e della B12, il cui assorbimento avviene normalmente nell’ileo distale. Si possono, però, avere forme della malattia di Crohn in cui vengono coinvolti tratti molto estesi del tenue (Crohn diffuso) ed in questi casi il malassorbimento acquista carattere globale interessando tutti i fattori nutritivi essenziali. Ischemia del tenue È una condizione non molto rara; la causa più comune è l’aterosclerosi, il cui danno ischemico si ripercuote soprattutto a livello del distretto coronarico (angina pectoris, infarto del miocardio), renale e cerebrale, ma può interessare qualsiasi distretto dell’apparato vascolare e, quindi, anche le arterie mesenteriche. Importante è specialmente il coinvolgimento dell’arteria mesenterica superiore, che può determinare l’insorgenza della cosiddetta angina abdominis (proprio ad indicare la sua somiglianza patogenetica con l’angina pectoris), caratterizzata da dolore crampiforme accessionale, in sede epigastrica o diffuso a tutto l’addome, in coincidenza con il periodo postprandiale (10-30 min dopo i pasti, al momento, cioè, della digestione, quando a livello intestinale è necessaria una maggiore quantità di sangue) e
della durata di 1-2 h. Nel tempo l’ischemia cronica provoca alterazioni trofiche della mucosa intestinale che possono determinare l’insorgenza di malassorbimento globale. La stessa situazione indotta dall’aterosclerosi, che resta, comunque, la causa più frequente, può verificarsi per effetto di altre condizioni, tra cui meritano di essere ricordate le vasculiti, malattie infiammatorie a carattere sistemico in cui è frequente e spesso importante l’interessamento dell’apparato gastroenterico. Amiloidosi intestinale L’interessamento dell’apparato gastroenterico è piuttosto comune in presenza di amiloidosi. Esso può derivare dalla diretta deposizione di amiloide nella parete del tratto gastrointestinale a qualunque livello oppure dall’infiltrazione da parte di questa sostanza delle strutture del sistema nervoso autonomo di questo apparato. Nel primo caso la deposizione di amiloide si localizza di solito inizialmente a livello della tonaca sottomucosa in sede perivascolare ed in seguito si estende progressivamente a tutta la parete. Per effetto sia di questa infiltrazione sia dal danno vascolare che ne consegue, la mucosa va incontro ad un progressivo sovvertimento con possibile insorgenza, di volta in volta, di fenomeni di ostruzione, di ulcerazione, di sanguinamento e di protidodispersione fino, talvolta, ad un quadro di vera e propria atrofia, con conseguente malassorbimento globale se è coinvolto l’intestino tenue. L’amiloidosi che interessa l’apparato gastroenterico può essere sia di tipo primario sia di tipo secondario (Cap. 50); in quest’ultimo caso essa può associarsi ad altre condizioni patologiche che coinvolgono questo apparato come, per esempio, la tubercolosi, le malattie infiammatorie croniche intestinali, i linfomi addominali, il morbo di Whipple. Gastroenterite allergica È una condizione che provoca malassorbimento soprattutto durante l’infanzia ed è correlata alla presenza di allergia alimentare. Nei soggetti nei quali esiste un’allergia nei confronti di alcuni alimenti (in cui si riscontra molto spesso un deficit delle immunoglobuline di classe A che favorisce l’assorbimento di allergeni di origine alimentare), la cronica introduzione di queste sostanze provoca l’insorgenza di un processo infiammatorio a carico della parete dello stomaco e dell’intestino tenue cui può conseguire la comparsa di una sindrome da malassorbimento globale. L’elemento tipico di questa condizione, dal punto di vista anatomopatologico, è la presenza a livello della tonaca sottomucosa di una notevole infiltrazione di eosinofili che aumentano anche nel sangue (da cui la denominazione di gastroenterite allergica o eosinofila). Ostruzione linfatica Può essere dovuta a cause diverse. A. Linfomi intestinali. I linfomi primitivi a localizzazione intestinale sono prevalentemente distribuiti a li-
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vello dell’intestino tenue: questi tumori rappresentano, infatti, la più comune forma di linfoma extralinfonodale in Medio Oriente dove, nei soggetti adulti, costituiscono circa il 50% dei linfomi extralinfonodali ed il 75% di tutti i linfomi del tratto gastroenterico. Nei Paesi occidentali tale patologia è molto meno frequente e rappresenta circa il 20% dei linfomi extralinfonodali ed il 30% dei linfomi gastroenterici. Una peculiare varietà di linfoma primitivo del piccolo intestino è la cosiddetta malattia immunoproliferativa del piccolo intestino (IPSID), caratterizzata da una tipica distribuzione geografica (regioni mediterranee e mediorientali) e denominata anche linfoma mediterraneo (o linfoma mediorientale) o linfoma primitivo del tratto superiore del piccolo intestino o malattia delle catene pesanti (o malattia di Seligmann, 1968). La varietà IPSID del linfoma primitivo del piccolo intestino colpisce entrambi i sessi con uguale frequenza, insorge di solito nel secondo-terzo decennio di vita e si localizza soprattutto a livello del duodeno e del digiuno; essa è caratterizzata da una diffusa infiltrazione della lamina propria della mucosa intestinale da parte di cellule linfoplasmocitoidi che secernono frammenti di catene pesanti delle immunoglobuline di classe A, i quali, in una variabile percentuale di questi pazienti, si possono riscontrare nel siero e nelle urine (non si dimostrano, invece, catene leggere). La varietà “occidentale” del linfoma primitivo del piccolo intestino (non-IPSID) non ha una precisa distribuzione geografica, è più frequente nel sesso maschile (1,5-2,0:1), insorge di regola nel quinto-sesto decennio di vita (ma talora compare in soggetti molto più giovani, anche durante l’infanzia) e si localizza soprattutto a livello dell’ileo e della regione ileocecale. A differenza di quanto si verifica nella forma IPSID, non esistono marker sierologici in questi linfomi e, in particolare, non si riscontrano mai nel siero di questi pazienti frammenti di catene pesanti e/o leggere. Le cause di malassorbimento in presenza di linfomi intestinali, primitivi o secondari, possono essere diverse: un’infiltrazione diffusa della mucosa dell’intestino tenue con sostituzione delle normali cellule assorbenti oppure un’infiltrazione della parete con ostacolo al circolo linfatico (circa 1,5 l nelle 24 h in un soggetto adulto) o ancora la presenza di stenosi neoplastiche con stasi del contenuto intestinale e proliferazione batterica. In questo paragrafo, può, inoltre, essere ricordata brevemente l’iperplasia nodulare linfoide, una condizione patologica caratterizzata dalla presenza di multipli noduli linfatici, che interessa l’apparato gastroenterico e, in particolare, l’intestino tenue in forma diffusa (o più raramente segmentaria). L’importanza di questa malattia è sicuramente rilevante al di là della sua rarità: infatti, per quanto il decorso e la prognosi siano tuttora oggetto di controversie, sembra di poter affermare che essa abbia il significato di forma di passaggio tra l’iperplasia linfoide benigna ed il linfoma intestinale vero e proprio, nei confronti del quale viene considerata da diversi Autori come condizione precancerosa (come, del resto, vale per la malattia celiaca; si veda in seguito), soprattutto nei riguardi della cosiddetta malattia immunoproliferativa del pic-
463 colo intestino, nei confronti della quale l’iperplasia nodulare linfoide presenta molte affinità cliniche. Questa affezione colpisce soprattutto soggetti adulti e si accompagna molto spesso ad una sindrome da immunodeficienza primaria e, in particolare, ad ipo--globulinemia comune variabile (di cui costituisce una complicanza in circa il 20% dei casi), mentre è estremamente più rara nei soggetti con livelli sierici normali di immunoglobuline, per quanto anche in questi casi sia stata supposta l’esistenza di un’alterazione qualitativa della immunità umorale, oppure la presenza di un deficit selettivo di IgA secretorie (le IgA secretorie rappresentano, a livello intestinale, il principale meccanismo di difesa nei confronti di tutti gli agenti infettivi e delle sostanze antigeniche in genere che giungono a contatto della mucosa). Si può affermare, perciò, che all’origine della malattia esiste sempre una compromissione dei sistemi protettivi immunitari dell’intestino, che favorirebbe l’instaurarsi di processi infettivi (soprattutto giardiasi) con proliferazione batterica e con conseguente abnorme stimolazione delle strutture linfatiche della parete enterica che, in una certa percentuale di casi, assumono le caratteristiche morfologiche dell’iperplasia nodulare linfoide (abnorme proliferazione di linfociti e/o macrofagi della lamina propria della mucosa e della sottomucosa fino alla formazione di veri e propri follicoli e noduli aventi diametro di 3-5 mm). Dal punto di vista clinico, i pazienti presentano tutti i sintomi e segni di malassorbimento globale: in genere le manifestazioni cliniche sono più accentuate negli adulti, in cui le alterazioni della mucosa coinvolgono di solito tutto l’intestino tenue, mentre nell’infanzia e nell’adolescenza, in cui le lesioni sono spesso limitate all’ileo terminale, il quadro clinico può essere paucisintomatico o anche del tutto asintomatico.
B. Tubercolosi intestinale. L’interessamento intestinale della tubercolosi può essere primario se la malattia si localizza primitivamente a livello dell’apparato gastroenterico, includendo i linfonodi mesenterici (questa forma era molto più diffusa un tempo, quando era comune la tubercolosi bovina) oppure secondario (o postprimario), come conseguenza di una forma polmonare con formazione di caverne nell’ambito della quale il bacillo di Koch espulso con l’espettorato può essere deglutito determinando un interessamento secondario a livello intestinale o anche di una forma di tipo miliare in cui i bacilli raggiungono l’intestino per via ematogena (oggi la diffusione ed il miglioramento della chemioterapia antitubercolare hanno fortemente ridotto anche la frequenza di questa evenienza). C. Linfangectasie. Sono malformazioni congenite dei vasi linfatici intestinali che, con il passare degli anni, portano a vera e propria ectasia con formazione di “laghi” linfatici, in cui la linfa ristagna e trasuda nell’interno del lume. Il ristagno dà luogo a malassorbimento e la trasudazione esterna comporta una notevole protidodispersione. Il malassorbimento da ostruzione linfatica interessa in primo luogo i grassi, che vengono in parte direttamente assorbiti per via linfatica (acidi grassi a catena lunga), ma coinvolge in seguito anche i carboidrati e le proteine; inoltre, in questo caso, come già ricordato, è spesso presente notevole perdita di proteine per enteropatia protidodisperdente.
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Stasi venosa È una condizione che si verifica soprattutto nello scompenso cardiaco cronico di tipo congestizio, in cui è presente stasi venosa generalizzata che coinvolge, perciò, anche l’apparato gastroenterico, ed ancor più nella pericardite costrittiva, in cui il pericardio si trasforma in un sacco fibroso che costringe il cuore e, soprattutto, lo sbocco della vena cava inferiore, determinando un notevole ristagno di sangue in tutto il circolo venoso tributario di questo vaso e, quindi, anche nell’intestino. La stasi venosa genera malassorbimento globale che di regola non raggiunge entità rilevante; tuttavia l’ipertensione venosa determina anche un difficoltoso deflusso della linfa dal dotto toracico alla cava superiore: la conseguente stasi linfatica aggrava il malassorbimento e comporta anche la presenza di protidodispersione (come in caso di ostruzione linfatica). Infezioni Esistono diverse malattie infettive, più frequenti nei Paesi tropicali, in cui l’interessamento della mucosa intestinale può provocare l’insorgenza di malassorbimento globale. A. Sprue tropicale. È una malattia (da non confondere con la sprue non tropicale o malattia celiaca) che colpisce soggetti che vivono o si recano nei paesi tropicali (Indie occidentali, India, Sud-Est asiatico). Viene considerata una malattia infettiva perché è provato che migliora con l’impiego di antibiotici a largo spettro (tetracicline); tuttavia la sua eziologia e patogenesi rimangono ancora oggi sconosciute: a questo proposito la notevole efficacia della terapia antibiotica confermerebbe l’importanza di possibili agenti infettivi, la cui identificazione non è, però, nota (alcuni studi epidemiologici hanno dato particolare rilevanza ai batteri coliformi, alla Klebsiella pneumoniae e all’Enterobacter cloacae, ma l’esame batteriologico del contenuto intestinale di questi pazienti non è spesso differente da quello di soggetti normali). Il quadro clinico della sprue tropicale può essere, in linea di massima, distinto in due fasi: quella acuta, caratterizzata da ripetute scariche di diarrea acquosa, saltuariamente con muco e sangue, accompagnate da anoressia, nausea e distensione addominale; quella cronica, in cui sono predominanti i sintomi e i segni del malassorbimento globale: dimagramento, astenia ingravescente, pallore da anemia, stomatoglossite, turbe della coagulazione, edemi da iponchia (diminuzione della pressione oncotica). Un quadro in parte riconducibile alla sprue tropicale è quello che caratterizza la cosiddetta diarrea del viaggiatore, particolarmente frequente nei nordamericani che si recano nel Messico (“vendetta di Montezuma”). Quando si fa un viaggio da un Paese dal clima temperato ad un altro dal clima tropicale, può succedere che nei primi due giorni di permanenza in questo paese insorga diarrea di variabile entità che, talvolta, in caso di soggiorno molto prolungato, diventa cronica fino a determinare malassorbimento.
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Questa diarrea viene interpretata, similmente a quella della sprue tropicale, come conseguenza di una modificazione della normale flora batterica intestinale in questi soggetti, con prevalente sviluppo di ceppi batterici, soprattutto di E. coli, diversi da quelli abituali saprofitici, verso i quali non esiste adattamento da parte del sistema immunitario; insorge così una reazione specifica con conseguente processo infiammatorio che danneggia la mucosa e provoca malassorbimento. B. Elmintiasi. Solo la tenia (saginata o solium) è ancora abbastanza diffusa in Italia, mentre altre elmintiasi (per es., da Ancylostoma duodenalis e da Strongyloides stercoralis) non si riscontrano nel nostro Paese; in genere, in tutti questi casi, ma soprattutto nell’infestazione da cestodi (tenia), il malassorbimento è di grado piuttosto lieve. C. Parassitosi intestinali da protozoi. La più importante è quella da Giardia lamblia (lambliasi), che si contrae in genere dopo viaggi soprattutto nell’Europa orientale (per es., in Russia dove esiste una certa diffusione di questo protozoo). Le forme vegetative del parassita si localizzano nelle cripte della mucosa duodenale, ma possono penetrare all’interno della parete, dove formano cisti che vengono eliminate con le feci. L’infestazione avviene con acqua ed alimenti contaminati (in Italia è relativamente frequente: a Milano circa il 10% della popolazione è portatore di questo parassita). Il quadro clinico della lambliasi è caratterizzato da disturbi dispeptici, riferibili a duodenite, diarrea, coliche biliari (di rado anche ittero), sindrome da malassorbimento globale da infestazione intestinale massiva con frequente steatorrea. La diagnosi può essere fatta con esame coprologico a fresco, che consente di evidenziare la presenza di forme cistiche (nelle feci formate) o vegetative (nelle scariche liquide); talora il parassita è dimostrabile solo nel secreto duodenale. La terapia è fondata sull’impiego del metronidazolo per via orale. Resezioni intestinali Sono correlate ad interventi chirurgici che comportano la resezione di tratti piuttosto estesi dell’intestino tenue (per neoplasia, malattia di Crohn, ecc.), con conseguente diminuzione della sua superficie. In genere il malassorbimento si verifica quando la resezione, come già detto, è piuttosto ampia e, soprattutto, coinvolge le porzioni prossimali del tenue. In certi casi tale resezione con interventi di by-pass tra il digiuno prossimale e l’ileo distale viene effettuata in soggetti gravemente obesi proprio allo scopo di provocare un malassorbimento per ottenere un notevole calo ponderale di questi pazienti; l’intervento non è privo di conseguenze sfavorevoli, tra cui, la più frequente, l’insorgenza di steatosi epatica, anche molto grave, talora mortale (Cap. 30). Farmaci Esistono diversi farmaci che possono provocare malassorbimento, alcuni dei quali danno malassorbimento globale, altri malassorbimento parziale.
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Farmaci che danno malassorbimento globale 1. Colchicina. È un farmaco ad azione antinfiammatoria non steroidea che viene elettivamente impiegato nella terapia dell’attacco acuto di gotta, ma spesso viene anche assunto cronicamente a piccole dosi per la prevenzione di questi attacchi. In realtà, la colchicina è dotata anche di attività antimitotica, cioè inibisce la replicazione cellulare e questo effetto è particolarmente evidente a livello dei tessuti che presentano un elevato turn-over e quindi anche sull’epitelio della mucosa intestinale. Si può, perciò, avere una diminuzione del numero delle cellule e, quindi, della superficie totale di assorbimento con conseguente insorgenza di malassorbimento globale. 2. Farmaci citostatici. Numerose sostanze possiedono azione citostatica (o antimitotica) e vengono impiegate nell’ambito di trattamenti chemioterapici utilizzati nella terapia delle neoplasie, delle malattie ematologiche, mieloproliferative ed immunopatologiche. Il loro effetto sull’assorbimento intestinale è quello già ricordato a proposito della colchicina. 3. Lassativi. Molte di queste sostanze agiscono attraverso un’azione irritativa sulla mucosa intestinale ed in questo modo determinano un aumento del contenuto idrico del lume e, soprattutto, un incremento dell’attività peristaltica e, quindi, della motilità che può indurre malassorbimento, specialmente in caso di consumo cronico di questi farmaci. 4. Antibiotici. Il malassorbimento può essere dovuto all’azione irritativa diretta di alcuni farmaci, tra i quali un posto di rilievo spetta agli antibiotici, di cui l’esempio più comune è la neomicina. In genere si tratta di antibiotici che non vengono assorbiti, per cui restano nell’intestino dove svolgono la propria azione; se vengono somministrate a lungo, queste sostanze possono modificare le caratteristiche della flora batterica intestinale e, inoltre, molte di esse esplicano anche un’azione irritativa diretta sulla parete (per es., la neomicina provoca soprattutto perdita delle disaccaridasi), per cui si può verificare malassorbimento se vengono impiegate cronicamente. Farmaci che danno malassorbimento parziale 1. Colestiramina e neomicina. Se ne è già parlato in precedenza in questo capitolo oltre che, per quanto riguarda la neomicina, appena più sopra. 2. Contraccettivi orali (estroprogestinici) e fenilidantoina (anticonvulsivante). Queste sostanze interferiscono con l’assorbimento dell’acido folico e quindi possono provocare anemia di tipo macrocitico-megaloblastico. Altre cause di malassorbimento 1. Ipo--globulinemia. Questa denominazione, per quanto preferibile a quella di a--globulinemia (la completa assenza di -globuline non c’è mai), è da ritenersi impropria in quanto le immunoglobuline mancanti non migrano tutte alla elettroforesi insieme con le -globuline, ma anche in parte con le e, in minima parte, con le -globuline. Si tratta di una rara condizione congenita o
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acquisita in cui il deficit di anticorpi comporta la frequente insorgenza di processi infettivi, particolarmente comuni a carico dell’apparato respiratorio (sinusiti, broncopolmoniti, ma spesso anche otiti). Questi soggetti hanno di frequente una diarrea cronica accompagnata da malassorbimento globale la cui causa più probabile sembra debba ricondursi all’effetto lesivo dell’abituale flora batterica saprofitica intestinale: infatti, delle immunoglobuline, le IgA hanno la particolare tendenza a passare nelle secrezioni esterne per mezzo di un processo di secrezione attiva (queste molecole, che hanno una tipica struttura “a dimeri”, si legano ad un “componente secretorio” e passano in diversi secreti, come per esempio il secreto bronchiale, la saliva, il secreto intestinale). Le IgA presenti nelle secrezioni formano una sorta di “vernice immunologica” protettiva, come una specie di barriera alla penetrazione di sostanze estranee dannose ed anche di eventuali microrganismi; il deficit di IgA (1 individuo ogni 400 ha una carenza di queste immunoglobline), se si associa a quello delle altre classi di immunoglobuline (che non possono, perciò, compensare, almeno parzialmente, tale difetto), potrebbe favorire l’insorgenza di malassorbimento dovuto all’azione dannosa della normale flora batterica intestinale mancando questa particolare condizione protettiva. 2. Sindrome carcinoide. Nelle forme più gravi di questa sindrome può essere presente malassorbimento globale (si veda in seguito). 3. Endocrinopatie. Ricordiamo le più importanti. • Diabete. Il malassorbimento sarebbe dovuto in questa malattia alla modificazione della motilità intestinale per effetto della neuropatia vegetativa oppure alla alterazione funzionale delle cellule della mucosa a causa dell’ischemia mesenterica correlata all’angiopatia diabetica. • Ipertiroidismo. Il malassorbimento è riconducibile all’accelerato transito da aumentata motilità intestinale per ipertono vagale che provoca spesso in questi soggetti diarrea cronica. • Ipoparatiroidismo e pseudoipoparatiroidismo. Il malassorbimento, peraltro raro, può essere ricondotto ad ipereccitabilità (da ipocalcemia) a livello delle terminazioni parasimpatiche colinergiche anche dell’apparato gastroenterico, con conseguenti modificazioni dell’attività peristaltica. • Ipocorticosurrenalismo. Il malassorbimento, presente nelle forme più gravi, può essere spiegato con la stimolazione dei centri bulbari (specie quelli vagali) in conseguenza della disidratazione comune in questi casi e dell’aumentata eccitabilità della muscolatura liscia correlata all’iperpotassiemia; è frequente, allora, la comparsa di dolori addominali diffusi, nausea, vomito ed anche diarrea cronica. A. Fisiopatologia e clinica. Le condizioni generali dei pazienti affetti da malassorbimento globale sono in genere molto scadenti; infatti, almeno nelle forme di una certa entità e durata, essi appaiono piuttosto magri e deperiti per progressivo calo ponderale e lamentano
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astenia notevole per spiccata debolezza muscolare. Nelle forme più gravi è frequente la presenza di dita a bacchetta di tamburo e di iperpigmentazione della cute e delle mucose, simile a quella che si riscontra nel morbo di Addison, dovuta ad ipersecrezione di ACTH, la cui interpretazione rimane tuttora sconosciuta. I sintomi e segni di questa condizione sono correlati al mancato assorbimento di tutti i fattori nutritivi essenziali. • Il mancato assorbimento dei grassi provoca steatorrea. • I carboidrati non digeriti e non assorbiti restano nel lume intestinale dove, per meccanismo osmotico, richiamano acqua determinando diarrea (diarrea osmotica). • Il deficit di assorbimento di aminoacidi essenziali comporta un difetto della sintesi delle proteine; inoltre, in molti di questi casi, per effetto della presenza di un processo infiammatorio a carico della parete dell’intestino, si verifica frequentemente una modificazione della permeabilità capillare che consente la fuoriuscita di fluido contenente sostanze proteiche. Si instaura, in tal modo, una perdita di proteine attraverso la parete intestinale, realizzandosi quella condizione che viene chiamata enteropatia protidodisperdente, la quale non è una malattia a sé stante, ma è una sindrome che si può riscontrare in diverse condizioni patologiche, come, per esempio, nella già ricordata malattia di Ménétrier o anche nella sindrome di Zollinger-Ellison e nelle neoplasie dello stomaco e del colon. La perdita di proteine ha conseguenze importanti: infatti, se tale perdita è superiore alle capacità di compenso da parte dell’organismo (nel senso che la sintesi delle proteine non è in grado di compensare le perdite), si verificherà una diminuzione della concentrazione plasmatica totale delle proteine, la quale interesserà soprattutto l’albumina, perché le piccole dimensioni della molecola ne favoriscono l’eliminazione in caso di protidodispersione (lo stesso evento si instaura in altre condizioni, come per esempio nella sindrome nefrosica, per effetto dell’eccessiva escrezione urinaria di queste sostanze e, in particolare, dell’albumina). In caso di enteropatia protidodisperdente, se la perdita è notevole, può, dunque, instaurarsi diminuzione della concentrazione plasmatica delle proteine e, soprattutto, dell’albumina con conseguente riduzione della pressione oncotica o colloido-osmotica del sangue. Questa riveste molta importanza funzionale in quanto è la forza che si oppone alla pressione idrostatica nella regolazione degli scambi di fluido a livello del distretto capillare tra il sangue circolante e l’interstizio, nel senso che tende a richiamare fluido dall’interstizio verso il capillare. In condizioni normali, in corrispondenza dell’estremità arteriosa di un’ansa capillare, la pressione idrostatica è maggiore di quella oncotica e ci sarà fuoriuscita di fluido verso l’interstizio (acqua ed elettroliti, ma non proteine), mentre in corrispondenza dell’estremità venosa la pressione idrostatica è diminuita e quella onco-
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tica rimane uguale, ma prevale sulla prima richiamando fluido all’interno dei vasi, in maniera da mantenere in definitiva una condizione di equilibrio tra compartimento vascolare e compartimento extravascolare. Se si verifica, come nell’enteropatia protidodisperdente, una diminuzione della concentrazione plasmatica delle proteine, diminuisce anche la pressione oncotica, mentre quella idrostatica rimane invariata, per cui si determina la fuoriuscita di liquido nell’interstizio a livello dell’estremità arteriosa dei capillari senza che questo venga recuperato in corrispondenza dell’estremità venosa. Il liquido trasudato nell’interstizio si raccoglie nell’ambito del connettivo lasso dei diversi tessuti e si ha la formazione di edemi, i quali, quando sono dovuti a carenza di proteine, vengono chiamati discrasici (edema significa gonfiore). L’edema si localizza soprattutto, almeno inizialmente, al volto in regione periorbitale (specialmente al mattino) e nelle zone declivi, alle caviglie, in regione perimalleolare (specialmente la sera); l’edema discrasico è un edema molle, a differenza di quello da stasi linfatica che è “duro”, per cui con la digitopressione resta l’impronta del dito o segno della fovea. Nelle forme più gravi, il liquido si raccoglie anche nelle cavità corporee, pleurica (con formazione di idrotorace) e peritoneale (ascite), fino a coinvolgere l’interstizio di tutti i tessuti in misura rilevante (edema generalizzato); in questo caso si parla più propriamente di stato anasarcatico. Oltre ai costituenti nutritivi fondamentali (grassi, carboidrati, proteine) vengono interessate dal malassorbimento molte altre sostanze di grande importanza. 1. Le vitamine liposolubili (A, D, E, K) restano coinvolte nel malassorbimento dei grassi. 2. Le vitamine idrosolubili vengono assorbite solo parzialmente e le conseguenze più importanti sono quelle riguardanti la carenza di vitamina B12 e di acido folico (quest’ultima si rivela clinicamente in maniera più precoce rispetto a quella da deficit di B12, perché le scorte di acido folico in rapporto al fabbisogno dell’organismo sono proporzionalmente molto inferiori). La carenza di queste sostanze è responsabile dell’insorgenza di anemia macrocitica-megaloblastica. Il malassorbimento delle altre vitamine del gruppo B (B1 e B6 in particolare) può provocare alterazioni a carico degli epiteli con frequente coinvolgimento della mucosa linguale, che può apparire francamente disepitelizzata (glossite); la carenza di vitamina PP può, invece, determinare, se molto grave, la comparsa di una sindrome caratterizzata da dermatite eritemato-desquamativa, soprattutto evidente nelle regioni del corpo esposte alla luce, diarrea, alterazioni neurologiche e psichiche (pellagra). 3. Il difetto di assorbimento delle sostanze minerali può avere importanti conseguenze; in particolare, il diminuito assorbimento di calcio aggrava gli effetti della carenza di vitamina D, mentre il malassorbimento di ferro può provocare l’insorgenza di anemia sideropeni-
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ca e, associandosi spesso al già ricordato deficit di vitamina B12 e di acido folico, può dare origine a quadri complessi ed atipici di anemia. Anche il difetto di assorbimento del potassio e la conseguente ipopotassiemia possono assumere molta importanza, poiché questa sostanza svolge un ruolo di primo piano nel determinare i potenziali delle membrane cellulari e la sua carenza si ripercuote soprattutto sull’attività delle cellule muscolari (con tendenza ad astenia marcata) e specialmente sul miocardio, dove l’ipopotassiemia può provocare, in particolare, disturbi del ritmo che possono essere anche molto gravi (Cap. 6). Infine, in questi casi si può avere malassorbimento di sodio il quale si accompagna alla perdita di acqua per meccanismo osmotico, per cui è frequente l’insorgenza di grave stato di disidratazione. B. Diagnosi 1. Esistono vari test di laboratorio che possono essere utili nella diagnosi di malassorbimento globale. • Il test allo xilosio, che nell’insufficienza pancreatica esocrina è normale, risulta in genere gravemente alterato in presenza di malassorbimento globale; in questo caso lo xilosio eliminato con le urine nelle 5 h successive alla sua somministrazione per via orale è sempre inferiore a 4,5 g (spesso al di sotto di 2,5), così come la xilosemia a 120 min è variamente inferiore a 30 mg/100 ml, confermando che esiste un malassorbimento importante di questa sostanza. • Tutti i test per lo studio dell’assorbimento dei lipidi e delle proteine risultano alterati (si vedano i paragrafi precedenti); in particolare le feci, per effetto del malassorbimento proteico e/o della presenza di enteropatia protidodisperdente, contengono una maggiore quantità di azoto aminoacidico e proteico (azotorrea); tuttavia il dosaggio dell’azoto è spesso impreciso perché è frequente la presenza nelle feci di molecole contaminanti che possono alterare il risultato di questa determinazione. • L’esistenza di enteropatia protidodisperdente può essere dimostrata con il cosiddetto test di Gordon: esso consiste nella somministrazione per via ev di albumina marcata con iodio radioattivo (125I albumina), valutando la percentuale di radioattività nelle feci raccolte per i quattro giorni successivi; in un soggetto normale, la radioattività nelle feci è pari allo 0,10,7% di quella iniziale, mentre in caso di enteropatia protidodisperdente, tale percentuale è compresa tra il 2 ed il 40% (questi valori riflettono il fatto che mentre di norma viene perduto ogni giorno dal 5 al 10% del pool albuminico totale, in questi pazienti si può arrivare al 50-60%). 2. La diagnosi di malassorbimento globale può essere fatta anche con l’ausilio dell’esame radiologico dell’apparato digerente mediante solfato di bario con studio del tenue, tenendo però conto del fatto che l’esplorazione radiologica di questa parte dell’intestino non è molto semplice, perché si tratta di una porzione di notevole lunghezza che non si riempie mai del tutto con-
A.
B.
Figura 24.2 - Aspetto radiologico dell’intestino tenue. A. In condizioni normali con tipico aspetto “a boa di piume”. B. In caso di malassorbimento globale con aspetto “pulverulento” (segno del “moulage”), in cui la colonna di bario è notevolmente frammentata generando un’immagine a zolle irregolari.
temporaneamente e le cui anse hanno contorni non ben definiti (contrariamente a stomaco e colon) e sono largamente sovrapposte. Normalmente, l’aspetto radiologico del tenue è caratteristico e viene detto “a boa di piume”, che bene si adatta ad esprimere il profilo irregolare e dentellato del suo contorno, dovuto alla presenza delle pliche e dei villi che tappezzano la mucosa di questo tratto dell’intestino (Fig. 24.2). Se esiste una malattia diffusa del tenue, come nel caso del malassorbimento globale, il quadro radiologico viene modificato sensibilmente: le porzioni ripiene di bario generano di solito un’immagine a zolle irregolari (come di tante masserelle) per cui nel suo complesso il tenue assume un aspetto “pulverulento” (Fig. 24.2). 3. L’esame più importante dal punto di vista diagnostico è la biopsia intestinale, che viene effettuata con l’impiego di sonde particolari che vengono introdotte nel tenue e che portano all’estremità una piccola capsula fatta in modo tale che, con un comando impartito dall’operatore, consente di eseguire una o più biopsie della mucosa intestinale. Con questo metodo è possibile effettuare l’esame istologico della parete, che permette di evidenziare le alterazioni presenti in maniera da determinare la natura della lesione responsabile del malassorbimento. Malattia celiaca La malattia celiaca, detta anche sprue celiaca o enteropatia da glutine, è un’affezione primitivamente intestinale, ma che ha molte importanti conseguenze a distanza, e che dipende da un’inappropriata risposta immunitaria da parte dei linfociti T contro il glutine ingerito nella dieta in soggetti geneticamente predisposti. Dal punto di visto clinico questa malattia è nota fin dal primo secolo dopo Cristo, ma la sua relazione con il glutine è stata scoperta solo nel 1940. La malattia è prevalente soprattutto in Europa e tra le popolazioni di ori-
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gine nordeuropea (come nell’America del Nord, in Australia e Nuova Zelanda, tra la popolazione bianca del Sud Africa, ecc.), è rara in Asia e in Africa e ha una prevalenza non bene accertata nell’America del Sud. Fino a non molti anni fa, quando ci si limitava a valutazioni cliniche grossolane, la prevalenza della malattia nei Paesi europei o con popolazione di origine europea non veniva considerata significativamente elevata (per es., negli USA 1:3000), ma, da quando esistono più fini criteri sierologici per valutare anche i casi più sfumati, si è scoperto che tra queste popolazioni la prevalenza della malattia celiaca è ben più elevata, aggirandosi intorno all’1%. Il glutine è un componente del grano, dell’orzo e della segale (non del riso, dell’avena o del mais) che contiene la proteina che è responsabile dell’inappropriata risposta immunitaria, la gliadina. Il condizionamento genetico alla reazione alla gliadina (che è però una propensione e non un fattore determinante assoluto) è dipendente dalla presenza o meno di alcuni antigeni di istocompatibilità di classe II (e cioè presenti non su tutte le cellule nucleate, ma solo su alcune che svolgono funzioni immunitarie importanti) e in particolare l’HLA-DQ2 e, meno frequentemente, l’HLA-DQ8. A. Eziopatogenesi. La gliadina, ingerita con la dieta, dovrebbe essere completamente degradata fino al livello di singoli aminoacidi da parte degli enzimi digestivi. Tuttavia, si è scoperto che esiste un componente fatto di 33 aminoacidi che resiste a questa degradazione e che può attraversare intatto l’epitelio intestinale, giungendo così a contatto con le cellule del sistema immunitario. Tra queste, hanno particolare importanza le cellule dendritiche che hanno la funzione di presentare gli antigeni ai linfociti T. Queste cellule interiorizzano il componente della gliadina di 33 aminoacidi, lo digeriscono smontandolo in oligopeptidi e veicolano questi ultimi alla loro superficie, dove sono costitutivamente presenti le molecole HLA di classe II. Tra questi peptidi ve ne sono almeno tre che sono in grado di stimolare i linfociti T e sono tutti accomunati dalla presenza di glutamina. Nei tessuti è presente l’enzima transglutaminasi, che sottopone a un processo di deamidazione i residui di glutamina, trasformandoli in acido glutammico. I peptidi con acido glutammico hanno una particolare attitudine a legarsi con le molecole HLA-DQ2 e HLADQ8 e il complesso che ne risulta ha una forte capacità stimolatoria sui linfociti T CD4+, iniziando così una risposta immunitaria che porta alla produzione locale di citochine infiammatorie e alla cooperazione con i linfociti B che producono anticorpi antigliadina. Non si tratta però solamente di una specie di reazione allergica a un antigene estraneo, perché si mette anche in moto un’autentica reazione autoimmune che ha per bersaglio proprio la transglutaminasi tissutale. Per combinazione questo antigene si trova anche nell’endomisio e perciò, ben prima che questi meccanismi molecolari fossero chiariti, si era scoperta nel siero sanguigno di pazienti con malattia celiaca la presenza di autoanticorpi antiendomisio, senza che risultasse chiaro il perché dell’associazione con gli anticorpi antigliadina. Il processo in-
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fiammatorio che ha luogo nella parete intestinale aumenta la permeabilità della mucosa, innescando perciò un circolo vizioso che peggiora l’andamento della malattia. Dal punto di vista patologico il risultato è una iperplasia delle cripte e un appiattimento dei villi, con estesa infiltrazione da parte di cellule infiammatorie della lamina propria e dello strato epiteliale. Un’altra conseguenza rilevante che può verificarsi è l’induzione di un difetto di produzione di lattasi, che comporta anche un’intolleranza al latte e ai latticini, se già non era presente. Purtroppo, il meccanismo patogenetico non si limita ai processi esposti sopra ed esistono ancora particolari rilevanti che non sono chiari. Per esempio, circa il 30% delle persone con ascendenza nordeuropea possiede l’antigene HLA-DQ2 e tuttavia solo una piccola proporzione di questi soggetti sviluppa la malattia celiaca. Evidentemente sono implicati altri fattori. Occorre però riflettere che l’intestino è un’importante sede di esposizione ad antigeni estranei e che l’organismo è attrezzato per non dare risposte immunitarie superflue. Questo avviene quando gli antigeni sono presentati alle cellule dendritiche senza che queste vengano fatte maturare, maturazione che dipende da sollecitazioni messe in moto da stimoli cosiddetti “di pericolo” e che impegnano di regola il sistema dell’immunità innata. Quando le cellule dendritiche processano gli antigeni in assenza di segnali “di pericolo” tendono ad attivare circuiti imunologici regolatori piuttosto che reazioni aggressive. È perciò possibile che negli individui geneticamente predisposti l’inappropriata reazione alla gliadina e l’autoimmunità che ne consegue insorgano solo in quei casi in cui questi meccanismi regolatori vengono superati da segnali “di pericolo”, che potrebbero essere rappresentati dall’azione di microrganismi, anche in assenza di segni clinici manifesti di infezione. B. Clinica. La malattia celiaca insorge abbastanza spesso nell’infanzia, ma in realtà si può presentare a qualsiasi età, tanto che sono in aumento i casi diagnosticati dopo i 60 anni. La gravità di sintomi e segni dipende dall’estensione della malattia lungo l’intestino, in quanto le forme meno estese, che solitamente interessano solo la porzione prossimale del tenue, possono provocare problemi sfumati che non sono immediatamente riconducibili a una sindrome da malassorbimento. In realtà, un’alterazione dell’alvo con diarrea si verifica solamente in circa il 50% dei casi. Nei casi conclamati è presente diarrea, talora con steatorrea e tutti quei problemi che sono caratteristici di un malassorbimento globale. Tuttavia, anche in assenza di diarrea è possibile osservare difetti parziali attribuibili anche ad altre cause. Per esempio, è abbastanza comune osservare solamente un’anemia da mancanza di ferro (più raramente anche da mancanza di acido folico e/o vitamina B12) oppure una stomatite aftosa recidivante. Sia nelle forme conclamate sia in quelle parziali è possibile che, sia pure raramente, si osservino fenomeni quali aumento delle transaminasi, trombocitosi dovuta a iposplenismo, disordini neurologici (polineuropatia, atassia, epilessia, talora con calcificazioni cere-
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brali), infertilità, aborti ricorrenti, alterazioni cutanee come cheratosi follicolare e alopecia. È perciò opportuno, in presenza di problemi clinici di questo tipo non facilmente spiegabili, indagare se è in atto una malattia celiaca. Esiste anche un’associazione con altre condizioni patologiche. Sicuramente con un’alterazione cutanea denominata dermatite erpetiforme e caratterizzata da lesioni papulo-vescicolari molto pruriginose localizzate preferenzialmente sulle superfici estensorie degli arti, ma anche al tronco e al collo. È documentata anche l’associazione della malattia celiaca con altre condizioni, alcune delle quali di sicuro significato immunopatologico, come il diabete di tipo I, la tiroidite autoimmune, la sindrome di Sjögren, l’artrite reumatoide e la nefropatia a depositi di IgA. È probabile che, in questi casi, una generica propensione a reazioni immunologiche vivaci e all’autoimmunità determini sia la malattia celiaca che la condizione associata. Questa considerazione ha condotto a ritenere possibili altre associazioni con malattie a patogenesi immunopatologica, come le pericarditi recidivanti, l’epatite autoimmune, la cirrosi biliare primitiva, le malattie infiammatorie intestinali, la malattia di Addison, le connettiviti sistemiche e le vasculiti. Queste ultime associazioni tuttavia, vengono ritenute possibili, ma non sono completamente documentate. In altri casi l’associazione dipende da alterazioni congenite di altro tipo, come nel caso della sindrome di Down o della fibrosi cistica. La malattia celiaca può condurre a importanti complicaze, come linfomi intestinali, carcinoma dell’orofaringe, dell’esofago e dell’intestino tenue o anche ad alterazioni importanti non neoplastiche dell’intestino tenue, come una digiunoileite ulcerativa o la cosiddetta sprue collagenosica, che comporta un’alterazione anatomica permanente della struttura del tenue rendendo il malassorbimento non correggibile con l’eliminazione dalla dieta del glutine. C. Diagnosi. Il procedimento diagnostico più accurato è rappresentato dalla biopsia della mucosa digiunale, che rivela le lesioni caratteristiche. Tali lesioni sono reversibili, infatti la mucosa può riassumere un aspetto normale dopo alcuni mesi di dieta senza glutine. La biopsia per via endoscopica è preferibile a quella con capsula collegata a un sondino, perché consente di eseguire un prelievo mirato dove la parete intestinale appare microscopicamente alterata. Esistono tuttavia metodi sierologici molto più semplici, che per questo motivo, sono molto più largamente adoperati, anche in studi di screening. Questi consistono nella ricerca nel siero sanguigno degli anticorpi caratteristici della malattia. Gli anticorpi antigliadina hanno una sensibilità (presenza di anticorpi quando è presente la malattia) del 75-90% se della classe IgA e poco meno se della classe IgG, e una specificità (assenza di anticorpi in assenza di malattia) dell’82-95% se della classe IgA e poco meno se della classe IgG. Gli anticorpi della classe IgA antiendomisio, valutati con immunofluorescenza indiretta su sezioni di cordone ombelicale umano o, più raramente, su
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esofago di scimmia, hanno una sensibilità dell’85-98% e una specificità del 97-100%. Questo test è abbastanza complicato e costoso e perciò può essere sostituito con la ricerca diretta degli anticorpi antitransglutaminasi. Esiste un test ELISA che impiega la transglutaminasi tissutale di cavia e che ha una sensibilità pari o leggermente superiore (95-98%) a quella del test per gli anticorpi antiendomisio in immunofluorescenza, ma una specificità leggermente inferiore (94-95%) e un test “dot blot” che usa transglutaminasi di tessuti umani e che ha una sensibilità del 93% e una specificità del 99%. Anche la positività di questi anticorpi si negativizza dopo alcuni mesi di dieta senza glutine. D. Terapia. La terapia fondamentale è l’eliminazione dalla dieta di tutti i cibi contenenti derivati del grano, dell’orzo e della segale, sostituendoli con riso, mais, patate, soia o tapioca. Almeno inizialmente, è meglio evitare anche l’avena. Anche la birra deve essere eliminata, mentre è possibile consumare liberamente vino e liquori, whisky compreso. Purtroppo piccole quantità di glutine si possono trovare anche in additivi alimentari, emulsionanti o stabilizzanti, o in farmaci (capsule e compresse contenenti amido) e perciò è opportuno controllare che un qualsiasi cibo o medicinale non contenga glutine. È opportuno, almeno inizialmente, astenersi anche dal consumo di latte o latticini, dato che, come si è detto, può intervenire anche un deficit della produzione intestinale di lattasi. Queste misure, che debbono essere proseguite per tutta la vita, sono gravose e perciò una soluzione più semplice sarebbe desiderabile. Qualche speranza è stata suscitata dalla constatazione che una prolil-endopeptidasi di origine batterica è in grado di degradare il peptide di 33 aminoacidi presente nel glutine e resistente all’azione degli enzimi digestivi. È possibile che l’assunzione di questa sostanza annulli gli effetti tossici del glutine nella malattia celiaca. Malattia di Whipple La malattia di Whipple è una malattia infettiva a distribuzione sistemica, ma con un’importante localizzazione intestinale che può condurre a malassorbimento. La scoperta che si tratta di una malattia infettiva è relativamente recente, anche se questa forma morbosa fu descritta per la prima volta nel 1907. Già allora Whipple notò che nei macrofagi infiltranti la parete intestinale di pazienti con questa malattia erano presenti vacuoli contenenti quelli che apparivano essere microrganismi a forma di bastoncino, colorabili con sali di argento, ma non attribuì loro un significato eziologico. Al contrario, valorizzò la presenza di materiale lipidico nelle radici dei dotti chiliferi dilatati e pensò che ci si trovasse di fronte a una malattia del ricambio che chiamò “lipodistrofia intestinale”. Successivamente, fu dimostrato che in questa condizione i macrofagi contengono materiale colorabile con acido periodico-Schiff (PAS) e questo fu considerato molto importante per la diagnosi per mezzo di biopsie della parete del duodeno terminale o del digiuno. La colorazione con PAS è specifica per i mucopolisaccaridi e oggi si sa che il mate-
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riale trovato nei macrofagi nella malattia di Whipple è rappresentato da mucopolisaccaridi della capsula dei microrganismi che la provocano. Fu solo nel 1961 che con la microscopia elettronica si dimostrò la presenza di corpi bacilliformi nei tessuti (non solo nell’intestino) e nel 1967 fu descritta una struttura batterica unica che suggeriva un’eziologia infettiva specifica per questa malattia. Oggi il microrganismo causale è bene identificato e questo ha portato ad acquisizioni importanti anche sulla patogenesi della malattia di Whipple. A. Eziopatogenesi. L’agente causale della malattia di Whipple è stato identificato con tecniche di biologia molecolare nel 1991 ed è stato chiamato successivamente Tropheryma whipplei. La sua identificazione è stata così difficile per alcune sue caratteristiche intrinseche. Per cominciare, il microrganismo, che colora malamente con il Gram, si moltiplica lentamente e non è capace di farlo in ambiente privo di cellule. Inoltre, quello che viene osservato nei vacuoli dei macrofagi non è rappresentato tanto da microrganismi integri, quanto da loro frammenti. Si aggiunga che si tratta di un microrganismo molto difficile da coltivare. Dopo aver tentato di coltivarlo su macrofagi “inattivati” con interleuchina-4 (una citochina che si pensa freni le reazioni immunitarie) o su linee di cellule tumorali (come le cellule HeLa), solo nel 1999 si è riusciti a propagarlo in una linea di fibroblasti umani. Si pensa che T. whipplei sia largamente diffuso nell’ambiente e che la sua penetrazione nell’organismo umano avvenga attraverso la contaminazione dell’acqua. Infatti, con la tecnica della PCR (Polymerase Chain Reaction, reazione a catena della polimerasi) il microrganismo è stato trovato nei liquami di fogna e nelle feci umane. Dal lume intestinale il microrganismo può farsi strada prima nella parete dell’intestino tenue e poi in altri organi o tessuti, dando luogo a una malattia con un’importante compromissione enterica, ma che è sostanzialmente sistemica. Una questione aperta è quale sia la riserva naturale di questo microrganismo e non è escluso che questa sia rappresentata dagli stessi esseri umani che lo eliminano nell’ambiente, verosimilmente con le feci. Trattandosi però di una malattia rara, una larga diffusione è spiegabile solamente ammettendo che molti individui possano essere infettati da questo microrganismo senza presentare malattia, e questo sembra essere proprio il caso. Nasce allora il problema patogenetico del perché, a parità di possibilità di infezione, solo alcuni individui si ammalano. Una prima possibilità è un condizionamento genetico. In alcuni studi si è dimostrato che i soggetti affetti da malattia di Whipple sono positivi per l’antigene di istocompatibilità HLA-B27 con una frequenza che è quattro volte superiore rispetto a quella presente nella popolazione generale. Tuttavia questo dato non è stato confermato in tutte le popolazioni e, in particolare, in quella italiana in uno studio del 2001 di Olivieri et al. Più che pertinente alla genetica il problema sembra di tipo immunologico. È oggi dimostrato che, perché si sviluppi la malattia di Whipple, non basta l’infezione con T. whipplei, ma occorre anche che vi sia un deficit
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dell’immunità cellulare esercitata dai linfociti T CD4+ e, in particolare, da quelli definiti Th1. Questi hanno un ruolo importante nel suscitare nell’ambiente risposte infiammatorie in seguito alle sollecitazioni specifiche degli antigeni e nel favorire l’eliminazione dei microrganismi attraverso la attività dei macrofagi. Si tratta, tuttavia, di una strana menomazione immunologica, perché essa sembra specifica per l’agente eziologico della malattia di Whipple e non riguardare genericamente tutti gli antigeni. Infatti, le reazioni cutanee di tipo ritardato agli antigeni di richiamo non sono compromesse. Inoltre, non sembra che i pazienti con malattia di Whipple siano predisposti anche ad altre infezioni. Sembra però incontrovertibile che questo difetto specifico dell’immunità si verifichi nella malattia di cui stiamo parlando. Nelle sedi di lesione sono presenti relativamente pochi linfociti e molti macrofagi. Nel sangue circolante è ridotta la percentuale di monociti veicolanti alla superficie la molecola CD11b, che serve a facilitare la fagocitosi dei microrganismi e la loro successiva uccisione ad opera dell’interferon-. In effetti, i macrofagi dei pazienti con questa malattia dimostrano una diminuzione della fagocitosi e una diminuita produzione di interleuchina-12, una citochina che ha importanti funzioni nella regolazione delle risposte di immunità cellulare. Tutto questo spiega perché la malattia di Whipple sia cronica e non possa guarire spontaneamente come avviene in molte infezioni. B. Clinica. La malattia di Whipple è rara e non è disponibile alcuna valida stima della sua incidenza. I casi descritti riguardano soprattutto europei e, in misura minore, nordamericani. Soltanto pochi casi sono stati descritti in altre popolazioni. L’età più colpita è quella di mezzo, con un’età media alla diagnosi di circa 50 anni. È controverso se il sesso più colpito sia quello maschile o quello femminile. Per quanto la malattia sia considerata soprattutto a localizzazione intestinale, è certamente vero che si tratta di una malattia sistemica. Una lista di tutte le possibili caratteristiche cliniche della malattia di Whipple è presentata nella tabella 24.5. Come si vede dalla tabella 24.5, l’artropatia è più comune della diarrea e può anche precederla di alcuni anni. Si tratta di un’artrite cronica, migrante, non distruttiva, con alterazione dei segni di fase acuta (aumento della velocità di sedimentazione e della proteina C reattiva) e con negatività per la presenza di fattore reumatoide e perciò classificata, se la diarrea non è contemporaneamente presente, come una artrite siero-negativa (si veda il Cap. 71). Nei soggetti positivi per l’antigene di istocompatibilità HLA-B27 è facile la presenza di sacroileite. L’artrite è abbastanza frequentemente accompagnata da mialgie. La perdita di peso e la diarrea sono anche i problemi clinici più comuni al momento della diagnosi. Come si è detto, questa si accompagna a un malassorbimento globale con tutte le conseguenze che abbiamo descritto per questa condizione. L’interessamento linfonodale è pure non raro e, quando si localizza ai linfonodi mesenterici, è palpabile e
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Tabella 24.5 - Manifestazioni cliniche della malattia di Whipple (Da Marth e Raoult, 2003, modificata). • Caratteristiche cliniche principali – Perdita di peso – Artropatia – Diarrea – Dolori addominali • Segni e sintomi frequenti – Febbre – Linfoadenopatia – Iperpigmentazione – Soffi cardiaci – Mialgie – Masse addominali – Compromissione dell’occhio e del SNC – Tosse cronica – Splenomegalia – Epatomegalia
90% 85% 75% 60% 45% 45% 35% 30% 25% 20% 15% 15% 10% 10%
mostra ecograficamente masse addominali. Dello stesso significato dell’interessamento linfonodale sono la splenomegalia e l’epatomegalia. Un segno curioso è l’iperpigmentazione cutanea che, come si vede nella tabella 24.5, non è rara ed è utile per la diagnosi clinica. È molto simile a quella della malattia di Addison (si veda il Cap. 58), anche se nella malattia di Whipple la funzione surrenalica è intatta. Un commento particolare meritano i soffi cardiaci, che sono dovuti a endocardite infettiva per localizzazione del T. whipplei alle valvole cardiache. Generalmente questa endocardite si verifica in presenza di altre localizzazioni del microrganismo, ma sono descritti casi di interessamento cardiaco isolato e, in queste circostanze, la presentazione è quella di un’endocardite infettiva della quale non si riesce a dimostrare l’eziologia. Molto importanti, anche se non comuni, sono le localizzazioni della malattia all’occhio e al sistema nervoso centrale (SNC). Le prime possono dare luogo a oftalmoplegia, uveite, retinite e, come conseguenza, si può arrivare alla perdita della vista. Le seconde possono provocare nistagmo, mioclonie, atassia e demenza. Come si è visto, la malattia è cronica e, se non è trattata, può essere mortale. C. Diagnosi. Il primo procedimento diagnostico da effettuare in presenza del sospetto di una malattia di Whipple è una biopsia duodenale. Questa dimostra non solamente un appiattimento dei villi e un’infiltrazione con macrofagi, ma soprattutto la presenza di cellule “schiumose”, che sono macrofagi con granuli di materiale che diventano rosso porpora con la colorazione PAS. In realtà, essendo la malattia di Whipple un’infezione sistemica, macrofagi PAS-positivi sono stati dimostrati in quasi tutti gli organi. Questo è un dato diagnostico importante, ma non totalmente specifico, in quanto cellule con caratteristiche analoghe si possono osservare in altre infezioni, per esempio da Mycobacterium avium-intracellulare, da Rhodococcus equi o da Bacillus cereus. Tuttavia, se il quadro clinico è tipico, una positività di cellule con queste caratteristiche è suf-
ficiente per porre la diagnosi. Più complicata è la situazione di fronte a quadri clinici atipici e a localizzazioni diverse da quelle intestinali. In questi casi è utile la ricerca diretta del T. whipplei su vari materiali biologici, a seconda delle possibili localizzazioni. La ricerca con microscopia elettronica non è delle più semplici e non può essere raccomandata per la pratica clinica. È però possibile dimostrare il microrganismo con l’immunoistochimica, dato che è stata riconosciuta l’esistenza di cross-reattività tra alcuni suoi antigeni e quelli di altri microrganismi quali shigelle e Streptococcus agalactiae. Trattando il materiale in esame con anticorpi contro questi ultimi, è possibile dimostrare la loro fissazione sul T. whipplei. Con questo sistema si è dimostrata la presenza di questo microrganismo nei monociti circolanti di pazienti con malattia di Whipple in fase attiva. Il metodo migliore, però, è la dimostrazione del materiale genetico del microrganismo con la PCR, che è possibile eseguire su tessuto da biopsie duodenali, sul liquido sinoviale (con il vantaggio di diagnosticare precocemente la natura di un’artrite), su linfonodi, su valvole cardiache (ovviamente dopo che sono state rimosse con interventi di cardiochirurgia), sull’umor vitreo e sul liquido cefalo-rachidiano. L’utilità della saliva e delle feci per questo metodo di diagnosi resta incerta, mentre il sangue non sembra un materiale affidabile. Una diagnosi sierologica volta a dimostrare gli anticorpi anti T. whipplei nel siero sanguigno sarebbe un test diagnostico molto utile. Tuttavia, per fare questo occorrerebbe disporre dell’antigene e si è visto come è difficile ottenere colture di questo microrganismo o, comunque, materiale utilizzabile per questo scopo. La conoscenza della sua costituzione genetica promette, però, di individuare alcuni epitopi significativi e di poterli sintetizzare, in modo da utilizzarli in laboratorio con quella facilità necessaria per una diagnosi sierologica. D. Terapia. La terapia è antibiotica e può portare a ottimi risultati. La diarrea e la febbre possono risolversi in una settimana, mentre l’artropatia e gli altri eventuali sintomi e segni richiedono un poco più di tempo e comunque scompaiono entro poche settimane. Tuttavia, le recidive sono comuni e perciò la terapia deve essere condotta per un lungo periodo. La ragione di questo sta nel fatto che il T. whipplei, come si è visto coltivandolo su cellule HeLa, è in grado di moltiplicarsi in vacuoli a pH 5. L’alta acidità compromette l’attività degli antibiotici. La terapia attualmente consigliata è il ceftriaxone, 2 g/die per via endovenosa (o penicillina per via endovenosa più streptomicina) per 2 settimane, seguito da cotrimoxazolo per os (160 mg di trimetoprim più 800 mg/die di sulfametoxazolo) per più di un anno. Nel caso di allergia alle cefalosporine o ai sulfamidici, può essere adoperata la tetraciclina o la minociclina. Tuttavia, le tetracicline consentono una più elevata probabilità di recidive e non passano in quantità rilevante la barriera ematoencefalica. In casi individuali sono stati sperimentati anche i fluorochinolonici. Nel caso di resistenza alle terapie antibiotiche è stata anche adoperata con successo la somministrazione di interferon-.
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MALATTIE DELL’APPARATO DIGERENTE
Nei pazienti che hanno una buona risposta clinica è opportuno eseguire biopsie della mucosa duodenale dopo 6 e dopo 12 mesi dall’inizio della terapia. Il trattamento antibiotico può essere interrotto se, dopo 12 mesi, non si osservano più cellule contenenti materiale PAS-positivo. In caso contrario, il trattamento deve essere proseguito. Le localizzazioni cerebrali sono più facili quando si verificano recidive. In questo caso il trattamento deve essere controllato cercando con la PCR il microrganismo nel liquor ogni 6 mesi e sospendendolo solo dopo la sua negativizzazione.
APUDOMI E SINDROME DEL CARCINOIDE Apudomi Con il termine apudomi vengono denominati tutti i tumori che derivano dalle cellule del cosiddetto sistema APUD (Amine Precursor Uptake and Decraboxilation). A. Origine. Le cellule del sistema APUD non sono presenti soltanto a livello dell’apparato digerente, ma in numerose altre sedi e hanno in comune la medesima origine embriologica. Infatti queste cellule derivano tutte dalle creste neurali primitive, che originano dal canale neurale e formano i gangli spinali, mentre cellule isolate o piccoli nuclei di cellule migrano in varie sedi dell’organismo dove acquistano differenti significati funzionali. Tuttavia la caratteristica comune delle cellule APUD, qualunque sia la loro sede, è di avere particolari proprietà biochimiche identiche per tutti questi elementi cellulari: possedere un certo contenuto di amine e la tendenza ad assumere precursori aminici (“uptake”) e a decarbossilare (“decarboxilation”) questi precursori trasformandoli in amine vere e proprie. Quindi queste cellule sono in grado di produrre amine ed inoltre hanno la proprietà di sintetizzare ormoni peptidici, e queste caratteristiche riflettono la loro origine neuroectodermica, in quanto la sintesi di amine e peptidi riproduce un atteggiamento funzionale proprio del sistema nervoso dove i mediatori chimici della trasmissione degli impulsi sono rappresentati da sostanze di questo tipo. A questo proposito, peraltro, recenti acquisizioni sembrano dimostrare che non tutte queste cellule hanno un’origine neuroectodermica, ma che in parte derivino dall’endoderma (in particolare quelle presenti nell’apparato respiratorio e nell’apparato gastroenterico) e che acquistano la capacità di produrre amine ed ormoni peptidici soltanto nelle diverse sedi in cui esse migrano nel corso dello sviluppo embrionale in seguito ad un processo di ulteriore differenziazione funzionale, assumendo proprietà tipiche degli elementi neuroectodermici.
Al microscopio ottico, queste cellule sono argirofile: infatti i granuli citoplasmatici, contenenti lo specifico peptide, si colorano con sali d’argento se, contemporaneamente, viene impiegato un agente riducente; alcune di queste cellule argirofile sono anche argentaffini (si colorano d’argento senza l’impiego di sostanze riducenti), come le cellule enterocromaffini dei tumori carcinoidi (si veda oltre). Le cellule APUD possono anche essere messe in evidenza mediante fluorescenza con formaldeide-ozono oppure con metodo immunocitochimico (per es. una enolasi neurone-specifica è presente nelle cellule APUD cerebrali); infine, il riscontro al microscopio elettronico di granuli neurosecretori può avere valore diagnostico nella identificazione di questi elementi e permettere una differenziazione in sottotipi. Le cellule del sistema APUD si trovano in varie sedi (Tab. 24.6). Nell’ipofisi anteriore vengono prodotti due ormoni importanti, l’ACTH (adrenocorticotropo) e l’MSH (melanotropo), che vengono secreti rispettivamente dalle cellule C e dalle cellule M, e che hanno struttura chimica molto simile. Nel corpo carotideo si trovano cellule APUD che secernono in piccola quantità catecolamine (adrenalina e noradrenalina) e 5-HT (5-idrossitriptamina o serotonina). Nella tiroide le cellule C producono un ormone peptidico molto importante nel metabolismo del calcio, la calcitonina. Anche nell’apparato respiratorio si pensa esistano cellule di questo tipo, dette cellule P, che sono intercalate in piccolissima quantità tra le cellule dell’epitelio bronchiale e per le quali si ipotizza la produzione di una sostanza vasoattiva ad azione dilatatrice, il cui effetto, peraltro, sui vasi sanguigni è fisiologicamente assai scarso. Tab. 24.6 - Cellule ed ormoni del sistema APUD. • Ipofisi anteriore – ACTH (cellule C) – MSH (cellule M) • Corpo carotideo – Catecolamine (adrenalina e noradrenalina) – 5-HT (serotonina o 5-idrossitriptamina) • Tiroide – Calcitonina (cellule C) • Apparato respiratorio – Sostanza ad azione vasoattiva (cellule P) • Apparato digerente – Ormoni G-I – 5-HT (cellule enterocromaffini o argentaffini o cellule Ec) – Ormoni pancreatici: glucagone (cellule A) insulina (cellule B) somatostatina (cellule D, che eccezionalmente possono produrre anche gastrina) • Apparato urinario – Urogastrone (cellule U) • Midollare del surrene – Adrenalina e noradrenalina
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24 - MALATTIE DELL’INTESTINO
L’apparato digerente è molto ricco di cellule APUD, le quali secernono tutti gli ormoni gastrointestinali, fra i quali si possono ricordare: gastrina = cellule G; secretina = cellule S; colecistochinina-pancreozimina = cellule I; VIP = Vasoactive Intestinal Polypeptide = cellule D1; somatostatina = cellule D; GIP (Gastric Inhibitory Polypeptide) = cellule K. Queste cellule sono localizzate in modo sparso tra le cellule dell’epitelio intestinale, mentre al fondo delle cripte si trovano altre cellule dette argentaffini o enterocromaffini che producono serotonina (o 5-idrossitriptamina). Anche nel pancreas, nelle isole di Langerhans, ci sono cellule APUD: cellule A, che producono il glucagone; cellule B, che producono l’insulina; cellule D, che producono la somatostatina ed, eccezionalmente, anche gastrina. Il glucagone e l’insulina sono ormoni peptidici che giocano un ruolo fondamentale nell’ambito del metabolismo glucidico; la somatostatina, che viene prodotta anche a livello dell’antro gastrico, del duodeno e del digiuno, è il fattore inibente la secrezione dell’ormone della crescita e viene normalmente prodotta anche nel diencefalo. Si ipotizza che cellule APUD siano presenti pure a livello dell’apparato urinario anche se la sede è ignota (cellule U); nelle urine, infatti, viene trovato un ormone peptidico chiamato urogastrone, che si ritiene prodotto da queste cellule, che agisce inibendo, sembra, la motilità e la secrezione gastrica. Molto importante è la midollare del surrene, la cui origine dalle creste neurali primitive è ben nota e che secerne adrenalina e noradrenalina. Infine le paratiroidi non sarebbero costituite da cellule APUD secondo criteri classici, ma l’ormone peptidico (paratormone) prodotto da queste ghiandole è coinvolto in alcune manifestazioni patologiche di questo sistema. B. Caratteristiche. Esiste, quindi, un lungo elenco di cellule che secernono amine e ormoni peptidici, alcune delle quali hanno una funzione endocrina secondaria, mentre altre rivestono in questo senso un ruolo rilevante (per es., midollare del surrene ed isole di Langerhans del pancreas). Tutte queste cellule possono dare origine a tumori, chiamati apudomi, i quali, oltre ad avere il comportamento tipico di tutte le neoplasie, presentano la caratteristica di produrre sostanze dotate di attività ormonale o farmacologica responsabili dell’insorgenza di sindromi cliniche particolari. La situazione più semplice è quella di un tumore singolo che produce un solo ormone o una sola amina; si possono però avere combinazioni diverse: per esempio, è possibile che insorgano (evenienza non frequente, ma neppure tanto rara), più tumori simultaneamente, in sedi diverse, che fanno, comunque, tutte parte del sistema APUD. Questa condizione è detta adenomatosi endocrina multipla (MEN = Neoplasie Endocrine Multiple), per la presenza, per lo più, di adenomi di strutture ghiandolari secernenti ormoni diversi; ne esistono due tipi principali, entrambi di natura ereditaria e familiare e di carattere autosomico dominante.
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• Tipo I (sindrome di Werner): paratiroidi, ipofisi, pancreas (cellule D, secernenti gastrina); • Tipo II (sindrome di Sipple): paratiroidi, tiroide (cellule C), midollare del surrene. Il tipo I è caratterizzato dalla presenza di adenoma (o iperplasia) delle paratiroidi, adenoma della ipofisi e adenoma (o anche adenocarcinoma) del pancreas, quest’ultimo a carico in genere delle cellule D secernenti gastrina, cui consegue comparsa di sindrome di Zollinger-Ellison, la quale, perciò, può esistere sia in forma isolata (apudoma delle cellule D) sia nell’ambito di una adenomatosi multipla endocrina. Più raramente sono presenti iperplasia o neoplasia della corteccia surrenale e della tiroide. Il tipo II è caratterizzato, invece, dalla contemporanea presenza di carcinoma midollare della tiroide (con elevati livelli circolanti di calcitonina secreta dal tumore) e di feocromocitoma (tumore benigno della midollare del surrene che produce adrenalina e noradrenalina; Cap. 1). In realtà esistono due varietà di MEN di tipo II: nella prima (MEN IIa o sindrome di Sipple vera e propria) è presente anche, nel 50% dei casi, iperplasia delle paratiroidi, mentre nella seconda (MEN IIb o sindrome di Schimke) il carcinoma midollare della tiroide e il feocromocitoma si associano a neurinomi cutaneo-mucosi (100% dei casi) e ad alterazioni scheletriche (80% dei casi) che conferiscono al paziente un habitus di tipo marfanoide. Queste sindromi sono in realtà piuttosto rare ed è molto più comune il caso in cui il tumore è unico e si sviluppa in uno degli organi del sistema APUD, anche se può accadere che le cellule di questa neoplasia non producano soltanto la sostanza da esse abitualmente sintetizzata, ma anche altre sostanze prodotte da cellule facenti parte di questo sistema o, più di rado, ormoni peptidici o non, la cui sintesi non avviene normalmente in queste sedi. In altri casi, può accadere che tumori, in genere carcinomi, derivati dalla proliferazione di cellule non facenti parte del sistema APUD, acquistino la proprietà di secernere ormoni peptidici normalmente prodotti da elementi di questo sistema o anche ormoni peptidici o non, che di regola non vengono sintetizzati da cellule di questo tipo, determinando l’insorgenza di una sindrome paraneoplastica correlata alla variabile combinazione delle sostanze prodotte. Gli esempi più frequenti di questo genere sono: • carcinoma polmonare a piccole cellule, che produce ACTH, ADH, calcitonina e paratormone; • tumori insulari, che producono insulina, ACTH, VIP, 5-HT e HCG; • carcinoma midollare della tiroide, che produce calcitonina, ACTH e 5-HT; • tumori carcinoidi, che producono 5-HT, ACTH, istamina, bradichina, prostaglandine e altre sostanze (si veda in seguito). Il più importante di tutti è il carcinoma a piccole cellule (o microcitoma, che è il più maligno dei tumori pol-
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MALATTIE DELL’APPARATO DIGERENTE
monari, il quale può dare origine ad una sindrome paraneoplastica con secrezione di diversi ormoni peptidici. Il più frequente è l’ACTH, cui può corrispondere un quadro di ipercorticosurrenalismo (sindrome di Cushing); spesso viene prodotto l’ADH (ormone antidiuretico), che non è normalmente sintetizzato da nessuna cellula del sistema APUD, ma a livello del sistema nervoso centrale, da cellule del peduncolo diencefalico, per essere poi immagazzinato nell’ipofisi posteriore (a questa sintesi può corrispondere un quadro di inappropriata secrezione di ADH); talvolta è prodotta da questi tumori la calcitonina, mentre meno frequente è la formazione di altre sostanze, come, per esempio, il paratormone (riguardo le paratiroidi esistono delle incertezze poiché non è provato che queste ghiandole facciano parte del sistema APUD; tuttavia esse sono spesso coinvolte nella adenomatosi endocrina multipla ed inoltre il paratormone può essere secreto da tumori di questo tipo, per cui è possibile che sussista una relazione fra la secrezione paratiroidea e gli ormoni del sistema APUD). Importanti sono anche i tumori insulari, che possono originare da tutti e tre i tipi di cellule delle isole di Langerhans: i più interessanti, comunque, sono quelli che secernono insulina, che è il normale prodotto di sintesi delle cellule B. Queste neoplasie possono produrre anche ACTH (e dare quindi un quadro di ipercorticosurrenalismo), VIP (che è un ormone intestinale che ha azione vasodilatatrice e che determina perdita di liquidi dalle cellule della mucosa enterica), 5-TH o serotonina e HCG (gonadotropina corionica umana), ormone peptidico prodotto normalmente dalla placenta (e quindi, di regola, non da cellule facenti parte del sistema APUD). Interessante è ricordare che la sintesi di queste sostanze non avviene sempre simultaneamente, ma anche in forma sequenziale, di modo che il quadro clinico di questi pazienti può modificarsi in maniera rilevante nel corso del tempo in rapporto agli effetti prodotti dagli ormoni che vengono secreti nelle diverse fasi di sviluppo di queste neoplasie. Un altro tumore che può presentare queste caratteristiche è il carcinoma midollare della tiroide che deriva dalle cellule C, producenti normalmente calcitonina, ma che in questi casi possono sintetizzare anche ACTH e 5-HT.
Tumori carcinoidi A. Distribuzione e caratteristiche secretive. I tumori carcinoidi originano dalle cellule argentaffini dell’intestino (apudomi intestinali), che normalmente producono 5-HT, ma che possono secernere anche ACTH, istamina, bradichinina, prostaglandine ed altre sostanze. Non sono i soli apudomi che possono originare dall’intestino perché è possibile, anche se si tratta di una evenienza molto rara, che la neoplasia derivi da cellule che producono il GIP (cellule K) o anche da altre cellule di questo sistema ed in questi casi le sostanze prodotte sono quelle corrispondenti alla funzione specifica di questi elementi cellulari, ma anche altri peptidi in combinazioni molto variabili di volta in volta.
Il tumore carcinoide può essere, quindi, definito un apudoma dell’intestino, ma va tenuto presente che durante lo sviluppo embrionale cellule analoghe a quelle argentaffini migrano in altre sedi ed, in particolare, a livello delle strutture dell’intestino primitivo anteriore, da cui derivano organi che non fanno tutti parte dell’apparato digerente (polmoni, stomaco, pancreas, vie biliari): ne consegue che, in realtà, tumori carcinoidi si possono trovare anche in queste sedi (specialmente a livello bronchiale e gastrico) o addirittura nell’ovaio; di fatto dal punto di vista embriogenetico, questo organo non appartiene in alcun modo al sistema APUD, tuttavia ha la caratteristica di essere talvolta la sede di particolari tumori benigni che vengono chiamati teratomi, nell’ambito dei quali è possibile lo sviluppo di una neoplasia carcinoide (il teratoma è una “mostruosità”, una formazione abortiva, che si forma da una singola cellula, ma in cui si riscontrano strutture presenti normalmente in tessuti diversi). I carcinoidi sono chiamati in questo modo perché i primi anatomopatologi che li descrissero furono colpiti dal fatto che le cellule di questi tumori assomigliano un poco a quelle dei carcinomi; in realtà queste neoplasie hanno un grado di malignità modesto e metastatizzano poco e tardivamente, quindi il decorso è solitamente prolungato e la morte, in genere, sopravviene per gli effetti dovuti alle sostanze che il tumore produce e non a causa della neoplasia direttamente. I tumori carcinoidi sono rari ed ancor più rara è la sindrome che ne deriva; si calcola che la loro prevalenza nella razza caucasica sia di 1,5/100.000; soltanto una minima parte di questi è funzionante, anche se le percentuali variano a seconda delle casistiche. Si manifestano nei due sessi praticamente con uguale frequenza; l’età di esordio è variabile, ma rispetto ad altre neoplasie gastrointestinali hanno la tendenza a svilupparsi in età più giovanile. Le sedi più colpite sono l’appendice, l’ileo, il digiuno e il retto; assai più raramente si localizzano a livello dello stomaco, del duodeno, del cieco, del colon ascendente o discendente; eccezionale la localizzazione esofagea. I carcinoidi producono sostanze diverse: • • • • • •
5-HT (5-idrossitriptamina o serotonina); ACTH; istamina; prostaglandine; bradichinina; sostanza che produce il flushing.
La più importante è la serotonina (5-HT), la cui sintesi avviene a partire dal triptofano, aminoacido essenziale che viene assunto con le proteine della dieta; per opera di un enzima, la triptofano-idrossilasi, che è presente in modo particolare nelle cellule argentaffini del sistema APUD, si forma il 5-HTP (5-idrossitriptofano) per aggiunta di un gruppo ossidrilico OH in posizione 5; in seguito alla decarbossilazione di quest’ultimo, si ottiene la 5-HT (5-idrossitriptamina o serotonina). È interessante ricordare che i carcinoidi che si sviluppano in organi al di fuori dell’intestino (ma non quelli ovarici) non arrivano a produrre questa sostanza poiché le
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24 - MALATTIE DELL’INTESTINO
cellule sono sprovviste della decarbossilasi specifica ed il processo si arresta con la formazione del 5-HTP. Inoltre non tutti i carcinoidi intestinali hanno uguale attività secernente la 5-HT: infatti i più attivi in questo senso sono quelli prossimali, del tenue, specialmente del III distale dell’ileo, mentre non hanno, in pratica, attività secernente quelli del colon e del retto, cioè delle porzioni più distali. La 5-HT, prodotta dal tumore, viene messa in circolo e immagazzinata soprattutto nelle piastrine: il metabolismo di questa sostanza si svolge principalmente nel fegato, dove per opera degli enzimi monoamino-ossidasi (MAO) ed aldeide-deidrogenasi si forma l’acido 5-idrossi-indol-acetico (5-HIAA), che è il prodotto finale del suo catabolismo e che viene escreto con le urine; il suo incremento ha significato diagnostico importante. I tumori carcinoidi possono produrre anche ACTH, istamina, soprattutto quelli gastrici, prostaglandine (PGE2 e PGF2a) e bradichinina; in realtà, quest’ultima non è prodotta direttamente dalla neoplasia, ma la sua concentrazione nel sangue aumenta sempre in presenza di questi tumori; molto probabilmente, dunque, questi operano la sintesi di una sostanza che stimola la produzione della bradichinina. Quest’ultima ha una struttura peptidica (8 residui di aminoacidi) e si forma da un precursore che è il chininogeno, proteina prodotta dal fegato, sulla quale agisce un enzima proteolitico, la callicreina, che stacca dal chininogeno un peptide di 9 residui di aminoacidi, che è la lisilbradichinina; questa, infine, a livello polmonare e per opera di un enzima convertitore perde il radicale lisilico e si trasforma in bradichinina. La callicreina è notevolmente stimolata nella sua attività delle catecolamine e poiché è stato osservato che la produzione di bradichinina è strettamente correlata alla secrezione di queste, è probabile che la sostanza prodotta dal carcinoide sia proprio la callicreina. Infine, è stata ipotizzata la formazione da parte di questi tumori di una sostanza (o forse di più sostanze) non ancora ben identificata (sostanza X o anche sostanza P), che potrebbe essere un ignoto ormone peptidico, responsabile della comparsa in questi pazienti del fenomeno del flushing, cioè di arrossamento al volto. B. Fisiopatologia. Prima di tutto, perché un tumore carcinoide provochi l’insorgenza di un quadro clinico vero e proprio, è necessario che i suoi prodotti di escrezione siano presenti in circolo in forma attiva. Per le forme più comuni, cioè quelle del tenue, nessun effetto generale dovuto alla 5-HT compare se non ci sono metastasi epatiche: infatti il tumore produce questa sostanza e la immette nel circolo portale, tramite il quale giunge al fegato dove viene metabolizzata ed inattivata. Perciò, affinché la 5-HT possa giungere nella circolazione generale ed esplicare la propria attività, è necessario che esistano delle metastasi nel fegato che determinino un “salto” del distretto epatico o, comunque, una importante compromissione funzionale di questo organo. Non è così per i carcinoidi dell’ovaio perché le sostanze prodotte in questa sede non raggiungono il cir-
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colo portale (e quindi il fegato), per cui la neoplasia, anche in assenza di metastasi, può provocare l’insorgenza di un quadro clinico più o meno accentuato in rapporto alla quantità di 5-HT che viene secreta. Per contro, i carcinoidi che derivano dall’intestino primitivo anteriore secernono 5-HTP (e non 5-HT), per cui, di regola, non si manifestano in questi casi i disturbi dovuti alla eccessiva liberazione di 5-HT oppure compaiono in forma molto parziale e cioè nella misura in cui il 5-HTP viene convertito altrove in 5-HT. C. Azione biologica delle sostanze prodotte dai tumori carcinoidi. 1. 5-HT. Ha un’attività stimolante sulla muscolatura liscia, che si esplica essenzialmente a livello bronchiale, dove provoca broncocostrizione e quindi asma, ed a livello intestinale, dove provoca ipermotilità e quindi diarrea, la quale può essere tanto importante da determinare malassorbimento. Inoltre questa sostanza provoca facilmente fibrosi in sedi diverse, ma soprattutto a livello dell’endocardio dei lembi valvolari e delle pareti delle cavità destre nel cuore con frequente insorgenza di vizi valvolari (tricuspide e semilunari polmonari). Questa fibrosi da 5-HT, la cui interpretazione rimane sconosciuta (è certo, però, che questa sostanza, aggiunta a colture di fibroblasti, ne esalta l’attività) si manifesta in modo particolare a livello del cuore destro, probabilmente in quanto questa sostanza giunge in concentrazione elevata in queste sedi dove esplica la propria attività prima di essere verosimilmente inattivata a livello polmonare, per cui non è più in grado di agire sulle cavità sinistre del cuore. Un’altra sede in cui può manifestarsi fibrosi da 5-HT è la regione retroperitoneale con possibile retrazione del mesentere e deformazione delle anse intestinali, che assumono un atteggiamento detto “a paracadute”; nelle forme più gravi la fibrosi retroperitoneale può provocare ostruzione dei linfatici intestinali con insorgenza di sindrome da malassorbimento, o anche stenosi degli ureteri con alterazione della pervietà delle vie urinarie. Un altro effetto dovuto alla 5-HT che compare, per altro, soltanto quando la secrezione è particolarmente elevata, è una sindrome da avitaminosi simile alla pellagra, la quale è correlata alla carenza di vitamina PP. Infatti, in condizioni fisiologiche, il triptofano, che è il precursore della 5-HT, viene utilizzato solo in piccola parte per la sintesi di questa sostanza, mentre una quota maggiore è destinata alla formazione di proteine endogene e di acido nicotinico, che è il precursore della vitamina PP (pro-vitamina PP). In caso di tumore carcinoide il triptofano viene utilizzato in gran parte per la formazione di 5-HT, per cui si determina un deficit di vitamina PP, caratterizzato clinicamente da dermatite eritemato-desquamativa, presente soprattutto nelle regioni esposte alla luce, diarrea, alterazioni neurologiche e psichiche, anche di natura demenziale. 2. ACTH. Non viene sempre prodotto; se la secrezione è abbondante, genera un quadro di ipercorticosurrenalismo (sindrome di Cushing).
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3. Istamina. Ha azione broncocostrittrice e provoca vasodilatazione a livello cutaneo; inoltre può facilmente indurre la formazione di ulcera peptica. 4. Prostaglandine. La PGE ha azione broncodilatatrice; la PGF2a broncocostrittrice. 5. Bradichinina. Possiede azione vasodilatatrice generalizzata (con possibile insorgenza di ipotensione anche marcata) ed inoltre stimola la secrezione delle ghiandole lacrimali e salivari. Per quanto riguarda, infine, la sostanza (o le sostanze) da cui deriva il flushing, è già stato ricordato che la loro natura è tuttora sconosciuta, ma si ipotizza che possa trattarsi della cosiddetta sostanza P, ormone peptidico facente parte del gruppo degli ormoni gastrointestinali, secreto normalmente dalle cellule Ec1, localizzate a livello dell’antro gastrico, del tenue e del colon, le quali secernono abitualmente sia questa sostanza sia la 5-HT. D. Clinica. Il paziente affetto da sindrome carcinoide soltanto raramente presenta disturbi di tipo continuo, poiché questi tumori tendono di solito ad immagazzinare le sostanze prodotte liberandole poi in seguito al verificarsi di certe condizioni; il quadro clinico è, perciò, caratterizzato dalla insorgenza di crisi brusche, favorite da alcuni fattori scatenanti, tra i quali vanno annoverati in primo luogo gli stress psicofisici, certi alimenti (soprattutto vino, formaggi fermentati, come il gorgonzola o il gruviera, che contengono notevoli quantità di amine e specialmente di tiramina) ed anche alcuni farmaci, come gli inibitori dell’enzima MAO (anti-MAO), che vengono largamente impiegati come psicofarmaci nel trattamento delle sindromi depressive. In tutti questi casi si verifica un accumulo di amine nell’organismo, che provoca il precipitare della situazione e l’insorgenza brusca dei sintomi e dei segni caratteristici della sindrome carcinoide, che possono essere di genere assai vario. 1. Manifestazioni vasomotorie. Il flushing è la manifestazione clinica più suggestiva della sindrome da carcinoide; esso consiste in un intenso arrossamento (eritema) al volto, al collo e, talora, nella parte superiore del tronco, che si manifesta bruscamente in seguito a sforzi violenti o ad emozioni intense (o anche, come già detto, in seguito alla ingestione di certi alimenti, soprattutto quelli molto aromatizzati, o di alcool o di alcuni farmaci), accompagnato spesso da fastidiosa sensazione di calore in corrispondenza delle zone interessate. Questo fenomeno è generalmente parossistico e si protrae normalmente per qualche minuto (fino a 5 min) e poi regredisce completamente, ma se la malattia esiste da molto tempo ed il paziente ha ripetute crisi di flushing, il colorito non ritorna più normale e resta un certo caratteristico arrossamento ai pomelli. In molti casi, inoltre, a livello della regione nasale, del mento e del collo, si possono osservare delle teleangiectasie, cioè dilatazioni permanenti dei piccoli vasi della cute, come si verifica nell’etilismo cronico.
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La causa del flushing non è nota con certezza: sarebbe dovuto alla cosiddetta sostanza P (piuttosto che alla serotonina o alla bradichinina), ma non esistono prove sicure in tal senso (solo nel tumore carcinoide dello stomaco il fenomeno è sicuramente attribuito alla istamina). Esso può essere provocato sperimentalmente dalla somministrazione endovenosa di catecolamine in piccola quantità (del resto il flushing compare negli stati di stress psicofisico, in cui si ha sempre liberazione di questi ormoni) oppure di pentagastrina (0,25 g ev), quest’ultima in grado di indurre flushing nella maggior parte dei pazienti con sindrome da carcinoide; infine, in circa 1/3 dei casi, questo fenomeno può essere provocato dalla assunzione di alcool (per es. 10 ml di etanolo). 2. Manifestazioni gastroenteriche. La diarrea è un sintomo molto frequente, quasi come il flushing; la sua entità è molto variabile ed in alcuni pazienti ha carattere episodico, con diversi giorni consecutivi di diarrea, seguiti da giorni o anche settimane di alvo normale. A causa della ipermotilità intestinale, possono essere presenti borborigmi e dolore addominale di tipo colico; il dolore può anche essere secondario ad occlusione subacuta dovuta al tumore primitivo e, più di frequente, a fibrosi retroperitoneale che, come già ricordato, può determinare torsione delle anse con grave ostacolo alla canalizzazione intestinale, fino a vera e propria occlusione. Nella sindrome da carcinoide è anche possibile, per quanto di rado, la comparsa di malassorbimento, tuttavia nelle fasi avanzate della malattia è frequente il riscontro di cachessia neoplastica vera e propria. Infine, reperto praticamente costante in questa sindrome, è l’epatomegalia; le metastasi epatiche hanno in genere dimensioni assai maggiori di quelle del tumore primitivo; esse possono provocare dolore addominale, specialmente se vanno incontro a necrosi, la quale, per effetto del rilascio di notevoli quantità di agenti biologicamente attivi, può determinare un drammatico, anche se di solito transitorio, aggravamento delle condizioni generali del paziente (crisi carcinoide). 3. Manifestazioni polmonari. Broncospasmo è stato osservato in circa il 20% dei soggetti con sindrome da carcinoide, talvolta soltanto in associazione a preesistente asma o bronchite. Esso può essere anche particolarmente intenso ed in genere, se presente, si accentua sempre durante le crisi di flushing. 4. Manifestazioni cardiache. La fibrosi, indotta dalla 5-HT, si sviluppa prevalentemente a carico dell’endocardio dei lembi valvolari e delle pareti delle cavità del cuore destro (le lesioni possono estendersi al cuore sinistro, ma sono assai rare in assenza di contemporanea compromissione del cuore destro). Si possono instaurare vizi valvolari, soprattutto a carico delle semilunari polmonari (specialmente stenosi) e della tricuspide (stenosi o, più spesso, insufficienza). La sintomatologia cardiaca può essere di modesta entità, anche in presenza di interessamento valvolare severo, tuttavia è piuttosto frequente, nel corso della malattia, l’insorgenza di scompenso cardiaco congestizio.
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5. Manifestazioni da disvitaminosi. In relazione alla carenza di vitamina PP (dovuta al fatto che grandi quantità di triptofano possono essere consumate nella sintesi di 5-HT) si può sviluppare una sindrome di avitaminosi simile alla pellagra, con dermatite eritemato-desquamativa, presente soprattutto nelle regioni esposte alla luce, diarrea e alterazioni neurologiche e psichiche di grado variabile (fino a demenza e stato confusionale). 6. Malattia di Peyronie. È stata descritta in pazienti con sindrome da carcinoide ed è caratterizzata da induratio e fibrosi dei corpi cavernosi; essa è dovuta a proliferazione fibrotica, la quale presenta interessante somiglianza con la fibrosi che accompagna altre manifestazioni di questa sindrome. E. Varianti della sindrome. La sindrome da carcinoide può anche presentare varianti rispetto al quadro clinico descritto; le principali sono quelle correlate al carcinoide bronchiale ed al carcinoide gastrico. 1. Carcinoide bronchiale. La maggior parte dei carcinoidi bronchiali non è secernente e quelli che lo sono producono 5-HT soltanto in piccola quantità, mentre secernono quantità più elevate di sostanze vasoattive; pertanto essi presentano caratteri clinici distinti rispetto a quelli della classica sindrome da carcinoide. Il flushing è di regola più intenso e prolungato; le crisi possono protrarsi anche per alcune ore o anche giorni e sono accompagnate da iperemia congiuntivale, edema facciale e palpebrale, sudorazione, lacrimazione e salivazione; possono associarsi ansia ed ipotensione arteriosa severa che, occasionalmente, può provocare collasso circolatorio; frequente è la presenza di cefalea. In pazienti che sopravvivono a lungo, la colorazione della pelle del volto tende ad assumere nel tempo una sfumatura rossoviolacea, quasi cianotica; la cute si ispessisce e la facies assume un aspetto particolare chiamato “facies leonina”; si riscontra anche aumento di volume delle ghiandole salivari e lacrimali. 2. Carcinoide gastrico. Il flushing è di colore rosso vivo, a chiazze, spesso con caratteristico contorno serpiginoso, ed è correlato al rilascio di istamina da parte di questi tumori, i quali, in genere, non producono 5-HT (poiché sono privi dell’enzima 5-HTP-decarbossilasi). L’associazione del flushing con l’assunzione di certi cibi è spesso piuttosto comune, mentre la presenza di diarrea e di lesioni cardiache è molto meno frequente che nella sindrome da carcinoide da tumore ileale. Il carcinoide gastrico è stato oggetto di un rinnovato interesse in seguito al riscontro che l’omeprazolo (un potente inibitore, a lunga durata d’azione, della secrezione acida gastrica) produce lesioni similcarcinoidi nello stomaco di ratto dopo somministrazione cronica. È stato dimostrato che ciò è conseguenza della iperplasia delle cellule ECL della mucosa gastrica (secernenti istamina), iperplasia che si correla con i livelli sierici di gastrina e che, si pensa, rappresenti una risposta alla prolungata inibizione acida piuttosto che un diretto effetto carcinogeno del farmaco. Recentemente, lesioni
simili sono state osservate in pazienti con anemia perniciosa, nei quali sono presenti elevati livelli sierici di gastrina. Sulla base di questi riscontri, sembra probabile che il carcinoide gastrico sia dovuto ad iperplasia delle cellule ECL secernenti istamina nella mucosa gastrica in risposta ad uno stimolo prolungato, come la ipergastrinemia. F. Diagnosi. In presenza di sindrome carcinoide, la diagnosi può essere sospettata abbastanza facilmente; esiste, comunque, un test biochimico fondamentale in questo senso che è rappresentato dal dosaggio nelle urine dell’acido 5-idrossi-indolacetico (5-HIAA), che è il prodotto finale del catabolismo della 5-HT secreta da tutti i tumori carcinoidi, sia di quelli classici intestinali, sia di quelli secernenti presenti in altra sede. Questo acido viene normalmente eliminato in piccole quantità, inferiore a 9 mg nelle 24 h; se l’escrezione giornaliera è superiore a 25 mg (ma può anche essere 50 o addirittura 100), la diagnosi di sindrome carcinoide è certa. È importante ricordare che si possono avere dei falsi positivi perché esistono degli alimenti (frutta, specialmente banane, noci, ananas) che contengono 5-HT (per cui mangiandoli aumenta la quantità di 5-HIAA e quindi il dosaggio di questa sostanza richiede una dieta priva di frutta) e dei falsi negativi perché si conoscono dei farmaci, come la fenotiazine (neurolettici impiegati come sedativi) che interferiscono con il dosaggio del 5-HIAA nel senso che ne riducono i livelli rispetto a quelli reali. Valori di 5-HIAA nelle urine di 24 h compresi tra 10 e 25 mg possono essere suggestivi di sindrome da carcinoide, ma si possono riscontrare anche in altre condizioni patologiche, come la malattia celiaca e l’occlusione intestinale acuta. In qualche caso può essere utile il dosaggio della 5-HT nel sangue intero, peraltro disponibile attualmente solo in alcuni centri specializzati; in realtà questo test misura la 5-HT piastrinica, poiché nel plasma questa sostanza, in forma libera, è presente soltanto in minima quantità o anche del tutto assente (valore limite normale: 300 ng/ml). La valutazione della cromogramina nel siero è stata ritenuta utile anche per la diagnosi di tumori carcinoidi. Più difficile risulta spesso la ricerca del tumore e delle eventuali metastasi anche con approfondite indagini strumentali (eco, scintigrafia, TC, risonanza), tenendo conto del fatto che la neoplasia può essere anche molto piccola e nonostante questo dare dei disturbi importanti, in quanto non c’è correlazione tra le dimensioni del tumore e le sue capacità secretive. G. Decorso, prognosi, terapia (*). La chirurgia rappresenta il trattamento curativo di tutte le forme suscettibili di exeresi radicale. I tassi di guarigione sono dell’80-90% per i tumori del piccolo intestino, del retto e del polmone, sfiorano il 100% per le localizzazioni appendicolari ma scendono notevolmente per i tumori gastrici, pancreatici e colici. Il trattamento delle forme avanzate ha due obiettivi: il controllo della sindrome da (*) Con la collaborazione di E. Bucci e G. Di Lucca.
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carcinoide (quando presente) e il tentativo di ridurre la progressione tumorale. La terapia sintomatica della sindrome da carcinoide utilizza una serie di farmaci la cui efficacia è per lo più limitata ad un solo aspetto del quadro clinico (vale a dire, i farmaci attivi sui sintomi gastroenterici non sono attivi sul flushing e viceversa), parziale e transitoria. La paraclorofenilalanina (PCFA) è un bloccante della triptofano-idrossilasi che interviene dunque sulla sintesi di serotonina; la sua indubbia efficacia è tuttavia ostacolata da gravi effetti collaterali sul sistema nervoso centrale. Un blocco della serotonina può essere tentato anche a livello recettoriale soprattutto con la ciproeptadina. Sul flushing sono invece più attivi bloccanti adrenergici come l’-metildopa e la fenossibenzamina, i cui effetti collaterali cardiovascolari sono però spesso intollerabili. Altri farmaci usati a scopo sintomatico sono gli antistaminici (anti-H1 e anti-H2), i corticosteroidi (che riducono il flushing con meccanismo non del tutto chiaro), i 2-agonisti (per il broncospasmo) e gli oppiacei (per la diarrea). Un notevole progresso è stato fatto negli ultimi anni con l’introduzione dell’analogo della somatostatina SMS 201-995 (octreotide). La somatostatina naturale è infatti efficace nel bloccare la secrezione di serotonina con un meccanismo complesso, ma ha un’emivita brevissima (3 min) e dovrebbe quindi essere somministrata in infusione continua. L’octreotide ha invece un’emivita di 90 min, per cui può essere somministrato a dosi refratte, in genere per via sottocutanea. A dosi di 100 g 3 volte al giorno abolisce completamente il flushing nel 50-60% e la diarrea nel 25-30% dei pazienti: i sintomi sono migliorati in misura superiore al 50% in un’altra metà dei pazienti. Gli effetti collaterali sono minimi. Purtroppo, anche l’azione dell’octreotide tende ad indebolirsi con il passare del tempo, tanto che oltre la metà dei pazienti non ne trae più beneficio dopo 1 anno; tuttavia, alcuni di essi rispondono all’aumento delle dosi. È interessante l’osservazione di occasionali regressioni tumorali indotte dall’octreotide. Da quanto detto, si evince che questo farmaco è diventato l’agente di prima scelta per il trattamento della sindrome da carcinoide. Un altro farmaco che si sta affermando nel trattamento della sindrome da carcinoide e dei tumori carcinoidi è l’interferon- (IFN-). Esso agisce probabilmente a più livelli, con un effetto eminentemente citostatico. Anche con l’IFN- il controllo dei sintomi viene ottenuto in più del 50% dei pazienti, ma gli effetti collaterali sono più pesanti. Più frequenti rispetto all’octreotide sembrano essere invece le riduzioni obiettive delle dimensioni tumorali. In questo modo può essere introdotta la sezione dedicata al trattamento antitumorale propriamente detto. Un primo punto da sottolineare è che la rimozione chirurgica deve essere tentata ogni qual volta appaia possibile anche per le metastasi, in quanto nessuna terapia medica è in grado di guarire definitivamente un carcinoide metastatico. Sono segnalate lunghe sopravvivenze dopo resezioni di metastasi epatiche singole o in numero ridotto. Sempre a livello epatico, si ottengono buoni risultati con la chemioembolizzazione o con
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la legatura dell’arteria epatica, associata o meno a chemioterapia. I tumori carcinoidi sono considerati scarsamente sensibili ai farmaci antiproliferativi, in virtù della loro lenta crescita. I farmaci più attivi sono il 5-fluorouracile (5-FU), l’adriamicina e una nitrosourea di origine batterica, la streptozotocina (STZ). Anche se mancano sicure evidenze di superiorità della polichemioterapia è diffusa la tendenza ad utilizzare questi farmaci in associazione. La percentuale di risposte obiettive è intorno al 30-40% con durata di 6-8 mesi. In un recente studio randomizzato, l’IFN- è risultato più efficace dell’associazione 5-FU + STZ nel controllo dei sintomi e nella percentuale di risposte, ma non si sono osservate differenze nella sopravvivenza. La tossicità dell’IFN- non deve essere sottovalutata. Sono in corso studi sull’associazione degli agenti più attivi (octreotide, IFN-, chemioterapia).
MALATTIE INFIAMMATORIE INTESTINALI Con la definizione malattie infiammatorie intestinali si indicano alcune condizioni morbose croniche ad eziologia sconosciuta e patogenesi complessa. Esse sono la malattia di Crohn e la colite ulcerosa. La malattia di Crohn è una affezione cronica granulomatosa che può colpire, con distribuzione segmentaria, qualsiasi sezione dell’apparato digerente, dalla bocca all’ano, ma più comunemente interessa l’ileo terminale o il colon. La colite ulcerosa è un’infiammazione cronica degli strati superficiali del colon coinvolgente preferenzialmente l’ampolla rettale ove può anche essere localizzata esclusivamente (proctite ulcerosa). In passato si riteneva che queste due malattie fossero gli estremi di uno spettro continuo di forme morbose con caratteristiche intermedie nelle quali c’era prevalenza o dell’uno o dell’altro quadro, ma attualmente si pensa che si tratti di entità distinte che condividono alcuni aspetti di condizionamento genetico e di rischi ambientali, ma che differiscono per altri versi. Tuttavia, in entrambi i casi si può dire che l’alterazione patologica derivi da un’inappropriata e continua attivazione del sistema immunitario della mucosa intestinale stimolato dalla normale flora batterica intestinale. Questa aberrante risposta è molto probabilmente facilitata da difetti della funzione di barriera dell’epitelio intestinale e dell’attività locale del sistema immunitario. A. Epidemiologia. Le malattie infiammatorie intestinali sono più comuni tra i caucasici che tra gli africani e gli orientali; in particolare la loro frequenza è da 3 a 6 volte maggiore tra gli ebrei che tra i non ebrei; più in generale essa è più elevata nel Nord America e nel Nord Europa e sta aumentando anche nelle regioni più meridionali del continente europeo, mentre rimane più bassa in tutte le altre aree geografiche del mondo (estremamente rara in Africa, India, Sud America).
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I dati epidemiologici più attendibili sono quelli relativi ai Paesi scandinavi e agli USA; per la colite ulcerosa (comprendendo la proctite), la prevalenza è variabile da 50 a 150 casi/100.000 abitanti. Di particolare interesse sono i dati riscontrati tra gli ebrei, poiché gli ashkenazi di origine europea-americana presentano una prevalenza più elevata degli ebrei nati in Israele e degli ebrei africani o asiatici. Per quanto riguarda l’incidenza, per la colite ulcerosa i valori sono compresi tra 5 e 11 casi/100.000 abitanti/anno: all’aumento osservato prima degli anni Sessanta, ha fatto seguito una situazione di stazionarietà e, quindi, di progressiva riduzione, almeno negli USA; in altre aree geografiche, invece, per esempio in Scozia, Norvegia, Svezia, Islanda, è stato riscontrato un costante aumento dell’incidenza della malattia. Quanto alla malattia di Crohn, la sua incidenza è minore di quella della colite ulcerosa (circa 2 casi/100.000 abitanti/anno); peraltro essa è andata via via crescendo fino agli anni Settanta-Ottanta, quando ha raggiunto una sorta di plateau (in particolare l’incidenza è aumentata negli ultimi 25 anni nel Nord Europa con livelli, in Svezia, di 6/100.000 abitanti/anno). L’aumento dell’incidenza può essere almeno in parte spiegato con il miglioramento dei presidi diagnostici e con la conseguente più precisa definizione della patologia stessa e, d’altra parte, lo studio di tali modificazioni epidemiologiche può essere d’aiuto, a sua volta, nell’identificazione dei fattori di rischio per questa malattia. Per esempio, è stato ipotizzato un ruolo protettivo nei confronti dello sviluppo della malattia di Crohn da parte del latte materno e diversi studi hanno dimostrato come nella gran parte delle aree geografiche del mondo negli ultimi decenni sia aumentata l’abitudine di utilizzare latte vaccino. Al contrario, nel Nord Europa il consumo di latte artificiale sta diminuendo e, se è vero che l’allattamento materno è un fattore protettivo nei confronti della malattia, ci si dovrebbe attendere, come è avvenuto negli USA, una riduzione della sua incidenza in tali Paesi (dove oggi essa è particolarmente elevata), nel corso dei prossimi 10-20 anni (è possibile, come si dirà più avanti, che nella malattia di Crohn un ruolo eziopatogenetico sia sostenuto da patologie infettive contratte in età infantile ed in questo senso si spiegherebbe l’importanza del latte materno nel fornire al bambino una protezione immunitaria passiva, per effetto del passaggio di anticorpi, nei riguardi di tali malattie). Alcuni valori orientativi sull’incidenza e prevalenza delle malattie infiammatorie croniche intestinali nell’Europa occidentale e negli USA sono riportati nella tabella 24.7. Come si vede, l’incidenza della malattia di Crohn è di circa 2 casi/100.000 abitanti/anno e la prevalenza di 20-40/100.000. Nel caso della colite ulcerosa sono state distinte la colite ulcerosa vera e propria e la proctite ulcerosa e l’incidenza globale di queste due forme è di circa 10-15/100.000/anno; per quanto riguarda l’incidenza, i valori della proctite sono più bassi rispetto a quelli della colite ulcerosa, mentre per la prevalenza i dati sono, nel complesso, sovrapponibili.
Questo dipende dal fatto che la proctite è una malattia meno grave, per cui il numero di casi tende ad aumentare nel tempo. La prevalenza complessiva è di circa 100-150/100.000, cioè all’incirca l’1‰. Tutti i gruppi di età sono a rischio per le malattie infiammatorie croniche intestinali, anche se è raro il riscontro di queste patologie al di sotto di 10 anni e al di sopra di 80. Il picco maggiore di incidenza si colloca, comunque, tra 15 e 35 anni per i maschi e tra 20 e 40 per le femmine, con un secondo picco comune tra i 50 e i 60 anni. Per quanto riguarda il sesso, non sembra emergere dalle casistiche più recenti una differenza significativa, con un rapporto uomo/donna variabile da 1,1:1,0 a 0,9:1,0 secondo le aree geografiche prese in esame. In relazione alla razza, come già ricordato, queste malattie sono più comuni tra i bianchi che tra i negri; i soggetti di razza negra viventi negli USA sono più colpiti che non quelli delle regioni meridionali dell’Africa; tra gli abitanti della Nuova Zelanda, infine, l’incidenza è 20 volte più elevata negli immigrati europei rispetto agli aborigeni. B. Eziopatogenesi. Si è detto che la causa delle malattie infiammatorie croniche intestinali è sconosciuta: è perciò molto verosimile che esse non dipendano da un singolo agente eziologico, ma dall’interazione di più fattori che si trovano casualmente a coincidere. Oggi si sa che la patogenesi di queste malattie è complessa e sostanzialmente può essere ricondotta a tre fattori interagenti tra di loro: una suscettibilità geneticamente determinata, un’induzione ad opera della microflora batterica intestinale e un danneggiamento dei tessuti come esito di una reazione immunitaria. 1. Condizionamento genetico. Le malattie infiammatorie intestinali non sono trasmesse come un carattere mendeliano, ma molto verosimilmente il loro sviluppo dipende dalla coincidenza di più geni interagenti tra di loro e con fattori ambientali. Che un condizionamento genetico esista è provato da varie osservazioni, tra le quali le già citate differenze nella prevalenza di queste malattie in diverse popolazioni, la cosegregazione della tendenza a svilupparle in certe genealogie familiari in associazione ad alcuni rari disordini geneticamente determinati e soprattutto la loro concentrazione in determinate famiglie. Si è visto, infatti, che i parenti di primo grado di un paziente con una malattia infiammatoria intestinale hanno un rischio da 4 a 20 volte più elevato rispetto alla popolazione generale di sviluppare a Tabella 24.7 - Incidenza e prevalenza nell’Europa Occidentale e negli USA. INCIDENZA PREVALENZA (/100.000/ANNO) (/100.000) Malattia di Crohn Colite ulcerosa Proctite ulcerosa
2 5-11 3-6
20-40 50-150 75-150
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loro volta una malattia di questo tipo e che per essi il rischio assoluto di contrarre questa forma morbosa è di circa il 7%. Vi è una concordanza maggiore tra i gemelli monozigoti che tra i dizigoti. Nel complesso, sembra esserci un condizionamento genetico maggiore per la malattia di Crohn che per la colite ulcerosa, anche se i familiari di pazienti con una delle due malattie di questo gruppo possono sviluppare più facilmente anche la seconda. Gli studi genetici su questo argomento hanno fatto sostanziali progressi grazie allo studio del genoma dei pazienti con microsatelliti marcatori del DNA. Lo screening del DNA di membri di famiglie con più casi di malattie infiammatorie intestinali ha permesso di identificare un’area sul cromosoma 16, apparentemente collegata con la forma morbosa, nei pazienti affetti da malattia di Crohn, ma non in quelli con colite ulcerosa. Una dettagliata mappa del cromosoma 16 ha condotto all’identificazione di un gene responsabile, almeno in parte, di questo collegamento, che è stato denominato NOD2. I soggetti omozigoti per mutazioni del gene NOD2 hanno un rischio 20 volte più elevato di sviluppare la malattia di Crohn rispetto a coloro che posseggono il gene non variato, ma anche gli eterozigoti avrebbero un rischio aumentato, sia pure in misura minore. Come si vedrà, lo studio del funzionamento del gene NOD2 ha chiarito anche alcuni aspetti patogenetici delle malattie infiammatorie intestinali. In realtà, solo il 20% dei pazienti con malattia di Crohn è omozigote per il gene NOD2 e sono state individuate varie altre regioni genomiche collegate sia con la malattia di Crohn che con la colite ulcerosa, che perciò, almeno in parte, condividono il condizionamento genetico. 2. Ruolo della microflora batterica intestinale e della reazione immunitaria nei suoi confronti. Fisiologicamente l’intestino contiene un’abbondante popolazione microbica nei riguardi della quale la risposta immunitaria deve essere mantenuta in limiti controllati. In realtà, l’intestino è sottoposto a stimolazioni antigeniche che vanno al di là di quelle dovute ai microrganismi e includono piccolissime quantità di proteine alimentari non perfettamente digerite (se non fosse così non esisterebbe l’allergia alimentare). Perciò è attrezzato per dare risposte immunitarie di due tipi: regolatorie, che risultano frenanti, ed effettrici, che per essere tali debbono prevalere sulle prime. Entrambe sono attuate da linfociti appositamente differenziati per la rispettiva funzione, definiti Tr1 e Th3 per quanto riguarda l’attività regolatrice, e Th1 e Th2, per quanto riguarda l’attività effettrice. Esistono nell’organismo anche altri linfociti regolatori, definiti T-CD4, CD25, ma la loro funzione a livello intestinale non è ancora bene accertata. I linfociti Tr1 secernono preferibilmente la citochina IL-10 e quelli Th3 il Trasforming Growth Factor- (TGF-). Entrambe queste citochine frenano le reazioni immunitarie. I linfociti Th1 e Th2 sono specializzazioni funzionali dei linfociti T-CD4+, i primi con attitudine a secernere IL-2 e interferon- (e a dare localmente le risposte infiammatorie proprie dell’immunità cel-
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lulare) e i secondi inclini a secernere principalmente IL-4 e IL-5 (e a cooperare con i linfociti B, favorendo la produzione di anticorpi, tra i quali quelli della classe IgE, e a indurre eosinofilia). Normalmente, nei riguardi degli antigeni alimentari e nei riguardi dei microrganismi non patogeni, che debbono essere trattati come innocui commensali, quali lattobacilli o bifidobatteri o ceppi particolari di E. coli o enterococco, prevalgono le risposte regolatrici. Nei riguardi di microrganismi potenzialmente patogeni le reazioni immunitarie debbono svolgere la loro funzione protettiva senza pagare il prezzo di lesioni tissutali e per questo è stato detto che negli individui sani la mucosa intestinale è in uno stato di infiammazione controllata (fisiologica). L’esito di queste reazioni è la formazione di anticorpi della classe IgA, che sono secreti nel lume intestinale, si legano con i microrganismi e rendono facile la loro eliminazione da parte delle cellule fagocitiche. Nelle malattie infiammatorie intestinali l’infiammazione non è più controllata e provoca lesioni tissutali. Nella malattia di Crohn questo avviene per una reazione dominata dalle cellule TCD4+ con atteggiamento funzionale Th1, nella colite ulcerosa si ha invece una reazione dovuta principalmente a cellule con atteggiamento funzionale Th2, ma atipiche nel senso che producono IL-5 e TNF-, ma non IL-4. Per comprendere che cosa determini la scelta tra una reazione immunitaria regolatrice e una effettrice occorre ricordare alcuni concetti già espressi a proposito della malattia celiaca. Come si è già detto, gli antigeni debbono essere presentati ai linfociti T da parte di altre cellule, tra le quali hanno un ruolo preminente le cellule dendritiche, che li digeriscono, li smontano in peptidi ed esprimono questi alla loro superficie vincolati con molecole del sistema maggiore di istocompatibilità (HLA). Anche i macrofagi e i linfociti B possono svolgere la funzione di cellule presentanti gli antigeni, ma il ruolo delle cellule dendritiche è più importante. Se le cellule dendritiche non sono sollecitate da segnali che possono essere definiti “di pericolo”, la reazione che viene indotta è quella di tipo regolatrice, se invece questi segnali ci sono, la reazione è di tipo effettrice. La base molecolare di questi segnali nella risposta ai microrganismi patogeni è stata individuata ed è stata riconosciuta dipendente dalla stimolazione di alcuni recettori particolari, posti sulle cellule che presentano gli antigeni, da parte di molecole presenti alla superficie dei microrganismi. Si tratta di grosse molecole e i recettori corrispondenti non individuano la loro fine struttura molecolare, come nelle risposte specifiche dell’immunità adattativa, ma una loro struttura di insieme (“pattern”), e perciò sono stati chiamati Pattern Recognition Molecules (PRM). È stata identificata un’importante famiglia di recettori di questo tipo per molecole microbiche, che sono denominati TLR ( Toll Like Receptors). I microrganismi presenti nell’intestino hanno accesso alle cellule presentanti gli antigeni, prima di tutto nelle placche di Peyer, che sono particolarmente specializzate per questa funzione, ma anche lungo tutta la superficie dell’intestino. È ben vero che le giunzioni serrate
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si è avanzato il sospetto che il Mycobacterium paratuberculosis avesse un ruolo eziologico specifico nella malattia di Crohn, ma le prove raccolte in proposito non sono conclusive. Lo stesso può dirsi per il virus del morbillo, per il quale in passato si era pure sospettato un ruolo eziologico. È invece verosimile che la prevalenza relativa nell’intestino di microrganismi per i quali una risposta immunitaria effettrice è necessaria, rispetto a microrganismi commensali, che non richiedono questa risposta, è importante nella patogenesi delle malattie infiammatorie intestinali, come sembra dimostrato da una certa efficacia terapeutica degli antibiotici per via orale e della somministrazione di “probiotici” (microrganismi commensali).
tra le cellule dell’epitelio intestinale rappresentano una barriera, ma va anche ricordato che, intercalate tra queste, ne esistono alcune, denominate cellule M, che consentono il passaggio ai microrganismi. Per di più, le cellule dendritiche possono insinuare delle propaggini del loro corpo cellulare tra le cellule epiteliali e venire a contatto con i microrganismi direttamente nel lume intestinale. Se la risposta è quella fisiologica, l’infiammazione, come si è visto, è frenata. Ma se, come nella malattia di Crohn, la risposta immunitaria ai microrganismi è dominata dalle cellule con atteggiamento funzionale Th1, le citochine che esse secernono inducono i macrofagi a produrre citochine infiammatorie, come l’IL-1, l’IL-6 e il TNF. Per di più, vengono prodotte localmente delle metalloproteinasi, come la stromolisina-1, che sono importanti mediatori della distruzione tissutale. Inoltre, le citochine infiammatorie agiscono anche sulla microvascolatura locale, inducendo la sopraregolazione di molecole di adesione e il reclutamento di altre cellule infiammatorie, quali neutrofili e monociti. In queste condizioni, i macrofagi secernono anche IL-12, che rinforza la polarizzazione dei linfociti verso la funzione TH1, espandendo il processo in un circolo vizioso. Meno chiaro è quello che accade nella colite ulcerosa, ma è possibile che l’azione lesiva del contenuto dei granuli degli eosinofili giochi un ruolo. Per quanto riguarda le cause dell’alterata risposta immunitaria ai microrganismi intestinali si veda a proposito della patogenesi delle singole forme morbose.
È una malattia infiammatoria cronica dell’intestino descritta nel 1932 da Crohn (ma anche di Ginzburg e Oppenheimer), da cui la denominazione, generalmente caratterizzata da reazione di tipo granulomatoso; colpisce tratti ben localizzati, donde il termine di enterite regionale o enterite segmentaria, dizione non del tutto corretta in quanto la malattia può interessare qualsiasi sezione del canale alimentare, dalla cavità orale fino all’orifizio anale, anche se la localizzazione più frequente è l’ileo terminale, dove è stata originariamente descritta (di qui la vecchia denominazione di ileite terminale).
3. Fattori ambientali condizionanti. Come si è visto, il condizionamento genetico non spiega totalmente lo sviluppo delle malattie infiammatorie intestinali. Per fare solo un esempio, la concordanza per la malattia di Crohn tra gemelli identici è alta, ma è tuttavia solo del 45%. Devono perciò coesistere altri fattori ambientali che condizionano lo sviluppo di queste malattie. Tra la miriade di fattori ambientali che sono stati studiati, pochi sono risultati sicuramente implicati. Tra questi va ricordato in primo luogo l’impiego di antinfiammatori non steroidei, che possono provocare delle recrudescenze di queste malattie, verosimilmente attraverso un aumento della permeabilità intestinale. È anche documentato che un’appendicectomia precoce riduce l’incidenza della rettocolite ulcerosa. Il fumo di sigaretta ha un curioso effetto: protegge contro la rettocolite ulcerosa, ma aumenta il rischio di malattia di Crohn. Sono stati selezionati ceppi di topi e ratti inbred con tendenza a sviluppare una colite cronica con meccanismi patogenetici simili a quelli delle malattie infiammatorie intestinali. In questi animali si è visto che la flora batterica nel lume intestinale è probabilmente un fattore centrale; se sono mantenuti in ambiente sterile, non si sviluppa una colite “spontanea”, ma si verifica immediatamente non appena questi animali sono colonizzati con batteri. Questo è in accordo con quanto si è detto a proposito delle reazioni immunitarie nell’intestino. Tuttavia, si può anche supporre che certi particolari microrganismi abbiano un ruolo caratteristico nell’indurre le malattie infiammatorie intestinali. In passato,
A. Eziopatogenesi. Della patogenesi generale delle malattie infiammatorie intestinali si è già detto. Nel caso della malattia di Crohn ulteriori informazioni possono essere ricavate dallo studio del funzionamento del gene NOD2. Si è scoperto, infatti, che questo gene codifica una proteina la cui funzione è simile a quella dei recettori di pattern sulle cellule che presentano gli antigeni ai linfociti T. L’alterazione di questa proteina, come si osserva nei pazienti con malattia di Crohn, dovrebbe portare a una ridotta percezione degli stimoli dei microrganismi e perciò a una menomata induzione delle risposte immunitarie effettrici, che è precisamente il contrario di quanto si osserva in questa condizione morbosa. In effetti, almeno nei macrofagi, si è dimostrato che in presenza di un’alterazione del gene NOD2 la stimolazione cellulare è ridotta. E tuttavia esistono varie spiegazioni per questo paradosso. In primo luogo, i macrofagi fungono da cellule “spazzino” e quindi sottraggono competitivamente gli antigeni che fagocitano dal contatto con le cellule dendritiche e dalla conseguente induzione di risposte immunitarie adattive. In secondo luogo, il gene NOD2 ha anche un’azione nell’induzione di apoptosi, ossia morte programmata, delle cellule del sistema immunitario. Potrebbe perciò darsi che, in presenza di una sua alterazione, le reazioni immunitarie siano più prolungate e più intense. Il problema merita di essere studiato più a fondo, anche tenendo conto dei possibili effetti del gene NOD2 sulle cellule dell’epitelio intestinale.
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Un problema che solitamente non viene discusso è il perché della localizzazione segmentaria della malattia di Crohn. È interessante il fatto che le localizzazioni preferenziali di questa malattia siano in sedi nelle quali si ha ristagno del contenuto intestinale, come immediatamente a monte della valvola ileo-cecale, ossia nell’ileo terminale, e in regione perianale. Si può ragionevolmente supporre che in queste zone sia più facile che dei microrganismi provenienti dal lume intestinale abbiano l’opportunità di indurre quella particolare risposta immunitaria di tipo Th1, che è alla base della patogenesi della malattia. La segmentarietà può essere spiegata con una sorta di reazione catastrofica che si verifica, per il circolo vizioso di cui abbiamo già parlato, nelle sedi dove occasionalmente il processo patologico ha avuto la possibilità di iniziare. B. Anatomia patologica. La malattia, come già ricordato, può colpire qualsiasi tratto dell’apparato digerente, dalla bocca all’ano; la localizzazione faringea o esofagea è rarissima; un po’ meno rara, anche se molto difficile, è quella allo stomaco e al duodeno; dal digiuno, procedendo distalmente, la localizzazione della malattia di Crohn diventa più comune fino all’altezza della valvola ileo-cecale con frequenza massima all’ileo terminale (ultimi 60 cm); la frequenza diminuisce ancora a livello del colon per aumentare nuovamente per quanto riguarda la localizzazione all’ano. È molto comune che la localizzazione non sia singola, ma che diversi tratti dell’intestino siano contemporaneamente colpiti, soprattutto a livello del tenue o in parte nel tenue ed in parte nel colon: in questo caso si parla di forma diffusa della malattia di Crohn, ma è importante ricordare che la malattia ha sempre una distribuzione segmentaria con alternanza di tratti coinvolti e di tratti normali (lesioni a salto) con margini netti di separazione tra i segmenti colpiti e quelli indenni (la lunghezza di ciascun segmento varia da 5 a 30 cm). La malattia è più frequentemente localizzata all’ileo (ileite), interessando tipicamente la sua porzione più distale (circa 60% dei casi); piuttosto comune è il coinvolgimento del colon (soprattutto colon ascendente) sia da solo (malattia di Crohn del colon: circa 10%) sia associato a quello ileale (ileocolite: 40% circa); il retto è interessato nel 5% dei casi e ancora più raro è l’interessamento duodenale e/o gastrico (1%). In una piccola percentuale di pazienti, soprattutto bambini e adolescenti, si osserva anche un importante ed esteso interessamento del digiuno oltre che dell’ileo. Nelle sezioni coinvolte dalla malattia le alterazioni infiammatorie interessano tutti gli strati della parete intestinale (mucosa, sottomucosa, muscolare, sierosa), a differenza di quanto avviene nella colite ulcerosa, tendendo inoltre a propagarsi attraverso il mesentere fino ai linfonodi mesenterici, che risultano comunemente compromessi. La lesione è di tipo granulomatoso ed il granuloma ha caratteristiche simili a quelle del granuloma tubercolare con presenza di cellule epitelioidi e di cellule giganti, ma non è mai presente necrosi caseosa, anche se questo tessuto tende ad andare incontro a fenomeni ne-
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crotici, per cui la mucosa può ulcerarsi e, al di sotto di essa, possono formarsi tragitti fistolosi. Questi ultimi, piuttosto frequenti nella malattia di Crohn, sono importanti in quanto le anse intestinali interessate dal processo infiammatorio tendono ad accollarsi l’una all’altra oppure alla parete addominale o agli organi retroperitoneali; quindi le fistole possono mettere in connessione due anse oppure possono addirittura aprirsi in altri organi (per es., vescica, uretere, vagina) o anche all’esterno, soprattutto in corrispondenza delle cicatrici chirurgiche oppure in sede periombelicale o perineale. Talvolta i tragitti fistolosi hanno lunghezza considerevole e possono raggiungere anche la regione glutea e quella dell’anca. Peraltro gli aspetti anatomopatologici di questa malattia non sono sempre assolutamente caratteristici e, a tale riguardo, va segnalato che negli ultimi anni, grazie anche al miglioramento dei presidi diagnostici, è stato possibile riconoscere l’esistenza di numerose forme di malattia infiammatoria intestinale di carattere aspecifico, la cui relazione con il Crohn (e/o la colite ulcerosa) è tuttora discussa: tra queste si possono includere la colite “linfocitica” (o “microscopica”, detta anche colite “minimal change”, caratterizzata da abbondante infiltrato linfocitario della mucosa), la colite “collagenosica”, in cui la parete intestinale è abnormemente ricca di connettivo, e patologie che insorgono dopo particolari interventi chirurgici (per es., colite a carico dei segmenti funzionalmente esclusi dopo by-pass intestinale, come nel caso della colostomia secondo Hartmann in presenza di neoplasia oppure colite a carico della neoampolla rettale dopo intervento di proctocolectomia totale ed anastomosi ileo-anale in caso di trattamento chirurgico di colite ulcerosa). C. Fisiopatologia. Le conseguenze, dal punto di vista funzionale, sono molto importanti: il processo infiammatorio, che coinvolge anche ampi tratti dell’intestino, altera i meccanismi di assorbimento di diverse sostanze: in particolare il riassorbimento dei sali biliari (e quindi il circolo enteroepatico di questi sali), che avviene soprattutto nell’ileo terminale, è abitualmente compromesso, per cui si verifica una perdita di queste sostanze con conseguente deficit nell’assorbimento dei grassi e comparsa di steatorrea. Inoltre i sali biliari possono legare nel lume intestinale gli ioni di calcio, riducendo la loro disponibilità a reagire con l’acido ossalico per formare ossalato di calcio, che è insolubile e non viene assorbito. Residua perciò nell’intestino una maggiore quantità di acido ossalico, che è assorbito (da cui la frequente iperossaluria osservata in questi pazienti) con conseguente aumentata incidenza di litiasi renale. Si può instaurare anche malassorbimento di alcune vitamine, soprattutto vitamina B12, che viene assorbita normalmente nell’ileo distale, oltre che delle vitamine liposolubili per la ridotta disponibilità dei sali biliari (in particolare vitamina D e vitamina K). Quando la malattia è diffusa a tratti molto estesi del tenue, il malassorbimento può essere globale, coinvolgendo tutti i fattori nutritivi in maniera analoga a
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quanto si verifica nella malattia celiaca o nella sprue tropicale. Di regola si verifica diarrea, la cui patogenesi è verosimilmente riconducibile al ridotto assorbimento dei sali biliari a livello ileale, per cui giungono nel colon dove esercitano azione lassativa inibendo per meccanismo osmotico il riassorbimento di acqua e sali; è probabile, peraltro, che entrino in gioco altri fattori: per esempio, a causa delle alterazioni infiammatorie, soprattutto quando sono estese, si verifica importante malassorbimento di tutte le sostanze e, in particolare, dei carboidrati che danno luogo, per effetto osmotico, a diarrea; questa, inoltre, può essere provocata anche dalla frequente colonizzazione batterica secondaria che si instaura nelle porzioni colpite. D. Clinica. Il paziente di regola è giovane o adulto (20-40 anni), anche se vi possono essere delle eccezioni con esordio in età più avanzata (anche verso 60 anni). La sintomatologia può essere inizialmente subdola, se si eccettuano le forme più rare ad esordio acuto; in principio il paziente può avere soltanto febbre che non ha caratteri tipici e la cui origine non è ben spiegata; in seguito compaiono dolori addominali, soprattutto in corrispondenza della regione ileo-cecale e quindi nel quadrante inferiore destro (fossa iliaca destra), dove la malattia si localizza più spesso (il dolore è spontaneo, sordo, continuo e si accentua alla palpazione, e in questa sede è frequente, all’esame obiettivo, il reperto palpatorio di masse irregolari dolenti a salsicciotto). In secondo luogo il paziente lamenta diarrea, che non è delle più clamorose (3-4 scariche al giorno), con feci semiliquide, a volte francamente acquose, ma di regola senza presenza di sangue visibile (anche se è frequente il sanguinamento occulto), talora con i caratteri veri e propri della steatorrea. Se la malattia progredisce, si possono avere facilmente altri disturbi e, tra i più importanti, vanno ricordati quelli correlati alla frequente localizzazione anale, che comporta spesso la formazione di un infiltrato perianale dolente e l’insorgenza di fistole (che pongono il problema della diagnosi differenziale con fistole ed ascessi comuni in questa sede di origine diversa, legati cioè all’infezione da microrganismi aspecifici). Nei casi più gravi la fistolizzazione della parete intestinale può provocare sanguinamento, di regola con presenza di sangue occulto nelle feci e più raramente con emorragie di una certa entità. Se le fistole si approfondano e raggiungono gli organi interni, si possono avere importanti complicanze: per esempio, se il tragitto fistoloso si apre nella vescica o nell’uretere si può verificare rigurgito di materiale intestinale non sterile nelle vie urinarie, con facile insorgenza di infezioni; la stessa cosa può accadere in caso di passaggio di materiale fecale in vagina. Se le fistole si aprono verso l’esterno (cicatrici chirurgiche, regione periombelicale, regione perineale), si può avere la formazione sulla superficie addominale di un orifizio fistoloso dal quale fuoriesce materiale sieroematico e che non ha tendenza a chiudersi.
Nelle forme più gravi, che rappresentano la minoranza, i pazienti presentano importante compromissione delle condizioni generali; il malassorbimento è globale e può comportare notevole perdita ponderale fino, talora, a vero e proprio stato cachettico; è presente allora un quadro di avitaminosi multipla ed è frequente il riscontro di dita a bacchetta di tamburo. E. Diagnosi 1. Il laboratorio non dimostra alterazioni specifiche: infatti si riscontrano segni di fase acuta con incremento della VES, delle mucoproteine e delle 2-globuline e con positività della PCR; è comune una leucocitosi con neutrofilia. Un curioso dato di laboratorio è la positività nel siero di anticorpi diretti contro il Saccharomyces cerevisiae nel 50% o più dei pazienti con malattia di Crohn. Se la malattia è di grado elevato e di lunga durata, si sviluppa anemia con le caratteristiche dell’anemia delle malattie croniche o, più di rado, dell’anemia sideropenica dovuta allo stillicidio ematico cronico o anche dell’anemia megaloblastica (se la malattia coinvolge l’ileo terminale con malassorbimento di vitamina B12). 2. L’esame radiologico dell’apparato digerente con mezzo di contrasto (solfato di bario) è di grande importanza dal punto di vista diagnostico o mediante clisma opaco (se la valvola ileo-cecale non è a perfetta tenuta e consente il passaggio del bario dal colon nel tenue) o mediante clisma del tenue; in particolare è caratteristico l’aspetto dell’ileo terminale, stenotico ed irregolare (aspetto a ciottolato) anziché a boa di piume; a volte il tratto colpito appare a tal punto stenotico da risultare di aspetto filiforme (segno della cordicella di Kantor), mentre il tratto immediatamente a monte può risultare dilatato (l’associazione di tratto filiforme, area a ciottolato e ansa dilatata costituisce la cosiddetta triade di Bodart, non frequente, ma patognomonica) (Fig. 24.3). È anche possibile, per le spiccate irregolarità presenti, che il mezzo di contrasto salti addirittura il tratto terminale dell’ileo di cui, perciò, manca l’evidenziazione radiologica (segno del “salto”). 3. La diagnosi più precisa è quella istologica, mediante biopsia della mucosa intestinale; questa può essere effettuata facilmente se esiste una lesione perianale oppure una fistola con apertura verso l’esterno, mentre per le lesioni interne è necessario eseguire biopsie mirate con l’ausilio di sonde speciali sotto controllo radiologico o in corso di esame endoscopico. La diagnosi differenziale va posta soprattutto nei confronti della colite ulcerosa e, tenendo conto della più frequente localizzazione del Crohn a livello dell’ileo terminale, nei confronti dell’appendicite acuta, nella quale, però, di solito sono più marcate la dolorabilità addominale e la resistenza parietale e in cui abitualmente l’alvo non è diarroico, ma chiuso a feci e gas. F. Complicanze. La malattia di Crohn può presentare numerose complicanze che vengono distinte in locali e sistemiche.
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• squilibrio elettrolitico: ipocalcemia, ipomagnesiemia, ipokaliemia, ecc.; • ipoalbuminemia: per la presenza di deficit nutrizionale e/o di enteropatia protidodisperdente; • anemia sideropenica o megaloblastica o delle malattie croniche: per perdita di ferro o per carenza di vitamina B12 (in caso di interessamento dell’ileo distale) o come conseguenza di un processo infiammatorio cronico; • steatorrea: da deficit di sali biliari cui si correla malassorbimento di lipidi e vitamine liposolubili oltre che incremento del potere litogeno della bile (con formazione di calcoli nella colecisti) e aumentato assorbimento di ossalati con possibile insorgenza di litiasi renale.
Figura 24.3 - Aspetto alla TC dell’addome di una malattia di Crohn. Si vede l’ansa terminale dell’ileo con parete ispessita. (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003.)
1. Complicanze locali. • Occlusione intestinale (20-30%): inizialmente dovuta all’edema di origine flogistica del segmento intestinale colpito; in seguito correlata all’evoluzione fibrotica che può portare al restringimento del lume (se la malattia interessa lo stomaco si può instaurare stenosi pilorica); • fistole entero-enteriche, entero-cutanee o entero-vescicali con importanti conseguenze soprattutto di natura infettiva; • perforazione intestinale: evenienza fortunatamente rara poiché, come abbiamo visto, il processo infiammatorio interessa a tutto spessore la parete intestinale determinandone frequentemente un ispessimento; • malassorbimento: per effetto della flogosi della mucosa con forme di malassorbimento parziale (per interessamento dell’ileo distale con overgrowth batterico e malassorbimento di lipidi, vitamine liposolubili e vitamina B12) o di malassorbimento globale; • neoplasie: l’incidenza di neoplasie è significativamente maggiore rispetto alla popolazione generale, anche se inferiore rispetto a quella dei pazienti con colite ulcerosa (ciò vale sia per il carcinoma del tenue sia per quello del colon; per quest’ultimo, in particolare, il rischio è circa 5 volte più alto di quello atteso nella popolazione generale). 2. Complicanze sistemiche. a) Nutrizionali e/o metaboliche: • calo ponderale, ipoatrofia muscolare, ritardo di crescita nel bambino;
b) Cutanee e mucose. Si riscontrano nel 15% circa di tutti i casi di malattia infiammatoria cronica intestinale. La più frequente è l’eritema nodoso (comune anche nella sarcoidosi, nella tubercolosi ed in altre affezioni croniche), sotto forma di infiltrati nodulari arrossati, moderatamente dolenti, localizzati soprattutto alla superficie estensoria delle gambe. Si tratta in pratica di una vasculite provocata da immunocomplessi circolanti che si depositano in corrispondenza di piccoli vasi dermoipodermici. Un’altra manifestazione cutanea associata al Crohn è il pioderma gangrenoso, che si presenta inizialmente sotto forma di vescicole sterili localizzate per lo più agli arti inferiori. La successiva coalescenza delle vescicole porta alla formazione di vere e proprie pustole la cui rottura determina la comparsa di ulcere che possono sovrainfettarsi. La patogenesi di questa manifestazione è sconosciuta, ma si suppone che sia in gioco lo stesso meccanismo che dà origine all’eritema nodoso. Possibile è anche la comparsa (nel 5-10% dei casi) di stomatite aftosa, specialmente nel corso delle fasi di riacutizzazione della malattia. c) Muscolo-scheletriche. Altra complicanza della malattia di Crohn è l’artrite, che fa parte di quelle artropatie enteropatiche che sono relativamente comuni sia in questa malattia che nella colite ulcerosa (1025% dei casi). Sono mono o poliartriti, spesso a carattere migrante, che colpiscono soprattutto le caviglie, le ginocchia, le anche, i polsi, ma anche qualunque altra articolazione, con dolore, tumefazione, discreta impotenza funzionale e negatività delle reazioni sierologiche per l’artrite reumatoide (artrite sieronegativa). È verosimile che la patogenesi di questa artrite associata all’enterite regionale sia legata alla localizzazione a livello articolare di complessi antigene-anticorpo circolanti; essa si correla, di fatto, alle fasi di attività della malattia ed in genere è più frequente nelle forme a localizzazione colica che non in quelle a sola localizzazione a livello del tenue. Le artropatie associate alle malattie infiammatorie intestinali possono essere suddivise in artriti periferiche, che presentano una prevalenza molto variabile
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(fino al 25% dei casi in alcune casistiche), ed artriti della colonna (o assiali), che si identificano nella spondilite anchilosante e nella sacroileite (con prevalenza di circa il 10%). Mentre le forme periferiche compaiono più frequentemente nelle pancoliti che nei pazienti con malattia localizzata e, come ricordato, si correlano alle fasi di attività di queste patologie, le forme assiali presentano un decorso indipendente da quello della malattia di base ed hanno spesso, a differenza delle artriti periferiche, evoluzione invalidante con fusione dei corpi vertebrali (formazione di sindesmofiti) o dell’articolazione sacroiliaca. In circa il 30-35% dei casi, la spondilite anchilosante precede le manifestazioni cliniche della colite ulcerosa o del morbo di Crohn e l’80% di questi pazienti è positivo per l’antigene di istocompatibilità HLA-B27. A differenza delle forme periferiche, la terapia della malattia di base non influenza il decorso delle forme assiali. d) Oculari. Le manifestazioni oculari del morbo di Crohn possono presentarsi in forme diverse: cheratocongiuntivite (denominata flittenulare), sclerite e/o episclerite, ma, soprattutto, uveite (con alterazioni infiammatorie a carico della parete anteriore e/o posteriore del corpo ciliare). Tutte queste manifestazioni sembrano correlate dal punto di vista patogenetico ad un meccanismo immunitario fondato sulla deposizione di immunocomplessi e la loro comparsa starebbe ad indicare un andamento particolarmente aggressivo della malattia. e) Epatobiliari. • Steatosi epatica: alterazioni della funzionalità epatica sono frequenti nelle malattie infiammatorie intestinali, più nella colite ulcerosa, in verità, che nella malattia di Crohn; in pazienti gravemente compromessi ed in stato di malnutrizione viene spesso riscontrato un incremento delle transaminasi, della -glutamil-transpeptidasi e della fosfatasi alcalina come espressione, il più delle volte, di steatosi epatica di natura carenziale (e, eventualmente, correlata alla terapia corticosteroidea), la quale tende a regredire con il miglioramento dei segni e/o sintomi di attività della malattia; • colelitiasi; • pericolangite: per interessamento flogistico delle più fini ramificazioni biliari intraepatiche; • colangite sclerosante: nel 75% dei casi è correlata a malattia infiammatoria intestinale (di questi l’87% si associa a colite ulcerosa ed il 13% a malattia di Crohn); • epatite cronica “attiva”; • cirrosi epatica o cirrosi biliare; • colangiocarcinoma. f) Vascolari. Nella malattia di Crohn non è infrequente la comparsa di trombosi venosa e, soprattutto, di condizioni di trombofilia (anche senza il riscontro
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clinico di trombosi) per ipercoagulabilità (forse in rapporto alla liberazione di citochine e/o sostanze tissutali in grado di interferire con l’emostasi) e/o per disidratazione (comune nelle forme più gravi se il paziente non viene adeguatamente supportato con terapia infusionale). Come in tutte le malattie infiammatorie croniche, anche nella malattia di Crohn, soprattutto nelle forme a decorso molto protratto, è possibile, per quanto di rado, lo sviluppo di amiloidosi secondaria che si manifesta spesso con accentuazione dei sintomi e segni di malassorbimento con epatosplenomegalia e danno renale (con significativa proteinuria). G. Decorso e prognosi. La malattia è tipicamente cronica e come tale non si ha mai guarigione completa; generalmente l’andamento clinico è caratterizzato dall’alternanza di periodi più o meno protratti di relativa quiescenza e di fasi di riacutizzazione. Di fronte ad ogni paziente con malattia di Crohn è utile che il medico cerchi di “classificare” il caso secondo due criteri: l’attività di malattia, cioè l’intensità del processo infiammatorio, e la gravità della stessa, correlando quest’ultimo dato alla sua estensione, alle complicanze ed alle conseguenze metabolico-nutrizionali. Tale valutazione è di fondamentale importanza per l’impostazione di un programma terapeutico che sia il più possibile adeguato alla situazione di ogni singolo caso. A tale proposito sono stati elaborati degli indici, alcuni dei quali anche molto complessi, che consentono di definire con buona approssimazione il grado di attività e la gravità della malattia con immediate pratiche ripercussioni sulla strategia terapeutica da seguire in ciascun paziente. Di questi indici, tra i quali CDAI (Crohn’s Disease Activity Index), LCDAI (Laboratory Crohn’s Disease Activity Index), riportiamo nella tabella 24.8 il più semplice o “Simple Index” (o di Harvey e Bradshaw). In linea di massima la prognosi della malattia di Crohn è meno favorevole che non quella della colite ulcerosa, se si fa eccezione per l’enterite regionale acuta, spesso evidenziata nel corso di interventi laparotomici nel sospetto di appendicopatia acuta: più dei 2/3 di questi pazienti non vanno incontro alle complicanze tipiche di questa affezione e rispondono positivamente alla terapia medica o possono essere con successo trattati chirurgicamente. Nelle forme con interessamento colico o ileocolico, la prognosi è più severa nel senso che questi pazienti sembrano presentare nel tempo una risposta via via meno brillante alle sole cure mediche ed in oltre il 75% di questi casi si sviluppano complicanze che richiedono il ricorso a soluzioni chirurgiche, dopo le quali, comunque, le recidive sono piuttosto frequenti, tanto più quanto più diffusa è la malattia. Nel complesso la mortalità aumenta con la durata del processo morboso e si aggira globalmente intorno al 510% di tutti i casi (le cause più frequenti sono la peritonite e la sepsi).
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Tabella 24.8 - Simple Index (punteggio relativo ai diversi sintomi e/o segni). • Condizioni generali – Buone 0 – Discrete 1 – Cattive 2 – Molto cattive 3 – Pessime 4 • Dolore addominale – Assente 0 – Lieve 1 – Moderato 2 – Grave 3 • Massa addominale – Nessuna 0 – Dubbia 1 – Sicura 2 – Sicura e dolente
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• Numero di scariche liquide al giorno – per ogni scarica 1 punto • Complicanze (artralgie, eritema nodoso, uveite, ulcere aftoidi, pioderma gangrenoso, ragadi anali, fistole, ascessi): 1 punto per ogni complicanza Simple Index < 4 = malattia clinicamente in remissione Simple Index > 4 = malattia ad attività moderata o grave (a seconda del punteggio)
H. Terapia. Per quanto riguarda la terapia medica, i farmaci fondamentali sono rappresentati dalla salazopirina (salicilazo-sulfapiridina + acido 5-aminosalicilico) o dal solo acido 5-aminosalicilico, cui si deve di fatto l’azione antinfiammatoria, mentre la sulfapiridina si comporta soltanto da vettore ed è responsabile della maggior parte degli effetti collaterali: intolleranza gastrica, tossicità epatica, nefropatia interstiziale, mielotossicità, anemia megaloblastica (da deficit di folati), anemia emolitica, infertilità maschile (reversibile entro 3 mesi dalla sospensione del trattamento, per riduzione del numero e della motilità degli spermatozoi). L’acido 5-aminosalicilico esiste in commercio in preparazioni diverse in cui tale molecola è associata a “vettori” che ne consentono la liberazione a svariati livelli dell’intestino, per cui nella scelta del prodotto si dovrà tener conto anche della localizzazione ed estensione della malattia: per esempio, olsalazina, dimero dell’acido 5-aminosalicilico; mesalazina, in cui l’acido 5-aminosalicilico è legato a resine che ne determinano la liberazione a diverso pH (come Eudragyt S: pH > 7, o Eudragyt L: pH > 6) oppure è associato a granuli di atilcellulosa con rilascio tempo-dipendente. Generalmente, nelle forme lievi può essere sufficiente l’uso della salazopirina o dell’acido 5-aminosalicilico, mentre nelle forme moderate e/o gravi, specie in fase acuta, si dovrà fare ricorso ai corticosteroidi (a dosaggio variabile fino, in genere, a 1 mg/kg/die di prednisone), che andranno somministrati per diverse settimane fino alla risoluzione dei sintomi e dei segni di maggiore attività della malattia per continuare poi con la salazopirina o l’acido 5-aminosalicilico. Nel caso che
i trattamenti corticosteroidei debbano essere prolungati, si è pensato di ridurre i possibili effetti collaterali impiegando per via orale un corticosteroide antinfiammatorio ad azione prevalentemente locale come la budesonide. Tuttavia, è possibile che anche con questo farmaco si verifichino inconvenienti, perché, se è vero che al primo passaggio epatico può essere inattivato per più del 90%, è anche vero che ha un’affinità per i recettori dei corticosteroidi che è tra 50 e 100 volte superiore rispetto al prednisone. Su questo punto si veda anche quanto è scritto a proposito della terapia della colite ulcerosa. Non ci sono prove che i corticosteroidi siano in grado di influenzare la durata dei periodi di remissione né di diminuire la frequenza delle recidive (di qui il loro impiego limitato nel tempo), mentre qualche beneficio in tal senso sembra venire dall’uso prolungato della salazopirina o dell’acido 5-aminosalicilico, anche se la letteratura non è al riguardo univoca. Nelle forme di malattia di Crohn con interessamento rettale e/o del colon sinistro potrà essere opportuno il ricorso ai corticosteroidi e/o alla salazopirina (o acido 5-aminosalicilico) per via rettale sotto forma di clisteri (la mesalazina è disponibile anche in supposte utili, peraltro, soltanto nelle localizzazioni più distali). In alcuni casi, specialmente in presenza di ascessi e/o di fistole, potrà essere necessario l’impiego di antibiotici (per es., metronidazolo e/o chinolonici e/o aminoglicosidi), mentre nei pazienti che non rispondono alle terapie sopra ricordate (forme cortico-resistenti o cortico-dipendenti in cui la risposta al cortisone è soltanto parziale o in cui non è mai possibile la sospensione completa del cortisone) si dovranno utilizzare farmaci immunosoppressori come l’azatioprina o la 6-mercaptopurina o la ciclosporina A, o anche il metotrexate (in tutti questi casi che non rispondono in maniera efficace alla terapia “convenzionale”, la prognosi è, naturalmente, più sfavorevole). Di recente sono stati impiegati in terapia anche antagonisti dei leucotrieni e anticorpi anti-TNF- con risultati abbastanza incoraggianti, per quanto riferiti a casistiche ancora piuttosto limitate e, dunque, meritevoli di ulteriori conferme. Nelle forme che non beneficiano delle sole cure mediche, è opportuno il ricorso alla terapia chirurgica, specialmente in presenza di complicanze (stenosi, fistole, perforazione, ascessi) e ciò si verifica, come già detto, in più dei 2/3 dei casi in cui la malattia ha localizzazione colica o ileocolica. Infine, è rilevante ricordare l’importanza nel morbo di Crohn (specie nelle fasi di acuzie) della dieta, la quale dovrà essere leggera, povera di scorie e senza latte; inoltre, dal momento che questi pazienti sono frequentemente malnutriti, dovrà essere ipercalorica e supplementata di vitamine e sali minerali. Nelle fasi di più intensa riacutizzazione può essere anche indispensabile il ricorso alla nutrizione enterale con diete elementari, in genere ben tollerate dal paziente e che apportano sostanze utili per il normale trofismo della mucosa intestinale come la glutamina riducendo, nel contempo, la quantità di substrati, che rap-
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presentano la fonte di molecole ad attività proinfiammatoria come i leucotrieni e diminuendo inoltre l’assorbimento di antigeni di provenienza intestinale da parte delle cellule enteriche. Spesso, peraltro, è preferibile, in tali circostanze, il ricorso alla nutrizione parenterale “totale”, che, mettendo “a riposo” l’intestino (“bowel rest”), consente, di solito, una più rapida risoluzione del processo infiammatorio e che, inoltre, permette rapidamente di apportare al paziente sostanze che servono a correggere gli squilibri idroelettrolitici, talora anche molto gravi, che caratterizzano le fasi di acuzie della malattia.
Colite ulcerosa La colite ulterosa o rettocolite ulcerosa è una malattia infiammatoria cronica che colpisce la mucosa di una parte o di tutto il colon, soprattutto nelle porzioni distali (retto) con ulcerazioni superficiali facilmente sanguinanti. A. Eziopatogenesi. Tutti i fattori ricordati nella parte generale sono stati considerati a proposito dell’eziologia della colite ulcerosa. Numerosi tentativi volti all’identificazione di un agente infettante specifico sono stati senza successo. Attualmente gli studi in questa direzione si rivolgono con particolare attenzione al possibile ruolo di virus e di forme batteriche deficitarie della parete cellulare (forme-L). I fattori alimentari sono stati considerati con maggiore insistenza e si è ripetutamente supposto che la colite ulcerosa possa dipendere da allergia a qualche additivo alimentare o a qualche costituente dietetico. La connessione di questa malattia con uno tra i 10.000 circa additivi alimentari impiegati nelle società opulente è risultata comunque difficile. Più suggestiva è la possibilità che possa esistere allergia a qualche costituente del latte vaccino, dato che un paziente su cinque migliora decisamente dopo abolizione del latte. D’altra parte, è stato dimostrato che le fasi di riacutizzazione della colite ulcerosa si accompagnano ad una relativa diminuzione della produzione di lattasi da parte dell’intestino (perché questo avvenga è piuttosto strano: la lattasi è prodotta dalle cellule del tenue e non da quelle del colon). L’effetto dannoso del latte sarebbe perciò dovuto al suo contenuto in lattosio (come si è già detto a proposito del malassorbimento) e non ai suoi costituenti potenzialmente antigenici. D’altro canto, anche una genuina ipersensibilità ai costituenti del latte vaccino potrebbe essere un fenomeno secondario. Un’attenzione particolare è stata attribuita al ruolo dei fattori psicosomatici nella genesi della colite ulcerosa. I soggetti più colpiti, infatti, sono persone appartenenti a classi socialmente e culturalmente più elevate, in cui l’istruzione superiore si suppone che possa generare più facilmente problemi psichici. È stato riscontrato, infatti, che la malattia colpisce con particolare frequenza soggetti che hanno problemi psichici ed è stato spesso osservato che le fasi di riacu-
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tizzazione coincidono con periodi di stress psichico. Questo ha indotto a formulare l’ipotesi di una possibile origine psicosomatica della colite ulcerosa e si è cercato di delineare la personalità caratteristica di questi pazienti: in genere si tratta di individui dal carattere debole, disarmati nell’affrontare le difficoltà della vita, dipendenti dal prossimo (genitore, fratello maggiore o altri), che rappresenta una figura protettiva; individui che hanno notevoli difficoltà nei rapporti interpersonali, chiusi, di scarsa comunicativa, spesso con atteggiamento ostile verso gli altri. L’unico dato, peraltro, che sembra avere una conferma sperimentale, ma che con la colite ulcerosa offre un legame abbastanza debole, è la presenza in questi soggetti di tratti di tipo ossessivo-compulsivo. D’altra parte, non tutti i pazienti con colite ulcerosa presentano anomalie psichiche, che vengono documentate con certezza solo in circa il 50% dei casi; inoltre resta sempre da appurare se questi disturbi sono precedenti alla malattia o ne sono una conseguenza. Recentemente è stato affrontato questo problema con particolare attenzione e con metodi più scientifici: negli USA sono stati messi a confronto due gruppi di pazienti comparabili per condizioni ambientali e socioeconomiche, il primo con colite ulcerosa e l’altro con colon irritabile, e si è valutata l’incidenza dei fattori psichici nei due casi. Tale indagine non ha mostrato differenze significative tra i due gruppi, se mai evidenziando con maggiore frequenza la presenza di disturbi psichici nei soggetti con colon irritabile, condizione che è certamente correlata a questi problemi, ma di cui non è mai stata osservata la conversione in colite ulcerosa. In conclusione, si può affermare che il colon è largamente influenzato da fattori psicologici (che, per es., possono alterare la motilità intestinale), ma non è lecito considerare la colite ulcerosa una malattia esclusivamente psicosomatica, mentre è legittimo annoverare i disturbi psichici tra le condizioni predisponenti (a conferma di questo sarebbe anche l’importanza, almeno in una parte dei casi, della psicoterapia che, comunque, non risulta mai sufficiente se impiegata da sola). Comunque, quali che siano i fattori che agiscono primitivamente sul colon, è certo che una reazione immunitaria secondariamente indotta nei riguardi dei batteri che vi sono contenuti contribuisce alla patogenesi della malattia. Dell’alterata reazione immunitaria ai microrganismi intestinali in questa malattia si è già detto nella parte generale e, per ora, non esistono spiegazioni adeguate (per es., a livello di analisi genetica) per questo fatto. La localizzazione delle lesioni della colite ulcerosa sono diverse rispetto a quelle della malattia di Crohn, anche se in certi casi di localizzazione al colon di quest’ultima possono nascere problemi di diagnosi differenziale. Il fatto che le lesioni della colite ulcerosa siano prevalenti nelle sezioni distali del colon (quelle prossimali possono essere risparmiate, ma quelle distali mai) fa supporre che la localizzazione della malattia sia collegata con la densità della popolazione microbica, dato che questa aumenta nell’intestino mano a mano che si passa dalle porzioni prossimali a quelle dista-
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li. Ma l’interpretazione di tutto questo è per ora solamente ipotetica.
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Tabella 24.9 - Quadro clinico della colite ulcerosa. MALATTIA
B. Anatomia patologica. La colite ulcerosa si localizza soprattutto nelle porzioni distali del colon, in primo luogo al retto, che non viene mai risparmiato dalla malattia; se questa è molto circoscritta, colpisce soltanto il retto ed in questo caso viene chiamata proctite ulcerosa. Di solito vengono coinvolte diverse porzioni del colon, soprattutto quelle distali, mente solo in casi molto gravi tutto il colon è colpito contemporaneamente e si parla di pancolite ulcerosa. Per quanto riguarda il quadro anatomopatologico, le lesioni iniziali sono rappresentate da piccoli ascessi che si formano sul fondo delle cripte di Lieberkuhn; questi microascessi presentano inizialmente accumulo di linfociti ed in seguito anche di granulociti eosinofili, neutrofili e plasmacellule, che costituiscono degli aggregati di cellule infiammatorie che si localizzano subito al di sotto dell’epitelio, tra questo e la tonaca propria, mai peraltro organizzati in strutture granulomatose, come accade invece nel Crohn. Il processo è per lo più superficiale ed interessa la mucosa e la sottomucosa, molto più raramente gli strati più profondi (anche qui, a differenza dell’enterite regionale). L’alterazione dell’irrorazione della mucosa conseguente a tale processo infiammatorio provoca la formazione di ulcerazioni facilmente sanguinanti che sono distribuite lungo tutto il tratto coinvolto dalla malattia (lesioni continue, non segmentarie); le ulcere sono superficiali e si presentano con margini sfrangiati e sottominati, e di regola si arrestano al limite con la tonaca muscolare. Tra un’ulcera e l’altra, il tessuto infiammatorio determina frequentemente un ispessimento della mucosa con la formazione di pseudopolipi. C. Fisiopatologia. Le conseguenze dal punto di vista funzionale sono molto importanti: in particolare, il processo infiammatorio, coinvolgendo tratti anche estesi del colon, provoca l’insorgenza di dolori addominali ed altera il meccanismo di assorbimento di diverse sostanze, soprattutto dell’acqua, con tendenza a favorire l’insorgenza della diarrea. Inoltre la mucosa fragile ed ulcerata sanguina facilmente, con frequenti proctorragie, che possono portare a progressiva anemizzazione. D. Clinica. L’esordio più tipico è nel terzo decennio di vita. Le forme più lievi interessano solo il retto (proctite ulcerosa) ed in questo caso le feci possono essere normali; non c’è diarrea perché il riassorbimento di acqua avviene lungo tutto il colon, ma si può avere emissione di sangue rosso vivo non mescolato con le feci, ma spruzzato sopra perché proveniente dall’ultima porzione dell’intestino. Inoltre si verifica tenesmo rettale, cioè continua sensazione di defecare perché lo stimolo alla defecazione, legato alla distensione dell’ampolla rettale, insorge precocemente in rapporto alla presenza del processo infiammatorio che coinvolge il retto.
LIEVE
Numero di scariche <4 Sangue nelle feci Intermittente Temperatura Normale Frequenza cardiaca Normale Hb Normale VES < 30 Clisma opaco Non significativo Obiettività Non addominale significativa
MODERATA
GRAVE
> 5 ≤ 10 > 10 Frequente Continuo > 37,5 °C > 37,5 °C > 90/min > 90/min > 10,5 g/dl < 10,5 g/dl > 30 > 30 Significativo Megacolon Dolorabilità Dolorabilità + distensione
I disturbi possono simulare la presenza di emorroidi, anche se in questo caso è presente più spesso stipsi. Nella proctite ulcerosa il quadro clinico può limitarsi a questo anche se, in genere, è coinvolto sempre, almeno in una certa misura, anche il colon. In presenza, invece, di colite ulcerosa vera e propria, la sintomatologia è più importante e di entità diversa in rapporto all’estensione del tratto di intestino colpito dalla malattia. Le forme più lievi possono essere molto simili alla proctite, ma le feci sono diarroiche e possono contenere sangue mescolato con esse e non spruzzato sopra perché proviene da tratti più prossimali del colon e quindi viene rimescolato insieme al contenuto intestinale. I movimenti peristaltici possono, nelle forme più gravi, provocare la comparsa di dolori di tipo colico diffusi ai diversi quadranti addominali; inoltre, in rapporto all’intensità delle manifestazioni infiammatorie, può essere presente febbre, talora anche molto elevata. Non si verifica malassorbimento; non si rilevano obiettivamente tumefazioni addominali; non si formano, di regola, fistole. La malattia ha un andamento tipicamente ciclico con alternanza di fasi di quiescenza e di fasi di riacutizzazione, che spesso coincidono con traumi psichici, stati d’ansia, preoccupazioni, a conferma dell’importanza dei fattori psicologici nell’ambito di questa malattia. Dal punto di vista clinico vengono distinte forme lievi, moderate e gravi della malattia; a questo proposito la più nota classificazione è quella di Truelove e Witts, che riportiamo nella tabella 24.9. Il quadro clinico è sempre dominato da disturbi soggettivi; quelli obiettivi sono di regola modesti, almeno nella maggior parte dei casi: l’addome può presentare una variabile dolorabilità alla palpazione ma, di regola, senza difesa muscolare, in quanto le lesioni non si estendono al peritoneo. E. Diagnosi 1. Gli esami di laboratorio non sono specifici; nei periodi di acuzie della malattia si possono trovare alterati i segni di fase acuta: aumento della VES, mucoproteine e 2-globuline e positività della PCR; è presente spesso
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anche leucocitosi neutrofila. Interessante è ricordare che in questa malattia (talora anche nel Crohn) si riscontrano a volte, nel siero, anticorpi anticitoplasma dei neutrofili (ANCA, generalmente P-ANCA), presenti più spesso in alcune vasculiti (Cap. 69). 2. L’esame radiologico fondamentale è il clisma opaco (solfato di bario per clistere), il quale deve essere effettuato con cautela e a bassa pressione per evitare che pressioni elevate provochino, per l’aumentata fragilità della parete del colon, fenomeni di perforazione. Il clisma opaco è significativo se le lesioni interessano tratti estesi del colon (praticamente normale, invece, nella proctite ulcerosa); in questo caso, a grande riempimento, il colon assume un aspetto caratteristico detto “a tubo di stufa”, liscio per la perdita del regolare disegno ad austrature che conferiscono normalmente un tipico aspetto a salsicciotto dovuto alla successione delle contrazioni segmentarie che servono a mescolare il contenuto intestinale (Fig. 24.4).
A.
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A piccolo ingrandimento, si possono vedere diffuse irregolarità delle pareti che sono dovute all’alternarsi di ulcerazioni e di pseudopolipi. 3. L’esame più importante dal punto di vista diagnostico è la rettosigmoidoscopia, che permette di osservare direttamente l’aspetto della mucosa del retto, che è sempre coinvolto, del sigma e di parte del colon (l’esplorazione endoscopica di tutto il colon può essere ottenuta mediante pancolonscopia). Normalmente la mucosa si presenta di colore rosa pallido con il fine disegno dei vasi sanguigni in superficie; in caso di colite ulcerosa di grado lieve, la mucosa appare iperemica (aspetto come di velluto rosso) con facile tendenza al sanguinamento; nelle forme più gravi si riscontrano ulcere e pseudopolipi che consentono una diagnosi di certezza. 4. Una tecnica alternativa per la valutazione dell’attività del processo infiammatorio consiste nel determinare l’escrezione fecale di granulociti autologhi marcati con 111In (indio 111) somministrati per via ev. Ulteriori indicazioni possono essere fornite dalla scintigrafia intestinale con granulociti marcati con 111In o 99Tc (tecnezio 99): tale tecnica consente di visualizzare l’estensione della malattia e la sua attività, che risultano correlate con l’intensità di fissazione del tracciante. Infatti, la scintigrafia è in grado di valutare l’estensione del processo flogistico con un’accuratezza paragonabile a quella delle indagini radiologiche o endoscopiche; l’intensità di captazione delle cellule nei segmenti intestinali interessati dalla malattia è strettamente correlata con il grado di attività del processo infiammatorio, mentre la determinazione della radioattività fecale ne è una misura diretta e precisa. La diagnosi differenziale va posta soprattutto con la malattia di Crohn, da cui la colite ulcerosa viene distinta sia per le diverse caratteristiche del quadro anatomopatologico sia per alcune caratteristiche cliniche (le principali caratteristiche distintive tra le due affezioni sono riportate nella tabella 24.10). Più semplice, anche sul piano clinico, la distinzione nei confronti del cosiddetto colon irritabile. Non sempre agevole, invece, la diagnosi differenziale nei riguardi di altre patologie, come la colite acuta infettiva, la colite pseudomembranosa, l’amebiasi e talora il linfoma addominale o la tubercolosi intestinale. F. Complicanze. Si possono distinguere quelle locali e quelle generali.
B.
Figura 24.4 - Aspetto radiologico del colon. A. Con le tipiche austrature. B. Con aspetto caratteristico “a tubo di stufa” nella colite ulcerosa.
1. La complicanza locale più frequente è il sanguinamento legato alla presenza delle ulcere della mucosa con possibile stillicidio cronico ed insorgenza di anemia sideropenica; in taluni casi si possono avere emorragie cospicue con sviluppo di anemia acuta postemorragica. Piuttosto rara (4% circa dei casi), ma più comune che nel Crohn, è l’insorgenza di perforazione, che può verificarsi in relazione all’approfondamento delle ulcere oltre la tonaca sottomucosa oppure in seguito a manovre diagnostiche imprudenti (clisma opaco ad alta pressione). Insolita è la fistolizzazione, assai più rara che nel
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MALATTIE DELL’APPARATO DIGERENTE
Tabella 24.10 - Caratteristiche differenziali delle malattie infiammatorie intestinali. COLITE ULCEROSA
MALATTIA DI CROHN
• Caratteristiche anatomopatologiche – Lesioni segmentarie – Interessamento transmurale – Formazione di granulomi – Formazione di microascessi – Fibrosi – Interessamento linfonodale – Interessamento rettale
– Raro – ++ + – +++ (95%)
+++ ++ ++ (50%) Rara ++ ++ +
• Caratteristiche cliniche – Diarrea – Proctorragia – Dolore addominale – Massa addominale palpabile – Fistole – Megacolon tossico – Carcinoma del colon
+++ ++ + – Molto rare + +
++ + ++ ++ +++ – Molto raro
– 95% +++ Indenne Indenne Diffusamente iperemica Presenza di pseudopolipi Perdita del disegno plicale A tubo di stufa
+++ + (meno del 50%) +– Stenotico A volte coinvolto Aspetto a ciottolato irregolare
• Caratteristiche endoscopiche e radiologiche – Lesioni segmentarie – Interessamento rettale – Friabilità della mucosa – Ileo terminale – Ileo prossimale – Aspetto della mucosa (in endoscopia) – Aspetto del contorno intestinale (in radiologia)
Crohn, per un approfondamento delle ulcerazioni fino ad interessare l’intero spessore della parete intestinale e di cui la variante più comune è quella di una fistola rettovaginale che si osserva talvolta nella donna. Altra complicanza locale è la stenosi, che può subentrare quando si sviluppino, tra una fase di riacutizzazione e l’altra, processi di cicatrizzazione tali da provocare un restringimento cospicuo nel lume intestinale. È possibile anche l’insorgenza di megacolon tossico (5-7% dei casi), soprattutto nelle forme più gravi, in cui il processo infiammatorio coinvolge i plessi nervosi mioenterici e provoca paralisi con distensione del colon (si ammette la presenza di megacolon tossico se il diametro del colon trasverso raggiunge almeno i 10 cm). Si tratta di una condizione molto grave, perché in questo caso, attraverso la mucosa, possono essere assorbite numerose sostanze tossiche per l’organismo con conseguenze anche estremamente importanti e, talora, anche fatali. Dal punto di vista clinico, questa complicanza è caratterizzata dalla presenza di sintomi e segni di interessamento peritoneale (dolori addominali ingravescenti, notevole distensione gassosa delle anse intestinali, pallore, disidratazione, tachicardia, febbre e, talvolta, confusione mentale; tipica è la riduzione delle scariche dell’alvo con l’insorgenza del megacolon tossico); macroscopicamente il colon appare assottigliato e fragile con saltuaria evidenza di microperforazioni; le alterazioni istologiche non differiscono, nel complesso, da quelle osservate nella colite ulcerosa grave, ma in modo caratteristico sono transmurali e coinvolgono tutte le tonache della parete fino alla sierosa.
Frammentato
Infine, tra le complicanze locali di questa malattia, va ricordato il carcinoma del colon: l’incidenza di questa patologia, nell’ambito dei pazienti con colite ulcerosa, è molto controversa. Infatti, le svariate indagini eseguite in tal senso mostrano che la prevalenza del carcinoma del colon, in presenza di pancolite, è compresa tra il 5 e il 40% dei casi (contro un rischio atteso nella popolazione generale del 2%). Nei pazienti con colite ulcerosa la neoplasia può manifestarsi in maniera più uniforme per quel che riguarda la sua distribuzione nel colon, a differenza di quanto si verifica nella popolazione generale, in cui essa insorge con maggiore frequenza a livello della giunzione retto-sigma, dove, peraltro, è anche più facilmente diagnosticabile. Un ulteriore elemento che rende più ardua l’identificazione della neoplasia in questi pazienti è costituito dall’aspetto che la mucosa assume, spesso irregolare, con ulcerazioni e pseudopolipi, tanto da non consentire facilmente il riconoscimento radiologico e/o endoscopico di una neoformazione di piccole dimensioni. In ogni caso, quali che siano le reali dimensioni del problema, appare evidente che il rischio di questa complicanza non è omogeneamente distribuito tra tutti i pazienti: in particolare, tra i fattori di rischio generici, gli unici che abbiano retto ad una rigorosa verifica clinica sono la diffusione delle lesioni e la durata della malattia. Scarso rilievo sembrano avere, invece, l’età di insorgenza della colite ulcerosa, la gravità del quadro clinico, l’andamento cronico continuo senza remissioni, la presenza di complicanze extraintestinali e le terapie praticate.
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Il maggior rischio in relazione allo sviluppo di carcinoma del colon è costituito in assoluto dalla estensione della malattia: l’interessamento di tutto il colon anticipa di almeno 10 anni l’epoca di insorgenza della neoplasia rispetto ad un quadro di colite sinistra (del tutto trascurabile sarebbe, peraltro, il rischio nei pazienti portatori di semplice proctite). Per quanto concerne la durata della malattia in relazione all’insorgenza di questa neoplasia, non sembra più avere significato la vecchia segnalazione di un intervallo libero di almeno 25-30 anni: studi recenti sembrano evidenziare, infatti, un aumento del rischio già a partire dagli 8-10 anni dall’esordio del quadro clinico della malattia (in media esso comincia ad aumentare dopo 10-15 anni dall’epoca delle prime manifestazioni cliniche; l’incidenza complessiva nei pazienti con pancolite è compresa tra lo 0,5 e l’1,0% per anno). Possibile, per quanto raro, è anche il riscontro di colangiocarcinoma nei soggetti con colangite sclerosante complicante la colite ulcerosa (Cap. 31). 2. Le complicanze di carattere generale sono in parte le stesse della malattia di Crohn: per esempio, anche nella colite ulcerosa si possono riscontrare manifestazioni cutanee (eritema nodoso, pioderma gangrenoso) o mucose (stomatite aftosa), manifestazioni oculari (cheratocongiuntivite flittenulare, uveite), manifestazioni articolari (artrite, spondilite anchilosante). Nella colite ulcerosa, però, si possono instaurare altre complicanze che sono in genere estremamente più rare nel Crohn e sono quelle a carico del fegato e delle vie biliari. La più comune è la colangite sclerosante, processo infiammatorio che coinvolge le più sottili vie biliari intraepatiche ed extraepatiche con formazione di tessuto fibroso che provoca un progressivo restringimento di queste ramificazioni e, quindi, comparsa di colestasi (Cap. 31). L’eziopatogenesi di questa malattia è sconosciuta, ma l’ipotesi più probabile è che sia in gioco un meccanismo autoimmunitario, lo stesso che provocherebbe l’insorgenza, nei pazienti con colite ulcerosa, di epatite cronica attiva e di cirrosi biliare primitiva con frequenza superiore a quella che si osserva nella popolazione generale. Infine, va segnalato che in questa malattia è più elevata l’incidenza di carcinomi delle vie biliari. G. Decorso e prognosi. La malattia ha andamento ciclico con alternanza di fasi di quiescenza e di fasi di riacutizzazione. La mortalità dell’attacco acuto iniziale è intorno al 5% ed è correlata in genere all’estensione della malattia (più elevata in caso di pancolite), all’età del paziente (specialmente se al di sopra di 60 anni) ed all’eventuale insorgenza di megacolon tossico. Per quanto riguarda la forma cronica della colite ulcerosa, che è di gran lunga la più frequente, la prognosi è alquanto variabile, in genere più favorevole per le forme localizzate al colon sinistro e per la proctite ulcerosa, mentre è abitualmente peggiore nelle forme più estese (nella pancolite, meno del 50% dei pazienti sopravvive a 15 anni di distanza dall’esordio della malattia).
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H. Terapia. La terapia medica, fondata essenzialmente sull’impiego della salazopirina (o dell’acido 5-aminosalicilico) e dei corticosteroidi consente di ottenere la remissione nelle forme acute di colite ulcerosa in circa il 90% dei casi. I corticosteroidi (sia per via sistemica sia per via topica rettale) rappresentano certamente il cardine della terapia nelle fasi acute della malattia sicuramente nelle forme gravi, ma anche in quelle moderate, mentre, in quelle lievi, è sufficiente, di solito, il ricorso alla salazopirina o all’acido 5-aminosalicilico per via sistemica (orale) e/o rettale (quest’ultima di per sé adeguata al controllo della malattia nelle forme a localizzazione più distale, retto o retto-sigma). In sostanza, la terapia medica ricalca a grandi linee quella della malattia di Crohn: anche qui, nelle forme più gravi, in fase di acuzie, è indispensabile l’impiego degli steroidi (prednisone: 0,75-1,0 mg/kg/die) eventualmente in associazione con la ciclosporina A nei casi in cui il quadro clinico non migliori rapidamente con il cortisone da solo. Tuttavia, a differenza che nella malattia di Crohn, nella colite ulcerosa gli antibiotici sono di scarsa utilità. Nelle forme cortico-resistenti o cortico-dipendenti, anche nella colite ulcerosa come nel Crohn si farà ricorso agli immunosoppressori per uso “cronico” (azatioprina o 6-mercaptopurina; meno il metotrexate e la ciclosporina A). Nelle fasi di acuzie delle varianti più gravi, inoltre, il paziente andrà alimentato con nutrizione parenterale “totale” (mettendo a riposo l’intestino per favorire la risoluzione del processo infiammatorio) e, in genere, sarà utile l’impiego di antibiotici (aminoglicosidi più teicoplanina o vancomicina o metronidazolo). Negli ultimi anni sono stati sperimentati nuovi farmaci per la terapia della colite ulcerosa, come i cortisonici a scarso assorbimento e con elevato metabolismo epatico di “primo passaggio” (per ridurre gli effetti collaterali degli steroidi in caso di uso prolungato), ma i risultati conseguiti con la budesonide, il beclometasone dipropionato, il tixocortolo pivalato e il fluticasone propionato sono stati solo parzialmente confortanti. Qualche beneficio sembra derivare anche dagli acidi grassi a catena corta per uso topico (acetato, butirrato, propionato), poiché da essi si formano nell’intestino i corpi chetonici da cui le cellule del colon traggono anche il 75% dell’energia necessaria al proprio metabolismo, o anche dagli acidi grassi omega-3 (olio di pesce) per os (come l’acido eicosopentaenoico), che deviano il metabolismo dell’acido arachidonico verso prodotti ad attività proinfiammatoria modesta rispetto a quelli che normalmente hanno origine da questa sostanza (leucotrieni in particolare). Sempre nell’ambito degli aspetti inerenti alla terapia medica della colite ulcerosa, discusso è il ruolo della psicoterapia, che, comunque, si dimostra efficace, generalmente in associazione con la restante terapia medica, in una discreta percentuale di pazienti (circa il 50%). Bisogna poi ricordare che, nel 75% circa dei casi in cui si ottiene la remissione clinica, si va incontro nel
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tempo allo sviluppo di recidive e che, nel 20-25% di questi pazienti, si rende necessario il ricorso alla terapia chirurgica. Quest’ultima può essere presa in considerazione quando la malattia diviene fortemente debilitante per il paziente, ne limiti sensibilmente l’attività o in presenza di complicanze di rilievo (perforazione, emorragia massiva, megacolon tossico, eventuale degenerazione neoplastica). L’intervento chirurgico consiste in una colectomia totale o subtotale e rappresenta, comunque, in ogni caso (come nel Crohn) l’alternativa ad una terapia medica non efficace.
DISTURBI FUNZIONALI DELL’APPARATO DIGERENTE Disturbi funzionali dello stomaco I disturbi funzionali dello stomaco possono essere molteplici, ma per semplicità di esposizione vengono prese in esame le due condizioni principali: • aerofagia; • dispepsia funzionale. Aerofagia Per aerofagia si intende l’ingestione di aria. Anche in condizioni normali, lo stomaco contiene sempre una certa quantità di aria, la quale riempie il fondo gastrico generando l’immagine radiologica della cosiddetta “bolla gastrica” (area iperchiara in corrispondenza del fondo gastrico subito al di sotto dell’emidiaframma sinistro). Obiettivamente, alla percussione si apprezza, in questa sede, un suono iperfonetico ed iperchiaro con un timbro timpanico: quest’area si proietta sulla parete anteriore dell’emitorace sinistro a livello del cosiddetto spazio semilunare di Traube, delimitato medialmente dal margine epigastrico del fegato e dalla punta del cuore, superiormente dal margine inferiore del polmone sinistro, inferiormente dall’arcata costale sinistra e lateralmente dalla milza. L’aria viene ingerita normalmente durante la deglutizione (al di fuori di questa, infatti, lo sfintere esofageo superiore è contratto), ma non può evidentemente accumularsi nello stomaco perché questo si dilaterebbe in maniera eccessiva, per cui deve essere almeno in gran parte eliminata (ogni deglutizione, infatti, convoglia verso lo stomaco circa 3 ml di aria, e ciò significa vari litri di gas in un giorno). Una parte di quest’aria percorre il canale alimentare e giunge nell’intestino, dove normalmente è presente una certa quantità di gas (a digiuno circa 200 ml), che parzialmente è costituita dall’aria deglutita e in parte proviene dai processi putrefattivi e fermentativi, che si svolgono abitualmente in questa sede a partire dalle sostanze di origine alimentare per opera della flora batte-
rica intestinale, con formazione soprattutto di CO2, N2, e CH4, ma anche H2 e O2. I gas sono in parte eliminati attraverso le eruttazioni, in parte vengono assorbiti ed eliminati con l’aria espirata (specialmente H2 e CH4), ma la maggior quantità viene espulsa con flatulenze attraverso il retto (in media circa 500 ml al giorno). Esistono persone che abitualmente introducono quantità di aria eccessive: si tratta, in genere, di soggetti ansiosi con impronta ipocondriaca (hanno esagerato timore della malattia organica e concentrano per un processo di somatizzazione la propria attenzione sulle funzioni gastriche), i quali tendono a deglutire spesso saliva ed insieme con questa “ingoiano” aria (questa viene ingerita soprattutto se il momento della deglutizione della saliva avviene dopo un’inspirazione profonda, come si verifica, per esempio, sospirando, quando cioè esiste una più marcata depressione intratoracica). Inoltre queste persone, essendo persuase di avere lo stomaco dilatato e di avere la necessità di frequenti eruttazioni, cercano di forzare queste ultime, ma questo è possibile solo ingoiando altra aria che, però, non sempre può essere eliminata completamente (viene espulsa quella presente in esofago, ma non quella che si trova nello stomaco), per cui in tutti questi casi il problema della aerofagia, anziché migliorare, tende ad aggravarsi. Clinicamente, quando la quantità di aria ingerita aumenta in maniera considerevole, si può configurare la cosiddetta sindrome aerofagica, che è caratterizzata da sensazione di ripienezza postprandiale, distenzione addominale e frequenti eruttazioni, che possono anche essere assai intense e sono spesso seguite dalla scomparsa o dall’attenuazione della sintomatologia. In qualche caso (e la cosa è particolarmente frequente proprio nei soggetti ansiosi), per ragioni riflesse, si possono manifestare anche dolore in sede toracica, specialmente retrosternale, e talora anche disturbi del ritmo cardiaco con insorgenza di extrasistoli, persuadendo ancor più questi pazienti di essere portatori di vera e propria malattia e, quindi, rafforzandoli nella loro ipocondria. L’aerofagia non costituirebbe un vero e proprio disturbo se l’attenzione del paziente non si polarizzasse sulle fastidiose sensazioni che ne derivano; esiste, cioè, un notevole divario tra l’entità della “malattia” rilevabile obiettivamente in rapporto all’alterazione dei parametri funzionali (che, se presente, è sempre trascurabile) e quella della sintomatologia soggettiva lamentata. Il sentirsi malato, soprattutto nelle persone ansiose, deriva largamente dal polarizzare l’attenzione su certe funzioni organiche e, nel caso particolare della sindrome aerofagica, il focalizzarsi sulla sensazione di tensione epigastrica finisce per peggiorare le cose, inducendo questi soggetti, come si è detto, a compiere eruttazioni forzate che risultano in pratica controproducenti. Quando l’aria presente in eccesso giunge nell’intestino (dove si trovano già i gas qui prodotti), si può instaurare meteorismo, il quale, dal punto di vista clinico, è caratterizzato da gonfiore e tensione dolorosa addominale con importante e diffuso timpanismo alla percussione e con quelle sensazioni di gorgoglio dovute al passaggio dell’aria attraverso le anse intestinali, che
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vengono chiamate borborigmi (la causa più frequente del meteorismo è l’esistenza di alterazioni della motilità e del transito, mentre minore importanza sembra possedere la maggior produzione di gas da parte della flora batterica intestinale). L’approccio terapeutico più razionale in questi casi è rappresentato soprattutto da un adeguato rapporto con il paziente, in maniera che questi sia correttamente informato sulla reale limitata importanza dei suoi disturbi; eventualmente si potrà cercare di influenzare con terapia medica la motilità intestinale mediante farmaci in grado di ridurla (come gli anticolinergici) o di incrementarla (metoclopramide, domperidone cisapride, ecc.). Dispepsia funzionale Per dispepsia si intende il complesso dei disturbi soggettivi che conseguono ad alterazioni organiche o funzionali del tratto digestivo superiore (la dispepsia organica e quella funzionale sono ugualmente frequenti: 50% rispettivamente dei casi). Nella popolazione generale, la prevalenza di questa condizione è compresa tra il 20 e il 40%; i soggetti con dispepsia rappresentano il 35-50% dei pazienti che si sottopongono a visita specialistica gastroenterologica e la dispepsia è responsabile del 5-10% di tutte le visite ambulatoriali dei medici di famiglia (e ciò pur tenendo conto del fatto che non più di 1/4 dei pazienti con dispepsia recente consulta il medico per tale motivo). La dispepsia organica può riconoscere cause diverse. • Malattie gastroenteriche: ulcera peptica, reflusso gastroesofageo, patologie delle vie biliari (litiasi biliari, ecc.), gastrite, duodenite, pancreatite, neoplasie dell’apparato digerente, sindromi da malassorbimento, ecc. • Malattie metaboliche: diabete mellito, malattie della tiroide, iperparatiroidismo, alterazioni elettrolitiche, ecc. • Farmaci: FANS (antinfiammatori non steroidei), antibiotici, digitale, teofillina (metilxantine in genere), ecc. • Altre malattie: cardiopatia ischemica, collagenopatie (sclerosi progressiva sistemica), ecc. Per quanto riguarda la dispepsia funzionale, la vecchia classificazione in: 1. dispepsia ulcer-like (similulcerosa); 2. dispepsia dismotility-like (da disordini della motilità); 3. dispepsia biliary-like (da patologie delle vie biliari; 4. dispepsia gerd-like (da GERD, reflusso gastroesofageo) è oggi abbandonata; in particolare si tende adesso a tenere distinta la dispepsia da altre condizioni quali la sindrome dell’intestino irritabile (si veda in seguito) e la malattia da reflusso gastroesofageo (si veda Cap. 22), che presentano caratteristiche cliniche e meccanismi fisiopatologici differenti. Attualmente le sindromi dispeptiche vengono distinte in tre varianti principali.
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1. Dispepsia ulcer-like, il cui quadro clinico è caratterizzato da dolore (epimesogastralgie) spesso alleviato dal cibo e/o dagli antiacidi, dolore che insorge frequentemente prima dei pasti, a volte periodico e/o notturno. 2. Dispepsia dismotility-like, caratterizzata da nausea e/o vomito (una o più volte al mese), gonfiore o distensione epigastrica (per meteorismo eccessivo), anoressia e/o calo ponderale, dolore spesso aggravato dall’assunzione di cibo, presente soprattutto dopo i pasti (con sensazione di ripienezza postprandiale) e alleviato dalla eruttazione. 3. Dispepsia essenziale, con sintomi sfumati che non rientrano con certezza nelle varianti 1. e 2. L’eziopatogenesi della dispepsia funzionale è sconosciuta, ma si formulano in proposito alcune ipotesi. In tutte le forme di dispepsia di questo tipo, controverso è il ruolo della dieta: soltanto allergie alimentari e assunzione di cibi molto ricchi di grassi sembrano avere un effetto rilevante nella patogenesi dei disturbi (i grassi, in particolare, rallentano lo svuotamento gastrico e possono indurre sintomi quali sazietà precoce e distensione addominale). È opportuno, in questo senso, che il paziente tenga un “diario alimentare” in maniera da evitare quegli alimenti che provocano maggiori fastidi (oltre ai grassi, per es., menta, cioccolato, bevande acide, ecc.) e che siano limitate o, meglio, soppresse alcune abitudini voluttuarie come alcool e fumo; i pasti devono essere piccoli e frequenti, e non veloci perché la masticazione sia completa. Anche lo stress può essere nocivo, mentre per quanto riguarda la secrezione cloridropeptica non sono state evidenziate differenze significative nella secrezione acida basale e dopo stimolo tra soggetti con dispepsia e soggetti normali, né è stata dimostrata una relazione tra entità della secrezione acida ed intensità della sintomatologia dispeptica, per quanto in una discreta percentuale di casi sia stato osservato un significativo beneficio con l’impiego di antiacidi (forse per una più elevata sensibilità delle cellule della mucosa gastrica a concentrazioni di idrogenioni intraluminali ancora nei limiti di norma). Nella dispepsia dismotility-like è stata ipotizzata l’esistenza di un’alterazione della motilità gastroduodenale, specialmente a livello antropilorico (ridotta motilità antrale e rallentato svuotamento gastrico si riscontrano nel 40-50% dei casi), così come di un’alterazione della secrezione di ormoni e/o neuropeptidi in grado di influenzare la motilità gastroenterica (motilina, colecistochinina-pancreozimina, prolattina, ecc.); inoltre è stata descritta, in questi pazienti, un’anomalia della sensibilità viscerale autonomica con ridotta soglia sensitiva alla distensione gastrica, anche se non è chiaro a quale livello sussista tale alterazione (per abnorme comportamento dei recettori della parete dello stomaco e/o della modulazione del segnale lungo le vie di conduzione e/o dell’elaborazione centrale dello stimolo proveniente dalla periferia).
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In tutte le forme di dispepsia funzionale, infine, è controverso il significato eziopatogenetico dell’H. pylori, responsabile, come già detto in altro capitolo, della gastrite antrale (gastrite B): il batterio è presente nel 50-60% di questi pazienti, soprattutto in quelli con dispepsia ulcer-like, ma la sua eradicazione non è sempre accompagnata dalla risoluzione della sintomatologia. Quanto alla terapia, è importante rassicurare il paziente riguardo l’assenza di patologia organica e il carattere benigno e a prognosi favorevole di questa condizione: ruolo decisivo, in questo ambito, è quello del buon rapporto medico-paziente, della capacità del medico di comprendere la natura dei sintomi, l’influenza che essi hanno sulla vita di relazione del paziente, ecc. (tutto ciò implica, da parte del curante, sincera disponibilità all’ascolto). È opportuna, inoltre, un’anamnesi accurata a proposito delle abitudini voluttuarie come alcool e fumo, l’abuso di farmaci (per es., FANS) e si deve raccomandare, come già è stato sottolineato, una dieta equilibrata con preferibilmente pasti piccoli e frequenti (e non veloci). Riguardo alla terapia eziologica, è consigliato in questi casi, secondo le indicazioni della Consensus Conference di Maastricht del 1996 (si veda il Cap. 22), il trattamento eradicante dell’infezione da H. pylori, per quanto i risultati non siano sempre soddisfacenti. Nella dispepsia ulcer-like sarà utile l’impiego di antisecretivi (anti-H2 come la ranitidina), antiacidi (idrossido di magnesio e alluminio, magaldrato anidro) e citoprotettori (sucralfato, sulglicotide, bismuto colloidale subcitrato). Nella dispepsia dismotility-like, più efficace sarà il ricorso a procinetici (antagonisti dei recettori 5-HT3 e agonisti dei recettori 5-HT4 della serotonina come cisapride e clebopride e/o antagonisti dei recettori della dopamina come metoclopramide, domperidone, levosulpiride) e ansiolitici e/o antidepressivi a basse dosi (benzodiazepine, amitriptilina), questi ultimi tenendo conto della rilevanza della componente funzionale sempre presente in questi soggetti. Il trattamento va proseguito per 4-8 settimane con ulteriori cicli più brevi di 2-3 settimane ciascuno, con gli stessi farmaci o, in caso di scarso successo, con farmaci alternativi.
Disturbi funzionali del colon I disturbi funzionali del colon costituiscono un argomento molto importante perché rappresentano circa il 30-50% di tutta la patologia gastroenterica. La maggior parte dei pazienti che vengono seguiti nella pratica ambulatoriale con disturbi cronici a carico dell’apparato digerente presenta problemi di questa natura. Di fondamentale importanza, in questo senso, è il comportamento della motilità del colon, alle cui modificazioni si correla l’insorgenza della maggior parte di questi quadri clinici. Il colon, in condizioni normali, presenta due tipi di movimenti: quello più comune consiste nella formazio-
ne di anelli di contrazione della muscolatura liscia che danno luogo alle cosiddette austrature; in questo modo il contenuto intestinale viene per così dire segmentato e quindi, nello spazio compreso tra due austrature successive, può essere adeguatamente rimescolato e portato a contatto con la mucosa della parete. Le contrazioni che concorrono alla formazione delle austrature (contrazioni segmentarie trasversali di rimescolamento) si susseguono ogni 4-5 min e, di solito, dopo una serie di contrazioni ne segue un’altra che è sfasata rispetto alla precedente (l’austratura dell’una corrisponde alla fase di distensione dell’altra), in maniera che il regolare funzionamento dell’attività motoria assume grande importanza nell’ambito delle due fondamentali attività funzionali del colon: il riassorbimento dell’acqua e l’immagazzinamento delle feci. Normalmente, attraverso la valvola ileo-cecale, giunge nel colon circa 1 litro di materiale fluido intestinale nelle 24 h, mentre la quantità che viene giornalmente eliminata corrisponde a circa 150 ml, per cui una gran parte (85%) del contenuto idrico presente nel colon viene riassorbita durante il transito in questa parte dell’intestino. L’altra funzione delle austrature è quella di trattenere il contenuto intestinale facendo da serbatoio delle feci e questo ha notevole vantaggio pratico, in quanto limita la defecazione a poche circostanze, quando è socialmente conveniente. Il meccanismo di espulsione delle feci è, peraltro, legato ad un altro tipo di movimento, rappresentato da contrazioni peristaltiche propulsive che insorgono prossimalmente, percorrono tutto il colon e spingono in avanti il contenuto intestinale; questo secondo tipo di movimento è molto più raro dell’altro, poiché queste onde propulsive si verificano soltanto 2-3 volte nelle 24 h. La regolazione delle contrazioni segmentarie è legata all’attività colinergica, cioè all’attività del sistema parasimpatico, mentre quella delle contrazioni lunghe propulsive è influenzata anch’essa da questo sistema, ma è soprattutto correlata a meccanismi riflessi, nel senso che il meccanismo espulsivo viene messo in atto quando il colon avverte una certa distensione, la quale viene percepita tanto più facilmente quanto minore è la compliance (cioè la distensibilità) del colon e viceversa. Ne consegue che, se il colon è molto distensibile, come per esempio nel megacolon, la sua compliance è molto aumentata e quindi prima che le pareti dell’intestino avvertano la sollecitazione e parta l’impulso alla evacuazione trascorre un intervallo di tempo relativamente prolungato (infatti il megacolon è caratterizzato da una notevole tendenza a trattenere il contenuto intestinale ed a concentrarlo molto per spiccata sottrazione di acqua). Invece, se le pareti del colon sono interessate da un processo flogistico, come nella colite ulcerosa, la distensibilità è minore, la compliance è diminuita e quindi lo stimolo all’espulsione delle feci viene avvertito molto precocemente anche per piccole quantità di contenuto intestinale; in questi casi i movimenti propulsivi divengono più frequenti, favorendo l’insorgenza della diarrea, tipica, per esempio, della colite ulcerosa e di altre malattie del colon.
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È importante anche ricordare che tra i due tipi di movimento descritti sussiste normalmente una relazione inversa, nel senso che se un’onda propulsiva si verifica mentre le austrature sono molto sviluppate, queste ultime rappresentano di per sé un impedimento, cioè costituiscono un ostacolo alla progressione delle onde propulsive stesse. Quindi, se l’attività motoria del colon è aumentata (e le austrature sono molto accentuate), l’attività evacuativa viene ostacolata e si sviluppa tendenza alla stipsi; se, invece, tale attività è diminuita (e le austrature sono poco accentuate), gli ostacoli all’espulsione delle feci risultano minori e si ha tendenza alla diarrea. In particolari situazioni (ileo dinamico), la motilità del colon può essere completamente assente (sia quella segmentaria sia quella propulsiva) ed in tal caso si instaura un quadro di vera e propria paralisi intestinale (all’ascoltazione dell’addome, assenza completa di peristalsi). In condizioni normali, la regolazione dell’alvo è legata ad un corretto equilibrio tra i movimenti di propulsione e quelli di rimescolamento, responsabili della formazione delle austrature; in questo caso la defecazione è regolata dall’attività delle onde propulsive che spingono il materiale fecale verso l’ampolla rettale, la cui distensione determina la partenza di un segnale che provoca l’insorgenza dell’impulso dell’evacuazione. Tale stimolo, nell’uomo, non è così impellente come negli animali perché esistono dei meccanismi di adattamento che sono sotto il controllo della volontà; in particolare la contrazione dello sfintere anale ed il rilasciamento della muscolatura addominale consentono di ridurre la pressione all’interno dell’addome, di aumentare la compliance dell’ampolla rettale e permettono di modulare il meccanismo di espulsione del contenuto intestinale. Colon irritabile I disturbi funzionali del colon possono determinare l’insorgenza di una sindrome clinica molto frequente, denominata colon irritabile, caratterizata da: • disturbi dell’alvo con alternanza di periodi di stipsi e periodi di diarrea; • frequente presenza di dolori addominali; • assenza di alterazioni di tipo organico (sindrome puramente funzionale). È una condizione estremamente comune e rappresenta certamente il disordine digestivo più frequente (30-50% di tutta la patologia gastrointestinale). Colpisce più spesso soggetti giovani-adulti; la maggior parte dei pazienti ha un’età compresa tra i 20 e i 50 anni; in circa il 20% dei casi l’esordio avviene prima dei 20 anni; le donne sono più colpite degli uomini. Gli Autori americani chiamano il colon irritabile preferibilmente “intestino irritabile”, perché si suppone che l’alterazione della motilità correlata a questa condizione non riguardi soltanto il colon, ma anche altri tratti dell’intestino.
Sinonimi attualmente abbandonati per il loro significato equivoco sono quelli di colite spastica e di colite cronica, in primo luogo in quanto questa sindrome non è soltanto di natura spastica ed inoltre perché nel colon irritabile non sono presenti alterazioni flogistiche della parete intestinale. A. Eziopatogenesi. L’eziologia è certamente complessa, ma si ritiene che nella maggior parte dei casi il colon irritabile abbia un’origine psicosomatica, pur non escludendo l’importanza di altri fattori. Molto spesso, infatti, i pazienti con colon irritabile hanno una personalità particolare che è stata definita di tipo ossessivo-compulsivo: in genere si tratta di soggetti ordinati, puntuali, coscienziosi, precisi, metodici, ma vivono questa condizione caratteriale in maniera piuttosto ossessiva e nel contesto di una situazione di conflittualità in cui gli istinti aggressivi vengono continuamente repressi. Proprio a questo difficile equilibrio tra aggressività e repressione è stata ricondotta la diversa tendenza dell’atteggiamento dell’alvo in questi soggetti, nel senso che, nelle fasi in cui il controllo dell’aggressività è incompleto, aumenta la motilità del colon con accentuazione della formazione delle austrature e quindi prevalenza di stipsi, mentre nelle fasi di intensa repressione la motilità diminuisce con riduzione delle austrature e prevalenza di diarrea. D’altronde è esperienza abbastanza comune che persone che devono affrontare situazioni particolarmente impegnative, verso le quali avvertono un senso di timore o disagio, presentano facilmente diarrea. La conoscenza del significato di questa situazione psicologica nell’insorgenza del colon irritabile è molto importante, perché il medico ha il compito di indirizzare questi pazienti verso il riconoscimento della reale origine funzionale dei disturbi gastroenterici evitando di alimentare il sospetto dell’esistenza di una patologia organica e, di conseguenza, la somministrazione cronica di farmaci, non privi a lungo andare di effetti collaterali sfavorevoli. Insieme ai fattori psichici, che rappresentano certamente la condizione più importante, altre circostanze possono giocare un ruolo favorevole nella genesi del colon irritabile come, per esempio, particolari abitudini alimentari (dieta a basso contenuto di scorie, intolleranza verso certi alimenti) o di vita (abitudini sedentarie) o anche farmacologiche (abuso di lassativi). B. Clinica. Nell’ambito della diagnosi di sindrome dell’intestino irritabile, la sintomatologia assume un ruolo centrale. Nel tempo, diversi Autori hanno elaborato elenchi di criteri diagnostici dotati di sensibilità ed accuratezza accettabili (intorno al 70%), dei quali i più seguiti sono quelli di Manning e quelli di Roma. 1. Criteri di Manning: • dolore che si attenua con la defecazione; • feci molli all’insorgenza del dolore;
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• • • •
emissioni più frequenti; distensione addominale evidente; emissione di feci miste a muco; sensazione di evacuazione incompleta delle feci. 2. Criteri di Roma:
a) sintomi continui o ricorrenti per almeno 3 mesi: dolore o fastidio addominale che si attenuano dopo la defecazione o associati a modificazione della frequenza dell’evacuazione e/o della consistenza delle feci; b) alterazione delle caratteristiche dell’evacuazione per almeno il 25% del tempo (3 o più delle seguenti manifestazioni): • alterazione del ritmo delle evacuazioni; • alterazione della consistenza delle feci (aumentata o diminuita; talora feci acquose); • alterazione della defecazione (difficoltosa, impellente, sensazione di evacuazione incompleta); • mucorrea; • sensazione di gonfiore o di distensione addominale. I pazienti con colon irritabile presentano tipicamente disturbi dell’alvo, alcuni con prevalenza di stipsi, altri di diarrea, ma generalmente si alternano in questi soggetti periodi di stipsi e periodi di diarrea di varia durata. L’alterazione più comune è la stipsi, spesso con emissione difficoltosa delle feci, di consistenza aumentata, che vengono talvolta descritte come capriniformi (feci “a palline”), a conferma dell’aumentata formazione delle austrature del colon che costituiscono un maggiore ostacolo alla progressione del contenuto intestinale; altre volte si ha emissione di scibale nastriformi che in qualche modo riproducono la forma del canale intestinale ristretto dalle austrature; frequente è la presenza di muco nelle feci. In altri casi si ha prevalenza di diarrea la quale, a differenza di tutte le forme di diarrea che si verificano nelle malattie del tenue, è dovuta ad eccesso del contenuto idrico (nelle feci non si trovano residui alimentari indigeriti e, infatti, in questi soggetti non si instaura deperimento delle condizioni generali). Questa distinzione è molto importante per riconoscere la sede della affezione responsabile di una diarrea cronica, se a livello del tenue o del colon, tenendo conto che nel primo caso si verifica anche progressivo deterioramento generale in rapporto al malassorbimento sempre presente quando la lesione colpisce il tenue. Frequente è la presenza di dolori addominali: questi non sono molto forti, ma fastidiosi e sono avvertiti di regola durante il giorno, mentre sono assenti di notte; insorgono in momenti diversi senza alcuna relazione particolare con l’assunzione dei pasti; si localizzano a tutto l’addome e spesso hanno carattere vagante, ma la sede più frequente è nel quadrante inferiore di sinistra. I dolori non sono continui e si manifestano per periodi di tempo più o meno lunghi; di regola non impediscono affatto un’esistenza del tutto normale, tuttavia il paziente è sempre infastidito e disturbato e può li-
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mitare anche sensibilmente la propria attività soprattutto in relazione alla diversa entità della componente ansiosa che caratterizza questi soggetti. Spesso i dolori cessano o comunque si attenuano anche notevolmente con la defecazione o anche solo con l’emissione di gas. All’esame obiettivo dell’addome, il colon può apparire contratto, specialmente a livello del discendente e del sigma (quadrante inferiore sinistro): in queste sedi il colon contratto viene apprezzato come una corda un poco dolente alla palpazione, soprattutto quella profonda (corda colica). Esiste sempre un’evidente sproporzione tra la sintomatologia dolorosa riferita soggettivamente e quella provocata dalla palpazione addominale, quest’ultima, in genere, piuttosto trascurabile. C. Diagnosi, decorso, prognosi e terapia. Il colon irritabile è facilmente riconoscibile e non pone particolari problemi diagnostici. Gli esami di laboratorio risultano sempre normali, così come l’esame delle feci, il clisma opaco e l’esame endoscopico del retto, del sigma e del colon, che molto spesso vengono eseguiti per escludere l’esistenza di una patologia di natura organica. La prognosi è buona, in quanto di per sé questa condizione non tende ad evolvere in alcuna malattia organica e, di regola, i pazienti riescono a mantenere il proprio abituale standard di vita. Peraltro il colon irritabile ha durata piuttosto lunga, anche se le differenze tra i singoli casi sono talvolta notevoli e l’andamento dei disturbi è variabile nel tempo prima che questi soggetti raggiungano un migliore equilibrio psichico, che costituisce anche l’unico vero obiettivo di un corretto approccio terapeutico. Nel caso, comunque, di sindrome del colon irritabile con dolore addominale e stipsi è utile un elevato apporto idrico (> 2 litri/die), di fibre (ispagula, ecc.; si veda in seguito), di farmaci ansiolitici (per es., benzodiazepine), procinetici (cisapride, domperidone, ecc.) e antispastici. Tra questi ultimi possono essere utilizzati prodotti diversi come i derivati del bromuro (cimetropio, prifinio, pinaverio, ottilonio bromuro) o anche mebevarina o trimebutina, ecc. In caso di sindrome dell’intestino irritabile con prevalenza di diarrea può essere opportuno il ricorso agli antidiarroici come terapia sintomatica (loperamide, difenossilato, ecc.) oppure ai cosiddetti “probiotici” (fermenti lattici) o agli antibiotici attivi sulla flora batterica intestinale (rifaximina, paromomicina, neomicina, ecc.) Anche in questo caso, peraltro, come nella dispepsia funzionale, è prioritario l’intervento sulle abitudini voluttuarie del paziente: la dieta deve essere equilibrata (i pasti assunti a orari “fissi”, masticando lentamente), evitando quegli alimenti che per esperienza personale sono mal tollerati; l’idratazione deve essere abbondante (sia in caso di prevalente stipsi sia in caso, ovviamente, di diarrea); il fumo e l’alcool vanno ridotti o, meglio, aboliti. È importante mantenere un regolare programma di esercizio e di attività fisica, non rimandare lo stimolo ad evacuare, abituandosi ad andare in bagno preferibilmente sempre alla stessa ora del giorno.
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Tutto ciò può contribuire, se non ad eliminare, almeno ad attenuare, anche in gran parte, la sintomatologia; per quanto riguarda, infine, il trattamento farmacologico, esso non solo andrà personalizzato, ma anche messo in atto soltanto quando l’approccio educazionale e nutrizionale risultino inefficaci.
• Diarrea motoria: un transito intestinale accelerato può costituire il fattore determinante o favorente la diarrea, in quanto riduce i tempi utili per i normali processi di digestione e di assorbimento, come si verifica nella sindrome del colon irritabile, oppure in seguito ad ipersecrezione di serotonina (sindrome del carcinoide) o anche dopo vagotomia.
Diarrea
Questi modelli fisiopatologici raramente si riscontrano isolati; più spesso, infatti, la diarrea è il risultato della compartecipazione di meccanismi patogenetici differenti: così, per esempio nelle sindromi da malassorbimento si realizzano contemporaneamente, una iperosmolarità intraluminale, una iperattività peristaltica per stimolazione parietale da aumento del contenuto intestinale e, talvolta, se è presente anche un processo flogistico a carico della mucosa, una alterazione dei normali scambi idroelettrolitici. Pertanto una soddisfacente classificazione delle diarree, piuttosto che su distinzioni fisiopatogenetiche, può essere forse meglio formulata in rapporto a criteri eziologici, per cui si rimanda alla trattazione delle singole patologie in cui tale sintomo costituisce una componente importante del quadro clinico.
La diarrea consiste nell’emissione di feci che, per peso globale o per numero di evacuazioni nelle 24 h, superano i valori “normali” (per ragioni scientifiche, si è considerato come indice attendibile l’eliminazione di feci di peso superiore a 200 g al giorno; poiché normalmente le feci contengono circa il 75% di acqua e poiché l’aumento di peso delle feci è in gran parte dovuto al loro contenuto idrico, un altro modo per definire in senso funzionale la diarrea potrebbe essere quello di “malassorbimento di acqua”). Convenzionalmente per diarrea si intende un aumento (> 80%) del contenuto in acqua delle feci che può associarsi ad un aumento della frequenza (> tre volte/die) delle scariche dell’alvo e del peso delle feci (nei Paesi occidentali > 150-250 g/die a seconda dell’apporto di fibre vegetali con la dieta). Una classificazione della diarrea che tenga conto dei meccanismi fisiopatologici attraverso cui si realizza può essere la seguente. • Diarrea osmotica: la presenza nel lume intestinale di eccessiva quantità di materiale osmoticamente attivo richiama abnormemente acqua (questa condizione si può verificare in seguito a maldigestione o malassorbimento alimentare, come nel caso di deficit di lattasi con accumulo di lattosio nell’intestino, o per causa iatrogena, in seguito alla somministrazione di alcuni lassativi, come per esempio il solfato di magnesio). • Diarrea secretiva: esiste un’ipersecrezione attiva di acqua ed elettroliti da parte della mucosa intestinale, come si può verificare in molte infezioni o tossinfezioni intestinali, oppure in affezioni che secernono particolari sostanze ad attività neuroendocrina (come nel colera pancreatico o sindrome di Verner-Morrison, adenoma delle cellule di Langerhans secernente VIP o anche nella sindrome di Zollinger-Ellison per la secrezione di gastrina: queste sostanze attiverebbero l’adenilciclasi di membrana con formazione di AMP ciclico, che stimolerebbe i processi di secrezione mucosa verosimilmente per un aumento di permeabilità delle cellule epiteliali gastroenteriche); una ipersecrezione idroelettrolitica si può instaurare anche per l’effetto lesivo diretto dei sali biliari sulla mucosa del colon. • Diarrea da alterazione della mucosa: lesioni della membrana delle cellule epiteliali possono alterare la permeabilità all’acqua e agli elettroliti, con ripercussioni sugli scambi tra lume intestinale e compartimento extraluminale (situazioni di questo tipo si verificano, per esempio, nella malattia celiaca e nelle malattie infiammatorie croniche intestinali come il Crohn e la colite ulcerosa).
Stipsi La stipsi è un’alterazione dell’alvo caratterizzata dalla emissione infrequente e difficoltosa di scarse quantità di feci di consistenza aumentata per eccessiva disidratazione. La stipsi può essere quantificata in termini di frequenza delle evacuazioni, di consistenza delle feci, di peso giornaliero delle feci, di presenza o meno di fastidio alla defecazione o in base al tempo di transito. Nei Paesi industrializzati dell’Occidente, il peso medio giornaliero delle feci è di 150-250 g con una frequenza, nella gran parte della popolazione, di una evacuazione al giorno. In realtà il peso giornaliero delle feci e la frequenza delle evacuazioni sono influenzati da numerosi fattori culturali e comportamentali, così da variare alquanto nelle diverse comunità (per es., i vegetariani producono una quantità di feci maggiore dei non vegetariani; nei paesi del Terzo mondo, il peso delle feci oscilla tra i 250 e i 500 g/die e può essere anche più elevato in soggetti apparentemente sani). La stipsi si associa, di solito, ad un’evacuzione difficile dovuta sia a sforzo che a fastidio anale per il passaggio di feci dure e disidratate; spesso, inoltre, il paziente riferisce una sensazione di evacuazione incompleta. A. Epidemiologia. Nei Paesi anglosassoni, circa 1 persona su 100 consulta ogni anno il proprio medico di famiglia per stipsi. Stime statistiche dimostrano che intorno al 10% della popolazione generale riferisce stipsi o, comunque, un’evacuazione difficoltosa. Questa condizione è più frequente nel sesso femminile e, nelle donne, anche il tempo di transito tende ad essere più rallentato. La frequenza della stipsi, inoltre, aumenta oltre i 65 anni di età, tanto che almeno 1 anziano su 5 è sofferente di tale disturbo.
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Complessivamente il 99% della popolazione generale dichiara da 3 a più evacuazioni settimanali fino a 3 evacuazioni giornaliere. Il consumo di lassativi è, verosimilmente, un buon indice della prevalenza della stipsi, anche se i lassativi possono essere assunti indipendentemente dalle abitudini alvine, dalla dieta e dal retroterra culturale. Nei Paesi anglosassoni, il 20% circa della popolazione fa uso di lassativi occasionalmente ed il 5% circa più di una volta alla settimana. Il consumo di lassativi aumenta significativamente con l’età: al di sotto dei 20 anni è raro che essi vengano assunti più di una volta alla settimana, mentre tale consumo aumenta fino al 10-15% nella popolazione di mezza età ed al 20-30% in quella di oltre 65 anni. B. Eziopatogenesi. Le cause di stipsi sono piuttosto numerose, ma quelle più frequentemente riscontrate nella pratica sono: dieta incongrua, sedentarietà, mestruazioni e gravidanza, farmaci e sindrome dell’intestino irritabile (colon irritabile). Sostanzialmente due sono i meccanismi patogenetici della stipsi: in primo luogo, nel lume intestinale può essere presente una quantità di materiale insufficiente a stimolare la normale attività motoria (stipsi da dieta a basso contenuto di fibre con riduzione dei processi di fermentazione nel colon); in secondo luogo, la normale attività neuromuscolare del colon e del riflesso anorettale può essere compromessa, come nel colon irritabile, nella malattia diverticolare, nel morbo di Hirschsprung ed in altre forme di megacolon. È opportuno ricordare, peraltro, che nella maggior parte dei casi l’esatto meccanismo patogenetico della stipsi non è stato ancora definito. Le principali condizioni predisponenti a tale disturbo sono le seguenti. 1. Dieta. Il normale contenuto colico è costituito da materiale cellulare (batteri anaerobi e cellule vegetali) mescolato in un gel formato da acqua, glicoproteine (muco) e polisaccaridi di origine batterica. La quantità di massa fecale dipende essenzialmente dalla presenza di cellule microbiche e vegetali. La microflora ricava energia per la propria crescita dai carboidrati di origine sia dietetica che endogena; il contributo dato dal muco è probabilmente trascurabile, considerando che soggetti con dieta priva di fibre producono solo una minima quantità di materiale fecale. Le fibre alimentari sono costituite principalmente da polisaccaridi provenienti dalla parete delle cellule vegetali ed includono molti polimeri di carboidrati costituiti da esosi (glucosio, galattosio), pentosi (xilosio, arabinosio) ed acidi uronici. I carboidrati assunti con la dieta giunti nel colon vengono scissi dalla flora anaerobia fermentativa qui presente, con produzione di acidi grassi a catena corta (o volatili), quali acido acetico, propionico e butirrico, ma anche idrogeno, metano, diossido di carbonio ed energia. È attraverso questi processi fermentativi che i batteri del colon traggono energia e si moltiplicano. Il contenuto in fibre della dieta condiziona il contenuto intestinale e la produzione di massa fecale attra-
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verso quattro meccanismi: a) le fibre non degradate mantengono la loro struttura cellulare e richiamano acqua nel lume intestinale come una spugna, così da aumentare la massa fecale; b) la fermentazione delle fibre e dell’amido stimola la crescita microbica ed aumenta l’escrezione fecale di materiale batterico; c) piccole quantità di gas restano intrappolate in questo materiale, contribuendo ad aumentare la massa fecale; d) l’aumentata massa fecale accelera il transito e riduce la disidratazione del contenuto colico. La dieta a basso contenuto di fibre è un’importante causa di stipsi, soprattutto nei Paesi industrializzati, dove l’apporto di fibre è inferiore a 15 g/die. Proprio a causa della scarsa assunzione di fibre, la stipsi è frequente in soggetti che adottano diete dimagranti, in pazienti con anoressia nervosa, diabetici o con malattia celiaca, dove per ragioni terapeutiche è necessario eliminare alimenti che ne siano particolarmente ricchi (la stessa situazione si può verificare nelle diete seguite in ambiente ospedaliero). 2. Alterazioni motorie. È ampiamente noto che le alterazioni della motilità colica sono una causa frequente di stipsi: alterazioni neuronali determinanti stipsi sono presenti nelle lesioni del midollo spinale, nella malattia di Hirschsprung ed in alcune alterazioni rettoanali, ma non sono state dimostrate in sindromi più frequenti, quali la malattia diverticolare del colon o il colon irritabile. In particolare, in alcuni pazienti, facenti normalmente uso di una dieta appropriata, in cui non è dimostrabile alcuna alterazione colica, si riscontra, peraltro, un rallentamento del tempo di transito intestinale (cioè del tempo impiegato dal materiale alimentare ad attraversare l’intestino, che è un’importante determinante della funzione colica). Infatti, in presenza di un tempo di transito rallentato, i processi di scissione delle fibre avvengono in maniera più completa e la crescita microbica è meno efficace, dando luogo a feci ancor più disidratate e di maggiore consistenza. Ciò si verifica talora in presenza di dolicocolon o di megacolon, o anche in condizioni di assoluta normalità. La stipsi è anche un sintomo prevalente nella malattia diverticolare del colon e nella sindrome del colon irritabile: nella prima è presente un ispessimento della tonaca muscolare del sigma con una aumentata pressione intraluminale in risposta a stimoli prodotti dal cibo e/o da farmaci; nella seconda possono essere presenti alterazioni della motilità colica, di cui si è già detto nel paragrafo precedente. Infine la stipsi, associata ad alterazioni motorie, può essere presente nella cosiddetta malattia di Hirschsprung ed in alcune affezioni del sistema nervoso centrale. La prima, chiamata anche megacolon congenito, è causata dall’assenza congenita a livello della parete intestinale dei plessi di Meissner e Auerbach, di solito limitata ad un segmento distale del colon con dilatazione del segmento ad esso prossimale. In questo caso il riflesso di rilasciamento anorettale è compromesso, cosicché la distensione rettale non produce rilasciamento dello sfintere anale interno con conseguente insorgenza di stipsi. Per quanto riguarda il sistema nervoso centrale, lesioni midollari al di sopra dell’arco lombosacrale (L2),
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pur non associandosi a compromissione dei riflessi anorettali, producono una perdita della sensibilità anale e rettale. Ciò si può verificare in numerose patologie, tra le quali ricordiamo la sclerosi multipla, il morbo di Parkinson e lesioni di varia natura del midollo spinale. 3. Varie. Numerose possono essere le cause di stipsi, la cui corretta interpretazione patogenetica non è tuttora chiara: l’inattività fisica (probabilmente per una ridotta attività motoria del colon), il ciclo mestruale e la gravidanza (forse per squilibri ormonali e per la dislocazione del colon da parte dell’utero gravido), fattori psichiatrici (particolarmente nelle sindromi depressive e nelle demenze), alterazioni endocrine (ipotiroidismo, ipercalcemia, ipopotassiemia), farmaci (soprattutto antiacidi con alluminio, morfina e derivati, anticolinergici, antipertensivi, antidepressivi, preparati a base di ferro). C. Fisiopatologia. Dal punto di vista fisiopatologico esistono tre tipi di stipsi: con transito normale, con transito rallentato e con disordini defecatori o dell’evacuazione rettale. In uno studio eseguito su più di 1000 pazienti con stipsi cronica si è visto che la forma con transito normale è la più comune (59% dei pazienti), seguita dai disordini della defecazione (25%), dal transito rallentato (13%) e da una combinazione di disordini della defecazione e transito lento (3%). Nella più comune forma a transito normale hanno una certa importanza i fattori psicosociali che inducono i pazienti a sopprimere lo stimolo della defecazione. Per lo più non è diminuita la frequenza delle evacuazioni, ma è avvertito il fastidio dell’eliminazione di feci dure e possono coesistere gorgoglii e sensazione di fastidio o addirittura dolore addominale. In questi soggetti può essere presente un diminuito stimolo alla defecazione per aumentata compliance dell’ampolla rettale e ridotta sensazione del suo riempimento. Si tratta di una forma di stipsi che risponde bene all’aumento delle fibre dietetiche, eventualmente con l’aggiunta di un lassativo osmotico. I disordini della defecazione dipendono più comunemente da disfunzione del pavimento pelvico o dello sfintere anale. Quando non avviene la defecazione, il muscolo puborettale, che ha due inserzioni ravvicinate sulla faccia posteriore del pube e avvolge posteriormente ad ansa la porzione inferiore del retto, stira anteriormente quest’ultimo a formare un angolo (angolo anorettale), che è normalmente di 80-110 gradi. Perché la defecazione avvenga, occorre che il muscolo puborettale si rilassi e il pavimento pelvico si abbassi di almeno un cm, in modo da ampliare l’angolo anorettale di almeno 15 gradi. Contemporaneamente si deve rilassare lo sfintere anale. Se questi movimenti non avvengono in maniera coordinata si verifica un disturbo della defecazione. Le cause più comuni di questo tipo di stipsi sono connesse con alterazioni dolorose dell’ano, come ragadi o emorroidi, o del retto, come l’intussuscezione, il rettocele (nelle donne il prolasso della parete anteriore del retto verso la parete posteriore della vagina) o disturbi di motilità del pavimento pelvico.
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La sipsi a lento transito è per lo più dovuta a errate abitudini dietetiche, come poche fibre nell’alimentazione, ma nei casi più gravi può essere anche dipendente da alterazioni nel numero dei neuroni dei plessi mioenterici e diminuita formazione del neurotrasmettitore eccitatorio denominato sostanza P, o da anormalità nella formazione di sostanze inibitorie, come il peptide intestinale vasoattivo (VIP) o l’ossido nitrico. Il megacolon congenito, o malattia di Hirschsprung, è una forma estrema di stipsi a lento transito con simili caratteristiche neuropatologiche. In questo caso il difetto congenito è rappresentato da un arresto della migrazione caudale delle cellule della cresta neurale e dalla conseguente assenza delle cellule gangliari nella parte distale dell’intestino. D. Clinica. Nella maggior parte dei casi una buona anamnesi e una esauriente valutazione clinica generale sono sufficienti per farsi un’idea delle cause della stitichezza. Nella minoranza dei casi che appaiono di più difficile risoluzione occorre praticare valutazioni particolari. In primo luogo si può misurare di quanto si abbassa il pavimento pelvico quando il paziente si rilassa. Un abbassamento di meno di un centimetro indica un disturbo della defecazione. Sono anche opportune un’osservazione della regione anale alla ricerca di fistole o emorroidi esterne e un’esplorazione rettale. Le indagini strumentali sono rappresentate dalla valutazione della velocità di transito attraverso il colon, dalla manometria anorettale, dal test di espulsione del palloncino e dalla defecografia. La velocità di transito attraverso il colon è valutata con una radiografia dell’addome eseguita 120 ore dopo che il paziente ha ingerito un marcatore radio-opaco in capsule gelatinose. La ritenzione di più del 20% dei marcatori indica un transito rallentato. Se questi sono ritenuti solo nella parte bassa del colon sinistro e nel retto, esiste un disordine della defecazione. La manometria anorettale permette di misurare la pressione dello sfintere anale a riposo (prevalentemente quella dello sfintere interno), la massima contrazione volontaria dello sfintere esterno, la presenza o assenza di rilasciamento dello sfintere anale interno alla distensione del retto con un palloncino (riflesso inibitorio anorettale), la sensazione di ripienezza rettale e la capacità degli sfinteri anali di rilasciarsi con lo sforzo defecatorio. L’assenza del riflesso inibitorio anorettale suggerisce la possibilità di una malattia di Hirschsprung. Tuttavia, nella maggior parte dei pazienti, un difetto nel riflesso anorettale è dovuto a ritenzione di feci e diminuita distensibilità dell’ampolla rettale da parte del palloncino. Il test di espulsione del palloncino viene eseguito inserendo nel retto un palloncino di lattice contenente 50 ml di acqua e chiedendo al paziente di espellerlo in un servizio igienico. L’incapacità di espellere il palloncino in 2 minuti suggerisce l’esistenza di un disturbo della defecazione. Infine, la defecografia viene eseguita instillando nel retto un composto di bario molto denso e visualizzando con film radiografici o con video il comportamento
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dell’opacità quando il paziente, seduto su una comoda radiotrasparente, è a riposo, contrae lo sfintere anale o si sforza di defecare. Questa tecnica è utile per valutare se lo svuotamento del retto è completo, per misurare l’angolo anorettale e l’abbassamento del pavimento pelvico e per svelare anomalie strutturali che interferiscono con la defecazione, come il rettocele, il prolasso interno della mucosa o la intussuscezione. E. Terapia. Contrariamente a una opinione largamente condivisa, l’aumento dell’apporto di liquidi non contrasta la stipsi se non nei pazienti disidratati. Anche l’attività fisica non sembra di grande giovamento. È utile invece aumentare l’apporto di fibre nella dieta fino a 20-25 g/die gradualmente in 2 settimane. Questo può essere fatto incrementando il consumo di frutta e verdura, ma anche assumendo supplementi di fibre di origine commerciale. Solo nei casi più ostinati è lecito il ricorso ai lassativi, comunque sempre con moderazione e preferendo fra questi quelli con minori effetti collaterali: quelli che incrementano la massa fecale, quelli emollienti le feci e il
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lattulosio (disaccaride formato da galattosio e fruttosio, non idrolizzato nel piccolo intestino dove esercita attività osmotica; inoltre, giunto nel colon, viene fermentato e riduce il pH; l’effetto globale è un aumento della massa fecale). I cosiddetti lassativi stimolanti aumentano la motilità intestinale e le secrezioni. È stato sostenuto che questi lassativi, a lungo andare, provochino alterazioni organiche del colon, indicate con il nome di “colon catartico” e consistenti in una dilatazione e perdita di austrature. Tuttavia, i dati disponibili non danno supporto a questa teoria. Con i lassativi stimolanti contenenti antrachinoni l’uso prolungato provoca una pigmentazione nero-brunastra della parete del colon (melanosis coli) provocata dall’accumulo di cellule epiteliali apoptotiche che sono state fagocitate da macrofagi. Questa pigmentazione non predispone al carcinoma o ad altre anomalie del colon e scompare sospendendo l’assunzione di questi lassativi. Dati preliminari suggeriscono che l’inoculazione di tossina botulinica nel muscolo puborettale possa essere utile nei disturbi della defecazione. Infine, in casi gravi, si è arrivati alla colectomia e alla ileorettostomia.
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PARTE QUARTA
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS a cura di C. RUGARLI con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di A. FARAVELLI
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C A P I T O L O
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SEMEIOTICA FUNZIONALE DEL FEGATO V. BALDINI
La semeiotica funzionale del fegato è lo studio delle caratteristiche funzionali (e, in parte, anche di quelle anatomiche) di quest’organo attraverso l’esecuzione di indagini di laboratorio e strumentali di vario genere.
ESAMI DI LABORATORIO I diversi test biochimici che servono per indagare lo stato funzionale degli epatociti vengono correntemente indicati come prove di funzionalità epatica. È opportuno, peraltro, ricordare che la maggior parte di questi parametri ematochimici possono assumere un significato ambiguo, nel senso che essi possono risultare alterati non soltanto in corso di malattie epatiche, ma anche in presenza di affezioni di altri organi e apparati, quindi devono sempre essere interpretati criticamente. Occorre, perciò, sottolineare che il giudizio sullo stato funzionale del fegato difficilmente può essere ricavato dal risultato di un semplice esame di laboratorio, ma deve essere acquisito integrando i risultati di parecchi esami ed il quadro clinico del paziente: infatti, anche nel caso delle malattie che interessano il fegato, i sintomi ed i segni che caratterizzano la malattia (adeguatamente raccolti con l’anamnesi e attraverso l’esame obiettivo) rappresentano sempre l’elemento più importante tra tutti quelli che devono essere considerati nell’ambito del problema diagnostico di qualsiasi malattia. Molteplici sono le prove di funzionalità epatica di natura biochimica e, ai fini pratici, vengono solitamente distinti vari gruppi di indagini. Un primo gruppo di esami serve per valutare lo stato degli epatociti (funzionale e, entro certi limiti, anche anatomico). Comprende tre tipi di test. • I primi sono quelli che esprimono lo stato di permeabilità delle membrane cellulari: se esiste una sofferenza degli epatociti, la membrana di queste cellu-
le non è più in grado di svolgere le normali funzioni di barriera e, quindi, è più permeabile che di norma. Naturalmente, questa abnorme permeabilità è soprattutto rilevante in presenza di necrosi degli epatociti quando queste cellule riversano all’esterno tutto il loro contenuto. Questi test sono molto sensibili e mettono in evidenza anche piccole alterazioni funzionali degli epatociti in cui sia presente uno stato di sofferenza della membrana cellulare; se sono alterati in modo elevato, indicano, invece, l’esistenza di un processo necrotico. • Il secondo tipo di esami riguarda le funzioni sintetiche degli epatociti. Queste cellule sintetizzano normalmente una notevole quantità di sostanze e, quindi, attraverso la determinazione della concentrazione di queste nel sangue è possibile avere un’indicazione delle capacità di sintesi degli epatociti. • Il terzo tipo comprende test più complessi, i quali indagano simultaneamente diverse attività funzionali svolte normalmente nelle cellule epatiche. Un secondo gruppo di esami serve per indagare le funzioni escretorie degli epatociti. In realtà un’alterazione di queste indagini può indicare l’esistenza di una lesione sia a livello delle cellule parenchimali sia a livello delle vie biliari intra o extraepatiche; pertanto si tratta di test che consentono di mettere in evidenza un difetto della funzione escretoria epatica, senza indicare la sede della lesione responsabile di tale alterazione. Un terzo gruppo di esami serve per indagare lo stato delle cellule di Kupffer e simultaneamente l’esistenza di particolari condizioni funzionali del sistema immunitario, frequentemente coinvolto nell’ambito delle malattie che colpiscono il fegato. Esiste, infine, un quarto gruppo di esami il quale serve per indagare aspetti particolari della funzionalità epatica e che viene illustrato in seguito.
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MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
Stato degli epatociti A. Permeabilità delle membrane. In presenza di malattie epatiche acute o croniche, si può rilevare nel sangue l’aumento delle concentrazioni di diversi enzimi ed in particolare: • • • •
SGOT (v. n. 0-29 mU/ml); SGPT (v. n. 0-36 mU/ml); LDH (v. n. 80-300 mU/ml); -GT (v. n. 5-36 mU/ml nell’uomo; 4-23 mU/ml nella donna); • OCT (v. n. 8-20 mU/ml); • Aldolasi (v. n. 0,9-6,5 mU/ml). Questi parametri (i valori normali riportati in parentesi ed espressi in milliunità per millilitro possono variare in parte nei diversi laboratori a seconda della metodica impiegata per la loro determinazione) sono i più importanti e i più sensibili. La loro alterazione indica sempre l’esistenza di una modificazione della normale permeabilità della membrana epatocitaria: in caso di lesione degli epatociti e, a maggior ragione, in presenza di necrosi, la membrana di queste cellule non potrà adempiere alla sua normale funzione di barriera permettendo la fuoriuscita degli enzimi intracellulari, la cui concentrazione nel sangue risulterà, perciò, superiore rispetto ai livelli normali. Infatti, bisogna ricordare che piccole quantità di questi enzimi sono sempre presenti in circolo anche in condizioni fisiologiche, per cui il loro incremento non rappresenta un fenomeno del tipo cosiddetto “tutto o nulla”, ma costituisce un fenomeno quantitativo, proporzionale, cioè, al grado della lesione presente a livello della membrana cellulare degli epatociti.
1. SGOT e SGPT. I più importanti enzimi per lo studio dello stadio di permeabilità di membrana sono rappresentati senza dubbio dalle transaminasi: SGOT (siero-glutammico-ossalacetico-transaminasi) e SGPT (siero-glutammico-piruvico-transaminasi). Questi enzimi vengono anche denominati aminotransferasi in quanto determinano, nell’ambito delle reazioni cui prendono parte, lo spostamento di gruppi aminici. Nel caso della reazione che viene catalizzata dalla transaminasi glutammico-ossalacetica, il gruppo aminico proviene dall’acido glutammico che si trasforma in acido -chetoglutarico e reagisce con l’acido ossalacetico, il quale diviene acido aspartico. Questa reazione è reversibile: in tal caso, dall’acido aspartico il gruppo aminico viene donato all’acido -chetoglutarico e si formano acido ossalacetico e acido glutammico (per questa ragione questa transaminasi viene anche chiamata aspartato-transferasi, sigla AST). Nella reazione catalizzata dalla transaminasi glutammico-piruvica, il gruppo aminico dell’acido glutammico viene trasferito all’acido piruvico che diviene alanina, mentre si forma acido -chetoglutarico. Questa transaminasi viene perciò detta anche alanina-transferasi (ALT). Attualmente la terminologia AST e ALT è preferita alla più vecchia definizione SGOT-SGPT. Le transaminasi (come tutti gli enzimi) sono espresse in Unità Internazionali. Ini-
zialmente i laboratori avevano elaborato una serie di unità di misura empiriche che venivano indicate con nomi propri; adesso la tendenza è quella di impiegare delle Unità Internazionali, intendendo con ciò la quantità di enzima che trasforma una micromole del substrato in un minuto. Adottando quindi questa denominazione, si può esprimere l’attività degli enzimi o in Unità per litro o in milliunità per millilitro. Per quanto riguarda le transaminasi, vengono considerati normali i valori fino a 29 mU/ml per la AST e fino a 36 mU/ml per la ALT. In realtà, come è già stato ricordato, questi valori non sono uno standard uguale in tutti i laboratori, poiché in rapporto alle diverse metodiche seguite vi possono essere delle piccole differenze. Le transaminasi non si trovano soltanto nel fegato; una loro alterazione non significa quindi inequivocabilmente che esiste un’epatopatia. Infatti questi enzimi possono aumentare nel sangue anche in corso di lesione di altri tessuti, fondamentalmente quelli muscolari. In particolare, vi è un organo che più di tutti può liberare questi enzimi: il cuore; se si verifica, per esempio, infarto del miocardio, le cellule muscolari necrosate liberano nel sangue le transaminasi che contengono. Anche se più raramente, un aumento delle transaminasi può essere testimonianza di patologia del tessuto muscolare striato (per es., in corso di miosite o dermatomiosite). Quindi, per un’interpretazione corretta di un incremento delle transaminasi, è estremamente importante una valutazione completa e accurata del quadro clinico nella sua totalità. Esistono tuttavia alcuni dati che riconducono un aumento delle transaminasi essenzialmente a una patologia epatica: infatti, in corso di infarto del miocardio si osserva un incremento delle transaminasi di modesta entità (i valori al massimo si quadruplicano) e di breve durata (poco più di 48-72 h); viceversa, in corso di epatopatia, l’incremento di questi enzimi può essere, anche se non obbligatoriamente, molto più elevato raggiungendo talvolta valori di 500-1000 mU/ml e oltre, ma soprattutto appare di durata decisamente superiore. Questo avviene soprattutto quando vi sono lesioni epatiche acute e comunque solo in corso di processi di una certa gravità. Un altro dato che richiama l’attenzione sul fegato è l’incremento più significativo dei valori della ALT rispetto alla AST, a differenza di quello che solitamente accade in presenza di sofferenza miocardica. Anche questo dato, però, deve essere inteso in senso critico, essendo valido solo per aumenti molto elevati; per modesti incrementi è possibile che si verifichi anche il caso contrario, come accade per lo più in corso di epatopatie croniche e cirrosi, a causa di una maggiore compromissione mitocondriale. Infine, ricordiamo la possibilità di discriminare tra lesione epatica e lesione muscolare in presenza di incremento delle transaminasi, dosando l’attività di un altro enzima, la creatinfosfochinasi (CPK), che viene liberato in circolo in misura notevole solo in corso di sofferenza muscolare. 2. LDH (latticodeidrogenasi). Questo enzima catalizza l’ossidazione dell’acido lattico ad acido piruvico. È contenuto in numerosi tessuti e per tale motivo non è un
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indice molto sensibile di alterazione epatocellulare, potendo aumentare anche in corso di infarto del miocardio, necrosi dei muscoli scheletrici, anemie emolitiche, leucemie e processi neoplastici, oltre che in corso di epatopatie acute e croniche. Sarebbe comunque possibile isolare tramite elettroforesi l’isoenzima di derivazione epatica; in realtà, ciò non è mai necessario in quanto è possibile risalire al significato dell’incremento delle LDH da un’analisi dell’intero quadro clinico e degli altri esami di laboratorio. I v. n. sono compresi tra 80 e 300 mU/ml. 3. -GT (-glutamil-transpeptidasi). Viene considerato un enzima specifico del fegato, essendo presente in alta concentrazione sia nell’epatocita che nei dotti biliari. Incrementi notevoli di questo enzima si verificano, in realtà, soltanto in corso di colestasi; tuttavia elevazioni della sua concentrazione possono essere osservate anche in corso di somministrazione di alcuni farmaci quali la difenilidantoina ed i barbiturici, oltre che di tutti i farmaci che possono provocare colestasi. Inoltre questo enzima è particolarmente sensibile all’azione dell’alcool, di cui può, quindi, rivelare l’iniziale epatotossicità. Va ricordato, infine, che in fase di guarigione dell’epatite acuta, la -GT è l’ultima attività enzimatica che si normalizza. I v. n. sono lievemente differenti nei due sessi (nell’uomo 5-36 mU/ml e nella donna 4-23 mU/ml). 4. OCT (ornitil-carbamil-transferasi). Nel complesso il suo comportamento è analogo a quello delle transaminasi, rispetto alle quali è tuttavia meno sensibile come indice di danno epatocellulare acuto o cronico e per tale motivo non viene dosato frequentemente. I suoi v. n. sono compresi tra 8 e 20 mU/ml. 5. Aldolasi. Il suo incremento ha significato analogo a quello delle transaminasi, rispetto alle quali sarebbe un indice più fedele della presenza di un fenomeno necrotico e della sua estensione. Essa aumenta anche in corso di tumori del fegato, distrofia muscolare progressiva, infarto del miocardio, anemie emolitiche e tumori molto estesi. I v. n. sono compresi tra 0,9 e 6,5 mU/ml. B. Funzioni sintetiche. In corso di epatopatie acute, ma soprattutto croniche, le normali attività sintetiche degli epatociti risultano variamente compromesse, per cui si riscontra nel plasma la riduzione di quelle sostanze normalmente prodotte dal fegato: • • • • •
fattori della coagulazione; albumina; pseudocolinesterasi; colesterolo e i suoi esteri; transferrina.
Mentre con i test precedenti si indagava soltanto sullo stato funzionale ed anatomico degli epatociti, con la valutazione di questi parametri è possibile avere delle indicazioni di carattere quantitativo dell’attività del parenchima epatico, vale a dire del numero degli epatociti ancora funzionanti dopo eventuali eventi necrotici, o comunque lesivi, a carico di questo organo. 1. Fattori della coagulazione. Il fegato sintetizza la maggior parte dei fattori responsabili della coagulazio-
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ne del sangue ed in particolare sicuramente il fibrinogeno (fattore I), i cosiddetti fattori vitamina K-dipendenti (II, VII, IX, X) e il fattore V, la cui sintesi è diminuita solo in caso di grave epatopatia. In caso di deficit della funzione sintetica del fegato nei confronti di tali fattori, osserveremo un allungamento del cosiddetto tempo di Quick o tempo di protrombina: questo esame consiste nella determinazione del tempo di coagulazione del plasma dopo aggiunta di tromboplastina tissutale; in questo modo possiamo indagare la via estrinseca della coagulazione, escludendo la via intrinseca, normalmente più lenta. Un allungamento del tempo di Quick implica, quindi, la presenza di un deficit dei fattori I, II, V, VII e X, come accade spesso in corso di epatopatia di una certa entità. Bisogna però ricordare come un tempo di Quick prolungato, riscontrato in corso di patologia epatica, non sempre indichi un’alterazione della funzione sintetica della cellula, ma possa segnalare anche un deficit della vitamina K, come può accadere in corso di colestasi. In questo secondo caso, assisteremo ad una normalizzazione del suo valore dopo la somministrazione per via parenterale della vitamina K (test di Koller). Il tempo di protrombina viene spesso valutato in percentuale rispetto ad un plasma di controllo: il valore viene considerato normale se compreso tra l’80 e il 100%, sicuramente patologico se al di sotto del 70%. 2. Albumina. In corso di epatopatie croniche si osserva una graduale diminuzione della concentrazione delle proteine plasmatiche totali (v. n. circa 7 g/100 ml), con una riduzione particolare dell’albumina, che rappresenta normalmente il 60% delle proteine totali (v. n. assoluto circa 4,0-4,5 g/100 ml). Anche in questo caso non si tratta di un esame del tutto specifico della funzione sintetica del fegato, in quanto l’albumina può diminuire anche in seguito ad eccessiva eliminazione attraverso il filtro renale (sindrome nefrosica), attraverso la parete intestinale (enteropatie protido-disperdenti) o anche attraverso la cute (gravi ustioni di III grado). È inoltre possibile che il fegato non riesca a sintetizzare le proteine in quantità sufficiente, non a causa di un suo deficit funzionale o organico, ma per la mancanza di substrati, come si verifica in corso di malassorbimento intestinale o di gravi stati di malnutrizione, in cui può essere presente una rilevante carenza degli aminoacidi necessari per la sintesi delle proteine. 3. Pseudocolinesterasi. È una proteina enzimatica prodotta anch’essa dal fegato e presente nel sangue, in grado di idrolizzare l’acetilcolina; a differenza dell’omonimo enzima presente a livello delle placche neuromuscolari e delle sinapsi nervose, può agire anche su altri substrati. È un indice molto sensibile dell’attività sintetica del fegato ed il suo monitoraggio in corso di epatopatia permette di giudicarne l’andamento e la prognosi. I valori normali sono compresi tra 2400 e 4800 mU/ml. 4. Colesterolo e suoi esteri. Il fegato è l’organo più importante per quanto riguarda la sintesi del colesterolo, per cui molto spesso in corso di epatopatie croniche
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(salvo che negli itteri ostruttivi) è possibile osservare una riduzione della colesterolemia totale e, in particolare, si evidenzia una diminuzione del rapporto tra colesterolo esterificato e colesterolo totale (normalmente superiore ai 2/3), poiché il processo di esterificazione avviene ad opera degli epatociti. 5. Transferrina. È una proteina (1-globulina) sintetizzata dal fegato, destinata al trasporto del ferro nel sangue. In corso di malattie epatiche non è raro riscontrare la presenza di una carenza di transferrina associata a valori di sideremia normali o di poco aumentati, questi ultimi dovuti a liberazione del ferro da parte degli epatociti nei quali è normalmente contenuto sotto forma di ferritina, qualora sia presente un’importante componente necrotica. Gli esami che indagano in merito alla funzione sintetica del fegato ci permettono di rilevare l’esistenza sia di un deficit funzionale sia di un vero e proprio deficit numerico degli epatociti. Queste informazioni, associate a quelle che possiamo ricavare dagli esami riguardanti la permeabilità di membrana, possono già fornirci l’indicazione della natura e dell’entità del quadro patologico in atto, se si tratta, cioè, di un’alterazione puramente funzionale o se vi è anche un deficit numerico quantitativo; per esempio, trovare alterati gli enzimi e diminuiti gli indici di sintesi significa che esiste un processo lesivo in atto; viceversa qualora si riscontri soltanto una diminuzione degli indici di sintesi, si potrà supporre l’esistenza soltanto di una diminuzione del numero degli epatociti del parenchima. C. Test complessi. Si tratta di esami che sono in grado di indagare in merito a più di una funzione epatica e la cui interpretazione, quindi, deve essere guidata dalle altre indagini già menzionate. I più importanti sono: • bilirubinemia; • urobilinuria; • test con BSF. 1. Bilirubinemia. Come vedremo nel capitolo dedicato agli itteri (Cap. 26), la bilirubina è una sostanza prodotta per lo più dalla degradazione della molecola dell’eme dell’emoglobina e che viene metabolizzata da parte del fegato. In presenza di una sofferenza degli epatociti, è possibile riscontrare alti livelli sia di bilirubina indiretta (veicolata dalle proteine plasmatiche), sia di quella diretta (coniugata con acido glicuronico). Questo parametro è però indice di una sofferenza cellulare di discreta entità, essendo la capacità di metabolizzazione del fegato nei confronti della bilirubina piuttosto elevata. 2. Urobilinuria. Normalmente l’urobilinogeno, sostanza che si forma nell’intestino a partire dalla bilirubina per opera della flora batterica (Cap. 26), non compare nelle urine. Riscontrarne la presenza, qualora si possa escludere l’esistenza di un’anemia emolitica, indica l’incapacità da parte del fegato di ricaptarlo una volta che venga riassorbito da parte del circolo portale
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e quindi di eliminarlo nuovamente per via biliare (alterazione del circolo entero-epatico dei bilinogeni). 3. Test con BSF (tetra-bromo-sulfonftaleina). Questa sostanza viene captata dal fegato attivamente, viene coniugata con glutatione e cisteina ed in seguito viene escreta attivamente dalla cellula epatica, seguendo quindi un iter metabolico molto simile a quello della bilirubina. Il test da carico con BSF viene eseguito iniettando in vena tale sostanza in misura di 5 mg/kg, e valutandone la concentrazione dopo 45 min, la quale in condizioni normali non deve essere superiore a circa il 5% della concentrazione raggiunta immediatamente dopo la somministrazione. Valori di concentrazione superiori indicano un’alterazione dell’attività funzionale epatica, anche se non è possibile risalire a quale tipo di funzione è menomata; tale esame, pertanto, non riesce a dare in realtà nessuna informazione superiore a quelle che possiamo ricavare dagli altri test menzionati più sopra (oggi questo test è praticamente abbandonato per il rischio di gravi effetti collaterali come lo shock anafilattico).
Funzioni escretorie Le funzioni escretorie del fegato possono essere indagate attraverso diverse indagini di laboratorio e in particolare: • fosfatasi alcalina (v. n. 70-220 mU/ml negli adulti e 100-622 mU/ml nei bambini); • 5-N (5-nucleotidasi) (v. n. 0-1,6 U/ml); • bilirubinemia diretta; • colesterolemia; • cupremia. Le funzioni escretorie sono alterate in tutte quelle condizioni che comportano una colestasi sia intraepatica che extraepatica. 1. Fosfatasi alcalina. Sebbene questo enzima sia principalmente sintetizzato nel tessuto osseo, nell’intestino, nella placenta e nel rene, tuttavia il fegato, oltre ad eliminarlo con la bile, concorre alla sua produzione a livello dei duttuli biliari. Per un motivo non ancora perfettamente chiarito, tale produzione epatica aumenta in corso di colestasi. È un test molto sensibile, ma poco specifico: va ricordato, infatti, che la fosfatasi alcalina viene prodotta anche dagli osteoblasti, risultando quindi aumentata durante l’accrescimento, durante la fase di riparazione di una frattura ossea, in presenza di patologie proliferative primarie o secondarie a carico dell’apparato scheletrico, in caso di rachitismo, osteomalacia, iperparatiroidismo, osteite deformante. La concentrazione della fosfatasi alcalina è dipendente dall’età del soggetto, raggiungendo i massimi valori proprio nelle prime 4 settimane di vita (4-5 volte quelli dell’adulto), per poi decrescere lentamente fino alla pubertà quando si ha un ulteriore incremento; verso i 1620 anni raggiunge i livelli caratteristici dell’adulto; negli anziani, infine, si riscontra un modesto aumento. Altra condizione importante che si associa ad elevazione
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della fosfatasi alcalina è la gravidanza ed in particolare si osserva un incremento di circa due volte i valori durante il terzo trimestre, di tre volte durante il travaglio, per ritornare nella norma 2-3 settimane dopo il parto. Per quanto riguarda il fegato, la fosfatasi alcalina è aumentata quando vi sia colestasi, ma anche in presenza di tumori del fegato primitivi e secondari, anche senza ittero, e talvolta nell’epatite cronica attiva, meno frequentemente nella cirrosi epatica compensata. Modeste elevazioni si rilevano anche nelle epatopatie secondarie a morbo di Hodgkin, a metaplasia mieloide e in quelle condizioni nelle quali esiste un interessamento degli spazi portali. I v. n. sono in rapporto a quanto descritto più sopra, differenti secondo l’età: negli adulti sono compresi tra 70 e 220 mU/ml, mentre nei bambini variano da 100 a 622 mU/ml. 2. 5-N (5-nucleotidasi). Sono enzimi apparentemente limitati alle membrane citoplasmatiche degli epatociti. Il loro incremento ha lo stesso significato visto per la fosfatasi alcalina. Non modificandosi in corso di patologie ossee, possono rendersi utili nel differenziare l’aumento della fosfatasi alcalina di origine epatica da quella extraepatica. In pratica l’esame è utile soltanto nell’inquadramento del paziente anitterico. I v. n. sono inferiori a 1,6 U/ml. 3. Bilirubinemia diretta. Può aumentare in tutte le circostanze di colestasi sia intra che extraepatiche, ma perché questo si verifichi è necessario che vi sia un ostacolo di una certa entità, per cui si tratta di un test molto meno sensibile rispetto alla fosfatasi alcalina. 4. Colesterolemia. A differenza di quanto accade in caso di prevalente danno della funzione sintetica del fegato, in presenza di colestasi osserveremo frequentemente un incremento del colesterolo, associato a un aumento delle lipoproteine, in particolare delle betalipoproteine. 5. Cupremia. Aumenta in presenza di colestasi per riduzione della sua escrezione con la bile. In altri casi l’aumento di questa sostanza è correlato a un deficit congenito della sintesi epatica della ceruloplasmina, che è la proteina vettrice del rame in circolo, come si verifica nel morbo di Wilson.
Stato delle cellule di Kupffer e reazioni immunitarie in caso di epatopatie Il riscontro di iper--globulinemia è frequentemente associato alla presenza di malattia epatica, soprattutto se di natura cronica. In molti casi questo reperto di laboratorio è giustificato dal fatto che diverse epatopatie hanno alla base un meccanismo patogenetico di tipo immunitario. In altri casi questo non accade ed allora l’iper--globulinemia risulta essere un indice molto importante dello stato delle cellule di Kupffer, appartenenti al sistema macrofagico (sistema reticolo-endoteliale). Queste cellule svolgerebbero normalmente un’azione inibitoria (di “blocco”) nei confronti di strutture mole-
colari con proprietà antigeniche di derivazione intestinale: queste sostanze, giunte al fegato attraverso il circolo portale, non venendo più “bloccate” dalle cellule di Kupffer, coinvolte nell’ambito del processo patologico epatico, possono entrare con maggiore facilità nella circolazione generale ed esercitare il proprio potere antigenico, determinando, in questo modo, una stimolazione anticorpale superiore alla norma, della quale l’iper--globulinemia è la più evidente testimonianza.
Altri esami Nel corso di una malattia che interessa il fegato, è possibile ricorrere, oltre a quelli fin qui ricordati, ad altri esami di vario genere e diverso significato, nel tentativo di meglio inquadrare le caratteristiche e l’entità della sofferenza del parenchima epatico e, inoltre, nell’intento di riconoscerne la causa o, comunque, i fattori favorenti il danno a carico di questo organo. In particolare, possiamo ricordare i seguenti esami: • • • •
ammoniemia; colalemia; -fetoproteina; anticorpi evidenziabili mediante immunofluorescenza; • marker dei virus dell’epatite; • 1-antitripsina. 1. Ammoniemia. Un’importante funzione del fegato è rappresentata dalla sintesi dell’urea a partire dall’ammoniaca (ciclo di Krebs-Henseleit); quest’ultima sostanza deriva dal processo di deaminazione degli aminoacidi. L’ammoniaca può essere prodotta a livello del fegato, ma soprattutto vi giunge attraverso il circolo portale dall’intestino dove si forma per opera della flora batterica che agisce sugli aminoacidi derivanti dalla digestione delle proteine contenute negli alimenti della dieta. Va anche ricordato, però, che l’ammoniaca è prodotta anche a livello dei tubuli renali dove, per la maggior parte, è impiegata per limitare l’acidità titolabile delle urine ed è perciò escreta sotto forma di ione ammonio. Un incremento nel sangue dell’ammoniaca può essere indicativo sia della presenza di un suo alterato metabolismo a livello epatico, sia dell’eventuale esistenza di uno shunt porto-sistemico con la conseguente possibilità, da parte delle sostanze di provenienza intestinale, di “saltare” il distretto epatico e di passare direttamente nel circolo sistemico. Questo può verificarsi, per esempio, in presenza di circoli collaterali indotti dall’instaurarsi di ipertensione portale oppure formatisi dopo intervento chirurgico di anastomosi porto-cavale, effettuato allo scopo di correggere la stessa ipertensione portale. La produzione di ammoniaca, e quindi di ione ammonio, è favorita ulteriormente da un’alimentazione carnea, dalla somministrazione di aminoacidi, da emorragie del tratto gastroenterico (peraltro molto frequenti nei pazienti epatoepatici), da proliferazione della flora batterica intestinale.
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L’incremento dell’ammoniemia è di grande importanza in quanto questa sostanza ha un ruolo fondamentale nell’instaurarsi dell’encefalopatia porto-sistemica. I v. n. sono inferiori a 65 (nella donna) e a 80 (nell’uomo) g/100 ml.
marker dell’epatite. Questi non sono altro che antigeni riferibili ai diversi virus dell’epatite o anticorpi diretti contro di questi; attualmente sono disponibili test sierologici per l’identificazione dei virus A, B, C, D, E, G come verrà descritto nel capitolo 29.
2. Colalemia. Gli acidi biliari possono essere valutati mediante tre metodiche: gas-cromatografica, radioimmunologica (RIA) ed enzimatica. Essi possono risultare aumentati in coincidenza di un’epatite acuta, di un’epatite cronica attiva, di cirrosi, di colestasi intra o extraepatica. Il prelievo per un dosaggio corretto di queste sostanze deve essere eseguito circa due ore dopo il pasto; infatti, in questa fase si è già verificata la contrazione postprandiale della colecisti, provocando un importante afflusso di acidi biliari nel duodeno e di conseguenza nel sistema portale. Un dosaggio degli acidi biliari nel circolo sistemico in questo determinato momento ci permette quindi di svelare alterazioni anche minime della capacità di captazione degli epatociti. In realtà, un patologico incremento degli acidi biliari potrebbe essere mascherato da una diminuzione totale del loro “pool”, come può accadere per diminuita sintesi in corso di epatite acuta e di cirrosi o per un deficit nel loro riassorbimento a livello del tenue per una concomitante alterazione della mucosa intestinale.
6. 1-antitripsina. Si tratta di una proteina prodotta dal fegato e geneticamente controllata, la cui carenza può favorire l’insorgenza di una patologia sia a carico dell’apparato respiratorio (Cap. 14) sia a carico del fegato, dove è possibile l’insorgenza di un quadro di cirrosi (Cap. 30).
3. -fetoproteina. Si tratta di una proteina normalmente prodotta dal fegato durante il periodo embrionale. Può essere presente in concentrazione superiore alla norma anche nell’adulto nel caso di una importante rigenerazione del tessuto epatico. Per tale motivo si comprende come un suo incremento sia tanto più probabile e tanto più elevato quanto più importante è la componente di rigenerazione cellulare che caratterizza un determinato processo patologico a carico del fegato. Un aumento, anche se di solito modesto, può quindi essere riscontrato anche in corso di epatite acuta in fase di remissione, nelle epatiti croniche, nelle cirrosi, per raggiungere concentrazioni molto elevate nel 60% circa dei carcinomi primitivi e, talora, nelle metastasi del fegato. Questa proteina viene dosata nel siero con metodo radioimmunologico (RIA): valori normali sono considerati quelli inferiori a 15 ng/ml. 4. Anticorpi dosati tramite la tecnica di immunofluorescenza. Possono essere di grande aiuto nella diagnosi eziologica e patogenetica di un’epatopatia. Prima di tutto ricordiamo gli anticorpi antimitocondri, presenti in oltre il 95% dei pazienti affetti da cirrosi biliare primitiva. Anche se un certo incremento di questi anticorpi può riscontrarsi in caso di epatite cronica attiva e in alcuni casi di intossicazione da farmaci, un alto titolo è generalmente diagnostico di cirrosi biliare primitiva, qualora il quadro clinico sia compatibile con questa. Il riscontro, frequente in corso di epatite cronica attiva, di anticorpi antimuscolo liscio, antimicrosomi, antinucleo è invece di minore interesse diagnostico, essendo questi ultimi aspecifici. 5. Marker del virus dell’epatite. In molti casi è possibile risalire all’evento eziologico di un’affezione epatica, tramite il riscontro nel plasma dei cosiddetti
ESAMI STRUMENTALI Le indagini strumentali per lo studio del fegato sono diverse; ricordiamo le caratteristiche principali di quelle più importanti. A. Esami radiografici. L’esame radiologico diretto dell’addome (cioè senza mezzo di contrasto) è solitamente di non grande importanza dal punto di vista diagnostico per quanto riguarda le malattie del fegato, consentendo tutt’al più di evidenziare la presenza di calcificazioni epatiche (per es., quelle dovute a cisti da echinococco) o spleniche. Questa metodica non è, in genere, di grande aiuto per quanto riguarda la definizione dei contorni di questi organi, anche se a questo scopo può essere ottenuto un risultato migliore mediante la creazione di uno pneumoperitoneo diagnostico, cioè attraverso l’introduzione nella cavità peritoneale di 1-2 litri di aria o di ossigeno, in quanto le condizioni di maggiore contrasto che si realizzano con questa tecnica permettono di ottenere una migliore definizione del contorno (e, quindi, delle dimensioni) sia del fegato che della milza. Anche gli esami radiografici con mezzo di contrasto per lo studio di questi organi non rivestono più oggi la stessa importanza diagnostica di un tempo, sia per le difficoltà tecniche di esecuzione sia per la maggiore affidabilità di altre metodiche sviluppatesi nel corso degli ultimi anni. Può essere, comunque, ricordata la splenoportografia, che viene eseguita mediante iniezione di un mezzo di contrasto iodato direttamente nel parenchima splenico (dopo opportuna determinazione della pressione all’interno della milza) e permette la visualizzazione del circolo portale e di eventuali circoli collaterali, come si verifica in tutti i casi in cui si instaura ipertensione portale o di discreta entità. Più importante della precedente è senz’altro l’indagine angiografica per lo studio del fegato e della milza; la metodica più comune è l’arteriografia selettiva del tripode celiaco, la quale viene eseguita mediante cateterismo selettivo partendo dall’arteria femorale, punta all’altezza dell’inguine, e risalendo con la sonda fino a raggiungere il tripode celiaco, dove viene direttamente introdotto, con iniezione a bolo, il mezzo di contrasto, ottenendosi, in tal modo, la visualizzazione dell’albero
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arterioso splenico ed epatico (per esigenze particolari si può far procedere il catetere fino a penetrare nei singoli rami, realizzando così arteriografie supero ultra selettive). Oltre alla breve fase arteriografica, questa metodica consente di studiare in un tempo immediatamente successivo la fase venosa, che costituisce una vera e propria portografia di ritorno (la portografia, a sua volta, può essere completata dallo studio della fase venosa dell’arteriografia dell’arteria mesenterica superiore, la quale, per effetto del maggiore flusso in questo vaso, spesso permette una migliore osservazione del tronco portale). L’arteriografia si dimostra utile soprattutto nella diagnosi delle neoplasie benigne e maligne del fegato, primitive e secondarie, o, comunque, in presenza di processi espansivi di qualsiasi natura (per es., cisti parassitarie, amebiche in particolare, o ascessi epatici di diverso genere), in cui si riscontrano sempre dislocazioni ed alterazioni morfologiche e del decorso dell’arteria epatica e dei suoi rami intra o extraepatici. B. Scintigrafia epatica (epatosplenica). Le cellule del parenchima epatico e le cellule di Kupffer hanno la proprietà di captare elettivamente sostanze radioattive iniettate per via endovenosa che emettono raggi gamma, i cui impulsi vengono registrati mediante particolari apparecchi di rilevazione e consentono di ottenere l’immagine “fotografica” (scintigrafica) dell’organo che viene indagato. Le sostanze che vengono abitualmente impiegate per questa indagine sono il Rosa-Bengala 131I o la BSF-131I, che vengono captate dagli epatociti, oppure l’Au198 colloidale e, soprattutto, il solfuro di tecnezio (99Tc), i quali vengono, invece, captati dalle cellule di Kupffer. Il tracciante (in genere si utilizza il 99Tc) raggiunge il fegato e la milza per via arteriosa e consente la visualizzazione di entrambi questi organi, in quanto questa sostanza viene captata anche dalle cellule del reticolo endoteliale presenti nella milza. In condizioni normali il fegato mostra alla scintigrafia un’immagine caratteristica col profilo tipico “a cappello napoleonico”, in cui la distribuzione del tracciante è omogenea nel contesto di tutto l’organo, mentre in presenza di malattie epatiche, in particolare quelle croniche, in cui esiste un variabile sovvertimento della normale struttura del fegato, si riscontra una diffusa diminuzione della captazione con variabile grado di disomogeneità nella distribuzione intraparenchimale del colloide radioattivo. Inoltre, in questi casi, sono solitamente presenti diverse “lacune di captazione” (o “aree fredde”), che corrispondono ai focolai di necrosi o di più abbondante formazione di tessuto connettivo, le quali si accompagnano tipicamente ad ipercaptazione della milza e, talora, anche del midollo osseo aventi significato vicariante. La presenza all’indagine scintigrafica di aree fredde non captanti è particolarmente caratteristica quando il fegato è interessato da processi neoplastici, primitivi o secondari, purché il diametro di questi raggiunga almeno i 2 cm.
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C. Ecografia ed ecotomografia. Il fegato è l’organo che offre nel complesso le maggiori possibilità nel campo della diagnostica mediante indagine ultrasonografica. Questa metodica non ha carattere invasivo e non comporta nessun rischio per il paziente, per cui non presenta, in pratica, alcuna controindicazione. Gli ultrasuoni, vibrazioni meccaniche di frequenza superiore a 20.000 Hz (cioè oltre il limite di percezione dell’orecchio umano), vengono emessi da particolari apparecchi chiamati trasduttori; le onde ultrasoniche progrediscono all’interno dei tessuti e vengono in parte riflesse a livello delle superfici di passaggio fra strutture aventi tra loro differenti densità (impedenza) essendo, quindi, raccolte dallo stesso trasduttore che le ha prodotte, dove generano onde di pressione che sono trasformate in segnale elettrico, il quale viene amplificato e registrato graficamente mediante un oscilloscopio. L’indicazione più frequente di questa indagine in campo addominale è l’esame di masse palpabili, consentendo la differenziazione di quelle solide da quelle a carattere cistico o ascessuale e permettendo, inoltre, la determinazione del volume dei visceri e la loro esatta localizzazione come indagine preliminare ad altre manovre strumentali (bioptiche o di drenaggio soprattutto). Nel caso particolare del fegato, l’ecografia e l’ecotomografia permettono di evidenziare le caratteristiche morfologiche di questo organo e l’eventuale presenza di un processo espansivo primitivo o secondario, oppure di formazioni cistiche o ascessuali oltre che di un eventuale marcato sovvertimento della normale architettura epatica, come si può verificare in caso di epatopatia cronica di grado rilevante. D. Tomografia computerizzata. La tomografia computerizzata (TC) rappresenta la tecnica di indagine morfologica indiretta più di recente introdotta nello studio del fegato. La metodica è fondata sull’esplorazione del corpo del paziente mediante un minuto pennello di raggi Roentgen che lo attraversa su un piano perpendicolare (o di poco obliquo) rispetto al suo asse longitudinale. Dal lato diametralmente opposto a quello dell’emittente dei raggi X, l’intensità del raggio trasmesso, ovviamente dipendente dalla densità dei tessuti attraversati, viene registrata da un’apposita apparecchiatura e trasformata in un valore numerico. Questa esplorazione viene eseguita, in sequenza, per un numero molto elevato di volte, spostando la sorgente dei raggi Roentgen sullo stesso piano intorno al paziente per un arco di 180°; un calcolatore annesso all’apparecchio radiologico, opportunamente predisposto, ha il compito di integrare i dati e di ricostruire matematicamente l’immagine che meglio corrisponde a quella reale. Questa metodica consente di esplorare sezioni orizzontali del corpo del paziente di spessore che va da poco più di 1 cm a pochi millimetri e viene ripetuta tutte le volte necessarie per esaminare completamente l’organo o la regione in studio (il tempo di scansione per una singola sezione con le apparecchiature più moderne è estremamente ridotto: soltanto 2 sec).
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Il parenchima epatico presenta all’indagine tomografica densità omogenea di regola superiore a quella degli altri organi addominali (pancreas, rene, milza): i diversi tipi di patologia epatica di carattere diffuso (per es., la cirrosi) sono in genere mal distinguibili dal fegato normale, mentre i processi “occupanti spazio” (soprattutto neoplasie primitive o secondarie, formazioni cistiche o ascessuali) risultano di norma identificabili con facilità. Infatti, il potere di risoluzione di questa metodica è tale da permettere l’identificazione di formazioni dell’ordine di pochi centimetri di diametro e, inoltre, di definire i rapporti con le normali strutture dell’organo e con i tessuti circostanti. La somministrazione endovenosa di un mezzo di contrasto nel corso dell’indagine tomografica consente di ottenere la visualizzazione di eventuali formazioni vascolari (per es., angiomi), poiché con tale accorgimento si ottiene una migliore evidenziazione di queste strutture rispetto a quelle parenchimali ed alle vie biliari, le quali presentano un’immagine tomografica sostanzialmente immodificata anche dopo impiego del contrasto. Più di recente è stata introdotta, per la diagnosi delle malattie epatiche, anche la risonanza magnetica nucleare in cui si fa ricorso, come nell’ecografia, agli ultrasuoni mediante l’impiego di apparecchiature molto complesse e costose. Questa metodica trova applicazione soprattutto nella diagnosi di alcune forme di epatopatia cronica quali le neoplasie, l’emocromatosi, la malattia di Wilson, la cirrosi (specialmente quella biliare primitiva) ed in alcune patologie coinvolgenti il sistema vascolare (vena porta, vene sovraepatiche, cava inferiore) e le vie biliari. E. Laparoscopia. La laparoscopia è una metodica diagnostica che risponde soprattutto all’esigenza di esaminare gli organi addominali, in particolare il fegato, senza far ricorso ad un vero e proprio intervento chirurgico. Sulla scorta di una larga esperienza accumulata nel corso degli ultimi venti anni, si può senz’altro affermare che si tratta di una tecnica diagnostica di notevole efficacia ed affidabilità, essendo praticamente priva di complicazioni di una certa importanza. L’indagine viene eseguita mediante l’introduzione di uno strumento ottico attraverso un foro praticato sulla parete addominale anteriore, previa insufflazione nella cavità peritoneale di gas inerte (pneumoperitoneo diagnostico), ottenendosi, in questo modo, l’osservazione del fegato e degli altri organi addominali, soprattutto a livello della superficie superiore ed anteriore. Se la malattia epatica è di tipo diffuso (per es., epatite acuta), in linea di massima la laparoscopia non ha una precisa indicazione, poiché in questi casi la diagnosi definitiva verrà comunque dalla biopsia ed il problema dell’errore di campionamento non è rilevante. Per contro, quanto più la lesione epatica ha una distribuzione disomogenea nel contesto del parenchima (per es., è quanto si verifica nella cirrosi e nelle neoplasie sia primitive che secondarie), tanto più la laparoscopia trova indicazione opportuna e più alta è la “resa” di questa tecnica diagnostica. Va ricordato, inoltre, che la laparoscopia può essere completata da alcune indagini strumentali e in partico-
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
lare dalla colangiografia diretta e dalla biopsia (epatica o di altri organi addominali). La prima può essere eseguita pungendo direttamente il fondo della colecisti o raggiungendo la cistifellea attraverso il parenchima epatico con successiva introduzione di un mezzo di contrasto iodato (attualmente questa metodica è scarsamente utilizzata a vantaggio di altre tecniche di cui si parla nel capitolo dedicato alle malattie delle vie biliari, Cap. 31). Per quanto riguarda la biopsia epatica in corso di laparoscopia, questo esame viene normalmente effettuato mediante l’impiego di un ago tru-cut introdotto attraverso il laparoscopio ed ha il grande vantaggio di permettere di scegliere la sede del prelievo in corrispondenza delle aree di maggiore interesse diagnostico (biopsia “mirata” o “a cielo aperto”), a differenza di quanto avviene nel caso della normale biopsia “a cielo coperto”. F. Biopsia epatica (a cielo coperto). L’esame bioptico del fegato fa ormai parte della normale routine diagnostica per le malattie di questo organo. Attualmente, per questa indagine, si ricorre sempre alla tecnica della biopsia per aspirazione con ago di Menghini (non si usano più invece l’ago di Vim-Silverman e l’ago trucut, quest’ultimo impiegato se mai, come s’è visto, per le biopsie in corso di laparoscopia). La tecnica della biopsia con ago Menghini (l’ago, che ha un diametro esterno di 1,4-1,8 mm, consiste in una cannula ad estremità tagliente, in cui penetra un mandrino il quale presenta, in prossimità della sua estremità, una profonda incisura della lunghezza di circa 2 cm) è molto agevole: si esegue con una semplice anestesia di superficie con il paziente preferibilmente in decubito supino; l’ago viene affondato lateralmente, alla cieca, in una zona di elezione nell’ambito dell’aia di ottusità epatica assoluta, scelta, per la maggiore sicurezza della manovra, posteriormente alla linea ascellare anteriore, in genere tra questa e l’ascellare media, di regola in corrispondenza dell’VIII-X spazio intercostale. Non è necessaria alcuna particolare preparazione del paziente, ma è indispensabile che l’emostasi sia efficace: tempo di stillicidio inferiore a 3 min, attività protrombinica non inferiore al 50% (meglio se non al di sotto del 70%) e numero di piastrine non inferiore a 100.000 mm3. L’ago viene introdotto in aspirazione nel parenchima con il paziente in apnea al termine di una normale espirazione ed il frammento di tessuto epatico, tagliato con un meccanismo “a ghigliottina”, si raccoglie nell’incisura del mandrino e viene, quindi, recuperato dopo la rapida estrazione dell’ago. Dopo l’esecuzione della biopsia è prudente che il paziente giaccia immobile, supino o sul fianco destro a digiuno per almeno 12 h ed è opportuno che le sue condizioni siano controllate per le prime 24-48 h; per lo più la manovra non comporta alcun disagio locale o generale, a parte un modesto indolenzimento in regione ipocondriaca, talora proiettantesi verso la spalla dallo stesso lato ed accentuantesi nell’inspirazione profonda.
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La biopsia è l’indagine diagnostica certamente più importante in tutte le malattie epatiche purché di tipo diffuso (cirrosi, epatite acuta o cronica, per es.), sia acute che croniche, pur tenendo conto del fatto che la tecnica a cielo coperto ha lo svantaggio di non essere mirata. Per un corretto esame istologico del tessuto, è però necessario che il frustolo ottenuto con la biopsia presenti caratteristiche adeguate: lunghezza di almeno 3 cm, spessore di almeno 2 mm, presenza di almeno 2-3 spazi portali. Per quanto riguarda le lesioni focali (neoplasie primitive, metastasi, ecc.), la biopsia epatica dovrebbe essere eseguita o in corso di laparoscopia/laparotomia o sotto guida ecotomografica. In questi casi, comunque, si pre-
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ferisce spesso ricorrere all’agoaspirazione con ago sottile, tecnica meno invasiva, che non richiede necessariamente l’ospedalizzazione del paziente e che consente di ottenere l’esame citologico (non istologico) della lesione epatica. Se correttamente eseguita, la biopsia epatica a cielo coperto con ago di Menghini può essere senz’altro considerata una tecnica solo relativamente rischiosa (incidenza di complicanze gravi o mortali: circa 1‰); i pericoli maggiori sono certamente rappresentati dalla possibile rottura di formazioni cistiche (per es., cisti da echinococco) o dall’eventuale insorgenza di emoperitoneo (per rotture di grossi vasi o di formazioni angiomatose) e di coleperitoneo (per rottura di grossi collettori biliari).
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C A P I T O L O
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ITTERI V. BALDINI
L’ittero o itterizia è una colorazione giallastra di tonalità più o meno intensa della cute e delle mucose, in particolare a livello delle sclere, dovuta ad accumulo di bilirubina nell’organismo (> 2-2,5 mg/100 ml). La bilirubina è una sostanza presente normalmente nel sangue (< 1 mg/100 ml), ma se la sua concentrazione aumenta provoca la comparsa di una colorazione giallastra (la bilirubina ha questo colore) che può localizzarsi in tutti i tessuti e che è tanto più intensa quanto più questi sono ricchi in fibre elastiche poiché l’elastina ha una notevole affinità per questa sostanza. Obiettivamente il colorito itterico appare evidente a livello della cute nelle forme più marcate, soprattutto a livello delle sclere (la parte bianca degli occhi), dove l’ittero è presente anche nelle forme più lievi in cui la colorazione giallastra è apprezzabile soltanto in questa sede (se la bilirubinemia non supera i 2-2,5 mg/100 ml): in questo caso si parla più correttamente di subittero. La diagnosi di subittero può talora essere impropria: per esempio, molte persone, soprattutto anziane, hanno il bianco degli occhi un po’ giallo perché al di sotto della congiuntiva bulbare si deposita una certa quantità di grasso che provoca la comparsa di questo colore; in questo caso, però, il colorito giallastro si localizza lateralmente e medialmente in prossimità delle due commessure, mentre in presenza di ittero vero e proprio tale colorazione è presente in maniera diffusa a livello della sclera, come può essere osservato facendo volgere lo sguardo prima verso l’alto e quindi verso il basso in modo da poterne esaminare l’intera superficie. Un altro problema di diagnosi differenziale è quello legato al cosiddetto pseudoittero, in cui un tenue colorito giallastro è presente a livello della cute, soprattutto alle palme, ma non a livello delle sclere che restano bianche. Questo pseudoittero non è dovuto ad un aumento della bilirubina, ma ad altre sostanze, soprattutto carotenoidi, che vengono assunti attraverso l’ingestione di alcuni vegetali (specialmente arance) oppure che si accumulano in soggetti affetti da certe malattie, come il diabete e l’ipotiroidismo, forse per accumulo di precur-
sori della vitamina A (più raramente lo pseudoittero è legato ad altre sostanze, come l’acido picrico, l’acridina, usata in passato come antimalarico, il trinitrotoluene, l’urocromo).
METABOLISMO DELLA BILIRUBINA La patogenesi dell’ittero è correlata ad un incremento della concentrazione della bilirubina nel sangue (Fig. 26.1). Questa sostanza per l’80-85% proviene dalla Hb dei globuli rossi circolanti: quando questi, dopo in media 120 giorni, giungono al termine del loro ciclo vitale, vengono distrutti nella milza ed il gruppo eme della Hb viene convertito in bilirubina attraverso la rottura dell’anello tetrapirrolico e la formazione di un composto intermedio detto biliverdina. Una piccola quota di bilirubina (10-15%) deriva direttamente dal midollo osseo per un processo di eritropoiesi inefficace, che è presente sempre anche in condizioni fisiologiche: infatti nella formazione dell’Hb si può verificare qualche difetto di sintesi per cui la struttura dell’eme non viene utilizzata, ma viene direttamente catabolizzata con formazione di un’ulteriore quota di bilirubina; oppure questa può derivare dall’Hb proveniente da precursori di globuli rossi che nel midollo non arrivano a completa maturazione, per cui anche in questo caso si ha degradazione della molecola emoglobinica già a livello midollare. Infine, una quota assai piccola di bilirubina (circa 5%) si forma anche nel fegato, a partire da precursori eminici che sono presenti nella molecola dei citocromi e della mioglobina. La bilirubina è una sostanza scarsamente idrosolubile e poiché il plasma sanguigno può essere considerato alla stregua di una soluzione acquosa è necessario che sia veicolata in circolo da altre molecole che facciano da
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MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
1-2 mg/24 h
BIL- A
BIL- GA
150-250 mg/24 h
Figura 26.1 - Metabolismo della bilirubina in condizioni fisiologiche. La bilirubina, prodotta in gran parte dall’attività eritrocateretica della milza, è presente in circolo sotto forma di complessi bilirubina-albumina e viene captata dagli epatociti dove viene coniugata con 2 molecole di UDPGA; la bilirubina coniugata viene escreta con la bile e giunge nell’intestino, dove per opera della flora batterica si formano i bilinogeni, i quali in parte vengono eliminati con le feci e in parte vengono riassorbiti e ritornano al fegato (circolo enteroepatico dei bilinogeni) che li immette nuovamente nell’intestino; una piccola quantità di bilinogeni sfugge al fegato, passa nella circolazione generale e viene eliminata con le urine. BIL-A = bilirubina + albumina; BIL-GA = bilirubina coniugata con acido glicuronico.
vettori; in questo caso il trasporto avviene per mezzo dell’albumina e sotto forma di complessi bilirubina-albumina questa sostanza circola nel sangue in cui, in condizioni fisiologiche, è presente nella concentrazione di < 1 mg/100 ml, determinando il particolare colorito giallastro sia del plasma che del siero, oltre che la sfumatura giallognola del colore della cute. La bilirubina presente in circolo è quasi del tutto in forma di bilirubina indiretta (o non coniugata), che è quella legata all’albumina: questa bilirubina si colora mediante reazione colorimetrica con il diazo-reattivo di Erlich (reazione di Van der Bergh) soltanto quando il siero viene trattato con un solvente organico (di solito alcool metilico), cioè si colora con metodo indiretto, mentre si definisce bilirubina diretta (o coniugata) la piccola quota (< 0,20 mg/100 ml), che si colora con il diazo-reattivo di Erlich trattando il siero direttamente senza la necessità di estrazione di questa sostanza mediante solvente organico. Questa piccola quota di bilirubina diretta, che è solubile in acqua, è quella che si forma nel fegato, dove la bilirubina viene captata dagli epatociti e viene sottoposta ad un processo di coniugazione (glicurono-coniuga-
zione) con 2 residui di acido glicuronico per ciascuna molecola di bilirubina, prima di essere escreta attraverso il polo biliare di queste cellule. Nel plasma circolante, il legame tra la bilirubina e l’albumina è di natura fisica ed è quindi facilmente reversibile; a livello epatico, la bilirubina indiretta è in grado di attraversare la membrana degli epatociti sia per passare all’interno delle cellule sia per refluire in circolo, ma negli epatociti si trovano anche alcune proteine che hanno notevole importanza nel processo di captazione di questa sostanza: vengono chiamate ligandine e ne sono stati identificati due tipi, Y e Z, di cui la più importante è la prima. Queste proteine servono a legare la bilirubina a livello della membrana degli epatociti e una volta formatosi questo legame il complesso bilirubina-ligandina non può più diffondere verso l’esterno, ma si accumula all’interno del citoplasma. Negli epatociti, la bilirubina, captata sia direttamente sia attraverso l’intervento delle ligandine, viene coniugata, come già ricordato, con 2 molecole di acido uridindifosfoglicuronico (UDPGA) per azione di un enzima detto glicuronil-transferasi: da questa reazione si forma bilirubina coniugata con acido glicuronico (oltre a uridindifosfato) che viene escreta attraverso il polo biliare della cellula. Quest’ultima è la tappa limitante nel metabolismo della bilirubina a livello epatico, poiché mentre la captazione di questa sostanza in caso di aumentata formazione può essere incrementata anche 10 volte, la capacità di escrezione può crescere soltanto 5 volte rispetto ai valori normali. L’escrezione della bilirubina coniugata è pressoché totale e soltanto una quantità trascurabile refluisce verso il polo sanguigno dell’epatocita e può, quindi, essere presente in circolo (< 0,20 mg/100 ml). La bile, contenente la bilirubina, subisce un’ulteriore trasformazione nella colecisti, dove viene sottoposta soprattutto ad un processo di concentrazione, e quindi giunge attraverso il coledoco e lo sfintere di Oddi nell’intestino. Nel tenue, ma soprattutto nel colon, avviene l’ultima tappa del metabolismo della bilirubina, che per opera della flora batterica intestinale subisce processi di natura riduttiva ed è convertita in bilinogeni; con questo termine si intendono sostanze diverse di cui le più importanti sono l’urobilinogeno, il mesobilirubinogeno e lo stercobilinogeno; in passato veniva chiamato stercobilinogeno quello trovato nelle feci ed urobilinogeno quello presente nelle urine, mentre s’è visto che in realtà si tratta in ogni caso di miscele di tutte queste sostanze, ma convenzionalmente si parla adesso unicamente di urobilinogeno sia per quanto riguarda le feci sia per quanto riguarda le urine. La trasformazione della bilirubina in bilinogeni è importante per il processo di colorazione del materiale fecale; queste sostanze vengono escrete in buona parte con le feci (150-250 mg/24 h): di per sé sono incolori, ma per effetto di processi di ossidazione che si verificano nel colon, si formano composti pigmentati che sono responsabili del caratteristico colore delle feci.
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26 - ITTERI
Una parte dei bilinogeni viene riassorbita attraverso la mucosa intestinale e mediante il circolo enteroepatico giunge di nuovo al fegato, che capta queste sostanze e poi le elimina nuovamente nell’intestino; in condizioni fisiologiche solo una piccolissima quantità di bilinogeni sfugge al fegato e passa nella circolazione generale giungendo, infine, a livello del rene. I bilinogeni sono sostanze idrosolubili e quindi possono attraversare il filtro glomerulare ed essere eliminati con le urine; però la quantità totale che giunge nel sangue e viene escreta dal rene è molto piccola (circa 1-2 mg/24 h), tanto che con i comuni metodi biochimici non si trovano nelle urine, dove la presenza di queste sostanze acquista sempre significato patologico. In sintesi, perciò, in condizioni normali, nel sangue è presente una certa quantità di bilirubina, che è quella legata all’albumina, la quale non passa il filtro glomerulare perché non idrosolubile e, quindi, non compare nelle urine, ed una piccolissima quantità di bilinogeni (indicati, come già detto, con l’unico termine di urobilinogeno) che essendo idrosolubili possono passare nelle urine (ma in misura normalmente indosabile), infine, una certa quantità di bilinogeni o di prodotti di degradazione di questi è presente nelle feci.
PATOGENESI DEI VARI TIPI DI ITTERO Gli itteri vengono classificati in genere in rapporto al diverso meccanismo di produzione della bilirubina di volta in volta implicato nell’insorgenza di questa condizione. In particolare vengono distinti: • • • • •
lirubina indiretta, mentre un incremento di grado minore si avrà a carico della bilirubina coniugata, il cui livello nel plasma rimane, invece, pressoché normale. In questi casi aumenta anche la formazione di urobilinogeno nell’intestino (e la sua eliminazione con le feci che divengono, perciò, più colorate) per cui la quantità di questa sostanza che viene riassorbita attraverso il circolo enteroepatico e ritorna al fegato è superiore ai livelli normali, tanto che gli epatociti non sono in grado di metabolizzarla completamente, eliminandola di nuovo nelle vie biliari e, di conseguenza, una quota superiore a quella, trascurabile, che si ha in condizioni normali sfugge nella circolazione generale, passa, cioè, nel plasma e giunge al rene, venendo eliminata con le urine e potendo così essere rilevata con i comuni metodi biochimici. In sintesi, in queste forme di ittero si riscontrano (Fig. 26.2): • iperbilirubinemia di tipo indiretto, che non è molto elevata perché il fegato è in grado di metabolizzare questa sostanza anche in misura superiore a quella normale; • feci più colorate (pleiocromiche), perché contengono una maggiore quantità di urobilinogeno; • urine con urobilinuria, per l’aumentata produzione e riassorbimento di urobilinogeno, mentre non è presente bilirubina nelle urine perché l’iperbilirubinemia è di tipo indiretto e questa bilirubina, legata all’albumina, non è in grado di superare il filtro glomerulare.
itteri da eccessiva produzione della bilirubina; itteri da difetto di captazione della bilirubina; itteri da difetto di coniugazione della bilirubina; itteri da difetto di escrezione della bilirubina; itteri da ostruzione meccanica delle vie biliari.
BIL- A
Itteri da eccessiva produzione della bilirubina BIL- GA
Un’aumentata formazione di bilirubina non dipende esclusivamente da una maggiore eritrocateresi a livello della milza, ma certamente la causa più frequente è proprio l’iperemolisi splenica, come si verifica tipicamente nelle anemie emolitiche. Quando la bilirubina è prodotta in eccesso, giunge al fegato in quantità maggiore costringendo l’organo ad un sovraccarico di lavoro metabolico; d’altra parte, come già ricordato, il fegato è in grado di aumentare la capacità di captazione di questa sostanza, mentre la capacità di coniugazione e quella di escrezione possono aumentare in misura molto minore. Ne consegue che la quantità di bilirubina che viene metabolizzata, in caso di iperproduzione, potrà risultare inferiore proporzionalmente a quella che giunge al fegato finché si verificherà un incremento di questa sostanza in circolo, sotto forma di bi-
Figura 26.2 - Metabolismo della bilirubina in caso di ittero da eccessiva produzione. • Notevole aumento della bilirubina indiretta; • incremento minore della bilirubina coniugata; • aumentata produzione di bilinogeni con conseguente maggiore eliminazione con le feci (feci pleiocromiche) e con le urine di queste sostanze. BIL-A = bilirubina + albumina; BIL-GA = bilirubina coniugata con acido glicuronico.
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Le cause principali di queste forme di ittero da iperproduzione di bilirubina sono: • • • •
anemie emolitiche; stravasi ematici; infarti emorragici; eritropoiesi inefficace (iperbilirubinemia da shunt).
A. Anemie emolitiche. Possono provocare la comparsa di ittero in quanto sono caratterizzate da un’eccessiva distruzione dei globuli rossi, la cui vita media ha durata variamente abbreviata rispetto al valore normale (circa 120 giorni); ne consegue un incremento nella produzione della bilirubina che determina l’insorgenza di ittero, se la quantità prodotta è superiore a quella che il fegato è in grado di metabolizzare. L’ittero compare, quindi, soltanto quando l’emolisi è cospicua, mentre è assente nelle forme lievi in rapporto alla capacità di compensazione del fegato; se, tuttavia, l’anemia emolitica è di natura cronica, l’ittero può manifestarsi facilmente anche in forme di entità non grave, poiché l’ipossia dovuta all’anemia stessa danneggia cronicamente le capacità funzionali di questo organo diminuendo, in particolare, la capacità di metabolismo della bilirubina. B. Stravasi ematici. Ittero da iperproduzione di bilirubina può verificarsi in seguito a grossa emorragia in una cavità naturale (stravasi ematici ritenuti, non emorragia all’esterno) oppure nell’interstizio, tra le fasce o a livello del tessuto sottocutaneo. Tali situazioni possono verificarsi, per esempio, negli emofilici o anche in soggetti senza deficit della coagulazione in seguito a gravi traumatismi; in questi casi, la distruzione dei globuli rossi avviene in loco con iperproduzione di bilirubina e possibile comparsa di ittero durante il periodo di riassorbimento della raccolta ematica. C. Infarti emorragici. Analoga situazione si verifica in caso di infarto emorragico, soprattutto in seguito ad infarto polmonare, che è frequentemente accompagnato per un certo periodo di tempo da ittero, solitamente di grado lieve, dovuto alla distruzione dei globuli rossi in corrispondenza del tessuto necrotico con conseguente iperproduzione di bilirubina. D. Eritropoiesi inefficace. Ittero da iperproduzione di bilirubina può manifestarsi in tutte quelle condizioni in cui aumenta l’entità della eritropoiesi inefficace, rispetto ai livelli presenti in condizioni fisiologiche. In questi casi, alcuni precursori dei globuli rossi (una percentuale superiore a quella normale) a livello midollare non giunge a completa maturazione, ma viene rapidamente distrutta: ne consegue un maggiore catabolismo sia del gruppo eme, che non viene utilizzato per la sintesi della Hb, sia della molecola stessa della Hb in quanto incorporata in una cellula che non ha completato il proprio ciclo di maturazione e viene quindi precocemente distrutta.
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
Queste forme di ittero sono caratteristiche in corso di malattie primitive della eritropoiesi (talassemia, anemie megaloblastiche, porfiria eritropoietica) e vengono anche definite iperbilirubinemie da shunt, in quanto non sono legate all’attività eritrocateretica della milza, ma direttamente alla distruzione dei globuli rossi nel midollo.
Itteri da difetto di captazione o di coniugazione della bilirubina Queste forme di ittero, in cui il fegato è coinvolto direttamente a differenza di quanto avviene per quelle di tipo I, possono essere prese in esame insieme in quanto, anche se i meccanismi patogenetici implicati sono differenti (in un caso quello di captazione e nell’altro quello di coniugazione), le ripercussioni sul metabolismo della bilirubina sono praticamente identiche. La quantità di questa sostanza che viene prodotta è normale, ma il fegato non è in grado di metabolizzarla completamente, in quanto esiste un deficit del processo di captazione o di coniugazione, per cui in parte la bilirubina non viene captata o refluisce in circolo: ne consegue un aumento della bilirubina circolante legata all’albumina e quindi l’insorgenza di iperbilirubinemia di tipo indiretto. La quantità di bilirubina coniugata che viene escreta è diminuita e quindi diminuiscono anche la quantità di urobilinogeno fecale, il riassorbimento di questa sostanza attraverso il circolo enteroepatico ed il suo passaggio nella circolazione generale. In sintesi, in queste forme di ittero, si riscontrano (Fig. 26.3): • iperbilirubinemia indiretta; • modesta diminuzione dell’urobilinogeno fecale senza significative modificazioni del colore delle feci; • diminuzione dell’urobilinogeno nelle urine dove è presente in quantità indosabili con i metodi comuni; • assenza di bilirubina nelle urine perché questa, legata all’albumina, non passa il filtro glomerulare. Itteri da difetto di captazione della bilirubina I principali difetti di captazione della bilirubina si verificano in alcune particolari condizioni: • • • •
sindrome di Gilbert; ittero postepatitico (o di Kalk); scompenso cardiaco e/o shunt porta-cava; ittero da farmaci (acido flavaspidico, novobiocina).
A. Sindrome di Gilbert. È chiamata anche piccola colemia familiare o ittero intermittente giovanile; è una condizione ereditaria, a carattere autosomico dominante a penetranza incompleta, in cui esiste un difetto parziale della captazione della bilirubina, verosimilmente correlato ad una diminuzione di quelle pro-
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BIL- A
BIL- GA
Figura 26.3 - Metabolismo della bilirubina in caso di ittero da difetto di captazione o di coniugazione. • Variabile aumento della bilirubina indiretta (massimo nella sindrome di Crigler-Najjar di I tipo); • diminuzione della bilirubina coniugata fino a completa assenza (Crigler-Najjar di I tipo); • variabile diminuzione dell’urobilinogeno fecale; • variabile diminuzione dell’urobilinogeno nelle urine; • assenza di bilirubina nelle urine. BIL-A = bilirubina + albumina; BIL-GA = bilirubina coniugata con acido glicuronico.
teine (ligandine) deputate alla captazione di questa sostanza nel fegato. Si tratta di una condizione (non può essere considerata una vera e propria malattia) relativamente comune soprattutto nella popolazione giovanile (in Italia 1-2%) che tende, di solito, a regredire spontaneamente con il passare degli anni (questa sindrome è molto rara oltre i 40 anni). Questi soggetti non presentano alcuna sintomatologia particolare a parte la colorazione itterica della cute e delle sclere, la cui intensità varia anche rapidamente nel tempo in rapporto alle modificazioni della bilirubinemia che oscilla abitualmente tra i 2 e i 3 mg/100 ml. Non si riscontrano altre alterazioni: i valori dei parametri di funzionalità epatica sono tutti normali, così come normale è l’esame bioptico del fegato. Esistono, peraltro, varie forme di Gilbert, ed in particolare, sono stati distinti due tipi principali, tipo I e tipo II, anche se la distinzione non ha sempre valore assoluto: nel Gilbert di tipo I esiste soltanto un difetto nella captazione epatica della bilirubina, mentre nel tipo II, oltre a questo, è stata dimostrata anche una iperemolisi da diminuita sopravvivenza dei globuli rossi con conseguente aumentata formazione di bilirubina. In realtà è molto probabile che i soggetti con Gilbert di tipo II abbiano in partenza un difetto di captazione più lieve, il quale viene messo in evidenza solo per una qualsiasi causa intercorrente come può essere in caso di
diminuita sopravvivenza dei globuli rossi e, quindi, di iperproduzione della bilirubina (quindi la distinzione è artificiosa poiché si tratta, in pratica, della stessa condizione che si manifesta con un diverso grado del difetto di captazione). Inoltre, sia nel Gilbert di tipo I sia in quello di tipo II è stato anche riscontrato un variabile deficit a carico della glicurono-coniugazione (e forse proprio questa è la causa più importante tra tutte nella maggior parte dei casi). È stato infatti dimostrato che in questi pazienti il gene che codifica per l’UDPGA (responsabile per il 99% della coniugazione della bilirubina) presenta delle mutazioni che determinano minore efficacia dell’enzima; in rapporto ad esse è oggi possibile distinguere la sindrome di Gilbert in due varianti: una, più lieve e più comune, trasmessa come carattere autosomico recessivo, e una, più rara e più grave, trasmessa come carattere autosomico dominante, imparentata con la sindrome di Crigler-Najjar (pag. 520). I soggetti con il Gilbert sono persone del tutto normali, che non lamentano alcun disturbo a parte l’inconveniente estetico del colorito giallognolo della cute e delle sclere; tuttavia esistono problemi diagnostici in quanto deve essere esclusa l’esistenza di un’eventuale epatopatia. L’unico dato di laboratorio alterato è la bilirubinemia che è sempre aumentata ed è praticamente tutta di tipo indiretto; la diagnosi differenziale nei confronti delle iperbilirubinemie indirette da anemia emolitica (e da tutte le altre cause di aumentata produzione) va posta valutando l’urobilinogeno nelle urine che è aumentato in questi casi, mentre è normale o, anche, ridotto nel Gilbert. Comunque, la diagnosi di questa sindrome, che ha sempre prognosi del tutto buona e che non richiede alcuna terapia è, peraltro, confermata mediante l’esecuzione di alcuni test, in particolare due. • La prova del digiuno (300 cal/die × 2 giorni), che provoca un aumento della bilirubinemia (e quindi dell’ittero) di almeno 2 mg/100 ml in presenza di sindrome di Gilbert, equivalendo ad una condizione di stress che riduce transitoriamente le capacità funzionali del fegato (lo stesso risultato si ottiene somministrando acido nicotinico o suoi derivati). • Il test con barbiturici (fenobarbital), la cui somministrazione per 3 giorni consecutivi alla dose di 100 mg/die per via orale provoca una diminuzione della bilirubinemia, in quanto queste sostanze si comportano da induttori enzimatici facilitando le reazioni chimiche nel fegato e quindi anche quelle di captazione e di coniugazione della bilirubina. B. Ittero postepatitico. Una condizione del tutto identica a quella che si verifica nella sindrome di Gilbert si può avere per un certo periodo di tempo dopo un’epatite virale acuta (ittero postepatitico o di Kalk): questo difetto di captazione può protrarsi abbastanza a lungo, anche diversi mesi, ma poi regredisce spontaneamente. L’unico sintomo è l’ittero, che può persistere più a lungo dopo un episodio di epatite virale itterica o che può anche far seguito ad un episodio di epatite anitteri-
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ca, trascorsa in forma inapparente, e la cui diagnosi viene fatta a posteriori proprio in relazione alla comparsa ad un certo punto, in questi soggetti, di ittero dovuto a difetto di captazione della bilirubina. C. Scompenso cardiaco e/o shunt porta-cava. Situazioni analoghe si possono avere in altri casi: per esempio, nello scompenso cardiaco congestizio o in presenza di shunt porta-cava. Nel primo caso, per effetto della congestione, si verifica stasi venosa a carico del sistema delle grosse vene e quindi, a monte, anche a livello del fegato (fegato da stasi) per cui si può avere un modesto ittero a bilirubina indiretta dovuto a difetto di captazione nell’ambito di un danno globale delle funzioni epatocitarie. Lo stesso può accadere in pazienti, di regola con cirrosi epatica, che vengono sottoposti a terapia chirurgica per la correzione dell’ipertensione portale con la creazione di uno shunt tra rami della porta e rami della cava inferiore: questo comporta il “salto” del distretto epatico con conseguente compromissione delle normali funzioni epatocitarie. D. Ittero da farmaci. Anche alcuni farmaci possono dare ittero di questo tipo: in particolare l’acido flavaspidico, usato come antielmintico e la novobiocina, un antibiotico che può interferire sia con il processo di captazione sia con quello di coniugazione della bilirubina a livello epatico. Itteri da difetto di coniugazione della bilirubina I difetti di coniugazione della bilirubina possono verificarsi in diverse condizioni: • ittero neonatale: – da immaturità enzimatica; – da inibizione da siero materno (sindrome di Lucey-Driscoll); • ittero da latte materno; • sindrome di Crigler-Najjar (I e II tipo); • ittero da farmaci. A. Ittero neonatale. La condizione più comune è l’ittero neonatale; capita, infatti, molto spesso che i bambini nei giorni immediatamente successivi alla nascita diventino un po’ itterici (si parla anche di ittero fisiologico del neonato). Questo ittero, assai meno importante di quello che si verifica nella eritroblastosi da incompatibilità maternofetale, è dovuto ad un deficit della coniugazione per un difetto transitorio dell’enzima glicuronil-transferasi, che necessita di alcuni giorni prima di mettersi a funzionare a pieno regime. L’ittero esordisce dopo 3-4 giorni per regredire spontaneamente in ottava-decima giornata ed è in genere di grado piuttosto lieve. Un’altra forma di ittero neonatale, non dovuta ad immaturità della glicuronil-transferasi, è quella legata all’inibizione di questo enzima da parte di una sostanza presente nel siero della madre (pregnano 3--20--diolo) che giunge al feto attraverso il circolo materno- fetale.
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B. Ittero da latte materno. Nel lattante alimentato al seno si può verificare ittero, anche in questo caso di natura transitoria, in quanto il latte materno contiene una sostanza di tipo steroideo (che è ancora il pregnano 3--20--diolo) la quale, come è già stato detto, è in grado di inibire la glicuronil-transferasi. C. Sindrome di Crigler-Najjar. Una forma molto più grave è quella nota come sindrome di CriglerNajjar, di cui esistono due varianti (tipo I e tipo II): in entrambi i casi si ha un difetto congenito dell’enzima glicuronil-transferasi che nel tipo I è pressoché totale (forma autosomica recessiva) mentre nel tipo II è solo parziale (forma autosomica dominante a penetranza incompleta). Questo comporta un grave ostacolo al metabolismo della bilirubina da parte del fegato e si instaura iperbilirubinemia indiretta di grado anche molto elevato, soprattutto nel Crigler-Najjar di tipo I (> 20 mg/100 ml, ma talvolta 40-50 mg); in questa situazione l’albumina può legare una buona quantità della bilirubina in eccesso, ma se i livelli di questa sono molto alti, essa tenderà comunque a depositarsi nei tessuti dell’organismo, soprattutto quelli ricchi di lipidi e, quindi, in particolare nel tessuto nervoso. L’ittero si manifesta già nel periodo neonatale e questi bambini si presentano di regola fortemente itterici, ma soprattutto sviluppano una condizione neurologica, detta ittero nucleare o Kernittero, che consiste nella deposizione di bilirubina a livello dei nuclei grigi della base, con insorgenza di alterazioni neurologiche che sono in genere tanto gravi da non permettere la sopravvivenza oltre i primi anni di vita (Crigler-Najjar di tipo I in forma omozigote; gli eterozigoti, invece, non presentano alcun disturbo, ma sono portatori di questo carattere e lo trasmettono ai discendenti). La variante di tipo II è più lieve poiché il deficit dell’attività glicuronil-transferasica è soltanto parziale; in questo caso l’ittero è sempre accentuato con valori di bilirubina indiretta tra i 5 e i 20 mg/100 ml, ma tale condizione non comporta l’insorgenza di alcun quadro neurologico importante ed è compatibile con una vita del tutto normale. D. Ittero da farmaci. Anche alcuni farmaci possono provocare la comparsa di ittero per compromissione della glicurono-coniugazione: tra questi ricordiamo, in particolare, il cloramfenicolo, la rifampicina e la novobiocina; quest’ultima, come già ricordato, inibisce anche il processo di captazione.
Itteri da difetto di escrezione della bilirubina o da ostruzione meccanica delle vie biliari L’ostacolo all’escrezione della bilirubina può essere localizzato a diversi livelli: infatti può esistere un difetto del meccanismo di escrezione già in corrispon-
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denza del polo biliare dell’epatocita oppure l’ostacolo può essere situato a livello delle vie biliari vere e proprie, sia quelle intraepatiche sia quelle extraepatiche. In genere, vengono distinti itteri da colestasi intraepatica ed itteri da colestasi extraepatica in cui, comunque, le ripercussioni sul metabolismo della bilirubina sono identiche. La bilirubina è prodotta in quantità normale, la captazione e la coniugazione avvengono regolarmente, ma l’escrezione è ostacolata e questo determina un accumulo di bilirubina diretta che a lungo andare influenza negativamente, per il sovraccarico di lavoro metabolico, sia la capacità di captazione sia la capacità di coniugazione di questa sostanza da parte degli epatociti. Ne consegue un certo incremento anche della bilirubina indiretta, ma soprattutto di quella coniugata che non può essere eliminata normalmente nell’intestino per cui refluisce nel sangue ed entra nella circolazione generale; la bilirubina diretta, il cui aumento è variabile a seconda del grado di ostruzione, è solubile in acqua, può superare il filtro glomerulare e viene eliminata con le urine; per contro diminuisce la formazione dei bilinogeni e quindi la presenza nelle feci e nelle urine di urobilinogeno che può anche essere del tutto assente se l’ostruzione biliare è completa. In sintesi, in queste forme di ittero, si riscontrano (Fig. 26.4): • iperbilirubinemia, soprattutto di tipo diretto (la bilirubina diretta, in questi casi, costituisce più del 50% della bilirubinemia totale); • diminuzione dell’urobilinogeno nelle feci, che nelle forme più gravi (in cui l’ostruzione è molto accentuata) possono essere completamente acoliche (le feci hanno l’aspetto della creta, di colorito grigiastrobiancastro); • presenza di bilirubina nelle urine e diminuzione fino a completa assenza di urobilinogeno. Naturalmente, a seconda del grado di ostruzione, si possono avere innumerevoli situazioni intermedie: in particolare, se l’ostacolo è soltanto parziale, una quota di bilirubina coniugata riesce a giungere nell’intestino, per cui si può avere la formazione di una piccola quantità di bilinogeni che passano in parte nelle feci (che in questo caso sono ipocoliche, e non acoliche) ed in parte vengono riassorbiti, tornano al fegato, sfuggono nella circolazione generale e vengono eliminati con le urine (l’assenza o la presenza di urobilinogeno nelle urine consente la distinzione tra difetto di escrezione biliare completo o soltanto parziale). Il difetto di escrezione può essere da colestasi intraepatica o extraepatica; la distinzione è molto importante, non tanto da un punto di vista medico, quanto per gli eventuali provvedimenti chirurgici che possono essere necessari in molti di questi casi. Le prime vie biliari sono costituite dai canalicoli che sono delimitati dalla giusta opposizione del polo biliare degli epatociti; questi confluiscono a loro volta nei duttuli o colangioli, che si trovano tra un lobulo e l’altro, e quindi la bile passa in dotti di calibro sempre maggiore fino alle ramificazioni dell’epatico che con-
BIL- GA
BIL- A
Figura 26.4 - Metabolismo della bilirubina in caso di ittero da difetto di escrezione o da ostruzione meccanica delle vie biliari. • Modesto aumento della bilirubina indiretta; • notevole incremento della bilirubina coniugata; • diminuzione dell’urobilinogeno nelle feci fino a completa assenza (feci ipocoliche fino ad acolia completa); • presenza di bilirubina nelle urine e diminuzione fino a completa assenza di urobilinogeno. BIL-A = bilirubina + albumina; BIL-GA = bilirubina coniugata con acido glicuronico.
vergono nel dotto epatico finale il quale, insieme con il cistico ed il coledoco, fa parte delle vie biliari extraepatiche. Colestasi intraepatica • Epatite colestatica – cirrosi biliare primitiva – colangite sclerosante. • Sindrome di Dubin-Johnson e sindrome di Rotor. • Colestasi ricorrente familiare. • Colestasi gravidica. • Colestasi da farmaci. • Colestasi da perossisomopatie. A. Epatite colestatica – cirrosi biliare primitiva – colangite sclerosante. In alcune forme di epatite acuta, soprattutto quella virale (si parla allora di epatite colestatica), il difetto nel metabolismo della bilirubina è fondamentalmente di natura colestatica con ostacolo all’escrezione a livello dei canalicoli biliari mentre le altre funzioni degli epatociti vengono meglio conservate. Questo andamento prolunga la malattia di circa 1-2 mesi rispetto al decorso più tipico, ma non ne modifica la prognosi in senso peggiorativo. Situazioni analoghe si possono verificare anche in corso di malattie epatiche di natura cronica in cui si instaura un ostacolo a livello dei canalicoli biliari o dei duttuli: in particolare, tale condizione è caratteristica
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della cirrosi biliare primitiva e della colangite sclerosante (in quest’ultima più raramente).
di tipo diretto; regredisce completamente a breve distanza dal parto.
B. Sindrome di Dubin-Johnson – sindrome di Rotor. Sono due condizioni molto simili, caratterizzate entrambe da colestasi intraepatica per deficit della capacità degli epatociti di escrezione della bilirubina attraverso il polo biliare. Il difetto è sempre parziale e quindi l’iperbilirubinemia, che è prevalentemente di tipo diretto, non raggiunge mai livelli molto elevati (2-6 mg/100 ml) e l’ittero non è di regola particolarmente intenso. Le due forme hanno entrambe carattere ereditario (autosomico recessivo quella di Dubin-Johnson e autosomico dominante a penetranza incompleta quella di Rotor) e la distinzione non è clinica, ma soltanto anatomopatologica, in quanto nella prima, con la biopsia, si dimostra la presenza negli epatociti di un pigmento brunoscuro la cui componente principale è costituita da una sostanza melanino-simile (tale reperto è completamente assente nella sindrome di Rotor).
E. Colestasi da farmaci. Molti farmaci possono provocare l’insorgenza di ittero da colestasi intraepatica interferendo con il meccanismo di escrezione canalicolare della bilirubina; questa proprietà, che non è sempre dose-dipendente, è caratteristica di numerose sostanze: steroidi anabolizzanti (in genere 17-alchil sostituiti), contraccettivi orali (in questo caso il meccanismo è analogo a quello legato all’iperestrogenismo della colestasi gravidica), clorpromazina (e altri derivati fenotiazinici), antibiotici (rifampicina ed eritromicina, quest’ultima in forma di estolato).
C. Colestasi ricorrente familiare (o benigna o malattia di Summerskill-Walshe, 1959). È una condizione ereditaria che interessa soggetti giovani e che si manifesta in forma ricorrente (cioè ciclicamente) con lieve aumento della bilirubina diretta nelle fasi in cui la colestasi è presente e che regredisce senza lasciare conseguenze né funzionali né morfologiche. Ben più grave è la colestasi intraepatica progressiva familiare (o malattia di Byler, 1975), forma piuttosto rara a carattere ereditario, in cui l’ittero ha un andamento progressivamente ingravescente e la prognosi è assai più severa (la morte per cirrosi epatica con insufficienza epatica progressiva si verifica di solito durante l’infanzia o l’adolescenza). D. Colestasi gravidica (o malattia di Svanborg, 1954). È una condizione più importante e relativamente frequente; questa sindrome si manifesta di solito nel terzo trimestre di gravidanza, talvolta anche nel secondo, e sembra sia correlata alle particolari caratteristiche ormonali proprie di questo periodo (soprattutto l’iperestrogenismo). La colestasi gravidica non è dovuta semplicemente al difetto di escrezione della bilirubina a livello del polo biliare dell’epatocita (come avviene nel DubinJohnson, nel Rotor, nella colestasi ricorrente familiare) in quanto l’ostruzione riguarda non solo i canalicoli, ma, forse, anche i duttuli biliari, per cui non si ha soltanto ritenzione della bilirubina, ma anche di tutte le altre sostanze presenti nella bile e, in particolare, dei sali biliari. Infatti, in questi casi, il sintomo più importante è il prurito intenso e diffuso, dovuto appunto all’aumentata concentrazione di queste sostanze nel sangue (queste donne vengono trattate con particolari resine a scambio ionico, per esempio la colestiramina, che inibiscono il riassorbimento intestinale dei sali biliari). L’ittero di regola non è mai molto intenso ed è sempre caratterizzato da iperbilirubinemia prevalentemente
F. Colestasi intraepatica da perossisomopatie. I perissosomi sono strutture cellulari che svolgono importanti funzioni nell’ambito del metabolismo degli epatociti. Si distinguono forme diverse di perossisomopatie che si manifestano soprattutto in epoca neonatale o, comunque, nei primi anni di vita. a) Deficit funzionale o anatomico dei perissosomi: • malattia di Zellweger o sindrome cerebro-epatorenale; • malattia di Refsum; • adrenoleucodistrofia neonatale. b) Deficit funzionale (non numerico) dei perissosomi: • pseudomalattia di Zellweger. c) Deficit enzimatico dei perissosomi (numericamente normali): • malattia di Refsum dell’adulto; • adrenoleucodistrofia X-linked; • acatalasemia. Colestasi extraepatica • Calcolosi biliare. • Neoplasie. Calcolosi biliare – Neoplasie. Ittero da colestasi extraepatica si può verificare in tutte quelle condizioni in cui è presente un’ostruzione a carico delle vie biliari di calibro maggiore. Le cause di gran lunga più comuni sono rappresentate dalla presenza di calcolosi biliare o di neoplasie, sia a carico delle vie biliari stesse sia a carico di altri organi, ma in grado di provocare ostacolo al deflusso della bile (in particolare neoplasie della testa del pancreas). Tutte queste condizioni verranno prese in esame nel capitolo 31 dedicato alla patologia delle vie biliari. A conclusione di questo capitolo, una menzione particolare va fatta per quella che è, forse, la forma più comune di ittero, cioè l’ittero epatocellulare (o ittero misto), che si instaura quando è presente un’epatopatia in senso stretto (epatite o cirrosi). Infatti se la lesione interessa direttamente la cellula epatica, tutte le funzioni metaboliche risultano compromesse (captazione, coniugazione, escrezione) e si possono instaurare delle situa-
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zioni intermedie tra quelle caratterizzate da iperbilirubinemia prevalentemente di tipo indiretto (in cui la bilirubina diretta è sempre inferiore al 20% di quella totale) e quelle con iperbilirubinemia prevalentemente di tipo diretto (in cui la bilirubina diretta è sempre superiore al 50% del totale); in questi casi l’incremento riguar-
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da sia la bilirubina indiretta sia quella coniugata (che costituisce, però, anche il 30-40% della bilirubina totale) a conferma del fatto che i meccanismi patogenetici implicati sono differenti e variamente combinati nell’ambito di un deficit globale della funzionalità epatocitaria.
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INSUFFICIENZA EPATICA V. BALDINI
L’insufficienza epatica è una condizione caratterizzata da una compromissione globale della funzionalità epatocitaria, che si instaura nel corso delle più svariate epatopatie quando il danno presente nel fegato raggiunge livelli elevati. Il termine di insufficienza epatica viene spesso impiegato in maniera impropria in quanto viene riferito anche a situazioni in cui si riscontra soltanto l’alterazione di alcune prove di funzionalità epatica in assenza di una compromissione funzionale importante di questo organo (questa condizione corrisponde alla cosiddetta “piccola” insufficienza epatica che attualmente non trova più posto nella classificazione nosografica delle malattie epatiche). La questione ha carattere convenzionale, ma in pratica si ritiene corretto parlare di insufficienza epatica soltanto quando il deficit funzionale è globale e di grado rilevante e comporta l’insorgenza di sintomi e segni che sono espressione del venir meno delle normali attività di tale organo. Queste manifestazioni possono essere di genere diverso e vengono distinte in: • • • • • • •
generali; cutanee; endocrine; ematologiche; cardiovascolari; neurologiche; renali.
MANIFESTAZIONI GENERALI Le manifestazioni di carattere generale riguardano le ripercussioni nell’organismo delle alterazioni metaboliche correlate alla compromissione della funzionalità epatica. A. Metabolismo glucidico. Il fegato ha un ruolo molto importante nella regolazione del metabolismo
glucidico; infatti questo organo opera la sintesi del glicogeno, che rappresenta il polisaccaride di riserva dei carboidrati e che permette la rapida immissione in circolo del glucosio in rapporto alle necessità metaboliche dell’organismo attraverso il processo della glicogenolisi. Non solo, in questa sede avviene la sintesi di Insulinlike growth factor 1 e 2 (IGF 1 e IGF 2) che svolgono attività ipoglicemizzante (la quale si riduce in presenza di insufficienza epatica) e, ancora, diminuisce, in caso di epatopatia significativa, il catabolismo dell’ormone della crescita (growth hormone o GH) che abitualmente antagonizza l’azione dell’insulina a livello postrecettoriale, per cui tende ad instaurarsi iperglicemia che, a sua volta, stimola l’attività delle cellule delle insule pancreatiche (analogamente è alterato il catabolismo della somatostatina che fisiologicamente ha effetto ipoglicemizzante). Il fegato, inoltre, è anche l’organo in cui si svolge la gluconeogenesi, cioè la sintesi di glucosio a partire da precursori non glucidici, soprattutto aminoacidi: questo processo è della massima importanza perché consente di mantenere i livelli della glicemia entro i limiti normali in circostanze variabili, evitando eccessive fluttuazioni (per es., l’ipoglicemia a distanza dai pasti), che potrebbero avere negative ripercussioni sui tessuti più sensibili a queste modificazioni e, soprattutto, sul cervello. Sia la glicogenosintesi sia la gluconeogenesi sono caratterizzate da una notevole capacità di adattamento, per cui è necessario che il difetto di funzionalità epatica sia molto accentuato prima che si instauri una compromissione significativa di questi processi metabolici; ne consegue che l’insorgenza della ipoglicemia, dovuta alla mancanza delle scorte di glicogeno ed alla diminuzione della gluconeogenesi, si verificherà soltanto negli stadi più avanzati di svariate epatopatie, acute o croniche (epatite fulminante, cirrosi epatica): in questi casi, inoltre, l’ipoglicemia può anche essere correlata alla ridotta inattivazione epatica dell’insulina per difetto dell’insulinasi (iperinsulinismo). In stadi meno avanzati dell’insufficienza epatica, in cui è ancora presente un discreto equilibrio metabolico,
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è frequente, per contro, la comparsa di iperglicemia: infatti nel 50-80% dei casi di cirrosi si riscontra una sensibile diminuzione della tolleranza glucidica, anche se soltanto nel 10-15% di questi pazienti si osserva un diabete conclamato. Questo non vuol dire che il diabete sia una malattia comunissima tra gli epatopatici, ma il rischio, se confrontato con quello della popolazione generale, è certamente aumentato. La malattia epatica costituisce, quindi, per il soggetto geneticamente predisposto, un fattore di rischio nei confronti del diabete; peraltro, è importante distinguere fra il diabete vero e proprio di origine epatica che insorge in un soggetto predisposto e le alterazioni della glicoregolazione presenti in tutte le epatopatie croniche, senza dimenticare che in certi casi può essere il diabete stesso a provocare l’insorgenza di epatopatia (steatosi in relazione alla dislipidemia tipica del diabete, microangiopatia diabetica con conseguente ischemia ed ipossia epatica). L’insorgenza del diabete in corso di malattia epatica sembra sia correlata al fatto che il fegato esercita normalmente un’attività di inibizione sul glucagone, ormone iperglicemizzante che viene metabolizzato in questo organo: infatti, in presenza di insufficienza epatica, l’emivita del glucagone pancreatico è allungata ed è abituale il riscontro di iperglucagonemia; in questi casi, inoltre, in cui il deficit funzionale non è ancora molto accentuato (si avrebbe, allora, come già detto, iperinsulinismo) anche l’azione dell’insulina è parzialmente inibita verosimilmente a causa di particolari fattori umorali, soprattutto di carattere ormonale. B. Metabolismo proteico. L’alterazione fondamentale riguardo il metabolismo proteico è un difetto delle funzioni sintetiche delle proteine del plasma e soprattutto dell’albumina; ne consegue il riscontro all’elettroforesi di ipoalbuminemia con conseguente riduzione della pressione oncotica e quindi tendenza allo sviluppo di edemi (l’emivita dell’albumina è di 25 giorni e perciò devono trascorrere almeno 3-4 settimane prima che i livelli plasmatici di questa proteina si abbassino in misura rilevante tanto da risultare apprezzabili). C. Metabolismo lipidico. Il fegato svolge un ruolo fondamentale nel metabolismo dei grassi nell’organismo, come dimostra la particolare frequenza della steatosi epatica (o fegato grasso), di cui si parla in un altro capitolo. Inoltre il fegato è l’organo deputato alla sintesi degli acidi biliari e quindi, in caso di insufficienza epatica, si può verificare una diminuzione della formazione di queste sostanze e, di conseguenza, anche dei sali biliari e della loro escrezione nell’intestino: questo comporta un deficit dell’assorbimento dei grassi e di tutte le vitamine liposolubili (A, D, E, K), evenienza non rara in corso di malattie epatiche soprattutto di natura cronica. D. Metabolismo dei farmaci. Molti farmaci vengono metabolizzati nel fegato dove vengono sottoposti a processi di coniugazione con sostanze diverse e quindi
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
eliminati nelle vie biliari; pertanto, in presenza di insufficienza epatica di grado cospicuo, il metabolismo di questi composti avviene soltanto in forma parziale e possono instaurarsi più facilmente fenomeni di natura tossica dovuti ad iperaccumulo del farmaco stesso o di qualche metabolita intermedio.
MANIFESTAZIONI CUTANEE La manifestazione cutanea più frequente è certamente l’ittero, colorazione giallognola della cute e delle mucose che compare quando la bilirubinemia supera i 2-2,5 mg/100 ml, evidenziandosi inizialmente soltanto a livello delle sclere (subittero) e quindi anche a livello della cute. Se la lesione è soprattutto a carico degli epatociti (ittero a bilirubina indiretta), il colorito cutaneo può presentare una sfumatura rosso-arancione (ittero rubinico), come nell’atrofia epatica subacuta, mentre se il danno coinvolge prevalentemente l’escrezione biliare della bilirubina (ittero a bilirubina diretta), la sfumatura è verdastra (ittero verdinico). Inoltre, in corso di epatopatia cronica, si può verificare un’aumentata deposizione nella cute di melanina il cui meccanismo patogenetico è sconosciuto (verosimilmente è in gioco un’abnorme stimolazione dell’asse ipofiso-surrenalico con incrementata produzione di ACTH e, consensualmente, di MSH, che è l’ormone melanotrofo), per cui questi soggetti presentano talvolta un colorito grigiastro (ittero melanico) che impone la diagnosi differenziale con l’ittero bronzino dell’emocromatosi. Se l’ittero è dovuto ad un difetto di escrezione, si accompagnerà anche a ritenzione dei sali biliari e quindi alla presenza di prurito diffuso di intensità variabile a seconda del grado di ostruzione. Quanto agli annessi cutanei, in caso di insufficienza epatica di grado cospicuo, come spesso si verifica nella cirrosi, le unghie possono assumere un tipico aspetto biancastro (unghie bianche o di Terry). Altre manifestazioni cutanee dell’insufficienza epatica sono: l’eritema palmare e gli spider naevi. A. Eritema palmare. Consiste in un arrossamento, a margini molto netti, che scompare alla digitopressione (eritema), al palmo delle mani, soprattutto evidente in corrispondenza delle eminenze tenar ed ipotenar. L’eritema palmare, che è frequente in corso di malattie epatiche croniche, non è patognomonico dell’esistenza di epatopatia: infatti, può essere riscontrato anche in soggetti del tutto normali oppure in presenza di pneumopatie croniche di vario genere. B. Spider naevi. Vengono chiamati anche angiomi a ragno o stelle neviche e sono molto più importanti e più specifici dell’eritema palmare: di regola esprimono l’esistenza di insufficienza epatica di grado elevato, la loro comparsa in breve tempo ed in gran numero indica evolutività della malattia ed ha significato prognostico sfavorevole.
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27 - INSUFFICIENZA EPATICA
Il termine “spider” (ragno) ricalca bene il caratteristico aspetto di queste manifestazioni: si tratta di dilatazioni vascolari dovute alla presenza di venule che si dispongono a formare un groviglio intorno ad un’arteriola centrale da cui si dipartono piccole ramificazioni che appunto assomigliano alle zampe di un ragno (o a raggi di stella). Queste lesioni hanno un diametro complessivo di circa 1-2 cm e compaiono praticamente soltanto nel territorio di distribuzione della vena cava superiore (volto, torace, arti superiori), mentre sono rarissime all’addome e agli arti inferiori (la ragione di questa distribuzione è sconosciuta). Sono dovute a piccoli shunt arterovenosi tra un’arteriola e una venula che si formano a livello cutaneo ed infatti una compressione puntiforme accentuata nella porzione centrale fa scomparire transitoriamente questa figura, mentre una compressione più debole determina la comparsa di una ritmica pulsazione trasmessa dalla arteriola che partecipa alla creazione di questi cortocircuiti. Sia la patogenesi dell’eritema palmare sia quella degli spider naevi non è ben nota: in entrambi i casi un ruolo importante è certamente quello della vasodilatazione arteriolare e della formazione di shunt arterovenosi (di cui, per es., è particolarmente ricco il palmo della mano), ma non si esclude l’importanza di fattori ormonali, forse l’iperestrogenismo, come proverebbe la frequente comparsa di spider naevi durante la gravidanza per regredire completamente dopo il parto, anche se un rapporto causale tra queste condizioni non è sicuramente dimostrato. Molto meno frequente è la presenza, in corso di insufficienza epatica, di xantelasmi palpebrali (in genere parte nasale della palpebra superiore) o di depositi lineari di colesterolo, soprattutto in presenza di cirrosi biliare primitiva (dove è comune l’ipercolesterolemia); o anche di semplice aumento della temperatura cutanea con sensazione di calore al termotatto, verosimilmente in rapporto ad alterazioni circolatorie (condizione circolatoria iperdinamica) per la presenza in circolo di sostanze vasoattive che il fegato non è in grado di inattivare normalmente.
Questo meccanismo riguarda soprattutto gli ormoni steroidei, quindi quelli sessuali e quelli del corticosurrene, il cui metabolismo risulta, pertanto, variamente compromesso in presenza di insufficienza epatica. Le manifestazioni endocrine più importanti interessano, infatti, le caratteristiche sessuali del soggetto, come dimostrano la riduzione della libido, dell’attività sessuale e l’ipogonadismo del cirrotico (in cui la sintesi del testosterone è significativamente diminuita ed è ridotto il livello di testosterone circolante). Nell’uomo, dove tali manifestazioni sono più evidenti che nella donna, si instaura una perdita progressiva dei caratteri sessuali secondari con acquisizione di alcuni caratteri femminili (femminilizzazione): soprattutto si ha una perdita dei peli la cui distribuzione si altera con diminuzione specialmente alle ascelle ed al pube, ma anche al torace, all’addome e agli arti. Inoltre, in un’epatopatia importante, si verifica ginecomastia, cioè un’ipertrofia delle ghiandole mammarie, che interessa di solito entrambi i lati, anche se in misura diseguale; si tratta di una ginecomastia vera (alla palpazione si apprezza la struttura ghiandolare) e non di una pseudoginecomastia, dovuta soltanto all’accumulo di grasso in corrispondenza della regione mammaria. L’ipotesi patogenetica originaria di un difetto del catabolismo e dell’eliminazione degli estrogeni da parte del fegato non sembra adesso sempre sostenibile poiché né l’emivita plasmatica né la velocità di “clearance” metabolica di questi ormoni sono modificate in tutti i pazienti con cirrosi e non esiste sempre proporzionalità tra grado di insufficienza epatica e manifestazioni cliniche di femminilizzazione; pertanto, la patogenesi rimane tuttora sconosciuta. Nella donna, dove, come già ricordato, questi fenomeni sono sempre meno evidenti, si può avere amenorrea ed ipotrofia della ghiandola mammaria, cioè manifestazioni di natura opposta a quelle che si riscontrano nell’uomo e che determinano una perdita dei caratteri femminili senza, peraltro, giungere a forme conclamate di virilizzazione. Anche la patogenesi di queste alterazioni, in cui certamente entrano in gioco squilibri ormonali complessi, è tuttora sconosciuta.
MANIFESTAZIONI ENDOCRINE
MANIFESTAZIONI EMATOLOGICHE
Il fegato ha un ruolo molto importante nel metabolismo di diversi ormoni, in primo luogo in quanto opera la sintesi di diverse proteine deputate al trasporto di queste sostanze in circolo (per es., la globulina che trasporta la tiroxina e la transcortina che trasporta gli ormoni steroidei) ed in secondo luogo in quanto nel fegato molti ormoni vengono sottoposti ad un processo di coniugazione analogo a quello che avviene per la bilirubina e, così coniugati e dopo opportune trasformazioni, possono essere eliminati nell’intestino ed essere immessi nel circolo enteroepatico: ciò consente il ritorno in circolo di queste sostanze o di loro derivati permettendo l’escrezione urinaria dei prodotti del catabolismo ormonale.
Le ripercussioni più importanti dal punto di vista ematologico in corso di epatopatia cronica sono quelle riguardanti il metabolismo dell’acido folico. L’acido folico è presente negli alimenti della dieta sotto forma di folati (cioè di poliglutammati), i quali per essere assorbiti devono essere degradati ad opera della -glutamilpeptidasi (o coniugasi) fino ad ottenere l’acido pteroilglutammico, che viene assorbito dalle cellule della mucosa intestinale dove si forma l’N-5-metilfolato. Quest’ultimo giunge al fegato dove viene trasformato nella sua forma attiva attraverso un processo di riduzione (che consiste nell’aggiunta di 4 atomi di H) con formazione di acido tetraidrofolico (o acido folinico).
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Il fegato è anche l’organo in cui si raccolgono le scorte di acido folico (5-10 mg) che sono abitualmente sufficienti a coprire il fabbisogno quotidiano di circa 20-30 giorni tenendo conto che tale fabbisogno è pressappoco 100-200 volte superiore a quello della vitamina B12 (100-200 g/die contro 1 g/die). In presenza di insufficienza epatica, specie se di grado cospicuo, il processo di immagazzinamento e, soprattutto, quello di attivazione dell’acido folico potranno essere variamente alterati con insorgenza di anemia macrocitica megaloblastica, la quale, per esempio, si riscontra in circa il 30% dei pazienti con cirrosi epatica. Anche una sindrome emorragica fa parte del quadro abituale dell’insufficienza epatica grave: infatti, il fegato, come già ricordato, è l’organo responsabile della formazione di numerosi fattori della coagulazione (I, II, V, VII, IX, X), alcuni dei quali (II, VII, IX, X) sono vitamina K dipendenti nel senso che la loro sintesi richiede come fattore necessario la presenza di questa vitamina. Se il danno epatico è rilevante, si verificherà un deficit della formazione di queste sostanze con conseguente tendenza a manifestazioni emorragiche, le quali potranno essere favorite anche dalla presenza di piastrinopenia, che insorge in rapporto all’ipersplenismo legato alla splenomegalia più o meno rilevante, ma comunque assai frequente nelle epatopatie croniche di grado marcato. In alcuni casi, la diminuzione della sintesi dei fattori della coagulazione (II, VII, IX, X) è correlata ad una difettosa produzione o escrezione dei sali biliari con conseguente malassorbimento della vitamina K; il test di Koller in tali condizioni risulta positivo se la compromissione funzionale epatocitaria non è ancora rilevante (Cap. 24).
MANIFESTAZIONI CARDIOVASCOLARI Nelle epatopatie di grado avanzato si possono riscontrare manifestazioni cardiovascolari che sono fondamentalmente di due tipi: in primo luogo un aumento della gittata cardiaca, il quale non viene di solito rilevato clinicamente, ma solo attraverso indagini strumentali; tuttavia, in caso di preesistente cardiopatia, questo evento può assumere un significato più importante, poiché l’aumento della gittata può avvenire solamente aumentando la frequenza cardiaca con possibile insorgenza, nelle forme più gravi, di tachicardia accentuata e cardiopalmo. In secondo luogo è possibile la comparsa di un certo grado di cianosi (quando l’Hb ridotta nel sangue capillare supera i 5 g/100 ml in valore assoluto), che è piuttosto frequente quando l’insufficienza epatica è di entità cospicua. La patogenesi di queste manifestazioni sembra sia correlata alla particolare tendenza, osservata in corso di epatopatia, alla formazione di shunt arterovenosi sia a livello del circolo polmonare, in maniera che il sangue in parte non viene ossigenato (da cui la comparsa di
cianosi), sia a livello di altri distretti circolatori con conseguente riduzione delle resistenze periferiche e quindi aumento della gittata cardiaca.
MANIFESTAZIONI NEUROLOGICHE Le manifestazioni neurologiche dell’insufficienza epatica sono dovute soprattutto all’azione tossica dell’ammoniaca (NH3) anche se esistono altre sostanze che pure svolgono un ruolo patogenetico importante in questo senso. L’NH3 viene normalmente prodotta in due sedi: la quantità maggiore si forma nell’intestino dove questa sostanza è ottenuta per deaminazione di aminoacidi, che fanno parte dell’apporto dietetico proteico, ad opera della flora batterica (l’ammoniemia del soggetto normale è di 50 + 30 g/100 ml). L’NH3 viene assorbita dalla mucosa intestinale e, tramite il circolo portale, giunge al fegato dove attraverso il ciclo di Krebs-Henseleit (o ciclo della ornitina-citrullina-arginina) viene trasformata completamente, in condizioni normali, in urea, sostanza priva di tossicità che entra nella circolazione generale e viene eliminata con le urine. L’NH3, prodotta nell’intestino, può talvolta passare direttamente in circolo, come avviene in caso di grave insufficienza epatica in cui il difetto funzionale degli epatociti è così rilevante che il ciclo di Krebs-Henseleit diventa insufficiente, per cui non è possibile la completa trasformazione dell’NH3 in urea (e quindi in parte l’NH3 passa in circolo) oppure quando, in caso di ipertensione portale, si formano degli shunt tra rami della porta e rami della cava superiore o inferiore, per cui viene “saltato” il distretto epatico con conseguente passaggio diretto nel sangue della NH3. L’altra fonte di produzione di questa sostanza è il rene: i tubuli renali producono NH3 che viene convertita in ammonio-ioni (NH4+), i quali servono per ridurre l’acidità titolabile nelle urine. Di solito la quantità di NH3 che si forma nel rene non è molto rilevante, a meno che non esistano importanti alterazioni dell’equilibrio acido-base nell’organismo; la reazione che avviene a livello dei tubuli distali è riportata nella figura 27.1. Le cellule tubulari producono NH3 che reagisce con l’H2O formando un ammonio-ione (NH4+) + 1 ione ossidrilico (OH–); l’NH4+ non attraversa la membrana cellulare e quindi se l’NH3 prodotta dai tubuli viene convertita nel lume in NH4+, questo non può più essere riassorbito, mentre l’NH3 è in grado di passare facilmente attraverso la parete delle cellule. L’equilibrio della reazione è spostato a seconda che esista acidosi o alcalosi: l’acidosi determina lo spostamento di questo equilibrio verso destra, mentre l’alcalosi produce un effetto contrario. Di conseguenza, quando nell’organismo si instaura per esempio alcalosi metabolica, una maggiore quantità di NH3, sintetizzata a livello dei tubuli renali, viene riassorbita e ritorna in circolo; questo fatto è piuttosto importante perché i pazienti affetti da epatopatia, per la particolare tendenza
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27 - INSUFFICIENZA EPATICA
ALCALOSI
NH3 + H2O
NH 4+ + OH –
ACIDOSI
Figura 27.1 - Modificazione dell’equilibrio acido-base a livello dei tubuli renali distali. Conversione dell’NH3 prodotta dalle cellule tubulari in ammonio-ioni (NH 4+).
alla formazione di edemi, devono utilizzare frequentemente terapie con farmaci diuretici e molti di questi composti (per es., i tiazidici) provocano alcalosi metabolica determinando perciò, indirettamente, un incremento dell’ammoniemia. L’NH3 è una sostanza dannosa in quanto essa è in grado di superare la barriera ematoliquorale, entrando in contatto diretto con le cellule nervose sulle quali esercita un’azione tossica importante la cui spiegazione, peraltro, non è ben chiarita: è stato ipotizzato che l’NH3 alteri la funzionalità delle membrane neuronali o che provochi un’alterazione del metabolismo delle cellule nervose verosimilmente reagendo con l’acido -chetoglutarico, che viene convertito in acido glutammico. Quest’ultimo, reagendo a sua volta con NH3 presente in eccesso, può trasformarsi in glutammina oppure, ed è questa la reazione più importante dal punto di vista clinico, viene decarbossilato ad acido -amminobutirrico (GABA), il quale svolge un ruolo fondamentale come neurotrasmettitore ad attività inibitoria a livello delle sinapsi del SNC e giustifica il progressivo passaggio verso una condizione di generale rallentamento psicomotorio che caratterizza gli stadi più avanzati dell’encefalopatia epatica (il recettore per il GABA è parzialmente in comune con quello delle benzodiazepine: di qui l’importanza di evitare l’impiego di queste ultime nei soggetti con grave malattia epatica e la relativa utilità dal punto di vista terapeutico, in presenza di encefalopatia, del flumazenil, che è antagonista delle benzodiazepine a livello recettoriale). Peraltro, le manifestazioni neurologiche dell’insufficienza epatica, come è già stato ricordato, non dipendono soltanto dalla NH3, ma anche da altre sostanze che pure esercitano un’azione tossica sulle cellule nervose. Fra queste, importanti sono soprattutto delle amine che si formano nell’intestino a partire dagli aminoacidi delle proteine alimentari e che normalmente vengono inattivate nel fegato analogamente a quanto avviene per l’NH3; in particolare, è stata osservata l’importanza di una modificazione del normale rapporto tra la concentrazione plasmatica e liquorale degli aminoacidi a catena ramificata e quella degli aminoacidi aromatici, nel senso che un incremento di questi ultimi, come si verifica in corso di insufficienza epatica grave, comporte-
rebbe l’eccessivo passaggio attraverso la barriera ematoencefalica di fenilalanina e tirosina con formazione di due falsi neurotrasmettitori, -feniletanolamina ed octopamina. Infatti, anche se il meccanismo patogenetico di queste sostanze è ancora in parte sconosciuto, l’ipotesi più attendibile è che esse si comportino da falsi neurotrasmettitori alterando o bloccando a livello delle sinapsi la trasmissione degli impulsi nervosi, sostituendosi nei siti specifici ai neurotrasmettitori normali. Altre sostanze in grado di danneggiare le cellule nervose sono i mercaptani che sfuggono alla captazione ed al metabolismo epatico ed entrano in circolo (il metilmercaptano ed altre sostanze volatili vengono eliminati con l’alito producendo il caratteristico foetor hepaticus), superano la barriera ematoencefalica ed alterano l’attività funzionale delle membrane neuronali interferendo anche, almeno in parte, nei normali processi di trasformazione della NH3. Azione analoga sembrano possedere anche gli acidi grassi a catena corta, che giungono direttamente al fegato tramite il circolo portale una volta assorbiti a livello intestinale, quando la loro concentrazione plasmatica aumenta in rapporto al diminuito metabolismo di queste sostanze, come si verifica in caso di importante compromissione della funzionalità epatica. Infine, la stessa ipoglicemia, che si può instaurare nelle forme più gravi ed avanzate dell’insufficienza epatica, è molto dannosa in quanto le cellule del sistema nervoso sono particolarmente sensibili alla diminuzione della concentrazione plasmatica del glucosio.
Clinica Dal punto di vista clinico la situazione è un poco differente a seconda che il quadro neurologico sia dovuto all’esclusione funzionale del fegato (“salto del fegato”), in seguito alla formazione di circoli collaterali porta-cava (encefalopatia porto-sistemica) in cui è predominante il ruolo patogenetico della NH3 e delle altre sostanze tossiche già ricordate, oppure al difetto vero e proprio delle funzioni epatocitarie (encefalopatia epatica) in cui il quadro clinico è caratterizzato da quelle manifestazioni che esprimono il venir meno delle capacità funzionali di questo organo. Le differenze non sono comunque rilevanti: in entrambi i casi il paziente sviluppa gradualmente uno stato confusionale, un difetto della capacità di attenzione e di concentrazione, alterazioni della personalità con modificazione delle normali abitudini comportamentali, una certa tendenza alla sonnolenza con riduzione progressiva dello stato di vigilanza. È comune la presenza di alito particolarmente fetido (foetor hepaticus), dovuto a sostanze di tipo aromatico (metil-mercaptano, solfuro di metile, ecc.) che si formano nell’intestino ad opera della flora batterica e che non vengono degradate ed eliminate dal fegato e che, essendo volatili, vengono allontanate attraverso i capillari polmonari con la respirazione, generando la tipica alitosi di questi pazienti.
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Il tono muscolare è alterato: se si esamina la motilità volontaria degli arti, si riscontra un certo grado di ipertonia, ma il paziente non è capace di mantenere il tono muscolare per un tempo sufficientemente prolungato; questo fa sì che gli arti, in particolare quelli superiori, possano presentare un tremore del tutto caratteristico, che viene denominato asterixis o “flapping tremor”. Questo tremore ricorda lo sbattere d’ali di una farfalla ed è soprattutto evidente a paziente supino con gli arti superiori diritti ed estesi e le dita delle mani divaricate: in questa posizione gli arti tendono a cadere e poi vengono corretti con tendenza a caduta più lenta ed a correzione rapida, manifestandosi il caratteristico tremore ad ampie scosse, che è molto importante da un punto di vista diagnostico in quanto tipico in caso di grave epatopatia (più rara la sua comparsa in presenza di uremia e di ipercapnia). Il paziente può presentare un progressivo deterioramento delle proprie condizioni neurologiche fino all’insorgenza di coma (coma epatico): in questo caso si ha una perdita ingravescente, fino a divenire completa, della coscienza, tachipnea (aumento della frequenza del respiro) in rapporto ad uno stato di acidosi metabolica, perdita graduale dei riflessi, fino a morte per deficit completo delle funzioni omeostatiche del fegato (in rapporto all’entità del quadro clinico e alle modificazioni elettroencefalografiche, Gitlin ha distinto l’encefalopatia epatica in stadi: da 0, che corrisponde all’assenza di segni e/o sintomi neurologici fino a 4, con quadro di coma e attività elettroencefalografica caratterizzata da tipiche onde lente “delta”, ma si deve ricordare anche l’esistenza della cosiddetta encefalopatia “latente” in cui il quadro neurologico è completamente normale così come, di regola, anche quello elettroencefalografico e che può essere svelata soltanto attraverso test psicometrici; la sua importanza risiede nel fatto che essa può indicare stadi precocissimi di encefalopatia, i quali, senza opportuni provvedimenti, tenderanno nel tempo ad evolvere in forme più gravi). Se l’encefalopatia è di tipo epatico, la situazione è assai poco rimediabile ed in genere il decorso è irreversibile e lo stato di coma è aggravato anche dall’esistenza di marcata ipoglicemia; se, invece, l’encefalopatia è di tipo porto-sistemico, sono possibili alcuni accorgimenti terapeutici i quali possono migliorare, anche se solo in forma transitoria, l’andamento del quadro clinico in questi soggetti. In particolare, peraltro, in tutti i casi è fondamentale la riduzione della formazione e dell’assorbimento della NH3 a livello intestinale: per questo è possibile la somministrazione di diete a basso contenuto proteico (non più di 0,8-1,0 g/kg/die) o anche di antibiotici in grado di distruggere i microrganismi responsabili della produzione di questa sostanza agendo sulla flora enterica putrefattiva più che su quella fermentativa (neomicina, paromomicina, rifaximina, ecc.; antibiotici ad assorbimento intestinale estremamente limitato). Inoltre, può essere molto utile l’impiego di particolari carboidrati (come il lattulosio o galattosido fruttosio
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
oppure il lattitolo o galattosido sorbitolo), che vengono metabolizzati a livello del colon dove essi favoriscono lo sviluppo della flora fermentativa (che utilizza gli zuccheri) a scapito di quella putrefattiva (che utilizza le proteine), analogamente agli antibiotici di cui s’è parlato più sopra. Queste sostanze determinano anche un effetto lassativo osmotico causando un’aumentata eliminazione di NH3 e, attraverso la produzione di acido lattico, inducono acidosi metabolica nel colon con passaggio di NH3 dai vasi parietali all’interno del lume e successiva eliminazione con le feci di questo composto. Più controverso, nella terapia dell’encefalopatia epatica, è il ruolo di altre opzioni terapeutiche come, per esempio, l’impiego dello zinco, il cui razionale sta nel fatto che alcuni degli enzimi (2 su 5) che entrano nel ciclo di Krebs-Henseleit richiedono, per essere attivi, la presenza di questa sostanza, che si comporta come cofattore e che risulta carente nella maggior parte dei pazienti con epatopatia di grado significativo (oppure l’utilizzazione di altri composti che fanno parte del ciclo dell’urea e che risultano deficitari in questi casi o anche degli aminoacidi a catena ramificata, preferibili a quelli aromatici della cui tossicità s’è già detto). Infine, è stato suggerito l’impiego di sostanze chelanti del manganese (come il calcio acetato disodico) poiché la deposizione di questo composto nei gangli della base contribuirebbe al quadro clinico dell’encefalopatia.
MANIFESTAZIONI RENALI Nelle epatopatie croniche in fase avanzata si possono instaurare alterazioni della funzionalità renale le quali caratterizzano la cosiddetta nefropatia funzionale epatica o sindrome epatorenale. In questa condizione la funzionalità renale è sempre gravemente compromessa, con creatininemia in genere oltre 1,5-2,5 mg/100 ml e con marcata riduzione della diuresi giornaliera: la funzione tubulare conservata (rapporto tra osmolarità urinaria e plasmatica > 1, rapporto tra creatinina urinaria e plasmatica > 30, concentrazione del Na+ urinario molto bassa < 10 mEq/l); l’esame delle urine non è significativo; la biopsia renale può essere normale. L’insorgenza di questa sindrome in presenza di insufficienza epatica acquista significato prognostico assai sfavorevole, come dimostra il fatto che, in questo stadio, la mortalità a breve termine nella cirrosi supera il 90% dei casi. La patogenesi della nefropatia funzionale epatica è tuttora sconosciuta: interviene sicuramente, come fattore principale, una vasocostrizione intrarenale con riduzione dell’irrorazione e del filtrato glomerulare, verosimilmente in rapporto all’azione di sostanze vasoattive che il fegato non è in grado di inattivare normalmente.
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27 - INSUFFICIENZA EPATICA
Tabella 27.1 - Classificazione della funzionalità epatica secondo Child-Pugh: calcolo. FATTORE
GRADO
PUNTEGGIO
Ascite
Non presente Modesta Cospicua Bilirubinemia totale (mg/dl) <2 2 < bil < 3 >3 Tempo di protrombina > 1-4” * 4 < pt < 6” * > 6” * Encefalopatia Non presente Lieve Grave Albuminemia (g/dl) > 3,5 2,8 < alb < 3,5 < 2,8 * Rispetto ai valori normali. CLASSE
PUNTEGGIO
A B C
5-6 7-9 >9
1 2 3 1 2 3 1 2 3 1 2 3 1 2 3
Alla fine di questo capitolo ci sembra opportuno ricordare che la maggior parte degli Autori, per la definizione del grado di insufficienza epatica, qualunque sia la patologia che la determina (sia acuta sia cronica), fa riferimento alla classificazione di Child-Pugh. Essa, che riportiamo nella tabella 27.1, prende in esame 5 parametri clinici (ascite, bilirubinemia, tempo di Quick, encefalopatia, albuminemia) cui viene attribuito un punteggio da 1 a 3 a seconda della gravità del deficit (1 se lieve, 3 se grave): la somma totale corrisponde al punteggio di Child-Pugh che consente di distinguere i pazienti epatopatici in tre classi, A, B, C. Tale distinzione ha un rilevante valore prognostico ed una significativa ricaduta sul piano pratico: per esempio, i pazienti in classe C sono, in genere, esclusi da certe soluzioni terapeutiche come l’epatectomia parziale (lobectomia, segmentectomia), ma anche, di solito, da trattamenti come la chemioembolizzazione in caso di epatocarcinoma poiché la porzione restante del parenchima non garantisce livelli funzionali accettabili (lo stesso dicasi per la terapia con interferone in presenza di cirrosi come possibile prevenzione nei confronti dello sviluppo di tumore epatico).
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C A P I T O L O
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IPERTENSIONE PORTALE V. BALDINI
L’ipertensione portale è una condizione che può instaurarsi nel corso di svariate epatopatie di entità cospicua o anche in seguito a malattie di natura diversa che non coinvolgono direttamente il fegato.
FISIOPATOLOGIA
rara; può esistere una fistola tra arteria e vena splenica: in questo caso l’arteria splenica invece di passare nella milza (e quindi perdere una certa quota di pressione per effetto delle resistenze presenti in questo organo), sbocca direttamente, a causa dell’esistenza di una fistola, nella vena splenica, dove si instaura un notevole iperafflusso di sangue che finisce per coinvolgere anche la porta, alla cui formazione partecipa anche la vena splenica.
Il fegato è un organo riccamente vascolarizzato ed il flusso ematico totale è di circa 1,5 l/min, di cui l’80% proviene dalla vena porta ed il 20% dall’arteria epatica; questo sangue, attraversato il distretto epatico, defluisce nelle vene sovraepatiche, che sono tributarie della vena cava inferiore. Nella porta, che si forma per la confluenza della vena mesenterica superiore e della vena splenica, la pressione normale è di 7-10 mmHg e tra questa e le vene sovraepatiche esiste normalmente un piccolo gradiente di pressione (nelle vene sovraepatiche la pressione è di 2-6 mmHg) consentendo il flusso regolare del sangue nel distretto epatico. Quando questo gradiente, di solito non superiore a 5 mmHg, aumenta al di sopra di 10-12 mmHg, si instaura la sindrome dell’ipertensione portale.
B. Notevole splenomegalia (da emopatia). È una condizione piuttosto frequente: infatti in diverse malattie ematologiche si può riscontrare una notevole splenomegalia; in particolare le forme più conclamate sono quelle che si manifestano in corso di leucemia mieloide cronica e di mielofibrosi idiopatica. Se la milza è molto ingrandita, aumenta anche la capacità di serbatoio del sangue nei seni venosi della polpa splenica e quindi le resistenze che questo organo stabilisce tra arteria e vena splenica sono diminuite; ne consegue che la milza più congesta di sangue determina l’insorgenza di iperafflusso nella vena splenica e quindi anche nella porta, con conseguente sviluppo di ipertensione portale.
CAUSE
Ipertensione portale da aumentate resistenze
Le cause di ipertensione portale sono fondamentalmente due: un aumento dell’afflusso (cioè nella porta arriva più sangue e le resistenze sono invariate o anche diminuite) e un aumento delle resistenze nel circolo portale (Fig. 28.1).
In questi casi il fegato è coinvolto direttamente. L’aumento delle resistenze può verificarsi a diversi livelli:
Ipertensione portale da iperafflusso
A. Prima del distretto epatico l’aumento delle resistenze nel circolo portale è caratteristico soltanto in caso di trombosi della vena porta, che determina un’ostruzione al deflusso del sangue in questo vaso o a livello del tronco portale comune o in uno dei due rami principali, destro e sinistro, prima dell’ingresso nell’ilo epatico.
In questi casi il fegato non è coinvolto direttamente. A. Fistole arterovenose. È una causa molto importante di ipertensione portale, ma è una situazione molto
• preepatico (prima del fegato); • intraepatico (a livello del fegato); • postepatico (oltre il fegato).
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MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
Insufficienza della tricuspide
Ostruzione delle vene epatiche (sindrome di Budd-Chiari)
Pericardite costrittiva
A.
Varici esofagee modeste o assenti
Splenomegalia moderata
Varici esofagee
Epatomegalia
Cirrosi epatica
Splenomegalia evidente
Varici esofagee B.
Splenomegalia notevole
C.
Trombosi della vena porta
Figura 28.1 - Meccanismi di ipertensione portale. Da cause postepatiche (A), intraepatiche (B) e pre-epatiche (C).
Una trombosi della vena porta, chiamata piletrombosi, è un’evenienza poco comune ed in genere insorge soltanto quando sono presenti altri fattori concomitanti che la favoriscono: molto spesso questo quadro si sovrappone ad un iniziale processo infiammatorio della porta (pileflebite), per esempio in seguito ad interventi chirurgici sull’addome o a sepsi ombelicale o generalizzata o a pancreatite acuta o cronica, oppure si associa a processi neoplastici (in particolare del pancreas) che provocano una compressione su questo vaso o del fegato con progressiva invasione della porta, a malattie ematologiche (policitemia, trombocitemia) o anche a particolari trattamenti farmacologici (contraccettivi orali).
B. A livello intraepatico l’aumento delle resistenze può verificarsi sia in sede presinusoidale sia in sede parasinusoidale. Per comprendere il significato di questa distinzione, bisogna rifarsi alla tipica struttura anatomofunzionale del fegato, fondata primariamente sulla presenza di formazioni esagonali denominate lobuli epatici. In corrispondenza dei punti di convergenza dei lati di queste strutture esagonali, si trovano gli spazi portali (o anche triadi portali) in cui convergono: • rami della porta, tramite i quali giunge il sangue del circolo portale;
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• rami dell’arteria epatica, i quali portano il sangue di questa arteria; • duttuli biliari, in cui il flusso del secreto biliare avviene in senso contrario a quello del sangue portale ed epatico. Negli spazi portali originano anche i vasi linfatici che, seguendo per lo più il tragitto delle vie biliari, convergono in gran parte all’ilo epatico. Altri vasi linfatici, facendosi strada nel connettivo tra i lobuli, raggiungono la superficie di questo organo, convergendo quindi anch’essi in buona parte verso la regione dell’ilo (non si riconoscono, invece, vasi linfatici all’interno dei lobuli epatici). I rami vascolari mescolano il proprio contenuto in corrispondenza degli spazi portali ed entrano nei lobuli percorrendo i sinusoidi verso i quali è rivolto il polo vascolare degli epatociti, disposti a formare delle travate che occupano l’intero lobulo, sostenute da una sottile impalcatura di fibre reticolari. Il sangue, percorrendo i lobuli dalla periferia verso il centro, converge verso la vena centrolobulare da cui defluisce attraverso ulteriori diramazioni venose giungendo, infine, nelle vene sovraepatiche. In rapporto a questa particolare struttura anatomofunzionale, si può distinguere il caso in cui l’ostacolo al circolo portale è localizzato a livello degli spazi portali (presinusoidale) oppure all’interno dei lobuli epatici (parasinusoidale) con differenze anche rilevanti tra le due forme per quanto riguarda il quadro clinico. Infatti, se il processo patologico che ha determinato l’ipertensione portale è a livello degli spazi portali, si avrà anche un ostacolo alla raccolta della linfa, in corrispondenza delle radici dei vasi linfatici. Se, invece, il processo patologico è localizzato all’interno dei lobuli, il drenaggio linfatico resterà integro e questo tipo di circolazione potrà accogliere una notevole quantità di fluido trasudato dai rami della vena porta in conseguenza dell’aumento della pressione al loro interno. Ne deriverà un notevole iperafflusso linfatico e la facile trasudazione di liquido da questi vasi, alla superficie ed all’ilo del fegato, verso la cavità peritoneale. Perciò, l’ostacolo portale a livello parasinusoidale determina versamento addominale (ascite) più facilmente di quanto non si verifichi quando l’ostruzione si verifica a livello presinusoidale. Le condizioni patologiche in grado di provocare ostacolo intraepatico al circolo portale sono numerose, ma quella certamente più importante è rappresentata dalla cirrosi, in cui si ha un notevole sovvertimento dell’architettura lobulare con rilevante formazione di tessuto connettivo. Nella cirrosi portale di tipo classico, l’ostacolo al circolo è parasinusoidale in quanto lo sviluppo della fibrosi avviene all’interno dei lobuli, mentre nella cirrosi biliare, dove la fibrosi interessa prevalentemente gli spazi portali, l’ostacolo è di tipo presinusoidale. Un cenno a parte, tra le forme di ipertensione portale da ostruzione presinusoidale, merita la schistosomiasi o bilharziosi, dovuta soprattutto allo Schistosoma mansoni e allo S. japonicum, parassiti che si riproducono nel-
la parete del colon e le cui uova raggiungono, attraverso le vene mesenteriche, il circolo portale arrestandosi in corrispondenza degli spazi portali. C. A livello postepatico l’aumento delle resistenze può verificarsi in presenza di trombosi delle vene sovraepatiche (sindrome di Budd-Chiari), in genere secondaria a neoplasie che arrivano a determinare una compressione su queste vene oppure a policitemia o anche all’uso prolungato di alcuni farmaci (contraccettivi orali). In altri casi esiste trombosi della vena cava inferiore che si estende fino a coinvolgere lo sbocco delle sovraepatiche oppure è presente pericardite costrittiva. In quest’ultima condizione si ha una flogosi cronica della sierosa cardiaca, che evolve in sostituzione cicatriziale con fusione dei due foglietti pericardici e formazione di un sacco fibroso non distensibile in cui è contenuto il cuore; questo tessuto fibroso può determinare uno strangolamento a livello del passaggio delle grosse vene, soprattutto della cava inferiore, all’interno del pericardio e questo ostacolo si ripercuote a monte sulle vene tributarie di questo vaso e quindi anche sulle sovraepatiche e, più a monte ancora, sul circolo portale. La stessa situazione, d’altra parte, si verifica anche nello scompenso cardiaco congestizio, in cui l’aumento della pressione venosa nelle grandi vene si ripercuote a monte fino ad interessare anche il circolo della porta.
CONSEGUENZE Splenomegalia e ipersplenismo In presenza di ipertensione portale, si verifica un aumento di pressione in tutti i rami che confluiscono nella vena porta e quindi anche nella vena splenica; pertanto si sviluppa una tendenza al ristagno di sangue nella milza, la quale riceve sangue arterioso regolarmente tramite l’arteria splenica, mentre il sangue venoso non defluisce normalmente con la vena splenica perché questa è soggetta ad un regime pressorio elevato; ne consegue un aumento di volume di questo organo per stasi circolatoria con dilatazione variabile dei seni venosi della polpa rossa (splenomegalia congestizia). Se questa condizione si protrae abbastanza a lungo nel tempo, provoca inevitabilmente una certa fibrosi nel contesto della milza ed in questo caso si parla più correttamente di splenomegalia fibrocongestizia; la differenza è importante perché in presenza di semplice congestione, rimuovendo la causa di questa, è possibile la progressiva riduzione della splenomegalia, mentre se esiste fibrosi, la milza non può più ritornare completamente nelle condizioni originarie anche se è rimosso l’ostacolo al passaggio del sangue attraverso la vena splenica. È interessante ricordare che a parità di livelli di ipertensione portale, il grado di splenomegalia congestizia varia molto nei diversi casi, con aumento di volta in
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volta estremamente differente del volume della milza: questo è molto importante poiché, quanto più questo organo si ingrandisce, tanto più rilevante è il quadro di ipersplenismo che si accompagna alla splenomegalia. La milza esercita normalmente una funzione emocateretica, la quale consiste nel sequestro e nella distruzione degli elementi circolanti ematici al termine del loro ciclo vitale o prematuramente se anomali: questo avviene per i globuli rossi, i granulociti e le piastrine, ma non per i linfociti ed i monociti. Ora, se la milza è ingrandita, e soprattutto se è ingrandita perché congesta, tenderà a sequestrare ed a distruggere gli elementi figurati del sangue in quantità superiore alla norma e, se la produzione midollare non aumenta in proporzione, si avrà una diminuzione di queste cellule nel sangue circolante: questa condizione caratterizza l’ipersplenismo, che è una sindrome ematologica in cui sono presenti anemia, granulocitopenia e piastrinopenia (esistono, peraltro, numerose situazioni intermedie nel senso che talvolta l’ipersplenismo è associato soltanto alla presenza di piastrinopenia, che di solito è la manifestazione più precoce, altre volte sono presenti sia piastrinopenia che granulocitopenia, altre volte, infine, anche anemia). Un discorso particolare è quello che va fatto per la splenomegalia in corso della cosiddetta malattia di Banti, descritta nell’Ottocento da questo anatomopatologo italiano. Nella descrizione originale, questa malattia caratterizzava un processo patologico primitivo della milza con ipersplenismo (anemia, piastrinopenia, granulocitopenia) e conseguentemente ipertensione portale ed epatopatia (cioè la malattia avrebbe interessato primariamente la milza e solo secondariamente il fegato ed il circolo portale). Questa malattia non ha resistito all’esame critico del tempo ed al giorno d’oggi non se ne ammette l’esistenza come entità clinica a sé stante poiché si sostiene che si tratti in realtà soltanto di una classica cirrosi epatica, responsabile in un secondo tempo dell’insorgenza di ipertensione portale, splenomegalia ed ipersplenismo. È rimasta, tuttavia, l’abitudine di indicare come sindromi bantiane tutte le malattie del fegato nelle quali la componente congestizia della milza e l’ipersplenismo sono particolarmente evidenti.
punto di vista emodinamico, anche in condizioni patologiche; è il caso, per esempio, del circolo di Retzius, che è costituito dalle vene della parete addominale posteriore (soprattutto quelle lombari), che sono tributarie sia della cava superiore che di quella inferiore. Molto importante, invece, è il circolo profondo che può formarsi a livello dello stomaco e dell’esofago: quest’ultimo, in corrispondenza del III distale, è dotato di un plesso venoso che è tributario del sistema azygos ed emiazygos, mentre a livello della piccola curvatura dello stomaco, nella sua porzione più craniale, è presente la vena coronarica stomacica che è tributaria della porta. Tra questi due sistemi esistono delle anastomosi che, in presenza di ipertensione portale, si sviluppano in misura variabile in quanto il sangue della coronarica stomacica inverte il proprio flusso e si fa strada attraverso il plesso esofageo, il quale, in questo caso, si dilata in maniera notevole dando luogo alla formazione delle cosiddette varici esofagee (Fig. 28.2). Queste ultime rivestono grande importanza perché si tratta di ectasie venose localizzate subito al di sotto della mucosa (a livello della tonaca sottomucosa), poco protette nei confronti degli insulti meccanici, potendosi, pertanto, rompere anche in seguito a piccoli traumi. La rottura delle varici esofagee provoca, in genere, grosse emorragie (con ematemesi e melena), le quali possono anche essere mortali, come dimostra il fatto che tale evenienza rappresenta una delle principali cause di morte nei pazienti con ipertensione portale. La presenza delle varici gastroesofagee può essere documentata sia con esame radiografico sia, direttamente, mediante esofagoscopia; nel primo caso, con mezzo di contrasto, le varici appaiono come immagini di minus, sotto forma di aree rotondeggianti (gavoccio-
Formazione di circoli collaterali Quando esiste un ostacolo al deflusso del sangue nel sistema portale a livello del distretto epatico, il sangue tende a farsi strada per altre vie. Anche in condizioni normali, del resto, esistono delle anastomosi, abitualmente di poca importanza dal punto di vista emodinamico, tra circolo portale e rami venosi tributari delle vene cave: se la pressione nella porta è più alta che di norma, il sangue tende a forzare queste anastomosi per poter defluire nelle cave attraverso queste vie secondarie di compenso (circoli collaterali). I circoli collaterali porta-cava sono abitualmente distinti in profondi e superficiali: tra i primi, ve ne sono alcuni che non hanno praticamente alcuna rilevanza dal
Figura 28.2 - Formazione delle varici esofagee in caso di ipertensione portale. Il sangue della vena coronarica stomacica, che decorre lungo la piccola curvatura dello stomaco ed è tributaria della porta, inverte il proprio flusso e, attraverso anastomosi fisiologicamente presenti, si fa strada nel plesso venoso del III distale dell’esofago tributario del sistema azygos ed emiazygos (e quindi della cava superiore), il quale si dilata formando le cosiddette varici esofagee.
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li varicosi), che interrompono il regolare profilo di questo organo, generando figure complesse indicate abitualmente con il termine di immagini “a legno tarlato”. Un altro importante circolo collaterale profondo è quello che si sviluppa a livello del plesso emorroidario, che normalmente contribuisce alla perfetta tenuta dell’orifizio anale; in realtà si tratta di tre plessi venosi: quello superiore, che è tributario della vena mesenterica inferiore che, a sua volta, è tributaria della porta; quello medio e quello inferiore che sono tributari di rami dell’iliaca interna o ipogastrica e quindi del sistema della vena cava inferiore. Anche a questo livello, perciò, è possibile, in caso di ipertensione portale, l’inversione del flusso sanguigno del plesso emorroidario superiore verso quelli medio e inferiore, con conseguente dilatazione di questi vasi e formazione di emorroidi sintomatiche; queste sono varici del plesso emorroidario, che si formano anche in assenza di ipertensione portale e possono essere distinte in interne ed esterne; se la pressione in questo distretto è molto elevata, queste dilatazioni venose possono rompersi e sanguinare provocando emorragie di entità anche cospicua, anche se, di regola, meno gravi di quelle che si hanno in seguito a rottura delle varici esofagee. Oltre a quelli profondi, esistono anche circoli collaterali superficiali (Fig. 28.3), il più importante dei quali è quello che si può formare a livello dell’ombelico: in questa sede, infatti, si trova il legamento rotondo, diretto verso il fegato, che rappresenta la porzione inferiore del legamento falciforme che sostiene questo organo. Durante il periodo fetale nel legamento rotondo decorre la vena ombelicale, che normalmente si chiude dopo la nascita anche se talvolta questo vaso può mantenersi
Figura 28.3 - Circoli collaterali superficiali in caso di ipertensione portale. Nella parte centrale dell’addome i reticoli venosi di tipo porta-cava, in cui il sangue è diretto verso l’alto (cava superiore) al di sopra dell’ombelico e verso il basso (cava inferiore) al di sotto dell’ombelico; nelle parti laterali i reticoli venosi di tipo cava-cava, in cui il sangue è sempre diretto verso l’alto (dalla cava inferiore alla cava superiore).
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pervio per ragioni malformative; anche in condizioni normali, tuttavia, restano nel legamento rotondo delle piccole vene dette paraombelicali che defluiscono verso il fegato e che prendono anche il nome di vene porte accessorie. Le vene paraombelicali, che sono vene profonde, mantengono una connessione con vasi superficiali situati alla superficie anteriore dell’addome e che sono denominati vene epigastriche, le quali sono tributarie sia della cava superiore sia di quella inferiore. In presenza di ipertensione portale, il flusso sanguigno nelle vene paraombelicali si inverte e dalla profondità si dirige in quantità maggiore verso la superficie nelle vene epigastriche, che, di conseguenza, si dilatano formando reticoli venosi bene evidenti sull’addome intorno all’ombelico. I libri di semeiotica riportano che queste vene così dilatate danno origine ad un’immagine chiamata caput medusae, ma tale figura, caratterizzata da tante diramazioni venose serpiginose che si dipartono concentricamente dall’ombelico, è di fatto estremamente rara perché compare solamente nei casi in cui è conservata la pervietà della vena ombelicale. Di solito, invece, si evidenziano soltanto sulla superficie anteriore dell’addome, a partire da breve distanza dall’ombelico, reticoli venosi formati da diramazioni dirette verso il torace in alto ed in basso verso l’inguine. Il flusso sanguigno è diretto verso il basso nelle vene al di sotto dell’ombelico che confluiscono nella safena ed iliaca esterne (che fanno capo alla cava inferiore) e verso l’alto in quelle al di sopra dell’ombelico che confluiscono nella succlavia (tributaria della cava superiore). Questo circolo superficiale, che si forma al centro dell’addome, è un circolo porta-cava ed è correlato al drenaggio di sangue portale attraverso il sistema delle vene cave, come è stato già descritto; la sua comparsa non riveste particolare significato sfavorevole a parte l’aspetto estetico, ma è importante dal punto di vista semeiotico perché consente di fare diagnosi di ipertensione portale anche in assenza di altri elementi clinici. È possibile, tuttavia, che sulla superficie anteriore dell’addome si formi un reticolo venoso di tipo diverso, non porta-cava, ma cava-cava, che si sviluppa quando per una qualsiasi ragione si ha un ostacolo al deflusso del sangue attraverso la vena cava inferiore. In questo caso la corrente sanguigna cerca di aggirare l’ostacolo percorrendo delle anastomosi che esistono in superficie tra rami delle vene inguinali, tributarie della cava inferiore e rami delle vene toraciche laterali, tributarie delle vene brachiali e, attraverso le vene ascellari e succlavie, della cava superiore. Il circolo cava-cava è disposto lateralmente (rispetto a quello porta-cava che occupa una posizione centrale anche se non sempre i limiti reciproci appaiono netti) ed il sangue è sempre diretto verso l’alto anche per i vasi che si trovano al di sotto dell’ombelico (cioè dalla cava inferiore alla cava superiore); in pratica, perciò, determinando con semplici manovre di semeiotica la direzione della corrente sanguigna in questi reticoli venosi, si può risalire alla sede dell’ostacolo, se, cioè, è a livello portale o a quello della cava inferiore.
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Ascite Per ascite si intende la presenza di liquido nella cavità addominale: questa non è una cavità virtuale (come quella pleurica o quella pericardica) e anche normalmente contiene piccole quantità di liquido, tuttavia convenzionalmente si parla di ascite quando la quantità di liquido presente è piuttosto cospicua (nelle forme più gravi si possono raccogliere anche 10-20 litri). Patogenesi. L’ipertensione portale dovrebbe, in teoria, già di per sé poter provocare la comparsa di ascite, in quanto nel circolo portale aumenta in questo caso la pressione a livello del versante venoso del distretto capillare: tale aumento di pressione determina la trasudazione di fluido negli spazi interstiziali e quindi anche nella cavità peritoneale secondo quello che è il meccanismo fondamentale della formazione degli edemi. Questa ipotesi patogenetica non è, però, stata confermata dagli studi sperimentali condotti sugli animali: per esempio, nei cani la stessa legatura della vena porta non determina l’insorgenza di ascite; non solo, ma in presenza di ipertensione portale da iperafflusso o anche da trombosi della porta (ostacolo pre-epatico) o da ostruzione intraepatica presinusoidale, spesso l’ascite non compare oppure è di entità piuttosto modesta in rapporto alla gravità dell’ostacolo al circolo portale. È stato, pertanto, osservato che perché si abbia ascite è necessario che l’ostruzione sia a livello parasinusoidale o anche più oltre, e questo fatto ha portato a riconoscere che il ruolo patogenetico preminente nella genesi dell’ascite è rappresentato dall’aumentata formazione di linfa la quale, in questi casi, trasuda all’esterno dei linfatici posti alla superficie e all’ilo epatico, e si raccoglie nella cavità addominale. Possono tuttavia essere presenti altre condizioni che favoriscono il passaggio di trasudato anche dagli stessi rami venosi del sistema portale: in primo luogo la diminuzione della pressione oncotica delle proteine del plasma, la quale normalmente si oppone alla pressione idrostatica (che nell’ipertensione portale è aumentata a livello dell’ansa venosa dei capillari di questo circolo) ed impedisce il passaggio di liquido dal compartimento vascolare negli spazi interstiziali. La pressione oncotica è correlata soprattutto alla concentrazione dell’albumina e tende facilmente a diminuire nelle epatopatie, in quanto la maggior parte delle proteine plasmatiche, in particolare l’albumina, vengono sintetizzate nel fegato: questo fatto, perciò, concorre a rendere più rilevante la formazione del versamento nella cavità addominale. L’altra circostanza che agisce in questo senso è l’iperaldosteronismo secondario: l’aldosterone è un ormone mineralattivo sintetizzato nella zona glomerulare della corteccia surrenale. Lo stimolo alla produzione ed alla secrezione di questa sostanza è rappresentato dalla riduzione del volume ematico circolante (ipovolemia, come si verifica in presenza di ascite per effetto della trasudazione di liquido nella cavità peritoneale), la quale influenza l’attività dell’apparato iuxtaglomerulare in rapporto alla ridotta perfusione renale determinando un
incremento della produzione di renina. Questa sostanza trasforma l’angiotensinogeno in angiotensina I, la quale, a sua volta, per opera dell’enzima convertitore, è convertita in angiotensina II, che è la sostanza realmente responsabile della stimolazione della sintesi dell’aldosterone. L’aumento dei livelli di aldosterone circolante è molto frequente nei cirrotici: questo ormone, a livello dei tubuli renali distali, favorisce il riassorbimento di Na+ e, conseguentemente, anche di H2O che tenderebbe a compensare la diminuzione della volemia. D’altra parte, Na+ e H2O riassorbiti significano anche maggiore quantità di liquido che finisce per raccogliersi nella cavità peritoneale, creandosi un circolo vizioso che aggrava, anziché migliorare, l’ascite. In questo senso l’iperaldosteronismo secondario può essere considerato un fattore in grado di moltiplicare in maniera sfavorevole gli effetti dei principali meccanismi patogenetici responsabili della formazione del versamento nella cavità addominale. La ritenzione idrico-salina sembra sia favorita anche dall’alterata regolazione del metabolismo dell’ormone ADH o per iperincrezione adiuretinica in risposta all’ipovolemia o in seguito alla diminuita inattivazione epatica di questa sostanza per difetto funzionale degli epatociti. Di minore importanza sarebbe l’effetto sodioritentivo degli estrogeni correlato al frequente riscontro di iperestrogenismo, mentre poco noto è il ruolo patogenetico delle prostaglandine e di altre sostanze, come la callicreina, le chinine e l’ossido nitrico, il cui intervento, peraltro, nella regolazione del metabolismo del Na+ nell’organismo è certo. In tutti i casi in cui è presente, dunque, l’ascite costituisce una condizione molto importante perché essa comporta una ridistribuzione estremamente sfavorevole del liquido extracellulare nell’organismo, in quanto una rilevante quantità di liquido con tutti gli elettroliti che vi sono contenuti e con un’importante quota di proteine è in qualche modo sequestrata e sottratta al compartimento circolante con conseguente insorgenza di ipovolemia. Le caratteristiche obiettive dell’addome in presenza di versamento ascitico sono descritte nel capitolo 30 dedicato alla cirrosi epatica. D’altra parte, in ogni caso di ascite obiettivamente dimostrabile è indicata l’esecuzione di una manovra strumentale, chiamata paracentesi (in genere esplorativa, ma talvolta, entro certi limiti, anche evacuativa), la quale ha lo scopo di permettere di conoscere la natura del liquido addominale. La paracentesi si esegue a paziente supino leggermente ruotato sul fianco sinistro dopo aver fatto svuotare la vescica; il punto di elezione è nel quadrante inferiore sinistro, tra il III medio ed il III esterno di una linea che congiunge l’ombelico e la spina iliaca anteriore-superiore di sinistra (non nel quadrante inferiore destro, in quanto il cieco ha un meso più breve di quello del sigma e, quindi, sfugge meno facilmente di fronte alla punta dell’ago che penetra all’interno dell’addome, aumentando il rischio di perforazione intestinale). Nell’indagine esplorativa un campione di 50 ml è sufficiente per un esame completo del li-
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quido, del quale è necessario descrivere il colore, la trasparenza, l’odore, la reazione di Rivalta, la densità, il contenuto proteico, le caratteristiche citologiche ed, eventualmente, quelle colturali. In particolare, il contenuto proteico è estremamente importante per stabilire la natura del versamento (trasudato, essudato o misto), la quale rappresenta un indice prezioso per quanto riguarda l’orientamento diagnostico nei diversi casi in cui è presente ascite. Il trasudato e l’essudato si differenziano in quanto nel primo il peso specifico è inferiore a 1016 (75% dei casi) e le proteine sono al di sotto di 3 g% (nell’essudato il peso specifico è superiore a 1016, 75% dei casi, e le proteine sono più di 3 g%); proprio in rapporto alla differente composizione proteica, in caso di essudato è positiva la reazione di Rivalta, mentre è negativa in presenza di trasudato. Tale reazione consiste nel mettere in un calice, contenente 250 ml di acqua lievemente acidulata con 2-3 gocce di acido acetico glaciale, poche gocce del liquido in esame: se si tratta di un essudato, le gocce scendono sul fondo formando una nubecola, simile al fumo di sigaretta, immagine che è assente, invece, in caso di trasudato. Il trasudato tipico depone per l’esistenza di ipertensione portale intra o postepatica o di stato anasarcatico su base emodinamica o discrasica; l’essudato tipico, invece, per una peritonite carcinomatosa o tubercolare; un liquido misto, infine, può associarsi a neoplasie maligne oppure ad emorragie endoperitoneali o a contaminazione batterica o infiammatoria asettica di un trasudato, talvolta anche in seguito alla ripetizione ravvicinata della paracentesi. In rapporto alla natura del processo patologico responsabile della formazione del versamento, possono variare altre caratteristiche dell’ascite: per esempio, il colore, che di regola nella cirrosi è giallo-paglierino, può diventare fortemente giallognolo (in caso di ittero), oppure emorragico (per carcinosi peritoneale o emoperitoneo da neoplasia epatica o extraepatica) o anche tor-
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bido (per contaminazione batterica, come nell’ascite settica) o, ancora, lattiginoso (o opaco o opalescente), come si verifica in caso di ascite chilosa (per ostruzione, di solito tumorale, dei grandi collettori linfatici) o pseudochilosa, in cui il versamento rimane torbido dopo centrifugazione a 1500 giri ed ha aspetto opaco per assestamento colloidale delle micelle protidiche in esso contenute. L’esame citologico dimostra normalmente scarsi leucociti (meno di 500/mm3) e cellule mesoteliali di sfaldamento, ma in caso di carcinosi peritoneale sono presenti frequentemente cellule neoplastiche, così come può aumentare sensibilmente il numero dei neutrofili nella peritonite “spontanea” del cirrotico e nelle peritoniti batteriche in genere, in cui l’esame colturale, di norma negativo, può risultare positivo per germi comuni di provenienza intestinale, soprattutto E. coli. Per quanto riguarda, più in particolare, la cosiddetta peritonite batterica spontanea, essa indica un’infezione batterica del liquido ascitico non secondaria a patologia infettiva intra- o extra-addominale. In base ai valori della leucometria e all’esame colturale del liquido ascitico si possono distinguere tre varianti: • peritonite batterica spontanea propriamente detta (50%): > 250 polimorfonucleati/mm e coltura positiva; • neutrascite (25%): > 250 polimorfonucleati/mm e coltura negativa; • batteriascite (25%): < 250 polimorfonucleati/mm e coltura positiva. Questa condizione insorge tipicamente nella cirrosi avanzata ed è correlata al passaggio di batteri dal lume intestinale al sangue e da qui al liquido ascitico (soprattutto Gram– e, in particolare, come già detto, E. coli); la terapia è fondata sull’impiego di antibiotici (cefalosporine, ecc.) con risoluzione del quadro in circa l’80% dei casi (ma con recidiva entro 1 anno anche del 70%).
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EPATOPATIE ACUTE V. BALDINI
EPATITI VIRALI Si definisce epatite virale un processo flogistico a carico del fegato, secondario ad infezione virale, caratterizzato da necrosi parenchimale ed infiltrato infiammatorio, a decorso acuto o cronico. Numerosi virus sono in grado di provocare un’epatite (cytomegalovirus, virus herpes simplex e varicella-zoster, coxsackie, virus della febbre gialla, virus di EpsteinBarr in corso di mononucleosi infettiva, ed altri), ma classicamente con il termine di epatite virale ci si riferisce all’infezione da virus primitivamente epatotropi, dei quali quelli fino ad oggi noti sono: virus dell’epatite A, virus dell’epatite B, virus dell’epatite D, virus dell’epatite C, virus dell’epatite E, virus dell’epatite G (oltre che virus GBV-A e GBV-B e, forse, virus dell’epatite F). In questo capitolo vengono prese in esame, appunto, le caratteristiche epidemiologiche, eziopatogenetiche, anatomopatologiche e cliniche dell’epatite provocata dai virus suddetti. In seguito, viene descritta l’epatite sinciziale, una forma di epatite, acuta o cronica, di recente definizione, ma su cui non c’è concordanza in letteratura. Per la descrizione di altre forme di epatite ad eziologia infettiva, si rimanda alla parte quattordicesima. La storia dell’epatite virale è lunga di alcuni millenni; ne parlano già la letteratura antica cinese, i Talmud babilonesi e gli scritti di Ippocrate del IV sec. a.C. In una lettera dell’VIII sec. d.C. di papa Zaccaria all’arcivescovo di Magonza, San Bonifacio, si incontra il concetto di “ittero castrense” ad indicare la particolare frequenza dell’ittero tra i soldati impegnati nelle campagne militari (“ittero da campagna”) e nelle operazioni di assedio. Nel 1842 Virchow formulava la teoria patogenetica fondamentale dell’“ittero catarrale” che tanta fortuna ebbe per moltissimo tempo e che attribuiva l’insorgenza di questa malattia alla formazione di un tappo di muco a livello dello sfintere di Oddi, nella papilla di Vater, responsabile di ostruzione delle vie biliari.
L’esistenza di una formula di epatite ad eziologia infettiva e trasmissione parenterale è stata riportata per la prima volta nel 1885 da Lurman in un gruppo di marinai di Brema, dopo vaccinazione antivaiolosa con vaccino di Jenner. Nel 1912 Cockayne coniava il termine di “epatite infettiva” per descrivere la forma epidemica della malattia e nel 1947 MacCallum introduceva i termini di epatite A e di epatite B; nel 1955 De Ritis, Coltorti e Giusti descrivevano l’esistenza della cosiddetta “sindrome enzimoplastica” (“transaminite”), cioè dell’epatite con aumento delle transaminasi, ma senza ittero, mentre nel 1973 Piazza introduceva il concetto di “trasmissione parenterale inapparente”, che allargava enormemente le vie di possibile diffusione e contagio degli agenti eziologici dell’epatite, la cui identificazione era nel frattempo cominciata con la scoperta dell’antigene Australia (Blumberg, 1965) e del virus B (particella di Dane, 1970). Eziologia A. Virus dell’epatite A (HAV). È stato classificato come enterovirus 72 e appartiene alla famiglia delle Picornaviridae, che comprende anche i poliovirus e i rinovirus, questi ultimi responsabili del comune raffreddore. Peraltro, alcune caratteristiche dell’HAV sono differenti da quelle degli altri virus appartenenti ai quattro generi che costituiscono questa famiglia, in particolare per quel che riguarda la struttura, la funzione del capside e le modalità di replicazione. L’HAV è molto stabile dal punto di vista genetico, tanto che fino ad oggi ne è stato identificato un solo sierotipo (e 7 genotipi, di cui 4 patogeni per l’uomo); scoperto da Feinstone nel 1973, ha un diametro di 27 nm, simmetria icosaedrica, senza involucro; il genoma è formato da una molecola di RNA lineare, a catena singola, di 7478 nucleotidi; il capside è costituito da tre proteine (VP1, VP2, VP3), delle quali la più importante è la VP1.
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La coltura di questo virus può essere ottenuta su diversi substrati cellulari dell’uomo o della scimmia; la sua replicazione si verifica esclusivamente nel citoplasma ed è piuttosto lenta, così come lentamente le particelle virali vengono rilasciate dalle cellule infettate (il meccanismo di rilascio non è tuttora conosciuto con certezza). Tuttavia la caratteristica più peculiare dell’HAV è che questo virus, almeno in vitro, non ha alcun effetto citopatico, il che lo differenzia da molti altri generi della famiglia Picornaviridae, i cui componenti sono in grado di danneggiare direttamente le cellule entro le quali si moltiplicano. B. Virus dell’epatite B (HBV). La storia della scoperta di questo virus è interessante. Nel 1967 Krugman e i suoi collaboratori accertarono che esistono almeno due tipi di epatite virale, una delle quali (chiamata allora epatite da siero e ora in buona parte rappresentata dall’epatite B) a trasmissione parenterale e la seconda a trasmissione fecale-orale (che è praticamente l’epatite A). Nel 1965 Blumberg cercava l’esistenza di un polimorfismo per le proteine del siero legato all’epatite virale e trovò una proteina che chiamò “antigene Australia” e che risultò, in seguito, essere il principale antigene di superficie del virus dell’epatite B (HBsAg). Oggi questo virus è ben conosciuto e si sa che è il membro prototipo di una famiglia virale detta degli epadnavirus (virus DNA epatotropi). Questi virus hanno un particolare tropismo per gli epatociti, ma possono penetrare in piccola quantità anche in cellule di altro tipo, come nei reni, nel pancreas e nelle cellule mononucleate del sangue, dove però non danno segni morbosi di infezione extraepatica. I virioni del virus dell’epatite B (HBV) sono particelle con un doppio guscio, del diametro di 40-42 nm (particelle di Dane), con un involucro esterno di natura lipoproteica che ha incluse tre glicoproteine, o antigeni di superficie. All’interno di questo involucro c’è il nucleocapside virale, detto “core” (nocciolo), che contiene il genoma virale, un segmento parzialmente duplicato di DNA, e una polimerasi, che è responsabile della sintesi del DNA virale nelle cellule infettate. Oltre ai virioni, le cellule infettate con HBV producono due distinte particelle lipoproteiche, del diametro di 22 nm (sferiche e cilindriche con lo stesso diametro), costituite da lipidi derivati dall’ospite e da glicoproteine, che non sono altro che HBsAg prodotto in eccesso e rilasciato nel sangue sotto forma di gusci vuoti, privi all’interno del core e del suo contenuto (Fig. 29.1). Il numero di queste particelle supera quello dei virioni completi in un rapporto compreso tra 1.000:1 e 10.000:1. Il genoma dell’HBV ha soltanto quattro regioni funzionali. La prima codifica tre antigeni virali di superficie, tra i quali quello di 24 kD è il più abbondante ed è l’HBsAg. Una di queste tre proteine, detta L (o S1) sembra avere un ruolo chiave nel legame del virus con il suo recettore alla superficie delle cellule nelle quali penetra. Una seconda regione codifica due altri antigeni importanti, come si vedrà, per le valutazioni sierologiche: il primo è chiamato HBcAg ed è espresso sulla
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membrana del core, il secondo è chiamato HBeAg ed è contenuto nel core e non si sa bene quale sia la sua funzione. Una terza regione codifica la polimerasi virale, e una quarta una proteina X che è assolutamente indispensabile per la replicazione virale in vivo. Esistono sette principali genotipi dell’HBV indicati con le lettere dell’alfabeto da A a G, con diversa distribuzione nelle varie parti del mondo. Il genotipo A è ubiquitario, quelli B e C sono prevalenti in Asia, quello D nell’Europa del Sud, quello E in Africa, quello F negli USA e quello G tanto negli Usa quanto in Francia. A differenza dei genotipi del virus dell’epatite C, i genotipi dell’HBV non hanno un ruolo ben definito nella possibilità di predire la risposta al trattamento, anche se esiste qualche suggerimento in proposito. La caratteristica principale del ciclo di replicazione degli epadnavirus è la replicazione del DNA attraverso la trascrizione inversa di un intermediato RNA. I virioni, si attaccano alla superficie cellulare, il loro involucro si fonde con questa e le particelle del core penetrano nel citosol e sono trasportate nel nucleo. Qui il loro DNA viene convertito in una forma chiusa circolare covalente (cccDNA) che serve come stampo trascrizionale per la RNA polimerasi II dell’ospite. Questo enzima genera una serie di trascritti che costituiscono l’RNA virale. Questo viene trasportato nel citoplasma dove la sua traduzione provvede alla formazione dell’involucro virale, del core, della polimerasi e delle altre proteine, compresa la proteina X. Queste sono assemblate e durante il processo una singola molecola di RNA genomico è incorporata nel core che si va formando. Una volta che l’RNA virale è inserito nel capside comincia la
42 nm
HBeAg 27 nm HBcAg 22 nm HBsAg(Au)
Figura 29.1 - Rappresentazione schematica degli aspetti morfologici e della struttura del virus dell'epatite B (HBV). In alto, particella di Dane; in basso, particelle sferiche e cilindriche.
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trascrizione inversa e in sequenza vengono formati i due filamenti del DNA virale. Un fatto importante è che alcune particelle di core che contengono il genoma maturo vengono di nuovo trasportate indietro nel nucleo delle cellule infettate, dove forniscono materiale per costituire un pool stabile intranucleare di cccDNA che funga da stampo trascrizionale. Le altre vengono indirizzate alla superficie cellulare, dove acquisiscono lipoproteine per il loro involucro sulle quali montano gli antigeni di superficie consentendo l’esportazione dei virus. Come si è visto, gli antigeni di superficie possono in misura prevalente essere gemmati dalla membrana cellulare, anche se non contengono il resto del virus. C. Virus dell’epatite D (HDV). Il virus dell’epatite D è unico nella virologia animale: il suo ciclo vitale è difettivo in quanto richiede la presenza del virus dell’epatite B per la propria trasmissione. A differenza dell’HBV, l’HDV infetta solo gli epatociti poiché non sono state riconosciute altre sedi della sua replicazione. Il virione, scoperto da Rizzetto nel 1977, è una particella di 36-37 nm, sferica, costituita da due proteine strutturalmente correlate di 24-27 e 27-29 kD, che formano l’HDVAg, e da un genoma a RNA all’interno di un capside rivestito da un involucro che è rappresentato dall’antigene di superficie di HBV (HBsAg). L’HDV è il più piccolo ss-RNA virus che si conosca ed è particolare perché l’RNA ha una conformazione circolare, a catena singola, che dà origine ad una struttura secondaria a bastoncello a doppia elica, simile a quella di diversi virus che possono provocare malattie nelle piante. Come già ricordato, l’HDV è un virus difettivo che richiede l’azione permissiva dell’HBV per esercitare la sua attività infettiva (l’HBV ha, dunque, funzione di virus “helper”): pertanto, in base alla classificazione corrente, l’HDV rientra nella categoria dei virus “satelliti”, di cui, fino ad ora, rappresenta l’unico esempio nella virologia animale. La biologia dell’epatite D è complessa poiché concerne l’interazione di due agenti distinti con un ospite comune: fino ad oggi non sono stati identificati recettori per l’HDV sugli epatociti, tuttavia è possibile che esso possa penetrare all’interno delle cellule mediante l’HBsAg di cui si riveste (non è chiaro, peraltro, il motivo per cui l’HDV si limiti ad infettare soltanto gli epatociti dal momento che l’HBV ha anche sedi di replicazione extraepatica). L’inizio della replicazione avviene nel nucleo e, tenendo conto che l’HDV non contiene polimerasi, è probabile che questo processo coinvolga la polimerasi della cellula ospite senza il contributo del genoma di HBV e/o di HDV; il ciclo di replicazione non è ancora conosciuto nei dettagli, ma sembra procedere attraverso un meccanismo cosiddetto a “rolling-circle” in cui il genoma è replicato dalla RNA polimerasi dell’ospite (per la replicazione è necessaria la forma piccola di HDVAg, cioè la proteina p24-27, mentre la forma più grande, cioè la proteina p27-29, è importante per l’“impaccamento” del RNA).
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D. Virus dell’epatite non-A, non-B (NANB). Questa epatite è stata descritta inizialmente intorno alla metà degli anni Settanta come un’epatite trasmessa mediante trasfusione di sangue e/o di emoderivati. In seguito, gli studi epidemiologici hanno suggerito che il 90-95% delle epatiti post trasfusionali (in Nord America ed in Europa occidentale) fosse da correlare eziologicamente ad almeno un virus diverso dai virus HAV e HBV (e per tale motivo chiamato NANB), ma differente anche da tutti gli altri virus epatotropi conosciuti. Le indagini retrospettive svolte su sieri di soggetti che nel 1955 avevano sviluppato a Nuova Delhi una “epatite epidemica”, così come i dati clinici e sierologici raccolti nel corso di epidemie di epatite nelle repubbliche della ex Unione Sovietica, Kashmir (nel nord dell’India), Birmania e Messico, caratterizzate da una trasmissione per via enterica attraverso l’acqua e da una spiccata virulenza nelle donne in gravidanza (anni Settanta-Ottanta), hanno poi suggerito l’esistenza di un altro virus NANB diverso da quello dell’epatite NANB post trasfusionale. Negli anni successivi si sono accumulate molte conoscenze che hanno portato alla conferma dell’ipotesi che l’epatite post trasfusionale e quella epidemica sono di fatto due entità cliniche distinte, la prima correlata al virus C e l’altra al virus E (si veda oltre). E. Virus dell’epatite C (HCV). Per molti anni dopo l’identificazione dei virus A e B dell’epatite era noto che in seguito a trasfusioni si potevano sviluppare epatiti, di solito croniche, non attribuibili a nessuno di questi due virus. Si era perciò postulata l’esistenza di un terzo virus chiamato Non-A, Non-B (NANB), in seguito riconosciuto, e chiamato HCV (virus dell’epatite C). L’HCV è un RNA-virus che appartiene alla famiglia dei flavivirus ed è imparentato con quelli dell’epatite G, della febbre gialla e della dengue. I componenti strutturali dell’HCV includono il “core” e due proteine dell’“envelope”. Due regioni della proteina dell’envelope E2, chiamate regioni ipervariabili 1 e 2, sono sottoposte a una frequenza di mutazioni estremamente elevata; questo spiega perché la presenza di anticorpi contro l’HCV spesso non sia significativa della sua eradicazione, come invece accade per il virus dell’epatite B. Infatti, gli anticorpi favoriscono la selezione di mutanti che sfuggono alla loro azione. La proteina E2 contiene anche un sito capace di legarsi a una molecola, chiamata CD81, presente sugli epatociti e sui linfociti che, come si vedrà, sono le cellule nelle quali selettivamente penetra il virus. Sono stati distinti sei genotipi e molti sottotipi dell’HCV. Negli USA e nell’Europa occidentale prevalgono i genotipi 1a e 1b, seguiti dai genotipi 2 e 3. La conoscenza del genotipo di un virus in corso di infezione è importante perché può predire la sensibilità alla terapia con interferon. Infatti, le risposte sono migliori con i genotipi 2 e 3 piuttosto che con l’1. Come già detto i genotipi possono a loro volta essere distinti in sottotipi (per es., il genotipo 1 nei sottotipi 1a e 1b); inoltre, nello stesso paziente, per mutazioni genomiche di modesta entità si possono formare delle va-
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MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
Regione strutturale C
E1
E2/NS1
Regione non strutturale NS2
Ag c-22
NS3
NS4 a-b
Ag c-100
NS5 a-b
asiatico (Indonesia e Birmania), in Africa (Algeria, Costa d’Avorio, Ghana, Ciad, Etiopia, Sudan, Somalia, Kenia, ecc.) e in America (Centro America, Messico soprattutto, e Sud America).
Ag
NS5 Ag c-33 _____________ Ag c-200 _____________________ Figura 29.2 - Rappresentazione schematica del genoma del virus C e sito degli antigeni principali.
rianti chiamate “isolati” e “quasispecie”, che potrebbero giustificare la comparsa del fenomeno della resistenza alla terapia con IFN dopo risposta iniziale (“breakthrough”; si veda oltre). Il genoma di questo virus codifica per una struttura poliproteica nella quale vengono distinte una regione “strutturale” e una regione “non strutturale”: la prima contiene il gene C che codifica per il nucleo-capside (core e capside) e due porzioni E1 ed E2 (o NS1) che corrispondono a due glicoproteine (definite appunto E1 ed E2), le quali costituiscono l’involucro (“envelope”) del virione; la seconda comprende 4 porzioni (NS2, NS3, NS4 a-b, NS5 a-b), che codificano per proteine non strutturali ad attività enzimatica. Il genoma del virus C è rappresentato schematicamente nella figura 29.2, dove sono anche indicati gli antigeni (e la loro collocazione) utilizzati per i test diagnostici per l’identificazione di anticorpi anti-HCV, di cui si parlerà più avanti. Le regioni più variabili del genoma della particella virale, responsabili con le loro mutazioni della formazione dei diversi tipi e sottotipi di HCV, sono E2 (o NS1), NS2 e NS5, mentre quelle più stabili sono C, NS3 e NS4. F. Virus dell’epatite E (HEV). L’agente eziologico che era precedentemente conosciuto come virus dell’epatite NANB trasmessa per via enterica è stato identificato come un nuovo virus chiamato virus dell’epatite E (HEV). Si tratta di un RNA-virus, scoperto nel 1980, a singola elica, di forma lineare; il virione completo, che ha simmetria icosaedrica ed è sferico, è costituito da un nucleo e da un capside privo di involucro ed ha un diametro di 27-34 nm. Di questo virus sono stati identificati quattro ceppi di diversa provenienza geografica, tre genotipi, ma un solo sierotipo; la sua classificazione tassonomica presenta delle difficoltà, tuttavia si può dire che esso ha delle caratteristiche correlate alla famiglia delle Caliciviridae, genere calicivirus (e, in parte, delle Togaviridae). Il sito di replicazione, come per l’HCV, è sconosciuto; la trasmissione avviene per via oro-fecale (enterica) ed il mezzo di diffusione di gran lunga più importante sembra essere l’acqua. L’HEV è responsabile di epidemie di variabile entità ed è stato riconosciuto soprattutto nei paesi dell’Est Europa (ex Unione Sovietica), in India, Pakistan, Sud-Est
G. Nuovi virus dell’epatite. Gli ultimi tre decenni hanno portato un progressivo arricchimento delle conoscenze in tema di epatite virale con l’identificazione di una serie di virus epatotropi indicati con le lettere dell’alfabeto, da A ad E, di cui s’è parlato fin qui. Peraltro, per quanto fossero disponibili test specifici per la determinazione di tutti questi virus, l’eziologia di una certa percentuale di epatiti rimaneva sconosciuta, il che suggeriva l’esistenza di altri agenti infettivi non ancora noti. Per esempio, negli Stati Uniti, di tutte le epatiti acute il 47% è dovuto al virus A, il 34% al virus B e il 17% al virus C; c’è, dunque, un 2% di casi che va attribuito ad altri agenti eziologici. Nel 1994 è stato descritto un nuovo virus a trasmissione enterica, provvisoriamente chiamato virus dell’epatite F (si veda oltre), ma le evidenze relative a questo agente non sono state sufficientemente circostanziate ed il suo riconoscimento come nuovo virus epatitico è da molti considerato tuttora prematuro (se non inopportuno). Più di recente sono stati identificati altri due agenti eziologici di epatite che sono stati denominati GBV-C e virus dell’epatite G (HGV). Le indagini di caratterizzazione a livello molecolare hanno dimostrato senza alcun dubbio che questi virus sono, in realtà, due “isolati”, quasi identici, dello stesso virus, riconosciuto come un nuovo genere della famiglia delle Flaviviridae. Di fatto, l’identificazione di GBV-C risale agli anni Sessanta dal sangue di un chirurgo americano di Chicago (le cui iniziali erano appunto G.B.), colpito da epatite acuta itterica, in grado di trasmettere l’infezione dopo inoculazione nel tamarino, piccola scimmia sudamericana. In verità, tale agente era risultato composto, in un primo tempo, da due virus, GBV-A e GBV-B, capaci di indurre epatite nelle scimmie; in seguito Simons e coll., 1995, hanno isolato un terzo virus, GBV-C, in grado di provocare epatite anche nell’uomo e nel 1996 Linnen e coll. hanno identificato il virus HGV in un paziente con epatite cronica e coinfezione da HCV. Il genoma di HGV è costituito da RNA con circa 9300-9400 nucleotidi (che codificano per circa 3000 aminoacidi) e presenta notevoli somiglianze con quello di altri virus della famiglia delle Flaviviridae: in particolare tra HGV e GBV-C si riscontra identità del 95% nella sequenza aminoacidica e dell’85% in quella nucleotidica (in pratica si può dire che HGV e GBV-C sono 2 “isolati” indipendenti dello stesso virus e costituiscono un nuovo genere nell’ambito della famiglia delle Flaviviridae), mentre tra HGV e GBV-C da una parte e GBV-A, GBV-B e HCV dall’altra l’identità nelle sequenze nucleotidiche è solo del 30% circa. La struttura di HGV (e di GBV-C) è del tutto sovrapponibile a quella di HCV con una regione strutturale (di cui fanno parte le porzioni C, E1, E2 o NS1) e una regione non strutturale (NS2, NS3, NS4, NS5).
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Si ipotizza, infine, che anche per questo virus, come per l’HCV, esistano diversi genotipi, almeno 8, con variabili differenze per quanto riguarda le rispettive sequenze nucleotidiche. H. Recentissima, infine, è l’identificazione di un nuovo virus epatitico denominato TT virus (TTV), un DNA-virus (forse un parvovirus), che è stato riscontrato in una discreta percentuale di soggetti con epatite NANBNCNENG e che, in Gran Bretagna ed in Giappone, dove sono state fatte le prime segnalazioni, è presente nel 25-45% dei pazienti con epatite fulminante o epatite cronica criptogenetica, nel 30-70% degli emofilici e nel 2-12% dei donatori “sani”. In Italia studi preliminari indicherebbero che questo nuovo virus dell’epatite sia piuttosto frequente nei soggetti sottoposti a regolare trattamento trasfusionale (talassemici, emofilici) e nei donatori “sani” (oltre il 20% dei casi) suggerendo che la via di trasmissione sia soprattutto, ma non esclusivamente, quella parenterale; peraltro il suo ruolo patogenetico come responsabile di malattia epatica non sembra essere, almeno allo stato attuale delle conoscenze, particolarmente significativo. Le principali caratteristiche dei virus dell’epatite sono riportate nella tabella 29.1. Epidemiologia A. Epatite A. Il virus dell’epatite A (HAV) viene eliminato con le feci ed il massimo titolo viene raggiunto 2 settimane prima e 1 dopo l’insorgenza della malattia; in tale periodo il virus è presente anche nella saliva e nel siero, per quanto in concentrazione molto inferiore che nelle feci. Pertanto, dal punto di vista epidemiologico, la modalità di trasmissione più importante è quella oro-fecale anche se sono stati segnalati alcuni casi, peraltro molto rari, di trasmissione per via ematica (mentre finora non è stata dimostrata alcuna responsabilità da parte della saliva). In quasi tutti i casi la diffusione del virus A si verifica attraverso l’ingestione di acqua e/o cibi contaminati da feci umane (al riguardo va ricordato che non esiste lo stato di portatore cronico di HAV, come invece accade per l’HBV, e, dunque, l’unico serbatoio dell’infezione è costituito da soggetti infettati acutamente, sottolineando che l’eliminazione del virus con le feci avviene sia per le forme sintomatiche sia per quelle asintomatiche nella stessa misura e con le stesse modalità ricordate al principio di questo paragrafo). Tabella 29.1 - Principali caratteristiche dei virus dell’epatite. DIAMETRO SIMMETRIA GENOMA (NM) Virus A (HAV) Virus B (HBV) Virus D (HDV) Virus E (HEV) Virus C (HCV) Virus G (HGV) GBV-C virus GBV-A e GBV-B Virus F (HFV)
27 42 36-37 27-34 50-60
icosaedrica sferica sferica icosaedrica sferica simile ad HCV come HGV simili ad HCV ?
RNA DNA RNA RNA RNA
FAMIGLIA Picornaviridae Hepadnaviridae ? Caliciviridae Flaviviridae
L’infezione da HAV ha diffusione ubiquitaria e si può manifestare sia in forma sporadica sia epidemica; essa è largamente influenzata dalle condizioni igienico-sanitarie essendo più frequente nelle regioni a basso livello socioeconomico: in tali aree geografiche la gran parte delle infezioni viene contratta dai bambini (anche se a questa età essa è spesso asintomatica); per contro, nei paesi a più alto tenore di vita (America del Nord e Nord Europa), l’infezione è più frequente tra i giovani e gli adulti (poiché la trasmissione, in questi casi, avviene in un’età in cui l’infezione è sintomatica, l’incidenza della malattia può risultare paradossalmente più elevata che nei paesi con condizioni igienico-sanitarie precarie). In Italia l’infezione è tuttora piuttosto comune e la malattia colpisce soprattutto l’infanzia e l’adolescenza con particolare riguardo per i bambini delle scuole materne ed elementari. In tutti i casi i fattori di rischio riportati più spesso tra i pazienti con epatite A sono: coabitazione, contatti tra bambini negli asili e nelle scuole, viaggi in zone endemiche, attività omosessuale e tossicodipendenza (tuttavia in più del 40% dei casi non vengono evidenziati fattori di rischio). Dal punto di vista epidemiologico grande importanza riveste la determinazione degli anticorpi anti-HAV di classe IgG: grazie a tale dato è stato possibile dimostrare che la percentuale dei soggetti immuni tende ad accrescersi con l’età e che nelle regioni ad elevata endemia (tra cui l’Italia) più del 90% della popolazione adulta risulta immune nei confronti dell’infezione da HAV. Peraltro, attualmente è disponibile il vaccino per l’epatite A, che garantisce una protezione a lungo termine e che sicuramente avrà un impatto significativo sugli aspetti epidemiologici di questa malattia (si veda oltre). B. Epatite B. Questo virus ha una grande importanza epidemiologica, perché si stima che infetti cronicamente più di 400 milioni di persone nel mondo e che sia la causa di 316.000 casi per anno di carcinoma epatico (si pensa che l’82% dei 530.000 casi di carcinoma epatico che si hanno annualmente nel mondo siano conseguenza di epatiti virali). La massima diffusione di questo virus è tra i cinesi e nell’Africa subsahariana. Il virus dell’epatite B è presente a titolo elevato nel sangue e negli essudati dei soggetti con infezione acuta e/o cronica: per molti anni, infatti, s’è ritenuto che le sole modalità di trasmissione fossero rappresentate dalle trasfusioni di sangue e/o emoderivati (l’epatite B era denominata, per questa ragione, epatite da siero, anche per distinguerla dall’epatite epidemica da HAV che si trasmette, come s’è visto, per via oro-fecale). In realtà, oggi è noto che il virus B può essere trasmesso per vie differenti da quella parenterale classica e cioè per quella che si definisce “via parenterale inapparente”. Di fatto si riscontrano titoli virali di variabile entità anche nel liquido seminale, nelle secrezioni vaginali e nella saliva, mentre né le feci né le urine, purché non contenenti siero o sangue, rappresentano un serbatoio di HBV.
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Dal punto di vista epidemiologico le tre principali modalità di trasmissione del virus sono: la via sistemica (infezione tramite sangue infetto o liquidi corporei nel personale sanitario, trasfusioni di sangue, scambio di siringhe tra tossicodipendenti), quella sessuale (eterosessuale o omosessuale tra maschi) e quella verticale (da madre a figlio durante il parto). In caso di coabitazione la trasmissione avviene di solito attraverso lesioni cutanee (per es., in presenza di eczema e/o impetigine) oppure per la condivisione di oggetti potenzialmente contaminati da sangue (quali spazzolini da denti, rasoi a lama, pettini, forbici, asciugamani, ecc.) o, anche, raramente, per mezzo di punture o morsicature. Per quanto infrequenti sono stati descritti casi nosocomiali dopo impropria disinfezione di strumenti medici (per es., aghi per agopuntura o procedure per “piercing” o tatuaggi) o tra il personale sanitario infettato da pazienti durante manovre invasive. L’HBV ha una diffusione ubiquitaria: circa il 45% della popolazione mondiale vive in regioni geografiche dove questo virus è altamente endemico (e in cui quasi il 10% dei soggetti è cronicamente infetto); circa il 43% in aree di moderata endemicità (dal 2 al 7% è cronicamente infetto) e circa il 12% in aree a bassa endemicità (meno del 2% è cronicamente infetto); in tutto il mondo si calcola che i portatori di HBV siano tra i 300 e i 400 milioni. Lo stato di portatore cronico del virus B, in cui è positivo l’antigene di superficie HBsAg (si veda in seguito), è diversamente rappresentato nelle varie regioni del mondo: piuttosto raro (0,1-0,5%) in Nord America e nel Nord Europa (in particolare 0,1% negli USA, Scandinavia e Gran Bretagna; tra lo 0,1 e lo 0,5% in Europa centrale, per esempio in Germania ed in Francia), ma estremamente frequente, fino al 20-30% della popolazione, in alcuni paesi del Sud-Est asiatico ed in alcune aree tropicali. In Italia i portatori cronici sono circa il 3% (2% al nord e 4% al sud e nelle isole) e il 40% circa della popolazione adulta risulta positivo per anticorpi anti-HBs: nel complesso, dunque, si può considerare il nostro paese come un’area a moderata-media endemia in cui, peraltro, sono state identificate delle “sacche” dove lo stato di portatore cronico supera anche di gran lunga (almeno 10 volte) il dato medio del 3%. L’infettività è massima nei soggetti HBsAg+ e anche HBeAg+ (l’HBeAg è un altro antigene del virus B; si veda oltre): la via più frequente di trasmissione, attualmente, è quella attraverso i rapporti eterosessuali (con uno o più partner con epatite da HBV: circa 40% del totale), seguita dalla tossicodipendenza (circa 15%), dalle pratiche omosessuali (circa 10%), dalla coabitazione (circa 2%), da attività svolte in ambiente sanitario (1%). La trasmissione verticale è molto importante per mantenere livelli elevati di endemia nella popolazione: infatti se la madre è HBsAg e HBeAg positiva, il neonato diventa invariabilmente portatore cronico di HBsAg. Peraltro, l’epidemiologia dell’epatite B è già in parte cambiata (per es., negli USA dalla metà degli anni
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Ottanta il numero dei casi di epatite B è diminuito del 50%) ed è destinata a cambiare ulteriormente nel tempo in seguito alla introduzione del vaccino anti-HBV (disponibile dal 1980). La vaccinazione nel nostro paese è obbligatoria per tutti i neonati a partire dal terzo mese di vita e, per i soggetti che non sono già stati vaccinati in precedenza, nel dodicesimo anno; inoltre essa è vivamente raccomandata a tutti i gruppi di adulti ad alto rischio di infezione ed, in particolare, al personale sanitario, tossicodipendenti, omosessuali maschi, ecc. C. Epatite D. Le modalità di trasmissione del virus dell’epatite D sono in fondo le stesse dell’epatite B poiché l’HDV viene trasmesso ai soggetti già infettati da HBV o per coinfezione (infezione simultanea HBVHDV) o per superinfezione di un portatore cronico di HBV (in verità viene riconosciuto un terzo tipo di trasmissione in caso di trapianto di fegato dove la reinfezione, da parte del virus , del fegato trapiantato sembra verificarsi, per ragioni non ancora definite, anche senza l’apparente supporto di HBV). Peraltro la prevalenza di questa infezione differisce anche notevolmente in rapporto alle diverse aree geografiche e non è sempre correlata alla distribuzione geografica dei portatori cronici di HBsAg: infatti, in molti paesi a bassa endemia per l’HBV, tra i soggetti HBsAg+ la prevalenza dell’infezione da HDV è spesso modesta; nei paesi ad alta endemia per l’HBV, la prevalenza di HDV può variare (per es., tende ad essere bassa in Asia ed Africa, mentre è moderata o alta in altri casi come in Spagna, Italia, Turchia, Egitto e Sud America). Negli USA si ritiene che il 4% circa delle epatiti acute da HBV sia associato ad infezione da HDV, mentre tra i donatori di sangue HBsAg+ la prevalenza di HDV è del 2-8%. Nei paesi occidentali la diffusione dell’HDV è particolarmente elevata in alcune aree urbane specialmente delle grandi città, tra la popolazione di basso livello socioeconomico, soprattutto tra i tossicodipendenti (tra i tossicodipendenti HBsAg+ la percentuale dei soggetti con anticorpi anti-HDV varia dal 20 al 50-55%). Gli studi epidemiologici indicano che la trasmissione dell’HDV avviene principalmente per effetto dell’uso di droghe per via endovenosa e, meno frequentemente, per via sessuale; meno comune, rispetto a quanto si verifica per l’HBV, è la trasmissione per via verticale (da madre a figlio durante il parto). Fortunatamente, in Italia, il livello di endemicità dell’infezione da HDV nei portatori cronici di HBsAg s’è ridotto dal 34,4% del 1987 al 14,3% del 1992 (soprattutto al nord, dal 19,1 al 9%). La vaccinazione contro il virus B, impedendo la moltiplicazione del virus e, quindi, la produzione di HBsAg, non permette la replicazione del virus e ne riduce, di conseguenza, la diffusione (per quanto i soggetti più esposti all’infezione da HDV e per i quali la profilassi attiva è inutile sono i portatori cronici del virus B, nei quali l’HDV provoca in genere una malattia di notevole gravità).
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D. Epatite C (epatite NANB post-trasfusionale). Il virus dell’epatite C, HCV, è la principale causa di epatite NANB trasmessa per via parenterale: 90% circa dei casi di epatite post-trasfusionale tra cui molto numerosi sono quelli di epatite anitterica e/o paucisintomatica (attualmente il rischio di contrarre un’infezione da HCV con una trasfusione è stimato pari a 1 ogni 100.000-110.000 unità trasfuse; in Italia la frequenza di epatite C post-trasfusionale è di 0,4 per milione). Si tratta di un virus che infetta un numero elevato nel mondo, stimato attorno a 170 milioni, con una prevalenza di individui portatori di anticorpi nei suoi riguardi (che, come si vedrà, nella maggior parte dei casi significano l’esistenza di un’infezione attiva) che varia molto nelle diverse zone geografiche. La più alta prevalenza è in Egitto dove la sieropositività interessa dal 6 al 20% della popolazione. L’HCV è presente (più spesso a basso titolo) nel sangue di soggetti infetti e viene riscontrato solo occasionalmente in altri liquidi biologici; sono state identificate vie di trasmissione parenterale, sessuale, perinatale, ma in molti casi di epatite C non è riconoscibile alcun tipo di esposizione (trasmissione parenterale inapparente). La via di trasmissione più importante per l’HCV è quella ematica, attraverso trasfusioni di emoderivati o di sangue o tramite siringhe di uso promiscuo (il rischio di trasmettere l’infezione con una puntura di ago sporco di sangue di un soggetto HCV-Ab+ è del 3-10%; la prevalenza di positività per HCV-Ab è piuttosto elevata, 7090%, negli emofilici politrasfusi, nei pazienti con epatite acuta NANB trasfusionale e nei tossicodipendenti). Molti soggetti, positivi per HCV-Ab, depongono in anamnesi di essersi sottoposti a interventi chirurgici oppure a manovre odontoiatriche o altre procedure parenterali come tatuaggi, fori dei lobi auricolari, fori nasali, agopuntura, ecc. Per quanto riguarda il problema della trasmissione del virus C per via sessuale e verticale (perinatale), gli studi epidemiologici hanno fornito risultati piuttosto contrastanti: l’HCV-Ab è presente nel 12% circa dei soggetti con promiscua attività eterosessuale, ma solo nel 2-5% degli omosessuali e dei pazienti con malattie trasmesse per via sessuale (in alcune casistiche la percentuale di infezione tra i soggetti aventi rapporti sessuali con individui HCV-Ab+ è però anche del 30%, mentre in altri studi è nettamente inferiore). Il rischio di trasmissione verticale di HCV non sembra essere molto elevato (tra lo 0 e il 13%), ma alcuni lavori recenti sottolineano, al riguardo (e anche per quel che si riferisce alla trasmissione per via sessuale), l’importanza che riveste il titolo della viremia (per es., a proposito del contagio perinatale è stato osservato che la trasmissione si può verificare soltanto da madri con viremia superiore o uguale a 10 copie genomiche/ml). Peraltro, se l’ipotesi di una trasmissione verticale intrauterina di HCV sembra poco probabile, è possibile che il contagio avvenga invece durante il parto, tenendo conto che l’HCV-RNA è stato ritrovato nei fluidi puerperali e nel cordone ombelicale del 40% dei nati da madri HCV-Ab+ (nel neonato l’HCV-Ab ricevuto passiva-
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mente dalla madre è piuttosto fugace e abitualmente non è più presente nel siero dopo 6-8 mesi) e sicuramente non più dopo 18 mesi). In caso di trasmissione perinatale la percentuale di cronicizzazione dell’infezione da HCV è molto bassa con l’eccezione dei neonati da madri HIV-Ab+ e/o con carica virale elevata, superiore a 10 copie/ml (è tuttora oggetto di discussione l’opportunità di consentire l’allattamento al seno alla madre HCV-RNA+, per quanto nel latte materno non sia mai stato messo in evidenza il genoma virale). La diffusione del test per la ricerca degli anticorpi anti-HCV e, più di recente, quella della PCR per l’HCVRNA hanno permesso di aprire nuove prospettive per quanto riguarda gli studi epidemiologici sull’epatite C consentendo di identificare con precisione i fattori di rischio associati allo sviluppo di questa infezione: per esempio, negli USA, dove ogni anno si registrano circa 150.000 casi di epatite acuta da HCV (tenendo conto che nello stesso paese circa l’1,4% della popolazione, pari a 3,5 milioni di individui, è HCV-Ab+), il 5% è correlato a trasfusioni, il 36% alla tossicodipendenza, il 3% ad attività professionali a rischio (operatori sanitari, ecc.), l’1% alla dialisi, il 13% a contatti sessuali multipli o a coabitazione. Nel 42% dei casi, invece, non è riconoscibile una causa evidente di infezione e di questi il 35% è riferibile ad uno stato socioeconomico basso (ma a questo proposito resta aperto il problema della cosiddetta trasmissione parenterale inapparente del virus di cui s’è già fatto cenno in questo paragrafo). Alcuni Autori non escludono che il virus C possa avere anche una trasmissione mediata da artropodi, ma i dati riguardanti questa ipotesi sono alquanto limitati e incerti. E. Epatite E (epatite NANB epidemica). Il virus E è la causa principale delle epatiti sporadiche ed epidemiche nei paesi in via di sviluppo. L’infezione è, peraltro, presente in forma sporadica anche nei paesi industrializzati, portata da soggetti che provengono da aree endemiche. Il virus E dell’epatite viene eliminato con le feci e la sua unica modalità di diffusione è quella della trasmissione fecale-orale, in genere attraverso l’acqua potabile inquinata dai liquami di scarico (la trasmissione da persona a persona non sembra essere probabile o comunque rilevante tenendo conto della bassissima incidenza di casi segnalati tra conviventi). L’incidenza di mortalità tra le donne in gravidanza è assai più elevata di quella riscontrata negli altri pazienti, rispettivamente 15-20% rispetto a 0,5-3,0%. Si possono verificare epidemie, soprattutto durante la stagione delle piogge, nelle aree in cui le condizioni sanitarie sono scadenti, come per esempio all’interno di campi profughi nei paesi in via di sviluppo (dagli anni Cinquanta sono state segnalate parecchie epidemie in diversi paesi tra i quali l’India, il Pakistan, la Birmania, l’Indonesia, la Cina, il Messico e molti stati dell’Africa, Somalia, Algeria, Costa d’Avorio, Ghana, Ciad, Etiopia, Sudan, ecc.).
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Nei Paesi in via di sviluppo si possono anche verificare trasmissioni sporadiche di tipo endemico, ma vi sono pochi dati riguardanti l’insorgenza di queste forme di epatite; negli USA i casi di epatite E sono rari e tutti sono stati osservati in soggetti che si erano recati di recente in zone endemiche per HEV. L’Europa non è ritenuta un’area endemica per questa infezione, tuttavia alcuni studi epidemiologici hanno evidenziato che anticorpi anti-HEV sono presenti nel 22% dei pazienti affetti da epatite cronica B o C, nel 7% dei pazienti con epatite acuta NANBNC sporadica, nel 5% circa delle donne gravide di origine asiatica o africana e nell’1,5% dei donatori di sangue (in Italia è stato riscontrato che la prevalenza di anti-HEV nella popolazione sana è dell’1% circa, mentre tra i tossicodipendenti è dell’1,94% e nei pazienti con epatite acuta NANBNC del 6,5%). Non è a tutt’oggi noto per quanto tempo il virus venga eliminato nelle feci dei soggetti infetti né se esista lo stato di portatore cronico, anche se si ritiene che ciò sia poco probabile soprattutto per l’assenza di cronicizzazione della malattia. F. Epatite NANB sporadica. Tra i dati a favore dell’esistenza di altri virus che possono causare epatite acuta e/o cronica in aggiunta a quelli fin qui descritti, sta il fatto che talvolta non si riesce a dimostrare la presenza di HCV nei pazienti post-trasfusi con epatite ed in alcuni casi di infezione NANB sporadica. In certi casi, inoltre, l’epatite NANB viene diagnosticata in soggetti sicuramente mai trasfusi e/o senza alcuna esposizione parenterale all’infezione, mentre in una piccola percentuale di questi pazienti è ipotizzabile un contagio per via fecale-orale. L’inquadramento nosografico di questa varietà di epatite, più simile all’epatite NANB epidemica che a quella post-trasfusionale, potrà essere chiarito quando si farà completa luce sulle modalità di trasmissione del virus C e saranno disponibili, su più larga scala, marker sierologici per la diagnosi di epatite NANB a trasmissione fecale-orale. G. Epatite G (HGV). Sembra ormai accertato che la trasmissione del virus G (così come quella da GBV-C) avvenga per via parenterale. La prevalenza di questo virus in alcune categorie di soggetti è la seguente: • popolazione generale: 0,5-1,5%; • donatori con ALT normale: 1,5%; con ALT alterata: 2,0-2,5%; • epatite acuta NANBNC: 33%; • epatopatia cronica alcolica: 8%; • epatite cronica B: 10%; • epatite cronica C: 20%; • politrasfusi (talassemici, emofilici): 18%; • tossicodipendenti: 30-35%. Il virus G è responsabile da solo dello 0,3% di tutte le epatiti acute negli USA ma, nonostante le scoperte sulle caratteristiche virologiche e sulla biologia molecola-
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re di questo agente infettivo, il suo significato clinico resta ancora alquanto incerto. Il problema da chiarire è se esso sia realmente un’importante causa di epatite acuta e se questa possa davvero evolvere in epatite cronica grave. Di fatto, alla luce delle attuali conoscenze, si può dire che l’HGV è sicuramente in grado di indurre, indipendentemente dalla presenza di altri virus epatotropi, sia malattia epatica acuta che cronica, ma sembra che da solo non sia capace di provocare epatopatia clinicamente rilevante (per quanto siano stati anche descritti rarissimi casi di epatite fulminante correlata a questa infezione, in assenza, cioè, di altri agenti infettivi identificati) e ciò vale non solo per l’epatite acuta, ma anche per l’epatite cronica e/o la cirrosi. D’altra parte è stato osservato che nei casi in cui l’HGV si associa all’epatite da HCV (coinfezione HCV-HGV), il che si verifica nel 20% dei pazienti HCV-positivi, il quadro clinico di quest’ultima non si differenzia da quello dell’epatite, acuta o cronica, da HCV soltanto, per cui si può affermare che l’infezione da HGV non sembra influenzare le caratteristiche cliniche della malattia indotta dal virus C e che esclusivamente a quest’ultima si correla, in ogni caso, la gravità sul piano clinico dell’epatite (così come nessuna influenza l’HGV sembra avere sulla risposta al trattamento terapeutico con IFN in questi pazienti); e lo stesso vale in caso di coinfezione HGV-HBV (10% circa dei pazienti HBV-positivi). Anatomia patologica L’epatite virale è caratterizzata, dal punto di vista anatomopatologico, dalla presenza di fenomeni necrotici e degenerativi delle cellule che formano le classiche travate dei lobuli epatici. La necrosi epatocitaria può essere più o meno estesa e si accompagna sempre ad un’infiltrazione di grado variabile di elementi infiammatori, cellule mononucleate, soprattutto linfociti, ma anche plasmacellule ed eosinofili. I fenomeni degenerativi a carico degli epatociti possono essere differenti, come per esempio la degenerazione vacuolare con rigonfiamento balloniforme (“ballooning”) del nucleo e con la formazione nel citoplasma di corpi rotondeggianti, fortemente eosinofili, di aspetto omogeneo, chiamati corpi acidofili (“Councilmann-like bodies”, del tutto simili a quelli che si riscontrano nel fegato dei pazienti affetti da febbre gialla), i quali costituiscono uno degli elementi più caratteristici del quadro istologico dell’epatite virale. Le manifestazioni degenerative si accompagnano a parziale rigenerazione epatocitaria e ad iperplasia delle cellule di Kupffer, mentre è costante un certo grado di colestasi, che appare più accentuata nella forma colestatica di questa malattia. Nell’epatite virale, inoltre, lo stroma reticolare inter ed intralobulare è conservato; a volte è possibile osservare all’esame istologico la presenza di particolari formazioni dette “setti o ponti passivi” (a differenza di quelli “attivi” dell’epatite cronica attiva), dovuti al fatto che si hanno zone di necrosi a ponte (“bridging“)
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tra lobuli contigui con collasso dell’impalcatura di reticolina. Queste strutture sono costituite da materiale necrotico proveniente da epatociti degenerati, detriti cellulari e rare cellule infiammatorie (contrariamente a quanto si verifica nel caso dei setti attivi in cui la componente flogistica è molto più importante), organizzati in formazioni a ponte per effetto della presenza dello stroma reticolare che si collassa e che fa da materiale cementante (si possono avere ponti centro-centrali, centro-portali, porto-portali a seconda della loro disposizione). La presenza di queste formazioni sembra possedere un significato prognostico sfavorevole perché indica una più probabile evoluzione della malattia verso la cronicizzazione; questo vale soprattutto nel caso dell’epatite cronica (Cap. 30), in cui il riscontro di queste strutture si accompagna più spesso all’evoluzione verso la cirrosi, mentre nel caso dell’epatite acuta il valore prognostico è meno rilevante. Patogenesi A. Epatite A. La patogenesi dell’epatite A non è stata ancora chiarita. Il virus viene diffuso nell’ambiente attraverso le feci dove giunge con la bile dopo essere stato liberato dagli epatociti infettati. È ignoto come il virus, una volta ingerito con cibi o acqua contaminati, attraversi la mucosa intestinale e si localizzi nel parenchima epatico; il passaggio attraverso il canale intestinale, tra l’altro, non sembra costituire una tappa fondamentale ai fini della localizzazione epatica: infatti, studi condotti sugli animali da esperimento hanno dimostrato la possibilità di trasmettere l’infezione attraverso l’inoculazione in vena di materiale infetto. Al pari di quanto si verifica per altri enterovirus, è comunque possibile che la prima tappa di questo processo sia costituita dalla replicazione delle particelle virali nell’epitelio intestinale (ipotesi che, di recente, avrebbe anche trovato conferma sperimentale). In aggiunta, non sono ancora stati chiariti i meccanismi attraverso i quali il virus A provoca la necrosi cellulare (in vitro, come già detto, l’HAV non ha dimostrato attività citopatica) né quelli che conducono alla guarigione dei pazienti colpiti da questa infezione. Nella scimmia il virus viene eliminato in grande quantità nelle feci prima che si manifestino le alterazioni biochimiche della malattia e che compaiano gli anticorpi e la sua eliminazione tende ad aumentare fino all’insorgenza dei segni bioumorali dell’epatite per diminuire poi in coincidenza con la comparsa della risposta immunitaria nei riguardi del virus, che è mediata non soltanto dagli anticorpi circolanti, ma anche dai linfociti T citotossici CD8+ HAV-specifici in grado di provocare la lisi degli epatociti infettati (tale effetto, a quanto sembra, è virus-specifico e sarebbe in qualche modo funzionalmente correlato al complesso di istocompatibilità). B. Epatite B. Il ciclo di replicazione dell’HBV non è direttamente citotossico per le cellule infettate. Infatti, molte persone cronicamente infettate con questo virus sono del tutto asintomatiche e hanno un danno epa-
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tico minimo nonostante il virus vada incontro a una vivace replicazione intraepatica. Così pure si è visto che i soggetti immunodepressi infettati con l’HBV hanno spesso una compromissione epatica modesta, ma una notevole tendenza all’evoluzione cronica. Perciò si deve concludere che il danno epatico deriva da una risposta immunitaria dell’ospite agli antigeni del virus espressi sulle cellule del fegato. Questa risposta è largamente dovuta a meccanismi di immunità cellulare, esercitati da cellule T CD4+ che riconoscono peptidi derivati dalle proteine virali montati su molecole HLA di classe II, verosimilmente su cellule dendritiche nella fase di induzione della risposta e sugli stessi epatociti nella fase effettrice. Normalmente gli epatociti non esprimono alla superficie molecole HLA di classe II, ma possono farlo per effetto di alcune citochine e particolarmente dell’interferon-. Il risultato dell’attivazione dei linfociti T CD4+ è un’azione di aiuto (“helper”) per i linfociti B e per i linfociti T CD8+, oltre che una promozione dell’infiammazione attraverso la produzione diretta o indiretta di citochine infiammatorie, quali il TNF- e l’interferon-. Anche i linfociti T CD8+ riconoscono peptidi derivati da proteine virali, ma questa volta montati su molecole MHC di classe I, costitutivamente presenti sulle cellule infettate, e in questo modo possono teoricamente esercitare un’azione citotossica nei loro riguardi. Questa azione è manifestamente dannosa per il fegato, ma nello stesso tempo utile per l’eliminazione del virus. Studi più recenti hanno dimostrato che il numero degli epatociti uccisi attraverso un’interazione diretta con i linfociti citotossici è molto piccolo e chiaramente insufficiente per spiegare il danno che si produce nel fegato. Si è data perciò importanza alla produzione locale di citochine infiammatorie, le quali potrebbero anche avere un diretto effetto anti-virale che potrebbe esplicarsi senza che il fegato venga danneggiato. Nel corso dell’epatite da HBV si verifica anche una vivace reazione anticorpale (1), il cui ruolo nell’eliminazione del virus non è totalmente chiaro, che è spesso oscurata dalla prevalenza quantitativa nel sangue degli antigeni contro i quali sono diretti. Comunque, la dimostrazione della presenza di anticorpi contro determinati antigeni dell’HBV (sieroconversione) indica che si è verificata un’efficace risposta immunitaria protettiva contro il virus. L’epatite da virus B può avere un’evoluzione cronica che è tanto più facile quanto minore è l’età di chi viene infettato e quanto più debole è il suo apparato immunologico. Per i neonati con infezione perinatale o per i bambini di età inferiore a un anno, il rischio che l’infezione divenga cronica è del 90%. Per i bambini tra uno e cinque anni il rischio è del 30%, mentre per i bambini di età superiore e per gli adulti immunocompetenti il rischio è di circa il 2%. Se la persistenza cronica del virus che si replica avviene con un trascurabile danno epatico, il soggetto è definito portatore di HBV, se, invece, determina un danno epatico significativo e persi(1) Gli anticorpi anti-HBsAg sono denominati HBsAb; quelli antiHBcAg e quelli anti-HBeAg rispettivamente HBcAb e HBeAb.
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stente il soggetto è considerato affetto da epatite cronica da HBV. C. Epatite D. I meccanismi patogenetici dell’epatite D non sono ancora conosciuti. Studi clinici e sperimentali hanno dimostrato che l’infezione da HDV è seguita in tutti i casi dallo sviluppo di malattia epatica, a differenza di quanto avviene per l’HBV: ciò suggerisce l’ipotesi che questo virus abbia un effetto citotossico diretto sugli epatociti. L’argomento rimane, peraltro, controverso e non si può escludere completamente una patogenesi di tipo immunologico, ma, in sintesi, il reale meccanismo attraverso il quale si produce il danno a carico del fegato in questi pazienti non è noto. A questo proposito va aggiunto che sono stati identificati diversi genotipi di HDV e l’associazione di un solo genotipo con una variante particolarmente virulenta della malattia nelle regioni settentrionali del Sud America induce a ritenere che la genetica di HDV possa avere un ruolo importante nel decorso di questa epatite. D. Epatite C. Sembra probabile che il danno epatico provocato dall’HCV sia dovuto a un meccanismo simile a quello descritto per l’epatite da virus B. Infatti, la presenza di linfociti nel parenchima epatico in questa malattia è stata interpretata come evidenza di un danno mediato da una reazione immunitaria. In teoria, questo danno dovrebbe essere seguito da un’eliminazione del virus e da una guarigione, una possibilità che è stata dimostrata sperimentalmente negli scimpanzé e anche con osservazioni cliniche nell’uomo. Tuttavia, nell’infezione da HCV le risposte dell’immunità cellulare sono deboli dal punto di vista sia quantitativo, sia qualitativo, almeno per quanto riguarda le cellule T CD8+ specificamente dirette contro il virus. Risultano, infatti, menomate la loro capacità di produrre citochine antivirali e la loro attività citotossica. È da ricordare che l’HCV si localizza non solo negli epatociti, ma anche nei linfociti, anche se è dubbio se questa sia la causa della risposta immunitaria poco vivace. Quello che è importante è che l’infezione da HCV raramente produce un quadro di epatite acuta e più spesso evolve insidiosamente in epatite cronica. L’epatite da virus C ha una notevole tendenza a provocare manifestazioni extraepatiche, alcune delle quali, come si vedrà a proposito della clinica delle epatiti croniche, possono essere genericamente definite di tipo “reumatico” (per usare un termine che ha deviato dal suo significato originale per indicare processi di origine immunopatologica). Quattro anomalie biologiche extraepatiche sono state descritte nell’epatite da virus C con una frequenza superiore al 5%: comparsa di crioglobuline, di anticorpi antinucleo, di anticorpi antimuscolo liscio e diminuita concentrazione di tiroxina nel sangue. Almeno una di queste anomalie biologiche è presente in circa il 50% dei pazienti. Una crioglobulinemia mista è osservata in circa il 40% dei pazienti con epatite cronica da HCV, anche se l’importante vasculite che ne può derivare si verifica soltanto nel 2-3% dei casi. La presenza degli altri autoanticorpi in questa malat-
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tia solitamente non è associata con manifestazioni cliniche particolari. Le basse concentrazioni ematiche di tiroxina si osservano in circa il 10% dei pazienti, ma solo l’1% ha anche alte concentrazioni di TSH nel sangue. La prevalenza di casi con anticorpi antitiroide nel sangue tra i pazienti con epatite cronica da HCV è la stessa che nella popolazione generale. E. Epatite E. Anche il meccanismo patogenetico dell’epatite E non è tuttora conosciuto. È noto che questo virus non causa epatopatia cronica o viremia persistente; inoltre, caratteristica importante di questa forma di epatite è l’elevata frequenza di decessi riscontrata nelle donne in gravidanza (15-20%), soprattutto durante il 3° trimestre (epatite fulminante). I fattori patogenetici correlati ad una così elevata mortalità non sono noti, sebbene in associazione con la malattia sia stata osservata una rilevante incidenza di coagulazione intravascolare disseminata. Anche le caratteristiche istopatologiche dell’epatite E non sono omogenee, riconoscendosi almeno due quadri principali dal punto di vista antatomopatologico: uno, più frequente, di tipo “colestatico” con stasi biliare canalicolare e disposizione pseudoghiandolare delle cellule parenchimali; l’altro, più raro, di tipo “standard”, con alterazioni più tipiche dell’epatite acuta: necrosi focale, degenerazione balloniforme, formazione di corpi acidofili e infiltrati infiammatori costituiti soprattutto da elementi polimorfonucleati (monociti, linfociti). Marker sierologici Si definiscono marker sierologici dell’epatite quegli antigeni e quegli anticorpi che compaiono nel siero in seguito all’infezione dei virus epatitici, i quali consentono di identificare l’eziologia dell’infezione e permettono di valutarne, in modo sufficientemente preciso, l’andamento nel tempo. A. Virus dell’epatite A. La diagnosi di epatite A si basa sulla dimostrazione nel siero di anticorpi IgM contro il virus, che sono presenti nel 99% dei pazienti quando essi giungono all’osservazione del medico. Già all’esordio clinico della malattia sono riscontrabili nel siero sia IgM che IgG anti-HAV: i primi compaiono più precocemente (al comparire delle manifestazioni cliniche) e raggiungono i titoli più elevati nella fase acuta scendendo poi a livelli non determinabili entro 12 mesi (di solito, peraltro, già dopo 6 mesi). Tuttavia, già durante la fase di convalescenza della malattia, diviene predominante la produzione di IgG, che persistono assai più a lungo, in pratica per tutta la vita. La presenza in un soggetto di anti-HAV IgM è indicativa di infezione in atto o convalescenza, mentre la presenza dei soli anticorpi IgG anti-HAV indica infezione pregressa: questi ultimi, dunque, sono di grande utilità negli studi epidemiologici e per il riconoscimento dei soggetti immuni nei confronti dell’infezione. Il decorso clinico e l’andamento dei marker sierologici nell’epatite acuta di tipo A sono riassunti nella figura 29.3.
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29 - EPATOPATIE ACUTE
Epatiti virali acute Febbre Ittero Nausea, vomito HAV nelle feci
Valori normali ALT Incubazione
1
2
3
4
5
6
7
3
4
5
6
12
15-50 giorni Settimane
Contagio
Mesi Dopo l’esposizione
ALT
IgM anti-HAV
IgG anti-HAV
Figura 29.3 - Decorso clinico e comportamento dei marker sierologici nell'epatite acuta di tipo A. (Da M. Moroni, R. Esposito, F. de Lalla, Manuale di Malattie Infettive. VI ed., Masson, Milano, 2003; modificata)
B. Virus dell’epatite B. 1. Il primo marker sierologico di HBV, in ordine di tempo, è l’HBsAg (antigene di superficie), chiamato un tempo “antigene Australia” perché scoperto da Blumberg nel 1965 nel siero di un aborigeno australiano. La sua struttura antigenica è complessa e si riconoscono almeno 5 specificità antigeniche: un determinante gruppo-specifico “a”, presente in tutti i sieri HBsAg+ e due paia di determinanti di sottotipo, “d” o “y” e “w” o “r” (ma anche “q” o “x” o “g”), tenendo conto che “w” è distinto, a sua volta, in almeno 4 varianti. In base alle diverse possibili associazioni sono stati identificati 8 sottotipi principali di HBsAg (per es.: ayw, ayr, ecc.), la cui distribuzione geografica è molto variabile (quelli prevalenti in Nord America, Europa e Africa sono adw e ayw; rarissimo in tutto il mondo, salvo che presso alcune popolazioni dell’Oceania, il sottotipo ayr). Peraltro, il recente riscontro, proprio in Italia, di soggetti positivi nello stesso tempo per HBsAg e anti-HBs (dopo vaccinazione) fa anche supporre l’esistenza emergente di una variante di HBV priva del determinante gruppo “a” o nella quale tale determinante sia “mascherato”.
L’HBsAg è presente nel sangue nell’80-85% dei pazienti con epatite B da 30 a 90 giorni prima dell’esordio clinico della malattia e per le 3-4 settimane successive; nei casi in cui la malattia evolve favorevolmente, infatti, al termine di questo periodo il titolo di HBsAg diminuisce fino a divenire non più determinabile in coincidenza o anche prima della comparsa di anti-HBs (che si riscontrano a partire da 3 a 6 mesi dopo l’infezione). Negli altri casi, ad evoluzione meno favorevole, l’HBsAg può essere dimostrato nel sangue più a lungo e per un periodo di tempo molto variabile; se poi l’epatite cronicizza così come nei portatori cronici “sani”, l’HBsAg resterà positivo per tutta la vita (si veda Cap. 30). Questo antigene, oltre che nel siero, può essere presente, con frequenza diversa, in altri liquidi organici: urine, saliva, goccioline di Flugge, secreto rinofaringeo, lacrime, umore acqueo, sperma, secreto gastrico e intestinale, bile, colostro, secreto vaginale, liquor, versamento ascitico e pleurico, liquido sinoviale. Infine, l’HBsAg evoca la formazione di anticorpi specifici, anti-HBs di classe IgM e IgG: questi ultimi (che vengono prodotti anche dopo vaccinazione) persi-
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stono indefinitamente per quanto il loro titolo si riduca nel corso di molti anni, mentre quelli IgM sono riscontrabili nel siero soltanto per breve tempo (gli anticorpi anti-HBs, a differenza di quelli anti-HBc, sono neutralizzanti e, dunque, la loro presenza indica clinicamente infezione pregressa, cioè non in fase attiva). 2. Un altro degli antigeni correlati all’infezione da HBV è l’HBcAg (cioè l’antigene core di HBV). Esso non è dimostrabile nel siero in forma libera, ma soltanto nel nucleo degli epatociti con tecnica di immunofluorescenza (gran parte delle particelle HBcAg+ isolate dai virioni contengono DNA e DNA-polimerasi). Il core, nel quale si trovano numerosi polipeptidi di peso molecolare tra 19.000 e 38.000, è un antigene virus-specifico e induce la formazione di anticorpi specifici anti-HBc, IgM e IgG: i primi sono dimostrabili nel siero 1-2 settimane dopo la comparsa di HBsAg (ma talora possono anche precederla), mentre i secondi la seguono di qualche settimana, di solito in coincidenza con il riscontro dell’incremento delle transaminasi e con l’insorgenza delle manifestazioni cliniche. Gli anticorpi IgM anti-HBc sono caratteristici della fase acuta della malattia e sono riscontrabili solo per alcuni mesi dopo l’episodio acuto (non oltre 6 mesi a titolo significativo); la loro persistenza al di là di tale periodo, se in concentrazione significativa, è indice di cronicizzazione dell’epatite. Nell’intervallo compreso tra la scomparsa di HBsAg e la comparsa di HBsAb, l’HBcAb IgM può rappresentare l’unico marker sierologico di una recente infezione di HBV (tale periodo è denominato “finestra di convalescenza” o “core-window”). Per contro gli HBcAb IgG sono molto utili ai fini epidemiologici: infatti essi si fanno via via predominanti durante la convalescenza e di regola sono dimostrabili nel sangue per tutta la vita così da costituire il più attendibile marker sierologico di pregressa infezione da HBV. 3. Un terzo marker di HBV è l’HBeAg che si riscontra nel siero poco dopo la comparsa di HBsAg. Sembra ormai certo che esso consista di un complesso di antigeni (almeno tre frazioni, e1, e2, e3) e che sia strettamente correlato con HBsAg tanto da essere presente soltanto nel sangue di pazienti HBsAg+. Tale antigene è in pratica un “frammento” di HBcAg: questi due antigeni sono, infatti, prodotti dallo stesso gene (gene del “core” o del nucleocapside) dell’HBV, il quale ha la caratteristica di possedere due distinti codoni iniziatori (il codone iniziatore è localizzato sul mRNA nel punto in cui l’RNA transfer deve fissarsi per portare il primo aminoacido della catena sintetizzato a livello ribosomiale). Quando il trasferimento del prodotto di trascrizione virale comincia dal primo codone, si ha la sintesi di una proteina costituita da un polipeptide codificato dalla regione del core e da un secondo polipeptide codificato dalla regione del precore (cosiddetta perché situata prima del core sullo stesso cromosoma): quest’ultima codifica per un peptide “marcatore” che guida la proteina verso il reticolo endoplasmatico dove tale peptide viene
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
rimosso e la proteina, ulteriormente modificata, viene secreta come HBeAg (quindi l’HBeAg è un antigene solubile e viene riversato nella circolazione). Al contrario, il trasferimento che comincia dal secondo codone porta alla sintesi di una proteina priva del peptide “marcatore” del precore, che rimane all’interno della cellula e che rappresenta l’antigene del core (HBcAg, il quale, dunque, è un elemento strutturale del virus). In caso di epatite ad evoluzione favorevole, l’HBeAg scompare nel giro di breve tempo (circa 15 giorni) al punto che in molti pazienti non è più dimostrabile già all’esordio clinico della malattia, mentre gli anticorpi specifici (HBeAb), che non sono neutralizzanti, compaiono nel siero intorno alla 4ª-5ª settimana di malattia, precedendo la comparsa di HBsAb, ma seguendo quella di HBcAb. Si può dire che HBeAg sia nel complesso un buon marcatore di infettività sia in presenza di infezione acuta sia di infezione cronica. Tuttavia l’opinione largamente diffusa che il DNA virale circolante scompaia quando appaiono gli anticorpi anti-HBeAg è scorretta e dipende dal fatto che in passato non esistevano tecniche sufficientemente sensibili per dimostrare il DNA virale nel sangue. Anche se in questi casi i livelli di DNA virale nel sangue sono bassi, essi non sono trascurabili, dato che possono aggirarsi tra 103 e 105 per ml. Considerando la breve emivita dei virioni di HBV (approssimativamente un giorno), questi livelli possono essere compatibili con un’attiva replicazione virale nel fegato. Tra gli asiatici si è osservato che pazienti con anticorpi anti-HBeAg nel sangue possono avere ancora esacerbazioni dell’epatite cronica. 4. Il più fedele indice di replicazione virale è la valutazione del DNA dell’HBV (HBV-DNA) nel sangue. Esistono metodi tradizionali di ibridizzazione molecolare che hanno un limite inferiore di sensibilità tra 700.000 e 140.000 copie del virus per ml di sangue. Un metodo commercialmente disponibile e più sensibile si basa sulla Polymerase Chain Reaction (PCR) e ha un limite inferiore di sensibilità di 200 copie per ml. In realtà si è visto che anche soggetti che sviluppano anticorpi contro gli HBsAg e che sono clinicamente guariti possono ancora contenere nel sangue un limitato numero di copie di HBV-DNA. Il siero sanguigno di soggetti in questa situazione è stato iniettato in scimpanzé e non si è trasmessa l’infezione. Per quanto questi soggetti non sembrino perciò infettanti, esiste il sospetto che anche dopo guarigione clinica piccole quantità di HBV-DNA restino nel sangue a lungo, se non per tutta la vita. L’andamento nel tempo dei marker sierologici del virus B è riassunto nella figura 29.4. C. Virus dell’epatite D. Come per l’HBcAg anche l’HDV-Ag non è determinabile nel siero, ma è evidenziabile nel nucleo degli epatociti infettati alla fine del periodo di incubazione e al principio dell’epatite provocata da questo virus. Anche l’HDV, inoltre, induce la sintesi di anticorpi specifici anti- (anti-HDV) IgM e IgG: in genere nel caso di infezione simultanea con HBV (coinfezione)
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29 - EPATOPATIE ACUTE
Epatiti virali acute Ittero Sintomi
HBsAg HBeAg HBV-DNA
Valori normali ALT Incubazione 15-50 giorni
1
2
3
4
5
6
7
8
3
4
5
6
12
Mesi
Settimane Dopo l’esposizione ALT
Anti-HBs
Anti-HBe
IgM anti-HBc
IgG anti-HBc
Figura 29.4 - Decorso clinico e comportamento dei marker sierologici nell'epatite di tipo B ad evoluzione favorevole. (Da M. Moroni, R. Esposito, F. de Lalla, Manuale di Malattie Infettive. VI ed., Masson, Milano, 2003; modificata)
compaiono solo IgM, mentre se si tratta di sovrainfezione in portatore di HBV, alla formazione di IgM segue rapidamente quella di IgG a titolo elevato. Questi anticorpi hanno un andamento variabile nel tempo: in particolare, se l’epatite non diventa cronica, le IgM persistono solo per qualche settimana, mentre le IgG si possono riscontrare per molti mesi. L’andamento nel tempo dei marker sierologici del virus D è riassunto nella figura 29.5. D. Virus dell’epatite C. La diagnosi di infezione da HCV si avvale della determinazione nel siero di anticorpi anti-HCV e di HCV-RNA, quest’ultimo mediante la tecnica della PCR (Polymerase Chain-Reaction). Con i kit che sono oggi disponibili (ELISA, cioè Enzyme-Linked Immunosorbent Assay di II e III generazione), l’anti-HCV mette in evidenza anticorpi diretti contro gli antigeni non strutturali C100-3 (NS3), C33 (NS2, NS3), C200 (NS2, NS3, NS4) e contro l’antigene strutturale C22-3 (porzione C del virus): il primo anticorpo che è dimostrabile nel siero è quello diretto contro C22-3 seguito da anti-C33 e quindi da anti-C100-3. Mentre la risposta anticorpale anti-HCV con i test di I generazione (anti-C100-3) risulta positiva soltanto
piuttosto tardi rispetto all’inizio dell’attività virale (832 settimane), con i test di II generazione il ritardo è ridotto a 2-3 settimane e con quelli di III anche a 1-2 settimane (praticamente sovrapponibile a quello correlato alla determinazione di HCV-RNA con PCR), tenendo conto che la sensibilità dei test ELISA varia dal 7080% (I generazione) al 92-95% (II), fino al 97% (III). Negli ultimi anni sono stati sviluppati cosiddetti test di conferma anti-HCV per risolvere, per quanto non in tutti i casi, il problema delle false positività con i test ELISA di screening (essi consentono di ottenere la visualizzazione della reazione antigene-anticorpo con i singoli antigeni virali strutturali e non strutturali impiegati nei test ELISA, per cui per ogni generazione di test ELISA sono disponibili i corrispondenti test di conferma, il cui prototipo è il RIBA o “immunoblotting”, Recombinant Immunoblot Assay). Il significato biologico e clinico degli anticorpi antiHCV non è completamente chiaro: essi, abitualmente, persistono per alcuni anni (4-5 anni) dopo la guarigione dell’epatite acuta, mentre nei pazienti (50-75% di tutti i casi) in cui la malattia evolve verso la cronicizzazione restano determinabili a titolo anche elevato per un tempo indefinito (ma non mancano casi di epatite cronica
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MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
Epatiti virali acute Ittero Sintomi
HDAg HDV-RNA
HBsAg
Valori normali ALT Incubazione 15-50 giorni
1
2
3
4
5 6
7
8
3
4
Settimane Contagio
5
6
12
Mesi Dopo l’esposizione
ALT
Anti-HBs
IgM anti-HDV
IgG anti-HDV
Figura 29.5 - Decorso clinico e comportamento dei marker sierologici nella coinfezione HBV/HDV ad evoluzione favorevole. (Da M. Moroni, R. Esposito, F. de Lalla, Manuale di Malattie Infettive. VI ed., Masson, Milano, 2003; modificata)
con perdita di anti-HCV e casi con positività intermittente in relazione all’andamento delle transaminasi). La presenza di anti-HCV sembra coesistere con l’espressione di un antigene codificato dal virus (HCVAg) nel fegato, ma va sottolineato che esistono certamente momenti di infezione cronica in cui può essere presente HCV-RNA, nel fegato e nel siero, senza che sia possibile determinare l’anti-HCV in circolo. Si può, quindi, concludere che, allo stato attuale delle conoscenze, l’antiHCV vada interpretato come un anticorpo non neutralizzante il virus, a comparsa relativamente tardiva e presente soltanto in concomitanza con la espressione di antigeni virali o come “memoria” di una infezione recente. Dal momento che tale anticorpo non è indice di avvenuta immunizzazione (che potrebbe essere testimoniata da altre specificità anticorpali verso antigeni virali differenti e non ancora identificati), esso non sembra prestarsi a studi epidemiologici sulla diffusione dell’infezione nella popolazione generale e nei soggetti a rischio, in particolare. Ulteriori ricerche potranno certamente meglio definire il significato biologico e clinico di questo marker dell’epatite C e portare nuovi contributi alla conoscenza degli aspetti epidemiologici di questa malattia.
E. Virus dell’epatite E. La diagnosi sierologica di epatite E è estremamente ardua ed attualmente realizzabile solo in centri altamente specializzati. Sono, comunque, disponibili test immunoenzimatici per la ricerca nel siero degli anticorpi specifici anti-HEV; inoltre è possibile fare ricorso a test di elettromicroscopia e di immunofluorescenza per mettere in evidenza l’antigene associato al virus E (HEVAg) nel tessuto epatico. Clinica Dal punto di vista clinico, l’epatite acuta, qualunque sia l’eziologia, può essere distinta in 4 stadi: • • • •
periodo di incubazione; periodo prodromico (o preitterico); periodo conclamato (o itterico); periodo di risoluzione (o convalescenza).
A. Periodo di incubazione. È asintomatico (al più possono essere già presenti nel siero alcuni marker specifici di infezione come nel caso di epatite da HBV). A seconda dell’eziologia, il periodo di incubazione ha durata variabile:
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29 - EPATOPATIE ACUTE
• • • •
epatite A: 15-45 giorni (media: 30 giorni); epatite B: 30-180 giorni (media: 60 giorni); epatite C: 15-180 giorni (media: 50 giorni); epatite E: 15-65 giorni (media: 40 giorni).
B. Periodo prodromico. Ha durata variabile da 3-4 giorni a 2-3 settimane, ma talvolta può anche mancare. Esso è caratterizzato da una sindrome pseudoinfluenzale con febbre non elevata (37,5-38,5 °C), malessere generale, astenia, disturbi dispeptici (anoressia, nausea, lingua impaniata, meteorismo, ecc.); più di rado vomito e diarrea. Piuttosto frequente è la presenza di dolore in ipocondrio destro (che può a volte simulare una colica biliare o appendicolare), che è correlato alla distensione della glissoniana per effetto della flogosi diffusa del fegato. Nell’epatite da HBV (ma è possibile anche in quella da HCV) non sono rari sintomi e/o segni che possono ricordare la malattia da siero e che sono dovuti alla deposizione di immunocomplessi circolanti in varie sedi (artralgie simmetriche alle grandi articolazioni, pseudoreumatismo epatitico, mialgie, cefalea, esantemi maculo-papulosi al tronco ed agli arti, eruzioni orticarioidi) che possono protrarsi per 2-3 settimane. È possibile anche l’interessamento renale (glomerulonefrite), vascolare (panarterite) e la comparsa di crioglobulinemia (quest’ultima di gran lunga più comune nell’epatite da HCV); inoltre, non infrequente nell’epatite B dell’infanzia (e di cui s’è già detto nel paragrafo dedicato alla patogenesi) è l’acrodermatite papulosa di Crosti e Gianotti in cui piccole lesioni eritemato-papulose, non pruriginose, si localizzano al volto, al tronco ed agli arti in forma simmetrica e che regrediscono poi spontaneamente nel giro di circa 15 giorni, così come la linfoadenopatia che spesso accompagna le manifestazioni cutanee (peraltro delle manifestazioni extraepatiche dell’epatite si parla più diffusamente nel paragrafo dedicato alla clinica delle epatiti croniche; si veda Cap. 30). Nello stadio prodromico il fegato è di solito modicamente aumentato di volume e un poco dolente e dolorabile e verso la fine di questa fase si registra l’incremento delle transaminasi (che raggiungono il livello più alto in genere nel periodo immediatamente precedente lo stadio itterico) e della bilirubina. C. Periodo conclamato. Si protrae per 2-6 settimane ed è caratterizzato dalla comparsa di ittero che, di regola, è seguita dalla risoluzione nel giro di qualche giorno dei sintomi prodromici. L’ittero può avere intensità assai variabile, dal semplice subittero (o ittero sclerale) fino ad ittero cutaneomucoso bene evidente (esso è abitualmente di tipo misto con incremento, cioè, sia della bilirubina indiretta che di quella diretta). Le feci diventano ipocoliche (per la diminuzione dei bilinogeni fecali), le urine ipercromiche, scure, color “marsala” (se osservate in strato sottile hanno colorito giallo-oro) per l’escrezione di bilirubina. Il fegato è ingrandito nella maggior parte dei casi (consistenza parenchimatosa, margine arrotondato a
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non più di 2-3 cm dall’arcata costale); specialmente nelle forme da HBV e/o da HCV può essere presente lieve splenomegalia (alla palpazione dell’addome il polo inferiore della milza è apprezzabile poco al di sotto dell’arcata costale); in quelle da HAV è frequente la diarrea (20% degli adulti, 60% dei bambini). Il fegato è spesso dolorabile anche se in misura non rilevante; in qualche caso esso appare di dimensioni ridotte rispetto alla norma oppure il suo volume dapprima aumenta ed in seguito si riduce: questo fatto acquista significato prognostico sfavorevole perché sta ad indicare che in questo organo si verificano processi necrotici di discreta entità e, quindi, che l’epatite è di grado marcato. In questa fase della malattia le transaminasi sono aumentate, talora anche moltissimo, con inversione del rapporto AST/ALT, così come la fosfatasi alcalina e la -glutamiltranspeptidasi (queste ultime in misura variabile in rapporto all’entità della colestasi); gli indici di sintesi epatica sono alterati più o meno marcatamente (protrombina, colinesterasi, colesterolo), mentre all’elettroforesi si può osservare, a partire dalla 2ª-3ª settimana, un incremento delle -globuline. Occorre anche qui, peraltro, ricordare che non soltanto è molto comune l’assenza di sintomi e/o segni prodromici dell’epatite, ma che anche la fase conclamata di questa malattia è spesso tanto modesta da non consentire la diagnosi in relazione al solo quadro clinico: infatti i casi veramente manifesti rappresentano una minoranza, soprattutto nell’infanzia, quando il rapporto tra epatiti non sintomatiche ed epatiti sintomatiche è di circa 10:1, mentre negli adulti tale rapporto è un poco inferiore, ma è certo che le epatiti che non vengono riconosciute in fase acuta (per l’assenza di ittero e degli altri segni clinici) sono sicuramente più del 50% di tutti i casi (e forse anche il 75% e, per l’epatite C, anche il 90-95%). D. Periodo di risoluzione. Il decorso dell’epatite acuta è favorevole nella maggior parte dei casi con completa restitutio ad integrum del fegato dal punto di vista anatomico e funzionale; in genere la guarigione avviene entro 20-45 giorni dall’insorgenza dell’ittero (quando presente) e anche prima in età pediatrica. La convalescenza è molto spesso lunga e alcuni disturbi possono protrarsi sensibilmente nel tempo (dispepsia, lieve subittero, sensazione di “peso” in ipocondrio destro, malessere generale). Per questo motivo è stata definita una sindrome postepatitica caratterizzata soprattutto dalla persistenza di sintomatologia dispeptica e che spesso non è correlata né ad alterazioni degli indici di funzionalità epatica né del quadro istologico; per contro, in altri casi, può essere presente ittero (ittero postepatitico o di Kalk, possibile anche nelle forme anitteriche all’esordio) per un difetto nella captazione e nella coniugazione della bilirubina e le transaminasi possono restare un poco elevate, mentre la biopsia epatica può dimostrare lesioni sovrapponibili a quelle che si osservano nell’epatite cronica persistente, cioè un quadro di “portite”. Questa evoluzione prolungata nel tempo non pregiudica la pos-
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sibilità di guarigione completa, ma identifica quella variante di malattia che si colloca tra l’epatite acuta e quella cronica e che si definisce protratta (si veda oltre). Da ultimo va ricordato che, escludendo l’epatite da HAV e quella da HEV per cui non è descritta la possibile trasformazione in malattia cronica, l’epatite da HBV e, ancor più, quella da HCV possono evolvere in epatite cronica, come rappresentato nella tabella 29.2. Diagnosi La diagnosi di epatite virale è fondata essenzialmente sulle indagini di laboratorio. Nel sangue, curiosamente, l’alterazione dei cosiddetti parametri di flogosi è di regola modesta: in particolare l’aumento della VES non è mai rilevante anche nelle forme più gravi di questa malattia; anzi, può accadere che quando la VES è elevata per la presenza di un’altra patologia (per es., di carattere flogistico e neoplastico), se si sovrappone un’epatite virale, si verifichi addirittura una diminuzione del suo valore. Una possibile spiegazione di questo fatto è che in caso di sofferenza epatica, si riduce la sintesi del fibrinogeno da parte di questo organo e poiché questa sostanza concorre in grande misura, insieme ad altre componenti, all’incremento della VES, la sua ridotta formazione può giustificare il modesto aumento di questo parametro in tutti i casi di epatite e la sua diminuzione se l’epatite si sovrappone ad altre malattie in cui la VES è molto elevata. Per quanto riguarda l’esame emocromocitometrico, non ci sono modificazioni a carico dell’emoglobina, dei globuli rossi e delle piastrine, mentre si riscontra una variabile leucopenia, cioè una diminuzione del numero dei globuli bianchi in assoluto che interessa tutti i tipi di leucociti per cui la formula leucocitaria non subisce particolari modificazioni. Si può, peraltro, riscontrare un incremento (relativo o anche assoluto) dei linfociti, che sono le cellule più direttamente coinvolte nel processo immunitario di questa malattia. I dati ematochimici più importanti per la diagnosi sono certamente quelli relativi allo studio della funzionalità epatica: soprattutto significativa è l’alterazione delle transaminasi, il cui aumento esprime il danno degli epatociti, in particolare per quanto riguarda la perdita di integrità funzionale ed anatomica della membrana cellulare in conseguenza della sofferenza epatocitaria provocata dall’infezione virale. L’enzima che presenta il maggiore incremento è l’alanina aminotransferasi (ALT) che aumenta in misura proporzionalmente più rilevante dell’aspartato aminotransferasi (AST) con tipica inversione del loro normale rapporto; l’aumento delle transaminasi può raggiungere livelli elevatissimi, anche ben oltre 1000 U (v. n. < 45 U/l, riferimento variabile da laboratorio a laboratorio), talora addirittura valori molto più alti e questo è un dato importantissimo perché in nessun’altra condizione patologica (per es., infarto del miocardio o malattie muscolari), l’aumento di questi enzimi raggiunge livelli di questo genere, per cui la diagnosi di epatite è in questi casi praticamente certa.
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
Tabella 29.2 - Possibili evoluzioni cliniche dell’epatite C e B. STORIA NATURALE DELL’INFEZIONE DA HBV Soggetti contagiati da HBV 100.000 (100%)
Epatite acuta 10.000 (10%)
Infezione asintomatica 90.000 (90%) Epatite fulminante < 1%
Epatite cronica 10.000 (10%)
Portatori cronici asintomatici 4000 (4%) (40% di EC)
Epatite cronica attiva 3000 (30% di EC)
Epatite cronica persistente-lobulare 3000 (3%) (30% di EC)
Cirrosi epatica 3000 (1) (3%)
Carcinoma epatico 300 (2) (0,3%) STORIA NATURALE DELL’INFEZIONE DA HCV Soggetti contagiati da HCV 100.000 (100%)
Epatite acuta 5000 (5%)
Infezione asintomatica 95.000 (95%) Epatite fulminante < 0,5%
Epatite cronica 50.000 (50%)
Epatite cronica persistente-lobulare 40.000 (40%)
Epatite cronica attiva 10.000 (10%)
Cirrosi epatica 25.000 (25%)
Carcinoma epatico 2500 (2,5%) (3)
(1) Il 50% dei casi di ECA + ECP + ECL evolve in cirrosi. (2) Il 10% dei casi di cirrosi epatica evolve in epatocarcinoma. (3) 2,5% di tutti i soggetti contagiati = 10% dei casi di cirrosi.
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29 - EPATOPATIE ACUTE
Anche i parametri che esprimono le capacità sintetiche degli epatociti possono presentare variabili alterazioni, specialmente nelle forme più gravi o di più lunga durata, con diminuzione dell’albumina, dell’attività protrombinica, della colesterolemia e della colinesterasi. Nell’elettroforesi sieroproteica si può riscontrare spesso una modesta iper--globulinemia che nell’epatite acuta non è tanto dovuta ad un difetto della funzione delle cellule di Kupffer (in questo caso praticamente indenni), quanto piuttosto al fatto che questa malattia è caratterizzata da una reazione immunitaria con maggiore formazione di anticorpi, cui corrisponde l’incremento delle -globuline. Nelle forme itteriche è presente iperbilirubinemia di tipo misto (bilirubinemia diretta tra il 20 ed il 50% di quella totale); nella varietà colestatica dell’epatite, l’ittero è di tipo colestatico e la bilirubina diretta supera il 50% della bilirubinemia totale. Per quanto riguarda l’esame delle urine, questo dimostra la presenza di bilirubina la cui escrezione è responsabile della particolare colorazione delle urine in tali soggetti (infatti, poiché l’iperbilirubinemia è di tipo misto, aumenta la frazione coniugata, solubile in acqua, che può superare il filtro glomerulare). Inoltre per il difetto parziale dell’escrezione della bile, che si verifica sempre in questa malattia, diminuisce la formazione dei bilinogeni e quindi si riduce la presenza di urobilinogeno sia nelle urine sia, soprattutto, nelle feci, che appaiono di conseguenza più chiare, cioè ipocromiche. Decorso Il quadro clinico dell’epatite acuta si protrae, in genere, per 4-6 settimane, ma vi sono casi che guariscono prima e casi che persistono più a lungo, anche per alcuni mesi (si parla allora, più correttamente, di epatite protratta). Convenzionalmente, l’epatite non viene considerata cronica se non supera la durata di 6 mesi. Complicanze Sono piuttosto rare e possono essere rappresentate da: • miocardite, per diretto interessamento del miocardio da parte del virus; • pancreatite, per localizzazione del virus nel pancreas; • anemia aplastica, conseguente a diffusa distruzione degli elementi staminali emopoietici del midollo in seguito alla localizzazione del virus in questa sede; • carcinoma epatico. Varianti cliniche A. Epatite fulminante. È la forma più grave di epatite e corrisponde al quadro anatomopatologico della necrosi epatica massiva o atrofia giallo-acuta del fegato. Questa condizione si verifica quando una reazione immunitaria vivace si sovrappone ad un’invasione diffusa degli epatociti da parte del virus (l’epatite fulminante è dovuta soprattutto al virus B ed a quello non-A non-B). Essa si instaura, in particolare, in soggetti giovani, in floride condizioni generali e con un sistema im-
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munitario perfettamente efficiente o anche in pazienti inizialmente immunodepressi per effetto di particolari terapie farmacologiche alla cui sospensione la risposta anticorpale, dapprima inibita, si manifesta in misura eccessiva. Il quadro clinico ha un esordio simile a quello di qualsiasi altra forma di epatite, ma entro brevissimo tempo (pochi giorni) il paziente sta molto male, per la rapida insorgenza di una grave sofferenza neurologica dovuta alla comparsa di un quadro di encefalopatia epatica correlato al venir meno delle funzioni epatocitarie (per la cui descrizione si rimanda al capitolo 27 relativo all’insufficienza epatica). Per gli effetti tossici di diverse sostanze, tra cui in particolare l’ammoniaca, che si accumulano nel sangue, e per le negative conseguenze sull’attività delle cellule nervose dell’ipoglicemia che si instaura in questi casi, il paziente presenta un progressivo, ma rapidissimo deterioramento delle proprie condizioni neurologiche e psichiche, fino all’insorgenza di coma vero e proprio. Inoltre, per il grave difetto di sintesi dei fattori epatici della coagulazione, si possono avere manifestazioni emorragiche in varie sedi (cerebrali, cutanee, mucose o a livello di diversi organi interni); è comune la presenza di alito fetido (foetor hepaticus) per la mancata inattivazione epatica di sostanze di tipo aromatico che si formano nell’intestino ad opera della flora batterica (soprattutto metilmercaptano). L’ittero nell’epatite fulminante è conclamato e le transaminasi possono raggiungere livelli elevatissimi (2000-3000 U); l’attività protrombinica può essere molto ridotta; obiettivamente si osserva una diminuzione del volume del fegato. In circa il 90% dei casi, il quadro evolve in maniera irreversibile fino all’exitus, il quale sopravviene in genere entro pochi giorni; nessun provvedimento terapeutico si rivela veramente efficace in questi pazienti se non il trapianto di fegato. B. Necrosi submassiva. È una forma importante, ma meno grave della precedente (anche in questo caso si tratta di virus B o non-A non-B, raramente di virus A). Nel fegato si verifica necrosi diffusa degli epatociti, ma non così estesa da provocare l’insorgenza di encefalopatia epatica, mentre si possono avere altre importanti manifestazioni di insufficienza epatica, soprattutto quelle legate a deficit delle capacità sintetiche degli epatociti (si potranno riscontrare, perciò, ipoalbuminemia, riduzione dell’attività protrombinica e degli altri fattori della coagulazione di origine epatica). Questa forma di epatite, per quanto grave, va incontro a guarigione con rigenerazione degli epatociti distrutti; tuttavia la struttura di questo organo rimane così sovvertita che in questi casi l’evoluzione verso la cirrosi è pressoché costante. C. Epatite colestatica. Rappresenta l’1-2% di tutte le forme di epatite e colpisce in genere soltanto soggetti adulti. Per effetto della maggiore ostruzione al deflusso della bile che caratterizza questi casi, l’aumento
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della bilirubinemia è più marcato e l’ittero è, quindi, più intenso, con le caratteristiche dell’ittero colestatico (bilirubina diretta oltre il 50% della bilirubinemia totale). Inoltre, un sintomo tipico di questa varietà di epatite è il prurito in rapporto alla maggiore ritenzione dei sali biliari. Il decorso sembra essere più protratto che nella forma classica di questa malattia. D. Epatite con complessi antigene-anticorpo circolanti. È una forma che consegue ad infezione da virus B e virus C e costituisce circa il 5% di tutti i casi di epatite; colpisce soltanto soggetti in età adulta. Il quadro clinico ricorda quello della malattia da siero (febbre, artralgie, eritema, edema angioneurotico, glomerulonefrite) ed è correlato alla deposizione di questi immunocomplessi in varie sedi. Non sempre, in questi casi, compare l’ittero. E. Epatite protratta. È detta anche epatite a lunga risoluzione o recidivante e rappresenta il 5-10% di tutti i casi. Il quadro clinico si protrae, a volte con andamento recidivante, per più di 3 mesi; le transaminasi possono restare elevate anche per 1 anno. Va detto, però, che convenzionalmente l’epatite viene definita cronica se la sua durata supera i 6 mesi. In molti casi, infine, l’epatite può manifestarsi in forma clinicamente lieve o anche asintomatica; talvolta i disturbi prodromici non vengono seguiti dal quadro classico della malattia e la diagnosi è, allora, particolarmente difficile. Questo succede spesso, per esempio, nell’epatite A, in cui il quadro prodromico non accompagnato dalle manifestazioni cliniche della fase conclamata della malattia può far pensare a un’infezione virale di altro tipo con coinvolgimento dell’apparato gastroenterico; oppure nell’epatite B o C, quando la sintomatologia riproduce sostanzialmente le caratteristiche della malattia da siero. In genere, comunque, queste forme di epatite inapparente guariscono spontaneamente al pari delle altre, anche se in una piccola percentuale di questi soggetti si potranno avere delle conseguenze in futuro, con possibile insorgenza di epatite cronica o, anche, di cirrosi. Prognosi La prognosi dell’epatite virale acuta è generalmente buona. In pratica la malattia guarisce completamente nella totalità dei casi in cui l’infezione è dovuta ad HAV e nella maggior parte di quelli da HBV e HCV, ma si deve tenere conto della possibile evoluzione in malattia cronica, soprattutto per i pazienti con epatite HCV-correlata (si veda tabella 29.2). Anche l’epatite E è di regola di modesta entità e le sue caratteristiche cliniche non appaiono differenti da quelle dell’epatite da HAV, HBV o HCV, ma sono segnalate forme estremamente gravi e addirittura mortali in corso di gravidanza, soprattutto nel 3° trimestre, nelle quali sono frequentemente osservabili segni di coagulazione intravascolare disseminata (10% dei casi).
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
L’epatite fulminante è del tutto eccezionale in caso di malattia da HAV e ricorre in circa l’1% dei pazienti con epatite da HBV e in meno dello 0,5% dei casi di epatite da HCV (nei casi di coinfezione HBV-HDV la prognosi è nel complesso favorevole in quanto il 90% guarisce completamente, a eccezione di certe popolazioni a rischio come i tossicodipendenti, in cui la frequenza di epatite fulminante sembra essere circa 3 volte più elevata che negli altri casi). La prognosi della variante a necrosi massiva è tuttora generalmente infausta con exitus nel 90% circa dei pazienti, mentre per quanto riguarda la prognosi a lungo termine delle altre forme di epatite acuta, essa è correlata in linea di massima all’eziologia. Per il virus A non c’è evidenza di portatore cronico e non è mai stata dimostrata l’evoluzione di questa epatite in malattia cronica; lo stesso vale per l’epatite E. Per contro, la cronicizzazione è possibile sia per l’epatite da HBV che da HCV (oltre che da HDV e, forse, da HGV): per la prima tale evenienza si verifica nel 510% di tutti i casi, mentre per l’epatite C tale percentuale si ritiene addirittura del 70-80% (di qui la maggiore pericolosità di quest’ultima per l’aumentato rischio di ulteriore trasformazione in cirrosi epatica e/o epatocarcinoma). Indici prognostici di probabile evoluzione cronica dell’epatite virale acuta A. Epatite B. Indici prognostici sfavorevoli sono: persistenza di HBV-DNA nel sangue dopo oltre 1 mese dall’esordio della malattia a titolo superiore a 10 pg/ml, positività di complessi HBsAg/IgM oltre 4-5 settimane, mancata clearance di HBeAg e assenza di anticorpi anti-pre-S2 dopo circa 8 settimane. Peraltro il marker sierologico più significativo (insieme con HBV-DNA) di cronicizzazione è la persistenza di HBsAg per oltre 6 mesi (che può indicare o portatore sano o malattia cronica). B. Epatite D. L’evoluzione in epatite cronica è suggerita, a parte i segni già ricordati per l’HBV, dalla persistenza nel tempo di anticorpi anti-HDV IgM e/o IgG e di HDV-RNA nel siero e di HDV-Ag nel nucleo degli epatociti. C. Epatite C. La cronicizzazione dell’epatite C è segnalata sia dalla persistenza di incremento di ALT (come indice di citolisi) sia di HCV-RNA nel siero. A tale proposito si può ricordare che nell’epatite C l’andamento delle transaminasi può assumere quadri differenti; nella maggior parte dei casi si osserva una curva monofasica (l’aumento di AST e ALT compare dopo 6-10 settimane dall’infezione e la normalizzazione dei valori si verifica in circa 6-8 settimane); in altri casi il quadro è polifasico con ripetuti rialzi dei valori nell’arco di alcuni mesi, con successivo graduale ritorno alla normalità. Infine, si può anche osservare un andamento “a plateau” con una modesta elevazione delle transaminasi anche nella fase acuta della malattia e ritorno alla norma in tempi piuttosto lunghi.
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29 - EPATOPATIE ACUTE
L’andamento polifasico o a plateau delle transaminasi sembrano essere correlati con una maggiore incidenza di evoluzione cronica; analoga considerazione si può fare nei casi in cui, dopo l’episodio epatitico acuto, i livelli delle transaminasi rimangono persistentemente elevati. Perciò è importante seguire nel tempo questi pazienti anche dopo la guarigione clinica e l’apparente (temporanea) normalizzazione degli indici bioumorali di funzionalità epatica. Come precedentemente ricordato, la persistenza di anticorpi anti-HCV sembra essere peculiare dei casi di epatite C a evoluzione cronica; la loro positività a distanza di 1-2 anni da un episodio epatitico acuto sembra rappresentare un indice prognostico, se pure tardivo, di probabile evoluzione cronica di questa forma di epatite. D. Epatite virale e carcinoma epatico. Da ultimo va ricordata la possibilità che l’epatite rappresenti una condizione predisponente nei confronti del carcinoma primitivo del fegato. A questo proposito può essere importante segnalare che, per esempio, in Italia il 66% di queste neoplasie è correlato all’infezione da virus C e che circa il 20-25% dei pazienti con carcinoma epatico è HBsAg+, mentre il 15-20% è positivo per altri marker dell’epatite B. Le possibili evoluzioni cliniche dell’epatite C e B sono rappresentate nella tabella 29.2. Terapia Non è disponibile alcuna terapia specifica per l’epatite acuta virale ed il trattamento si fonda tuttora su due classiche misure: il riposo e la dieta. Fino al persistere di astenia profonda e di malessere generale, è opportuno che il paziente osservi un riposo praticamente assoluto che dovrà protrarsi nel tempo fino a quando il livello delle transaminasi non sia francamente diminuito; la ripresa dell’attività fisica, comunque, dovrà essere sempre lenta e graduale. La dieta sarà assai ristretta (liquidi zuccherati essenzialmente) nei primi giorni di malattia; in seguito verrà consigliata una dieta ricca di glucidi e proteine; utili, in tutti i casi, specie all’inizio, quando il malato ha difficoltà ad alimentarsi (per i disturbi dispeptici frequenti in questa fase), soluzioni glucosate (1500-3000 ml/die); si dovrà, inoltre, sospendere qualunque trattamento farmacologico non strettamente indispensabile. Per quanto riguarda l’epatite C, grande interesse hanno suscitato i recenti positivi risultati riportati in letteratura relativi ad alcuni trial terapeutici con l’interferone, di cui viene sfruttata la ben nota azione antivirale, e che già da tempo viene impiegato con successo nella terapia delle epatiti croniche attive (B, C, D). A conclusione di questo paragrafo, si può fare un cenno sull’importanza della profilassi per queste malattie ricordando che il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie rappresenta, verosimilmente, il più efficace mezzo di prevenzione. Utile, da questo punto di vista, può essere il ricorso all’immunoprofilassi passiva o attiva.
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1. La prima è possibile, in pratica, solo per l’epatite A e l’epatite B, ma non trova indicazione per l’epatite da HCV. Per quanto riguarda l’epatite A si ritiene che la somministrazione di immunoglobuline (Ig) umane standard possa fornire una certa protezione nei confronti dell’infezione da HAV, se non prevenendola (come pure è possibile), almeno modificandone in senso favorevole la sintomatologia e permettendo in tal modo lo sviluppo dell’immunità naturale (cosiddetta immunizzazione “passivo-attiva”). Per conseguire questo obiettivo, le Ig devono essere somministrate il più presto possibile (meglio se entro 24-48 ore dal contagio). Nelle aree in cui l’infezione è endemica, come l’Italia, la dose consigliata è di 0,06-0,12 ml/kg e va ripetuta dopo 6 mesi in caso di permanenza nella zona a rischio. Quanto all’epatite B la profilassi passiva può essere attuata con Ig umane specifiche (Human big = HBIG: 0,06 ml/kg im subito e dopo 1 mese; nel caso di neonati da madre HBsAg+: HBIG 0,2 ml/kg im entro 2 giorni dal parto e dopo 1, 3, 6 mesi) somministrate molto precocemente (meglio se entro 24 ore dal contagio). Questa profilassi non garantisce protezione assoluta nei confronti dell’epatite B, ma è in grado, spesso, di attenuarne la sintomatologia, mentre, come già detto, non sembra esserci nessun vantaggio dall’impiego di Ig nei confronti dell’infezione da HCV. 2. Per l’epatite A e per l’epatite B è praticabile un’immunoprofilassi attiva mediante l’impiego di vaccini specifici. Il ciclo primario di vaccinazione si compone di 3 dosi di cui la 2a va somministrata (sempre per via im) dopo 1 mese dalla prima (o anche dopo 15 giorni) e la 3a dopo 6-12 mesi (sempre dalla 1a): esso è in grado di assicurare un’efficace protezione contro l’epatite A per molto tempo. Nel caso dell’epatite B, l’introduzione della vaccinazione ha contribuito a modificare profondamente l’epidemiologia di questa malattia con rilevanti implicazioni riguardo le possibili evoluzioni dell’infezione, come dimostra la netta riduzione, nei paesi in cui essa è endemica, della frequenza di epatite cronica HBV-correlata così come di cirrosi e di epatocarcinoma dopo la diffusione del vaccino su larga scala. In molti paesi, tra cui l’Italia, la vaccinazione è obbligatoria e si effettua nei nuovi nati nel corso del primo anno di vita (mesi 3°, 5°, 11° o 12°) e in tutti gli adolescenti, se non già vaccinati, nel corso del 12° anno di vita. Un’adeguata protezione si stabilisce nel soggetto adulto dopo poche settimane dalle prime 2 dosi ed è correlata generalmente a titoli di anticorpi anti-HBs superiori a 10 mU/ml. I primi vaccini ricombinanti erano prodotti a partire dal materiale antigenico corrispondente alla proteina S dell’involucro virale, ma quelli più recenti vengono preparati anche con l’ausilio delle proteine pre-S1 e pre-S2 e risultano ancora più efficaci.
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EPATITE SINCIZIALE È una nuova forma di epatite, acuta o cronica, la quale è stata descritta solo recentemente ed è caratterizzata, all’esame istologico del fegato, dalla presenza di strutture sinciziali giganti formate dalla fusione di un variabile numero di epatociti. La presenza di cellule giganti all’esame istologico del fegato è relativamente frequente durante l’infanzia ed in giovane età, in corso di epatite cronica attiva o di epatite acuta neonatale o di atresia biliare. Per contro, tale reperto è molto raro negli adulti potendosi riscontrare, talora, in alcune forme di epatite autoimmune e/o di epatite tossica da farmaci. Negli ultimi anni la presenza di cellule giganti nel fegato a formare strutture sinciziali è stata associata all’infezione da parte di virus della famiglia Paramyxoviridae e, in particolare, al genere Paramyxovirus (virus parainfluenzali 1, 2, 3, 4A e 4B e virus della parotite). La tendenza a provocare la fusione degli elementi cellulari nei tessuti colpiti a formare veri e propri sincizi è una caratteristica non infrequente, dal punto di vista anatomopatologico, delle infezioni dovute a virus della famiglia Paramyxoviridae: per esempio, nella polmonite da virus del morbillo strutture sinciziali si possono trovare nella parete degli alveoli polmonari e cellule giganti (cellule di Warthin-Finkeldey) si osservano nel tessuto linfatico. Analoga manifestazione si riscontra, tipicamente, nelle affezioni a carico dell’apparato respiratorio da pneumovirus, per questo definito anche virus respiratorio sinciziale. Quella delle Paramyxoviridae è una numerosa famiglia di virus, la maggior parte dei quali sono patogeni per gli animali, ma alcuni di essi anche per l’uomo; in particolare, nel genere Paramyxovirus, le particelle virali hanno di regola forma sferoidale (a simmetria icosaedrica) con diametro di 150-250 nm (ma anche, talvolta, di 100 fino a 700 nm); il nucleo-capside ha un diametro tra i 12 e i 17 nm e possiede alcune estroflessioni in superficie. L’epatite come conseguenza dell’infezione da Paramyxoviridae è un evento ben noto: per esempio, nel morbillo essa è descritta, per quanto spesso in forma clinicamente silente o paucisintomatica, in circa il 75% dei casi, ma la malattia epatica è tipicamente lieve e transitoria con completa guarigione in tutti i casi, senza alterazioni istologiche specifiche e, in particolare, con assenza di cellule giganti. Ben diversa è la storia clinica dell’epatite sinciziale, che può manifestarsi sia in forma di epatite acuta che di epatite cronica, ma sempre con particolare aggressività tanto che nei pochi casi descritti si è giunti spesso al decesso o si è dovuto far ricorso al trapianto di fegato. La diagnosi di epatite sinciziale è formulata in base al quadro anatomopatologico: esso evidenzia una variabile, ma in genere rilevante, sostituzione delle cellule lobulari da parte di strutture sinciziali anche di notevole grandezza (con differente numero di nuclei, fino a 30).
Nel citoplasma di queste cellule giganti, alla microscopia elettronica, sono spesso contenute particelle pleiomorfe di 150-250 nm e strutture filamentose, queste ultime talora disposte a formare aggregati di diametro compreso tra 12 e 17 nm con talune propaggini periferiche che ricordano da vicino il nucleo-capside dei paramyxovirus. Dal punto di vista eziologico, è interessante ricordare che omogenati di tessuto epatico di soggetti con epatite sinciziale, iniettati in scimpanzé, determinano un notevole incremento del titolo degli anticorpi antiparamyxovirus, confermando il ruolo eziopatogenetico di questi ultimi nella genesi dell’epatite sinciziale, anche se non è ancora possibile stabilire quale virus (o quali virus) di questo genere siano specificamente implicati in tale patologia essendo necessari ulteriori studi virologici per acquisire informazioni più precise al riguardo. In conclusione, rimane il convincimento che l’epatite sinciziale a cellule giganti sia un’entità clinica di recente descrizione che può conseguire ad un’infezione da paramyxovirus: essa, per quanto rara, è senz’altro meritevole di segnalazione per la particolare aggressività del quadro clinico e la severità della sua prognosi.
EPATITI TOSSICHE (*) Le epatiti non hanno esclusivamente eziologia infettiva, poiché vengono descritti con sempre maggiore frequenza casi in cui la sofferenza epatica è legata piuttosto all’azione tossica di svariate sostanze, tra le quali un posto molto importante è quello occupato dai farmaci. In queste circostanze il termine di epatite è appropriato e giustificato in quanto la distruzione degli epatociti provocata da tali sostanze, cioè la necrosi di queste cellule, si accompagna, dal punto di vista anatomopatologico, alla presenza di alterazioni più o meno accentuate di tipo infiammatorio, legate appunto al processo di disfacimento delle strutture epatocitarie. Esistono sostanze tossiche che tipicamente inducono un danno epatico il quale può essere anche tanto grave da risultare mortale. Tale è l’intossicazione etilica acuta, l’effetto di funghi velenosi, del fosforo, dei solventi organici e degli idrocarburi del petrolio. Ma l’effetto tossico più comune nei Paesi ad alto livello di sviluppo è dovuto ai farmaci.
EPATITE DA FARMACI E SUE EVOLUZIONI CRONICHE L’epatite da farmaci è una potenziale complicanza di qualsiasi trattamento farmacologico poiché il fegato è l’organo principale nel metabolismo di tutti i farmaci (nonché di qualunque sostanza tossica). (*) V. Baldini e G. Casella.
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Il danno epatico da farmaci può essere espressione di un’alterazione diretta delle funzioni intracellulari dell’epatocita e/o dell’integrità della membrana cellulare oppure può trattarsi di un danno indiretto immuno-mediato. Circa il 10% di tutte le epatiti sono imputabili a farmaci e tale percentuale aumenta fino al 40% nei soggetti con età superiore a 50 anni; inoltre più del 25% di tutte le epatiti fulminanti sono correlabili a farmaci. L’epatite da farmaci si definisce acuta se il danno epatico non si protrae per più di 3 mesi, mentre è cronica se si mantiene più a lungo nel tempo. A. Fisiologia del metabolismo dei farmaci. La maggior parte delle sostanze farmacologiche entra nel nostro organismo attraverso l’apparato digerente e per l’assorbimento è importante il grado di lipofilia delle molecole, cui si correla la capacità di captazione da parte delle cellule della mucosa nonché quella degli epatociti. Il fegato è l’organo fondamentale del metabolismo dei farmaci, i quali, in questa sede, subiscono particolari modificazioni che portano alla formazione di composti idrofili che possono essere escreti attraverso il rene o anche la bile. Questa biotrasformazione avviene principalmente in due fasi. 1. La prima consiste in reazioni di ossidazione o demetilazione che sono mediate dal citocromo P450, il quale è costituito da un’apoproteina e da un gruppo emeprostetico e che esiste in almeno 300 varianti diverse (è presente anche nel tratto gastroenterico, nel rene, nel cervello, ecc.). 2. La seconda consiste in reazioni di glicurono-coniugazione o di solfatazione in cui svolgono un ruolo fondamentale l’acido glicuronico e il glutatione; a seguito di questa trasformazione hanno origine composti sufficientemente idrosolubili da poter essere eliminati dall’organismo per via renale o biliare. B. Fisiopatologia dell’epatite da farmaci. La più comune reazione responsabile di necrosi cellulare è la creazione di legami covalenti tra il metabolita tossico e le proteine cellulari e/o il DNA epatocitario, la quale innesca un processo ossidativo con formazione di anione superossido e/o radicali liberi dotati di variabile tossicità nei confronti degli epatociti. In linea di massima, le epatiti da farmaci (e quelle tossiche più in generale) possono essere distinte in due gruppi principali: • epatiti tossiche dose-dipendenti; • epatiti tossiche idiosincrasiche. 1. Epatiti tossiche dose-dipendenti. In questo caso la tossicità epatica della sostanza è correlata alla dose della stessa, nel senso che per piccole dosi l’effetto tossico è praticamente assente, mentre il danno epatico si instaura con necrosi epatocitaria più o meno estesa se la sostanza viene assunta in quantità elevata. Fanno parte di questo gruppo sostanze come:
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alcool etilico; CCl4 (tetracloruro di carbonio); tricloroetilene; fosforo giallo; amanitina (Amanita phalloides).
Tra le sostanze responsabili di epatite tossica dose-dipendente, certamente la più comune è l’alcool etilico, il quale, a piccole dosi, in genere non ha effetti dannosi; a dosi più alte, intermedie, può dare danni epatici di tipo cronico (si veda in seguito Steatosi epatica); a dosi molto elevate è responsabile di epatite tossica con necrosi acuta degli epatociti. Lo stesso danno può essere, inoltre, provocato da sostanze di uso industriale se vengono assunte in quantità elevata, come il CCl4, il tricloroetilene ed il fosforo giallo (questi composti, se vengono assunti in dose minore, ma per un periodo di tempo prolungato, danno invece lesioni croniche di tipo steatosico). Un’alterazione analoga è quella che si verifica in caso di avvelenamento da Amanita phalloides (un fungo molto simile alla Amanita caesarea che è invece mangereccio), la quale contiene una sostanza fortemente tossica, l’amanitina, che determina nel giro di 24-48 h dall’assunzione necrosi massiva degli epatociti, con conseguenze quasi sempre letali e con un quadro molto simile a quello dell’atrofia giallo-acuta. 2. Epatiti tossiche idiosincrasiche. Non sono legate alla dose della sostanza scatenante (bastano anche quantità molto piccole), perché insorgono in relazione ad una particolare ipersensibilità individuale, peraltro non frequente, nei confronti di queste sostanze. In questo gruppo sono compresi numerosi farmaci, tra i quali possiamo ricordare: • farmaci che danno epatite tossica di tipo citotossico (alotano, difenilidantoina, sulfamidici, isoniazide, etambutolo, paracetamolo, fenilbutazone, indometacina, -metildopa); • farmaci che danno epatite tossica di tipo colestatico (clorpromazina, imipramina, benzodiazepine, solfaniluree – specie tolbutamide –, diuretici tiazidici, dicumarolo e derivati). Le reazioni idiosincrasiche ai farmaci, indicanti una particolare ipersensibilità individuale verso queste sostanze, sono fortunatamente piuttosto rare e sono correlate a meccanismi ancora poco conosciuti. In alcuni casi questo fenomeno sembra legato unicamente ad un processo di carattere immunitario correlato ad una particolare predisposizione ereditaria di alcuni soggetti: si avrebbe, cioè, una reazione anticorpale nei confronti del farmaco presente a livello degli epatociti, i quali restano, di conseguenza, coinvolti in questo processo, similmente a quanto accade nell’epatite virale. In altri casi si tratterebbe di alterazioni enzimatiche geneticamente determinate che provocherebbero l’insorgenza di una risposta anomala ad alcuni farmaci. Osservazioni sperimentali, infine, sembrano prospettare in alcuni casi un anomalo comportamento dei processi di ossidazione nel fegato di diversi composti in relazione ad un’alterata affinità del citocromo P450.
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Altre volte il danno epatico da farmaci ha un meccanismo patogenetico più chiaro: ci sono sostanze, per esempio, che possiedono un’intrinseca epatotossicità agendo direttamente, provocando cioè una diretta lesione del parenchima, o indirettamente, inibendo in tal caso importanti processi metabolici delle cellule epatiche (Tabb. 29.3 e 29.4). C. Caratteristiche anatomopatologiche dell’epatite da farmaci. Il danno epatico da farmaci può assumere caratteristiche differenti dal punto di vista istopatologico; le varianti principali sono le seguenti. 1. Epatite colestatica. I farmaci che possono indurre colestasi (con quadro istologico di “ingorgo biliare” a carico delle vie biliari intraepatiche e, spesso, modesto danno epatocitario) sono numerosissimi: ormoni sessuali (estradiolo) e antagonisti degli stessi (flutamide), Tabella 29.3 - Farmaci dotati di epatotossicità intrinseca. • Farmaci che provocano danno parenchimale (citotossici) – Feocromocitoma – Antiblastici (6-mercaptopurina, azatioprina, ametopterina, L-asparaginasi, vincristina, vinblastina) – Tetracicline (dose-dipendente; possono dare anche steatosi epatica) • Farmaci che provocano danno colestatico – Contraccettivi orali – -metildopa – Antitiroidei (metimazolo, tiouracile) • Farmaci che provocano danno misto – PAS – Sulfamidici – Eritromicina estolato – Cloramfenicolo – Triacetiloleandomicina – Acido nicotinico e derivati
Tabella 29.4 - Farmaci che interferiscono nel metabolismo della bilirubina. • Iperemolisi – Fenilidrazina – -metildopa – Fenacetina – Sulfamidici – Acetanilide – nitrofurantoina – Chinidina – Cloramfenicolo • Competizione con il legame bilirubina-albumina – Sulfamidici – Salicilati • Inibizione della captazione e del trasporto intracellulare della bilirubina – Acido flavaspidico (principio attivo della felce maschio) – Novobiocina • Inibizione dei processi di coniugazione della bilirubina – Novobiocina • Inibizione dell’escrezione canalicolare della bilirubina – Rifampicina
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
steroidi anabolizzanti (fluossimesterone, ossimetolone), psicofarmaci (clorpromazina, carbamazepina, inibitori della MAO come imipramina, aloperidolo, ecc.), antibiotici (rifampicina, eritromicina, trimetoprim+sulfametossazolo, nitrofurantoina, ecc.), diuretici tiazidici, solfaniluree (glibenclamide, tolbutamide, ecc), antiaritmici (ajmalina, propafenone), citostatici (azatioprina, alcaloidi della vinca, ecc.), ecc. Il meccanismo patogenetico della colestasi da farmaci è complesso ed è probabile che entrino in gioco fattori diversi come l’alterazione del flusso biliare per deficit della pompa Na-K ATPasi di membrana o quella delle “tight junctions” delle cellule epatocitarie o anche dell’omeostasi del Ca++ intracellulare. Una variante particolare dell’epatite colestatica (in cui, per definizione, l’aumento della fosfatasi alcalina è almeno due volte rispetto ai livelli normali) è la cosiddetta “vanishing bile duct syndrome”, cioè la persistenza di colestasi (clinica e/o biochimica) a distanza di 6 mesi dalla sospensione del farmaco (questa condizione è anche presente nelle fasi iniziali del rigetto cronico dopo trapianto di fegato). Il suo “prototipo” è quello dell’epatite da clorpromazina, ma essa può essere correlata ad altre sostanze come ajmalina, carbamazepina, fenitoina, amoxicillina+ clavulanato, ecc. e può manifestarsi in due forme principali, maggiore (in cui oltre all’alterazione dei parametri bioumorali di colestasi sono presenti segni e/o sintomi come prurito, ittero, xantelasmi e/o xantomi e che può protrarsi anche per anni) e minore (in cui è presente soltanto l’incremento di fosfatasi alcalina e -glutamil-transpeptidasi). 2. Epatite granulomatosa. Il quadro istologico è simile a quello della sarcoidosi con presenza di granulomi non caseosi nel parenchima epatico. Tra i farmaci che possono provocare questa forma di epatite sono da ricordare: allopurinolo, antiaritmici (chinidina, procainamide, fenitoina, diltiazem), alotano, diazepam, isoniazide, ecc. Diversamente dalla forma precedente (e come in tutte le successive) l’epatite è propriamente epatocellulare (con incremento di ALT di almeno due volte rispetto ai valori normali) oppure, più di rado, di tipo misto (con aumento sia di ALT che di fosfatasi alcalina di due volte o più rispetto ai livelli di norma). 3. Epatite cronica attiva. Istologicamente l’aspetto è quello dell’epatite autoimmune (frequente il riscontro, in questi casi, di anticorpi antinucleo, fattore reumatoide, anemia emolitica Coombs positiva, di eosinofilia, ecc.). I farmaci che più spesso danno origine a questa variante di epatite sono: -metildopa, ossifenisatina (lassativo non più in commercio), acetaminofene, nitrofurantoina, ecc. 4. Steatosi epatica. Numerose sono le sostanze che possono indurre questo tipo di alterazione a livello epatico e di queste ricordiamo in particolare: amiodarone, fialuridina (analogo nucleosidico impiegato in passato nel trattamento dell’epatite cronica HBV-correlata), altri
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29 - EPATOPATIE ACUTE
farmaci antivirali (zidovudina, didanosina), tetracicline, L-asparaginasi, acido valproico, corticosteroidi, ecc. Il meccanismo patogenetico non è del tutto chiaro, ma si ipotizza che questi composti abbiano un’azione diretta sui processi ossidativi mitocondriali con diminuita sintesi delle apoproteine delle LDL, che comporta un rallentamento nel trasporto dei lipidi dal fegato e, di conseguenza, un accumulo di questi all’interno degli epatociti (in certi casi, in soggetti geneticamente predisposti o per assunzione cronica del farmaco, si può arrivare fino a quadri di cirrosi epatica vera e propria). 5. Cirrosi epatica. È il danno epatico che consegue più frequentemente all’impiego di farmaci come metotrexate (si consiglia di eseguire biopsia epatica se si raggiunge la dose totale di 2,5 g), vitamina A (acido trans-retinoico), -metildopa, sostanze da cui hanno origine metaboliti in grado di stimolare processi di fibrosi nell’ambito del parenchima epatico. 6. Malattia veno-occlusiva. Diversi farmaci ad attività citostatica (ciclofosfamide, azatioprina, 6-mercaptopurina, citosina arabinoside, bleomicina, doxorubicina, dacarbazina, mitomicina, tamoxifene, ecc.) sono responsabili di alterazione endoteliale specialmente a livello delle piccole venule del fegato in grado di produrre trombosi (tale manifestazione fa parte anche della “graft versus host disease” dopo trapianto di midollo allogenico). In qualche caso tale processo si verifica anche a carico di vasi di calibro più grande come le vene sovraepatiche con insorgenza di quadri sovrapponibili alla sindrome di Budd-Chiari (epatomegalia, ascite, ittero). 7. Epatite da cefalosporine. Le cefalosporine e, più in particolare, alcune di esse (soprattutto ceftriaxone, cefazolina, cefamandolo, cefoperazone, ecc.) possono provocare alterazioni epatiche di genere diverso sia interferendo nel metabolismo della protrombina, sia con meccanismo tossico diretto, sia favorendo la formazione di calcoli nelle vie biliari (quest’ultima specialmente da parte del ceftriaxone). Per quanto riguarda gli effetti sul metabolismo della protrombina, queste sostanze sono in grado di determinare ipotrombinemia attraverso modificazioni della flora batterica intestinale (con riduzione della produzione di vitamina K2) o inibendo direttamente la -carbossilasi (enzima indispensabile per la sintesi dei fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti) o anche agendo ad altri livelli all’interno del ciclo della vitamina K (da cui dipende la sintesi dei fattori II, VII, IX, X). D. Clinica. I sintomi e i segni dell’epatite tossica possono risultare estremamente variabili; nella maggior parte dei casi il danno epatico non raggiunge la soglia dell’evidenza clinica e può essere svelato soltanto mediante approfondite indagini di laboratorio. Nei casi più rilevanti il quadro clinico è molto simile a quello dell’epatite virale (forma similepatitica) di cui ripropone, in misura più o meno evidente, le stesse manifestazioni; quando l’intossicazione è sufficientemente
intensa ed il danno epatocitario sufficientemente esteso, il quadro può giungere all’atrofia giallo-acuta. L’ittero è spesso presente; frequente è il riscontro di epatomegalia, in genere, però, di grado modesto. Per quanto riguarda gli esami di laboratorio, è comune l’iperbilirubinemia (che a seconda dei casi, come s’è visto, potrà essere prevalentemente indiretta o coniugata oppure di tipo misto); l’aumento delle transaminasi è variabile, ma sempre inferiore a quello che si ha nell’epatite virale; nelle forme colestatiche è comune l’incremento della -GT e della fosfatasi alcalina; soprattutto nella varietà idiosincrasica, è frequente la presenza di eosinofilia, di grado variabile. E. Decorso, prognosi e terapia. L’evoluzione dell’epatite da farmaci (e di quella tossica più in generale), salvo rari casi, è favorevole; infatti la sospensione del trattamento con il farmaco responsabile o dell’assunzione della sostanza responsabile della lesione epatocitaria comporta la progressiva attenuazione delle manifestazioni cliniche e la progressiva risoluzione delle alterazioni istopatologiche. Normalmente, in questi casi non è necessario alcun provvedimento terapeutico, ma quando l’epatite assume rilevanza clinica maggiore (è il caso delle forme di epatite fulminante da farmaci o tossici diversi come l’amanitina), in cui il quadro è quello di “intossicazione” vera e propria, sarà necessario il ricorso ad appropriata terapia d’emergenza (come, per esempio, in presenza di avvelenamento da funghi quando può anche rendersi indispensabile il trapianto di fegato). In tutte queste circostanze il paziente andrà trattato con idratazione abbondante in maniera da mantenere una diuresi elevata per ottenere la maggiore e più rapida eliminazione possibile dei metaboliti tossici, mentre di qualche supporto potranno essere farmaci come l’acetilcisteina (donatore di gruppi tiolici e, quindi, in grado di potenziare l’attività detossicante del glutatione; per esempio in caso di epatite da acetaminofene) o come la S-adenosilmetionina (75 mg/kg/die) che, migliorando i processi di transmetilazione e di transulfurazione, ripristina la fluidità di membrana, normalizza l’attività della Na-K ATPasi e aumenta il flusso biliare consentendo una maggiore eliminazione delle sostanze tossiche.
SINDROME DI REYE La sindrome di Reye, descritta per la prima volta nel 1963, è un’affezione acuta la quale colpisce esclusivamente soggetti al di sotto dei 15 anni di età. Clinicamente essa è caratterizzata da encefalopatia con andamento progressivo, vomito incoercibile, insufficienza epatica fulminante, ipoglicemia. Dal punto di vista istologico si riscontra la presenza di steatosi epatica grave, steatosi tubulare renale, edema cerebrale e degenerazione neuronale a livello dell’encefalo, cui corrispondono, alla microscopia elettronica, alterazioni strutturali dei mitocondri nelle cellule dei tessuti colpiti.
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La causa di questa sindrome è sconosciuta anche se si ritiene verosimile l’intervento di fattori tossici o infettivi (virali). In particolare, è stato dimostrato che i soggetti con sindrome di Reye nei giorni precedenti l’esordio di questa patologia spesso hanno fatto uso di acido acetilsalicilico e presentano, infatti, livelli sierici elevati di salicilati (un’elevata salicilemia è in grado di alterare i mitocondri a livello cellulare producendo fenomeni degenerativi sovrapponibili a quelli che si riscontrano in questi casi). È stato anche osservato che la sindrome di Reye esordisce di solito entro 1-3 giorni dopo un’infezione delle prime vie respiratorie, soprattutto se provocate da virus dell’influenza (di tipo B o di tipo A) o da virus della varicella e si suppone, pertanto, un ruolo eziologico di questi mi-
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
crorganismi (o anche di altri virus delle prime vie aeree). Dal punto di vista clinico, compare in principio vomito persistente insieme con uno stato confusionale che rapidamente evolve con crisi convulsive generalizzate fino al coma vero e proprio. Il fegato è abitualmente aumentato di dimensioni, mentre l’ittero è caratteristicamente assente o di modesta entità; aumentano le transaminasi e diminuisce la sintesi di protrombina; sono presenti, inoltre, spiccata ipoglicemia e notevole iperammoniemia. La mortalità è del 50% circa e la causa di morte più comune è l’edema cerebrale con la conseguente ipertensione endocranica. Non è descritta l’insorgenza di epatopatia cronica nei pazienti che sopravvivono alla fase acuta di questa affezione.
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EPATOPATIE CRONICHE V. BALDINI
STEATOSI EPATICA La steatosi epatica è una condizione in cui si verifica un accumulo negli epatociti di trigliceridi (grassi neutri) che diventano dimostrabili con le comuni metodiche istochimiche sotto forma di piccole goccioline localizzate nel citoplasma. Il quadro clinico che si manifesta in questi casi è in genere di natura cronica, molto più di rado di tipo acuto ed in larga parte è sovrapponibile a quello delle epatiti tossiche. Il contenuto di grassi nel fegato normale è di 2-4 g/100 g di tessuto, mentre i trigliceridi diventano evidenti al microscopio ottico se i grassi costituiscono oltre il 5-7%; si parla, invece, più correttamente di “fegato grasso” se più del 50% degli epatociti presenta nel citoplasma questi depositi di materiale lipidico. L’accumulo di trigliceridi nel fegato è correlato, da un punto di vista metabolico, o ad un apporto eccessivo di queste sostanze o ad un difetto del loro smaltimento o anche ad entrambi questi fattori. Un eccessivo apporto di trigliceridi al fegato si verifica quando giungono a questo organo acidi grassi non esterificati (NEFA) in quantità superiore alla norma, per aumentata mobilizzazione dei grassi dai depositi adiposi (lipolisi), oppure quando la sintesi degli acidi grassi nel fegato è aumentata; per contro, un difetto di mobilizzazione dei grassi si verifica quando esiste un deficit più o meno marcato della capacità, da parte degli epatociti, di sintetizzare le lipoproteine (per compromissione della formazione della componente proteica) che servono per il trasporto dei trigliceridi dal fegato nel sangue, oppure quando è compromesso il catabolismo degli acidi grassi per difetto della -ossidazione epatocitaria. Oltre alla steatosi epatica da farmaci, già ricordata nel Cap. 29, esistono altre condizioni che possono provocare questa alterazione: di tipo nutrizionale, come in caso di malnutrizione proteica, iponutrizione, nutrizione parenterale totale, perdita di peso troppo rapida, chi-
rurgia gastrointestinale per obesità; oppure in corso di malattie infiammatorie intestinali, di diverticolosi dell’intestino tenue con estesa colonizzazione batterica o anche in corso di infezione con il virus HIV. Due sono però le forme di maggiore interesse: la steatosi epatica alcolica e quella non alcolica. Di queste parleremo più diffusamente. Steatosi epatica alcolica A. Patogenesi del danno epatico da etanolo. L’etanolo abitualmente assunto con le bevande alcoliche danneggia gli epatociti attraverso meccanismi diversi, metabolici e tossici. L’alcool ingerito è rapidamente assorbito, in piccola parte già a livello della mucosa orale e nello stomaco; le tappe fondamentali del suo metabolismo si svolgono nel fegato, dove l’etanolo è sottoposto inizialmente ad un processo di deidrogenazione (ossidazione) ad opera dell’enzima alcool-deidrogenasi, NAD-dipendente, presente nel citoplasma solubile degli epatociti: da questa reazione si formano acetaldeide e NADH2, quest’ultimo per riduzione del NAD (coenzima nicotinamide adenindinucleotide). L’acetaldeide viene in seguito ulteriormente ossidata ad acido acetico per opera di un altro enzima NAD-dipendente, l’acetaldeide-deidrogenasi, con nuova formazione di NADH2; l’acetato, a sua volta, viene convertito nella forma attiva, che è l’acetil-CoA, il quale può avere due diversi destini metabolici: quello di essere inserito nel ciclo di Krebs (o dell’acido citrico o degli acidi tricarbossilici) e, quindi, di essere utilizzato come materiale energetico oppure quello di essere impiegato come substrato per la sintesi degli acidi grassi (Fig. 30.1). In definitiva, quindi, l’ingestione di alcool comporta anche un aumento della formazione di acidi grassi, i quali, a loro volta, possono essere utilizzati nel fegato come materiale energetico attraverso il processo di -ossidazione, ma questa via catabolica richiede la presenza di un substrato in grado di fare da accettore di H+ e questo substrato è ancora il NAD; ne consegue che questo processo ossidativo è favorito dalla presenza del NAD,
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NAD
Etanolo Alcool-deidrogenasi Acetaldeide NAD Acetaldeidedeidrogenasi Acetato
NADH2 Catabolismo ossidativo
NADH2 Acidi grassi
Acetil-CoA Ciclo acido citrico
Figura 30.1 - Destino metabolico dell’etanolo nell’organismo.
ma se questo è convertito nella sua forma ridotta, NADH2, come si verifica per l’ingestione di alcool, sarà diminuita la disponibilità di questo coenzima e perciò il catabolismo degli acidi grassi potrà avvenire in misura minore. L’alcool, pertanto, favorisce l’insorgenza della steatosi agendo in due modi: da un lato aumentando la sintesi degli acidi grassi, dall’altro riducendo la disponibilità del NAD e quindi rendendo meno efficiente il catabolismo di queste sostanze. Per effetto di tali modificazioni metaboliche, gli acidi grassi vengono maggiormente utilizzati per la formazione di trigliceridi che, di conseguenza, possono accumularsi nel citoplasma degli epatociti provocando la comparsa di steatosi. Inoltre, è stato dimostrato che l’alcool danneggia anche i mitocondri e i ribosomi, determinando il disaccoppiamento della catena respiratoria e della fosforilazione ossidativa (quindi una compromissione dei processi ossidativi cellulari) e un deficit delle sintesi proteiche. Queste ultime sono compromesse anche in quanto negli etilisti cronici esiste sempre un certo grado di malnutrizione proteica; infatti l’alcolista tende di regola a ridurre la quantità di alimenti della propria dieta, in primo luogo perché l’alcool è di per sé una buona fonte energetica (1 g = 7 cal), per cui genera in questi soggetti, se assunto in discreta quantità e regolarmente, una sensazione di sazietà che comporta una riduzione nell’assunzione degli altri alimenti; in secondo luogo, questa sostanza provoca facilmente una gastrite cronica (che è strettamente correlata all’insorgenza dell’epatopatia etilica), la quale determina la comparsa di disturbi dispeptici (nausea, anoressia), per cui questi soggetti mangiano di meno, anzi spesso diventano fortemente inappetenti e hanno anche la sensazione che la digestione migliori assumendo regolarmente piccole quantità di alcool il quale, in realtà, finisce per aggravare ulteriormente il danno a livello del fegato. In tutti questi casi, percio, è presente una malnutrizione proteica con conseguente deficit dell’apporto degli aminoacidi necessari per la sintesi della componente proteica (apoproteina) delle lipoproteine che servono per veicolare i trigliceridi dal fegato nel sangue; in più, tale deficit delle sintesi proteiche si aggiunge a quello
correlato al danno mitocondriale e ribosomiale che, come è già stato ricordato, è sempre presente negli etilisti cronici. Un sistema accessorio di ossidazione dell’alcool è stato identificato nei microsomi (MEOS = Microsomal Ethanol Oxidizing System) e rende ragione delle interferenze metaboliche fra alcool e farmaci. L’uso regolare e continuato di questa sostanza comporta un’accelerazione del suo metabolismo e questo adattamento metabolico sembra sia dovuto all’aumento di attività del sistema MEOS: in tal modo, tutto l’apparato microsomiale epatocitario, responsabile del metabolismo dei farmaci e caratterizzato da scarsa specificità, risulta essere attivato. Come conseguenza importante, l’etilista cronico può catabolizzare in modo accelerato diversi farmaci il cui metabolismo ha sede nel reticolo endoplasmatico liscio degli epatociti; al contrario, in caso di eccesso acuto e grave di alcool, si può verificare una competizione per quanto riguarda il metabolismo epatico tra alcool e farmaci e l’effetto di questi ultimi può risultare potenziato. B. Anatomia patologica. Il danno epatico da eccessivo consumo di etanolo si manifesta sotto forma di svariati quadri morfologici. Nelle prime fasi la steatosi è l’aspetto dominante: gran parte degli epatociti presentano il citoplasma ricolmo di goccioline lipidiche, la cui entità sarà, comunque, in relazione alla dose di alcool assunta, alle capacità metaboliche individuali e, soprattutto, alla durata nel tempo dell’abitudine di fare ricorso ad abbondante consumo di bevande alcoliche. È importante ricordare che questa fase è completamente reversibile, poiché in essa non sono documentabili alterazioni dell’impalcatura di sostegno del lobulo epatico. Da questa fase ancora reversibile si passa, se il paziente non interrompe l’iperassunzione di alcool, alla fase di epatite alcolica vera e propria: gli epatociti steatosici, non più in grado di trattenere nel citoplasma i trigliceridi accumulati, vanno incontro ad un processo di graduale distruzione ed i grassi si riversano nell’interstizio dove producono effetti citotossici e richiamano elementi di carattere flogistico (soprattutto granulociti neutrofili), cui fa seguito anche la deposizione di collageno, processo, quest’ultimo, che sembra essere favorito dall’alcool stesso secondo un meccanismo ancora non ben conosciuto. Nel tempo, la fibrosi interstiziale può associarsi a necrosi epatocitaria di grado variabile con, a questo punto, irreversibilità delle alterazioni morfologiche a carico della struttura epatica. Le aree di fibrosi si fondono progressivamente formando “ponti” che congiungono tra loro gli spazi portali e che delimitano pseudolobuli rigenerativi, creando le condizioni per l’evoluzione del quadro verso la cirrosi epatica. C. Clinica. Se è di grado modesto la steatosi può passare del tutto inosservata; il paziente può stare del tutto bene, tutt’al più, obiettivamente, si può riscontrare una certa epatomegalia. Se, invece, il processo è più importante, la steatosi si associa a qualche segno biochimico di insufficienza epatica con alterazione di al-
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30 - EPATOPATIE CRONICHE
cune prove funzionali di laboratorio (in particolare, incremento della -GT, specialmente se l’eziologia è alcolica, modesto aumento delle transaminasi e della fosfatasi alcalina, maggiore ritenzione della BSF e, talvolta, lieve incremento della bilirubina). D’aiuto alla diagnosi può risultare un’ecografia (con il classico aspetto “brillante”), anche se la diagnosi di certezza viene posta solo con la biopsia epatica. Nelle forme più gravi, in cui la sofferenza degli epatociti è più marcata, possono essere presenti anche sintomi clinici di insufficienza epatica, fino ai casi di carattere fulminante (per es., la steatosi gravidica) in cui si può instaurare un quadro sovrapponibile a quello di un’epatite tossica, cioè un quadro acuto con necrosi degli epatociti ed una condizione di insufficienza funzionale epatica tanto grave da poter risultare mortale. A parte, comunque, questi casi particolarmente gravi, ma fortunatamente molto rari, la prognosi della steatosi epatica è generalmente buona e con la rimozione dell’agente eziologico si ha la regressione completa del quadro clinico ed istologico con restitutio ad integrum del paziente. In certi casi, tuttavia, specialmente se la steatosi è massiva e si protrae a lungo nel tempo, nonostante l’eliminazione dell’agente causale la regressione completa non avviene e la steatosi diventa la condizione preliminare dell’insorgenza di un’epatopatia cronica di entità più rilevante, generalmente di tipo cirrotico; in particolare, questo vale per la steatosi alcolica in rapporto alla possibile evoluzione di questa in cirrosi epatica (per quanto riguarda la relazione tra steatosi alcolica e cirrosi epatica etilica, si rimanda al paragrafo Cirrosi epatica classica). Steatosi epatica non alcolica Con il termine steatosi epatica non alcolica si definisce un’alterazione patologica in tutto simile a quella alcolica, senza tuttavia che esista un eccessivo consumo di etanolo o che sia in atto alcuna di quelle cause tossiche, nutrizionali o di altro genere che abbiamo ricordato precedentemente. Si tratta di una condizione che può essere anche grave e condurre a steatoepatite, a cirrosi epatica e ad insufficienza epatica anche fatale. La steatosi epatica non alcolica non è una condizione rara perché colpisce dal 10 al 24% della popolazione generale in vari paesi. Negli obesi si osserva tra il 57,5% e il 74% degli individui. In Giappone si è stimato che ne è affetto il 2,6% dei bambini e uno studio italiano (Franzese et al., 1997, citato da P. Angulo, 2002) ha dimostrato che la prevalenza sale al 52,8% nei bambini obesi. A. Eziopatogenesi. Si pensa che la steatosi epatica non alcolica sia determinata dalla coesistenza di fattori genetici favorenti con alcune condizioni sovrapposte (esse stesse con un certo condizionamento genetico). Tra queste vi sono l’obesità, il diabete mellito e l’iperlipidemia (in modo particolare l’ipertrigliceridemia). La prevalenza di questa malattia aumenta infatti di un fattore di 4,6 nei pazienti obesi con almeno 30 di indice di massa corporea (si veda il Cap. 67). L’obesità più importante a questo riguardo è quella con localizzazio-
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ne preferenziale al tronco. Il diabete associato con un aumentato rischio di steatosi epatica non alcolica è quello di tipo 2. B. Patogenesi. La patogenesi è complessa e implica vari processi metabolici, connessi con l’assunzione di acidi grassi da parte degli epatociti, la loro sintesi e la loro ossidazione in queste cellule e la capacità di queste ultime di esportare trigliceridi con le lipoproteine. Un fattore molto importante è rappresentato dalla resistenza dei tessuti all’insulina, con conseguente aumentate lipolisi e iperinsulinemia. L’aumentata lipolisi nel tessuto adiposo incrementa la quantità di acidi grassi che sono messi a disposizione degli epatociti, mentre l’iperinsulinemia aumenta la sintesi di acidi grassi in queste cellule e riduce la sintesi dell’apolipoproteina B-100 che serve per mobilizzare i trigliceridi nelle lipoproteine VLDL. In molti casi il processo si ferma qui, ma in altri (non è noto perché proprio in questi), l’alterazione epatica progredisce verso la steatoepatite e la cirrosi epatica. Si pensa che ciò dipenda dalla formazione di metabolici tossici, come gli acidi grassi dicarbossilici che si formano per aumentata -ossidazione degli acidi grassi nei microsomi e da prodotti dello stress ossidativo. Questi processi provocano necrosi degli epatociti, infiammazione ed evoluzione in fibrosi e cirrosi epatica. C. Clinica ed evoluzione. Per lo più la steatosi epatica non alcolica è completamente asintomatica e può essere messa in evidenza da un aumento delle transaminasi nel sangue (o di altri enzimi significativi di sofferenza epatica) o da un’epatomegalia, in assenza di cause infettive o tossiche che ne diano ragione. L’evoluzione è per lo più benigna. In un periodo compreso tra 3,5 e 11 anni si è visto che il 13% di questi pazienti andava incontro a miglioramento o addirittura a risoluzione dell’epatopatia, il 59% restava stazionario e il 28% progrediva verso più gravi forme di sofferenza epatica. Questa evoluzione è facilitata dalla coesistenza di infezione con il virus dell’epatite C. D. Diagnosi. L’esistenza di una steatosi deve essere ipotizzata in ogni paziente, anche non obeso né diabetico né con un’iperlipoproteinemia, con aumento delle transaminasi nel sangue, o anche solo della -GT, in assenza di evidenza dell’infezione con virus epatotropi o di esposizione ad agenti tossici. In genere, l’aumento della transaminasi glutammico-piruvica, o alanina-transferasi (ALT), è superiore a quello della transaminasi glutammico-ossalacetica o aspartato-transferasi (AST). Quando il rapporto tra le concentrazioni di questi due enzimi si avvicina all’unità, o addirittura si inverte, si deve concludere che un processo fibrotico è in atto. Un’ultrasonografia dimostra un diffuso aumento dell’ecogenicità del fegato a confronto con i reni. Indipendentemente dalle cause, la cirrosi epatica ha un’apparenza simile all’ultrasonografia. Nel caso della steatosi, la tomografia computerizzata (TC) mostra una bassa densità del parenchima epatico. In certi casi la steatosi si dispone “a zolle” e l’ultrasonografia e la TC possono
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sollevare il dubbio di lesioni neoplastiche sostitutive. In questi casi una RM può risolvere il dubbio. La biopsia epatica dà un reperto indistinguibile da quello della steatosi epatica alcolica. Una volta accertata la steatosi, occorre escludere le cause note di questo processo patologico e, in particolare, l’eccessiva introduzione di alcool etilico. Si può escludere che questa sia la causa della steatosi se il paziente consuma quotidianamente meno di 20 g di alcool etilico, se è una donna, e meno di 30 g se è un uomo. Per orientarsi conviene ricordare che, approssimativamente, 10 g di alcool etilico sono contenuti in 120 ml di vino, in 350 ml di birra e in 45 ml di un superalcolico. E. Terapia. Una buona norma, quando si diagnostica una steatosi epatica non alcolica ed esiste una condizione associata, è correggere quest’ultima. Nel caso di obesità, è dimostrato che la riduzione del peso si accompagna a un miglioramento dei livelli degli enzimi di derivazione epatica nel sangue. Tuttavia, è opportuno che il dimagramento non sia troppo rapido, perché in questo caso può verificarsi o peggiorare la steatonecrosi e aversi un’evoluzione in fibrosi. Anche il diabete mellito e le iperlipoproteinemie dovrebbero essere controllate. In ogni caso è opportuna l’astinenza dall’alcool. Tra i farmaci, si è dimostrato che il gemfibrozil (che riduce i trigliceridi del siero), la metformina (che è anche utile nel diabete di tipo secondo) e la vitamina E possono migliorare le prove di funzionalità epatica. Anche l’acido ursodesossicolico può essere utile. Altre forme di steatosi Esistono numerose altre forme di steatosi epatica che possono manifestarsi nel corso di svariate situazioni. Tutte le condizioni in cui è presente denutrizione o malnutrizione cronica possono provocare la comparsa di steatosi; infatti, in questi casi l’organismo utilizza come fonte energetica principale i grassi, che vengono, perciò, mobilizzati dai depositi adiposi in quantità maggiore con incremento dell’apporto al fegato di acidi grassi e conseguente aumentata formazione in questo organo di trigliceridi. In particolare ciò si verifica in caso di malnutrizione proteica quando non vengono ingerite proteine ad alto valore biologico (quelle di origine animale), come avviene nella cosiddetta sindrome Kwashiorkor (sindrome pluricarenziale in cui vengono a mancare anche molte vitamine, ma soprattutto è rilevante il deficit di apporto proteico). Le malnutrizioni proteiche possono essere osservate anche in soggetti che non si alimentano regolarmente per ragioni psichiche (per es., nell’anoressia psichica) oppure in soggetti che per motivazioni particolari seguono delle diete squilibrate in cui è carente soprattutto l’apporto di proteine: in tutti questi casi si sviluppa un difetto nella sintesi della componente proteica delle lipoproteine con conseguente ridotta mobilizzazione dei grassi dal fegato. Tra le cause di steatosi tossica vanno ricordate alcune sostanze come il CCl4 (tetracloruro di C) ed il fosforo giallo, che a dosi elevate provocano un’epatite tossica, mentre a dosi più modeste, se vengono assunte per lun-
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go tempo, determinano steatosi per difetto della formazione delle lipoproteine in rapporto alla compromissione delle sintesi proteiche (danno a carico di mitocondri e ribosomi). Tra i farmaci è stato osservato che le tetracicline possono provocare steatosi con meccanismo tossico dose-dipendente per interferenza con le sintesi proteiche se vengono somministrate per via ev a dosi superiori a 1 g/die. Una forma molto particolare di steatosi è quella che si sviluppa in caso di by-pass dell’intestino tenue, secondo una tecnica chirurgica che comporta il “salto” di una parte di questa porzione dell’intestino (si seziona prossimalmente il tenue e si abbocca il moncone prossimale ad un moncone distale opportunamente sezionato) in maniera da escludere un ampio tratto del tenue normalmente destinato alle funzioni di assorbimento. Questa operazione, che viene attualmente messa in atto in pazienti gravemente obesi che non riescono a dimagrire anche con diete molto severe, proprio allo scopo di ridurre l’assorbimento intestinale, può portare alla comparsa di steatosi epatica anche di grado cospicuo, talora anche mortale, in quanto il diminuito apporto di aminoacidi ed il conseguente deficit delle sintesi proteiche determinano un’aumentata mobilizzazione dei grassi dai depositi per coprire il fabbisogno energetico dell’organismo. In rari casi, e per ragioni sconosciute, anche in corso di gravidanza si può instaurare una forma iperacuta, talora fulminante, di steatosi che può esitare in un’insufficienza epatica di entità anche gravissima, spesso addirittura mortale. Fegato e gravidanza (*) L’insorgenza di malattia epatica si verifica nello 0,10,2% di tutte le gravidanze. Normalmente, in questa condizione il fegato non aumenta di volume ed il riscontro di epatomegalia nel 3° trimestre di gravidanza ha sempre significato patologico (mentre del tutto normale può essere la presenza, a partire dalla fine del 1° trimestre, di manifestazioni cliniche abitualmente correlate ad epatopatia come spider naevi, angiomi o eritema palmare). Nel corso del periodo gravidico si verificano nell’organismo della donna numerose modificazioni di significato fisiologico, alcune delle quali coinvolgono, in maniera più o meno diretta, la funzionalità epatica. In particolare, nel 3° trimestre si osserva una riduzione delle proteine sieriche che nel 50% dei casi scendono al di sotto di 6 g/dl con lieve incremento delle - e -globuline e con lieve diminuzione di quelle (il rapporto albumina/globuline si abbassa da 1,3 a 0,7). Il tempo di protrombina, di regola, rimane normale, ma verso la fine della gravidanza si registra spesso un aumento di fibrinogeno, protrombina, fattori VII, VIII, IX, X e plasminogeno. La colesterolemia aumenta a partire dal 4° mese e raggiunge i livelli massimi in corrispondenza dell’8° mese (valori di colesterolemia non superiori a 500 mg/dl possono essere considerati normali). (*) V. Baldini e G. Casella.
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La fosfatasi alcalina aumenta già nella prima metà della gestazione e l’incremento è progressivo fino al termine della gravidanza esclusivamente per il contributo della frazione placentare dell’enzima (frazione termostabile), così come avviene per l’-fetoproteina. Un certo aumento si verifica, in particolare nel 3° trimestre, anche per le lattico-deidrogenasi, mentre, nello stesso periodo, diminuiscono le pseudocolinesterasi in circa i 2/5 dei casi. Nessuna variazione, per contro, si riscontra normalmente a carico della -glutamil-traspeptidasi e delle transaminasi e l’incremento di queste ultime rappresenta l’indice di maggior valore diagnostico nelle epatopatie che insorgono durante la gravidanza. Le malattie epatiche che compaiono nel periodo gestazionale possono essere di tipo diverso; di esse si ricordano qui le varianti principali distinguendo, in primo luogo, tra epatopatie in gravidanza (da cause esterne o precedenti alla gravidanza stessa) ed epatopatie della gravidanza (da cause legate a quest’ultima). Epatopatie in gravidanza A. Ittero. L’ittero in gravidanza si verifica in 1 caso su 1500 con un’incidenza tra 1:300 e 1:5000. Il 40% degli itteri è determinato da patologie infettive, il 20% da colestasi intraepatica e il 10% da altre complicanze della gestazione, mentre piuttosto rare sono le forme correlate a litiasi biliare o a emolisi. Tutte le forme di ittero in gravidanza predispongono ad un parto prematuro. B. Epatite acuta. L’epatite virale è la causa più frequente di ittero in gravidanza, ricordando che le gestanti non sono maggiormente suscettibili all’infezione da virus epatotropi rispetto ai soggetti normali. L’epatite può insorgere in qualsiasi periodo della gravidanza ed il suo decorso non è diverso da quello tipico anche se l’ittero ed i sintomi più comuni (febbre, nausea, vomito, astenia) sono spesso più lievi e meno rilevante l’incremento delle transaminasi (ALT di rado > 1000 U/l). Peraltro l’impronta colestatica può essere più accentuata nelle pazienti gravide e, talora, può protrarsi anche nel corso del puerperio. La mortalità è identica, o perfino minore, rispetto a quella della popolazione generale (in media 1,8%) con l’eccezione per l’epatite da virus E (15-20%). Un parto prematuro si verifica nel 40-90% delle madri itteriche e la sorte finale del bambino dipende dal suo stato di maturità gestazionale, mentre nelle forme più gravi, con insufficienza epatica acuta, è frequente l’aborto spontaneo (l’aborto spontaneo o indotto migliora, comunque, il quadro clinico della malattia). Diversi altri agenti infettivi possono essere responsabili, con variabile frequenza, di epatite acuta in gravidanza; in particolare, va ricordata la gravità dell’infezione da virus erpetici, soprattutto da herpes simplex. C. Epatite cronica. L’epatite cronica permette una gravidanza normale, con l’eccezione delle forme più
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gravi in cui può essere riscontrato un variabile grado di sofferenza fetale. Nel caso di epatite autoimmune, che viene spesso diagnosticata in età fertile, è consigliabile il proseguimento della terapia corticosteroidea (e/o di altri immunosoppressori come l’azatioprina) per tutta la durata della gravidanza. D. Cirrosi epatica. La cirrosi epatica e la gravidanza sono raramente concomitanti poiché nelle pazienti cirrotiche la fecondazione è impedita per effetto della amenorrea o oligomenorrea o a seguito di cicli anovulatori. In genere, peraltro, la gestazione è ben tollerata e solo in 1/5 dei casi compaiono sintomi e/o segni di scompenso della malattia (ascite, ittero, ecc.) e l’evento è particolarmente importante quando si verifica nel 1° trimestre di gravidanza (in questo caso si consiglia l’induzione dell’aborto). Il rischio di rottura di varici gastroesofagee è maggiore nel 3° trimestre e molto temibile è l’emorragia post partum poiché la trombocitopenia da ipersplenismo accentua il rischio di sanguinamento rilevante. In sintesi, nelle pazienti con cirrosi scompensata si osserva un’aumentata incidenza di danni fetali: 8% di aborti, 10% di nati morti e 15% di prematuri. E. Ittero da farmaci. L’ittero da farmaci è piuttosto frequente in gravidanza e può essere determinato da: • somministrazione di farmaci in pazienti affetti da carenza di glucosio-6-fosfato-deidrogenasi (“favismo”); • farmaci con azione tossica diretta (per es., nitrofurantoina, tetracicline, ecc.); • farmaci che interferiscono con la secrezione biliare (per es., clorpromazina, ecc.). F. Ittero da litiasi biliare. La litiasi biliare si verifica nelle pazienti gravide per riduzione della motilità della colecisti con svuotamento rallentato di questo organo e la sua incidenza aumenta nei casi in cui sia presente colestasi ricorrente intraepatica della gravidanza (si veda Cap. 26). G. Ittero da iperbilirubinemie croniche idiopatiche. La sindrome di Gilbert e la sindrome di Rotor non sono influenzate e non influenzano la gravidanza, mentre la sindrome di Dubin-Johnson può determinare un marcato aumento della bilirubinemia che si correla ad un rischio variabile di aborto spontaneo e di mortalità perinatale. La gravidanza e l’uso di contraccettivi orali possono provocare la comparsa di ittero nelle donne affette da colestasi intraepatica ricorrente benigna (si veda Cap. 26). H. Anemie emolitiche. In gravidanza, condizioni di emolisi cronica come quella della sferocitosi congenita possono aggravarsi e, in qualche caso, può rendersi necessaria la splenectomia. Un’elevata mortalità per la madre ed il bambino si verifica, inoltre, in presenza di emoglobinopatie come l’anemia drepanocitica (S-C) o le varianti S-S e/o C-C.
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I. Altre patologie. Nella malattia di Wilson la gravidanza è ben tollerata purché venga trattata con regolarità (con l’impiego di agenti chelanti come la D-penicillamina o la trientina), poiché l’interruzione del trattamento può determinare epatite fulminante. Nella cirrosi biliare primitiva la gravidanza è piuttosto rara poiché la sua maggiore incidenza si verifica in età menopausale e, comunque, se presente, viene abitualmente ben tollerata. Regolare è anche il decorso della gestazione in caso di emocromatosi che, peraltro, come la cirrosi biliare, si manifesta di regola dopo la fine del periodo fertile. Per quanto riguarda, infine, le malattie neoplastiche del fegato, va ricordato che l’iperplasia focale nodulare e l’adenoma epatico sono tumori estrogeno-sensibili e abitualmente aumentano di dimensioni nel corso della gravidanza, tanto da richiedere talvolta il ricorso all’intervento chirurgico per la loro asportazione. Epatopatie della gravidanza A. Iperemesi gravidica. Si verifica nel 1° trimestre (al più tardi entro la 20ª settimana di gestazione) e i sintomi principali sono rappresentati da nausea e vomito. In più del 50% dei casi si riscontra un aumento degli enzimi epatici, in genere non particolarmente rilevante (transaminasi e fosfatasi alcalina non più di 2-3-4 volte rispetto ai valori normali), mentre la bilirubinemia di rado supera i 4 mg/dl (più spesso iperbilirubinemia di tipo misto). La causa di tali alterazioni sembra potersi correlare alle particolari condizioni di nutrizione delle donne in gravidanza (in cui è piuttosto frequente qualche problema di malnutrizione) e/o ad anomalie nell’escrezione della bilirubina. I valori ritornano rapidamente entro i limiti di norma dopo pochi giorni di adeguata nutrizione (la nutrizione parenterale totale rappresenta, infatti, un’efficace terapia e permette una regolare crescita fetale, mentre la metoclopramide costituisce una valida risorsa per il controllo del vomito e della nausea, anche se bisogna tenere conto dei suoi effetti collaterali per la sua attività sul sistema nervoso centrale). B. Colestasi intraepatica della gravidanza. Di essa s’è già detto nel capitolo 26; il sintomo principale è il prurito, diffuso in tutto il corpo e, spesso, più marcato durante la notte. L’ittero si manifesta nel 20-60% delle pazienti, in genere dopo qualche settimana dall’esordio del prurito e, come quest’ultimo, persiste fino al momento del parto per poi scomparire rapidamente. La colestasi intraepatica (sindrome di Svanborg) è più frequente nelle donne con storia familiare di tale patologia e in quelle che hanno sofferto di colestasi durante l’assunzione di contraccettivi orali (tra l’altro, in presenza di questa condizione il rischio di sviluppare colelitiasi è costantemente aumentato). La bilirubinemia può essere elevata (iperbilirubinemia diretta), ma raramente supera i 6 mg/dl; le transaminasi aumentano di 2-10 volte e la fosfatasi alcalina anche di 4-5 volte rispetto ai livelli normali (per contro,
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l’incremento della concentrazione degli acidi biliari va da 10 a 100 volte). La colestasi intraepatica è associata ad aumentato rischio di nascita prematura e/o aborto ed il suo trattamento comprende l’impiego della colestiramina (chelante dei sali biliari) oppure degli acidi biliari, o anche della S-adenosilmetionina, mentre il fenobarbital è efficace per la terapia del prurito notturno (ma si correla alla comparsa di anomalie a carico del feto). C. Steatosi epatica acuta della gravidanza. Si verifica di solito nel 3° trimestre di gravidanza e la sua incidenza è di 1 ogni 13.000 gravidanze (più colpite le donne con gravidanze gemellari e quelle con deficit di 3-idrossi-coenzima A-deidrogenasi che comporta la riduzione del processo di -ossidazione degli acidi grassi a livello mitocondriale negli epatociti). La sintomatologia esordisce in maniera insidiosa con nausea e vomito (70% dei casi), dolori in epigastrio e/o in ipocondrio destro (50-80%), sindrome similinfluenzale, malessere generale, anoressia e, dopo 1-2 settimane, ittero, mentre è infrequente il prurito. Tutti gli indici di funzionalità epatica sono variamente alterati (transaminasi oltre 300 U/l, iperammoniemia, ipoalbuminemia) ed è possibile l’insorgenza, in una certa percentuale di casi, di epatopatia di entità anche molto grave con encefalopatia ingravescente fino al coma vero e proprio (tra l’altro, si riscontra coagulazione intravascolare disseminata in circa il 75% di queste pazienti). Se la steatosi acuta non viene prontamente diagnosticata e trattata, la mortalità materna e fetale può raggiungere l’85% dei casi e l’interruzione immediata della gravidanza è consigliata in un’elevata percentuale di pazienti (per quelle che arrivano al parto, le condizioni possono permanere gravi anche per le successive 24-48 ore, ma in seguito il più delle volte migliorano gradualmente ed il trapianto di fegato è raramente necessario). D. Pre-eclampsia ed eclampsia. Si manifestano nel 2° e 3° trimestre di gravidanza e l’incidenza è compresa tra il 5 e il 10% (tra i fattori di rischio si annoverano l’ipertensione arteriosa, l’età avanzata e le gravidanze multiple). Clinicamente, la pre-eclampsia è caratterizzata da ipertensione (aumento della pressione sistolica di 30 mmHg e di quella diastolica di 15 mmHg rispetto ai valori del 3° trimestre di gravidanza o qualunque valore al di sopra di 140/90 mmHg), edemi, proteinuria e, con minore frequenza, cefalea, deficit del virus, iperreflessia, mentre l’eclampsia si accompagna anche a convulsioni e coma. L’incremento delle transaminasi è variabile, ma in genere non rilevante (di rado > 500 U/ml) così come quello della bilirubina (di solito < 5 mg/dl) e livelli più elevati possono suggerire la presenza di infarto epatico, ematoma sottocapsulare o epatite virale. L’eziopatogenesi è sconosciuta, ma sembra correlarsi ad un’alterata reattività endoteliale che determina ipertensione e deposito intravascolare di fibrina; le possibili complicanze sono rappresentate da edema cerebrale,
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infarto epatico, insufficienza renale acuta, scompenso cardiaco, sindrome da distress respiratorio. La mortalità materna è inferiore all’1% se la diagnosi e la terapia sono tempestive; la mortalità natale è legata alla gravità delle manifestazioni cliniche. In caso di pre-eclampsia grave è possibile l’insorgenza della cosiddetta “HELLP syndrome” (emolisi, elevati enzimi epatici, piastrinopenia, pre-eclampsia) che si osserva nello 0,1-0,6% di tutte le gravidanze, ma nel 412% di tutte le pre-eclampsie di grado marcato. La HELLP syndrome si verifica, per i 2/3 dei casi, tra la 27a e la 36a settimana di gestazione e, in 1/3, dopo il parto. L’ittero è presente solo nel 5% dei casi; la mortalità materna si aggira intorno all’1-3% (ma in alcune casistiche anche al 25%) e quella perinatale è di circa il 35%. Meno frequente, rispetto alla steatosi acuta della gravidanza, la coagulazione intravascolare disseminata (20-40%). Il parto rappresenta il trattamento principale di questa sindrome purché si associ a completa maturità fetale (meglio se dopo la 36a settimana di gestazione); in certi casi può rivelarsi utile l’impiego di corticosteroidi e della plasmaferesi (quest’ultima soprattutto in presenza di persistente trombocitopenia). E. Sindrome di Budd-Chiari. È una complicanza molto rara della gravidanza ed è spesso associata all’uso di contraccettivi orali (di tutti i casi descritti in letteratura circa il 15% delle sindromi di Budd-Chiari si verifica in pazienti gravide). Il quadro clinico è caratterizzato dalla classica triade dolore addominale, ascite, epatomegalia con insufficienza epatica ad esordio acuto e con andamento ingravescente; l’eziopatogenesi è correlata a trombosi delle vene sovraepatiche con necrosi epatocitaria ed ipertensione portale. In una discreta percentuale di casi sono presenti condizioni ereditarie determinanti trombofilia come fattore V Leiden, deficit di proteina C e/o proteina S, ecc.
EPATITI CRONICHE L’epatite cronica è una malattia necrotico-infiammatoria del fegato in cui si verifica persistenza nel tempo (per più di 6 mesi) dei fenomeni di necrosi delle cellule epatiche e dei processi di carattere infiammatorio, evidenziabili in varia misura all’esame istologico, che sono tipici dell’epatite. Per convenzione, quest’ultima viene definita acuta se l’alterazione delle transaminasi (in particolare ALT) non si protrae per oltre 6 mesi (in realtà, come s’è visto nel capitolo precedente, la fase clinica dell’epatite acuta ha una durata, di solito, di 4-6 settimane; se è maggiore, l’epatite viene più correttamente chiamata “protratta”). L’epatite cronica può essere provocata da agenti diversi, infettivi e non; per quanto riguarda l’epatite virale
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cronica, la maggior parte dei virus che possono determinare malattia acuta (si veda Cap. 29) è anche in grado di indurre epatite cronica (ad eccezione di HAV e HEV). Ne consegue che questa malattia può sussistere in forme diverse, dal punto di vista eziologico, clinico, biochimico e sierologico, e la sua storia naturale può risultare molto variabile; per contro, le caratteristiche istopatologiche, in tutti i casi, sono sovrapponibili indipendentemente dalla causa e ad esse si fa riferimento per la sua classificazione. Classificazione istopatologica delle epatiti virali croniche La classificazione anatomopatologica dell’epatite cronica classicamente distingue due varianti principali, quella ad attività “moderata” e quella ad attività “severa”, quest’ultima, in linea di massima, riconducibile all’epatite cronica “attiva”. A. La variante ad attività moderata comprende, a sua volta, tre forme differenti. 1. Epatite reattiva aspecifica. È caratterizzata da alterazioni istologiche minime o modeste: aree focali di necrosi epatocitaria, attivazione delle cellule del Kupffer e modesto infiltrato di elementi mononucleati negli spazi portali. Può essere considerata, in fondo, come una forma di passaggio, almeno dal punto di vista anatomopatologico, tra l’epatite cronica lobulare (ECL), rispetto alla quale le alterazioni in sede lobulare sono più modeste, e l’epatite cronica persistente (ECP), in cui l’infiltrato infiammatorio a carico degli spazi portali è più abbondante (si veda in seguito). 2. Epatite cronica persistente (ECP). Corrisponde, sul piano morfologico, alla cosiddetta epatite portale. In questa variante della malattia, descritta da Smetana nel 1954, il reperto istopatologico è caratterizzato da infiltrazione, più o meno rilevante, degli spazi portali da parte di elementi mononucleati, soprattutto linfociti (“portite”). Peraltro, la lamina limitante è indenne e la struttura lobulare conservata (i fenomeni necrotici sono scarsissimi e rappresentati esclusivamente da piccole aree di necrosi focale senza “piecemeal necrosis” o necrosi “a spizzichi”, che, invece, contraddistingue l’epatite cronica attiva). Abbastanza spesso si può osservare un aspetto cosiddetto “a ciottolato” degli epatociti, dovuto alla parziale sovrapposizione delle cellule con citoplasma pallido ed espanso e nucleo bene evidente, mentre, con particolari tecniche di colorazione, è possibile mettere in evidenza cellule “a vetro smerigliato” e nucleo “sabbioso”, per la presenza rispettivamente di HBsAg nel citoplasma e di HBcAg nel nucleo. 3. Epatite cronica lobulare (ECL). È stata descritta da Popper e Schaffner nel 1971 per definire un reperto istopatologico caratterizzato da alterazioni necrotiche e infiammatorie a livello lobulare sovrapponibili a quelle che si riscontrano più tipicamente nell’epatite acuta. In questi casi l’infiltrato infiammatorio a livello portale è
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in genere modesto, mentre in sede lobulare, nelle fasi di attività della malattia, si osservano lievi segni di flogosi e di necrosi focale (“spotty necrosis”).
anatomopatologiche e cliniche della ECA, che la contraddistinguono nettamente dalle altre due varietà di epatite cronica.
B. La variante ad attività severa dell’epatite cronica corrisponde alla cosiddetta epatite cronica “attiva” (o “aggressiva” o ECA) nelle diverse forme ad attività minima, lieve, moderata e grave. Dal punto di vista anatomopatologico l’alterazione fondamentale è rappresentata dalla piecemeal necrosis, che è più o meno evidente in rapporto alla gravità della malattia. Per piecemeal necrosis si intende necrosi periportale con alterazione della lamina limitante (che separa lo spazio portale dal parenchima lobulare) e con un infiltrato di cellule infiammatorie (in particolare linfociti) che appaiono in stretto rapporto con gli epatociti, i quali mostrano quadri differenti di sofferenza. In alcuni casi, inoltre, si può riscontrare la presenza di setti fibrotici (setti “attivi”, cioè ricchi di elementi infiammatori), che concorrono al progressivo sovvertimento dell’architettura lobulare che è espressione della graduale evoluzione della malattia in cirrosi epatica. L’entità dei fenomeni necrotici e di quelli infiammatori può essere molto variabile così come il grado di fibrosi che in genere accompagna questa forma di epatite; le differenti caratteristiche istologiche di questa malattia riflettono il diverso andamento del quadro clinico (si veda oltre). I caratteri distintivi più significativi della ECP, della ECL e della ECA sono riportati nella tabella 30.1. Attualmente, peraltro, la classificazione delle epatiti croniche fa riferimento da una parte al grado delle alterazioni necrotico-infiammatorie (“grading”) e, dall’altra, al grado di fibrosi (“staging”), e tali criteri hanno portato a una nuova definizione nosografica di questa malattia che va sostituendo la tradizionale classificazione in ECP, ECL e ECA (si veda Epatite autoimmune). Tuttavia, da un punto di vista pratico, può essere conveniente rifarsi ancora a quest’ultima e trattare separatamente da un lato l’ECP e l’ECL e dall’altro l’ECA, tenendo conto delle molte somiglianze esistenti tra i primi due tipi sia per quel che riguarda le caratteristiche istologiche sia per quel che concerne la storia clinica, e considerando, nel contempo, le peculiarità eziologiche,
Epatite cronica persistente ed epatite cronica lobulare L’epatite cronica persistente (ECP) e l’epatite cronica lobulare (ECL) conseguono ad un’infezione da virus dell’epatite B e/o da virus dell’epatite non-A non-B. In generale, entrambe queste forme di epatite cronica non hanno un decorso progressivo e l’evoluzione verso l’insufficienza epatica e la cirrosi è estremamente rara. Tuttavia, in alcuni casi, può accadere che un’epatite cronica attiva non venga riconosciuta se l’osservazione diagnostica viene effettuata durante un periodo di remissione della malattia, in coincidenza del quale il quadro istologico può anche essere suggestivo di ECP o di ECL. Un’altra eccezione alla non evolutività della ECP e della ECL è rappresentata da quei pazienti con positività per l’HBsAg, nei quali una sovrinfezione da parte del virus D può condurre allo sviluppo di ECA. A. Clinica. La maggior parte dei pazienti con ECP o ECL è asintomatica; in alcuni casi può essere riferita una sintomatologia del tutto aspecifica sotto forma di disturbi dispeptici di variabile grado (anoressia, nausea, peso epigastrico postprandiale, talora anche vomito). L’esame obiettivo è di solito normale, tuttavia può essere apprezzabile, di frequente, una modesta epatomegalia con dolorabilità alla palpazione dell’addome in ipocondrio destro. Gli esami di laboratorio mostrano, di regola, un lieve aumento delle transaminasi, della -GT e della fosfatasi alcalina e tale alterazione può persistere nel tempo per molti mesi o anche per anni. Nelle fasi di attività della ECL, i livelli sierici delle transaminasi possono essere anche vicini a quelli che si riscontrano abitualmente nell’epatite virale acuta. Le funzioni sintetiche del fegato sono generalmente conservate (tempo di Quick normale o moderatamente allungato, non deficit di pseudocolinesterasi, buona sintesi di albumina) ed è molto rara la presenza di ittero rilevante.
Tabella 30.1 - Caratteri distintivi fondamentali tra ECP, ECL e ECA. ECP • Aspetti clinici Esordio simile a quello dell’epatite acuta Episodi acuti ricorrenti Interessamento extraepatico Prognosi • Aspetti istologici Piecemeal necrosis Sede del processo infiammatorio Architettura lobulare Fibrosi Evoluzione in cirrosi
ECL
ECA
70% Infrequenti Raro Buona
90% Frequenti Raro Buona
30% Frequenti Frequente Variabile
Assente (o eccezionale) Spazi portali
Assente (o eccezionale) Spazi portali e lobuli epatici (in fase attiva) Conservata Assai modesta Eccezionale
Tipica Spazi portali e lobuli epatici Sovvertita Frequente Frequente
Conservata Assai modesta Eccezionale
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B. Terapia. Una volta stabilita la diagnosi di ECP o di ECL, mediante agobiopsia epatica, nessuna terapia è necessaria dal momento che tali forme di epatite non tendono ad evolvere in fibrosi e in cirrosi, salvo alcuni casi eccezionali. In presenza di queste malattie, sono, per altro, raccomandabili periodici controlli clinici e di laboratorio (per es., ogni 6-12 mesi a seconda dei casi), fino a che i valori delle transaminasi non si siano normalizzati o si mantengano stabili poco al di sopra dei limiti di normalità, e allo scopo di identificare quei rari pazienti nei quali si verifica sfortunatamente un’evoluzione di queste epatopatie verso l’ECA. Epatite cronica attiva A. Eziologia. La capacità del virus B di provocare ECA è ben accertata da tempo al di là di ogni dubbio: infatti, una larga percentuale dei pazienti affetti da questa malattia sono positivi per l’HBsAg; non solo, ma abbastanza spesso, la presenza di HBsAg nel siero si accompagna a quella per l’HBeAg. Tuttavia, è ugualmente certo che non tutti i casi di ECA sono provocati da HBV: infatti, è stato osservato che nella maggior parte di questi pazienti si riscontra la persistente negatività di HBsAg (e degli altri marker sierologici di HBV). Per tale motivo, in passato venivano distinte, dal punto di vista eziologico (e/o eziopatogenetico), due forme principali di ECA: • ECA senza autoanticorpi (o con autoanticorpi a basso titolo) nel siero; • ECA con autoanticorpi nel siero a titolo elevato (o relativamente elevato). Per autoanticorpi si intendono anticorpi diretti contro vari costituenti dell’organismo, non organo-specifici (antinucleo, antimuscolo liscio, antimitocondrio), ma anche organo-specifici (per es., anti-LKM-1, anti SLA, ecc.; si veda oltre). Le forme di ECA senza autoanticorpi, che sono più comuni nel sesso maschile e prevalentemente distribuite nell’Europa meridionale ed in Oriente, si ammetteva fossero provocate dalla persistente azione infettante del virus dell’epatite. Escluso, per ragioni epidemiologiche, il virus A (che non sembra essere in grado di indurre ECA anche se recenti segnalazioni indicherebbero alcune rare eccezioni a tale affermazione), queste forme di ECA so-
no state correlate eziologicamente ai virus non-A non-B; oggi, tenendo conto delle conoscenze acquisite sulle caratteristiche dei virus dell’epatite (e di cui s’è ampiamente parlato nel capitolo 29), si può senz’altro affermare che la stragrande maggioranza di questi casi è da riferire al virus C (l’HDV può dare, infatti, ECA, ma, per le cose già dette, sarebbe presente una contemporanea infezione da HBV; non è stata dimostrata, invece, la cronicizzazione dell’epatite da HEV). Le forme con autoanticorpi ad alto titolo, che sono più comuni nelle donne e prevalentemente distribuite nel Nord Europa e negli USA, si suppone siano genuinamente autoimmuni. In questi casi è sempre possibile che il virus B e i virus non-A non-B abbiano avuto un ruolo scatenante il processo autoimmune, ma questa relazione eziologica resta congetturale nella maggior parte dei casi. Un ruolo eziologico preciso nell’induzione dell’epatite cronica attiva con meccanismo autoimmune è stato riconosciuto per alcuni farmaci: l’ossifenisatina, un lassativo non in commercio in Italia, e l’-metildopa, un preparato antipertensivo molto comune anche nel nostro paese, talvolta responsabile anche di epatopatia tossica con meccanismo idiosincrasico (in tutti questi casi, naturalmente, l’epatite è HBsAg–). Occorre precisare che l’epatite cronica attiva indotta da farmaci è eccezionalmente rara (altri farmaci cui può essere associata sono: la nitrofurantoina, l’isoniazide e il dantrolene). Un interessante aspetto della varietà autoimmune dell’epatite cronica è il fatto che è riconoscibile un certo condizionamento genetico nella predisposizione a questa malattia. Infatti, tra i pazienti che ne sono affetti è dimostrabile una frequenza decisamente più elevata di alcuni antigeni di istocompatibilità come HLA-B8, HLA-DR3, HLAA1, HLA-DR4, ecc., rispetto alla popolazione generale. Delle caratteristiche dell’epatite autoimmune, comunque, si parla più ampiamente nel paragrafo ad essa dedicato - pag. 579, mentre la tabella 30.2 riporta in forma riepilogativa gli aspetti clinici più significativi delle forme di ECA di cui s’è detto. B. Patogenesi. Il modello più studiato e conosciuto di ECA è sicuramente quello da HBV, il quale bene si presta alla definizione dei principali aspetti eziopatogenetici di questa malattia.
Tabella 30.2 - Caratteristiche significative delle diverse forme di ECA. HBsAg+ Sesso (donna/uomo)
HBsAg– NON AUTOIMMUNE (HCV+)
20:80
AUTOIMMUNE
50:50
65:35
Prevalenza di anticorpi (anti-nucleo, antimuscolo liscio, ecc.)
Scarsa e a titolo basso
Scarsa e a titolo basso
Elevata e a titolo alto
Distribuzione geografica
Oriente, Sud Europa (praticamente ubiquitaria)
Oriente, Sud Europa (praticamente ubiquitaria)
USA, Nord Europa
Associazione con HLA-DR3, HLA-B8, HLA-A1, ecc.
Assente
Assente
Presente
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Come già ricordato nel capitolo precedente (si veda Cap. 29), è noto da tempo che il virus dell’epatite B non è direttamente citopatico e si ammette che il danno provocato da HBV negli epatociti, sia nell’epatite acuta sia in quella cronica, sia piuttosto l’espressione della risposta immunitaria dell’organismo nei confronti dell’infezione. La patogenesi della ECA (da HBV e, verosimilmente, anche da HCV) non differisce da quella dell’epatite acuta, alla cui descrizione si rimanda (si veda Cap. 29). Nelle forme HBsAg+ ed in quelle HBsAg– non autoimmuni (da HCV), è verosimile che un importante bersaglio della reazione immunitaria siano proteine codificate dai virus alla superficie degli epatociti, dal virus B nel primo caso e dal virus C nel secondo. In questo comportamento l’epatite cronica attiva non differirebbe dall’epatite acuta virale; come in quest’ultima, infatti, anche in tali varianti dell’epatite cronica attiva si può avere la formazione di particolari autoanticorpi (antimuscolo liscio, antinucleo o altri), ma in genere, come si è visto, con prevalenza scarsa ed a titolo basso. Si pensa che, in questo caso, l’autoimmunità sia un epifenomeno del danneggiamento cellulare indotto dall’infezione virale e che venga messa in moto dalla denaturazione di antigeni presenti a livello degli epatociti (gli antigeni denaturati, perciò, non verrebbero più riconosciuti come costituenti del se stesso ed evocherebbero una risposta immunitaria). Nell’ECA di origine più genuinamente autoimmune, il bersaglio della reazione immunitaria è, invece, costituito esclusivamente da autoantigeni: questi sono non soltanto costituenti del se stesso denaturati, ma anche costituenti allo stato nativo come gli antigeni LKM-1 o SLA, ecc. (si veda oltre). Inoltre, come s’è visto, la prevalenza degli autoanticorpi è elevata in questa variante della malattia ed il loro titolo nel siero è sempre piuttosto alto. Si può discutere che cosa metta in moto questo processo autoimmunitario, ma è certo che tra l’autoimmunità che si verifica in questa forma di ECA e quella delle altre varianti di questa epatopatia esiste una sostanziale differenza. Infatti, nella ECA sostenuta dai virus B e C, l’autoimmunità si mantiene fintanto che persiste il danno degli epatociti dipendente dalla presenza del virus; invece, nella ECA autoimmune, l’autoimmunità si mantiene indipendentemente dalla persistenza di ogni causa esogena. Si pensa, perciò, che nella varietà autoimmune della ECA il difetto fondamentale consista in un’inadeguata regolazione delle risposte immunitarie per inefficienza dei meccanismi di controllo messi in atto normalmente dai linfociti T “suppressor” (quei linfociti, cioè, che sono preposti alla modulazione delle normali risposte immunitarie e che agiscono come “barriera” contro l’autoimmunità). Questa condizione sembra essere geneticamente determinata, come è dimostrato dalla frequente associazione della malattia con gli antigeni di istocompatibilità HLA-DR3, HLA-B8, HLA-A1, HLADR4 (gli stessi che sono prevalenti in altre malattie a patogenesi autoimmunitaria): non è, perciò, sorpren-
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dente che in una buona percentuale di casi di ECA autoimmune coesistano altre manifestazioni cliniche a patogenesi autoimmunitaria. In sintesi, è chiaro che in tutte le forme di questa malattia l’immunità cellulare gioca un ruolo molto importante, quale che sia il bersaglio della reazione (il processo immunitario si realizza attraverso le modalità tipiche di una reazione di tipo IV secondo Gell e Coombs). D’altra parte, anche l’immunità umorale svolge un ruolo di rilievo nell’ambito della patogenesi della ECA in quanto, come già visto per l’epatite acuta, gli anticorpi circolanti possono formare complessi antigeneanticorpo di dimensioni tali da poter essere fagocitati dalle cellule macrofagiche con conseguente eliminazione del virus. C. Storia naturale dell’infezione da HBV e HCV. Le conoscenze, acquisite più di recente, sulle caratteristiche del virus B ed, in particolare, dei suoi principali marker sierologici, rivestono particolare importanza nel comprendere la storia naturale dell’infezione da HBV. Attualmente, infatti, si possono formulare soltanto alcune ipotesi riguardo il motivo per cui taluni individui non sono in grado di eliminare il virus e sviluppano un’infezione cronica e perché solo alcuni di essi presentano una malattia necrotico-infiammatoria del fegato. Secondo recenti ricerche, relative al periodo di incubazione dell’epatite B, sembrerebbe che i linfociti T citossici siano sensibilizzati, in ordine di tempo, prima nei confronti degli antigeni pre-S e, quindi, immediatamente prima della comparsa degli anticorpi anti-HBc IgM, nei confronti di HBcAg. In seguito, pochi giorni prima dell’insorgenza dei segni biochimici di necrosi epatocellulare, vi sarebbe una spiccata accentuazione della risposta verso HBcAg. È possibile che la sensibilizzazione dei linfociti T citotossici nei confronti di tale antigene (che non sembra dimostrabile nei soggetti con ECA da HBV) possa risultare importante non soltanto nella patogenesi del danno epatocitario nella fase acuta della malattia, ma anche nell’indurre la clearance di HBV e, quindi, la sua guarigione. Ai fini della guarigione, tuttavia, è indispensabile che, oltre all’eliminazione delle cellule infettate (effetto, come già detto, della reazione immunitaria cellulomediata), venga anche impedita l’infezione di altri epatociti da parte di virus liberati con la necrosi delle cellule infettate (e ciò può avvenire solamente in presenza di un’adeguata produzione di anticorpi neutralizzanti). A questo proposito, di recente, nella regione pre-S2 del genoma di HBV, è stato identificato il gene che codifica per una proteina che si comporta da recettore per l’albumina polimerizzata. Sulla membrana degli epatociti, d’altra parte, esiste un recettore analogo e questo ha indotto a formulare l’ipotesi che sia proprio l’albumina polimerizzata ad avere il ruolo di struttura “ponte” tra la particella virale e la superficie delle cellule, così da essere responsabile dell’adesione del virus agli epatociti, che rappresenta il momento indispensabile perché abbia il via l’infezione (da questo punto di vista si ipotizza anche che la for-
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mazione di anticorpi anti-pre-S2 consenta di bloccare i recettori per l’albumina polimerizzata e, di conseguenza, di impedire che vengano infettati gli epatociti indenni ottenendo, in questo modo, di neutralizzare l’HBV favorendone nel contempo la “clearance”, cioè l’eliminazione dall’organismo). Una volta avvenuta l’infezione, come già descritto nel capitolo 29 dedicato all’epatite acuta, si sviluppa la risposta immunitaria dell’ospite, responsabile del quadro clinico della malattia così come della sua risoluzione nelle forme, che sono la stragrande maggioranza, ad evoluzione favorevole con guarigione completa ed eliminazione del virus. Il bersaglio dei linfociti T a livello delle cellule epatiche è sempre rappresentato da HBcAg e HBeAg, ma quando la reazione immunitaria non è adeguata potranno verificarsi due condizioni: • la malattia evolve in epatite cronica; • il paziente rimane portatore cronico di HBsAg. La prima evenienza si verifica nel 5-10% di tutti i casi (per l’epatite da HCV la percentuale è molto più elevata, ben oltre il 50% dei casi e fino all’80%). Il portatore cronico di HBsAg è un soggetto che si mantiene positivo per HBsAg per oltre 6 mesi dall’epoca dell’infezione (in tutto il mondo si calcola che i portatori cronici di HBsAg siano tra i 300 e i 400 milioni). Dal punto di vista clinico, tuttavia, questi pazienti possono presentare un comportamento molto differente (diverso può essere il quadro sintomatologico, biochimico ed istologico) così come molto variabile può essere la capacità di trasmettere l’infezione agli individui con i quali hanno rapporti abituali o sporadici (soprattutto partner sessuali), talora molto elevata, talora estremamente infrequente se non addirittura assente. Nel caso in cui i pazienti non mostrino alcun segno clinico di malattia, essi vengono di regola denominati portatori cronici “sani” di HBsAg (assenza di manifestazioni cliniche di qualsiasi genere, normalità delle transaminasi, HBV-DNA assente nel siero o presente in quantità non significativa), per quanto tale definizione possa risultare impropria poiché, come è noto, anche una buona parte dei soggetti con epatite cronica attiva è praticamente asintomatica. Infatti, come si dirà più avanti, questa malattia può presentarsi in forme molto disparate ed il quadro clinico, nel suo complesso, non consente in ogni caso di riconoscere l’epatite a carattere non evolutivo da quella che, invece, ha tendenza a trasformarsi più o meno rapidamente in cirrosi. Inoltre, anche il livello delle transaminasi non sempre rappresenta un indice attendibile della gravità della malattia poiché, pur in presenza di epatite cronica grave, il valore di ALT può ancora essere normale o solo modicamente alterato e possono verificarsi periodiche, spontanee fluttuazioni (queste ultime sono ancora più caratteristiche nell’epatite cronica HCV-correlata in cui l’andamento di ALT è definito a “yo-yo” o “a montagne russe”, dove ad ogni elevazione si ritiene probabile corrisponda una poussée viremica). Per tali ragioni la diagnosi differenziale tra portatore
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sano di HBsAg e paziente con epatite cronica HBV-correlata richiede il supporto fondamentale dell’esame istologico del fegato mediante biopsia. Nel primo caso, infatti, il parenchima epatico non presenta alcuna modificazione istologica oppure alterazioni molto lievi di carattere infiammatorio; semmai il reperto più suggestivo è la frequente presenza nel portatore sano di cellule “a vetro smerigliato” (“groundglass cells”), spesso in quantità rilevante, che sono l’espressione degli epatociti nel cui citoplasma si trovano concentrazioni significative di HBsAg (il nucleo di queste cellule può, a sua volta, assumere aspetto “sabbioso” per la presenza di HBcAg). D’altra parte non sempre è possibile, in questi pazienti, per svariati motivi, l’esecuzione della biopsia epatica ed in tal caso, come valida alternativa, si potrà ricorrere, a scopo diagnostico, alla determinazione degli indici di replicazione virale. I pazienti con epatite cronica attiva da HBV presentano livelli sierici variamente aumentati di HBV-DNA (a indicare l’esistenza in circolo di virioni completi), mentre nei portatori sani l’HBV-DNA non è determinabile nel siero o solo a livelli estremamente bassi (e, comunque, non significativi di replicazione virale, non superiori a 10 pg/ml). In questo caso l’HBV-DNA è integrato nel genoma dell’ospite e continua a codificare per l’HBsAg, ma non per gli altri antigeni del virus (in particolare HBeAg): ciò potrebbe essere la conseguenza del fatto che nei portatori sani è presente un virus difettivo come effetto di una mutazione nel genoma virale tale da rendere il virus stesso relativamente o del tutto inefficiente nella replicazione, ma ancora capace di operare la sintesi di alcune sue componenti come l’HBsAg (questa ipotesi troverebbe conferma nella recente identificazione di mutanti di HBV in pazienti con HBV-DNA nel siero, ma in mancanza di HBeAg, per quanto in altri casi, come si dirà più avanti, l’assenza di HBeAg nel sangue possa avere, invece, significato prognostico sfavorevole). D. Clinica. L’epatite cronica attiva consegue spesso ad un episodio di epatite acuta che direttamente evolve in forma cronica oppure, in circa la metà dei casi preceduti da epatite acuta, questa apparentemente guarisce e solo dopo un periodo di tempo compreso fra 3 mesi e 2 anni gradualmente si instaura l’epatite cronica. Esistono, poi, dei casi che esordiscono direttamente come forma cronica. Il quadro clinico della malattia è molto vario soprattutto perché molto differente può essere la gravità delle manifestazioni con cui essa si presenta. Esistono, infatti, forme apparentemente lievi in cui il paziente lamenta soltanto una certa astenia e modesta dispepsia; l’obiettività addominale evidenzia epatomegalia di grado anche modesto, spesso senza evidente splenomegalia, mentre le indagini di laboratorio mostrano una non rilevante alterazione dei parametri di funzionalità epatica. In altri casi, più gravi, il quadro clinico è simile a quello dell’epatite virale acuta ed è caratterizzato dalla presenza di ittero, epatomegalia an-
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che cospicua e splenomegalia, con fegato dolente alla palpazione; inoltre, sono spesso presenti alterazioni cutanee tipiche nell’insufficienza epatica di lunga durata, come l’eritema palmare e gli spider naevi; infine, anche le indagini di laboratorio documentano una compromissione più accentuata della funzionalità epatica. In pratica, l’evenienza più comune è quella di un andamento piuttosto irregolare con alternanza di periodi di relativa quiescenza, in cui il paziente sta abbastanza bene ed il quadro clinico è modesto, e di periodi di riacutizzazione, caratterizzati da sintomi e segni più marcati di insufficienza epatica, similmente a quanto avviene nell’epatite acuta. È abbastanza comune che le forme più gravi siano accompagnate da sintomi di carattere generale, soprattutto nelle fasi di recrudescenza dell’attività della malattia: in questi casi possono essere presenti febbre, dolori articolari (artralgie), manifestazioni cutanee pruriginose di tipo eritematoso, alterazioni infiammatorie delle sierose (per es., pleurite). In molti casi, dunque, l’epatite cronica attiva ha un quadro clinico simile a quello dell’epatite acuta, da cui si differenzia, in genere, per la minore acuzie della sintomatologia e per la sua maggiore durata nel tempo. Per quanto riguarda, invece, l’epatite cronica persistente, il quadro clinico è in genere di grado lieve e rappresenta, di solito, la prosecuzione nel tempo senza soluzione di continuità dell’epatite acuta con manifestazioni soggettive ed obiettive che hanno andamento piuttosto lineare e la cui entità è solitamente modesta. Anche le indagini di laboratorio confermano la presenza di una non rilevante compromissione dei parametri di funzionalità epatica. Alla fine di questo paragrafo è opportuno ricordare che il quadro clinico dell’epatite cronica può essere caratterizzato anche dalla presenza di diverse manifestazioni extraepatiche, generalmente a patogenesi immunologica. Esse sono di gran lunga più frequenti nell’epatite cronica da HCV rispetto a quella da HBV e comprendono una vasta gamma di patologie. Talora si tratta soltanto di sintomi generici quali artralgie, mialgie, parestesie oppure prurito e sindrome sicca o fenomeno di Raynaud. È stato stimato che uno almeno di questi sintomi è presente nel 74% dei pazienti con epatite cronica da HCV. L’associazione più ricorrente è quella con la crioglobulinemia mista essenziale (tipo II, ma anche III; si veda Cap. 69), la cui correlazione con il virus C è strettissima: anticorpi anti-HCV e/o HCV-RNA si riscontrano in più del 98% dei casi di crioglobulinemia mista, mentre circa il 35% dei pazienti con epatite cronica HCV-correlata presenta crioglobulinemia mista (di qui l’opportunità di ricercare l’HCV in tutti i soggetti con questa malattia e, viceversa, di indagare l’eventuale presenza di crioglobuline quando viene posta la diagnosi di epatite cronica da virus C). Nei pazienti in cui tali condizioni sono associate, il quadro clinico dell’epatite potrà comprendere i sintomi e/o segni tipici della crioglobulinemia come artralgie, fenomeno di Raynaud, porpora, glomerulonefrite, neuropatia, ecc.
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Un’altra patologia che si accompagna abbastanza spesso con l’epatite cronica da HCV è la porfiria cutanea tarda, la più comune forma di porfiria, che esiste in una variante sporadica (tipo I) e in una variante, meno frequente, familiare (tipo II) e che è dovuta alla ridotta attività dell’enzima uroporfirinogeno decarbossilasi (si veda Cap. 65); anticorpi anti-HCV e/o HCV-RNA sono presenti nel 60-80% dei casi (molto più rara, come per la crioglobulinemia mista, l’associazione con l’epatite da HBV), ma non è nota la causa di questa stretta correlazione tra le due patologie. Anche la glomerulonefrite membranosa e/o membrano-proliferativa è piuttosto comunemente associata con l’epatite cronica, sia B che C, come dimostra la presenza di antigeni virali negli immunocomplessi depositati a livello glomerulare, a indicare che questi virus sono in grado di innescare la reazione immunitaria che porta all’insorgenza del danno renale (a conferma di ciò sta il fatto che, come nella crioglobulinemia mista, anche in questo caso, buoni risultati, dal punto di vista terapeutico, si possono ottenere con l’impiego dell’IFN). Meno frequente è l’associazione, comunque ben maggiore per l’epatite da HCV che da HBV, con la sindrome di Sjögren (si veda Cap. 69), in percentuale molto variabile nelle diverse casistiche (dal 5-10 fino al 50% dei casi) o anche con il lichen ruber planus (la prevalenza di malattia epatica nei pazienti con questa patologia cutanea è superiore al 35%). Ancora più rara è la correlazione con la tiroidite autoimmune, la fibrosi polmonare idiopatica e le ulcere corneali di Mooren (queste ultime sono lesioni croniche, dolorose, che interessano la circonferenza della porzione periferica della cornea e possono progredire fino a perdita completa del visus; esse possono essere idiopatiche o conseguenti a interventi chirurgici per patologia oculare o a traumi o a infezioni da virus herpes zoster). Il virus dell’epatite B, inoltre, è frequentemente riscontrato nei soggetti con panarterite nodosa e, meno comunemente, in quelli con vasculite leucocitoclastica (si veda Cap. 69). Infine va ricordato che è stata di recente segnalata una significativa prevalenza di infezione da HCV tra i pazienti con linfoma non-Hodgkin a cellule B (tale segnalazione, inizialmente frutto di studi effettuati in Italia, è stata confermata in seguito anche da Autori americani). La causa di questa associazione non è nota, ma si ipotizza, anche tenendo conto della strettissima correlazione tra epatite cronica da HCV e crioglobulinemia mista, che il virus C possa svolgere un ruolo importante nell’induzione della proliferazione clonale delle cellule B (peraltro, su questo argomento saranno necessari ulteriori studi al fine di chiarirne l’esatto meccanismo patogenetico). E. Diagnosi. Gli esami di laboratorio mostrano un quadro simile a quello dell’epatite acuta, anche se di regola di intensità minore e di durata differente, poiché le alterazioni della funzionalità epatica tendono a mantenersi nel tempo ed eventualmente ad accentuarsi in relazione alla progressiva distruzione degli epatociti.
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Il dato più caratteristico è l’aumento delle transaminasi, con il tipico prevalente incremento della ALT che si riscontra anche nell’epatite virale acuta: rispetto a quest’ultima, inoltre, nell’epatite cronica attiva l’aumento delle transaminasi è generalmente di entità minore e i valori presentano frequenti oscillazioni in accordo con l’alternanza di fasi di quiescenza e di riacutizzazione della malattia. Sempre modesto è, invece, l’incremento di questi enzimi nella forma cronica persistente. Anche le funzioni sintetiche del fegato risultano a lungo andare variamente compromesse, come appare, soprattutto, dalla diminuita formazione di fattori della coagulazione con allungamento del tempo di protrombina, dal difetto di sintesi del colesterolo (con conseguente ipocolesterolemia) e della pseudocolinesterasi, e dall’ipoalbuminemia che caratterizza l’elettroforesi delle proteine del siero in tali pazienti. In quest’ultima è anche comune la presenza di ipergammaglobulinemia, tipicamente di tipo policlonale, come si verifica di regola nelle malattie a patogenesi immunitaria, in cui l’abnorme stimolazione dei B-linfociti comporta un aumento della produzione di anticorpi (tra questi è possibile il riscontro anche di autoanticorpi, per esempio antinucleo, antimuscolo liscio o anche antitiroide o cellule parietali gastriche, così come del fattore reumatoide, ecc.; tali autoanticorpi sono, ovviamente, ben più frequenti nell’epatite autoimmune vera e propria). In questi pazienti è positiva la ricerca di HBsAg (ed, eventualmente, di altri marker di HBV come, per esempio, HBeAg e HBV-DNA) e di HCV-RNA (oltre che di anticorpi anti-HCV) nel siero, che consentono di identificare l’eziologia dell’epatite cronica (70% circa da HCV, 20% da HBV, 10% da HBV+HCV). Il problema della diagnosi differenziale si pone soprattutto per la distinzione fra la forma attiva e la forma persistente o lobulare, oppure fra la prima e la cirrosi epatica. In genere, la presenza di un quadro clinico piuttosto modesto e di modeste alterazioni dei parametri di funzionalità epatica con assenza costante di autoanticorpi depone per un’epatite cronica persistente o lobulare; tuttavia, per quanto i criteri clinici possano essere importanti nella diagnosi differenziale tra queste epatopatie, molto spesso la certezza può derivare soltanto dall’esame istologico mediante biopsia, purché, naturalmente, questa indagine fondamentale possa essere effettuata per l’assenza di controindicazioni (soprattutto rischio di sanguinamento con emorragia peritoneale o emoperitoneo, se esiste un deficit della coagulazione, o anche di coleperitoneo per rottura di un grosso collettore della bile in presenza di grave colestasi). L’ecografia non risulta invece diagnostica, mostrando un’aspecifica diffusa alterazione dell’ecostruttura epatica. Una volta fatta la diagnosi di epatite cronica con l’esame istologico del fegato è importante riconoscere, se possibile, se si tratti di epatite classica piuttosto che di epatite autoimmune, sia per ulteriore approfondimento diagnostico sia, soprattutto, per il differente approccio terapeutico che contraddistingue le due varianti della malattia.
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F. Decorso e prognosi. L’epatite cronica, in genere, può essere completamente asintomatica per anni, anche molti, e questo spiega perché la diagnosi sia frequentemente tardiva. L’epatite cronica persistente o lobulare ha una prognosi molto favorevole; il paziente, in genere, sta del tutto bene e la malattia, anche se dopo molti mesi o diversi anni, evolve verso la guarigione completa. Ben diversa, invece, è l’evoluzione dell’epatite cronica attiva, la cui prognosi è, di regola, molto grave: infatti, esistono solo sporadici casi nei quali la malattia, pur non guarendo, non tende a progredire. Nella stragrande maggioranza dei pazienti essa tende a progredire col tempo, determinando l’insorgenza di un’insufficienza epatica di grado elevato ed esitando in cirrosi (le casistiche mostrano che nelle forme di epatite cronica attiva non trattate la mortalità entro i primi 10 anni dalla diagnosi è circa del 50%). Inoltre, in questo caso, si possono verificare importanti complicanze, tra le quali certamente la più grave è l’epatocarcinoma primitivo del fegato, il quale insorge in corso di questa malattia con frequenza nettamente superiore che nella popolazione generale. Un’altra complicanza, meno nota, è l’acidosi tubulare renale, che si riscontra in circa il 25% dei casi. Quest’ultima condizione sarebbe sostenuta da un meccanismo autoimmunitario legato al fatto che le cellule del tratto ascendente dell’ansa di Henle e quelle del tubulo distale (che sono le regioni più importanti per i processi di acidificazione delle urine) possiedono una glicoproteina, denominata con il termine di proteina di Tamm-Horsfall, che ha caratteristiche antigeniche comuni con le proteine della membrana epatocitaria; in questo modo, il tubulo renale può essere coinvolto nel processo di aggressione autoimmunitaria diretto primitivamente contro il fegato e che è alla base del meccanismo patogenetico dell’epatite cronica attiva. Delle associazioni morbose che si possono verificare nell’epatite cronica da virus dell’epatite C si è già detto in precedenza. Vi sono casi nei quali la presentazione clinica avviene solo quando si è verificata qualcuna delle complicanze sopra ricordate, più comunemente viene diagnosticata una cirrosi epatica, ma, nella maggior parte dei casi, la diagnosi di epatite cronica è casuale, a seguito del reperto di aumento dei livelli ematici delle transaminasi nel corso di indagini di laboratorio eseguite per le più varie motivazioni. È ragionevole pensare che l’epatite cronica sia tanto più grave quanto più alte sono le transaminasi, ma la valutazione più attendibile è data dal reperto della biopsia epatica. Anche alcuni marker sierologici possono avere un significato prognostico. Per esempio, nell’epatite cronica da HBV trovare anticorpi contro l’HBeAg (sieroconversione) è generalmente considerato un segno positivo, anche se, come si è già detto, non è vero che questo significhi l’assenza del DNA dell’HBV nel sangue. Esistono casi nei quali l’HBeAg nel sangue non è dimostrabile e tuttavia non è avvenuta la sieroconversione. In questi casi si è verificata una mutazione a carico del gene che codifica questo antigene e generalmente le tran-
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saminasi sono parecchio elevate e la prognosi non è buona. G. Terapia. Per valutare l’effetto terapeutico dei farmaci impiegati nelle epatiti croniche di origine virale occorre fissare degli obiettivi che debbono essere raggiunti e che, comunque, per tutte le forme includono la normalizzazione delle transaminasi. Per l’epatite cronica da HBV questi sono stati indicati nella perdita della positività per l’HBeAg, che sia avvenuta o meno la sieroconversione, insieme con la scomparsa del DNA virale nel sangue, almeno come è dimostrabile con i metodi di ibridizzazione (abbiamo visto che una scomparsa completa in realtà non si verifica). Al giorno d’oggi si richiede una negativizzazione del DNA virale nel sangue valutandolo con la tecnica della PCR. Nell’epatite cronica da HCV l’obiettivo da raggiungere è la negativizzazione dell’RNA virale nel sangue. In entrambe le forme si chiede una normalizzazione del quadro istologico alla biopsia epatica. La terapia dell’epatite cronica di origine virale è stata impostata su basi promettenti dopo che nell’armamentario terapeutico sono stati introdotti gli interferoni (INF). Gli IFN costituiscono un gruppo eterogeneo di proteine prodotte dalle cellule eucariote in risposta a stimoli di vario genere e dotate di proprietà antivirali, antiproliferative e immuno-modulanti. Tali sostanze vengono classificate in tipo I e tipo II: al primo appartengono IFN- (prodotto da leucociti o cellule linfoblastoidi) e IFN- (prodotto da fibroblasti), mentre al secondo tipo appartiene solo l’IFN- (prodotto soprattutto da T-linfociti). Fino ad oggi è stato studiato in modo particolare l’IFN- (che è poi quello di gran lunga più utilizzato in terapia, assai più che non l’IFN-), la cui sintesi è controllata da più geni (almeno 13 nell’uomo), localizzati sul cromosoma 9, ciascuno dei quali è responsabile della sintesi di una specifica proteina funzionale (in realtà, mentre la stimolazione di cellule umane dà origine ad una miscela di molti, almeno 18, sottotipi di IFN-, con la tecnologia molecolare ricombinante è possibile ottenere frazioni composte da un unico sottotipo). L’IFN agisce come antivirale attraverso l’induzione della sintesi di alcune proteine (le più importanti e meglio conosciute sono la 2-5-oligo-adenilato-sintetasi e la protein-chinasi) in grado, a loro volta, di inibire di fatto la sintesi proteica. Nella terapia dell’epatite cronica di origine virale è comunemente impiegato l’INF- e la sua azione è duplice, in quanto da un lato esercita un effetto diretto antivirale e dall’altro incrementa l’attività del sistema immunitario, anche perché aumenta sugli epatociti la densità delle molecole HLA di classe I che, come si è detto, veicolano peptidi originati dagli antigeni virali e che sono il bersaglio delle reazioni citotossiche mediate dai linfociti T CD8+. Purtoppo, gli effetti collaterali della terapia con INF- sono considerevoli e consistono in febbre, mialgie, leucopenia, piastrinopenia e depressione. Oltre al prezzo dovuto ai pesanti effetti collaterali, esiste anche un altro inconveniente da considerare per
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la terapia con INF- ed è un certo aumento delle transaminasi all’inizio della terapia. Questo è un effetto del potenziamento delle reazioni immunologiche, ma controindica l’uso del farmaco quando l’epatopatia è in fase avanzata, perché, in questi casi, il trattamento potrebbe precipitare un’insufficienza epatica sintomatica. Altri farmaci importanti sono gli analoghi dei nucleosidi, che bloccano selettivamente la trascrittasi inversa virale. Per quanto riguarda l’epatite cronica da HBV, la somministrazione di INF- (da 5 a 10 milioni di unità sottocute tre volte alla settimana per almeno tre mesi) è stato per anni il cardine della terapia. In una meta-analisi eseguita su 498 pazienti seguiti per 6-12 mesi (si veda in C.L. Lai et al., 2003), con un trattamento di questo tipo si era ottenuta perdita dell’HBeAg nel 33% dei casi, DNA virale nel sangue non dimostrabile con tecniche di ibridizzazione nel 37% e scomparsa dell’HBsAg nell’8%. Si è visto che la sieroconversione per l’HBeAg non significa scomparsa del DNA virale nel sangue valutato con la più sensibile tecnica della PCR. Si è sostenuto che la terapia con INF- dell’epatite cronica da HBV è utile anche quando questa è già evoluta in cirrosi, in quanto ridurrebbe il rischio di epatocarcinoma. Molto più promettenti nell’epatite cronica da HBV sono gli antivirali analoghi dei nucleosidi, che sono anche perfettamente tollerati in quanto privi di sostanziali effetti collaterali. Due di questi sono introdotti nell’armamentario terapeutico e sono la lamivudina e l’adefovir. Il primo farmaco ha l’inconveniente di indurre facilmente resistenza da parte del virus, mentre la probabilità che si sviluppi resistenza al secondo sembra bassa. Sono allo studio numerosi altri farmaci con queste caratteristiche (tenofovir, emtricitabina, clevudina, entecavir, telbuvidina) e perciò questo campo sembra destinato a ulteriori sviluppi. La terapia combinata con INF- e lamivudina non sembra conferire particolari vantaggi rispetto alla terapia con la sola lamivudina. Nel caso dell’epatite cronica da HCV non sempre è indicato il trattamento, dato che in molti casi questa forma morbosa ha un andamento blando e di lunga durata. In genere, non è indicato il trattamento nei pazienti che, pur avendo elevati i livelli di transaminasi (e particolarmente di ALT) nel sangue, alla biopsia epatica hanno solo minime o comunque lievi alterazioni necrotiche e pochi segni di infiammazione. In questi casi basta monitorare le transaminasi e ripetere una biopsia epatica ogni 3-5 anni, tenendosi pronti a iniziare la terapia se il quadro cambiasse. Esiste invece un’indicazione al trattamento nei pazienti con un più grave quadro alla biopsia epatica sia per quanto riguarda la necrosi, sia per la presenza di segni anche iniziali di fibrosi. Per questa forma di epatite cronica l’INF- resta il trattamento più importante. La terapia classica è con INF-, 3 milioni di unità sottocute tre volte alla settimana, con una valutazione della positività o meno dell’RNA dell’HCV nel sangue dopo 24 settimane, dato che con tale trattamento l’effetto sulle transaminasi è piuttosto rapido, ma quello riguardante la positività del virus è lento. Con questa monoterapia la percentuale di
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negativizzazioni virologiche al termine di un trattamento di 48 settimane è risultata intorno al 40% con i genotipi virali 2 e 3 e del 15% con i genotipi virali 1, 4 ,5 e 6, ma entro qualche mese si è nuovamente verificata una positivizzazione in circa la metà dei casi. Perciò, la percentuale delle risposte virologiche persistenti è, nel migliore dei casi, intorno al 20%. Un miglioramento delle risposte si può ottenere con la terapia combinata che associa all’INF- la ribavirina, un antivirale che può tuttavia avere tra i suoi effetti collaterali l’emolisi e lo sviluppo di anemia. Il farmaco è anche teratogeno, perciò è assolutamente controindicato in gravidanza e comunque nelle donne fertili che non praticano una forma affidabile di contraccezione. La ribavirina va somministrata alla dose di 1200 mg al giorno per os (1000 mg per queli che pesano meno di 75 kg). La durata del trattamento è dipendente dal genotipo e dalla carica virale. Nel caso dei genotipi 2 e 3, se dopo 24 settimane la ricerca dell’RNA del virus nel sangue è negativa, il trattamento può essere sospeso. Nel caso degli altri genotipi, anche se dopo 24 settimane la ricerca dell’RNA del virus nel sangue è negativa, conviene prolungare il trattamento per altre 24 settimane. Quando invece non si ha una negativizzazione dell’RNA virale nel sangue dopo 24 settimane, conviene comunque considerare questa forma di trattamento un insuccesso e sospenderlo. Con questa terapia combinata, le negativizzazioni virologiche al termine del trattamento sono dell’80% per i genotipi virali 2 e 3 e del 35% con i genotipi 1, 4, 5 e 6. Con i genotipi più favorevoli la risposta virologica persistente era intorno al 40%. Più recentemente, è stata introdotta in terapia una forma di INF- legata al polietilenglicole (PEG) e perciò definita INF peghilato, che ha il vantaggio di essere assorbito lentamente, in modo da potere essere iniettato solo una volta alla settimana e di essere anche più efficace perché sono ridotte le oscillazioni dei livelli ematici di INF- nel sangue. La dose di questo farmaco, espressa in microgrammi, è calcolata in base al peso corporeo o in quantità fissa a seconda della preparazione. Nel 2002 è stata approvata la terapia combinata con INF peghilato e ribavirina. La somministrazione di questi due farmaci, per la stessa durata prevista quando viene impiegato l’INF non peghilato, ha condotto a una negativizzazione dell’RNA virale nel sangue, al termine del trattamento, nell’88% dei casi con i genotipi 2 e 3 e nel 48% dei casi con i genotipi 1, 4, 5 e 6. A distanza di tempo, nei casi più favorevoli si può osservare una risposta virologica persistente in circa il 60% dei pazienti. Epatite autoimmune L’epatite autoimmune è una malattia infiammatoria cronica ad eziologia sconosciuta associata alla presenza di autoanticorpi circolanti e di livelli elevati di -globuline nel siero. Le prime descrizioni di questa entità clinica risalgono agli anni Cinquanta ad opera di vari Autori (si ricordi, per esempio, la definizione di epatite lupoide formulata da Mackay nel 1956, da non confondersi con l’epa-
topatia che può manifestarsi nel corso del LES) ed in seguito ne sono state via via evidenziate, in maniera precisa, le caratteristiche cliniche ed istologiche che fanno di questa malattia un’epatopatia sicuramente importante e con prognosi nel complesso piuttosto grave. Nello stesso tempo è stato osservato che, in fondo, nessuno degli aspetti clinici ed istologici dell’epatite autoimmune è davvero specifico, tanto che essa può essere considerata come una sindrome clinica ad eziologia multifattoriale e come uno dei problemi diagnostici più complessi per la difficoltà di distinguerla da altre malattie epatiche a patogenesi autoimmune, come la cirrosi biliare primitiva e la colangite sclerosante primitiva, e per l’esistenza di forme di passaggio (“overlap syndrome”; si veda oltre). A. Eziopatogenesi. L’eziologia è sconosciuta, ma si suppone che l’epatite autoimmune insorga in soggetti geneticamente predisposti (è stata riscontrata una significativa correlazione con alcuni antigeni di istocompatibilità come HLA-B8, HLA-DR3, HLA-A1, HLADR4, HLA-DRw52a), in cui un qualche agente lesivo (più spesso un virus, ma anche farmaci o altre sostanze epatotossiche) inneschi una reazione autoimmune diretta contro antigeni epatocitari, determinando l’insorgenza di un processo infiammatorio ad andamento progressivo che può esitare in fibrosi e cirrosi epatica. La patogenesi di questa malattia ricalca, ad ogni modo, quella della classica epatite cronica di origine virale. B. Anatomia patologica. Il quadro istologico dell’epatite autoimmune, per quanto possa essere caratteristico, non è specifico, sovrapponendosi in diversa misura a quello dell’epatite cronica attiva. Come in quest’ultima è presente un variabile infiltrato di cellule mononucleate negli spazi portali che supera la lamina limitante ed invade lo spazio lobulare; nell’infiltrato si osservano, di regola, numerose plasmacellule (di qui il termine di epatite plasmacellulare) oltre che linfociti e ad esso si associa in vario grado piecemeal necrosis. Anche qui, come nelle altre forme di epatite cronica, secondo la nuova classificazione di Gerber, Hoofnagle e Desmet (1995), è possibile definire l’entità della malattia dal punto di vista istopatologico attraverso il “grading” (cioè l’entità del processo necrotico-infiammatorio) e lo “staging” (cioè l’entità della fibrosi conseguente ai fenomeni flogistici e necrotici che caratterizzano l’epatite), cui viene attribuito un punteggio da 0 a 4 secondo i seguenti parametri: GRADING 0 1 2 3 4
Epatite Epatite Epatite Epatite Epatite
solo portale lobulare minima lobulare lieve lobulare moderata lobulare grave
STAGING Fibrosi Fibrosi Fibrosi Fibrosi Cirrosi
assente portale periportale settale
Tale classificazione si può considerare alternativa a quella meno recente che distingue l’epatite cronica, dal punto di vista istologico, in attiva e persistente, ol-
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tre che lobulare (con diversi gradi di “aggressività”) e viene attualmente seguita dalla maggior parte degli Autori. C. Clinica. Il quadro clinico è molto variabile, potendo comprendere forme anche del tutto asintomatiche o, per lo meno, paucisintomatiche, in cui la diagnosi è fondata solo o quasi esclusivamente sulle alterazioni dei parametri bioumorali, fino a forme molto gravi, ad andamento “acuto”, che ricordano da vicino l’epatite fulminante. In fondo, le caratteristiche cliniche dell’epatite autoimmune ricordano in gran parte, se non del tutto, quelle dell’epatite cronica attiva (cui si rimanda); se mai in questi casi, specialmente nelle varianti più gravi, sono più frequenti e più marcate alcune manifestazioni di carattere sistemico quali febbre, artralgie, rash cutanei, sierositi, ecc., espressione della particolare attivazione del sistema immunitario presente in tutti questi pazienti e di cui l’ipergammaglobulinemia è il segno indiretto (si tratta, infatti, di regola, di patologie da immunocomplessi circolanti). D. Diagnosi. Come già detto in principio, l’epatite autoimmune si caratterizza per la presenza di numerosi autoanticorpi circolanti a titolo significativo (≥ 1:80). Questi possono essere di tipo diverso e proprio la loro particolare distribuzione è alla base dell’attuale classificazione di questa malattia (classificazione di Homberg, 1987), per quanto le continue nuove acquisizioni sull’argomento paiano destinate ad apportare, in proposito, ulteriori aggiornamenti nel corso dei prossimi anni. Si distinguono, in particolare, 4 varianti principali. 1. Epatite autoimmune di tipo 1. È la variante caratterizzata sierologicamente dalla presenza di anticorpi antinucleo (ANA, prevalentemente con pattern omogeneo) e di anticorpi antimuscolo liscio (ASMA, soprattutto diretti contro F-actina più che contro G-actina). È più frequente nel sesso femminile, soprattutto nelle donne giovani (il rapporto uomo/donna varia da 1:3 a 1:5) e si associa spesso (5% dei casi nelle fasi iniziali fino al 50% in quelle avanzate della malattia), come peraltro tutte le forme di questa epatite, a manifestazioni autoimmuni extraepatiche: anemia e/o trombocitopenia autoimmune, gastrite atrofica (di tipo perniciosiforme), fenomeno di Raynaud, artrite, tiroidite, sindrome di Sjögren (ma anche sierosite, glomerulonefrite, colite ulcerosa, fibrosi polmonare e/o retroperitoneale, polimiosite, ecc.), che, in verità, come s’è visto, possono comparire anche nell’ambito del quadro clinico della classica epatite cronica ad eziologia virale. 2. Epatite autoimmune di tipo 2. È caratterizzata, dal punto di vista sierologico, dalla presenza di anticorpi anti-LKM-1 (anticorpi antimicrosomi di fegato e di rene). Questi sono stati descritti da Rizzetto nel 1973, sono diretti contro il citocromo P450 2D6 e nel 70% circa dei casi si associano anche ad anticorpi anti-LC1 (anti-citosol degli epatociti, che, forse, potrebbero identificare un particolare sottotipo di questa va-
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riante di epatite autoimmune, verosimilmente correlato a farmaci). Anche questa forma, che va distinta da quelle con positività per anticorpi anti-LKM-2 (epatite da acido tienilico) e/o per anticorpi anti-LKM-3 (10-15% dei pazienti con epatite cronica HDV-correlata), colpisce soprattutto soggetti di sesso femminile, nel 50% dei casi si manifesta durante l’infanzia (nell’altro 50% in età adulta) e in una discreta percentuale di pazienti l’esordio avviene sotto forma di un episodio acuto con ittero e importante alterazione delle transaminasi e, talora, con quadro clinico di insufficienza epatica di entità cospicua. Anche in questi soggetti è frequente l’associazione con manifestazioni autoimmuni extraepatiche e tra queste, oltre a quelle già ricordate in precedenza, è piuttosto comune il diabete mellito di tipo I; inoltre tale variante della malattia è presente in circa il 20% dei pazienti con sindrome poliendocrina autoimmune di tipo I (nella quale si possono riscontrare altri autoanticorpi, anti-LM, che reagiscono solo contro i microsomi di fegato e non quelli renali e che sono tipici anche della epatite da idralazina). Infine, va ricordato che l’epatite autoimmune di tipo 2 viene distinta, dalla maggior parte degli Autori, in due sottotipi, 2a e 2b. Il sottotipo 2a ha tutte le caratteristiche già descritte, mentre quello 2b si differenzia per la positività non soltanto di anti-LKM-1, ma anche degli anticorpi antiHCV (anche il virus C, infatti, può dare origine a fenomeni autoimmuni con positività per anticorpi antiLKM-1) e degli anticorpi anti-GOR (questi ultimi sono diretti contro un epitopo di HCV, un antigene nucleare a struttura peptidica formato da 27 aminoacidi). Il sottotipo 2b è variamente distribuito nelle diverse aree geografiche: 5-10% di tutte le forme di epatite autoimmune negli USA e in Gran Bretagna; circa 50% in Francia e Germania; 70-90% in Italia. Nell’eziopatogenesi di questa variante della malattia si ritiene, dunque, che un ruolo centrale sia quello del virus C (che sarebbe responsabile dell’innesco della reazione autoimmune) e ciò rende ulteriormente ragione delle difficoltà diagnostiche che si possono incontrare nell’identificazione dell’epatite autoimmune cui s’è già fatto cenno in principio (problema della diagnosi differenziale tra epatite autoimmune vera e propria ed epatite da HCV con fenomeni autoimmuni associati). 3. Epatite autoimmune di tipo 3. Descritta da Manns nel 1987, è caratterizzata sierologicamente dalla presenza di anticorpi anti-SLA (antiantigene solubile epatico, identificato nella citocheratina 8 e 18) e, a volte, di anticorpi anti-ASGP-R (antirecettore delle asialo-glicoproteine, che possono essere presenti anche nella variante di tipo 1); sempre assenti, per contro, ANA e ASMA. Molto rara in Italia, le sue caratteristiche cliniche sono sostanzialmente sovrapponibili a quelle delle forme 1 e 2, includendo anche le possibili manifestazioni extraepatiche che si riscontrano in una variabile percentuale di questi pazienti.
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4. Epatite autoimmune di tipo 4. È la variante cosiddetta “criptogenetica”, in cui la patogenesi autoimmune è supposta, ma non provata per la negatività di tutti gli autoanticorpi fin qui ricordati a proposito delle altre forme di questa malattia. Non si esclude, peraltro, in questi casi, un ruolo patogenetico di farmaci (in teoria moltissimi composti farmacologici potrebbero esserne responsabili vuoi con meccanismo tossico diretto vuoi per idiosincrasia o anche per un fenomeno allergico, o anche per più meccanismi lesivi contemporaneamente) o di altre sostanze tossiche. Di qui il fatto che la diagnosi, in fondo, viene formulata per esclusione e, ancora, l’importanza di un’accurata anamnesi del paziente alla ricerca delle possibili cause della malattia. In conclusione di questo paragrafo ci sembra opportuno ribadire la notevole difficoltà di una corretta diagnosi di epatite autoimmune, in quanto in molti pazienti le manifestazioni cliniche sono incomplete oppure si associano tra loro in maniera non caratteristica e, comunque, non soddisfano la globalità dei criteri necessari per formulare con certezza la diagnosi di questa malattia. A rendere ancora più complesso il problema sta il fatto, già ricordato, che anche nella classica epatite virale da HBV e/o da HCV (o anche da HDV) possono essere presenti, in una certa percentuale di casi, fenomeni autoimmuni come, per esempio, la positività di certi autoanticorpi (ANA, ASMA, anti-LKM-1, ecc.) e alcune manifestazioni extraepatiche (artralgie, ecc.), più tipiche, ma non patognomoniche, dell’epatite autoimmune vera e propria. Alla luce delle attuali conoscenze è stata proposta una classificazione generale delle epatopatie con connotazioni autoimmuni che è la seguente: a) forme classiche, idiopatiche: • • • •
epatite autoimmune di tipo 1 (ANA+, ASMA+); epatite autoimmune di tipo 2 (LKM-1+); epatite autoimmune di tipo 3 (SLA+); cirrosi biliare primitiva (AMA+, ossia anticorpi antimitocondri); • colangite sclerosante primitiva (pANCA+, ossia anticorpi anticitoplasma dei neutrofili a localizzazione periferica); b) varianti idiopatiche (sindrome “overlap”): • colangite autoimmune (o colangiopatia autoimmune) con positività per ANA e/o ASMA (non per AMA), ma con prevalente coinvolgimento delle vie biliari intraepatiche più che del parenchima; • sindrome “overlap” epatite autoimmune-cirrosi biliare primitiva; • sindrome “overlap” epatite autoimmune-colangite sclerosante primitiva; • epatite criptogenetica (negatività di tutti gli autoanticorpi); c) varianti associate ad infezione virale o terapia farmacologica:
• epatite cronica HCV-correlata con autoanticorpi; • epatite cronica da farmaci con autoanticorpi (idralazina, -metildopa, acido tienilico, ecc.). E. Terapia. Tenendo conto della patogenesi dell’epatite autoimmune, la terapia è fondata sull’impiego dei corticosteroidi e/o di altri immunosoppressori. Lo scopo della terapia è duplice: indurre la remissione della malattia e mantenere la remissione nel tempo. I farmaci fondamentali sono gli steroidi (per es., prednisone, a partire da 1 mg/kg/die a scalare con gradualità nel tempo fino alla dose minima di mantenimento, che consenta un buon controllo della patologia, da mantenere molto a lungo) da soli o in associazione con altri immunosoppressori (in particolare l’azatioprina). Come già detto, il trattamento va proseguito a lungo, almeno per 4 anni, ma nella maggior parte dei casi anche per tutta la vita (solo il 10-30% dei pazienti rimane in remissione dopo 4 anni di terapia). La remissione è dimostrata dalla persistente normalizzazione delle transaminasi (che talora, peraltro, si possono attestare su livelli di poco superiori a quelli normali) e confermata dal quadro istologico, che evidenzia una significativa riduzione delle alterazioni necrotico-infiammatorie nel parenchima. Dopo la sospensione della terapia, comunque, i pazienti devono essere tenuti sotto stretto controllo clinico per l’elevato rischio di recidiva (si ricorda che l’epatite autoimmune è una delle possibili indicazioni al trapianto di fegato in caso di evoluzione sfavorevole della malattia con progressiva insorgenza di insufficienza epatica di grado elevato).
Altre epatiti (epatopatie) croniche Si è visto a proposito delle epatiti tossiche (Cap. 29) che una reazione infiammatoria può facilmente verificarsi intorno a focolai necrotici che coinvolgono gli epatociti. Inoltre, la denaturazione di costituenti propri di queste cellule può portare a reazioni autoimmunitarie nei loro confronti. È perciò comprensibile che l’insorgenza di un quadro di epatite cronica possa verificarsi anche per effetto di azioni lesive a carico del fegato, diverse da quelle che sono implicate nell’epatite cronica attiva e persistente. Un elenco riassuntivo di tutte le cause di danno epatico che possono provocare un quadro di epatite cronica è riportato nella tabella 30.3. Tabella 30.3 - Cause di epatite (epatopatia) cronica. • Infettive, immunologiche – Epatite cronica attiva o persistente • Tossiche – Epatite cronica etilica • Metaboliche – Epatite cronica della malattia di Wilson – Epatite cronica da deficit di 1-antitripsina • Da stasi ematica • Da stasi biliare
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L’impiego o meno del termine “epatite cronica” in questi casi è privo di equivoci per l’anatomopatologo ma piuttosto ambiguo per il clinico. Il patologo, infatti, può rilevare, attraverso l’esame istologico del materiale ottenuto mediante biopsia epatica, i segni caratteristici dell’infiammazione e formulare correttamente la diagnosi di epatite. Il clinico, al contrario, deve giudicare le cose dal quadro morboso e dedurre indirettamente l’esistenza della componente infiammatoria in un’epatopatia cronica (a meno che non si ricorra all’aiuto del patologo eseguendo, come già detto, una biopsia epatica, ma questa manovra, pur poco pericolosa, ma comunque sgradevole per il paziente, è eticamente giustificata solo di fronte a rilevanti incertezze prognostiche e terapeutiche). Capita perciò spesso che il clinico usi, in caso di un quadro morboso piuttosto grave e simile a quello dell’epatite cronica attiva, il termine “epatite cronica” (seguito dalla specificazione della causa apparente) e, in caso di un quadro clinicamente più lieve, il termine meno compromettente di “epatopatia cronica” (sempre seguito dalla specificazione della causa apparente). La tabella 30.3 indica le cause, diverse da quelle infettive ed immunologiche, che più comunemente possono provocare un quadro di epatite cronica. La prima di queste cause è l’abuso di alcool etilico, una condizione che, come si è visto, molto comunemente provoca steatosi epatica. La cosiddetta epatite cronica etilica è dovuta non solamente a fenomeni necrotici indotti dall’alcool negli epatociti, ma anche ad una reazione autoimmune nei confronti di autoantigeni epatocitari denaturati. Quest’ultima componente sembra geneticamente determinata e connessa con l’individuale propensione a sviluppare reazioni autoimmunitarie ed è più frequente nei soggetti di sesso femminile. Il riconoscimento di un’epatite cronica etilica è facile di fronte ad un quadro grave di compromissione epatica, mentre nei casi più lievi (che sono anche i più frequenti), è sempre piuttosto difficile, in assenza di una biopsia epatica, decidere se ci si trova di fronte ad un’epatite cronica etilica o ad una steatosi epatica. Di fronte a queste incertezze, il termine di epatopatia cronica etilica è frequentemente impiegato. Per quanto riguarda le altre cause (tutte assai meno frequenti dell’alcool etilico), un quadro di epatite cronica accompagna frequentemente la malattia di Wilson ed il deficit di 1-antitripsina: si tratta, in entrambi i casi, di disordini congeniti di cui si parla nella parte dedicata alle varianti meno comuni della cirrosi epatica. La stasi ematica nel fegato (scompenso cardiaco, pericardite costrittiva, trombosi delle vene sovraepatiche o sindrome di Budd-Chiari) e la stasi biliare difficilmente provocano una sofferenza epatica tanto grave da giustificare il termine di “epatite cronica”. Più comunemente si utilizza in questi casi la generica definizione di “epatopatia cronica”, anche se questo non deve far dimenticare che tanto la stasi ematica quanto quella biliare sono importanti cause di cirrosi, come verrà spiegato in seguito.
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CIRROSI EPATICA CLASSICA La cirrosi epatica è una malattia molto comune, ben definita sia dal punto di vista anatomopatologico sia dal punto di vista fisiopatologico. La definizione anatomopatologica è quella di una epatopatia cronica caratterizzata da un’alterazione della normale struttura del fegato per la presenza di: • fenomeni regressivi di tipo necrotico a carico degli epatociti; • fibrosi connettivale coinvolgente anche il tessuto reticolare intralobulare; • rigenerazione nodulare. Dal punto di vista fisiopatologico, la conseguenza di queste modificazioni anatomopatologiche che sovvertono in maniera radicale la tipica architettura di tale organo è l’insorgenza di ipertensione portale e di insufficienza epatica. La malattia può essere provocata da cause diverse, le quali hanno in comune il fatto di essere in grado di determinare un danno a carico degli epatociti. A. Eziopatogenesi. Le cause principali di cirrosi sono: • • • • • •
alcool etilico; epatite acuta e cronica attiva; stasi biliare (cirrosi biliare); cause circolatorie; cause metaboliche; cause non identificate (cirrosi criptogenetica o da epatite inapparente).
Secondo la causa in gioco, si possono avere forme diverse di cirrosi; quella più comune è la cirrosi etilica, che corrisponde alla classica cirrosi portale di Morgagni-Laennec, correlata all’uso regolare e continuativo di alcool etilico in discreta quantità. In realtà, questa varietà di cirrosi può far seguito a qualsiasi forma di steatosi epatica (non soltanto a quella etilica che è, comunque, di gran lunga la condizione più frequente) purché il danno epatocitario sia di grado cospicuo: per esempio, presso i Bantù del Sudafrica è descritta una cirrosi di origine nutrizionale, preceduta da un quadro di steatosi, provocata da grave carenza nella dieta di proteine ad alto valore biologico, ricche di aminoacidi essenziali. In Italia, peraltro, l’unica forma di steatosi che può evolvere in cirrosi è quella provocata dall’alcool. La seconda causa di cirrosi per frequenza è quella rappresentata dai processi regressivi correlati all’epatite acuta o cronica attiva: forme molto gravi di epatite virale (come quella con necrosi submassiva) possono evolvere direttamente in cirrosi, mentre estremamente comune è l’insorgenza di questa malattia in seguito ad epatite cronica attiva. Al terzo posto è da ricordare, tra le cause di cirrosi, la stasi biliare, ovviamente se di tipo cronico, cioè molto protratta nel tempo: in questo caso si parla più correttamente di cirrosi biliare, che può essere primitiva o secondaria; meno frequente è la comparsa di cirrosi per
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cause circolatorie (stasi cronica nel fegato) o metaboliche (per tutte queste forme meno comuni, si veda in seguito). Infine esistono cirrosi che vengono diagnosticate, ma la cui causa rimane sconosciuta: in questi casi si parla di forme criptogenetiche, ma non si esclude che molte di queste rappresentino, in realtà, la conseguenza di un’epatite virale inapparente. Dal punto di vista patogenetico, tra queste varie forme esistono alcune differenze, ma in tutti i casi l’aspetto anatomopatologico dimostra la presenza di quelle alterazioni che sono state ricordate in principio nella definizione della malattia. È importante ricordare, peraltro, che il fegato è un organo con notevoli capacità rigenerative (per es., in caso di tumore epatico è possibile ricorrere chirurgicamente ad epatectomie parziali anche molto estese) e di fatto molte delle condizioni che possono portare alla cirrosi sono responsabili di lesioni a carico degli epatociti che potrebbero essere riparate per effetto delle potenzialità rigenerative dell’organo. Di conseguenza, bisogna domandarsi perché in alcuni pazienti queste alterazioni non tendano a regredire, ma ad evolvere progressivamente fino a provocare il sovvertimento della struttura epatica caratteristico della cirrosi. Nel caso dell’epatite cronica attiva, la spiegazione è di per sé evidente in quanto si tratta di un processo di tipo cronico che si automantiene nel tempo, per cui i fenomeni degenerativi di carattere necrotico continuano a verificarsi superando le capacità rigenerative delle cellule epatiche (della possibile evoluzione in cirrosi della epatite cronica attiva da HBV e/o da HCV s’è già parlato a proposito delle epatiti croniche, cui si rimanda). Più complesso è, invece, il problema del ruolo eziopatogenetico dell’alcool nel determinismo della cirrosi: in primo luogo è evidente che esiste una notevole differenza nella suscettibilità individuale nei confronti della tossicità di questa sostanza. Il paziente alcolista tipico presenta anamnesticamente un consumo giornaliero di almeno mezzo litro di vino (o una quantità equivalente di altri alcolici, per es., birra) da circa 10 anni o anche più. La quantità e la durata del consumo di alcool, piuttosto che il tipo di bevanda alcolica o le modalità di assunzione, sembrano essere importanti nel determinare il danno epatico; in generale, il tempo di latenza, precedente lo sviluppo della cirrosi, è inversamente proporzionale al consumo giornaliero di alcool; d’altra parte è noto che ci sono persone che, pur bevendo parecchio, non sviluppano alcuna epatopatia o, al più, soltanto una steatosi, mentre altre, pur non assumendo bevande alcoliche in quantità elevata, nel tempo possono andare incontro a cirrosi (di 100 soggetti etilisti cronici, non più di 20-30 si ammalano di questa epatopatia; dopo circa 10 anni di sicuro abuso di alcool, la cirrosi si manifesta in non più del 10% dei casi e dopo 15 anni nel 50%). Il fegato della donna è molto più sensibile all’effetto tossico dell’etanolo: se la quantità rischio è per l’uomo di 60-80 g di alcool puro al giorno, per la donna questa misura si riduce pressappoco alla metà perché, verosi-
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milmente, fattori genetici e/o ormonali interferiscono nel processo metabolico e nella risposta immunitaria al danno epatocitario. Esiste, quindi, una diversa suscettibilità individuale nei confronti dell’alcool ed è stato dimostrato che la velocità di metabolizzazione di questa sostanza è geneticamente determinata, ma nessun difetto metabolico è stato identificato con certezza nei cirrotici o nei loro familiari, anche se è stata supposta l’esistenza di differenti livelli cellulari di quegli enzimi (alcool-deidrogenasi ed acetaldeide-deidrogenasi) che intervengono nel catabolismo dell’etanolo. Inoltre, per quanto la malnutrizione di per sé non sembri essere in grado di provocare l’insorgenza della cirrosi, è possibile che fattori nutrizionali intensifichino gli effetti nocivi del consumo cronico dell’alcool sul fegato. Recentemente, però, alcuni dati dimostrerebbero che anche nel caso della cirrosi etilica può essere in atto un meccanismo cronico di distruzione degli epatociti simile a quello che si verifica nell’epatite acuta e nell’epatite cronica attiva: infatti, è stato osservato che l’alcool è in grado di alterare le proteine di superficie degli epatociti attraverso un processo di depolimerizzazione delle molecole proteiche di queste cellule, processo che sarebbe dovuto, di fatto, all’acetaldeide (che si forma nell’ambito del metabolismo dell’etanolo). In questo modo verrebbe modificata la struttura terziaria di queste proteine e quindi verrebbero esposte in superficie strutture che sono antigenicamente estranee all’organismo, provocando l’insorgenza di una reazione immunitaria da parte di quest’ultimo nei loro confronti. In pratica, si può affermare che anche nella cirrosi alcolica, almeno in una certa parte dei casi (più spesso nei soggetti di sesso femminile), si verifica una reazione immunitaria contro gli epatociti analoga a quella che si instaura, per esempio, nell’epatite cronica. Queste considerazioni rivestono grande importanza in quanto spiegherebbero la differente sensibilità individuale verso l’alcool e, quindi, il fatto che solo una parte dei soggetti etilisti cronici ha un’epatopatia che evolve in cirrosi: tale comportamento sarebbe correlato a differenze costituzionali individuali ed alla particolare propensione di alcuni soggetti a sviluppare certe reazioni immunitarie. Dal punto di vista clinico, ma soprattutto per quel che riguarda le caratteristiche istologiche, il passaggio della steatosi alcolica alla cirrosi avviene attraverso uno stadio intermedio, che corrisponde all’epatite alcolica in cui la lesione epatocitaria non è più reversibile per il sovrapporsi dei fenomeni immunitari già ricordati. In questi soggetti è più frequente il riscontro dell’antigene di istocompatibilità HLA-B8 ed è tipica la presenza nel fegato dei cosiddetti corpi ialini di Mallory all’interno del citoplasma cellulare (formazioni acidofile rotondeggianti, di aspetto ialino e leggermente granuloso, che derivano dalla denaturazione di sostanze proteiche di strutture citoplasmatiche di vario tipo). B. Anatomia patologica. Tutte le cirrosi epatiche, qualunque sia la loro eziologia, hanno aspetto istologico comune nelle sue caratteristiche fondamentali: esso
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è costituito da un sovvertimento della struttura del fegato diffuso a tutto l’organo, in relazione alla presenza di necrosi parenchimale, rigenerazione nodulare e fibrosi generalizzata. Quale che sia la causa della cirrosi (alcool, infezione virale, stasi biliare), l’evento iniziale della malattia è la necrosi degli epatociti. Se questa è di grado non cospicuo e, soprattutto, se non coinvolge intere filiere adiacenti di epatociti, le cellule residue si riproducono e tendono a rimpiazzare quelle distrutte, disponendosi secondo l’andamento delle fibrille reticolari dell’impalcatura lobulare. Se invece la necrosi è massiva, l’impalcatura di fibrille reticolari, non più sostenuta dai pochi epatociti residui, va incontro ad un vero e proprio “collasso”: gli epatociti rigenerati, privi di un orientamento specifico, formano strutture nodulari, chiamate pseudolobuli rigenerativi, che, pur costituiti da epatociti citologicamente normali, non ripetono la struttura a filiera tipica delle cellule di questo organo, struttura normalmente interposta tra canalicolo biliare e capillare sinusoide secondo la classica architettura del lobulo epatico normale. A questo disordine architetturale contribuisce, inoltre, la deposizione di tessuto connettivo fibroso che sostituisce le aree parenchimali distrutte. Oltre alle conseguenze metaboliche degli alterati rapporti spaziali fra epatociti da un lato e sinusoidi e canalicoli biliari dall’altro, la distorsione dell’architettura lobulare causa l’insorgenza di ipertensione portale: infatti, il letto ematico portale intraepatico è alterato e ridotto mentre i setti fibrosi ed i pseudolobuli deformano e comprimono i piccoli rami della vena porta e delle vene sovraepatiche (l’ipertensione portale è di tipo intraepatico parasinusoidale). Il quadro clinico del paziente cirrotico, del resto, in genere è condizionato più che dalla diminuzione quantitativa degli epatociti funzionanti, dall’alterazione dei rapporti architetturali fra epatociti, reticolo di sostegno, dotti biliari, vasi e sinusoidi. Le alterazioni morfologiche della cirrosi sono irreversibili e progressive, per quanto con andamento variabile nel tempo, anche se viene eliminato l’agente eziologico responsabile della malattia. I noduli rigenerativi possono essere di varie dimensioni ed in genere, convenzionalmente, si distinguono la cirrosi micronodulare, se i noduli hanno un diametro inferiore a 3 mm e la cirrosi macronodulare, se hanno diametro superiore; esistono, inoltre, forme di questa malattia in cui coesistono noduli di dimensioni diverse, piccoli e grandi (cirrosi micro macronodulare). Di solito, peraltro, la forma micronodulare è quella che si riscontra più spesso in caso di cirrosi etilica, mentre la forma macronodulare è più tipica della cirrosi postepatitica. Nell’ambito di queste formazioni nodulari, si riscontrano spesso alterazioni in qualche modo correlate alla malattia che ha condotto all’insorgenza della cirrosi: così, nella cirrosi etilica saranno presenti segni riferibili alla precedente epatite alcolica (steatosi, infiltrato granulocitario, corpi di Mallory), mentre nella cirrosi postepatitica potranno essere presenti focolai di necrosi
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epatocitaria, epatociti con aspetto a vetro smerigliato ed importante infiltrazione linfocitaria. In molti casi, peraltro, il quadro morfologico del fegato cirrotico non permette di arrivare a identificare il fattore causale della malattia, in quanto i quadri sopra descritti possono presentarsi in forma assai sfumata ed essere concomitanti tra loro anche per la non infrequente coesistenza di condizioni differenti (alcool + virus, come si riscontra in una discreta percentuale di questi pazienti). C. Fisiopatologia. Il sovvertimento della normale struttura epatica determina l’insorgenza di un ostacolo al circolo portale che si sviluppa a livello intraepatico: infatti, molti spazi nei quali normalmente circola il sangue vengono occupati da tessuto connettivo e numerose connessioni vascolari portali sono interrotte. Di conseguenza si verifica un notevole aumento delle resistenze a livello intraepatico e, quindi, si instaura ipertensione portale. Per di più, nei pazienti con cirrosi epatica si verifica una vasodilatazione generalizzata, ma che interessa in modo particolare il distretto splancnico, con una risultante circolazione iperdinamica. Infatti, già prima che si instauri l’ascite, si ha un aumento del volume sanguigno e della gettata cardiaca, che compensano la vasodilatazione periferica mantenendo normale la pressione arteriosa. Questo avviene grazie alla messa in opera di tutti i meccanismi di compenso, quali l’attivazione del sistema renina-angiotensina, così come la stimolazione simpatica e la produzione non osmotica di ormone antidiuretico, che avvengono quando viene percepita una diminuzione del volume ematico (in realtà, questa percezione dipende dalla diminuzione di pressione che si verificherebbe per effetto della vasodilatazione). Dati sperimentali e clinici indicano che la diminuzione delle resistenze periferiche nella cirrosi epatica è dovuta all’incrementata produzione di ossido nitrico da parte delle cellule endoteliali dei vasi del distretto splancnico, anche se non è chiaro perché questo avvenga. Conseguentemente, una maggiore quantità di sangue è dislocata verso la circolazione portale e ciò aggrava l’ipertensione in questa sezione vascolare. D’altro canto, l’iperattivazione dei meccanismi di compenso messi in opera per bilanciare tale squilibrio può provocare vasocostrizione in sedi particolari, come nel caso del rene, nel quale si verifica una ritenzione di sodio per aumentato riassorbimento tubulare di tale elettrolita. Questo è un fattore molto importante nel provocare ascite ed edemi. Un’eccessiva vasocostrizione renale è alla base di un’insufficienza renale acuta che può verificarsi in corso di cirrosi e che prende il nome di sindrome epato-renale. L’ipertensione portale provoca costantemente l’insorgenza di ipersplenismo, con il quadro ematologico tipico, e la formazione di circoli collaterali; inoltre, nelle forme di questa malattia secondarie all’abuso di alcool etilico o ad epatite, è comune la comparsa di ascite perché l’ostacolo è per lo più parasinusoidale, quindi è coinvolta anche la circolazione linfatica, condizione
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importante perché si formi un versamento nella cavità peritoneale. L’esistenza dei circoli collaterali, a sua volta, fa sì che una parte del sangue che proviene dal distretto portale “salti” il fegato, cioè giunga nel sistema delle vene cave senza essere passato attraverso i sinusoidi epatici: ciò ha importanti conseguenze funzionali perché riduce la possibilità che si compiano quelle operazioni biochimiche che l’organo esegue in condizioni normali; in particolare, questa situazione si ripercuote sul processo di detossicazione dell’HN3 e delle amine di provenienza intestinale. Quindi il paziente cirrotico è esposto in misura notevole alla cosiddetta encefalopatia porto-sistemica per effetto del passaggio diretto nella circolazione generale di NH3 e di altre sostanze tossiche sul sistema nervoso centrale. Inoltre, in presenza di cirrosi, il numero degli epatociti funzionanti tende progressivamente a diminuire in rapporto allo sviluppo dei fenomeni di reazione fibrotica; in fase iniziale le capacità rigenerative degli epatociti possono, in qualche modo, compensare i fenomeni necrotici e quindi le funzioni epatiche possono mantenersi per un certo periodo di tempo ancora pressappoco normali o poco deficitarie, ma negli stadi più avanzati la possibilità di compenso verrà meno ed interverrà sempre, in forma più o meno grave, un quadro di insufficienza epatica, che potrà anche essere mortale giungendo a provocare emorragie massive per compromissione della coagulazione ed encefalopatia epatica, fino a coma irreversibile. D. Clinica. L’anamnesi patologica del cirrotico è spesso ricca di dati interessanti. L’evenienza più comune è quella che si tratti di un bevitore, il quale in passato (molti mesi o, più spesso, molti anni prima) è stato riconosciuto portatore di epatopatia, in genere di tipo steatosico (assai più di rado è stata fatta diagnosi di epatite alcolica), ma può anche accadere che questi pazienti non lamentino disturbi importanti fino a quando il quadro clinico della malattia non è ben manifesto. In altri casi, il paziente depone di aver sofferto di un’epatite virale che può essersi verificata anche molti anni prima; in molti casi è comune trovare qualche dato clinico e di laboratorio che permette di riconoscere la preesistenza di epatite cronica attiva; altre volte, infine, la causa resta sconosciuta e nessun dato anamnestico o clinico o di laboratorio è utile per la sua identificazione. In genere la malattia ha un esordio lento e graduale; il paziente giunge al medico in seguito alla comparsa di disturbi digestivi di tipo dispeptico: è anoressico e l’inappetenza riguarda un po’ tutti i cibi, avverte sensazione di pesantezza epigastrica postprandiale, la digestione è lunga e laboriosa e, soprattutto, è presente senso di tensione addominale che, inizialmente, è dovuta a meteorismo eccessivo (cioè aria e gas in eccesso nelle anse intestinali), ma che nelle fasi più avanzate può riconoscere cause diverse, assai più gravi, come, in particolare, la presenza di versamento peritoneale.
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Un altro disturbo che può apparire inizialmente è la comparsa di edemi alle caviglie, cioè in regione perimalleolare, soprattutto nelle ore serali. Il paziente che presenta questa sintomatologia è ancora, in genere, un soggetto in buone condizioni generali (cirrosi florida), ma in altri casi, quando il quadro clinico della malattia è più completo, il medico può spesso notare un aspetto caratteristico: la sagoma del paziente sembra quella di una persona florida, perfino grassa, con l’addome prominente, ma nello stesso tempo la faccia appare emaciata e si rileva il netto contrasto tra l’aspetto “magro” della parte superiore del corpo e l’aspetto “grasso” di quella inferiore (Dante, nell’Inferno, parlando di mastro Adamo lo chiama “uom fatto in guisa di liuto”): in realtà, in questi casi l’addome è globoso perché vi è ascite, non perché vi è adipe, mentre l’ipotrofia muscolare generalizzata e la progressiva perdita di peso per l’anoressia e la dispepsia giustificano il deterioramento delle condizioni generali. Talvolta è presente febbre, generalmente con le caratteristiche di una febbricola persistente, più di rado di febbre elevata, verosimilmente in rapporto ai processi flogistico-necrotici che si sviluppano nel parenchima o anche alle frequenti infezioni endogene presenti nella cirrosi, dovute a batteri di provenienza intestinale. A volte, soprattutto nelle forme più gravi e negli stadi più avanzati, è presente dolore in ipocondrio destro ed in epigastrio, sordo, profondo, spontaneo, ma sempre accentuato dalla palpazione, più raramente di tipo colico. Il medico, passando poi ad esaminare più attentamente il paziente, può osservare un’alterazione del colorito cutaneo che è frequentemente itterico: nella cirrosi, specialmente nelle forme secondarie all’abuso di alcool etilico o ad epatite, l’ittero non è mai molto intenso e spesso manca del tutto; se l’iperbilirubinemia è modesta, può essere notato soltanto ittero sclerale (o subittero). Spesso, specialmente se la malattia dura da lungo tempo, è presente una particolare pigmentazione della cute che appare di colorito più bruno che di norma per aumentata deposizione di melanina (ittero melanico); degli altri segni cutanei è praticamente costante l’eritema palmare ed è piuttosto frequente l’esistenza di stelle neviche nella parte superiore del corpo (viso, parte superiore del tronco). Comuni sono anche alcune alterazioni alle estremità degli arti superiori, con dita a bacchetta di tamburo, cioè ippocratiche, verosimilmente correlate al fatto che per effetto della frequente formazione di shunt arterovenosi a livello periferico si può instaurare ipossia di questi tessuti. Altro segno frequente è la presenza di porpora cutanea, cioè di piccole manifestazioni emorragiche puntiformi (petecchie, ma talora anche ecchimosi) diffuse in tutto il corpo per difetto dei fattori della coagulazione e di teleangectasie “vinose”, anche queste diffuse, ma tipiche al volto (facies etilica), per dilatazione permanente dei piccoli vasi della pelle. Il paziente con cirrosi epatica, inoltre, più comunemente che nella popolazione generale è portatore di retrazione dell’aponeurosi palmare (malattia di Dupuytren), fenomeno che si può verificare anche indipendentemente dalla cirrosi e che comporta la tendenza a
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mantenere le ultime dita in flessione con notevole impedimento all’estensione. In tali soggetti, quando si palpa il palmo della mano, si può apprezzare questa retrazione fibrosa dell’aponeurosi sotto forma di un indurimento dei tessuti ben evidente al tatto. Un altro segno che viene osservato con una discreta frequenza è una certa tumefazione della regione parotidea, la cui spiegazione è sconosciuta; oltre a questo esistono alterazioni a carico degli annessi cutanei che rientrano nelle manifestazioni di origine endocrina dell’insufficienza epatica, in particolare quelle di natura sessuale: gli uomini perdono i peli sul torace, sull’addome, al pube e alle ascelle e sviluppano un certo grado di ginecomastia; le donne, al contrario, hanno un’ipoatrofia mammaria e tendono di frequente a presentare amenorrea. La parte più importante dell’obiettività è quella a carico dell’addome; questo appare tipicamente globoso in tutti i cirrotici in fase avanzata della malattia, ma l’aspetto può essere anche molto vario: ci sono pazienti nei quali si osserva un addome globoso e molto teso, perché contiene molta aria e molto liquido che si è formato da poco; a volte, invece, l’addome è, come si dice, batraciano, cioè tende, con il paziente in decubito supino, ad essere particolarmente sporgente, svasato sui fianchi e sul pube e questo si verifica quando l’addome è stato molto disteso dal versamento ascitico il quale, in seguito, per una ragione qualsiasi è stato riassorbito anche parzialmente, senonché i tessuti non riprendono la fisionomia originaria (si tratta soprattutto di persone di una certa età i cui tessuti non sono più molto elastici) e l’addome si affloscia assumendo, quindi, un aspetto batraciano (Fig. 30.2). È piuttosto comune anche la formazione di un’ernia ombelicale, probabilmente non soltanto in relazione all’aumento della tensione endoaddominale, ma anche, in parte, per le modificazioni delle caratteristiche strutturali del tessuto connettivo che si manifestano in questi pazienti. All’ispezione dell’addome è caratteristica la presenza di circoli collaterali superficiali: i reticoli venosi di tipo porta-cava occupano una posizione centrale e si dipartono dall’ombelico, risultando tanto più marcati quanto più è rilevante il grado di pervietà delle vene paraombelicali; meno frequente è la presenza di un circolo cava-cava, localizzato tipicamente alla periferia dell’addome, che può essere osservato soprattutto nei casi in cui c’è molto liquido nella cavità peritoneale, il quale esercita una pressione discreta sulla cava inferiore: poiché la pressione all’interno di questa è modesta, può accadere che se il versamento è abbondante tale vaso viene schiacciato provocando un ostacolo al ritorno del sangue venoso in questo distretto. La compressione della cava inferiore, insieme con la diminuzione della pressione oncotica dovuta all’ipoalbuminemia, è una delle cause della formazione degli edemi agli arti inferiori. La palpazione dell’addome, eseguita prima dolcemente e quindi ripetuta con pressione maggiore della mano a piatto, consente di apprezzare, per lo più, un notevole grado di tensione; la differenza rispetto a un addome grasso consiste nel fatto che in quest’ultimo si
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riesce sempre ad apprezzare con la percussione l’esistenza di un certo grado di meteorismo; nel caso, invece, che esista ascite, purché di entità discreta, alla percussione si potrà dimostrare la presenza di una zona sicuramente ottusa, generalmente nelle parti declivi dell’addome a paziente in decubito supino, con limite superiore concavo verso l’alto (Fig. 30.2); per avere conferma del versamento, si potrà eseguire la percussione su una zona sicuramente ottusa, per esempio su un fianco avendo fatto decombere il paziente da quel lato e poi, lasciando la mano al limite di questa ottusità per essere sicuri di percuotere sempre sullo stesso punto, si fa adagiare il paziente sul fianco opposto; il liquido tenderà a raccogliersi da questo lato e perciò dove prima c’era ottusità il suono diventerà timpanico in rapporto alla presenza delle anse intestinali non più mascherate dal versamento. Per un’ulteriore conferma, l’operazione potrà essere ripetuta facendo decombere il paziente sull’altro fianco: il suono cambierà in senso opposto a dimostrare che il liquido si sposta con la gravità (Fig. 30.3). Con questa tecnica, fondamentale nella semeiotica addominale in presenza di ascite, possono essere messi in evidenza versamenti già di una certa entità (almeno 3-4 l); se la quantità è minore, il dubbio può restare ancora dopo tali manovre e in tal caso conviene far mettere il paziente in decubito genu-pettorale (cioè a carponi a pancia in giù), per cui il liquido si raccoglie tutto in basso intorno all’ombelico dove, alla percussione, può allora essere rilevata una zona di ottusità. In caso di versamento cospicuo, si possono mettere in evidenza, infine, due segni semeiologici importanti: quello del fiotto e quello del ghiacciolo. Il primo consiste nel mettere la mano a piatto su un fianco del paziente in decubito supino; l’altra mano imprimerà delle lievi scosse sul fianco opposto e le vibrazioni che si ge-
Figura 30.2 - Disposizione del liquido ascitico (parte grigia) nella cavità peritoneale in caso di versamento libero con limite superiore concavo verso l'alto (paziente in decubito supino). Alla percussione dell'addome, al di sotto di tale linea si apprezza ottusità (per la presenza del versamento), mentre al di sopra si apprezza suono timpanico (per la presenza di anse intestinali che galleggiano sul liquido).
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Figura 30.3 - Disposizione del liquido ascitico (parte grigia) nella cavità peritoneale in caso di versamento libero con paziente in decubito laterale sinistro. Il liquido si raccoglie nell'emiaddome di sinistra, dove alla percussione si apprezza ottusità, mentre al di là del limite del versamento il suono è timpanico. L'opposto si verifica se il paziente si dispone in decubito laterale destro.
nereranno in questo modo si trasmetteranno attraverso il liquido fino ad essere percepite dalla mano dell’operatore posta a piatto dall’altra parte; è utile che la manovra sia completata dall’intervento di un secondo operatore che disponga la propria mano a taglio dal lato ulnare, sulla linea mediana, esercitando una discreta pressione sull’addome, facendo in modo che le vibrazioni si propaghino attraverso il versamento e non attraverso la superficie addominale. Il segno del ghiacciolo consiste, invece, nell’imprimere una pressione sul fegato (ancora in fase di epatomegalia) che galleggia sul liquido fino ad affondarlo nell’addome; poiché il fegato viene immediatamente risospinto verso l’alto, la mano dell’operatore lasciata aderente alla parete addominale avvertirà il “colpo” dovuto all’organo che rimbalza in superficie. Per quanto riguarda le dimensioni del fegato, alla percussione ed alla palpazione l’organo, come già ricordato altrove, può risultare, nei diversi casi, ora più grande ora più piccolo; di regola, comunque, nelle fasi più avanzate della malattia il volume tende a diminuire per il prevalere della componente fibrosa. Per contro, in rapporto alla presenza di ipertensione portale è costante il riscontro di splenomegalia anche se di grado variabile, con milza aumentata anche di consistenza. E. Diagnosi. Esami di laboratorio e strumentali. La semeiotica di laboratorio nella cirrosi è molto importante. Per quanto riguarda l’esame emocromocitometrico, il paziente è spesso anemico e questa anemia riconosce due cause principali: può essere un’anemia macrocitica, dovuta ad insufficiente conversione epatica di acido folico in acido folinico e talora anche a malassorbimento intestinale per stasi venosa nel circolo portale (quest’ultimo può essere responsabile non solo di anemia macrocitica, ma anche megaloblastica); oppure l’anemia è di tipo normocitico e normocromico ed è correlata all’iperspleni-
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smo, cioè al fatto che i globuli rossi sono più facilmente sequestrati e distrutti nella milza ingrandita. Spesso, prima della comparsa dell’anemia, l’ipersplenismo è caratterizzato soltanto dalla presenza di granulocitopenia e piastrinopenia. L’alterazione delle prove di funzionalità epatica, che in qualche caso può essere anche molto modesta, riguarda in modo particolare, soprattutto nella cirrosi etilica, la -GT (-glutamil-transpeptidasi), perché questo enzima è molto sensibile all’azione tossica dell’alcool; anche le transaminasi sono in genere aumentate, di poco nelle forme lievi, dove possono anche essere normali, in misura maggiore nelle forme più gravi, ma sempre con valori inferiori a quelli che si riscontrano nelle fasi floride delle epatiti sia acute che croniche; inoltre, in queste ultime l’aumento più marcato è quello della transaminasi glutammico-piruvica (ALT), mentre in molti casi di cirrosi etilica l’incremento è soltanto, e comunque più rilevante, a carico della transaminasi glutammico-ossalacetica (AST). La fosfatasi alcalina aumenta soltanto nei casi in cui è presente ostruzione delle vie biliari, la quale si può manifestare nelle fasi più avanzate sia della cirrosi etilica che di quella postepatitica; la bilirubinemia, per quanto l’ittero non sia di regola intenso, è di solito superiore alla norma e si tratta sempre di iperbilirubinemia di tipo misto, come accade in tutti i casi nei quali è presente una sofferenza degli epatociti. Negli stadi più avanzati della malattia si possono riscontrare alterazioni di laboratorio indicative di grave insufficienza epatica, come, per esempio, l’aumento dell’ammoniemia, sia perché questa sostanza “salta” il fegato sia perché il ciclo di Krebs-Hanseleit è meno efficiente; inoltre, tutte le funzioni sintetiche risulteranno compromesse con conseguente diminuzione del colesterolo, dell’attività protrombinica e della pseudocolinesterasi. Molto importanti e caratteristiche sono le alterazioni dell’elettroforesi delle proteine del siero: infatti si riscontra una diminuzione del picco dell’albumina perché questa proteina viene sintetizzata nel fegato (deficit delle funzioni sintetiche), mentre si ha un notevole aumento, a banda larga, policlonale delle -globuline, tipico delle epatopatie croniche (nel mieloma e nelle malattie immunoproliferative l’aumento è talora notevole, ma a banda stretta ed alta, monoclonale, con un picco simile a quello dell’albumina). La causa fondamentale dell’incremento delle -globuline nella cirrosi è una aumentata formazione di anticorpi (che sono -globuline), per un difetto della funzione delle cellule di Kupffer, normalmente adibite a un ruolo di filtro nei confronti degli antigeni di provenienza intestinale che giungono al fegato tramite il circolo portale (il sovvertimento della normale architettura epatica con i numerosi cortocircuiti che determinano il “salto” del distretto epatico da parte del sangue portale comporta un importante deficit della funzione di queste cellule). In rapporto con l’ipergammaglobulinemia, sta anche la frequente positività (circa 50% dei casi), in questi soggetti del RA-test (presenza del fattore reumatoide). In sintesi, per quanto riguarda l’elettroforesi delle proteine, il dato fondamentale è quello della riduzione del-
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l’albumina, talvolta anche nettamente al di sotto del 50% della protidemia totale, e dell’aumento delle -globuline, spesso oltre il 30-35%; l’ipoalbuminemia è importante perché contribuisce, per effetto della diminuzione della pressione oncotica, alla formazione degli edemi periferici, di solito perimalleolari, insieme con la stasi nel sistema della vena cava inferiore. La diagnosi di cirrosi epatica può avvalersi anche di indagini strumentali, soprattutto radiologiche e scintigrafiche: le prime, per esempio, consentono di dimostrare l’esistenza di circoli collaterali profondi che si formano per l’ipertensione portale (quelli superficiali addominali e quelli emorroidari possono essere diagnosticati facilmente); così la ricerca delle varici esofagee, prognosticamente molto importanti perché la loro rottura può provocare emorragie anche mortali, può essere effettuata oltre che direttamente, con esame esofagoscopico, anche indirettamente con radiografia dell’esofago con solfato di bario che, in presenza di varici, evidenzia un quadro caratteristico di figure “a legno tarlato” (si veda Cap. 28). La scintigrafia con 198Au oppure con 99mTc, che vengono captati dalle cellule di Kupffer, documenta il notevole sovvertimento della struttura epatica e la presenza di diverse “lacune di captazione” (o aree fredde), che corrispondono ai focolai di necrosi e di più abbondante formazione di tessuto connettivo; tipico, comunque, della cirrosi (come del resto dell’epatite cronica attiva) è un quadro scintigrafico caratterizzato da una captazione diffusamente ridotta e non omogenea con ipercaptazione della milza, aumentata di dimensioni, e, talora, anche del midollo osseo, di significato vicariante. Utile può essere anche l’esame ecotomografico, che può confermare l’irregolarità della struttura epatica, mentre l’agobiopsia, se positiva, conferma la diagnosi in maniera definitiva, anche se in molti casi l’esame risulta difficoltoso perché il fegato cirrotico ha consistenza disomogenea per l’alternarsi di tralci fibrotici rigidi e di isole di tessuto parenchimale circondate da connettivo, per cui il frustolo tende a frammentarsi in tanti piccoli frustolini, spesso di difficile lettura. La diagnosi di questa malattia è più ardua nelle forme più sfumate: per esempio, capita spesso di trovare un paziente con una storia di epatite o di etilismo che, all’esame obiettivo, presenta un’epatomegalia, ma che non ha ascite, circoli collaterali evidenti, ittero, spider naevi, tutt’al più ha eritema palmare e gli esami di laboratorio mostrano piastrinopenia, granulocitopenia, ipergammaglobulinemia e qualche alterazione del quadro enzimatico. Questo paziente, nonostante l’assenza di molti segni tipici, è già da considerare portatore di cirrosi, anche se in forma lieve, perché è sicuramente affetto da ipersplenismo (per la piastrinopenia e la granulocitopenia), condizione che non può instaurarsi se non in presenza di ipertensione portale (naturalmente fatto salvo il caso che quest’ultima non riconosca altra causa particolare); se esiste ipertensione portale, vuol dire, infatti, che pur con un quadro clinico e di laboratorio di modesta entità, nel fegato il sovvertimento della normale architettura è arrivato già a determinare un ostacolo intraepatico al
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circolo portale, con le importanti conseguenze che sono legate a questa evenienza. Anche i più piccoli segni di ipertensione portale devono, quindi, orientare verso la diagnosi di cirrosi. Altre volte la diagnosi di questa malattia si prospetta ancora più dubbia (per esempio, non c’è ipergammaglobulinemia o è di grado lieve e i segni ematologici di ipersplenismo sono poco significativi) ed in questi casi la soluzione del problema diagnostico è demandata alla biopsia epatica, naturalmente se fattibile in rapporto alle eventuali alterazioni della coagulazione, frequenti in tali pazienti, soprattutto per quanto riguarda la distinzione fra questa malattia e l’epatite cronica, differenziazione che sul piano clinico spesso è molto sfumata. F. Decorso e prognosi. La malattia è cronica, quindi non ha tendenza a regredire; si possono, comunque, verificare due evenienze fondamentali: quella per cui l’applicazione regolare della terapia e, soprattutto, la rimozione completa della causa del danno epatico (per es., l’abolizione assoluta delle bevande alcoliche) consentono di arrestare o, meglio, rallentare sensibilmente l’evoluzione del processo patologico (la malattia non guarisce; il fegato, una volta alterato nella sua struttura, non ritorna normale, ma il quadro non progredisce o progredisce con andamento estremamente lento e questo si accompagna spesso ad un miglioramento anche notevole delle condizioni soggettive ed obiettive del paziente). Purtroppo, però, nella maggior parte dei casi, la compromissione funzionale del fegato, in rapporto all’entità del danno strutturale, è arrivata ad un punto tale (difficile da stabilire per ciascun paziente) che anche dopo la rimozione (quando possibile) della causa scatenante, l’evoluzione della malattia è comunque ingravescente fino all’insorgenza di insufficienza epatica incompatibile con la sopravvivenza (nella cirrosi epatica etilica, per esempio, la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è inferiore al 50% se l’etilismo, benché ridotto, persiste nel tempo, mentre è superiore al 60% se il consumo di bevande alcoliche è completamente abolito). Una complicanza molto grave della cirrosi è lo sviluppo di un tumore primitivo del fegato, statisticamente molto più frequente in questi pazienti che nella popolazione generale: l’epatoma maligno, che è praticamente sempre di tipo epatocellulare, è correlato soprattutto alla cirrosi postepatitica piuttosto che a quella alcolica (Cap. 41). La morte nella cirrosi dipende fondamentalmente da due cause: • emorragie, in particolare da rottura di varici gastroesofagee che in questi soggetti, per il contemporaneo deficit dei fattori della coagulazione, possono essere gravissime ed anche mortali; • grave insufficienza epatica con graduale evoluzione verso lo stato di coma. Quest’ultimo, talvolta, è ancora reversibile, almeno transitoriamente, se il numero degli epatociti funzionanti è ancora adeguato: per esempio, in caso di ence-
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falopatia porto-sistemica dovuta ad accumulo di HN3 e di altre sostanze tossiche per il sistema nervoso centrale che hanno by-passato il fegato, è possibile, con opportuni provvedimenti terapeutici (si veda Terapia), ottenere, almeno per qualche tempo, un miglioramento delle condizioni del paziente, ma nei casi in cui la necrosi epatocitaria è massiva, allora il quadro di encefalopatia epatica non permetterà più alcuna prospettiva favorevole anche con le più appropriate manovre terapeutiche: il coma, in questi casi, risulterà sempre mortale. Nel complesso, quindi, la cirrosi epatica ha una prognosi molto grave: il paziente è un malato cronico nella migliore delle ipotesi (e va attentamente sorvegliato nel tempo), ma spesso va incontro a morte in un arco di tempo non troppo lungo (in media alcuni anni, 5-10, pur rimuovendo l’agente causale in gioco, per es., l’alcool) ed ancor prima se la causa della malattia non viene rimossa. G. Terapia. Anche nel caso della cirrosi epatica, come in tante altre malattie, la prevenzione, più che la terapia, rappresenta la condizione fondamentale per modificare il decorso e la prognosi di questa epatopatia. Gli interventi terapeutici, d’altra parte, tendono anch’essi piuttosto ad impedire l’ulteriore progressione della malattia o hanno carattere puramente sintomatico. Di grande importanza, in questi pazienti, è il trattamento dell’encefalopatia epatica, acuta e/o cronica, i cui obiettivi essenziali consistono nell’eliminazione e controllo dei fattori scatenanti e nella riduzione dei livelli ematici di ammoniaca e di altre sostanze di natura tossica, limitando l’assorbimento delle proteine e dei composti azotati prodotti a livello intestinale. Le proteine alimentari devono essere ridotte o addirittura, in presenza di encefalopatia acuta, escluse dalla dieta; in caso di emorragia digestiva, il sangue accumulatosi nell’intestino deve essere rapidamente evacuato mediante l’impiego di clisteri e lassativi, con l’intento di ridurre il carico di materiale azotato. L’assorbimento di ammoniaca può essere diminuito con la somministrazione di lattulosio o lattitolo, disaccaridi di sintesi che non vengono metabolizzati nell’intestino tenue e giungono, quindi, immodificati nel colon, dove sono degradati dai batteri saccarolitici, di cui favoriscono lo sviluppo soprattutto a scapito della flora proteolitica (che è quella che produce la maggior quantità di ammoniaca). Dalla scissione del lattulosio e del lattitolo (che, tra l’altro, si comportano anche come lassativi osmotici), hanno origine acidi grassi a basso peso molecolare, in particolare acido lattico, i quali determinano una riduzione del pH intestinale, cui consegue una riduzione dell’assorbimento di ammoniaca per la formazione di NH4+ (ione ammonio non assorbibile). Inoltre, la produzione intestinale di ammoniaca può essere ridotta anche dalla somministrazione di alcuni antibiotici come la neomicina, la paromomicina, la kanendomicina, la ribostamicina, i quali vengono scarsamente assorbiti ed agiscono modificando la flora batte-
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rica, riducendo la componente proteolitica a vantaggio di quella saccarolitica. Ancora in discussione, per contro, è l’efficacia terapeutica nell’encefalopatia epatica di alcuni provvedimenti come l’impiego di glutatione ridotto (particolarmente utile, sembra, nei casi di encefalopatia alcolica) e/o di miscele di aminoacidi a catena ramificata. Nella cirrosi epatica scompensata, in presenza di ascite e di edemi discrasici (da iponchia), potrà essere opportuno il ricorso alla somministrazione di albumina e di diuretici (furosemide, acito etacrinico, ecc.) e/o antialdosteronici (spironolattone, canceonato di potassio) badando, con particolare attenzione, a mantenere un buon equilibrio idroelettrolitico. L’utilità dei corticosteroidi in questi pazienti è tuttora oggetto di controversie, ma si ritiene che il loro impiego sia giustificato solo nelle fasi di particolari acuzie o negli stadi più avanzati della malattia, in mancanza, in tal caso, di soluzioni terapeutiche più appropriate. L’eventuale esistenza di sindrome emorragica da piastrinopenia e/o da deficit dei fattori epatici della coagulazione può richiedere l’impiego di vitamina K, plasma fresco, miscele di fattori della coagulazione e/o trasfusione di piastrine. Nell’ambito della terapia medica della cirrosi epatica, infine, è estremamente interessante ricordare che di recente è stata segnalata l’efficacia dell’interferone nell’inibire o rallentare il processo di fibrosi nei soggetti affetti da epatopatia cronica. Pertanto tale farmaco, già largamente impiegato nel trattamento dell’epatite cronica attiva, ha trovato applicazione anche nella cirrosi, con risultati abbastanza incoraggianti, pur nella relativa esiguità delle casistiche fin qui disponibili. Infatti, nei frustoli di biopsia epatica, dopo almeno 1 anno di terapia con interferone, è stata osservata una riduzione del TGF-1 (Trasforming Growth Factor 1), correlata con l’espressione di pro-collageno I-mRNA e con il peptide pro-collageno III sierico, indice di fibrosi epatica; inoltre, negli stessi casi, è stata riscontrata la riduzione del TGF- e di H3-istone-mRNA (marker della sintesi del DNA), espressione dell’attività rigenerativa del fegato. Per quanto riguarda, invece, la terapia chirurgica della cirrosi epatica, va ricordata la possibilità di far ricorso, in presenza di grave ipertensione portale, ad interventi particolari per la creazione di shunt porto-cavali o anche spleno-renali, il cui effetto sulla prognosi di questi pazienti è, peraltro, molto variabile. Provvedimenti chirurgici specifici, inoltre, possono rendersi indispensabili in caso di emorragie gastrointestinali da rottura di varici gastroesofagee, qualora il sanguinamento sia copioso o quando gli episodi emorragici siano frequenti (sclerosi delle varici per via endoscopica, legatura delle varici, ecc.). Nella cirrosi epatica, come in tutte le altre epatopatie acute e/o croniche, infine, quando l’insufficienza epatica raggiunge livelli estremamente gravi, non correggibili con altra terapia (e quando sussistano le condizioni necessarie), può essere presa in considerazione l’ipotesi del trapianto di fegato, di cui ormai esiste larga e positiva esperienza anche nella cirrosi scompensata.
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CIRROSI MENO COMUNI Esistono diverse forme di cirrosi che con un termine piuttosto generico possono essere definite “cirrosi meno comuni”, le quali presentano alcuni aspetti peculiari rispetto alla classica cirrosi epatica. Le principali varietà di queste cirrosi sono elencate di seguito. • Cirrosi da stasi biliare (cirrosi biliare): – primaria (colestasi intraepatica); – secondaria (colestasi extraepatica). • Cirrosi da cause circolatorie (cirrosi da stasi venosa): – cirrosi cardiaca; – pericardite costrittiva; – sindrome di Budd-Chiari. • Cirrosi da cause metaboliche: – galattosemia – glicogenosi di tipo IV forme infantili; – deficit di 1-antitripsina; – morbo di Wilson; – emocromatosi.
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Cirrosi biliare Primitiva È una malattia cronica, progressiva, che si instaura per la presenza di una difficoltà al deflusso della bile a livello delle fini vie biliari intraepatiche. Come molte altre malattie è stata definita primaria, in quanto in passato era completamente sconosciuta la causa della alterazione delle vie biliari responsabile della colestasi e della successiva insorgenza di questa varietà di cirrosi. Viene anche chiamata colangite cronica sclerosante non suppurativa, ad indicare l’esistenza di un processo infiammatorio di natura cronica a livello delle più piccole ramificazioni biliari in assenza di un agente eziologico infettivo conosciuto. La malattia è caratterizzata da distruzione dei piccoli dotti biliari intraepatici, infiammazione portale e fibrosi progressiva. La prevalenza è di 1,9-15,1 casi/100.000 abitanti e l’incidenza è di 3,9-15,0 casi/milione di abitanti/anno (la cirrosi biliare primitiva colpisce soggetti di qualunque razza ed è causa dello 0,6-2,0% dei decessi per cirrosi in tutto il mondo). A. Eziopatogenesi. Attualmente è dimostrato che la cirrosi biliare primitiva è una malattia autoimmune (in un certo senso si può dire che ha qualche affinità, dal punto di vista eziopatogenetico, con l’epatite cronica attiva, con la differenza che l’autoimmunità invece di essere diretta nei confronti degli epatociti è rivolta verso le vie biliari intraepatiche). In effetti, è provato che in questa malattia si verifica una distruzione dei duttuli (o colangioli) biliari provocata da un meccanismo autoimmunitario, anche se la ragione per cui tale processo si manifesta in questa sede ed in questa forma ancora non è nota.
In una piccola percentuale di casi, la cirrosi biliare primitiva è preceduta da un episodio di epatite virale acuta ad impronta colestatica, ma di regola questa malattia insorge primitivamente, in maniera insidiosa, senza che sia presente alcun sintomo o segno che faccia pensare all’epatite. Gli argomenti a favore del carattere immunitario della cirrosi biliare primitiva sono diversi: in primo luogo la netta prevalenza, riportata in tutte le casistiche, nel sesso femminile, colpito circa 10 volte più di quello maschile (tutte le malattie autoimmuni colpiscono più le donne che gli uomini; in questo caso si tratta, in genere, di soggetti di mezza età, tra 35 e 60 anni). Un altro dato importante a favore di tale ipotesi è la presenza, nel siero di questi pazienti, di vari tipi di autoanticorpi che possono essere messi in evidenza con la tecnica dell’immunofluorescenza. Esistono, in primo luogo, autoanticorpi diretti contro i duttuli biliari, i quali, probabilmente, hanno notevole significato patogenetico, ma non rivestono grande importanza dal punto di vista diagnostico perché sono poco specifici, potendosi trovare anche in corso di altre epatopatie. Gli autoanticorpi più caratteristici di questa malattia, fondamentali per la diagnosi, sono, invece, quelli diretti contro i mitocondri (AMA), i quali, soprattutto se presenti a titolo elevato, rappresentano il marker immunologico più caratteristico della cirrosi biliare primitiva: tali anticorpi, infatti, si riscontrano in oltre il 95% dei casi, mentre sono molto meno comuni o addirittura assenti nelle altre malattie epatobiliari (nella ECA questi anticorpi, che sono in genere delle IgG, ma talora anche IgM o IgA, sono presenti a basso titolo nel 3040% dei casi). Altri argomenti a sostegno di questa ipotesi sono la presenza di abbondante infiltrato linfocitario in corrispondenza delle lesioni infiammatorie periduttulari, come si verifica in tutti i processi patologici di questo tipo, e la frequente associazione con altre malattie a patogenesi immunitaria. Recentemente è stato anche sostenuto che nello sviluppo della cirrosi biliare primitiva sembrano svolgere un certo ruolo patogenetico fattori di carattere genetico, ma non è stato identificato alcun meccanismo di trasmissione ereditaria della malattia. È stata riscontrata, per esempio, una certa familiarità nella distribuzione di questa affezione ed una più frequente presenza nei familiari sani di anticorpi antiduttuli biliari o di altre anomalie di carattere immunologico, anche in assenza di questa o di altra malattia (la sua prevalenza, nelle famiglie in cui uno dei componenti sia affetto dalla malattia, è circa 1000 volte più alta che nella popolazione generale). Da alcuni Autori, inoltre, è stata osservata l’associazione della cirrosi biliare primitiva con l’antigene di istocompatibilità HLA-DR8 (per contro, in questi pazienti sembra sia estremamente bassa la frequenza di HLA-DR5). Per quanto riguarda più strettamente la patogenesi della cirrosi biliare primitiva, è stato dimostrato che in questa malattia le cellule epiteliali dei duttuli biliari esprimono in superficie antigeni di istocompatibilità
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(MHC) di I e II classe: ciò suggerisce l’intervento determinante di processi immunitari ed, in particolare, essenziale potrebbe essere il ruolo dei linfociti CD8+ ad attività citotossica nel meccanismo di distruzione delle strutture duttulari (il processo patogenetico richiama, in fondo, quello della ECA, in cui, però, il bersaglio della reazione immunitaria è rappresentato dagli epatociti; si veda ECA, pag. 572). Una seconda possibilità è quella di un meccanismo patogenetico fondato sull’attività citotossica di particolari linfociti (linfociti K = killer) in grado di distruggere le strutture duttulari dopo essersi legati ad anticorpi ad esse adesi attraverso specifici recettori per l’Fc delle immunoglobuline (ADCC, Antibody-Dependent Cellular Cytotoxicity). Infine, nella patogenesi della cirrosi biliare primitiva è possibile l’intervento delle cellule NK (natural killer), la cui citotossicità è indotta dalla diretta interazione tra queste cellule e le cellule bersaglio (in tal caso gli elementi epiteliali dei duttuli biliari) senza la mediazione di anticorpi adesi a queste ultime (di fatto, come già ricordato altrove, le cellule K e NK sono linfociti dello stesso tipo che di volta in volta possono comportarsi funzionalmente come cellule K o come cellule NK). Espressione indiretta delle anomalie dell’immunità cellulare in questa malattia è anche il fatto che nel sangue periferico dei pazienti con cirrosi biliare primitiva il numero dei linfociti T è abitualmente diminuito, a conferma dell’esistenza di alterazioni significative dell’attività di queste cellule e del loro ruolo patogenetico, come dimostra il loro sequestro a livello degli spazi portali e la loro infiltrazione a carico dei duttuli biliari, di cui si parla nel paragrafo che segue. In sintesi, si può affermare che per quanto la causa della cirrosi biliare primitiva sia ancora sconosciuta, molti dati sembrano suggerire che sia dovuta a qualche alterazione, verosimilmente geneticamente determinata, dell’immunoregolazione, la cui natura precisa, peraltro, non è nota. Il fatto che la concordanza tra gemelli unicoriali sia del 50% induce a ritenere che siano necessari fattori addizionali acquisiti in grado di danneggiare le cellule dei duttuli biliari perché la malattia si manifesti in soggetti geneticamente predisposti (tra i fattori scatenanti sono stati considerati, in particolare, il trattamento cronico con interferone, per la sua capacità di indurre processi autoimmuni, e l’epatotossicità di alcuni farmaci come la clorpromazina). Di grande interesse dal punto di vista patogenetico è l’espressione, nella cirrosi biliare primitiva, sulla superficie luminale delle cellule dell’epitelio biliare, di molecole sovrapponibili antigenicamente alla subunità E2 del complesso piruvato-deidrogenasi mitocondriale (di cui si parla più avanti), le quali potrebbero essere il “target” di una reazione anticorpale da parte di IgA presenti nella bile o, anche, dare origine a peptidi che, legati ad antigeni di istocompatibilità di classe II e I, potrebbero essere il bersaglio di linfociti T rispettivamente CD4+ e CD8+. I primi potrebbero promuovere una infiammazione locale, mentre i secondi potrebbero essere direttamente citotossici.
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In aggiunta alla distruzione dei duttuli biliari mediata dai T linfociti, nella cirrosi biliare primitiva si determina un danno secondario degli epatociti correlato all’accumulo nel fegato di elevate concentrazioni di sostanze normalmente eliminate con la bile, come gli acidi biliari (questi ultimi, in particolare, sarebbero responsabili della cosiddetta degenerazione “schiumosa” degli epatociti, presente spesso in questa malattia). Del resto, la stessa colestasi determina un’aumentata espressione sulla superficie degli epatociti di antigeni di istocompatibilità di classe I (MHC I) e II (MHC II), così da rendere tali cellule un più facile bersaglio di un eventuale danneggiamento immunomediato (a tal proposito si può ricordare che il trattamento di questa malattia con gli acidi biliari, come l’acido urso-desossicolico o l’acido tauro-urso-desossicolico, riduce l’espressione di MHC I sulle cellule epatiche e mitiga l’effetto epatotossico degli acidi biliari normalmente presenti nella bile, come l’acido colico e l’acido chenodesossicolico, ecc.). B. Anatomia patologica. La cirrosi biliare primitiva viene abitualmente distinta dal punto di vista anatomopatologico in quattro stadi che rappresentano, anche, fasi progressivamente ingravescenti della malattia (tuttavia il fegato può essere colpito in maniera non uniforme e diversi stadi istologici, a volte anche tutti e quattro, possono essere osservati in uno stesso frustolo bioptico: in tal caso la definizione dello stadio, “staging”, è stabilita sulla base delle alterazioni istologiche più avanzate). • Stadio I (o stadio portale o colangitico). Il primo stadio è caratterizzato da una intensa, ma focale, distruzione, a livello degli spazi portali, dei duttuli biliari, i quali appaiono circondati da un ricco infiltrato di cellule mononucleate, soprattutto T linfociti (specialmente CD4+ ad attività “helper”), ma anche istociti, eosinofili e plasmacellule, talora organizzate in strutture simili a granulomi con, a volte, vere cellule giganti. I linfociti che infiltrano l’epitelio dei duttuli biliari, e che verosimilmente sono anche responsabili della distruzione di questi ultimi, sono elementi CD8+ (ad attività “citotossica”), piuttosto che cellule NK (natural killer); per contro, la maggior parte dei linfociti che infiltrano gli spazi portali sono CD4+ (ad attività “helper”), ma sono presenti anche linfociti B. • Stadio II (o stadio periportale). Nel secondo stadio le lesioni sono più diffuse; a livello degli spazi portali, il numero dei duttuli biliari ancora indenni è assai ridotto, mentre sono presenti strutture duttulari neoformate (stadio della proliferazione duttulare) di aspetto atipico, distribuite in maniera disordinata e spesso accompagnate da aggregati di cellule linfoidi. In questo stadio può essere riscontrato un quadro di epatite periportale caratterizzata da infiltrati di cellule di natura infiammatoria e dall’erosione più o meno estesa della lamina limitante con piecemeal necrosis degli epatociti periportali. Da ultimo, in questa fase della malattia è già presente un certo grado di fibrosi che coin-
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volge, a questo punto, in modo prevalente, solo gli spazi portali. • Stadio III (o stadio settale). Rappresenta un’ulteriore evoluzione delle alterazioni anatomopatologiche precedentemente descritte con, in particolare, accentuazione della fibrosi (stadio precirrotico) e la formazione di ponti (setti) attivi o, più spesso, passivi, questi ultimi ricchi di tessuto connettivo e assai poveri di cellule, che connettono tra loro gli spazi portali. In questo stadio i duttuli biliari sono estremamente ridotti per numero e presentano aspetti francamente anomali. • Stadio IV (o stadio cirrotico). Costituisce l’evento finale della malattia ed è caratterizzato dalla presenza di un quadro di franca cirrosi (più spesso macronodulare che micronodulare), non facilmente distinguibile da quello della classica cirrosi portale se non per la tipica assenza dei duttuli biliari in corrispondenza degli spazi portali, dove il processo si localizza inizialmente, e per la presenza dei cosiddetti “laghi di bile”, che si formano in relazione alla colestasi intraepatica, la quale, per un fenomeno di natura meccanica, provoca a lungo andare alterazioni di carattere degenerativo anche a carico degli epatociti fino a necrosi vera e propria. Tipico di questo stadio della cirrosi biliare primitiva è anche l’abnorme deposizione di rame all’interno delle cellule epatocitarie, conseguenza della colestasi cronica che caratterizza tale malattia. Nella cirrosi biliare primitiva, in cui le alterazioni anatomopatologiche sono inizialmente e prevalentemente localizzate a livello degli spazi portali, si determina, come in tutte le forme di cirrosi, un ostacolo al circolo portale di tipo intraepatico, ma in questo caso, a differenza di quanto avviene per la varietà alcolica o postepatitica, l’ostruzione non è parasinusoidale, ma presinusoidale, nel senso che non si verifica all’interno dei lobuli epatici (almeno per una certa parte del decorso della malattia) ma in corrispondenza degli spazi portali. Questo fatto spiega perché nella cirrosi biliare primitiva (come del resto anche in quella secondaria) si abbia scarsa tendenza alla formazione di ascite, tenendo conto che la congestione linfatica, che ne è la causa principale, si instaura soprattutto quando l’ostacolo al circolo portale è intraepatico e parasinusoidale (Cap. 28). C. Clinica. La malattia insorge in maniera insidiosa e colpisce soprattutto donne di mezza età. Il paziente presenta ittero, che nella cirrosi biliare primitiva e secondaria rappresenta la manifestazione clinica fondamentale in relazione alla colestasi cronica e che può essere anche molto intenso. L’ittero, che col tempo può accompagnarsi ad una certa pigmentazione cutanea di natura melaninica, è di tipo colestatico con prevalente incremento della bilirubina diretta, che costituisce più del 50% della bilirubinemia totale; le feci sono chiare per la diminuzione dei bilinogeni, fino a diventare (raramente) cretacee, biancastre-grigiastre, nelle forme in cui l’ostruzione è pressoché completa;
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le urine sono scure per la presenza di bilirubina, mentre l’urobilinogeno urinario diminuisce fino a completa assenza. Molto spesso questi pazienti, per effetto della ritenzione dei sali biliari, lamentano prurito diffuso, il quale, in molti casi, è anche il sintomo più precoce, precedendo anche la comparsa dell’ittero. A carico della cute, l’altra manifestazione caratteristica di questa varietà di cirrosi è la comparsa di xantelasmi e di xantomi, entrambi correlati all’ipercolesterolemia, tipica di questa malattia. Gli xantomi sono depositi di colesterolo che si formano a livello sottocutaneo, soprattutto in prossimità delle grosse articolazioni, con l’aspetto di vegetazioni giallastre; gli xantelasmi sono piccole chiazze biancastre-giallastre, in genere solo un poco rilevate, che si localizzano in particolare in corrispondenza della parte nasale delle palpebre, specialmente quella superiore; anch’essi sono formati da accumuli di colesterolo in sede sottocutanea. Il quadro clinico della cirrosi biliare primitiva è inoltre caratterizzato da tutti i sintomi e segni di insufficienza epatica che sono presenti nella cirrosi epatica classica, a parte la scarsa tendenza alla comparsa di ascite; sono, invece, frequenti altre manifestazioni dovute all’ipertensione portale, specialmente in fase tardiva, in particolare è comune la formazione di circoli collaterali, soprattutto a livello del plesso emorroidario con comparsa di emorroidi e del plesso gastroesofageo con formazione di varici. L’epatomegalia, inizialmente modesta, si accentua progressivamente nel tempo fino a diventare anche molto notevole; la splenomegalia è frequente, ma non rilevante; nelle forme più gravi sono presenti i segni dell’ipersplenismo. A lungo andare il deficit dei sali biliari nell’intestino determina malassorbimento dei grassi, con possibile insorgenza di steatorrea (che è piuttosto frequente in questi pazienti), e delle vitamine liposolubili (A, D, K) con conseguenti manifestazioni patologiche a carico della cute (soprattutto ipercheratosi follicolare), dei tessuti oculari (cheratomalacia, emeralopia), dello scheletro (osteomalacia) e di sindrome emorragica (per deficit dei fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti). L’elevata colalemia mantiene il prurito e danneggia la mucosa gastrica con possibile sviluppo di gastrite; infine, il difetto di acidi biliari nella bile facilita la colelitiasi che complica circa un terzo dei casi di questa malattia. D. Diagnosi. Esami di laboratorio. I dati di laboratorio presentano il quadro delle alterazioni ematochimiche caratteristico della cirrosi epatica classica, ma con alcuni elementi peculiari. Di questi il più comune è l’iperbilirubinemia, con netta prevalenza della bilirubina diretta che rappresenta più del 50% della bilirubinemia totale, a differenza di quanto avviene nella cirrosi classica dove l’iperbilirubinemia è di tipo misto come si verifica in caso di sofferenza epatocellulare (la bilirubina è usualmente normale all’esordio, ma aumenta nel corso della malattia nel 60-70% dei casi; un livello molto ele-
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vato della bilirubinemia ha significato prognostico sfavorevole). Inoltre è presente ipercolesterolemia che spiega la esistenza di xantomi e xantelasmi. Di solito, quando esiste insufficienza epatica la colesterolemia diminuisce perché, normalmente, il fegato opera la sintesi di tale sostanza; in questo caso si instaura ipercolesterolemia perché, normalmente, il colesterolo viene eliminato con la bile e quindi, per effetto della colestasi cronica, la sua concentrazione plasmatica aumenta anche se la produzione è minore e viene facilitato il suo deposito in varie sedi come, per esempio, nella cute, dove viene immagazzinata da cellule fagocitarie. Una conseguenza, comunque, del difetto delle capacità sintetiche del fegato sta nel fatto che, pur essendo aumentata la colesterolemia totale, la frazione di colesterolo esterificato (l’esterificazione avviene in quest’organo) è diminuita (normalmente è il 50-60% del colesterolo totale). I pazienti con cirrosi biliare primitiva in stadio iniziale mostrano, di solito, un lieve incremento di LDL e VLDL ed un discreto aumento di HDL: questo spiega perché essi, pur avendo una notevole ipercolesterolemia, non presentano un rischio elevato di aterosclerosi (un altro fattore protettivo in tal senso è la presenza di bassi livelli sierici di lipoproteina a, che è un fattore di rischio indipendente per coronaropatia sclerotica); nelle fasi più avanzate della malattia, per contro, aumenta la concentrazione sierica di LDL e diminuisce quella di HDL e si riscontrano livelli significativi di lipoproteina X, lipoproteina anomala spesso osservata nei pazienti con colestasi cronica, che favorisce lo sviluppo di aterosclerosi. Un altro dato indicativo della colestasi è il notevole aumento di quegli enzimi che sono significativi della stasi biliare, la -glutamil-transferasi (-GT) e, soprattutto, la fosfatasi alcalina (ALP), quest’ultima spesso notevolmente elevata; minore è invece l’incremento delle transaminasi. Anche la cupremia, cioè la concentrazione sierica del rame, è aumentata in questi pazienti, così come si instaura nel tempo un abnorme accumulo epatocitario di tale sostanza pur in assenza di un deficit della sintesi della ceruloplasmina come, invece, si verifica nel morbo di Wilson (si veda in seguito). Nelle urine è presente bilirubina (la bilirubina diretta supera il filtro renale) e le feci sono ipocoliche per la diminuzione dei bilinogeni fecali, in genere mai completamente acoliche, perché l’ostruzione biliare, di regola, non è assoluta. Questi dati di laboratorio sono comuni a tutte le cirrosi biliari, mentre la caratteristica fondamentale della forma primaria è la presenza in circolo di particolari autoanticorpi, come è già stato ricordato. Di questi il più caratteristico in senso diagnostico è quello diretto contro i mitocondri (AMA), che viene ricercato con la tecnica dell’immunofluorescenza ed è presente in oltre il 95% dei casi (con una specificità per questa malattia del 98%; la loro presenza ed il loro titolo, peraltro, non hanno significato prognostico). Questi anticorpi sono di tipo diverso in quanto sono diretti contro differenti antigeni mitocondriali: quelli più comuni sono gli AMA anti-M2 che sono diretti con-
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tro un antigene della membrana interna dei mitocondri. Sono stati descritti anche AMA anti-M4, anti-M8 e antiM9, tutti diretti contro antigeni della membrana mitocondriale esterna; di regola, questi anticorpi si associano a quelli anti-M2 (a parte gli AMA anti-M9, che possono essere presenti da soli) ed è stato osservato che la presenza degli AMA anti-M8 si accompagna ad un andamento particolarmente aggressivo della malattia, mentre gli AMA anti-M9 sembrano essere utili per la diagnosi nelle fasi iniziali e asintomatiche o paucisintomatiche della malattia (in verità è verosimile, sulla scorta di recenti acquisizioni, che tutti gli AMA siano quelli denominati anti-M2, mentre gli anti-M4, anti-M8, anti-M9 sarebbero, probabilmente, degli artefatti di laboratorio). Di fatto, comunque, oggi è noto che gli AMA sono diretti contro la subunità E2 (diidrolipamide-S-acetiltransferasi) di una famiglia di enzimi funzionalmente correlati tra loro (2-oxoacido-deidrogenasi). Essa comprende piruvato-deidrogenasi, 3-metil-2oxobutanoato-deidrogenasi e oxoglutarato-deidrogenasi, enzimi che catalizzano il trasferimento riduttivo di un gruppo acetilico dal loro substrato specifico al coenzima A per la sua oassidazione nel ciclo di Krebs (ciascuno di essi può rappresentare il target antigenico per gli AMA, ma la piruvato-deidrogenasi è quello più importante). Anticorpi antimuscolo liscio (ASMA) e antinucleo (ANA) si riscontrano nel 70% circa di questi pazienti (sono presenti di frequente anche nell’epatite cronica); spesso è positivo il fattore reumatoide (RA test), che è una IgM (nella cirrosi biliare primitiva le IgM sono aumentate nell’80% dei casi, per quanto molte volte si tratta di IgM anomale, monomeriche e non pentameriche come sono quelle normali), il cui bersaglio è la regione Fc delle IgG e che si riscontra soprattutto nella artrite reumatodie, ma anche in molte altre condizioni patologiche nelle quali il sistema immunitario è intensamente stimolato. Frequente è, inoltre, la presenza di crioglobuline così come di anticorpi antitiroide, antipiastrine, anticentromero, anti-Scl-70, anti-SSA (o anti-Ro) e/o anti-SSB (o anti-La), questi ultimi tipici della sindrome di Sjögren; positiva può risultare la ricerca di immunocomplessi circolanti. E. Associazioni morbose della cirrosi biliare primitiva. Un’altra caratteristica della cirrosi biliare primitiva è che essa si associa spesso ad altre malattie, le quali riconoscono quasi tutte una patogenesi di tipo immunitario. La sindrome di Sjögren si associa alla cirrosi biliare primitiva nel 50-75% circa dei casi: essa può manifestarsi in forma isolata oppure accompagnarsi ad altre malattie, come, per esempio, l’epatite cronica attiva o l’artrite reumatoide. Si tratta di un processo autoimmune, detto anche sindrome sicca, che provoca la distruzione progressiva delle ghiandole salivari e lacrimali e di altre ghiandole esocrine: il paziente lamenta sensazione di sabbia negli occhi, cheratite, cherato-congiuntivite, bocca secca per xerostomia e, per effetto della
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scarsa salivazione, facile insorgenza di carie dentaria che, generalmente, in questi soggetti si sviluppa molto rapidamente. Nel 60% circa dei casi la cirrosi biliare primitiva si associa al morbo di Raynaud o anche semplicemente alla presenza del fenomeno di Raynaud senza malattia vera e propria. Questo fenomeno consiste in una brusca vasocostrizione che si verifica a livello delle dita (di solito alle mani) dopo esposizione al freddo; per esempio, in acqua fredda le dita (una sola o più) diventano improvvisamente bianche, presentano parestesie (formicolii), fanno male; in seguito, dopo la rapida vasocostrizione, subentra paralisi vascolare e le dita diventano rosse e cianotiche; poi, nel giro di alcuni minuti, tale fenomeno regredisce spontaneamente. Esso può manifestarsi anche in soggetti del tutto normali, specialmente di sesso femminile, oppure compare nell’ambito di malattie a patogenesi immunitaria, come il lupus e, soprattutto, la sclerodermia; quando il fenomeno di Raynaud si verifica in forma ripetuta ed insistente, può portare ad alterazioni trofiche delle dita; in questo caso si parla più correttamente di morbo di Raynaud. Spesso nella cirrosi biliare primitiva sono presenti dolori articolari, la cui patogenesi è correlata alla presenza di complessi antigene-anticorpo circolanti; si tratta generalmente di artralgie e non di artrite perché le articolazioni colpite, che più di frequente sono grosse articolazioni, non presentano segni obiettivi di flogosi acuta. Una franca artrite è descritta, peraltro, nel 5-25% dei casi, mentre assai più rara è l’associazione con l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica e la condrocalcinosi. Nel 15-20% circa dei casi si può avere sclerodermia, la malattia in cui più spesso si manifesta il fenomeno di Raynaud; non solo, ma in questi soggetti può essere presente un quadro clinico particolare denominato sindrome CRST e caratterizzato dalla contemporanea esistenza di C: calcinosi, cioè deposizione di Ca nelle parti molli; R: fenomeno di Raynaud; S: sclerodattilia, con ispessimento e retrazione della cute delle dita delle estremità superiori ed inferiori; T: teleangectasie, dilatazioni vascolari permanenti del circolo cutaneo presenti in sedi diverse. Nel 15-25% circa dei casi la cirrosi biliare primitiva si associa ad ipotiroidismo, dovuto alla distruzione progressiva della tiroide per effetto di un meccanismo autoimmunitario (si possono trovare in circolo anticorpi antitiroide), il quale può manifestarsi nel corso della malattia, ma che può anche insorgere prima della sua diagnosi. Piuttosto frequente è l’associazione con l’osteomalacia, la quale, come già ricordato, è dovuta al fatto che i sali biliari passano nell’intestino in quantità minore, per cui si verifica malassorbimento dei grassi e delle vitamine liposolubili, in particolare, della vitamina D con conseguente riduzione dell’assorbimento intestinale di Ca. Insieme con l’osteomalacia può essere presente osteoporosi, la cui causa non è ben conosciuta, ma sembra si possa mettere in relazione ad una compromissione della attività degli osteoblasti che si correla ad una
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diminuzione delle proteine della sostanza fondamentale del tessuto osseo. Una vera e propria complicanza della cirrosi biliare primitiva può essere considerata, infine, l’acidosi tubulare renale, che abitualmente, peraltro, non dà segni clinici, ma che può essere messa in evidenza mediante opportune indagini di laboratorio che documentano un difetto del processo di acidificazione delle urine nel 3050% di questi pazienti. L’acidosi tubulare renale è una complicanza anche dell’epatite cronica attiva e la sua patogenesi è stata descritta nel capitolo dedicato a quest’ultima. Un’altra manifestazione che si associa di frequente alla cirrosi biliare primitiva è la comparsa di batteriuria asintomatica e di cistite acuta, spesso recidivante, così come è relativamente comune l’insorgenza di steatorrea, che si verifica più spesso nei pazienti con malattia in stadio avanzato e che è dovuta alla diminuita eliminazione nell’intestino degli acidi biliari per effetto della colestasi (essa può trarre beneficio dalla riduzione nella dieta dei grassi saturi e dall’incremento dei trigliceridi a catena corta o media). F. Decorso e prognosi. La malattia è cronica ed ha un andamento progressivamente ingravescente per quanto molto variabile nei singoli casi (in genere, i pazienti asintomatici hanno un’aspettativa di vita migliore dei pazienti sintomatici; la sopravvivenza dall’epoca della diagnosi è di circa 10-15 anni per i primi e di 7-8 anni per i secondi). Nelle forme più tipiche la morte si verifica in seguito a coma epatico, ma è piuttosto comune anche l’insorgenza di emorragie fatali del tratto gastroenterico superiore per rottura di varici esofagee, soprattutto nei casi in cui l’ipertensione portale si manifesta più precocemente. In una ridotta percentuale di casi la cirrosi biliare primitiva evolve in epatocarcinoma (assai meno, per es., della colangite sclerosante), mentre è interessante ricordare che in questi pazienti, prevalentemente di sesso femminile, è stata segnalata una maggiore incidenza rispetto alla popolazione generale di carcinomi della mammella (ma non c’è concordanza di opinioni su questo dato). Riguardo la storia naturale di questa malattia, peraltro, si può sottolineare che esistono diversi modelli prognostici che fanno riferimento ai principali indici di funzionalità epatica allo scopo di stabilire, con buona approssimazione, l’andamento della malattia e individuare il momento più opportuno (timing) per ricorrere al trapianto di fegato, che per tutti questi pazienti rappresenta l’opzione terapeutica più importante (in pratica ci si rifà alla classificazione di Child, della quale s’è già parlato nel capitolo 27: la prognosi è, ovviamente, peggiore per i pazienti in stadio C rispetto a quelli in stadio A o B). G. Terapia. Non esiste alcuna terapia specifica per la cirrosi biliare primitiva. Tenendo conto del ruolo fondamentale dei processi autoimmunitari nella patogenesi di questa malattia, la terapia medica è fondata sull’impiego di immunosoppressori, cortisonici in particolare,
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ma la reale efficacia di tali farmaci sull’andamento del quadro clinico dei pazienti è tuttora discussa. Di fatto non sembra che i corticosteroidi, così come i citostatici (per es., azatioprina) o altri farmaci come la penicillamina, siano in grado di migliorare né la sopravvivenza né la progressione istologica né l’andamento dei principali esami di laboratorio della malattia. Se mai la penicillamina, essendo un chelante del rame, può essere utile per ridurre l’accumulo di questa sostanza nel fegato, come di solito si verifica per effetto della colestasi. Più recentemente anche la colchicina, il clorambucil e l’acido urso-desossicolico sono stati impiegati nel trattamento della cirrosi biliare con risultati ancora contraddittori, ma apparentemente non proprio incoraggianti. In particolare la colchicina, secondo alcuni Autori, migliorerebbe sia l’andamento dei parametri ematochimici della malattia sia il quadro clinico che quello istologico, ma non c’è concordanza in letteratura su quest’ultimo punto, senza dimenticare gli importanti effetti collaterali di un trattamento protratto nel tempo con tale farmaco, soprattutto per la possibile comparsa di alterazioni della crasi ematica e di neuropatia periferica (la colchicina inibisce la formazione del fuso mitotico interferendo, in tal modo, sulla replicazione cellulare e, pertanto, sarebbe in grado di rallentare l’evoluzione del processo fibrotico). Anche il clorambucil è capace di inibire la replicazione delle cellule (agendo come sostanza alchilante) e sembrerebbe in grado di ritardare la progressione della malattia, ma anche in questo caso la possibilità di impiego a lungo termine del farmaco è limitata dai suoi potenziali, gravi effetti collaterali (soprattutto mielotossicità). Tra i farmaci immunosoppressori, inoltre, confortanti risultati sono stati ottenuti con il metotrexate (o aminopterina, antimetabolita che inibisce la sintesi dei nucleotidi pirimidinici) sia riguardo ai test biochimici che al quadro sintomatologico ed anche istologico della malattia: esso, impiegato in dose settimanale da 7,5 a 15 mg, sembra essere in grado di ridurre l’entità del processo infiammatorio e la distruzione dei dotti biliari, ma va ricordata la sua notevole tossicità (mielotossicità, epatotossicità, tossicità a carico delle mucose, tossicità polmonare con polmonite interstiziale nel 15-20% dei casi). Incoraggianti, nel complesso, sembrano essere, comunque, i risultati dell’impiego terapeutico dell’acido urso-desossicolico (alla dose di 13-15 mg/kg/die), il quale è in grado di migliorare sia l’andamento dei parametri bioumorali sia quello del quadro clinico della cirrosi biliare primitiva, come confermano numerosi studi condotti a tale proposito (ma, sembra, soltanto se utilizzato negli stadi precoci della malattia, assai meno in quelli più avanzati). È stato, infatti, dimostrato che in presenza di malattie autoimmuni che coinvolgono le strutture biliari gli epatociti sono variamente danneggiati, per effetto della colestasi cronica, in seguito all’accumulo di acidi biliari
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endogeni quali l’acido cheno-desossicolico e l’acido colico. Il razionale dell’impiego terapeutico dell’acido ursodesossicolico starebbe nel fatto che quest’ultimo, più idrofilo e meno lesivo, sostituirebbe parzialmente gli acidi biliari endogeni contribuendo a ridurre il processo infiammatorio a carico del fegato attraverso la diminuzione della stasi biliare. Inoltre, l’acido urso-desossicolico sarebbe in grado di inibire il riassorbimento intestinale degli acidi biliari endogeni, interferendo con il circolo enteroepatico di questi ultimi. Probabilmente, infine, questa sostanza possiede anche un effetto diretto sul sistema immunitario: infatti, è stato dimostrato che essa è in grado di ridurre l’abnorme espressione di antigeni di istocompatibilità di I e II classe sugli epatociti e sulle cellule duttali (in particolare di MHC I sugli epatociti) di pazienti con cirrosi biliare primitiva o colangite sclerosante, del cui significato patogenetico s’è già detto (caratteristiche analoghe a quelle dell’acido urso-desossicolico possiede un suo derivato, l’acido tauro-urso-desossicolico, che deriva dal primo dopo coniugazione con la taurina). Per quanto riguarda la terapia sintomatica, si può ricordare che per il trattamento del prurito la colestiramina è il farmaco d’elezione, agendo come chelante dei sali biliari il cui accumulo, per la presenza della colestasi, è una delle cause principali di questo sintomo, spesso assai fastidioso (di recente è stato ipotizzato che il prurito sia dovuto soprattutto all’accumulo di sostanze oppiacee di origine endogena, endorfine-like, e positivi risultati sono stati ottenuti, in molti casi resistenti alla terapia convenzionale, con l’impiego degli antagonisti degli oppiacei come il naloxone). Il malassorbimento dei grassi, correlato al deficit di sali biliari nell’intestino, richiede l’uso di trigliceridi a catena corta o media, mentre il deficit di vitamine liposolubili necessita di un trattamento sostitutivo con vitamina A, D, K (raramente vitamina E); in particolare, per quel che riguarda l’osteoporosi, può essere utile la somministrazione cronica o a cicli di vitamina D e sali di calcio oltre che di difosfonati. La terapia chirurgica è limitata alle forme secondarie della cirrosi biliare per eliminare le cause della colestasi extraepatica, mentre per quelle primitive può essere utilizzata solo nel trattamento di eventuali complicanze (per es., interventi di shunt porta-cava o anche di tipo diverso per grave ipertensione portale). Occorre però ricordare che per questi pazienti, specialmente in caso di rapida progressione dell’insufficienza epatica o di ricorrenti episodi di emorragia del tratto gastroenterico superiore (per rottura di varici esofagee), è ritenuto opportuno il ricorso al trapianto di fegato, come avviene già da diversi anni, ormai, con risultati abbastanza incoraggianti riguardo ai vantaggi in termini di qualità di vita e di sopravvivenza. Secondaria È una malattia che insorge in seguito a stasi biliare cronica provocata da processi patologici che interessano le vie biliari extraepatiche (colestasi extraepatica).
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Le cause più comuni sono rappresentate dalla calcolosi coledocica, da processi neoplastici delle grosse vie biliari o che determinano ostruzione del coledoco, per esempio del pancreas, o anche dalla colangite cronica sclerosante, che è una complicanza della colite ulcerosa e della malattia di Crohn. Tutte queste condizioni provocano stasi biliare, la quale, col tempo, determina anche a monte, a livello del parenchima epatico, uno stato di sofferenza con insorgenza di epatopatia cronica prima e quindi di cirrosi vera e propria, definita secondaria in quanto correlata alla preesistente stasi biliare. La cirrosi biliare secondaria può colpire soggetti di ogni età, uomo o donna, con uguale frequenza; a differenza della forma primaria, che insorge in maniera insidiosa, questi pazienti presentano frequentemente nell’anamnesi episodi di coliche epatiche e sono spesso portatori noti di calcolosi biliare, oppure episodi ripetuti di colangite con febbre, ittero, sintomi e segni di flogosi acuta delle vie biliari. Le caratteristiche anatomopatologiche, cliniche e di laboratorio sono quelle della cirrosi primaria, tuttavia occorre tenere presente che la patogenesi non è autoimmunitaria, quindi non saranno presenti in questa malattia quegli autoanticorpi tipici della forma primaria, molto importanti proprio per la diagnosi differenziale tra le due varietà di cirrosi biliare. Allo stesso modo, la forma secondaria non si associa a quelle malattie di carattere autoimmunitario che spesso si accompagnano alla cirrosi biliare primitiva. La terapia è fondamentalmente chirurgica e rivolta all’eliminazione delle cause responsabili della colestasi extraepatica, soprattutto negli stadi precoci della malattia quando il danno epatico non è ancora molto avanzato; la terapia medica ha significato solo sintomatico.
successivo ristagno a monte del sangue e stasi venosa nel distretto epatico. Sindrome di Budd-Chiari Analoga situazione è presente nella cosiddetta sindrome di Budd-Chiari, evenienza piuttosto rara dovuta a trombosi delle vene sovraepatiche: essa può verificarsi in seguito ad ipoplasia congenita di queste vene (in tal caso è conservata la pervietà della vena ombelicale con possibile comparsa di imponenti circoli collaterali che vanno sotto il nome di caput medusae, di osservazione estremamente rara), oppure, più spesso, è secondaria a neoplasie, che arrivano a provocare una compressione su questi vasi, o anche a policitemia o all’uso prolungato di alcuni farmaci, come per esempio i contraccettivi orali. In tutti questi casi, per effetto della stasi venosa cronica nel fegato, si verifica almeno inizialmente una sofferenza soprattutto centrolobulare, cioè a livello delle cellule che si trovano intorno alla vena centrale, che è deputata al drenaggio del sangue dal lobulo epatico: se tale condizione si protrae nel tempo, si sviluppa fibrosi in questa sede e quindi si può dire che si instaura una sorta di inversione della normale struttura lobulare, nel senso che gli spazi portali vengono a trovarsi al centro di una corona di aree di fibrosi localizzate in corrispondenza delle vene centrolobulari. Il quadro clinico è analogo a quello della cirrosi classica, anche se le conseguenze, sia per quanto riguarda la funzionalità epatica sia per quanto riguarda le ripercussioni dell’ipertensione portale, sono in genere più modeste e la prognosi è migliore. Caratteristica di questa forma di cirrosi dal punto di vista obiettivo è la notevole epatomegalia che si instaura progressivamente nel tempo, con sensibile aumento anche della consistenza di tale organo; tipico, in rapporto alla stasi venosa, il turgore delle giugulari.
Cirrosi da cause circolatorie Cirrosi cardiaca La causa più comune di questa varietà di cirrosi è lo scompenso cardiaco congestizio: in questo caso si verifica stasi venosa a livello di tutta la grande circolazione e quindi anche a carico delle vene sovraepatiche, per cui si instaura ristagno cronico di sangue nel fegato, che diventa congesto (fegato da stasi cronica). Nel tempo le ripercussioni in questo organo della stasi venosa cronica provocano la comparsa di un quadro di tipo cirrotico denominato “cirrosi cardiaca”. Pericardite costrittiva Una conseguenza dello stesso genere si può avere anche nella pericardite costrittiva, quando l’infiammazione cronica del sacco pericardico che diventa fibrotico determina la comparsa di una compressione sul cuore, soprattutto all’imbocco della vena cava inferiore, con
Cirrosi da cause metaboliche Alcune di queste forme sono caratteristiche dell’età infantile e sono dovute ad alterazioni metaboliche per difetto congenito di alcuni enzimi, come nel caso della galattosemia e della glicogenosi di tipo IV. Galattosemia È una condizione in cui si riscontra un deficit nella conversione epatica del galattosio in glucosio; il neonato ingerisce abitualmente grosse quantità di galattosio con il latte (il lattosio, infatti, è un disaccaride costituito da galattosio e glucosio); l’accumulo di questo zucchero provoca nel tempo grave sofferenza epatica con sviluppo di cirrosi, oltre che danno cerebrale con oligofrenia, e a livello oculare provoca insorgenza di cataratta.
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Glicogenosi di tipo IV È una delle forme di glicogenosi, condizioni metaboliche in cui, in rapporto a difetto congenito di alcuni enzimi implicati nel metabolismo del glicogeno, questa sostanza si accumula in sedi diverse dell’organismo, dove provoca danni cellulari di vario genere. Nella glicogenosi di tipo IV (o malattia di Andersen) è presente un deficit dell’enzima amilo-1,4-1,6-transglucosidasi (o enzima ramificante): in questo caso si forma un polimero di glicogeno a catene rettilinee, a struttura, per così dire, fibrosa, il quale è in grado di danneggiare gli epatociti, accumulandosi soprattutto nel fegato fino alla comparsa di un quadro di cirrosi. Cirrosi da deficit di 1-antitripsina L’1-antitripsina (1-AT) è una sostanza glicoproteica prodotta dal fegato che ha la proprietà di legarsi agli enzimi proteolitici (in particolare la tripsina), i quali costituiscono il patrimonio enzimatico di macrofagi e polimorfonucleati, inattivandoli e limitando così le conseguenze della loro eventuale liberazione nei diversi tessuti. La sintesi della 1-AT è soggetta ad un polimorfismo genetico che ne determina sia le caratteristiche qualitative (ne esistono almeno 25 varianti nell’uomo corrispondenti ad altrettanti alleli) sia i livelli plasmatici. In particolare, i soggetti portatori del genotipo omozigote PiZZ, che rappresentano circa lo 0,1% della popolazione e che presentano i livelli più bassi di 1-AT (di solito inferiori a 50 mg/dl rispetto ai valori normali di 200-400 mg/dl), appaiono caratterizzati da un rischio elevato riguardo allo sviluppo di enfisema polmonare, il quale insorge nel 60-90% di tali soggetti entro i 50 anni di età. È interessante ricordare che circa il 10% degli individui con genotipo omozigote PiZZ presentano in tenera età alterazioni epatiche sotto forma di epatite e, soprattutto, di cirrosi; si ritiene, infatti, che il 15-20% delle epatopatie croniche nell’infanzia sia dovuto proprio ad un deficit di 1-AT. Negli adulti la più comune manifestazione a carico del fegato di questa condizione è la progressiva comparsa di un quadro classico di cirrosi, micronodulare o macronodulare, la quale può in seguito evolvere in epatocarcinoma in una discreta percentuale di casi. La patogenesi di queste alterazioni epatiche, che non sembrano essere correlate al danno che si instaura a carico dell’apparato respiratorio, non è molto chiara, tuttavia si pensa che siano dovute all’incapacità degli epatociti di rilasciare le molecole di 1-AT, le quali sarebbero differenti da quelle normali e perciò si accumulano nel citoplasma di tali cellule danneggiandole progressivamente. Istologicamente, infatti, il citoplasma di questi epatociti contiene in numero variabile granuli eosinofili PAS positivi, che sarebbero formati da aggregati di 1-AT avente caratteristiche strutturali abnormi; infatti, nei soggetti PiZZ, questa molecola conterrebbe in posizione 292 un residuo di acido glutammico in luogo di un
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residuo di lisina per una trasposizione di acidi nucleici (guanina al posto di adenina). Malattia di Wilson È una malattia metabolica descritta da Wilson nel 1912 in cui si ha un difetto parziale o totale nel fegato della sintesi della proteina chiamata ceruloplasmina (è una 2-globulina), che serve per il trasporto in circolo del rame. La malattia ha carattere familiare ed ereditario e si trasmette con meccanismo autosomico recessivo (è asintomatica in forma eterozigote); è diffusa in tutte le razze ed in ogni area geografica e la sua prevalenza è di circa 1/30.000 abitanti. A. Patogenesi. Il rame è presente in tracce nell’organismo, soprattutto nel fegato, nel rene, nel cervello ed in minor misura nel plasma (cupremia normale: negli adulti, 80-160 g/dl; nei neonati, 10-70 g/dl; nei bambini, 30-150 g/dl). La sua funzione non è ancora completamente chiarita; il rame è contenuto in diversi alimenti, in particolare noci, crostacei, fegato, cioccolato, legumi, funghi; viene assorbito nell’intestino e tramite il circolo portale giunge al fegato, che lo immette nella circolazione generale dove viene veicolato dalla ceruloplasmina e, in piccola parte e con legame più labile, dall’albumina. La sua eliminazione avviene essenzialmente per via biliare. Questo oligoelemento sembra agire come cofattore di alcuni enzimi, quali citocromossidasi, monoamminossidasi e tirosinasi. Verosimilmente, l’alterazione primitiva del normale metabolismo del rame, che caratterizza la malattia di Wilson dal punto di vista patogenetico, è dovuta ad un deficit della capacità dei lisosomi epatici di eliminare questa sostanza attraverso la bile, per cui essa si accumula nel fegato inibendo la conversione di apoceruloplasmina in ceruloplasmina, cioè nella forma attiva di tale proteina, quella che è in grado di legare il rame. Va peraltro ricordato che in qualche raro caso la malattia di Wilson può sussistere anche in presenza di livelli normali di ceruloplasmina, essendo dovuta, allora, al fatto che questa proteina, verosimilmente per le caratteristiche anomale della sua struttura, presenta ridotta affinità per il rame rispetto alla norma. Il gene che codifica per la ceruloplasmina (proteina di 1411 aminoacidi) è stato identificato sul braccio lungo del cromosoma 13 e di esso sono state descritte circa 100 mutazioni associate alla malattia di Wilson, la più frequente delle quali comporta la sostituzione, in posizione 1069, dell’istidina da parte della glutamina. B. Clinica. Se è presente un difetto della sintesi della ceruloplasmina nella sua forma attiva, la maggior parte o anche tutto il rame è trasportato dall’albumina, da cui si separa facilmente depositandosi in diversi organi e specialmente nel fegato, nel rene e nel cervello. A livello epatico l’accumulo di rame può determinare l’insorgenza di quadri diversi, in particolare di epatite acuta (spesso a carattere fulminante), di epatite cro-
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nica attiva, soprattutto di cirrosi epatica (classica cirrosi portale) e, molto raramente, di epatocarcinoma. A carico del rene, si può verificare la comparsa di ematuria, di proteinuria, di acidosi tubulare renale o anche di sindrome di Fanconi (il danno è prevalentemente tubulare). Nel cervello l’eccessivo accumulo di rame ha distribuzione ubiquitaria (potendosi avere anche quadri di demenza di Alzheimer), tuttavia è più frequente e più marcato a livello dei nuclei della base, in particolare quello lenticolare, con importante sindrome neurologica caratterizzata da variabile compromissione dell’attività del sistema extrapiramidale. Inoltre, una tipica manifestazione della malattia di Wilson è la comparsa del cosiddetto anello di Kayser-Fleischer, di colore bruno-verde, visibile alla periferia della cornea e dovuto alla deposizione di un pigmento contenente rame in corrispondenza della membrana di Descemet sulla superficie posteriore della cornea. L’anello di Kayser-Fleischer, che può essere visibile alla semplice osservazione del paziente, ma che può meglio essere osservato mediante lampada a fessura, può essere assente se la malattia insorge durante l’infanzia, soprattutto se in forma acuta, mentre negli adulti con franco interessamento neurologico e/o psichiatrico, la sua presenza è costante (la sua assenza, in tali casi, deve far escludere la diagnosi di malattia di Wilson). La malattia di Wilson è affezione molto rara e, soprattutto, la cirrosi epatica che si può associare a questa condizione è caratteristica dell’infanzia, manifestandosi, di solito, in soggetti di età non superiore a 10 anni. C. Diagnosi. La diagnosi di malattia di Wilson, oltre che sulle caratteristiche del quadro clinico, è fondata sul riscontro di una diminuzione della concentrazione sierica di ceruloplasmina al di sotto di 20 mg/dl (valore normale: 25-50 mg/dl) e di un elevato contenuto in rame del tessuto epatico prelevato con biopsia (più di 250 g/g di tessuto secco). Secondo i criteri di Sternlieb, devono essere presenti almeno due condizioni tra: • • • •
anello di Kayser-Fleischer; alterazioni neurologiche caratteristiche; ridotti livelli di ceruloplasmina; aumentata concentrazione epatica di rame.
Inoltre, in questi pazienti si osserva un incremento dell’escrezione urinaria di rame, con livelli di cupruria superiori a 100 g/24 h (valore normale: 15-75 g/24 h). Tale valore aumenta ulteriormente in seguito all’impiego terapeutico di sostanze chelanti il rame per favorirne l’allontanamento dall’organismo come, in particolare, la penicillamina. La penicillamina rappresenta il fondamentale sussidio nella cura di questa affezione, pur tenendo conto della sua elevata tossicità (può causare sindrome nefrosica, reazioni allergiche cutanee, leucopenia fino ad agranulocitosi, piastrinopenia); somministrata per via orale alla dose di 1 g/die, essa consente, infatti, di raggiungere ra-
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pidamente valori di cupruria al di sopra di 1000 g/24 h (in genere, inizialmente, tra 1 e 3 g/24 h stabilizzandosi poi intorno a 1,5 mg) in maniera da ridurre progressivamente l’eccesso di rame nei diversi tessuti dell’organismo fino al ripristino di livelli normali. Emocromatosi ereditaria (*) L’emocromatosi è una malattia genetica autosomica recessiva caratterizzata da eccessivo assorbimento intestinale di ferro e conseguente deposito di ferro nelle cellule parenchimali di diversi organi, principalmente del fegato. Il deposito epatocitario di ferro contraddistingue questa condizione, definita anche primitiva o idiopatica, dall’emosiderosi, che si riferisce all’accumulo di ferro secondario o acquisito, in relazione a emolisi o eritropoiesi inefficace, eccessivo apporto di ferro per terapie parenterali inappropriate o per ripetute trasfusioni di sangue. Nell’organismo il metabolismo del ferro è regolato da un complesso meccanismo per la cui descrizione si rimanda al capitolo 44. Dal momento che non esiste un sistema di eliminazione del ferro in eccesso, la quantità di ferro assorbita a livello intestinale è attentamente controllata e mantenuta entro i limiti normali di 1-2 mg/die. Il ferro assorbito in misura eccessiva tenderà a depositarsi in diversi tessuti, principalmente nel fegato, legato a proteine di deposito, ferritina ed emosiderina. L’eccesso di ferro favorisce la formazione di specie reattive dell’ossigeno che danneggiano le strutture cellulari, determinando necrosi e sostituzione fibrotica. L’emocromatosi idiopatica fu descritta da von Recklingausen nel 1889 come “diabete bronzino”, dizione che sottolineava alcune delle caratteristiche della malattia conclamata, il diabete e la pigmentazione cutanea. La malattia si rende clinicamente evidente soltanto nei soggetti omozigoti. È una patologia rara, ma causata da un genotipo relativamente frequente: nelle popolazioni del Nord Europa il genotipo omozigote ha una prevalenza intorno a 1:300-1:500 e l’eterozigote rappresenta il 6-10%. Il genotipo condiziona la suscettibilità a sviluppare sovraccarico di ferro, ma la penetranza è ridotta, in quanto l’espressione della malattia dipende dall’età e dal sesso; può essere favorita dall’alimentazione di carne e dall’introito alcolico e mascherata da donazioni o perdite di sangue, ma può variare anche in relazione al background genetico. L’associazione dell’emocromatosi con alcuni aplotipi del sistema maggiore di istocompatibilità, in primis l’HLA-A3, fu riconosciuta negli anni settanta ed è stata l’osservazione base che ha portato al clonaggio posizionale del gene nel 1996. Il linkage con il sistema maggiore di istocompatibilità ha permesso di stabilire che il locus della malattia mappa sul braccio corto del cromosoma 6 e ha facilitato, successivamente, il clonaggio di HFE, il gene responsabile localizzato nella regione telomerica rispetto all’HLA di classe I. La mutazione principale del gene HFE determina la sostituzione dell’aminoacido cisteina in posizione 282 con ti(*) C. Camaschella
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rosina (C282Y) nella proteina, mentre una mutazione minore è rappresentata dalla sostituzione istidina- > acido aspartico in posizione 63 (H63D). Il 60-95% dei pazienti affetti da emocromatosi con sovraccarico epatico di ferro sono omozigoti per la mutazione C282Y, una minoranza presenta l’eterozigosità composta per le due mutazioni (genotipo C282Y/H63D), mentre gli omozigoti H63D sviluppano raramente i segni clinici del sovraccarico di ferro. Altre mutazioni di HFE sono rare e, quando presenti, sono in eterozigosi composta con la mutazione principale C282Y. Altri pazienti non hanno mutazioni in HFE, ma di altri geni, tra cui il secondo recettore della transferrina, l’esportatore di ferro ferroportina, e, nelle forme ad esordio clinico precoce (cosidetta emocromatosi giovanile), l’epcidina e l’emogiuvelina. A. Fisiopatologia. HFE codifica per una proteina di istocompatibilità di classe I atipica, molto espressa nel fegato e nel duodeno, in associazione alla 2-microglobulina. La presenza della mutazione C282Y determina la rottura di un legame disolfuro e la perdita della connessione con la 2-microglobulina, per cui la molecola HFE non viene più presentata sulla membrana cellulare. L’effetto della mutazione C282Y e dell’assenza del gene HFE nel causare emocromatosi sono documentati in modelli animali. È stato dimostrato che HFE interagisce con il recettore della transferrina nel ciclo endosomico del ferro, ma come regoli l’assorbimento è rimasto a lungo ignoto. È stato inizialmente proposto che HFE, in associazione al recettore della transferrina, rappresenti il sensore del ferro a livello della cripta intestinale, in grado di programmare l’assorbimento delle cellule dei villi a seconda delle necessità dell’organismo. Recentemente, dopo l’identificazione di epcidina come regolatore principale del ferro (si veda il Cap. 44) in grado di bloccare sia l’assorbimento intestinale che il riciclaggio di ferro dal macrofago, una serie di studi sta dimostrando che HFE regola l’epcidina. La fisiopatologia del sovraccarico genetico di ferro dipenderebbe da assenza di epcidina nell’emocromatosi giovanile (per inattivazione del gene che codifica epcidina o per inattivazione della proteina correlata emogiuvelina), mentre un’insufficiente, inappropriata produzione di epcidina sarebbe alla base del sovraccarico più modesto che si osserva nella forma classica di emocromatosi da mutazioni di HFE. B. Clinica. La forma classica di emocromatosi si manifesta nel 75% dei casi tra i 40 e i 60 anni, quando si raggiunge l’eccesso di ferro che determina complicanze clinicamente evidenti (in genere 10-20 g di ferro totale a fronte di valori normali compresi tra 3 e 4 g). La malattia è molto più frequente nell’uomo che nella donna (5-10:1), in relazione alle caratteristiche del metabolismo del ferro nella donna in età fertile. La periodica perdita mestruale (circa 25-30 mg di ferro) e la perdita di ferro correlata alle gravidanze ritardano l’accumulo di questo elemento nel sesso femminile e le complicanze cliniche si evidenziano dopo la menopausa.
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I sintomi iniziali sono aspecifici e consistono in astenia, apatia, artralgie, dolori addominali. Le manifestazioni cliniche dipendono dall’accumulo di ferro nei diversi organi, fegato, pancreas, cuore, ipofisi e altre ghiandole endocrine, cute e articolazioni. Il fegato è il primo organo a essere interessato in tutti i pazienti: il ferro in eccesso determina necrosi cellulare, fibrosi progressiva sino all’insorgenza di cirrosi, con le caratteristiche cliniche della cirrosi portale. L’epatomegalia è comune, così come le alterazioni delle transaminasi o della -glutamiltranspeptidasi. La biopsia epatica effettuata in fase conclamata mette in evidenza, dopo colorazione di Perl, l’accumulo epatocitario di ferro e il tipico gradiente decrescente dalla zona portale a quella centrolobulare, caratteristico della malattia. L’insufficienza epatica e l’ipertensione portale sono di raro riscontro. Il ferro, nei pazienti cirrotici, favorisce l’evoluzione in epatocarcinoma, che nei pazienti diagnosticati in fase cirrotica resta la causa principale di morte. Nel pancreas, il ferro depositato danneggia le isole di Langerhans, causando diabete mellito insulino-dipendente, che si riscontra nel 30-60% dei pazienti con malattia in fase avanzata. La familiarità per diabete, oltre al danno da ferro ed un certo grado di insulino-resistenza, favoriscono l’instaurarsi della complicanza. L’interessamento del sistema endocrino è molteplice. Nei maschi giovani si osserva perdita della libido e impotenza, spesso già alla presentazione, atrofia testicolare più tardivamente. Nella donna si può instaurare amenorrea secondaria o menopausa precoce. L’ipogonadismo è di origine ipofisaria e correlato a una riduzione selettiva delle gonadotropine ed è il sintomo più costante nell’emocromatosi giovanile. Ipotiroidismo, ipoparatiroidismo e iposurrenalismo sono complicanze molto rare. Il ferro può depositarsi a livello del miocardio con compromissione dei miociti, comparsa di miocardiopatia restrittiva e scompenso cardiaco a rapida evoluzione o aritmie, soprattutto sopraventricolari. L’interessamento cardiaco è comune nella forma giovanile, caratterizzata da rapido accumulo di notevoli quantità di ferro. L’eccesso di ferro nella cute determina il tipico colorito grigio-ardesiaco (bronzino), dovuto soprattutto all’aumento di melanina. Tale colorito è comune nei pazienti con malattia avanzata o nei giovani con sovraccarico di ferro grave. L’artropatia è molto variabile nelle diverse casistiche e si associa alla deposizione di cristalli di pirofosfato di calcio a livello della sinovia, con comparsa di pseudogotta, oppure nelle cartilagini articolari con insorgenza di condrocalcinosi o del connettivo periarticolare. Le articolazioni maggiormente interessate sono le metacarpofalangee del secondo e terzo dito delle mani e l’articolazione del polso. La triade cirrosi epatica, iperpigmentazione cutanea e diabete mellito è attualmente di raro riscontro, in considerazione della diagnosi sempre più precoce. D. Diagnosi. La diagnosi clinica si basa sull’evidenza di cirrosi epatica, pigmentazione cutanea, diabete mel-
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lito, cardiomiopatia, artrite, ipogonadismo o anche solo una di queste complicanze, in presenza di anomalie dei parametri del ferro. Il sospetto diagnostico richiede la conferma con il test genetico o la biopsia epatica, che, oltre al deposito di ferro, fornisce dati circa il danno istologico (grado di fibrosi, cirrosi). I livelli di sideremia sono aumentati già nei giovani, mentre la capacità totale ferro-legante del plasma (Total Iron Binding Capacity o TIBC) è variamente diminuita; ne risulta un incremento del valore di saturazione della transferrina (al di sopra del 45% e sino al 100%, contro valori normali di 25-35%). L’aumento della saturazione della transferrina è caratteristico sin dagli stadi iniziali della malattia e riflette il maggior assorbimento di ferro e il più rapido rilascio alla transferrina circolante del ferro di riciclaggio macrofagico. L’incremento della ferritina (oltre i 200 ng/ml nella donna e oltre 300 ng/ml nell’uomo) è indice di accumulo di ferro. La diagnosi, sospettata in base ai valori dei parametri di ferro, viene confermata dal riscontro della mutazione causale in HFE (omozigosi C282Y, eterozigosi composta C282Y/H63D) o di altre mutazioni di HFE o di altri geni. Nei casi positivi è utile lo screening familiare, per identificare soggetti in fase preclinica. Nei casi negativi al test genetico la diagnosi richiede la dimostrazione dell’incremento di ferro a livello epatico. È caratteristico il deposito epatocitario con risparmio delle cellule di Kuppfer negli stadi iniziali. Con la biopsia epatica è inoltre possibile effettuare il dosaggio quantitativo del ferro di deposito. Il valore normale di LIC (Liver Iron Concentration) è < 36 mol/g tessuto. Da tale valore si può calcolare l’Hepatic Iron Index (HII), che corregge il LIC per l’età in anni del paziente. Nelle forme di malattia conclamata HII è > 1,9 nel maschio e > 1,7 nella donna. Tuttavia anche questo indice può essere variabile e ridotto nelle fasi iniziali. La RM può dimostrare un segnale T2 alterato in presenza di deposito di ferro significativo, ma non offre una quantizzazione standardizzata. La diagnosi differenziale va posta con il sovraccarico di ferro secondario a malattie ematologiche, nelle quali è presente anemia grave da emolisi o eritropoiesi inefficace come le sindromi talassemiche. In questi casi l’incremento dell’attività eritropoietica stimola l’assorbimento di una maggiore quantità di ferro a livello intestinale. Inoltre, nelle emolisi è aumentato il turnover del ferro derivato dalla distruzione degli eritrociti e questi soggetti vengono di regola sottoposti a terapia trasfusionale cronica per correggere l’anemia. Incremento della ferritina con saturazione della transferrina normale o elevata si riscontra in tutte le epatopatie croniche, a eziologia alcolica o virale. L’alcool favorisce l’assorbimento di ferro; inoltre, il vino rosso contiene una discreta quantità di ferro che induce accumulo epatocitario simile a quello dell’emocromatosi. La porfiria cutanea tarda (PCT) è un difetto della sintesi dell’eme da deficit di urodecarbossilasi su base ereditaria o acquisita, associata a deposito di ferro epatico, che rappresenta un trigger sulle manifestazioni della malattia (si veda Cap. 65). Spesso coesistono infezione da HCV e mutazioni del gene HFE.
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Valori di iperferritina con saturazione della transferrina normale o borderline si riscontrano nell’ambito del quadro dell’insulino-resistenza in soggetti con sindrome plurimetabolica. Il test genetico e la biopsia epatica consentono la diagnosi corretta. Presso alcune popolazioni africane subsahariane, in particolare i Bantù, che nelle feste tribali bevono una bevanda alcolica fermentata in recipienti che rilasciano ferro, è presente una patologia da sovraccarico di ferro con deposito sia epatocitario che reticoloendoteliale, correlata all’eccessiva introduzione ma anche ad un background genetico anomalo, ma non correlato a mutazioni di HFE. E. Decorso e prognosi. La presentazione della malattia è radicalmente cambiata da quando è disponibile la diagnosi molecolare. Molti soggetti con genotipo positivo presentano solo alterazioni dei parametri del ferro e non manifestano sintomi clinici. Quando la diagnosi viene posta in fase precirrotica ed il paziente adeguatamente trattato, la prognosi è ottima e la sopravvivenza media sovrapponibile a quella della popolazione di controllo. La principale causa di morte nei pazienti non trattati è rappresentata dall’epatocarcinoma negli adulti e dallo scompenso cardiaco nelle forme giovanili, mentre l’insufficienza epatica è rara. F. Terapia. Si basa sulla rimozione del ferro mediante salassi regolari, in genere settimanali. Vengono rimossi 400-500 ml di sangue sino a deplezione di ferro, considerata tale per valori di ferritina < 30 g/L. Poiché 500 ml di sangue contengono circa 250 mg di ferro la salassoterapia è la modalità più efficace, oltre che più economica, di rimozione del ferro. Quando i livelli sierici di ferritina sono ritornati normali si instaura una terapia di mantenimento (in genere un salasso di 500 ml ogni 2-3 mesi) per mantenere la ferritina tra 50-100 g/L. La ferrodeplezione riduce l’epatosplenomegalia e la pigmentazione cutanea, migliora la funzionalità epatica, cardiaca e la tolleranza ai carboidrati. Non ha effetto sull’artropatia, sull’ipogonadismo e sul diabete manifesto, complicanze che richiedono terapia sostitutiva a vita. Nei casi in cui la salassoterapia sia controindicata per anemia concomitante, per scompenso cardiaco o epatopatia avanzata, viene impiegata la desferrioxamina alla dose di 20-40 mg/kg sottocute con apposito cronoinfusore per 8-10 h al giorno Il deferiprone, chelante del ferro per os, trova indicazioni nel sovraccarico secondario, in alternativa alla desferrioxamina, ma non è ancora approvato per l’emocromatosi. Nei pazienti diagnosticati in fase cirrotica, il trapianto di fegato rappresenta un’opzione valida purché effettuato dopo deplezione di ferro. Alcuni pazienti giovani sono stati sottoposti con successo a trapianto cardiaco. Emosiderosi L’emosiderosi si osserva, comunemente, a seguito di trasfusioni croniche di sangue per anemie congenite, quali la talassemia omozigote o per disordini acquisiti come le mielodisplasie. Raramente il sovraccarico si in-
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staura per cause iatrogene, per somministrazione inappropriata di ferro per via parenterale. In questi casi, in cui il deposito è a livello del sistema reticolo-endoteliale, si parla più correttamente di emosiderosi. Le complicanze principali sono identiche a quelle dell’emocromatosi, ma si realizzano per sovraccarichi maggiori di ferro, dal momento che il deposito nel sistema reticolo-endoteliale è meglio tollerato. Un esempio classico è rappresentato dalla talassemia maior, quando la terapia tra-
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sfusionale non è adeguatamente bilanciata dalla terapia ferrochelante. In questi casi si può sviluppare cardiomiopatia, cirrosi, ipogonadismo, diabete o altre complicanze endocrine e pigmentazione cutanea. Il trattamento si basa sulla somministrazione di chelanti del ferro, quali la desferrioxamina sottocute con cronoinfusore per 10-12 h al giorno o, nei casi in cui tale terapia non è tollerata, sull’uso del chelante orale deferiprone.
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FISIOLOGIA DELL’APPARATO BILIARE La bile è un liquido isotonico, pigmentato, secreto dalle cellule dei lobuli epatici in una vasta rete di canalicoli di grandezza progressivamente maggiore, formata dai canalicoli biliari, dai colangioli o duttili e dai più grossi dotti biliari, i quali ultimi decorrono affiancati ai vasi linfatici e alle diramazioni della vena porta e dell’arteria epatica, all’interno degli spazi portali, situati tra i lobuli epatici. I dotti interlobari si riuniscono, poi, a formare i dotti biliari settali, i quali, a loro volta, danno origine ai dotti epatici destro e sinistro che, congiungendosi, formano il dotto epatico comune. Il dotto epatico comune riceve, poi, il dotto cistico, proveniente dalla cistifellea, per formare il dotto biliare comune, o coledoco, che sbocca nel duodeno, spesso associato al dotto pancreatico maggiore, attraverso l’ampolla di Vater. Si possono perciò distinguere, teoricamente, due tipi di bile: • la bile epatica, che ha una composizione elettrolitica simile a quella del plasma (bile A); • la bile colecistica, che subisce a livello della cistifellea un notevole riassorbimento di cationi e di anioni inorganici (cloro-ioni e bicarbonato-ioni) risultandone quindi impoverita (bile B). La loro composizione è per il resto simile ed, in particolare, la bile è formata per l’82% da acqua, per il 12% da acidi biliari, per il 4% da lecitina ed altri fosfolipidi, per lo 0,7% da colesterolo esterificato; sono inoltre presenti bilirubina coniugata, proteine (tra cui IgA), elettroliti, muco e, spesso, farmaci o loro prodotti metabolici. Fra tutti questi componenti, un ruolo di primo piano (soprattutto per la prevenzione della calcologenesi) è svolto dagli acidi biliari, derivati dal colesterolo, divisibili in due classi:
• acidi biliari primari, che vengono sintetizzati dal fegato partendo dal colesterolo; sono l’acido colico e l’acido cheno-desossicolico, che sono poi coniugati con glicina o con taurina ed escreti nella bile formando i sali biliari; • acidi biliari secondari, che si formano nel colon grazie all’azione della flora batterica intestinale sugli acidi biliari primari; sono l’acido desossicolico e l’acido litocolico. È da notare, poi, che in pazienti con colestasi cronica possono trovarsi altri acidi biliari secondari e, particolarmente, l’acido urso-desossicolico (uno stereoisomero del cheno-desossicolato). La funzione dei sali biliari è fondamentale per permettere la solubilizzazione in acqua di sostanze lipofile e, nel nostro caso, soprattutto, del colesterolo; gli acidi biliari sono, difatti, dei detergenti, che in soluzione acquosa e al di sopra di una concentrazione critica di circa 2 mM formano aggregati molecolari detti micelle, che permettono, appunto, la solubilizzazione dei grassi. È chiaro, allora, come la solubilità del colesterolo nella bile dipenda, oltre che dalla sua concentrazione, anche da quella degli acidi biliari, dei lipidi e della lecitina. Si ricorda, infine, che gli acidi biliari svolgono anche altri ruoli fisiologici e, soprattutto, facilitano l’assorbimento dei grassi introdotti con la dieta, sempre tramite un meccanismo micellare di trasporto, e ottimizzano l’azione della lipasi pancreatica in ambiente a pH di 6,5 (Cap. 24). Nell’arco di una giornata vengono prodotti dai 500 ai 600 ml di bile, ma solo 0,3-0,6 g di acidi biliari. Al riguardo, va sottolineata la presenza di tre meccanismi importanti nel regolare il flusso della bile: • il trasporto attivo di acidi biliari dall’epatocita dentro i canalicoli biliari; • il trasporto di sodio-ioni, mediato da una ATPasi e indipendente dai sali biliari; • la secrezione duttulare, mediata dalla secretina e cAMP-dipendente, che sembra derivare dal trasporto attivo di sodio-ioni e bicarbonato-ioni nei canalicoli, con conseguente movimento passivo di acqua.
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I sali biliari presenti nella bile giungono attraverso il coledoco nell’intestino tenue, dove svolgono la loro funzione emulsionante, finché, a livello dell’ileo terminale, vengono in larga parte riassorbiti con un meccanismo di trasporto attivo (mentre, in piccola parte, vengono riassorbiti lungo tutto l’intestino tenue con un meccanismo passivo). Una volta riassorbiti, i sali biliari entrano nel flusso ematico portale e vengono rapidamente captati dagli epatociti, riconiugati e nuovamente secreti nella bile. È questo il circolo enteroepatico, che spiega come mai il fegato sintetizza solo circa 400 mg die ex novo di acidi biliari, perché questa è la quota di sali biliari eliminati in una giornata con le feci. Ciò permette una certa stazionarietà della quota totale di acidi biliari presenti in un dato momento nel soggetto normale, anche perché durante la digestione di un pasto normale gli acidi biliari sono sottoposti ad uno o più circoli enteroepatici; inoltre, il ritorno degli acidi biliari al fegato inibisce la 7--idrossilasi, l’enzima limitante per la reazione che permette la sintesi di nuovi sali biliari, per cui si ha un blocco nella sintesi di queste sostanze a tipo feed-back negativo. Perciò, quando vi è una marcata riduzione dell’assorbimento intestinale dei sali biliari (come avviene in molte forme di malassorbimento), il fegato è in grado, dal momento che la 7-idrossilasi non è inibita, di aumentare la velocità di sintesi di queste sostanze a circa 5 g/die, la qual cosa può essere sufficiente per ripristinare la normale quota di acidi biliari. Un ultimo aspetto fisiologico delle vie biliari va considerato, prima di addentrarsi nel problema patogenetico della colelitiasi, ed è quello della situazione dinamica delle vie biliari e del loro controllo. Normalmente, lo sfintere di Oddi (situato nella parte terminale del coledoco) è contratto, offrendo quindi un ostacolo al flusso della bile dal dotto biliare comune al duodeno, e ciò ha fondamentalmente due fini: • impedire il reflusso di contenuto duodenale all’interno del dotto biliare ed, eventualmente, di quello pancreatico; • rendere possibile il riempimento della colecisti. Ne consegue che nella cistifellea si costituisce una riserva di bile, che verrà “spremuta” nel dotto cistico e, quindi, nel duodeno, al momento del bisogno. Difatti, il fattore più importante per la funzione della colecisti è un ormone peptidico che viene rilasciato dalle cellule I della mucosa duodenale e digiunale proprio in seguito all’assunzione di cibo e, più precisamente, di grassi ed aminoacidi, la colecistochinina, la quale svolge quattro funzioni principali:
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
riassorbimento energia-dipendente di acqua ed elettroliti attraverso la mucosa; a questo proposito, va anche notato come pressoché l’intero pool di costituenti biliari può essere sequestrato nella cistifellea durante il digiuno notturno, per essere poi liberato in concomitanza con il primo pasto della giornata.
ESAMI DIAGNOSTICI La morfologia e la funzione delle vie biliari possono essere studiate mediante indagini radiologiche e scintigrafiche, sondaggio duodenale ed esami biochimici, batteriologici e citologici della bile. A. Esami radiologici. 1. La radiografia diretta dell’addome è l’esame più semplice e di primo impiego nello studio delle malattie delle vie biliari e non di rado fornisce informazioni di notevole utilità diagnostica. In particolare, i radiogrammi “in bianco” dell’addome consentono di individuare calcoli radiopachi situati nella sede della colecisti o delle vie biliari e calcificazioni della parete colecistica. In presenza di una fistola biliodigestiva, è possibile osservare l’esistenza di gas nella cistifellea o anche nel coledoco. 2. La colecistografia orale è utile per studiare la morfologia, il contenuto e la dinamica della colecisti; le altre parti dell’albero biliare, di regola, non si evidenziano perché in esse il mezzo di contrasto non viene sufficientemente concentrato. Talora sono necessarie diverse immagini con il paziente in posizione eretta ed in decubito laterale destro allo scopo di verificare se eventuali difetti di riempimento della colecisti sono fissi alla sua parete o mobili nel suo interno. Viene, inoltre, saggiata la contrattilità di questo organo con radiogrammi scattati a 15 e 30 min dopo pasto grasso; questa tecnica offre anche il vantaggio di permettere, talvolta, la visualizzazione del dotto cistico e dell’epatocoledoco. La visualizzazione della colecisti con questa metodica è normalmente impossibile se la bilirubinemia è superiore a 2 mg/100 ml o se la ritenzione della BSF è maggiore del 40% dopo 45 min.
• aumento della contrattilità colecistica; • diminuzione della resistenza opposta dallo sfintere di Oddi al passaggio della bile; • aumento della secrezione di bile da parte del fegato, e, in conseguenza dei primi tre fattori; • aumento della quantità di bile presente in duodeno.
3. La colangiografia endovenosa è l’indagine di scelta per evidenziare i dotti biliari, specialmente nei pazienti colecistectomizzati. Può essere impiegata anche quando vi siano controindicazioni alla colecistografia (diarrea, colite ulcerosa), tuttavia, a causa delle non infrequenti reazioni indesiderate, non si dovrebbe mai utilizzare tale indagine nei casi in cui è sufficiente l’esecuzione della colecistografia. La colangiografia endovenosa è controindicata nei pazienti con idiosincrasia ai mezzi di contrasto; la visualizzazione delle vie biliari non avviene quando la bilirubinemia è superiore a 3 mg/100 ml e la ritenzione della BSF è maggiore del 40% dopo 45 min.
Come si vede, quindi, la colecisti ha una funzione di serbatoio per la bile, a livello del quale si ha anche un
4. La colangiografia percutanea trova un’indicazione elettiva nel caso di ittero ostruttivo; è, infatti, in gra-
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do di dimostrare la sede dell’ostruzione e la dilatazione conseguente dei dotti biliari. Consiste nell’introduzione, sotto controllo radioscopico, di un ago collegato ad un catetere nel parenchima epatico fino ad incontrare un dotto biliare. Tra le possibili complicazioni di questa metodica si annoverano le emorragie e la peritonite biliare. 5. La colangiografia retrograda per via endoscopica consente di visualizzare per via retrograda i dotti biliari, la colecisti ed eventuali calcoli, restringimenti o dilatazioni. La tecnica consiste nell’introduzione, sotto controllo endoscopico, di una sonda nella papilla del Vater, attraverso la quale viene iniettato il mezzo di contrasto. 6. La colangiografia intraoperatoria viene eseguita, durante intervento chirurgico sulle vie biliari, mediante l’iniezione diretta del mezzo di contrasto nella colecisti o nei dotti. B. Ecografia e tomografia. L’ecografia e la tomografia assiale computerizzata sono metodiche che possono rivelarsi utili nella diagnosi di molte affezioni delle vie biliari. Le indicazioni relative sono trattate nei differenti capitoli dedicati alle malattie di questo apparato. C. Scintigrafia. Le vie biliari possono essere indagate mediante indagine scintigrafica ottenuta, in genere, con l’impiego di acidi imino-diacetici marcati con il 99Tc (tecnezio 99). Queste sostanze, iniettate per via endovenosa, vengono captate elettivamente dal fegato e quindi escrete con la bile: in questo modo si ottiene inizialmente un’immagine scintigrafica del fegato e, in un tempo immediatamente successivo, della colecisti e delle altre vie biliari. Con questa metodica è anche possibile seguire nel tempo l’escrezione del tracciante radioattivo con la bile, ricavando preziose informazioni sulla funzionalità della colecisti. D. Sondaggio duodenale. Questa indagine è importante per lo studio della dinamica della secrezione biliare nell’intestino tenue. Mediante una sonda introdotta sotto controllo radioscopico nel duodeno, si raccolgono campioni di bile ad intervalli prestabiliti che possono essere sottoposti ad analisi chimica, batteriologica e citologica. Normalmente si procede eseguendo prelievi ogni 2-5 min e distinguendo cinque periodi differenti. 1. Periodo coledocico. Ha una durata indefinita; infatti quando l’estremità del sondino giunge nel duodeno, lo sfintere di Oddi si apre e rimane aperto finché il sondino non viene rimosso; la bile che defluisce inizialmente è rappresentata da quella presente nel coledoco, mentre i successivi campioni sono costituiti da bile epatica appena secreta (il tempo coledocico è alterato in presenza di gravi ipertonie dello sfintere di Oddi). 2. Periodo di chiusura dell’Oddi. Si ottiene instillando nel duodeno olio e solfato di magnesio; la chiusura si protrae per 4-5 min durante i quali il flusso biliare si
arresta completamente (se il periodo di chiusura supera i 10-12 min si deve sospettare l’esistenza di uno spasmo dello sfintere). 3. Periodo di flusso della bile A. Inizia subito dopo la fine del periodo di chiusura dello sfintere di Oddi ed è caratterizzato dal deflusso di bile chiara “epatica” (durata: 2-6 min). 4. Periodo di flusso della bile B. È caratterizzato dal deflusso di bile “colecistica” scura (durata: 20-30 min); può mancare nel caso di esclusione organica della colecisti. 5. Periodo di flusso della bile C. È caratterizzato dal deflusso di bile color giallo-citrino, formata da una miscela di bile A, succo pancreatico e succo duodenale. Durante l’effettuazione del sondaggio duodenale, è anche possibile saggiare la risposta delle vie biliari alla somministrazione di varie sostanze e farmaci, quali, in particolare, la secretina e la colecistochinina-pancreozimina. E. Analisi chimica, batteriologica e citologica della bile. Queste indagini possono essere effettuate sui diversi campioni di bile ottenuti mediante sondaggio duodenale. L’analisi chimica viene eseguita soprattutto allo scopo di valutare la componente proteica e le diverse frazioni lipidiche, per stabilire in particolare il grado o indice litogenico della bile (rapporto tra quantità attuale e quantità massima di colesterolo che può essere mantenuto in soluzione acquosa da una data quantità di fosfolipidi e sali biliari). L’esame batteriologico è utile per l’identificazione dei microrganismi responsabili di eventuali processi flogistici a carico delle vie biliari, soprattutto in rapporto alla necessità di instaurare un trattamento antibiotico mirato. Infine, l’esame citologico della bile può essere importante in presenza di affezioni infiammatorie di questo apparato, in cui è frequente il riscontro di un’elevata quantità di leucociti oppure, nel sospetto di neoplasie delle vie biliari, per l’eventuale presenza di cellule atipiche.
COLECISTITI Colecistite acuta La colecistite acuta è un processo infiammatorio localizzato alla colecisti, spesso esteso al dotto cistico, e quasi costantemente associato alla colelitiasi, di cui viene considerato una complicanza. Colpisce con maggiore frequenza individui adulti e di sesso femminile e si ritiene che più del 95% delle colecistiti acute dipenda inizialmente da un’ostruzione calcolotica del dotto cistico, che provoca stasi biliare e favorisce l’irritazione chimica della mucosa. L’invasione batterica, in genere, compare in una fase successiva ed è dovuta più frequentemente a germi
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Gram–, a stafilococchi, streptococchi e clostridi. Sono, inoltre, da ricordare le colecistiti acute da Salmonelle typhi e paratyphi e le forme da Shigella dyssenteriae. A. Anatomia patologica. All’esame anatomopatologico si distinguono diverse forme di colecistite acuta in rapporto alla variabile gravità del processo flogistico. Nelle fasi iniziali si osserva, in genere, il quadro della colecistite semplice o catarrale, caratterizzato da edema della parete ed iperemia della mucosa, con presenza di infiltrati cellulari di carattere flogistico (neutrofili e mononucleati) a livello della sottomucosa. Il cistico è quasi sempre occluso, la colecisti è distesa, ripiena di secreto biliare e di essudato infiammatorio. 1. Il flemmone della colecisti è un processo infiammatorio che interessa la parete della cistifellea a tutto spessore fino allo strato peritoneale esterno. La mucosa è spesso ulcerata, con aree di carattere emorragico; la sierosa peritoneale è ricoperta da essudato fibrinoso, in maniera da realizzare un quadro di peritonite circoscritta. Istologicamente si dimostra un’invasione diffusa della parete colecistica da parte di elementi polimorfonucleati, i quali possono raccogliersi in formazioni microascessuali. I flemmoni sostenuti da germi del gruppo dei clostridi, specialmente dal Clostridium perfrigens, assumono in genere l’aspetto della colecistite gassosa in rapporto alla presenza di gas nella parete e nel lume della vescichetta biliare, come si verifica talora nei diabetici. 2. L’empiema della colecisti è il quadro che si instaura quando il processo suppurativo modifica il contenuto della colecisti, il quale diventa purulento o addirittura emorragico, mentre i sali biliari e la bilirubina vengono riassorbiti dalla parete, la cui permeabilità è notevolmente alterata (in genere complica un idrope precedentemente formatosi). 3. La colecistite gangrenosa o necrotica compare quando l’interessamento flogistico del cistico e del colletto della colecisti favorisce la compressione sui vasi del circolo venoso, con conseguente stasi e congestione della parete della cistifellea che evolve verso la necrosi e, quindi, in gangrena umida ed, eventualmente, perforazione. B. Clinica. La sintomatologia della colecistite acuta decorre quasi sempre parallelamente all’evoluzione dell’ostruzione del dotto cistico. I sintomi principali sono il dolore e la febbre; nelle forme di colecistite semplice il dolore inizia con i caratteri della colica biliare, ma, in genere, dopo aver raggiunto l’acme, tende a persistere con modeste variazioni. Presenta i caratteri del dolore viscerale ed è di tipo sordo e gravativo, localizzato all’ipocondrio destro o all’epigastrio: la sua insorgenza può dipendere dalla distensione della parete della cistifellea secondaria all’occlusione del cistico o dalla contrazione spastica della muscolatura di questo organo. Al dolore si associano con frequenza nausea e vomito.
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
La febbre è costantemente presente e di intensità variabile. L’esame obiettivo mette in evidenza una dolorabilità diffusa al quadrante addominale superiore destro, ma elettiva in corrispondenza del punto colecistico (inserzione a livello dell’arco costale destro del margine esterno del muscolo retto addominale). Il segno di Murphy è quasi sempre positivo (si veda in seguito). Di regola un attacco di colecistite è relativamente breve, risolvendosi in alcuni giorni (5-7) o poco più; se il processo infettivo persiste nel tempo, la colecisti può riempirsi di materiale purulento e si instaura il quadro dell’empiema: in questo caso una massa rappresentata dalla cistifellea distesa può rendersi palpabile a lungo nella regione sottocostale destra. Quando la flogosi ha interessato il peritoneo (flemmone colecistico), il dolore diventa somatico, vivissimo, ben localizzato, riferito alla scapola destra ed agli ultimi spazi intercostali, accentuato, in genere, dagli atti respiratori. La temperatura è molto elevata; insorgono malessere generale, nausea, vomito e brividi e l’evoluzione può portare rapidamente verso la peritonite generalizzata. All’esame obiettivo dell’addome, sono presenti difesa muscolare del quadrante superiore destro ed iperalgesia cutanea. Le forme necrotiche si manifestano fin dal principio con una sintomatologia gravissima, con dolore intenso e trafittivo all’ipocondrio destro, vomito biliare, grave collasso e rapida evoluzione verso la peritonite generalizzata. In tutte queste forme l’ittero è eccezionale, tranne nel caso che si associ una calcolosi del coledoco. Una particolare variante clinica di colecistite acuta è quella definita “filtrante”, caratterizzata dall’evoluzione di un quadro di colecistite semplice verso il coleperitoneo e l’ileo biliare, in assenza di sintomi e segni conclamati di perforazione e di peritonite generalizzata. Essa dipende da uno stato di avanzata atrofia della parete colecistica, probabilmente dovuto a precedenti episodi flogistici, che consente il passaggio di sostanze contenute nella bile e, in particolare, dei sali biliari, i quali svolgono un’azione irritante sulla sierosa peritoneale. Un’altra variante clinicamente significativa è la colecistite enfisematosa o gassosa (più frequente, come già detto, nei diabetici), caratterizzata dalla presenza di gas nel lume della colecisti, nella sua parete e, talvolta, anche nei dotti biliari e nell’area pericolecistica. Ne sono responsabili germi anaerobi, tra i quali, in primo luogo, il Clostridium perfringens; la sintomatologia è più grave, il dolore più acuto e spesso nelle fasi avanzate può subentrare un quadro tossiemico generalizzato. C. Diagnosi. Gli esami di laboratorio mettono in evidenza, nella fase di acuzie, un’intensa leucocitosi neutrofila (fino a 15-20.000 globuli bianchi/mm3) ed un significativo incremento della velocità di eritrosedimentazione. Gli enzimi epatici (soprattutto transaminasi, -glutamil-transpeptidasi, fosfatasi alcalina) non subiscono variazioni significative; talvolta si riscontrano modesti aumenti dell’amilasemia.
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In genere la diagnosi è fondata sull’accurata valutazione degli elementi clinici già ricordati; la radiografia in bianco dell’addome fornisce scarse indicazioni, ma può dimostrare eventuali calcoli radiopachi; la colecistografia per via orale non deve essere eseguita durante la fase acuta della malattia. D. Decorso, prognosi e terapia. La prognosi delle colecistiti è buona nelle forme non complicate in rapporto ad una precoce ed appropriata terapia; meno favorevole in caso di flemmone della colecisti ed in presenza di complicanze, specialmente in relazione all’età avanzata o al deterioramento delle condizioni generali del paziente. La complicanza più temibile della colecistite acuta è la perforazione, la quale può verificarsi con tre modalità differenti: circoscritta con la formazione di ascessi, libera nella cavità peritoneale, libera in un segmento dell’apparato digerente. La perforazione circoscritta è la più comune e si instaura in quanto i visceri circostanti aderiscono alla colecisti infiammata impedendo la libera perforazione. La sua comparsa è suggerita da elevate puntate febbrili, dolore acuto in corrispondenza del quadrante addominale superiore destro e dalla frequente presenza di una massa ipocondriaca palpabile (“piastrone”). La perforazione nella cavità peritoneale compare solo nell’1-2% dei pazienti, ma è associata ad una mortalità del 30% circa. Generalmente è il fondo della colecisti che si perfora a causa della diffusione del processo flogistico e della distensione della cistifellea; inizialmente il paziente può sentirsi meglio in rapporto allo svuotamento del contenuto di questo organo nella cavità peritoneale, ma assai precocemente insorgono i sintomi gravissimi della peritonite purulenta. Infine, la perforazione nell’intestino determina la formazione di una fistola biliodigestiva. Il trattamento medico è elettivo nelle forme non complicate ed è fondato sull’impiego precoce di antibiotici e, nei casi con importante sintomatologia dolorosa, di analgesici (da evitare la morfina e gli oppiacei naturali che, determinando una contrazione dello sfintere di Oddi, aumentano la pressione all’interno delle vie biliari). L’intervento chirurgico dovrebbe essere eseguito nelle forme non complicate una volta superata la fase di acuzie o riservato ai casi che non rispondono alla sola terapia medica. Il rilievo di calcoli in un paziente che ha superato un episodio di colecistite acuta pone una precisa indicazione alla colecistectomia.
Colecistite cronica Le affezioni infiammatorie croniche della colecisti possono essere distinte in forme alitiasiche e forme secondarie a colelitiasi. Si ammette, in genere, che la quasi totalità delle colecisti croniche sia correlata alla presenza di calcoli, mentre le forme alitiasiche sarebbero complessivamente piuttosto rare. La genesi delle forme litiasiche è riferita all’azione irritante cronicamente indotta dai calcoli sulla parete
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della colecisti ed all’eventuale sovrapposizione di una flogosi batterica. Le colecistiti croniche alitiasiche, invece, riconoscono come fattori predisponenti alterazioni funzionali delle vie biliari, quali, per esempio, l’ipertonia dello sfintere di Oddi o del dotto cistico o anche malformazioni congenite a carico di quest’ultimo. In alcuni casi assume importanza l’irritazione cronica della colecisti da parte di sostanze chimiche (per es., certi farmaci), in altri il reflusso di secreto pancreatico secondario a protratte discinesie del coledoco o del duodeno. Inoltre, si ritiene che anche l’equilibrio ormonale possa giocare un ruolo patogenetico rilevante: nella donna, infatti, un’elevata concentrazione di estrogeni circolanti sembra favorire l’insorgenza dei processi flogistici in rapporto ad un’azione depolimerizzante esplicata da queste sostanze sui mucopolisaccaridi dei tessuti connettivi ed, in effetti, le colecistiti in genere risultano significativamente più frequenti nel sesso femminile. Infine, tra i fattori predisponenti, notevole importanza viene attribuita all’insediamento nella mucosa della colecisti di alcuni microrganismi (steptococchi, enterococchi, particolari ceppi di Escherichia coli), il quale può avvenire attraverso varie vie, soprattutto quella ematogena e quella endocanalicolare. A. Anatomia patologica. L’aspetto anatomopatologico della cistifellea interessata da un processo flogistico cronico è alquanto variabile. Esistono circostanze in cui le dimensioni di questo organo sono molto ridotte per la sclerosi marcata delle pareti ed altri in cui la colecisti appare notevolmente dilatata ed ipotonica; spesso sono evidenti aderenze con organi vicini: in particolare con il fegato, il colon, il pancreas ed il duodeno. La mucosa può apparire atrofica o, più raramente, ispessita, talvolta con ulcerazioni multiple; le tonache della parete sono sostituite più o meno completamente dalla proliferazione fibroblastica con presenza di infiltrati linfomonocitari. B. Clinica. La sintomatologia della colecistite cronica è alquanto subdola e polimorfa. Il dolore, che è il sintomo principale, ha caratteri molto variabili: in genere, è meno intenso che nella colecistite acuta avendo la stessa sede e le stesse irradiazioni; l’andamento può essere caratterizzato da brevi crisi, spesso insorgenti dopo disordini alimentari, o da periodi dolorosi più o meno prolungati; in alcuni casi, periodicamente, si possono manifestare vere coliche biliari. La febbre è piuttosto frequente, ha un andamento irregolare ed, in genere, accompagna o segue la sintomatologia dolorosa. La nausea ed il vomito sono disturbi piuttosto comuni e quasi sempre sono presenti turbe dispeptiche sotto forma di inappetenza, sensazione di peso epigastrico postprandiale, intolleranza ai grassi, alitosi, eruttazioni e senso di amaro in bocca (“bocca amara”). I disordini dell’alvo consistono soprattutto in episodi diarroici ed in certi casi nell’alternanza di diarrea e di stipsi, correlati ad incoordinazione tra la secrezione colecistica e l’arrivo degli alimenti in duodeno.
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MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
L’esame obiettivo non fornisce elementi di sicura evidenza: in genere, si riscontra una vivace dolorabilità alla palpazione in corrispondenza del quadrante addominale superiore destro ed alla pressione sul punto colecistico; frequente è la positività del segno di Murphy. Va ricordato, inoltre, che le colecistiti croniche possono associarsi a disturbi di altri organi: in questo senso, di particolare importanza sono le cosiddette sindromi colecistocardiache, caratterizzate dalla contemporanea presenza di disturbi della cistifellea, turbe coronariche e del ritmo cardiaco, la cui interpretazione è ancora molto incerta. Per quanto riguarda le sindromi colecistopancreatiche, esse sono caratterizzate dalla comparsa di una pancreatite cronica o di ripetuti episodi di pancreatite acuta durante il decorso della colecistite cronica: la sintomatologia clinica è, in questi casi, piuttosto complessa per il sovrapporsi di disturbi connessi con la patologia pancreatica. C. Diagnosi. La diagnosi è fondata soprattutto sul sondaggio duodenale, che può evidenziare il mancato deflusso della bile B ed alterazioni del periodo colecistico. La colecistografia e la colangiografia endovenosa dimostrano spesso la presenza di calcoli. D. Decorso, prognosi e terapia. La prognosi di questa affezione è sostanzialmente quella della litiasi della colecisti (si veda in seguito). La terapia delle forme infettive consiste nell’impiego di antibiotici; l’intervento di colecistectomia è indicato, invece, nelle forme associate a colelitiasi.
COLELITIASI Con il termine di colelitiasi si indica la presenza di calcoli nella cistifellea o nei dotti biliari. A. Epidemiologia. La calcolosi delle vie biliari rappresenta una delle maggiori cause di morbilità, ospedalizzazione e spesa medica per la nostra società. Al riguardo, le statistiche americane riportano una prevalenza del 20% nelle donne al di sopra dei 40 anni e dell’8% negli uomini di pari età, tanto che si può stimare esistano in questo Paese dai 16 ai 20 milioni di soggetti portatori di colelitiasi e si può affermare che l’incidenza di questa malattia (sempre negli USA) è di circa 800.000/1.000.000 di nuovi casi ogni anno. B. Patogenesi. Per poter comprendere la patogenesi di questa affezione, occorre prima dare una definizione e considerare poi un differente meccanismo patogenetico a seconda della natura dei calcoli presenti. I calcoli biliari sono strutture cristalline formate dalla concrezione o dalla accrezione dei costituenti normali o non della bile e possono essere distinti in due grossi gruppi:
• calcoli contenenti colesterolo; • calcoli pigmentati. I primi costituiscono l’80% circa dei calcoli biliari e sono suddivisibili, a loro volta, in due classi, e cioè i calcoli puri di colesterolo (10%) ed i calcoli misti (70%); la restante quota (circa il 20%) è rappresentata dai calcoli pigmentati. Per quanto concerne la loro composizione, i calcoli misti e quelli puri di colesterolo contengono in prevalenza colesterolo monoidrato e, per una piccola quota, sali biliari, proteine, acidi grassi, fosfolipidi; i calcoli colesterinici puri sono, di solito, singoli, chiari, grandi, mentre quelli misti sono, in genere, piccoli e multipli. I calcoli pigmentati sono composti soprattutto da bilirubinato di calcio e contengono meno del 10% di colesterolo; sono anch’essi piccoli e multipli, di consistenza dura, amorfi al taglio e radiopachi in molti casi. Come già è stato detto, i due tipi di calcoli, dal punto di vista patogenetico, vanno tenuti distinti. 1. Calcoli di colesterolo e calcoli misti. La bile è formata, oltre che da acqua, da tre elementi fondamentali: il colesterolo, gli acidi biliari e la lecitina; è proprio il variabile rapporto tra queste tre componenti che spiega il verificarsi della calcologenesi, come appare indicato nella figura 31.1. La bile può diventare litogenica per vari motivi, che fondamentalmente possono essere ricondotti a due: • aumentata secrezione biliare di colesterolo, come può verificarsi nell’ambito di particolari situazioni costituzionali, dietetiche e metaboliche (come per esempio in presenza di obesità o di dislipidemia o anche per effetto dell’aumentata attività dell’idrossi-metil-glutaril-coenzima A-reduttasi (HMGCoA-red), l’enzima limitante il processo di sintesi del colesterolo; • diminuita secrezione epatica di sali biliari e fosfolipidi, che può essere conseguente o a difetti di sintesi epatica (come avviene in un raro errore congenito del metabolismo, la xantomasi cerebrotendinea) o a difetti concernenti il circolo enteroepatico di questi costituenti (per es., resezione o malattia ileale), o a ridotta attività della 7--idrossilasi, enzima fondamentale per la sintesi degli acidi biliari primari. Comunque, con entrambi i meccanismi si ottiene un unico risultato, che è quello di far aumentare il rapporto colesterolo litogenico/acidi biliari e ciò facilita la formazione di calcoli. Si possono, perciò, considerare tre momenti nella formazione di un calcolo: • la sovrasaturazione biliare di colesterolo; • la formazione di un nucleo di cristallizzazione, costituito, per lo più, da cristalli di colesterolo monoidrato; • l’accrescimento del calcolo per accrezione o concrezione, fino a creare aggregati macroscopici. Da ultimo, possono essere considerati i fattori predisponenti, attualmente riconosciuti come tali, per la formazione dei calcoli di colesterolo puri e misti.
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% ina cit Le
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60
50
Acidi biliari %
Ci sono, anzitutto, fattori geografici rappresentati dal fatto che nell’Europa del Nord e in tutta l’America la frequenza di calcolosi biliare colesterinica è maggiore che nei paesi orientali (si riconosce anche una probabile familiarità e quindi si sottolinea l’importanza di fattori ereditari). Vi sono poi delle malattie metaboliche, come il diabete o l’obesità, che tendono ad aumentare la secrezione epatica di colesterolo, facilitando così la sovrasaturazione della bile. Analogo effetto ha una dieta ipercalorica o, comunque, ricca di grassi saturi, o la terapia con un farmaco utilizzato nel trattamento dell’aterosclerosi e delle dislipidemie quale il clofibrato (o derivati), o eventi fisiologici come la gravidanza. Vi sono, invece, fattori che tendono a diminuire l’azione dei sali biliari e, tra questi, il malassorbimento, dovuto a malattia ileale o a resezione intestinale, e l’assunzione di contraccettivi per via orale od altri estrogeni, ed è proprio per il fatto che gli estrogeni diminuiscono la secrezione dei sali biliari, che le donne sono maggiormente colpite dalla colelitiasi, nella misura di 4:1 nei confronti degli uomini. Ultimo evento favorente, dal punto di vista statistico, la formazione di calcoli biliari è l’età, soprattutto tra i maschi, essendo maggiore l’incidenza di questa malattia oltre i 40 anni. 2. Calcoli pigmentati. In questo caso, l’elemento dominante è l’aumentata produzione di bilirubina insolubile, non coniugata, nella bile, tanto che se ne ha la precipitazione sotto forma di cristalli di bilirubinato di calcio, che possono aggregarsi a formare calcoli pigmentati, oppure possono costituire il nucleo di accrescimento di calcoli misti di colesterolo. Questa forma di calcolosi, come riportato in seguito, è più frequente nei
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Figura 31.1 - Triangolo di Small-Admirand. Solubilità del colesterolo nella bile in funzione delle concentrazioni di fosfolipidi (lecitina), acidi biliari e colesterolo. Rappresentando in un sistema di coordinate triangolari le concentrazioni molari di queste sostanze, è possibile di volta in volta, in rapporto ai corrispondenti valori in %, determinare un punto, intersezione delle tre coordinate (ciascuna parallela all’asse che precede in senso orario), il quale è indicativo della composizione della bile in quel particolare momento. Si possono in questo modo distinguere tre zone differenti: • zona in cui si ha formazione di micelle di colesterolo stabili in soluzione (area di insaturazione); • zona in cui le micelle di colesterolo sono metastabili (area metastabile o di solubilità instabile); • zona in cui si ha precipitazione di cristalli di colesterolo (area di soprasaturazione: bile litogena). (Da Coppo M., Manenti F., Epatologia, pag. 59, UTET, 1981)
paesi orientali, anche se nei paesi occidentali gli stati emolitici cronici e, soprattutto, le epatopatie alcoliche sono associate con un’aumentata incidenza di calcoli pigmentati. Inoltre, quando esiste infezione cronica delle vie biliari, può aversi la produzione di -glicuronidasi batteriche, che scindono la bilirubina coniugata, rendendola insolubile e facilitando la formazione dei calcoli pigmentati. Perciò, in questa forma di calcolosi, a differenza della precedente, valgono i seguenti fattori di rischio: • fattori geografici-genetici, con maggiore incidenza nei paesi orientali e in ambiente contadino; • emolisi cronica; • cirrosi etilica; • infezione cronica delle vie biliari, infezione parassitaria; • età avanzata. C. Clinica. La litiasi biliare è spesso del tutto silente, tanto che a volte è diagnosticata come reperto casuale in corso di manovre diagnostiche eseguite ad altro scopo che non quello di dimostrare una colelitiasi. Comunque, quando la colecisti è infiammata a causa dei calcoli presenti al suo interno, o quando i calcoli espulsi dalla colecisti migrano nel dotto cistico o nel dotto biliare comune, la sintomatologia diventa chiara ed è spesso molto caratteristica. In particolare, il sintomo più specifico e peculiare della colelitiasi è la cosiddetta colica biliare, generata dall’aumentata pressione nelle vie biliari ostruite, con dilatazione della cistifellea e tentativo, da parte della muscolatura liscia dei dotti biliare o cistico, di vincere l’ostacolo contraendosi. Questi eventi generano il tipico dolore colico, viscerale, gravativo, al quadrante superiore destro
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dell’addome, con frequente irradiazione all’area interscapolare, alla scapola destra o alla spalla. Tale dolore, che inizia improvvisamente e può persistere anche per 34 ore, recede poi più o meno rapidamente, potendo però lasciare un senso di fastidio o di dolore lieve in ipocondrio destro, sensazione che può permanere per 24-48 h. Il quadro sintomatologico di una colica biliare non è, comunque, rappresentato soltanto dal dolore, poiché frequentemente è associato a nausea e vomito (biliare, ma anche alimentare). Talora si può rilevare anche la presenza di febbre preceduta da sensazione di freddo con brividi, tuttavia è raro che questo si verifichi nel corso di una colica non complicata e più frequentemente sta ad indicare la probabile associazione con una colecistite, una pancreatite o una colangite. La colica biliare può essere precipitata dall’assunzione di un pasto ricco in lipidi o, comunque, abbondante, soprattutto se gli alimenti vengono introdotti dopo un prolungato periodo di digiuno. Questo fatto è importante anche perché, assai spesso, una sintomatologia di tipo dispeptico, con senso di pesantezza epigastrica, specialmente dopo un pasto abbondante, è erroneamente diagnosticata come colica biliare. All’esame obiettivo, se è interessato il coledoco, si può rilevare la presenza di ittero; inoltre, si riscontra di solito la positività del cosiddetto segno di Murphy. Questo è caratterizzato dall’arresto dell’inspirazione del paziente, invitato ad inspirare profondamente (in decubito supino), se con la mano a piatto viene esercitata una pressione sul punto cistico (reperibile considerando a livello dell’arco costale destro l’inserzione del margine esterno del muscolo retto addominale); in questo modo, abbassandosi il diaframma, il fondo della colecisti, interessata da processo flogistico, viene a contatto con la mano dell’operatore, suscitando così la comparsa del dolore e l’arresto dell’inspirazione. D. Diagnosi. 1. I dati di laboratorio nel paziente con colica biliare non sono molto significativi; l’unica alterazione particolare può essere un aumento della bilirubina, prevalentemente quella coniugata (ittero colestatico) nel 25% dei casi, spiegabile in presenza di calcolosi del coledoco per effetto dell’ostruzione biliare e causa dell’ittero di cui s’è già detto. Inoltre è possibile il riscontro di un incremento variabile (per la stessa ragione) della -glutamiltranspeptidasi (-GT) e della fosfatasi alcalina (FA). 2. Gli esami strumentali sono, invece, un supporto fondamentale per confermare la presenza di calcoli biliari, sospettata con l’anamnesi e l’esame obiettivo del paziente. I mezzi diagnostici strumentali utili per lo studio della colelitiasi sono essenzialmente quattro: • radiografia in bianco dell’addome (cioè senza mezzo di contrasto); • colecistografia orale; • esame ecografico della colecisti e delle vie biliari; • metodiche radioisotopiche.
MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
La radiografia in bianco dell’addome in antero-posteriore o in laterale può dimostrare soltanto la presenza di calcoli radiopachi, cioè ricchi di calcio (lo sono il 1015% dei calcoli misti e il 50% circa dei calcoli pigmentati) ed è il primo approccio strumentale nei confronti di questi pazienti. L’esame radiografico senza mezzo di contrasto può essere anche utile nella diagnosi di una colecisti calcifica, di una cistifellea a porcellana, o di un ileo biliare. La colecistografia orale è una metodologia che, molto usata un tempo, è oggi molto meno utile dopo l’avvento dell’esame ecografico, meno invasivo e più preciso. Questa tecnica comporta la somministrazione di un mezzo di contrasto iodato, sotto forma di compresse, per os, il quale viene elettivamente eliminato con la bile. I falsi positivi sono rari, ma i falsi negativi raggiuntono il 5-10%. È possibile avere con questa metodica una mancata opacizzazione della colecisti, che è riferibile ad ostruzione del dotto cistico (per cui il mezzo iodato non arriva alla cistifellea), o ad un’infiammazione cronica della colecisti (per cui il mezzo iodato non si concentra al suo interno). La mancata visualizzazione della cistifellea si ha anche quando la bilirubina sierica è maggiore di 2-4 mg/dl, o quando c’è un difetto di escrezione epatica o un diminuito assorbimento del mezzo di contrasto. Come detto, l’esame ecografico della colecisti, è oggi di fondamentale importanza nella diagnosi di questa malattia, ed è molto efficace nell’identificazione dei calcoli (la mancata visualizzazione della cistifellea all’ecografia in un paziente a digiuno è indicativa per una sottostante malattia colecistica). Con questa metodica, che utilizza gli ultrasuoni, possono essere identificati con certezza calcoli di 2 mm di diametro e definita la loro eventuale mobilità, se essi modificano la posizione in rapporto al decubito del paziente. Un vantaggio ulteriore di questa metodica rispetto alla colecistografia orale è che i falsi positivi e negativi sono solo il 2-4%. Nelle metodiche radioisotopiche si somministrano in vena sostanze radioattive (acidi iminodiacetici legati al 99Tc), che vengono rapidamente estratte dal sangue ed eliminate con la bile in alta concentrazione, anche in presenza di aumentate concentrazioni di bilirubina sierica. In questo caso, la mancata visualizzazione della colecisti può indicare un’ostruzione del dotto cistico, una colecistite acuta o cronica, o un’assenza dell’organo per pregressa colecistectomia (i metodi radioisotopici hanno la loro maggiore applicazione nella diagnosi di colecistite acuta). E. Complicanze. Si è visto come, spesso, la calcolosi sia asintomatica; qual è, allora, in questo caso, la sua possibile evoluzione? Il rischio per i pazienti asintomatici di sviluppare una forma sintomatica o una complicanza è relativamente ridotto, più precisamente è del 10% a 5 anni dalla diagnosi di colelitiasi, del 15% a 10 anni e del 18% a 15 anni, mentre pazienti che non abbiano manifestato alcun sintomo entro 15 anni dalla diagnosi hanno poche probabilità di avere disturbi in periodi successivi.
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D’altra parte, più precoce è l’inizio della malattia (quindi, più giovane è il paziente), tanto maggiore è la probabilità di passare ad una forma sintomatica di calcolosi biliare. Va ricordato, inoltre, che pazienti con calcolosi asintomatica della colecisti e mancata visualizzazione della stessa all’esame colecistografico più facilmente incorrono in complicanze, che d’altra parte, com’è ovvio, sembrano essere più comuni nei pazienti sintomatici. Queste complicanze sono diverse tra loro ed hanno varia gravità, richiedendo spesso un intervento chirurgico per la loro risoluzione. Una delle complicanze più frequenti è l’insorgenza di un’infiammazione acuta o cronica della colecisti (colecistite) in seguito alla calcolosi, evento che secondo alcuni sarebbe spesso, però, precedente alla calcolosi stessa, essendone, anzi, un fattore favorente. Oppure può verificarsi un idrope della colecisti, cioè la distensione del viscere dovuta all’accumularsi del muco, continuamente prodotto dalla cistifellea, al suo interno e che non può essere drenato spontaneamente per l’ostruzione calcolotica del dotto cistico. Quando in presenza di idrope si sovrappone un’infezione da germi patogeni, si ha la trasformazione di questa condizione in un empiema, intendendosi con ciò una raccolta di pus nella colecisti, determinata dalla suppurazione del contenuto colecistico. Tale ascesso colecistico, se non trattato prontamente, può dar luogo ad una perforazione della cistifellea, con seguente coleperitoneo (cioè fuoriuscita di bile in peritoneo), oppure può aversi la perforazione nei visceri vicini, per cui si formano delle fistole tra colecisti e vie biliari, tra colecisti e stomaco, tra colecisti e colon, tra colecisti e duodeno. In quest’ultimo caso, può passare un calcolo direttamente nell’intestino e questo calcolo può essere emesso con le feci, ma se raggiunge dimensioni critiche di 3-5 cm, può migrare nell’ileo fino alla valvola ileo-ciecale, dove si blocca e causa un ileo meccanico, che prende il nome di ileo biliare. Altra eventuale complicanza può verificarsi quando i calcoli sono piccoli e multipli, perché questi possono migrare dal coledoco al duodeno, e il loro passaggio ripetuto può dare una papillite, che può esitare in una sclerosi, con successiva stenosi dell’ampolla del Vater. In particolare, poi, l’ostruzione della papilla del Vater può determinare sia colestasi ed ittero, sia un reflusso biliare nel dotto pancreatico, con possibile evoluzione in una pancreatite cronica con l’andare del tempo. Infine, va ricordato che in meno del 2% dei casi di colelitiasi si va incontro alla cosiddetta degenerazione biliare, fino al riscontro di un carcinoma della colecisti: in particolare il carcinoma della cistifellea è, nelle donne, sovrapposto a una precedente colelitiasi intorno al 90% dei casi. F. Terapia. Due sono le possibili terapie per la colelitiasi: • la terapia chirurgica; • la terapia medica, attuata con acidi cheno-desossicolico o urso-desossicolico o tauro-meso-desossicolico.
• La terapia chirurgica, con intervento di colecistectomia, va applicata solo in pazienti sintomatici, con notevoli dolori, ripetuti nel tempo, oppure in pazienti con qualche complicanza seguente ad una colelitiasi. • La terapia medica, invece, è utile soprattutto in soggetti che abbiano dei calcoli radiotrasparenti, cioè privi di componente calcifica; in questo caso, si ha una dissoluzione completa o parziale dei calcoli approssimativamente nel 50-60% dei casi; va detto che la velocità di assottigliamento dei calcoli è di circa 1 mm al mese in media, per cui vengono trattati con buoni risultati solo i calcoli inferiori al centimetro e mezzo (la reale efficacia di questo trattamento è comunque tuttora oggetto di notevoli controversie).
COLANGITE SCLEROSANTE La colangite sclerosante primitiva è una malattia caratterizzata da flogosi cronica delle vie biliari con andamento progressivamente ingravescente fino a determinare la graduale insorgenza di sindrome colestatica ed, eventualmente, l’evoluzione in cirrosi epatica con ipertensione portale ed insufficienza epatica di grado elevato. A. Epidemiologia. La colangite sclerosante primitiva interessa, di regola, l’intero sistema biliare (87% dei casi), mentre molto più raramente sono coinvolte le sole vie biliari intraepatiche (11%) e ancor meno (2%) solo quelle extraepatiche (l’interessamento isolato delle più fini ramificazioni biliari intraepatiche viene più correttamente definito pericolangite); la colecisti ed il dotto cistico sono interessati in circa il 15% dei casi. La colangite sclerosante può sussistere come entità clinica a sé stante oppure può associarsi ad altre malattie: in quest’ultimo caso, che è poi l’evenienza più comune (oltre l’80% di tutti i casi), essa si riscontra soprattutto nell’ambito delle malattie infiammatorie croniche intestinali (75% circa dei casi) ed, in particolar modo, nella colite ulcerosa (87% dei pazienti con malattia infiammatoria cronica intestinale e colangite sclerosante) piuttosto che nella malattia di Crohn (13%). In maniera diversa si può dire che nella colite ulcerosa la prevalenza della colangite sclerosante è compresa tra il 50 ed il 75% e l’incidenza tra il 2,5 ed il 7,5% (in questo caso la colangite può anche precedere nel tempo le altre manifestazioni cliniche della malattia). In altri casi la colangite sclerosante insorge nell’ambito di sindromi fibrosclerotiche (quali la fibrosi retroperitoneale, mediastinica e/o periureterale), ma è stata descritta anche in associazione con la celiachia, la tiroidite di Riedel, la pancreatite cronica, la sindrome di Sjögren, l’artrite reumatoide, il diabete mellito, la porpora trombocitopenica autoimmune, certe vasculiti, ecc. Più rara l’associazione con l’ipo--globulinemia comune variabile, la porfiria cutanea tarda, il timoma, l’istiocitosi X, la linfoadenopatia angioimmunoblastica, la malattia di Hodgkin. La colangite sclerosante, la cui prima descrizione risale al 1924 ad opera di Pierre Delbet, è una malattia
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relativamente rara (all’incirca 100 volte meno frequente dell’epatopatia alcolica), ma rappresenta negli Stati Uniti la quarta indicazione in assoluto tra gli adulti al trapianto di fegato e la seconda in assoluto in Gran Bretagna. La sua prevalenza è compresa tra 1 e 6 casi/100.000 abitanti; è più frequente nell’uomo che nella donna (da 2:1 a 3:1) e l’età di massima incidenza è nel 3°-4°-5° decennio di vita. B. Eziopatogenesi. La causa della colangite sclerosante primitiva è sconosciuta, anche se sono state avanzate a questo proposito diverse ipotesi. 1. Fattori infettivi. Molto interessante è la stretta associazione della colangite sclerosante e delle malattie infiammatorie croniche intestinali. Studi di modelli animali suggeriscono che queste ultime possano essere interpretate come espressione di una particolare interazione tra certi difetti geneticamente determinati del sistema di immunoregolazione e le difese dell’ospite, con conseguente riduzione delle resistenze nei confronti delle infezioni batteriche così da permettere a qualche microrganismo facente parte della normale flora enterica di acquisire particolare virulenza e di innescare il processo infiammatorio caratteristico di queste patologie (infatti le malattie infiammatorie intestinali non compaiono negli animali “germ-free”). Le caratteristiche patogenetiche della colangite sclerosante potrebbero essere simili: dal momento che la bile normalmente non è sterile, ma contiene batteri di provenienza intestinale, si può supporre che la combinazione di un’infezione microbica e di una particolare suscettibilità alle infezioni, congenita o acquisita, possa condurre ad una cronica infezione delle vie biliari (per altro riscontrata solo in una minoranza dei casi di colangite sclerosante). D’altra parte, è ben noto che la terapia antibiotica non è efficace nella colangite sclerosante, se non parzialmente e negli stadi iniziali (quando ancora non è presente stenosi delle vie biliari) più che in quelli avanzati e che, inoltre, non esiste correlazione tra la gravità della colite ulcerosa e quella della colangite; quest’ultima, poi, può insorgere anche molti anni prima della colite o anni dopo un intervento di colectomia totale. Anche alcuni virus sono stati chiamati in causa come il cytomegalovirus, il reovirus 3 e il virus della rosolia (virus capaci, soprattutto il reovirus 3, di provocare colangite ed atresia biliare negli animali da esperimento, nei primati e nei neonati), ma anche l’ipotesi di un’eziologia virale della malattia non ha trovato alcuna attendibile conferma. 2. Fattori tossici. Sono stati considerati diversi agenti tossici come possibile causa della colangite sclerosante primitiva, ma per nessuno di essi sono state trovate prove significative in tal senso. Per esempio, è stato preso in esame il ruolo degli acidi biliari (per un loro eccessivo accumulo dovuto ad un’aumentata produzione intestinale o ad un abnorme assorbimento), del rame (è stata riscontrata in questi soggetti l’esistenza di un’alterazione del metabolismo di questa sostanza con accumulo intraepatocitario ed aumentata escrezione
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urinaria ed è stata ipotizzata una relativa epatotossicità del rame, ma non è tuttora chiaro se si tratti di un evento primitivo o piuttosto di un fenomeno secondario alla colestasi), di svariati agenti chimici (è stata osservata colangite sclerosante in seguito all’iniezione di una soluzione a base di formaldeide al 20% e di cloruro di Na o di alcool al 20% nelle cisti da echinococco epatiche comunicanti con le vie biliari; lesioni del tutto simili sono state riprodotte sperimentalmente in ratti con l’iniezione di formaldeide o di cloruro di Na al 20% nell’albero biliare). 3. Fattori genetici. L’esistenza di una predisposizione genetica nella colangite sclerosante primitiva è avvalorata in primo luogo dal frequente riscontro, in questi pazienti, di alcuni antigeni di istocompatibilità come HLA-B8 (circa 60% dei casi, ma anche 80% in presenza di associazione colangite sclerosante-colite ulcerosa) o HLA-DR3 (70-75% circa dei casi). Inoltre, circa il 70% dei pazienti HLA-DR3 negativi, sono risultati HLA-DR2 positivi, mentre HLA-DRw52a, che è in linkage disequilibrium con HLA-DR3, è presente in oltre il 95% dei casi di colangite sclerosante con positività per HLA-DR3. Ancora, si può riscontrare, in una certa percentuale di casi (piuttosto limitata peraltro), la presenza di HLADR4, che sembra essere correlato ad una prognosi sfavorevole per una progressione della malattia decisamente più rapida. Infine, sempre a proposito dell’importanza dei fattori genetici nella genesi di questa malattia, appare significativo il fatto che siano stati descritti diversi casi di aggregazione familiare tra colangite sclerosante e colite ulcerosa. 4. Fattori immunitari. I fattori immunitari hanno verosimilmente un ruolo patogenetico determinante anche se i precisi meccanismi del loro intervento non sono ben conosciuti (si può ricordare, anche qui, che la colangite sclerosante si associa molto spesso ad altre malattie con anomalie dell’immunoregolazione come le malattie infiammatorie croniche intestinali, la tiroidite, il diabete mellito di tipo I, ecc.). Nei pazienti con colangite sclerosante sono state descritte alterazioni sia dell’immunità umorale sia di quella cellulare: tra le prime la presenza di ipergammaglobulinemia, elevati livelli di IgM, anticorpi antimucosa del colon, immunocomplessi circolanti, anticorpi antimuscolo liscio (ASMA, circa 70-75% dei casi), anticorpi antinucleo (ANA, 70%); estremamente rari, per contro, a differenza di quanto avviene nella cirrosi biliare primitiva, gli anticorpi antimitocondrio (AMA, 35% dei casi). Più di recente, grande interesse ha suscitato il frequente riscontro, in questi pazienti (60-85% dei casi), di p-ANCA (anticorpi anticitoplasma dei neutrofili), presenti molto spesso anche nella colite ulcerosa, dove, tra l’altro, il loro titolo si correla con l’andamento della malattia. Inoltre, in maniera analoga a quanto avviene nella cirrosi biliare primitiva, nella colangite sclerosante è stata osservata un’aberrante espressione degli antigeni
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di istocompatibilità di classe II (studi sperimentali effettuati sugli animali hanno dimostrato che la colestasi, di per sé, è in grado di indurre un’espressione aberrante di questi antigeni sulle cellule epiteliali dei dotti biliari e ciò rende tali cellule più suscettibili ad un danno immuno-mediato e consente loro di svolgere anche il ruolo di cellule deputate alla presentazione di antigeni, cioè di cellule APC). Questo suggerisce che anche nella patogenesi di questa affezione un ruolo importante sia quello legato ai fenomeni di autoimmunità: s’è visto, per esempio, che le cellule dell’epitelio biliare in questi pazienti esprimono un antigene, normalmente presente sulle cellule della mucosa del colon, che costituisce, di regola, un bersaglio della reazione immunitaria che si verifica nella colite ulcerosa (perciò è possibile ipotizzare un meccanismo patogenetico comune alla base del danno a carico della mucosa del colon e dell’epitelio biliare; a conferma di questo sta il fatto che circa il 65% dei pazienti con colangite sclerosante possiede IgG dirette contro un epitopo specifico presente sia sulle cellule del colon sia su quelle delle vie biliari e che può essere messo in evidenza con l’anticorpo monoclonale MAb7 E12 H12). Per quanto riguarda l’immunità cellulare, inoltre, è certo che essa gioca un ruolo importante nella patogenesi della colangite sclerosante: questa, infatti, è caratterizzata da una colangite fibrosclerosante in cui è presente un variabile infiltrato di linfociti T, il cui numero totale in circolo è diminuito, mentre è sensibilmente aumentato in corrispondenza degli spazi portali, con incremento, in questa sede, del rapporto CD4/CD8 rispetto al sangue circolante (ma resta da stabilire se queste alterazioni immunologiche siano fenomeni primitivi o piuttosto secondari al danno che si instaura a carico delle vie biliari). C. Anatomia patologica. Gli aspetti istologici della colangite sclerosante non sono abitualmente patognomonici, ma sono stati identificati quattro stadi in rapporto alla progressiva evoluzione della malattia. Essi ricalcano, in linea di massima, la stadiazione anatomopatologica della cirrosi biliare primitiva e vengono denominati rispettivamente: • • • •
stadio I: epatite portale; stadio II: epatite periportale (fibrosi periportale); stadio III: fibrosi settale (con necrosi “a ponte”); stadio IV: cirrosi biliare.
Nel primo stadio è presente degenerazione delle cellule epiteliali dei dotti biliari che vengono infiltrati da linfociti e neutrofili; a volte si osserva proliferazione dei dotti biliari negli spazi portali, vacuolizzazione delle cellule dell’epitelio duttulare e formazione delle cosiddette lesioni “a bulbo di cipolla” (“onion skin lesions”), costituite da anelli concentrici di tessuto connettivo che circondano i dotti biliari (quest’ultima rappresenta l’alterazione istologica patognomonica della colangite sclerosante, ma è rilevante il fatto che essa è raramente osservata nelle biopsie epatiche di questi pazienti). Nel secondo stadio la fibrosi ed il processo infiammatorio coinvolgono il parenchima periportale e si in-
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staura, per la distruzione degli epatociti, piecemeal necrosis come nell’epatite cronica attiva. I dotti biliari, in questa fase, sono già francamente diminuiti e la fibrosi periportale è l’alterazione più caratteristica. Nel terzo stadio si formano setti fibrosi che connettono tra loro gli spazi portali con comparsa di necrosi “a ponte”. Il quarto stadio, infine, è caratterizzato da vera e propria cirrosi con le tipiche alterazioni istologiche della cirrosi biliare. Poiché il quadro anatomopatologico della colangite sclerosante, come già detto, non è patognomonico (se non in rari casi), la diagnosi, di solito, come verrà anche ricordato più avanti, viene fatta mediante la colangiografia, mentre la biopsia epatica è utilizzata per la sua conferma e per determinare lo stadio evolutivo della malattia. D. Clinica. Il quadro clinico può essere molto vario: in genere, comunque, i pazienti con colangite sclerosante presentano, in misura progressivamente ingravescente, sintomi e segni di ostruzione biliare quali ittero, prurito, dolore addominale, soprattutto in ipocondrio destro, e, talvolta, febbre, sempre presente nei casi in cui si riscontra colangite (peraltro piuttosto rara in assenza di pregresse manovre chirurgiche o diagnostiche strumentali). L’insieme di dolore al quadrante addominale superiore destro, ittero e febbre costituisce la cosiddetta triade di Charcot, relativamente frequente in tutte le patologie a carico delle vie biliari. L’ittero (ittero colestatico con bilirubinemia diretta maggiore del 50% della bilirubinemia totale) può essere costante o intermittente; la bilirubina nel siero è usualmente compresa tra 2 e 10 mg/dl. Le urine sono scure per la presenza di bilirubinuria. Nelle fasi più avanzate della malattia possono comparire ostruzione biliare completa, cirrosi biliare secondaria con epatosplenomegalia, insufficienza epatica e ipertensione portale, quest’ultima responsabile di ascite ed eventualmente anche di episodi di sanguinamento per rottura di varici esofagee. E. Diagnosi. Può essere posta sulla base del reperto colangiografico, che evidenzia l’aspetto irregolare dell’albero biliare con ispessimento dei dotti e con alternanza di tratti stenotici e di tratti dilatati dei rami intraepatici ed extraepatici delle vie biliari con tipico aspetto “a rosario” o “a filo di perle”. La colangiopancreatografia retrograda perendoscopica rappresenta, comunque, la metodica diagnostica di scelta nei casi sospetti, dal momento che l’interessamento dei dotti intraepatici può rendere difficile o impossibile l’esecuzione di una colangiografia percutanea transepatica. Una volta posta la diagnosi di colangite sclerosante è necessario effettuare ulteriori indagini allo scopo di evidenziare eventuali patologie associate ed, in particolare, come già ricordato, le malattie infiammatorie croniche intestinali.
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La biopsia epatica non è sempre diagnostica: in fase precirrotica, come s’è già detto, le alterazioni principali sono rappresentate da fibrosi periduttulare, infiltrato di cellule mononucleate negli spazi portali e proliferazione dei duttuli biliari; in quelle tardive si evidenzia un notevole incremento della componente fibrotica fino ad un quadro di cirrosi vera e propria. Come nella cirrosi biliare primitiva e in tutte le altre forme di colestasi cronica, anche nella colangite sclerosante si riscontra un variabile accumulo di rame. Gli esami di laboratorio mostrano una significativa alterazione degli indici di colestasi: l’aumento della fosfatasi alcalina e della -GT è costante (la fosfatasi alcalina, in particolare, è un indice molto sensibile dell’andamento della malattia); le transaminasi sono variamente aumentate, ma, in genere, non in misura rilevante; la bilirubina può restare a lungo normale ed un suo persistente incremento oltre 1,5-2,5 mg/dl sembra un segno prognostico sfavorevole e indicherebbe che la malattia è irreversibilmente progredita e non più sensibile, di fatto, alla terapia medica (l’ittero, quando presente, è di tipo colestatico con bilirubina diretta che rappresenta oltre il 50% di quella totale). L’iper--globulinemia è presente in circa il 30% dei pazienti e nel 40-50% aumentano le IgM, analogamente a quanto si osserva nella cirrosi biliare primitiva, con la quale sussistono i maggiori problemi di diagnosi differenziale (le principali caratteristiche cliniche, sierologiche ed istologiche di queste patologie sono riportate nella tabella 31.1). F. Complicanze. Le principali complicanze a breve e a lungo termine della colangite sclerosante sono rappresentate da colangiti batteriche ricorrenti, litiasi biliare, sindrome da malassorbimento (soprattutto di lipidi e vitamine liposolubili), osteoporosi secondaria a deficit di vitamina D e diatesi emorragica da deficit dei fattori della coagulazione, emorragie digestive per la già ricor-
data eventuale rottura di varici gastroesofagee a seguito di ipertensione portale. Tra tutte le complicanze della colangite sclerosante, comunque, certamente il colangiocarcinoma rappresenta quella in assoluto più grave. Esso si verifica con un’incidenza del 5-20%, ma tale percentuale sembra sottostimare la reale frequenza della malattia, in quanto circa il 60% delle diagnosi di neoplasia viene posto in corso di trapianto ortotopico di fegato o durante l’esame autoptico. La diagnosi clinica di colangiocarcinoma risulta spesso assai difficile in quanto i segni e i sintomi del tumore sono, di frequente, sovrapponibili a quelli della stessa colangite sclerosante (incremento persistente e, di solito, ingravescente degli indici di colestasi ed, in particolare, della bilirubinemia, ittero franco con andamento via via progressivo, peggioramento delle condizioni generali con grave astenia e perdita di peso fino a cachessia vera e propria). In tutti questi casi, inoltre, particolarmente rilevante sarà l’aumento del CA 19.9, marker tumorale che risulta alterato in tutti i casi di colestasi, ma che in presenza di colangiocarcinoma può raggiungere livelli estremamente elevati (comunque sopra 100 U/ml). G. Decorso, prognosi e terapia. La malattia ha decorso cronico ed estremamente vario con pazienti che restano asintomatici anche per diversi anni. Sono stati fatti numerosi studi per l’identificazione dei fattori prognostici principali della colangite sclerosante, ma non è stata dimostrata alcuna correlazione certa, anche se l’età avanzata, lo stadio istologico, elevati livelli di bilirubina e di fosfatasi alcalina, la presenza di epatosplenomegalia e l’associazione con la colite ulcerosa o il morbo di Crohn sembrano rappresentare indici prognostici sfavorevoli. La sopravvivenza media dal momento della diagnosi è di circa 12 anni (più lunga nei pazienti asintomatici all’epoca della diagnosi).
Tabella 31.1 - Caratteristiche cliniche della colangite sclerosante primitiva (CSP) e della cirrosi biliare primitiva (CBP).
Rapporto uomo/donna Età di presentazione Colangiti Prurito Fosfatasi alcalina Bilirubinemia totale Transaminasi IgM AMA • Malattie associate – Colite ulcerosa – Sindrome di Sjögren • Caratteristiche istologiche – Lesione florida dei dotti biliari – Fibrosi periduttulare • Aspetti radiologici – Colangiografia • Complicanze – Colangiocarcinoma
CSP
CBP
3:2 30-50 anni Frequenti Frequente Elevata Elevata (specie in fase avanzata) Moderatamente elevate Elevate + + Assenti
1:10 50-65 anni Molto rare Frequente Elevata Elevata (specie in fase avanzata) Moderatamente elevate Elevate + + + Presenti (> 95%)
Frequente Rara (< 2%)
Assente Frequente (> 60%)
Assente Diagnostica
Diagnostica Assai modesta
Diagnostica
Negativa
5-20%
Molto raro
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Per quanto riguarda il trattamento, esso ricalca a grandi linee quello della cirrosi biliare primitiva e di tutte le altre sindromi colestatiche a cui si rimanda (si veda il Cap. 30). Nei casi in cui sia presente ostruzione biliare completa o parziale, ma in ogni caso di grado elevato, può essere indicata una terapia chirurgica: intervento di anastomosi bilioenterica o posizionamento di drenaggio biliare interno od esterno. Tali procedure, tuttavia, sono spesso complicate da colangiti ricorrenti che possono ulteriormente favorire la progressione della malattia verso la fibrosi. L’utilità della colectomia nei pazienti con colangite sclerosante associata a colite ulcerosa è ancora controversa. Inoltre, in alcuni casi di stenosi delle vie biliari può essere presa in considerazione la dilatazione me-
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diante cateterismo per via endoscopica o transepatica con applicazione di appositi stent. Infine, va ricordato che la colangite sclerosante primitiva rappresenta, come già detto, una delle principali indicazioni in ordine di frequenza al trapianto di fegato (dopo trapianto in pazienti con colangite sclerosante primitiva o cirrosi biliare primitiva la sopravvivenza a 2 anni è di oltre l’80%, ma il numero di reinterventi e la frequenza di rigetto cronico e di ritrapianti sarebbero maggiori tra i soggetti con colangite sclerosante che non in quelli con cirrosi biliare). Peraltro, ci sono dati che riportano un certo incremento dell’incidenza di carcinoma del colon dopo trapianto di fegato nei pazienti con colangite sclerosante e colite ulcerosa, per cui si raccomanda, in tutti questi casi, un continuo e attento follow-up nel tempo.
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MALATTIE DEL PANCREAS V. BALDINI
ASPETTI ANATOMOFISIOLOGICI (*) Il pancreas è una grossa ghiandola a secrezione esocrina ed endocrina, situata nello spazio retroperitoneale a ridosso della parete addominale posteriore, all’altezza della I e II vertebra lombare. È disposto trasversalmente interponendosi tra il duodeno da una parte e la milza dall’altra e viene anatomicamente distinto in tre parti e cioè, da destra verso sinistra: testa (la parte più voluminosa), corpo e coda (la parte più piccola). La componente esocrina del pancreas ha la struttura di una ghiandola acinosa composta: gli acini sono formati da cellule secernenti raccolte in formazioni lobulari e fanno capo ad una fitta rete di dotti di calibro progressivamente crescente. Questi confluiscono nei due dotti pancreatici maggiori: quello di Wirsung (dotto principale), che sbocca a livello della seconda porzione del duodeno in corrispondenza della papilla di Vater (unitamente al coledoco), immettendo il proprio secreto nell’intestino attraverso lo sfintere di Oddi; quello di Santorini, il quale presenta a sua volta due sbocchi, uno nel Wirsung e uno direttamente nel duodeno a livello della papilla duodenale minore. La componente endocrina è costituita dalle isole di Langerhans, presenti soprattutto nella coda, meno nel corpo ed ancor meno nella testa, formate da cellule di tipo diverso, che producono ormoni polipeptidici di differente significato funzionale, di cui si parla in altri capitoli cellule A (producenti glucagone), cellule B (producenti insulina) e cellule D (producenti soprattutto somatostatina, ma anche gastrina). Il pancreas esocrino, del quale ci occupiamo in questo capitolo, produce da 1500 a 3000 ml nelle 24 h di un secreto piuttosto denso, isotonico, alcalino (pH medio: 8), costituito per il 98% da acqua e per il resto da elettroliti (soprattutto bicarbonati: 120-300 mEq al giorno, ma anche sodio, potassio, cloro, calcio, zinco,
(*) Con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di I. Sassi.
fosfati e solfati) e da sostanze organiche, rappresentate essenzialmente da enzimi. La secrezione pancreatica esocrina ha un significato funzionale estremamente importante: infatti, essa fornisce gli enzimi necessari per la digestione della maggior parte delle sostanze alimentari (glucidi, lipidi, protidi) e, inoltre, attraverso la produzione di bicarbonati fa sì che nel tenue (in particolare già nel duodeno e nel digiuno), si instauri il pH ottimale per l’attività di questi enzimi neutralizzando, insieme con la secrezione intestinale e quella biliare, l’acidità del chimo gastrico. Questa secrezione è regolata da fattori ormonali, che sono di gran lunga i più importanti, e da fattori nervosi. L’acidità del contenuto gastrico rappresenta normalmente lo stimolo per la secrezione di secretina, un ormone polipeptidico formato da 27 aminoacidi, prodotto dalle cellule S della mucosa duodenale e digiunale, ed in parete ileale, il quale a sua volta stimola il pancreas alla produzione di un secreto ricco di acqua ed elettroliti (soprattutto bicarbonati) ma relativamente povero di enzimi. La presenza nel tenue di acidi grassi liberi a lunga catena di atomi di carbonio e di certi aminoacidi essenziali (triptofano, valina, metionina, fenilalanina) provoca, invece, la liberazione da parte delle cellule I della mucosa duodenale e digiunale di pancreozimina-colecistochinina (CCK-PZ), un ormone polipeptidico formato da 33 aminoacidi, il quale stimola il pancreas esocrino alla produzione di un secreto ricco di enzimi ed a basso contenuto di bicarbonati (la gastrina, che all’estremità carbossilica terminale della sua molecola ha gli stessi 5 aminoacidi della pancreozimina-colecistochinina, è invece una sostanza che possiede soltanto debole azione stimolante sul pancreas, con la produzione di un secreto povero di enzimi). Per quanto riguarda la regolazione nervosa, il sistema parasimpatico, mediante il nervo vago, esercita anch’esso un certo controllo della secrezione del pancreas esocrino, in parte attraverso la liberazione di gastrina (che aumenta in seguito all’attività vagale) ed in parte
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MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
attraverso l’azione diretta dell’acetilcolina sulle cellule acinose di tale organo (per effetto di questa stimolazione il pancreas produce normalmente piccole quantità di secreto ad elevato contenuto di enzimi). Inoltre, la stimolazione vagale provoca una maggiore produzione di VIP (Vasoactive Intestinal Peptide), un ormone polipeptidico secreto dalle cellule D1, del tenue, dello stomaco, del colon e del pancreas, il quale, a sua volta, favorisce la secrezione pancreatica esocrina. Infine, l’attività del pancreas esocrino è stimolata anche dai sali biliari che nell’intestino, come già è stato detto (Cap. 24), prendono parte ad alcuni processi digestivi (specialmente per quanto riguarda la digestione dei grassi) in cui è essenziale anche l’intervento degli enzimi di origine pancreatica. Gli enzimi prodotti dal pancreas esocrino sono riportati nella tabella 32.1; essi esplicano azione diversa: • glicolitica, • lipolitica, • proteolitica, partecipando ai processi digestivi di tutti i costituenti essenziali della dieta. 1. L’-amilasi pancreatica è una glicosidasi che scinde i legami -1-4-glicosidici delle molecole di amido (amilosio ed amilopectina) in oligosaccaridi e disaccaridi (maltosio). 2. Gli enzimi lipolitici comprendono la lipasi (che ha un ruolo fondamentale nella digestione dei grassi operando l’idrolisi dei trigliceridi a digliceridi, monogliceridi ed acidi grassi), le fosfolipasi A e B (che provocano la degradazione dei fosfolipidi), la colesterolo-esterasi (che catalizza l’esterificazione del colesterolo) e la lipoprotein-lipasi (o fattore chiarificante, che è responsabile della degradazione delle lipoproteine ed, in particolare, dei chilomicroni). Tabella 32.1 - Enzimi pancreatici. Glicolitici • -amilasi Lipolitici • • • •
Lipasi; Fosfolipasi A e B; Colesterolo-esterasi; Lipoprotein-lipasi.
Proteolitici • Endopeptidasi – Tripsina; – Chimotripsina; – Elastasi; – Collagenasi; • Esopeptidasi – Carbossipeptidasi; – Aminopeptidasi; • Nucleasi – Ribonucleasi; – Desossiribonucleasi.
I sali biliari stimolano normalmente l’attività della fosfolipasi (sia A che B) e della colesterolo-esterasi, mentre inibiscono la lipasi presente in forma libera nell’intestino, ma non quella legata alla colipasi, che è un’altra componente della secrezione pancreatica. 3. Gli enzimi proteolitici comprendono: • endopeptidasi, che agiscono scindendo i legami peptidici fra gli aminoacidi presenti all’interno delle molecole proteiche; • esopeptidasi, che scindono i legami peptidici all’estremità carbossilica ed aminica terminali di queste molecole; • nucleasi, che intervengono nella degradazione degli acidi nucleici. Questi enzimi vengono secreti dal pancreas sotto forma di precursori inattivi, chiamati zimogeni o proenzimi: nell’intestino, l’enterochinasi, un enzima prodotto dalle cellule della mucosa duodenale, determina l’attivazione del tripsinogeno a tripsina attraverso il distacco di un dipeptide (lisina-isoleucina) in corrispondenza dell’estremità N-terminale della sua molecola; a sua volta, la tripsina provoca, in rapida successione (“a cascata”), l’attivazione di tutti gli altri proenzimi proteolitici presenti nella secrezione pancreatica nelle corrispondenti sostanze attive. Le conseguenze di un’insufficienza funzionale del pancreas esocrino sono già state descritte nel capitolo dedicato alle sindromi da malassorbimento, cui si rimanda (Cap. 24).
ESPLORAZIONE FUNZIONALE L’esplorazione funzionale del pancreas esocrino può essere effettuata con metodiche diverse che consentono di evidenziare l’eventuale presenza di uno stato di insufficienza di tale organo (anche di queste indagini s’è già detto nel Cap. 24). Può essere qui ricordato che fra i test di stimolazione, oltre a quello con la secretina, è possibile fare ricorso anche a quello con secretina + pancreozimina-colecistochinina (o anche con la sola pancreozimina-colecistochinina): mentre il test con la secretina permette di valutare la produzione di bicarbonati da parte del pancreas esocrino, quello con pancreozimina-colecistochinina (4U/kg ev) è utile per la determinazione quantitativa della secrezione pancreatica di enzimi (in particolare amilasi, lipasi, tripsina e chimotripsina).
ESAMI STRUMENTALI Gli esami strumentali per lo studio del pancreas sono diversi e vengono abitualmente impiegati per la diagnosi delle malattie che interessano questo organo. Di queste metodiche si parlerà più dettagliatamente nei singoli capitoli dedicati alle affezioni del pancreas.
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32 - MALATTIE DEL PANCREAS
FIBROSI CISTICA DEL PANCREAS (*) La fibrosi cistica (FC) del pancreas (o mucoviscidosi o malattia fibrocistica del pancreas, identificata nel 1936 da Fanconi) è una malattia congenita ereditaria, a carattere autosomico recessivo, caratterizzata da alterazioni degenerative cistiche che interessano non soltanto il pancreas, ma anche altri organi a struttura ghiandolare, in particolare, l’apparato digerente e quello respiratorio. Relativamente frequente nell’infanzia (fino a 1:1600 nati), soprattutto nella popolazione caucasica (un individuo su venti di questa razza è eterozigote per quanto riguarda questa condizione), è di eccezionale riscontro nell’adulto. Nella razza caucasica, la mucoviscidosi è anche la più frequente causa di morte tra le malattie ereditarie durante l’infanzia. A. Eziopatogenesi. Per la eziopatogenesi si veda il capitolo 16. B. Anatomia patologica. Il quadro anatomopatologico è caratterizzato da degenerazione del tessuto acinoso e da sclerosi del tessuto interstiziale con dilatazione cistica dei dotti; negli stadi più avanzati, si osserva marcata atrofia delle strutture acinose con diffusa degenerazione degli elementi ghiandolari ed iperproduzione di muco, la quale coinvolge di solito anche le formazioni ghiandolari dell’apparato respiratorio, di tutto l’apparato gastroenterico e le ghiandole salivari. C. Clinica. La malattia fibrocistica si manifesta per lo più durante la prima infanzia ed è caratterizzata da rallentamento dello sviluppo staturale e ponderale, disturbi dispeptici, diarrea con feci grasse e schiumose (steatorrea), notevole meteorismo. Molto importanti sono anche le manifestazioni a carico dell’apparato respiratorio: comune è la comparsa di bronchite cronica con frequenti episodi di riacutizzazione, di focolai broncopneumonici o anche di manifestazioni di carattere allergico come asma bronchiale, riniti ricorrenti, febbre da fieno. Caratteristica di questa malattia è la modificazione della composizione fisico-chimica del sudore con elevata concentrazione di sodio e cloro. Il quadro clinico della mucoviscidosi nell’infanzia può essere molto variabile in rapporto alla prevalente localizzazione delle lesioni; in genere, nei primi anni di vita predominano i disturbi a carico dell’apparato respiratorio, mentre quelli che riguardano l’apparato gastroenterico compaiono di solito più tardivamente. La compromissione dell’apparato respiratorio è la più frequente causa di morte di questi pazienti, che nella maggior parte dei casi si verifica entro il secondo decennio di vita. L’interessamento pancreatico è presente in circa l’85% dei casi di mucoviscidosi, con insufficienza del pancreas esocrino di grado variabile in rapporto all’estensione del danno anatomico. (*) V. Baldini e S. Rusconi
La steatorrea è spesso marcata ed è associata a deficit delle vitamine liposolubili; frequente è il malassorbimento della vitamina B12 e quello dei sali biliari. In circa il 40% dei casi è alterato il test di tolleranza al glucosio, mentre raramente insorge vero e proprio diabete. Tra le complicanze più importanti si segnalano: emorragie retiniche, cirrosi biliare (5-10%) ed occlusione intestinale meccanica (ileo da meconio, 15%), che si instaura in genere dopo breve tempo dalla nascita per effetto dell’elevata vischiosità delle secrezioni intestinali. È interessante notare come recenti studi di genetica, dopo la scoperta del gene FC, sembrino essere in grado di predire il decorso clinico di alcuni pazienti, evidenziando l’esistenza di un’associazione tra particolari genotipi e quadri clinici: sembrano cioè esistere diverse mutazioni geniche per la FC in grado di dare diversi gradi di interessamento polmonare e/o pancreatico. D. Diagnosi. Il test diagnostico di maggiore importanza, soprattutto nelle forme dell’infanzia, che sono le più frequenti e le più gravi, consiste nella determinazione della concentrazione del sodio e del cloro nel sudore dopo stimolazione ionoforetica con pilocarpina (si considerano significativi dell’esistenza di questa malattia livelli rispettivamente superiori a 80 e 60 mEq/l). Lo studio della funzionalità pancreatica con test alla secretina o con colecistochinina-pancreozimina rivela un’importante ed ingravescente compromissione di questo organo, sia per la produzione di bicarbonati sia per quella di enzimi pancreatici. Sono inoltre disponibili test per lo screening neonatale: il test del meconio, basato sul rilievo di albumina non digerita nelle prime feci dei pazienti, per l’esistenza, nel 90% dei casi già alla nascita, di insufficienza pancreatica e il test fondato sul dosaggio della tripsina nel sangue dei neonati, concentrazione che si è potuto appurare essere elevata negli individui affetti da FC. Infine, oggi è possibile, nelle famiglie con casi noti di FC, eseguire uno studio genetico che permette di accedere a programmi di diagnosi prenatale attraverso lo studio del DNA trofoblastico prelevato intorno alla 10a settimana con biopsia transaddominale. Non ancora sufficientemente affidabile è invece la ricerca diretta, nella popolazione generale, di portatori di mutazioni geniche per FC. E. Terapia. La terapia è rivolta a correggere il malassorbimento dovuto all’insufficienza pancreatica con adeguato trattamento sostitutivo; l’impiego di antibiotici è spesso indispensabile per la frequente presenza di processi infettivi a carico dell’apparato respiratorio. Sembra possibile ipotizzare, in un futuro non troppo lontano, una terapia genica, basata sulla sostituzione o aggiunta del gene normale alle cellule degli individui malati.
PANCREATITI Pancreatite acuta La pancreatite acuta è una malattia infiammatoria acuta del pancreas esocrino, dovuta ad un processo di
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autodigestione del parenchima pancreatico innescato dalla prematura attivazione degli enzimi prodotti dalle cellule acinose di questo organo, i quali fisiologicamente vengono attivati soltanto a livello del tenue per opera delle enterochinasi, a contatto con i costituenti fondamentali della dieta (protidi, lipidi, glucidi). Clinicamente si manifesta con sintomi locali (soprattutto ai quadranti addominali superiori), con frequenti ripercussioni su altri organi ed apparati (soprattutto gastroenterico, vie biliari, apparato respiratorio, cuore e reni) e con alterazioni sistemiche (shock, gravi squilibri metabolici ed emocoagulativi). A. Eziologia. Gli eventi che possono provocare la pancreatite acuta sono veramente numerosi; si riconoscono con maggiore frequenza i seguenti. 1. Affezioni delle vie biliari. Rappresentano il fattore eziologico più frequente nei paesi mediterranei, in particolar modo per quanto riguarda la litiasi biliare. A questo proposito si prospettano due possibili meccanismi d’azione: o il calcolo ostruisce il dotto di Wirsung (che sbocca in ampolla comunemente al coledoco nel 70% dei soggetti), provocando un ostacolo al flusso del secreto pancreatico, oppure può accadere che la bile, normalmente a pressione più alta, refluisca nel Wirsung qualora un calcolo ostruisca lo sfintere di Oddi. È importante ricordare, poi, che anche un’eventuale colecistite può indurre di per sé uno spasmo dello sfintere con meccanismo riflesso, provocando anche in questo modo un ostacolo al passaggio della secrezione pancreatica. 2. Abuso di alcool. L’abuso di alcool è molto frequente nell’anamnesi di questi pazienti. L’azione lesiva di questa sostanza sul pancreas sembra realizzarsi attraverso diverse modalità non ancora completamente chiarite; in particolari osservazioni sperimentali e cliniche sono state documentate modificazioni quantitative e qualitative del secreto pancreatico indotte dalla somministrazione di etanolo, riferibili a meccanismi neurovegetativi (stimolazione vagale) ed ormonali (aumentata liberazione di gastrina, maggiore sensibilità dei recettori pancreatici alla secretina ed alla colecistochininapancreozimina). Tali effetti prodotti dall’alcool si traducono in due conseguenze di particolare rilevanza. • Induzione di maggiore acidità a livello del duodeno e conseguente aumentata stimolazione alla liberazione di secretina e di colecistochinina-pancreozimina, con produzione di notevoli quantità di secreto pancreatico ricco di bicarbonati ed enzimi. • Ostacolo al deflusso del secreto pancreatico (e biliare) in seguito a spasmo dello sfintere di Oddi. Attualmente, rilevante significato patogenetico viene attribuito all’aumentata concentrazione, nel secreto pancreatico, di proteine, conseguente ai processi sopra ricordati, per cui queste sostanze precipiterebbero all’interno dei dotti con formazione di aggregati (“plugs”) responsabili dell’ostruzione delle vie escretrici, dove si dispongono costituendo come dei piccoli “calcoli”.
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La deposizione di calcio nella matrice proteica dei plugs può nel tempo condurre alla formazione delle caratteristiche calcificazioni della pancreatite cronica calcifica (si veda in seguito), la quale è molto spesso correlata all’etilismo cronico. Per quanto detto sopra, si può affermare che un’abbondante ingestione di alcool è in grado di provocare un ristagno acuto del secreto pancreatico nei dotti, che possono venire distesi fino alla rottura permettendo, quindi, la diffusione nel parenchima di sostanze enzimatiche, le quali, attivandosi, darebbero origine al processo di autodigestione di questo organo. I principali meccanismi di azione dell’alcool nella patogenesi della pancreatite acuta sono riportati nella figura 32.1. 3. Squilibri metabolici. Non raramente si rileva in questi soggetti una condizione di dislipidemia di I e soprattutto di IV tipo. L’ipotesi più suggestiva per spiegare questa associazione è quella della possibilità da parte della lipasi di ottenere, a partire dai trigliceridi, presenti in quantità superiori alla norma, una maggiore produzione di acidi grassi, responsabili di un’azione tossica diretta sul parenchima. Fattori favorenti di questa patologia risultano comunque essere anche altre malattie metaboliche, quali il diabete (coma diabetico iperosmolare), l’emocromatosi, la porfiria acuta, l’uremia, oppure la gravidanza. 4. Alterazioni endocrine. Sicuramente documentata è l’associazione della pancreatite acuta con l’iperparatiroidismo e con l’ipercalcemia anche di altra natura, probabilmente dovuta alla capacità dei calcio-ioni di attivare la tripsina. 5. Cause iatrogene. Casi di pancreatite acuta sono stati descritti in corso di trattamento con corticosteroidi ad alte dosi, forse a causa di una maggiore viscosità del secreto o di una maggiore carica enzimatica endocellu-
ALCOOL
Stimolazione vagale
Aumento della sensibilità del pancreas alla CCK-PZ
Aumento della concentrazione delle proteine nel succo pancreatico
Deposito dei sali di calcio
Precipitazione delle proteine
Calcificazioni pancreatiche
Ostruzione dei dotti pancreatici
PANCREATITE
Figura 32.1 - Meccanismi di azione dell’alcool nella patogenesi della pancreatite.
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32 - MALATTIE DEL PANCREAS
lare indotte dal farmaco; altri farmaci, però, vengono chiamati in causa: tiazidi, fenformina, contraccettivi, paracetamolo, azatioprina, sulfasalazina. Interventi chirurgici sullo stomaco, duodeno e vie biliari (specialmente se interessanti la papilla di Vater) possono favorire l’insorgenza della pancreatite acuta tramite una lesione traumatica diretta sulla ghiandola, in particolare sul sistema vascolare e sul sistema escretore. Da ultimo, ricordiamo che la pancreatite acuta può essere favorita da una metodica diagnostica quale la pancreatografia endoscopica retrograda, quando il mezzo di contrasto venga iniettato nel Wirsung sotto controllo endoscopico a pressione troppo elevata, con possibilità di rottura dei dotti e diffusione nel parenchima. 6. Forme infettive. Per lo più risultano essere complicanze di altre affezioni pancreatiche; tuttavia, anche se raramente, possono rappresentare un evento primitivo, in particolar modo in corso di parotite, epatite acuta, mononucleosi, scarlattina, tifo, infezioni da Coxsackie, da stafilococchi e streptococchi. 7. Forme associate ad altre patologie. Esistono numerose altre affezioni che si associano alla pancreatite acuta, con il ruolo di condizioni predisponenti o come fattori scatenanti: traumi addominali, affezioni cardiocircolatorie (scompenso cardiaco congestizio, infarto del miocardio, insufficienza vascolare celiaco-mesenterica, aortite e aneurisma dell’aorta addominale), intossicazioni (saturnismo), malattie gastroenteriche (ulcera gastrica e duodenale, gastroresezione, colite ulcerosa), affezioni renali (glomerulonefrite acuta e cronica).
8. Pancreatite idiopatica. La sua eziologia è del tutto sconosciuta. Rappresenta circa il 40% dei casi e si presenta praticamente sempre in forma clinicamente molto grave. B. Patogenesi. La pancreatite acuta è fondamentalmente un fenomeno di autodigestione di questo organo, determinato dall’attivazione intrapancreatica degli enzimi prodotti dalle cellule acinose, enzimi che fisiologicamente vengono attivati soltanto a livello duodenale per opera delle enterochinasi. Intervengono in questo evento meccanismi diversi e non ancora completamente chiariti (Fig. 32.2). Abbiamo già visto come sia importante il ristagno del secreto pancreatico a cui può conseguire la rottura dei canalicoli e quindi l’invasione dell’interstizio da parte delle sostanze enzimatiche. Un altro elemento che gioca sicuramente un ruolo fondamentale è il deficit del sistema fisiologico degli inibitori triptici, deficit che si può realizzare o per una carenza da iperconsumo, come reazione ad una massiccia attivazione enzimatica, o per un loro insufficiente apporto come conseguenza di alterata sintesi o anche di turbe vascolari distrettuali. L’associazione con patologie delle vie biliari viene spiegata anche dall’effetto detergente che la bile e gli acidi biliari refluiti nei dotti pancreatici possono esercitare sulle cellule acinose, provocandone una necrosi coagulativa, e dall’attivazione contemporanea della fosfolipasi A e formazione di lisolecitina a partire dalla lecitina, con le conseguenze che vedremo in seguito. L’evento primitivo, nella maggior parte dei casi, è dovuto all’attivazione del tripsinogeno a tripsina, la quale,
FASE CONCLAMATA FASE DI INNESCO
Tripsina attiva
Lesioni vascolari
Edema Emorragia
Liberazione e attivazione di tutti i sistemi enzimatici
Lisi delle membrane cellulari Acidosi Degranulazione di granulociti e mast-cells
Attivazione del complemento
Procarbossipeptidasi proelastasi
Carbossipeptidasi Elastasi Fase conclamata
Chimotripsinogeno
Ribonucleasi Chimotripsina
Profosfolipasi
Fosfolipasi
Lipasi
Amilasi
Digestione fibre elastiche proteine acidi nucleici
Digestione strutture lipidiche Liberazione di acidi grassi
Digestione glicogeno e polisaccaridi
Attivazione della tripsina EFFETTI SISTEMICI
Figura 32.2 - Rappresentazione schematica degli eventi patogenetici della pancreatite acuta, distinti in una fase iniziale di innesco ed in una fase conclamata. Le lesioni vascolari, sempre presenti, possono costituire il momento iniziale ed amplificatore della flogosi.
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tuttavia, nel processo di autodigestione che si svolge nel pancreas ha un ruolo solo in parte diretto, svolgendo la sua azione proteolitica non tanto sulle proteine delle strutture pancreatiche, quanto piuttosto su tutti gli altri proenzimi che, attivandosi in questo modo, diverrebbero i veri responsabili delle alterazioni organiche sia locali che sistemiche. Infatti, vere e proprie “colate” possono riversarsi nella cavità peritoneale, con coinvolgimento di parecchi organi; e ancora, ingenti quantità di sostanze attive possono riversarsi nel sangue, coinvolgendo quindi tutto l’organismo con gravi conseguenze di carattere generale. Le fosfolipasi, per esempio, agiscono inducendo la formazione di lisofosfolipidi (lisolecitina, lisocefalina) che, venendo incorporate nelle strutture membranose delle cellule ne provocano la morte. All’azione dell’elastasi vengono attribuite, in gran parte, le alterazioni della parete vascolare parzialmente responsabili degli eventi emorragici che spesso si verificano nel pancreas colpito da questa malattia. La lipasi, la cui penetrazione nelle cellule adipose del tessuto intra e peripancreatico è favorita dall’azione detergente dei sali biliari eventualmente refluiti nel pancreas per via duttale, provoca una steatonecrosi, di solito particolarmente rilevante nei soggetti obesi. Da tutti questi fenomeni consegue l’aspetto quanto mai variegato del pancreas, la cui struttura anatomica è alterata più o meno diffusamente da zone di necrosi cellulare, di steatonecrosi, di colliquazione con formazione di pseudocisti, di edema, di emorragia, di suppurazione secondaria, variamente presenti. L’azione della tripsina può inoltre innescare altri importanti eventi legati all’attivazione di due sistemi “a catena”: prima di tutto il sistema dei peptidi vasoattivi, quali bradichinina, callicreina, callidina, che inducono vasodilatazione e aumento della permeabilità vasale con conseguente ipovolemia; in secondo luogo, si possono verificare notevoli alterazioni dell’equilibrio nell’ambito del sistema emocoagulativo, sia in senso fibrinolitico, sia in senso procoagulante (per attivazione della protrombina), potendosi instaurare, in questo modo, anche un quadro di coagulopatia intravascolare disseminata (DIC), con possibilità di gravi emorragie. Per tutti questi motivi si realizza frequentemente uno stato di shock e, a questo proposito, importante sembrerebbe anche la liberazione da parte del pancreas di un fattore detto Myocardial Depressant Factor (MDF), dotato di azione inotropa negativa sul miocardio; tale fattore verrebbe liberato in circolo non soltanto in corso di pancreatite acuta, ma anche in seguito ad altri eventi capaci di indurre un’ipossia e acidosi tissutale del pancreas, come si verifica, d’altra parte, in condizioni di shock anche di altra natura. I più importanti effetti sistemici della necrosi pancreatica acuta sono riassunti nella figura 32.3. Si verificano, quindi, numerosi fenomeni strettamente concatenati tra di loro, che rendono la pancreatite acuta un evento caratterizzato da un decorso veramente imprevedibile, capace di precipitare da un momento all’altro.
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C. Anatomia patologica. Il quadro anatomopatologico è caratterizzato da variabile associazione di edema, emorragie intraparenchimali e necrosi (Fig. 32.4). Nella pancreatite acuta edematosa, la ghiandola appare aumentata di volume, con diffusa congestione capillare ed imbibizione sierosa nell’interstizio. Con il progredire dei processi di autodigestione si manifestano, nell’ambito del parenchima, fenomeni necrotici di variabile entità cui si associano spesso manifestazioni emorragiche. La presenza di importanti fenomeni necrotici ed emorragici determina un notevole sovvertimento delle caratteristiche morfologiche e strutturali di questo organo, in cui la normale architettura lobulare diviene non più riconoscibile. D. Clinica. Nella sua manifestazione più caratteristica, la pancreatite acuta colpisce di preferenza soggetti attorno ai 50 anni, buoni mangiatori e buoni bevitori. La sintomatologia si manifesta in modo improvviso, insorgendo dopo 12-24 h da un pasto copioso, ricco di grassi e di bevande alcoliche. Sintomo fondamentale è il dolore, sempre importante, violento, descritto dal paziente come atroce, trafittivo, resistente ai comuni antinfiammatori e analgesici. Raggiunge l’acme in pochi minuti, a volte in ore, resta poi grave e costante, diminuendo gradualmente nel corso dei giorni o delle settimane seguenti, comunque mai prima di 48 h dal suo esordio. Si può accentuare col movimento e con la respirazione, trovando soltanto un po’ di sollievo dalla posizione seduta a busto piegato in avanti. Esordisce in epigastrio con una distribuzione “a sbarra”, portandosi verso l’ipocondrio di destra, più raramente verso l’ipocondrio di sinistra; l’irradiazione più frequente è posteriore a livello della regione dorsolombare. Spesso è presente vomito importante che, a differenza di quello di origine gastrica, non apporta sollievo, neppure momentaneo, al dolore e anzi talvolta lo aggrava. Nel corso dei primi giorni si sviluppa febbre attorno ai 38-39 °C. Il paziente si presenta con aspetto sofferente, può osservarsi ittero, presente nel 30% dei casi, che può essere dovuto a litiasi biliare oppure a compressione del coledoco per edema della testa del pancreas o per la presenza di pseudocisti. La pressione arteriosa tende a diminuire, fino al verificarsi di un vero e proprio stato di shock, con i caratteristici segni: polso piccolo e frequente, talora aritmico, marcata ipotensione, cute fredda, oliguria, segni di ipossia cerebrale. Nonostante la gravità della sintomatologia dolorosa, all’esame dell’addome solo nel 30% dei pazienti si presenta reazione di difesa e la contrattura muscolare tipica di altre condizioni di addome acuto. È presente frequentemente meteorismo, in particolar modo in epigastrio e agli ipocondri; pressoché costante è il verificarsi di ileo paralitico. Dopo 1-2 giorni possono comparire leggere ecchimosi ai fianchi (segno di Grey-Turner) o in zona periombelicale (segno di Cullen), segni tipici anche se non costanti. Talora è presente ascite, più frequentemente un versamento pleurico basilare sinistro o tromboflebiti agli arti inferiori.
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32 - MALATTIE DEL PANCREAS
Squilibri endocrini
Compressione sulle vie biliari
Diffusione degli enzimi nelle cavità sierose
Sequestro di plasma nell’area necrotica
Diffusione degli enzimi nel torrente circolatorio
Liberazione di sostanze tossiche
Calcitonina
Ittero Glucagonemia
PTH
Polmone da shock
Insulinemia Ca++
Turbe del metabolismo glicidico
Versamento sieroso
Alterazioni elettrolitiche
Febbre Leucocitosi Turbe psichiche
Insufficienza respiratoria acuta
Ipovolemia
Azione sulla coagulazione
MDF
DIC Sindrome colestatica
Alterazioni cardiache
Ipotensione
Insufficienza renale
SHOCK
Figura 32.3 - Effetti sistemici della necrosi pancreatica acuta.
Primo stadio: edema e congestione
Pancreatite emorragica avanzata: vescicole emorragiche, necrosi adiposa Ascesso necrotico, gangrena
Figura 32.4 - Pancreatite acuta. Dall’alto al basso: edema, emorragie e necrosi del grasso omentale, ascessi e gangrena.
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L’evoluzione della pancreatite acuta è estremamente variabile, dipendendo da diversi fattori: dall’entità del quadro clinico, dall’elemento eziologico, dall’insorgenza di complicanze. Infatti abbiamo già visto come possa essere estremamente probabile l’evenienza di uno stato di shock; a questo si aggiunge la possibilità che si inneschi una coagulopatia intravascolare disseminata, con il grave rischio di fenomeni emorragici o anche di fenomeni trombotici a livello dei vari organi, specialmente a carico del rene e del sistema nervoso centrale. Complicanza temibile è poi l’insufficienza respiratoria acuta, dovuta ad un’alterazione diretta del surfattante da parte delle fosfolipasi pancreatiche presenti nel sangue e ad invasione degli alveoli da parte di liquidi, proteine plasmatiche, sotto l’influenza di peptidi vasoattivi capaci di alterare la permeabilità vascolare. Si verifica così la formazione di “pseudomembrane ialine”, formate da proteine plasmatiche e frammenti di materiale tensioattivo, ricalcando la condizione che si verifica nella malattia delle membrane ialine del neonato; si parla, in questo caso, di sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS). E. Diagnosi. Allorché il quadro clinico si manifesta in modo caratteristico, la diagnosi non presenta in genere grosse difficoltà. Esistono comunque numerosi casi in cui la sintomatologia, i dati anamnestici e l’obiettività possono orientare verso una diagnosi di “addome acuto” di altra origine. 1. I dati di laboratorio di maggiore importanza diagnostica sono indicati di seguito. • Amilasemia: è il test diagnostico di maggiore rilevanza, in particolar modo quando si hanno valori molto elevati; l’amilasemia, solitamente, raggiunge il picco massimo entro 24 h e ritorna normale entro 3-4 giorni (valore normale con metodo uromogenico: 70-300 UI/l). • Amilasuria: la valutazione dell’enzima sulle urine raccolte almeno in 2 h, meglio nell’arco delle 24 h, spesso risulta elevata anche se l’amilasemia è normale (valore normale con metodo uromogenico: < 2000 UI/l). • Elevati risultano anche i valori degli enzimi endocellulari, transaminasi e latticodeidrogenasi, tanto più quanto più estesa è la necrosi cellulare. Aumenta anche la concentrazione della lipasi e solitamente questo valore resta alterato più a lungo rispetto a quello dell’amilasemia. Qualora sia presente colestasi, si osserverà anche elevazione di bilirubina, -glutamiltranspeptidasi e fosfatasi alcalina. Pressoché costanti sono la leucocitosi neutrofila e l’elevazione della velocita di sedimentazione e della PCR. Si può avere iperglicemia e ipertrigliceridemia: se il siero è lattescente, l’amilasemia può essere falsamente ridotta a valori normali per effetto di un inibitore specifico. La calcemia, inizialmente elevata, può abbassarsi in 36-48 h poiché il calcio interstiziale forma dei sali con gli acidi grassi liberati nel tessuto pancreatico e peripancreatico.
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Il riscontro associato di iperamilasemia, iperglicemia e ipocalcemia è fortemente suggestivo per una pancreatite acuta. Ricordiamo, inoltre, le modificazioni dell’ematocrito, che può aumentare in caso di fenomeni essudativi in peritoneo, per un fenomeno di emoconcentrazione, ma che più comunemente subisce una diminuzione: una riduzione maggiore del 10% nei primi 2 giorni o una diminuzione continua suggeriscono la presenza di un’importante componente emorragica. Importante è poi il controllo dei valori della potassiemia, che tendono ad aumentare in relazione alla necrosi cellulare, a meno che non prevalga una deplezione dovuta all’importante vomito frequentemente presente. Alterati possono risultare i parametri della funzionalità renale, come conseguenza dello stato di shock. 2. Indagini strumentali. Prima di tutto dev’essere eseguita una radiografia a vuoto dell’addome sia in clino che in ortostatismo, evitando in fase acuta l’uso di mezzi baritati, anche a causa della presenza di ileo paralitico; talvolta si possono vedere delle calcificazioni in corrispondenza dell’area pancreatica, segno però di una pregressa infiammazione; oppure è possibile evidenziare calcoli radiopachi o l’aspetto ambrato di un ascesso. Può essere presente un ileo paralitico localizzato nel quadrante superiore di sinistra o in quello centrale dell’addome (segno dell’“ansa sentinella”); ma, soprattutto, la radiografia dell’addome in bianco è importante per escludere altre cause di addome acuto (perforazione di un viscere, occlusione intestinale acuta, ecc.). Anche la tomografia computerizzata (TC) (Fig. 32.5) e l’ecografia possono essere utili dal punto di vista diagnostico evidenziando l’aumento delle dimensioni del pancreas e la disomogeneità della sua struttura, in rapporto allo stato di edema e alla presenza di manifestazioni necrotiche ed emorragiche che caratterizzano questo organo in presenza di pancreatite acuta. Particolarmente utile è la valutazione dell’enhancement
Figura 32.5 - Pancreatite acuta di lieve entità alla TC dell’addome. Si nota un rigonfiamento del pancreas che ha margini sfumati. (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, StuttgardNew York, 2003.)
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(maggiore evidenza dell’immagine) che si può verificare alla TC dopo iniezione di mezzo di contrasto. Dato che, in presenza di necrosi, la microcircolazione pancreatica è distrutta, l’enhancement manca dove si è verificato tale evento. Questa tecnica ha un’accuratezza del 90% quando il tessuto pancreatico che è andato incontro a necrosi supera il 30% del volume dell’organo. Altre indagini strumentali per lo studio del pancreas (di cui si parlerà a proposito della pancreatite cronica) possono essere eseguite soltanto quando sia stata superata la fase acuta della malattia. Qualora la diagnosi non sia certa e sia presente un quadro di addome acuto, è comunque giustificato ricorrere alla laparotomia esplorativa. F. Terapia. Una volta che la pancreatite acuta si è verificata, la terapia è volta soprattutto a limitarne le conseguenze dannose. Infatti, il tessuto pancreatico necrotico ha una notevole tendenza a essere sede di infezioni e queste sono la causa di circa l’80% dei decessi per pancreatite acuta. È importante ricordare che non è facile distinguere una pancreatite acuta sterile da una che si è infettata perché entrambe possono causare febbre, leucocitosi e grave dolore addominale. Tuttavia, è bene avere un elevato indice di sospetto perché una pancreatite acuta infetta ha, senza trattamento antibiotico, una mortalità prossima al 100%. Le infezioni, solitamente, sono originate dal colon e provocate da microrganismi presenti nell’intestino. È possibile avere una valutazione dello stato batteriologico del pancreas mediante aspirazione con ago sottile sotto guida TC. Una tecnica terapeutica che ha dato buoni risultati è la decontaminazione intestinale con antibiotici per uso orale e rettale. Meglio è una somministrazione sistemica per via endovenosa. Nella letteratura medica, buoni risultati vengono riportati con l’impiego di imipenem-cilastatina, mentre non è risultata utile la pefloxacina. Deve però essere rilevato che la sensibilità della flora batterica intestinale agli antibiotici varia con il tempo e il luogo in dipendenza dell’uso più o meno largo che se ne fa, perciò queste indicazioni debbono essere considerate con cautela. È comune, in tali pazienti, affrontare le aumentate esigenze metaboliche con una nutrizione parenterale somministrata atraverso un catetere venoso centrale. Si è però visto che anche una nutrizione enterale, con un sondino nasoenterico spinto sotto controllo radiologico al di là del legamento di Treiz, è ben tollerata e non ha alcun effetto negativo. In presenza di calcolosi è risultata utile la colangiopancreatografia retrograda endoscopica con sfinterotomia biliare. Tuttavia, questa tecnica dev’essere impiegata con giudizio perché può essere veicolo di infezioni ed è riservata ai pazienti nei quali si sospetta un’ostruzione biliare sulla base di un’iperbilirubinemia e di una colangite clinicamente evidente. Il procedimento terapeutico classico è, però, chirurgico e consiste nella rimozione del tessuto pancreatico necrotico (“débridement”). Oggi si preferisce ritardare, se possibile, questo tipo di terapia e provare a vedere se l’evoluzione può essere favorevole con l’energica applicazione dei trattamenti medici sopra riportati. Sono an-
che allo studio metodi di débridement meno invasivi, come l’irrigazione e il drenaggio attraverso cateteri percutanei o per via endoscopica. G. Decorso e prognosi. La prognosi delle forme emorragiche è molto grave, specialmente per quelle postoperatorie; la mortalità può superare il 50% dei casi. Nelle forme lievemente edematose la mortalità è nettamente inferiore, meno del 10%, tenendo presente che in questo caso esiste la possibilità di forme che rimangono non diagnosticate per la loro scarsa rilevanza clinica. La diagnosi ed il trattamento sono, comunque, sempre di estrema urgenza, soprattutto nelle forme clinicamente evidenti, in relazione al carattere di gravità e di estrema imprevedibilità delle complicanze, come già ricordato. La pancreatite acuta può risolversi come episodio unico e isolato; se alla base della patologia vi è la litiasi biliare, è possibile un’evoluzione verso forme ricorrenti, qualora non venga eliminata la causa; se l’agente responsabile è l’alcool, frequentemente si andrà incontro ad una forma cronica. Le sequele a lungo termine di questa malattia includono anche un difetto della funzione esocrina che, con metodi sofisticati, può essere messa in evidenza nella maggior parte dei pazienti fino a due anni dopo una grave pancreatite acuta, e che talora risulta importante e richiede la somministrazione di enzimi pancreatici. Anche se una lieve intolleranza al glucosio è frequente, un vero e proprio diabete mellito non è comune come sequela di questa malattia.
Pancreatite cronica (*) La pancreatite cronica è una malattia infiammatoria di tipo cronico del pancreas caratterizzata da alterazioni di carattere flogistico e da progressiva distruzione del parenchima pancreatico, con irreversibile evoluzione verso l’atrofia e la sclerosi di questo organo. La pancreatite cronica è un’affezione relativamente frequente e colpisce prevalentemente il sesso maschile, soprattutto nella varietà più comune, quella dovuta all’alcool. A. Epidemiologia. Recenti indagini epidemiologiche hanno evidenziato che la pancreatite cronica può presentare caratteri differenti in rapporto alle diverse aree geografiche: per esempio, nelle regioni temperate questa malattia sembra colpire con netta prevalenza individui di sesso maschile (85% dei casi), si manifesta generalmente nel 4°-5° decennio di vita e si può presentare indifferentemente nelle due forme di pancreatite calcifica e non calcifica (si veda in seguito). Nei paesi dell’Europa meridionale (quindi anche in Italia), l’incidenza è di circa lo 0,4-0,5% prevalendo, in genere, la forma calcifica che è correlata soprattutto all’abuso di bevande alcoliche. (*) V. Baldini e S. Rusconi
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Nell’Europa settentrionale, invece, sembra prevalere la varietà non calcifica della pancreatite cronica, mentre quella calcifica torna ad essere più frequente nelle regioni tropicali (in India l’incidenza è del 5% circa) ed in genere nei paesi a basso tenore di vita e di sviluppo economico: in questi ultimi, inoltre, la malattia ha spesso un’insorgenza più precoce (1°-2° decennio di vita), colpisce in egual misura i due sessi ed è spesso associata ad un quadro di grave malnutrizione, specie per quanto riguarda l’apporto proteico. B. Eziopatogenesi. Le cause della pancreatite cronica possono essere diverse; l’elenco di quelle principali è riportato nella tabella 32.2. La causa più frequente di questa malattia è l’etilismo cronico, come confermano le ricerche epidemiologiche che dimostrano come, nei paesi sviluppati, il 60-70% delle pancreatiti croniche sia legato al consumo di alcool; non è comunque documentabile una correlazione diretta tra la quantità assunta di questa sostanza e la possibilità di insorgenza della malattia, ma è ben evidente che l’eccessiva introduzione di alcool si accompagna ad una sua più elevata incidenza, soprattutto quando si associa ad un rilevante apporto calorico giornaliero (specie proteico), verosimilmente manifestandosi in soggetti predisposti sul piano genetico. L’azione lesiva dell’alcool nei confronti del parenchima pancreatico si esplica attraverso meccanismi in gran parte diversi da quelli descritti per il fegato, in quanto il tessuto pancreatico è assai povero in alcool-deidrogenasi e scarsamente sensibile agli effetti tossici dell’acetaldeide. Per la descrizione dei meccanismi patogenetici del danno pancreatico dovuto all’alcool, si rimanda a quanto già riportato nel capitolo dedicato alla pancreatite acuta. Numerose ricerche sperimentali hanno dimostrato che anche alterazioni trofopatiche, in particolare la carenza di sostanze proteiche, sono in grado di determinare deficit funzionale del pancreas esocrino, regredibile, entro certi limiti, con il ripristino di una dieta equilibrata. Il prolungarsi nel tempo di tale condizione può determinare, però, l’insorgenza di alterazioni irreversibili a carico di questo organo, con sviluppo progressivo di un quadro di pancreatite cronica. Tabella 32.2 - Cause di pancreatite cronica. • • • • •
• • • •
Etilismo cronico Malnutrizione (da grave carenza di proteine) Fibrosi cistica Litiasi biliare Patologie di origine duttale – Stenosi dell’ampolla di Vater – Litiasi del Wirsung – Pancreatite acuta, pseudocisti e tumori pancreatici determinanti stenosi duttale Iperparatiroidismo Emocromatosi Pancreatite traumatica Pancreatite ereditaria
Importanti sembrano essere anche, dal punto di vista patogenetico, l’ipertensione duttale ed il reflusso biliare, anche se questi fattori sono rilevanti soprattutto nella genesi della pancreatite acuta: infatti, è verosimile ritenere che l’ostruzione delle vie escretrici (compressione da pseudocisti, neoplasie a lenta evoluzione, odditi o papilliti croniche, litiasi coledociche) rappresenti, in una certa percentuale di casi, un fattore lesivo, in grado di instaurare e mantenere un processo flogistico cronico a carico del pancreas con successiva evoluzione verso una progressiva atrofia parenchimale. L’intervento di fattori immunitari è stato prospettato di recente sia per quanto riguarda l’insorgenza sia per l’evoluzione della pancreatite cronica; tuttavia, questa ipotesi eziopatogenetica attende ancora una valida conferma sperimentale e clinica. Sono stati, infine, descritti alcuni casi di pancreatite cronica su base ereditaria, verosimilmente correlati ad un carattere autosomico dominante a penetranza incompleta; la patogenesi di questa forma non è ancora ben chiara: secondo alcuni sarebbe legata ad una malformazione del Wirsung o della papilla di Vater, mentre per altri entrerebbero in gioco alterazioni metaboliche congenite non ben definite. C. Anatomia patologica. Da un punto di vista macroscopico, il pancreas appare in genere aumentato di volume e di consistenza per la presenza di variabile quantità di tessuto fibroso (più di rado il volume è ridotto). I dotti escretori si presentano dilatati e tale dilatazione può essere di grado notevole con eventuale riscontro, all’interno del lume, di calcoli o formazioni calcifiche (pancreatite cronica calcifica). Microscopicamente, nel pancreas esocrino prevalgono fenomeni degenerativi a carico delle cellule acinose, con progressiva atrofia del parenchima, graduale sviluppo di tessuto fibroso e notevole sovvertimento della normale struttura ghiandolare. Nell’ambito di questo processo di sclerosi, si associa alla compromissione della componente acinosa un variabile grado di sofferenza delle isole di Langerhans. D. Clinica. Il quadro clinico della pancreatite cronica può essere molto variabile, in rapporto alle diverse forme di questa malattia ed alla diversa gravità del danno a carico del pancreas (Fig. 32.6). Dal punto di vista clinico possono essere distinte due varietà principali: • pancreatite cronica ad andamento uniformemente progressivo; • pancreatite cronica ricorrente. La pancreatite cronica calcifica può essere considerata, clinicamente, come una forma particolare di pancreatite ricorrente, di cui ricalca, in genere, il tipico andamento a fasi alterne con periodi di riacutizzazione e periodi di relativa quiescenza. 1. Il dolore è certamente il sintomo più importante, soprattutto nelle forme croniche ricorrenti, mentre in quelle ad andamento progressivo la sintomatologia do-
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A.
B.
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Figura 32.6 - Aspetti della pancreatite cronica. (A) Infiammazione moderata della testa del pancreas. (B) Infiammazione di tutto l’organo con calcificazioni e compressione delle vie biliari che sono dilatate. (C) Fibrosi pancreatica con formazione di numerose cisti.
lorosa può essere anche molto modesta o addirittura assente in una certa percentuale di casi (10%: painless pancreatitis). Il dolore può essere sordo e continuo oppure acuto e intermittente, ad insorgenza postprandiale precoce o tardiva (2-3 h) o anche notturna; spesso è scatenato dall’ingestione di un pasto copioso (soprattutto se ricco di grassi) oppure di abbondanti quantità di alcool; molte volte, peraltro, la causa scatenante rimane sconosciuta ed il dolore insorge in modo assolutamente capriccioso. La sintomatologia algica si manifesta in genere a crisi della durata di molte ore (10-30) e può, nel corso della malattia, prolungarsi fino al punto in cui il dolore diventa continuo con intervalli liberi di breve durata. La sede più frequente del dolore è la regione epigastrica con irradiazione all’ipocondrio destro, più di rado a quello sinistro, e, talora, posteriormente al dorso (e anche in regione lombare), spesso con distribuzione “a cintura” o “a sbarra”, così come nella pancreatite acuta. Il dolore è solitamente accentuato dal decubito dorsale ed è attenuato dalla flessione del tronco in avanti, dal decubito laterale destro e dalla compressione dell’addome. 2. I disturbi dispeptici sono molto frequenti e sono caratterizzati da diminuzione progressiva dell’appetito (spesso elettiva per alcuni cibi come la carne e i grassi), peso epigastrico, nausea, eruttazioni, rigurgiti, meteorismo, flatulenze. Si tratta spesso di sensazioni penose che si protraggono per molte ore dopo i pasti e che costringono i pazienti a gravi restrizioni alimentari.
3. Il dimagramento costituisce un segno clinico costante nelle fasi più avanzate dalla malattia ed è la causa più importante del progressivo deterioramento delle condizioni generali, fino a vera e propria cachessia. La perdita di peso è causata essenzialmente dalla riduzione dell’apporto calorico alimentare, correlato alla dispepsia e, inoltre, dal malassorbimento dipendente dall’insufficienza funzionale del pancreas esocrino. 4. Disordini intestinali, rappresentati prevalentemente da meteorismo e diarrea (fino a vera e propria steatorrea), sono relativamente frequenti; insorgono, a volte, a breve distanza dai pasti, ma più spesso tardivamente e sono soprattutto associati all’ingestione abbondante di cibo (specialmente grassi). La causa di questi disturbi è l’accelerato transito intestinale secondario all’azione irritante dei prodotti alimentari non completamente digeriti e, soprattutto, all’aumento del contenuto intestinale conseguente al deficit digestivo e di assorbimento. 5. L’ittero costituisce un sintomo abbastanza frequente ed ha le caratteristiche dell’ittero ostruttivo; presenta spesso fasi alterne di accentuazione (in rapporto alle fasi di riacutizzazione della malattia nella forma ricorrente) e di parziale o completa remissione. Può essere di origine pancreatica (edema, sclerosi, pseudocisti) per compressione sul coledoco, o, più di rado, extrapancreatica per effetto di patologie che spesso si associano alla pancreatite (litiasi biliare, colangite).
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L’esame obiettivo di questi pazienti è di solito poco significativo, se si eccettua il progressivo, notevole deterioramento delle condizioni generali. Alla palpazione dell’addome è talora possibile riscontrare dolore in regione epigastrica o nell’area coledoco-pancreatica o anche nei punti di Desjardins (5-6 cm dall’ombelico sulla linea che unisce questo al cavo ascellare destro) e di Calot (simmetrico al precedente). E. Diagnosi. 1. Anamnesi. Un’accurata indagine anamnestica con la ricerca di particolari abitudini alimentari (abuso di alcool, dieta abbondante ricca di grassi) e di pregresse o concomitanti affezioni biliari o gastroduodenali, che spesso si associano alla pancreatite cronica, è certamente importante per la diagnosi di questa malattia insieme con la corretta valutazione del dolore. Quest’ultimo rappresenta senz’altro, dal punto di vista clinico, l’elemento più rilevante, anche se spesso è difficile riconoscerne con sicurezza l’origine pancreatica per la sua somiglianza con quello di altre sindromi digestive. 2. Esami di laboratorio. Il dosaggio nel siero e nelle urine di amilasi e lipasi risulta in genere normale, salvo che nelle fasi di riacutizzazione della pancreatite cronica ricorrente, in cui, talvolta, si può riscontrare un incremento di questi enzimi. L’aumento della bilirubina (in particolare della bilirubina diretta), della -glutamil-transpeptidasi e della fosfatasi alcalina, si verifica quando è presente colestasi secondaria a compressione del coledoco (quindi, quando vi è ittero). Lo studio funzionale del pancreas esocrino con il test alla secretina e/o con il test alla colecistochinina-pancreozimina è importante, in quanto fornisce una significativa indicazione del rapporto fra danno anatomico e deficit funzionale: infatti, si ammette che questi test risultino alterati quando il danno funzionale a carico del pancreas esocrino è almeno del 75% rispetto ai livelli di attività normale. Estremamente frequente è la presenza di quantità eccessive di grassi nelle feci, mentre è normale, di regola, il test allo xilosio. Nel 40% circa dei casi è presente malassorbimento della vitamina B12; più comune, specie nelle forme avanzate di questa malattia, il deficit delle vitamine liposolubili. L’iperglicemia e la glicosuria sono generalmente manifestazioni tardive in rapporto alla progressiva distruzione delle isole di Langerhans nelle zone coinvolte dal processo flogistico e dalla successiva reazione sclerotica; diabete vero e proprio si instaura solo in circa il 15% dei casi. 3. Esami strumentali. Il “gold standard” per la diagnosi della pancreatite cronica è la pancreatografia retrograda perendoscopica, indagine in grado di classificare le alterazioni morfologiche della ghiandola. Numerose sono le indagini strumentali che possono fornire un valido supporto diagnostico nelle pancreatiti croniche: • esame radiologico dell’addome senza mezzo di contrasto che, in caso di pancreatite calcifica, evidenzia la presenza di calcificazioni nel contesto dell’organo;
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• ecografia addominale con studio della loggia pancreatica; • tomografia computerizzata (TC) con più alta sensibilità e specificità; • studio radiologico dell’apparato digerente con mezzo di contrasto, colangiografia transepatica percutanea, arteriografia pancreatica selettiva, biopsia pancreatica percutanea per aspirazione. Tutte queste indagini, di cui si parlerà più dettagliatamente nel capitolo dedicato ai tumori del pancreas (Cap. 41), possono essere di aiuto, in alternativa alla laparotomia esplorativa, nella diagnosi differenziale tra la pancreatite cronica ed altre affezioni del pancreas, in particolare il carcinoma pancreatico. La distinzione tra queste due forme è spesso estremamente ardua per quanto, di solito, in presenza di tumore il decadimento delle condizioni generali si instaura più rapidamente, il dolore è più persistente e l’ittero ostruttivo più frequente e con andamento più progressivo. F. Complicanze. Le complicanze della pancreatite cronica possono essere diverse. 1. Il malassorbimento della vitamina B12 si verifica in circa il 40% dei pazienti in cui la pancreatite cronica è correlata all’ingestione di alcool e praticamente in tutti i casi in cui la pancreatite è dovuta alla presenza di fibrosi cistica. Tale malassorbimento viene, in genere, sensibilmente corretto mediante la somministrazione di enzimi pancreatici, soprattutto proteasi: infatti, esso sembra riferibile all’eccessivo legame della vitamina B12 con sostanze aventi struttura simile a quella del fattore intrinseco (ma di cui non possiedono la capacità di permettere l’assorbimento di questa vitamina), in grado di legare molecole di natura proteica e che normalmente vengono degradate dalle proteasi contenute nella secrezione pancreatica esocrina. Il deficit funzionale che accompagna la pancreatite cronica fa sì che queste sostanze non vengano degradate normalmente (per la carenza di proteasi), per cui competono con il fattore intrinseco legando la vitamina B12 in quantità eccessiva ed impedendone l’assorbimento. 2. La maggior parte dei pazienti con pancreatite cronica presenta una diminuita tolleranza al glucosio (confermata con la prova da carico orale di questo zucchero), ma l’insorgenza di vero e proprio diabete e delle sue complicanze (retinopatia, angiopatia, nefropatia, neuropatia) è piuttosto infrequente. Può essere presente, peraltro, una retinopatia periferica non di origine diabetica, ma correlata ad un deficit di vitamina A dovuto al malassorbimento delle vitamine liposolubili. 3. Emorragie gastrointestinali, anche con ematemesi e melena, possono verificarsi per la rottura di varici gastroesofagee, dovute all’ipertensione portale correlata alla trombosi della vena splenica secondaria alla pancreatite cronica, specie se è coinvolta la coda di questo
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organo; dalla vena splenica, infatti, la trombosi può estendersi alla porta, con possibile formazione di varici gastroesofagee. 4. L’ittero (di tipo ostruttivo) è piuttosto comune, come già è stato ricordato, in rapporto alla compressione del coledoco da parte della testa del pancreas, il quale aumenta di volume per l’edema che accompagna il processo infiammatorio o anche in rapporto alla colestasi cronica secondaria alle alterazioni flogistiche che coinvolgono la porzione intrapancreatica del coledoco. Tale ostruzione cronica delle vie biliari può, nel tempo, condurre a colangite sclerosante ed a cirrosi biliare secondaria. 5. L’incidenza del carcinoma del pancreas è maggiore in questi soggetti, soprattutto in caso di pancreatite cronica calcifica, che non nella popolazione generale. 6. Complicanze più rare sono: • tromboflebiti migranti, a patogenesi sconosciuta, agli arti inferiori; • steatonecrosi sottocutanea, che si manifesta sotto forma di noduli rossastri sulla cute, soprattutto degli arti inferiori; • sierositi con versamento pleurico, pericardico e peritoneale (in cui si riscontra, di solito, elevata concentrazione di amilasi); • dolori ossei, verosimilmente secondari alla necrosi che coinvolge il tessuto adiposo intramidollare; talvolta si possono avere artrite-artralgie alle piccole e grandi articolazioni sia agli arti superiori che a quelli inferiori. G. Decorso, prognosi e terapia. Il decorso della pancreatite cronica è molto vario, ma in genere progressivamente ingravescente, pur alternandosi periodi di relativa remissione e periodi di riacutizzazione della sintomatologia (soprattutto nella varietà ricorrente). La prognosi è spesso severa e, comunque, in gene-
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re correlata alla persistenza di quelle condizioni che ne hanno favorito l’insorgenza: per esempio, nel caso di pancreatite cronica dovuta ad etilismo, è stato riscontrato che quando il paziente continua ad ingerire bevande alcoliche la mortalità è del 50% nel giro di 5-10 anni. La terapia della pancreatite cronica può essere medica e/o chirurgica. 1. La terapia medica è diretta soprattutto al trattamento del malassorbimento e del dolore e consiste nell’impiego regolare di preparati a base di estratti pancreatici (contenenti, cioè, gli enzimi normalmente presenti nella secrezione pancreatica esocrina) oltre che di quelle sostanze (per es., vitamine liposolubili) di cui è costante la carenza in caso di insufficienza pancreatica e che vengono somministrate per via parenterale. Di particolare importanza è anche un adeguato regime dietetico, ricorrendo ad un’alimentazione ricca in proteine e zuccheri e con un contenuto in grassi limitato (comunque non superiore al 25% delle calorie totali). Inoltre, l’abolizione assoluta delle bevande alcoliche rappresenta un provvedimento terapeutico di grandissimo valore anche nei casi in cui non costituiscano il fattore eziologico fondamentale. Per quanto riguarda la terapia del dolore, i farmaci che vengono normalmente impiegati sono gli stessi utilizzati nella pancreatite acuta e comprendono tutti gli analgesici noti, tenendo conto dell’estrema variabilità della risposta individuale nei confronti di queste sostanze. In presenza di diabete, è indispensabile il ricorso al trattamento con insulina. 2. La terapia chirurgica è necessaria quando è presente colestasi, con soluzioni tecniche differenti nei diversi casi per consentire di ripristinare il flusso della bile o quando la sintomatologia dolorosa si dimostra ribelle a qualsiasi trattamento; spesso, in questi casi, è necessario ricorrere alla pancreatectomia subtotale.
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MALATTIE DEL FEGATO, DELLE VIE BILIARI E DEL PANCREAS
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PARTE QUINTA
MALATTIE DELLE OSSA a cura di C. RUGARLI
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C A P I T O L O
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MALATTIE DELLE OSSA G.F. CIBODDO
REGOLAZIONE DELLA FORMAZIONE DELL’OSSO L’osso è costituito da una matrice organica su cui si determina la deposizione di una fase minerale solida. La componente organica è costituita per il 95% da collageno di tipo I (contenente due catene 1 e una catena 2). La fase minerale solida è composta prevalentemente da calcio e fosforo in un rapporto tale da formare idrossiapatite in parte cristallina e in parte amorfa con formula bruta: Ca10(PO4)6(OH)2 La struttura ossea non è però fissa e stabile, ma subisce continui rimaneggiamenti ad opera di due popolazioni cellulari: gli osteoblasti e gli osteoclasti. Mentre i primi hanno un ruolo nella sintesi di matrice ossea e nella sua successiva mineralizzazione, i secondi determinano il riassorbimento dell’osso. Gli osteoblasti derivano da cellule progenitrici mesenchimali (preosteoblasti) e sintetizzano il collageno e le altre proteine su cui si ha la deposizione della matrice ossea. Tra queste è importante l’osteonectina, che ha struttura analoga alla fibronectina ed è in grado di legare sia il calcio che il collageno, formando un possibile sito di innesco della calcificazione dell’osso. L’osteoblasto, dopo aver prodotto la matrice dell’osso può rimanere localizzato nell’interno di tale struttura, trasformandosi in un osteocita interno nella sua caratteristica lacuna o, in alternativa, restare alla superficie come osteoblasto a riposo. Il riassorbimento dell’osso viene invece effettuato dagli osteoclasti: cellule che possono essere mono o plurinucleate e che derivano, presumibilmente, da una cellula staminale emopoietica. Essi sono caratterizzati dall’avere una membrana finemente festonata dalla parte rivolta verso la superficie ossea. Proprio attraverso tale membrana avvengono i processi di riassorbimento dell’osso.
Nell’adulto sano i processi di riassorbimento e neoformazione ossea sono accoppiati e il continuo rimaneggiamento della struttura ossea sembra importante per il mantenimento della forza meccanica dell’osso. Tutti questi processi sono sotto il controllo di sistemi endocrini. In particolare, il paratormone e la 1,25 (OH)2 vitamina D stimolano il riassorbimento ed hanno un effetto inibitorio sugli osteoblasti. La calcitonina inibisce il riassorbimento con un’azione diretta sugli osteoclasti mediante specifici recettori. Esiste poi tutta una serie di fattori locali che hanno importanza nell’omeostasi ossea: tra questi vanno ricordati le prostaglandine, l’eparina prodotta dai mastociti, oltre ad alcune citochine (sostanze attive a breve raggio, prodotte da cellule del sistema immunitario) che agiscono aumentando l’attività o la differenziazione degli osteoclasti in modo diretto o indiretto. Recentemente è stata posta notevole attenzione al ruolo dell’interleuchina-1 (citochina prodotta dai macrofagi) che appare in grado di favorire il riassorbimento osseo attivando in modo indiretto gli osteoclasti. Al contrario, l’interferon- è in grado di inibire il riassorbimento osseo con un meccanismo ancora non chiaro.
Metabolismo del calcio e del fosforo Il calcio svolge un ruolo fondamentale in diverse funzioni cellulari agendo sulla permeabilità e sulla capacità di depolarizzazione delle membrane biologiche soprattutto a livello neuromuscolare: è perciò necessario che la sua concentrazione sia mantenuta entro un ambito rigorosamente costante. La concentrazione normale del calcio totale plasmatico è compresa tra 8,8 e 10,4 mg/dl (usualmente viene misurata in tal modo, ma se si preferisce utilizzare la determinazione in mM/l secondo il sistema SI è possibile effettuare la conversione: sapendo che il peso atomico è, per il calcio, di 40, i valori normali saranno 2,22,6 mM/l).
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MALATTIE DELLE OSSA
È importante ricordare che dal punto di vista fisiologico la quota di calcio significativa è solo quella ionizzata e non legata alle proteine plasmatiche. Per determinare quindi la percentuale di calcio libero, bisogna conoscere quella del calcio legato, la quale è proporzionale alla concentrazione delle proteine plasmatiche di trasporto, la principale delle quali è l’albumina. Esiste una semplice formula per calcolarla approssimativamente:
METABOLISMO DEL CALCIO
Intestino 1 2
% Ca legato alle proteine = = Alb 4 g/dl × 8 + Glob 3 g/dl × 2 + 3 = 41%.
Ca++ plasmatico
Per esempio, in un soggetto normale che abbia 4 g/dl di albumina e 3 g/dl di globuline:
3
Alb 4 g/dl × 8 + Glob 3 g/dl × 2 + 3 = 41%. La quota legata alle proteine è quindi circa il 40%, il calcio libero sarà del 60% circa. Questo può presentarsi in due forme: per un 10% circa è libero, ma non ionizzato in quanto sottoposto ad un legame organico non dissociabile con citrati, bicarbonati e altri acidi deboli. La quota restante, circa il 50% (4,5 mg%) è quella realmente più importante e sottoposta alla regolazione ormonale. La concentrazione del calcio è legata assai strettamente a quella del fosforo. Nel soggetto normale la sua concentrazione plasmatica viene espressa in riferimento alla massa di fosforo elementare, in quanto i fosfati si presentano in diverse forme ioniche: il valore normale è quindi compreso tra 2,8 e 4,0 mg (P)/dl (1,0-1,4 mM/l). Solo il 12% è legato alle proteine. Esiste una relazione inversa tra le due concentrazioni di calcio e fosforo plasmatiche: infatti oltre un certo livello si ha il superamento del prodotto di solubilità e la deposizione di fosfato di calcio nei tessuti. Quindi se i fosfati sono alti, la calcemia tende a calare e se sono bassi tende ad aumentare. Il mantenimento di una concentrazione costante di calcio e fosforo è un processo attivo regolato da vari fattori soprattutto ormonali, che interagiscono a tre livelli: intestino, osso e rene (Fig. 33.1). A. Metabolismo del calcio 1. Intestino. L’intestino è la sede di assorbimento del calcio proveniente dalla dieta. In condizioni normali si introducono circa 600-1000 mg di calcio al giorno, soprattutto con l’assunzione di latte e derivati. Nell’adulto è assorbito solo il 40-50%. Una quota maggiore è assorbita in gravidanza, nell’allattamento e durante la crescita. L’assorbimento non avviene in maniera incondizionata perché è dipendente dalla presenza di vitamina D in forma attiva. La sede principale dell’assorbimento è l’ileo prossimale e in minor misura quello distale. Tra gli altri fattori che hanno un ruolo nell’assorbimento del calcio, il paratormone sembra agire in modo indiretto attraverso l’attivazione della vitamina D. È poi interessante segnalare l’azione facilitante del lattosio. Il suo ruolo è importante perché tale disaccaride è contenuto nel latte e nel neonato il suo assorbimento facilita quello del calcio. Al contrario, alcuni ali-
Osso
4 Rene
Vitamina D in forma attiva Lattosio Fitati Attività osteoblastica [Ca] x [P] GH Osteoclasti Paratormone Vitamina D in forma attiva Sollecitazioni meccaniche Calcitonina Ormoni sessuali Paratormone Calcitonina
Figura 33.1 - La concentrazione plasmatica del calcio dipende da tre sistemi: per l’assorbimento dall’intestino, per l’escrezione dal rene e per la più fine regolazione dall’osso. Nella figura sono presentati i vari fattori che agiscono ai diversi livelli per mantenere costante la concentrazione.
menti vegetali contengono dei derivati dell’acido fitico (fitati) che interferiscono negativamente con l’assorbimento del calcio. Essi, infatti, chelano il calcio e lo rendono non assorbibile dall’intestino. 2. Osso. Nel corpo umano sono presenti circa 1-2 kg di calcio e la maggior parte di esso si trova nell’osso sotto forma di fosfati amorfi e cristallini di idrossiapatite. L’osso è importante nel metabolismo del calcio circolante perché rappresenta un pool di riserva relativamente stabile ma il cui ricambio è continuo; se il livello ematico è alto, il calcio tende a depositarsi nell’osso e se è basso può essere mobilizzato verso il sangue. Esistono diversi fattori che agiscono su questi scambi. Un ruolo di primaria importanza hanno gli osteoblasti che, come abbiamo già detto, favoriscono la deposizione del calcio nell’osso. Tra le loro diverse azioni quella che più facilmente si può valutare dal punto di vista clinico è la secrezione dell’enzima fosfatasi alca-
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lina. Tale enzima è in grado di scindere il pirofosfato la cui azione è inibente sulla calcificazione dell’osso. Poiché la fosfatasi alcalina, una volta formata, si riversa nel torrente circolatorio, ad ogni aumento dell’attività osteoblastica si avrà un aumento della fosfatasi alcalina plasmatica. Alla luce di tali dati si capisce come nei bambini la fosfatasi alcalina sia fisiologicamente elevata; in essi, infatti, rappresenta un indice dell’accrescimento. È importante però ricordare che tale enzima può aumentare anche nella stasi biliare e non è possibile distinguerne l’origine mediante i più comuni test di attività enzimatica. Sarà quindi importante la correlazione con il quadro clinico o, nel caso persistano ancora dei dubbi, lo studio elettroforetico degli isoenzimi. Tra gli altri fattori di fondamentale importanza per la calcificazione dell’osso, è particolarmente rilevante il valore del prodotto della concentrazione molare dei calcio-ioni per la concentrazione molare dei fosfatoioni (prodotto di solubilità). È sufficiente che almeno uno dei due termini sia alto perché si abbiano dei valori favorevoli alla mineralizzazione dell’osso. È proprio su questo punto che si ha l’azione che in modo indiretto favorisce la deposizione del calcio nell’osso da parte della vitamina D attiva: essa, infatti, come ruolo principale ha quello di aumentare l’assorbimento intestinale di calcio e fosforo, determinando un aumento delle loro concentrazioni plasmatiche e facilitando la calcificazione. Un altro fattore che promuove la deposizione del calcio nell’osso è l’ormone della crescita (GH), che probabilmente ha anche un effetto favorente sulla costituzione della matrice organica dell’osso. È opportuno quindi considerare i fattori che agiscono in senso opposto. Un ruolo predominante hanno in tal senso gli osteoclasti, i quali vengono attivati dal paratormone che facilita il riassorbimento del calcio e la sua mobilizzazione verso il plasma. Anche la vitamina D, per quanto ciò possa apparire strano, come sua azione diretta facilita la decalcificazione dell’osso. Tale effetto è comunque evidente soprattutto a dosaggi soprafisiologici. Tra i fattori che si oppongono al riassorbimento dell’osso è opportuno ricordare in primo luogo le sollecitazioni meccaniche: infatti un osso che resta a lungo immobile (per es., per un’ingessatura) tende a decalcificarsi. È infine rilevante l’azione di alcuni ormoni tra cui, in particolare, la calcitonina e gli ormoni sessuali. 3. Rene. Il suo ruolo è importante perché attraverso di esso avviene l’escrezione del calcio, che in un soggetto adulto sano con un’introduzione media di calcio, è tra i 100 ed i 400 mg al giorno. Il calcio ionizzato passa nel filtro glomerulare ed è in buona parte riassorbito nel tubulo prossimale. È necessario ricordare che la calciuria è direttamente proporzionale all’escrezione di altri elettroliti, tra cui, in particolare, il sodio. Anche a questo livello agiscono paratormone e calcitonina, ma mentre il primo favorisce il riassorbimento del calcio, la seconda ha un’azione opposta di tipo calciurico.
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B. Metabolismo del fosforo. Il fosforo è uno dei principali componenti dei tessuti e non solo dell’osso. È implicato in quasi tutti i processi metabolici ed energetici. Mentre l’assorbimento intestinale del calcio è incompleto e dipende dalla presenza della vitamina D, quello del fosforo è più efficiente; normalmente va dal 70 al 90%; non è quindi in questa sede che avviene il controllo della sua concentrazione plasmatica. Così pure a livello osseo: si avrà deposizione insieme al calcio ad opera dei fattori che favoriscono la calcificazione e riassorbimento ad opera dei fattori che determinano il rilascio del calcio. La sede più importante di regolazione della concentrazione plasmatica del fosforo è il rene. Il fosforo, filtrato attraverso il glomerulo, è riassorbito in gran parte a livello del tubulo prossimale. In condizioni normali tale riassorbimento è in stretto rapporto all’assunzione dietetica: quanto maggiore è questa, tanto minore è il riassorbimento e viceversa. Per essere riassorbiti nei tubuli renali prossimali, i fosfati debbono penetrare nelle cellule che li rivestono contro un gradiente elettrochimico e riescono a fare questo grazie all’azione di una molecola che funge da trasportatore e che è denominata NPT2a. Questa vincola i fosfati presenti nell’urina primitiva e li trasporta all’interno delle cellule con un processo che è quantitativamente tanto maggiore quanto più alta è la sua densità alla superficie cellulare. Tale densità è influenzata negativamente dal paratormone e da un fattore circolante nel sangue che è stato di recente scoperto e denominato FGF-23 (Fibroblast Growth Factor 23). Il loro effetto è, infatti, quello di veicolare dalla superficie all’interno delle cellule la molecola NPT2a e farla penetrare nei lisosomi dove viene distrutta: conseguentemente i fosfati sono assorbiti in minore quantità. In senso contrario agisce il basso apporto dietetico di fosfati: in questo caso la densità di NPT2a alla superficie delle cellule dei tubuli renali aumenta e i fosfati vengono assorbiti in misura maggiore. C. Paratormone (PTH). È un ormone polipeptidico formato da una singola catena di 84 aminoacidi. La sua secrezione avviene a livello delle ghiandole paratiroidi sotto forma di un precursore inattivo di peso molecolare maggiore. La sua attività biologica appare risiedere nella sequenza aminoterminale. Il suo metabolismo e la sua inattivazione avvengono presumibilmente a livello epatico e renale. Poiché i radio-immuno-assay attualmente disponibili non sono in grado di distinguere le forme attive da quelle inattive dell’ormone, la misura dei livelli di paratormone in circolo ci dà solo un’idea grossolana dell’attività secretoria delle paratiroidi. L’ormone, a livello cellulare, agisce mediante l’interazione con uno specifico recettore di membrana e conseguente attivazione di un’adenilciclasi, che forma come secondo messaggero adenosin-monofosfato ciclico (cAMP). Il cAMP attiverà le successive reazioni all’interno della cellula bersaglio. L’azione ultima fisiologica del PTH è il mantenimento della concentrazione del calcio extracellulare; infatti lo stimolo principale alla sua secrezione è proprio l’ipocal-
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cemia. Il PTH agisce in modo diretto a livello osseo e renale, favorendo la dissoluzione della componente minerale ossea, aumentando quindi il flusso di calcio dall’osso al sangue e riducendo la clearance renale del calcio, e in modo indiretto a livello enterico attraverso lo stimolo alla sintesi di 1,25(OH)2 vitamina D3. L’azione del paratormone a livello osseo è duplice: • riassorbimento di calcio e fosforo nel sangue, nell’arco di pochi minuti dalla sua secrezione; • rimodellamento dell’osso attraverso un aumento dell’attività e del numero degli osteoclasti, azione, questa, a comparsa più lenta ma più duratura nel tempo. È pure significativa l’azione a livello renale, sede in cui tende ad aumentare il riassorbimento del calcio ma a favorire l’escrezione del fosforo. Tale azione è importante perché, se le concentrazioni di calcio e fosforo aumentano in modo parallelo, si supera il prodotto di solubilità e si determina la deposizione di fosfato di calcio. D. Calcitonina. È anch’essa un ormone polipeptidico a catena singola composto da 32 aminoacidi. È secreta dalle cellule parafollicolari (cellule C) della tiroide come preormone e sembra agire a livello delle cellule bersaglio utilizzando, come secondo messaggero, il cAMP. Poco si sa sui meccanismi che regolano la sua produzione nell’uomo. Essa pare avere una potente azione ipocalcemizzante e ipofosfatemizzante e il suo ruolo fisiologico sembra, in un certo qual modo, quello di antagonizzare il paratormone: infatti a livello osseo riduce il riassorbimento osseo e a livello renale aumenta l’escrezione del calcio. Tali azioni sono state ben dimostrate nell’animale, mentre nell’uomo in condizioni normali il suo ruolo è ancora incerto. In effetti non si evidenziano alterazioni significative dei livelli di calcio o fosforo sia quando l’ormone è completamente assente (per es., in pazienti che hanno subito una tiroidectomia totale) o è assai elevato (per es., in pazienti affetti da carcinoma midollare della tiroide, tumore secernente calcitonina). Ulteriori studi sono necessari per meglio definire il suo ruolo fisiologico nell’uomo, anche se in condizioni morbose, quali il morbo di Paget, la calcitonina appare sicuramente efficace. E. Vitamina D. Più che una vitamina, oggi si considera un vero e proprio ormone. Infatti, quando si ha un’adeguata esposizione alla luce solare, non è necessario l’apporto dietetico. La sua sintesi e il metabolismo sono presentati nella figura 33.2. La sua struttura base è di derivazione steroidea. Il primo precursore è il 7-deidro-colesterolo (provitamina D3). Questo, una volta giunto nella cute e sottoposto all’azione dei raggi ultravioletti (290-320 nm), subisce una trasformazione fotochimica con la rottura di un anello (B) della base steroidea e la formazione della cosiddetta previtamina D3. Questa è un composto instabile e termolabile che nell’arco di 48 ore si trasforma in vitamina D3 vera e propria (colecalciferolo). La vitamina D3 è la forma più caratteristica di tale vitamina, in quanto è quella che l’uomo è in grado di metabolizzare autonomamente.
MALATTIE DELLE OSSA
7-deidro-colesterolo [provitamina D3] Cute Raggi UV Previtamina D3 (9, 10 secosterolo) Lumisterolo Tachisterolo Temperatura [Forme inattive] Vitamina D3 CH2 HO Fegato Vitamina D325-idrossilasi
25 OH vitamina D3
Rene
25 OHD3 1-idrossilasi
25 OH 26 -idrossilasi 25 OH 24-idrossilasi 25,26(OH)2D3 1-idrossilasi
1,25(OH)2D3
24-idrossilasi
24,25(OH)2D3 1-idrossilasi 1,24,25(OH)3D3
1,25,26(OH)3D3
Figura 33.2 - Biosintesi e metabolismo della vitamina D.
Esiste un’altra molecola strettamente legata che può svolgere le stesse funzioni della vitamina D3: si tratta dell’ergocalciferolo, vitamina D2. Tale sostanza è di origine vegetale e differisce dalla vitamina D3 solo per un doppio legame e un gruppo metilico nella catena laterale. Entrambe le vitamine hanno uguale metabolismo e utilizzazione biologica. La vitamina D1 ha invece soltanto un valore storico, in quanto fu la prima forma di vitamina D ad essere scoperta ed era presumibilmente una miscela della vitamina D2 e D3. Esistono sistemi di regolazione per prevenire l’eccessiva produzione di vitamina D3: il primo è dato dalla protezione offerta dalla melanina, che compete con il 7-deidro-colesterolo per i raggi UV, il secondo è la possibile formazione di composti inefficaci (lumisterolo 3, tachisterolo 3). Nell’individuo anziano la capacità della cute di produrre vitamina D è ridotta.
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Nel fegato la vitamina D3 subisce un’idrossilazione a 25OH vitamina D3 da parte di un enzima (vitamina D325-idrossilasi) contenuto a livello mitocondriale e microsomiale. La 25OHD3 è uno dei principali metaboliti circolanti della vitamina D3; la sua concentrazione plasmatica normale varia da 5 a 80 ng/ml. Non vi sono stretti meccanismi di controllo sulla formazione di questo metabolita, la cui concentrazione è proporzionale alla concentrazione della vitamina D3 in circolo. Tali livelli possono essere ridotti nelle gravi epatopatie. La 25OHD3 in vivo non appare attiva alle concentrazioni fisiologiche, ma per la sua attivazione è necessario il trasporto ad opera di una proteina vettrice specifica fino al rene, dove si avrà un’ulteriore idrossilazione a livello 1 o 24. La sede di idrossilazione più importante è in posizione 1 e avviene a livello del tubulo convoluto prossimale ad opera di una 25OHD3 1-idrossilasi mitocondriale, la cui azione è sottoposta al controllo del paratormone che ne stimola l’attività a seguito dell’ipocalcemia. Il composto così ottenuto, 1, 25(OH)2D3, è il principale metabolita attivo della vitamina D ed esercita esso stesso un feedback inibitorio sull’enzima 25OHD3 1idrossilasi, riducendone l’attività quando la sua concentrazione è elevata e favorendo la formazione di un composto meno attivo, la 24,25(OH)2D3. In condizioni particolari, altri ormoni favoriscono la formazione di 1,25(OH)2D3. Gli estrogeni, la prolattina e il GH agiscono in tal senso in condizioni di particolare necessità di calcio, quali la gravidanza, l’allattamento e la crescita. Al contrario, nel corso dell’insufficienza renale cronica la produzione di tale ormone appare deficitaria. Recentemente è stato descritto un terzo enzima presente a livello renale capace di idrossilare la vitamina D3 in posizione 26, dando origine alla formazione di altri metaboliti: 25,26(OH)2D3, 1,25,26(OH)3D3. Anche se tali composti a livello sperimentale sembrano avere qualche funzione sull’assorbimento del calcio e del fosforo intestinale, il loro significato fisiologico resta poco chiaro. L’ormone 1,25(OH)2D3 è sicuramente la forma più attiva tra i derivati della vitamina D. La sua concentrazione plasmatica varia tra i 25 e i 75 pg/ml. Viene veicolato mediante una proteina di trasporto dal rene all’intestino, dove favorisce l’assorbimento di calcio e fosforo interagendo con specifici recettori posti sulle cellule epiteliali intestinali. In condizioni fisiologiche non ha notevoli effetti a livello osseo, tranne forse un modesto sinergismo con il PTH; a dosi elevate ha invece una notevole capacità di mobilizzazione del calcio dall’osso. A livello renale il suo effetto non è noto. Appare possibile che le concentrazioni di 1,25(OH)2D3 e quelle di 24,25(OH)2D3, siano in equilibrio nell’organismo e che la produzione dell’una o dell’altra molecola vari a seconda della necessità di assorbimento di calcio. Quando il fabbisogno è aumentato, aumenta la produzione della prima; quando poi tale necessità decresce, si ha una riduzione della produzione di 1,25(OH)2D3 e un aumento della produzione di 24,25(OH)2D3, composto meno attivo del precedente.
Negli ultimi anni sono stati trovati recettori per l’1,25(OH)2D3 in numerosi tessuti e in cellule diverse da quelle classicamente interessate al metabolismo del calcio e del fosforo. Tra queste: cute, mammella, cellule del pancreas, linfociti B e T attivati, monociti. Non si sa ancora quale sia il ruolo fisiologico di tale ormone su queste cellule, ma può essere rilevante. Per esempio, esso induce i monociti a produrre interleuchina-1 e a trasformarsi in macrofagi, inibisce la produzione di interleuchina-2 da parte dei T linfociti, riduce il tasso di proliferazione di linee tumorali in coltura e ne favorisce la differenziazione.
OSTEOPOROSI Osteoporosi è un termine generico che significa aumentata porosità dell’osso. È caratterizzata dalla riduzione della massa ossea per unità di volume in presenza di un rapporto normale tra matrice organica e fase minerale. Sono diverse le patologie che possono causare tale alterazione. È la più comune malattia metabolica dell’osso. In studi condotti negli USA su ampie casistiche si è visto che ne erano affetti il 25% delle donne e il 18-20% degli uomini al di sopra dei 70 anni. L’80% dei pazienti sono portatori della forma senile o postmenopausale; il restante 20% è interessato da forme secondarie a diverse patologie (Tab. 33.1).
Tabella 33.1 - Classificazione dei diversi tipi di osteoporosi. • Forme ad eziologia ignota – Idiopatica (giovanile e adulta) – Postmenopausa – Senile • Associata a deficit nutrizionali – Malnutrizione – Deficit di calcio – Scorbuto – Sindromi da malassorbimento • Associata a malattie ereditarie – Osteogenesis imperfecta – Sindrome di Ehler-Danlos – Sindrome di Marfan – Omocistinuria – Sindrome di Menkes • Associata a malattie endocrine – Ipogonadismo – Tireotossicosi – Sindrome di Cushing – Diabete mellito – Acromegalia • Associata a patologie croniche – Artrite reumatoide e sindromi correlate – Tumori maligni – Epilessia – Alcolismo – Broncopneumopatie croniche ostruttive • Da cause iatrogene – Immobilizzazione
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Eziopatogenesi A. Forme idiopatiche. Gli studi su tale malattia sono resi difficili dal fatto che un certo grado di perdita ossea è presente in tutti gli individui nel corso dell’invecchiamento. È infatti noto che la massa ossea raggiunge il massimo tra i 20 e i 35 anni per poi decrescere progressivamente. Tale calo è significativo e si calcola che possa raggiungere il 50% a livello dei corpi vertebrali e il 25-30% a livello delle ossa lunghe in un’età compresa tra 60 e 70 anni. Quello della massa ossea globale è quindi un valore importante: infatti, nei soggetti con una massa adeguata i fenomeni osteoporotici saranno meno gravi che in quelli con una massa ossea scarsa. Si è così potuto evidenziare che la massa ossea raggiunge valori più elevati nei soggetti di razza nera rispetto a quelli di razza bianca o gialla, nei maschi rispetto alle femmine, mentre appare deficitaria negli individui ipogonadici o malnutriti. Alla luce di queste e di altre evidenze sperimentali sono state formulate diverse ipotesi sull’eziologia dell’osteoporosi. Alcuni studi danno importanza a un deficit di azione della calcitonina, in quanto i livelli circolanti di tale ormone sono più bassi nella donna che nell’uomo, la risposta agli stimoli secretivi decresce in entrambi i sessi con l’età e appare particolarmente deficitaria nei soggetti osteoporotici. Altri Autori ritengono più rilevante il ruolo degli estrogeni in quanto la terapia con tali ormoni tende ad inibire il riassorbimento osseo nella donna e riduce l’ipercalcemia dell’iperparatiroidismo. In effetti, in donne che sono entrate precocemente in menopausa a seguito di interventi chirurgici o radioterapia si ha precoce comparsa di osteoporosi, che può essere controllata con un trattamento sostitutivo a base di estrogeni a lungo termine. Tale terapia, specie se associata alla somministrazione di calcio, può ridurre l’incidenza di fratture vertebrali e del collo del femore. Nonostante i numerosi studi, non è mai stato dimostrato il preciso ruolo del paratormone e degli ormoni corticosteroidi, mentre non sono ancora stati valutati a fondo gli effetti delle prostaglandine e dei fattori di attivazione degli osteoclasti prodotti dai linfociti. Tra gli altri fattori che possono avere un ruolo concausale nella patogenesi dell’osteoporosi appare rilevante l’immobilizzazione. Una vita sedentaria e la mancanza di esercizio fisico possono quindi determinare una riduzione delle forze meccaniche sull’osso ed aumentare la progressione di tale forma. Infine, vale la pena di segnalare che una dieta eccessivamente acida (troppo ricca in proteine) potrebbe condurre a una demineralizzazione dell’osso nel tentativo di tamponare tale carico acido e che la terapia cronica con eparina può essere associata ad osteoporosi; e ciò ha fatto supporre che anche fisiologicamente l’eparina possa avere un ruolo nel controllo della mineralizzazione ossea. Tra le forme idiopatiche si distinguono due tipi principali. L’osteoporosi di tipo I colpisce caratteristicamente donne nella postmenopausa in un’età compresa tra 50 e 65 anni ed ha come elemento distintivo un’importante perdita di osso trabecolare, con un risparmio
relativo dell’osso corticale. I disturbi più comuni sono i crolli vertebrali e le fratture dell’avambraccio. È presente un quadro di ipoparatiroidismo, forse compensatorio dell’aumentato riassorbimento osseo. L’osteoporosi di tipo II colpisce una notevole percentuale di soggetti di età superiore a 75 anni di entrambi i sessi. Si ha perdita sia di osso trabecolare che corticale e sono quindi frequenti le fratture del collo del femore, dell’omero prossimale, della tibia e della pelvi. I livelli di paratormone sono, in genere, leggermente più elevati che di norma. B. Forme secondarie. Mentre in alcune di queste la eziopatogenesi non è chiara, in altri casi può essere compresa alla luce delle alterazioni determinate dalla malattia principale. L’eccesso di corticosteroidi, per esempio, sia di origine esogena che endogena induce osteoporosi, attraverso il duplice meccanismo di ridotta formazione e aumento del riassorbimento dell’osso. I glicocorticoidi hanno il loro massimo effetto sulle zone scheletriche con una maggiore proporzione di osso trasecolare piuttosto che di osso corticale. Essi agiscono con vari meccanismi che includono una diretta inibizione degli ormoni gonadici e la soppressione della produzione ipofisaria di gonadotropine, cui consegue una ridotta secrezione di androstenedione, che è un substrato per la sintesi sia del testosterone che dell’estrone. Inoltre, i glicocorticoidi inibiscono la differenziazione e la replicazione degli osteoblasti, la loro capacità di sintetizzare collageno e la durata della loro vita media. Per di più riducono l’assorbimento di calcio, inducendo un iperparatiroidismo secondario. Molto importanti sono, a questo proposito, i glicocorticoidi assunti a scopo terapeutico. È stato dimostrato che dosi di prednisolone (approssimativamente equivalente in attività al prednisone) di 2,5 mg al giorno sono sufficienti ad aumentare il rischio di fratture vertebrali. È stato anche dimostrato che donne che assumono glicocorticoidi inalati per la terapia dell’asma perdono più osso rispetto a quelle che non praticano questa terapia. I glicocorticoidi, infatti, potenziano l’azione del paratormone e dell’1,25(OH)2D3, a livello osseo deprimono la sintesi del collageno e, infine, riducono l’assorbimento intestinale del calcio con un meccanismo indipendente della vitamina D. L’insufficienza gonadica, quando è presente fin dall’infanzia, provoca un minore sviluppo dello scheletro e, conseguentemente, una minore massa ossea; le probabilità che con l’età si raggiunga un grado significativo di osteoporosi sono rilevanti; del ruolo degli estrogeni nell’osteoporosi postmenopausa si è già parlato. Anche i soggetti con neoplasia prostatica trattati con leuprolide, un farmaco che in somministrazioni prolungate inibisce la secrezione di gonadotropine e la steroidogenesi nell’ovaio e nel testicolo, hanno una rapida perdita di osso. L’osteoporosi che accompagna l’ipertiroidismo, l’acromegalia e il diabete mellito ha patogenesi poco chiara. Esistono, infine, alcune malattie ereditarie del connettivo che si accompagnano a tale forma morbosa. Tra
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relato ad un’emorragia retroperitoneale conseguente al collasso vertebrale. Nelle forme più avanzate si può notare una significativa riduzione di altezza del paziente. Ciò è particolarmente comune nei casi in cui si ha interessamento delle vertebre dorsali. Si determina così una caratteristica accentuazione della cifosi dorsale e, per compenso, della lordosi sacrale, che determina un’ulteriore riduzione della statura apparente.
queste, la sindrome di Marfan e l’omocistinuria. Anche gli eterozigoti per quest’ultima condizione, con livelli ematici di omocisteina moderatamente elevati e senza le gravi alterazioni organiche della forma conclamata della malattia (si veda Cap. 52), hanno, oltre a un’aumentata incidenza di malattie cardiovascolari, anche un incrementato rischio di fratture osteoporotiche.
Fisiopatologia
Esami di laboratorio
Il processo di rimaneggiamento dell’osso prosegue durante tutto il corso della vita. L’osteoporosi può quindi essere correlata ad una ridotta deposizione ossea o ad un aumentato riassorbimento. Studi di cinetica dell’osso mediante l’uso di isotopi radioattivi del calcio e dello stronzio indicano che nell’anziano il riassorbimento osseo è aumentato, mentre la deposizione sembra mantenersi costante. Ciò determina le caratteristiche alterazioni anatomopatologiche:
Sono di solito poco significativi: calcemia e fosforemia sono normali e così pure la fosfatasi alcalina, la quale, però, può elevarsi subito dopo una frattura per poi riportarsi rapidamente a valori normali. L’idrossiprolinuria è normale o lievemente aumentata.
Esami strumentali
• allargamento dei canali vascolari con ridotto numero e ampiezza di trabecole; • aumento del numero degli osteoni incompleti; • aumento del numero di lacune osteocitarie disabitate, cioè riempite di sali minerali; • aumento della superficie di riassorbimento.
A. Esami radiografici. La perdita di calcio deve essere superiore al 25% perché si abbiano modificazioni dell’aspetto osseo significative dal punto di vista radiologico. Sono molto importanti le alterazioni a livello dei corpi vertebrali, ove si può evidenziare soprattutto una rarefazione del tessuto spongioso dovuta al diradamento delle trabecole. Caratteristicamente, le vertebre mostrano una striatura verticale dovuta alla ristrutturazione dell’osso, con perdita di trabecole orizzontali e ispessimento di quelle verticali: ciò si verifica nel tentativo di resistere alla compressione (Fig. 33.3).
Quando tali lesioni superano un punto critico, l’osso può non resistere più alle sollecitazioni meccaniche e subire una frattura. A tal punto l’osteoporosi è un problema clinico manifesto.
Clinica Il soggetto caratteristicamente maggiormente colpito è una donna che ha passato da qualche anno la menopausa. Benché l’osteoporosi sia una malattia ossea sistemica, le sue manifestazioni cliniche sono più rilevanti a livello della colonna vertebrale e della pelvi. Talora sono colpiti il polso, l’anca, l’omero e la tibia secondo i quadri descritti precedentemente. Il sintomo di presentazione più frequente è un dolore alla schiena con irradiazione segmentaria nel territorio di distribuzione della radice nervosa interessata. Tale dolore è di solito causato dal collasso di un corpo vertebrale, soprattutto a livello dorsale basso o lombare. È caratteristicamente acuto e la sua comparsa può essere generalmente collegata anamnesticamente ad uno sforzo brusco o ad un trauma. È esacerbato dai movimenti e dalla manovra di Valsalva. In genere si riduce e cessa entro una o due settimane, talora persiste come un senso di oppressione meno ben localizzato ma comunque sempre riferito all’area precedentemente interessata. Obiettivamente si può rilevare una deformità della colonna, di solito in cifosi, una dolorabilità a livello dei processi spinosi o delle coste nel territorio colpito. Talora, durante un episodio acuto, si può evidenziare una distensione delle anse intestinali e, nei casi più gravi, un vero e proprio quadro di ileo, probabilmente cor-
A.
B. Figura 33.3 - (A) Vertebra toracica cuneizzata in caso di osteoporosi. (B) Corpi vertebrali a spina di pesce con avvallamento biconcavo. Si osserva un’estrema accentuazione dei margini vertebrali. (Da Bohndorf K., Imhof H., Pope T.L., Jr.: Diagnostica per immagini muscolo-scheletrica. Masson, Milano, 2003)
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Appaiono, invece, relativamente conservati i piatti vertebrali determinando un aspetto particolare detto “vertebra delimitata”. Conseguenti alla rarefazione sono i cedimenti e le fratture; dapprima le vertebre appaiono biconcave, talora con infossamento del nucleus polposus nel corpo vertebrale (nodulo di Schmorl), poi può comparire un vero e proprio collasso caratterizzato da deformazione a cuneo trapezoidale anteriore o appiattimento della vertebra. A livello delle ossa lunghe è presente un assottigliamento della corticale, dovuto ad un riassorbimento endostale, con facilità alle fratture. B. Altri esami. In alcuni casi, per una corretta diagnosi può essere necessaria la biopsia ossea, la quale permette una corretta valutazione anatomopatologica. Utili risultano la densitometria ossea e la tomografia computerizzata quantitativa.
Diagnosi differenziale Va posta nei confronti delle altre malattie metaboliche dell’osso e di alcuni tipi di neoplasie. L’osteomalacia può essere simile all’osteoporosi dal punto di vista clinico; è però caratterizzata da ipofosforemia, ridotti livelli di vitamina D e dei suoi metaboliti e aumento della fosfatasi alcalina. Nei casi di dubbio, la biopsia ossea è dirimente. L’iperparatiroidismo può accompagnarsi ad una osteopenia, evidenziata radiologicamente, non accompagnata dal reperto di un’osteite fibrosa. Tuttavia è generalmente presente ipercalcemia e, spesso, ipofosfatemia. Infine si devono considerare le neoplasie a localizzazione ossea, soprattutto il mieloma multiplo, le leucemie e i linfomi nonché le metastasi da carcinoma. Mentre in molti casi la diagnosi di mieloma è facilitata dai reperti sierologici (ipersedimetria, anemia, alterazioni dell’elettroforesi, proteinuria di Bence-Jones), talora può essere necessaria la biopsia ossea. Tale esame può dirimere i dubbi in presenza di sospette neoplasie di altro tipo.
Decorso e prognosi Una diagnosi precisa è di fondamentale importanza: infatti esistono forme di osteoporosi secondarie per le quali il riconoscimento e il trattamento delle malattie di fondo può comportare un progressivo miglioramento della situazione ossea fino alla guarigione; ciò è vero soprattutto per le forme secondarie a malattie endocrine: sindrome di Cushing, insufficienza gonadica, tireotossicosi, acromegalia e diabete. Per quanto riguarda l’osteoporosi nelle sue forme più comuni (senile, postmenopausa e idiopatica), è bene ricordare che vi sono casi in cui l’osteoporosi decorre in modo del tutto asintomatico per molto tempo o anche per sempre, altri casi in cui il paziente subisce uno o due collassi vertebrali, non seguiti da ulteriori problemi
per molti anni, e infine casi in cui si hanno invece disturbi rilevanti dovuti a collassi vertebrali multipli, fratture ripetute, calo di statura e importante sintomatologia dolorosa.
Terapia Si è già detto che le forme secondarie di osteoporosi rispondono al controllo della malattia di base. In tutti gli altri casi la prevenzione è di fondamentale importanza: il rischio di osteoporosi può essere ridotto aumentando il valore massimo della massa ossea in età giovanile o riducendo le perdite ossee successive. Per questo motivo si dovrebbe incoraggiare l’esercizio fisico, che è in grado di migliorare il tenore calcico osseo. È importante evitare le abitudini che facilitano l’osteoporosi come il fumo e l’abuso di alcolici, oltre a fare molta attenzione nell’uso di farmaci che inducono perdite di calcio. Si dovrebbe mantenere un adeguato apporto di calcio: la dose attualmente raccomandata è di 1200-1500 mg al giorno negli adolescenti e 800 mg negli adulti. Alcuni Autori ritengono che nelle donne postmenopausa la dose dovrebbe essere elevata a 1500 mg. Negli anziani e nei soggetti con malassorbimento del calcio può essere utile associare la vitamina D (800 U al dì). La terapia delle forme acute comprende il riposo a letto, evitando però un’immobilizzazione prolungata. È utile tenere al caldo la zona interessata nonché l’uso di analgesici a dosi adeguate. Nella fase di rieducazione possono essere vantaggiosi la fisioterapia e l’uso di un corsetto rigido. Più rilevante, ma ancora non del tutto standardizzata, è la terapia di fondo dell’osteoporosi primitiva, la quale si basa sull’uso di farmaci di diverse famiglie. Farmaci che inibiscono il riassorbimento dell’osso A. Estrogeni. Agiscono direttamente sull’osso attraverso recettori ad alta affinità. Se la terapia è iniziata poco dopo la menopausa, è in grado di ridurre in modo significativo la perdita ossea accelerata che si verifica in tale fase della vita delle donne: si stima che possa ridurre del 50% l’incidenza di fratture correlate all’osteoporosi. Se la terapia con estrogeni è iniziata quando vi è già osteoporosi, è ancora efficace seppure in minor misura. Anche il raloxifene, modulatore selettivo dei recettori degli estrogeni, si è dimostrato utile nel trattamento dell’osteoporosi. B. Calcitonina. Ha proprietà analgesiche e pochi effetti collaterali. È in grado di incrementare la massa ossea vertebrale in donne con osteoporosi postmenopausa, soprattutto quando è presente un turn-over osseo elevato; tuttavia sembra meno efficace degli estrogeni nel ridurre la perdita di osso corticale. La calcitonina di salmone è più efficace di quella umana, tuttavia il suo uso può determinare la comparsa di anticorpi neutralizzanti: per ovviare a tale inconveniente è meglio sommi-
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nistrarla a dosi basse e intervallate, preferibilmente per via nasale. C. Difosfonati. Sono analoghi del pirofosfato con una potente azione inibente sul riassorbimento osseo. I difosfonati sono impiegati anche per il trattamento delle metastasi ossee, ma per la terapia dell’osteoporosi sono per lo più assunti per os. Sfortunatamente, per os questi farmaci hanno una bassa biodisponibilità e possono provocare infiammazione esofagea e, raramente, ulcerazione in questa sede. Perciò i difosfonati raccomandati per os, come l’alendronato, devono essere assunti a stomaco vuoto, con il paziente in posizione eretta, che subito dopo beve un bicchiere d’acqua e che resta in questa posizione o seduto senza mangiare niente per almeno trenta minuti. La compliance è molto migliore se una dose più alta di alendronato, rispetto a quella quotidiana, viene assunta una volta alla settimana. Abbastanza pratica è anche la somministrazione intramuscolare di clodronato ogni 7-14 giorni. Recentemente si è visto che in donne postmenopausa con bassa densità minerale ossea, un anno dopo la somministrazione per via endovenosa di 4 mg di acido zoledronico, un difosfonato molto potente che viene raccomandato nel trattamento delle ipercalcemie neoplastiche, i marcatori dell’aumentato ricambio osseo rimanevano ancora soppressi. Per quanto questo farmaco debba essere somministrato per via endovenosa, la lunga durata del suo effetto potrebbe raccomandarlo nel trattamento dell’osteoporosi. D. Altri farmaci inibenti il riassorbimento. Gli steroidi anabolizzanti sono in grado di mantenere o incrementare la massa ossea nelle donne, tuttavia per i loro effetti collaterali (alterazioni epatiche, alterazione dei livelli delle lipoproteine, androgenismo) hanno poco spazio nel trattamento dell’osteoporosi femminile. Il calcitriolo agisce incrementando il riassorbimento del calcio ma può anche stimolare la funzione degli osteoblasti. Infine, i diuretici tiazidici possono ritardare le perdite ossee e ridurre il numero di fratture. Farmaci che stimolano la formazione ossea Fluoruri. Stimolano la formazione e aumentano la densità dell’osso nelle donne in postmenopausa. È necessario somministrare contemporaneamente calcio per evitare difetti di mineralizzazione. Tuttavia, l’osso che si forma non ha una struttura del tutto normale e la sua fragilità può essere aumentata, per cui alcuni Autori mettono in dubbio l’utilità di tale terapia. Altri farmaci Paratormone. Anche se ad alte concentrazioni plasmatiche stimola il riassorbimento osseo, tale ormone può invece favorire la formazione dell’osso se somministrato in modo intermittente a basse dosi. Tale stimolazione appare mediata da un’aumentata produzione di “insulin-like growth factor I” da parte delle cellule ossee. Quindi sono in corso studi sul suo uso pratico.
OSTEOGENESI IMPERFECTA L’osteogenesi imperfecta è una malattia geneticamente determinata che comporta un’aumentata fragilità ossea, una diminuzione della massa scheletrica e altre alterazioni a carico del tessuto connettivo. È comunemente classificata in quattro varianti che dalla più lieve (assenza di importanti deformità ossee) alla più grave (letale nel periodo perinatale per insufficienza respiratoria da multiple fratture costali) vanno nel seguente ordine: tipo I < tipo IV < tipo III < tipo II. A queste sono state aggiunte recentemente altre tre varianti che, a differenza delle prime, dipendono da mutazioni genetiche non ancora identificate e presentano un quadro di gravità clinica intermedio. Patogenesi. L’osteogenesi imperfecta dipende da un’alterazione della sintesi del collageno di tipo 1. Questo è costituito da tre catene peptidiche che formano una struttura a tripla elica. Due di queste sono uguali e denominate -1, e sono codificate dal gene COL1A1, e la terza è denominata -2 ed è codificata dal gene COL1A2. Perché queste catene peptidiche possano intrecciarsi regolarmente occorre che abbiano un residuo di glicina ogni terza posizione. L’osteogenesi imperfecta dipende da mutazioni dei geni COL1A1 o COL1A2. Nel caso del tipo 1 la mutazione consiste in un’espressione prematura del codone di stop di COL1A1. I prodotti della trascrizione di un gene con una tale mutazione sono instabili e vengono distrutti. Conseguentemente, solo delle catene peptidiche -1 normali vengono prodotte dai fibroblasti, ma in quantità minore che di norma. Nel caso degli altri tre tipi classici, le mutazioni comportano la sostituzione di glicina nelle catene peptidiche -1 o -2, con effetti differenti a seconda dell’aminoacido che la sostituisce. Perciò, in tutti questi tipi dell’osteogenesi imperfecta, si ha un’alterazione nella formazione dell’osso, che appare assottigliato nella sua componente corticale e rarefatto in quella trabecolare, ed è più facilmente suscettibile di andare incontro a fratture anche per traumi modesti. Solo nei casi con i difetti più gravi si hanno deformazioni ossee, difetti dell’accrescimento corporeo e alterazioni di altre strutture anatomiche nella cui costituzione entra il collageno di tipo 1. Clinica. Nei casi più lievi possono anche mancare le fratture scheletriche e i pazienti vengono classificati come affetti da un’osteoporosi precoce. I soggetti con osteogenesi imperfecta di tipo I sono solitamente di aspetto normale, o di statura lievemente inferiore alla media e, oltre alla facilità di fratture per traumi modesti, non hanno altre alterazioni somatiche all’infuori di un segno che è caratteristico di questa malattia, cioè le sclere blu. Nei casi più gravi i pazienti hanno statura molto bassa, scoliosi, sclere grigiastre, dentinogenesi imperfecta, iperlassità dei legamenti e difetti dell’udito. Questi ultimi difetti spesso non sono evidenti nei primi decenni di vita, ma si accentuano in età più matura. Nei pazienti con osteogenesi imperfecta di tipo II si posso-
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no avere fratture nella vita intrauterina e, come si è detto, mortalità perinatale. Diagnosi. Tradizionalmente, per la diagnosi è stata attribuita molta importanza a due segni, che sono le sclere blu e la dentinogenesi imperfecta. Tuttavia, sclere scure o bluastre possono essere osservate anche in bambini normali, mentre la dentinogenesi imperfecta si osserva soprattutto nei denti da latte piuttosto che nella dentizione permanente dei pazienti con osteogenesi imperfecta. In complesso, la diagnosi di questa malattia può essere difficile quando non vengono segnalati familiari con lo stesso disordine e la fragilità ossea non è associata con evidenti anomalie extrascheletriche. In questi casi l’analisi dei geni del collageno di tipo 1 dà informazioni importanti. Un metodo impiegato è quello di valutare la quantità e la struttura delle molecole di procollageno derivate dai fibroblasti della cute del paziente coltivati in vitro. Alternativamente, il DNA geomico può essere estratto dai leucociti del paziente e si possono cercare direttamente le mutazioni a carico dei geni COL1A1 e COL1A2. Terapia. I pilastri della terapia dell’osteogenesi imperfecta sono la fisioterapia, la riabilitazione e la chirurgia ortopedica. Fino al 1987 non era stata dimostrata alcuna terapia medica efficace per questa condizione. Da allora, tuttavia, le prospettive sono migliorate perché si è dimostrata una certa efficacia clinica (prevenzione delle fratture) e radiologica del trattamento con difosfonati. Per lo più gli studi di questo tipo sono stati effettuati con pamidronato endovena, ma ne esiste almeno uno con alendronato per os.
OSTEOMALACIA E RACHITISMO Questo gruppo di malattie comporta un indebolimento diffuso e alterazioni strutturali dell’osso, causati da un’inadeguata mineralizzazione della matrice osteoide. La condizione patologica che ne consegue si chiama rachitismo se si verifica nel bambino, osteomalacia nell’adulto. Nel rachitismo si ha un difetto di mineralizzazione non soltanto a livello osseo, ma anche a livello della matrice cartilaginea epifisaria; ciò determina le caratteristiche deformazioni presenti in questa malattia.
Eziopatogenesi Le cause che possono determinare rachitismo e osteomalacia sono molto numerose. Infatti, perché si abbia l’ossificazione non è sufficiente l’attività degli osteoblasti, ma è necessaria un’adeguata quantità di calcio e fosforo nel sito di mineralizzazione: la riduzione di uno o dell’altro può rendere inoperanti i meccanismi di deposizione. Quindi, tutti i fattori che determinano uno squilibrio in tal senso possono causare tale malattia (la classificazione dei diversi tipi di rachitismo e osteomalacia è riportata nella Tab. 33.2).
Tabella 33.2 - Classificazione dei rachitismi e delle osteomalacie. Carenza di vitamina D – Deficit dietetico: • assunzione insufficiente • malassorbimento – Deficit di sintesi endogena (ridotta esposizione ai raggi UV) Alterato metabolismo della vitamina D – Difetto dell’idrossilazione epatica: • gravi epatopatie • uso di anticonvulsivanti – Difetto dell’idrossilazione renale: • ereditario (sindromi da vitamina D dipendenzatipo I) • acquisito (insufficienza renale cronica) – Difetto dei recettori per la 1,25(OH)2D3 (sindrome da vitamina D dipendenza-tipo II) Acidosi metabolica cronica – Insufficienza renale cronica – Assunzione cronica di farmaci: acetazolamide, cloruro di ammonio – Acidosi tubulare distale Alterazioni del metabolismo del fosforo – Deficit dietetico + assunzione di antiacidi non assorbibili – Difetto del riassorbimento tubulare: • isolato • sindrome di Fanconi Altre cause
A. Rachitismi e osteomalacie correlati a deficit o alterazioni del metabolismo della vitamina D. Il tipo più classico di rachitismo è causato dal deficit di vitamina D. Storicamente, tale patologia è stata descritta in bambini di basse condizioni economiche residenti in città industriali nordiche. Tali bambini avevano un ridotto apporto alimentare di vitamina D già sintetizzata, nonché un’inadeguata esposizione alla luce del sole (correlata alle abitudini di vita e all’inquinamento atmosferico) per cui anche la sintesi endogena era difettosa. Oggi, in Italia, tale causa di rachitismo è rara, ma si può riscontrare più facilmente nei paesi del Terzo mondo. Talora è possibile che si sviluppi osteomalacia in persone anziane che non si espongono mai alla luce del sole e la cui alimentazione è carente in vitamina D. Osteomalacia può anche comparire per il ridotto apporto alimentare di vitamina D in soggetti affetti da sindromi da malassorbimento di diverso tipo, quali il morbo celiaco dell’adulto e il morbo di Crohn e in tutte le patologie in cui sia presente steatorrea, come le ostruzioni croniche delle vie biliari o nell’insufficienza pancreatica cronica. Il deficit di vitamina D può dipendere però, oltre che dalla riduzione dell’apporto alimentare o della sintesi endogena, anche da un’alterazione nella successiva conversione metabolica, cioè nell’idrossilazione che si verifica in posizione 25 e in posizione 1. La prima di queste avviene a livello epatico e alterazioni di tale tappa sono molto rare anche in corso di
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epatopatie gravi: è possibile, però, un’interferenza metabolica a questo livello in soggetti che assumono farmaci anticonvulsivanti, come il fenobarbital e la difenilidantoina. La seconda idrossilazione avviene a livello del rene ed è piuttosto comune un deficit di questa tappa in corso di insufficienza renale avanzata. Esistono, infine, due rare sindromi ereditarie dette “rachitismi vitamina D dipendenti di tipo I e II”. Nel primo tipo i pazienti presentano in circolo una quantità normale di vitamina D, ma un livello sierico ridotto di 1,25(OH)2D3 che appare dovuto a un deficit congenito isolato della tappa ossidativa renale della vitamina D. Nel secondo tipo è presente un deficit quantitativo o funzionale dei recettori tissutali per 1,25(OH)2D3, i cui livelli sierici sono aumentati in un tentativo di correzione del deficit. Tali forme si dicono vitamina D dipendenti in quanto possono essere corrette con alte dosi di vitamina D o meglio dei suoi metaboliti attivi. È importante a questo punto capire quale può essere la patogenesi del difetto di mineralizzazione ossea da deficit di vitamina D. Un’insufficiente quantità o funzione della vitamina D determina una riduzione dell’assorbimento intestinale del calcio e una ridotta mobilizzazione del calcio dall’osso con conseguente ipocalcemia. L’ipocalcemia, a sua volta, stimola la secrezione di paratormone che tende ad aumentare la calcemia ma, contemporaneamente, determina una maggiore escrezione renale di fosforo con conseguente ipofosforemia. Se la fosforemia si abbassa oltre un certo livello, non è più possibile una normale mineralizzazione. Nelle forme più gravi è anche presente ipocalcemia ad aggravare il quadro. Va ricordato che il deficit di vitamina D provoca anche effetti patologici extraossei quali l’ipocalcemia e le convulsioni, che possono verificarsi in bambini di età inferiore ai 6 mesi nati da madri affette da osteomalacia subclinica, perciò non trattata. Nei bambini e negli adolescenti carenti di vitamina D e con una grave ipocalcemia può anche osservarsi una miopatia prossimale e addirittura uno scompenso cardiaco che simula una cardiomiopatia. Così pure il deficit di vitamina D può indurre una mielofibrosi con pancitopenia reversibile con il trattamento correttivo. B. Acidosi metabolica cronica. Tale condizione è in grado di determinare un difetto della mineralizzazione ossea in modo del tutto indipendente dall’azione della vitamina D. Infatti nell’acidosi si ha un eccesso di ioni H+ in circolo. Per tamponare l’azione si mettono in moto dei meccanismi di compenso; tra questi è caratteristico lo scambio di ioni H+ con altri cationi: per esempio ioni K+ intracellulari, ma soprattutto calcio-ioni ossei. Se i calcio-ioni vengono sottratti con questo meccanismo, l’osso non avrà più un prodotto calcio-fosforo ottimale e si manifesterà una progressiva decalcificazione. Tale meccanismo è uno di quelli che opera nell’insufficienza renale cronica, ma si può evidenziare
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anche in soggetti in terapia cronica con acetazolamide e ammonio cloruro. C. Alterazioni del metabolismo del fosforo. La deplezione di fosfati può provocare rachitismo e osteomalacia per alterazione del rapporto calcio-fosforo in senso negativo. Ciò si può verificare in soggetti che assumono una dieta povera di fosfati e, contemporaneamente, fanno uso di notevoli quantità di antiacidi non assorbibili. Esistono, tuttavia, tre condizioni patologiche caratterizzate da ipofosfatemia e da rachitismo od osteomalacia resistenti al trattamento con vitamina D. Tutte queste condizioni sono dipendenti dall’eccesso di attività di un fattore circolante denominato FGF23 (Fibroblast Growth Factor 23) e che, come si è già spiegato a proposito del metabolismo dei fosfati, riduce l’assorbimento di fosfati nei tubuli renali. La prima di queste condizioni, detta rachitismo ipofosfatemico autosomico dominante, dipende da una mutazione che rende l’FGF23 resistente alla scissione della sua molecola a opera di un enzima ancorato alla membrana cellulare, prevalentemente su quella degli osteoblasti, e denominato PHEX (il gene corrispondente, PHEX, presente sul cromosoma X, è così chiamato a significare: Phosphate-regulating gene with Homologies to Endopeptidase on X chromosome). Conseguentemente, l’FGF23 circolante aumenta, i fosfati sono riassorbiti in misura minore nei tubuli renali, si determina ipofosfatemia e si verificano alterazioni ossee di tipo rachitico. La seconda di queste forme morbose è più comune della precedente ed è detta rachitismo ipofosfatemico legato al cromosoma X; essa è dipendente da una mutazione che colpisce direttamente il gene PHEX. Questa malattia tende a rendersi evidente nel secondo decennio di vita. Infine, esiste l’osteomalacia oncogenica, provocata da tumori che secernono FGF23. In questo caso si parla di osteomalacia piuttosto che di rachitismo, dato che la forma è solitamente acquisita nell’età adulta. I tumori che la provocano sono per lo più benigni e di origine connettivale. Si tratta spesso di tumori di parti molli, molto vascolarizzati, con abbondanti cellule fusiformi e giganti, frequentemente classificati come emangiopericitomi. È frequente che questi tumori siano piccoli e che l’osteomalacia sia diagnosticata prima che il tumore venga rilevato. Talora è complicato anche reperire il tumore e in questi casi può essere difficile la diagnosi differenziale con le forme geneticamente determinate che, sia pure eccezionalmente, possono avere un’insorgenza tardiva. D. Altre cause. Esistono infine forme più rare, quali l’ipofosfatasia ereditaria (deficit di fosfatasi alcalina), il trattamento con dosi eccessive di fluoruri o etidronato di sodio, l’alimentazione parenterale totale per lungo tempo, l’intossicazione da alluminio in soggetti dializzati, ecc.
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Fisiopatologia La fisiopatologia dell’osteomalacia e del rachitismo è grossolanamente simile, anche se i fenomeni sono più marcati e più evidenti nel rachitismo, in cui è inoltre caratteristicamente presente un interessamento della matrice cartilaginea epifisaria. Peculiare di tali malattie è la continua produzione, da parte degli osteoblasti, di matrice organica ossea che non viene adeguatamente mineralizzata: si forma un tessuto cosiddetto “osteoide” non calcificato. Tale tessuto è più leggero e deformabile di quello normale. Mentre nell’osteomalacia tale fenomeno si verifica in un osso già formato, nel rachitismo ciò avviene anche a livello della cartilagine epifisaria di accrescimento che appare ingrossata, disorganizzata, con profonde irregolarità strutturali. Tra la cartilagine epifisaria e l’osso metafisario si può evidenziare una zona intermedia, costituita da bottoni vascolo-connettivali fra cui sono interposte estroflessioni cartilaginee. Tali fenomeni determinano la possibile comparsa di deformazioni scheletriche come tumefazioni nelle sedi delle cartilagini di accrescimento ipertrofiche, curvature patologiche a livello delle diafisi delle ossa lunghe, dovute alle influenze meccaniche sull’osso non più sufficientemente rigido, difetti di sviluppo (ritardo staturale e della dentizione). Le forme più gravi di rachitismo e di osteomalacia possono determinare l’insorgenza di fratture spontanee. Infine, l’ipocalcemia, quando è presente, può determinare ipotonia e debolezza muscolare, fino a provocare, se molto accentuata, tetania.
Clinica A. Rachitismo. I disturbi si possono dividere in due gruppi: quelli dovuti alle alterazioni scheletriche e quelli dovuti all’ipocalcemia. Nei bambini più piccoli (fino a 4 mesi) le alterazioni sono soprattutto a livello del cranio, che può presentare caratteristiche zone di rammollimento (craniotabe) e ritardo nella chiusura delle fontanelle. In età più avanzata (16-18 mesi) le lesioni colpiscono soprattutto gli arti inferiori in correlazione con l’inizio della deambulazione: si avrà una curvatura del femore e della tibia, talora anche dell’avambraccio e della pelvi. Comune l’interessamento delle articolazioni condrocostali (rosario rachitico) e le alterazioni diafiso-epifisarie degli arti (più evidenti a livello di polsi e caviglie). Sono pure comuni le fratture e i ritardi di dentizione: la carie è assai frequente per le alterazioni dello smalto. Sono generalmente presenti ipotonia e irritabilità muscolare; nei casi più gravi l’ipocalcemia può determinare tetania, fino a quadri di laringospasmo e convulsioni. B. Osteomalacia. Si instaura, in genere, su uno scheletro già maturo e quindi il decorso può essere as-
sai subdolo. Usualmente i pazienti lamentano dolori ossei spontanei diffusi e dolorabilità alla palpazione. Le zone più comunemente interessate sono il rachide lombosacrale e la pelvi. È pure comune una debolezza muscolare, soprattutto a livello dei cingoli. Il paziente può avere difficoltà di movimento, più evidenti quando si deve alzare dalla posizione supina o seduta, ed è talora difficile distinguere se tale difficoltà è dovuta ai dolori ossei o all’ipostenia muscolare. Sono facili le fratture spontanee e il collasso di corpi vertebrali. Rara la tetania. È importante ricordare che talora l’osteomalacia può essere solo uno degli aspetti della patologia principale che l’ha determinata, come ad esempio l’insufficienza renale cronica o la malattia celiaca dell’adulto.
Esami di laboratorio Gli esami più importanti da prendere in considerazione sono la calcemia, la fosforemia e la concentrazione dei diversi metaboliti della vitamina D. Tali valori possono essere però alterati in modo dissimile a seconda delle diverse forme di rachitismo o di osteomalacia e della loro gravità. 1. Nei deficit di vitamina D la calcemia è normale o bassa, la fosforemia e la 25OHD3 sono caratteristicamente bassi. In alcuni casi però la 1,25(OH)2D3 non è ridotta. La fosfatasi alcalina è di solito elevata. Generalmente la calciura è bassa, mentre la fosfaturia è normale. Talora si riscontrano aminoaciduria e lieve acidosi, correlabili all’iperparatiroidismo secondario. 2. Nell’insufficienza renale cronica si ha iperfosfatemia, lieve ipocalcemia con una concentrazione normale di 25OHD3 mentre è caratteristicamente bassa quella di 1,25(OH)2D3. 3. Nei pazienti con tubulopatie renali si ha generalmente una calcemia normale con ipofosforemia; nella sindrome di Fanconi si evidenziano anche altri reperti, quali glicosuria, aminoaciduria, acidosi, ipouricemia.
Esami strumentali A. Esami radiologici. Sono molto importanti e talora un reperto radiologico alterato precede la comparsa di manifestazioni cliniche. Nel rachitismo le alterazioni sono più evidenti a livello delle cartilagini di accrescimento epifisario. La superficie limitante dell’osso diafisario perde il suo aspetto preciso e netto e tende ad allargarsi, presentandosi irregolare e bombata: viene perciò detta “a coppa”. L’opacità dell’osso è ridotta, di solito, in modo abbastanza omogeneo; la comparsa dei nuclei di ossificazione è ritardata. Tali alterazioni sono ben evidenti alle estremità distali di radio e ulna. Nei casi più gravi si evidenziano le caratteristiche deformazioni delle ossa lunghe, che appaiono incurvate secondo le linee di forza.
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Nell’osteomalacia si ha una demineralizzazione diffusa soprattutto a livello di rachide, pelvi ed estremità inferiori. Tale reperto è associato a una riduzione delle trabecole e all’assottigliamento della corticale. Un aspetto patognomonico è la presenza di fessure di decalcificazione simmetriche, di lunghezza variabile da pochi millimetri ad alcuni centimetri, perpendicolari alla superficie ossea. Vengono dette pseudofratture o zone di Looser-Milkman e si manifestano, di solito, dove un’arteria penetra nell’osso; si ritiene perciò che possano essere causate dal trauma meccanico delle pulsazioni arteriose su un osso di minore resistenza. Le loro sedi più frequenti sono: bacino, III prossimale dei femori, coste, scapole, clavicole. Infine, seppure più raramente che nel rachitismo, si possono manifestare curvature delle ossa lunghe. Sono invece frequenti i crolli vertebrali e le fratture patologiche. Nei pazienti con alterazioni tubulari renali ed insufficienza renale cronica si può osservare un aumento piuttosto che una riduzione della densità ossea con ispessimento trabecolare e corticale. L’osso è comunque ricco di tessuto osteoide, abnorme dal punto di vista strutturale e facilmente soggetto a fratture. B. Altri esami. In alcuni casi è utile per la diagnosi la biopsia ossea, che può rilevare la presenza di tessuto osteoide incompletamente mineralizzato. I gradi più lievi di osteomalacia possono essere evidenziati con la colorazione di sezioni sottili non decalcificate utilizzando il metodo tricromico di Goldner.
Diagnosi La diagnosi del rachitismo è in genere facile; è però importante stabilire con precisione la sua causa: deficit di vitamina D, alterazioni del suo metabolismo, tubulopatie renali, ecc. Più difficoltà richiede talora la diagnosi di osteomalacia, che deve essere riconosciuta tra le altre osteopatie endocrine o metaboliche. Nell’iperparatiroidismo primitivo la calcemia è elevata anziché ridotta; nell’insufficienza renale con iperazotemia si ha un’elevata fosforemia con ipocalcemia. In contrapposizione con i reperti dell’osteomalacia, nell’osteoporosi calcemia, fosforemia e fosfatasi alcalina sono normali mentre il quadro radiografico può essere simile. Nel morbo di Paget calcemia e fosforemia sono normali, mentre il quadro radiografico in rari casi può essere dubbio.
Assai impegnativi sono gli episodi acuti di ipocalcemia che possono determinare crisi tetaniche, nel corso delle quali lo spasmo laringeo e le possibili convulsioni arrivano a mettere in pericolo la vita del paziente. L’osteomalacia decorre, in genere, in modo meno grave, ciò non di meno si può arrivare ad importanti limitazioni funzionali dovute alle fratture patologiche, ai crolli vertebrali e all’ipotonia muscolare.
Terapia È diversa a seconda delle cause della forma morbosa. La vitamina D per os (è indifferente che sia D2 o D3) corregge i deficit alimentari a un dosaggio tra le 2.000 e le 4.000 UI al dì. Può essere comodo somministrare 50.000-100.000 UI ogni 7 giorni sempre per os. Nei bambini con tetania si può iniziare con dosi maggiori (300.000-600.000 UI ogni 7-10 giorni) accompagnate da supplementi di calcio. È necessario monitorare il quadro radiologico, la calcemia, la fosforemia e, se possibile, i valori di vitamina D in circolo per evitare il rischio di sovradosaggio di vitamina D, che determina ipercalcemia e ipercalciuria e si manifesta con una sindrome caratterizzata da disturbi gastroenterici, dimagramento, febbricola, irritabilità, astenia, cute secca e desquamante, calcificazioni renali e vascolari. Nei pazienti in cui l’ipovitaminosi D sia correlata con una sindrome da malassorbimento, le dosi usuali di vitamina D non sono sufficienti ed è necessaria la somministrazione di alte dosi (50.000-100.000 UI al dì per os), associate a dosi elevate di calcio. In alcuni casi si rende necessaria la somministrazione parenterale (10.000 UI al dì im) o l’uso di metaboliti idrossilati. Nei casi in cui esista un deficit di idrossilazione a livello epatico (epatopatie croniche, trattamenti anticonvulsivanti), si può somministrare vitamina D (4.00040.000 UI al dì) o il suo metabolita 25OHD3. Nell’insufficienza renale cronica si usavano, fino ad alcuni anni fa, alte dosi di vitamina D (da 50.000 a 1.000.000 di UI al dì per os), ma attualmente, poiché è stato reso disponibile l’1,25(OH)2D3 (calcitriolo), si preferisce la sua somministrazione alla dose di 0,25-1,0 µg al dì per os. Più complesso e controverso è il trattamento in presenza di tubulopatie ereditarie: in genere si somministra vitamina D ad alte dosi (da 50.000 a 500.000 UI al dì per os) o il suo analogo calcifediolo (0,25-2,0 µg al dì). Poiché tale trattamento non corregge per niente l’ipofosfatemia, è consigliabile un supplemento di fosforo (1,0-3,6 g al dì per os).
Decorso e prognosi L’evoluzione del rachitismo può essere più o meno impegnativa a seconda dell’entità del deficit di mineralizzazione e dell’età di insorgenza. Decorso particolarmente grave hanno le forme accompagnate da deficit nutrizionale totale: quadri generalmente riscontrabili in paesi del Terzo mondo.
MALATTIA DI PAGET È una malattia cronica, diffusa o localizzata, dello scheletro adulto, caratterizzata da eccessivo riassorbimento osseo, a cui fa seguito una reazione riparativa fibrosa o ossea disordinata e riccamente vascolarizzata.
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Si manifesta clinicamente con dolori e alterazioni della struttura ossea. Tra le possibili complicanze, è importante lo scompenso cardiaco ad alta gittata. Poiché la malattia è spesso asintomatica, è difficile calcolare con precisione la sua incidenza. Studi radiografici mostrano una prevalenza circa del 3% al di sopra dei 40 anni per arrivare al 10% sopra gli 80 anni. È comune una familiarità positiva. Gli uomini ne sono affetti più spesso delle donne. La malattia è relativamente frequente in Europa, Australia e Nuova Zelanda ed è rara in Africa, Giappone, America Meridionale, India, Medio Oriente, Scandinavia.
Eziologia È sconosciuta. Nel corso del tempo sono state prese in considerazione diverse possibili cause: tra queste hanno avuto particolare rilievo, in passato, un’ipotesi endocrina e una vascolare. Tuttavia una vera e propria conferma sperimentale è sempre mancata. Oggi l’eziologia più accreditata, anche se non del tutto sicura, è quella virale. Esistono dati indiretti a favore di tale ipotesi. Tra questi il riscontro di inclusi intranucleari negli osteoclasti di soggetti affetti da malattia di Paget. Le caratteristiche di tali inclusi sarebbero simili a quelle dei nucleocapsidi di virus della famiglia del morbillo. Secondo altri Autori invece il virus respiratorio sinciziale sarebbe l’agente più facilmente implicato nell’eziologia della malattia di Paget. Ulteriori studi sono necessari per convalidare o meno tali ipotesi.
Patogenesi La malattia di Paget è caratterizzata da un’accelerazione del metabolismo osseo. Ciò è stato valutato mediante l’uso di radioisotopi del calcio (45Ca) o di altri nucleotidi aventi affinità per l’osso (stronzio, ecc.). Si è così visto che il ricambio osseo può arrivare ad essere 20 volte superiore al normale. Nelle zone colpite si ha dapprima un riassorbimento circoscritto della matrice ossea da parte di osteoclasti attivati, a cui segue una neoformazione ossea, la quale però ha caratteri abnormi, in quanto le trabecole ossee neoformate appaiono di aspetto bizzarro, distorte ed ispessite. Generalmente le fasi distruttive e riparative avvengono in zone ossee vicine, dando origine a quadri intermedi cosiddetti “a mosaico”. Se, col passare del tempo, l’attività osteolitica si riduce, si potrà avere la formazione di un osso duro, denso e poco vascolarizzato (fase sclerotica).
Fisiopatologia L’accentuato turn-over osseo è ben documentato dall’incremento della fosfatasi alcalina, mentre si accompagna raramente ad alterazioni dei valori di calcemia e fosforemia, in quanto tali ioni vengono riutilizzati per la formazione delle nuove strutture ossee. Esistono tut-
tavia dei casi in cui il bilancio tra distruzione e sintesi ossea può sbilanciarsi in senso catabolico: per esempio, a seguito di immobilizzazioni prolungate, fratture ossee importanti, ecc. È allora possibile che si abbia una franca ipercalcemia e ipercalciuria. Nel riassorbimento osseo si ha distruzione non solo della componente inorganica ma anche di quella organica: sarà quindi aumentato il catabolismo del collageno il quale contiene una notevole quantità di aminoacidi idrossilati, quali la OH-prolina e la OH-lisina. Una volta che tali aminoacidi siano stati rimossi dalla matrice organica, non possono più essere riutilizzati dall’organismo e ciò determina un’elevata eliminazione urinaria di oligopeptidi contenenti OH-prolina e OH-lisina. Il sovvertimento della struttura ossea comporta la possibile comparsa di alterazioni evidenti anche macroscopicamente. Infatti quando la malattia colpisce ossa sottoposte a carico si possono avere modificazioni anche notevoli della loro morfologia: caratteristica è la curvatura che assumono le tibie e i femori. Questa curvatura segue infatti le linee di carico principali: nel femore avrà concavità mediale e nella tibia concavità posteriore. Si determina così quell’aspetto caratteristico degli arti inferiori detto “a parentesi”. È importante ricordare che l’osso pagetico è riccamente vascolarizzato e il flusso sanguigno è assai aumentato nelle sedi delle lesioni ossee. In passato era stato ipotizzato che in tali zone fossero presenti fistole arterovenose, ma tale dato non è stato confermato dai più recenti studi anatomici. Quando la malattia è diffusa e interessa più di un terzo dello scheletro, si può arrivare a un significativo aumento della gittata cardiaca, fino alla possibile comparsa di scompenso circolatorio.
Storia naturale In molti pazienti il riscontro della malattia è casuale e avviene grazie a radiografie effettuate per altri motivi o per il riscontro fortuito di un aumento della fosfatasi alcalina. Il più comune sintomo di presentazione è il dolore osseo, che di solito è di tipo profondo, mal localizzato, spesso accentuato dall’attività fisica. Cefalea, lombalgia e dolori agli arti inferiori sono le manifestazioni più frequenti. Talora, invece, i sintomi sono dovuti alle deformazioni o all’aumento volumetrico di alcune ossa. Il paziente può lamentare un’alterata deambulazione, in quanto l’accentuata curvatura di una tibia o di un femore gli impedisce di camminare senza zoppicare. In altri casi si rende conto di un incremento volumetrico del cranio poiché un cappello che era solito usare non gli sta più. Meno spesso i sintomi di presentazione sono vertigini e ipoacusia dovute a una compressione ossea sull’VIII nervo cranico a livello della rocca petrosa. Raramente possono comprire disturbi neurologici fino alla tetraplegia da danno midollare a livello del grande forame occipitale, provocata dalla neoproduzione di osso pagetico in tal sede (platiblasia).
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Mielopatie, seppure più raramente, possono manifestarsi anche in altri segmenti della colonna, causate dall’eccessiva crescita ossea o dal crollo di corpi vertebrali lesionati dalla malattia. Generalmente, all’esordio, la lesione pagetica è singola, successivamente si può avere l’interessamento di più distretti. Nell’ordine le ossa più frequentemente colpite sono: bacino, femore, teca cranica, tibia, colonna vertebrale, clavicola e omero.
Densità irregolare
Espansione
Complicanze Le fratture patologiche sono molto comuni. Possono manifestarsi spontaneamente o a seguito di traumi anche lievi. Talora, nelle ossa soggette a carico le fratture sono incomplete ed essendo per lo più localizzate alla parte convessa dell’osso tendono ad accentuarne la curvatura. Durante le fasi in cui prevalgono le lesioni di tipo litico si può avere un aumento dell’escrezione urinaria di calcio e ciò può spiegare una certa propensione di tali pazienti alla formazione di calcoli nelle vie urinarie. Un’altra complicanza (di cui si è già detto nella fisiopatologia) è lo scompenso cardiaco cosiddetto “ad alta gittata” dovuto ad un aumento del lavoro miocardico a seguito dell’aumentato flusso ematico. Temibile è la comparsa di un sarcoma osseo che può essere multicentrico in 1/5 dei casi. La sua incidenza è attorno all’1% benché nei pazienti ad interessamento osseo plurimo possa essere più elevata. Spesso è annunciato da un aumento considerevole dei livelli di fosfatasi alcalina, da dolori intensi e modificazioni evidenti dell’osso. Talora è comunque asintomatico. La prognosi, in tale caso, è generalmente sfavorevole. In altri casi compaiono granulomi riparativi che assomigliano a tumori gigantocellulari: essi possono essere localmente erosivi, ma non metastatizzano.
Esami di laboratorio I valori di calcio e fosforo sono generalmente normali nel siero e nelle urine. Talora è presente un aumento della calciuria, eccezionale l’ipercalcemia. L’andamento del metabolismo osseo è ben documentato dal livello della fosfatasi alcalina nel siero e dell’idrossiprolina nelle urine.
Esami strumentali A. Esami radiografici. Sono un indispensabile strumento di diagnosi. Permettono di evidenziare i diversi stadi della malattia. La prima fase di tipo osteolitico è quella di più difficile riconoscimento ed è caratterizzata dalla cosiddetta “osteoporosi circoscritta”, ben evidente a livello della teca cranica. Segue la fase mista in cui alle aree litiche si alternano zone di aumentata opacità radiografica corrispondenti alla riparazione ossea, dando il tipico quadro “a mosaico”.
Figura 33.4 - Stadio sclerotico del morbo di Paget a livello del cranio (aspetto “cotonoso”). (Da Bohndorf K., Imhof H., Pope T.L., Jr.: Diagnostica per immagini muscolo-scheletrica. Masson, Milano, 2003)
Nella fase sclerotica della malattia l’osso può mostrare un aumento diffuso della densità: ciò si verifica spesso nelle ossa del massiccio facciale, ma può, talora, essere osservato a livello vertebrale con un quadro di eburnizzazione simile a quello che può essere presente nella malattia di Hodgkin (Fig. 33.4). Grazie alle radiografie si possono localizzare eventuali fratture e deformazioni ossee. Importante lo studio del cranio per riconoscere un eventuale danno a livello della base. B. Esami scintigrafici. La scintigrafia ossea con polifosfonato è utile come esame di screening per valutare le zone dello scheletro colpite e per monitorare il decorso della malattia. 99Tc
Diagnosi La malattia di Paget si differenzia dalle altre malattie metaboliche ossee per la presenza delle caratteristiche lesioni radiografiche associate a normali valori di calcemia e fosforemia con fosfatasi alcalina elevata. Talora l’aspetto dell’osso, specie a livello del bacino, può essere simile a quello determinato da metastasi di varie neoplasie, tra cui, in particolare, il carcinoma della prostata.
Decorso e prognosi Mentre nella maggior parte dei casi la malattia è localizzata e ha scarsa tendenza evolutiva, talora il decorso è progressivo e si arriva ad un interessamento generalizzato con quadri di invalidità anche importanti. I fattori prognostici sfavorevoli sono le complicanze più gravi: scompenso cardiaco e trasformazione sarcomatosa.
Terapia Non esiste una terapia eziologica. L’indicazione all’eventuale trattamento è data dalla sintomatologia presente.
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MALATTIE DELLE OSSA
In realtà, molti pazienti non necessitano di alcuna terapia. I problemi per cui più spesso è richiesto l’intervento medico sono: dolori ossei, deformazione progressiva di segmenti scheletrici, ipercalcemia o ipercalciuria, scompenso cardiaco. I dolori ossei di entità moderata possono essere controllati con gli antinfiammatori non steroidei (in particolare indometacina e acido acetilsalicilico); nelle forme molto gravi, soprattutto se è presente degenerazione sarcomatosa, può essere necessario ricorrere ai narcotici (meperidina, morfina). La calcitonina (50-100 U al dì) è in grado di determinare miglioramenti notevoli della sintomatologia dolorosa ed in una certa percentuale di casi può indurre la normalizzazione dei parametri biochimici. Nelle forme gravi, tuttavia, la calcitonina non è in grado di indurre remissione. In tali forme può essere vantaggioso l’uso dell’etidronato di sodio, un composto difosfonato, che può essere somministrato per os ad un dosaggio di 5-10 mg/kg. Tale farmaco può indurre una remissione biochimica anche nelle forme più gravi, ma non è mai stata dimostrata una vera guarigione ossea e il suo uso a lungo termine è oggetto di dubbi per la possibile comparsa di osteomalacia come effetto collaterale. Interessante è anche l’uso di un altro difosfonato, il clodronato, la cui azione è rapida e non possiede un effetto inibente sulla mineralizzazione. Alcune sperimentazioni sembrano promettenti per quanto riguarda l’uso di farmaci citostatici quali l’actinomicina D, il nitrato di gallio e la mitramicina.
ALTRE MALATTIE DELLE OSSA E DELLE CARTILAGINI Displasia fibrosa (sindrome di Albright) È caratterizzata da una diffusa osteite fibrosa, aree di pigmentazione e alterazioni endocrine (in particolare pubertà precoce nella donna). Esistono, tutavia, casi in cui la displasia si presenta isolatamente. L’eziologia è sconosciuta. Dal punto di vista anatomopatologico è presente un sovvertimento dell’osso trabecolare, che è costituito da un tessuto fibroelastico di aspetto benigno con una struttura lassa e spiraliforme. Si distinguono tre varianti: 1. Forma monostotica. La più comune, può essere asintomatica o condurre a fratture patologiche. Colpisce in particolare le ossa del massiccio facciale e le coste; meno spesso il femore o la tibia. La diagnosi viene posta in genere tra i 20 e i 30 anni di età. 2. Forma poliostotica. Rappresenta circa un quarto dei casi, spesso con un interessamento anche di oltre la metà delle ossa scheletriche. Talora può colpire solo un emisoma. La diagnosi viene posta, in genere, nell’infanzia.
3. Sindrome di Albright. È più comune nella donna. Il decorso clinico è assai variabile. Le lesioni ossee sono in genere scoperte per la comparsa di deformità o fratture. Comune è l’interessamento delle ossa del capo dove può manifestarsi con: cefalea, convulsioni, alterazioni dei nervi cranici, ipoacusia, emorragie a livello del cuoio capelluto. Spesso è presente precocità sessuale. Caratteristiche le lesioni cutanee pigmentate, che consistono di chiazze isolate (da una a sei) di colore bruno con bordo frastagliato, localizzate ad un emisoma. Rara la trasformazione sarcomatosa. Non è nota alcuna terapia.
Altre displasie ossee e cartilaginee Sono assai numerose e la loro classificazione è attualmente descrittiva. I progressi attuali nello studio della biochimica dei polisaccaridi e delle malattie genetiche a essi connesse permetteranno negli anni prossimi una migliore classificazione. Merita di essere ricordata l’acondroplasia. Si tratta di una malattia ereditaria con un tratto autosomico dominante, che determina il più comune tipo di nanismo su base non endocrina. È caratterizzata da un difetto nella proliferazione della cartilagine di accrescimento delle ossa lunghe. Nei soggetti eterozigoti lo sviluppo mentale e sessuale è normale e così pure la vita media, gli omozigoti, in genere, muoiono poco dopo la nascita.
IPEROSTOSI Si tratta di un aumento della massa ossea per unità di volume, che si può evidenziare radiologicamente come un aumento della densità, talora con alterazioni della morfologia e dell’architettura del tessuto osseo. Può essere dovuta ad un aumento della formazione di nuovo osso o a un ridotto riassorbimento di quello già formato. Le principali cause di iperostosi sono riportate nella tabella 33.3.
OSTEOPETROSI Si tratta di una patologia eterogenea sia come gravità sia come età di insorgenza sia come trasmissione genetica. Il meccanismo di base è comunque sempre un difetto nel riassorbimento osseo. Generalmente si distinguono varianti infantili più gravi e forme dell’adulto a decorso più benigno. Le forme infantili sono ereditate generalmente come autosomiche recessive, mentre nell’adulto si osservano forme autosomiche dominanti e casi sporadici. Le alterazioni biochimiche alla base sono in genere sconosciute, tuttavia esiste una condizione in cui tale difetto è stato evidenziato. Si tratta del caso in cui l’osteopetrosi
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33 - MALATTIE DELLE OSSA
Tabella 33.3 - Le principali cause di iperostosi. • Alterazioni osteomalaciche (sindrome da vitamina D resistente, insufficienza renale cronica) • Osteite da raggi • Avvelenamento da agenti chimici (fluoro, fosforo, berillio, arsenico, vitamina A, piombo, bismuto) • Malattie endocrine (iperparatiroidismo primitivo, acromegalia, ipotiroidismo) • Malattia di Paget (fase osteosclerotica) • Forme associate a neoplasie maligne (metastasi, localizzazioni di linfomi) • Forme associate a malattie ematologiche (eritroblastosi fetale, anemia falciforme, malattie mieloproliferative, mastocitosi sistematica, ecc.) • Osteopetrosi infantile (autosomica recessiva, a decorso maligno) • Osteopetrosi dell’adulto (dominante, benigna) • Altre forme (osteomielosclerosi, displasia diafisaria progressiva – malattia di Camurati-Engelmann, iperostosi frontale interna, iperostosi generalizzata con pachidermia, ecc.).
è associata all’acidosi renale tubulare e alla presenza di calcificazioni cerebrali: il difetto biochimico di tale forma è noto, si tratta di un deficit di un isoenzima dell’anidrasi carbonica (il tipo II); tale enzima ha un ruolo fondamentale nella costituzione del microambiente acido che si trova a livello della membrana a spazzola degli osteoclasti; una riduzione della sua funzione ha un ruolo nell’alterare il riassorbimento osseo. In tutte le forme si ha una riduzione del riassorbimento osseo con alterazioni di quel processo di continuo rimodellamento dell’osso che conduce ad una maggiore fragilità e ad una maggiore predisposizione alle fratture.
Anatomia patologica Tipicamente è presente un osso denso e sclerotico in cui si distingue con difficoltà corticale e midollare. Si possono osservare parecchi osteoclasti, che possono essere apparentemente normali o presentare alterazioni nel loro orletto a spazzola. Sono in genere interessate le ossa lunghe, talora anche il bacino, le coste, il cranio o altri segmenti ossei.
Clinica Le forme infantili sono le più gravi. Possono esservi problemi ematologici causati dall’invasione delle cavità midollari con conseguente anemia mieloftisica associata a mielopoiesi extramidollare (a livello di fegato, milza e linfonodi) o problemi neurologici causati da compressione dei nervi nei loro canali di uscita dal cranio (atrofia ottica, esoftalmo, alterazioni della motilità oculare, paralisi facciale e sordità). Nelle forme più lievi dell’adulto la malattia, nel 50% dei casi, è asintomatica: spesso il riscontro è casuale o il paziente può giungere all’osservazione del medico per fratture, osteomieliti, dolori ossei o paralisi di nervi cranici.
Esami di laboratorio e terapia Nell’adulto, in genere, non vi sono alterazioni significative di calcio, fosforo e fosfatasi alcalina; nelle forme infantili si può osservare ipofosfatemia, lieve ipocalcemia e aumento della fosfatasi acida. In genere non è necessario alcun trattamento per le forme dell’adulto, che sono di prognosi favorevole. Le forme più gravi del bambino sono rapidamente fatali: in alcuni casi è stato tentato, con successo, un trapianto di midollo da parenti HLA identici.
OSTEOMIELITE Si tratta di un’infezione dell’osso. Può essere causata da diversi microrganismi: più comunemente batteri, meno spesso funghi o virus. A. Eziopatogenesi. I microrganismi possono raggiungere l’osso attraverso tre diverse vie: diffusione ematogena, passaggio da una sede contigua di infezione, introduzione diretta dell’organismo nell’osso attraverso un trauma. Le sedi di più comune localizzazione dell’osteomielite ematogena sono quelle molto vascolarizzate e ricche di midollo: negli adulti, quindi, soprattutto le vertebre, nei bambini anche le ossa lunghe. L’osteomielite, che deriva per contiguità da un’infezione vicina, si verifica spesso quando vi è la suppurazione dei tessuti molli a seguito di un trauma, un’ulcera da decubito o neoplastica, un’ustione. Nei diabetici o nei soggetti con una insufficienza vascolare agli arti inferiori si ha spesso, come porta di ingresso, un’ulcera cutanea (particolarmente al piede). B. Anatomia patologica. Durante la fase acuta i normali fenomeni infiammatori, a causa della rigidità dell’osso, determinano un aumento della pressione intramidollare con fenomeni ischemici e trombotici. Dopo alcuni giorni si può delimitare un’area frammentata in segmenti devitalizzati, detti sequestri. I processi riparativi si giovano della proliferazione fibroblastica e della formazione di nuovo osso che circonda la lesione (cosiddetto sarcofago). L’agente eziologico più comune è Staphylococcus aureus, pure frequenti sono i bacilli Gram- aerobi, spesso di provenienza dalle vie urinarie. Nei tossicodipendenti è comune l’infezione da Pseudomonas aeruginosa. A livello vertebrale non sono eccezionali le localizzazioni tubercolari o fungine. C. Clinica. L’osteomielite ematogena può derivare da un’infezione lontana: un ascesso, un’endocardite infettiva, un’infezione delle vie urinarie o altre ancora. Le forme vertebrali possono manifestarsi di colpo con rachialgia e quadro settico, ma di solito si evidenziano in modo più subdolo. La rachialgia è il sintomo più tipico e di solito non si modifica con il decubito, non risponde ai comuni analgesici e al riposo.
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MALATTIE DELLE OSSA
Obiettivamente si ha dolorabilità alla palpazione e alla percussione sulla vertebra interessata, talora spasmo della muscolatura paravertebrale. L’osteomielite post traumatica e quella derivante da un’infezione contigua possono essere localizzate in ogni sede. Dal punto di vista clinico, si manifestano con edema, dolore e calore locale; spesso sono presenti tragitti fistolosi. Sono rari i segni generali di malattia. D. Esami diagnostici. In genere, i primi sospetti derivano da una radiografia o da una scintigrafia caratteristica. Tuttavia, per una diagnosi corretta è necessario un esame colturale per l’identificazione dell’agente responsabile. Raramente le emocolture sono positive.
Per lo più è necessario effettuare un agoaspirato o una vera e propria biopsia ossea della zona interessata. Rara la leucocitosi, mentre spesso la velocità di eritrosedimentazione è elevata. E. Terapia. Si basa sul riposo a letto e su un’opportuna terapia antibiotica per via parenterale della durata di 4-6 settimane. L’antibiotico deve essere mirato al germe evidenziato in coltura. Nelle forme croniche ematogene e in quelle post traumatiche o contigue ad un’infezione, in genere la terapia antibiotica non è sufficiente ma deve essere accompagnata dalla rimozione chirurgica di tutto l’osso necrotico e dall’eliminazione della cavità risultante con innesti ossei o altre procedure.
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PARTE SESTA
MALATTIE DEL RENE E DELLE VIE URINARIE a cura di C. RUGARLI, A. SESSA con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di A. CANTABONI
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C A P I T O L O
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34
SEMEIOTICA FUNZIONALE: LE PROVE DI FUNZIONALITÀ RENALE G. COLOMBO
PREMESSE DI FISIOPATOLOGIA Glomerulo A. Cenni di anatomia e fisiologia (Fig. 34.1). Nell’uomo ciascun rene è costituito da oltre un milione di unità, i “nefroni”. La parte del nefrone deputata ai meccanismi di filtrazione è rappresentata dal cosiddetto corpuscolo renale o malpighiano, formato dal glomerulo, un gomitolo lobulato di 5-8 capillari, ripiegati in 2040 anse, derivato dalla dilatazione dell’arteriola afferente. Tra le anse capillari è contenuto del connettivo ricco di cellule, che prende il nome di mesangio. Il batuffolo capillare è avvolto da un’espansione a fondo cieco del tubulo urinifero, la cosiddetta capsula di Bowman, rivestita da epitelio pavimentoso semplice. La membrana basale della capsula si ripiega sulle anse dei capillari, formando la sottile membrana basale capillare. Essa, inoltre, si unisce con l’avventizia dell’arteriola afferente, che rifornisce il glomerulo, e con quella dell’arteriola efferente, che lo drena. Il rivestimento epiteliale della capsula adeso alle anse capillari forma lo strato altamente specializzato dei podociti. Questi ultimi sono elementi cellulari dotati di appendici, dette pedicelli, adese alla membrana basale. Tali propaggini, fondendosi tra loro, formano una serie di fenestrature fra una cellula e l’altra del diametro di 7-15 m. Figura 34.1 - Rappresentazione schematica della parte iniziale del nefrone e di alcune forze che regolano la filtrazione glomerulare ed il riassorbimento tubulare. PIG = pressione idrostatica dei capillari glomerulari; POG = pressione oncotica delle proteine contenute nei capillari glomerulari; PIC = pressione idrostatica nella capsula di Bowman; PIP = pressione idrostatica nei capillari peritubulari; POP = pressione oncotica delle proteine contenute nei capillari peritubulari; PIT = pressione idrostatica nei capillari peritubulari. La membrana glomerulare (un particolare è rappresentato in basso) è costituita dall’endotelio del capillare, dalla membrana basale e dal foglietto viscerale della capsula di Bowman (formato dai podociti).
Le arteriole afferenti ed efferenti, circondate da elementi muscolari contrattili, costituiscono resistenze variabili al flusso di sangue attraverso il gomitolo capillare e i capillari peritubulari postglomerulari. All’ingresso del vaso nella capsula di Bowman, le cellule della media e dell’avventizia formano un cuscinetto ispessito attorno all’arteriola afferente, denominato manicotto o cuscinetto polare; esso è spazialmente Capsula di Bowman
Arteriola afferente
Capillare glomerulare
PIG POG PIC Capillare
PIP
Tubulo
peritubulare
POP PIT
SANGUE
CAPSULA DI BOWMAN
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MALATTIE DEL RENE E DELLE VIE URINARIE
prossimo ad un segmento specializzato del tubulo appartenente allo stesso nefrone, che prende il nome di macula densa; insieme costituiscono quello che viene chiamato l’apparato iuxtaglomerulare. La parete glomerulare risulta quindi formata dalla parete endoteliale e dal foglietto viscerale della capsula di Bowman. Tra essi è presente la membrana basale, costituita da un gel glicoproteico fortemente idratato, che ha un ruolo essenziale nel meccanismo di filtrazione, poiché ostacola il passaggio di molecole di grosse dimensioni. Attraverso la parete glomerulare avviene l’ultrafiltrazione dell’urina primitiva. Questo processo permette di separare l’acqua contenuta nel plasma ed i costituenti non proteici dalle cellule e dalle macromolecole proteiche (colloidi) contenute nel sangue. Qualitativamente si tratta dello stesso processo che avviene nei capillari sistemici. Le differenze tra i due distretti sono quantitative. La forza che determina la filtrazione è la pressione idrostatica, o meglio la pressione che si crea per differenza tra la pressione idrostatica nei capillari glomerulari e quella presente nella capsula di Bowman. Questo spiega perché in condizioni di grave ipotensione (shock, ipovolemia da disidratazione) si verifichi una diminuzione della forza di filtrazione, essendo ridotta la differenza fra le due pressioni idrostatiche. Viceversa una ridotta filtrazione può anche essere dovuta ad un aumento della pressione nella capsula di Bowman (uropatia ostruttiva da ipertrofia prostatica o da calcolosi renale occludente le vie escretrici). La diminuzione della filtrazione glomerulare può ridursi fino a cessare del tutto. Un altro elemento fondamentale nel fenomeno di filtrazione glomerulare è rappresentato dalla pressione oncotica, ossia dalla pressione osmotica esercitata dalle proteine del plasma; essa tende a richiamare acqua all’interno dei capillari, operando pertanto in senso inverso rispetto alla forza idrostatica filtrante. Si tratta di una forza modesta in condizioni fisiologiche, che tuttavia, in stati di disidratazione con aumento della concentrazione proteica e quindi della pressione oncotica nei capillari, assume una notevole importanza, causando la diminuzione del filtrato glomerulare. In conclusione, i fattori che regolano la filtrazione glomerulare sono tre:
stanze che fanno contrarre le cellule mesangiali, in modo particolare l’angiotensina, la vasopressina e il trombossano A2, provocano una specie di “raggrinzimento” dei glomeruli e diminuiscono il filtrato glomerulare per riduzione della superficie filtrante. Sostanze che rilassano le cellule mesangiali, come per esempio le prostaglandine E2 e I2, hanno l’effetto opposto ed aumentano il filtrato glomerulare. La parete glomerulare è un ultrafiltro, cioè un filtro che permette il passaggio del solvente e solo di alcuni soluti. Essa possiede tuttavia caratteristiche che la distinguono da qualsiasi altro filtro.
• la pressione arteriosa nei capillari glomerulari; • la concentrazione di proteine plasmatiche; • la pressione nelle vie escretici urinarie.
1. Valutazione del filtrato glomerulare attraverso la clearance della creatinina. Dal punto di vista quantitativo, il calcolo del filtrato glomerulare si fa con la clearance di particolari sostanze di piccole dimensioni, che sono totalmente filtrate e che non devono essere secrete o riassorbite a livello del tubulo. Per clearance si intende la quantità di sangue depurata da una certa sostanza nell’unità di tempo:
In realtà i fattori che regolano la filtrazione glomerulare sono solamente tre se si considera il glomerulo una struttura statica. Tuttavia le acquisizioni recenti hanno permesso di accertare due fatti importanti: le cellule del mesangio hanno proprietà contrattili e sono perciò simili alle cellule muscolari lisce; le cellule mesangiali sono sensibili a varie sostanze vasoattive, alcune delle quali (per es., derivati dall’acido arachidonico) possono anche essere prodotte localmente. Ne consegue che so-
• La membrana filtrante non è un ultrafiltro classico, in quanto non possiede pori cilindrici. • La superficie delle cellule che la rivestono sul versante epiteliale è dotata di carica negativa, come le proteine del plasma quando sono dissociate; si creano pertanto forze elettrostatiche repulsive che si oppongono al passaggio di queste ultime attraverso la fenestratura creata dai podociti. Sono stati intrapresi studi per correlare il diametro delle molecole con la permeabilità attraverso la membrana glomerulare. Essi hanno dimostrato che vengono filtrate particelle fino a un diametro di 17 Å, quindi tutti i cristalloidi. Solo quando il diametro supera tale valore, la capacità di filtrazione diminuisce linearmente, fino ad un diametro compreso tra i 40 ed i 60 Å; oltre tale limite la filtrazione è nulla. Queste dimensioni corrispondono a proteine globulari del peso molecolare di 65.00080.000 D (pesi equivalenti a quelli dell’albumina e della transferrina). Pertanto le piccole molecole proteiche passano attraverso il filtro. Considerando che nelle 24 ore il filtrato glomerulare è di circa 180 litri, si verificherebbe una cospicua perdita proteica se la maggior parte di tali molecole non venisse riassorbita nei tubuli prossimali. Infatti il contenuto proteico delle urine definitive è di circa 1-2 mg/100 ml ed è rappresentato da globuline a basso peso molecolare, enzimi e da piccolissime quantità di albumina. B. Indici di funzionalità glomerulare. Di fronte a stati patologici dell’emuntorio renale è di fondamentale importanza la valutazione qualitativa e quantitativa delle condizioni dell’ultrafiltro glomerulare. A questo scopo bisogna tener conto di vari parametri.
Clearance =
U × V (conc. urin. × vol. urin./min) P (conc. plasm.)
Per valutare la clearance si può ricorrere a sostanze con le caratteristiche suddette, iniettate endovena, come
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l’insulina (polisaccaride del fruttosio); oppure, più semplicemente, si possono prendere in considerazione sostanze contenute fisiologicamente nel plasma, come la creatinina. Tenendo conto dei dati seguenti (qui riportati a titolo di esempio): • concentrazione plasmatica di creatinina (P) = 0,75 mg/100 ml; • concentrazione urinaria di creatinina (U) = 90 mg/100 ml; • volume urinario (V) = 1,04 ml/min (considerando 1500 ml il volume urinario nelle 24 ore);
Creatininemia (mg/dl)
34 - SEMEIOTICA FUNZIONALE: LE PROVE DI FUNZIONALITÀ RENALE
la clearance della creatinina sarà data da: Clearance creatinina =
90 × 1,04 = 125 ml/min. 0,75
Questo è il valore normale equivalente al filtrato glomerulare in un uomo del peso di 70 kg ed alto 170 cm. In individui di differente taglia corporea la clearance della creatinina può assumere valori diversi, ma convenzionalmente essa viene riferita ai 70 kg e ai 170 cm mediante appositi nomogrammi. Nel valutare la clearance, quando si considera la creatinina, bisogna tener presente che, in condizioni particolari, può avvenire una secrezione o un riassorbimento della sostanza nei tubuli renali. Nel primo caso (sindrome nefrosica) si avrà un aumento della concentrazione urinaria e quindi la clearance sarà sovrastimata. Nel secondo caso (scompenso cardiaco, oppure in condizioni fisiologiche nella prima infanzia) la clearance sarà sottostimata. Bisogna infine ricordare che il valore della clearance non ci è utile per comprendere se, in alcune condizioni patologiche, vi è un cattivo funzionamento di tutti i glomeruli, oppure solo di una parte di essi. 2. Valutazione della creatinina e dell’urea nel plasma. La quantità di una determinata sostanza che viene filtrata attraverso i glomeruli nell’unità di tempo si chiama “carico filtrato” ed è espressa dal prodotto del filtrato glomerulare (in ml/min) per la concentrazione della sostanza nel plasma. Per una sostanza come la creatinina, che ai fini pratici non è secreta né riassorbita nei tubuli, la quantità escreta con le urine è uguale al carico filtrato. Questo significa che quando il filtrato glomerulare è ridotto, la quantità di creatinina escreta con le urine può essere mantenuta normale solamente a prezzo di un aumento della sua concentrazione nel plasma, aumento che risulterà inversamente proporzionale alla diminuzione del filtrato glomerulare. Questa particolare relazione consente che la concentrazione di creatinina nel plasma (o nel siero, che ai fini pratici è lo stesso), o creatininemia (valori normali tra 0,6 e 1,2 mg/dl, ovvero 53-106 mmol/l), possa essere assunta come indice del filtrato glomerulare, senza bisogno di calcolare la clearance della sostanza (Fig. 34.2).
25
50
70
100
FG %
Figura 34.2 - Rapporto fra creatininemia e filtrato glomerulare. Il grafico mette in evidenza che la concentrazione plasmatica di creatinina è inversamente proporzionale al valore del filtrato glomerulare. Il valore della creatininemia può pertanto essere assunto come indice indiretto della funzionalità glomerulare.
Infatti, se il filtrato glomerulare fosse dimezzato, la creatinina dovrebbe essere raddoppiata; se il filtrato glomerulare fosse ridotto ad un decimo la creatinina dovrebbe essere incrementata dieci volte e così via. Perciò in presenza di una creatininemia di 6 mg/dl si potrà stimare che il filtrato glomerulare sarà compreso all’incirca tra 25 ml/min (= 125 ml/min : 5, assumendo come valore normale di creatininemia il limite superiore di 1,2 mg/dl, che in questo caso risulterebbe quintuplicato) e 12,5 ml/min (125 ml/min : 10, assumendo come valore normale di creatininemia il limite inferiore di 0,6 mg/dl, che in questo caso risulterebbe decuplicato). Come si vede, la stima del filtrato glomerulare attraverso la creatininemia non può essere precisa a causa dell’impossibilità di definire un singolo valore per la creatininemia normale. Sono state elaborate formule per rendere più attendibile questa valutazione, tenendo conto che la creatinina è di origine muscolare. Perciò la creatininemia è normalmente più elevata nelle persone giovani e robuste e più bassa nelle persone anziane e con muscolatura atrofica. Comunque è certamente vero che la clearance di questa sostanza è un indice più preciso. Tuttavia questa maggior precisione è in larga parte illusoria, a causa dell’errore inerente alla determinazione della creatinina, tanto nel sangue che nelle urine, nel caso del calcolo della clearance. Perciò, ai fini pratici, la stima del filtrato glomerulare attraverso la creatininemia è del tutto soddisfacente. Anche l’urea, nonostante sia sottoposta ad importanti operazioni che hanno luogo nei tubuli (si veda in seguito), viene escreta nelle urine in quantità proporzionale al suo carico filtrato. La concentrazione di urea plasmatica potrebbe perciò essere pure assunta come stima del filtrato glomerulare.
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Si rammenta che, per consuetudine, la concentrazione di urea nel plasma in Italia viene ancora indicata con il termine azotemia (1) (valori normali tra 20 e 45 mg/dl, ovvero 3,3-7,5 mmol/l). Tuttavia questo indice è molto meno affidabile, potendo aumentare anche indipendentemente dalla diminuzione del filtrato glomerulare quando prevale il catabolismo proteico, come in caso di eccesso di apporto di proteine o, al contrario, di carenza proteica (in tal caso sono catabolizzate le scorte tissutali rappresentate dalle proteine dei muscoli e del fegato), negli stati febbrili, o sotto l’effetto di alcuni farmaci (tetracicline). 3. Determinazione di proteinuria. Le variazioni qualitative del filtrato glomerulare si verificano quando, per alterata ultrafiltrazione, avviene un abnorme passaggio di molecole proteiche. Si parla di proteinuria quando la quantità di proteine eliminata con le urine nelle 24 ore supera i 100 mg (con una diuresi normale questa proteinuria corrisponde a una concentrazione di proteine urinarie di circa 10 mg/100 ml). La proteinuria dovuta a patologia del glomerulo è detta appunto glomerulare. In altre condizioni essa può verificarsi per alterazioni tubulari, ossia la funzione di ultrafiltro del glomerulo è intatta, ma a causa del mancato riassorbimento da parte dei tubuli prossimali delle minime quantità di proteine che normalmente passano il filtro glomerulare, queste vengono concentrate nelle urine e danno origine ad una proteinuria significativa. Vari esperimenti effettuati su animali e nell’uomo dimostrano una relazione fra la riduzione del numero di siti anionici (proteoglicani), di cui il glomerulo è ricco a livello della membrana basale, e la comparsa di proteinuria. La riduzione dei siti in questi modelli sperimentali è infatti associata ad una perdita di selettività, sia per quanto riguarda la carica elettrica, sia per quanto concerne le dimensioni delle molecole che attraversano la membrana basale glomerulare; questo fenomeno è probabilmente dovuto a cambiamenti fisico-chimici della matrice della membrana basale, che si possono verificare in varie forme di sindrome nefrosica congenite o acquisite. La determinazione di proteinuria nelle urine si effettua al giorno d’oggi con l’uso di cartine impregnate di un colorante (blu di tetrabromofenolo). Queste cartine sono in grado di svelare una proteinuria di 5 mg/100 ml, ma sono sensibili soprattutto all’albumina e possono perciò dare dei falsi negativi quando la proteinuria è rappresentata in larga misura da altre proteine, come nel caso della proteinuria di Bence-Jones (catene leggere immunoglobuliniche) che si osserva nel mieloma. Un dosaggio più affidabile della proteinuria può essere eseguito precipi(1) Il termine esprimeva originariamente la concentrazione di azoto incoagulabile nel siero (cioè azoto non proteico e presente invece in piccole molecole come l’urea, la creatinina e l’acido urico). In seguito, almeno in Italia, è rimasta la consuetudine di mantenere il termine che designa il tutto per indicare quella parte che è rappresentata dall’urea. In realtà sarebbe corretto parlare di “urea plasmatica” ed abbandonare il termine “azotemia”.
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tando le proteine urinarie con acido solfosalicilico. Utile è l’analisi del tracciato elettroforetico delle proteine urinarie, per distinguere la proteinuria glomerulare da quella di origine tubulare. Infatti, nel primo caso prevale il contenuto di albumina rispetto a quello di globuline; nel secondo caso sono maggiormente rappresentate piccole molecole che hanno un’ampia gamma di mobilità nella regione globulinica e che includono la 2-microglobulina (un costituente degli antigeni di istocompatibilità di classe I). Indipendentemente dall’entità della proteinuria giornaliera, la selettività della proteinuria è maggiore quando il danno della membrana glomerulare è più modesto, è minore quando il danno è di entità più elevata. Sono stati elaborati vari metodi per valutare la selettività della proteinuria. In uno di questi, per esempio, la selettività nella proteinuria viene calcolata dal rapporto della clearance delle IgG (p.m. 160.000) e di una proteina a basso peso molecolare, (per esempio, la transferrina che ha un p.m. simile all’albumina: 80.000 D); una proteinuria è altamente selettiva quando tale indice è uguale o inferiore a 0,10; poco selettiva quando l’indice è compreso fra 0,10 e 0,20; non selettiva quando l’indice è superiore a 0,20. Esistono altri metodi, tutti basati sul rapporto tra la clearance di due molecole proteiche con dimensioni differenti.
Tubulo prossimale A. Cenni di anatomia. Il tubulo prossimale si collega alla capsula di Bowman ed in prossimità del corpuscolo di Malpighi forma la cosiddetta pars convoluta, costituita da numerose anse: si addentra successivamente nel raggio midollare, trasformandosi in pars recta, raggiungendo gli strati più profondi della corticale. Il tubulo prossimale è costituito da epitelio monostratificato di cellule cuboidali, che poggiano su una membrana basale permeabile all’acqua e ai soluti, così da permettere il passaggio di essi dal lume tubulare ai capillari peritubulari. Le cellule, il nucleo delle quali è sito alla loro base, presentano, rivolta verso il lume tubulare, una superficie irregolare con orletto a spazzola, formato da filamenti di circa 1 non dotati di motilità. Le cellule adiacenti sono unite da “giunzioni strette” al punto di contatto di quella parte delle loro superfici che si affaccia verso il lume del tubulo. La vascolarizzazione dei tubuli è essenzialmente di tipo portale, poiché il sangue che perfonde i capillari peritubulari proviene per la maggior parte dai capillari glomerulari. B. Cenni di fisiologia e indici di funzionalità del tubulo prossimale. Nel tubulo si ha una modificazione della qualità dell’urina primitiva, in quanto in esso avviene la secrezione di alcune sostanze ed il riassorbimento di altre. 1. Secrezione. Si ha una secrezione quando vi è il passaggio di molecole dal sangue peritubulare o dall’interstizio o dalle cellule verso il lume del tubulo con
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meccanismo attivo o passivo. Tra le sostanze secrete dal tubulo ricordiamo:
Il trasporto attivo può essere definito come un movimento di particelle contro un gradiente potenziale elettrochimico, con dispendio di energia metabolica. Se il sistema è deprivato di energia metabolica, il flusso di una sostanza trasportata attivamente può diminuire fino al punto di cessare completamente. Una tale situazione si verifica se il sistema viene raffreddato o deprivato di ossigeno, oppure esposto all’azione di specifici inibitori metabolici, come il dinitrofenolo (DNP) che ostacola la formazione di legami fosfato ad alta energia. Alcune sostanze possono essere attivamente riassorbite senza che vi sia alcun limite; altre, invece, presentano un limite massimo oltre il quale il processo si arresta. Tale limite viene definito trasporto massimo tubulare (Tm) o Tubular maximum di riassorbimento. Il fenomeno Tm non è dovuto ad esaurimento dell’energia disponibile, ma alla saturazione di un ipotetico “carrier” sito sulla membrana delle cellule del tubulo. Riportiamo qui di seguito qualche dettaglio relativo ai processi di riassorbimento che hanno luogo nel tubulo prossimale e che sono di maggior importanza fisiopatologica.
• • • • •
acidi o basi deboli; farmaci (penicillina, salicilati, ecc.); ioni NH +4 H+; sostanze come l’acido paraminoippurico (PAI); tiamina (vitamina B1).
Il meccanismo di secrezione è poco importante ai fini delle modificazioni qualitative delle urine, a parte la secrezione di ioni H+, che contribuisce ad acidificare le urine e che avviene sia a livello del tubulo prossimale che distale. Ricordiamo infine che alcune sostanze, in particolare il PAI, vengono impiegate per valutazioni funzionali. Dal momento che il PAI viene sia filtrato a livello del glomerulo che secreto dal tubulo, la clearance di tale sostanza è un valore che indica l’entità del flusso ematico attraverso il rene. L’infusione di PAI endovena ad una velocità tale da non saturare il meccanismo di trasporto attivo (Tubular maximum di secrezione = Tm PAI = 80 mg/min) attraverso la parete del tubulo, in modo che la sostanza venga totalmente escreta, ci permette di ottenere la clearance secondo la seguente formula: Clearance PAI =
U×V = flusso plasmatico renale effettivo P
U = concentrazione PAI nelle urine P = concentrazione PAI nel plasma V = volume delle urine (ml/min). Tale valutazione non viene quasi mai impiegata per interesse clinico. È infine da ricordare la possibilità di calcolare l’escrezione urinaria con l’impiego di PAI marcato con iodio radioattivo. 2. Riassorbimento. Per riassorbimento si intende il passaggio di sostanze dal lume tubulare attraverso la parete fino all’interstizio e ai capillari peritubulari. Il riassorbimento facilita la conservazione di sostanze che sono essenziali per l’omeostasi dell’organismo, come acqua, glucosio ed altri zuccheri, aminoacidi ed elettroliti. Alcune, come il glucosio e gli aminoacidi, vengono assorbite principalmente o esclusivamente a livello del tubulo prossimale; altre, come l’acqua e il sodio, vengono riassorbite anche in parti più distali del nefrone. Il riassorbimento può essere attivo o passivo. Tra le sostanze riassorbite passivamente ricordiamo l’urea. I soluti interessati da un trasporto attivo nel tubulo, prossimale sono: • • • • • • • •
glucosio; Na+, K+, fosfati; aminoacidi; creatina; acido ascorbico; corpi chetonici; acido urico; solfati.
3. Riassorbimento del glucosio. Entro un certo ambito di concentrazione tutto il glucosio presente nel tubulo prossimale è riassorbito. Al di là di una certa concentrazione, il riassorbimento cessa di essere totale. Dato che la concentrazione di glucosio nel filtrato glomerulare è uguale a quella del plasma (glicemia), si può indicare un valore glicemico al di sopra del quale il glucosio non è più totalmente riassorbito nel tubulo prossimale e compare perciò nelle urine: questo valore costituisce la soglia renale al glucosio ed è normalmente circa 180 mg/100 ml. Per concentrazioni di glucosio superiori alla soglia renale, il riassorbimento tubulare del glucosio può ancora essere incrementato, ma l’incremento non è della stessa entità dell’aumento della concentrazione della sostanza nel filtrato glomerulare e risulta progressivamente minore fino al raggiungimento di un valore che rimane costante, per quanto la concentrazione di glucosio nel filtrato glomerulare possa ulteriormente aumentare. È questo il Tm di riassorbimento del glucosio, che nell’uomo è di 375 mg/min e nella donna di 300 mg/min. Nei soggetti normali, anche dopo un pasto abbondante, non si oltrepassano mai valori di glicemia equivalenti alla soglia renale e, pertanto, non si avrà mai glicosuria. Nei pazienti diabetici, invece, si verifica correntemente una glicosuria. Si può avere glicosuria anche in assenza di diabete, quando si determina una tubulopatia prossimale, con danneggiamento del “carrier”; in tal caso il valore di Tm sarà inferiore rispetto alla norma provocando una glicosuria anche con valori glicemici al di sotto della normale soglia renale al glucosio. Una glicosuria renale può verificarsi per ragioni congenite o per patologie acquisite. 4. Riassorbimento del sodio (Fig. 34.3). Anche il sodio viene riassorbito a livello del tubulo prossimale me-
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MB
Lume
Capillare
Na+ Cl– Na+ + Cl– H2O
Figura 34.3 - Rappresentazione schematica del meccanismo di trasporto degli ioni Na+ e Cl– a livello del tubulo prossimale. La descrizione dettagliata è contenuta nel testo.
diante trasporto attivo contro gradiente elettrochimico. La differenza di potenziale fra il lume del tubulo e l’interno delle cellule può essere misurata mediante microelettrodi, assumendo arbitrariamente come punto di riferimento = 0 il valore nel liquido peritubulare. Poiché la concentrazione intracellulare di sodio è relativamente bassa rispetto al plasma e al liquido peritubulare, il passaggio di sodio dal lume del tubulo alle cellule può anche avvenire passivamente. Tuttavia il trasporto dello ione dalle cellule all’interstizio e ai capillari peritubulari necessita di un sistema attivo contro gradiente. A questo scopo esiste una pompa NA+/K+, detta pompa elettrogenica del sodio. La natura della pompa del sodio è poco nota. Si suppone che sia costituita da una molecola vettrice la quale si combina con uno ione sodio, in corrispondenza del margine citoplasmatico della membrana peritubulare, e lo rilascia verso il liquido extracellulare, ruotando nell’ambito della membrana. La sorgente di energia sarebbe rappresentata, almeno in parte, da ATP. In tal modo la pompa espelle lo ione Na+ attivamente contro gradiente di concentrazione. Per ragioni elettrochimiche si ha un conseguente passaggio passivo di ioni cloro, cosicché si ottiene una concentrazione di NaCl e soluti molto elevata negli spazi intercellulari; secondariamente a tale fenomeno, si ha richiamo di acqua dall’interno del tubulo attraverso le “giunzioni strette” intercellulari. Nei capillari peritubulari vi è una condizione esattamente opposta, rispetto a quelli glomerulari: in essi, a causa delle scarse resistenze a valle e dell’elevata concentrazione proteica secondaria al processo di filtrazione glomerulare, già avvenuto a monte, si ha una pressione oncotica superiore alla pressione idrostatica; que-
sto comporta un richiamo di acqua e di elettroliti all’interno dei capillari. Il riassorbimento di acqua e soluti a livello del tubulo prossimale è isosmotico, cioè il liquido che si trova nel tubulo si riduce di volume, ma non cambia concentrazione rispetto all’urina primitiva filtrata dal glomerulo. Il riassorbimento nel tubulo prossimale ammonta al 75% del filtrato glomerulare. Tuttavia, deve essere rilevato che la quantità di sodio ed acqua riassorbita nel tubulo prossimale è influenzata da eventi che hanno luogo nei glomeruli. Se, infatti, la frazione di filtrazione glomerulare (filtrato glomerulare come frazione della quantità di sangue che passa nei glomeruli nell’unità di tempo) è aumentata, ne consegue che il sangue che lascia i glomeruli attraverso le arteriole efferenti, e che in seguito dà origine ai capillari peritubulari, avrà una concentrazione proteica pure aumentata. Maggiore perciò sarà il richiamo osmotico esercitato dalle proteine plasmatiche sul fluido che si trova tra le cellule tubulari. Se, viceversa, la frazione di filtrazione glomerulare è bassa, le proteine plasmatiche andranno incontro solo a un modesto incremento di concentrazione ed il richiamo osmotico sarà meno intenso. Nel primo caso il riassorbimento di fluido nel tubulo prossimale (e perciò di sodio) sarà più elevato, nel secondo caso sarà di minore entità. È da ricordare che a questa azione di richiamo osmotico del fluido riassorbito nei tubuli prossimali si oppone la pressione idrostatica nei capillari peritubulari. Modeste variazioni di questa pressione idrostatica possono incrementare (se la pressione idrostatica è diminuita) o ridurre (se la pressione idrostatica è aumentata) il riassorbimento di acqua e di sodio nei tubuli prossimali. Questi meccanismi sono invocati per spiegare, almeno in parte, l’effetto antinatriuretico dell’angiotensina II e quello natriuretico dell’ipertensione (Cap. 1). 5. Riassorbimento di aminoacidi e proteine. Avviene normalmente nel tubulo prossimale e senza particolari limiti, in condizioni normali. Anche le proteine normalmente comparse nel filtrato glomerulare vengono riassorbite dalle cellule del tubulo prossimale, che le metabolizzano. Quando questo processo non avviene in misura normale, si verifica la cosiddetta proteinuria tubulare, che può avere luogo in caso di tubulopatie che portino ad un danneggiamento del meccanismo di riassorbimento. 6. Riassorbimento dei fosfati. Il riassorbimento dei fosfati è inibito dal paratormone. Questa regolazione assume importanza nell’insufficienza renale cronica, come verrà spiegato nel capitolo 35.
Meccanismi di concentrazione e diluizione A. Cenni di anatomia e fisiologia. La concentrazione e diluizione delle urine sono processi di importanza fondamentale per il mantenimento dell’omeostasi dell’organismo, consentendo di eliminare soluti in ec-
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cesso rispetto all’acqua, quando questa deve essere risparmiata, ed acqua in eccesso rispetto ai soluti quando si verifica la situazione opposta. La concentrazione e la diluizione delle urine sono determinate da una serie di operazioni che impegnano tre strutture:
Occorre, prima di tutto, soffermarsi sui meccanismi di fuoriuscita dei soluti dalla branca ascendente dell’ansa di Henle. Essi sono di due tipi diversi: passivo, nella prima porzione, a parete sottile; attivo, nella seconda porzione, a parete spessa. Subito dopo il gomito dell’ansa di Henle il contenuto del tubulo ha una concentrazione di soluti identica rispetto all’interstizio in termini quantitativi, ma qualitativamente differenti (Fig. 34.4). Infatti, in questo punto, all’interno del tubulo vi è più sodio e meno urea che all’esterno (le ragioni di questa differenza verranno spiegate in seguito). Vi sarà, perciò, tendenza del sodio a fuoriuscire dal tubulo e tendenza dell’urea a penetrarvi. Lo scambio dei soluti non può essere simmetrico, poiché la porzione sottile della branca ascendente dell’ansa di Henle è molto permeabile al sodio e poco all’urea. La conseguenza è che la fuoriuscita del sodio dal tubulo prevale rispetto alla penetrazione dell’urea, con un bilancio netto di trasporto passivo di soluti dall’interno del tubulo verso l’interstizio. Nella seconda porzione, a parete spessa, della branca ascendente dell’ansa di Henle, l’estrazione dei soluti è un processo attivo che avviene con dispendio di energia. È infatti operante, a questo livello, una “pompa” che agisce primitivamente sui cloro-ioni, sottraendoli dal lume del tubulo e trasportandoli all’esterno, cui consegue, per il mantenimento della neutralità elettrochimica, un analogo movimento passivo di sodio-ioni. Queste proprietà delle due branche dell’ansa di Henle sono fondamentali per comprendere la sua capacità di operare in un processo che è stato definito moltiplicatore controcorrente. Il moltiplicatore controcorrente serve a generare un incremento nella concentrazione dei soluti nell’interstizio della piramide renale, incremento che è progressivamente crescente dalla base verso l’apice della piramide e che fa sì che, a questo livello, la pressione osmotica, ovvero la tonicità del fluido interstiziale, sia normalmente nell’uomo circa quadrupla rispetto a quella che generalmente si ha nello spazio extracellulare. Vedremo che questa tonicità crescente dalla base verso l’apice della piramide è di importanza fondamentale nel processo di concentrazione delle urine. Prima, però, consideriamo come opera il moltiplicatore controcorrente. Per motivi pratici analizziamo preliminarmente una situazione del tutto irreale e cioè vediamo che cosa succederebbe se dei soluti fossero estratti dalla branca ascendente dell’ansa di Henle in un solo punto, indicato con il numero 1 nella figura 34.5A. È facile concludere che la concentrazione dei soluti si accrescerebbe nell’interstizio in corrispondenza del punto 1 e che dall’interno della branca discendente, sempre a livello dello stesso punto, fuoriuscirebbe dell’acqua, richiamata dall’aumento della pressione osmotica nell’interstizio. Giova infatti ripetere che la parete della branca discendente dell’ansa di Henle è permeabile all’acqua e non ai soluti e si comporta perciò come una membrana semipermeabile. Come conseguenza di questo processo, però, si avrebbe un incremento della concentrazione
• l’ansa di Henle; • l’interstizio delle piramidi renali; • i dotti collettori. L’ansa di Henle comprende la branca spessa discendente, costituita dalla pars recta del tubulo prossimale; le branche sottili, discendente ed ascendente; la branca spessa ascendente, ovvero la porzione della pars recta del tubulo distale. I nefroni il cui corpuscolo renale è sito nei due terzi esterni della corticale (nefroni corticali) hanno un’ansa relativamente corta. I nefroni con corpuscolo renale sito nel terzo interno della corticale (nefroni iuxtamidollari) hanno anse relativamente lunghe. I segmenti sottili di alcune di queste anse si estendono fino alla punta della papilla. La configurazione a forcina dell’ansa di Henle (branche ascendente e discendente in stretta contiguità) era una volta considerata di significato unicamente morfogenetico. Solo più recentemente è stato ad essa assegnato un significato funzionale nel meccanismo di concentrazione delle urine. La caratteristica funzionale fondamentale dell’ansa di Henle è che la sua branca discendente è impermeabile ai soluti, ma consente il libero passaggio dell’acqua, mentre la sua branca ascendente è impermeabile all’acqua, ma consente o determina la fuoriuscita di soluti (Fig. 34.4).
Attivo Cl– Passivo H20
Na+
H20
Na+ Urea
[Na+] 1676 [Urea] 124 mOsm 1800
[Na+] 900 [Urea] 900 mOsm 1800
Figura 34.4 - Concentrazione in soluti all’interno del gomito dell’ansa di Henle (a sinistra e in basso) e all’esterno (a destra e in basso). Nella figura sono indicati anche i movimenti attivi e passivi dell’acqua e dei soluti attraverso le pareti dell’ansa. I dati numerici sono stati scelti arbitrariamente a scopo esemplificativo.
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V
V
V
X
V
X 1
X
1 2
1 2 3
A.
B.
C.
D.
Figura 34.5 - Effetto dell’estrazione di soluti dalla branca ascendente dell’ansa di Henle. In (A) è rappresentata la situazione che si verrebbe a creare se una quantità x di soluti venisse estratta nell’unità di tempo dal punto 1; in (B) quello che accadrebbe se la stessa quantità venisse estratta in due punti 1 e 2; in (C) il risultato nell’estrazione della stessa quantità in tre punti 1, 2 e 3; in (D) la situazione reale con i soluti riassorbiti lungo tutti i punti nella branca ascendente (per la spiegazione si veda il testo).
dei soluti all’interno della branca discendente e questo contenuto ipertonico si porterebbe verso il gomito dell’ansa e l’apice della piramide. Così spostandosi, il contenuto della branca discendente equilibrerebbe la propria pressione osmotica con tutti i punti dell’interstizio che si trovano tra il punto 1 e il gomito dell’ansa. La conseguenza sarebbe che tra il punto 1 e il gomito dell’ansa la pressione osmotica, tanto nel lume del tubulo che dell’interstizio, sarebbe più elevata che tra il punto 1 e la radice dell’ansa. Pertanto, l’estrazione di soluti dalla branca ascendente avviene in un solo punto, ma l’ipertonia nell’interstizio non è limitata a quel livello e viene ripartita verso il gomito dell’ansa dalla direzione del flusso che si ha nella branca discendente. Immaginiamo adesso che dei soluti siano estratti dalla branca ascendente dell’ansa di Henle in due punti, che nella figura 34.5B indichiamo come 1 (verso la radice dell’ansa) e 2 (verso il gomito). È facile concludere, in base alle considerazioni sopra esposte, che la pressione osmotica nell’interstizio e nella branca discendente sarà più alta tra 1 e 2 che tra 1 e la radice dell’ansa e più alta ancora tra 2 e il gomito dell’ansa, che tra 1 e 2. Si saranno cioè creati due gradienti di pressione osmotica, la quale sarà progressivamente crescente dalla radice al gomito dell’ansa. Si immagini lo stesso processo a tre livelli, 1, 2, 3, nella figura 34.5C e si vedrà che i gradienti di pressione osmotica diventano tre e che l’ipertonia verso il gomito dell’ansa è ulteriormente accresciuta. Adesso si immagini una serie infinita di punti in corrispondenza dei quali i soluti sono estratti lungo l’intera estensione della branca ascendente dell’ansa di Henle (Fig. 34.5D). Sarà facile concludere che la pressione osmotica nel lume della branca discendente e nell’interstizio sarà progressivamente (e cioè non a gradini, come negli
esempi precedenti) crescente dalla radice al gomito dell’ansa, quindi dalla base all’apice della piramide renale. Ciò coincide con quello che si verifica nella realtà. Attraversando l’ansa di Henle, il fluido che vi è contenuto perde acqua (circa il 5% del filtrato glomerulare nella branca discendente) e soluti (sotto forma di sodioioni e cloro-ioni nella branca ascendente) che finiscono per essere riassorbiti. Il riassorbimento è però in proporzione maggiore per i soluti che per l’acqua. Infatti, al termine dell’ansa di Henle, il contenuto del tubulo è ipotonico rispetto al contenuto del tubulo prossimale che, come si è visto, è isotonico rispetto al filtrato glomerulare. Questo fatto non è sorprendente se si riflette che la principale operazione del moltiplicatore controcorrente è creare un’area di ipertonia verso l’apice della piramide renale e quindi all’eccesso di soluti che viene a verificarsi in questa sede deve corrispondere un difetto nel fluido che proviene dall’ansa. Inoltre il riassorbimento di soluti dall’ansa di Henle (nella branca ascendente) è il processo primitivo che determina, in via secondaria, il riassorbimento di acqua (nella branca discendente). Nell’interstizio della piramide renale viene non solo creata un’ipertonia, ma questa deve anche essere mantenuta. Infatti, se in questo territorio circolasse sangue capillare con la stessa pressione osmotica del plasma normale, cioè molto più bassa che nell’interstizio, si avrebbero rapidi scambi di acqua e soluti tra lume capillare ed interstizio, che annullerebbero facilmente l’ipertonia generata dal moltiplicatore controcorrente. La particolare disposizione anatomica dei vasi retti impedisce che questo avvenga. Come è noto, i vasi retti sono diretti verso l’apice della piramide renale, si ripiegano a gomito e ritornano con un decorso parallelo a quello di penetrazione nella
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Aria
Calore Acqua
Soluti
Figura 34.6 - Schema dimostrativo dell’analogia esistente fra la funzione di “scambiatore controcorrente” dei vasi retti ed un impianto termico costituito da un bruciatore, dotato di un tubo di afflusso di aria e di un tubo di efflusso dei prodotti di combustione. La disposizione parallela delle due vie permette di recuperare parte del calore perduto nell’efflusso dei prodotti di combustione. Ugualmente, la disposizione parallela dei vasi retti fa in modo che si conservi l’ipertonia nell’interstizio all’apice della piramide.
piramide. Possono, perciò, comportarsi come uno “scambiatore controcorrente”. La fisiologia ha mutuato questo termine dalla terminologia degli impianti termici. Si immagini un bruciatore con un tubo di deflusso dei prodotti della combustione. Attraverso questa seconda via verrà dispersa una buona parte del calore generato. Se, però, la prima via verrà fatta decorrere parallela alla seconda, parte del calore perduto attraverso il deflusso dei prodotti della combustione verrà ceduto all’aria che alimenta il bruciatore e, quindi, recuperato per il sistema (Fig. 34.6). Lo stesso si può dire per l’ipertonia nel caso della piramide renale e dei vasi retti. In questo caso l’interstizio dell’apice della piramide può essere paragonato al bruciatore, la branca afferente del vaso retto alla via di afflusso dell’aria e la branca efferente alla via di efflusso dei prodotti della combustione. L’ipertonia che andrebbe perduta attraverso la branca efferente del vaso retto è largamente recuperata dalla branca afferente e indirizzata nuovamente verso l’apice della piramide renale. È importante ricordare che, a differenza del “moltiplicatore controcorrente”, rappresentato dall’ansa di Henle, lo “scambiatore controcorrente”, rappresentato dai vasi retti, non genera l’ipertonia nell’interstizio della piramide renale, ma tende a conservarla. I dotti collettori, che fanno seguito ai tubuli distali, attraversano la piramide renale dalla base all’apice, con un decorso parallelo a quello dell’ansa di Henle dei nefroni iuxtamidollari. Il fluido che vi penetra è ridotto di
volume, a causa dell’assorbimento di acqua (circa il 15% di filtrato glomerulare), che segue passivamente il riassorbimento di sali che ha luogo nel tubulo distale (si veda in seguito). La sua pressione osmotica è però invariata rispetto a quella del fluido che ha lasciato l’ansa di Henle; è, cioè, ipotonico. In assenza di ormone antidiuretico la parete del dotto collettore è impermeabile all’acqua. Il fluido che lo attraversa non varierà, perciò, la propria pressione osmotica e verrà emessa urina ipotonica. È questa la base del processo della diluizione delle urine. In presenza di una quantità massima di ormone antidiuretico, la parete del dotto collettore diviene permeabile all’acqua. Il suo contenuto viene perciò ad equilibrarsi con le pressioni osmotiche progressivamente crescenti che si hanno muovendosi dalla base all’apice della piramide renale. Esso acquisisce, perciò, nel tratto terminale, una pressione osmotica prossima a quella dell’interstizio verso l’apice della piramide renale e verrà emessa urina ipertonica. È questa la base del processo della concentrazione delle urine. Una menzione particolare merita la permeabilità all’urea del dotto collettore. Esso è infatti impermeabile a questa sostanza tranne che nel suo tratto terminale, quello che attraversa la parte apicale della piramide renale. In presenza di ormone antidiuretico avviene perciò che il riassorbimento di acqua nel tratto prossimale del dotto collettore comporta un incremento della concentrazione di urea al suo interno. Quando questa soluzio-
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ne concentrata attraversa il tratto distale, che è permeabile all’urea, la sostanza fuoriesce dal dotto collettore e penetra in notevole quantità nell’interstizio. È questa la base di quella particolare composizione di soluti nell’interstizio, verso l’apice della piramide renale, che, come si è visto, è particolarmente ricca di urea, con importanti conseguenze per la fuoriuscita di soluti dalla branca ascendente dell’ansa di Henle (Fig. 34.4). Conseguentemente una dieta ricca di proteine, che comporta una buona produzione di urea, migliora le capacità che il rene ha di concentrare le urine. Altri fattori che influenzano la concentrazione dell’urina • Un aumento del flusso ematico midollare e papillare riduce l’ipertonicità tissutale, asportando soluti osmoticamente attivi. Nell’antidiuresi l’ADH riduce il flusso ematico midollare. • L’ADH, oltre ad aumentare la permeabilità dei dotti collettori all’acqua e all’urea, sembra anche stimolare il meccanismo attivo di trasporto dei soluti nella branca ascendente dell’ansa di Henle. A. Patologia dei meccanismi di concentrazione e diluizione. Per comprendere alcune alterazioni patologiche dei meccanismi renali di concentrazione e diluizione, è conveniente soffermarsi su alcuni aspetti quantitativi del moltiplicatore controcorrente. Si è visto che il processo primario è l’estrazione di soluti dalla branca ascendente dell’ansa di Henle e che l’evento immediatamente seguente è l’equilibramento osmotico tra l’interstizio divenuto ipertonico e il contenuto della branca discendente dell’ansa. Questo equilibramento osmotico è esattamente sovrapponibile a quello che si ha, attraverso una membrana semipermeabile, tra due recipienti contenenti due soluzioni a diversa pressione osmotica. Posto che sia mantenuto costante il volume del recipiente contenente quella tra le due soluzioni che è ipertonica, è intuitivo che la pressione osmotica finale dell’intero sistema all’equilibrio sarà tanto più prossima a quella di questa prima soluzione quanto meno è grande il recipiente contenente la seconda delle due soluzioni, quella ipotonica. Possiamo assimilare questo secondo recipiente alla branca discendente dell’ansa di Henle e considerare il suo volume corrispondente al flusso nell’unità di tempo del fluido che vi è contenuto. Se il flusso è lento, quindi, sarà favorita l’ipertonia nella branca discendente dell’ansa e nell’interstizio; se il flusso è invece veloce l’ipertonia sarà acquisita meno facilmente. Questo fatto ha alcune rilevanti conseguenze fisiopatologiche. Supponiamo che il filtrato glomerulare sia diminuito diffusamente in tutti i nefroni (come può accadere nell’ischemia renale o nella glomerulonefrite acuta), ne conseguirà che il flusso del fluido in ogni nefrone sarà rallentato e l’interstizio della piramide renale acquisirà livelli di ipertonia particolarmente elevati e le urine tenderanno ad essere concentrate. Vediamo ora che cosa accade quando il flusso del fluido in tutti i nefroni è più veloce, come avviene nella cosiddetta “diuresi osmotica”. Questa si ha quando il
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filtrato glomerulare contiene in quantità significativa una qualche sostanza non riassorbibile nei tubuli prossimali (come si verifica dopo l’infusione endovenosa di mannitolo, che viene appunto impiegato come diuretico). In questo caso, infatti, il riassorbimento di sodio ed acqua nel tubulo prossimale è ostacolato dall’aumento della pressione osmotica che tende a verificarsi nel lume del tubulo, a causa dell’incremento della concentrazione della sostanza filtrata non riassorbibile; quindi sodio ed acqua sono riassorbiti di meno nel tubulo prossimale e una quantità maggiore di fluido entra nell’unità di tempo nell’ansa di Henle, l’ipertonia dell’interstizio della piramide renale tende ad essere ridotta ed il rene è menomato nella sua capacità di concentrare le urine. D’altro canto, in queste condizioni, sarà aumentata la velocità di flusso anche nella branca ascendente dell’ansa di Henle. Quindi l’estrazione di una determinata quantità di soluti nell’unità di tempo avverrà a carico di una quantità di soluzione superiore a quella che si ha normalmente, la riduzione di concentrazione in quest’ultima risulterà di grado minore ed il fluido che lascia l’ansa di Henle sarà meno diluito. Perciò quando il flusso entro l’ansa di Henle è più veloce che di norma, il rene avrà non solo una ridotta capacità di concentrare le urine, ma anche di diluirle. Questo fenomeno è rilevante nell’insufficienza renale cronica, come verrà in seguito spiegato. Il meccanismo della concentrazione può anche essere alterato quando i dotti collettori non possono più essere resi permeabili all’acqua dall’ormone antidiuretico, o per carenza dell’ormone (diabete insipido diencefalo ipofisario) o per insensibilità dei dotti collettori all’azione dell’ormone (diabete insipido renale). B. Clinica dei meccanismi di concentrazione e diluizione. Per comprendere le modificazioni a cui l’urina va incontro durante il percorso attraverso l’ansa di Henle, bisogna richiamare il concetto di osmolalità, che indica il numero di particelle osmoticamente attive in una soluzione per kg di solvente (o, nel caso il solvente sia l’acqua, per litro di solvente) (2). L’osmolalità è funzione del numero di particelle in soluzione, indipendentemente dalla loro massa, carica elettrica e dimensioni. L’unità di misura nei liquidi biologici viene espressa in milliosmoli per chilogrammi di acqua (mOsm/kg H2O). L’osmolalità del filtrato glomerulare è normalmente attorno a 300 mOsm/kg H2O e si mantiene tale fino al termine del tubulo prossimale. Anche l’osmolalità del plasma è intorno a 300 mOsm/ kg H2O. Ai fini del discorso che segue, un fluido può essere definito isosmotico quando la sua osmolalità è uguale a quella del plasma; iperosmotico quando è maggiore di essa; iposmotico quando è minore. Il metodo più preciso per la valutazione clinica dei meccanismi di concentrazione e diluizione sarebbe quello della valutazione dell’osmolalità urinaria, i cui valori possono oscillare da un minimo di 30, nel caso in (2) Simile, ma non identico, è il concetto di osmolarità, che indica il numero di particelle osmoticamente attive per un litro di soluzione.
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cui le urine siano molto diluite (diabete insipido o diuresi idrica), ad un massimo di 1400 mOsm/kg, quando le urine sono molto concentrate (disidratazione o iperincrezione di ADH). Solitamente, per comodità, si considera il valore del peso specifico delle urine. Bisogna qui ricordare che l’osmolalità è funzione del numero di molecole di soluto, mentre il peso specifico è dato dal numero di molecole moltiplicato per il peso molecolare di ciascuna. Per misurare il peso specifico si raccolgono le urine in un recipiente di vetro e si pone in esse un densimetro (galleggiante appositamente tarato su cui è indicata una scala graduata corrispondente ai pesi specifici). Se le urine hanno un peso specifico molto basso, il densimetro si immerge fino a che la superficie del liquido raggiunge le tacche più alte della scala. Viceversa, quando il peso specifico è elevato, il densimetro tenderà ad immergersi poco. In condizioni normali, il peso specifico è espresso in numeri superiori a 1000, che è il valore convenzionalmente assunto per l’acqua distillata. In pazienti con urine molto diluite il peso specifico è di circa 1002. In condizioni di massima antidiuresi, cioè quando la concentrazione di soluti è molto elevata, si possono raggiungere valori di 1035. Pertanto quando la funzionalità renale è normale, la capacità di concentrazione e diluizione permette variazioni del peso specifico fra 1002 e 1035. Solitamente le urine prelevate al mattino hanno un peso specifico elevato. In condizioni patologiche, che comportino la presenza di soluti ad elevato peso molecolare (glucosio, proteine) si avrà un peso specifico molto elevato, mentre di poco varierà l’osmolalità, che si mantiene attorno a 300 mOsm/kg. In tal caso bisogna proprio far riferimento alla valutazione dell’osmolalità per avere indicazioni precise sulla capacità di concentrazione e diluizione delle urine. È talvolta necessario raccogliere più campioni di urina nella giornata e misurarne il peso specifico, poiché nella norma esso cambia nel corso delle 24 ore. Quando si riscontrano valori costanti, è molto probabile che sia menomato il meccanismo di concentrazione e diluizione. Esistono alcuni test clinici utili in questo senso.
A. Cenni di anatomia e fisiologia. Il tubulo distale è costituito da una pars recta (che forma la branca ascendente spessa dell’ansa di Henle) e presenta un decorso rettilineo, risalendo fino al corpuscolo di Malpighi, in prossimità del quale il decorso si fa tortuoso. Le cellule della pars recta sono cuboidali; diventano cilindriche e addensate nella zona a contatto dell’arteriola afferente del relativo glomerulo, formando così una placca denominata macula densa. Alla base delle cellule si notano delle invaginazioni della membrana cellulare tra le quali, nel citoplasma, si allineano i mitocondri in modo analogo a quelli delle cellule del tubulo prossimale. Due sono le funzioni principali del tubulo distale. 1. Secrezione di ioni H+ (Fig. 34.7): è un’operazione che avviene anche nel tubulo prossimale. Per ragioni metaboliche si ha normalmente una produzione di acidi nell’organismo e per mantenere costante il pH dei liquidi corporei (7,35-7,45) è necessaria l’eliminazione degli acidi in eccesso. La secrezione degli ioni H+ da parte del tubulo prossimale e distale evita che la riserva dell’organismo di ioni bicarbonato venga depauperata. Come il sodio, anche HCO3– viene liberamente filtrato attraverso il glomerulo e la quantità giornaliera filtrata è nell’uomo di circa 4,5 mEq/l. Tutto il bicarbonato filtrato viene attivamente riassorbito con meccanismo attivo fino al valore plasmatico di 26-28 mM/l che rappresenta la cosiddetta soglia renale del bicarbonato. Oltre tale concentrazione si ha escrezione con le urine. Lo schema rappresenta il meccanismo di riassorbimento dell’HCO3– filtrato. Determinante è, a livello dei tubuli renali, la presenza dell’enzima anidrasi carbonica, che permette la formazione di H2CO3 (acido carbonico) all’interno delle
LUME
N2O + CO2
PARETE H2O + CO2 H2CO3
C
• Prova della concentrazione: si induce un’increzione di ADH non facendo bere il paziente per almeno 12 ore e somministrando un pasto asciutto (pane e formaggio) prima della raccolta delle urine; alternativamente, si inietta intramuscolo ADH e successivamente si raccolgono più campioni di urina, ogni 2 ore circa, misurandone il peso specifico, che deve essere elevato (1030) dopo 7-8 ore dall’inizio della prova. Se le urine non si concentrano, si conclude per un malfunzionamento del meccanismo di concentrazione. • Prova della diluizione: oggi è caduta in disuso. Consiste nel far bere al paziente 1 l di acqua in un quarto d’ora; dopodiché si misura il peso specifico delle urine ogni mezz’ora.
Tubulo distale
HCO–3 + H+
H+ + HCO–3
H+ + HCO–3 Na+ Aldosterone Na+ K+
Figura 34.7 - Secrezione di ioni H+ e K+ a livello del tubulo distale; riassorbimento attivo degli ioni HCO3– e Na+. L’ormone aldosterone favorisce tali scambi.
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cellule e nel tubulo, a partire da H2O e CO2. L’acido carbonico, come tale, è instabile e tende a dissociarsi in H+ + HCO3– (bicarbonato-ioni). Gli ioni H+ vengono secreti dalle cellule nel lume tubulare e, per ogni ione secreto, viene riassorbito un anione HCO3–. Tale bilanciamento è importantissimo per il mantenimento dell’equilibrio acido-base. Nel lume del tubulo gli H+ secreti si combinano con gli anioni HCO3– qui presenti e rigenerano H2O e CO2. L’acqua viene escreta come tale, mentre l’anidride carbonica è riassorbita passivamente attraverso le pareti del tubulo. Comunque può capitare che l’entità della secrezione di H+ superi la capacità dei bicarbonati urinari di neutralizzarli. Una riduzione eccessiva del pH urinario viene impedita anche da altri sistemi tampone (Fig. 34.8). • Sistema dei fosfato-ioni (HPO4– –): nel tubulo prossimale e distale gli H+ si combinano con ioni fosfato bivalenti, ottenendo la formazione di ioni monovalenti (H2PO4–). • Produzione di ammoniaca (NH3): le cellule del tubulo distale producono ammoniaca (NH3) a partire dalla glutammina; essa diffonde passivamente dal citoplasma verso il lume del tubulo e qui, combinandosi con H+, forma ioni ammonio (NH4+), che non possono essere riassorbiti dal tubulo e restano come tali nelle urine definitive. Il risultato di tali reazioni è, in condizioni normali, il mantenimento del pH urinario fra 5 e 8. In particolari condizioni (diete ricche di bicarbonati o altri alcali) le urine possono essere lievemente alcaline. 2. Riassorbimento del sodio: sia nel tubulo prossimale che in quello distale gli ioni H+ sono secreti scambiandoli con ioni Na+, che vengono assorbiti. Gli ioni Na+, nel tubulo distale, sono scambiati non solo con gli ioni H+ ma anche con gli ioni K+. Questi scambi sono favoriti dall’ormone aldosterone.
LUME
PARETE
HPO–4 – + H+ H2PO–4
NH3 NH+4
NH3
+ H+
H+
Figura 34.8 - Sistema tampone dei fosfati e secrezione di ammoniaca nella situazione della acidità urinaria.
ESAMI DI LABORATORIO E STRUMENTALI Esame delle urine È utile non solo per la funzionalità renale, ma anche per valutare il buon funzionamento di altri organi. Consiste nella determinazione di vari parametri: • • • • • • • •
aspetto e colore; pH; peso specifico; ricerca di proteine; ricerca di emoglobina; ricerca di glucosio; ricerca di corpi chetonici; ricerca di bilinogeno e di pigmenti biliari.
È inoltre di fondamentale importanza l’esame microscopico del sedimento urinario. 1. Aspetto. Nella norma le urine si presentano limpide e di colore paglierino. Il colore può essere più o meno intenso a seconda della concentrazione dei soluti. Un aspetto particolare si ha in alcune condizioni patologiche tra cui ricordiamo: a) in presenza di sangue le urine assumono color “lavatura di carne”; b) in presenza di bilirubina hanno color marsala; c) in presenza di protoporfirine mostrano color “vino di Porto” dopo esposizione all’aria. 2. Determinazione del pH. Utile per valutare l’efficienza dei sistemi tampone. 3. Peso specifico. È indice di funzionalità del sistema di concentrazione e diluizione. 4. Ricerca di proteine. Viene effettuata con l’uso di strisce di carta trattate con blu di tetrabromofenolo; a seconda dell’intensità della proteinuria si ha una variazione di colore della cartina, confrontabile con la corrispondente scala colorimetrica. Questo metodo è sensibile in modo particolare all’albumina e non mette in evidenza, per esempio, la proteinuria di Bence-Jones. Quando è particolarmente evidente la presenza di proteine (valori normali fino a 10 mg/100 ml) si ricorre al dosaggio quantitativo, utilizzando il reattivo di Esbach o, meglio ancora, l’acido solfosalicilico al 3%. In condizioni normali la proteinuria giornaliera non supera i 150 mg. Valori al di sotto di 1 g nelle 24 ore possono presentarsi in situazioni patologiche non strettamente renali (stati febbrili, sforzi fisici, gravidanza, ecc.). La proteinuria è significativa se il rapporto tra la concentrazione di proteine e quella di creatinina nelle urine (in mg per 100 ml, ma comunque calcolata con le stesse unità) è superiore a 0,3, o se l’escrezione di proteine nelle 24 ore è più di 300 mg. Una condizione particolare è quella della proteinuria ortostatica posturale, che si verifica per lo più in giovani adolescenti (più spesso di sesso femminile) dopo
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prolungata stazione eretta. In tali soggetti è utile la valutazione della proteinuria in clinostatismo, con raccolta delle urine dopo riposo notturno, poi in ortostatismo, dopo 2 ore di stazione eretta e in circostanze di moderata antidiuresi. Si possono osservare tre situazioni differenti.
6. Ricerca di glucosio. Nella norma è assente. Vi è glicosuria in corso di diabete mellito o in presenza di diabete renale.
• La proteinuria è presente sia in clino sia in ortostatismo: sicuramente è da patologia renale. • La proteinuria c’è solo talvolta in ortostatismo, ma mai in clinostatismo: si tratta di una proteinuria posturale, priva di significato patologico. • La proteinuria è sempre presente in ortostatismo: nel 50% dei casi la biopsia è positiva per una pregressa nefropatia, oppure per un’iniziale nefropatia. Nel caso in cui la proteinuria delle 24 ore superi la quantità di 1 g, siamo in presenza di una sicura nefropatia. 5. Ricerca di emoglobina. Bisogna distinguere due condizioni: • ematuria (presenza di globuli rossi interi nelle urine); • emoglobinuria (presenza di emoglobina disciolta nelle urine). Nel primo caso vi è sicuramente un’alterazione del filtro renale che, normalmente, non permette il passaggio di emazie. La seconda si verifica in corso di anemie emolitiche. Si parla di ematuria microscopica quando nel sedimento urinario sono presenti due o più emazie per campo ad alto ingrandimento (alcuni però adottano un criterio meno stringente e certi arrivano addirittura a porre come limite inferiore la presenza di 10 emazie/mg). Una ematuria microscopica transitoria può osservarsi anche dopo un vigoroso esercizio fisico subito prima della raccolta delle urine, dopo rapporti sessuali, o da contaminazione mestruale. L’esame microscopico del sedimento permette di distinguere le due situazioni. In presenza di un’ematuria è importante stabilire se questa sia di origine renale o di altra derivazione (neoplasie renali o vescicali, nefrolitiasi, malattia cistica del rene, necrosi papillare, difetti metabolici come ipercalciuria o iperuricosuria). È indicativa di un’origine renale dell’ematuria la presenza di cilindri ematici nel sedimento urinario e, in loro assenza, di globuli rossi dismorfici. Alcune incertezze possono restare quando un significativo numero di emazie normali coesiste con quelle dismorfiche. È specifica per l’origine glomerulare dell’ematuria la presenza nel sedimento urinario, osservato con microscopio a contrasto di fase, di una particolare forma di emazie anomale, definite acantociti. Queste hanno un aspetto a ciambella, con attaccate piccole bolle che sono derivate dalla membrana cellulare. Un’acantocitosi superiore al 5% delle emazie urinarie si è rivelata rispettivamente di una sensibilità del 52 e del 73% e di una specificità del 98 e del 100% in due studi che hanno comparato questo dato con quello di biopsie renali.
7. Ricerca di corpi chetonici. Negli adulti sono presenti solo in caso di chetoacidosi diabetica. 8. Ricerca di bilinogeno e pigmenti biliari. La presenza di tali sostanze depone per un’epatopatia o, nel caso del solo bilinogeno, per un’anemia emolitica. Per tutte le determinazioni suddette ci si avvale di metodi colorimetrici analoghi a quello descritto per le proteine. Nel caso in cui sia presente glicosuria è indicato eseguire un dosaggio quantitativo. Esame microscopico del sedimento: normalmente nel sedimento sono visibili cristalli (di acido urico, urati amorfi, ossalati, fosfati) che ci possono dare qualche indicazione, in presenza di calcolosi urinaria, per meglio definire le componenti del calcolo. Cellule di sfaldamento dell’epitelio delle vie urinarie sono presenti in condizioni fisiologiche. Indici di una patologia renale sono: • la presenza di elementi corpuscolati (emazie e leucociti); • la presenza di cilindri, cioè di formazioni che assumono tale aspetto poiché riproducono lo stampo del tubulo renale; sono costituiti per lo più da una glicoproteina secreta dal tubulo (uromucoide). In base all’aspetto si distinguono vari tipi di cilindri: • • • • •
ialini: costituiti solo da uromucoide; cerei: costituiti da proteine e lipidi; epiteliali: contenenti cellule dell’epitelio tubulare; leucocitari: contenenti granulociti; ematici: contenenti emazie intere, patognomonici della glomerulonefrite; • granulosi: solitamente derivati da degenerazione di cilindri ricoperti da cellule (epiteliali, leucocitari od ematici).
Esami batteriologici Nei casi di infezione delle vie urinarie, la più importante procedura diagnostica consiste nella caratterizzazione dell’agente patogeno e nella conta dei batteri nelle urine. A questo scopo le urine vanno raccolte quanto più asetticamente è possibile, utilizzando il cosiddetto campione del mitto intermedio (scartando cioè le urine emesse per prime e per ultime durante la minzione), raccogliendole in un recipiente sterile e conservandole a freddo fino al momento dell’analisi. Una grossolana stima quantitativa può essere fatta con la colorazione di Gram sul sedimento urinario. In questo modo è possibile evidenziare la presenza di batteri nelle urine fresche, quando la batteriuria è superiore a 100.000 colonie/mm. È possibile anche effettuare la coltura di esse in appositi terreni e procedere quindi alla conta delle colonie
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batteriche che si sviluppano: l’urinocoltura si considera non significativa quando il numero di colonie è inferiore a 10.000, dubbia fra 10.000 e 100.000, sicuramente positiva per una conta superiore a 100.000/mm. I differenti tipi di terreni colturali disponibili per la semina dei campioni da testare permettono di identificare con precisione il genere a cui appartiene l’agente patogeno. L’esame viene completato con l’antibiogramma: le colonie batteriche vengono cimentate su piastre contenenti differenti antibiotici; in questo modo è possibile valutare, almeno in vitro, la sensibilità del microrganismo isolato a vari antibiotici che potrebbero essere impiegati in vivo.
cati con tecnezio99 o il citrato di gallio67 (che si fissa intensamente nel caso di lesioni a carattere infiammatorio). Il tracciante raggiunge il rene per via vascolare e si fissa al parenchima. La metodica ci permette di avere notizie sulle dimensioni, la forma, la posizione dei reni e sulla presenza di eventuali masse nel contesto del parenchima renale. Nel caso di tumori renali, se la massa è vascolarizzata, sarà evidenziata da maggior fissazione del tracciante; se la neoplasia è invece scarsamente vascolarizzata o presenta nel suo contesto aree necrotiche, sarà rappresentata da un’immagine scintigrafica lacunare. Qualora ci si trovi di fronte a formazioni cistiche a contenuto liquido (ascessi o lesioni tubercolari) si avrà ugualmente un’ipocaptazione.
Esami strumentali
Il radionefrogramma è un test ampiamente utilizzato per lo studio dell’ipertensione reno-vascolare. L’indagine viene effettuata mediante iniezione endovenosa di radioippurano (sostanza che viene sia filtrata dal glomerulo che secreta a livello dei tubuli). È utile per una valutazione della funzionalità dell’emuntorio renale. Ha il vantaggio di poter essere utilizzata anche con valori di azotemia superiori a 50 mg/dl e di 1,7 mg/dl di creatininemia, in quanto, anche in queste condizioni, si ottiene un risultato attendibile nel 95% dei casi. Il tracciante, una volta iniettato, raggiunge il rene in pochi minuti. Qui vengono registrate, in tempi successivi, tre fasi, corrispondenti a tre segmenti sulla curva di rappresentazione nel grafico, in cui si pone in ascissa il tempo e in ordinata la percentuale di radioattività (Fig. 34.9):
Al giorno d’oggi sono disponibili molteplici tecniche di indagine (ecografiche, scintigrafiche, radiologiche, ecc.) che offrono al clinico un supporto indispensabile per un orientamento diagnostico. 1. Ecografia. L’ecodiagnostica è una tecnica di indagine che permette di ottenere immagini relative al distretto studiato sfruttando la riflessione di un fascio di ultrasuoni in corrispondenza dell’interfaccia tra tessuti di densità differente. I segnali acustici ottenuti dal passaggio del fascio ultrasonico attraverso i tessuti vengono registrati da una sonda nella quale avviene la conversione del segnale acustico in segnale elettrico e, quindi, in immagini. L’ecografia ha il vantaggio di essere una tecnica non invasiva, assolutamente innocua per il paziente. Dà la possibilità di determinare con precisione la sede e le dimensioni dei reni, la presenza di formazioni occupanti spazio e la loro natura liquida o solida. Così, per esempio, un ascesso perirenale è rappresentato come un’area ecopriva che circonda il rene; l’idronefrosi si presenta come una dilatazione del sistema collettore, che è anecogeno: una neoformazione solida renale crea echi intensi, mentre una formazione liquida è anecogena. L’esame permette inoltre di definire con sufficiente precisione i limiti fra una lesione e il parenchima circostante. Infine, può essere utile per la ricerca di calcificazioni nel contesto del parenchima renale (rene a mastice) o delle vie escretrici (calcolosi). 2. Scintigrafia. È una tecnica che permette, mediante l’iniezione endovenosa di traccianti radioattivi, di ottenere informazioni morfologiche e funzionali sull’emuntorio renale. Si distinguono due procedimenti: • scintigrafia renale statica (indicazioni morfologiche); • scintigrafia renale sequenziale o radionefrogramma (indicazioni funzionali). Per l’esecuzione della scintigrafia statica si usano varie molecole a cui si fissano i traccianti radioattivi, tra cui ricordiamo il glucoeptonato e il ferroascorbato mar-
• segmento I: fase vascolare; • segmento II: fase di captazione parenchimale; • segmento III: fase escretoria.
II III
I
Figura 34.9 - Scintigrafia renale sequenziale. La sostanza radioattiva, iniettata endovena, raggiunge il rene in pochi minuti. La gammacamera registra la captazione del tracciante a livello del rene. Le due curve che si ottengono costituiscono i nefrogrammi separati di ogni rene. Si descrivono tre segmenti principali, corrispondenti alla fase vascolare (I), alla captazione parenchimale (II), alla fase escretoria (III).
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Nel caso di un ritardo dell’arrivo del tracciante al rene, a causa di un’alterazione della vascolarizzazione (stenosi dell’arteria renale o altre anomalie) si avrà una curva ascendente meno ripida. La seconda fase permette di valutare se il radioippurano viene normalmente filtrato e secreto dal parenchima renale. La terza fase evidenzia situazioni di ostacolo nell’escrezione urinaria, che si tradurranno, nel grafico, in un ritardo della fase discendente della curva. L’esame si svolge in circa 20 min. Fornisce dati sulla funzionalità dei due distretti renali (che vengono valutati comparativamente) e permette di discriminare quale delle tre fasi è compromessa, onde procedere allo studio del caso con tecniche mirate (per es., l’angiografia, nella patologia vascolare).
Nell’ambito dell’esame urografico è possibile utilizzare la tecnica del cosiddetto wash-out, impiegata per lo studio dei pazienti ipertesi, per ricercare eventuali condizioni di ritardo nella perfusione renale (per es., in caso di stenosi di un’arteria renale). Si procede come per l’urografia e, dopo l’iniezione del contrasto iodato, si scattano radiogrammi minutati (cioè dopo 1, 3, 5, 7, ecc. min). Il rene ischemico elimina con ritardo rispetto al rene controlaterale (inoltre, di solito, è più piccolo e concentra di più il mezzo di contrasto). Se si somministra un potente diuretico (furosemide) si ottiene un lavaggio dei reni, che avverrà con maggior ritardo in presenza di stenosi dell’arteria afferente. Per conferma sarà comunque utile eseguire un’arteriografia (si veda in seguito). d) Pielografia ascendente: richiede l’introduzione di un catetere uretrale, che può essere spinto fino al bacinetto del lato da indagare. Attraverso il catetere viene iniettato il mezzo di contrasto, in modo da riempire bacinetto e calici. Si usano composti iodati idrosolubili. È utile per ottenere un’immagine fedele delle cavità escretrici, con caratteristiche di forma e grandezza. e) Arteriografia renale: è l’indagine più precisa per la visualizzazione dei vasi sanguigni renali. Viene solitamente eseguita mediante puntura dell’arteria femorale all’inguine, introducendo apposito catetere che viene fatto risalire lungo l’aorta, fino a che l’estremità del catetere si trova subito a monte dell’imbocco delle arterie renali (il procedimento viene seguito in radioscopia). Attraverso il catetere vengono iniettati 40-60 ml di mezzo di contrasto iodato. Vengono scattati radiogrammi successivi, mediante seriografi che permettono di ottenere 2-3 lastre/sec. L’indagine permette di studiare selettivamente un solo distretto renale, incannulando direttamente l’arteria renale del lato da esaminare. Vengono in tal modo successivamente visualizzati il circolo arterioso, capillare e venoso, dando la possibilità di discriminare fra alcune condizioni patologiche (cisti, tumori, malattie vascolari) ciascuna caratterizzata da una diversa modalità di vascolarizzazione. f) Angiografia digitale (numerica): è una tecnica di recente introduzione. Consiste in un particolare tipo di angiografia che si basa sul principio di realizzare una soppressione di immagini parassite (dovute alla sovrapposizione di strutture ossee e parti molli). A tale scopo, le immagini reali vengono tradotte in immagini cosiddette “numeriche”, grazie ad un particolare computer (convertitore analogico numerico). Pertanto la diversa intensità di ciascun raggio del fascio X emergente dai tessuti (con differente densità) verrà tradotta in un numero. In questo modo è possibile selezionare le immagini numeriche corrispondenti alle aree opacizzate dal mezzo di contrasto (che saranno isodense). L’esame ha un potere risolutivo sovrapponibile a quello dell’arteriografia, richiede l’introduzione di un minor quantitativo di mezzo di contrasto e, talora, quando si
3. Esami radiologici a) Esame diretto dell’addome: per la sua esecuzione non si usano mezzi di contrasto. Ci può dare indicazioni su: presenza dei reni, loro sede e dimensioni, forma ed orientamento di essi, calcificazioni nel contesto del parenchima renale e delle vie urinarie, o extrarenali (calcoli, processi tubercolari, calcificazioni nell’ambito di lesioni neoplastiche, ecc.). b) Stratigrafia delle logge renali: consiste in una serie di radiogrammi scattati focalizzando successivamente piani sempre più profondi (in senso postero-anteriore) delle logge renali, per poter avere informazioni più precise circa eventuali lesioni presenti in tale sede e la loro estensione. c) Pielografia di eliminazione (o urografia): è l’esame più importante per lo studio delle cavità renali e degli ureteri. Viene effettuata mediante iniezione endovenosa di mezzo di contrasto contenente iodio, che possiede la prerogativa di essere esclusivamente eliminato attraverso il filtro renale, in concentrazione sufficiente a dare un’immagine di riempimento opaco delle cavità renali, degli ureteri e della vescica. Si esegue una radiografia preliminare, subito dopo l’iniezione di contrasto. Radiogrammi successivi vengono scattati a diversi intervalli di tempo. In condizioni normali, l’indagine completa si svolge nell’arco di 4560 min. Nei radiogrammi eseguiti durante l’eliminazione del mezzo iodato attraverso il parenchima, si ottiene il cosiddetto “effetto nefrografico” di visualizzazione del parenchima (dovuto verosimilmente all’accumulo di esso nel lume dei tubuli). L’urografia è un’indagine eminentemente funzionale e permette di indagare la modalità di secrezione (maggiore o minore concentrazione, rapidità di eliminazione nelle diverse parti dell’emuntorio renale) e le condizioni di riempimento delle cavità pieliche, la capacità di contrarsi degli ureteri, l’eventuale presenza di ostacoli lungo il loro decorso; possono essere visualizzate inoltre alterazioni delle pareti e del contenuto vescicale. Bisogna tuttavia ricordare che l’indagine è controindicata nei casi di mieloma multiplo e di malattia di Waldenström.
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vogliano informazioni sul circolo intraparenchimale, è possibile utilizzare la via venosa. Presenta le stesse indicazioni dell’arteriografia. g) Tomografia assiale computerizzata (TC): si tratta di una tecnica radiologica computerizzata che permette di ottenere immagini seriate di sezioni trasversali e longitudinali del corpo, distanziate tra loro di 2 cm, con visualizzazione degli organi contenuti nel distretto esaminato. Nel caso dei reni si ottengono informazioni precise sulla morfologia e sui rapporti che contraggono con gli organi contigui. Lo stesso mezzo di contrasto utilizzato per l’urografia viene iniettato per opacizzare le cavità renali e le vie escretrici. Un mezzo iodato somministrato per via orale permette di evidenziare le anse intestinali. Talora una sovrapposizione di sezioni può essere necessaria per la ricerca di piccole lesioni. Nel caso della patologia renale, numerose sono le indicazioni per l’esecuzione della TC. Valutazione di masse renali: • cisti, tumori, masse infiammatorie, ematomi e masse vascolari, pseudotumori e idronefrosi localizzata; • ricerca di neoplasie occulte; • staging di tumori. Valutazione di processi patologici iuxtarenali: • anomalie di posizione dei reni o dislocamento di essi per presenza di masse adiacenti (per es., tumori retroperitoneali); • anomalie di sviluppo (per es., l’agenesia).
MALATTIE DEL RENE E DELLE VIE URINARIE
Studio dei reni senza mezzo di contrasto, nel caso di pazienti allergici: • presenza di idronefrosi o masse renali; • valutazione delle dimensioni dei reni ed eventuale presenza di calcificazioni. Valutazione nel caso di dilatazioni delle vie escretrici per presenza di ostruzioni (neoformazione o calcoli) lungo il loro percorso: • controllo di reni trapiantati; • controllo preliminare nel caso si debba eseguire una biopsia renale o una nefrostomia.
Biopsia renale La biopsia renale viene eseguita per via transcutanea con ago bioptico (Vim-Silverman o Tru-Cut); il materiale che si ottiene è un frammento di parenchima renale lungo 20 mm con diametro 2 mm che può essere sezionato in diverse parti: una fissata in glutaraldeide, per l’esame ultrastrutturale, una congelata per lo studio immunoistochimico con immunofluorescenza diretta (IF) e una fissata in formalina ed inclusa in paraffina per l’esame al microscopio ottico; vengono allestite di solito quattro sezioni, colorate poi con ematossilina-eosina, PAS, tricromica di Masson, impregnazione argentica; ulteriori sezioni possono essere colorate per l’amiloide, le fibre elastiche, la fibrina. In IF per uso diagnostico si utilizzano antisieri per IgG, IgA, IgM, frazioni C3, C4, C1q del complemento, fibrinogeno.
C A P I T O L O
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INSUFFICIENZA RENALE G. COLOMBO
L’insufficienza renale è una condizione caratterizzata da importante depressione delle capacità di filtrazione glomerulare dei reni e da una conseguente menomazione dell’efficienza con la quale questi organi preservano l’omeostasi dell’organismo. Sul piano fisiopatologico si distinguono un’insufficienza renale acuta ed un’insufficienza renale cronica. La prima si instaura tanto rapidamente da provocare sintomi e segni caratteristici nell’arco di pochi giorni. La seconda si sviluppa invece molto lentamente nel tempo (mesi, anni) e perciò consente la messa in opera di una serie di meccanismi di compenso. Il quadro clinico risulta modificato perché è influenzato dalle conseguenze di questi meccanismi di compenso (che, almeno inizialmente, costituiscono l’elemento fisiopatologico dominante).
INSUFFICIENZA RENALE ACUTA Con il termine di insufficienza renale acuta (IRA) si indica una sindrome clinica dipendente da un rapido deterioramento della funzione renale, tale da provocare una drastica riduzione della filtrazione glomerulare, con accumulo di scorie azotate nell’organismo e conseguente tossicità sistemica. A. Eziopatogenesi. La IRA dipende da una pluralità di meccanismi che sono illustrati nella tabella 35.1. Il meccanismo prerenale è dipendente da una critica riduzione della perfusione glomerulare e della pressione di filtrazione in questa sede. Tutte le cause di shock possono determinarlo (Cap. 2). Il meccanismo postrenale è connesso con un aumento della pressione nella capsula di Bowman, così che la differenza di pressione tra i capillari glomerulari e l’interno della capsula è drasticamente ridotta, con un risultato analogo a quanto descritto per il meccanismo precedente. I meccanismi renali sono molteplici e complessi. Tra le lesioni glomerulari e/o vascolari un posto di
rilievo hanno forme particolarmente gravi di glomerulonefriti acute. Nella glomerulonefrite acuta si ha un interessamento di tutti i nefroni e conseguente riduzione del filtrato glomerulare in ciascuno di essi, anche se non è comune che tale processo possa condurre ad una vera e propria insufficienza renale acuta. La necrosi corticale si verifica qualora vi sia un’ischemia, più o meno estesa, del parenchima renale dovuta ad embolizzazione multipla, od occlusioni trombotiche diffuse nei vasi arteriosi dei due reni, tali da provocare la distruzione della maggior parte dei glomeruli, con conseguente impossibilità di effettuare un’adeguata funzione di filtrazione. Ciò si può verificare anche nei gravi stati di shock per l’estremo grado di ischemia renale. Ricordiamo poi che le reazioni responsabili del rigetto di trapianto provocano una necrosi corticale per trombizzazione dei vasi sanguigni. La necrosi arteriolare è dovuta ad ostruzione a livello dell’arteriola afferente al glomerulo, con conseguente arresto del flusso plasmatico nel glomerulo. Si può verificare in casi di ipertensione maligna, una condizione che, tuttavia, è più facilmente responsabile di insufficienza renale cronica. Si può verificare anche in corso di vasculiti e di porpora trombotica trombocitopenica. Tra le lesioni tubulo-interstiziali vanno ricordate le nefriti interstiziali e la necrosi papillare, che può aversi in coincidenza con gravi episodi pielonefritici, specialmente nei diabetici e in soggetti che abusano di farmaci analgesici, particolarmente di fenacetina (Cap. 37). Anche la diffusa occlusione tubulare per precipitazione di cristalli può ridurre criticamente il filtrato glomerulare arrestando il flusso tubulare. La precipitazione intratubulare di farmaci (per es., sulfamidici) è oggi rara, mentre molto più importante è quella di acido urico in presenza delle iperuricemie estreme che possono osservarsi in pazienti con malattie neoplastiche (particolarmente leucemie) sottoposti a terapie citotossiche. La precipitazione intratubulare di proteine può verificarsi in pazienti con mieloma e pro-
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672 Tabella 35.1 - Cause di insufficienza renale acuta. Prerenali • Riduzione assoluta del volume sanguigno effettivo – Emorragie, perdita gastrointestinale di fluidi (da diarrea, vomito o suzione nasogastrica), perdite renali (da diuretici o da glicosuria), da traumi, interventi chirurgici o ustioni • Riduzione relativa del volume sanguigno effettivo – Sepsi, insufficienza epatica, shock anafilattico, farmaci vasodilatatori, sindrome nefrosica, anestetici • Insufficienza miocardica – Infarto, embolia polmonare, scompenso cardiaco congestizio, tamponamento cardiaco • Menomazione dei meccanismi di autoregolazione renale – Somministrazione di farmaci inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina in pazienti con stenosi delle arterie renali • Occlusione di arterie o vene renali – Trombosi, tromboembolia, grave stenosi provocata da aterosclerosi o aneurismi dissecanti Renali • Lesioni glomerulari o vascolari – Glomerulonefrite acuta, glomerulonefrite rapidamente progressiva, tossiemia della gravidanza, sclerodermia, ipertensione maligna, poliarterite microscopica, porpora trombotica trombocitopenica, necrosi corticale (infarti renali bilaterali, rigetto di trapianto iperacuto) • Lesioni tubulo-interstiziali – Nefriti interstiziali da farmaci (per es., meticillina), da infezioni o lesioni da neoplasie (linfomi, leucemie, sarcoidosi), da necrosi della papilla (abuso di analgesici, diabete) • Necrosi tubulare acuta – Da ischemia (principalmente come conseguenza di eventi prerenali), da antibiotici nefrotossici (per es., gentamicina o kanamicina), da metalli pesanti (mercurio o cisplatino), da solventi (tetracloruro di carbonio, glicole etilenico), da agenti radiografici di contrasto, da cristalli intratubulari (acido urico, ossalati), da proteine in corso di mieloma multiplo, da pigmenti intratubulari (emoglobina, mioglobina) Postrenali • Ostruzione alta – Brusca ostruzione ureterale di uno o entrambi i reni • Ostruzione bassa – Brusca ostruzione allo svuotamento vescicale (più comune, per es., ipertrofia prostatica)
teinuria di Bence-Jones quando le urine sono concentrate per disidratazione. La condizione più interessante, per la sua frequenza e per la sua reversibilità, è la necrosi tubulare acuta. Parleremo più diffusamente, nel capitolo, dei fattori che possono indurre questa importante condizione morbosa e dei meccanismi fisiopatologici che, attraverso un danno tubulare, provocano una così grave riduzione del filtrato glomerulare. Occorre qui ricordare che la necrosi tubulare acuta si instaura senza che siano evidenti cause prerenali o postrenali, o malattie glomerulari o tubulo-interstiziali.
MALATTIE DEL RENE E DELLE VIE URINARIE
B. Fisiopatologia. Nella IRA il filtrato glomerulare si riduce drasticamente, spesso a valori inferiori all’1% del suo valore normale. Se il riassorbimento tubulare di acqua e soluti ha luogo come in condizioni normali (oltre il 99% dell’acqua e circa il 99,5% del sodio riassorbiti) è inevitabile che si abbia un’estrema oliguria e frequentemente anuria (per oliguria si intende un volume urinario nelle 24 ore inferiore a 400 ml; con il termine di anuria si indica non solamente la soppressione totale della diuresi, ma anche un volume urinario nelle 24 ore inferiore a 100 ml). Questo, in effetti, avviene quando la IRA è dovuta a un meccanismo prerenale o a lesioni glomerulari e/o vascolari ed anzi, quando il meccanismo è prerenale, il riassorbimento tubulare di sodio è esaltato, dato che l’organismo tende a preservare la volemia attraverso la produzione di renina e di angiotensina II a cui consegue l’incremento della secrezione di aldosterone. Dato che il rene compie delle normali operazioni su un filtrato glomerulare ridotto, in queste circostanze le urine potranno essere concentrate (non è detto che lo siano sempre). Nel caso di lesioni tubulo-interstiziali, ma soprattutto in corso di necrosi tubulare acuta, la frazione del filtrato glomerulare che è riassorbita nei tubuli è diminuita rispetto alla norma. Così, per esempio, un paziente con necrosi tubulare acuta può riassorbire solo il 90-95% del sodio passato nel filtrato glomerulare e l’80-90% dell’acqua. Non è chiaro perché questo avviene: verosimilmente potrebbe essere il risultato del danneggiamento tubulare che è proprio della necrosi tubulare acuta. Comunque la conseguenza è che l’oliguria e l’anuria potranno essere osservate nella necrosi tubulare acuta, ma se il filtrato glomerulare non è diminuito a valori estremi (per es., è intorno a 3-5 ml/min), ed il riassorbimento tubulare di acqua avviene meno che di norma (per es., solo per l’80%), l’oliguria potrà anche mancare e la diuresi potrà apparire all’incirca normale. In conclusione, la IRA da necrosi tubulare non è sempre e necessariamente oligurica o anurica. Per le ragioni già esposte a proposito dell’insufficienza renale cronica, quando il riassorbimento tubulare è diminuito, l’aumentato flusso di urina per singolo nefrone farà sì che l’osmolalità urinaria sia molto prossima a quella del filtrato glomerulare. La riduzione del riassorbimento tubulare di acqua e di sodio nella necrosi tubulare acuta spiega anche un altro fenomeno. Infatti, nella fase di regressione di questa condizione morbosa si osserva comunemente poliuria. Evidentemente, il recupero delle normali funzioni tubulari avviene con ritardo rispetto al ripristino del filtrato glomerulare. In tutte le forme di IRA le concentrazioni plasmatiche di urea e di creatinina aumentano progressivamente fino a raggiungere livelli tali da fare in modo che la produzione di queste sostanze pareggi la loro eliminazione. Se il riassorbimento frazionale di sodio che ha luogo nei tubuli è diminuito, la ritenzione di questo elemento avverrà meno velocemente. Tuttavia, è proprio nella IRA che, nello spazio di pochi giorni, alla riten-
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35 - INSUFFICIENZA RENALE
zione nell’organismo di urea e di scorie azotate, si aggiungono anche la ritenzione di sodio, di potassio, di fosfati, di urati e l’acidosi metabolica. C. Clinica. Quando è possibile riconoscere l’evento scatenante la IRA il suo quadro clinico può manifestarsi con la successione di tre fasi: • fase iniziale; • fase di mantenimento; • fase di recupero (nei casi, come la necrosi tubulare acuta, nei quali la IRA sia reversibile). La fase iniziale è caratterizzata per lo più da oliguria o anuria (ma nel 25-50% dei casi di necrosi tubulare acuta la diuresi quotidiana è superiore a 800 ml per le ragioni che abbiamo già spiegato). I sintomi e i segni dipendenti da alterazioni dell’omeostasi dell’organismo non sono immediatamente evidenti, anche se dal punto di vista degli esami di laboratorio, è possibile dimostrare un progressivo aumento della concentrazione di urea nel plasma e della creatininemia. La fase di mantenimento corrisponde all’espressione conclamata dei sintomi e segni. Le manifestazioni cliniche più evidenti saranno a carico dell’apparato digerente, dell’apparato circolatorio e del sistema nervoso. A carico dell’apparato digerente si notano anoressia, nausea, vomito, dolori addominali diffusi. Nel 10-30% dei pazienti si può avere un sanguinamento gastroenterico deteminato da vari fattori: la formazione di ulcere gastriche acute da stress (per lo stesso evento morboso che ha determinato la IRA) combinata con il difetto dell’emostasi che verrà meglio descritto in seguito, a proposito dell’insufficienza renale cronica. A carico dell’apparato circolatorio le manifestazioni prevalenti sono dovute alla ritenzione di sodio e di potassio. La ritenzione di sodio determina ipertensione e, se l’apporto esogeno di sodio ed acqua non è giudiziosamente ridotto, sono facili il sovraccarico ventricolare sinistro e l’edema polmonare. Possono svilupparsi anche edemi periferici nel quadro di uno scompenso globale congestizio di cuore. L’iperpotassiemia determina alterazioni elettrocardiografiche, che verranno descritte a proposito dell’insufficienza renale cronica e, nei casi più gravi, può essere causa di morte provocando arresto cardiaco. A carico del sistema nervoso le manifestazioni possono essere provocate dalla ritenzione di urea e di cataboliti azotati, ma anche dall’acidosi metabolica e dall’iponatremia in caso di eccessiva somministrazione di acqua. I pazienti possono presentare sopore, confusione, disorientamento, agitazione psicomotoria, scosse muscolari di tipo mioclonico. Gli esami di laboratorio dimostrano un marcato aumento dell’urea nel plasma e della creatinina nel siero. Solitamente queste due sostanze aumentano proporzionalmente ma, nei casi di IRA conseguente a lesioni muscolari con mioglobinuria, la creatininemia è aumentata in misura proporzionalmente maggiore. La natremia è spesso normale, anche quando vi è un eccesso di sodio nell’organismo, perché è comune che in queste circostanze sia ritenuta
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anche acqua in misura corrispondente. La natremia è diminuita quando l’apporto di acqua è eccessivo. La potassiemia è comunemente aumentata, per lo più con valori superiori a 6-6,5 mEq/l. I bicarbonati plasmatici sono decisamente diminuiti, fino a valori di 1-2 mEq/l. Si notano inoltre iperuricemia, iperfosfatemia (e conseguentemente ipocalcemia) e ipermagnesiemia. È comune l’esistenza di un’anemia normocitica e normocromica, dovuta non a difetto di produzione di eritropoietina, ma a emodiluizione, nei casi nei quali vi è una ritenzione di acqua e di sodio nell’organismo, e a una diminuita sopravvivenza delle emazie nell’ambiente plasmatico uremico. In casi di IRA reversibile, ossia nella necrosi tubulare acuta, il periodo oligurico (o più esattamente di marcata riduzione del filtrato glomerulare dato che, come si è visto, l’oliguria può mancare), che corrisponde alle fasi iniziali e di mantenimento, dura in media da 10 a 14 giorni, ma può anche essere ridotto a poche ore (e allora i sintomi e segni uremici nemmeno si verificano) o estendersi fino a 6-8 settimane. Trascorso questo periodo si verifica la fase di recupero che, sul piano clinico, è caratterizzata da un aumento della diuresi fino a una franca poliuria e da un’attenuazione e regressione dei sintomi e segni uremici. Anche gli esami di laboratorio progressivamente si normalizzano. La fase di recupero dura da pochi giorni a circa un mese ed è seguita spesso da completo recupero della funzione renale. Tuttavia, in alcuni casi di necrosi tubulare acuta può residuare un difetto permanente del filtrato glomerulare o di qualche funzione tubulare. D. Diagnosi. Nella IRA è importante riconoscere il meccanismo che l’ha determinata, soprattutto è importante accertare se è in atto una necrosi tubulare acuta, perché questa condizione è reversibile. Un primo problema può essere la distinzione di una necrosi tubulare acuta da una IRA da meccanismo prerenale o da esistenza di una sofferenza glomerulare (da glomerulonefrite o da alterazioni vascolari). Si è visto che in questo secondo caso il riassorbimento frazionale di acqua e di sodio che ha luogo nei tubuli è normale o aumentato, mentre nella necrosi tubulare acuta è diminuito. Ne consegue che il sodio sarà pressoché assente nelle urine dei pazienti con IRA per cause prerenali o glomerulari, mentre sarà presente in concentrazioni superiori a 20 mEq/l (più spesso tra 40 e 90 mEq/l) in pazienti con necrosi tubulare acuta. Questa differenza nel riassorbimento tubulare ha anche altre conseguenze. Infatti le molecole che non sono né escrete né riassorbite nei tubuli come la creatinina (e in parte l’urea) si troveranno nelle urine definitive tanto più concentrate quanto maggiore nei tubuli è il riassorbimento frazionale di acqua. Se il volume quotidiano delle urine è un centesimo del filtrato glomerulare, la creatinina nelle urine sarà cento volte più concentrata che nel plasma (ove la concentrazione è uguale a quella del filtrato glomerulare). Se il volume quotidiano delle urine è una qualsiasi altra frazione l/x del filtrato glomerulare, la creatinina nelle urine sarà sempre x volte più concentrata che nel plasma. Questo signifi-
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ca che dal rapporto tra concentrazione di creatinina in un campione di urine delle 24 ore (U) e nel plasma (P) si può stabilire quale frazione dell’acqua passata nel filtrato glomerulare è stata riassorbita in quel giorno nei tubuli. È chiaro che nella IRA da meccanismo prerenale o glomerulare, nella quale il riassorbimento tubulare frazionale dell’acqua è elevato, il rapporto tra concentrazioni di creatinina nelle urine e nel plasma (U/P) sarà elevato, sempre superiore a 10 e per lo più ben oltre 20. Al contrario nella necrosi tubulare acuta, che è accompagnata da una riduzione del riassorbimento tubulare frazionale dell’acqua, il rappporto U/P verrà trovato di solito tra 5 e 10. Anche il peso specifico delle urine può essere di qualche aiuto. Si è visto che nella IRA da meccanismi prerenali o glomerulari le urine possono (anche se non necessariamente) essere concentrate, mentre nella necrosi tubulare acuta hanno di solito osmolalità prossima a quella del filtrato glomerulare. Questo significa che trovare un peso specifico delle urine intorno a 1010-1012 non è discriminante, ma che un peso specifico elevato delle urine esclude la necrosi tubulare acuta. L’esame del sedimento urinario può essere pure di notevole aiuto nella diagnosi. Se sono presenti pochi elementi figurati, o soltanto cilindri ialini, è molto probabile che si tratti di una forma di IRA prerenale o di un’uropatia ostruttiva; nel caso di necrosi tubulare acuta ritroviamo cilindri granulosi pigmentati, più raramente ematici, e molte cellule dell’epitelio tubulare; la presenza di cilindri ematici è suggestiva di una patologia glomerulare o vascolare di tipo infiammatorio; se osserviamo nel sedimento numerosi leucociti, talora raggruppati a formare dei cilindri, la diagnosi più probabile è di pielonefrite acuta diffusa o di necrosi della papilla; il riscontro di cilindri granuloso-pigmentati con emoglobina nelle urine chimicamente positiva, in assenza di emazie visibili nel sedimento, è suggestiva per emoglobinuria o mioglobinuria; se osserviamo un gran numero di cristalli di acido urico, si tratta verosimilmente di una nefropatia acuta da urati. E. Decorso e prognosi. Il decorso e la prognosi dipendono dalla IRA. In tutte le forme, il quadro clinico uremico conclamato è molto pericoloso ed era una frequente causa di morte prima dell’avvento delle terapie dialitiche. Anche oggi notevoli pericoli possono derivare dalle complicanze infettive che si verificano nel 30-70% dei casi e che interessano soprattutto l’apparato respiratorio. F. Terapia. Nella IRA da meccanismi prerenali e postrenali la terapia deve essere indirizzata principalmente alla correzione delle cause che sono in atto nei singoli casi. Nel paziente con IRA deve essere mantenuto un accurato equilibrio per quanto riguarda l’apporto di acqua e di sodio, in modo che l’assunzione non superi le perdite. Occorre inoltre impedire l’eccessivo aumento della potassiemia sottraendo dall’organismo questo elemento grazie alla somministrazione orale o per clistere di resine scambiatrici di cationi.
MALATTIE DEL RENE E DELLE VIE URINARIE
La conversione dell’oliguria a uno stato non oligurico sembra una misura terapeutica utile. A questo proposito è molto importante il riconoscimento dei meccanismi dell’IRA, cioè se sia prerenale, renale o postrenale. Teoricamente, la somministrazione di fluidi sembrerebbe appropriata solo nell’IRA prerenale. Tuttavia, provare a vedere se la diuresi si incrementa con la somministrazione di fluidi è appropriato in tutti i pazienti che non mostrano segni di sovraccarico di volume. Se non vi è un’adeguata risposta alla somministrazione di fluidi è giustificato il ricorso a diuretici dell’ansa. Una dose suggerita per la furosemide è di 100-200 mg per infusione endovenosa. Alcuni autori hanno suggerito l’infusione continua di furosemide alla dose di 10-40 mg per ora. Se la diuresi non si incrementa entro una o due ore, la dose di furosemide può essere raddoppiata e si può aggiungere un diuretico tiazidico. Va ricordato che la somministrazione prolungata di alte dosi endovena di furosemide può comportare un danneggiamento dell’udito. Anche l’infusione di dopamina è stata considerata come una misura terapeutica utile in corso di IRA con oliguria. La dopamina, infatti, è un vasodilatatore renale selettivo che aumenta la natriuresi. Questo farmaco dovrebbe agire incrementando la diuresi entro le prime sei ore di trattamento. Se la diuresi non aumenta in questo lasso di tempo, l’infusione di dopamina dovrebbe essere sospesa. Un’adeguata regolazione della dieta può ridurre la formazione di urea e altre sostanze tossiche nell’organismo. La misura fondamentale è però la terapia dialitica (emodialisi o dialisi peritoneale), che ha notevolmente migliorato le prospettive di questa forma morbosa.
INSUFFICIENZA RENALE CRONICA L’insufficienza renale cronica (IRC) è una condizione caratterizzata da una depressione delle capacità di filtrazione glomerulare che si instaura lentamente. A differenza che nell’insufficienza renale acuta, nella IRC la lentezza con la quale progredisce il difetto funzionale renale consente la messa in opera di una serie di meccanismi di compenso. Questi sono tali da permettere la vita in condizioni ragionevolmente tollerabili fino a quando il filtrato glomerulare è ridotto di circa il 90% e qualche sorta di vita (in presenza cioè di gravi manifestazioni morbose) anche quando il filtrato glomerulare è ridotto del 97-99%. La IRC è irreversibile e, generalmente, progressiva. Nella fase iniziale la IRC è completamente asintomatica, nella fase intermedia i suoi sintomi e segni compromettono poco il benessere del paziente, ma nelle sue fasi avanzate e terminali la IRC determina una grave sindrome clinica che viene indicata con il termine di uremia. Si stima che nell’Europa occidentale e negli USA l’incidenza della IRC sia di circa 10-15 casi per 100.000, riconosciuti ogni anno.
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35 - INSUFFICIENZA RENALE
Eziopatogenesi
Progressione della IRC
La IRC può essere determinata da una pluralità di cause che interferiscono:
L’esame istologico di un rene arrivato a stadi avanzati di IRC fornisce poche informazioni sulle cause iniziali di questo processo. I glomeruli appaiono sclerotici con accumulo di grandi quantità di matrice extracellulare, le regioni periglomerulari e l’interstizio sono pure fibrotici; nell’interstizio si osservano numerosi elementi infiammatori (macrofagi e linfociti); i tubuli sono in prevalenza atrofici. Appare perciò evidente che un meccanismo comune conduce ad uno stesso esito nefropatie che inizialmente si presentavano con caratteristiche diverse, siano esse glomerulari che tubulo-interstiziali (Capp. 36 e 37). Debbono perciò essere spiegati tre problemi:
• con l’integrità anatomica dei nefroni; • con l’apporto ematico dei glomeruli; • con la pressione idrostatica nella capsula di Bowman (aumentandola per ostruzione delle vie urinarie). Un elenco delle cause più importanti è riportato nella tabella 35.2. È comprensibile che le glomerulopatie si trovino in un posto importante tra le cause di IRC, ma anche le nefropatie interstiziali e il rene policistico, potendo comportare l’obliterazione di interi nefroni, possono dare un contributo importante alla riduzione del filtrato glomerulare. Un diminuito apporto ematico ai glomeruli, per le cause vascolari elencate nella tabella 35.2 coincide con un abbassamento della pressione di filtrazione. Inoltre, l’ostruzione delle vie urinarie determina IRC per gli stessi motivi spiegati a proposito dell’insufficienza renale acuta. La differenza è solo di grado (ostruzione parziale) e di tempo (ostruzione cronica). Occorre, tuttavia, aggiungere che questa causa di IRC si osserva raramente al giorno d’oggi, perché è comune che le ostruzioni delle vie urinarie siano corrette chirurgicamente.
Tabella 35.2 - Principali cause di insufficienza renale cronica. Alterazioni anatomiche dei nefroni • Glomerulopatie – Glomerulonefriti ad evoluzione cronica – Nefropatia diabetica – Amiloidosi • Nefropatie interstiziali – Pielonefrite cronica – Tubercolosi renale – Nefropatia gottosa (e da altre cristallurie: cistinosi, ossalosi) – Nefropatia ipopotassiemica – Nefropatia da analgesici • Rene policistico Cause vascolari – – – –
Arteriosclerosi delle arterie renali Ipertensione maligna Poliarterite nodosa Microembolizzazione multipla in corso di endocardite infettiva
Ostruzione delle vie urinarie – Calcolosi bilaterale – Stretture o compressioni ureterali bilaterali (per es., fibrosi retroperitoneali, neoplasie) – Vescica neurologica – Ostruzione del collo vescicale – Ipertrofia prostatica
• perché un danno glomerulare limitato tende a progredire fino a condurre alle alterazioni sopra descritte; • con quale meccanismo una nefropatia inizialmente limitata all’intestizio coinvolga successivamente anche i glomeruli; • in quale modo una nefropatia inizialmente limitata ai glomeruli comporta anche danni all’interstizio e ai tubuli. I primi due problemi sono spiegati dalla cosiddetta “teoria emodinamica”. Questa assume che, se il filtrato glomerulare è in un certo grado cronicamente ridotto, i glomeruli residui funzionanti sono esposti ad una iperperfusione compensatoria e ad iperfiltrazione. Questo stato comporta una serie di eventi dannosi a carico delle cellule dei glomeruli con progressiva distruzione dei nefroni residui. Una volta avviato, perciò, il processo tende ad aggravarsi. Che questo possa avvenire nelle nefropatie glomerulari è intuitivo. Tuttavia, anche nelle malattie tubulo-interstiziali l’obliterazione del lume di un certo numero di tubuli abolisce la funzione glomerulare corrispondente. Il risultato è perciò lo stesso. Più complicato è spiegare il terzo problema e cioè come una nefropatia primitivamente glomerulare si estenda successivamente all’interstizio. Esistono varie teorie in proposito e ne ricordiamo due basate su meccanismi immunologici. Secondo la prima, esistono sulle cellule dei glomeruli e dei tubuli antigeni identici o cross-reagenti. Una glomerulopatia, di qualsivoglia origine, rompe la tolleranza immunologica a questi antigeni e perciò la reazione autoimmune, nata nei glomeruli, si estende ai tubuli e all’interstizio nel quale sono contenuti. Un’altra teoria si riferisce al fatto che la maggior parte delle malattie glomerulari hanno una patogenesi immunologica (Cap. 36). Perciò i complessi immuni, le frazioni attivate del complemento e i mediatori infiammatori generati nei glomeruli possono essere trasportati, per via linfatica e attraverso le arteriole efferenti, verso l’interstizio. In ogni caso la conseguenza è un’infiltrazione dell’interstizio con macrofagi e linfociti e la liberazione da queste cellule di mediatori con varie azioni patogene. A questo punto bisogna spiegare perché l’iperperfusione e l’iperfiltrazione glomerulare comportano un danneggiamento progressivo dei glomeruli sottoposti a
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MALATTIE DEL RENE E DELLE VIE URINARIE
queste sollecitazioni. Il movente iniziale sta nel fatto che il traumatismo meccanico induce la liberazione di vari mediatori attivi da parte di cellule che strutturalmente fanno parte dei glomeruli (cellule endoteliali, cellule mesangiali), o che vi affluiscono in quantità aumentata dal sangue (monociti che vengono localmente attivati a macrofagi), o da parte delle piastrine che più facilmente aderiscono alle pareti glomerulari e vengono attivate. Questi mediatori hanno varie funzioni, tra le quali ricordiamo le più importanti.
• proteine e fosfati nella dieta; • iperlipidemia.
1. Vasodilatazione intrarenale. Questo effetto è molto importante perché è alla base dell’iperperfusione e dell’iperfiltrazione da cui discende tutta la cascata degli eventi patologici che portano al progressivo danneggiamento renale. Il mediatore più importante che esercita questa azione è il cosiddetto Insulin-like Growth Factor-1 (IGF1), prodotto dalle cellule mesangiali e dalle cellule principali dei dotti collettori. L’IGF1 ha anche un’attività mitogena sulle cellule mesangiali.
B. Proteinuria. La proteinuria può comportare, con il passare del tempo, vari tipi di danno renale. In primo luogo, il passaggio in quantità eccessive di proteine attraverso la membrana glomerulare, ed il loro riassorbimento tubulare, può comportare un danno delle cellule epiteliali della capsula di Bowman e di quelle che costituiscono la parete dei tubuli prossimali. In secondo luogo, se la proteinuria è tale da superare la capacità riassorbitiva dei tubuli prossimali, si possono formare cilindri nella porzione distale dei nefroni e ciò può portare a danno epiteliale a questo livello, con susseguente infiammazione interstiziale. Infine, si sostiene che quando esiste proteinuria aumenta la quantità di macromolecole che vengono intrappolate nel mesangio. Ma questo fatto comporta uno stimolo alla proliferazione delle cellule mesangiali con tutte le conseguenze che abbiamo già visto.
2. Sollecitazioni proliferative su cellule mesangiali. Queste sono esercitate da vari fattori, tra i quali il più importante è il cosiddetto Platelet Derived Growth Factor (PDGF) del quale si è già parlato nel capitolo 3 a proposito dell’aterosclerosi. Il PDGF è prodotto non solo dalle piastrine, ma anche dalle cellule endoteliali, dai macrofagi e dalle stesse cellule mesangiali. Tra le sostanze che pure stimolano la proliferazione delle cellule mesangiali ci sono due citochine (ormoni a breve raggio): l’interleuchina-1 (IL-1) e l’interleuchina-6 (IL-6) prodotte dai macrofagi. Infine, anche l’angiotensina II (Cap. 1) ha un effetto favorente la proliferazione delle cellule mesangiali (e anche di quelle muscolari lisce e di quelle epiteliali dei tubuli prossimali). 3. Aumentata sintesi di matrice extracellulare. Questa è dovuta al cosiddetto Transforming Growth Factor- (TGF-), una sostanza prodotta da molte cellule nell’organismo e, in questo caso, principalmente da macrofagi e piastrine, e che agisce sulle cellule endoteliali e mesangiali inducendole a secernere proteoglicani, fibronectina e collageno. Il TGF- stimola anche la proliferazione delle cellule mesangiali e dei fibroblasti. Da quanto sopra detto risulta evidente il ruolo centrale delle cellule mesangiali nella progressione della IRC. Infatti, esse producono l’IGF1 che determina l’iperperfusione e l’iperfiltrazione glomerulare. In conseguenza di questi eventi si concentrano nei glomeruli macrofagi e piastrine che, attraverso altri mediatori, come il TGF-, il PDGF, le IL-1 e IL-6, inducono alla proliferazione le cellule mesangiali. Ma questo fatto incrementa ulteriormente la produzione di IGF1. Inoltre, il TGF- fa secernere alle cellule mesangiali componenti della matrice extracellulare. Il risultato è un progressivo procedere verso la fibrosi. Questa sequenza di eventi è accelerata da alcuni fattori di rischio, che sono i seguenti: • ipertensione arteriosa; • proteinuria;
A. Ipertensione arteriosa. Può accelerare la progressione di una nefropatia verso l’insufficienza renale cronica con lo stesso meccanismo con il quale può indurre di per sé un danno renale (Cap. 1). Si pensa che la ipertensione arteriosa aggiunga un danno emodinamico ulteriore a quello conseguente all’iperperfusione dei glomeruli residui funzionanti.
C. Proteine e fosfati nella dieta. Nell’animale da esperimento una dieta ricca di proteine facilita l’ipertrofia glomerulare e una dieta povera di proteine la ostacola. Nell’uomo si è osservato che una dieta ricca di proteine accelera l’evoluzione di una glomerulopatia verso l’insufficienza renale cronica e una dieta povera di proteine la rallenta. È possibile perciò che questo effetto sia mediato da un’influenza delle proteine dietetiche sull’ipertrofia glomerulare. È infatti dimostrato che una dieta povera di proteine riduce la quantità di IGF1 circolante e, probabilmente, anche di quello renale. Tuttavia vari altri meccanismi potrebbero contribuire a questo risultato. Nell’animale da esperimento è stato dimostrato che la riduzione dei fosfati dietetici rallenta la progressione dell’insufficienza renale cronica. Si è supposto che questo dipenda dalla prevenzione della precipitazione di fosfato di calcio nei lumi tubulari, nell’interstizio e nello stesso citoplasma delle cellule parenchimali renali. Nell’uomo manca una dimostrazione convincente di un ruolo dei fosfati dietetici nella progressione dell’insufficienza renale cronica, dato che non è facile ridurre i fosfati nella dieta indipendentemente da una riduzione delle proteine. D. Iperlipidemia. Nella patogenesi dell’aterosclerosi i livelli dei lipidi plasmatici hanno un ruolo impotante nel determinare il danno endoteliale, l’infiltrazione monocitica e la proliferazione delle cellule muscolari lisce. Considerando le analogie tra cellule mesangiali e cellule muscolari lisce delle arterie si è pensato che alti livelli di lipidi plasmatici possano esercitare un’azione lesiva dello stesso tipo anche sui glomeruli.
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35 - INSUFFICIENZA RENALE
Fisiopatologia A. L’ipotesi del nefrone intatto. Notevoli progressi sono stati compiuti nella comprensione della patogenesi della IRC grazie alla cosiddetta ipotesi del nefrone intatto. Questa ipotesi assume che, nella IRC, le cose vadano come se il numero dei nefroni si riducesse progressivamente e i nefroni residui fossero in grado di svolgere adeguatamente i loro compiti fino a tentare un compenso per il difetto di funzione dovuto ai nefroni perduti. In precedenza, i nefrologi erano stati colpiti dall’irregolarità delle lesioni patologiche nei reni affetti da IRC e dalla ovvia considerazione che, in queste condizioni, è altamente improbabile che tutti i nefroni siano compromessi allo stesso modo e nella stessa misura. Per ripetere una similitudine del nefrologo Neal S. Bricker, l’opinione tradizionale era che, nei reni cronicamente danneggiati, i nefroni si comportassero come i membri di un’orchestra che suona cacofonicamente. Esistono, invece, validi argomenti per escludere che le cose vadano così e in realtà, sostiene sempre Bricker, la situazione può essere paragonata a quella di un’orchestra i cui elementi vadano progressivamente diminuendo di numero, ma nella quale i superstiti continuino a rispettare l’armonia dell’esecuzione ed anzi si sforzino di compensare il contribuito degli assenti. Gli argomenti sperimentali a favore di questo punto di vista sono molti e noi ne citeremo solo uno, sempre riportato da Bricker. È possibile, in un animale da esperimento, danneggiare notevolmente un singolo rene in modo che solo questo risulti cronicamente insufficiente e l’altro resti integro. Si può misurare, per ciascuno dei due reni, il filtrato glomerulare e una qualunque funzione tubulare. Ebbene, questi due parametri saranno entrambi decisamente minori nel rene danneggiato che in quello normale, ma il rapporto tra filtrato glomerulare e funzione tubulare risulterà lo stesso in entrambi i reni. Questo significa che tanto i nefroni del rene sano, quanto i nefroni residui funzionanti del rene cronicamente compromesso si comportano allo stesso modo e obbediscono alla stessa regolazione del bilancio glomerulo-tubulare (che è il rapporto tra il filtrato glomerulare di ciascun singolo nefrone e le sue funzioni tubulari). Il danneggiamento di un rene potrà spostare la regolazione di questo bilancio verso livelli diversi da quelli che si avevano normalmente (per es., le funzioni tubulari potranno essere incrementate in relazione al filtrato glomerulare), ma tutti i nefroni, compresi quelli del rene sano, si adegueranno alla nuova norma e risulteranno omogenei. È questa la base dell’ipotesi del nefrone intatto. B. Meccanismi di compenso. Si è visto che, nella IRC, i nefroni residui tentano un compenso per il difetto di funzione dovuto ai nefroni perduti. Esiste un solo modo per farlo e cioè che ciascun nefrone residuo elimini più soluti di quanto faccia normalmente: una quantità tanto maggiore quanto più elevata è la frazione di nefroni che sono andati perduti e la cui funzione deve essere supplita.
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Questo risultato può essere ottenuto con due meccanismi. Il primo è proprio di quei soluti che non vengono sottoposti affatto, o lo sono poco, ad operazioni di riassorbimento o secrezione nei tubuli, come nel caso della creatinina e dell’urea. Per queste sostanze, una maggiore escrezione per singolo nefrone può essere ottenuta solo grazie ad un aumento della loro concentrazione nel plasma e quindi nel filtrato glomerulare. Per esempio, se il filtrato glomerulare è ridotto a un terzo del normale e la concentrazione plasmatica della creatinina è triplicata, l’escrezione globale di questa sostanza non subisce variazioni, nonostante la diminuzione del numero di nefroni funzionanti (in realtà è questa la base della stima del filtrato glomerulare in dipendenza della creatininemia). Questo non può essere considerato un vero meccanismo di compenso, in quanto la maggiore escrezione di soluti è ottenuta a spese di un aumento della loro concentrazione nel plasma, proprio ciò che sarebbe compito del rene di evitare. Tuttavia la concentrazione plasmatica di queste sostanze risulta inversamente proporzionale al filtrato glomerulare e perciò aumenta significativamente solo quando quest’ultimo è molto ridotto (si veda Fig. 34.2). È per questo che la creatininemia resta nell’ambito della norma fino a quando il filtrato glomerulare è circa dimezzato. Un secondo meccanismo che può consentire, in corso di IRC, una maggiore escrezione di soluti in ciascuno dei nefroni residui riguarda quelle sostanze che sono riassorbite e secrete dai tubuli in quantità rilevante. In queste circostanze è sufficiente che una sostanza sia riassorbita in misura minore, o secreta in misura maggiore, perché la sua escrezione per singolo nefrone sia aumentata, senza che la sua concentrazione nel plasma si discosti dalla norma. Questo processo, che è un genuino meccanismo di compenso, ha effettivamente luogo nei nefroni residui in corso di IRC, ma non si verifica per tutti i soluti con la stessa efficienza. Per fosfati, urati, potassio e idrogenioni è tale da impedire l’aumento della loro concentrazione nel plasma fino a gradi avanzati di insufficienza renale cronica (anche se, nel caso degli idrogenioni, l’organismo dispone di altri meccanismi di compenso per tentare di mantenere costante il pH del liquido extracellulare; Cap. 63). Per il sodio questo tipo di compenso si svolge meglio che per gli altri soluti. Nella realtà clinica, tuttavia, un certo accumulo di sodio nell’organismo è comune nelle fasi avanzate della IRC. Questo dipende dal fatto che la ritenzione di una certa quantità di sodio va di pari passo con la ritenzione di una corrispondente quantità di acqua. La sodiemia non aumenta, ma si espande il volume del fluido extracellulare e quindi si incrementa la volemia. Ma questo incremento migliora la perfusione glomerulare e il filtrato glomerulare per singolo nefrone risulta più elevato. Si crea così una nuova situazione di equilibrio che tende a ristabilire il bilancio tra sodio introdotto e sodio eliminato con le urine. Il miglioramento dell’escrezione urinaria di sodio, in dipendenza dell’aumento della quantità di questo elemento che è presente nell’organismo, può perciò essere considerato un ulteriore meccanismo di compenso.
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C. Effetti sull’osmolalità urinaria. Questi meccanismi di compenso non sono senza prezzo. Un primo prezzo viene pagato per il fatto che i soluti trasportati da ogni singolo nefrone sono aumentati nella IRC (o per aumento della loro concentrazione nel filtrato glomerulare, o per un loro minore riassorbimento tubulare). Questo fa sì che una quantità di fluido maggiore giunga al termine del tubulo prossimale di ciascun nefrone (dove, come si ricorderà, il riassorbimento di acqua e soluti è isosmotico) e che l’efficienza dei meccanismi di concentrazione e diluizione delle urine sia compromessa. L’ampiezza dell’ambito entro il quale può essere fatta variare l’osmolalità delle urine in dipendenza delle necessità dell’organismo (da un minimo di 40 a un massimo di 1200 mOsm/kg) si restringe perciò progressivamente con l’avanzare della IRC. Inizialmente può essere solo una limitazione del potere di eliminare urine diluite o concentrate (ipostenuria), ma, quando il filtrato glomerulare cade a 25 ml/min o meno, la concentrazione delle urine eliminate è praticamente fissa (isostenuria) e molto vicina a quella del filtrato glomerulare, che è di 300 mOsm/kg (in realtà, anche in stadi avanzati delle IRC e in presenza di quella che appare una genuina isostenuria, piccole variazioni dell’osmolalità urinaria possono ancora verificarsi: per es., tra 250 e 350 mOsm/kg). Una conseguenza importante di questa alterazione è che, in un paziente con IRC sufficientemente avanzata, una certa quantità di soluti possa essere eliminata dai reni solamente assieme ad una corrispondente quantità di acqua e cioè quanta ne occorre per un’osmolalità delle urine prossima a 300 mOsm/kg. Questo fa sì che i pazienti con IRC abbiano tendenza alla poliuria e alla nicturia. Per esempio, un paziente con un carico obbligatorio di soluti di 600 mOsm che debbono essere escreti nelle urine nelle 24 ore, dovrà eliminare circa 2 litri di urine se la concentrazione di queste non può discostarsi molto da 300 mOsm/kg. La stessa quantità di soluti potrà essere escreta da un soggetto normale in un volume quattro volte minore (500 ml), dato che normalmente le urine possono essere concentrate fino a 1200 mOsm/kg. Questo esempio mostra come il volume delle urine nei pazienti con IRC sia dipendente dal carico obbligatorio di soluti che debbono essere escreti nelle urine nelle 24 ore, che è influenzato da fattori dietetici (si pensi, per es., all’apporto di cloruro di sodio). Se i soluti da eliminare con le urine sono in misura ridotta, o per una scarsa introduzione alimentare o perché sono perduti per altra via (vomito, diarrea), la poliuria può mancare. Questo accade piuttosto spesso nelle fasi molto avanzate della IRC ed in presenza di sintomi uremici. È importante notare che il paziente con IRC, che ha da un lato una riduzione del filtrato glomerulare e dall’altro la poliuria, riassorbe nei tubuli una quota di acqua e di soluti molto minore che di norma. Così, mentre un soggetto normale riassorbe ordinariamente più del 99% del suo filtrato glomerulare di 180 l/24 h, un paziente con un filtrato glomerulare di 5 ml/min (e
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quindi di 7,21/24 h), eliminando 2 litri di urine al giorno, ne riassorbe solo il 72%. La quota del filtrato glomerulare che viene riassorbita nei tubuli diminuisce con il progredire della IRC. Questa situazione comporta importanti conseguenze sulla flessibilità che il rene normalmente mostra nel regolare l’escrezione di acqua e sodio. Per quanto riguarda l’acqua che questo avvenga è ovvio. Infatti, nella IRC avanzata, una certa quantità di acqua, né più né meno, deve essere eliminata obbligatoriamente dai reni assieme a una certa quantità di soluti e questo avviene indipendentemente dalla quantità di acqua che viene introdotta nell’organismo. Se quindi l’apporto di acqua venisse ridotto, la conseguenza sarebbe una contrazione del liquido extracellulare, con gravi effetti sulla stessa funzione renale (si avrebbe, infatti, ipovolemia che diminuirebbe la perfusione dei nefroni residui). Se l’apporto di acqua fosse eccessivo si avrebbe invece un’iperidratazione. Per il sodio un effetto di questo tipo sembra meno evidente, dato che nella IRC il riassorbimento tubulare di questo elemento viene regolato, in modo da mantenere costante la sua concentrazione nel plasma. Questa regolazione è però meno pronta che di norma. Perciò, se l’apporto di sodio è persistentemente aumentato, occorreranno alcuni giorni perché sia aumentata corrispondentemente la sua escrezione; se l’apporto di sodio è persistentemente diminuito, occorreranno pure alcuni giorni perché la sua escrezione sia ridotta in misura corrispondente. Di fronte a variazioni brusche ed episodiche dell’apporto di sodio (o a perdite di questo elemento per vomito o diarrea), il paziente con IRC si trova, nel breve periodo, di fronte al rischio dell’accumulo o della deplezione di questo elemento. D. Il “trade-off”. La preservazione di una normale escrezione urinaria di soluti nella IRC, grazie alla riduzione del loro riassorbimento tubulare, implica che esistono dei meccanismi generali regolatori che, secondo ogni evidenza, operano indipendentemente per ciascun soluto. Questi meccanismi debbono “sentire” che un soluto è trattenuto nell’organismo e agire in conseguenza sul rene ostacolando il riassorbimento tubulare dello stesso soluto. Finora il solo meccanismo che è stato riconosciuto adeguarsi sicuramente a questo modello è quello che regola il riassorbimento tubulare dei fosfati. Se l’escrezione urinaria dei fosfati diminuisce, per effetto della riduzione del filtrato glomerulare, la concentrazione dei fosfati nel plasma deve aumentare. Ma questo comporta un aumento del prodotto tra calcio e fosfati plasmatici, la deposizione di fosfato di calcio nelle ossa e una diminuzione della calcemia. La diminuzione della calcemia stimola a sua volta la produzione di paratormone (PTH), tra le azioni del quale vi è un’inibizione del riassorbimento di fosfati nei tubuli prossimali renali. Questa inibizione compensa il diminuito passaggio di fosfati nel filtrato glomerulare e ristabilisce la normalità della loro concentrazione nel plasma. Tutto avviene come previsto con un prezzo che viene pagato, infatti l’escrezione urinaria di fosfati si mantiene inalterata in presenza di una secrezione di
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PTH superiore alla norma. Se il filtrato glomerulare si riduce ulteriormente, il meccanismo di compenso si rende nuovamente operativo, ma a prezzo di una secrezione di PTH ancora superiore. Il compenso si può spostare continuamente di livello, mantenendo la fosfatemia e la fosfaturia normali, nonostante una riduzione progressiva del filtrato glomerulare, ma determinando una secrezione di PTH progressivamente maggiore, fino a quando il riassorbimento di fosfati nei tubuli prossimali è inibito completamente. A questo punto il compenso di arresta. Ma il PTH non agisce solo sui reni. Ha, tra l’altro, un importante effetto sulle ossa e l’iperparatiroidismo è caratterizzato proprio da un’osteopatia. Il beneficio guadagnato nei reni da questo meccanismo di compenso sarà perciò scontato altrove, in questo caso nelle ossa. Si sarà verificato quello che il già citato nefrologo Bricker chiama il “trade-off ” (baratto, scambio). Anche altri problemi morbosi propri dell’uremia sono stati connessi con gli elevati livelli ematici di PTH: varie alterazioni del sistema nervoso centrale e periferico; il prurito cutaneo e l’irritazione congiuntivale (per deposizione di sali di calcio); l’impotenza sessuale; la propensione a sviluppare ulcera peptica. Secondo Bricker esistono altri meccanismi regolatori per differenti soluti, ciascuno dei quali è in grado di dar luogo a un corrispondente effetto di “trade-off ”, e questo potrebbe spiegare molti sintomi e segni della IRC e, in particolare, dell’uremia. Si vedrà che in questa sindrome clinica esistono molti sintomi e segni che non possono essere semplicemente attribuiti alla ritenzione di scorie tossiche. L’ipotesi di Bricker è che debbano essere considerati dovuti a “trade-off ”. Questa ipotesi è molto brillante, ma sfortunatamente, oltre a quello dell’escrezione dei fosfati e del PTH, nessun altro meccanismo regolatore di questo tipo è stato finora accertato. Esistono indizi interessanti a proposito dell’escrezione del sodio, il cui riassorbimento isosmotico nei tubuli prossimali renali è stato supposto inibito da un presunto ormone natriuretico (si veda quanto scritto a proposito della patogenesi dell’ipertensione essenziale nel capitolo 1). Questo ormone agirebbe nei riguardi del sodio in maniera analoga a quanto fa il PTH nei riguardi dei fosfati. Ossia la sua produzione verrebbe stimolata in dipendenza di alcuni segnali significativi di un eccesso di sodio nell’organismo e l’incremento dei suoi livelli ematici riporterebbe alla norma l’eliminazione renale di sodio. Quale sarebbe il “trade-off ” dell’ormone natriuretico? È stato sostenuto che questo presunto ormone agisce su tutte le membrane cellulari, inibendo la ATPasi Na+ e K+ dipendente. Quindi, in presenza di un’aumentata produzione di ormone natriuretico, la pompa che assicura il trasporto di sodio e potassio attraverso le membrane cellulari sarebbe meno efficiente. È noto che tale pompa è fondamentale per mantenere la diversa ripartizione di questi cationi, con una prevalenza di potassio nell’ambiente intracellulare e di sodio nell’ambiente extracellulare, e per determinare il potenziale di membrana. In effetti, negli uremici è stata dimostrata una menomazione della ATPasi Na+ e K+ dipendente e
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una riduzione dell’efficienza del trasporto di sodio e potassio attraverso le membrane cellulari. In dipendenza di questo fatto il contenuto di sodio intracellulare è, negli uremici, maggiore che di norma e molte funzioni cellulari possono risultare alterate. Inoltre, la pompa sodio-potassio comporta il consumo di energia: una riduzione della sua efficienza potrebbe spiegare l’ipotermia che si osserva nei pazienti uremici. Nonostante il ruolo del supposto ormone natriuretico appaia in questo senso molto suggestivo, non è però ancora possibile stabilire se la sua iperincrezione abbia veramente un ruolo in queste alterazioni cellulari dell’uremia, dato che potrebbero essere dovute anche ad altri fattori (per es., un effetto diretto di sostanze tossiche ritenute). E. Alterazioni di funzioni renali non escretorie. Per la natura dei processi patologici che possono condurre la IRC, i reni si trovano ad essere variamente danneggiati dal punto di vista anatomico in questa condizione. Ciò determina il venir meno anche di alcune funzioni non escretorie del rene. Ne ricorderemo tre: • la produzione di eritropoietina; • la degradazione di ormoni peptidici; • la conversione della vitamina D nella sua forma attiva. 1. La produzione di eritropoietina è un meccanismo fondamentale di regolazione dell’eritropoiesi (Cap. 44). La diminuita produzione di questa sostanza contribuisce all’anemia, che è piuttosto comune nella IRC. 2. Numerosi ormoni peptidici sono degradati nel rene: PTH, insulina, glucagone, GH, LH e prolattina. I loro livelli ematici possono perciò risultare elevati. La mancata degradazione di questi ormoni ha varie conseguenze. I livelli ematici in PTH, che già abbiamo visto aumentati per effetto del “trade-off ”, vengono mantenuti a livelli ancora più elevati. La persistente iperinsulinemia determina una riduzione dei recettori di questo ormone sulle cellule bersaglio, particolarmente sugli adipociti, e condiziona uno stato di relativa resistenza a questo ormone. Il contemporaneo aumento del glucagone circolante può peggiorare la tolleranza ai carboidrati. Anche la gastrinemia può essere aumentata in corso di IRC e questo fatto può contribuire alla già citata propensione che gli uremici hanno a sviluppare ulcera peptica. 3. La conversione della vitamina D nella sua forma attiva avviene largamente nei reni. La vitamina D3, o colecalciferolo, originata nella cute per effetto delle radiazioni ultraviolette dal 7-deidro-colesterolo, viene trasformata nel fegato in 25-OH-colecalciferolo. Questo composto sembra privo di effetti biologici alle concentrazioni fisiologiche ma è attivo in vitro. Dal fegato il 25-OH-colecalciferolo è trasportato al rene che può operare una ossidrilazione in altre due posizioni, 1 e 24. L’1-25(OH)2-colecalciferolo è il composto fisiologicamente più attivo sull’assorbimento intestinale di calcio e fosforo. La formazione dell’125(OH)2-colecalciferolo nel rene è incrementata dal
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paratormone e dall’ipocalcemia, è inibita dalla calcitonina e dall’ipercalcemia. Un esteso danno renale può ridurre la formazione di questo composto attivo e determinare ipocalcemia (e quindi iperparatiroidismo secondario con un meccanismo diverso da quello che abbiamo visto a proposito del “trade-off ”) e alterazioni ossee: rachitismo nel bambino, osteomalacia nell’adulto. F. L’evento finale: l’uremia. Il termine uremia dovrebbe significare la presenza di costituenti delle urine nel sangue. In realtà è impiegato per indicare la sindrome clinica che si ha nelle fasi molto avanzate della IRC. Nell’uremia vengono superati quei meccanismi di compenso che a lungo mantengono l’omeostasi dell’organismo nonostante il grave e progressivo deterioramento della funzione renale. Possono perciò verificarsi eventi fisiopatologici che non sono presenti nella fase di compenso della IRC. Desideriamo qui soffermarci su due di questi eventi che non sono stati analizzati nei paragrafi precedenti. • Il raggiungimento di livelli molto elevati nel sangue della concentrazione di urea e di altre scorie metaboliche. • Il superamento dei limiti entro i quali sono sufficienti i compensi tubulari nell’escrezione di varie sostanze importanti per l’omeostasi dell’organismo. 1. Nell’uremia si hanno livelli molto elevati nel sangue di sostanze come l’urea, la creatinina ed altre, per l’escrezione delle quali non esistono meccanismi di compenso a livello tubulare. L’accumulo nel sangue di sostanze potenzialmente tossiche è sempre stato considerato il fattore fondamentale dell’uremia, tanto da essere in realtà quello che ha dato il nome a questa condizione morbosa. Le molecole che sembrano esercitare la maggiore azione tossica sono i prodotti intermedi del metabolismo proteico ed aminoacidico, la cui escrezione avviene quasi esclusivamente attraverso il rene. L’urea sembra essere la molecola maggiormente responsabile dal punto di vista quantitativo. Essa rappresenta più dell’80% dell’azoto escreto nelle urine in pazienti con IRC che hanno un apporto dietetico di 40 g o più di proteine al giorno. I composti guanidinici sono quelli più ricchi di azoto (guanidina, metil e dimetilguanidina, creatinina, creatina, acido guanidico-succinico). Altri prodotti del catabolismo proteico ed aminoacidico implicati sono le amine alifatiche e molti derivati degli aminoacidi aromatici (triptofano, tirosina, fenilalanina). Non è noto a tutt’oggi il ruolo di queste sostanze nella patogenesi dei singoli disturbi in corso di IRC. Tuttavia si sa che l’urea provoca la comparsa di alcuni sintomi quali l’astenia, l’anoressia, il vomito, la cefalea. La creatinina, che di per sé non è tossica, potrebbe generare sintomi disturbanti negli uremici in seguito alla conversione in altre sostanze come la sarcosina e la metilguanidina. Esistono vari indizi che fanno pensare
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che un ruolo tossico importante è svolto, negli uremici, da alcune sostanze polipeptidiche a peso molecolare maggiore di quelle finora ricordate. Un argomento a favore di questa possibilità è che la neuropatia degli uremici sembra migliorare di più con la dialisi peritoneale intermittente che con l’emodialisi cronica, nonostante che con la prima delle due tecniche terapeutiche la creatininemia e l’urea plasmatica si riducano di meno. La dialisi peritoneale intermittente sembra più adatta a rimuovere proprio le sostanze di peso molecolare più elevato. In realtà molti ricercatori hanno dimostrato nel siero degli uremici un’aumentata concentrazione di sostanze con peso molecolare tra 300 e 3500, che analiticamente hanno rivelato una natura polipeptidica. 2. Nell’uremia salgono pure, ma in misura minore, i livelli ematici di altre sostanze, per l’escrezione delle quali il meccanismo di compenso a livello tubulare è operativo fino a stadi avanzati della IRC. Tra queste modificazioni si possono ricordare l’iperuricemia, l’acidosi metabolica e l’iperpotassiemia. Le ultime due condizioni meritano di essere approfondite. L’acidosi metabolica si instaura quando, nella fase avanzata della IRC, il rene è menomato nella sua capacità di eliminare gli idrogenioni. Dato che per ogni H+ eliminato un HCO3– viene riassorbito, l’effetto iniziale sarà un’acidosi ipercloremica, nella quale la diminuita concentrazione plasmatica di bicarbonati è bilanciata da un corrispondente aumento della concentrazione dei cloruri. Nelle fasi più avanzate si ha ritenzione nell’organismo di acidi fissi (non volatili) provenienti dal metabolismo di aminoacidi solforati (acido solforico) e di composti organo-fosforici (acido fosforico): la concentrazione plasmatica dei bicarbonati sarà perciò diminuita anche a beneficio di un incremento di solfati e fosfati plasmatici e il “gap” degli anioni risulterà aumentato. Esistono vari meccanismi compensatori per l’acidosi dell’uremia. Il primo, e più ovvio, è l’iperventilazione con maggiore eliminazione di CO2 e modificazione dell’equazione di Henderson-Hasselbalch in modo da mantenere costante il pH del liquido extracellulare (Cap. 63). Il secondo meccanismo consiste in uno scambio di H+ provenienti dal plasma con Ca++ presenti nelle ossa. Questo scambio può contribuire alla decalcificazione delle ossa e può comportare ipercalcemia se non sono prevalenti altri fattori che deprimono i livelli di calcio nel sangue (iperfosfatemia, osteomalacia renale). Il terzo meccanismo dipende da uno scambio tra H+ provenienti dal plasma con K+ intracellulare. Questo scambio riduce l’asimmetrica distribuzione dei cationi dai due versanti delle membrane cellulari e il potenziale di membrana. L’iperpotassiemia ha pure importanti ripercussioni sul potenziale di membrana, particolarmente a livello delle cellule eccitabili. Le conseguenze più evidenti sono a livello dei muscoli scheletrici (astenia, crampi) e del miocardio, con alterazioni di funzioni che possono giungere alla morte per fibrillazione ventricolare.
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35 - INSUFFICIENZA RENALE
Clinica della IRC allo stadio dei sintomi iniziali Grazie ai numerosi meccanismi di compenso dei quali si è parlato precedentemente, la IRC deve raggiungere un grado piuttosto avanzato prima di provocare sintomi e segni. Con una certa approssimazione si può dire che i primi più lievi sintomi riguardanti la diuresi vengono rilevati solo quando il filtrato glomerulare è ridotto intorno ai 30 ml/min e i sintomi uremici veri e propri si verificano quando il filtrato glomerulare raggiunge valori attorno a 10 ml/min, o ancora più bassi. È perciò pratico distinguere il quadro dei sintomi iniziali della IRC da quello dell’uremia vera e propria. IRC allo stadio dei sintomi iniziali. Il primo dato che può attirare l’attenzione del paziente e del medico è la tendenza alla poliuria. La quantità di urine nelle 24 ore sarà variabile in dipendenza del carico obbligato di soluti che deve essere escreto nelle urine, ma con facilità vengono raggiunti valori oltre i 2000 ml. È facile che la poliuria sfugga nelle ore diurne e che venga rilevata solamente la nicturia. Questa è molto più facile a constatarsi dato che normalmente, nelle ore notturne, quando non vi è introduzione di liquidi, è più probabile che le urine vengano concentrate. Non potendo effettuare questo processo, il paziente con IRC dovrà urinare anche di notte. Il fenomeno colpisce particolarmente i giovani (gli anziani urinano più facilmente di notte per ragioni connesse con la continenza vescicale) e nei bambini, nei quali può assumere l’aspetto dell’enuresi notturna. Alla poliuria fa seguito una polidipsia. Altri sintomi e segni possono essere scarsi e poco caratteristici. Può essere notato un ritardo di accrescimento nei bambini e di maturazione sessuale negli adolescenti. Il paziente può essere astenico ed apparire pallido se ha già sviluppato anemia. In un certo numero di cavi viene constatata ipertensione arteriosa, che, in questo stadio, è più facilmente dovuta al fattore morboso determinante la IRC che al difetto di funzione renale. A. Esami di laboratorio. Un singolo esame delle urine può essere molto poco significativo e, al massimo, può dare notizie su una nefropatia che ha determinato la IRC (eventuale presenza di proteinuria, ematuria, piuria, cilindruria). Spesso, comunque, un singolo esame delle urine può risultare normale. Le notizie importanti sono quelle riguardanti l’osmolalità urinaria che può essere direttamente misurata o, molto praticamente, stimata attraverso il peso specifico delle urine. Quando ci si avvicina all’isostenuria il peso specifico delle urine di discosta di poco da valori intorno a 10101012. Ancora una volta deve essere sottolineato che trovare questi valori di peso specifico in un singolo campione di urine non significa nulla, perché ciò può casualmente capitare in qualsiasi soggetto normale e sano. È solo la persistenza di questi valori in numerosi campioni di urine, raccolti lungo tutto l’arco della giornata, che può suggerire l’esistenza di un’isostenuria.
Meglio ancora se questa viene dimostrata con una prova della concentrazione (Cap. 34). Gli esami ematochimici dimostrano un aumento della concentrazione di urea nel sangue e di creatinina nel siero. La determinazione della clearance della creatinina documenta la riduzione del filtrato glomerulare. Se, nell’esame emocromocitometrico, si dimostra anemia, questa risulta del tipo normocitico, normocromico. B. Diagnosi. La presenza di poliuria può suggerire l’esistenza di altre condizioni morbose, in particolare di diabete mellito o di diabete insipido. Il solo peso specifico delle urine è già utile per discriminare tra queste possibilità diagnostiche, dato che nel diabete mellito esso è più elevato (a causa della glicosuria) e nel diabete insipido è più basso (perché in questa condizione l’acqua è eliminata in eccesso rispetto ai soluti) dei valori tipici della isostenuria. Comunque, lo studio del peso specifico delle urine in vari campioni e le indagini ematochimiche consentono di solito la diagnosi di IRC senza difficoltà.
Clinica dell’uremia Il passaggio dallo stadio dei sintomi iniziali della IRC a quelli dell’uremia vera e propria avviene con gradualità, anche se possono darsi eventi accidentali che peggiorano criticamente la funzione renale e scatenano bruscamente il quadro clinico dell’uremia: una perdita di acqua e sodio (vomito, diarrea) che determina ipovolemia, oppure l’impiego di un farmaco nefrotossico. Il quadro conclamato dell’uremia è molto complesso ed è conveniente descriverlo in riferimento ai singoli organi e apparati che risultano compromessi. 1. Apparato digerente. La concentrazione dell’urea è aumentata non solo nel sangue, ma anche nella saliva e nelle altre secrezioni dell’apparato digerente, ove può andare incontro a fermentazione ammoniacale ad opera di microrganismi. L’ammoniaca ha un notevole effetto irritativo. Si comprende, perciò, perché i disturbi a carico dell’apparato digerente siano molto comuni negli uremici e talora i più precoci. Essi comprendono una sensazione di cattivo sapore in bocca, l’anoressia, la nausea e il vomito. Le emorragie dal tubo gastroenterico (ematemesi, melena) sono particolarmente facili, sia perché questi pazienti sviluppano con facilità ulcera peptica, sia perché, come si vedrà, hanno difetti di funzione delle piastrine. Un segno importante che negli uremici può essere riferito all’apparato digerente è il cosiddetto fetore uremico, ossia un alito caratteristicamente urinoso. Questo è dovuto non solo all’azione dei microrganismi sulle sostanze azotate che compaiono in concentrazione maggiore nella saliva, ma anche alla eliminazione per via respiratoria di cataboliti volatili che non sono eliminati per via urinaria. L’esame del cavo orale può dimostrare lingua impatinata, un diffuso arrossamento della mucosa ed anche la formazione di ulcere.
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2. Cute. Il paziente può avvertire prurito. La cute è pallida, con una sfumatura giallo-sporco (che si pensa sia conferita dalla deposizione di cataboliti azotati combinata con un certo grado di genuina iperpigmentazione). La pigmentazione gialla è particolarmente evidente a livello del letto ungueale. L’eccesso di urea nel sudore può determinare fenomeno di irritazione cutanea sotto forma di manifestazioni eritemato-papulose (uremidi). L’evaporazione del sudore lascia sulla pelle un sottile strato di cristalli di urea. 3. Apparato circolatorio. Circa metà degli uremici sono ipertesi e si pensa che questa condizione sia dovuta all’eccesso di sodio che si viene ad avere nell’organismo nelle fasi più avanzate della IRC. Tuttavia, la ridotta introduzione di sodio con la dieta, o la perdita di questo elemento con vomito o diarrea, comporta frequentemente una diminuzione della pressione arteriosa e talora addirittura il passaggio all’ipotensione. Al contrario, se l’apporto di sodio viene bruscamente aumentato, è facile che l’ipertensione si aggravi e che si possa avere sovraccarico ventricolare sinistro ed edema polmonare acuto. Comunque, un certo grado di congestione polmonare può verificarsi anche in assenza di sovraccarico di fluidi e quando la pressione capillare polmonare è normale o solo lievemente aumentata (polmone uremico) a motivo di un’aumentata permeabilità dei capillari alveolari indotta dalle tossine uremiche. Una caratteristica alterazione dell’uremia è la cosiddetta pericardite uremica. Si tratta di una pericardite essudativa, tale da poter comportare il tamponamento cardiaco. Si pensa che sia dovuta all’effetto irritante di cataboliti tossici oltre che ad emorragie intrapericardiche favorite dal difetto di funzione delle piastrine. Altre alterazioni cardiache importanti sono quelle legate all’iperpotassiemia. Le manifestazioni cliniche legate a questa alterazione compaiono quando i valori oltrepassano i 5 mEq/l e se si raggiungono valori di 8-9 mEq/l il paziente raramente sopravvive. A mano a mano che la potassiemia aumenta, compaiono le caratteristiche alterazioni elettrocardiografiche che, in ordine temporale, sono: allungamento del tratto P-Q; approfondimento dell’onda S, comparsa di onde appuntite, allargamento del complesso QRS, progressivo appiattimento dell’onda R. Negli stadi più avanzati il tracciato può presentare scomparsa dell’onda P, onda R solo accennata, onda S molto profonda subito seguita da un’onda T molto accentuata. Un simile tracciato è il preludio di una fibrillazione ventricolare che può portare a morte improvvisa. La figura 35.1 dimostra il parallelismo tra aumento della potassiemia e le alterazioni elettrocardiografiche. 4. Sistema neuromuscolare. I disturbi a carico del sistema neuromuscolare negli uremici sono provocati dalla convergenza di varie cause, quali la ritenzione di urea ed altri metaboliti tossici, gli aumentati livelli di secrezione del PTH, l’acidosi e gli squilibri elettrolitici. A carico del sistema nervoso centrale i primi sintomi sono sfumati e rappresentati dalla difficoltà di concentrazione e dall’insonnia. In seguito compaiono perdita di memoria e disturbi del comportamento, tremori, agi-
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R T
U
A. P–R R T
U B. S
P–R
T
R C.
T
P–R S R D.
T S R E.
S
Figura 35.1 - Alterazioni del tracciato elettrocardiografico in corso di iperpotassiemia. A mano a mano che la concentrazione plasmatica del potassio aumenta, si assiste al progressivo allungamento del tratto P-Q, approfondimento dell’onda S, comparsa di onde T appuntite, allargamento del complesso QRS, appiattimento dell’onda R.
tazione psicomotoria, convulsione e, nei casi estremi, coma. Si verifica una neuropatia periferica, prevalentemente sensitiva e localizzata agli arti inferiori. È frequentemente presente un’irrequietezza agli arti inferiori con l’impulso irresistibile di dover cambiare spesso la loro posizione (restless leg syndrome, ovvero sindrome delle gambe irrequiete). Quando la neuropatia è più avanzata sono frequenti parestesie dolorose agli arti inferiori, che possono svegliare il paziente dal sonno. I sintomi muscolari sono rappresentati dall’astenia, in certi casi particolarmente spiccata a carico dei gruppi muscolari prossimali degli arti, da crampi muscolari e singhiozzo (contrazione del diaframma). 5. Occhi. Una sensazione di bruciore agli occhi e un arrossamento congiuntivale sono dipendenti da calcificazioni metastatiche in presenza di un’elevata secrezione di PTH. Disturbi del visus possono essere dipendenti da gradi elevati di ipertensione e da edema della papilla. 6. Sangue. L’anemia negli uremici è dipendente non solamente dal difetto di produzione di eritropoietina da parte dei reni, ma anche da altri fattori che divengono importanti in questa fase estrema della IRC: una diminuita sopravvivenza degli eritrociti (per un difetto extracorpuscolare collegato verosimilmente con le alterazioni biochimiche dell’ambiente plasmatico) e il possi-
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bile sanguinamento dell’apparato digerente. La funzione delle piastrine nei processi emostatici è menomata dall’uremia: sembra che questo effetto sia dovuto all’accumulo di acido guanidino-succinico. 7. Alterazioni metaboliche ed endocrine. Alcuni sintomi e segni degli uremici sono dipendenti da alterazioni metaboliche. Un esempio è l’ipotermia che è collegata con un difetto della ATPasi Na+, K+ dipendente e con una riduzione dell’energia spesa nella pompa del sodio e del potassio. Un altro è il respiro di Kussmaul, caratterizzato da atti respiratori profondi, frequenti e regolari, dovuto all’acidosi. Tra le alterazioni metaboliche ed endocrine un posto di rilievo merita la cosiddetta osteodistrofia renale, che assume aspetti diversi a seconda del fattore patogenetico prevalente: osteopatia fibrocistica quando prevale l’iperparatiroidismo secondario; rachitismo (nel bambino) e osteomalacia (nell’adulto) quando prevale il difetto di vitamina D. I disturbi più evidenti sono quelli dell’accrescimento nel bambino e, a tutte le età, i dolori ossei e la tendenza alle fratture spontanee. Tra le alterazioni più genuinamente endocrine quelle più evidenti a livello clinico riguardano le funzioni sessuali: nell’uomo si ha impotenza e oligospermia e nella donna amenorrea. A questi fenomeni si accompagna una diminuita produzione di ormoni sessuali, in particolare di testosterone nell’uomo (nonostante un incremento dei livelli ematici di LH). L’origine di questa menomazione non è chiara, ma, almeno in parte, sembra connessa con la malnutrizione e con la negatività del bilancio azotato. Altre alterazioni metaboliche ed endocrine sono rilevanti più a livello degli esami di laboratorio che come causa di sintomi e segni. A. Esami di laboratorio. Le indagini sulle urine e gli esami ematochimici danno lo stesso tipo di informazioni di cui si è già parlato a proposito della IRC allo stadio dei sintomi iniziali. Solamente, verranno trovate molto elevate (10 volte i livelli ematici normali e più) le concentrazioni di urea nel sangue e di creatinina nel siero. La determinazione della clearance della creatinina fa rilevare valori del filtrato glomerulare di pochi ml/min. Altre alterazioni ematochimiche rilevanti sono l’iperuricemia, l’ipertrigliceridemia (con iperlipoproteinemia di tipo IV) e l’anomalia della curva glicemica dopo un carico di glucosio (in senso diabetogeno), mentre la glicemia a digiuno è di solito normale. L’acidosi metabolica, come si è già detto, comporta una diminuzione dei livelli ematici di bicarbonati con un aumento del “gap” degli anioni. L’iperpotassiemia è propria degli stadi più avanzati dell’uremia. La sodiemia può essere diminuita se esiste iperidratazione. La calcemia può essere variamente alterata: diminuita se prevale il difetto di vitamina D, aumentata in corso di grave acidosi. Una calcemia normale non esclude l’iperparatiroidismo secondario: infatti, nella IRC, l’aumentata secrezione di PTH è impiegata per mantenere normale la concentrazione dei fosfati nel liquido extracellulare e, in assenza di una diminuzione
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della concentrazione dei fosfati nel plasma, un’ipercalcemia non si può avere perché sposterebbe verso l’alto il prodotto delle concentrazioni tra calcio e fosforo. È comune, invece, un aumento della concentrazione plasmatica della fosfatasi alcalina, conseguenza del rimaneggiamento osseo che ha luogo nell’osteodistrofia renale. B. Diagnosi. Il quadro clinico dell’uremia è così caratteristico da non porre problemi diagnostici. Solo quando le alterazioni di apparati si presentano isolatamente possono porre il problema della loro dipendenza da altre condizioni morbose. Il riconoscimento, con gli esami di laboratorio, del difetto di funzione renale risolve facilmente questa incertezza. C. Decorso e prognosi. In assenza di trattamento dialitico l’uremia è mortale in un periodo relativamente breve (se la durata debba essere calcolata in mesi o in settimane dipende dal fatto che sia più o meno precoce il termine dal quale viene calcolato il decorso della sindrome uremica). Qualche soddisfazione terapeutica anche in assenza di dialisi può essere ottenuta in quei pazienti nei quali una IRC solo modestamente sintomatica viene precipitata da fattori intercorrenti. In questi casi la correzione della volemia o la sospensione di un farmaco nefrotossico può ristabilire la situazione precedente anche per un periodo relativamente lungo. L’avvento della dialisi ha permesso di prolungare notevolmente la vita del paziente con IRC. Bisogna comunque ricordare che questi soggetti presentano una notevole vulnerabilità nei confronti degli agenti infettivi (per es., nei pazienti dializzati si ha un’elevata incidenza di epatiti virali), la quale può seriamente compromettere il decorso della malattia. D. Terapia. Nella fase terminale la IRC può essere trattata solamente con la dialisi e il trapianto renale (si veda in seguito). Prima che queste misure estreme si rendano indispensabili, interventi utili possono essere eseguiti per rallentare quei fattori di progressione della IRC che sono stati precedentemente ricordati. Esponiamo le linee essenziali di questi trattamenti. 1. Dieta. La misura dietetica più importante è la riduzione dell’apporto di proteine e fosfati, che solitamente procedono di pari passo dato che queste sostanze sono contenute negli stessi alimenti. L’apporto proteico quotidiano varia perciò da 1-1,2 g/kg per le forme più lievi (filtrato glomerulare tra 50 e 80 ml/min) fino a 0,6 g/kg per le forme più gravi (filtrato glomerulare tra 5 e 25 ml/min). Quando l’apporto proteico quotidiano è molto ridotto deve essere limitato solo a proteine di alto valore biologico (può essere anche limitato a 0,3 g/kg con l’aggiunta di aminoacidi fino all’apporto azotato equivalente a 0,6 g/kg di proteine). Si è detto che la diminuzione dell’apporto dei fosfati è in qualche modo parallela a quella delle proteine. Una riduzione ulteriore può essere ottenuta, negli stadi più avanzati della IRC, assumendo supplementi di carbonato di calcio con i pasti.
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Costituiscono i cardini della terapia dell’insufficienza renale.
quidi extracellulari in condizioni normali. Una membrana semipermeabile, interposta fra i due fluidi, permette il passaggio dei metaboliti tossici e degli elettroliti in eccesso dal plasma verso la soluzione. Attualmente l’emodialisi viene eseguita regolarmente, in appositi reparti ospedalieri o anche a domicilio, in pazienti con IRC e con minima funzione renale residua. Gli schemi di trattamento sono tre volte alla settimana per 4-6 ore, o due volte alla settimana a seconda della funzione renale residua. In tal modo si può proseguire anche per molti anni, permettendo al paziente una condizione di relativo benessere, pur restando il grosso problema psicologico di dover accettare una situazione di vita così limitata. Per quanto la dialisi permetta un buon compenso del quadro clinico, non consente di correggere alcuni disturbi quali l’anemia, l’ipertensione arteriosa, l’osteodistrofia e le disfunzioni sessuali. Inoltre è un presidio terapeutico molto costoso. Una soluzione alternativa di grande interesse è la dialisi peritoneale continua ossia l’immissione e la sottrazione cicliche di 2 litri di un’appropriata soluzione nella cavità peritoneale, la cui superficie serve da membrana dializzante. La dialisi peritoneale offre dei vantaggi teorici rispetto all’emodialisi, in particolare sembra più adatta ad eliminare i polipeptidi a medio peso molecolare cui si attribuisce la responsabilità di alcuni sintomi uremici. Impiegata inizialmente solo nell’insufficienza renale acuta, la dialisi peritoneale è oggi adottata regolarmente anche nella terapia della IRC ed è preferita all’emodialisi in alcuni pazienti: nei bambini, in soggetti di età superiore ai 60 anni, nei diabetici, in presenza di problemi cardiocircolatori, quando gli accessi vascolari per l’emodialisi si sono deteriorati o quando esistano controindicazioni all’eparina (la cui azione anticoagulante è indispensabile nell’emodialisi). Grazie ad un accesso permanente alla cavità peritoneale con un catetere di silastic, la dialisi peritoneale può essere eseguita regolarmente secondo varie tecniche, la più efficace delle quali sembra la cosiddetta CAPD (Continuous Ambulatory Peritoneal Dialysis, che significa dialisi peritoneale continua ambulatoriale). Con questo metodo la soluzione da dialisi è sempre presente in peritoneo ed è rinnovata 4-5 volte al giorno. Il principale problema con la dialisi peritoneale è la sterilità. Se le manovre non sono condotte accuratamente esiste, infatti, il rischio di indurre peritonite. Il costo della CAPD è superiore a quello dell’emodialisi domiciliare, ma inferiore a quello dell’emodialisi in ambiente ospedaliero.
A. Dialisi. L’emodialisi consiste nella depurazione del sangue dei metaboliti tossici che vi si accumulano, mediante l’uso di apparecchi dotati di un sistema di entrata collegato con un’arteria del paziente, ed un sistema di uscita collegato con una vena. Solitamente la connessione dell’apparecchio da dialisi con il sistema vascolare del paziente viene resa agevole (mediante aghi) praticando preliminarmente una fistola arterovenosa sull’arto superiore del paziente. Il sangue che penetra nell’apparecchio giunge a contatto con un’apposita soluzione che è prossima alla composizione dei li-
B. Trapianto renale. Prima di tutto occorre precisare che il trapianto renale può essere consigliato solo a pazienti ancora giovani in buone condizioni generali. La situazione ottimale è che vi sia la possibilità di trovare un donatore identico al ricevente per quanto riguarda il corredo antigenico relativo agli antigeni del gruppo AB0 e a quelli di istocompatibilità (HLA). È questo il caso di due fratelli gemelli identici. Più frequentemente, il trapianto viene effettuato fra soggetti non identici che dimostrano un minor numero di incompatibilità.
Un problema controverso è rappresentato dall’apporto di acidi grassi polinsaturi con la dieta (acidi grassi essenziali, contenuti in alcuni oli vegetali). Tra questi è compreso l’acido arachidonico da cui derivano le prostaglandine E2 e I2. Queste possono esercitare una funzione benefica sulla funzione renale e, in tal senso, il consumo di acidi grassi essenziali può essere incoraggiato. Inoltre, questi costituenti dietetici tendono a ridurre la colesterolemia e perciò ad eliminare uno dei fattori di rischio per la progressione della IRC. D’altro canto, queste prostaglandine sono mediatori dell’infiammazione e, nelle nefropatie associate ad un’importante componente infiammatoria, la riduzione dietetica degli acidi grassi essenziali può essere protettiva (così sembra dimostrato in modelli sperimentali animali). 2. Farmaci. I farmaci più impiegati sono quelli necessari per la riduzione della pressione arteriosa. In questo senso gli inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina (ACE-inibitori) e i farmaci bloccanti i canali del calcio (calcio-antagonisti) sembrano rallentare la progressione della IRC più di quanto non sia spiegabile con la sola diminuzione dei livelli pressori. Un commento particolare meritano gli ACE-inibitori cui si deve una riduzione delle resistenze a livello delle arteriole efferenti glomerulari, in conseguenza della diminuzione dell’angiotensina II disponibile. Questa modificazione può ridurre la pressione nei capillari glomerulari ed impedire il progressivo danneggiamento renale, postulato secondo la teoria emodinamica della progressione della IRC. Tuttavia, in caso di stenosi dell’arteria renale bilaterale, o anche in un singolo rene quando la funzione dell’altro è perduta, la caduta delle resistenze a valle dei glomeruli può comportare una diminuzione critica del filtrato glomerulare. Sono perciò farmaci che vanno impiegati con cautela. Altri farmaci che possono essere impiegati sono quelli volti alla riduzione dei livelli ematici di colesterolo e di trigliceridi. Infine, farmaci che ostacolano l’aggregazione piastrinica, come l’acido acetilsalicilico e il dipiridamolo, possono ostacolare la progressione della IRC attraverso l’inibizione degli effetti nocivi delle piastrine a livello dei glomeruli lesi.
Dialisi e trapianto renale
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35 - INSUFFICIENZA RENALE
L’intervento chirurgico consiste nel posizionamento del rene in fossa iliaca, abboccandolo all’arteria e alle vene iliache. Dopo l’intervento può però verificarsi il rigetto del trapianto. Esistono tre tipi di rigetto: iperacuto, acuto e cronico. • Rigetto iperacuto: avviene nelle ore successive all’intervento, in pazienti già sensibilizzati (per es., da un precedente trapianto). Il danno consiste in una necrosi da trombosi intravascolare. • Rigetto acuto: si verifica nell’arco di giorni e comporta un danneggiamento meno radicale del rene in
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quanto può essere fatto regredire con alte dosi di corticosteroidi. • Rigetto cronico: lo si sospetta in presenza di un lento deterioramento della funzione renale che si verifica dopo più di 3 mesi dal trapianto. Non è detto che il ricostituirsi di una IRC sia sempre dovuto a reazioni di istocompatibilità (cioè sia un vero rigetto). Può dipendere anche dal rinnovarsi, nel rene trapiantato, dalla stessa malattia che aveva causato la IRC o dall’effetto di farmaci nefrotossici o dall’insorgenza ex novo di una nefropatia. La biopsia renale può servire a risolvere i dubbi in proposito.
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C A P I T O L O
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MALATTIE GLOMERULARI C. RUGARLI, A. SESSA
GLOMERULOPATIE Generalità Con il termine di glomerulopatia si indica un gruppo molto eterogeneo di condizioni patologiche che interessano l’integrità e le funzioni dei glomeruli renali. Queste condizioni dipendono da cause sistematiche, perciò la compromissione glomerulare è sempre bilaterale e simmetrica. Dal punto di vista fisiopatologico le conseguenze delle glomerulopatie sono abbastanza semplici e dipendono da due tipi di alterazioni del filtrato glomerulare: qualitative e quantitative. Le alterazioni qualitative presentano a loro volta due aspetti. Il primo è un’alterazione delle proprietà di ultrafiltro della membrana glomerulare, con passaggio nelle urine di proteine in quantità superiore a quella minima che si verifica fisiologicamente (e che, di solito, non viene rilevata). È questa la base della proteinuria. Il secondo aspetto dipende da lesioni dell’integrità anatomica della membrana glomerulare, dovute di regola all’azione di enzimi litici liberati da cellule infiammatorie. In questo caso varie cellule ematiche possono farsi strada attraverso la membrana glomerulare e comparire nelle urine; principalmente globuli rossi, ma anche leucociti se questi sono affluiti al glomerulo in dipendenza del processo infiammatorio. È questa la base dell’ematuria e della leucocituria. Le alterazioni quantitative del filtrato glomerulare consistono in una sua riduzione (insufficienza renale), che può essere di grado lieve ma anche molto notevole e giungere a frazioni minime del valore normale. Si vedrà che è molto importante la modalità con la quale si verifica questa riduzione e che si hanno effetti molto differenti a seconda che la riduzione del filtrato glomerulare sia brusca o molto graduale. Le alterazioni qualitative del filtrato glomerulare possono verificarsi in assenza di alterazioni quantitative e queste ultime possono aversi in presenza di alterazioni
qualitative nulle o minime (tanto da essere addirittura rilevate con i metodi ordinari), così che, a prima vista, le alterazioni dei due tipi sembrano indipendenti le une dalle altre. Tuttavia, come verrà spiegato meglio in seguito, se un processo patologico glomerulare dura sufficientemente a lungo, tende a mettere in moto meccanismi che lo fanno progredire e, in ultima analisi, conducono a sostituzione sclerotica dei glomeruli. Perciò è difficile che le alterazioni del filtrato glomerulare persistano per molto tempo restando solo qualitative; la tendenza è, invece, che intervenga anche una riduzione del filtrato glomerulare, riduzione che può progressivamente aggravarsi nel tempo. Queste modalità di alterazioni fisiopatologiche nelle glomerulopatie possono variamente combinarsi tra di loro e dar luogo ad un’ampia gamma di quadri clinici, riconducibili però a un limitato numero di sindromi. Ma se sul piano clinico il panorama delle malattie dovute a glomerulopatie appare piuttosto semplice, non è così sul piano patogenetico ed anatomopatologico. I recenti progressi conseguiti con i modelli sperimentali e con l’impiego dei più moderni metodi di indagine morfologica, applicati alle biopsie renali, hanno dimostrato che le glomerulopatie sono molto più eterogenee di quanto appaia dal solo punto di vista clinico e che una singola sindrome clinica può, da un caso all’altro, essere provocata da diversi meccanismi patogenetici e corrispondere a differenti quadri patologici. Alternativamente, un dato quadro patologico con un corrispondente processo patogenetico può provocare o l’una o l’altra tra varie sindromi cliniche, anche se esistono associazioni preferenziali. Questa constatazione ha provocato un importante cambiamento nosografico perché alla classificazione tradizionale delle glomerulopatie, basata su criteri clinici, si è sovrapposta una classificazione più analitica che si rifà in larga parte ai quadri anatomopatologici. Non deve sfuggire che questa classificazione anatomopatologica è pienamente adeguata agli impieghi clinici, perché la pratica della biopsia renale è sufficientemente diffusa, al giorno d’oggi, da rendere possibile la diagnosi anatomopatologica in ogni singolo caso.
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La classificazione più largamente seguita delle glomerulopatie rappresenta comunque un compromesso tra i criteri patogenetici, anatomopatologici e clinici. Una distinzione fondamentale è tra glomerulopatie primitive e secondarie. Le prime si presentano come malattie a sé stanti, mentre le seconde si inscrivono nel quadro di malattie più complesse che interessano anche altri organi e apparati, oltre ai reni. Nell’ambito tanto delle glomerulopatie primitive che di quelle secondarie il termine glomerulonefrite è riservato a quelle in cui è evidente un processo infiammatorio nella determinazione del danno glomerulare. Più precisamente, con il termine di glomerulonefrite si indica una malattia caratterizzata da infiammazione intraglomerulare e proliferazione cellulare associata a ematuria. La proliferazione cellulare può riguardare tanto le cellule mesangiali che quelle endoteliali ed epiteliali. Anche l’infiltrazione con granulociti neutrofili derivati da fenomeni essudativi locali viene considerata una componente delle alterazioni proliferative intraglomerulari. La proliferazione è considerata intracapillare o endocapillare quando si riferisce alle cellule mesangiali o endoteliali, extracapillare quando riguarda cellule poste nella capsula di Bowman. La proliferazione di cellule epiteliali e monociti in questo spazio può avvolgere il glomerulo in una specie di capsula a forma di semiluna (“crescent” in inglese). Il termine di glomerulosclerosi è impiegato per indicare un aumento nel glomerulo di materiale omogeneo non fibrillare con la stessa apparenza ultrastrutturale della membrana basale o della matrice mesangiale. Si parla di fibrosi solamente quando si ha deposizione di collageno di tipo I e di tipo III, più comunemente come conseguenza di cicatrizzazione di lesioni a semiluna, o tubulo-interstiziali. Le glomerulopatie primitive sono per lo più ad azione ignota ed il loro meccanismo patogenetico, nella maggior parte dei casi, è di natura immunopatologica. Dato che le alterazioni immunopatologiche si traducono frequentemente in processi infiammatori, è comprensibile che molte glomerulopatie primitive siano in realtà delle glomerulonefriti. La classificazione correntemente seguita delle glomerulopatie primitive è quella che le distingue in base ad alcuni quadri anatomopatologici caratteristici, ai quali sono preferenzialmente associati determinati processi patogenetici e quadri clinici. Ecco un elenco delle glomerulopatie primitive (le singole entità elencate verranno dettagliatamente descritte e discusse nei paragrafi che seguono): • glomerulonefrite proliferativa essudativa (o endoteliale essudativa, o proliferativa endocapillare); • glomerulonefrite proliferativa extracapillare; • glomerulonefrite proliferativa focale a depositi di IgA; • glomerulonefrite proliferativa mesangiale; • glomerulonefrite membrano-proliferativa; • glomerulopatia a lesioni minime; • glomerulosclerosi focale; • glomerulopatia membranosa.
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A questo elenco deve essere aggiunta un’altra forma determinata da fattori eredo-familiari e denominata “a membrana sottile”. Questa nefropatia è caratterizzata da normalità dei glomeruli alla microscopia ottica e membrana glomerulare sottile alla microscopia elettronica. Un elenco delle glomerulopatie secondarie è presentato nella tabella 36.1. Un’esposizione analitica di ciascuna glomerulopatia che riportasse per ognuna l’eziopatogenesi, l’anatomia patologica e la clinica, sarebbe fortemente ripetitiva e didatticamente inefficace. Abbiamo perciò deciso di trattare l’argomento da due punti di vista: – il primo, che riguarda l’eziopatogenesi e l’anatomia patologica, è un punto di vista generale che vale per tutte le glomerulopatie; – il secondo, invece, partendo dalle singole sindromi cliniche e riferendosi particolarmente a queste, risale alle glomerulopatie che le hanno determinate. Concluderemo il capitolo con qualche dettaglio sulle glomerulopatie secondarie.
Tabella 36.1 - Glomerulopatie secondarie. Glomerulopatie secondarie a patogenesi immunitaria (glomerulonefriti secondarie) • In corso di malattie infettive – Gravi infezioni viscerali – Endocardite infettiva – Nefrite da shunt – Malaria • In corso di malattie immunopatologiche sistemiche – Lupus eritematoso sistemico – Porpora di Henoch-Schönlein – Crioglobulinemia mista e altre vasculiti • In corso di epatopatie – Epatite virale di tipo B – Epatite cronica attiva – Cirrosi epatica • In concomitanza di patologia polmonare – Sindrome di Goodpasture • In corso di neoplasie Glomerulopatie secondarie a patogenesi non immunitaria • Glomerulopatia diabetica • Glomerulopatia in corso di amiloidosi • Glomerulopatie da cause vascolari – Arteriosclerosi – Stasi venosa • Glomerulopatia della porpora trombotica trombocitopenica e della sindrome emolitico-uremica • Glomerulopatie nel quadro di malattie eredo-familiari – Nefrite ereditaria ematurica (malattia di Alport) – Sindrome nefrosica congenita – Osteo-onico displasia (sindrome nail-patella) – Angiocheratoma diffuso (malattia di Fabry)
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Eziopatogenesi È oggi accertato che una vasta gamma di agenti eziologici, ignoti o conosciuti, può provocare glomerulopatie in conseguenza di alcuni fondamentali processi patogenetici. Il problema è perciò meglio affrontato dal punto di vista della patogenesi ed è importante ricordare che, a questo proposito, una distinzione preliminare deve essere fatta tra meccanismi patogenetici immunologici e non immunologici. A. Meccanismi patogenetici immunologici. I più sicuri meccanismi immunologici implicati nella patogenesi delle glomerulopatie (glomerulonefriti) sono dovuti all’azione di anticorpi solubili e sono di due tipi: • anticorpi che reagiscono con antigeni insolubili delle strutture glomerulari, che possono essere costituenti della membrana basale (e allora si tratta di autoanticorpi) o antigeni di provenienza ematica che restano intrappolati nel glomerulo; • anticorpi che reagiscono con antigeni solubili circolanti, in un rapporto tale da dar luogo a complessi antigene-anticorpo pure solubili, che hanno tendenza a depositarsi nei glomeruli. Le glomerulonefriti indotte da autoanticorpi antimembrana basale costituiscono meno del 5% di tutte le glomerulonefriti umane. La loro patogenesi è stata accertata a partire da modelli sperimentali nei quali si era dimostrata la possibilità di indurre glomerulonefrite in animali mediante l’iniezione di antisieri eterologhi diretti contro gli antigeni della membrana basale. Nell’uomo questo meccanismo patogenetico è stato accertato con vari metodi, alcuni morfologici indiretti, dei quali si parlerà in seguito, ed altri immunologici diretti basati sulla dimostrazione, nel siero dei pazienti (o in eluati da reni nefritici), di anticorpi che reagiscono contro membrane basali glomerulari. Una forma morbosa caratterizzata da glomerulonefrite dovuta ad anticorpi antimembrana basale ed emottisi ricorrenti prende il nome di malattia di Goodpasture. Si pensa che, alla base di questo processo, ci sia una reazione autoimmune contro un antigene comune presente sia nella membrana basale glomerulare, sia nella membrana basale dei vasi polmonari. Più raramente, pazienti con anticorpi antimembrana basale nel sangue presentano solo una patologia respiratoria, sotto forma di emosiderosi polmonare idiopatica, nella quale l’accumulo di ferro nell’interstizio del polmone deve essere messo in relazione con la trasformazione del sangue stravasato in ripetuti episodi emorragici. Questo significa che gli stessi antigeni presenti nella membrana basale glomerulare si trovano pure nella membrana basale dei vasi polmonari. È noto che l’autoimmunità può essere scatenata da alterazioni strutturali di autoantigeni, sufficienti a dare una risposta immunitaria cross-reagente anche con gli stessi antigeni non alterati. È verosimile che alterazioni di questo tipo, indotte da agenti esogeni, possano verificarsi abbastanza facilmente nei polmoni, che sono a contatto con l’ambiente esterno. In effetti, in un limitato nu-
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mero di casi, la glomerulonefrite da autoanticorpi antimembrana basale con patologia polmonare associata è stata osservata dopo inalazione di idrocarburi o infezione con virus influenzale A2. Tuttavia, nella maggior parte dei casi un agente esogeno inalato non è riconosciuto. Alternativamente, il danno primitivo potrebbe aver luogo nel rene ed essere provocato da vari tipi di lesioni ischemiche o immunologiche di altro tipo (per es., la deposizione di complessi antigene-anticorpo). Il fatto stesso che sia così difficile rintracciare delle cause per la formazione di autoanticorpi antimembrana basale fa pensare che i condizionamenti esogeni possano essere poco significativi e che l’elemento più importante debba essere ricercato in un qualche fattore costituzionale che rende l’individuo particolarmente propenso a produrre questo particolare tipo di autoanticorpi, magari in conseguenza di un ampio ventaglio di sollecitazioni occasionali. La dimostrazione che esiste un’associazione tra questo meccanismo patogenetico di glomerulonefrite e l’antigene di istocompatibilità HLA-DR2 rende verosimile questo punto di vista. L’autoantigene in causa nella malattia di Goodpasture è stato identificato nelle membrane basali come due epitopi (regioni molecolari riconosciute dagli anticorpi), discontinui, nella porzione non collagenosica della catena 3 del collageno di tipo IV. Si è visto che la formazione di autoanticorpi antimembrana basale è un caso particolare di reazione immunitaria contro antigeni insolubili glomerulari, l’altro essendo rappresentato dalla risposta anticorpale contro antigeni di provenienza ematica (per es., batterici o autoantigeni) che restano intrappolati nel glomerulo, più comunemente nel mesangio. Questa seconda possibilità sembra importante nel lupus eritematoso sistemico nel quale complessi istoni-DNA possono collegarsi alla superficie delle cellule glomerulari e depositarsi nella membrana basale. In tal caso gli anticorpi anti-DNA possono combinarsi localmente con questo loro bersaglio. Una volta che si sono fissati alla membrana basale gli autoanticorpi possono danneggiarla attivando la sequenza complementare, con un processo analogo a quello che sarà descritto in seguito a proposito delle glomerulonefriti da immunocomplessi. Tuttavia, in una minoranza di pazienti con questo tipo di glomerulonefrite non si dimostrano frazioni del complemento fissate sulla membrana basale e perciò deve essere operante qualche altro meccanismo lesivo non bene identificato. Le glomerulonefriti indotte da complessi antigeneanticorpo circolanti sono di gran lunga le più comuni, rappresentando oltre il 75% di tutte le glomerulonefriti umane. Il modello sperimentale cui esse si riferiscono è quello della malattia da siero, acuta e cronica. Come è noto, nella malattia da siero acuta (singola iniezione di una proteina eterologa), esiste una fase transitoria nella quale la produzione anticorpale non ha ancora raggiunto il suo massimo e possono formarsi complessi in lieve eccesso di antigene (complessi immuni), che per questo motivo sono solubili e circolano. In questa fase, nell’animale da esperimento può verificarsi una glomerulonefrite che è transitoria, in quanto il successivo incremento della produzione anticorpale dà luogo alla formazione di complessi più grossi, eliminati attraverso
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la fagocitosi dal sistema reticolo-istiocitario. Nella malattia da siero cronica la ripetuta somministrazione di una proteina eterologa può bilanciare la produzione dei corrispondenti anticorpi e mantenere il rapporto antigene-anticorpo entro valori tali da determinare la presenza di complessi immuni nel sangue per un periodo prolungato. Si possono così indurre nell’animale da esperimento varie forme di glomerulonefrite, nelle quali le alterazioni istologiche glomerulari sono dipendenti dalla quantità e dalle dimensioni dei complessi immuni (si veda in seguito). Da quanto detto risulta evidente che qualsiasi antigene che evochi un’adatta risposta anticorpale (cioè non troppo intensa, in modo che i complessi siano formati in lieve eccesso di antigene e siano solubili e circolanti) può indurre glomerulonefrite con questo meccanismo patogenetico. Una lista degli antigeni esogeni ed endogeni che possono provocare glomerulonefrite con questo processo è presentata nella tabella 36.2. Nonostante la lista sia numerosa è bene precisare che, nella maggior parte dei casi, l’antigene implicato nelle glomerulonefriti da complessi immuni resta sconosciuto. Tra gli antigeni noti, particolarmente importanti sono quelli della membrana plasmatica di alcuni tipi di streptococco -emolitico di gruppo A tra i quali il più importante è il tipo 12. La tipizzazione avviene in base alle caratteristiche antigeniche di una proteina di membrana, detta proteina M, che non si identifica con le proteine responsabili della risposta immunitaria che provoca la glomerulonefrite. La capacità nefritogena degli streptococchi, nota fin dal secolo scorso, è maggiore rispetto a quella degli altri microrganismi. Tra gli antigeni endogeni la capacità nefritogena massima è riconosciuta ai complessi immuni formati con gli antigeni nucleari e con le immunoglobuline nella crioglobulinemia mista (Cap. 69). Tuttavia, tanto in corso di infezioni quanto nelle condizioni autoimmuni sopra ricordate, la glomerulonefrite colpisce solo una frazione degli individui affetti. Per esempio, anche quando avviene l’infezione con un tipo nefritogeno di streptococco -emolitico di gruppo A, il rischio di glomerulonefrite è dell’ordine del 10-12%. Tabella 36.2 Le più importanti cause di glomerulonefrite. CAUSE INFETTIVE
CAUSE NON INFETTIVE
• Streptococco -emolitico A • Streptococcus viridans • Staphylococcus aureus • Staphylococcus albus • Pneumococco • Enterococco • Haemophilus influenzae • Brucella • Salmonella • Proteus • Pseudomonas • E. coli • Micobatteri • Virus (epatite B) • Treponema • Plasmodi
• Antigeni eterologhi – Sieri – Farmaci • Antigeni autologhi – DNA (lupus) – Crioglobulinemia mista – Antigeni neoplastici – Antigeni tubuli renali • Antigeni sconosciuti in corso di: – porpora anafilattoide – altre nefriti
Evidentemente perché si sviluppi una glomerulonefrite da complessi immuni non basta che si abbia una risposta immunitaria all’antigene, ma occorre anche che la risposta sia di un tipo particolare, in modo che i complessi risultanti abbiano le caratteristiche fisico-chimiche (per es. le dimensioni) adatte a provocare la loro deposizione nei glomeruli. A questo riguardo potrebbero avere importanza fattori predisponenti costituzionali. Un caso particolarmente interessante è quello che si verifica nella nefropatia da IgA. In questa, che è la più diffusa forma di glomerulonefrite in tutto il mondo, si ammette che esista, alla radice, un’anomalia intrinseca nella produzione di IgA da parte di pazienti che ne sono affetti. L’anomalia può consistere in una capacità eccessiva di produrre anticorpi di questa classe immunoglobulinica (che spesso sono presenti nel sangue in concentrazione superiore al normale) o in un’alterazione qualitativa di queste molecole, quale una loro anormale glicosilazione. In quest’ultimo caso i complessi immuni contenenti IgA sfuggono alla captazione da parte dei macrofagi (i quali per farlo si servono di recettori particolari – recettori per le asialoglicoproteine – che riconoscono le regioni molecolari glicosilate) e possono depositarsi nei glomeruli renali. I depositi immuni nei glomeruli sono rappresentati principalmente da forme polimeriche della sottoclasse IgA1. In realtà, solo nel 15% dei pazienti si ha un deposito renale isolato di IgA, spesso coesistendo IgG e IgM. Tuttavia, si pensa che la reazione ad antigeni ubiquitari, principalmente agenti di infezioni nell’apparato respiratorio, possa scatenare la nefropatia da IgA. Nei glomeruli si dimostra la componente C3, ma non quella C1 e C4 del complemento, a indicare che i complessi immuni contenenti IgA attivano il complemento per la via alternativa. Il meccanismo con il quale i complessi immuni provocano il danno glomerulare è legato in primo luogo all’attivazione della sequenza complementare. Come è noto, quando un antigene è legato ad anticorpi della classe IgM o IgG in un’adatta configurazione spaziale ha luogo l’attivazione della cosiddetta “via classica” del complemento. Gli anticorpi della classe IgA aggregati (e certe IgG) possono anche attivare la sequenza complementare attraverso la cosiddetta “via alternativa”. Alcuni dei prodotti intermedi solubili che si formano hanno importanti proprietà biologiche promuoventi la infiammazione. In particolare, i frammenti C3a, C4a e C5a si comportano come “anafilatossine”, ossia determinano la liberazione di istamina dai mastociti (e dai granulociti basofili) e attraverso questa provocano un aumento della permeabilità vascolare, che a sua volta fa sì che sia facilitata la deposizione di complessi immuni nei glomeruli, amplificando il meccanismo patologico iniziale. Il frammento C5a, invece, ha una potente azione chemiotattica positiva sui granulociti neutrofili, che perciò si accumulano nella sede di deposizione dei complessi immuni liberando i loro enzimi lisosomiali; questi possono così danneggiare le strutture glomerulari favorendo l’adesione e l’aggregazione di piastrine, le quali, a loro volta, sono pure in grado di liberare sostanze farmacologicamente attive, inclusa l’istamina. Risulta perciò evidente che i veri protagonisti del
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danno glomerulare sono i granulociti neutrofili, mentre i mastociti (e i granulociti basofili) e le piastrine servono ad amplificare il processo patologico. Sembra tuttavia che, oltre ai granulociti, anche i macrofagi abbiano un ruolo nell’induzione del danneggiamento glomerulare. Oltre a questi due fondamentali meccanismi patogenetici immunologici di glomerulonefrite ne esistono altri meno documentati. In certi pazienti con una particolare forma di glomerulonefrite, detta membrano-proliferativa (si veda in seguito) si può trovare nel sangue un autoanticorpo, detto fattore nefritico, che reagisce con componenti attivati della via alternativa del complemento stabilizzandoli. Dato che l’attivazione di questi componenti si verifica in piccola quantità spontaneamente, la loro stabilizzazione porta all’attivazione della sequenza complementare per via alternativa. L’esistenza sulle cellule endoteliali dei glomeruli renali di recettori per il frammento C3b potrebbe costituire il fattore di localizzazione nei glomeruli delle frazioni del complemento attivate per via alternativa dal fattore nefritico. Tuttavia non esistono modelli sperimentali che comprovino il ruolo immunopatologico del fattore nefritico e la sua specie-specificità ha reso impossibile il suo impiego nel trasferimento passivo di questa particolare glomerulonefrite in primati subumani. L’attivazione del complemento per via alternativa può, tuttavia, contribuire alla patogenesi anche di altre forme di glomerulonefrite. Un meccanismo immunopatologico diverso da quelli sopra ricordati potrebbe essere operativo in un’altra forma di glomerulonefrite, detta a lesioni minime (si veda in seguito). Questa malattia è molto sensibile a terapie efficaci nei processi immunopatologici e tuttavia nei glomeruli dei pazienti che ne sono affetti non si riesce a dimostrare la presenza di immunoglobuline e complemento. Si è perciò supposto che in questo caso il danno glomerulare sia determinato da sostanze solubili rilasciate dai linfociti. L’esatta definizione di questo possibile meccanismo immunopatologico è soggetto di interessanti studi, ma non può ancora essere considerata conclusiva. B. Meccanismi patogenetici non immunologici. Possiamo raccogliere questi meccanismi patogenetici in tre gruppi: vascolari, metabolici, da aumentata adesione piastrinica nei capillari glomerulari e attivazione dei fattori della coagulazione. 1. Le glomerulopatie di origine vascolare sono fondamentalmente dovute ad alterazioni che comportano un diminuito afflusso di sangue arterioso ai glomeruli. Diminuendo la pressione idrostatica nei capillari glomerulari si riduce anche il filtrato glomerulare. È chiaro che un processo di questo tipo può verificarsi per stenosi aterosclerotica di entrambe le arterie renali, ma questo processo patologico è raramente così simmetrico da coinvolgere in misura corrispondente tutti i glomeruli. Più importanti sono le lesioni arteriolosclerotiche, del tipo caratteristico dell’ipertensione maligna, le quali colpiscono uniformemente tutte le arteriole afferenti.
Anche vasculiti, come la panarterite nodosa, possono ridurre il filtrato glomerulare con lo stesso meccanismo. Nella sclerosi progressiva sistematica (o sclerodermia) le arteriole renali possono essere coinvolte in un diffuso, grave vasospasmo che può ridurre drasticamente il filtrato glomerulare. È interessante notare che in molte di queste glomerulopatie a patogenesi vascolare si osservano anche variazioni qualitative del filtrato glomerulare, sotto forma di proteinuria. È possibile che, prima ancora che l’arteriolosclerosi riduca il flusso ematico ai glomeruli, l’ipertensione arteriosa danneggi direttamente l’endotelio dei capillari e provochi reazioni del tipo che descriveremo a proposito dei meccanismi di progressione delle glomerulopatie. Un danno endoteliale potrebbe essere anche determinato dall’ischemia glomerulare. 2. Le glomerulopatie di origine metabolica sono dovute o ad alterazioni biochimiche delle strutture connettivali glomerulari, come sembra, almeno in parte, essere il caso nella glomerulopatia diabetica (ma si veda in seguito per una discussione più approfondita di questo argomento), o a deposizione di macromolecole a livello della membrana basale e del mesangio come sembra essere il caso dell’amiloidosi. 3. Le glomerulopatie da aumentata adesione piastrinica e attivazione dei fattori della coagulazione sono importanti, tenendo conto del notevole sviluppo di superficie dei capillari glomerulari e della molteplicità di occasioni che possono portare in questa sede ad una adesione (e poi aggregazione) piastrinica e ad attivazione delle prime tappe del processo di emocoagulazione. Le piastrine, adese e poi aggregate, possono liberare sostanze ad attività proinfiammatoria (come il trombossano A2), oltre ad altre sostanze che, come si vedrà, possono comportare importanti alterazioni anatomiche dei glomeruli. Inoltre l’attivazione delle prime tappe del processo di coagulazione può ovviare la cascata complementare e danneggiare i glomeruli con il meccanismo che abbiamo già descritto a proposito delle glomerulopatie a patogenesi immunologica. Alterazioni endoteliali propizie a questo meccanismo patogenetico possono essere secondarie ad altri meccanismi patogenetici, immunologici, vascolari e metabolici. Tuttavia possono anche verificarsi in maniera apparentemente primitiva, come nel caso della porpora trombotica trombocitopenica e della sindrome emolitico-uremica, condizioni determinate da un’abnorme adesività piastrinica. È probabile che un’incrementata adesività piastrinica, secondaria ad alterazioni connettivali geneticamente determinate, sia anche alla base di alcune glomerulopatie ereditarie.
Metodi di studio La conoscenza delle glomerulopatie ha conseguito notevoli progressi grazie all’introduzione nella pratica clinica della biopsia renale e delle più moderne tecniche di indagine immunologica.
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Queste metodiche hanno completamente trasformato le conoscenze su tale argomento e hanno consentito di riconoscere forme morbose individuali non altrimenti definibili. È opportuno perciò qualche riferimento a queste metodiche prima di parlare delle principali forme di glomerulopatie. A. Metodiche microscopiche. Molte notizie sulla patologia glomerulare sono ricavate con la semplice microscopia ottica (per uno schema della morfologia del glomerulo si veda la figura 36.1). Infatti le alterazioni microscopiche glomerulari possono dare un’idea dei meccanismi patogenetici implicati. Per esempio, le dimensioni dei complessi antigene-anticorpo (che, come si è visto, sono il fattore patogenetico responsabile della maggior parte delle glomerulopatie) influenzano la loro localizzazione e le alterazioni morfologiche risultanti: nel mesangio per i complessi più grossi (con relativo eccesso di anticorpi), nelle pareti dei capillari per i complessi di dimensioni intermedie (antigeni ed
A.
B.
Figura 36.1 - Schema di un glomerulo normale. A. In grigio è rappresentata la matrice del mesangio, contenente cellule mesangiali e capillari (rappresentati in sezione trasversa e con una singola cellula endoteliale sezionata per capillare) accollati alla membrana basale (linea spessa nera); dal lato della capsula di Bowman i podociti fronteggiano i capillari; B. particolare di un’ansa capillare che dimostra due podociti (P), una cellula endoteliale (E) con la parete fenestrata e due cellule mesangiali (M).
anticorpi ad equivalenza) e sul versante epiteliale della membrana basale per i complessi più piccoli (in eccesso di antigene). Inoltre, tutti i danni importanti della membrana basale – soprattutto, ma non esclusivamente, se provocati da autoanticorpi contro questa struttura – comportano la deposizione di fibrina nella capsula di Bowman, cui consegue l’accumulo di cellule figurate di provenienza ematica con formazione di ammassi cellulari che, seguendo la conformazione della capsula, assumono alla microscopia ottica l’aspetto di “semilune”. Queste semilune possono arrivare a obliterare il lume della capsula di Bowman e ad abolire completamente la funzione dei singoli glomeruli. Altre metodiche molto importanti nello studio delle glomerulopatie sono rappresentate dall’immunofluorescenza e dalla microscopia elettronica. 1. L’immunofluorescenza (che è una metodica nella quale confluiscono la morfologia e l’immunologia) serve a individuare in un preparato microscopico la presenza e la collocazione di sostanze antigenicamente definite. Nella sua forma più semplice il metodo è basato sul trattamento del preparato microscopico con un antisiero contenente anticorpi diretti contro l’antigene del quale si va alla ricerca. Questi anticorpi sono stati preliminarmente coniugati con una sostanza che diviene fluorescente quando sollecitata con luce ultravioletta. Se gli anticorpi trovano l’antigene nel preparato microscopico vi restano attaccati e quindi è possibile visualizzarli grazie alla localizzazione della fluorescenza che si sviluppa quando il preparato è osservato con uno speciale microscopio a luce ultravioletta. Nel caso delle glomerulopatie vengono impiegati antisieri diretti contro le varie classi di immunoglobuline umane e contro varie frazioni del complemento. La presenza di immunoglobuline e complemento nei glomeruli di una biopsia renale indica la natura immunitaria del processo patogenetico di una glomerulopatia. La loro collocazione spaziale può dare dei suggerimenti ulteriori: per esempio, una disposizione lineare di immunoglobuline e complemento lungo la membrana basale indica che la glomerulopatia è provocata da autoanticorpi antimembrana basale; una disposizione a masserelle discrete o, come si dice, granulare indica invece la deposizione di complessi immuni. Altri dati interessanti derivano dalla individuazione delle classi di immunoglobuline depositate nei glomeruli o della relativa prevalenza della deposizione di complemento. 2. La microscopia elettronica è utile per cogliere alterazioni minime delle cellule delle strutture glomerulari non individuabili con la microscopia ottica ordinaria. Inoltre permette di visualizzare la collocazione di materiale omogeneo derivante dalla deposizione di anticorpi e complemento e di costituenti degradati delle strutture glomerulari. B. Metodiche immunologiche. Oltre all’immunofluorescenza, di cui si è già parlato, le metodiche immunologiche più correntemente impiegate sono la ricerca dei complessi immuni circolanti e la determina-
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zione della concentrazione di alcuni fattori del complemento nel siero. Esistono molte metodiche per la ricerca dei complessi immuni circolanti, che non sono coincidenti tra di loro, nel senso che ciascuna individua meglio complessi con caratteristiche particolari. Il modo migliore per ricercare i complessi immuni circolanti sarebbe perciò l’impiego di parecchie metodiche in parallelo, ma questo è difficile al di fuori dei centri specialistici. Quando vengono impiegate solo una o due metodiche è facile che questa ricerca risulti negativa anche in caso di glomerulonefrite indotta da complessi antigene-anticorpo circolanti. La valutazione dei fattori del complemento nel siero è utile perché, se nei glomeruli ha luogo un processo patologico che comporta il loro consumo, la loro concentrazione ematica sarà diminuita. È possibile stimare l’attività emolitica del complemento nel siero (che, facendo riferimento alla diluizione di siero che consente il 50% di emolisi in un sistema emolitico definito, è indicata con la sigla CH50), ma è ugualmente comune l’impiego di tecniche analitiche più precise. Di solito si dosano i fattori C1q, C3 e C4, che possono essere tutti diminuiti se il complemento è attivato per la via classica, mentre l’attivazione per la via alternativa tende a far calare prevalentemente la concentrazione di C3 risparmiando quella di C1q e C4.
Anatomia patologica È importante tenere presente il significato di alcuni termini che spiegheremo preliminarmente (Fig. 36.2). Una glomerulopatia è definita diffusa quando tutti i glomeruli sono coinvolti nel processo patologico, è invece considerata focale quando, in entrambi i reni, glomeruli alterati sono intercalati con glomeruli sani. Dal punto di vista del singolo glomerulo la glomerulopatia è definita globale se tutti i lobuli che lo formano sono ugualmente compromessi, è chiamata segmentaria se alcuni lobuli sono interessati ed altri no. Nella esposizione che segue ci soffermeremo principalmente sull’anatomia patologica delle glomerulopatie primitive, mentre faremo cenno alle glomerulopatie secondarie successivamente. Questa particolare attenzione alle glomerulopatie primitive è giustificata dal fatto che la loro classificazione è fondamentalmente anatomopatologica. Le glomerulopatie primitive sono tutte a patogenesi immunopatologica e in buona parte presentano lesioni istologiche francamente infiammatorie (di tipo tale, cioè, che giustifica la denominazione di glomerulonefrite). Le modalità del processo immunopatologico sono alla base delle lesioni elementari. Gli anticorpi antimembrana basale provocano fratture di questa membrana ed eventualmente la formazione di accumuli pericapillari di macrofagi con aspetto epitelioide (semilune: si veda in seguito). I complessi antigene-anticorpo provocano lesioni diverse a seconda delle loro dimensioni: quelli piccoli si localizzano sul versante epiteliale della membrana glomerulare (come nel caso della glomerulopatia membranosa), quelli intermedi sono trattenuti a
Diffusa
Globale
Focale
Segmentaria
Figura 36.2 - Rappresentazione schematica della possibile distribuzione nel rene ed estensione nel glomerulo delle lesioni delle glomerulopatie.
livello endoteliale, dove vengono attirate dal sangue cellule infiammatorie (è il caso della glomerulonefrite proliferativa essudativa), i più grossi sono intrappolati nel mesangio (spazio connettivale compreso tra le anse dei capillari glomerulari) dove provocano proliferazione delle cellule che vi sono contenute. Altre variazioni delle lesioni patologiche dipendono dalla natura dell’antigene (che, però, nelle glomerulopatie primitive resta spesso sconosciuto) e dalla classe degli anticorpi. In alcuni casi (glomerulopatie a lesioni minime) le lesioni sono visibili solo al microscopio elettronico e la connessione con i meccanismi patogenetici è più difficile (si veda in seguito). Riportiamo la descrizione delle lesioni patologiche caratteristiche delle più importanti forme di glomerulopatie primitive. A. Glomerulonefrite proliferativa essudativa (detta anche essudativa endoteliale) (Fig. 36.3). Questa forma è caratterizzata da proliferazione, in tutti i glomeruli, non solo delle cellule mesangiali, ma anche delle cellule endoteliali con numerosi infiltrati granulocitari (da qui l’aggettivo “essudativa”). Tra tutte le glomerulonefriti primitive la proliferativa essudativa è quella più spesso ad eziologia nota, essendo provocata in primo luogo da infezione con ceppi nefritogeni di streptococco -emolitico di gruppo A e subordinatamente da altri agenti infettivi, batteri, virus e parassiti. La patogenesi di questa malattia sembra dovuta alla deposizione nei glomeruli di complessi immuni nei quali l’antigene è rappresentato da prodotti dello streptococco -emolitico di gruppo A (come già anticipato) e di altri microrganismi. Tuttavia, esistono elementi per ritenere
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MALATTIE DEL RENE E DELLE VIE URINARIE
A.
B.
Figura 36.3 - Glomerulonefrite proliferativa essudativa. A. Si ha rigonfiamento e proliferazione delle cellule endoteliali e mesangiali, presenza nel mesangio, nel lume capillare e nella capsula di Bowman di fagociti polimorfonucleati; all’esterno della membrana basale sono visibili (in nero) depositi di materiale amorfo che formano i cosiddetti “humps”; B. particolare di un’ansa capillare contenente un granulocita neutrofilo (GN). (P = podocito; E = cellula endoteliale; M = cellula mesangiale)
sangiali ed endoteliali glomerulari e da infiltrazione di leucociti polimorfonucleati e monociti, così che le anse dei capillari glomerulari appaiono più dilatate del normale e conferiscono un aspetto lobulato al glomerulo. Alle volte è possibile identificare, sul versante della membrana basale, dei fini noduli parietali, visibili come goccioline rosse con la colorazione tricromica di Masson, che quasi certamente corrispondono agli “humps” visti in microscopia elettronica (si veda in seguito). In alcuni glomeruli ed in certi casi è possibile riconoscere la presenza di proliferazione cellulare all’interno della capsula di Bowman con la formazione di semilune. Lo studio dei glomeruli per mezzo della microscopia elettronica evidenzia l’ipertrofia e l’iperplasia sia delle cellule mesangiali che endoteliali, e la presenza di granulociti neutrofili ed eosinofili nei lumi dei capillari glomerulari. L’aspetto elettromicroscopico più caratteristico è rappresentato dalla presenza di depositi parietali elettrondensi, a sede sottoepiteliale, con dimensioni variabili da 1 a 3 m sia in lunghezza che in larghezza, chiamati “humps” per il loro aspetto “a gobba”. Altri depositi elettrondensi possono essere identificati anche all’interno delle membrane basali dei capillari glomerulari e, sebbene più raramente, a sede sottoendoteliale. Durante le fasi di guarigione della glomerulonefrite acuta, gli “humps” tendono a scomparire nello spazio di alcune settimane e le membrane basali dei capillari glomerulari presentano irregolarità di spessore ed anche di densità; l’iperplasia e l’ipertrofia delle cellule mesangiali possono persistere per alcuni mesi e la matrice mesangiale appare incrementata. La microscopia immunofluorescente evidenzia depositi parietali a sede sottoepiteliale e mesangiale, a piccoli grani, diffusi di IgG e C3 con un aspetto definito “a cielo stellato”. Usualmente è più evidente e più persistente la positività del C3 che non quella delle IgG; può esservi positività per IgM e per fibrinogeno. Non raramente la positività dell’immunofluorescenza è limitata al C3.
B. Glomerulonefrite proliferativa extracapillare o glomerulonefrite rapidamente progressiva (Fig. 36.4). Questa forma è caratterizzata dalla formazione di semilune in più del 50% (e spesso più dell’80%) dei glomeruli, in aggiunta a lesioni glomerulari di altro tipo. La glomerulonefrite proliferativa extracapillare può essere conseguente ad infezioni, allo stesso modo della
che questo non sia il solo meccanismo patogenetico implicato. Con l’immunofluorescenza si dimostra, infatti, una deposizione granulare di immunoglobuline (IgG) e di complemento (che è in accordo con la patogenesi da complessi immuni). Tuttavia, usualmente, la positività è più marcata per il complemento che per le IgG e, tra le frazioni complementari, quella più rappresentata nei glomeruli è C3, mentre C1q e C4 sono presenti in scarsa quantità. Questo reperto ha suggerito che anche l’attivazione del complemento per via alternativa contribuisce alla patogenesi della glomerulonefrite proliferativa essudativa. Dal punto di vista anatomopatologico si osserva un quadro caratteristico. In microscopia ottica tutti i glomeruli sono interessati uniformemente da proliferazione delle cellule me-
Figura 36.4 - Glomerulonefrite proliferativa extracapillare con la caratteristica semiluna che oblitera lo spazio della capsula di Bowman.
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proliferativa essudativa, ma è spesso ad eziologia sconosciuta e perciò definita idiopatica. Le forme postinfettive hanno la stessa patogenesi della glomerulonefrite proliferativa essudativa. La patogenesi delle forme idiopatiche è varia. In circa il 20% dei casi (tipo I) l’immunofluorescenza dimostra nei glomeruli una disposizione lineare di immunoglobuline e complemento e si mettono in evidenza nel siero sanguigno autoanticorpi antimembrana basale. Nel 30% dei casi (tipo II) l’immunofluorescenza rileva nei glomeruli depositi granulari di immunoglobuline e complemento e, nel siero sanguigno, non si dimostrano autoanticorpi antimembrana basale. Queste forme sono perciò dovute alla deposizione di complessi immuni. Nei rimanenti casi (tipo III) non si rilevano all’immunofluorescenza né immunoglobuline, né complemento nei glomeruli. Queste forme sono definite perciò paucimmuni. Nell’80% di queste particolari glomerulonefriti, definite paucimmuni, si possono tuttavia trovare autoanticorpi nel siero, e precisamente autoanticorpi diretti contro il citoplasma dei neutrofili (ANCA: Anti Neutrophil Cytoplasmic Antibodies). Questi sono caratteristicamente presenti in alcune vasculiti, quali la granulomatosi di Wegener, la poliangite microscopica e la malattia di Churg e Strauss (si veda il Cap. 69), che possono includere nel loro quadro clinico anche una glomerulonefrite rapidamente progressiva. Tuttavia, spesso gli ANCA vengono trovati nella glomerulonefrite proliferativa extracapillare indipendentemente dai segni sistemici di vasculite. Dal punto di vista anatomopatologico si è già detto che l’elemento distintivo della glomerulonefrite proliferativa extracapillare è l’estesa formazione di semilune. Le semilune sono costituite prevalentemente da cellule monocitarie di provenienza ematica attraverso fratture delle pareti dei capillari glomerulari, che svolgono un’azione fagocitaria (macrofagi) e si trasformano in cellule epitelioidi sotto lo stimolo di prodotti di degradazione della fibrina, giunti nello spazio di Bowman; da ultimo, si riconoscono cellule fibroblastiche e fibre collagene. Alcune pareti dei capillari glomerulari presentano fratture estese. Nelle lesioni più vecchie, questa proliferazione a semiluna diventa meno cellulare e appare costituita da fibroblasti e da tessuto collagene e si assiste all’obsolescenza completa del glomerulo. C. Nefropatia da IgA (malattia di Berger). Questa particolare forma di glomerulonefrite fu descritta da Berger e Hinglais nel 1968 ed è caratterizzata, come dice il suo nome, da depositi focali mesangiali di immunoglobuline e complemento, con la peculiarità che tra le immunoglobuline prevalgono quelle della classe IgA. Si tratta di una malattia non rara che nell’Europa occidentale ha un’incidenza da 15 a 40 nuovi casi per milione di abitanti/anno e una prevalenza che può arrivare all’1,3% della popolazione. Per molti anni è stata considerata una condizione benigna, ma oggi è chiaro che in un significativo numero di casi può progredire verso l’insufficienza renale cronica.
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Le cause della nefropatia da IgA sono sconosciute. Sono riportati casi di aggregazione familiare della malattia e questo ha suggerito la possibilità che fattori genetici siano importanti. L’associazione con certi antigeni del sistema HLA è apparsa controversa, mentre l’analisi dell’intero genoma ha mostrato delle associazioni interessanti. L’opinione attuale è che la nefropatia da IgA sia condizionata da uno o più geni in combinazione con circostanze ambientali. Sulla patogenesi di questa malattia si sono conseguiti progressi interessanti che sintetizzeremo nei seguenti punti. 1. Se un rene di donatore normale viene trapiantato a un paziente che è in insufficienza renale a seguito di una nefropatia da IgA, esiste un significativo rischio che anche il rene trapiantato sviluppi la stessa malattia. Quindi, si tratta di un’affezione sistemica che si manifesta a livello renale. 2. Le IgA umane sono distinte in due sottoclassi: IgA1 e IgA2. Le plasmacellule associate con la mucosa respiratoria e con quella intestinale producono IgA di entrambe le sottoclassi, quelle presenti nel midollo, nei linfonodi e nella milza producono solo IgA1. I depositi di IgA presenti nei glomeruli renali in questa nefropatia sono solo della sottoclasse IgA1, perciò non provengono dalle mucose. 3. Si è notato che l’inizio della nefropatia da IgA può avvenire in coincidenza con infezioni delle vie aeree superiori e ciò aveva condotto all’opinione che il sistema immunitario delle mucose fosse iperattivo in questa malattia. Tale idea era anche rinforzata dalla constatazione che alcuni pazienti che ne sono affetti presentano livelli più elevati rispetto alla norma di IgA libere o legate alla fibronectina. Oggi esistono elementi per concludere in senso contrario, e cioè che, quando è cimentato con gli antigeni, il sistema immunitario delle mucose è meno efficiente che di norma nei pazienti con nefropatia da IgA. Conseguentemente, una quantità superiore di antigeni non viene bloccata a livello delle mucose ed è maggiore il contributo delle plasmacellule del midollo, dei linfonodi e della milza alla risposta immunitaria. 4. È possibile che le IgA1 abbiano maggiore propensione a depositarsi nei glomeruli renali rispetto alla IgA2 e che perciò una risposta squilibrata a favore delle prime sia un fattore rilevante. Tuttavia, non sembra che questo sia sufficiente e deve intervenire un altro fattore, che sembra essere una difettosa aggiunta di galattosio alla molecola delle IgA1. Tutte le immunoglobuline sono collegate a molecole di carboidrati e anche le IgA sono sottoposte a processi di questo tipo. È stato dimostrato che le IgA1 presenti nel siero, o eluite da campioni prelevati da nefrectomia in pazienti con nefropatia da IgA, presentano un difetto di galattosilazione. IgA di soggetti normali sottoposte all’azione della -galattosidasi hanno un’accresciuta tendenza a legarsi con le cellule mesangiali.
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5. Il deposito di IgA1 difettosamente galattosidate, che entrano tuttavia a costituire immunocomplessi con i corrispondenti antigeni, attiva la produzione di citochine. Tra queste hanno particolare importanza la IL-6 (interleuchina-6), che promuove la proliferazione delle cellule mesangiali e la sintesi di macromolecole della matrice extracellulare, e il TGF- (Transforming Growth Factor ), che porta allo sviluppo di fibrosi, cui conseguono glomerulosclerosi e atrofia tubulare. 6. Non esiste un antigene specifico per gli immunocomplessi che determinano la nefropatia da IgA. Infatti, in base a quello che abbiamo detto, gli antigeni in questo caso possono essere della natura più varia e non hanno un ruolo patogenetico di per sé, ma sono solamente un fattore occasionale nella stimolazione di una risposta IgA particolare in soggetti con un difetto di risposta immunologica a livello delle mucose, con una conseguente aumentata produzione di IgA1 e con un coincidente difetto della glicosilazione di queste immunoglobuline. La particolarità di questa risposta immunitaria sarebbe la causa dell’aumentata propensione dei complessi immuni contenenti IgA a depositarsi nei glomeruli renali. Delle parentele tra la nefropatia da IgA e la porpora di Henoch-Schönlein si dirà in seguito. In entrambe queste forme i livelli di complemento nel sangue sono normali (glomerulonefriti normocomplementemiche) a differenza della maggior parte delle altre glomerulonefriti, nelle quali i livelli di complemento sono bassi (glomerulonefriti ipocomplementemiche). Dal punto di vista anatomopatologico, le lesioni caratteristiche sono rappresentate da una proliferazione delle cellule mesangiali che non è presente in tutti i glomeruli, ma solo in alcuni, da qui l’aggettivo “focale”, e spesso non è diffusa a tutto il glomerulo, ma è limitata ad alcuni lobuli. Le pareti dei capillari glomerulari presentano pertanto degli ispessimenti segmentari e focali, zone di sclerosi e a volte scleroialinosi glomerulare globale focale. La presenza di estese lesioni di tipo sclerotico è accompagnata da proteinuria significativa e da compromissione del filtrato glomerulare. Al microscopio elettronico si osservano caratteristici depositi elettrondensi, finemente granulari, a sede mesangiale, in corrispondenza di tutti i glomeruli e di tutti i loro lobuli. All’immunofluorescenza la IgA è la predominante o la sola immunoglobulina a sede quasi esclusivamente mesangiale diffusa in tutti i glomeruli. IgG e C3 sono spesso presenti.
A.
B.
Figura 36.5 - Glomerulonefrite proliferativa mesangiale. A. Proliferazione di cellule del mesangio e presenza di depositi (in nero) nella matrice mesangiale; B. particolare di un’ansa capillare che dimostra depositi che si estendono verso lo spazio sottoendoteliale. (D = depositi; P = podocito; E = cellula endoteliale; M = cellula mesangiale)
Un deposito glomerulare di IgA può osservarsi anche nella porpora di Henoch-Schönlein, oltre che, come fenomeno secondario, in varie altre malattie (epatiche, intestinali, cutanee, polmonari, neoplastiche, infettive, immunopatologiche) caratterizzate tutte da un intenso impegno del sistema immunitario.
Per questo tipo di lesione è stato coniato il termine di glomerulonefrite proliferativa mesangiale. In realtà, è possibile che molti casi etichettati come glomerulonefrite proliferativa mesangiale siano altre glomerulonefriti nelle quali la biopsia renale non ha consentito la diagnosi per difetto di campionamento dei glomeruli osservati.
D. Glomerulonefrite proliferativa mesangiale (Fig. 36.5). Alcune biopsie renali, studiate al microscopio ottico, non sono classificabili in modo esauriente e definitivo ed evidenziano semplicemente una modesta proliferazione mesangiale, con quadri clinici diversi tra di loro ed esami di laboratorio non significativi.
La patogenesi della glomerulonefrite proliferativa mesangiale non è nota; molto probabilmente differenti meccanismi possono comportare questa lesione istologica. La proliferazione mesangiale dimostrabile al microscopio ottico si accompagna a depositi mesangiali di C3 e/o IgM all’immunofluorescenza e a lesioni rilevabili in microscopia elettronica, con evidenza di piccoli depositi elettrondensi a sede mesangiale.
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A.
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Si riconoscono due varianti principali di glomerulonefrite membrano-proliferativa: il tipo I, caratterizzato da evidente proliferazione cellulare con depositi elettrondensi a sede sottoendoteliale e mesangiale; il tipo II caratterizzato da depositi elettrondensi, nastriformi all’interno della membrana basale del capillare glomerulare, con meno evidente proliferazione delle cellule mesangiali. Entrambe le forme si accompagnano frequentemente, anche se non obbligatoriamente, a bassi valori della frazione C3 del complemento e a riduzione dell’attività emolitica complementemica del siero (glomerulonefrite persistentemente ipocomplementemica). La patogenesi di questa particolare glomerulonefrite è particolarmente interessante. Infatti, come si è già anticipato, nel 20% dei pazienti con la variante di tipo I e nel 60% dei pazienti con la variante di tipo II si dimostra nel siero un fattore termostabile capace di scindere il C3 in siero normale fresco in presenza di EDTA magnesiaco. Questo fattore nefritico (C3NeF) è un anticorpo IgG contro la componente C3b quando questa è impegnata nella via alternativa del complemento. Come si è detto, piccole quantità di C3b possono formarsi spontaneamente nel siero, ma sono rapidamente inattivate. In presenza di varie influenze protettive, e tale potrebbe essere quella dell’autoanticorpo che costituisce il fattore C3NeF, il C3b potrebbe legarsi al fattore B attivato a costituire in forma stabile il complesso C3bBb. Questo ha un’attività enzimatica su C3 e porta alla formazione di C3b, che ripete il processo in un ciclo che si autoamplifica. Questa attività del fattore C3NeF in vitro potrebbe perciò rispecchiare un suo corrispondente ruolo patogenetico in vivo, anche se, come abbiamo già detto, ciò non è provato al di là di ogni dubbio.
B.
Figura 36.6 - Glomerulonefrite membrano-proliferativa di tipo I. A.- B. Sono rappresentate schematicamente due anse capillari con propaggini di cellule mesangiali (M) e depositi (D) che si insinuano tra le cellule endoteliali (E) e la membrana basale. In B. si nota addensamento della lamina sottoendoteliale che conferisce alle anse capillari il caratteristico doppio contorno (DC) con aspetto “a binario”.
E. Glomerulonefrite membrano-proliferativa (detta anche mesangio-capillare) (Fig. 36.6). La glomerulonefrite membrano-proliferativa è caratterizzata da una evidente proliferazione delle cellule mesangiali, con estensione circumferenziale di loro propaggini citoplasmatiche attorno ai capillari glomerulari. La parete delle anse glomerulari appare quindi ispessita sia per la presenza di lembi citoplasmatici di cellule mesangiali, che per l’apposizione di matrice mesangiale e per la deposizione di immunocomplessi: le pareti dei capillari glomerulari nel loro complesso appaiono non solo ispessite, ma reduplicate, con un caratteristico aspetto detto “a binario”.
Dal punto di vista anatomopatologico la glomerulonefrite membrano-proliferativa di tipo I è caratterizzata non solo dalla proliferazione delle cellule mesangiali, dall’incremento della matrice mesangiale, dalla reduplicatura ed ispessimento delle pareti capillari, ma anche da depositi elettrondensi a sede mesangiale e a sede sottoendoteliale (humps); inoltre vi è quasi sempre anche la presenza di granulociti neutrofili e per tali motivi la diagnosi differenziale con la glomerulonefrite proliferativa essudativa non è sempre agevole. Lo studio della biopsia renale al microscopio elettronico è a volte dirimente. All’immunofluorescenza si riscontrano immunoglobuline IgG ed IgM, più raramente IgA, mentre è costantemente presente la frazione C3 del complemento e solo raramente C1q e C4. La distribuzione è parietale ed anche mesangiale. La glomerulonefrite membrano-proliferativa di tipo II è caratterizzata da una modesta proliferazione delle cellule mesangiali con la trasformazione del normale aspetto delle pareti dei capillari glomerulari, le quali appaiono ispessite, con membrane basali nastriformi. Il microscopio elettronico ha evidenziato come il cospicuo ispessimento delle pareti dei capillari glomerulari sia imputabile a depositi elettrondensi nastriformi, nel contesto della membrana basale. Tali depositi allo studio con il microscopio immunofluorescente sono positivi solo per la frazione C3 del complemento; l’unica immunoglobulina presente può essere la IgM.
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Figura 36.7 - Glomerulopatia a lesioni minime: aspetto di un’ansa capillare. Solo in microscopia elettronica sono visibili le alterazioni dei podociti (P) con scomparsa dei pedicelli che sono fusi tra di loro. Si confronti con la figura 36.1B.
F. Glomerulopatia a lesioni minime (Fig. 36.7). Per glomerulopatia a lesioni minime si intende un quadro clinico-istologico caratterizzato dalla presenza di sindrome nefrosica in assenza di lesioni glomerulari riconoscibili per mezzo del microscopio ottico e con quadro immunofluorescente negativo. L’eziologia della glomerulopatia a lesioni minime è sconosciuta; anche se eccezionalmente questa particolare glomerulopatia è stata descritta in conseguenza di quelle che vengono considerate reazioni allergiche specifiche (punture di insetti, farmaci). La sua patogenesi è pure sconosciuta. Come si è anticipato, esistono elementi per sospettare che questa malattia sia dovuta ad un meccanismo immunopatologico mediato dall’immunità cellulare, nel quale i linfociti T liberino fattori solubili in grado di permeabilizzare la membrana glomerulare. Il ruolo dell’immunità cellulare è pure suggerito dalla possibilità che questa glomerulopatia guarisca in corso di morbillo, un’infezione che menoma le funzioni dei linfociti T. Da che cosa derivi l’aumentata permeabilità della membrana glomerulare non è certo, ma si pensa che un ruolo importante abbiano le variazioni della carica elettrica alla superficie delle cellule poste sui due versanti della membrana, e in particolare dei podociti. Grazie al rivestimento di sialoproteine queste cellule sono normalmente ricoperte di cariche negative che esercitano un’attività repulsiva sulle proteine eventualmente filtrate, pure dotate, al pH dei liquidi biologici, di una carica dello stesso segno. Una diminuzione del loro sviluppo complessivo di superficie per fusione dei pedicelli sarebbe alla base dell’aumentata permeabilità della membrana glomerulare nella glomerulopatia a lesioni minime. La proteinuria che ne risulta è selettiva (ossia interessa soprattutto le molecole proteiche più piccole). Dal punto di vista anatomopatologico le alterazioni sono, per definizione, minime. La biopsia renale non evidenzia lesioni allo studio in microscopia ottica e immunofluorescente. Il microscopio elettronico ha permesso di identificare alterazioni glomerulari assai tipi-
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che. Le cellule epiteliali appaiono ipertrofiche, con numerosi vacuoli citoplasmatici e con gocciole lipidiche intracitoplasmatiche; la struttura pedicellare è completamente sconvolta, non più riconoscibile e le cellule prendono contatto con la membrana basale del capillare glomerulare direttamente con lembi citoplasmatici (“fusione” dei pedicelli). Questa glomerulopatia è nettamente prevalente nei bambini e nei giovani (l’età più rappresentata è dai 3 ai 6 anni), con maggior frequenza nei maschi. Il quadro clinico che ne risulta è quello di una tipica sindrome nefrosica, ma con qualche peculiarità. Di solito non vengono dimostrati complessi immuni nel siero (anche se qualcuno li ha descritti) né variazioni dell’attività del complemento o della concentrazione delle sue frazioni. Nel siero sanguigno si dimostra un certo incremento delle immunoglobuline delle classi IgM e IgE, ma una netta diminuzione della concentrazione delle IgA e delle IgG. Questa riduzione delle IgG non può essere dovuta ad una loro perdita nelle urine perché, come si è visto, nella glomerulopatia a lesioni minime la proteinuria è selettiva. È molto più probabile perciò che la loro sintesi sia inibita per qualche processo connesso con la patogenesi della malattia. La prognosi della glomerulopatia a lesioni minime è in genere buona dato che, nella maggior parte dei casi, la malattia regredisce dopo un singolo ciclo di terapia corticosteroidea o addirittura spontaneamente. Esistono tuttavia casi che recidivano alla sospensione della terapia e che richiedono che essa venga ripresa e proseguita a lungo. In altri casi la malattia appare resistente al trattamento fin dall’inizio o lo diviene dopo un’iniziale risposta. Nonostante questi inconvenienti la probabilità che una glomerulopatia a lesioni minime evolva in insufficienza renale cronica è molto bassa. La terapia, come si è anticipato, è basata sull’impiego di corticosteroidi e, nei casi resistenti, di farmaci citotossici come la ciclofosfamide. G. Glomerulosclerosi focale. Questa glomerulopatia è caratterizzata da lesioni sclerotiche glomerulari a distribuzione segmentaria e focale. Si ammette che questo quadro anatomopatologico possa essere sovrapposto a quello di altre glomerulopatie, come quella a lesioni minime o la glomerulonefrite proliferativa mesangiale, ma ne esiste anche una forma che può essere considerata un’entità clinico-patologica a sé stante. In tutti i casi il quadro clinico che ne deriva è quello di una sindrome nefrosica. L’eziologia della glomerulosclerosi focale è ignota, anche se la malattia è stata osservata più che occasionalmente in tossicodipendenti consumatori di cosiddetta “eroina da strada” e in pazienti con infezioni urinarie recidivanti per reflusso vescico-ureterale cronico. Anche la sua patogenesi è sconosciuta, ma è probabile che questa forma morbosa rappresenti una forma evolutiva di altre glomerulopatie. Al microscopio ottico, le lesioni sono riconoscibili nei glomeruli della giunzione cortico-midollare, mentre i glomeruli corticali possono apparire del tutto normali. Le lesioni scleroialinosiche sono localizzate solo in alcune anse dei glomeruli iuxtamidollari.
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Il microscopio immunofluorescente documenta la presenza di IgM, C1q e C3 a distribuzione granulare, nodulare, focale, in corrispondenza delle aree di sclerosi.
H. Glomerulopatia membranosa (Fig. 36.8). La glomerulopatia membranosa è una entità clinico-pato-
A.
logica caratterizzata da proteinuria (spesso, da sindrome nefrosica) associata ad ispessimento delle pareti dei capillari glomerulari per incremento di materiale similmembrana basale e per deposizione di materiale elettrondenso a sede sottoepiteliale. L’eziologia della glomerulopatia membranosa è ignota, ma è certo che questa forma può osservarsi a seguito di reazioni a farmaci, in caso di infezioni (epatite B, malaria) o di neoplasie (carcinomi, linfomi). La patogenesi, non documentata, potrebbe rifarsi a diversi meccanismi: • sulla parete del capillare glomerulare si “impiantano” immunocomplessi circolanti; la fonte dell’antigene è sconosciuta; • anticorpi circolanti contro un antigene glomerulare, che in modo discontinuo viene fornito dalla porzione esterna della membrana basale, si “impiantano” in situ; • anticorpi circolanti si fissano su antigeni estrinseci al glomerulo, ma “impiantati” sulla parete del capillare glomerulare. Al microscopio ottico non è evidenziabile proliferazione degli stipiti cellulari glomerulari. Le pareti delle anse capillari appaiono ispessite quasi uniformemente; non sono riconoscibili aspetti “a binario”. La microscopia immunofluorescente evidenzia sempre le IgG, spesso il C3, più raramente IgM, con distribuzione granulare, parietale, sottoepiteliale.
B.
C.
Figura 36.8 - Glomerulopatia membranosa: aspetto di un’ansa capillare in fase iniziale, intermedia e avanzata. Si nota l’ispessimento della membrana basale e la presenza di depositi (in grigio) sul suo versante sottoepiteliale (A). Con il progredire della malattia, protrusioni della membrana vengono a interporsi tra i depositi (B), fino ad avvolgerli completamente e fare in modo che essi siano inclusi nella membrana ispessita (C). Epi: podociti (epiteliali); End: cellule endoteliali; MC: cellule mesangiali.
Importante è il contributo fornito dalla microscopia elettronica nella definizione dei quadri morfologici della glomerulopatia membranosa. Alcuni Autori correlano le alterazioni glomerulari ultrastrutturali con gli stadi della malattia. Lo stadio I è caratterizzato da pochi depositi sottoepiteliali, con membrane basali di aspetto quasi normale, “a fusione” dei pedicelli solo in corrispondenza dei depositi elettrondensi. Lo stadio II è caratterizzato da proiezioni di materiale similmembrana basale che circondano i depositi elettrondensi a sede sottoepiteliale. La parete capillare appare ispessita. Più diffuso è il fenomeno della “fusione” dei pedicelli. Lo stadio III è caratterizzato dalla tendenza delle proiezioni di materiale similmembrana basale ad inglobare, a castone di anello, i depositi elettrondensi a sede sottoepiteliale. La parete capillare appare diffusamente ispessita ed i pedicelli sono praticamente scomparsi. Lo stadio IV evidenzia pareti capillari glomerulari diffusamente ispessite e contenenti nel loro contesto i residui di depositi elettrondensi; i pedicelli possono ricomparire con la loro tipica struttura ed in questa fase la proteinuria può ridursi di entità. In linea generale possiamo dire che lo stadio della lesione si correla con la durata della malattia.
Clinica Come si è anticipato, le sindromi cliniche provocate dalle glomerulopatie sono riconducibili a un numero limitato di quadri clinici; questi non debbono essere considerati fissi, dato che possono passare l’uno nell’altro. Inoltre a ciascuna sindrome clinica possono corrispondere vari processi patogenetici e diverse entità nosologiche individuate con la biopsia renale in base alla classificazione anatomopatologica.
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Semplici alterazioni urinarie Questa sindrome è provocata da alterazioni qualitative della membrana glomerulare, tali da consentire il passaggio nelle urine di elementi ematici e/o di proteine in quantità rilevabili, senza tuttavia che si verifichino alterazioni quantitative della funzione glomerulare (riduzione del filtrato glomerulare) o che la proteinuria sia di entità tale da modificare la concentrazione di proteine nel plasma. Le alterazioni urinarie sono perciò “semplici” in quanto non sono accompagnate da sintomi e segni riferibili ad alterata funzionalità renale. Ciò si può verificare tanto in soggetti completamente asintomatici (come nel caso delle glomerulopatie primitive), quanto in pazienti con sintomi e segni riferibili ad altri organi o apparati, diversi dal rene (come avviene nelle glomerulopatie secondarie). Le alterazioni urinarie possono essere rilevate direttamente dal paziente stesso nel caso di ematuria di entità tale da alterare il colore, che può assumere un aspetto definito “a lavatura di carne” (ematuria macroscopica). Più spesso sono rilevate indirettamente, del tutto a sorpresa, attraverso un esame delle urine eseguito in laboratorio, che è in grado di mettere in evidenza una ematuria così modesta da non alterare il colore delle urine (ematuria microscopica) e/o una proteinuria. Le cause delle semplici alterazioni urinarie sono elencate nella tabella 36.3. Dal punto di vista sistematico è conveniente separare i casi caratterizzati da ematuria, con o senza proteinuria, da quelli nei quali la proteinuria è isolata, ma sempre di entità modesta (ossia inferiore a 3,5 g nelle 24 ore nell’adulto). I casi del primo e del secondo tipo possono essere provocati da glomerulopatie, primitive o secondarie, Tabella 36.3 - Cause di semplici alterazioni urinarie. Ematuria con o senza proteinuria • Glomerulopatie primitive Più comunemente – Nefropatia da IgA – Glomerulonefrite proliferativa mesangiale – Nefropatia a membrana sottile Più raramente – Altre glomerulopatie primitive – Fase di riproduzione di glomerulonefrite acuta (particolarmente streptococcica) • Glomerulopatie secondarie – Glomerulopatie in corso di lupus eritematoso sistemico, porpora di Henoch-Schönlein, crioglobulinemia mista ed altre vasculiti – Lesioni glomerulari in corso di malattie infettive – Malattie eredo-familiari (nefrite ereditaria ematurica, malattia di Fabry) Proteinuria isolata in quantità inferiore a 3,5 g/die • Glomerulopatie primitive – Glomerulopatia membranosa – Sclerosi focale • Glomerulopatie secondarie – Glomerulopatia diabetica – Amiloidosi – Osteo-onico-displasia (sindrome nail-patella)
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che possono determinare anche altre sindromi cliniche. Infatti tra le cause di semplici alterazioni urinarie che si esprimono con ematuria (con o senza proteinuria) ve ne sono varie capaci di indurre anche glomerulonefrite acuta. Invece tra le cause di semplici alterazioni urinarie caratterizzate da proteinuria isolata sono riconoscibili condizioni che possono provocare sindrome nefrosica. Sembra evidente che, in molti casi, a decidere che si debbano avere semplici alterazioni urinarie o sindrome nefritica o sindrome nefrosica non sia tanto il tipo della glomerulopatia quanto la sua entità. Tre condizioni morbose vanno prese però particolarmente in considerazione: la nefropatia da IgA, la glomerulonefrite proliferativa mesangiale e la nefropatia a membrana sottile. La nefropatia da IgA è relativamente diffusa in Italia; è presente in entrambi i sessi e si manifesta a qualsiasi età, anche se la massima incidenza si verifica tra i 10 e i 35 anni. La caratteristica clinica più comune è la ricorrenza di ematuria macroscopica, scatenata da infezioni intercorrenti aspecifiche. L’ematuria è spesso accompagnata da malessere, dolori dorso-lombari, febbre, ma usualmente senza ipertensione arteriosa, senza edemi, senza proteinuria importante, senza decremento del filtrato glomerulare. Gli episodi di ematuria macroscopica possono risolversi completamente in pochi giorni, oppure può residuare per settimane ematuria microscopica. Altre volte l’ematuria è solo microscopica e si ripete periodicamente per periodi più o meno lunghi. In alcuni casi di ematuria, per lo più microscopica e persistente, la biopsia renale risulta del tutto normale. In questi pazienti può essere in atto una nefropatia a membrana sottile, dimostrabile con la microscopia elettronica. È comprensibile che un assottigliamento della membrana basale renda più facile il passaggio delle emazie verso la capsula di Bowman. In questi casi è talora possibile rintracciare ascendenti e/o collaterali che sono pure affetti da ematuria. Ritornando a considerare da un punto di vista generale le semplici alterazioni urinarie si deve rilevare che la loro prognosi non è necessariamente favorevole. Infatti la tendenza ad evolvere in insufficienza renale cronica è dipendente dal tipo di nefropatia oltre che dalla sua gravità, la quale, come si è visto, è il fattore che determina se la sindrome clinica derivante si limita a semplici alterazioni urinarie o è una glomerulonefrite acuta o una sindrome nefrosica. La nefropatia da IgA, che rappresenta la forma più caratteristica di questa sindrome clinica, evolve in insufficienza renale in circa la metà dei casi, anche se questa evenienza sembra più comune nei casi che danno glomerulonefrite acuta piuttosto che in quelli che si limitano alle semplici alterazioni urinarie. Per le altre glomerulopatie si veda quanto viene esposto a proposito della glomerulonefrite acuta e della sindrome nefrosica. Glomerulonefrite acuta La glomerulonefrite acuta è una glomerulopatia a rapida instaurazione caratterizzata da proteinuria ed ematuria e da una brusca diminuzione del filtrato glomeru-
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Tabella 36.4 - Cause di glomerulonefrite acuta. Glomerulopatie primitive Più comunemente – Glomerulonefrite proliferativa essudativa: da streptococco -emolitico di gruppo A ad eziologia ignota Più raramente – Altre glomerulopatie primitive (glomerulonefrite proliferativa mesangiale, glomerulonefrite membrano-proliferativa, nefropatia da IgA) Glomerulopatie secondarie – Glomerulopatie in corso di lupus eritematoso sistemico, porpora di Henoch-Schönlein, crioglobulinemia mista e altre vasculiti – Lesioni glomerulari in corso di malattie infettive
lare, cui consegue riduzione della diuresi (oliguria) e ritenzione di acqua e di sodio con sviluppo di edemi e di ipertensione arteriosa. La proteinuria è di regola modesta e comunque inferiore a 3,5 g nelle 24 ore. Per definizione la glomerulonefrite acuta è transitoria, ma possono residuare per settimane o mesi semplici alterazioni urinarie (si veda in seguito). A. Eziopatogenesi. Le cause di glomerulonefrite acuta sono riportate nella tabella 36.4. Come si vede, la causa più comune è la glomerulonefrite proliferativa essudativa, soprattutto se provocata da streptococco -emolitico di gruppo A. Consideriamo questa una glomerulonefrite primitiva a causa nota in quanto la compromissione renale non si inscrive, come di regola per le glomerulopatie secondarie, in un’altra forma morbosa (che, in questo caso, dovrebbe essere un’infezione streptococcica in atto), ma si presenta isolatamente. La infezione streptococcica si verifica di regola 1-2 settimane prima che si determini la glomerulonefrite e non è sempre apparente. Quando è clinicamente manifesta assume la forma di una tonsillite acuta, più raramente di un’infezione cutanea (erisipela, piodermite). L’intervallo di tempo necessario perché si riproduca la glomerulonefrite acuta corrisponde a quello che occorre al sistema immunitario per mettere in atto un’adeguata risposta primaria. Esistono ceppi di streptococco -emolitico di gruppo A più o meno nefritogeni e questa attitudine dipende dalla capacità sensibilizzante di una proteina, denominata con la lettera M, che entra nella costituzione dell’involucro di questi microrganismi. La immunità alla proteina M è tipo-specifica, di lunga durata e protettiva. Per questo motivo le recidive di glomerulonefrite acuta poststreptococcica sono insolite. Per quanto particolarmente importante, l’eziologia da streptococco -emolitico di gruppo A non è la sola e varie altre glomerulopatie primitive e secondarie possono provocare la glomerulonefrite acuta come indicato nella tabella 36.4. B. Fisiopatologia. L’evento determinante nella sindrome nefritica acuta è la riduzione del filtrato glomerulare che, in misura relativamente uniforme, colpisce
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tutti i glomeruli. Per le ragioni che sono state esposte nel capitolo 34, questa situazione risulta propizia allo stabilirsi di una considerevole ipertonia nelle piramidi renali e all’eliminazione di un volume ridotto di urine concentrate. La brusca riduzione del filtrato glomerulare comporta la ritenzione di acqua e di sodio; a causa dell’ipervolemia e dell’azione del sodio sulla muscolatura liscia arteriolare si sviluppa ipertensione arteriosa che, in circostanze estreme, può condurre a encefalopatia ipertensiva. L’aumento del precarico delle cavità cardiache (per l’ipervolemia) comporta un aumento delle resistenze che esse oppongono al riempimento diastolico e perciò un aumento della pressione a monte nelle vene della circolazione generale e polmonare. Gli effetti più comuni si vedono nella circolazione generale sotto forma di edemi periferici, ma può determinarsi anche congestione venosa ed edema polmonare, soprattutto se la brusca instaurazione di ipertensione comporta sovraccarico di pressione del ventricolo sinistro. C. Clinica. Come si è visto, la glomerulonefrite acuta è spesso, anche se non sempre, preceduta da una infezione da streptococco -emolitico di gruppo A, per lo più in sede faringea, ma talora anche cutanea (erisipela, impetigine, piodermite). Fra l’infezione streptococcica (quando è riconosciuta) e la sindrome nefritica acuta di solito trascorrono circa 2 settimane. Il paziente nota l’esordio della malattia da alcuni sintomi e segni che si instaurano acutamente. La diuresi è di regola ridotta, è presente cioè oliguria (si definisce con il termine di oliguria una diuresi inferiore a 400 ml nelle 24 ore). In casi estremi (per fortuna rari) si può giungere addirittura all’anuria (diuresi inferiore a 100 ml nelle 24 ore). Le urine appaiono, talora (quando l’ematuria è macroscopica), color “lavatura di carne”. Guardandosi allo specchio, al mattino, il paziente nota edemi palpebrali. Dal punto di vista obiettivo il medico nota gli edemi, che sono palpebrali al mattino e alle caviglie la sera (se il paziente non mantiene la permanenza a letto) e un pallore cutaneo dovuto all’emodiluizione. La pressione arteriosa è incrementata, anche se di solito non eccessivamente (per es., in un paziente giovane con valori pressori di 120/80 in condizioni normali, si possono rilevare valori intorno a 150/110). Altri sintomi e segni sono per lo più assenti. In casi gravi il paziente può lamentare cefalea, confusione, sonnolenza ed arrivare a presentare convulsioni tonicocloniche (encefalopatia), o presentare ortopnea, dispnea e rantoli crepitanti bibasilari all’esame del torace (congestione venosa polmonare). Gli esami di laboratorio sono molto significativi. L’esame delle urine dimostra peso specifico tendenzialmente elevato, proteinuria (solitamente di grado non elevato), positività netta per l’emoglobina e molte emazie nel sedimento (talora a tappeto). Si possono notare anche leucociti nel sedimento urinario, ma questi sono sempre in numero nettamente inferiore alle emazie. Se è possibile individuare cilindri questi appaiono ematici
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o granulosi. Nel sangue si dimostra lieve anemia (per emodiluizione), aumento della concentrazione della creatinina e dell’urea. La determinazione della clearance della creatinina non è affidabile (a causa dell’oliguria) e la stima del filtrato glomerulare attraverso il livello della creatininemia è impreciso dato che la creatininemia è, in questo caso, sottovalutata a causa dell’emodiluizione. È possibile anche evidenziare iperpotassiemia ed ipercloremia con acidosi metabolica. Gli anticorpi antistreptolisinici, antistreptochinasi, antialuronidasi, antidesossiribonucleasi B, che hanno scarsissima importanza sul significato di immunità protettiva, sono utili marker per la presenza o l’assenza di una recente infezione da streptococco -emolitico di gruppo A. Le misurazioni sieriche dell’attività emolitica del complemento (CH50) e della frazione C3 del complemento sono parametri indicativi dell’attività di malattia perché sono francamente ridotti nelle fasi iniziali, per normalizzarsi nelle successive 6-8 settimane. D. Decorso e prognosi. Di regola la glomerulonefrite acuta regredisce in breve tempo, per lo più entro una settimana. Questo è il decorso più comune nei bambini che presentano glomerulonefrite acuta durante epidemie streptococciche. Rari sono i casi nei quali il paziente può morire nella fase acuta di malattia a motivo di insufficienza renale acuta o di encefalopatia ipertensiva o per edema polmonare acuto. Un problema prognostico più sottile riguarda i pazienti che, dopo risoluzione della glomerulonefrite acuta, presentano ancora semplici alterazioni urinarie. Queste possono regredire nello spazio di settimane o mesi o, invece, persistere per anni mentre la funzione renale lentamente si deteriora in seguito allo sviluppo di glomerulosclerosi. L’esito ultimo di tale decorso è la insufficienza renale cronica. Questa evenienza dipende dalla nefropatia alla base della sindrome clinica. Nel caso della glomerulonefrite acuta poststreptococcica l’evoluzione verso l’insufficienza renale cronica può verificarsi soprattutto tra gli adulti, dove sembra aver luogo in un terzo o nella metà dei casi. È probabile che una stima corrispondente possa essere fatta anche per le glomerulonefriti proliferative essudative a eziologia ignota. Per le altre glomerulopatie primitive la percentuale di evoluzione verso insufficienza renale cronica è di più difficile valutazione. Con una certa approssimazione questa può essere considerata molto elevata nella glomerulopatia membrano-proliferativa e nella glomerulopatia proliferativa mesangiale (si veda anche in seguito a proposito della sindrome nefrosica), intorno al 50% dei casi nella nefropatia da IgA. Nel caso delle glomerulopatie secondarie la prognosi è quella delle malattie fondamentali, alle quali si rimanda. E. Terapia. La terapia della glomerulonefrite acuta è largamente di supporto, basata sul riposo a letto, sulla somministrazione di diuretici (per moderare gli edemi e l’ipertensione) e sull’impiego di vasodilatatori (se l’ipertensione è resistente ad altre terapie).
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Nel caso di una glomerulonefrite per la quale sia documentata la natura poststreptococcica, è consigliabile un breve ciclo (7-10 giorni) di terapia con un antibiotico attivo sullo streptococco -emolitico di gruppo A (penicillina, eritromicina o altri macrolidi). Non è invece indicata una profilassi a lungo termine, come nella febbre reumatica. Nelle altre glomerulopatie primitive il trattamento corticosteroideo (che di solito viene condotto a lungo a giorni alterni) è indicato soprattutto nella fase di semplici alterazioni urinarie che fa seguito alla glomerulonefrite acuta. Nelle glomerulopatie secondarie la terapia è quella della forma fondamentale. Glomerulonefrite rapidamente progressiva Questa sindrome clinica è del tutto simile alla glomerulonefrite acuta, ma se ne differenzia per il fatto che la riduzione del filtrato glomerulare non regredisce, anzi si aggrava progressivamente conducendo a insufficienza renale entro alcuni mesi (raramente più di 6). La glomerulonefrite rapidamente progressiva può essere provocata da una qualsiasi delle glomerulopatie che inducono glomerulonefrite acuta, ma ha soprattutto due cause: a) tra le glomerulopatie primitive la glomerulonefrite proliferativa extracapillare; b) tra le glomerulopatie secondarie la sindrome di Goodpasture. Si ricorderà che la glomerulonefrite proliferativa extracapillare è caratterizzata da proliferazione cellulare extracapillare a forma di semilune in un’elevata percentuale di glomeruli. Per questo, nella letteratura anglosassone, è anche definita “crescentic” (“crescent” in inglese significa semiluna), termine che alcuni nefrologi italiani traducono disinvoltamente in “crescentica”. Nella sua forma idiopatica è caratterizzata spesso dalla presenza di autoanticorpi diretti contro la membrana basale e l’eziologia è generalmente sconosciuta. Della sindrome di Goodpasture caratterizzata dalla associazione della glomerulopatia con emottisi, si parlerà diffusamente in seguito. Anche nella sindrome di Goodpasture si hanno frequentemente autoanticorpi antimembrana basale. La glomerulonefrite rapidamente progressiva ha un esordio diverso dalla glomerulonefrite acuta in quanto i sintomi di presentazione sono meno spesso legati alla ritenzione di acqua e sodio (perciò gli edemi e l’ipertensione sono meno importanti) e si caratterizza per il graduale instaurarsi dell’uremia, soprattutto sotto forma di sintomi gastroenterici (anoressia, nausea e vomito). Nelle urine è presente ematuria, talora macroscopica, proteinuria e cilindruria come nella glomerulonefrite acuta, mentre il dosaggio delle frazioni complementari nel siero non è particolarmente indicativo. Possono essere presenti oliguria e talvolta anuria. La diagnosi viene posta con la biopsia renale. La prognosi della glomerulonefrite rapidamente progressiva è, come si è detto, infausta. Entro 6 mesi dall’esordio, la metà o i due terzi dei pazienti necessitano della dialisi cronica. La terapia è basata sull’impiego di corticosteroidi e immunodepressori. Nelle forme determinate da autoanticorpi antimembrana basale un notevole giovamento può venire dalla plasmaferesi (sottrazione di sangue e restituzione dei globuli assieme ad al-
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Tabella 36.5 - Glomerulopatie primitive in grado di provocare sindrome nefrosica (1). PREVALENZA % (2) TIPO DI GLOMERULOPATIA A lesioni minime Membranosa Sclerosi focale Membrano-proliferativa Altre forme proliferative (5)
(1) (2) (3) (4) (5)
BAMBINI
ADULTI
CHE VANNO IN REMISSIONE (%) (3)
CHE DANNO IRC GRAVE (%) (4)
80 2 8 5 5
30 30 10 15 15
65 50 15-20 5 > 10 (?)
<5 30-50 0-55 40-55 20 (?)
Tutti i valori in tabella sono solo orientativi, essendo ricavati dai dati di vari Autori. Percentuale di tutte le sindromi nefrosiche in corso di glomerulopatie primitive rispettivamente nei bambini e negli adulti. Percentuale delle sindromi nefrosiche con un particolare tipo di glomerulopatia. Insufficienza renale cronica tale da richiedere la dialisi cronica o il trapianto renale. Principalmente mesangiale diffusa e focale, con o senza depositi di IgA, ma anche altre.
bumina umana, in cicli ripetuti, allo scopo di allontanare gli autoanticorpi che causano la malattia). Sindrome nefrosica Con il termine di sindrome nefrosica si indica un complesso di sintomi e segni determinati da una pluralità di condizioni morbose, ma comunque conseguenti a una comune alterazione fisiopatologica, cioè la perdita quotidiana con le urine di proteine plasmatiche, principalmente di albumina, in una quantità che è superiore alle capacità dell’organismo di rimpiazzare le perdite con un incremento dei processi sintetici. A questa perdita consegue una diminuzione della concentrazione di albumina nel plasma ed un’alterata ripartizione del fluido extracellulare tra compartimento intravascolare ed extravascolare, con formazione di edemi. Una definizione più precisa di sindrome nefrosica è stata stabilita sulla base dei seguenti tre parametri: • una proteinuria superiore a 3,5 g/24 ore (nei bambini 0,05 g/kg/24 ore); • una concentrazione di albumina nel siero inferiore a 3 g/dl; • la presenza di edemi evidenti, per lo più declivi. A. Eziopatogenesi. Nella maggioranza dei casi, la sindrome nefrosica si presenta come un quadro clinico a sé stante in corso di glomerulopatia primitiva. In Europa e negli USA la sindrome nefrosica in corso di glomerulopatie primitive costituisce oltre il 95% di tutte le sindromi nefrosiche nei bambini (età inferiore a 15 anni) e circa l’80% di quelle degli adulti. In altri casi la sindrome nefrosica può far parte del quadro di un’altra malattia e perciò essere determinata da una glomerulopatia secondaria. Per quanto riguarda le sindromi nefrosiche da glomerulopatie primitive, l’esperienza clinica ha dimostrato che esse sono largamente eterogenee, soprattutto dal punto di vista prognostico. La diffusione della pratica della biopsia renale ha indicato che una loro classificazione in base a criteri anatomopatologici è molto conveniente. Questa classificazione è riportata nella tabella 36.5. Le glomerulopatie primitive che possono pro-
vocare sindrome nefrosica (la cui descrizione è già stata anticipata in questo capitolo) si esprimono talora con il quadro della sola sindrome nefrosica (è più comunemente il caso della glomerulopatia a lesioni minime e della glomerulopatia membranosa) e talora anche con ematuria e con altre alterazioni urinarie di tipo glomerulonefritico (come avviene più spesso nelle altre forme). Come già discusso, la patogenesi di queste forme morbose è molto verosimilmente di natura immunitaria e la loro causa è per lo più sconosciuta. Esistono sporadiche segnalazioni di sindrome nefrosica a seguito di fattori eziologici noti. Un elenco delle forme più importanti di questo tipo (assieme al quadro istologico della lesione glomerulare) è riportato nella tabella 36.6. Le sindromi nefrosiche da glomerulopatie secondarie sono solitamente classificate in base alla malattia associata, come indicato nella tabella 36.7. Tabella 36.6 - Fattori eziologici associati a glomerulopatie primitive in grado di provocare sindrome nefrosica. Glomerulopatia a lesioni minime • Reazioni allergiche specifiche a – Pollini – Farmaci – Punture di insetti – Cibi – Edera velenosa Glomerulopatia membranosa • Reazioni idiosincrasiche a farmaci, tra i quali – Sali d’oro – Penicillamina – Derivati mercuriali – Probenecid – Captopril – Tridione Sclerosi focale • In corso di nefropatia interstiziale da reflusso vescicoureterale • Intossicazione da eroina “da strada”
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704 Tabella 36.7 - Glomerulopatie secondarie in grado di provocare sindrome nefrosica (1). Forme meno rare • Negli adulti (15-20%) – Lupus eritematoso sistemico – Amiloidosi – Diabete mellito • Nei bambini (circa 2%) – Porpora di Henoch-Schönlein Forme rare (< 1%) – – – – – – – –
In corso di malattie infettive (per es., malaria) In corso di crioglobulinemia mista In corso di epatopatie (epatite B, epatite cronica attiva) In corso di neoplasie (morbo di Hodgkin, tumori solidi) In corso di stasi venosa cronica (pericardite costrittiva) Sindrome nefrosica congenita Osteo-onico-displasia (sindrome nail-patella) Angiocheratoma diffuso (malattia di Fabry)
(1) Le percentuali indicate nella tabella si riferiscono a tutte le sindromi nefrosiche rispettivamente nei bambini e negli adulti.
Come si vede, esistono molte possibilità di sindrome nefrosica da nefropatie secondarie, ma le cause con una prevalenza superiore all’1% sono poche, e precisamente il lupus eritematoso sistemico, l’amiloidosi e il diabete mellito nell’adulto e la porpora di HenochSchönlein nei bambini. Tutte le altre sindromi nefrosiche in corso di glomerulopatie secondarie sono francamente rare. B. Fisiopatologia. Il processo primitivo che caratterizza la sindrome nefrosica, quale ne sia la causa, è un aumento della permeabilità della membrana glomerulare, cui consegue il passaggio di importanti quantità di proteine nel filtrato glomerulare. Queste quantità eccedono di gran lunga le capacità di riassorbimento dei tubuli prossimali, in modo che ne risulta un’importante proteinuria. La proteinuria può essere selettiva, ossia riguardare con netta prevalenza molecole proteiche più piccole (albumina, transferrina) o non selettiva, ossia interessare anche molecole proteiche di dimensioni maggiori. Il prolungarsi di una perdita di proteine plasmatiche con le urine che non riesce ad essere compensata da un incremento delle attività sintetiche dell’organismo, fa sì che diminuisca la pressione osmotica del plasma dovuta alle proteine che vi sono contenute (pressione oncotica). Tra l’altro, la proteina maggiormente perduta con le urine è l’albumina, che è anche quella osmoticamente più attiva, mentre, nel tentativo di compenso da parte dell’organismo, vengono prodotte in eccesso varie globuline che sono osmoticamente meno attive. La diminuzione della pressione oncotica del plasma fa sì che venga ridotta la forza che richiama fluido dall’interstizio al circolo nell’estremità venosa dei capillari (e che, in condizioni normali, ha un effetto equivalente all’eccesso di pressione idrostatica che sposta fluido dal circolo all’interstizio nell’estremità arteriosa
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dei capillari). Si crea perciò un nuovo equilibrio caratterizzato da un aumento di quella parte del fluido extracellulare che è contenuta nel compartimento extravascolare e si formano edemi. Tuttavia, non sempre nei pazienti con sindrome nefrosica questo è il meccanismo di formazione degli edemi ed esistono casi nei quali si ha in realtà un’ipervolemia. Indagini eseguite con un modello sperimentale nell’animale (sindrome nefrosica unilaterale nel ratto, nel quale un solo rene è esposto alla puromicina) hanno documentato che, in presenza di proteinuria, si ha un aumento del riassorbimento di sodio a livello dei tubuli distali. È stato dimostrato, in studi clinici e sperimentali, che questo dipende da una diminuita sensibilità del rene all’azione dell’ormone natriuretico atriale. È perciò comprensibile che non esista una relazione precisa tra il livello della proteinuria e la formazione di edemi. Le persone anziane hanno una capacità di sintesi delle proteine plasmatiche inferiore a quella delle persone giovani. Perciò, a parità di proteinuria, la diminuzione della pressione oncotica del plasma si verificherà tanto più facilmente quanto più avanzata è l’età del paziente. Inoltre, la stessa formazione di edemi in presenza di una ipoalbuminemia è più facile negli anziani che nei giovani. In genere, un giovane difficilmente sviluppa edemi se la concentrazione di albumina nel siero non è inferiore a 2,5 g/dl, mentre nei vecchi gli edemi possono verificarsi anche con un’albuminemia intorno ai 3 g/dl. La fuoriuscita dal circolo di una certa quantità di fluido determina ipovolemia, che, a sua volta, comporta alcune conseguenze: a) riduzione del filtrato glomerulare per diminuzione della pressione idrostatica nel capillare del glomerulo; b) aumento della produzione di renina, in quanto l’apparato iuxtaglomerulare avverte lo stato di ipovolemia e, quindi, attraverso il sistema angiotensinogeno, angiotensina I-angiotensina II, determina aumento della produzione di aldosterone, che induce un maggior riassorbimento di sodio a livello del tubulo distale: si parla, in queste condizioni, di iperaldosteronismo secondario. La maggior ritenzione di sodio è seguita da una maggior ritenzione d’acqua, concorrendo così all’aggravamento degli edemi. D’altro canto, l’espansione del volume globale del liquido extracellulare che consegue all’iperaldosteronismo secondario è un fattore che tende a ridurre l’ipovolemia e a mantenere prossimi alla normalità il volume plasmatico, la pressione arteriosa e la perfusione dei tessuti. A causa dell’ipoalbuminemia (l’albumina come accettore di acidi grassi liberi è un fattore limitante l’attività della lipasi delle lipoproteine), la sindrome nefrosica è caratterizzata dalla frequente presenza di iperlipidemia. La diminuzione della pressione oncotica stimola la sintesi di lipoproteine a livello epatico, con aumento nel plasma soprattutto di quelle a bassa densità (LDL) e di colesterolo. D’altro canto, l’espansione del volume globale del liquido extracellulare che consegue all’iperaldosteronismo secondario è un fattore che tende a ridurre l’ipovolemia e a mantenere prossimi alla normalità il volume plasmatico, la pressione arteriosa e la perfusione dei tessuti.
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La perdita di proteine presenta altre conseguenze. • Riduzione di globuline che trasportano gli ormoni tiroidei. • Riduzione del fattore proteico che lega il colecalciferolo, con deficit secondario di vitamina D e comparsa di iperparatiroidismo secondario. • Perdita di proteine che legano i metalli (zinco e rame). • Perdita di proteine che legano la transferrina, con conseguente insorgenza di anemia ipocromica microcitica ferro-resistente. • Perdita di antitrombina III (cofattore eparinico), con secondaria ipercoagulabilità e, quindi, maggior rischio di accidenti trombotici, in particolare a carico delle vene renali. • Deficit di immunoglobuline G (sia per la dispersione di esse con le urine, che per aumentato catabolismo) e perdita di fattori del complemento, condizioni che inducono nei pazienti una maggiore suscettibilità alle infezioni. C. Clinica. L’esordio clinico è insidioso ed è caratterizzato dalla comparsa di edemi. Gli edemi possono essere clamorosi; sono più evidenti al mattino, localizzati al volto, in regione periorbitale e, alla sera, a livello degli arti inferiori. Se il paziente è costretto a letto, gli edemi si localizzano alla faccia posteriore delle cosce e in regione sacrale; nei bambini la localizzazione al viso può dare un caratteristico aspetto paffuto. La trasudazione di liquido nelle cavità sierose può comportare la comparsa di idrotorace e di ascite. La pressione arteriosa è frequentemente diminuita, a causa dell’ipovolemia, tuttavia può essere osservata ipertensione. Gli esami di laboratorio dimostrano caratteristiche alterazioni nell’esame delle urine e nelle indagini ematochimiche.
L’esame delle urine è caratterizzato dalla proteinuria, la cui concentrazione può essere variabile in dipendenza del volume urinario (quella che conta non è la concentrazione, ma la quantità di proteine perdute con le urine nelle 24 ore). Esiste un metodo per valutare la selettività di una proteinuria, in base al rapporto tra la clearance della transferrina e la clearance delle immunoglobuline della classe IgG. La presenza di microematuria non è insolita e dipende dalla nefropatia che ha determinato la sindrome nefrosica (più frequentemente è osservata nella sclerosi focale e nelle nefropatie proliferative). Talora può aversi glicosuria (in presenza di una glicemia normale) per difetto di riassorbimento di glucosio da parte dei tubuli prossimali alterati dall’eccessivo riassorbimento di proteine. L’esame del sedimento urinario dà risultati variabili a seconda della forma di sindrome nefrosica. Nel caso di sindrome nefrosica con glomerulopatia proliferativa saranno visibili emazie, cilindri ematici e granulosi; in caso di glomerulopatia membranosa o a lesioni minime saranno presenti cilindri ialini o cerei, costituiti da proteine e lipidi. Esaminando il sedimento con un microscopio a luce polarizzata si osservano talvolta corpi tondi con birifrangenza cosiddetta “a croce di Malta”, costituita da lipoproteine e lipidi derivati dalla degenerazione delle cellule del tubulo prossimale, sottoposte ad un eccessivo riassorbimento di proteine. Un tempo, proprio per la frequente presenza di tali elementi nella glomerulopatia a lesioni minime, tipica delle forme infantili, si usava definire tale entità nosologica “nefrosi lipoidea”. Le indagini ematochimiche evidenziano alterazioni delle proteine e dei lipidi del siero. La concentrazione delle proteine totali del siero è nettamente diminuita e il tracciato elettroforetico è profondamente modificato per una riduzione dell’albumina, e talora delle gammaglobuline, ed un franco aumento delle frazioni intermedie e (Fig. 36.9).
SINDROME NEFROSICA
NORMALE alb
1
2
alb
1
2
Figura 36.9 - Rappresentazione del tracciato elettroforetico di un paziente affetto da sindrome nefrosica, confrontabile con quello di un soggetto sano.
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La diminuzione della concentrazione di -globuline si verifica in modo particolare nella glomerulopatia a lesioni minime, il che è piuttosto sorprendente considerando che in questa forma la proteinuria è solitamente selettiva e le -globuline non sono perdute in quantità significativa con le urine. Si pensa perciò che l’ipo-globulinemia dipenda piuttosto da una ridotta sintesi per qualche peculiarità, ancora non ben conosciuta, del processo patogenetico di questa malattia. La concentrazione di colesterolo nel siero è molto aumentata e l’aumento riguarda soprattutto la frazione contenuta nelle lipoproteine LDL. Anche i trigliceridi nel siero possono essere notevolmente incrementati. La elettroforesi delle lipoproteine del siero dimostra un cospicuo aumento delle frazioni e pre-. Nella sindrome nefrosica secondaria a lupus eritematoso sistemico, per ragioni non del tutto chiare, l’iperlipidemia può mancare. I test ematochimici e funzionali per la valutazione della funzionalità renale (urea plasmatica, creatininemia, clearance della creatinina) possono essere alterati in dipendenza della nefropatia che ha indotto la sindrome nefrosica. Deve però essere ricordato che un peggioramento della funzione renale può anche essere determinato dalla riduzione del filtrato glomerulare a causa dell’ipovolemia. Come si è anticipato a proposito della fisiopatologia, è comune un’anemia microcitica con iposideremia e riduzione della capacità totale legante il ferro (ossia della transferrina) del siero. D. Diagnosi. La diagnosi di sindrome nefrosica è facile sulla base delle tipiche alterazioni cliniche e di laboratorio. Più difficile è stabilire la causa della sindrome nefrosica che, come si è visto, è più spesso sconosciuta. La prima distinzione che va fatta, su base anamnestica e clinica, è perciò quella tra sindrome nefrosica in corso di glomerulopatia primitiva o secondaria e, per questo motivo, nonostante le forme secondarie siano in minoranza, vanno accuratamente ricercate tutte le condizioni morbose e i fattori causali (per es., esposizioni ambientali) che possono provocare questa sindrome. Anche quando, per esclusione, si arriva alla diagnosi di sindrome nefrosica primitiva da causa sconosciuta, il processo diagnostico non è terminato. È infatti importantissimo stabilire di quale tipo di glomerulopatia si tratti, dato che esistono, tra le varie forme, considerevoli differenze prognostiche e terapeutiche. Nei bambini, in assenza di alterazioni urinarie di tipo glomerulonefritico (ematuria anche solo microscopica, cilindri ematici e granulosi nel sedimento), è corretto assumere che ci si trovi di fronte ad una glomerulopatia a lesioni minime, considerando l’estrema frequenza di questa forma. Negli adulti, la situazione è più incerta. Un’indagine particolare che può essere di aiuto è la determinazione della concentrazione dei fattori complementari C4 e C3 nel siero. Una diminuzione elettiva della concentrazione di C3 nel siero, con livelli normali di C4, è un forte argomento per diagnosticare una glomerulonefrite membrano-proliferativa. La diminuzione della
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concentrazione di C3 (che può essere osservata, consensualmente ad una diminuzione di C4, in varie sindromi nefrosiche secondarie a malattie immunopatologiche) non è invece comune in sindromi nefrosiche primitive diverse dalla nefropatia membrano-proliferativa e non si verifica mai nella glomerulopatia a lesioni minime. In pratica, in una minoranza di bambini ed in una larga percentuale di adulti con sindrome nefrosica primitiva, per una diagnosi precisa è richiesta l’esecuzione di una biopsia renale. E. Decorso e prognosi. Il decorso e la prognosi delle sindromi nefrosiche secondarie ad altre condizioni morbose dipende dalla malattia fondamentale. Quando la sindrome nefrosica è provocata da un agente eziologico noto, si ha spesso una regressione con la eliminazione del fattore causale. Più complessa è la prognosi delle sindromi nefrosiche primitive da causa sconosciuta. L’esito possibile è di tre tipi. • La remissione completa, piuttosto frequente nella glomerulopatia a lesioni minime, si verifica in circa la metà dei pazienti con glomerulopatia membranosa, ma è piuttosto rara nelle altre forme. • L’evoluzione verso un’insufficienza renale cronica, tale da richiedere la dialisi cronica e il trapianto renale e che è un’evenienza rara nella glomerulopatia a lesioni minime e discretamente frequente nelle altre forme. • La permanenza indefinita in una situazione intermedia di insufficienza renale cronica, più o meno limitata, talora grazie alla cronica assunzione di farmaci. Deve essere ricordato che i casi di glomerulopatia a lesioni minime che evolvono verso l’insufficienza renale cronica lo fanno spesso convertendo il proprio tipo anatomopatologico in un quadro di sclerosi focale. Inoltre, in tutti i tipi di sindrome nefrosica, l’instaurazione di un’insufficienza renale con critica diminuzione del filtrato glomerulare, può determinare una riduzione della proteinuria: la sindrome nefrosica può perciò scomparire e il quadro clinico può risultare non distinguibile da quello di qualsiasi glomerulonefrite cronica. Infine, per quanto l’insufficienza renale cronica possa risultare limitata, la necessità di impiegare croniche terapie immunodepressive, in pazienti con sindrome nefrosica che non va incontro a remissione completa, comporta notevoli complicanze (principalmente infezioni) che limitano la qualità e la durata della vita del paziente. F. Terapia. La terapia deve controllare l’eccessiva ritenzione di acqua e di sali, riducendo l’apporto di cloruro di sodio con la dieta, somministrando, solo in caso di edemi senza ipovolemia, diuretici a dosi moderate (furosemide), infondendo endovena plasma e albumina. Può essere utile la somministrazione di indometacina, che, interferendo nella produzione di prostaglandine a livello della corticale renale, riduce la filtrazione di proteine dai capillari glomerulari.
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Qualora la patologia di base ne trovi indicazione, si può ricorrere alla somministrazione di corticosteroidi o di farmaci citotossici immunodepressivi. Tra le sindromi nefrosiche primitive, la più sensibile a questo tipo di terapia è la glomerulopatia a lesioni minime. Sfortunatamente, una parte dei pazienti con questo tipo di sindrome nefrosica recidiva quando i corticosteroidi vengono sospesi e resta cronicamente dipendente dalla loro somministrazione. Glomerulonefrite cronica Il termine di glomerulonefrite cronica è applicato a una sindrome clinica caratterizzata da lenta progressione (della durata anche di 20 anni o più) verso l’insufficienza renale cronica. Solitamente questa è l’evoluzione di altre sindromi cliniche che abbiamo descritto precedentemente: glomerulonefrite acuta seguita da alterazioni urinarie, sindrome nefrosica, semplici alterazioni urinarie. Perciò tutte le glomerulopatie che abbiamo precedentemente descritto (con l’eccezione della glomerulopatia a lesioni minime per la sindrome nefrosica) possono evolvere nella forma di glomerulonefrite cronica. La base anatomica della glomerulonefrite cronica è la trasformazione sclerotica (glomerulosclerosi) di lesioni glomerulari, proliferative e/o membranose, preesistenti. La sua evoluzione clinica è descritta nel capitolo 35, a proposito dell’insufficienza renale cronica. Sono stati fatti vari tentativi terapeutici con corticosteroidi per modificare l’evoluzione di glomerulopatie primitive e secondarie verso la glomerulonefrite cronica, ma con dubbi successi. Queste difficoltà terapeutiche possono essere spiegate con quanto abbiamo esposto, parlando della patogenesi, sui meccanismi di progressione delle glomerulopatie (pag. 702).
GLOMERULOPATIE SECONDARIE Una classificazione patogenetica delle glomerulopatie secondarie è già stata presentata nella tabella 36.1. Una larga parte di queste glomerulopatie riconosce una patogenesi immunitaria e include tutte quelle forme che sono anche dette glomerulonefriti secondarie. Altre hanno invece patogenesi molto differente. Ricordiamo qui di seguito le caratteristiche delle più importanti glomerulopatie secondarie.
Glomerulopatie secondarie con patogenesi immunitaria (glomerulonefriti secondarie) A. Lesioni glomerulari in corso di malattie infettive. Vari tipi di infezioni possono determinare lesioni glomerulari che si suppone siano provocate dalla deposizione di complessi immuni nei quali l’antigene è fornito dal microrganismo infettante.
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In corso di gravi infezioni viscerali (polmoniti, ascessi profondi, ecc.) si possono sviluppare lesioni glomerulari di tipo proliferativo essudativo (e in questo caso il quadro sarà di sindrome nefritica acuta) e di tipo proliferativo focale (ma senza i depositi di IgA caratteristici della forma idiopatica – nefropatia da IgA – di questa variante di glomerulonefrite). In quest’ultimo caso il quadro clinico sarà rappresentato da semplici alterazioni urinarie con ematuria più o meno importante. Tra le malattie infettive che più facilmente provocano alterazioni glomerulari deve essere ricordata l’endocardite infettiva. In questa malattia si ha una cronica stimolazione del sistema immunitario con immissione in circolo di complessi immuni. La lesione che ne deriva è più spesso quella di una glomerulonefrite proliferativa focale con depositi di IgM, IgG e C3, cui corrispondono semplici alterazioni urinarie dello stesso tipo già descritto poco sopra per le infezioni viscerali. Nelle forme prolungate e recidivanti è possibile, sia pure raramente, l’evoluzione verso l’insufficienza renale cronica. Un altro esempio interessante è la cosiddetta nefrite da shunt, ossia una particolare glomerulopatia, con caratteri microscopici piuttosto simili a quelli della glomerulonefrite membrano-proliferativa di tipo I, che può svilupparsi in bambini portatori di shunt tra ventricoli cerebrali ed atrio destro per correggere la presenza di idrocefalo interno. La glomerulopatia è, in questo caso, ovviamente dipendente dall’infezione dello shunt e il quadro clinico frequentemente osservato è quello della sindrome nefrosica. Si ammette che anche varie infezioni virali possano indurre glomerulopatia; ma tra queste la più documentata è quella da virus dell’epatite B, della quale, per convenienza, parleremo a proposito delle lesioni glomerulari in corso di epatopatie. Tra le infezioni protozoarie un posto di rilievo spetta alla malaria, la quale, come già abbiamo anticipato, può indurre, sia pure raramente, una glomerulopatia membranosa e una sindrome nefrosica. B. Lesioni glomerulari in corso di malattie immunopatologiche sistemiche. Per essere spesso connesse con una patogenesi secondaria a complessi immuni circolanti, le malattie immunopatologiche sono particolarmente suscettibili a coinvolgere i glomeruli renali. Qui di seguito parleremo di alcune condizioni nelle quali la glomerulopatia può assumere aspetti particolarmente caratteristici. 1. Lupus eritematoso sistemico. Il lupus eritematoso sistemico (LES) si presenta clinicamente con estrema variabilità di modi e con differenti gravità di quadri (Cap. 69). Il coinvolgimento renale, in questa malattia sistemica, è clinicamente rilevabile, per la presenza di sedimenti urinari patologici e di proteinuria, in circa l’80% dei pazienti ed è riconoscibile praticamente quasi nel 100% dei pazienti quando viene espletata la biopsia renale. La malattia renale si può presentare con quadri clinici e con gravità molto differenti tali da comportare un’acuta e minacciosa insufficienza renale, oppure una sindrome nefrosica, oppure segni minimi di malattia renale.
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Il principale meccanismo patogenetico della malattia è quello degli immunocomplessi circolanti DNA-antiDNA. Anticorpi antinucleo (ANA) sono stati trovati, con la tecnica dell’immunofluorescenza indiretta, in circa il 90% dei pazienti con LES in fase attiva. Non esiste correlazione tra ANA e presenza o gravità di malattia renale. Sono stati spesso evidenziati immunocomplessi circolanti tra i quali immunocomplessi DNA-anti-DNA. Gli anticorpi verso gli antigeni nucleari possono essere verso la singola o doppia elica del DNA. Usualmente i pazienti sviluppano anticorpi verso la doppia elica del DNA e sono anticorpi IgG; un alto rapporto di anticorpi IgM rispetto agli IgG è in genere correlato alla gravità della malattia renale. Più raramente i pazienti sviluppano anticorpi verso la singola elica del DNA. L’attività emolitica complementemica e le frazioni del complemento sierico C1q, C4, C2, C3, C5 sono quasi sempre ridotte in coincidenza con le fasi attive di malattia renale. I quadri istologici della glomerulopatia del lupus sono variabili, determinati da varie combinazioni di ipercellularità, aumento della matrice del mesangio e ispessimento della membrana basale, cui corrisponde la deposizione di materiale che appare denso alla microscopia elettronica. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha elaborato una classificazione che è oggi generalmente adottata e che distingue sei diversi quadri morfologici, distinti in classi. Classe I Classe II Classe III Classe IV Classe V Classe VI
glomeruli normali glomerulonefrite mesangiale glomerulonefrite proliferativa focale (meno del 50% dei glomeruli interessati) glomerulonefrite proliferativa diffusa (più del 50% dei glomeruli interessati) glomerulonefrite membranosa glomerulonefrite avanzata sclerosante.
Si noti che la classe I si riferisce alla normalità alle indagini microscopiche anche se depositi di immunoglobuline possono essere dimostrati con l’immunofluorescenza. Il più lieve grado di alterazione glomerulare in corso di lupus è la deposizione di IgG e C3 in sede mesangiale (identificabile con l’immunofluorescenza) con un quadro di microscopia ottica sostanzialmente normale. Pure clinicamente benigne sono altre due varianti dette rispettivamente glomerulonefrite lupica mesangiale e glomerulonefrite lupica proliferativa focale. In entrambe è caratteristica la segmentarietà delle alterazioni nei singoli glomeruli. Nella prima si osserva una modesta proliferazione mesangiale a distribuzione diffusa, che solo raramente è accompagnata da qualche deposito sottoendoteliale nella membrana basale, rilevabile alla microscopia elettronica. Nella seconda i fenomeni proliferativi mesangiali (accompagnati da infiltrazione di cellule infiammatorie) sono più importanti ed i depositi elettrondensi sottoendoteliali sono più frequenti, ma queste lesioni interessano meno del 50% dei glomeruli. Clinicamente più gravi sono altre due varianti di glomerulopatia in corso di lupus, dette rispettivamente glomerulonefrite lupica diffusa proliferativa e glomerulo-
nefrite lupica membranosa. Nella prima, che presenta un quadro istologico simile a quello della glomerulonefrite membrano-proliferativa primitiva idiopatica di tipo I, si ha un’estesa proliferazione mesangiale con ispessimento della membrana basale e frequenti depositi elettrondensi sottoendoteliali in più del 50% dei glomeruli. Nella seconda l’ipercellularità del mesangio è trascurabile, mentre prevale nettamente l’ispessimento della membrana basale con un aspetto che ricorda quello della glomerulopatia membranosa primitiva (ossia si hanno depositi elettrondensi prevalenti sul versante sottoepiteliale e non sottoendoteliali come nelle forme precedenti). È possibile che singoli pazienti presentino varie combinazioni di questi quadri diversi, così come è possibile che una variante più benigna di glomerulonefrite lupica evolva con il tempo in una variante più maligna nello stesso individuo. Dal punto di vista clinico la glomerulonefrite lupica si presenta, nelle forme più lievi, con semplici alterazioni urinarie con funzione renale preservata. Nelle forme più gravi si può avere raramente lo sviluppo di una sindrome nefritica acuta, mentre la manifestazione di una sindrome nefrosica non è infrequente. In tutti i casi, queste forme più gravi hanno tendenza ad evolvere verso l’insufficienza renale cronica. 2. Porpora di Henoch-Schönlein (porpora anafilattoide). Si tratta di una porpora vascolare, con petecchie evidenti soprattutto agli arti inferiori, che si verifica a crisi ed è accompagnata comunemente da artralgie, da dolori addominali (per emorragie tra mucosa e sottomucosa del tratto intestinale) e da possibile compromissione glomerulare. L’eziologia di questa malattia (che è più frequente nell’infanzia e nel sesso maschile) è ignota. La sua patogenesi sembra collegata alla deposizione perivascolare (e quindi anche nel mesangio) di complessi immuni contenenti IgA che attivano il complemento per via alternativa. Le alterazioni documentate con la biopsia renale in pazienti con porpora di HenochSchönlein e compromissione glomerulare sono di tipo molto variabile, presentando vari gradi di proliferazione mesangiale, focale e diffusa, talora con proliferazione extracapillare e formazione di semilune (che per lo più interessa una minoranza dei glomeruli, ma che, in certi casi, può arrivare a comprometterne anche il 50-75%). Esiste un’interessante coincidenza tra la glomerulonefrite della porpora di Henoch-Schönlein e la nefropatia da IgA. In entrambe le forme, infatti, si ha una estesa deposizione di IgA non solo nei glomeruli, ma nel derma. Questo ha fatto ritenere ad alcuni che la nefropatia da IgA non sia altro che una variante monosintomatica della porpora di Henoch-Schönlein. In effetti, dal punto di vista clinico possono esistere notevoli somiglianze tra le due malattie. Entrambe sono episodiche e si presentano per lo più come semplici alterazioni urinarie con prevalenza di ematuria macroscopica. La glomerulonefrite della porpora di Henoch-Schönlein può però manifestarsi anche con differenti quadri clinici, tra i quali quello della glomerulonefrite rapidamente pro-
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gressiva (simile al quadro clinico della glomerulonefrite primitiva proliferativa extracapillare) nel caso di estesa formazione di semilune. Si stima che l’evoluzione in insufficienza renale cronica interessi una minoranza significativa dei pazienti con porpora di Henoch-Schönlein ricorrente e che nel 10% circa dei casi si osservi uremia a distanza di 7-10 anni. 3. Crioglobulinemia e altre vasculiti. Il problema generale delle vasculiti, inclusa la crioglobulinemia, è discusso nel capitolo 69. Le crioglobuline sono immunoglobuline (più spesso della classe IgM, ma talora IgG o IgA) precipitabili a freddo. Esistono tre varianti di crioglobulinemia: in due di queste (tipo II e tipo III) la crioglobulina ha i caratteri di un autoanticorpo diretto contro le IgG autologhe. In vivo sono perciò circolanti complessi immuni formati dalla crioglobulina (che a 37 °C è perfettamente solubile) e dalle IgG autologhe, complessi responsabili di una diffusa infiammazione vascolare (vasculite) che include frequentemente una compromissione glomerulare. Le biopsie renali mostrano un quadro istologico con notevoli somiglianze con la glomerulonefrite primitiva membrano-proliferativa di tipo I. Clinicamente si possono avere semplici alterazioni urinarie, ma anche sindrome nefritica acuta o sindrome nefrosica. L’evoluzione in insufficienza renale cronica non è infrequente. La panarterite nodosa (o poliarterite nodosa) può interessare solo i vasi di medio calibro (forma macroscopica) e, in questo caso, si possono verificare lesioni nel rene a carico delle arterie arciformi e interlobulari, con alterazione della loro pervietà e ischemia dei glomeruli dipendenti. La conseguenza è un’insufficienza renale cronica accompagnata ad ipertensione arteriosa (con meccanismo renovascolare). Quando sono interessati anche i vasi più piccoli (forma microscopica della panarterite nodosa) i glomeruli possono essere lesi anche direttamente per necrosi fibrinoide della parete capillare, con depositi di fibrina nella capsula di Bowman e proliferazione extracapillare. In questi casi si possono osservare alterazioni urinarie e l’evoluzione verso l’insufficienza renale cronica può essere più rapida. Simile a quest’ultima è la compromissione glomerulare che si può osservare in corso di granulomatosi di Wegener (Cap. 69). C. Lesioni glomerulari in corso di epatopatie. Si è già anticipato che l’infezione con virus dell’epatite B può provocare glomerulopatia. Questo si verifica più spesso nei bambini e il quadro risultante è quello di una glomerulopatia membranosa con sindrome nefrosica. In alcuni casi di epatite cronica attiva (della variante autoimmune o delle più comuni forme che si ritengono associate con la persistenza del virus B o del virus nonA non-B) si sono riscontrate glomerulopatie che appaiono istologicamente del tipo membranoso o membrano-proliferativo. Anche nella cirrosi epatica (compresa la forma etilica) la compromissione glomerulare è più frequente che per associazione causale della cirrosi con una glomeru-
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lonefrite primitiva. È possibile che questo dipenda dalla prolungata stimolazione del sistema immunitario con antigeni di derivazione intestinale non intercettati dalle cellule di Kupffer. Ne deriverebbe una certa tendenza a presentare più frequentemente che di norma complessi immuni circolanti che potrebbero essere responsabili delle lesioni glomerulari. Istologicamente, le alterazioni microscopiche sono più spesso rappresentate da quadri del tipo proliferativo focale o membrano-proliferativo. L’immunofluorescenza evidenzia, caratteristicamente, la costante presenza e la prevalenza di IgA. D. Lesioni glomerulari in concomitanza di patologia polmonare: sindrome di Goodpasture. La sindrome descritta da Goodpasture era, assai verosimilmente, una vasculite sistemica manifestatasi in un ragazzo di 18 anni, con malattia influenzale, emorragie alveolari polmonari con emottisi e glomerulonefrite proliferativa con esito mortale. In realtà la sindrome di Goodpasture in senso stretto è definita dalla coesistenza di glomerulonefrite proliferativa extracapillare con emorragie polmonari, in presenza di anticorpi antimembrana basale glomerulare ed alveolo-polmonare. L’eziologia non è nota. Può essere che agenti atmosferici, l’inalazione di idrocarburi, stati influenzali sostenuti da particolari virus possano danneggiare la parete degli alveoli polmonari. Ne consegue la formazione di anticorpi antimembrana basale. È oggi riconosciuto che questi autoanticorpi sono diretti contro una regione (dominio NC1) di un costituente elementare (protomero 3) del collageno di tipo IV e che si trova nella membrana basale tanto dei vasi polmonari quanto dei glomeruli renali. In questo senso la malattia presenta delle somiglianze con la nefrite ereditaria ematurica, o sindrome di Alport (di cui si parlerà in seguito), nella quale si ha un’alterazione di geni che governano la sintesi del collageno di tipo IV. Si è anche constatato che lo sviluppo di questa malattia autoimmune nell’uomo è condizionata dal sistema HLA. Gli alleli HLADRB1*1501 e HLA-DRB1*1502 aumentano la suscettibilità alla malattia di Goodpasture, mentre gli alleli HLA-DR7 e DR1 sono protettivi. Per effetto del legame di questi anticorpi con il loro bersaglio si ha un successivo innesco della cascata del complemento e conseguente stimolo chemiotattico positivo con infiltrazione di cellule monocitarie e polimorfonucleate. La biopsia renale evidenzia, al microscopio ottico, lesioni proliferative focali e massiva proliferazione extracapillare nella quasi totalità dei glomeruli. La microscopia immunofluorescente rivela un quadro assai tipico per la disposizione lineare delle IgG lungo le pareti dei capillari glomerulari, con un disegno continuo che viene definito “a fumo di sigaretta”; è frequente anche la presenza di C3, con distribuzione simile a quella delle IgG; può essere presente in corrispondenza delle semilune. IgG lineare è stata documentata anche a sede alveolare polmonare. Con l’osservazione in microscopia elettronica si documentano le fratture delle pareti dei capillari glomerulari. Il sesso maschile e l’età tra i 20 e i 30 anni sono più frequentemente colpiti. Usualmente l’emottisi è il primo
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sintomo della malattia (anche se non obbligatoriamente presente) e varia da piccole quantità di sangue presente nello sputo fino ad emorragie intralveolari massive. Il periodo di latenza tra l’emottisi ed il riconoscimento della malattia renale è, in genere, di circa 3 mesi, tuttaviapuò variare da poche settimane ad alcuni anni. Il quadro clinico è caratterizzato da tosse, dispnea, dolori articolari, febbricola, anemizzazione sproporzionata al grado delle emottisi, incremento dei valori della pressione arteriosa, iperazotemia con rapido e progressivo decremento del filtrato glomerulare. Dall’insorgenza della malattia renale, usualmente, si giunge alla uremia terminale nello spazio di poche settimane o di pochi mesi; tuttavia sono state segnalate remissioni spontanee o dopo trattamento e sono state riportate forme con solo modesta insufficienza renale. È nota la possibilità di recidiva del quadro clinico anche a distanza di numerosi anni. Dal punto di vista della patologia renale appare evidente la somiglianza tra la sindrome di Goodpasture e la glomerulonefrite primitiva proliferativa extracapillare o glomerulonefrite rapidamente progressiva. È possibile perciò che quest’ultima, almeno in qualche sua variante, sia una forma monosintomatica della sindrome di Goodpasture. Il trattamento della sindrome di Goodpasture prevede l’impiego di dosi elevate di metil-prednisolone sotto forma di singoli boli e della plasmaferesi, nelle fasi acute di malattia. Ovviamente si utilizza la terapia dialitica per controllare l’uremia terminale. Se il paziente è in pericolo di vita per le emorragie polmonari, alcuni Autori hanno proposto la binefrectomia al fine di allontanare una fonte cospicua di antigeni e così ridurre in modo significativo la presenza di autoanticorpi antimembrana basale. La malattia può rimanifestarsi sui reni trapiantati. E. Glomerulopatie in corso di neoplasie. Glomerulopatie sono state segnalate nel corso di varie neoplasie maligne. Le associazioni più interessanti sono quelle della malattia di Hodgkin con la glomerulopatia a lesioni minime e di varie neoplasie epiteliali con la glomerulopatia membranosa. In entrambi i casi la conseguenza clinica è una sindrome nefrosica.
Glomerulopatie secondarie con patogenesi non immunitaria A. Glomerulopatia diabetica. La glomerulopatia diabetica (glomerulosclerosi) non è che un aspetto della più complessa nefropatia diabetica che comprende alterazioni di tipo vascolare (arteriolosclerosi renale), di tipo infettivo (pielonefrite batterica in corso di diabete mellito) e di tipo degenerativo-necrotico (necrosi papillare in corso di pielonefrite in diabetici). Queste lesioni extraglomerulari saranno descritte nei capitoli che seguono. L’importanza della nefropatia diabetica è comunque tale che l’insufficienza renale cronica si sviluppa in circa il 50% dei soggetti affetti dal cosiddetto diabete giovanile e nel 20% dei soggetti che divengono diabetici dopo i 40 anni.
L’esatto meccanismo patogenetico della glomerulopatia diabetica è ancora oggetto di discussione. Alcuni Autori ritengono che essa sia secondaria ad un incremento delle funzioni glomerulari che si verifica in corso di diabete. Prima ancora che la glomerulopatia diabetica si renda manifesta, il rene appare aumentato di volume macroscopicamente (nefromegalia) e il filtrato glomerulare è di entità superiore alla norma (in media del 20%), così che la frazione di filtrazione del flusso plasmatico renale è accresciuta. A queste alterazioni corrisponde una maggiore capacità massima di riassorbimento tubulare del glucosio ed un innalzamento della soglia renale di questa sostanza. È provato che il controllo terapeutico e il raggiungimento dell’euglicemia riportano alla norma il filtrato glomerulare, ma, sorprendentemente, la nefromegalia persiste. Esiste comunque, secondo alcuni, la possibilità che l’accresciuta filtrazione glomerulare comporti secondariamente il deterioramento della struttura del glomerulo. Altri meccanismi possibili nella genesi della proteinuria nella glomerulopatia diabetica sono la possibile glicosilazione di componenti della matrice glomerulare e della membrana basale (secondaria all’iperglicemia) e una ridotta solfatazione delle stesse strutture. La glicosilazione della membrana basale ne può alterare la permeabilità rendendola più permeabile alle proteine. Per di più, la ridotta solfatazione riduce le cariche negative che esercitano un’azione repulsiva sulle proteine. In realtà, con l’immunofluorescenza sono stati identificati nei glomeruli di pazienti con glomerulopatia diabetica depositi semilineari di IgG (meno comunemente di IgM e C3). Ma si ha la tendenza a considerare questi depositi privi di significato immunologico e secondari all’intrappolamento nella membrana basale di costituenti plasmatici (in effetti, allo stesso modo si osserva deposizione anche d’albumina). La base anatomopatologica della glomerulopatia diabetica è l’aumento della matrice mesangiale con un ispessimento della membrana basale. Questo tipo di lesione può essere diffuso nel glomerulo, ma più caratteristicamente si verifica in una forma detta glomerulosclerosi nodulare intercapillare di Kimmelstiel-Wilson, che è caratterizzata dalla formazione, alla periferia del glomerulo e tra le anse capillari, di noduli relativamente omogenei e positivi per la colorazione istochimica dei mucopolisaccaridi (PAS, acido periodico-Schiff). Questi noduli tendono ad ingrandirsi, comprimendo le anse capillari in modo da ridurre drasticamente con il tempo la perfusione ematica dei glomeruli. Sul piano fisiopatologico le conseguenze sono variazioni della permeabilità della membrana glomerulare (quindi proteinuria) e la progressione verso l’insufficienza renale cronica nel caso della malattia di Kimmelstiel-Wilson. Dal punto di vista clinico i segni di glomerulopatia diabetica possono totalmente mancare in fase iniziale, anche quando la biopsia renale indicherebbe delle lesioni già stabilite, sia pure in forma lieve. Successivamente si verifica proteinuria, che può essere tanto cospicua da determinare sindrome nefrosica (evenienza però relativamente rara). Negli anni che seguono, il paziente sviluppa ipertensione arteriosa e il quadro pro-
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36 - MALATTIE GLOMERULARI
gredisce verso l’insufficienza renale cronica. Si stima che la maggior parte dei pazienti giunga all’uremia entro 5 anni dall’esordio della proteinuria dosabile. B. Glomerulopatia in corso di amiloidosi. Per amiloidosi si intende la deposizione extracellulare in vari organi e tessuti di una sostanza proteica con caratteristiche proprie dal punto di vista tintoriale e da quello della diffrazione ai raggi X e della microscopia elettronica (sostanza amiloide). L’argomento è trattato in dettaglio nel capitolo 50. Basti qui ricordare che esistono varie forme di amiloidosi e che il rene può essere interessato tanto nella cosiddetta amiloidosi primaria (senza cause apparenti) e in quella coincidente con malattie proliferative delle cellule anticorpo poietiche (mieloma multiplo e macroglobulinemia di Waldenström), quanto nella cosiddetta amiloidosi secondaria (che si verifica in corso di malattie infiammatorie croniche, infettive e immunopatologiche e in alcune forme familiari). Nell’amiloidosi primaria e in quella delle malattie immunoproliferative l’amiloide è in larga parte composta di frammenti di catene leggere di molecole immunoglobuliniche; nella amiloidosi secondaria e in quella della febbre familiare mediterranea (la più interessante tra le forme familiari) l’amiloide contiene frammenti di una proteina del plasma, detta SAA, che si comporta come un reattante di fase acuta, dato che la sua concentrazione nel siero aumenta in corso di processi infiammatori. In tutti i casi la lesione glomerulare è determinata da deposizione di amiloide nel mesangio e lungo le pareti dei capillari glomerulari. Le conseguenze di questa deposizione possono comportare, nei casi più lievi, solamente un incremento di permeabilità della membrana glomerulare con proteinuria. Questa può, tuttavia, divenire tanto intensa da provocare sindrome nefrosica. D’altro canto la malattia ha tendenza a progredire inesorabilmente verso l’insufficienza renale cronica. C. Glomerulopatie da cause vascolari. L’arteriosclerosi, da qualunque causa sia determinata, può ridurre l’apporto ematico ai glomeruli e ridurre la loro funzione. Questa è una conseguenza importante di alcune forme di ipertensione arteriosa e, in particolare, della ipertensione cosiddetta maligna, che ha tendenza a produrre insufficienza renale. La stasi venosa, d’altro canto, induce variazioni della permeabilità della membrana glomerulare e proteinuria. Un tempo si considerava la trombosi delle vene renali tra le cause di sindrome nefrosica, ma oggi si pensa che la trombosi in questa sede sia piuttosto secondaria che primitiva rispetto alla glomerulopatia. Tuttavia, una stasi venosa marcata e prolungata può verificarsi per altri motivi. Per esempio, la pericardite costrittiva è stata considerata una causa possibile di proteinuria significativa, fino alla sindrome nefrosica. D. Glomerulopatia della porpora trombotica trombocitopenica e della sindrome emolitico-uremica. La porpora trombotica trombocitopenica è una malattia illustrata nel capitolo 52 e caratterizzata da un’abnorme adesività e aggregabilità piastrinica che comporta da un
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lato la formazione di trombi multipli e dall’altro il consumo di piastrine, cui conseguono trombocitopenia e manifestazioni emorragiche (porpora). In corso di questa malattia è facile che si verifichino alterazioni urinarie e riduzione del filtrato glomerulare. È probabile che il meccanismo patogenetico consista nella formazione di aggregati piastrinici nei capillari glomerulari e nel rilasciamento dalle piastrine di sostanze ad attività vasotossica. La sindrome emolitico-uremica si verifica in bambini con alterazioni di laboratorio simili a quelle della porpora trombotica trombocitopenica. Di solito questa condizione è scatenata da un’infezione virale banale intercorrente ed è caratterizzata da una rapida e grave riduzione del filtrato glomerulare, con progressione verso l’insufficienza renale acuta. E. Glomerulopatie nel quadro di malattie eredofamiliari. 1. Nefrite ereditaria ematurica. L’evento di glomerulonefriti nell’ambito della stessa famiglia è abbastanza raro e la ripetitività in diverse generazioni è eccezionale. Alport, nel 1927, descrisse una nefrite ereditaria ematurica della quale oggi sono ben conosciuti i difetti molecolari e i meccanismi di condizionamento genetico. In questi ammalati, infatti, si ha un’alterata sintesi del collageno di tipo IV, che entra nella composizione delle membrane basali. Il collageno di tipo IV è costituito da 6 subunità, dette protomeri, che corrispondono a catene peptidiche denominate, nell’ordine, da 1(IV) a 6(IV). A ciascuna di queste corrisponde un gene: COL4A1, COL4A2, COL4A3, COL4A4, COL4A5 e COL4A6. I protomeri tendono ad associarsi in gruppi di 3, sotto forma di triple eliche, che non sono però assortite casualmente secondo tutte le permutazioni possibili, ma secondo precisi raggruppamenti, che sono solo tre: 1. 1. 2 (IV), 3. 4. 5 (IV), 5. 5. 6(IV). Queste triple eliche si collegano in vari modi tra di loro formando una rete che, combinata con altre molecole, quali le laminine, il nidogeno e proteoglicani solfati, contribuisce in maniera importante alla formazione delle membrane basali in ogni sede dell’organismo. Tuttavia, a causa dell’eterogeneità delle triple eliche, il collageno IV che costituisce le membrane basali non è uguale in ogni sede, né è uguale in una determinata sede in vari momenti dello sviluppo corporeo. Per esempio, nel rene la rete costituita da 1. 1. 2 (IV) comincia a essere presente nella vita embrionale ed è importante nella formazione delle primitive anse capillari, ma gradualmente viene sostituita dalla rete costituita da 3. 4. 5(IV) (la stessa che si ha nei polmoni, nei testicoli, nella coclea e nell’occhio) nei capillari glomerulari maturi e da quella 5. 5. 6(IV) nella capsula di Bowman. Il condizionamento genetico nella sindrome di Alport è di vario tipo. Nell’85% dei casi la sindrome dipende da mutazioni del gene COL4A5 che è presente sul cromosoma X e codifica la formazione del protomero 5(IV). La trasmissione ereditaria è perciò legata al sesso e si verifica nei maschi, mentre le femmine trasmettono la malattia e possono presentare qualche ma-
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nifestazione solo se, nel mosaicismo dovuto al fenomeno di Lyon, le cellule che esprimono il cromosoma del sesso con il gene difettoso sono casualmente prevalenti. Esiste anche una variante a trasmissione autosomica recessiva per alterazioni dei geni COL4A3 o COL4A4 e una rara autosomica dominante per mutazioni con effetti negativi di questi stessi geni. Anche se meno caratterizzata dal punto di vista genetico, si pensa che esista una forma benigna delle alterazioni del collageno di tipo IV, la cosiddetta ematuria familiare benigna, che sarebbe la nefropatia a membrana sottile. Nella sindrome di Alport la formazione delle membrane basali nella vita embrionale è normale, ma successivamente risulta difettoso il cambiamento che porta alle membrane basali mature. La persistenza nello sviluppo corporeo delle membrane basali con il collageno IV, caratteristico della vita embrionale, ha conseguenze negative, in quanto quest’ultimo è meno resistente alla proteolisi da parte delle proteasi del siero. Venendo a contatto con le membrane glomerulari, queste proteasi degradano con il trascorrere del tempo la costituente collagena delle membrane basali e ne determinano importanti alterazioni, quali irregolari ispessimenti e fissurazioni che alla lunga alterano la loro funzione. Dal punto di vista clinico esistono due varianti della sindrome di Alport, una a insorgenza prima dei 30 anni (forma giovanile) e una che si verifica dopo i 30 anni (forma adulta). L’età di insorgenza dipende dal tipo di mutazione che ha colpito i geni implicati nella patogenesi della malattia. La glomerulonefrite è caratterizzata da proteinuria, ma solo raramente con sindrome nefrosica, microematuria, ipertensione arteriosa di media entità, deficit uditivo bilaterale percettivo (o tonale, o neurosensoriale, per cui i pazienti sono sordastri) in circa il 50% dei pazienti, anomalie oculari in circa il 10% dei pazienti (lenticono, sferofachia, amaurosi, retinite pigmentosa) ed evoluzione lenta e progressiva all’uremia terminale cronica verso il terzo-quarto decennio di vita. Questo dipende dal fatto che macrofagi e linfociti vengono trovati nelle aree di rottura della membrana basale e che vengono formati dei fibroblasti da parte di cellule indifferenziate di origine mesenchimale. L’esito è una evoluzione in fibrosi che distrugge la normale struttura del rene. Il trattamento della sindrome di Alport si limita all’impiego di antipertensivi e di inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina per attenuare la proteinuria. L’evoluzione della malattia è tale che bisogna comunemente
MALATTIE DEL RENE E DELLE VIE URINARIE
ricorrere al trapianto renale. Tuttavia, il rene trapiantato finisce per indurre, nella maggior parte dei casi, anticorpi diretti contro la sua membrana basale e, in una minoranza dei pazienti, questa reazione immunitaria è di natura tale da provocare un’autentica glomerulonefrite. Questo dipende dal fatto che i pazienti, mancando costituzionalmente di alcuni costituenti del collageno di tipo IV, non hanno sviluppato nei loro riguardi la tolleranza immunologica e perciò li riconoscono come estranei quando questi sono presentati loro nel rene trapiantato. Logicamente, questo non avviene nelle donne che sviluppano la malattia per eccesso di cellule difettose nel mosaicismo conseguente al fenomeno di Lyon, ma che hanno anche cellule con geni normali. 2. Sindrome nefrosica congenita. Questa sindrome nefrosica si manifesta fin dalla nascita o dopo i primi giorni di vita. È una forma rara, descritta soprattutto in Finlandia. La proteinuria è massiva, con stato anasarcatico. Si tratta di una malattia autosomica recessiva, verosimilmente caratterizzata da anormalità della composizione della membrana basale glomerulare. I piccoli pazienti, tutti con basso peso alla nascita ed accompagnati da una placenta abnormemente grande, sono destinati a morire in pochi mesi o per uremia terminale o per le complicazioni della sindrome nefrosica. 3. Osteo-onico-displasia (sindrome nail-patella). La osteo-onico-displasia è una malattia autosomica dominante caratterizzata da alterazioni distrofiche delle unghie, anomalie scheletriche, assenza di una o entrambe le patelle, proteinuria e microematuria, eventualmente con il quadro clinico della sindrome nefrosica e della uremia cronica terminale. 4. Angiocheratoma diffuso (malattia di Fabry). L’angiocheratoma diffuso è una malattia ereditaria legata al cromosoma X del sesso, caratterizzata da un’alterazione del metabolismo glicosfingolipidico con un deficit dell’attività tissutale della ceramide triesossida A, che è una specifica -galattosidasi. Il quadro clinico è caratterizzato da lesioni cutanee e mucose per la presenza di papule rosse, con disposizione a grappolo specie al tronco e allo scroto, e da edemi periferici secondari a ipoalbuminemia. I pazienti arrivano all’uremia terminale cronica verso il quinto decennio; sono facilmente soggetti ad incidenti coronarici e cerebrovascolari.
C A P I T O L O
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MALATTIE DEI TUBULI E DELL’INTERSTIZIO C. RUGARLI, G. CHEKIKIAN, G. COLOMBO
Dal punto di vista sistematico è opportuno tenere distinte le nefropatie con esclusivo o prevalente interessamento glomerulare da quelle che sono invece caratterizzate da una compromissione anatomica e/o funzionale dei tubuli. Questa può verificarsi isolatamente (tubulopatie in senso stretto) o come conseguenza di processi patologici che hanno luogo nel connettivo interstiziale del rene (nefropatie tubulo-interstiziali). Vedremo che i processi patologici che determinano le nefropatie tubulo-interstiziali possono essere dovuti alle cause più varie: infiammazioni, infiltrazioni da parte di cellule neoplastiche, deposizione di sostanze normalmente non presenti nell’interstizio renale. La compromissione tubulare può avere due effetti: a) se la lesione tubulare è anatomica e tale da interferire con la funzionalità globale del nefrone si può avere una riduzione, anche grave, del filtrato glomerulare con insufficienza renale, acuta o cronica a seconda dell’evoluzione temporale del processo morboso; b) se la lesione tubulare è più lieve, il transito dell’urina nel nefrone può non essere influenzato e la funzione glomerulare può restare normale. Tuttavia possono instaurarsi vari difetti funzionali riguardanti le funzioni di secrezione e di riassorbimento che hanno luogo nei tubuli. Tratteremo in questo capitolo anche l’argomento della malattia cistica del rene che può essere considerata un difetto anatomico connesso con l’embriogenesi dei tubuli renali.
MALATTIE TUBULARI Nella trattazione di questo argomento considereremo separatamente le alterazioni dei tubuli che determinano una riduzione del filtrato glomerulare e quelle che comportano solo difetti della funzione tubulare. Le prime sono di regola acute e caratterizzate da un danno anatomico importante (necrosi tubulare acuta) che può far diminuire a tal punto il filtrato glomerulare da de-
terminare un’insufficienza renale acuta. Le seconde (tubulopatie funzionali) sono spesso croniche e talora congenite.
Necrosi tubulare acuta Si tratta di un’importante causa di insufficienza renale acuta. In genere, il termine di necrosi tubulare acuta viene usato in senso piuttosto largo per indicare tutte le forme di insufficienza renale acuta reversibile che non sono attribuibili a glomerulopatie, malattie interstiziali o vascolari renali. In realtà i reperti istologici di necrosi tubulare non sono presenti in tutti i pazienti che vanno incontro a questo tipo di insufficienza renale. I fattori che possono indurre questa importante condizione morbosa sono indicati nella tabella 37.1. Il primo di questi fattori è l’ischemia, legata di solito ad uno shock sufficientemente grave. Si è visto che, di per sé, lo shock determina una IRA con un meccanismo prerenale; si è visto anche che, se di grado estremo e tale da provocare una gravissima ischemia renale, lo shock può causare una necrosi corticale bilaterale. Un’evenienza non infrequente è che lo shock Tabella 37.1 - Cause di necrosi tubulare acuta. • Ischemia – Shock da emorragie e altre cause di ipovolemia • Azioni di sostanze nefrotossiche – Metalli pesanti – Solventi – Antibiotici – Mezzi di contrasto iodati • Precipitazione intratubulare di mioglobina ed emoglobina • Eventi morbosi in corso di gravidanza – Emorragie uterine – Aborto settico – Eclampsia • Cause sconosciute
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provochi necrosi tubulare acuta ed anzi questa condizione è un’evoluzione possibile della IRA con meccanismo prerenale quando lo shock è sufficientemente prolungato. Questo avviene più spesso dopo traumi ed interventi chirurgici, specialmente sull’aorta addominale, o in corso di gravidanza (emorragie uterine; ma sulla gravidanza si veda anche in seguito). Una forma particolare di IRA che si verifica con questo meccanismo è quella della sindrome epatobiliare, grave ipovolemia che si ha in corso di cirrosi epatica, è determinata dallo spostamento di fluidi al di fuori del compartimento intravascolare a causa dell’ipoproteinemia e aggravata dall’uso troppo entusiastico di diuretici. In genere, l’instaurazione di necrosi tubulare acuta da ischemia renale è facilitata dall’assunzione di farmaci che inibiscono la sintesi delle prostaglandine (antinfiammatori non steroidei) dato che tra queste ve ne sono alcune che esercitano un’azione vasodilatatrice dei reni. La necrosi tubulare acuta dovuta a ischemia provoca alterazioni tubulari “a chiazze”, ossia che interessano vari segmenti di ciascun tubulo, con lesione non solo delle cellule dell’epitelio tubulare ma anche della membrana basale. Molte sostanze sono nefrotossiche e in particolare a livello dei tubuli. Tra esse ricordiamo i metalli pesanti (mercurio, oro, cadmio), i solventi (tetracloruro di carbonio ed etilenglicole), alcuni antibiotici (cefaloridina, colimicina, aminoglicosidi, sulfamidici). Anche i mezzi di contrasto iodati, impiegati in radiologia, possono provocare lo stesso effetto, soprattutto se ad alte dosi e se iniettati a pazienti mediocremente idratati. Quando l’effetto tossico di tali sostanze è modesto, si ha un deficit funzionale senza che le cellule dei tubuli subiscano danni anatomici; se l’azione lesiva è più grave si ha invece la necrosi tubulare. Altre sostanze, di per sé non nefrotossiche, possono provocare gli stessi danni nel caso in cui si abbia una loro precipitazione nel lume del tubulo. È il caso dell’emoglobina che fuoriesce dalle emazie in corso di emolisi intravascolare. In questa condizione, tuttavia, si pensa che anche altri fattori possano avere un ruolo: l’ischemia renale è un supposto effetto nefrotossico di una sostanza rilasciata dagli stromi degli eritrociti. Anche la precipitazione intratubulare di mioglobina può avere lo stesso effetto. Questa può verificarsi in seguito a rabdomiolisi per gravi traumi da schiacciamento, malattie muscolari, ustioni, estremo esercizio fisico e grave ipopotassiemia. Un caso particolare è la necrosi tubulare acuta che si verifica in gravidanza. Si è visto che lo shock consecutivo ad emorragia uterina può determinare questa condizione. Lo stesso può verificarsi in seguito ad aborto settico o ad eclampsia. Infine, sia pure molto raramente, esistono casi di necrosi tubulare acuta nei quali riesce impossibile l’identificazione di un fattore eziologico. Quando la necrosi tubulare acuta non è dovuta ad ischemia, particolarmente quando è provocata da farmaci nefrotossici, interessa in forma diffusa i tubuli, ma
MALATTIE DEL RENE E DELLE VIE URINARIE
con alterazioni meno gravi delle cellule epiteliali e risparmiando la membrana basale. Come si è anticipato, l’effetto fondamentale della necrosi tubulare acuta è quello di provocare un’insufficienza renale acuta attraverso una drastica riduzione del filtrato glomerulare. Gli studi sperimentali hanno chiarito che tre fattori patogenetici sono importanti per spiegare questo fatto: • ostruzione del lume tubulare e sequestro di urina primitiva all’interno dei tubuli; • sfuggita di urine attraverso il lume tubulare verso l’interstizio; • vasocostrizione delle arteriole afferenti e profonda riduzione del filtrato glomerulare. Questi tre fattori si verificano in sequenza e l’ultimo è quello decisivo per l’instaurazione di una grave IRA. Quando i tubuli sono lesi, o per sostanze nefrotossiche o per ischemia, detriti cellulari si staccano dalla parete e ne ingombrano il lume. Questo processo sembra particolarmente importante a livello della porzione a parete spessa della branca ascendente dell’ansa di Henle. Ciò non significa che il lume tubulare debba essere realmente occluso, ma solo che è aumentata la resistenza al flusso dell’urina primitiva, il che comporta un aumento della pressione idrostatica a monte dell’ostruzione. Se, come di solito avviene, questo incremento pressorio resta al di sotto della forza che determina il filtrato glomerulare (pressione idrostatica nei capillari glomerulari – pressione oncotica delle proteine del plasma, differenza detta “pressione stop-flow”), il passaggio di fluido attraverso la membrana glomerulare non si arresta. D’altro canto i tubuli danneggiati hanno perso la loro capacità di riassorbimento attivo di acqua e soluti (isosmotico nei tubuli prossimali) e l’urina prodotta in eccesso rispetto alle capacità di smaltimento si accumula (sequestro) nel lume dei tubuli, dilatandoli. Ma questo processo conduce ad ulteriore aumento di pressione idrostatica nel lume tubulare, così che, a un certo punto, l’urina si fa strada passivamente (sfuggita) tra e attraverso le cellule tubulari, riversandosi nell’interstizio. È da notare che questo processo è profondamente diverso dal riassorbimento fisiologico di acqua e soluti da parte della parete tubulare. Oltre a non essere selettivo è anche quantitativamente inferiore a quello fisiologico che, come si è visto, interessa più del 99% del filtrato glomerulare. Questo spiega il meccanismo patogenetico finale. Alla macula densa giunge, nell’unità di tempo, una quantità di soluti (in modo particolare di sodio) nettamente superiore alle quantità fisiologiche e questo mette in moto dei meccanismi di regolazione. In modo particolare viene prodotta renina che agisce sull’angiotensinogeno e produce angiotensina I, poi convertita in angiotensina II. Questa determina una vasocostrizione delle arteriole afferenti e una conseguente riduzione della pressione idrostatica nei capillari glomerulari. Diminuisce perciò anche la differenza tra quest’ultima e la pressione oncotica delle proteine (“pressione stop-flow”): la forza che determina il filtrato glomerulare si riduce. Ma questa forza si deve cimentare con
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una pressione idrostatica aumentata nei tubuli; il filtrato glomerulare diminuisce perciò drasticamente. Se la “pressione stop-flow” risulta uguale a quella nei tubuli, la filtrazione glomerulare può addirittura arrestarsi. Della fisiopatologia e della clinica dell’insufficienza renale acuta si è già parlato nel capitolo 35.
Tubulopatie funzionali Acidosi tubulare renale L’acidosi tubulare renale (RTA, Renal Tubular Acidosis) è una sindrome caratterizzata da acidosi metabolica con diminuita concentrazione plasmatica di bicarbonati ed ipercloremia, a causa dell’incapacità dei pazienti ad eliminare con le urine una quantità di acidi adeguata al mantenimento di un normale equilibrio acido-base. Le due varianti più importanti sono: • tipo 1, o acidosi tubulare distale (classica), caratterizzata da un’incapacità delle cellule dei tubuli distali di stabilire un significativo gradiente di idrogenioni tra liquido interstiziale e contenuto del lume tubulare; • tipo 2, o acidosi tubulare prossimale, in cui il difetto consiste in una riduzione della capacità di riassorbimento dei bicarbonati nei tubuli prossimali. In realtà sono stati anche descritti un tipo 3 (associazione dei tipi 1 e 2) e un tipo 4, dipendente da ridotta produzione di renina e da insensibilità dei tubuli renali all’azione dei mineralcorticoidi. Acidosi tubulare distale (RTA di tipo 1) A. Eziopatogenesi. La RTA di tipo 1 può essere primitiva o secondaria. Alcune forme primitive possono essere ereditarie e trasmesse come carattere autosomico dominante, ma ne esistono anche casi sporadici. Le forme secondarie sono coincidenti con una varietà di condizioni patologiche, prevalentemente quelle conducenti a nefropatia interstiziale, caratterizzate da effetti tossici sui tubuli renali (per es., intossicazione da gentamicina, da anfotericina, ecc.). Inoltre un’acidosi tubulare distale è stata descritta in corso di malattie immunopatologiche (sindrome di Sjögren, cirrosi biliare primaria, lupus eritematoso sistemico) o che comportano alterazioni delle immunoglobuline plasmatiche (ipergammaglobulinemia idiopatica, macroglobulinemia di Waldenström, crioglobulinemia). Le ragioni di queste ultime associazioni non sono note. La RTA di tipo 1 è caratterizzata dall’incapacità dei tubuli distali di stabilire un significativo gradiente di idrogenioni tra liquido interstiziale (e sangue) da una parte e contenuto del lume tubulare dall’altra. Vari fattori sono stati considerati per spiegare questo difetto, ma quelli che sono stati ritenuti più importanti sono i seguenti: • aumento della retrodiffusione dalle cellule del tubulo verso il liquido interstiziale e il sangue dell’acido
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carbonico (H2CO3), degli idrogenioni (H+) e dei bicarbonato-ioni (HCO3–) formatisi per azione dell’anidrasi carbonica su CO2 + H2O (gli H+ che devono essere secreti, come si ricorderà, derivano da dissociazione di H+ + HCO3– dell’H2CO3 così formato); • difetto dell’enzima anidrasi carbonica e quindi insufficiente formazione di H2CO3 (perciò di H+ e HCO3–) nelle cellule del tubulo distale (questo difetto è stato dimostrato in alcuni casi a sicura trasmissione genetica). B. Fisiopatologia. Nella RTA di tipo 1 si ha di fatto una ridotta secrezione di H+ da parte del tubulo renale distale. Ne consegue un decremento dell’acidità titolabile delle urine, il cui pH non scende di regola sotto il valore di 6. Anche l’escrezione di ioni di ammonio (NH4) è diminuita (infatti questi derivano dalla reazione degli H+ con l’ammoniaca, NH3, secreta dalle cellule tubulari; in difetto della formazione di NH4, si ha retrodiffusione di NH3 verso le cellule tubulari). Dato che per ogni H+ secreto dai tubuli renali si ha di fatto un HCO3– riassorbito (Cap. 34), ne consegue che anche il riassorbimento di bicarbonati è ridotto e i cloruri rappresenteranno in misura maggiore che di norma gli anioni che accompagnano il riassorbimento tubulare di sodio. Per questa ragione si ha diminuita concentrazione plasmatica di bicarbonati (onde acidosi metabolica) e ipercloremia. La secrezione di H+ da parte dei tubuli distali normalmente avviene attraverso uno scambio di questi ioni con ioni Na+. Essendo perciò diminuita, nella RTA di tipo 1, la secrezione di H+ da scambiare con Na+, ne consegue una magnificazione alternativa dello scambio tra Na+ e K+. Da ciò deriva un’ipopotassiemia che può avere vari effetti a livello muscolare (astenia, paresi) e che, a livello renale, determina una ridotta sensibilità dei dotti collettori all’ormone antidiuretico, onde una menomazione della capacità di concentrare le urine e una tendenza alla poliuria. La riduzione nell’escrezione di acidi titolabili comporta la perdita urinaria di una certa quota di cationi in luogo degli idrogenioni che non vengono eliminati. Questi sono rappresentati da ioni Na+ (e la perdita di sodio determina un’ipovolemia, cui consegue un iperaldosteronismo secondario che aggrava l’ipopotassiemia), ma soprattutto da ioni Ca++. Infatti, in presenza di acidosi metabolica, degli ioni calcio vengono mobilizzati dalle ossa, scambiandosi con gli idrogenioni, mentre diminuisce il riassorbimento degli stessi ioni nei tubuli renali. L’ipercalciuria, in presenza di urine poco acide e addirittura alcaline, propizia la precipitazione di sali insolubili di calcio e può provocare calcolosi urinaria o nefrocalcinosi papillare. Questa precipitazione dei sali di calcio è resa più facile dalla ridotta escrezione di citrato, che normalmente chela una buona parte del calcio urinario (il citrato è escreto di meno in questa condizione perché il suo riassorbimento è incrementato nei tubuli prossimali come meccanismo di compenso dell’acidosi intracellulare).
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La perdita di calcio con le urine si riflette sulle ossa che vanno incontro a rachitismo nei bambini e osteomalacia negli adulti. C. Clinica. Nei bambini la malattia viene più spesso riconosciuta in seguito a disturbi dell’accrescimento e segni di rachitismo (Cap. 33). Se la malattia esordisce in età più adulta, la sua constatazione può essere casuale, quando si osserva un’ipercloremia in corso di esami di laboratorio eseguiti occasionalmente. Spesso questi soggetti risultano soltanto poliurici, ma possono giungere ad avere disturbi soggettivi più importanti, come l’astenia muscolare o le paresi attribuibili all’ipopotassiemia, i dolori ossei dovuti all’osteomalacia e, in casi più gravi, i sintomi propri dell’acidosi, l’iperventilazione, il vomito e la sonnolenza ingravescente fino al coma. L’esame obiettivo può mettere in evidenza disturbi del ritmo cardiaco (dovuti a ipopotassiemia), oltre alle anomalie di struttura scheletrica, possibilmente connesse con l’osteomalacia. Negli esami di laboratorio, oltre all’ipostenuria a carico delle urine, spiccano le già citate alterazioni dei bicarbonati plasmatici, della cloremia, potassiemia e calcemia. Caratteristica di questa particolare forma di acidosi tubulare renale è l’incapacità da parte del rene di abbassare il pH urinario sotto il valore di 5,5 anche dopo carico acido (NH4Cl 0,1 g/kg di peso corporeo/die per 3 giorni: in questo caso lo ione NH4+ è metabolizzato lasciando un eccesso di Cl –). È possibile l’evoluzione in insufficienza renale cronica (per nefrocalcinosi papillare). D. Terapia. La somministrazione di bicarbonati è molto efficace nel correggere il difetto della RTA di tipo 1. Acidosi tubulare prossimale (RTA di tipo 2) A. Eziopatogenesi. Anche la RTA di tipo 2 può essere primitiva o secondaria. Entrambe le forme possono far parte di una sindrome di Fanconi (vedi oltre). In genere nelle forme primitive l’aggregazione familiare è molto più rara che nella RTA di tipo 1. Nelle forme secondarie isolate (che cioè non fanno parte di una sindrome di Fanconi) è stato attribuito un ruolo a condizioni patologiche che si accompagnano ad un aumento dell’escrezione urinaria di lisozima. Questo enzima sarebbe infatti un fattore eziologico, dato che può interagire con le cellule dei tubuli prossimali. In realtà l’acidosi tubulare prossimale è stata descritta in associazione con stati disprotidemici, intossicazione da metalli pesanti e rigetto dopo trapianto renale. La RTA di tipo 2 è caratterizzata da una marcata riduzione del riassorbimento tubulare massimo (Tm) dei bicarbonati. Con il tempo, la continua bicarbonaturia provoca un depauperamento di questo sistema tampone con un calo dei livelli di bicarbonato plasmatico e la comparsa di acidosi metabolica. La ridotta bicarbonatemia, che condiziona un ridotto carico tubulare filtrato,
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HCO3– 26 mEq/l
HCO3– 26 mEq/l
85%
65%
15%
15%
ph 5,5 A.
HCO3– 15 mEq/l
ph 7,8 B.
ph 5,5 C.
Figura 37.1 - Modalità di riassorbimento di HCO3–. Nel soggetto normale (A), nella RTA di tipo 2 con bicarbonatemia normale (B) e con bicarbonatemia ridotta (C); in quest’ultimo caso vi è la scomparsa della bicarbonaturia e il ritorno delle urine a pH acido.
fa sì che si raggiunga un valore soglia tale che i meccanismi di riassorbimento prossimale e distale siano in grado di riassorbire la quota filtrata, scompaia la bicarbonaturia e le urine tornino acide (Fig. 37.1). B. Fisiopatologia. È importante rilevare che il difetto di riassorbimento di bicarbonati nel tubulo prossimale conduce a un risultato molto simile a quello già descritto per la RTA di tipo 1, per quanto riguarda la diminuzione della concentrazione dei bicarbonati plasmatici, l’acidosi metabolica e l’ipercloremia. Tuttavia, una volta che i bicarbonati plasmatici si sono ridotti, si ha anche un decremento della loro concentrazione nel filtrato glomerulare e la quantità di queste sostanze che si cimenta nell’unità di tempo con il tubulo prossimale viene a risultare inferiore al Tm di riassorbimento. Perciò, a questo punto, viene meno il difetto di riassorbimento dei bicarbonati ed il rene acquista la capacità di eliminare normalmente acidi titolabili e ioni di ammonio (il pH urinario può scendere a valori inferiori di 5,4). Perciò nella RTA di tipo 2 il rene si comporta normalmente in presenza di acidosi metabolica, mentre conduce ad una situazione simile a quella della RTA di tipo 1 quando l’acidosi metabolica è corretta con la somministrazione di bicarbonati. Tuttavia, dato che questa somministrazione elimina la necessità di mobilizzare gli ioni di calcio dalle ossa, mancano di regola, nella RTA di tipo 2, le conseguenze sul ricambio del calcio, sia a livello renale sia a livello osseo, che sono tanto importanti nella RTA di tipo 1. C. Clinica. Il quadro clinico è molto variabile ed oscilla fra i due estremi dei sintomi di acidosi, da una parte (polidipsia, anoressia, vomito, sonnolenza), e dall’altra poliuria, ipostenuria e ipopotassiemia, quando l’acidosi è corretta con somministrazione di bicarbonati.
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La diagnosi si attua infondendo bicarbonato e valutando la soglia di comparsa della bicarbonaturia, che risulta inferiore alla norma (24-26 mEq/l).
Normalmente il 95% degli aminoacidi filtrati è riassorbito dal tubulo prossimale con un meccanismo selettivo di trasporto che accomuna gruppi di aminoacidi. Sono conosciuti cinque sistemi di trasporto:
D. Terapia. La somministrazione di bicarbonati è poco efficace dato che questi sono perduti in maniera rilevante con le urine.
• degli aminoacidi basici: lisina, arginina, ornitina, cistina; • degli aminoacidi acidici: acido aspartico, acido glutammico (dicarbossilici); • degli aminoacidi neutri (I): prolina, idrossiprolina, glicina; • degli aminoacidi neutri (II): i restanti aminoacidi non precedentemente menzionati; • degli aminoacidi -acidici: -alanina, -aminoisobutirrico, taurina.
Sindrome di Fanconi È una sindrome dovuta a un disordine generalizzato del trasporto tubulare prossimale, con conseguente fosfaturia, aminoaciduria, glicosuria, cospicua perdita di bicarbonati, acido urico, potassio e calcio con le urine. Nello stesso individuo può presentarsi uno solo, oppure tutti i difetti elencati. A. Patogenesi. Molti casi di sindrome di Fanconi sono idiopatici; occasionalmente vi può essere una familiarità. La forma può essere congenita o acquisita. Nei bambini è spesso associata a cistinosi, glicogenosi, intolleranza al fruttosio, galattosemia, tirosinosi. Le forme acquisite si accompagnano a neoplasie maligne (per es., mieloma multiplo), malattia di Wilson, sindrome di Sjögren, nefropatia da tetracicline scadute, intossicazione da metalli pesanti o da vitamina D. È stato dimostrato, a livello delle cellule del tubulo prossimale, un accumulo intracellulare di aminoacidi, zuccheri e proteine a basso peso molecolare o di nefrotossine. Ne consegue una disorganizzazione del reticolo endoplasmico e dei mitocondri. Queste alterazioni strutturali possono essere all’origine del difetto nei processi di trasporto attivo. B. Fisiopatologia. La perdita di aminoacidi essenziali determina un ritardo di crescita nei bambini. L’eccessiva fosfaturia ha riflessi sul metabolismo osseo, comportando rachitismo nei bambini e osteomalacia negli adulti. L’acidosi tubulare prossimale ha conseguenze sull’equilibrio acido-base (Cap. 63). La glicosuria renale non ha effetti importanti oltre a quelli legati all’azione di diuresi osmotica esercitata dal glucosio. C. Clinica. Nei bambini la malattia ha gravi conseguenze con difetti di crescita e anomalie ossee. Nell’adulto il quadro clinico è per lo più molto sfumato ed è rilevabile più dagli esami di laboratorio che non da sintomi e segni. Altre tubulopatie prossimali Ciascuno dei disordini che convergono a formare la sindrome di Fanconi può verificarsi in forma isolata. Così abbiamo: • le aminoacidurie; • il rachitismo ipofosfatemico resistente alla vitamina D; • l’acidosi tubulare renale prossimale (di cui si è già parlato); • la glicosuria renale. Una particolare menzione meritano le aminoacidurie.
Un’aminoaciduria patologica può comparire se il carico tubulare è abnormemente elevato, saturando il meccanismo di riassorbimento, e quindi non è in relazione con il disturbo specifico della funzione tubulare, ma ad un disturbo del catabolismo aminoacidico. Se invece è compromesso uno dei cinque meccanismi di trasporto tubulare sopra elencati, avremo un’aminoaciduria patologica di origine renale. Questo può accadere per alterazioni congenite oppure acquisite in corso di malattie sistemiche e può interessare selettivamente uno dei sistemi provocando un’aminoaciduria selettiva, oppure interessare globalmente tutti i sistemi di trasporto degli aminoacidi in modo da produrre un’aminoaciduria generalizzata come nella sindrome di Fanconi. A. Aminoacidurie associate a disfunzione tubulare generalizzata. Queste comprendono, oltre alla già citata sindrome di Fanconi, la sindrome di Lowe (difetto di riassorbimento tubulare di aminoacidi e di fosfati che comporta danni neurologici), il morbo di Wilson (difetto di riassorbimento tubulare di vari aminoacidi connesso con un’anomalia del trasporto del rame, che comporta anche lesioni del sistema nervoso centrale e cirrosi epatica, di cui si parla nel capitolo 30) e il danno renale da metalli pesanti. B. Aminoacidurie da difetti specifici di transito tubulare. Si tratta di forme congenite e tra esse distinguiamo le seguenti. 1. Cistinuria. È un esempio di aminoaciduria selettiva interessante il riassorbimento degli aminoacidi basici ed il più comune tra le aminoacidurie. Malattia ereditaria, quale tratto autosomico recessivo, il deficit di riassorbimento interessa sia il tubulo prossimale che l’intestino tenue. Il difetto è relativo all’alterazione della proteina carrier essenziale per il trasporto di questi aminoacidi dal lume tubulare nelle cellule. Le manifestazioni cliniche della malattia sono legate all’abnorme escrezione di cistina con le urine che, scarsamente solubile, tende a precipitare formando calcoli radiotrasparenti a livello renale e lungo il decorso delle vie urinarie. Nella cistinuria la quantità di aminoacido escreta è tra 600 e 1800 mg/die; sono pure elevate le quantità di lisina, arginina e metionina escrete, che però
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essendo più solubili non tendono a precipitare come cristalli. L’età media di comparsa della calcolosi va dai 10 ai 30 anni; i calcoli possono essere singoli o multipli e raggiungere rilevanti dimensioni (a corna di cervo).
La forma è ad andamento benigno, non tende ad evolvere verso un diabete mellito, anche se, occasionalmente negli omozigoti, la glicosuria può essere elevata e tale da causare polidipsia e poliuria. Deve essere esclusa la possibilità di una sindrome di Fanconi.
2. Malattia di Hartnup. Perdita elettiva di aminoacidi neutri, glutamina, aspargina, istidina, alanina, serina, treonina, fenilalanina, triptofano, tirosina, che comporta danni neurologici.
Sindrome di Bartter È una rara forma di tubulopatia che si pensa sia geneticamente determinata con meccanismo autosomico recessivo. Si osserva frequentemente nei bambini, ma può manifestarsi anche in età adulta. Il difetto fondamentale della sindrome di Bartter è un’incapacità del rene a conservare il potassio, o primitivamente o subordinatamente a un difetto del trasporto transtubulare del cloro. Conseguentemente, si determina una grave ipopotassiemia che stimola produzione, da parte di cellule poste nell’interstizio renale, di prostaglandine E2 e I2. Queste, a loro volta, sollecitano la produzione di renina che (attraverso il meccanismo angiotensinogeno-angiotensina I-angiotensina II) causa un incremento della secrezione di aldosterone, il quale, a sua volta, aggrava l’ipopotassiemia ed induce un’alcalosi metabolica. La pressione arteriosa rimane normale perché l’effetto ipertensivo dell’aldosterone è bilanciato dall’azione vasodilatatrice delle prostaglandine e della kallicreina prodotta dal rene in risposta all’angiotensina II e all’aldosterone. In breve, la situazione idroelettrolitica della sindrome di Bartter è simile a quella di soggetti che assumono generose dosi di diuretici. La sintomatologia è dominata da poliuria, astenia e, nei casi più gravi, da paralisi periodica. Il trattamento prevede un adeguato apporto di potassio, l’impiego di farmaci antialdosteronici (come lo spironolattone e l’amiloride) in associazione a un supplemento di sodio e l’assunzione di inibitori della sintesi di prostaglandine (indometacina, acido acetilsalicilico).
3. Aminoglicinuria familiare. Perdita elettiva di glicina, prolina ed idrossiprolina, spesso senza importanti conseguenze, ma sporadicamente associata con danni neurologici. Altre anomalie specifiche di trasporto degli aminoacidi riguardano il triptofano e gli aminoacidi dicarbossilici, acido aspartico ed acido glutammico. Diabete insipido renale Il diabete insipido renale è un’alterazione delle cellule dei tubuli distali e dei dotti collettori, caratterizzata da relativa insensibilità all’azione dell’ormone antidiuretico (ADH) sia endogeno che esogeno. La malattia può essere ereditata con trasmissione legata al sesso, oppure può essere acquisita in corso di squilibri elettrolitici (ipokaliemia o ipercalcemia), di intossicazioni da farmaci (litio o dimetilclortetraciclina), di malattie sistemiche (sindrome di Sjögren, amiloidosi), di pielonefrite cronica. Nelle sue forme più lievi la malattia si presenta come una modesta poliuria, con difetto di concentrazione delle urine, mentre nelle forme conclamate la poliuria è cospicua ed il peso specifico delle urine è basso. La poliuria persiste anche quando è soppresso l’apporto di liquidi al paziente ed è resistente alla somministrazione di ormone antidiuretico (per la diagnosi differenziale con il diabete insipido diencefalo-ipofisario si veda il Cap. 56). Glicosuria renale È un disturbo ereditario caratterizzato dalla perdita di glucosio con le urine a fronte di un carico tubulare normale. Vengono riconosciuti due meccanismi alla base del difetto tubulare del riassorbimento del glucosio. Nel primo caso (tipo A) il difetto è legato ad una riduzione della capacità tubulare massima di riassorbimento del glucosio (TmG), nel secondo (tipo B) è ridotta la soglia della glicosuria. La diagnosi di glicosuria renale deve sottostare ad alcuni criteri clinici: • glicosuria in assenza di iperglicemia; • glicosuria costante con scarse oscillazioni con la dieta; • esclusione di altre cause di mellituria (pentosuria, fruttosuria, galattosuria); • test di tolleranza al glucosio (curva da carico) normale o lievemente alterato.
Sindrome di Liddle (pseudoiperaldosteronismo) È una rara condizione ereditaria caratterizzata da una situazione fisiopatologica molto simile all’iperaldosteronismo primitivo (ipertensione, ipopotassiemia, alcalosi metabolica), ma con bassissima produzione di aldosterone endogeno. Si pensa che il difetto sia a livello dei tubuli renali distali che hanno un’esagerata capacità di riassorbire il sodio scambiandolo con il potassio. I risultati sono identici a quelli che si hanno nell’iperaldosteronismo primitivo, ma la produzione di renina (e quindi di aldosterone) è soppressa dall’ipervolemia conseguente all’eccesso del sodio riassorbito nei reni. APPENDICE Ipoaldosteronismo iporeninemico Questa condizione non può essere considerata sempre una tubulopatia perché, in una parte dei casi, il difetto riguarda l’apparato iuxtaglomerulare, che non è in grado di produrre adeguatamente renina in seguito alle
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sollecitazioni fisiologiche. Conseguentemente, sono diminuite la produzione di aldosterone e la escrezione di H+ e K+ nei tubuli distali. La malattia perciò comporta acidosi metabolica e iperpotassiemia. A uno stesso risultato si può arrivare nel caso di una tubulopatia funzionale nella quale il tubulo distale è primitivamente insensibile all’azione dell’aldosterone (condizione esattamente opposta a quella che si ha nella sindrome di Liddle). Questi due disordini sono raggruppati nella definizione di acidosi tubulare renale di tipo 4 (o acidosi tubulare distale con iperpotassiemia) cui si è già accennato in questo stesso capitolo.
MALATTIA POLICISTICA DEL RENE Questa condizione deve essere tenuta distinta dalle circoscritte malformazioni renali, come le cisti renali solitarie o anche le cisti multiple unilaterali, in quanto colpisce entrambi questi organi e perciò è un’importante causa di insufficienza renale di grado avanzato e una comune indicazione per la dialisi o il trapianto di rene. La malattia policistica renale (rene policistico) può essere acquisita nel corso della vita adulta, ma la maggior parte delle forme sono ereditarie e sono così classificate: • • • •
malattia policistica renale autosomica dominante; malattia policistica renale autosomica recessiva; nefronoftisi familiare; nefropatia cistica midollare.
A. Genetica e patologia. Oggi sono stati compiuti notevoli progressi nella comprensione dei meccanismi genetici che sono alla base delle diverse forme di malattia policistica del rene e dei processi molecolari che conducono alle varie alterazioni patologiche. Ne parleremo sommariamente. 1. Malattia policistica renale autosomica dominante. Si tratta della forma più comune che si osserva in uno ogni 800 nati vivi, che colpisce circa 500.000 persone negli USA e da 4 a 6 milioni di individui in tutto il mondo e che si stima sia il motivo per il ricorso alla dialisi nel 7-10% dei pazienti che si sottopongono a questo trattamento. Ne esistono due tipi: il tipo I, che riguarda l’8590% dei casi ed è causato dalla mutazione di un gene denominato PKD1; il tipo II, che è implicato nei rimanenti casi e dipende da una mutazione del gene PKD2. Questi geni codificano due proteine, rispettivamente chiamate policistina-1 e policistina-2. La prima di queste proteine è un recettore di membrana, capace di legare vari tipi di molecole e di stimolare conseguentemente risposte intracellulari attraverso le vie della fosforilazione, mentre la seconda agisce come un canale permeabile al calcio. Nonostante queste differenze, le due forme di rene policistico autosomico dominante hanno caratteristiche fisiologiche e patologiche molto simili, tranne per il fatto che la variante di tipo I ha un’insorgenza più precoce e una più rapida progressione, con un’aspettativa di vita che è stata stimata di 53 anni, mentre la variante di tipo
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II è più benigna e ha una aspettativa di vita di 69,1 anni. Esistono rari casi di questa malattia nei quali non si dimostra alcuna mutazione né a carico di PKD1 né a carico di PKD2. Ciò ha portato a supporre il ruolo di un terzo gene, PKD3, ma la sua esistenza non è mai stata dimostrata. Dal punto di vista patologico, la malattia policistica renale autosomica dominante è caratterizzata dalla presenza nei reni di centinaia o, addirittura, di migliaia di cisti di un diametro che può arrivare a 10-20 cm (Fig. 37.2). Conseguentemente, i reni divengono molto grandi. Le cisti attraversano la corticale e la midollare e sono derivate da ogni segmento del nefrone. Le pareti dei tubuli, costituite da un singolo strato cellulare, si espandono e si chiudono a monte. Altre cisti possono presentarsi nel fegato (specialmente nelle donne), nel pancreas e nell’intestino. I pazienti con questa malattia hanno un rischio aumentato di sviluppare aneurismi aortici e difetti delle valvole cardiache e, in alcune famiglie, si è calcolato che esiste un rischio quintuplicato rispetto alla popolazione generale di morte improvvisa per rottura di aneurismi intracerebrali. 2. Malattia policistica renale autosomica recessiva. È una forma molto più rara della variante dominante, con un’incidenza di uno ogni 20.000 nati vivi, ma che spesso causa morte fetale o neonatale a causa del tremendo ingrandimento bilaterale dei reni e di difetti nella formazione dei polmoni con conseguente ipoplasia di questi organi. La malattia dipende da mutazioni di un gene chiamato PKHD1, che provoca alterazioni di una proteina detta fibrocistina e che probabilmente non è il solo responsabile. Infatti, l’identificazione di alcune forme più lievi suggerisce l’implicazione anche di altri geni non identificati. Comunque, la fibrocistina ha funzioni simili a quelle della policistina-1. La malattia è caratterizzata da dilatazione e allungamento dei dotti collettori a formare multiple piccole cisti allungate, che mantengono la connessione con la loro origine, e da disgenesia biliare. La maggior parte dei bambini che sopravvivono al periodo perinatale sviluppa precocemente insufficienza renale e fibrosi epatica. 3. Nefronoftisi familiare. È trasmessa come carattere autosomico recessivo per effetto di mutazioni di uno tra tre geni: NPH1, che determina una variante a insorgenza giovanile, NPH2, responsabile della variante dell’adolescenza e NPH3, alla base della variante infantile. L’alterazione patologica caratteristica di questa malattia è un raggrinzimento dei reni, con cisti che sono derivate dai dotti collettori e dai tubuli distali e che perciò sono ristrette alla midollare di tali organi o al suo confine con la corticale. Il quadro clinico di questa forma di rene policistico è contrassegnato, oltre che da progressiva insufficienza renale, anche da perdita di sali e ritardo di crescita nei bambini e negli adolescenti. 4. Nefropatia cistica midollare. È trasmessa come carattere autosomico dominante per mutazioni di uno tra due geni chiamati MCKD1 e MCKD2. Ha caratteristiche patologiche e cliniche molto simili a quelle della nefronoftisi familiare, ma è clinicamente più lie-
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Figura 37.2 - Rene policistico. (A) Aspetto della superficie. (B) Aspetto al taglio. (C) Aspetto radiologico all’urografia per via endovenosa. (Illustrazioni di F.H. Netter, M.D. Riproduzione autorizzata da Icon Learning Systems, a Medi Media USA Company. All rights reserved.)
ve e tipicamente si instaura nell’età adulta. Una variante più benigna, che comporta solo la dilatazione dei dotti collettori e che può esistere anche in forma sporadica, è chiamato “rene a spugna” e può condurre a nefrocalcinosi per la precipitazione di piccole concrezioni di ossalato di calcio o di magnesio, o di fosfato di ammonio nei dotti collettori dilatati. In genere non provoca insufficienza renale, ma è una comune causa di ematuria. B. Patogenesi. Si è visto che proteine alterate per effetto di mutazioni dei geni che sono implicati nella patogenesi del rene policistico, come la policistina-1, la policistina-2, la fibrocistina e altre proteine connesse
con altre forme di questa nefropatia, hanno importanti funzioni a livello molecolare, ma quello che conta è la loro influenza sulla morfogenesi renale. Normalmente, la morfogenesi dei tubuli renali durante lo sviluppo nella vita fetale è regolata da un equilibrio tra la proliferazione delle cellule tubulari e la loro morte programmata con il processo dell’apoptosi. Questo processo si arresta prima della nascita. Invece, sia nella variante di rene policistico autosomico dominante che in quella recessiva l’apoptosi è persistente e può distruggere una buona parte del parenchima renale. Tale anomalia è compensata da una proliferazione epiteliale qualitativamente alterata che conduce alla formazione di cisti. Questo processo prosegue lungo tutto il corso della vi-
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ta ed è largamente dipendente dalla secrezione autocrina di un fattore di crescita denominato EGF (Epidermal Growth Factor), che è secreto nel lume delle cisti in quantità tali da stimolare la proliferazione cellulare. Anche la sensibilità all’EGF delle cellule che formano le cisti è aumentata e i recettori di questo fattore di crescita alla loro superficie sono espressi in misura superiore alla norma. Un altro importante effetto che si ha in varie forme di rene policistico dipende da alterazioni della struttura della membrana basale e della composizione della matrice interstiziale. Queste alterazioni hanno importanti conseguenze funzionali in quanto possono determinare un’eccessiva aderenza delle cellule epiteliali alla matrice formata da collageno di tipo I o IV e ostacolare i movimenti di tali cellule nella morfogenesi dei reni. Tuttavia, in questo gruppo di malattie, accanto alle alterazioni anatomiche, esistono anche anomalie funzionali delle cellule che tappezzano le cisti, riguardanti le loro capacità secretive, la distribuzione polarizzata dei loro costituenti e la transduzione dei segnali. Come si è visto, la maggior parte delle conoscenze patogenetiche riguardano la malattia policistica renale autosomica dominante e autosomica recessiva. L’avanzamento degli studi sull’argomento è però tale da far pensare che presto i meccanismi molecolari alla base di ogni forma di questa nefropatia saranno chiarificati. C. Fisiopatologia. Le cisti tendono ad accrescersi con il passare del tempo, conducendo parallelamente ad una distruzione del parenchima renale. L’evoluzione è pertanto verso un’insufficienza renale cronica. Sono possibili emorragie nel contesto delle cisti (onde ematuria) ed infezioni sovrapposte. Meno chiaro sembra il meccanismo che conduce al frequente riscontro di ipertensione arteriosa. È però possibile che la diffusa alterazione interstiziale interferisca con la circolazione delle diramazioni intrarenali delle arterie renali e conduca all’ipertensione con un meccanismo renovascolare. D. Clinica. L’età di insorgenza del quadro clinico può essere variabile, a seconda della forma. Nel rene policistico bilaterale i sintomi più comuni compaiono verso il 3°-4° decennio di età e sono i seguenti. 1. Dolore lombare o al fianco o addominale, riferito come continuo. Tale dolore può derivare o da ostruzione legata alla presenza di calcoli o di coaguli di sangue, oppure dalla distensione o dalla rottura delle cisti, o ancora, da compressione estrinseca del sistema collettore da parte delle cisti. Tale sintomo è più spesso presente nella malattia renale policistica.
A.
B.
Figura 37.3 - Aspetti TC di rene policistico. In sezione trasversale (A) e in sezione frontale (B). (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003.)
4. Cefalea ed emicrania. 5. Iperuricemia. All’esame obiettivo, uno dei segni cardinali della malattia policistica renale è il riscontro di una massa addominale palpabile, talora bilaterale e simmetrica. Le dimensioni del rene di solito corrispondono alla funzionalità di esso, cioè quanto più è piccolo, tanto meglio funziona. L’esame delle urine evidenzia spesso una proteinuria che, tuttavia, solo raramente è massiva e quasi mai condiziona una sindrome nefrosica. È frequente la microematuria nei periodi in cui non si verifica ematuria macroscopica. Infine, nei pazienti con malattia renale policistica, sono più frequenti le infezioni delle vie urinarie con batteriuria e piuria. Esami strumentali. Tra le indagini più significative ricordiamo: • • • • •
l’ultrasonografia; la nefrotomografia; l’arteriografia renale; la tomografia assiale computerizzata (Fig. 37.3); l’urografia endovenosa.
E. Basi razionali di terapia. Per il trattamento medico si rimanda alla terapia dell’ipertensione arteriosa e dell’insufficienza renale cronica. Il trattamento chirurgico (nefrectomia mono o bilaterale, seguita da dialisi) è eccezionalmente indicato nei casi in cui si verifichino frequentemente episodi di ematuria massiva o infezioni ricorrenti.
2. Ematuria macroscopica: essa può presentarsi episodicamente, per periodi di alcuni giorni, a intervalli di mesi o anni.
NEFROPATIE TUBULOINTERSTIZIALI
3. Ipertensione arteriosa: è di riscontro molto frequente (dal 46 all’82% dei casi) e solitamente compare quando ancora i valori di creatinina sono normali. La presenza di ipertensione e la possibilità di controllarla sono i fattori determinanti per la prognosi.
È opportuno considerare separatamente le forme acute da quelle croniche. Le prime possono essere raccolte sotto la denominazione di nefrite interstiziale acuta. Anche se a determinare questa particolare forma morbosa concorrono vari fattori eziologici, il risultato fina-
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MALATTIE DEL RENE E DELLE VIE URINARIE
Tabella 37.2 - Nefropatie tubulointerstiziali.
Tabella 37.3 - Microrganismi che provocano nefrite interstiziale acuta.
Nefrite interstiziale acuta Più comuni
• Infettiva • Da ipersensibilità a farmaci • Idiopatica (autoimmune?)
• Streptococchi • Corynebacterium diphteriae
Nefropatie interstiziali croniche
Raramente
• Da ostruzione urinaria e da reflusso vescico-uretrale • Nefropatie tossiche – Da analgesici – Da metalli pesanti • Nefrosclerosi arteriolare • Nefropatie immunologiche – Sindrome di Sjögren – Lupus eritematoso sistemico – Cirrosi biliare primaria • Nefropatie metaboliche – Da iperuricemia – Da ipercalcemia – Da ipokaliemia • Nefropatie in corso di neoplasie – Mieloma – Leucemie – Linfomi • Da malattie granulomatose – Tubercolosi – Sarcoidosi – Granulomatosi di Wegener • Da cause varie – Amiloidosi – Anemia a cellule falciformi – Nefropatia dei Balcani
• • • • • • • • •
le è un’infiltrazione dell’interstizio renale con cellule infiammatorie e un danneggiamento anatomico dei tubuli che lo attraversano, con alterazioni dell’esame delle urine e riduzione più o meno spiccata del filtrato glomerulare. Le nefropatie tubulointerstiziali croniche sono provocate da una pluralità di cause ed hanno uno svolgimento lento nel tempo. In tutti i casi si verificano alterazioni funzionali dei tubuli. Tuttavia il processo patologico non si arresta a questo punto, perché la comune evoluzione di queste forme è verso una distorsione della fine struttura del rene (per lo più determinata da una trasformazione fibrotica dell’interstizio) che provoca una riduzione del filtrato glomerulare e conduce ad insufficienza renale cronica. Un elenco delle nefropatie tubuloinsterstiziali è riportato nella tabella 37.2.
Nefrite interstiziale acuta A. Eziologia. La nefrite interstiziale acuta è, nel 70% dei casi, determinata da infezioni sistemiche o da reazioni da ipersensibilità a farmaci. Le infezioni sono la più comune causa di nefrite interstiziale acuta nel bambino. L’interstizio renale può essere coinvolto in un processo infettivo estendentesi in senso ascendente dalle vie urinarie (pielonefrite acuta). Tuttavia è raro che un’infezione di questo tipo possa condurre a in-
Brucelle Legionelle Treponema pallidum Leptospira Mycoplasma Rickettsie Toxoplasma Virus del morbillo Virus di Epstein-Barr
Tabella 37.4 - Farmaci che possono provocare nefrite interstiziale acuta. Più comunemente
Più raramente
• Antibiotici – Meticillina – Penicillina – Ampicillina – Cefalosporine – Sulfamidici – Rifampicina • Fenindione • Antinfiammatori non steroidei
• Antibiotici – Oxacillina – Nafcillina – Tetraciclina • Diuretici – Tiazidici – Furosemide – Triamterene – Acido etacrinico • Fentoina • Allopurinolo • Cimetidina
sufficienza renale e condizionare la situazione fisiopatologica e il quadro clinico propri della nefrite interstiziale acuta. Le infezioni che provocano questa condizione morbosa sono piuttosto sistemiche ed i microrganismi giungono all’interstizio renale per via ematogena. Un elenco dei microrganismi che possono provocare nefrite interstiziale acuta è riportato nella tabella 37.3; come si vede le cause più comuni sono le infezioni streptococciche e la difterite. L’ipersensibilità a farmaci è la più frequente causa di nefrite interstiziale acuta nell’adulto. Si tratta di un tipico meccanismo allergico, in quanto l’effetto si verifica in una minoranza di coloro che assumono determinati farmaci ed è dose indipendente. Una lista dei farmaci che possono indurre nefrite interstiziale acuta è riportata nella tabella 37.4. Nel 30% dei casi è impossibile riconoscere un’eziologia definita per la nefrite interstiziale acuta e si suppone che meccanismi immunopatologici non bene riconoscibili (probabilmente nell’ambito di reazioni autoimmuni) siano operanti. Per la patogenesi immunologica delle nefropatie interstiziali acute, si veda quanto esposto successivamente a proposito delle nefropatie interstiziali croniche.
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B. Patogenesi e fisiopatologia. In tutti i casi la patogenesi della nefrite interstiziale acuta può essere ricondotta all’infiltrazione dell’interstizio con cellule infiammatorie. Queste sono rappresentate prevalentemente da granulociti neutrofili nelle forme infettive, da linfociti e granulociti eosinofili in caso di ipersensibilità a farmaci e da linfociti quando la patogenesi è sostenuta da processi immunopatologici. L’infiltrazione interstiziale comporta compressione delle strutture vascolari e dei nefroni con riduzione del filtrato glomerulare. Le cellule infiammatorie ledono in misura più o meno grave i tubuli. Le soluzioni di continuo nella membrana basale dei tubuli possono far sì che elementi figurati del sangue passino nelle urine: eritrociti (ematuria) e leucociti (leucocituria). Quando la compressione tubulare è di particolare intensità l’esito può essere del tutto identico a quello che si ha nella necrosi tubulare acuta.
non è raro che per differenziare una nefrite interstiziale acuta da una glomerulonefrite acuta sia necessaria una biopsia renale che risolve con sicurezza ogni dubbio.
C. Clinica. Per lo più i segni e i sintomi della nefrite interstiziale acuta si verificano in un paziente che ha presentato, nei giorni precedenti, un’infezione sistemica o che sta assumendo un farmaco (di solito da vari giorni, il tempo necessario per una reazione immunologica primaria). In quest’ultimo caso possono coesistere febbre (nel 75% dei casi) e rash cutaneo (in meno del 50% dei casi). Talora l’esordio della malattia è caratterizzato da un vago dolore lombare, per distensione della capsula renale. Nelle forme più elevate le alterazioni più evidenti sono a carico della diuresi: spesso oliguria (per la brusca riduzione del filtrato glomerulare), ma anche poliuria (per riduzione del riassorbimento di fluido nei tubuli prossimali). Un’ematuria macroscopica è presente frequentemente. Nelle forme più gravi il quadro clinico è simile a quello della glomerulonefrite acuta e, in casi estremi, si instaura un’insufficienza renale acuta come nella necrosi tubulare acuta. L’esame delle urine dimostra di solito una modesta proteinuria, ematuria e leucocituria. I cilindri ematici sono però, di solito, assenti nel sedimento urinario, a differenza di quanto avviene nella glomerulonefrite acuta. Caratteristicamente (anche se il reperto non è costante) si osservano granulociti eosinofili nel sedimento urinario nei casi provocati da ipersensibilità a farmaci. Le indagini ematochimiche dimostrano aumento della creatininemia ed altri segni di riduzione della funzione glomerulare. Nell’80% dei casi dovuti a ipersensibilità a farmaci esiste eosinofilia nel sangue periferico. In conclusione, la nefrite interstiziale acuta presenta caratteristiche cliniche abbastanza simili a quelle di alcune glomerulonefriti, con un quadro clinico non facilmente differenziabile da quello della glomerulonefrite acuta. Elementi di sospetto per una nefrite interstiziale sono i dati anamnestici (un’infezione sistemica, l’assunzione di farmaci), la coesistenza di manifestazioni extrarenali attribuibili a ipersensibilità a farmaci (rash cutaneo, eosinofilia), la possibile mancanza di oliguria (quest’ultima, come si è visto, non è costante), la presenza di eosinofili e/o l’assenza di cilindri ematici nel sedimento urinario. Nonostante questi elementi clinici,
Nefropatie interstiziali croniche
D. Terapia. Il principio fondamentale del trattamento è la rimozione dell’agente causale. Se, dopo una settimana dalla sospensione del farmaco che si suppone implicato, la creatininemia non si riduce, è indicato un trattamento con corticosteroidi. È meglio che la diagnosi di nefrite interstiziale acuta sia confermata con una biopsia renale. Solo in rari casi si rende necessaria una terapia immunodepressiva con farmaci citostatici. È importante che la terapia sia introdotta precocemente, perché se la nefrite interstiziale acuta dura sufficientemente a lungo non si può più recuperare un’intatta funzione renale e residua un certo grado di insufficienza renale cronica.
Si tratta di un gruppo molto eterogeneo di malattie accomunate da una medesima situazione fisiopatologica che può presentare, in varie combinazioni, le seguenti caratteristiche. • Proteinuria tubulare rappresentata principalmente da 2-microglobulina e frammenti di immunoglobuline (per la patogenesi si veda la parte generale, Cap. 34). • Sindrome di Fanconi acquisita. • Acidosi tubulare renale che può essere tanto del tipo prossimale (o tipo 2), dovuta a difetto di riassorbimento di bicarbonati, che del tipo distale (o tipo 1), dovuta a difficoltà di acidificare le urine. • Dispersione di sodio per menomazione della capacità di riassorbire questo elemento nei tubuli. È questo un difetto importante, che tende a provocare ipovolemia; • Variazioni della potassiemia che possono essere in entrambi i sensi. L’ipopotassiemia accompagna, per le ragioni spiegate nel capitolo, l’acidosi tubulare prossimale. L’iperpotassiemia, per difetto secretorio tubulare di potassio e in assenza di altre compromissioni della funzione renale, è rara, ma è stata descritta in alcuni pazienti. • Diabete insipido nefrogenico per perdita da parte dei tubuli distali e dei dotti collettori della loro normale sensibilità all’ormone antidiuretico (ADH): ne conseguono poliuria e nicturia. • Insufficienza renale cronica dovuta a distorsione della struttura renale per infiltrazione o trasformazione sclerotica dell’interstizio. • Anemia da diminuita produzione di eritropoietina. • Frequente ipertensione arteriosa per stenosi dei vasi arteriosi che attraversano l’interstizio renale (aumentata produzione di renina). Il quadro clinico che ne deriva è diverso da un caso all’altro a seconda del prevalere dell’una o dell’altra delle caratteristiche fisiopatologiche sopra ricordate, ma è dominato dall’insufficienza renale cronica associata a qualche difetto delle funzioni tubulari. Altri ele-
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menti clinici delle nefropatie interstiziali croniche verranno indicati ricordando le singole forme che costituiscono questo gruppo nosografico.
Tabella 37.5 - Cause di uropatia ostruttiva.
A. Nefropatia interstiziale da ostruzione urinaria e da reflusso vescicoureterale. Si è molto discusso se infezioni interstiziali provenienti in senso ascendente dalle vie urinarie (pielonefrite cronica) possano essere un’importante causa di insufficienza renale cronica. Tuttavia si pensa che, in assenza di fattori anatomici e funzionali particolari, un’infezione interstiziale di questo tipo non abbia molte probabilità di evolvere cronicamente. Due sono i fattori importanti per questa evoluzione: l’ostruzione cronica delle vie urinarie (uropatia ostruttiva) e il reflusso vescicoureterale. Una lista analitica di tutte le possibili cause di ostruzione cronica delle vie urinarie è riportata nella tabella 37.5. In realtà, nella maggioranza dei casi è in gioco la calcolosi urinaria e, negli uomini anziani, l’ipertrofia prostatica. Il reflusso vescicoureterale si verifica di solito in bambini nei quali esiste un’anomalia della giunzione tra ureteri e vescica, tale da consentire la risalita negli ureteri di urina non sterile. Una caratteristica di queste forme morbose è di non essere, necessariamente, bilateralmente simmetriche, dato che l’ostruzione o il reflusso possono essere prevalenti da un lato piuttosto che dall’altro. L’ostruzione cronica delle vie urinarie può condurre a dilatazione della pelvi e dei calici renali (idronefrosi). In tutti i casi si verifica un’irregolare retrazione sclerotica della corticale renale. La fisiopatologia e la clinica di questa particolare nefropatia interstiziale non si differenziano dal quadro già descritto nella premessa generale su questo argomento. Alcuni metodi diagnostici particolari meritano di essere ricordati. L’ecografia renale è di grande utilità nella nefropatia ostruttiva per accertare la presenza di idronefrosi o di calcoli. La cistografia minzionale (immissione per via ascendente di un mezzo di contrasto in vescica, seguita da minzione) può dimostrare radiologicamente il reflusso vescicoureterale. In entrambi i casi l’urografia endovenosa può dimostrare irregolarità morfologiche dei calici e assottigliamento della corticale renale (si veda Cap. 38, a proposito della pielonefrite cronica).
Intraluminali • Calcolosi, coaguli • Tessuto papillare necrotico • Uroteliomi a vegetazione endoluminale • Proteinuria di Bence-Jones
B. Nefropatie tossiche. 1. La nefropatia da analgesici è molto diffusa in Australia, Svizzera, Svezia e negli USA e rappresenta il 56% delle nefropatie interstiziali croniche. Si sviluppa nei soggetti che abusano di medicamenti contenenti fenacetina o acido acetilsalicilico, assumendone per lungo tempo, quotidianamente, dosi elevate (in media circa 1 g di fenacetina al giorno per almeno 1 anno, oppure un’ingestione totale cumulativa di 3-4 kg di farmaco, anche in un arco di tempo molto prolungato). La tossicità è più elevata per i preparati che contengono la fenacetina associata con l’acido acetilsalicilico. Per quanto riguarda la fenacetina, l’azione tossica sembra dipendente dal gradiente corticomidollare che si viene a stabilire per il suo metabolita acetaminofen, che
Da cause intrinseche
Intramurali • Congenite – Disfunzioni ureteropelviche – Disfunzioni ureterovescicali • Acquisite – Stenosi ureterali – Stenosi uretrali – Vescica neurologica Da cause estrinseche Del sistema riproduttivo • Maschile – Ipertrofia benigna o maligna della prostata • Femminile – Utero – Gravidanza – Prolasso – Endometriosi – Neoplasie – Ovaie – Ascesso – Cisti – Neoplasie Del sistema gastrointestinale • Morbo di Crohn • Pancreatite • Appendicopatie • Neoplasie Dei vasi • Anomalie a livello della giunzione ureteropelvica • Dilatazione aneurismatica dell’aorta o dei vasi iliaci • Dilatazione cavale Del retroperitoneo • Infiammatorio (fibrosi idiopatica) • Neoplasie
a livello della papilla raggiunge concentrazioni oltre 10 volte più elevate che nella corteccia. L’azione dell’acido acetilsalicilico sembra legata alla sua capacità di inibire la sintesi di prostaglandine, che normalmente avviene nel contesto del parenchima renale con attività vasodilatatrice locale. Il venir meno di questa azione rende il rene più sensibile agli agenti nefrotossici. La nefropatia da analgesici provoca un’infiammazione tubulointerstiziale e può arrivare a indurre necrosi della papilla. L’infiammazione tubulointerstiziale presenta somiglianze con la pielonefrite cronica, anche per l’esistenza di una leucocituria (che però è sterile) in circa la metà dei pazienti. La necrosi papillare solitamente si verifica prima che il processo morboso si estenda alla corticale e
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riduca il filtrato glomerulare. È caratterizzata da ematuria macroscopica e dolori colici dovuti ad espulsione delle papille necrotiche attraverso le vie urinarie. Se estesa, può portare ad insufficienza renale acuta. Quando la nefropatia da analgesici è ad uno stadio precoce, la cessazione dell’assunzione dei farmaci può portare a regressione del processo morboso. 2. La nefropatia da metalli pesanti è rappresentata principalmente da quella indotta da piombo. Si tratta di una forma ad evoluzione cronica, associata comunemente ad altre manifestazioni di saturnismo (coliche, anemia, neuropatia periferica ed encefalopatia). L’intossicazione può verificarsi nei bambini per ingestione di colori a base di piombo e negli adulti per esposizione a vapori di saldatura di piombo, o per altre cause. Il metallo viene assorbito nelle cellule dei tubuli prossimali, provocandone la degenerazione e l’atrofia. Si ha inoltre un certo grado di fibrosi interstiziale con interessamento dell’avventizia delle arteriole e menomazione dell’integrità glomerulare per ischemia. Il paziente presenta ipertensione ed una lenta evoluzione verso l’insufficienza renale cronica. L’uricemia sale per difetto di escrezione di acido urico ed è comune la gotta secondaria. La diagnosi viene posta quando si rilevano elevati livelli di piombemia ed un incremento dell’escrezione urinaria del metallo, dopo l’infusione dell’agente chelante acido etilendiaminotetraacetico (EDTA). Il trattamento consiste nell’allontanamento del paziente dalla sorgente di piombo e nella somministrazione di chelanti (EDTA) che accelerano l’escrezione del metallo. Fra gli altri metalli in grado di dare lesioni tubulari ricordiamo il mercurio, il bismuto, il cadmio. 3. La nefropatia da nefrotossine varie è provocata solitamente da alcuni antibiotici (aminoglicosidi, cefalosporine, anfotericina B), mezzi di contrasto per radiologia, solventi (tetracloruro di carbonio) e farmaci antinfiammatori non steroidei (ibuprofen, fenoprofen). C. Nefropatia interstiziale cronica da nefrosclerosi arteriolare. Questa particolare nefropatia interstiziale si verifica in corso di ipertensione, benigna o maligna, ed è dovuta ad ispessimento della parete delle arterie interlobulari e ad arteriosclerosi. La lesione dell’interstizio renale è secondaria ad ischemia e precede la corrispondente alterazione glomerulare, dato che l’interstizio e i tubuli sono più sensibili dei glomeruli alla diminuzione del flusso sanguigno. D. Nefropatie interstiziali croniche immunologiche. L’interstizio renale è particolarmente vulnerabile a processi immunopatologici. Infatti, essendo interposto tra vasi sanguigni e tubuli, rappresenta un possibile punto di incontro tra anticorpi e linfociti di provenienza ematica ed antigeni propri dei tubuli, o estranei, ma comunque gestiti dalle cellule tubulari nella loro escrezione. Pure i complessi antigene-anticorpo circolanti possono depositarsi nell’interstizio, anche se meno facilmente che nei glomeruli.
Le seguenti malattie immunopatologiche sistemiche possono essere caratterizzate da una nefropatia interstiziale cronica. E. Nefropatie metaboliche. 1. La nefropatia da iperuricemia è di due tipi. La prima è dovuta ad un aumento molto brusco dell’uricemia e dell’escrezione urinaria di acido urico e di urati, tale da portare a precipitazione intratubulare di cristalli di queste sostanze e ad insufficienza renale acuta. Si verifica pressoché esclusivamente in pazienti affetti da neoplasie che vengono trattati con farmaci citostatici. La rapida citolisi di molti elementi cellulari porta a catabolismo dei loro costituenti nucleari e ad iperproduzione acuta di acido urico. La seconda forma è detta nefropatia gottosa e si accompagna ad iperuricemia meno marcata, ma più persistente. Le alterazioni patologiche sono dovute alla deposizione di microcristalli nell’interstizio, il che provoca un’infiammazione cronica, con tendenza all’evoluzione sclerotica. Qualora persista l’iperuricemia, la nefropatia evolve in insufficienza renale cronica. 2. La nefropatia da ipercalcemia si verifica in corso di iperparatiroidismo primario, sarcoidosi, mieloma multiplo, intossicazione da vitamina D, lesioni ossee metastatiche. L’incremento del riassorbimento di calcio in corrispondenza dell’interstizio provoca la precipitazione di sali di calcio, innescando un meccanismo analogo a quello descritto per gli urati. Deve essere ricordato che l’ipercalcemia, di per sé, tende a ridurre la sensibilità dei tubuli distali e dei dotti collettori all’ormone antidiuretico. La poliuria e la nicturia sono perciò particolarmente comuni in questa nefropatia. 3. La nefropatia da ipokaliemia si verifica in corso di iperaldosteronismo primario, condizione patologica che comporta una cronica ipokaliemia, dovuta a eccessiva produzione di aldosterone da parte della corteccia surrenale. Non è chiaro il meccanismo patogenetico alla base della nefropatia. Dal punto di vista morfologico, le cellule dei tubuli, soprattutto prossimali, presentano vacuolizzazione; il prolungato deficit di potassio provoca fibrosi interstiziale con sclerosi ed atrofia. L’ipokaliemia ha lo stesso effetto dell’ipercalcemia su tubuli distali e dotti collettori. Anche questa nefropatia è perciò caratterizzata da poliuria e nicturia. F. Nefropatie in corso di neoplasie. Il mieloma multiplo è una neoplasia che frequentemente interessa il rene. Infatti, nel mieloma è comune l’eliminazione renale di grandi quantità di catene leggere immunoglobuliniche (proteinuria di Bence-Jones) che, a causa delle loro dimensioni, passano il filtro glomerulare e sono, almeno in parte, riassorbite nei tubuli. La malattia, perciò, comporta frequentemente un danno tubulare ed un’alterazione interstiziale secondaria. Per quanto riguarda gli effetti della precipitazione intratubulare delle catene leggere immunoglobuliniche, si veda
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quanto scritto a proposito dell’insufficienza renale acuta nel capitolo 35. Il rene può essere direttamente infiltrato da cellule neoplastiche: questo può avvenire in corso di leucemia e di linfomi. L’evenienza è però da considerare rara e il quadro clinico di queste malattie difficilmente ne risulta influenzato in misura significativa. G. Nefropatie da malattie granulomatose. La tubercolosi renale è descritta nel capitolo 38. Il rene può essere interessato dalla sarcoidosi, mentre la sua implicazione nella granulomatosi di Wegener è notevolmente caratteristica di questa malattia. H. Nefropatie tubulointerstiziali da cause varie. 1. Alcune condizioni che predispongono alla pielonefrite cronica, come l’ostruzione cronica delle vie urinarie e il reflusso vescicoureterale, sembra che possano indurre di per sé una nefropatia interstiziale. 2. L’aumento della pressione a livello del bacinetto renale (che si accompagna di regola a sua dilatazione, condizione che prende il nome di idronefrosi) determi-
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na una diminuzione della sensibilità dei dotti collettori all’ADH. Le nefropatie che si accompagnano a stasi nelle vie urinarie sono perciò più spesso caratterizzate da poliuria. 3. In corso di amiloidosi primitiva o secondaria è possibile che l’amiloide si depositi, oltre che nei glomeruli, anche intorno ai vasi retti, alle anse di Henle e ai dotti collettori. Le funzioni tubulari sono alterate con la possibile comparsa di acidosi tubulare renale o diabete insipido nefrogenico. 4. Nell’anemia a cellule falciformi la falcizzazione delle emazie si verifica con relativa facilità nei vasi retti, a causa dell’iperosmolarità che è presente nelle piramidi renali. Il difetto più comune che ne consegue è una menomazione della capacità di concentrare le urine. 5. Infine la nefropatia dei Balcani è una curiosa nefropatia interstiziale cronica, acquisita, endemica in un’area circoscritta del bacino del Danubio, dove si incontrano ex Iugoslavia, Romania e Bulgaria. Le conseguenze cliniche più comuni di questa affezione sono la proteinuria tubulare, con difetto nella capacità di concentrare le urine, e l’acidosi tubulare.
C A P I T O L O
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INFEZIONI DEL RENE E DELLE VIE URINARIE – CALCOLOSI URINARIA C. RUGARLI, G. CHEKIKIAN, G. COLOMBO
TUBERCOLOSI RENALE Circa il 10% dei pazienti con tubercolosi ha una localizzazione extrapolmonare e la maggior parte di questi presenta un’infezione a carico dell’apparato genitourinario. A. Eziopatogenesi. Usualmente la localizzazione del bacillo di Koch al rene avviene per via ematogena, poco tempo dopo la prima penetrazione del microrganismo nell’apparato respiratorio. Essendo il bacillo di Koch un agente patogeno aerobio obbligato, le sedi di localizzazione sono caratterizzate dal fatto di avere alte tensioni di ossigeno. La zona corticale renale è perciò ideale per l’insediamento del micobatterio. In tal caso sono frequentemente colpiti ambedue i reni. Così come avviene a livello degli apici polmonari, i processi difensivi dell’organismo e la risposta immunitaria all’infezione possono inizialmente controllare la crescita batterica ed evitare quindi, per un certo periodo, la propagazione dell’infezione. Per questo un’infezione tubercolare può restare silente anche per anni. Quando però la malattia sfugge al controllo, il bacillo di Koch riprende a riprodursi e a diffondersi dalla sede di infezione, invadendo i nefroni e raggiungendo per via intratubulare la midollare del rene (dove scarse sono le possibilità di difesa da parte dell’ospite) per propagarsi poi lungo le vie urinarie, con conseguente successivo interessamento del rene controlaterale. B. Anatomia patologica. Il processo patologico che interessa il rene presenta una stretta analogia con la tubercolosi postprimaria polmonare. Infatti la riattivazione del focolaio di infezione provoca la formazione di aree di necrosi caseosa che tendono a confluire, a dislocarsi lungo le vie urinarie, dando luogo, soprattutto nella parte midollare del rene, a cavitazioni (Fig. 38.1). Inoltre, come già detto, la propagazione avviene per via canalicolare, raggiungendo quasi di regola l’uretere e la vescica.
C. Clinica. Un chiaro quadro clinico compare solo in una minoranza di tutti i soggetti colpiti da TBC genito-urinaria. Il paziente è solitamente una persona giovane. Riferisce disturbi generali vaghi, come febbricola con sudorazioni notturne, astenia. Raramente presenta dolenzia lombare, in quanto è raro che il processo infiammatorio porti ad una distensione della capsula renale. Sono invece più frequenti i dolori addominali, per lo più ipogastrici, stranguria e, soprattutto, pollachiuria. Tale quadro è quindi sovrapponibile a quello di una cistite recidivante di origine aspecifica.
Figura 38.1 - Aspetto al taglio di un rene affetto da tubercolosi renale.
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Talora si possono verificare episodi imponenti di ematuria macroscopica (l’equivalente dell’emottisi polmonare): essi sono dovuti ad erosione di un vaso in corrispondenza delle cavitazioni che si formano nella midollare del rene. Le emorragie si verificano all’improvviso, dando luogo, a volte, ad un vero e proprio quadro di colica renale, per la formazione di coaguli che ostruiscono le vie urinarie. Deve inoltre essere ricordato che circa la metà dei pazienti affetti da tubercolosi renale presenta anche una localizzazione genitale con epididimite, prostatite, vescicolite. D. Diagnosi. Tra le indagini diagnostiche bisogna ricordare le seguenti. 1. Esame delle urine. Sono comunemente presenti nella TBC urinaria leucociti, a volte in grande numero, così da dar luogo a piuria (leucocituria); in tal caso l’aspetto delle urine è torbido, opalescente, grigiastro. Il pH delle urine è acido, a differenza di quanto avviene in alcune circostanze caratterizzate da piuria (infezioni aspecifiche). 2. Urinocoltura. È negativa se viene allestita sui terreni utilizzati comunemente per lo sviluppo di microrganismi non tubercolari. Se invece si utilizzano appositi terreni, l’esame colturale risulta positivo nel 90% dei casi. 3. Esame batterioscopico del sedimento urinario. Il sedimento viene strisciato su un vetrino e quindi colorato secondo il metodo di Ziehl-Nielsen, che permette di evidenziare i micobatteri. Sia l’esame colturale che la ricerca batterioscopica del BK devono essere ripetuti più volte, poiché l’eliminazione del micobatterio con le urine è intermittente. 4. Intradermoreazione alla tubercolina. Al giorno d’oggi, la maggior parte dei giovani presenta una risposta negativa. Qualora ci si trovi di fronte ad un soggetto che riferisce disuria recidivante e che presenta una conversione della risposta all’intradermoreazione con estratti di PPD, da negativa a positiva, bisogna sospettare un’infezione urinaria specifica. L’intradermoreazione risulta infatti positiva nel 95% dei casi. Tra le indagini strumentali ve ne sono alcune di grande utilità. 1. Urografia. Difficilmente permette una diagnosi nelle fasi iniziali della malattia. Negli stadi più avanzati risulta positiva nel 93% dei casi e permette di differenziare diversi tipi di lesioni. • Rene mastice: l’ombra renale presenta un’opacità disomogenea, con calcificazioni irregolari nel suo contesto; • Ulcerazioni del parenchima renale: possono essere a carico di una o più papille, sono dovute alla presenza di caverne, caratterizzate da un’opacità disomogenea a contorni irregolari e solitamente comunicanti con un calice;
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• Restringimento delle vie urinarie: si può riscontrare stenosi dei colletti di uno o più calici, che appaiono dilatati, configurandosi a forma di clava; la stenosi può essere inoltre a carico del bacinetto, dell’uretere, della vescica. L’urografia serve inoltre ad evidenziare l’interessamento monolaterale o bilaterale delle vie urinarie. 2. Cistoscopia. Consiste nell’introduzione, attraverso l’uretra, di un endoscopio, fino a raggiungere la vescica. Il reperto caratteristico di interessamento tubercolare è costituito da piccole lesioni circoscritte, raggruppate attorno allo sbocco degli ureteri. E. Prognosi. La gravità della malattia dipende dalla estensione delle lesioni e dal fatto che esse siano unilaterali o bilaterali. Inoltre la prognosi è legata anche alla eventuale presenza di infezione polmonare attiva. Se entrambi i reni sono coinvolti, la funzione renale può essere così compromessa da portare ad un’insufficienza renale cronica, in quanto il rene si trasforma progressivamente in un ammasso di tessuto fibrotico, che ingloba le aree di caseosi (rene a mastice). F. Terapia. La terapia viene impostata con etambutolo, streptomicina, isoniazide, rifampicina; l’uso di un solo antibiotico comporta il rischio di selezionare ceppi resistenti e, per questo motivo, si devono associare almeno due farmaci. Il trattamento deve essere proseguito per almeno un anno.
INFEZIONI DELLE VIE URINARIE Dal punto di vista funzionale il sistema rappresentato dai calici e dal bacinetto renale, dagli ureteri, dalla vescica e dall’uretra deve essere considerato come una unità (vie urinarie) connessa da una colonna di urina. Le infezioni delle vie urinarie si hanno quando l’urina viene colonizzata da microrganismi e questi provocano infiammazione della loro parete. Nel caso del rene, l’invasione batterica e l’infiammazione si propagano dai calici e dal bacinetto all’interstizio dell’organo. Nonostante la sostanziale unità delle vie urinarie le infezioni possono essere circoscritte a particolari regioni lungo il loro decorso e distinte, a seconda della sede, in due gruppi: • infezioni del tratto inferiore (uretrite, prostatite, cistite); • infezioni del tratto superiore con interessamento dell’interstizio renale (pielonefrite). Dal punto di vista microbiologico si parla di infezioni delle vie urinarie quando nelle urine è presente una concentrazione di microrganismi superiore a 105/ml. Non tutte le volte che questa concentrazione di micror-
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ganismi è dimostrabile nelle urine sono presenti i sintomi e i segni di infezione urinaria: in questo caso si parla di batteriuria asintomatica. Le infezioni delle vie urinarie sono molto comuni. Le donne sono più frequentemente colpite, sia perché il tragitto dell’uretra è più breve che nell’uomo, sia perché il meato uretrale è vicino all’orificio anale e quindi vi è un più facile accesso per i germi che provengono dall’intestino; anche il trauma uretrale connesso con l’attività sessuale può rappresentare un fattore favorente (cistite della “luna di miele”). Infatti, il 20% delle donne presenta almeno un episodio di disuria (cioè disturbi urinari) all’anno. Gli uomini sono colpiti più spesso oltre i 45 anni di età, quando è più frequente lo sviluppo dell’ipertrofia prostatica. Questa può essere una causa di ostruzione cronica delle vie urinarie e un fattore che favorisce la loro contaminazione. La batteriuria asintomatica è presente nel 2-15% delle donne (con valori più alti in gravidanza e nell’età avanzata) e nell’1-5% degli uomini. A. Eziologia. Vari microrganismi possono essere responsabili di infezione urinaria; in genere si tratta di batteri presenti come saprofiti nel grosso intestino. Tra di essi ricordiamo: Escherichia coli, Proteus, Pseudomonas, Klebsiella, Enterobacter, Serratia, Staphylococcus aureus. Escherichia coli è responsabile del 75-90% delle infezioni non complicate, cioè non provocate da manovre strumentali (introduzione di catetere) o da alterazioni organiche (per es., stenosi) delle vie urinarie, che favoriscono l’impianto di germi. Alcune caratteristiche di certi ceppi di E. coli possono spiegare la tendenza alla ricorrenza delle infezioni urinarie in particolari soggetti, soprattutto donne. Infatti, questi microrganismi possono presentare alla superficie delle protuberanze filiformi (fimbrie) che condizionano la loro abilità ad aderire all’epitelio delle vie urinarie e della vagina per affinità con particolari carboidrati presenti alla superficie delle cellule. Quando un ceppo di E. coli viene in contatto con un soggetto il cui fenotipo (positività del gruppo sanguigno P1) comporta la presenza sulle cellule di carboidrati adatti all’adesione delle fimbrie del microrganismo, sono facili la colonizzazione cronica del perineo e la ricorrenza di ripetute infezioni urinarie. Fra i microrganismi che provocano infezioni complicate ricordiamo Proteus e Pseudomonas (il quale dimora abitualmente nella zona perineale e nelle pieghe cutanee). Occorre comunque tenere presente che gli stafilococchi, soprattutto Staphylococcus epidermidis, possono contaminare il campione di urine durante la raccolta e, quindi, dare false positività dell’urinocoltura. B. Patogenesi. In condizioni normali, le vie urinarie sono sterili, nonostante l’urina possa costituire un buon terreno di coltura per molti germi. Solo la porzione terminale dell’uretra e la cute circostante il meato uretrale sono popolate da batteri (che non sono i Gram– che comunemente provocano le infezioni delle vie urinarie), ma la loro penetrazione lungo
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le vie urinarie è ostacolata dal flusso di urina in senso opposto. Come già detto, il sesso femminile, per la particolare condizione anatomica, è più facilmente soggetto ad infezioni. Altre situazioni predisponenti possono essere importanti. • La gravidanza, per compressione da parte del feto sugli ureteri e dilatazione di essi per effetto miorilassante svolto da alcuni ormoni. • L’uropatia ostruttiva, per neoplasia, calcolosi, ipertrofia prostatica. • Le disfunzioni neurologiche della vescica, nelle lesioni del midollo spinale, nella tabe dorsale, nel diabete mellito, ecc. • Il reflusso vescicoureterale, per anomalia della giunzione vescicoureterale (una condizione che provoca infezioni delle vie urinarie soprattutto nei bambini). • Le malattie renali, quali la nefropatia diabetica, la gotta, la nefrocalcinosi, o alterazioni metaboliche come l’ipercalcemia e l’ipokaliemia, che provocano una maggior suscettibilità alle infezioni del tratto inferiore. • Il diabete mellito, poiché la presenza di glucosio nelle urine favorisce l’impianto di batteri. • Le manovre di cateterismo, indispensabili nel caso in cui vi sia ostacolo allo svuotamento della vescica o nei pazienti in cui non vi è possibilità di controllo dello sfintere vescicale. La contaminazione batterica della vescica avveniva in passato per lo più attraverso il punto di passaggio del catetere nel recipiente di raccolta. Con i sistemi chiusi che oggi vengono adoperati questo rischio è stato eliminato, ma l’infezione può ancora verificarsi per passaggio dei microrganismi attraverso il sottile film liquido che separa il catetere dalle pareti dell’uretra. Si stima che, con un catetere a permanenza, il rischio di infezione urinaria sia del 5-10% per ogni giorno di cateterizzazione. In particolari condizioni i microrganismi possono inoltre raggiungere le vie urinarie per via ematogena, nel caso di pazienti defedati e con grave depressione delle difese immunitarie. In tal caso gli agenti patogeni sono più frequentemente Staphylococcus aureus e i germi Gram–. Si può quindi concludere che l’instaurazione di un’infezione urinaria può dipendere sia da condizioni favorenti locali, sia da alterazione dei meccanismi di difesa dell’ospite. Il processo pielonefritico è discontinuo, in quanto interessa solo alcune zone del parenchima ed è frequentemente unilaterale. Solitamente la lesione iniziale è a livello di una papilla; dall’apice della piramide renale l’infezione si propaga verso l’interstizio della midollare adiacente alla papilla. In questa sede, per le operazioni compiute nelle anse di Henle, vi è un’ipertonicità, il che ostacola l’attività dei fagociti; tali cellule, pertanto, non sono perfettamente in grado di far fronte alla penetrazione di agenti patogeni. Inoltre, sempre a questo livello, vi è una produzione di ammoniaca (NH3) da par-
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A.
B.
Figura 38.2 - Nella pielonefrite acuta la superficie renale è spesso normale, ma può anche essere resa irregolare da piccoli ascessi (A). Al taglio si possono notare ascessi nella corticale e strie grigiastre radiali all’interno delle piramidi renali (B). Si osserva anche una moderata idronefrosi con materiale purulento nella pelvi renale e nei calici in accordo con l’origine ascendente dell’infezione.
te dei tubuli, la quale svolge un’azione inibitoria sull’attivazione del sistema complementare, deputato anch’esso alle difese dell’ospite. Infine, il flusso ematico a livello della midollare è particolarmente lento, fatto che tende a favorire l’instaurarsi dell’infezione. Quando i batteri penetrano nell’interstizio si innesca una reazione infiammatoria, con formazione di un infiltrato di granulociti neutrofili e, talora, costituzione di microascessi; se l’infezione è più estesa, gli ascessi possono essere di dimensioni maggiori. I tubuli vicini alla sede colpita vanno incontro ad un’alterazione funzionale, con conseguente difficoltà a concentrare le urine. Nei casi più gravi si può giungere a distruzione delle cellule dei tubuli. Ricordiamo comunque che, trattandosi di un processo localizzato ad alcune zone e per lo più unilaterale, difficilmente interferisce in modo rilevante sulla funzione renale. Approssimativamente, circa la metà dei pazienti con una batteriuria significativa non presenta sintomi. Dei soggetti sintomatici circa il 50% è portatore di una cistite e la parte restante è affetta da pielonefrite.
Pielonefrite A. Clinica. La pielonefrite è un’infezione dell’interstizio renale più spesso provocata in via ascendente da un’infezione delle vie urinarie, ma possibile anche per disseminazione ematogena. Si distingue una pielonefrite acuta (Fig. 38.2) quando l’episodio è isolato, e
una pielonefrite cronica quando gli episodi sono ripetuti nel tempo e conducono a una nefropatia interstiziale cronica. La pielonefrite acuta è di solito sintomatica. In questo caso compare febbre, per lo più di tipo intermittente ma talora anche remittente, con puntate durante le ore serali e la notte. Essa è solitamente accompagnata da brivido nella fase di ascesa e da sudorazione profusa durante la defervescenza. In caso di pielonefrite acuta possono inoltre comparire nausea, vomito, astenia e mialgie. Altro sintomo caratteristico è il dolore lombare, gravativo, bilaterale, quando sono interessati ambedue i reni, monolaterale in caso contrario, esacerbato dalla percussione con il margine ulnare della mano in regione lombare (manovra di Giordano). Un’altra manovra che permette di evidenziare un dolore di origine renale è la percussione digitale in corrispondenza dell’angolo costovertebrale (infatti in presenza di flogosi renale vi è anche un risentimento della capsula renale e dei tessuti contigui). Un tempo si pensava che la pielonefrite avesse una notevole tendenza a cronicizzarsi, in quanto veniva attribuita a pielonefrite cronica tutta una serie di affezioni che, per lo più, si sono rivelate di natura non infettiva e delle quali si è parlato nel capitolo 37 a proposito delle nefropatie tubulo-interstiziali. In realtà è difficile che la pielonefrite si cronicizzi in assenza di fattori predisponenti, tra i quali l’ostruzione cronica delle vie urinarie è il più importante.
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Dal punto di vista morfologico l’infiammazione cronica comporta un’evoluzione fibrotica a carico dell’interstizio midollare, con notevole deformazione dell’architettura renale: i tubuli si presentano dilatati, atrofici, con ispessimento della membrana basale. Il processo provoca una progressiva distruzione dei nefroni e tutto il rene va incontro ad una riduzione del suo volume, per involuzione fibrosclerotica (rene grinzo-pielonefritico). Per le conseguenze fisiopatologiche, i sintomi e i segni della pielonefrite cronica, si veda il paragrafo Nefropatie tubulo-interstiziali (Cap. 37). B. Esami di laboratorio e strumentali. Nel sospetto di infezione urinaria un’indagine decisiva è rappresentata dall’esame delle urine: nel sedimento saranno reperibili leucociti, soprattutto granulociti neutrofili, isolati o raggruppati a costituire cilindri granulocitari, emazie, per lo più nei casi in cui l’infezione sia associata ad un’uropatia ostruttiva da calcolosi. Per quanto riguarda la leucocituria (sinonimo: piuria), può essere utile stabilire l’entità facendo una conta degli elementi presenti nel sedimento: se in ogni campo considerato massimo per la lettura del sedimento (400×) si contano più di 10 elementi, la leucocituria è significativa. L’analisi chimica delle urine permetterà di rilevare una modesta proteinuria, generalmente di origine tubulare, qualora vi sia sofferenza dei tubuli (frammenti di immunoglobuline e 2-microglobulina sono, in condizioni normali, riassorbiti a livello tubulare). Il pH nella maggior parte dei casi è acido. Solo nelle infezioni da Proteus le urine sono alcaline, poiché questo agente produce ureasi, che scinde l’urea in ammoniaca: tale condizione rappresenta un fattore predisponente per la precipitazione di cristalli, con formazione di calcoli. Di grande importanza sono le indagini microbiologiche sulle urine che consentono di verificare la presenza di batteriuria (e di quantificarla) e di individuare il microrganismo responsabile dell’infezione. Normalmente, se le urine sono ricavate per puntura soprapubica, non contengono microrganismi. Di solito, tuttavia, si analizzano le urine del cosiddetto “mitto intermedio” (ossia emesse spontaneamente e raccolte sterilmente scartandone la quota iniziale e finale). In queste condizioni un certo numero di microrganismi è normalmente trovato perché il tratto terminale dell’uretra non è sterile. Si fissa perciò a 105 batteri/mm la densità microbica che viene ritenuta significativa per diagnosticare un’infezione urinaria. Si noti che questo dato deve essere interpretato nel contesto clinico per formulare una diagnosi di pielonefrite acuta, dato che donne con batteriuria asintomatica possono avere nelle urine più di 105 batteri/mm. L’isolamento del ceppo microbico che ha provocato l’infezione è molto utile per guidare la terapia grazie all’esecuzione di un antibiogramma. Quando esiste una pielonefrite acuta, l’infezione è di entità sufficiente a provocare alterazioni ematologiche cosiddette “di fase acuta”: aumento della velocità di eritrosedimentazione, leucocitosi neutrofila, positività della proteina C reattiva.
A. Cicatrice polare C. Rene normale con lobulazione fetale
B. Cicatrice mediana
D. Rene normale
Figura 38.3 - Immagini urografiche di pielonefrite cronica. (A) un rene con cicatrice polare superiore e (B) con cicatrice mediana. Caratteristica è la retrazione della corticale in corrispondenza dei calici che appaiono alterati. Questa retrazione non deve essere confusa con eventuali incisure del contorno renale che possono essere attribuite a lobulazione fetale (possibili in reni normali). Infatti in quest’ultimo caso (C) le incisure sono dirette verso lo spazio che si trova tra i gruppi di calici e non verso i calici stessi. (D) Rene normale.
Diverso è il caso della pielonefrite cronica, nella quale queste alterazioni possono essere presenti facoltativamente (a seconda se è recente o meno una fase di riacutizzazione) e prevalgono l’anemia e l’aumento della creatininemia. Utili nella pielonefrite cronica sono le indagini radiologiche. Infatti, in questa condizione, la urografia endovenosa fornisce un reperto caratteristico, che è la presenza di calici con estremità convessa, in coincidenza dei quali la corticale presenta una depressione dovuta a cicatrizzazione (Fig. 38.3). C. Localizzazione dell’infezione. In presenza di un quadro clinico caratteristico e di esami di laboratorio significativi non è difficile distinguere una pielonefrite da un’infezione urinaria del tratto inferiore. Tuttavia è possibile che il quadro clinico sia sfumato e che il reperto di batteriuria e leucocituria lasci delle incertezze sulla localizzazione dell’infezione. Sono stati studiati vari test per localizzare con precisione un’infezione delle vie urinarie. Nel passato molte speranze erano sta-
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te riposte nel test di Thomas che è una metodica di indagine microscopica basata sull’impiego di antisieri fluorescenti antimmunoglobuline umane, per evidenziare anticorpi eventualmente adesi sulla superficie dei batteri; infatti, quando l’infezione è localizzata in vescica il test è negativo, poiché a questo livello non vengono prodotte immunoglobuline, mentre queste ultime sono reperibili quando la provenienza è renale. La tecnica presenta un 15-20% di falsi negativi, dovuti almeno in parte al fatto che occorrono almeno 10-15 giorni per sviluppare un’adeguata risposta anticorpale ai microrganismi e l’indagine può risultare troppo precoce. Falsi positivi sono possibili quando il campione di urine è contaminato da materiale essudativo, da sangue nelle infezioni da alcuni microrganismi (Pseudomonas, stafilococchi). Le incertezze di questo test sono troppo elevate perché possa essere considerato di effettivo valore clinico e perciò, quando il problema diagnostico è importante, si ricorre ad altri test. Il test di Stamey utilizza lo studio microbiologico delle urine ottenute attraverso cateterismo ureterale. Nel test di Farley la vescica è sottoposta a lavaggio e le indagini microbiologiche vengono eseguite sulle urine arrivate dagli ureteri dopo il lavaggio. Bisogna aggiungere che la dimostrazione nelle urine di 2-microglobulina può essere considerata un segno affidabile di infezione urinaria alta. D. Complicanze, decorso e prognosi. L’infezione delle alte vie urinarie e dell’interstizio renale è una frequente causa di batteriemia, soprattutto in pazienti defedati, degenti in ospedale e portatori di catetere a permanenza. Una complicanza frequente e grave è rappresentata dalla necrosi papillare (come si è visto essa può anche essere provocata da agenti non infettivi): il processo infiammatorio descritto a carico dell’interstizio papillare può provocare necrosi, che interessa in alcuni casi la porzione midollare a tutto spessore, fino al limite con la corticale; il frammento necrotico si stacca provocando ematuria e dolori di tipo colico per ostruzione delle vie escretrici. Tale evento, frequente nei pazienti diabetici, è tanto più grave quanto più è esteso l’interessamento del parenchima renale: in casi estremi, quando il processo è bilaterale, si può giungere ad insufficienza renale acuta (IRA). La diagnosi di necrosi papillare potrà essere posta con sicurezza dopo aver eseguito una pielografia, che permette di evidenziare un’ombra ad anello in corrispondenza della papilla amputata. In alcuni casi il materiale necrotico è reperibile nel sedimento urinario. Un’altra possibile evoluzione della pielonefrite acuta è verso la cronicizzazione. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, la pielonefrite acuta adeguatamente trattata guarisce in pochi giorni senza sequele. Come si è già detto, l’evoluzione in pielonefrite cronica è difficile in assenza di ostruzione delle vie urinarie o reflusso vescicoureterale.
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E. Terapia. La terapia delle nefropatie interstiziali di origine infettiva è basata sulla somministrazione di antibiotici, seguendo le indicazioni fornite dall’esame colturale delle urine e dall’antibiogramma. Sarà indispensabile, dopo un periodo adeguato di trattamento, eseguire un nuovo esame colturale (non prima di 3 giorni dal termine della terapia antibatterica, onde evitare interferenze nel risultato), che dimostrerà la scomparsa della batteriuria, qualora il farmaco scelto sia stato efficace. Ovviamente, qualora vi siano condizioni patologiche favorevoli all’insorgenza di infezioni urinarie (per esempio, calcolosi renale o ostruzione delle vie urinarie di altra natura, malattie dismetaboliche, come il diabete, ecc.) occorre, se possibile, rimuoverle per evitare la cronicizzazione del processo infettivo. Per altre forme di nefropatia interstiziale si rimanda alle indicazioni terapeutiche specifiche.
Cistite A. Clinica. Nel caso di cistite, i microrganismi, penetrati attraverso l’uretra, si stabiliscono in vescica. Si ha allora la comparsa di un quadro infiammatorio locale e, anche quando la vescica contiene piccole quantità di urina, il paziente avverte lo stimolo ad urinare, mantenendo tale sensazione anche dopo la minzione: si parla allora di pollachiuria. Oltre alla pollachiuria, compare bruciore durante la minzione, o addirittura dolore, cioè stranguria. In alcuni casi le urine possono essere maleodoranti, per produzione di sostanze volatili da parte dei batteri presenti. Di solito la semplice cistite ha un andamento benigno e tende a guarigione spontanea. L’uso di disinfettanti delle vie urinarie permette di risolvere il quadro nel giro di pochi giorni. Nelle donne è frequente una sintomatologia ricorrente di pollachiuria e disuria con batteriuria negativa (e talora anche con assenza di leucocituria franca). Questa condizione prende il nome di sindrome uretrale e si pensa che, almeno in alcuni casi, possa essere provocata da Chlamydia trachomatis, un organismo che non viene identificato con le comuni tecniche microbiologiche. B. Esami di laboratorio. Anche nella cistite l’esame delle urine è importante per la diagnosi ed è caratterizzato da batteriuria e leucocituria come nella pielonefrite. In presenza di una sintomatologia tipica e di leucocituria, nelle donne, anche una conta batterica di almeno 102/ml può essere significativa. C. Terapia. La terapia è fondata sull’impiego di antibiotici come nella pielonefrite. Nelle donne il 90% delle infezioni urinarie del tratto inferiore guarisce con una singola dose di chemioterapico o antibiotico. Il cotrimossazolo e l’amoxicillina sono le scelte più comuni. Questo tipo di terapia non ha ancora raccolto, però, un generale consenso. Alternativamente (e in ogni caso negli uomini) il trattamento deve durare 714 giorni, come nelle infezioni del tratto urinario superiore.
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Prostatiti Comprendono varie condizioni infiammatorie della prostata dovute ad infezioni batteriche (soprattutto da Staphilococcus aureus), più frequentemente ad agenti infettivi non identificabili, oppure microrganismi quali clamidie e micoplasmi. A. Clinica. Il quadro clinico comprende la comparsa di dolenzia in regione sacrale, perineale o testicolare. Talora è riferita una disuria. L’esame del sedimento urinario evidenzia piuria o ematuria microscopica. Nelle forme acute può comparire febbre. Il massaggio prostatico è una manovra che permette di evidenziare una secrezione purulenta, ricca di batteri che si sviluppano in coltura; bisogna però tenere presente che la manipolazione può essere responsabile di batteriemie. B. Terapia. Si basa sull’uso di antibiotici, nelle forme acute. Nelle prostatiti croniche può, a volte, essere necessario l’intervento chirurgico di prostatectomia transuretrale.
CALCOLOSI URINARIA La calcolosi urinaria è una condizione patologica determinata dalla precipitazione di costituenti poco solubili delle urine nelle vie urinarie, con formazione di concrezioni cristalline di dimensioni variabili che sono
A.
in grado di traumatizzare la mucosa e che possono costituire un ostacolo al normale deflusso dell’urina lungo le vie escretrici (Fig. 38.4). Si tratta di una patologia molto comune. In Gran Bretagna è stato stimato che l’incidenza annuale della calcolosi urinaria è di circa 70 casi su 100.000 soggetti di età compresa tra i 45 e i 60 anni. La calcolosi ha una notevole tendenza a recidivare in uno stesso soggetto: si è calcolato che in circa il 70% dei pazienti che hanno presentato un episodio con espulsione di un calcolo, entro 10 anni si verifica una recidiva. Esistono individui che hanno una notevole propensione a fabbricare calcoli urinari e che possono lamentare episodi colici con frequenza pressoché annuale. Questa predisposizione personale può essere ricondotta ad alcuni dei fattori costituzionali che verranno descritti parlando dell’eziologia della malattia; tuttavia, nella calcolosi cosiddetta “idiopatica” non è possibile precisare il motivo di tale predisposizione. Un elenco dei costituenti cristallini più comunemente presenti nei calcoli urinari è riportato nella tabella 38.1. Questo non significa che, di fatto, i calcoli urinari abbiano la composizione indicata nella tabella, dato che sono frequentemente di costituzione mista, anche se spesso prevale un costituente. A. Eziologia. I calcoli urinari si formano con maggior facilità quando l’urina contiene concentrazioni relativamente elevate di costituenti poco solubili e quando nelle vie urinarie si creano condizioni favorenti la loro precipitazione (per es., nella stasi urinaria complicata da infezione).
B.
Figura 38.4 - Aspetti della calcolosi renale. (A) Numerosi piccoli calcoli. (B) Grosso calcolo a stampo nel bacinetto renale e un calcolo più piccolo in un calice.
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734 Tabella 38.1 Costituzione dei calcoli urinari. • • • •
Ossalato di calcio Calcio apatite: Ca10(PO4)6(OH)2 Fosfato calcico monobasico: CaHPO4 · 2H2O (brushite) Fosfato ammonio-magnesiaco: MgNH4PO4 · 6H2O (struvite) • Acido urico • Cistina
La tabella 38.2 elenca i fattori che favoriscono la formazione di calcoli urinari. Al primo posto si trovano le condizioni caratterizzate da un’aumentata escrezione urinaria di calcio. La calciuria deriva dalla differenza tra calcio che passa nel filtrato glomerulare (concentrazione di calcio plasmatico diffusibile × filtrato glomerulare) e calcio che viene riassorbito nei tubuli. I valori normali sono < 300 mg/24 h negli uomini e < 250 mg/24 h nelle donne. L’ipercalciuria idiopatica è una condizione che si suppone ereditaria; è due volte più frequente negli uomini che nelle donne ed è caratterizzata da un’eccessiva escrezione di calcio con le urine, pur avendo un apporto dietetico normale. Per definizione, nell’ipercalciuria idiopatica si ha un’escrezione di calcio > 300 mg/24 h negli uomini e > 250 mg/24 h nelle donne. Si pensa che esistano due meccanismi patogenetici. • In alcuni soggetti l’assorbimento intestinale di calcio è eccessivo; nella fase dell’assorbimento postprandiale si avrebbe perciò ipercalcemia con conseguente inibizione della secrezione di ormone paratiroideo (PTH), cosicché il riassorbimento tubulare di calcio sarebbe ridotto proprio quando è aumentato il suo carico filtrato. • In altri soggetti il difetto è primitivo a livello dei tubuli renali, che riassorbono meno calcio che di norma. Ne consegue uno stimolo alla secrezione di PTH e un aumento della sintesi, da parte del rene, della forma attivata della vitamina D, 1-25(OH)2 colecalciferolo che, a sua volta, incrementa l’assorbimento intestinale di calcio. Tabella 38.2 Fattori favorenti la calcolosi urinaria. • Aumentata escrezione urinaria di calcio – Ipercalciuria idiopatica – Acidosi tubulare renale di tipo distale – Iperparatiroidismo – Ipervitaminosi D – Fattori dietetici (milk-alkali syndrome) – Immobilità protratta – Sarcoidosi • Aumentata escrezione di acido ossalico – Diatesi ossalica – Aumentato assorbimento intestinale di acido ossalico nelle sindromi di malassorbimento • Aumentata escrezione di acido urico – Iperuricemia costituzionale con iperuricuria • Ostruzione cronica urinaria • Infezioni urinarie
MALATTIE DEL RENE E DELLE VIE URINARIE
In un caso e nell’altro il risultato è un’ipercalciuria che facilita il superamento del prodotto di solubilità nelle urine per l’ossalato ed il fosfato di calcio. Un particolare interessante è che in questi soggetti la calciuria è dipendente dall’apporto dietetico di sodio e che anche moderate quantità di sodio assunte giornalmente con gli alimenti (4-6 g) possono incrementarla. L’acidosi tubulare di tipo distale provoca ipercalciuria con il meccanismo descritto precedentemente. La calcolosi urinaria può perciò complicare questa condizione, sia essa sotto forma di tubulopatia funzionale isolata o faccia parte di una nefropatia interstiziale cronica. L’iperparatiroidismo provoca ipercalcemia e perciò aumento di calcio che passa nel filtrato glomerulare. Anche se il riassorbimento tubulare di calcio può risultare incrementato, l’effetto complessivo è di aumento della calciuria. L’ipervitaminosi D comporta un aumento del riassorbimento di calcio intestinale e della calciuria. È un effetto più comune a verificarsi in seguito all’impiego poco controllato di preparati polivitaminici autoprescritti. L’ipercalciuria per fattori dietetici non è facile a verificarsi in presenza di normali meccanismi omeostatici (che finiscono per limitarne l’assorbimento intestinale). Il calcio dietetico può però avere importanza in persone che, per i meccanismi che abbiamo descritto a proposito dell’ipercalciuria idiopatica, sono predisposte a un’aumentata escrezione di calcio. Il fenomeno è stato descritto in soggetti che, per la terapia dell’ulcera peptica, assumono eccessive quantità di latte (ricco di calcio) e di antiacidi (bicarbonato di sodio). Questa condizione è chiamata in inglese “milk-alkali syndrome”. L’ipercalciuria nell’immobilità protratta è dovuta alla mobilizzazione del calcio dalle ossa in assenza di sollecitazioni meccaniche. L’ipercalciuria della sarcoidosi è secondaria all’ipercalcemia da aumentata sensibilità alla vitamina D che si ha spesso in questa malattia. L’aumentata escrezione di acido ossalico o di acido urico viene al secondo posto dopo l’ipercalciuria nel favorire la formazione di calcoli renali. Sul ruolo dell’ostruzione cronica urinaria e delle infezioni urinarie (spesso coincidenti) parleremo a proposito della patogenesi della calcolosi urinaria. B. Patogenesi. I fattori importanti per la patogenesi della calcolosi urinaria sono due: • una soprasaturazione da parte di alcuni dei suoi costituenti; • una modificazione della composizione urinaria tale da favorire la precipitazione di cristalli. Consideriamo separatamente questi due fattori. 1. Soprasaturazione. Con il termine di prodotto di solubilità all’equilibrio si intende il prodotto delle concentrazioni degli ioni che entrano a costituire un sale (per es., ioni di calcio e ioni di ossalato) in presenza di un precipitato insolubile dello stesso sale (ossalato di calcio). Se il precipitato insolubile viene allontanato,
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sarà ancora possibile aggiungere una certa quantità degli stessi ioni alla soluzione senza provocare precipitato. Si dice allora che la soluzione è soprasatura metastabile. Il termine metastabile sta ad indicare che la soluzione è in uno stato precario: basterebbe aggiungere qualche cristallo dello stesso o di un altro sale per avere la precipitazione su di questo, in forma di sale, dell’eccesso di ioni che sono rimasti in soluzione nonostante il superamento del prodotto di solubilità all’equilibrio. In altre parole, quando è raggiunto il prodotto di solubilità all’equilibrio degli ioni che lo costituiscono, un sale precipita solo se esiste una specie di stampo, rappresentato da cristalli dello stesso o di un altro sale. In assenza di questo stampo, non si ha precipitazione fino a quando il prodotto di solubilità dei costituenti del sale non ha raggiunto un valore più alto, detto prodotto di formazione. Risulta perciò evidente che i calcoli urinari possono formarsi se i loro costituenti sono in concentrazione tale nelle urine da superare il prodotto di formazione; qualsiasi microcristallo così formatosi può indurre la precipitazione dei costituenti di altri sali che si trovino in quel momento nelle urine in soluzione soprasatura metastabile (quest’ultimo meccanismo è alla base della costituzione mista che possono avere i calcoli urinari). L’apposizione di cristalli di un sale su quelli di un altro si chiama crescita epitassiale. Si noti che parlando di prodotto di solubilità ci si è riferiti a ioni. Se dei costituenti urinari, come calcio, fosfati e ossalati, sono in parte presenti nelle urine incorporati in composti non dissociati, quella parte non entra nel calcolo del prodotto di solubilità per quanto riguarda la precipitazione di fosfato di calcio o ossalato di calcio. Si capisce allora come il pH delle urine possa avere importanza per la formazione dei calcoli. Ricordiamo che la dissociazione di un acido debole è influenzata dalla relazione tra il pH ambientale e il suo pK. Al pH corrispondente al pK le concentrazioni della forma dissociata e della forma indissociata sono uguali, a pH più bassi prevale la forma indissociata, a pH più alti prevale la forma dissociata. L’acido fosforico ha tre valori di pK (corrispondenti a tre dissociazioni che danno origine rispettivamente agli ioni H2PO4–, HPO4– – e PO4– – –) che sono spostati verso l’acidità. Quando perciò le urine divengono alcaline aumenta la dissociazione dell’acido fosforico e più facilmente gli ioni fosfato che si formano raggiungono il prodotto di solubilità con gli ioni di calcio, di magnesio e di ammonio pure presenti nelle urine. Perciò l’alcalinizzazione delle urine facilita la formazione di calcoli di calcio apatite, di brushite e di struvite. L’acido ossalico ha due pK sufficientemente bassi perché non sia influenzato significativamente nella sua dissociazione dal pH urinario. Al contrario l’acido urico ha pK relativamente alto e perciò, al di sotto di un pH urinario di 5,5, sarà presente nelle urine principalmente nella forma indissociata. Ma, essendo in questa forma l’acido urico poco solubile, ne consegue che la formazione dei calcoli di questa sostanza è facilitata dall’acidificazione delle urine.
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2. Composizione urinaria. Quanto abbiamo finora detto si applica alle urine solo con una certa approssimazione. Infatti è possibile che nelle urine siano disciolti dei sali in quantità superiori a quanto calcolabile in base al prodotto di solubilità. Devono quindi esistere nelle urine dei componenti che inibiscono il processo di cristallizzazione di varie sostanze. Questi sono stati effettivamente individuati e nell’uomo sono rappresentati dal pirofosfato inorganico (che inibisce la precipitazione di fosfato di calcio e ossalato di calcio) e da un mucopolisaccaride acido ad alto peso molecolare, che ostacola la precipitazione dell’ossalato di calcio. La propensione di alcuni individui alla calcolosi urinaria potrebbe dipendere dalla difettosa concentrazione di tali inibitori nelle urine. Un problema che ha appassionato a lungo gli studiosi nel passato è se le urine possano contenere qualcosa che agisca positivamente sulla formazione dei calcoli. Questa idea è stata largamente suggerita dalla constatazione che tutti i calcoli urinari contengono materiale proteico, con una struttura fibrillare, cui è stato dato il nome di “matrice”. È stato perciò supposto che l’inizio della calcolosi sia propiziato da un’eccessiva produzione della matrice. Questo punto di vista non è al giorno d’oggi generalmente accettato. Un discorso a sé merita la calcolosi che si verifica in presenza di infezione delle vie urinarie. Di solito, in questa condizione, i cristalli sono costituiti da struvite (fosfato ammonio-magnesiaco). È stato dimostrato in esperimenti sul ratto che un’infezione da Proteus, indotta per via ascendente con interessamento parenchimale, determina, nel giro di 3 mesi, oltre ad un’insufficienza renale, anche la formazione di calcoli nell’85% degli animali trattati. Il meccanismo con il quale i germi urolitici sono in grado di provocare una litiasi è fondamentalmente dovuto al fatto che il Proteus determina la scissione dell’urea, con formazione di ioni di ammonio, responsabili dell’elevata alcalinità delle urine. In questo ambiente particolarmente alcalino (pH 8-9) i microcristalli di fosfato ammonio-magnesiaco possono precipitare facilmente. C. Fisiopatologia. I calcoli contenenti calcio si formano di regola alla superficie delle papille renali. L’accrescimento progressivo di un calcolo che non viene mobilizzato può portare con il tempo all’occupazione completa del bacinetto e dei calici renali: il calcolo allora è detto “a stampo” o, con un espressivo termine usato dagli anglosassoni, “a corna di cervo”. L’esito finale in questo caso può essere la perdita pressoché completa della funzione del rene interessato. Più spesso il materiale precipitato è mobilizzato. Anche l’espulsione con le urine può avere conseguenze, la più comune delle quali è il traumatismo delle vie urinarie con ematuria. Infatti la calcolosi è tra le più comuni cause di ematuria macroscopica e microscopica. Un’altra conseguenza è l’ostruzione delle vie urinarie, che può essere indotta sia da microcristalli in grande quantità che da calcoli veri e propri. Tra i microcristalli possono essere occlusivi a livello degli ureteri quelli di aci-
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B.
A.
Incuneamento di un calcolo renale (idronefrosi secondaria)
Uretere dilatato C.
Peritoneo ribattuto
Vescica
Figura 38.5 - (A) Localizzazione del dolore nelle coliche renali. (B) Complicanze della calcolosi renale. (C) Asportazione del calcolo dalla porzione finale dell’uretere mediante ureterostomia.
do urico (la cosiddetta “renella”), mentre quelli di ossalato e di fosfato di calcio non provocano mai ostruzione (anche quando le urine contengono tanti cristalli di fosfato di calcio da avere un aspetto lattescente). I calcoli veri e propri possono impegnarsi al giunto pieloureterale o, più spesso, dopo aver percorso l’uretere, a livello del giunto vescicoureterale. Questo tipo di occlusione è alla base dell’evento clinico più tipico della calcolosi urinaria, che è la colica renale (Fig. 38.5). D. Clinica. Il sintomo più frequente della calcolosi urinaria è il dolore. Nell’episodio acuto insorge all’improvviso, talora scatenato da uno stress fisico o da un eccessivo carico idrico, che distende all’improvviso le vie escretrici; è un dolore di tipo colico, molto intenso, localizzato in regione lombare o, più frequentemente, irradiato lungo il decorso dell’uretere fino alla vescica e ai genitali omolaterali. Il dolore può talvolta essere avvertito bilateralmente, anche quando il calcolo è presente da un solo lato. Il paziente è agitato, non riesce a trovare una posizione che gli permetta di attenuare il dolore. Ad esso si associa-
no talora pollachiuria e stranguria. Nel quadro classico della colica renale sono inoltre compresi sintomi a partenza dall’apparato gastroenterico, quali nausea, vomito, meteorismo intestinale. La durata dell’episodio acuto è variabile: se il calcolo viene eliminato con le urine, oppure se passa dall’uretere in vescica, la colica cessa bruscamente. In caso contrario, il dolore può placarsi solo temporaneamente, per ripresentarsi ad intervalli di tempo variabili, con nuovi parossismi. Buona parte dei pazienti portatori di calcoli riferisce algie lombari croniche, descritte come sensazione di peso, fastidio, tensione. L’esame obiettivo evidenzia solitamente una dolorabilità alla palpazione in corrispondenza dei punti pielici ed ureterali e la percussione, con il margine ulnare della mano, in regione lombare suscita vivo dolore (manovra di Giordano). Qualora la presenza del calcolo condizioni una stasi di urine nelle vie escretrici e a livello renale, può essere apprezzabile alla palpazione una massa rappresentata dal rene idronefrotico. Tra gli altri segni rivelatori di litiasi ricordiamo la ematuria, presente in forma macroscopica nel 20-30%
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dei casi, quasi sempre presente all’esame microscopico del sedimento urinario e talora accompagnata da leucocituria e batteriuria. Non è rara la febbre, preceduta da brivido, quando la calcolosi è accompagnata da infezione delle vie urinarie e a volte è presente anuria di tipo escretorio per ostruzione delle vie, quando la calcolosi è bilaterale o quando vi è un solo rene funzionalmente attivo. E. Diagnosi. Nel sospetto di litiasi urinaria è indispensabile eseguire alcune indagini per determinare con certezza la presenza, il numero, la localizzazione e la natura dei calcoli. Tra gli esami di laboratorio sono fondamentali l’esecuzione di un’analisi chimico-fisica delle urine, lo studio del sedimento urinario e l’urinocoltura. Qualora il calcolo venga espulso con le urine è possibile effettuare un’analisi chimica di esso. Fra le indagini strumentali comunemente utilizzate per la diagnosi ricordiamo di seguito le principali. • Ecografia renale: può dare indicazioni generiche sulla presenza di calcoli, di qualunque natura essi siano, purché abbiano dimensioni sufficienti per essere intercettati dall’ecosonda. • Radiografia diretta standard dell’addome: permette di visualizzare i calcoli radiopachi (cioè quelli contenenti sali di calcio). • Urografia: l’unico esame radiologico in grado di svelare una calcolosi radiotrasparente, di confermare una sospetta calcolosi radiopaca all’interno delle vie urinarie, di precisare l’aspetto morfologico e funzionale del rene. Tuttavia è sconsigliabile sottoporre un paziente con una colica in atto ad un esame urografico, sia per non sovraccaricare la via escretrice già distesa, sia perché, in queste condizioni, si ottengono immagini poco precise. • Pielografia ascendente: consiste nell’introduzione del mezzo di contrasto nelle vie urinarie, mediante catetere vescicale, sotto guida cistoscopica. È una pratica oggi meno diffusa che nel passato, per il rischio che comporta di contaminazioni batteriche delle alte vie escretrici. • Tomografia assiale computerizzata (TC): permette di valutare la dilatazione della via escretrice, lo spessore del parenchima residuo e la collocazione dei calcoli; è utile soprattutto in caso di ridotta funzione renale, quando un esame con introduzione di mezzo di contra-
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sto non sia eseguibile, oppure sia stato eseguito ma non abbia dato indicazioni sufficientemente attendibili. Nel caso in cui la calcolosi sia su base dismetabolica sarà opportuno ampliare gli accertamenti a seconda del tipo di patologia responsabile. Si rimanda per questo ai capitoli in cui si tratta in particolare di ogni singola condizione. F. Terapia. La terapia deve mirare non solo all’eliminazione della calcolosi, ma anche alla sua prevenzione nei soggetti predisposti sia per familiarità, sia per condizioni dismetaboliche generali (per es., iperuricemia), sia per alterate condizioni locali (infezioni ricorrenti delle vie urinarie, malformazioni congenite o acquisite delle vie escretrici). • La terapia dietetica prevede l’eliminazione dalla dieta di alimenti contenenti quantità elevate di sostanze litogene. • La terapia idropinica consiste in un abbondante apporto quotidiano di liquidi (2000-3000 ml) al fine di provocare una diuresi che permetta la mobilizzazione di piccoli calcoli, favorendone l’espulsione spontanea. Impedisce, inoltre, l’ulteriore accrescimento di calcoli di maggiori dimensioni. • La terapia farmacologica prevede l’uso di disinfettanti delle vie urinarie, di farmaci acidificanti o alcalinizzanti (per es., acido citrico, bicarbonati, ecc.) e, talora, di diuretici (per es., diuretici tiazidici, che riducono sensibilmente la calciuria nei pazienti con ipercalciuria idiopatica, con un meccanismo non ancora chiaro). • Il trattamento chirurgico può consistere in manovre atte a frantumare il calcolo (litotripsia per via endoscopica), oppure nell’asportazione del calcolo dopo pielotomia o nefrotomia; infine, può rendersi necessaria la nefrectomia, qualora il calcolo occupi interamente il bacinetto renale (calcolo a stampo) o nel caso in cui la sua presenza nelle vie escretrici abbia comportato alterazioni irreversibili della funzionalità del rene (per es., presenza di idropionefrosi). • La litotripsia transcutanea è una recente tecnica che consente di frantumare i calcoli focalizzando in loro direzione una serie di brevi e violente onde d’urto trasmesse attraverso l’acqua di una vasca nella quale il paziente è immerso. I calcoli frantumati sono poi eliminati attraverso le vie urinarie.
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PARTE SETTIMA
ONCOLOGIA MEDICA (*) a cura di FEDERICO CALIGARIS CAPPIO
(*) Sono trattati solo i tumori rilevanti per la Medicina Interna. L’Oncoematologia è trattata nell’Ematologia, i tumori endocrini nell’Endocrinologia.
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C A P I T O L O
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GENERALITÀ SULL’ONCOLOGIA MEDICA F. CALIGARIS CAPPIO
Il cancro non è una malattia, è una costellazione di oltre un centinaio di malattie clinicamente diverse, ma caratterizzate da meccanismi patogenetici comuni le cui dinamiche stanno gradualmente venendo alla luce. Il cancro deriva dall’interazione tra fattori genetici e fattori ambientali e rappresenta il risultato finale di una progressiva multifasica e concatenata serie di eventi molecolari che danneggiano il DNA. Non tutti i tipi cellulari presenti nel nostro organismo sono ugualmente sensibili ai meccanismi di trasformazione neoplastica. Un esempio di cellula che non genera praticamente mai neoplasie è rappresentato dai cardiomiociti. Il cancro si sviluppa più facilmente nei tessuti attivamente proliferanti, soprattutto se esposti a cancerogeni ambientali e se l’attività proliferativa è sotto il controllo ormonale. Le modificazioni genetiche che innescano la trasformazione neoplastica (iniziazione cellulare) possono essere sia ereditarie sia acquisite, cioè causate dall’azione di agenti ad azione cancerogena, chimici, fisici o infettivi. Queste modificazioni sono irreversibili e possono persistere stabilmente in una cellula, per altri versi del tutto normale, sino a quando non interviene un secondo tipo di stimolo che fa proseguire la cellula “iniziata” lungo il cammino che porta alla trasformazione neoplastica (promozione cellulare). Sono esempi di agenti promotori gli ormoni androgeni per il tumore alla prostata e gli ormoni estrogeni per il tumore alla mammella. La distinzione tra agenti inizianti e agenti promotori è spesso arbitraria. Per esempio alcuni componenti del fumo di sigaretta sono agenti cancerogeni “completi” perché fungono sia da iniziatori sia da promotori. In termini funzionali generali gli stimoli promotori stimolano, direttamente o indirettamente, la proliferazione cellulare, reclutano cellule infiammatorie, inducono danni ossidativi del DNA e riducono la capacità di riparazione del DNA. Il numero di cellule nei diversi organi dell’adulto tende a rimanere costante grazie all’equilibrio tra proliferazione, che assicura il necessario ricambio tissutale, e
morte per apoptosi degli elementi inutili, invecchiati o malfunzionanti. La cellula neoplastica ha quattro caratteristiche fondamentali che le assicurano un vantaggio competitivo di crescita e di sopravvivenza nei confronti delle cellule normali: • acquisisce un’autonomia proliferativa, cioè non controllata dai meccanismi omeostatici deputati ad assicurare il normale equilibrio numerico; • tende ad avere un’apoptosi difettiva che le assicura una vita innaturalmente prolungata; • in molti casi sviluppa l’abilità di utilizzare a proprio vantaggio il microambiente in cui cresce; • ha la capacità di invadere i tessuti e di colonizzare organi distanti (metastasi). Questa proprietà è la vera responsabile della malignità del processo tumorale: la causa principale di morte per cancro è infatti la progressiva crescita di metastasi resistenti alla terapia convenzionale.
Entità del problema cancro Nonostante le difficoltà dovute alla carenza di Registri Tumori Nazionali e pur considerando l’inadeguatezza delle informazioni relative ai Paesi in via di sviluppo, si calcola che, a livello mondiale, ogni anno circa 10 milioni di nuove persone si ammalino di cancro. Il cancro è, almeno nei Paesi occidentali, la seconda causa di morte dopo le cardiopatie. Peraltro, mentre la mortalità per cardiopatia ha cominciato a ridursi all’inizio degli anni Cinquanta e continua progressivamente a decrescere, la mortalità per cancro ha cominciato (lentamente) a diminuire soltanto alla fine degli anni Novanta. I tumori principalmente responsabili di morte per cancro (i cosiddetti “big killers”) sono in ordine decrescente i tumori che colpiscono: 1) polmone; 2) prostata (M) e mammella (F); 3) colonretto; 4) pancreas; 5) organi linfoidi (linfomi (M)) e ovaio (F).
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ONCOLOGIA MEDICA
EPIDEMIOLOGIA DEI TUMORI L’epidemiologia dei tumori studia le associazioni fra l’insorgere dei tumori ed alcune caratteristiche della popolazione, definite fattori di rischio. In assoluto il fattore di rischio più importante è l’età, nel senso che 2/3 di tutti i casi di cancro colpiscono soggetti di età > 65 anni. Nel mondo occidentale la modificazione del panorama demografico della popolazione, caratterizzato da un aumento rilevante degli anziani, ha pertanto indotto di per sé una crescita nel numero di nuovi casi oncologici. Un’importante sorgente di informazione epidemiologica deriva dallo studio di popolazioni di emigranti, per esempio asiatici emigrati nel mondo occidentale e dunque esposti a cambiamenti significativi dell’ambiente in cui vivono, inteso come dieta, abitudine al fumo, agenti inquinanti, ecc. In questi gruppi le variazioni nell’incidenza di determinati tipi di tumore indicano se, nello sviluppo di specifici tumori, è prevalente la componente genetica o la componente ambientale. A. Classificazione degli studi. Gli studi epidemiologici sono variamente classificati in rapporto alle finalità e alla metodologia. 1. Studi classificati per finalità. Per quanto riguarda le finalità, si distinguono tre classi di studi epidemiologici. • Gli studi descrittivi si occupano della distribuzione della malattia in gruppi di persone. Consentono di formulare ipotesi circa possibili relazioni di causaeffetto, di sorvegliare eventuali variazioni di incidenza del cancro (a seguito di modificazioni di fattori di rischio, sia noti che ignoti) e di rivelare nuovi comportamenti nella storia naturale dei tumori. • Gli studi analitici consentono di verificare le ipotesi di causa-effetto suggerite dagli studi descrittivi, da ricerche su animali da laboratorio o da indagini di biologia cellulare e molecolare. • Gli studi sperimentali valutano gli effetti sulla popolazione della manipolazione delle influenze ambientali ritenute nocive o dell’introduzione di misure ritenute preventive. 2. Studi classificati per metodologia. Si distinguono diversi tipi di studio. • Negli studi caso-controllo (o retrospettivi) si confronta la frequenza di un ipotetico fattore di rischio in un gruppo di persone con cancro (casi) con quella in un gruppo di persone senza cancro (controlli). La frequenza maggiore nei casi, rispetto ai controlli, implica un’associazione fra cancro e fattore di rischio indagato. • Negli studi per coorte (o prospettici) si identifica un gruppo di persone esposte a un ipotetico fattore di rischio (di solito già noto come associato al cancro) prima dell’inizio della malattia e si segue il gruppo nel tempo misurando la frequenza dell’insorgere del tumore. Il gruppo di controllo è costituito da persone con caratteristiche simili ma non esposte al fattore
sospetto di rischio. Un classico di questo tipo d’indagini fu lo studio di Doll e Hill sulla mortalità tra medici inglesi esposti al fumo di sigaretta. Gli studi per coorte hanno il vantaggio di fornire una stima diretta ed assai attendibile del rischio, ma lo svantaggio di essere lunghi e costosi. Sia gli studi retrospettivi sia quelli prospettici sono longitudinali. • Negli studi crociati (o trasversali), invece, le cause e gli effetti sono misurate nel medesimo intervallo di tempo; devono essere quindi permanenti o di lunga durata. Un esempio è lo studio comparativo tra casi di cancro e gruppi sanguigni del sistema AB0. • Gli studi di correlazione rappresentano un altro modello di studio epidemiologico: ne è un esempio la relazione tra dieta e sviluppo di determinati tipi di cancro. Gli studi di correlazione devono essere interpretati con molta cautela perché comprendono necessariamente numerose variabili, spesso confondenti. In genere sono usati per proporre nuove linee di ricerca e richiedono sempre un’ulteriore verifica. B. Interpretazione degli studi. L’interpretazione degli studi epidemiologici richiede la conoscenza del significato dei principali parametri utilizzati, in particolare dei concetti di rischio (relativo e attribuibile), prevalenza, incidenza. 1. Il rischio relativo è la probabilità di sviluppare il cancro in un gruppo di soggetti che hanno una determinata caratteristica o esposizione, rapportata alla probabilità di un gruppo analogo di soggetti che non hanno la stessa caratteristica o esposizione, ossia: (nr. individui con cancro nella popolazione esposta) (nr. individui della popolazione esposta) (nr. individui con cancro nella popolazione non esposta) (nr. individui della popolazione non esposta)
2. Il rischio attribuibile è la percentuale di cancro nelle persone esposte a un determinato agente che può essere attribuita all’esposizione. 3. La prevalenza di un tumore in una popolazione è il rapporto: nr. di individui con cancro in uno specifico momento nr. totale di individui nello stesso momento
4. L’incidenza di un tumore è il rapporto: nr. di nuovi casi con cancro in un dato periodo nr. totale di individui a rischio durante tale periodo
Normalmente, l’incidenza è espressa per anno solare e per 100.000 abitanti ed è aggiustata per l’età. 5. La mortalità per ogni dato tipo di tumore è il rapporto: nr. di persone che muoiono di cancro durante il periodo considerato (di solito un anno) nr. di persone componenti la popolazione a rischio nel periodo dato
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Concetti di prevenzione e screening La conoscenza dei fattori implicati nei processi di cancerogenesi ha portato a sviluppare i concetti di prevenzione primaria e secondaria. A. Prevenzione primaria. Si intende l’identificazione dei fattori genetici, biologici e ambientali implicati come fattori causali nella cancerogenesi e la loro eventuale manipolazione al fine di minimizzare l’esposizione ad agenti riconosciuti o sospettati come cancerogeni. L’attuazione delle misure che prevengono la cancerogenesi si indirizza ad individui sani e si avvale di strategie diverse. Per il controllo dei fattori di rischio insiti nell’ambiente di vita e di lavoro si possono studiare ed applicare opportune disposizioni di legge. Per i cancerogeni legati allo stile di vita ed a comportamenti individuali, quali il fumo di tabacco, la dieta o l’abitudine all’eccessiva esposizione al sole, l’unica possibilità è l’educazione sanitaria. L’importanza cancerogenetica del fumo di sigaretta è sottolineata dal fatto che, anche se le misure di prevenzione fossero efficacemente operanti e potessero in breve tempo abbattere il tabagismo, il carcinoma polmonare (e i tumori del tratto digestivo superiore) continuerebbero a rappresentare un importante problema sanitario per molto tempo. Infatti, i soggetti che smettono di fumare oltre i 55 anni di età continuano a presentare un persistente aumento di rischio per i successivi 15-20 anni. Queste considerazioni costituiscono la base per interventi di prevenzione secondaria, sia nei confronti dei fumatori che degli ex-fumatori. B. Prevenzione secondaria. Si intende l’identificazione di lesioni neoplastiche asintomatiche combinata con una terapia efficace. Una forma di prevenzione secondaria è rappresentata dagli screening, cioè dalla ricerca dell’identificazione precoce di tumori in soggetti asintomatici, eseguita allo scopo di diminuirne la morbilità e mortalità. Per essere valido un programma di “screening” dev’essere in grado di diagnosticare il tumore precocemente e la terapia del tumore diagnosticato in fase precoce deve offrire un risultato migliore di quella effettuata o possibile quando il tumore è diagnosticato in fase sintomatica. Occorre sottolineare che i test di screening non sono diagnostici per la presenza di un tumore, piuttosto indicano, con una probabilità ragionevolmente elevata, che il particolare tipo di tumore ricercato può essere presente e dunque dettano la necessità di un approfondimento diagnostico che includa un accertamento bioptico. L’accuratezza di uno “screening” è definita da 4 parametri. • La sensibilità: capacità del test di identificare il tumore. • La specificità: capacità del test di affermare che il tumore non c’è. • Il valore predittivo positivo: percentuale di persone positive al test che realmente hanno il tumore. • Il valore predittivo negativo: percentuale di pazienti che risultano negative al test ed effettivamente non hanno il tumore.
Un esempio classico di screening efficace è il test di Papanicolau (PAP test) per identificare precocemente i tumori della cervice uterina. Un’altro esempio è rappresentato dalla mammografia annuale o biennale nelle donne sopra i 50 anni. Altri test di screening che stanno guadagnando consensi sono la ricerca del sangue occulto nelle feci, eventualmente associata alla retto-sigmoidoscopia, per il carcinoma del colon nei soggetti oltre i 50 anni e, più di recente, l’impiego della TC spirale nei forti fumatori che hanno più di 55 anni di età per identificare precocemente tumori polmonari ad uno stadio in cui possono beneficiare della rimozione chirurgica. Un importante, ancorché irrisolto problema, è il significato dello screening per carcinoma prostatico, negli uomini con più di 50 anni, mediante la ricerca dell’antigene-prostata-specifico (PSA). La prevalenza di tumori prostatici indolenti e clinicamente insignificanti negli uomini al di sopra dei 50 anni è infatti molto elevata. Numerosi studi sono in corso per dimostrare il reale beneficio dello screening con il PSA. Al momento attuale si può concludere che la diagnosi precoce ha modificato le nostre conoscenze sulla storia naturale e sulla reale incidenza di alcuni tumori ed ha contribuito alla diminuzione della mortalità da essi indotta; per altri tumori, gli esiti dell’anticipazione della diagnosi sono ancora oggetto di valutazione critica. C. Chemioprevenzione. È una strategia di prevenzione complementare. Il concetto di chemioprevenzione oncologica ricalca il concetto di chemioprevenzione in cardiologia realizzato con l’impiego di farmaci ipotensivi o con il trattamento delle dislipidemie ed è mirato ad inibire il processo di cancerogenesi, a far regredire lesioni preneoplastiche o a evitare che soggetti trattati con successo per un primo tumore sviluppino nuovi tumori. Al momento attuale, gli interventi di sanità pubblica, indirizzati alla popolazione sana, sono limitati a suggerimenti di tipo dietetico o a misure generali (Tab. 39.1), mentre l’uso di agenti farmacologici può essere prospetTabella 39.1 - Codice Europeo contro il cancro. 1. Non fumare. Fumatori, smettete il più presto possibile e non fumate in presenza d’altri. Se non fumi non provare a farlo. 2. Se bevi alcolici, vino o liquori, modera il tuo consumo. 3. Aumenta il tuo consumo quotidiano di verdure e frutta fresca. Mangia spesso cereali ad alto contenuto di fibre. 4. Evita l’eccesso di peso, aumenta l’attività fisica e limita il consumo di alimenti grassi. 5. Evita l’esposizione eccessiva al sole ed evita le scottature, soprattutto nell’infanzia. 6. Attieniti strettamente alle norme di prevenzione alle esposizioni delle sostanze conosciute come cancerogene. Rispetta le condizioni di igiene e sicurezza per le sostanze cancerogene. Il Codice Europeo, in vigore dal 1995, si basa sull’assunzione che “l’adozione di un più sano stile di vita può evitare alcuni tipi di cancro e migliorare lo stato di salute”.
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Infiammazione, infezioni e cancro
A. Retrovirus (virus a RNA). Hanno un ruolo rilevante nella patogenesi dei tumori animali. La ragione fondamentale è che il virus a RNA nel suo ciclo vitale viene retrotrascritto ed inserito in maniera casuale nel DNA dell’ospite. Occasionalmente il virus può essere mobilizzato e portare con sé una porzione del DNA dell’ospite. Se questa contiene un gene che favorisce la crescita e la proliferazione, allora il retrovirus così modificato diventa potenzialmente trasformante. L’unico retrovirus noto quale responsabile di tumori umani è lo Human T-cell Lymphotropic Virus (HTLV)-1 che causa l’Adult T cell Lymphoma/Leukemia (ATLL), una forma di leucemia rara, ma particolarmente aggressiva, diffusa essenzialmente nei Caraibi e in Giappone. B. Virus a DNA. Sono invece numerosi i virus a DNA implicati nell’eziologia dei tumori umani. Tra questi i Papilloma virus umani (HPV) (soprattutto i ceppi 16 e 18) responsabili di infezioni genitali trasmesse sessualmente. L’infezione da parte di HPV della cervice uterina è la causa più frequente delle anoma-
Epatite C
C
Molti tumori si formano in sedi di irritazione e infiammazione cronica come conseguenza di un circolo vizioso caratterizzato da stimolazione → proliferazione → danno genetico. Questo danno viene trasmesso ad una progenie localizzata in un microambiente che ne facilita la crescita. A prescindere dal noto ruolo svolto dal fumo di sigaretta nel causare tumori polmonari, una vasta serie di altre condizioni infiammatorie croniche, sia legate a processi infettivi, sia dovute a stimoli chimici ambientali, è associata allo sviluppo di tumori. L’aumentata attività proliferativa ed i rimodellamenti del genoma ad essa associati hanno in sé l’inerente rischio di errati appaiamenti cromosomici, errori e/o mutazioni potenzialmente trasformanti. Il microambiente tumorale, largamente orchestrato da cellule infiammatorie, gioca un ruolo cruciale perché promuove l’instabilità genomica e favorisce l’angiogenesi. Di conseguenza il rischio neoplastico è innescato e/o potenziato da un’aumentata proliferazione cellulare quando questa si verifica in un ambiente ricco di cellule infiammatorie e di cellule stromali attivate che producono agenti intermedi in grado di danneggiare il DNA, fattori di crescita, citochine e chemochine capaci di reclutare altri elementi cellulari. Un aspetto importante della cancerogenesi è rappresentato dal ruolo degli agenti infettivi. Si calcola che
circa il 10-20% di tutti i tumori sia associato in varia misura a infezioni potenzialmente prevenibili (per es., con programmi di vaccinazione) (Fig. 39.1). Le modalità attraverso le quali le infezioni possono causare tumori sono diverse. Alcuni agenti, soprattutto virali, infettano la cellula bersaglio legandosi a specifici recettori di membrana e sono direttamente trasformanti. Altri agenti inducono uno stato infiammatorio cronico, il che comporta sia la produzione di agenti mutageni capaci di indurre alterazioni genetiche, sia un’aumentata proliferazione con conseguente aumentato rischio di errori genetici potenzialmente trasformanti.
C Epatocarcinoma
C
tato per la chemioprevenzione mirata in soggetti a rischio. In quest’ottica numerosi studi sono in corso. Esempi sono l’impiego dell’antiestrogeno tamoxifene nel trattamento adiuvante del carcinoma mammario e della finasteride, che inibisce la conversione del testosterone in diidrotestosterone, come agente preventivo del carcinoma della prostata. Sono stati studiati numerosi agenti chemiopreventivi delle lesioni epiteliali provocate dal fumo e quindi responsabili dello sviluppo dei tumori delle vie aeree e delle prime vie digestive, quali la N-acetilcisteina (NAC), un analogo e precursore del glutatione ridotto (GSH) e i carotenoidi. Modificazioni della dieta e l’impiego di antinfiammatori (inclusi gli inibitori della cicloossigenasi II) sono attualmente allo studio per la prevenzione dei tumori del colon. È facile prevedere che il trend globale di incidenza del cancro potrebbe essere significativamente migliorato nei prossimi dieci anni attraverso strategie di prevenzione primaria e di diagnosi precoce. Applicando gli elementi di “evidence-based-medicine” attualmente noti si può calcolare che, applicando i concetti di prevenzione primaria, cioè eliminando o minimizzando l’esposizione alle cause di cancro, sarebbe possibile prevenire l’insorgenza di un terzo dei 10 milioni di nuovi casi di cancro che ogni anno si verificano nel mondo. Un altro terzo dei casi potrebbe essere guarito se diagnosticato precocemente (prevenzione secondaria). È altresì facile prevedere che la medicina genomica porterà a nuovi approcci di “screening” basati sul riconoscimento della suscettibilità individuale a sviluppare determinati tipi di tumore (vedi oltre).
Epatite B
Linfoma (linfoma splenico con linfociti villosi)
C Adult T-cell leukaemia C Linfoma Virus Epstein-Barr C Linfoma, morbo di Hodgkin C Ca nasofaringeo C Sarcoma di Kaposi HHV8 C Primary effusion lymphoma Papilloma virus C Ca cervice uterina Helicobacter pylori C Ca gastrico Linfoma gastrico HTLV1
Chlamydia psittaci Campylobacter
C Linfoma annessi oculari C Linfoma intestinale
Figura 39.1 - Tumori associati ad infezioni potenzialmente prevenibili.
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lie cellulari identificate con il PAP test. L’infezione da HPV è nella maggior parte dei casi autolimitante; tuttavia esiste una fortissima associazione tra infezione da HPV e tumore della cervice uterina, nel senso che il DNA di HPV è presente nelle lesioni precancerose note come tumore cervicale intraepiteliale e nel 95% dei casi di tumore del collo dell’utero conclamato. Su queste basi la ricerca per sviluppare dei vaccini contro HPV è particolarmente attiva. Un altro esempio è rappresentato dal ruolo del virus dell’epatite B (HBV) e del virus dell’epatite C (HCV) nel favorire lo sviluppo dell’epatocarcinoma. I meccanismi molecolari responsabili non sono del tutto chiariti. Tuttavia è assodato che la cronica replicazione virale negli epatociti altera sia il profilo di produzione locale di citochine, sia le modalità di risposta proliferativa o apoptotica da parte delle cellule infettate, causando una risposta immunitaria alle proteine virali tale da provocare uno stato di infiammazione cronica. In Asia, dove l’epatite da virus B è endemica, l’incidenza di epatocarcinoma è particolarmente elevata, considerando che l’incidenza di epatocarcinoma è 100 volte maggiore nei soggetti HBV-positivi rispetto ai soggetti HBV-negativi. In queste aree i programmi di vaccinazione contro l’epatite B stanno dando risultati estremamente incoraggianti perché hanno ridotto in maniera significativa l’incidenza di epatocarcinoma. In alcuni paesi, inclusa l’Italia, è stata anche notata una significativa associazione tra HCV e sviluppo di linfomi linfoplasmocitoidi, anche se i meccanismi molecolari che stanno alla base di questa associazione non sono ancora chiari. C. Herpes virus. Particolarmente importanti per la cancerogenesi sono gli herpes virus. 1. Virus di Epstein-Barr (EBV). È un herpes virus responsabile della mononucleosi infettiva, causa il linfoma di Burkitt endemico in Africa, il carcinoma nasofaringeo in Asia e linfomi, in genere ad andamento clinico assai aggressivo, in soggetti con immunodeficienza severa, sia per sindrome da immunodeficienza acquisita, sia nel contesto di una terapia immunosoppressiva intensa quale si realizza in pazienti sottoposti a trapianto d’organo. 2. Herpes virus 8 (HHV8). È un altro herpes virus importante in oncologia, per il quale è stato accertato il ruolo causale nella genesi di alcuni disordini linfoproliferativi ad andamento clinico molto aggressivo quali i “primary effusion lymphomas” e la malattia di Castleman. Il virus HHV8 è anche responsabile del sarcoma di Kaposi in soggetti immunodepressi. Il virus EBV è un virus linfotropo B e infetta i B linfociti legandosi al recettore di membrana CD21. L’EBV agisce da stimolo antigenico T-indipendente determinando una proliferazione B-linfocitaria policlonale e la successiva immortalizzazione dei B linfociti attivati. L’iperattività proliferativa ha insito il rischio di errori cromosomici che possono essere immortalizzati dall’integrazione dell’EBV nel genoma. Uno dei possibili errori è la traslocazione cromosomica t(8;14) che sposta il proto-
oncogene c-myc posizionandolo nelle immediate vicinanze o all’interno del locus per la catena pesante delle immunoglobuline IgM o più raramente delle catene leggere delle Ig (t8;2 o t8;22) sotto il controllo dei geni promotori delle Ig c-myc codifica per una proteina che ha un ruolo fondamentale nel far entrare in ciclo cellulare le cellule “resting”. La traslocazione deregola c-myc rendendolo capace di assicurare alla cellula uno stimolo proliferativo continuo ed incontrollato. D. Batteri. Numerosi sono anche i batteri implicati nella cancerogenesi. 1. Helicobacter pylori (HP). Causa un’infiammazione gastrica cronica che provoca danni del DNA tali da contribuire allo sviluppo del carcinoma gastrico. HP ha anche un ruolo significativo nella genesi del linfoma MALT (Mucosal Associated Lymphoid Tissue) gastrico (maltoma). Il batterio HP non induce la diretta trasformazione dei linfociti B, ma provoca una vigorosa stimolazione antigenica cronica da cui emerge un clone B linfocitario trasformato. È importante sottolineare come il 75% dei maltomi gastrici regrediscano dopo l’eradicazione antibiotica dell’HP. 2. Altri batteri coinvolti nei processi di cancerogenesi sono il Campilobacter jejunum, implicato nella genesi di alcuni disordini linfoproliferativi del piccolo intestino, e la Clamidia psittaci, associata allo sviluppo di linfomi degli annessi oculari.
Immunodeficienza e cancro L’incidenza delle neoplasie nei soggetti affetti da Immunodeficienze (ID) primitive è 10-200 volte maggiore di quella statisticamente attesa nei confronti della popolazione generale di età corrispondente. Tuttavia, ciò non vale per tutti i tipi di tumore, ma essenzialmente per le neoplasie linfoidi ed in particolare per il linfomi a cellule B. I meccanismi responsabili di questa associazione sono molteplici e non ancora del tutto chiariti: la riduzione dell’immunosorveglianza, la riduzione di risposte immunologiche adeguate nei confronti di virus potenzialmente oncogeni, l’iperstimolazione e dunque l’induzione alla proliferazione cronica da parte di determinati antigeni. Possono esserci anche effetti conseguenti allo stesso meccanismo molecolare che porta all’immunodeficienza, ma indipendenti dal sistema immunitario, quale ad esempio il difetto di riparazione del DNA che si verifica nell’atassia-teleangectasia. Nei pazienti sottoposti a trapianto d’organo ed a conseguente intenso trattamento immunosoppressivo si rende evidente, entro alcuni anni dal trapianto e dall’inizio della terapia immunosoppressiva, un rischio significativamente maggiore (rispetto alla popolazione di controllo) di sviluppare certi tipi di tumore. Questo è ancora più vero nei pazienti con immunodeficienza acquisita (AIDS). I tumori che più frequentemente insorgono in questi pazienti sono linfomi a cellule B ed il sarcoma di Kaposi.
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L’insieme di questi dati suggerisce che le ID primitive e soprattutto secondarie predispongano di per sé all’insorgenza di neoplasie, soprattutto di quelle nella cui genesi i virus potenzialmente oncogeni giocano un ruolo centrale. L’ipotesi più accreditata è che, nelle ID, la difettosa immunoregolazione T-linfocitaria consenta una proliferazione delle cellule B più accelerata, meno controllata ed eventualmente indotta da virus potenzialmente oncogeni, quali EBV e HHV8. Come conseguenza, il rischio di mutazioni o alterazioni genetiche casuali diventerebbe statisticamente più frequente, rendendo più probabile acquisire quella serie di modificazioni molecolari che portano alla trasformazione neoplastica. Il concetto che anomalie dell’immunoregolazione possano favorire l’emergenza di cloni neoplastici, soprattutto linfoidi, è avvalorato dal fatto che i pazienti con complesse malattie dell’immunoregolazione quali le connettiviti e, in particolare, la sindrome di Sjögren, hanno un’incidenza particolarmente elevata di linfomi.
CANCRO COME MALATTIA GENETICA Il cancro è una malattia genetica somatica. Praticamente tutte le neoplasie sono clonali, cioè il tumore che noi diagnostichiamo rappresenta la progenie di una singola cellula originariamente trasformata e definita progenitore clonale. Le caratteristiche fondamentali del progenitore clonale neoplastico vengono trasmesse alla progenie (clone neoplastico) e sono la conseguenza di modificazioni del DNA causate per la maggior parte da mutazioni. Queste derivano o da errori nella replicazione del DNA o da esposizione a carcinogeni (per es., agenti radianti) o da un difettoso DNA “repair”. Il difettoso repair del DNA si verifica quando sono inattivati i geni (e le proteine) che in condizioni normali identificano e riparano eventuali alterazioni nel DNA proteggendo il genoma. Questo difetto causa l’instabilità genetica della cellula tumorale ed è un passaggio chiave nella patogenesi del cancro.
Geni e oncogeni Il processo di cancerogenesi è caratterizzato dall’acquisizione di alterazioni molecolari di geni che direttamente o indirettamente controllano la proliferazione cellulare e l’apoptosi. I geni che in condizioni normali avviano il processo di divisione cellulare sono definiti proto-oncogeni e agiscono codificando per fattori di crescita, recettori di fattori di crescita, trasduttori o amplificatori di segnali mitogenici. Le loro varianti attivate vengono definite oncogeni. I geni che normalmente inibiscono la proliferazione cellulare sono definiti geni oncosoppressori. Le alterazioni molecolari che possono determinare la trasformazione di un proto-oncogene in oncogene sono diverse, ma hanno in comune due tipi di conseguenze: a) una modificazione dell’espressione del
gene che ne determina un’iperespressione o un’espressione incontrollata in momenti inappropriati della vita cellulare; b) un cambiamento delle proprietà funzionali del prodotto genico. Le anomalie molecolari dei geni oncosoppressori causano la perdita funzionale delle proteine codificate. L’alterazione degli oncogeni è dominante e dunque interessa un singolo allele, mentre in linea generale l’alterazione dei geni oncosoppressori è recessiva e quindi deve coinvolgere ambedue gli alleli. I circuiti regolatori della proliferazione e dell’apoptosi più importanti sono quelli controllati dalla proteina del retinoblastoma (pRB), dalla proteina p53 e dal gene RAS. La pRB e la proteina p53 codificate dai relativi geni oncosoppressori, controllano due vie metaboliche che convergono sul ciclo cellulare. pRB è in grado di determinare se la cellula deve restare nella fase G0 (“resting”) del ciclo cellulare o procedere attraverso la fase G1 ed entrare in ciclo. p53 ha il compito di arrestare temporaneamente la proliferazione di cellule danneggiate da danni molecolari o biochimici fino a quando il danno è stato riparato ed eventualmente di indurne la morte per apoptosi qualora il danno non sia riparabile. Di conseguenza p53 mantiene l’integrità e la stabilità del genoma ed è dunque definita il “custode” del genoma. Molti oncogeni attivano vie di segnale mitogenico. Ne sono esempi i recettori per le tirosin-chinasi e Ras. Nella maggior parte dei casi mutazioni o alterazioni di questi oncogeni portano a un’attivazione incontrollata di stimolazioni proliferative. Normalmente il legame di un fattore di crescita a un recettore tirosin-chinasico innesca l’attivazione a valle di una serie di mediatori che includono la proteina Ras. L’oncogene Ras mutato rende la cellula neoplastica indipendente dalla necessità di dover ricevere un segnale dall’esterno sotto forma di fattore di crescita per entrare in ciclo. Analogamente mutazioni nei recettori tirosin-chinasici di membrana fanno sì che questi siano perennemente attivati senza che sia necessario il legame con il fattore di crescita.
Meccanismi molecolari di danno genetico in oncologia I meccanismi molecolari di danno genetico che portano ad avere oncogeni attivamente dominanti sono fondamentalmente di tre tipi: • alterazioni cromosomiche; • mutazioni puntiformi; • amplificazione genica. A. Alterazioni cromosomiche. Le alterazioni citogenetiche meglio studiate sono quelle che si verificano nelle neoplasie ematologiche, ma alterazioni e meccanismi analoghi si cominciano a conoscere anche nei tumori solidi. Le anomalie più comuni sono le traslocazioni che trasportano in un ambito cromosomico diverso specifici oncogeni localizzati nel punto di rottura del cromosoma: la conseguenza è l’attivazione dell’oncogene. Le
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traslocazioni sono particolarmente frequenti nelle neoplasie linfoidi, e questo probabilmente riflette l’evento fisiologico più importante dei linfociti, cioè il fatto che normalmente essi sono deputati a riarrangiare il DNA per poter generare il recettore per l’antigene. In effetti il recettore per l’antigene sia dei B che dei T linfociti è molto spesso coinvolto nelle traslocazioni delle neoplasie linfoidi: questo implica che un’imperfetta regolazione del riarrangiamento ha verosimilmente un ruolo nella patogenesi di tali neoplasie. Le conseguenze che possono derivare dalle traslocazioni sono svariate. Una possibilità particolarmente frequente nelle leucemie è la fusione tra geni situati normalmente in regioni distanti del genoma e la formazione di nuovi geni ibridi inesistenti nelle cellule normali. I geni ibridi producono molecole che: a) trasducono attivamente il segnale mitogenico oppure b) sono fattori trascrizionali chimerici dotati di alterata funzione. L’esempio classico del primo tipo è fornito dalla leucemia mieloide cronica (LMC) caratterizzata, in oltre il 95% dei casi, dalla traslocazione t(9;22)(q34;q11) che dà origine al cromosoma Philadelphia. Il punto di rottura sul cromosoma 9 corrisponde alla localizzazione del proto-oncogene ABL che nell’uomo codifica per una proteina dotata di attività tirosin-chinasica. Nella traslocazione t(9;22) la porzione di ABL che codifica per l’attività tirosin-chinasica trasloca sul cromosoma 22 e forma un gene ibrido di fusione denominato BCR. Il nuovo gene chimerico BCR/ABL dà origine a una proteina che mantiene l’attività tirosin-chinasica derivata dalle sequenze ABL. Un esempio della produzione di fattori trascrizionali chimerici con funzione anomala è rappresentato dalla leucemia acuta a promielociti (LAP) caratterizzata dalla traslocazione t(15;17). Il punto di rottura sul cromosoma 17 (q21) corrisponde al gene che codifica per il recettore dell’acido retinoico (RAR-), un potente induttore della differenziazione cellulare, e ne determina lo spostamento sul cromosoma 15 in corrispondenza di un gene noto come PML, dando origine a una nuova unità trascrizionale (PML/RAR-). Questa nuova unità produce un recettore con un’anomala distribuzione cellulare che inibisce la differenziazione cellulare. Le traslocazioni possono anche determinate l’iperespressione di proteine che regolano il ciclo cellulare, quali le cicline, o di proteine che controllano l’apoptosi, quali per esempio le proteine della famiglia Bcl-2. Nel primo caso viene indotta un’attività proliferativa particolarmente spiccata. Nel secondo caso, esemplificato dal linfoma follicolare dove si verifica la traslocazione t(14;18), l’oncogene Bcl-2 (cromosoma 18) viene traslocato nel locus delle catene pesanti delle immunoglobuline (cromosoma 14) ed essendo sotto il controllo del promotore delle Ig viene costitutivamente espresso. Il prodotto proteico di Bcl-2 è un antidoto all’apoptosi e favorisce la sopravvivenza delle cellule B neoplastiche in assenza di fattori di crescita. B. Mutazioni puntiformi. Contrariamente ad altri oncogeni, la cui attivazione è in genere associata ad al-
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terazioni citogenetiche, il meccanismo di attivazione dei geni della famiglia Ras (Ha-Ras, K-Ras, N-Ras) è dovuto a mutazioni puntiformi che colpiscono specifici codoni e causano sostituzioni aminoacidiche nel relativo prodotto proteico. Gli oncogeni Ras codificano per proteine dotate di attività GTPasica analoga a quella delle “G-binding proteins”, cioè di proteine che utilizzano come meccanismo di trasduzione del segnale la capacità enzimatica di legare il GTP e di idrolizzarlo a GDP. Approssimativamente il 20-30% di tutti i tumori umani, sia solidi sia emopoietici, possiede un gene Ras mutato. Questa percentuale sale al 50% nei carcinomi del colon-retto ed al 90% nel carcinoma del pancreas. In generale, nei tumori solidi prevale l’attivazione di Ha-Ras e di K-Ras e nei tumori emopoietici di N-Ras. C. Amplificazione genica. Nei tumori umani esistono diversi esempi di amplificazione di oncogeni, cioè di aumento del numero di copie di determinate sequenze di DNA che codificano per specifici oncogeni. Gli esempi più noto sono l’amplificazione del gene N-myc nel neuroblastoma e del gene ERBB2 (HER-2/neu) nel carcinoma della mammella. L’amplificazione sembra correlarsi con lo stadio clinico della malattia e, soprattutto, rappresenta un indice prognostico sfavorevole, essendo spesso associato alla resistenza ai farmaci chemioterapici. D. Meccanismi di controllo. Un meccanismo verosimilmente cruciale il cui significato sta progressivamente emergendo è rappresentato dalle modificazioni dei telomeri, mentre altri meccanismi importanti sono rappresentati da quelli di tipo epigenetico, ancorché poco chiari. 1. Telomeri. Sono sequenze situate al termine dei cromosomi che tendono a ridursi in maniera direttamente proporzionale alla storia replicativa della cellule, cioè con l’età i telomeri tendono ad accorciarsi. Quanto più corti sono i telomeri, tanto più ridotta diventa l’attività proliferativa della cellula (senescenza cellulare). Peraltro i telomeri hanno un’attività protettiva, nel senso che proteggono da eventuali danni le estremità terminali dei cromosomi. L’accorciamento dei telomeri favorisce l’instabilità cromosomica con due ordini di conseguenze. In primo luogo viene promossa l’acquisizione di mutazioni che favoriscono la progressione neoplastica. In secondo luogo, può venire indotta la riattivazione dell’enzima telomerasi che ricostituisce i telomeri e ne stabilizza la lunghezza e quindi pone le basi per una proliferazione cellulare potenzialmente indefinita. 2. Meccanismi di tipo epigenetico. Sono meccanismi che alterano le funzioni dei geni in modo ereditabile, ma non sono legati a mutazioni del DNA. Un esempio di meccanismo epigenetico è la metilazione dei nucleotidi del promotore che controlla l’espressione di determinati geni: la metilazione del promotore riduce i geni al silenzio funzionale.
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In generale, nei tumori è stata osservata una diminuzione dei livelli di metilazione che potrebbe favorire l’iperattivazione di fattori di crescita. Un altro esempio di meccanismo epigenetico importante per la cancerogenesi è rappresentato dalla struttura della cromatina. Questa è soprattutto legata agli istoni e alla loro acetilazione le cui modificazioni stimolano o reprimono l’espressione genica. E. Meccanismi di inattivazione dei geni oncosoppressori. I meccanismi molecolari di danno genetico dei geni oncosoppressori sono rappresentati da monosomie o da delezioni parziali che possono provocare un alterato dosaggio genico e/o la perdita di eterozigosi per frammenti cromosomici più o meno estesi. Uno degli esempi più significativi è rappresentato dal retinoblastoma (vedi oltre). F. Specificità del danno genetico nei diversi tipi di tumore. Alcuni difetti molecolari espressione di danno genetico sono relativamente comuni e presenti in tumori di diversa origine tessutale (per es., mutazione dei geni RAS), mentre altri difetti sono strettamente associati a specifici fenotipi tumorali (per es., prodotto di fusione BCR/ABL nella LMC). I motivi della specificità del difetto molecolare sono diversi, per esempio legati alla specifica funzione di una determinata popolazione cellulare. Infatti meccanismi di attivazione oncogenica tramite riarrangiamento con i geni del recettore per l’antigene sono specifici delle neoplasie linfocitarie perché il riarrangiamento di questi geni avviene fisiologicamente solo nei linfociti. Un’altra possibilità è legata al fatto che difetti molecolari si possono generare in tessuti diversi, ma hanno un effetto funzionalmente rilevante solo in alcuni di questi. Per esempio l’attivazione preferenziale di diversi membri della famiglia Ras in neoplasie a diversa derivazione tissutale è legata con ogni probabilità al fatto che K-Ras è normalmente più coinvolto nella proliferazione delle cellule epiteliali, mentre N-Ras nella proliferazione delle cellule emopoietiche. Molte alterazioni genetiche osservate nei tumori umani tendono a insorgere anche spontaneamente, cioè indipendentemente dall’intervento dei molteplici agenti (mutageni, radiazioni) che hanno un ruolo nella cancerogenesi. In parte ciò è spiegabile per la presenza nei cromosomi umani dei cosiddetti “siti fragili”, cioè di zone che più facilmente vanno incontro a rottura; in effetti alcuni di questi “siti fragili” mappano in corrispondenza delle bande cromosomiche che tendono ad essere sede di riarrangiamento nei tumori. Questo dato, se da un lato sottolinea il potenziale ruolo del tasso di mutazione intrinseco alle cellule del nostro organismo, certamente assegna un ruolo particolarmente importante ad agenti concausali che diventano fattori indiretti di mutagenesi. Ne sono esempio gli agenti infettivi come l’EBV che, stimolando la proliferazione cellulare, aumentano la probabilità dell’insorgenza e/o dell’espansione di cloni che hanno specifici difetti genetici, difetti che si realizzano con maggior facilità durante la proliferazione e differenziazione di determinate popolazioni cellulari.
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Tumori ereditari Il concetto di cancro come malattia genetica non ne implica necessariamente l’ereditarietà. È certamente vero che alcune persone ereditano una mutazione germinale che li predispone a sviluppare una neoplasia, ma, anche in questo caso, vale la logica del cancro come processo multifasico e dunque si rende necessario l’apporto di addizionali mutazioni somatiche che sono indispensabili per trasformare la cellula germinalmente mutata in un progenitore clonale neoplastico. Nei casi in cui non si conoscono geni con mutazioni germinali predisponenti (e sono la grande maggioranza dei casi di tumore) è ipotizzabile che possano esistere fattori ereditari ancora ignoti e capaci di dare un certo grado di predisposizione. Tuttavia questi fattori debbono avere una debole influenza e sono difficili da riconoscere. Questi concetti sono esemplificati da una serie di sindromi di cancro familiare. Alcune di queste sono associate ad anomalie del DNA repair, quali per esempio l’anemia di Fanconi, l’atassia teleangectasia, lo xeroderma pigmentosum, ed hanno un’ereditarietà di tipo autosomico recessivo. Altre hanno invece un’ereditarietà di tipo autosomico dominante in cui sono implicati geni onco-soppressori che presentano due caratteristiche: a) la mutazione germinale che colpisce uno dei due alleli causa una perdita di funzione; b) il secondo allele è alterato per via di una mutazione somatica. A. Retinoblastoma. Uno degli esempi più significativi è un tumore in genere familiare, più raramente sporadico. La maggior parte dei portatori della predisposizione ereditaria al retinoblastoma sviluppa uno o più tumori retinici (plurifocalità) e frequentemente anche altri tumori quali osteosarcomi. In questi soggetti un allele del gene retinoblastoma (RB) è congenitamente inattivato da una delezione o da un’alterazione citogeneticamente non evidenziabile (mutazione germinale). L’inattivazione del secondo allele è invece acquisita e si verifica in una (o in poche) cellule durante lo sviluppo della retina e/o più raramente in altre cellule. La conseguenza è che il tumore compare nell’infanzia, può essere multifocale e può non essere limitato alla retina. Nei casi di retinoblastoma sporadico l’inattivazione dei due alleli richiede più tempo perché occorre che ambedue gli alleli vadano incontro a mutazioni somatiche e si verifica al massimo in una cellula: in effetti il retinoblastoma non ereditario compare in età più adulta ed è monofocale. È importante sottolineare che altri meccanismi possono far saltare il circuito di controllo RB. Per esempio, in molti carcinomi della cervice uterina la pRB è sequestrata e degradata da un’oncoproteina (E7) prodotta dai ceppi 16 e 18 dello Human Papilloma Virus (HPV). B. Sindrome di Li-Fraumeni. Un altro esempio è p53, gene oncosoppressore localizzato nel cromosoma 17 (q13) e mutato in quasi il 50% di tutti i tumori. La presenza di mutazioni germinali di p53 ha conseguenze gravissime perché si traduce nella cosiddetta sindrome di Li-Fraumeni, in cui gli individui affetti possono svi-
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luppare una vasta gamma di tumori a diversa localizzazione (sarcomi, tumori cerebrali, neoplasie ematopoietiche). C. Neurofibromatosi di tipo I. È una delle situazioni autosomiche dominanti più comuni nell’uomo e in cui possono comparire tumori quali neurofibroma, neurofibrosarcoma, tumori cerebrali. La mutazione colpisce il gene neurofibromina (NF1) che codifica per una proteina essenziale per il controllo di Ras. D. Sindrome di von Hippel-Lindau. È caratterizzata da multipli emangioblastomi a localizzazione retinica e cerebellare, dal possibile sviluppo di tumori renali, feocromocitoma e altri tumori a prevalente interesse vascolare, quali angiosarcomi, è legata al gene oncosoppressore von Hippel-Lindau (VHL). La proteina VHL è implicata nel processo intracellulare di ubiquitinazione, cioè del processo durante il quale la molecola ubiquitina viene legata come un’etichetta alle proteine che debbono essere distrutte per consentire la sopravvivenza cellulare. La proteina VHL entra a far parte di un complesso di ubiquitinazione denominato VEC che si lega alla subunità del fattore inducibile dall’ipossia (Hypoxia Inducible Factor, HIF). L’attivazione di HIF attiva una serie di geni che stimolano l’angiogenesi. L’inattivazione funzionale di VHL è responsabile dello sviluppo della sindrome di von Hippel-Lindau, ma anche della maggioranza dei tumori renali sporadici. Come conseguenza dell’inattivazione di VHL si ha un’inappropriato accumulo di HIF- e un’aberrante angiogenesi. E. Multiple endocrine neoplasia (MEN) di tipo II. È caratterizzata dalla capacità di sviluppare adenomi ipofisari, carcinoma midollare della tiroide e feocromocitoma ed è legata a mutazioni dell’oncogene Ret che, a differenza delle situazioni precedentemente discusse, causa non una “perdita di funzione” ma un “guadagno di funzione” del gene oncosoppressore mutato. Infatti Ret codifica per un recettore tirosina chinasi e le mutazioni ne inducono un’attività costitutiva. F. Carcinoma del colon familiare. È talvolta associato alla poliposi familiare, dovuta in genere a mutazioni che interessano un gene oncosoppressore denominato APC (Adenomatous Polyposis Colon). Più spesso il carcinoma del colon familiare deriva dalla trasformazione non di un polipo, ma del normale epitelio intestinale. Questi casi sono definiti HNPCC (Hereditary Non Polyposis Colon Cancer) e sono in genere dovuti a mutazioni che interessano un complesso di quattro geni che compongono un importante sistema di DNA repair. Queste mutazioni per portare al cancro debbono interessare ambedue le copie del gene rilevante (come nel caso dei geni oncosoppressori) e inducono la trasformazione neoplastica perché determinano un’importante instabilità genomica responsabile del cosiddetto fenotipo instabile o RER (Replication Error). G. Carcinoma mammario e carcinoma ovarico. Assai più complessa è la situazione relativa a quesi car-
cinomi. Si calcola che nel 5-10% dei casi di tumore mammario e ovarico un ruolo importante sia giocato da due geni che danno la suscettibilità a sviluppare questi tipi di tumore: BRCA1 e BRCA2. Questi geni hanno un’eredità dominante e un’elevata penetranza: approssimativamente 1/500 donne ha una mutazione germinale di BRCA1 e meno della metà una mutazione di BRCA2. Negli uomini con mutazioni di BRCA1 il rischio di sviluppare un tumore della prostata è (assai) modestamente aumentato. L’ereditarietà e la familiarità di BRCA1 e BRCA2 sono complesse e ancora imperfettamente definite: in ogni caso la presenza di una mutazione germinale conferisce nel corso della vita un rischio relativo elevato. Il problema del counseling genetico per la suscettibilità a sviluppare il cancro La scoperta dei geni sopra discussi e gli avanzamenti tecnologici della genetica molecolare hanno sollevato il problema di eseguire test genetici per predire il rischio di cancro e del conseguente counseling di genetica oncologica per offrire suggerimenti relativi allo stile di vita ed eventualmente interventi terapeutici mirati e volti a prevenire lo sviluppo del cancro predetto in base al test. Il problema è indiscutibilmente complesso sia per intuibili ragioni etiche, sia perché le procedure tecniche sono complicate, sia perché abbiamo una conoscenza del problema incompleta. Un banale esempio di problema tecnico è rappresentato dai falsi positivi, cioè da quei casi in cui le alterazioni della sequenza genica non rappresentano una mutazione causale, ma una variante polimorfica del tutto benigna. Un grave problema di natura terapeutica è invece rappresentato dal fatto che, per esempio nel carcinoma del colon e della mammella, è possibile effettuare un intervento chirurgico profilattico (rispettivamente colectomia totale e mastectomia bilaterale), ma è del tutto evidente che queste misure preventive sono drammaticamente radicali e in ogni caso più aggressive del trattamento per la neoplasia conclamata. Al momento attuale, malattie come la MEN tipo II e la sindrome di von Hippel-Lindau sicuramente rappresentano condizioni in cui è consigliabile eseguire i test genetici sui familiari. La discussione è ancora aperta per quanto riguarda situazioni cliniche molto più comuni quali il carcinoma del colon, della mammella e dell’ovaio.
Processo multifasico della cancerogenesi La cancerogenesi è un processo multifasico. La cellula neoplastica rappresenta il risultato finale di una serie di danni genetici che si realizzano in tempi successivi. Per passare dal fenotipo normale a quello neoplastico è necessario che da 5 a 10 diverse mutazioni si accumulino nel tempo nella stessa cellula. Questo spiega innanzitutto l’importanza dell’età come fattore di rischio. In
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secondo luogo rende ragione del fatto che, nel corso della vita, un singolo individuo può anche non sviluppare mai l’intero set di alleli mutati necessario per sviluppare anche una sola cellula pienamente tumorale. Infine sottolinea l’importanza dell’instabilità genetica nella genesi tumorale, nel senso che le cellule preneoplastiche debbono diventare geneticamente instabili per consentire la progressione neoplastica e questa in genere si verifica nell’arco di parecchi decenni. L’esempio meglio noto in oncologia umana riguarda il tumore del colon, dove l’indagine molecolare su campioni di mucosa che andavano dall’epitelio normale, all’epitelio adenomatoso a quello carcinomatoso ha consentito di identificare numerosi geni mutati, dove la mutazione Ras rappresenta un fattore iniziale ed il primo di una sequela di eventi oncogenici. Ogni mutazione conferisce alla cellula mutata un vantaggio di crescita rispetto alle cellule che la circondano. Il progressivo accumulo di mutazioni pone la cellula neoplastica in una prospettiva darwiniana, cioè introduce il concetto di selezione naturale di elementi che hanno un vantaggio in termini di sopravvivenza. Questo processo deve fare i conti con il sistema immunitario e la sua capacità di riconoscere cellule antigenicamente diverse. Per esempio un sistema di difesa intraepiteliale è rappresentato dai linfociti T intraepiteliali (IEL) molti dei quali esprimono dei recettori di tipo il cui repertorio è in qualche modo organo-specifico; è plausibile che questo subset di linfociti serva ad eliminare cellule con un danno significativo del DNA conseguente all’esposizione a cancerogeni. In ogni caso non è ancora chiaro quante mutazioni debbano verificarsi per sviluppare un determinato tipo di tumore e neppure in quale ordine e con quale precisa sequenza temporale: è verosimile che l’ordine cronologico degli eventi mutazionali non sia uniforme nei diversi tipi di tumore. Il tumore più piccolo che può essere clinicamente identificato è costituito approssimativamente da un grammo di tessuto e questo corrisponde all’incirca a 109 cellule. Poiché le popolazioni neoplastiche sono virtualmente sempre monoclonali, cioè rappresentano la progenie di una singola cellula trasformata, sono necessarie circa 30 divisioni cellulari per arrivare ad un grammo di cellule. Occorre sottolineare come, partendo da una massa di 109 cellule, qualora tutte o quasi proliferassero, come per esempio nel caso del linfoma di Burkitt, basterebbero circa altre 10 divisioni cellulari per consentire al tumore di raggiungere la dimensione di 1 kg, cioè una dimensione potenzialmente letale. La fase nella quale da una singola cellula trasformata si perviene alla soglia di un grammo di tessuto corrisponde alla fase latente di crescita, denominata fase preclinica. Questa è in genere assolutamente asintomatica, ma, al contempo, può già essere critica per i processi di invasione e di metastatizzazione. La durata della fase preclinica non è nota, può variare nei diversi tipi di tumore ed essere influenzata dalle capacità di difesa immunitaria dell’ospite. È ragionevole ritenere che questa fase occupi un periodo di tempo assai lungo, dell’ordine di anni, e comunque assai più lungo della successiva fase clinica.
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A. Fase preclinica. Nella fase preclinica possiamo considerare due momenti, la fase iniziale e la fase esponenziale. 1. Fase iniziale. Procede lentamente sia perché ostacolata dai meccanismi di controllo e difesa (anche immunologica) dell’organismo ospite, sia perché la massa neoplastica deve attrezzarsi per la crescita producendo vasi sanguigni neoformati (neoangiogenesi) indispensabili per l’apporto di fattori nutrizionali. 2. Fase esponenziale. In questa fase i tempi di raddoppiamento della popolazione neoplastica coincidono con buona approssimazione con la durata del ciclo cellulare delle cellule che proliferano. B. Fase clinica. Quando la massa è sufficientemente grande, il tumore rallenta la velocità di crescita; questo rallentamento è funzione in ogni momento della massa raggiunta (equazione di Gompertz). In questa fase il tempo di raddoppiamento della massa tumorale è molto più lungo della durata del ciclo cellulare, il che significa che una parte, spesso molto rilevante, delle cellule neoplastiche non è più in ciclo. In questa fase è dunque importante conoscere qual è la frazione di crescita, cioè qual è la percentuale di cellule che sono effettivamente in ciclo. Poiché molti agenti antitumorali sono soprattutto efficaci contro le cellule in ciclo, ne consegue che i tumori con più alta frazione di crescita sono più sensibili alla chemioterapia. Peraltro, una più alta frazione di crescita corrisponde anche ad una maggior “aggressività” del tumore e dunque la sua maggior chemiosensitività non implica necessariamente una più facile curabilità. Infine occorre considerare che in ogni massa tumorale, anche di piccole dimensioni, molte cellule vanno incontro a morte sia per necrosi, sia per apoptosi. Molto spesso il grado di produzione di nuove cellule è appena di poco superiore al grado di perdita cellulare. Questo significa che, in ogni caso, il bilancio produzione cellulare/perdita cellulare è sempre a favore della produzione; il rapporto produzione cellulare/perdita cellulare spiega perché certi tumori crescono rapidamente ed altri assai più lentamente. Infine occorre considerare che i tessuti neoplastici, così come i tessuti normali, sono costituiti fondamentalmente da due popolazioni cellulari, l’una in ciclo cellulare, cioè cellule in fase attivamente replicativa, l’altra da cellule fuori ciclo (cellule cosiddette “resting”). Il problema dei tessuti neoplastici è che le cellule resting sono eterogenee: alcune hanno assommato talmente tanti danni genetici da non essere più in grado di dividersi, ma hanno anche difetti dell’apoptosi per cui non muoiono, ma si accumulano. Altre invece sono resting, ma possono essere nuovamente reclutate in ciclo e assicurare nuove gittate proliferative. Dal momento che tutte le terapie antineoplastiche sono più efficaci nei confronti delle cellule in ciclo, questa popolazione di cellule resting, ma potenzialmente in grado di essere richiamate in ciclo, è quella che determina la recidiva di malattia perché sostitusce le cellule neoplastiche eliminate dalla terapia antineoplastica.
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Difetti di apoptosi L’apoptosi o morte cellulare programmata è un processo altamente specializzato. Esso viene regolato o dalla mancanza di fattori di crescita necessari alla sopravvivenza cellulare o in risposta alla stimolazione di specifici recettori cellulari che mediano la morte cellulare: ne sono esempi la stimolazione della molecola di superficie Fas da parte del suo ligando FasL o il legame del Tumor Necrosis Factor (TNF) al suo recettore di membrana. Ambedue i sistemi agiscono attivando una cascata di proteasi intracellulari (note come caspasi), talune delle quali iniziano il processo che porta alla morte cellulare, mentre altre ne rappresentano il braccio effettore. L’attivazione delle caspasi può avvenire attraverso una via “intrinseca”, innescata per esempio dalla mancanza di fattori di crescita o dall’ipossia, o attraverso una via “estrinseca”, attivata dalla stimolazione dei recettori di membrana. Ambedue le vie convergono su una via finale comune il cui risultato ultimo è la condensazione cromatinica, la conseguente coartazione cellulare e la trasformazione della cellula nei cosiddetti corpi apoptotici. Questi vengono fagocitati, sicché la cellula morta per apoptosi scompare senza lasciare traccia e senza evocare, a differenza della morte per necrosi, alcuna evidenza di infiammazione. Nella cellula neoplastica esistono multipli e molteplici difetti nella regolazione dei meccanismi che portano all’apoptosi. Questi difetti hanno un ruolo fondamentale nella patogenesi dei tumori. Un’apoptosi difettiva permette infatti alle cellule neoplastiche di sopravvivere assai più a lungo della durata di vita prevista, riduce o evita la necessità di fattori di crescita esogeni, fornisce una protezione nei confronti dell’ipossia e di altri stress ossidativi che forzatamente colpiscono le singole cellule a mano a mano che la massa neoplastica cresce. L’aumentata sopravvivenza cellulare consente alla cellule di avere tempo a sufficienza per riuscire ad accumulare ulteriori anomalie genetiche che a loro volta deregolano la proliferazione, promuovono l’angiogenesi, aumentano la motilità cellulare e l’invasività favorendo, in totale, la progressione neoplastica. In effetti le conseguenze dei difetti nei meccanismi che portano normalmente all’apoptosi sono complementari alle conseguenze dell’attivazione dei protooncogeni. In particolare difetti nell’apoptosi: • consentono la sopravvivenza di cellule geneticamente instabili o anomale, cioè di quelle cellule in cui difetti nei meccanismi di riparazione del DNA normalmente evocano l’eliminazione cellulare, favorendo la selezione di cloni progressivamente più aggressivi; • favoriscono la disseminazione metastatica, perché permettono alle cellule epiteliali che si staccano dal tumore primitivo di sopravvivere anche senza essere legate alla matrice extracellulare; • promuovono la resistenza al sistema immunitario, perché molti dei meccanismi citolitici utilizzati dai linfociti citolitici (CTL) e dalle cellule NK per danneggiare la cellula bersaglio richiedono l’integrità del sistema che porta all’apoptosi.
Praticamente tutti i chemioterapici antineoplastici utilizzati in clinica (e lo stesso dicasi per le radiazioni) agiscono inducendo apoptosi. Peraltro, i difetti presenti nella cellula neoplastica incrementano la soglia necessaria affinché sia i farmaci sia le radiazioni siano in grado di causarne la morte. Di conseguenza un’efficacia terapeutica può essere ottenuta soltanto incrementando le dosi di chemioterapici o di radiazioni (e inducendo quindi una maggiore tossicità): difetti nell’apoptosi hanno quindi un ruolo centrale nello sviluppo dei fenomeni di chemio- e radio-resistenza che portano all’inefficacia terapeutica.
PROGRESSIONE NEOPLASTICA E RAPPORTI TUMORE-OSPITE I tumori si formano e crescono in organi e tessuti diversi e sono tutti caratterizzati dalla presenza di un gran numero e di una grande varietà di cellule normali, frammiste alle cellule neoplastiche. Queste cellule normali costituiscono il cosiddetto microambiente. Una caratteristica importante del microambiente tumorale, inteso nella sua globalità, è quello di trovarsi in un persistente stato di attivazione. L’attivazione del microambiente è favorita da segnali che provengono dal tumore; il microambiente attivato, a sua volta, produce segnali che agiscono sulla crescita tumorale. Le interazioni tra clone neoplastico e microambiente influenzano in maniera decisiva l’evoluzione e i diversi stadi della cancerogenesi. Per l’evoluzione del tumore sono determinanti: • il cocktail di citochine e di chemochine prodotte dalle diverse componenti cellulari che formano il microambiente in cui il tumore cresce; • la neoangiogenesi; • le modalità di reazione del sistema immunitario.
Citochine e chemochine Le citochine sono proteine secrete o legate alla membrana che regolano la proliferazione, la differenziazione e l’attivazione delle cellule del sistema immunitario, incluse le cellule infiammatorie, ed agiscono in maniera autocrina o paracrina. Le chemochine sono citochine ad attività chemiotattica che regolano e controllano la migrazione leucocitaria. La migrazione leucocitaria indotta dalle chemochine si verifica lungo un gradiente chimico di ligandi, noto come gradiente chemochinico, grazie al quale una cellula dotata di opportuno recettore per una determinata chemochina migra verso la concentrazione più elevata di quella chemochina. Il gradiente chemochinico consente di reclutare specifiche popolazioni cellulari in risposta a stimoli diversi e nelle sedi appropriate. Le citochine ed i relativi recettori a tutt’oggi noti sono numerose decine e sono oltre 50 le chemochine finora descritte (e 18 i recettori identificati).
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Le singole citochine sono caratterizzate da un pleiotropismo d’azione e la caratteristica fondamentale del sistema citochinico nel suo insieme è la ridondanza. Questi due elementi, uniti al fatto che l’azione delle singole citochine è influenzata in maniera determinante dall’ambiente citochinico in cui si trovano ad operare, impediscono un’eccessiva semplificazione del ruolo delle citochine nella patogenesi del cancro. Il messaggio importante è che le interazioni tumore/ospite possono dare risultati opposti a seconda di come le citochine prodotte agiscono o vengono utilizzate. Infatti le citochine prodotte dal microambiente possono avere un effetto protettivo nelle primissime fasi della cancerogenesi, possono cioè essere in grado di sopprimere la formazione del tumore quando la loro azione riesce a controllare infezioni e infiammazione e ad attivare efficacemente il sistema immunitario. Al contrario, in un tumore stabilizzato, le cellule neoplastiche possono utilizzare citochine prodotte dal microambiente per incrementare l’attività proliferativa, aumentare la resistenza all’apoptosi e facilitare la disseminazione metastatica. Le cellule neoplastiche producono chemochine e sono quindi in grado di modulare la composizione del microambiente in cui si sviluppano richiamando e reclutando popolazioni cellulari diverse, quali macrofagi e cellule del sistema immunitario. Questa situazione è facilitata dal fatto che le cellule del sistema immunitario e le cellule endoteliali dei vasi, ma anche le cellule neoplastiche, esprimono specifici recettori chemochinici e dunque sono in grado di rispondere al gradiente chemochinico. L’espressione da parte delle cellule neoplastiche di determinati recettori per le chemochine, e dunque la capacità di rispondere ad un gradiente chemochinico, è associata ad un’aumentata capacità metastatica.
Neoangiogenesi Nessuna cellula riesce a sopravvivere se priva di un adeguato apporto di ossigeno e di sostanze nutritizie e se incapace di eliminare molecole tossiche prodotte dal suo metabolismo. L’ossigeno diffonde dai capillari fino a una distanza di 150-200 m; le cellule che si trovano oltre questa distanza critica muoiono. Pertanto un tumore, per diventare clinicamente rilevante, richiede una persistente neovascolarizzazione o neoangiogenesi. L’angiogenesi è un processo complesso orchestrato da una serie di attivatori (fattori proangiogenici) e di inibitori (fattori antiangiogenici). Gli attivatori della proliferazione e migrazione endoteliale sono prevalentemente ligandi di recettori ad attività tirosin-chinasica, quali il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF), il Fibroblast Growth Factor (FGF), l’Epidermal Growth Factor (EGF), il Platelet Derived Growth Factor (PDGF). Gli inibitori dell’angiogenesi sono la trombospondina-1 e la famiglia delle cosiddette “statine”, quali angiostatina e endostatina. I relativi livelli di attivatori e di inibitori controllano lo status delle cellule endoteliali che, a seconda della prevalenza degli uni o degli altri, saranno in uno stato di quiescenza o di attiva angiogenesi. L’espressione dei geni proangiogenici (switch angiogenico) è au-
mentata da stimoli quali l’ipossia, che consegue ad un’aumentata massa cellulare, ma anche dall’attivazione di determinati oncogeni o da mutazioni di geni oncosoppressori. Essa può verificarsi in stadi e momenti diversi della progressione tumorale a seconda del tipo di tumore e del microambiente in cui questo cresce. In ogni caso lo switch angiogenico demarca nettamente due fasi nella crescita tumorale. Nella prima (fase avascolare) le lesioni neoplastiche sono piccole (circa 1-2 mm di diametro), occulte e sono in un certo senso quiescenti (“dormant tumors”) perché al loro interno si instaura un equilibrio tra proliferazione e apoptosi. È importante sottolineare come l’autopsia di soggetti deceduti per cause diverse dal cancro spesso riveli la presenza di lesioni neoplastiche quiescenti (e la cui esistenza era ignota). Questa osservazione sottolinea come soltanto una ridotta percentuale di “dormant tumors” possa realizzare lo switch angiogenico ed entrare nella seconda fase, la fase vascolare, che rappresenta un prerequisito per la progressione tumorale. La neoangiogenesi tumorale è profondamente diversa dall’angiogenesi fisiologica nel senso che la neovascolarizzazione produce vasi strutturalmente ed architettonicamente diversi da quelli normali. I vasi neoplastici sono irregolari, tortuosi, dilatati e non sono organizzati in maniera precisa in venule, arteriole e capillari, piuttosto condividono in misura varia e sostanzialmente caotica aspetti di tutti e tre i tipi di vasi. Il flusso ematico all’interno dei vasi neoformati è irregolare, le interazioni tra cellule endoteliali e cellule perivascolari (periciti) sono alterate e la permeabilità dei vasi stessi è aumentata. Una riduzione nel numero dei vasi causa immediatamente la necrosi delle cellule irrorate dai vasi in oggetto; nel contempo, l’ipossia innesca nuovamente il processo di neoangiogenesi.
Ruolo del sistema immunitario L’importanza del sistema immunitario nel proteggere gli esseri viventi dalle infezioni ha suggerito l’ipotesi che esso possa svolgere un analogo ruolo anche nei confronti dello sviluppo di tumori (immunità antitumore). L’evoluzione di questo concetto ha portato a considerare la possibilità che il sistema immunitario possa essere manipolato in modo tale da svolgere un ruolo difensivo nei confronti di tumori ormai affermatisi nell’organismo (immunoterapia antitumorale e vaccinazione antitumore). Queste possibilità sono basate su alcune premesse. La prima è che le cellule tumorali siano antigenicamente diverse dalle corrispondenti cellule normali e quindi capaci di evocare una risposta immunitaria antitumore e, conseguentemente, che il sistema immunitario sia in grado di impedire lo sviluppo di una neoplasia o, comunque, di ritardarne la progressione. La cellula neoplastica differisce dalla corrispondente cellula normale sia come composizione antigenica, sia come comportamento biologico: queste differenze hanno delle importanti implicazioni per l’immunità antitumorale.
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A. La prima differenza è l’instabilità genetica della cellula neoplastica. Essa significa che nuovi antigeni sono costantemente generati (mentre altri sono perduti) durante lo sviluppo e la progressione neoplastica. Questo naturalmente non si verifica nelle cellule normali che hanno, al contrario, un profilo antigenico stabile. B. Una seconda differenza è rappresentata dalle modificazioni epigenetiche che sono operative nelle cellule neoplastiche e favoriscono l’espressione ad elevati livelli di molecole che invece non sono espresse o sono espresse a livelli modesti dalle cellule normali. C. La terza differenza è legata alla capacità del tumore di trasformare l’architettura del tessuto in cui cresce, danneggiandolo attraverso i meccanismi di invasione e metastasi. Una delle conseguenze importanti di questo tipo di danno cellulare è l’elaborazione locale di segnali pro-infiammatori. Questi segnali (in genere rappresentati dalla produzione di citochine e chemochine) in condizioni normali sono cruciali nell’iniziare la risposta immunitaria sia innata sia adattativa. Peraltro, mentre le cellule normali hanno un quadro stabile di espressione di citochine e di fattori di crescita, le cellule neoplastiche hanno un’espressione variabile e anomala, in grado comunque di inibire a livello locale la risposta immunitaria sia innata sia adattativa. In conclusione i segnali evocati dal tumore non attivano, al contrario tendono ad attenuare quando non a sopprimere la risposta immunitaria antitumore. L’implicazione di questi fatti è che il tumore è “antigenico” cioè esprime dagli antigeni tumore-associati (TAA) che vengono riconosciuti dal sistema immunitario, ma non è “immunogenico” nel senso che i TAA non riescono ad evocare una risposta immunitaria clinicamente significativa. In effetti nei pazienti con tumore si osserva la presenza di una risposta immunitaria cellulo-mediata e/o umorale (cioè la presenza di T linfociti e/o di anticorpi capaci di riconoscere il tumore). Questo indica chiaramente che il sistema immunitario riesce a “vedere” il tumore e dunque che i TAA esistono anche nei tumori spontanei. I TAA noti possono essere suddivisi in due categorie: antigeni self mutati e paziente-specifici e antigeni self non-mutati e non individuali. La prima categoria è il risultato di mutazioni somatiche di normali prodotti genici e riflette l’instabilità genetica delle cellule tumorali. Si tratta di antigeni espressi individualmente e dunque diversi nei diversi pazienti. L’eterogeneità e la variabilità di questi TAA spiegano l’incapacità ad evocare una risposta immunitaria significativa. La seconda categoria di TAA è rappresentata invece da normali prodotti genici, non frutto di mutazioni, ma legati allo stadio di maturazione, attivazione, differenziazione della cellula neoplastica. Questi antigeni sono condivisi, cioè espressi da molti pazienti con lo stesso tipo istologico di tumore ed in genere corrispondono a molecole che in condizioni normali sono espresse o durante la vita fetale (ma non nell’adulto) o in sedi cosiddette “immunoprivilegiate” cioè nascoste al riconoscimento da parte del sistema immunitario. Esempi di questa categoria sono l’antigene
carcinoembriogenetico (CEA) e gli antigeni della famiglia MAGE (Melanoma Associated Genes). Sono poi da considerare gli antigeni virali, quale gli antigeni dello HPV (HPV-16 E6 ed E7), per la loro potenziale importanza terapeutica. Altri TAA recentemente descritti hanno invece un’espressione molto più generale (cosiddetti TAA universali). Ne sono esempi TERT (Telomerase Reverse Transcriptase, cioè la componente proteica dell’enzima telomerasi) e Survivina (una molecola essenziale per il futuro di ogni singola cellula perché situata al crocevia tra proliferazione ed apoptosi). È concepibile che queste molecole rappresentino una categoria di strutture antigeniche la cui presenza è essenziale affinché la cellula tumorale mantenga il fenotipo trasformato. La progressiva crescita tumorale in un soggetto con un sistema immunitario integro indica che il tumore riesce ad “evadere” le difese immunitarie. Il fenomeno di evasione o “tumour escape” fondamentalmente si verifica perché il tumore che cresce non è in grado di evocare o attivare una risposta immunitaria significativa. In altri termini il problema è che in ogni caso la cellula neoplastica riesce ad evadere il riconoscimento da parte del sistema immunitario attraverso diversi meccanismi. Innanzitutto le cellule tumorali spesso sono in grado di secernere fattori ad attività immunosoppressiva quale il Transforming Growth Factor (TGF-). Sono inoltre in grado di regolare negativamente i vari componenti la presentazione dell’antigene in maniera tale da indurre l’attivazione di una serie di meccanismi che portano l’ospite a “tollerare” anziché “rigettare” il tumore. Un esempio è rappresentato dalla regolazione negativa delle molecole del sistema maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe I. Non solo, ma spesso si verificano anche mutazioni lungo la via metabolica che consente il processing antigenico (per es., mutazioni della 2-microglobulina o dei componenti il proteasoma). Inoltre le cellule neoplastiche sono tipicamente prive delle molecole co-stimolatorie che sono indispensabili per un’adeguta presentazione antigenica. In pratica la tolleranza nei confronti del tumore si realizza perché il microambiente tumorale non favorisce un’efficiente attivazione e maturazione delle cellule dendritiche (DC) locali, cioè delle cellule che professionalmente presentano l’antigene e che in condizioni normali sarebbero indotte a presentare efficacemente l’antigene alle cellule effettrici. Di conseguenza la risposta immunitaria antitumorale è debole e, al massimo, riesce a rallentare la crescita del tumore. Nel frattempo il tumore, proprio perché geneticamente instabile e capace di sfruttare una serie di meccanismi genetici ed epigenetici, riesce ad evadere dall’eventuale attività antitumorale del sistema immunitario grazie a meccanismi di selezione naturale che favoriscono l’emergenza di cloni che sfuggono al riconoscimento.
Immunoterapia In termini molto generali l’immunoterapia antineoplastica può essere suddivisa in due grandi categorie: immunoterapia passiva e immunoterapia attiva.
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A. Immunoterapia passiva. Si intende sostanzialmente l’impiego terapeutico di anticorpi monoclonali diretti contro strutture antigeniche di membrana selettivamente, ancorché in genere non univocamente espresse da popolazioni cellulari neoplastiche. Gli anticorpi monoclonali murini vengono umanizzati, cioè ingegnerizzati in modo tale da mantenere la specificità di riconoscimento antigenico, ma nel contempo avere la composizione strutturale degli anticorpi umani. Classici esempi, ormai stabilmente entrati nell’arsenale terapeutico oncologico, sono gli anticorpi diretti contro la struttura di membrana CD20 per il trattamento dei linfomi e gli anticorpi diretti contro il recettore HER2/neu per il trattamento dei tumori mammari. Gli anticorpi monoclonali possono essere usati come tali, oppure coniugati con sostanze diverse, quali farmaci, tossine e soprattutto isotopi radioattivi. B. Immunoterapia attiva. Si intende l’immunizzazione del soggetto portatore di tumore con cellule e/o strutture studiate al fine di evocare una risposta immunitaria antitumore tale da riuscire ad abolirne o ritardarne la crescita. I concetti di immunoterapia attiva sono stati mutuati dal successo delle vaccinazioni nel settore delle malattie infettive e sono essenzialmente basati sull’intento di incrementare il numero e l’attività dei T linfociti tumore-specifici per aumentare la risposta immunitaria T linfocitaria nei confronti del tumore. Ogni tentativo di manipolare il sistema immunitario in modo tale da potenziarne la risposta nei confronti del tumore dev’essere basato su una serie di elementi. Innanzitutto occorre cercare di identificare quanto più minuziosamente ed accuratamente possibile i TAA e analizzare come questi possano stimolare un’efficace risposta immunitaria. Inoltre, è importante incanalare i TAA nell’adeguata catena di presentazione dell’antigene, cioè fare riconoscere gli appropriati TAA dalla sottopopolazione appropriata di cellule dendritiche e indurre queste stesse cellule a differenziare in senso potentemente immunostimolatorio. Il secondo aspetto da considerare è la necessità di capire quali cellule del sistema immunitario hanno la massima capacità effettrice nei confronti del tumore. Al momento attuale due sono le popolazioni che appaiono giocare un ruolo cruciale: linfociti CD8, cosiddetti CTL (Cytotoxic T Lymphocytes) e linfociti CD4 a tipo T-helper1 (TH1). Un importante corollario è la necessità di avere delle risposte di immunità antitumore persistenti. Obiettivo dell’immunoterapia attiva è dunque definire le migliori modalità per indurre una risposta CD8 e CD4-TH1 che sia non solo efficace, ma anche duratura. Un terzo aspetto da considerare è rappresentato dal fatto che ogni protocollo di vaccinazione antitumorale inevitabilmente porterà con sé un certo grado di stimolazione nei confronti di normali prodotti genici e dunque ha il rischio inerente di indurre un qualche genere di manifestazioni autoimmuni. In effetti lo scopo ultimo della vaccinazione antitumorale è evocare una risposta autoimmune che sia diretta specificamente contro il cancro, ma che sia nel contempo capace di evitare sbavature nei confronti delle cellule normali. È pre-
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vedibile che questo si potrà ottenere scegliendo l’antigene bersaglio adatto. Ed è altresì possibile che il timore di avere delle risposte autoimmuni clinicamente significative sia eccessivo. Infatti le cellule normali e quelle neoplastiche hanno con ogni probabilità una suscettibilità diversa alle cellule effettrici del sistema immunitario. Questo perché il microambiente tumorale è certamente diverso da quello normale, sia per le citochine prodotte, sia perché la membrana basale degli organi normali tende a costituire una diga impenetrabile, mentre la membrana basale delle cellule neoplastiche tende ad essere discontinua proprio perché danneggiata dai meccanismi di invasione. In altri termini sia lo stroma sia la neovascolarizzazione che si sono formate per “servire” il tumore sono funzionalmente e strutturalmente deficitarie e possono più facilmente favorire l’arrivo di cellule effettrici antitumorali. Infine le cellule neoplastiche stesse sono in condizioni di stress perché ipossiche e dunque possono più facilmente incrementare la produzione di molecole di membrana (prodotte proprio in condizioni di stress) quali MIC-A e MIC-B che fungono da ligandi per le cellule natural killer (NK) e per alcune sottopopolazioni di CTL CD8+ incrementando quindi la suscettibilità alla lisi da parte di questi elementi effettori.
PROBLEMA DELLE METASTASI La cellula trasformata si moltiplica fino a costituire una popolazione cellulare con una determinata massa critica (tumore primitivo) il cui raggiungimento è funzione sia delle caratteristiche cinetiche di crescita delle cellule neoplastiche sia delle condizioni microambientali. Con il termine metastasi si intende la disseminazione di cellule neoplastiche dal tumore primitivo e la formazione di nuove localizzazioni tumorali in organi a distanza. Mentre un tumore isolato può essere trattato con successo con approcci chirurgici e/o radioterapici, la presenza di metastasi implica la necessità di approcci terapeutici combinati e complessi e riduce drasticamente le possibilità di successo terapeutico. Le metastasi hanno spesso una localizzazione d’organo preferenziale, per esempio il carcinoma della mammella ed il carcinoma della prostata metastatizzano in particolare alle ossa, mentre nel carcinoma del colon il fegato è la localizzazione preferenziale. In generale, oltre ai linfonodi loco-regionali, gli organi a maggior predilezione metastatica sono fegato, osso e polmone. Per ragioni sconosciute, organi quali cuore, muscoli scheletrici e cute, nonostante abbiano un flusso ematico estremamente abbondante, sono solo di rado sede di metastasi. A. Metastasi epatiche. Il fegato ha una particolare vulnerabilità all’invasione metastatica per diverse ragioni: le dimensioni, l’alto livello di flusso ematico, la doppia perfusione attraverso l’arteria epatica ed il circolo portale, il ruolo di filtrazione delle cellule del Kupffer. Per cui il fegato è secondo solo ai linfonodi come sede di
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metastasi. Praticamente tutti i tumori possono metastatizzare al fegato, i più frequenti sono i tumori del tratto gastrointestinale, del polmone, della mammella ed il melanoma. Nella maggioranza dei casi le metastasi epatiche sono asintomatiche e vengono scoperte nel corso della stadiazione del tumore primitivo. B. Metastasi ossee. Le metastasi ossee sono decisamente più comuni dei tumori primitivi dell’osso, essendo presenti nel 70% dei pazienti con tumore mammario e tumore prostatico avanzati ed in una percentuale compresa tra il 15 ed il 30% dei pazienti con tumore polmonare, del colon-retto, della tiroide e del rene. Le ossa più frequentemente coinvolte sono le vertebre, il femore prossimale, la pelvi, le coste, lo sterno, l’omero prossimale ed il cranio. L’importanza clinica delle metastasi ossee deriva dal fatto che esse sono in genere sintomatiche e rappresentano uno degli aspetti più difficili della gestione clinica del paziente neoplastico. Esse infatti si manifestano con dolore da frattura patologica o schiacciamento vertebrale, spesso causano sintomi neurologici da compressione di radici nervose o del midollo spinale, talora si manifestano con i segni e sintomi dell’ipercalcemia. Le metastasi ossee possono presentarsi come lesioni osteolitiche, lesioni osteoaddensanti (osteoblastiche) o lesioni miste. L’osso normale continua a rimodellarsi grazie all’azione coordinata di due popolazioni cellulari, gli osteoclasti che riassorbono l’osso e gli osteoblasti che formano osso. Il microambiente osseo ha un ruolo fondamentale nella formazione degli osteoclasti attraverso la produzione di citochine e soprattutto del ligando per il Receptor Activator of Nuclear Factor –kB (RANK-L) da parte delle cellule stromali e degli osteoblasti. RANK-L si lega al recettore (RANK) espresso dai precursori degli osteoclasti e ne induce la formazione. RANK-L può però essere assorbito da un recettore che funge da trappola (decoy), ne impedisce il legame agli osteoclasti e quindi blocca l’osteoclastogenesi. Questo “decoy” receptor è l’osteoprotegerina ed il rapporto RANK-L/osteoprotegerina regola in condizioni normali la formazione e l’attività degli osteoclasti. 1. Nelle lesioni metastatiche osteolitiche la distruzione dell’osso è la conseguenza della produzione da parte del tumore (in certi casi anche dal microambiente osseo stimolato dalla presenza di cellule tumorali) di sostanze che inducono il riassorbimento osseo (quali prostaglandine e il parathyroid hormone-related peptide, PTH-RP) o di citochine che inducono la formazione e l’attivazione di osteoclasti (quali l’interleuchina-1, TNF e nel mieloma multiplo il RANK-L e la Macrophage Inflammatory Protein 1, MIP1). 2. Le lesioni osteoaddensanti (o miste) si verificano invece quando il tumore produce citochine che attivano gli osteoblasti, quali endotelina-1 nel carcinoma mammario, il PSA e l’urokinase-type Plasminogen Activator (u-PA) nel carcinoma della prostata.
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C. Tappe delle metastasi. Il tumore primitivo è eterogeneo. Infatti, a causa dell’instabilità genetica è costituito da multipli subcloni che hanno proprietà biologiche diverse incluso un diverso potenziale invasivo e metastatico. Il processo metastatico si articola in tappe successive. La cellula neoplastica si lega alla matrice extracellulare della membrana basale epiteliale ed inizia il processo di invasività locale. La membrana basale forma una barriera invalicabile in tutti i processi di normale rimodellamento tessutale, ma anche nell’iperplasia, nei tumori benigni e nel carcinoma in situ. Soltanto quando si verifica la transizione da carcinoma in situ a carcinoma invasivo le cellule neoplastiche diventano capaci di attraversare la barriera e di approfondirsi nello stroma sottostante. A livello del contatto cellula/matrice si ha la dissoluzione proteolitica della matrice stessa dovuta al rilascio locale di enzimi da parte della cellula neoplastica quali, soprattutto, metalloproteasi o l’urokinase-type Plasminogen Activator Receptor (uPAR). La cellula si stacca dal tumore primitivo e progredisce spazialmente nel tessuto sottostante attraverso il poro creatosi (extravasazione). La cellula si lega alla membrana basale subendoteliale e, dopo proteolisi del punto di contatto, penetra all’interno del lume del vaso (intravasazione). Pregiudiziale per l’intra- e l’estravasazione è la migrazione cellulare attraverso i pori creatisi. Il momento iniziale è rappresentato dalla protrusione di pseudopodi da parte del versante guida della cellula. L’induzione di pseudopodi è regolata dall’interazione di strutture di adesione note come integrine con i relativi ligandi che consentono la trazione della cellula e le forniscono la direzione di movimento, e implica la coordinata mobilitazione delle strutture citoscheletriche connesse con le strutture di adesione di membrana. L’entità e la direzione dei processi di locomozione sono influenzati sia da citochine prodotte dalle cellule neoplastiche, note come scatter factors, sia da fattori ad attività chemiotattica prodotti dal microambiente. La cellula neoplastica può arrestarsi a breve distanza, immediatamente a valle della penetrazione, oppure proseguire a distanza sopravvivendo in circolo e creare le premesse per la formazione di una colonia neoplastica secondaria (metastasi). Questo implica l’arresto in un nuovo organo, l’estravasazione nei tessuti circostanti, la proliferazione e la neoangiogenesi. Una delle discussioni più accese riguarda la relativa importanza della cellula nei confronti del microambiente in cui si localizza come causa dello sviluppo di colonie tumorali metastatiche, cioè se sia più importante la cellula (“seed”) o il terreno in cui questa si viene a trovare (“soil”). È verosimile che ambedue i fattori siano importanti e che oltre a questi abbiano rilevanza anche fattori meccanici (per esempio il numero di cellule neoplastiche che arrivano ad un certo organo attraverso la circolazione) e soprattutto la compatibilità “seed-soil”, cioè la capacità dell’organo colonizzato di produrre fattori che favoriscono o sopprimono la crescita di quel particolare tipo di neoplasia. Per esempio, le cellule di tumore mammario o di tumore prostatico che arrivano in una sede ossea possono essere stimolate a crescere con grande ef-
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ficienza perché si possono instaurare reciproche interazioni molecolari tra le cellule neoplastiche e le cellule proprie dell’osso quali osteoblasti e osteoclasti. Queste interazioni sono mediate da sostanze quali il Parathyroid-Related Protein e il transforming growth factor (TGF) che sono sia prodotti dalle cellule neoplastiche sia presenti nel microambiente osseo. Lo stesso dicasi per l’invasione epatica da parte del carcinoma del colon, favorita dal fatto che le cellule neoplastiche possono esprimere un recettore per fattori di crescita, quale l’Epidermal Growth Factor Receptor (EGFR) e nell’ambiente epatico trovano ampia concentrazione di fattori di crescita quale il TGF- che si legano all’EGFR. È poi importante sottolineare come le cellule neoplastiche derivate dallo stesso tumore primitivo, ma metastatizzate in organi differenti e dunque esposte a microambienti differenti abbiano anche una diversa risposta alla chemioterapia, legata alla produzione locale di citochine e molecole solubili che possono modificare la risposta. Numerosi fattori meccanici determinano il destino della cellula neoplastica che ha lasciato il tumore primitivo. Le caratteristiche della circolazione dell’organo in cui ha sede il tumore primitivo determinano la progressione spaziale, cioè quale organo la cellula visiterà per primo. Per esempio le cellule che si disseminano a partire da un tumore primitivo del colon entrano nel sistema portale e pervengono ai sinusoidi epatici. Una volta giunte in quest’organo, saranno le rispettive dimensioni delle cellule e dei capillari in cui impattano a determinarne l’arresto e la localizzazione. Quando la cellula si è arrestata in un determinato organo, sono le interazioni molecolari tra la cellula ed il microambiente specifico a determinare la facilità di crescita tumorale. In alcuni tipi di tumore, per esempio in quelli del distretto capo-collo, la presenza di metastasi ai linfonodi locoregionali è il più importante indice prognostico, perché è strettamente legato alla frequenza di metastasi in organi a distanza e di conseguenza riduce nettamente la sopravvivenza del paziente. Per altri tumori, come il tumore mammario, si può avere una disseminazione ematogena a distanza anche in assenza di interessamento dei linfonodi loco-regionali. Taluni tumori metastatizzano in modo “indiscriminato”, cioè possono colonizzare un’ampia gamma di tessuti; generalmente in questi tumori il primo organo incontrato dalle cellule neoplastiche circolanti rappresenta anche la sede più comune di colonizzazione metastatica. Per esempio il carcinoma prostatico metastatizza alle vertebre perché le può facilmente raggiungere attraverso le connessioni vascolari rappresentate dal plesso di Baxton. Lo studio del tumore mammario mediante profilo di espressione genica ha rivelato che la disseminazione ematogena è associata a specifiche caratteristiche molecolari. È inoltre emerso che la disseminazione ematogena è spesso un evento molto precoce nella storia naturale del tumore. L’idea attuale è che queste cellule si disseminino molto precocemente dal tumore primitivo e poi debbano acquisire difetti genetici addizionali per riuscire a creare delle localizzazione secondarie.
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D. “Tumour dormancy”. Metastasi possono verificarsi anche anni dopo che il tumore primitivo è stato trattato con apparente successo. Questo è dovuto al cosiddetto fenomeno della “tumour dormancy”, cioè ad una specie di letargo in cui la cellula neoplastica disseminata in organi a distanza può entrare. La “tumour dormancy” è caratterizzata dalla presenza di micrometastasi che non riescono per lungo tempo a sviluppare una neoangiogenesi (cosiddette metastasi preangiogeniche) o dalla presenza di cellule isolate che non sono in ciclo cellulare e persistono nella fase “resting” del ciclo per lungo tempo. Proprio perché non in ciclo queste cellule sono particolarmente resistenti alla terapia citostatica che colpisce selettivamente le cellule impegnate nel ciclo cellulare. Le prime fasi del processo che porta alle metastasi sono completate con grande efficienza. Le fasi successive, cioè la capacità di crescita in un organo a distanza, sono invece in un certo senso assai inefficienti perché sono regolate da numerosi meccanismi che implicano complesse interrelazioni tumore/ospite. Di conseguenza, le gittate potenzialmente metastatiche che derivano dal tumore primitivo sono probabilmente molto più numerose delle metastasi che giungono a compimento. E. Disordini linfoproliferativi. La maggior parte dei concetti sopradiscussi riguardano i tumori solidi, soprattutto i tumori epiteliali. Un problema particolarmente interessante diventa quello dei meccanismi di disseminazione dei disordini linfoproliferativi, cioè delle neoplasie le cui cellule sono, per loro propria natura, destinate a re-circolare tra organi linfatici secondari, sangue periferico e tessuti extra linfatici. Il traffico linfocitario attraverso i linfonodi ed il Mucosal-Associated-Lymphoid-Tissue (MALT) è condizionato dalla possibilità di accesso delle cellule agli organi e questo accesso dipende a sua volta dall’interazione, mediata da diverse famiglie di molecole di adesione, tra linfociti e particolari strutture vascolari specializzate, le venule ad endotelio alto (High Endothelial Venules, HEV). I meccanismi che stanno alla base della disseminazione delle cellule linfoidi neoplastiche sono tra gli aspetti meno conosciuti dei disordini linfoproliferativi. Sono per esempio assai poco chiari i motivi che determinano l’accumulo dei blasti di leucemia linfoblastica acuta (LLA) nei cosiddetti “santuari anatomici” della malattia, quali le leptomeningi e le gonadi, costantemente e specificamente invasi. Parimenti mal definite sono le ragioni che spingono le plasmacellule monoclonali del mieloma multiplo a colonizzare estensivamente il midollo osseo senza invadere il torrente circolatorio se non in fasi molto tardive ed aggressive della malattia, anche se è ormai chiaro che un ruolo chiave è svolto dallo stroma midollare capace di “invitare” i precursori delle plasmacellule neoplastiche e di indurne la differenziazione e la crescita in situ. Il problema fondamentale (ed irrisolto) dei tumori linfoidi rimane quello della distinzione tra linfomi e leucemie. I meccanismi fondamentali attraverso cui si realizza la disseminazione cellulare nelle leucemie e
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nei linfomi sono due. Un meccanismo cosiddetto “patologico” perché simile al processo di disseminazione comune ai tumori solidi, basato sull’invasione dei tessuti adiacenti, trasporto per via linfatica, colonizzazione per contiguità lungo le vie linfonodali, invasione di vasi sanguigni per via ematogena. Il secondo è maggiormente “fisiologico”, nel senso che meglio rispetta le vie del normale traffico linfocitario. Le ragioni biologiche cha fanno accumulare le cellule leucemiche nel midollo osseo e nel sangue periferico e assicurano invece una maggiore coesione intercellulare (più simile ai tumori solidi) ai linfomi non sono affatto chiare e la spiegazione offerta, ancora basata sulla diversità nell’espressione di integrine e di altre strutture di adesione, è la più plausibile, ma non ha basi sperimentali definitive.
APPROCCIO CLINICO AL PAZIENTE NEOPLASTICO Il cancro che colpisce i tessuti epiteliali è definito carcinoma, il cancro che colpisce i tessuti mesenchimali è definito sarcoma. I tumori del sistema linfoemopoietico vengono definiti leucemie quando hanno la prevalente tendenza ad invadere il midollo osseo ed il torrente circolatorio o linfomi quando hanno la prevalente tendenza a crescere come masse solide tessutali negli organi linfoidi periferici. L’approccio al paziente neoplastico è tipicamente interdisciplinare. L’anamnesi e l’esame obiettivo orientano verso organi o tessuti di richiamo. L’accurata pianificazione di una serie di indagini porta alla diagnosi e definisce l’estensione della malattia (stadiazione) e la probabile prognosi. Questi parametri condizionano la pianificazione terapeutica. Le tappe successive sono la valutazione delle complicanze del tumore e degli effetti collaterali della terapia ed il follow-up del paziente. A. Diagnosi. La diagnosi poggia virtualmente sempre su approcci invasivi bioptici o comunque volti ad analizzare campioni di tessuto. Non esiste alcun test non-invasivo che consenta di definire con precisione ed accuratezza un processo patologico complesso come il cancro. Nelle leucemie è sufficiente l’analisi del sangue periferico e del midollo osseo, nel caso dei noduli tiroidei l’agoaspirato e la conseguente analisi citologica sono procedimenti diagnostici accettati. In tutti gli altri casi è necessaria la biopsia tissutale che permette di valutare tutte le caratteristiche istopatologiche incluse le interazioni con il microambiente e l’invasione dei tessuti circostanti. La biopsia è dunque l’unica procedura che attualmente consente la necessaria accuratezza diagnostica. Inoltre, su tutti i tessuti (o sui campioni citologici nel caso delle neoaplasie emolinfopoietiche) può (e deve) essere eseguita l’indagine immunofenotipica, molecolare e citogenetica che consente di offrire informazioni prognosticamente rilevanti. È prevedibile che nei prossimi anni le nuove tecnologie genomiche e postgenomi-
che, quali i “tissue microarrays” e la proteomica, cambieranno radicalmente il nostro approccio diagnostico e prognostico. B. Stadiazione. La definizione dell’estensione della malattia mediante la stadiazione è di due tipi. La stadiazione clinica che diventa sempre più accurata grazie alle nuove tecnologie di diagnostica per immagini e la stadiazione patologica che utilizza le informazioni ottenute dal chirurgo. Il sistema di staging più utilizzato è il sistema TNM (Tumour Nodes Metastasis), sistema codificato a livello mondiale dalla International Union against Cancer (UICC) e dall’American Joint Committee on Cancer (AJCC). La classificazione TNM codifica i tumori sulla base delle dimensioni del tumore primitivo (da T1 a T4, il crescere dei numeri denota dimensioni crescenti), della presenza o meno di linfonodi satelliti invasi dalla neoplasia (N0 se assenti, N1 se presenti) e dalla presenza o meno di metastasi (M0 se assenti, M1 se presenti). Le varie associazioni possibili di T, N ed M permettono di assegnare ad ogni singolo paziente un determinato stadio, abitualmente indicato da numeri romani (da I a IV). L’entità della massa tumorale cresce e la probabilità di guarigione del paziente decresce al crescere dello stadio. C. Prognosi. Accanto allo staging basato sull’entità della massa neoplastica, è necessario valutare la riserva fisiologica del paziente, cioè la sua capacità di resistere allo stress imposto sia dal tumore sia dal trattamento. Per valutare il più razionalmente possibile questo fondamentale aspetto si usano parametri quale l’età e l’indice di Karnofsky (Tab. 39.2). I pazienti con età avanzata e con indice di Karnofsky basso sono pazienti a cattiva prognosi. Infine, le informazioni ottenute dagli studi biologici in generale ed in particolare dalla biologia molecolare e dallo studio citogenetico sono sempre più utilizzate per valutare la prognosi del singolo paziente e dunque per indirizzarlo ad un piano di trattamento il più possibile adeguato alla sua particolare situazione. Tabella 39.2 - Indice di Karnofsky. 100 - Normale, nessun sintomo, non evidenza di malattia. 90 - In grado di svolgere attività normale, lievi sintomi o segni di malattia. 80 - Attività normale svolta con fatica, qualche segno o sintomo di malattia. 70 - Autosufficiente ma incapace di normale attività lavorativa. 60 - Necessità di assistenza saltuaria, ma quasi completamente autonomo. 50 - Richiede notevole assistenza e frequenti cure mediche. 40 - Inabile, necessità di assistenza e cure sociali. 30 - In gravi condizioni. È indicata l’ospedalizzazione anche se la morte non è imminente. 20 - Molto grave. Necessaria l’ospedalizzazione con intensa terapia di supporto. 10 - Pre-terminale. 0 - Morto.
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D. Risposta alla terapia. Un aspetto cruciale dell’approccio al paziente neoplastico è rappresentato dalle modalità con cui si valuta la risposta alla terapia. Una risposta completa si ottiene quando si ha la completa scomparsa di ogni evidenza clinica di malattia. La risposta è considerata parziale quando si ha una riduzione > 50% della massa neoplastica. Si considera progressiva una malattia caratterizzata dalla comparsa di nuove lesioni o da un aumento > 25% delle lesioni note. Si definisce recidiva la ricomparsa del tumore una volta che questo abbia adeguatamente risposto alla terapia. Una riduzione del tumore oppure un aumento delle lesioni note che non rientrano nei limiti percentuali sopra descritti porta a considerare la malattia come stabile. Markers tumorali. Nel valutare la risposta alla terapia un ruolo particolare è giocato dai cosiddetti markers tumorali, cioè da particolari sostanze che sono prodotte direttamente dalla cellula neoplastica oppure la cui produzione è indotta dalla presenza delle cellule tumorali. Il marcatore tumorale ideale non esiste e non esistono marcatori specifici per la sola condizione tumorale. Nessun marcatore tumorale oggi disponibile, con l’eccezione forse dell’-fetoproteina (FP) nei cirrotici, ha caratteristiche di sensibilità e specificità tali da consigliare l’impiego per lo screening di una popolazione asintomatica. I markers tumorali non sono infatti di per sé così specifici da consentire isolatamente ed autonomamente di fare diagnosi di tumore, ma rappresentano un forte richiamo nei confronti di certi tumori imponendo un approfondimento diagnostico. Inoltre, in presenza di una specifica e certa diagnosi, quando il tumore diagnosticato è associato con la presenza di livelli elevati di uno specifico marker, il livello di quel marker diventa molto utile per monitorare la risposta alla terapia e sospettare la comparsa di una recidiva. Tra i marker più comunemente utilizzati ricordiamo il CEA (antigene carcinoembriogenetico) utilizzato nel “follow up” dei carcinomi del colon-retto, il PSA per il tumore della prostata, la FP negli epatocarcinomi, la cromogranina A e l’enolasi neurono specifica (NSE) per i tumori di origine neuroendocrina, la gonadotropina corionica umana (HCG) nei tumori di derivazione del trofoblasto, il CA 125 nei tumori ovarici.
PROBLEMI INTERNISTICI DI COMUNE RISCONTRO NEL PAZIENTE ONCOLOGICO L’eterogeneità dei tumori, intesa come eterogeneità di origine cellulare, di localizzazione e di velocità di crescita, la loro capacità di interagire con il microambiente in cui crescono e di produrre fattori e sostanze capaci anche di agire a distanza rendono ragione della complessità dei quadri clinici che il paziente oncologico in senso lato può presentare. I problemi di interesse internistico più comuni sono:
• le sindromi paraneoplastiche; • le complicanze acute; • le manifestazioni infettive.
Sindromi paraneoplastiche Le sindromi paraneoplastiche sono un’eterogenea collezione di segni e/o sintomi in organi lontani dal tumore non dovuti a localizzazione metastatica. Circa il 30-50% dei pazienti oncologici presenta all’esordio o durante il decorso della malattia una sindrome paraneoplastica di entità e gravità variabile. Talune sindromi provocano manifestazioni cliniche gravi o comunque severamente invalidanti, altre invece si manifestano essenzialmente come dati di laboratorio che comunque debbono sempre richiamare l’attenzione sulla possibilità che una neoplasia sia alla base dei dati riscontrati. I principali meccanismi responsabili delle sindromi paraneoplastiche sono: • la sintesi da parte delle cellule neoplastiche e rilascio in circolo di fattori che causano direttamente o indirettamente i segni e sintomi; • la deplezione di fattori normali la cui assenza provoca la sindrome; • la risposta dell’ospite nei confronti del tumore. Le sindromi paraneoplastiche possono essere: sistemiche o organo-specifiche. A. Sindromi paraneoplastiche sistemiche. 1. La manifestazione paraneoplastica sistemica più frequente è la febbre dovuta in genere a liberazione di citochine quali TNF-, IL-1, IL-6. Più raramente la febbre è dovuta ad infezioni occulte e/o misconosciute. I tumori più frequentemente accompagnati da febbre sono l’adenocarcinoma del rene (50% dei casi), i linfomi, soprattutto il linfoma di Hodgkin (40-50% dei casi) e l’epatocarcinoma. 2. La seconda manifestazione paraneoplastica in ordine di frequenza è l’anemia normocitica, normocromica a tipo anemia da disordine cronico, dovuta a produzione di TNF- e IL-1 che inibiscono l’eritropoiesi. 3. Una frequente manifestazione paraneoplastica sistemica è la diatesi trombofilica. Trombosi venose e più raramente arteriose sono una complicanza frequente nei pazienti con neoplasia e spesso sono il segnale della presenza di un tumore occulto. Ne sono un esempio le tromboflebiti migranti (definite segno di Trousseau) frequenti nel carcinoma del pancreas ed in numerosi adenocarcinomi soprattutto a localizzazione addominale. Le possibili cause di trombosi nel paziente neoplastico sono numerose: • l’interazione tra cellule neoplastiche e cellule della linea monocito-macrofagica, che si può facilmente realizzare nel microambiente del tumore primitivo o delle metastasi, induce la secrezione da parte delle cellule monocitarie di citochine quali TNF-, IL-1 e IL-6 che possono causare un danno endoteliale e
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convertire la superficie dei vaso in una superficie trombogenica e nel contempo sono in grado di attivare le piastrine, il fattore XII e il fattore X con aumentata generazione di trombina; • le cellule neoplastiche possono produrre sostanze quali proteasi, “tissue factor” o, nel caso dei tumori epiteliali, mucina ricca di acido sialico, tutte dotate di attività procoagulante; • numerosi chemioterapici utilizzati nella terapia antineoplastica, quali per esempio i composti del platino, hanno un effetto trombogenico; • i cateteri venosi centrali, sempre più spesso utilizzati sia per somministrare chemioterapia sia per nutrizione parenterale possono essere trombogenici attivando le piastrine e fattori della coagulazione quale fattore XII e fattore X. Inoltre i cateteri si possono infettare da parte di germi Gram– che possono rilasciare endotossine o germi Gram+ che possono invece rilasciare mucopolisaccaridi, ambedue capaci di attivare la coagulazione. B. Sindromi paraneoplastiche specifiche. Le più importanti sono le sindromi paraneoplastiche endocrinologiche e metaboliche, quelle ematologiche (in pazienti affetti da tumori solidi) e quelle neurologiche e neuromuscolari. La loro severità va di pari passo con l’aggressività del tumore da cui sono causate. C. Sindromi paraneoplastiche endocrinologiche. Sono causate da sostanze ormonali od ormono-simili prodotte dalle cellule tumorali. La forma più comune è la sindrome di Cushing da aumentata produzione di ACTH ectopico. I tumori più frequentemente responsabili di questa sindrome sono i tumori polmonari (sia a piccole cellule, sia adenocarcinomi) e gli adenocarcinomi in generale. Nei carcinoidi una sindrome di Cushing può essere causata dalla produzione da parte delle cellule neoplastiche di corticotropin-releasing-hormone. D. Sindromi paraneoplastiche metaboliche. Iponatremia, ipercalcemia, ipocalcemia e ipoglicemia non sono infrequenti. 1. Il quadro clinico di iponatremia (in genere asintomatica o modestamente sintomatica tranne che nei casi in cui è particolarmente spiccata) associata ad una aumentata osmolarità urinaria è tipico della sindrome da inappropriata secrezione di ADH (SIADH) dovuta alla produzione e rilascio di sostanze ADH-simili che si verifica nel 15% dei tumori polmonari a piccole cellule e nel 3% dei tumori testa/collo. 2. Ipercalcemia. In numerose neoplasie quali il mieloma multiplo, il carcinoma mammario, il carcinoma bronchiale, il carcinoma della prostata, i tumori testa/collo non è rara l’ipercalcemia e soprattutto essa è sintomatica, spesso anche severamente. L’ipercalcemia può dipendere dalla produzione di citochine come nel mieloma o di Parathyroid-Hormone (PTH) o più spesso ancora di Parathyroid-Hormone-related Peptide (PTHrP) nelle altre neoplasie.
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3. L’ipocalcemia è più comune dell’ipercalcemia, ma è solo raramente sintomatica. 4. L’ipoglicemia può essere causata dalla produzione ectopica di insulina negli insulinomi, oppure può accompagnarsi al grande consumo metabolico che si realizza in presenza di sarcomi particolarmente voluminosi. E. Sindromi paraneoplastiche ematologiche (in tumori solidi). In termini molecolari sono meno chiaramente definite delle sindromi endocrino-metaboliche, ma in termini clinici sono certamente più frequenti, ancorché quasi mai sintomatiche. Circa il 3% dei pazienti con tumore renale, il 10% dei pazienti con epatocarcinoma ed il 15% dei pazienti con emangioblastoma cerebellare hanno una poliglobulia causata da una produzione ectopica di eritropoietina da parte delle cellule neoplastiche. Oltre il 30% dei pazienti con tumori solidi hanno una granulocitosi (intesa come numero di granulociti neutrofili > 8000/l). Assai spesso questa granulocitosi è dovuta ad infezioni occulte o inapparenti oppure è una reazione nei confronti di fenomeni di necrosi tumorale. In altri casi è verosimilmente dovuta alla produzione ectopica di fattori di crescita quali Granulocyte Colony Stimulating Factor (G-CSF) o Granulocyte-Monocyte Colony Stimulating Factor (GM-CSF). Nel 35% dei pazienti con piastrinosi si evidenzia una diagnosi di cancro, soprattutto del polmone e del tratto gastrointestinale. In alcuni casi la piastrinosi è conseguente alla produzione ectopica di IL-6 che stimola la produzione di piastrine. Raramente in pazienti con tumori linfoproliferativi o polmonari si ha eosinofilia, dovuta alla produzione di IL-5. F. Sindromi paraneoplastiche neurologiche e neuromuscolari. Sono sindromi dovute in genere a meccanismi immunologici e per la maggior parte possono essere raggruppate in due gruppi fondamentali: sindromi dovute alla produzione di autoanticorpi e sindromi dovute alla presenza di una gammopatia monoclone. 1. Sindromi dovute alla produzione di autoanticorpi. Gli anticorpi sono diretti contro determinanti antigenici espressi sulla membrana o nel citoplasma delle cellule neoplastiche, ma cross-reagiscono contro determinanti antigenici espressi anche sulla superficie di cellule del sistema nervoso. Queste sindromi paraneoplastiche sono una prova del fatto che il sistema immunitario è oggettivamente in grado di riconoscere strutture antigeniche tumorali. Il problema è che, per via della crossreattività, il risultato di questo riconoscimento non è una difesa contro il tumore, ma, al contrario, un danno, spesso devastante, del sistema nervoso del paziente stesso. Questi danni possono riguardare sia il sistema nervoso centrale, sia i nervi periferici, sia la giunzione neuromuscolare. Un esempio di quest’ultimo tipo di danno è la sindrome miasteniforme di Lambert-Eaton che si verifica in pazienti con tumore polmonare a piccole cellule. Un altro esempio è la miastenia gravis che si associa alla presenza di un timoma nel 10-15% dei
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casi. Meccanismi autoimmuni basati soprattutto sull’azione di T linfociti citotossici appaiono essere responsabili della dermatomiosite che si associa alla presenza di una neoplasia nel 15% dei casi.
ci da parte del tessuto neoplastico. Questo tipo di complicazione si verifica soprattutto nel tumore polmonare, nel tumore mammario, nei tumori del tratto gastrointestinale e nei linfomi. Le manifestazioni più frequenti sono:
2. Sindromi dovute alla presenza di una gammopatia monoclonale in cui gli anticorpi monoclonali circolanti hanno una reattività specifica nei confronti di determinanti antigenici presenti sulla superficie delle cellule nervose. Le forme più frequenti sono dovute ad una paraproteina IgM diretta contro la Myelin-Associated Glycoprotein (MAG) che causa neuropatie demielinizzanti.
• la compressione sul midollo spinale da parte di una massa che partendo dai linfonodi paraspinosi toracici o retroperitoneali si accresce attraverso i forami intervertebrali; • la compressione sulle leptomeningi e sul sistema nervoso centrale da parte di una massa che si accresce a partire dall’anello del Waldeyer e dai seni paranasali; • sindrome mediastinica (o sindrome della vena cava superiore) da compressione esercitata da linfonodi ilo-mediastinici sulle strutture vascolari, aeree e nervose del mediastino; • ittero colestatico da compressione delle vie biliari; • insufficienza renale da compressione sulle vie urinarie; • occlusione intestinale da massa intrinseca; • ileo meccanico da compressione estrinseca; • trombosi della vena cava inferiore da compressione estrinseca (oppure legata o favorita da un’eventuale trombofilia);
Infezioni nel paziente neoplastico Le infezioni rappresentano la causa più importante di mortalità e morbilità nel paziente neoplastico. La maggior parte delle infezioni sono una diretta conseguenza del trattamento soprattutto chemioterapico. Questo infatti determina sia una neutropenia, ad intervalli regolari e prevedibili, sia a lungo termine un’immunosoppressione anche significativa. Ambedue queste situazioni favoriscono i più disparati tipi di infezione, incluse infezioni virali, micotiche e infezioni da germi opportunisti. Questa realtà può essere ulteriormente peggiorata nei casi in cui si sia reso necessario l’intervento di splenectomia come nei linfomi o in cui la biologia stessa della malattia provochi una profonda immunodepressione del compartimento B linfocitario, come nel mieloma multiplo e nella leucemia linfatica cronica, o del compartimento T linfocitario, come nel morbo di Hodgkin. È poi vero che nel singolo paziente possono esistere, in base al tipo istologico di tumore e soprattutto alla sua localizzazione, diverse situazioni cliniche contingenti che favoriscono specifiche infezioni. Per esempio una crescita neoplastica che tenda a comprimere od occludere organi cavi quali gli ureteri, il coledoco, il colon porterà inevitabilmente ad una stasi di liquidi all’interno dell’organo compresso e ad una facile infezione batterica dello stesso. Lo stesso dicasi per i tumori polmonari sia primitivi sia metastatici che, ostruendo o comprimendo i bronchi, possono provocare severe infezioni broncopolmonari. Oppure nei tumori capo-collo si possono facilmente creare soluzioni di continuo della cute e delle mucose con sovrainfezione in genere batterica che può causare celluliti ed estese infezioni cutanee. Tutti i tipi di infezione menzionate, soprattutto in presenza di una situazione di immunodepressione, possono facilmente diventare disseminate e dare un quadro di sepsi.
Complicanze acute in oncologia Le complicanze acute in oncologia sono fondamentalmente di tre tipi: A. Complicanze legate a diretta espansione della malattia che porta alla compressione di organi specifi-
B. Complicanze legate a infiltrazione di organi e tessuti da parte di cellule neoplastiche. Ne sono tipici esempi la pancitopenia da infiltrazione del midollo osseo, l’ittero da infiltrazione disseminata del parenchima epatico e l’insufficienza polmonare restrittiva da infiltrazione polmonare. C. Complicanze metaboliche. Una complicanza metabolica comune a tutti i pazienti con una massa tumorale particolarmente cospicua, quale si può avere nelle leucemie con iperleucocitosi e nei linfomi cosiddetti “bulky”, cioè con masse linfonodali particolarmente voluminose, è l’iperuricemia, conseguente al turnover metabolico. Questa è ovviamente più severa nei soggetti che hanno di base una contrazione della funzionalità renale e viene drammaticamente peggiorata dalla terapia citoriduttiva, se non accompagnata da adeguata idratazione e trattamento con uricosurici.
PRINCIPI GENERALI DI TERAPIA ANTINEOPLASTICA Lo scopo primario della terapia antineoplastica è l’eradicazione della malattia. Se questa non è realizzabile, lo scopo della terapia diventa la palliazione, cioè il miglioramento della sintomatologia e l’ottimizzazione della qualità di vita per il più lungo tempo possibile. Ogni terapia antineoplastica provoca effetti collaterali e, in molti casi, l’indice terapeutico, cioè il bilancio efficacia/tossicità, è spesso molto stretto al punto che la maggior parte delle terapie è al limite.
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In termini generali gli approcci terapeutici antineoplastici sono fondamentalmente quattro: chirurgia, radioterapia, chemioterapia e terapie biologiche A. Chirurgia. Può essere preventiva, per esempio rimuovendo lesioni precancerose, terapeutica (occorre ricordare che circa il 40% dei tumori può essere trattato con successo con tecniche chirurgiche, ma anche che il 60% circa dei pazienti hanno, alla diagnosi, lesioni metastatiche che non possono essere rimosse o trattate chirurgicamente), oppure palliativa (per es., bypass chirurgico intestinale per rimuovere una massa che occlude). B. Radioterapia. È basata sul concetto che l’azione letale delle radiazioni trova nei tumori dei bersagli sensibili perché le cellule neoplastiche hanno difetti nel DNA repair e quindi danni anche subletali diventano in realtà letali. I raggi più comunemente utilizzati sono i raggi X ed i raggi : i primi vengono generati da acceleratori lineari, i secondi dal decadimento di sorgenti radioattive di isotopi quale il cobalto. Le modalità di somministrazione dei raggi a scopo antineoplastico sono tre: • a via più comune è la terapia a fasci esterni in cui fasci di radiazioni vengono generati a distanza e mirati sul tumore; • la brachiterapia, in cui sorgenti di radiazione vengono incapsulate e impiantate direttamente all’interno dei tumore; • la terapia sistemica in cui radionuclidi vengono somministrati per via sistemica, ma sono indirizzati in vario modo al tumore. C. Chemioterapia. Implica nell’accezione più comune l’impiego di farmaci citostatici. La chemioterapia è utilizzata soprattutto nei tumori metastatici, mentre le lesioni tumorali isolate sono in genere trattate con terapia chirurgia e/o radioterapia. La chemioterapia può essere utilizzata anche in questi casi o come adiuvante alla chirurgia e alla radioterapia o quando le misure chirurgiche e/o radioterapiche falliscono. Gli schemi chemioterapici possono essere basati sull’impiego di un singolo farmaco o, più comunemente, sull’associazione di più farmaci con diverso meccanismo d’azione (polichemioterapia). La chemioterapia può essere utilizzata in regimi chemioterapici a dosi standard o convenzionali: in questi casi gli effetti collaterali sono acuti e reversibili e consistono in genere in mielosoppressione transitoria eventualmente associata a tossicità gastrointestinale. Oppure si possono utilizzare i cosiddetti schemi di terapia ad alte dosi in cui gli effetti collaterali possono essere assai severi e vengono minimizzati con l’autotrapianto di cellule staminali. D. Terapie biologiche. Includono l’immunoterapia, gli agenti che inducono la differenziazione cellulare
(per es., acido transretinoico) e le nuove terapie che interferiscono con i meccanismi molecolari che stanno presuntivamente alla base di specifiche neoplasie (per es., l’inibitore del BCR/ABL nella leucemia mieloide cronica). I quattro diversi approcci terapeutici sono spesso utilizzati in combinazione nell’intento di ottenere la remissione completa della malattia.
Studi clinici controllati Il valore di un trattamento antineoplastico viene valutato attraverso i risultati di un lavoro prospettico pianificato ed in condizioni controllate (studi clinici controllati). Questi studi sono realizzati attraverso protocolli d’indagine che, partendo da un preciso razionale scientifico, stabiliscono gli obiettivi da raggiungere, i criteri con cui arruolare i pazienti ed i criteri di valutazione delle risposte. I risultati vengono analizzati con un’opportuna definizione statistica. Ogni persona che prende parte ad uno studio clinico controllato deve dare il proprio consenso informato ed ogni protocollo di studio viene valutato da un comitato etico. Gli studi clinici controllati si articolano in tre fasi. A. Fase I. In questa fase si ricerca la dose massima tollerata di un nuovo farmaco ad attività (e tossicità) sconosciute. Il farmaco può essere valutato in associazione ad altri farmaci (polichemioterapia). La somministrazione del farmaco avviene incrementando le dosi secondo lo schema di Fibonacci: n; 2n (aumento del 100%); 3,3n, aumento del 67%; 5n, aumento del 50%; 7n, aumento del 40%. In linea teorica, il farmaco dovrebbe essere provato su soggetti sani, ma in genere viene testato su soggetti con neoplasie in fase avanzata non altrimenti trattabili. B. Fase II. In questa fase lo studio è orientato alla ricerca dell’indice terapeutico, cioè l’entità della risposta alla somministrazione del farmaco in un determinato tipo di tumore, ed alla valutazione degli effetti collaterali. In questa fase non è prevista la presenza di un gruppo di controllo cosicché risulta difficile e non attendibile estrapolare dati sulla sopravvivenza. Questi studi sono propedeutici agli studi di fase III. C. Fase III. Questi studi rappresentano l’ultima fase nell’indagine sull’attività e la tossicità di un farmaco e forniscono dati su un campione il più vasto possibile (studi multicentrici) e quindi dati attendibili sia sull’efficacia del farmaco sia sulla sopravvivenza dei pazienti trattati.
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C A P I T O L O
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TUMORI DELL’APPARATO RESPIRATORIO E. LONGHINI, R. PARDI, V. GREGORC
TUMORI DEL POLMONE (*) Il cancro del polmone è certamente uno dei tumori più frequenti ed associato ai più alti tassi di mortalità. L’incidenza di questa neoplasia è in continuo aumento ed è attualmente stimata in circa 60 casi su 100.000 abitanti all’anno nei paesi industrializzati, con una mortalità annua pari a 50 casi su 100.000. Il tumore polmonare rappresenta nell’uomo circa il 22% di tutte le forme neoplastiche, mentre nella donna, con un’incidenza relativa del 6-8%, occupa il terzo posto, essendo inferiore soltanto a quello mammario e uterino. Dai dati epidemiologici più recenti risulta che questa neoplasia, un tempo molto rara nel sesso femminile, ha presentato un notevole incremento di incidenza nelle donne dall’immediato dopoguerra ad oggi (più del 100% negli ultimi 10 anni), tanto che il divario esistente tra i due sessi va lentamente attenuandosi. Le ragioni di questo fenomeno devono essere in particolar modo ricercate nella crescente abitudine al fumo tra i soggetti di sesso femminile. A. Eziopatogenesi. L’esatta eziologia del tumore polmonare, come della maggior parte delle neoplasie, non è nota, ma sono stati individuati in modo inequivocabile alcuni fattori di rischio, che agendo isolatamente o in associazione tra loro appaiono fortemente implicati nello sviluppo di questa forma di tumore. Tra questi il maggior responsabile del grande aumento di incidenza delle neoplasie broncopolmonari è certamente il fumo di tabacco (in particolare quello di sigaretta, più profondamente aspirato), la cui azione cancerogena è ben documentata da anni sia sperimentalmente sia sulla base dei rilievi epidemiologici ottenuti sulla popolazione. Esiste una precisa correlazione tra la quantità di sigarette fumate ed il rischio di sviluppare una neoplasia broncopolmonare: questo rischio è aumentato di circa 10 volte, rispetto alla popolazione dei non fumatori, per (*) Con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di I. Sassi.
i fumatori di 20 sigarette al giorno e di 60-70 volte per coloro che fumano in media 40 sigarette al giorno per vent’anni o più, tendendo a ridursi notevolmente nei soggetti che smettono di fumare, senza tuttavia riportarsi ai valori presenti tra i non fumatori. Il potenziale cancerogeno del fumo di tabacco è per lo più legato alla presenza di idrocarburi aromatici, come il 3,4 dibenzopirene, che vengono liberati come prodotti della combustione del tabacco. Alcuni ricercatori sostengono tuttavia che tali composti sarebbero inalati in quantità insufficienti a determinare l’evoluzione in senso neoplastico dell’epitelio di rivestimento bronchiale: essi agirebbero invece come cocancerogeni, sinergizzando con l’azione di altri agenti cancerogeni presenti nell’ambiente per effetto dell’inquinamento atmosferico (si veda in seguito). Le lesioni istologiche della mucosa bronchiale, conseguenti alla cronica inalazione di fumo di tabacco e ricordate nel capitolo dedicato alle malattie croniche ostruttive polmonari, sono la più diretta espressione dell’azione lesiva di queste sostanze. Le più rilevanti anomalie osservabili sono rappresentate da aree di metaplasia squamosa dell’epitelio bronchiale e dalla comparsa di elementi cellulari atipici con nuclei dismetrici e ipercromici (displasia). Il riscontro di una maggiore incidenza del carcinoma polmonare, indipendentemente dal fumo, nei parenti di fumatori portatori di tale neoplasia, ha dato origine ad una serie di studi sulla possibile predisposizione genetica allo sviluppo di questo tumore. È recente la scoperta che l’inducibilità dell’enzima aril-idrocarbon-idrossilasi (AHH), che catalizza l’ossidazione degli idrocarburi policiclici con formazione dei composti effettivamente cancerogeni, è soggetta a controllo genetico ed è maggiore nei pazienti colpiti da carcinoma polmonare: se questo dato fosse confermato, chiamerebbe in causa il substrato genetico dell’individuo nelle suscettibilità dell’azione nociva dei fattori ambientali. Oltre al fumo di tabacco, anche l’inquinamento atmosferico è uno dei fattori più strettamente connessi allo
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sviluppo di neoplasie broncopolmonari, essendo infatti queste malattie più frequenti nelle aree urbane industrializzate, ove i contaminanti ad azione cancerogena nota (ancora una volta si tratta di idrocarburi aromatici derivati in questo caso dalla combustione del petrolio) presentano la più alta concentrazione atmosferica. È interessante notare, a titolo di esempio, che l’incidenza di neoplasie polmonari nell’area metropolitana della città di Londra è andata riducendosi negli ultimi 15-20 anni, parallelamente alla riduzione del grado di inquinamento atmosferico. Tra gli altri agenti implicati nella genesi delle neoplasie broncopolmonari, dev’essere citato l’asbesto, polvere inorganica responsabile dell’asbestosi alla quale è associato un elevato rischio di sviluppo di neoplasie (polmonari, pleuriche e del tratto gastroenterico), specie se la malattia colpisce soggetti dediti al fumo. Vanno infine considerate altre sostanze che si sono dimostrate potenzialmente cancerogene nelle categorie di lavoratori esposti, come il cromo, il nickel, l’uranio (per l’emissione di radioattività), il clorometil, il metiletere, l’anidride arseniosa ed altri prodotti industriali. I carcinomi ad insorgenza periferica spesso hanno sede in cicatrici; queste possono essere l’esito di infarti, bronchiectasie e processi tubercolari. Nelle aree cicatriziali l’epitelio bronchiale viene sostituito da cellule che possono somigliare agli elementi dell’epitelio dei bronchioli terminali o dell’epitelio squamocellulare. Queste cellule presentano forme atipiche dalle quali potrebbe originare il carcinoma. B. Anatomia patologica. La classificazione istologica del carcinoma broncopolmonare proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede quattro principali tipi istologici, che da soli costituiscono più del 95% delle neoplasie di questa sede: • • • •
carcinoma epidermoide (35-40%); adenocarcinoma (25-30%); carcinoma anaplastico a piccole cellule (15%); carcinoma anaplastico a grandi cellule (15%).
L’aggettivo “broncogeno” legato a questi tumori ne indica l’origine dai bronchi (sebbene gli adenocarcinomi insorgano più spesso dai bronchioli che non dai bronchi); istogeneticamente tutte queste neoplasie derivano dall’endoderma: questo spiega il riscontro, relativamente frequente, di forme miste, con la presenza contemporanea di più istotipi in una stessa lesione. Il valore della classificazione sopraccitata è legato a diversi comportamenti di crescita, di prognosi e di risposta terapeutica dei diversi istotipi. La forma più strettamente associata al fumo di sigaretta è il carcinoma epidermoide che si sviluppa, nei 2/3 dei casi, nelle porzioni centrali del polmone, comunemente a partenza dai bronchi maggiori; tuttavia, in alcuni casi si può osservare interessamento della periferia polmonare, in genere in associazione con esiti cicatriziali. Come le altre forme di carcinoma broncogeno, esso è più frequente nei lobi superiori. Nei bronchi esso tende ad assumere prevalente crescita intraluminale; si estende in direzione prossimale, infiltran-
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do spesso per contiguità i linfonodi dell’ilo polmonare. La variante più comune tra i non fumatori è rappresentata dall’adenocarcinoma; questa forma si osserva con uguale frequenza nel sesso maschile e femminile, a differenza di quanto evidenziabile per gli altri istotipi. Nel 75% dei casi insorge in posizione periferica con tendenza alla crescita verso la pleura, tanto da simulare, a volte, il mesotelioma (carcinoma pseudomesoteliomatoso del polmone). Una sottoclasse dell’adenocarcinoma è il carcinoma bronchiolo-alveolare, che se ne discosta per alcune particolarità. Il range di insorgenza di questa neoplasia è più ampio che negli altri casi (dal 2° al 9° decennio di vita). Si può presentare con tre differenti quadri di crescita: • come nodulo periferico solitario; • come noduli multipli, frequentemente bilaterali; • simulando un focolaio polmonitico, quando produce grosse quantità di muco che riempiono gli spazi alveolari (Fig. 40.1). Caratteristicamente si accresce nelle strutture esistenti (bronchioli, alveoli) senza distruggerle. Tra gli istotipi elencati, quello dotato del più elevato grado di malignità è il carcinoma anaplastico a piccole cellule (microcitoma), la cui variante più comune, per le caratteristiche citomorfologiche, viene anche definita “a chicco d’avena” (oat cells nella terminologia anglosassone). Il riscontro di questa neoplasia condiziona grandemente le successive scelte terapeutiche, per cui alcuni Autori, a scopo pratico, preferiscono distinguere i carcinomi a piccole cellule da tutti gli altri istotipi (carcinomi non a piccole cellule). Questa forma deriverebbe da cellule di origine endodermica con differenziazione neuroendocrina. Al microscopio elettronico si è osservata la presenza di granuli neurosecretori; questi granuli, nel polmone sano, sono caratteristici di alcune cellule, denominate del Kultschitsky, presenti nell’epitelio di bronchi e bronchioli singolarmente (dove assumerebbero un ruolo non meglio precisato nella modulazione locale della respirazione) o in aggregati, i corpi neuroepiteliali, con funzione di chemorecettori. Questi elementi possono produrre serotonina, calcitonina ed altri ormoni polipeptidici. È opinione comune che i carcinomi anaplastici a piccole cellule derivino da questi elementi; queste osservazioni hanno spinto a studiare la relazione esistente tra il microcitoma e il carcinoide, che non sarebbe altro che una forma più differenziata della stessa malattia. La maggior parte dei carcinomi a piccole cellule si accresce in sede centrale: sebbene possano formare grosse masse intraluminali, più comunemente crescono intorno al bronco di origine e tendono a circoscriverlo, cosicché il quadro broncoscopico può apparire pressoché normale. Infine, il carcinoma anaplastico a grandi cellule è un tumore che viene diagnosticato qualora non compaia nessuno degli aspetti istologici caratteristici delle altre tre classi. In genere si tratta di forme localizzate perifericamente. La diffusione a distanza del carcinoma broncogeno avviene per via linfatica. Sedi più frequenti di metasta-
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Figura 40.1 - Aspetti alla TC del torace di carcinoma bronchiolo-alveolare. (A) Lesione solitaria a limiti maldefiniti. (B) Opacità sottopleuriche simili a focolai di polmonite con pseudocavitazione (bronchi contenenti aria). (C) Opacità acinari confluenti disseminate. (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003.)
tizzazione sono, oltre ai linfonodi regionali, le ghiandole surrenali, il fegato, l’encefalo e le ossa. C. Fisiopatologia. La storia naturale del tumore polmonare ha inizio con le atipie citologiche proprie dell’evoluzione neoplastica a livello dell’epitelio di rivestimento bronchiale, e prosegue con lo stadio di carcinoma in situ (in cui non c’è superamento della membrana basale) fino all’invasione delle strutture contigue e di quelle distanti attraverso la disseminazione metastatica. I sintomi e i segni legati a questa evoluzione sono purtroppo tardivi nella maggior parte dei casi, particolarmente per alcuni tipi istologici del cancro del polmone, che presentano elevato grado di malignità e tendono ad accrescersi in modo silente. L’ostruzione del bronco nel quale il tumore ha avuto origine è una delle evenienze più comuni e tende ad accompagnarsi ad infezioni broncopneumoniche recidivanti, causate dal ristagno di secrezioni distalmente al segmento stenosato e perciò caratteristicamente insorgenti sempre nella stessa sede. Nei casi in cui la stenosi del bronco colpito è completa si può determinare il totale riassorbimento dell’aria (atelettasia) contenuta nel segmento polmonare a valle dell’ostruzione, che può essere causa di insufficienza respiratoria quando si abbia l’interessamento di un bronco di grosso calibro. Il coinvolgimento di strutture periferiche rispetto al focolaio di partenza del tumore può avere conseguenze cliniche rilevanti: è il caso dell’invasione della cavità pleurica, che molto spesso produce la formazione di versamenti a carattere essudativo o francamente emorragico. L’estensione della neoplasia alla parete toracica, con compressione e irritazione dei fasci nervosi sensitivi intercostali, può essere causa di intensa sintomatologia dolorosa, quasi costantemente assente quando il tumore si accresce solo in profondità (il parenchima polmonare è infatti sprovvisto di innervazione sensitiva).
L’accrescimento del tumore a livello del mediastino può esitare in un complesso assai vario di manifestazioni cliniche (che realizzano il quadro della cosiddetta sindrome mediastinica), dovute alla compressione delle molteplici strutture anatomiche presenti in questa sede: sono così comuni disturbi legati al coinvolgimento del nervo frenico (singhiozzo, paralisi diaframmatica), del nervo laringeo ricorrente, che fornisce l’innervazione motoria dell’organo di fonazione (disfonia, afonia), dei grossi vasi venosi afferenti al cuore destro (stasi venosa e formazione di edemi nella metà superiore del corpo), dell’esofago (disfagia) o del pericardio (con formazione di versamenti intrapericardici). Accanto alle complicanze legate all’accrescimento locale del tumore, ve ne sono altre extratoraciche dovute alla disseminazione metastatica dal focolaio primitivo, che possono coinvolgere numerosi organi o apparati; vi è infine un eterogeneo gruppo di disturbi che sono indirettamente legati alla presenza del tumore e che si manifestano a distanza da esso: tali disturbi vengono definiti sindromi paraneoplastiche e tra esse le più comuni sono le cosiddette sindromi da produzione ormonale ectopica, conseguenti all’azione periferica, sui corrispettivi organi bersaglio, di sostanze ad attività similormonale prodotte nel contesto della neoplasia. Le sindromi da produzione ormonale ectopica non sono complicanza esclusiva delle neoplasie broncogene, anche se questo tipo tumorale è il più comunemente associato alla loro presenza. L’ipotesi patogenetica corrente sull’origine delle sindromi da produzione ormonale ectopica è che esse siano dovute alla differenziazione della cellula tumorale verso uno stato embrionale in cui acquisirebbe la capacità di produrre ormoni. Alternativamente è stato ipotizzato che queste attività siano dovute al coinvolgimento nella crescita neoplastica di elementi cellulari specializzati presenti nel contesto dell’epitelio di rivestimento bronchiale e in grado di produrre sostanze ormonali: tali elementi vengono denominati cellule
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Tabella 40.1 - Sindromi paraneoplastiche. FREQUENZA IN CORSO DI TUMORI POLMONARI (%)
Da produzione ormonale ectopica
ACTH, ADH, PTH, 12 LTH, GH, MSH, eritropoietina, ecc. Da interessamento Ippocratismo 30 1-10 scheletrico digitale, osteopatia ipertrofizzante Neuromuscolari Degenerazione 1 cerebellare, polineuropatie, sindromi miasteniche Emocoagulative Tromboflebiti migranti 1-8 Cutanee Acantosis nigricans, <1 dermatomiosite Renali Sindrome nefrosica <1
APUD (Amine Precursor Uptake and Decarboxylation). Una parziale classificazione delle sindromi paraneoplastiche è data nella tabella 40.1. D. Clinica. Il cancro del polmone insorge prevalentemente in soggetti di sesso maschile ed in età compresa tra i 50 e i 60 anni. L’esordio della malattia è assai subdolo e non di rado al momento della diagnosi (che nel 10-15% dei casi è casuale, nel corso di accertamenti clinici attuati per altri motivi) il tumore presenta già dimensioni notevoli e metastatizzazione a distanza. Tra i sintomi più precoci va considerata la tosse, particolarmente evidente quando il tumore si accresce in prossimità della biforcazione tracheale o delle prime generazioni bronchiali, che sono ricche in recettori irritativi; se il tumore è molto periferico, questo segno può mancare del tutto. La tosse conseguente all’irritazione bronchiale promossa dal tumore in accrescimento è tipicamente stizzosa, non produttiva, con la possibile eccezione del carcinoma bronchiolo-alveolare, variante rara dell’adenocarcinoma, in cui talora le cellule tumorali producono in grande quantità secreto mucoso ad alta viscosità, che viene espulso all’esterno con la tosse. L’eventualità che il paziente si rivolga al medico a causa della tosse è purtroppo infrequente, in quanto nella maggior parte dei casi il cancro del polmone colpisce soggetti dediti al fumo da anni e perciò tossicolosi cronici. Tra i segni più indicativi, anche se spesso tardivi, va ricordata la presenza di sangue nell’espettorato, conseguente all’erosione di piccoli vasi da parte della neoplasia. Il sangue può comparire sotto forma di striature ematiche nell’espettorato (emoftoe) o in quantità molto superiori (emottisi) e dovrà essere considerato come secondario ad una neoplasia broncogena fino a prova contraria. L’esame obiettivo toracico del paziente in questo stadio può essere del tutto negativo, particolarmente se la neoplasia è situata in profondità. Segni indicativi possono essere rappresentati dal rilievo di un’area circoscritta di ipofonesi percussoria (si parla anche di ottusità “sospe-
sa”, se la regione affetta non è alla base del polmone) eventualmente associata alla presenza di ronchi o sibili limitati ad una zona ristretta, e prodotti dall’azione compressiva della neoplasia o dalla scabrosità delle pareti bronchiali se l’accrescimento del tumore è endoluminale. Come si è ricordato nelle pagine precedenti, la compressione bronchiale prodotta dal tumore può determinare l’insorgenza di un’atelettasia nella porzione di parenchima a valle della lesione. In questo caso l’obiettività toracica sarà in grado di dare maggiori informazioni. La sintomatologia può divenire imponente se il tumore ha tendenza ad accrescersi e ad invadere le strutture contigue al polmone, come la sierosa pleurica, la parete toracica o gli organi mediastinici. L’invasione del cavo pleurico potrà esitare nella formazione di un versamento, spesso a carattere emorragico, che darà luogo, se di sufficiente entità, ad un quadro semeiologico caratteristico. Le cause più frequenti di versamenti pleurici neoplastici sono differenti secondo il sesso. Nell’uomo, circa la metà dei casi è da attribuire a carcinomi polmonari; il 20% dei casi è in relazione a neoplasie ematologiche (prevalentemente linfomi), il 7% circa a neoplasie del tratto gastroenterico, il 6% a neoplasie del tratto genitourinario. Nella donna, la maggioranza dei casi è causata da carcinomi mammari; al secondo posto seguono, con la stessa quota (20% circa), le neoplasie di derivazione genitale (prevalentemente carcinomi ovarici) e i tumori polmonari. Nel 10% dei casi non è riconoscibile una sede primitiva. Una diagnosi citologica è possibile sul liquido prelevato con toracentesi in circa l’8090% dei casi, a condizione che ne sia inviato in laboratorio un campione adeguato (almeno 250 ml). Un’evenienza abbastanza comune (soprattutto per le forme epidermoidi) è quella di un’estensione locale della neoplasia in corrispondenza dell’apice polmonare, con compressione di alcune radici nervose emergenti dai metameri cervicali (il plesso brachiale in particolare): la conseguenza è una sindrome dolosa caratteristica a livello del collo, spalle e arto superiore omolaterale (sindrome di Pancoast, Fig. 40.2). In questi casi si ha spesso il contemporaneo interessamento del ganglio cervicale inferiore, ove decorrono fibre simpatiche destinate all’innervazione di alcuni muscoli pupillari e retrobulbari. L’interruzione di queste fibre, che determinano dilatazione pupillare e tensione delle fibre muscolari retrobulbari, si accompagna a miosi pupillare (diminuzione del diametro pupillare), enoftalmo (infossamento del bulbo oculare) e ptosi palpebrale (abbassamento della palpebra superiore) omolaterali, in un quadro definito sindrome di Claude Bernard-Horner. Come già ricordato, l’invasione del mediastino da parte della massa neoplastica può dare luogo alla compressione di strutture nervose, vascolari dell’esofago o all’interessamento del foglietto pericardico. Il quadro che ne risulta, detto sindrome mediastinica, può essere costituito da uno o più sintomi o segni quali disfagia, disfonia (o afonia), aritmie cardiache (da irritazione delle fibre simpatiche che innervano il miocardio), turgore delle vene del collo e degli arti superiori, edemi nella metà superiore del tronco e al volto (edema a mantellina).
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le epigastriche, realizzando una comunicazione tra la cava superiore e la cava inferiore (la corrente ematica nel circolo superficiale sarà perciò diretta dall’alto verso il basso) (Fig. 40.3).
Figura 40.2 - Carcinoma bronchiale: opacità del lobo superiore destro per disventilazione. (Da J. Chrétien, Pneumologia, Masson, Milano, 2a ed., 1984)
La sindrome da compressione della vena cava superiore si realizza più spesso, ma non esclusivamente, a causa dell’invasione del mediastino da parte di un carcinoma broncogeno: tra le altre condizioni responsabili di questo complesso quadro sintomatologico vanno ricordati i linfomi, le voluminose iperplasie tiroidee (quando l’organo è dislocato in sede retrosternale) e gli aneurismi del tratto ascendente dell’aorta. Per una descrizione più dettagliata delle manifestazioni che delineano la sindrome mediastinica e delle varie patologie che possono determinarla si rimanda al capitolo 21. In alcuni casi, infine, il tumore broncogeno può dare segno di sé attraverso la comparsa di manifestazioni cliniche solo indirettamente legate alla sua presenza (sindromi paraneoplastiche): secondo alcuni rientrano in questo gruppo anche i disturbi costituzionali, che frequentemente accompagnano ogni neoplasia maligna in stadio avanzato, come la febbre, l’anemia, l’anoressia e il progressivo decadimento organico che conduce allo stato di “cachessia neoplastica”. In senso più ristretto, tuttavia, le sindromi paraneoplastiche comprendono le condizioni cliniche esposte nella tabella 40.1, tra le quali le più frequenti sono quelle legate alla produzione ectopica, da parte del tumore, di sostanze ad attività endrocrina. Tra le sindromi pseudoendocrine più frequentemente legate alla presenza di un cancro del polmone (specie nella variante a piccole cellule) vi è quella dovuta alla
La compressione di grossi vasi venosi in arrivo al cuore destro può rendere difficoltoso il ritorno venoso e in alcuni casi (qualora si abbia la completa occlusione del vaso) determinare l’insorgenza di circoli collaterali anastomotici, che consentono comunque lo scarico del sangue venoso tributario della vena cava superiore nel cuore destro. • Se la compressione viene esercitata al di sopra dello sbocco della vena azygos, il circolo anastomotico si sviluppa in profondità e quindi non è accessibile all’ispezione. Lo scarico del sangue proveniente dalla vena cava superiore avviene attraverso l’azygos, sfruttando le numerose anastomosi esistenti tra il plesso vertebrale (tributario della vena succlavia) e le vene intercostali (tributarie dell’azygos e della emiazygos). • Se la compressione venosa è al di sotto dello sbocco dell’azygos, il circolo collaterale si sviluppa a partire dall’azygos stessa, nella quale la corrente ematica si inverte e attraverso anastomosi profonde (plesso lombare) si scarica nella cava inferiore. • Solo nel caso in cui venga direttamente compresso lo sbocco dell’azygos nella cava superiore, tenderà a crearsi un circolo collaterale superficiale (perciò visibile) che comprende le vene toraciche laterali e quel-
Figura 40.3 - Rappresentazione schematica della distribuzione dei circoli collaterali venosi in corso di sindrome mediastinica con ostruzione della vena cava superiore.
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produzione di ormone adrenocorticotropo (o di molecole strutturalmente correlate) che si realizza nel 5% circa dei pazienti colpiti da questa neoplasia. In questi casi, tuttavia, si hanno di rado manifestazioni tipiche dell’ipercorticosurrenalismo, sia per i livelli relativamente ridotti dell’ormone circolante, sia perché la sopravvivenza di questi pazienti raramente si protrae fino a consentire l’espressione della sindrome conclamata. I disturbi più comuni sono perciò rappresentati da ipokaliemia, ridotta tolleranza al glucosio, ipertensione arteriosa, edemi e atrofia della muscolatura degli arti. Le caratteristiche della funzionalità surrenalica che consentono di riconoscere una secrezione ectopica di ACTH sono la perdita delle normali variazioni nictemerali nella increzione di ACTH e cortisolo e la mancata soppressione dell’increzione di cortisolo dopo la somministrazione di alte dosi di steroidi. Seconda in ordine di frequenza tra le sindromi pseudoendocrine paraneoplastiche, l’increzione di inappropriata quantità di ormone antidiuretico (ADH) (sindrome di Schwartz-Bartter) compare nell’1-2% dei pazienti affetti da microcitoma polmonare e nel 70% dei casi è conseguente alla presenza di questo tipo di tumore. I disturbi clinici derivano in questo caso dalla ridotta osmolalità plasmatica e dall’iponatriemia che accompagnano l’inadeguata azione della sostanza a livello tubulare, e consistono per lo più in manifestazioni neurologiche (astenia, letargia, sopore e in seguito crisi convulsive e alterazioni dello stato di coscienza fino al coma). La diagnosi di inappropriata increzione di ADH viene eseguita documentando la presenza di iponatriemia ed iposmolalità plasmatica in associazione ad una osmolalità urinaria che risulta non particolarmente ridotta. Molto più rare (meno dell’1% dei casi) sono le altre sindromi pseudoendocrine paraneoplastiche, tra le quali vanno ricordate quelle conseguenti ad iperproduzione di ormone paratiroideo (che produce ipercalcemia), eritropoietina (poliglobulia) e prolattina (galattorrea, ginecomastia). La sindrome ipercalcemica, più spesso osservabile in pazienti portatori di carcinoma epidermoide, sembra a volte dovuta non all’increzione di sostanza PTH simile, bensì ad uno stimolo diretto dell’attività osteoclastica. La sindrome conseguente ad iperproduzione di serotonina, associata al carcinoide, si manifesta con episodi di rash cutaneo, ipertensione del piccolo circolo e fibrosi endocardiaca. Tra le sindromi paraneoplastiche non caratterizzate da produzione di sostanze ad attività endocrina va menzionato, nel caso specifico del tumore polmonare, l’ippocratismo digitale (Fig. 40.4), particolare alterazione morfologica delle ultime falangi delle mani e dei piedi, cui si è accennato in precedenza. Già si è detto che questo disturbo insorge comunemente in presenza di una broncopneumopatia cronica, ma in alcuni casi la sua rapida evoluzione (pochi mesi) può essere indicativa di una forma neoplastica polmonare. In associazione all’ippocratismo digitale può talora comparire una rara condizione paraneoplastica, l’osteopatia ipertrofizzante (o sindrome di Pierre-Marie), caratterizzata da apposizione di tessuto connettivo in sede sottoperiostale a livello delle diafisi delle ossa lunghe degli arti e dalla
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B. Figura 40.4 - Ippocratismo digitale. Alterazione del profilo dell’ultima falange (B) rispetto alla situazione normale (A).
erosione (accompagnata da dolore) dei capi articolari che connettono le ossa colpite. E. Diagnosi. Come ricordato in precedenza, la diagnosi di carcinoma broncogeno è spesso formulata tardivamente, quando la neoplasia ha raggiunto un grado di sviluppo locale (e spesso a distanza) tale da rendere scarsamente efficace qualsiasi provvedimento terapeutico. Purtuttavia, l’esistenza di gruppi di individui a più alto rischio dovrebbe suggerire la ricerca periodica e sistematica dei segni prodromici della malattia. È stato ad esempio osservato che l’esecuzione periodica (quadrimestrale) di indagini radiologiche o citologiche su soggetti a rischio per neoplasia polmonare ha evidenziato tale patologia in individui che nel 90% dei casi erano del tutto asintomatici. Risultati preliminari sembrano indicare una maggiore sopravvivenza in risposta alla terapia dei soggetti identificati con questa procedura diagnostica. A questo proposito, si deve sottolineare che talvolta le manifestazioni paraneoplastiche di cui si è detto nelle pagine precedenti possono accompagnare la neoplasia nelle fasi iniziali del suo sviluppo, talora addirittura precedendo gli elementi clinici direttamente connessi alla sua presenza. Esistono tre livelli diagnostici nell’approccio ad un paziente presunto portatore di neoplasia polmonare. 1. In primo luogo, deve essere accertata l’effettiva presenza del tumore e a questo scopo ci si avvale oggi di indagini strumentali e di laboratorio sufficientemente sensibili. L’esame radiologico del torace nell’esecuzione standard (proiezione postero-anteriore e latero-laterale) (Fig. 40.5) o attuato con tecniche particolari (tomografia) può consentire di evidenziare lesioni tumora-
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Figura 40.5 - Quadri radiologici di carcinoma polmonare. (A) Localizzazione ilare. (B) Nodulo isolato in campo polmonare superiore destro. (Da Casali L.: Manuale di malattie dell’apparato respiratorio. Masson, Milano, 2001.)
li anche di piccole dimensioni in più del 70% dei casi. Da questo punto di vista il tumore broncogeno può presentarsi come lesione isolata e periferica nel contesto di un parenchima normale (spesso tali lesioni sono rotondeggianti e a margini definiti, per cui vengono dette “a moneta”) e questo è più spesso il caso dell’adenocarcinoma o del carcinoma indifferenziato a grandi cellule, ovvero apparire come opacità sfumata in sede centrale, parailare, come accade più frequentemente per il microcitoma ed il carcinoma epidermoide (Fig. 40.6). Se il nodulo è di 1 cm di diametro o meno, esso è frequentemente benigno e da tenere in osservazione periodica. Se il diametro è da 1 a 3 cm, la sua resezione è opportuna, poiché la percentuale di malignità è elevata. Oltre i 3 cm di diametro si parla di massa e l’indicazione alla resezione chirurgica è perentoria; infatti, non vi sono elementi radiologici che garantiscano la benignità della lesione, comprese le classificazioni osservabili nel suo contesto. L’indagine radiologica non è tuttavia in grado di discriminare in modo attendibile tra lesioni tumorali ed alterazioni più benigne ma con aspetto simile (processi infettivi, specie tubercolari, fibrosi circoscritte, neoformazioni benigne), per cui si rendono necessarie indagini più accurate, quali l’esame citologico o di frammenti bioptici di mucosa bronchiale ottenuti mediante broncofibroscopia e biopsia transbronchiale. Questa indagine può inoltre dare informazioni sul tipo istologico dell’eventuale neoplasia. Una pratica entrata nell’uso per la diagnosi istologica è la biopsia transcutanea guidata sotto controllo TC. Analogo risultato può essere raggiunto tramite mediastinoscopia. 2. Il secondo livello diagnostico consiste appunto nell’accertare l’istotipo della neoplasia, poiché questa informazione condiziona grandemente le successive decisioni terapeutiche, cui si farà breve cenno nelle prossime pagine. Dev’essere ancora ricordato che il riscontro di una ci-
tologia positiva per adenocarcinoma può essere indicativa della presenza a livello polmonare di secondarismi di neoplasie originate in altra sede, per cui si renderà in questi casi necessaria un’accurata ricerca di possibili focolai
Figura 40.6 - Carcinoma bronchiale: opacità parailare destra. (Da J. Chrétien, Pneumologia, Masson, Milano, 2a ed., 1984)
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di partenza in distretti corporei distanti dal polmone. Oggi è assai utile lo studio mediante TC per accertare sia le caratteristiche della massa primitiva, sia l’eventuale interessamento linfoghiandolare mediastinico. Non va inoltre trascurato il cosiddetto quadro poststenotico: nelle localizzazioni centrali ilari possono comparire alterazioni periferiche preatelettasiche difficilmente distinguibili da una broncopolmonite, se non per la loro persistenza o recidiva. Più indicativi sono gli aspetti atelettasici zonali, lobari e dell’intero polmone, legati ad ostruzione completa del rispettivo bronco tributario, che danno quadri radiologici tipici collegati alla topografia zonale o lobare (si veda la figura 40.2), associati ad aspetto di retrazione. Un aiuto diagnostico può inoltre venire dal dosaggio dell’antigene carcinoembrionario (CEA) nel liquido di lavaggio broncoalveolare. 3. Il terzo livello diagnostico, che presuppone la positività dei due precedenti, consiste nell’accurata valutazione dello stadio clinico e patologico raggiunto dalla neoplasia al momento della diagnosi. Tale procedura, definita con termine anglosassone “staging”, ha notevole importanza per la successiva attuazione delle forme più opportune di terapia e si vale della classificazione TNM (tumore-linfonodi-metastasi) largamente utilizzata attualmente a questo scopo. Lo staging in base alla classificazione TNM per il cancro del polmone è riportato nelle tabelle 40.2 e 40.3. Tabella 40.2 - Classificazione TNM. T Tx T1 T2
T3
T4
N N0 N1 N2 N3 M M0 M1
Tumore primitivo Carcinoma occulto evidenziato unicamente tramite esame citologico. Tumore di diametro inferiore a 3 cm, senza evidenza broncoscopica di invasione di strutture contigue. Tumore con almeno una delle seguenti caratteristiche: nodulo maggiore di 3 cm di diametro massimo; interessamento del bronco maggiore, localizzazione a 2 o più cm dalla caverna; interessamento della pleura viscerale; associazione con atelettasia o polmonite ostruttiva, che si estende alla regione ilare, ma non coinvolge l’intero polmone. Tumore di ogni dimensione che infiltra direttamente la parete toracica e/o diaframma, pleura mediastinica, pericardio parietale; o tumore che dista meno di 2 cm dalla carena (senza infiltrazione della carena; oppure associazione con atelettasia o polmonite ostruttiva dell’intero polmone). Tumore di ogni dimensione, che invade una delle seguenti strutture: mediastino, cuore, grandi vasi, trachea, esofago, corpo vertebrale, carena; o tumore con versamento neoplastico pleurico.
Tabella 40.3 - Raggruppamento dei parametri TNM in stadi. Stadio Stadio Stadio Stadio Stadio
0 IA IB IIA IIB
Stadio IIIA Stadio IIIB Stadio IV
Tis T1 T2 T1 T2 T3 T3 T1-3 ogni T T4 ogni T
N0 N0 N0 N1 N1 N0 N1 N2 N3 ogni N ogni N
M0 M0 M0 M0 M0 M0 M0 M0 M0 M0 M1
I diversi stadi del tumore polmonare sono naturalmente legati ad una prognosi progressivamente sfavorevole (Fig. 40.7). È da notare come alcune localizzazioni (per es., a meno di 2 cm dalla carena) o segni di accompagnamento (per es., versamento pleurico) siano di per sé sufficienti a peggiorare la prognosi indipendentemente dalle dimensioni della neoplasia e dalla presenza o meno di localizzazioni linfonodali o metastatiche. Ai fini della prognosi e del trattamento del microcitoma, più che la classificazione TNM è importante la divisione in soli due stadi di malattia. Per malattia limitata (Limited Disease, LD) si intende una neoplasia confinata ad un solo emitorace, con possibilità di interessamento metastatico dei linfonodi ilari, mediastinici e sovraclaveari omolaterali. La presenza di versamento pleurico omolaterale alla neoplasia rientra in questo stadio, indipendentemente dalla sua positività citologica. Una neoplasia diffusa oltre questi limiti teorici viene indicata come malattia estesa (Extended Disease, ED). Dopo l’ultima revisione della classificazione TNM, si include nello stadio di malattia limitata anche l’interessamento dei linfonodi mediastinici e/o sovraclaveari controlaterali.
Linfonodi regionali Assenza di metastasi linfonodali. Metastasi ai linfonodi ipsilaterali peribronchiali e/o ilari, anche per estensione diretta. Metastasi ai linfonodi ipsilaterali mediastinici e/o della carena. Metastasi ai linfonodi controlaterali mediastinici e/o ilari o ai linfonodi scalenici o sovraclaveari. Metastasi a distanza Assenza di metastasi conosciute. Metastasi a distanza.
Figura 40.7 - Rappresentazione schematica della classificazione TNM del cancro del polmone. (Si vedano anche le tabelle 40.2 e 40.3).
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40 - TUMORI DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Tabella 40.4 - Sopravvivenza (%) a 2 anni del tumore del polmone. I STADIO • • • •
Epidermoide Adenocarcinoma Grandi cellule Piccole cellule
46,6 45,9 42,8 6,0
II STADIO III STADIO 39,8 14,3 12,9 5,0
11,5 7,9 6,8 3,8
F. Evoluzione e prognosi. La tabella 40.4 illustra la prognosi (espressa come percentuale di sopravvivenza a 2 anni dalla diagnosi) dei vari istotipi di neoplasia broncogena in dipendenza dello stadio presente al momento della diagnosi. Nonostante la prognosi del carcinoma polmonare negli stadi avanzati (II-IV) resti molto grave, negli ultimi anni sono stati compiuti incoraggianti progressi grazie alla disponibilità di nuovi farmaci e all’identificazione di nuove strategie di trattamento integrato. G. Terapia (*). Le neoplasie polmonari rappresentano la prima causa di morte per tumori maligni nel sesso maschile, mentre nel sesso femminile la mortalità per neoplasie polmonari è in rapido aumento a fronte della crescente abitudine al fumo. La storia naturale e la diversa sensibilità del microcitoma polmonare rispetto agli altri istotipi rende necessaria un’esposizione separata dei principi di terapia. 1. Microcitoma. Si tratta di una neoplasia di derivazione neuroendocrina con una cinetica proliferativa estremamente rapida, che spiega il raggiungimento in tempi brevi di voluminose masse locali, con interessamento dei linfonodi mediastinici, e la diffusione metastatica al di fuori del torace presente nel 70% dei casi alla diagnosi. In virtù delle caratteristiche biologiche della neoplasia, la chirurgia riveste un ruolo piuttosto limitato nel trattamento del microcitoma, con interventi occasionali in presenza di piccole lesioni periferiche o di resezione di masse residue dopo terapia sistemica. La chemioterapia e la radioterapia sono gli strumenti terapeutici fondamentali nel trattamento del microcitoma. Diverse combinazioni chemioterapiche sono attualmente in grado di assicurare tassi di risposta obiettiva intorno al 90% nella malattia limitata (40-50% di risposte complete) e intorno all’80% nella malattia estesa (25% di risposte complete). La sopravvivenza mediana è di circa 15 mesi per la malattia limitata e 9 mesi per la malattia estesa; una percentuale ridotta di pazienti (intorno al 25% per la malattia limitata e al 5% per la malattia estesa) sopravvive a 2 anni dalla diagnosi. Nella malattia estesa, il trattamento standard è rappresentato da 4-6 cicli di chemioterapia. Gli schemi considerati di riferimento sono l’associazione di cisplatino ed etoposide e lo schema a 3 farmaci con ciclofosfamide, adriamicina e vincristina. Tuttavia, l’elenco delle combinazioni attive sarebbe lunghissimo; la scelta deve essere basata sull’esperienza del clinico e sulle caratteristiche del paziente. (*) V. Gregorc, E. Bucci, G. Di Lucca.
Nella malattia limitata, il trattamento standard è basato sull’associazione di chemioterapia e radioterapia sul torace. Le migliori modalità di integrazione di questi due mezzi terapeutici devono essere ancora definite. La tendenza attuale, sostenuta da alcuni studi clinici che hanno ottenuto una sopravvivenza a 2 anni particolarmente elevata, è di somministrare la radioterapia contemporaneamente alla chemioterapia e iniziando piuttosto precocemente (in genere, con il secondo ciclo di chemioterapia). Tuttavia, si deve considerare che la somministrazione concomitante di radioterapia e chemioterapia è gravata da una tossicità superiore. Anche in questo caso, gioca dunque un ruolo fondamentale la corretta selezione dei pazienti. Nella malattia limitata è inoltre ancora utilizzata, nei pazienti che ottengono una remissione clinica completa, la radioterapia profilattica sull’encefalo, che ha lo scopo di ridurre le recidive in un “santuario” non raggiunto efficacemente dai farmaci chemioterapici. 2. Carcinoma polmonare non-microcitoma. • Chirurgia. La modalità terapeutica che determina la maggior probabilità di guarigione è la chirurgia, ma la mancanza di sintomi premonitori e l’assenza di una strategia efficace di diagnosi precoce (non esistono purtroppo strategie di screening valide nella popolazione a rischio) comporta che nel 40% dei pazienti viene diagnosticata una malattia potenzialmente resecabile. La chirurgia con intento radicale rappresenta il trattamento di prima scelta per le neoplasie in stadio I-II. Essa consiste generalmente in una lobectomia, bilobectomia o pneumectomia a seconda dell’estensione della neoplasia. Una resezione radicale è ritenuta tale quando si ottiene l’asportazione di tutta la malattia visibile, i margini di resezione sono istologicamente negativi e viene eseguita una linfoadenectomia ilo-mediastinica o un campionamento delle stazioni linfatiche che drenano la neoplasia. Gli interventi più limitati (segmentectomia, resezione a cuneo, nodulectomia) possono essere attuati nei casi in cui le condizioni cardiopolmonari controindichino la lobectomia. La valutazione preoperatoria deve tener conto di alcune controindicazioni relative e/o assolute quali: funzione polmonare compromessa, infarto miocardico, ictus cerebri recenti. La sopravvivenza dei pazienti operati è in funzione dello stadio: 60-70% per un paziente con stadio I, 4060% per un tumore in stadio II. Dopo exeresi chirurgica il ventaglio di possibili complicazioni comprende: polmonite, ARDS, atelettasia, insufficienza respiratoria, embolia polmonare, edema polmonare, infarto miocardico, aritmie, insufficienza cardiaca, gastrite emorragica, fistola parenchimale, fistola bronchiale, infezione della ferita chirurgica, emotorace, empiema. La mortalità postoperatoria è del 2-9% ed è in rapporto con l’entità della resezione, l’età del paziente, le condizioni generali preoperatorie e l’eventuale trattamento medico preoperatorio (chemioterapico e/o radioterapico).
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• Radioterapia. Esiste una categoria di pazienti che per età, condizioni generali, ridotta funzionalità respiratoria e cardiaca non può essere candidabile a un intervento chirurgico radicale. In questi casi il trattamento elettivo è rappresentato dalla radioterapia. Un trattamento radiante con intento radicale richiede la somministrazione di dosi elevate, non inferiori a 60 Gy, con i conseguenti problemi di tossicità acuta e cronica. Anche se mancano confronti diretti tra chirurgia e radioterapia nel trattamento degli stadi I-II, la sopravvivenza a lungo termine ottenuta con la radiopterapia è apparentemente inferiore a quella ottenuta con la chirurgia, soprattutto a causa di un inadeguato controllo locale. Lo sviluppo di nuove tecniche radioterapiche (RT conformazionale, iperfrazionamento) potrà migliorare i risultati, anche se saranno necessari studi controllati rigorosi. Le possibilità della terapia chirurgica nello stadio IIIA devono tenere conto dell’estensione del tumore primario e del grado di interessamento linfonodale. Lo stato dei linfonodi mediastinici non evidenti alla TC può essere accertato prima dell’intervento con una mediastinoscopia. La tomografia ad emissione di positroni (PET) è notevolmente affidabile nel predire la positività dei linfonodi mediastinici. • Terapia adiuvante. Nel 25% dei pazienti nei quali la stadiazione preoperatoria mediante TC risulta negativa per interessamento linfonodale mediastinico viene evidenziato, all’intervento, positività neoplastica linfonodale. Qualora nel materiale di exeresi si sia rilevato interessamento linfonodale mediastinico (N2) è consuetudine far seguire una radioterapia a dosi curative (dose totale 50 Gy) anche se non vi è evidenza scientifica di un aumento di sopravvivenza rispetto alla sola terapia di supporto, pur osservandosi una riduzione delle recidive intratoraciche. La sopravvivenza a 5 anni di questi pazienti è del 35%. Quando la malattia N2 viene diagnosticata preoperatoriamente con TC, PET e confermata con mediastinoscopia/tomia, la chirurgia da sola non trova indicazione. Per questo sottogruppo di pazienti è stato proposto l’impiego della terapia medica preoperatoria (chiamata anche di induzione o neoadiuvante) costituita da chemioterapia o chemioterapia e radioterapia, allo scopo di ricondurre la malattia ad uno stadio chirurgico. Anche se mancano evidenze conclusive che supportino la validità di tale approccio, la maggior parte degli studi indica un vantaggio in termini di sopravvivenza nei pazienti sottoposti alla terapia preoperatoria seguita da chirurgia, con sopravvivenza a 5 anni nei soggetti responsivi fino al 35%. Quando la malattia N2 appare voluminosa con più stazioni linfonodali interessate, ad interessamento extracapsulare, la chirurgia non trova indicazione. In questi pazienti, se le condizioni cliniche lo permettono, i migliori risultati sono stati ottenuti con l’associazione di chemioterapia e radioterapia polmonare ad intento radicale (circa 60 Gy), con sopravvivenza a 5 anni del 16% nei casi più favorevoli. Per quanto riguarda il trattamento chemioterapico postchirurgico (adiuvante), i dati di metanalisi disponi-
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bili dimostrano un modesto vantaggio per le combinazioni contenenti platino. Sono attualmente in corso numerosi studi randomizzati, prospettici, su scala europea e mondiale, che utilizzano chemioterapia (+/– radioterapia) verso la sola terapia di supporto (+/– radioterapia) al fine di definire il ruolo delle terapie adiuvanti. Il primo di questi studi ad essere completato, lo studio italiano ALPI, non ha comunque dimostrato un vantaggio in sopravvivenza mediana nei pazienti trattati con chemioterapia adiuvante rispetto al gruppo sottoposto al solo controllo postchirurgico. Il secondo studio, l’“International Adjuvant Lung Trial” (IALT) ha dimostrato un miglioramento della sopravvivenza a 5 anni del 5% nei casi trattati con chemioterapia comprendente cisplatino, risultati in linea con quanto suggerito da una metanalisi del 1995. Altri due studi condotti in pazienti con malattia operabile hanno confermato i dati dello IALT. Una nuova metanalisi di tutti gli studi randomizzati eseguiti (in oltre 4000 casi) sarà di grande aiuto per definire il ruolo della chemioterapia precauzionale nel NSCLC. • Terapia delle forme avanzate. I pazienti con stadio IIIB o IV vengono considerati non candidabili al trattamento chirurgico per storia naturale di malattia. L’associazione di chemioterapia e radioterapia ad intento radicale è considerata la principale scelta terapeutica per i pazienti con stadio IIIB considerati non resecabili radicalmente. Per quanto riguarda i pazienti con la malattia in fase avanzata (stadio IIIB con versamento pleurico) o metastatica (IV stadio), le possibilità di guarigione sono solo aneddotiche. La sopravvivenza mediana varia tra 6 e 10 mesi. I trattamenti chemioterapici vengono effettuati ad intento palliativo con l’obiettivo di migliore la qualità della vita dei pazienti. I pazienti con buon performance status possono essere trattati con diversi schemi di polichemioterapia contenenti platino. Il trattamento viene impostato in relazione alle comorbidità del paziente, alle tossicità teoriche attese e compliance dello stesso. La probabilità della risposta (riduzione significativa delle lesioni tumorali) è complessivamente intorno al 35-40%. Non è consentito formulare raccomandazioni definitive circa la durata del trattamento in quanto non esistono evidenze a favore di un protrarsi della chemioterapia oltre il limite dei 5-6 cicli. La durata ottimale del trattamento attualmente è di 3-4 cicli (circa 3 mesi) e il trattamento è composto generalmente da uno schema a due farmaci chemioterapici. La sopravvivenza a 1 anno è aumentata dal 15 al 25% con i trattamenti contenenti i derivati del platino rispetto ai pazienti trattati con la sola terapia di supporto, con un significativo miglioramento globale della qualità della vita. Purtroppo, il prolungamento assoluto della sopravivenza mediana è di 2 mesi soltanto. Nel caso di pazienti con caratteristiche prognostiche meno favorevoli (basso performance status, calo ponderale) può essere presa in considerazione una monochemioterapia oppure una combinazione di farmaci a basso profilo di tossicità (senza platino) o l’opzione del solo trattamento di supporto.
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Nei soggetti anziani (età > 70 anni) liberi da patologie concomitanti gravi ed in buone condizioni generali, che rappresentano oltre un terzo dei pazienti con carcinoma polmonare, sono ottenibili risultati terapeutici comparabili a quelli ottenuti nei pazienti con età inferiore a 70 anni in termini di sopravvivenza a medio e lungo termine. Recentemente, uno studio randomizzato italiano ha dimostrato la superiorità della monochemioterapia rispetto alla terapia di supporto nei pazienti anziani, in termini di sopravvivenza e di qualità della vita. Lo stesso gruppo di Autori ha evidenziato che la chemioterapia di combinazione a due farmaci comporta maggiore tossicità a fronte di risultati terapeutici sovrapponibili alla monochemioterapia. Al momento della progressione di malattia, dopo la “prima linea”, la “seconda linea” di trattamento rimane un’opzione da valutare sulla base dei fattori prognostici della risposta e dei farmaci impiegati. Non esistono, inoltre, linee guida definitive e chiare per la terapia di seconda linea del carcinoma polmonare. In Europa e negli USA, sulla base di un modesto vantaggio in termini di sopravvivenza ottenuto in due studi randomizzati rispetto alla sola terapia di supporto e a vinorelbina e ifosfamide, l’unico farmaco registrato in “seconda linea” è il docetaxel. Dati interessanti sono stati ottenuti anche riguardo a un nuovo farmaco, il premetrexed (o MTA Multitarget Antifolate) che in uno studio si è dimostrato equivalente in attività ed efficacia al docetaxel, con un miglior profilo di tossicità. Molti studi sono stati condotti per valutare l’efficacia dei nuovi farmaci biologici (anticorpi, inibitori selettivi delle tirosinechinasi, ecc.) per il trattamento del carcinoma polmonare. Purtroppo, tali farmaci, non privi di effetti collaterali, anche se con un profilo di tossicità spesso più favorevole, da soli, o in associazione con la chemioterapia, non hanno dimostrato un’efficacia superiore rispetto alla sola chemioterapia. Pertanto il loro utilizzo è da considerarsi una valida alternativa per quei pazienti che per condizioni cliniche e comorbidità non sono candidabili ad un trattamento chemioterapico. In particolare, gefitinib o tarceva, inibitori della tirosinachinasi dell’EGF-R (recettore per il fattore di crescita EGF), si è dimostrato utile nel controllo della malattia dei pazienti pretrattati con regimi chemioterapici contenenti platino e taxani. Tale trattamento comporta un significativo miglioramento della sopravvivenza e della qualità di vita rispetto ai pazienti trattati con la sola terapia di supporto. I più alti tassi di risposta si ottengono in pazienti donne, non fumatrici, e con istotipo di adenocarcinoma o carcinoma bronchioloalveolare. Due studi statunitensi e uno italiano hanno per la prima volta dimostrato la possibilità di predire la risposta al trattamento in relazione al profilo biologico determinato sul tessuto tumorale del singolo paziente. L’importanza di tali studi risiede nella consapevolezza che l’obiettivo della ricerca e della terapia risiede nella comprensione della fisiopatologia del tumore polmonare e nell’individuazione della terapia specifica basata sulle caratteristiche cliniche del paziente e biologiche di tale malattia ad origine multifattoriale e poligenica.
Tumori metastatici del polmone Pressoché tutte le neoplasie maligne sono potenzialmente in grado, più o meno precocemente, di dare metastasi polmonari, essendo questo organo attraversato da tutta la massa sanguigna circolante. Le metastasi polmonari possono presentarsi come formazioni nodulari uniche o multiple (Figg. 40.8 e 40.9). In quest’ultimo caso le dimensioni eterogenee delle singole immagini nodulari consentono generalmente di escludere patologie con aspetto radiologico simile (per es., TBC miliare). Non infrequente è la fine disseminazione di neoplasie polmonari o extrapolmonari attraverso la rete linfatica dell’organo, che si presenta radiologicamente con un’immagine reticolare diffusa spesso di difficoltosa interpretazione (linfangite carcinomatosa). Salvo rare eccezioni, il riscontro di metastasi polmonari di neoplasie originate altrove ha un significato prognostico estremamente sfavorevole.
Linfomi polmonari Lungo l’albero bronchiale è distribuita una cospicua quantità di tessuto linfoide (detto BALT, da Bronchial Associated Lymphoid Tissue, ossia tessuto linfoide associato con i bronchi), in gran parte costituito da linfociti B destinati ad evolvere verso plasmacellule programmate a secernere immunoglobuline della classe IgA. Anche nell’interstizio polmonare sono disseminati molti linfociti. Non è perciò sorprendente che l’apparato respiratorio possa essere sede di sviluppo di linfomi, o nell’ambito di una malattia sistematica che interessa
Figura 40.8 - Carcinoma metastatico. (Da J. Chrétien, Pneumologia, Masson, Milano, 2a ed., 1984)
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A.
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B.
Figura 40.9 - Aspetti alla TC del torace con mezzo di contrasto di metastasi polmonari ematogene. (A) Sottopleuriche con immagini dei vasi che vi afferiscono. (B) Multiple con aspetto miliarico. (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003.)
anche altre sedi del corpo o, più raramente, in forma primitiva e isolata. Delle caratteristiche generali e della classificazione dei linfomi si parla dettagliatamente nel capitolo 49. Basta qui ricordare che i linfomi interessanti il polmone possono essere rappresentati sia dalla malattia di Hodgkin che dai linfomi non Hodgkin. Nella malattia di Hodgkin l’invasione del polmone avviene più spesso per contiguità a partire da masse linfonodali mediastiCitologia bronchiale: modalità di prelievo. Lo studio delle cellule provenienti dall’albero respiratorio viene eseguito sull’espettorato. Si consiglia di raccogliere l’espettorato del mattino (accumulo di secrezioni bronchiali durante la notte) prima della colazione e dopo aver sciacquato la bocca con sola acqua. Il paziente deve inspirare profondamente e successivamente espirare tossendo, in modo che il materiale raccolto sia di provenienza bronchiale profonda. Se il paziente ha difficoltà ad espettorare, si può utilizzare un aerosol di soluzione fisiologica o espettoranti. L’espettorazione va fatta direttamente in un contenitore a bocca larga (tipo bicchierino da gelato) che va recapitato entro 1-2 h al laboratorio di anatomia patologica. Se non è possibile rispettare questi termini di tempo, si può espettorare direttamente nel contenitore contenente fissativo, costituito da alcool al 50% (va bene anche l’alcool denaturato); in questo modo il materiale può essere conservato per qualche giorno. Il prelievo va ripetuto per 3 mattine consecutive, e ciò consente di riconoscere circa l’80% dei casi di carcinoma polmonare. L’inconveniente principale è che con questa procedura la lesione non viene localizzata, poiché il materiale così ottenuto proviene da un’estesissima area della mucosa dell’albero bronchiale.
niche di notevoli dimensioni (cosiddette masse “bulky”, ossia massicce). Questa particolare localizzazione è più comune nella varietà istologica definita “sclerosi nodulare”. Nei linfomi non Hodgkin è più facile la localizzazione periferica interstiziale. Dal punto di vista clinico, i linfomi polmonari possono o meno essere accompagnati da sintomi costituzionali (febbre, sudori notturni, perdita di peso) che, se presenti, costituiscono i sintomi di presentazione della malattia (questo è più comune nella malattia di Hodgkin che nei linfomi non Hodgkin). Generalmente l’esame obiettivo è negativo, tranne che nel caso dell’esistenza di masse “bulky” nel mediastino, che possono dar luogo a un’ottusità plessica nella regione retrosternale alta ed eventualmente ai segni legati a compressione di strutture intratoraciche, che sono già stati descritti in questo capitolo a proposito della sindrome mediastinica. Più comunemente, i linfomi polmonari si rendono evidenti attraverso l’esame radiografico del torace. Il sospetto diagnostico è forte nel caso della presenza di una massa mediastinica “bulky”, la cui opacità si estende verso il parenchima polmonare. Molto più equivoci sono i quadri di interessamento periferico, che sono del tutto indistinguibili da invasioni neoplastiche di natura carcinomatosa o da processi infiammatori cronici sia infettivi (per es., tubercolosi polmonare), sia immunologici (granulomatosi di Wegener, granulomatosi linfomatoide). Si rende perciò molto spesso necessario un prelievo bioptico o previa toracotomia o attraverso agobiopsia transparietale. L’esito della biopsia generalmente risolve il problema diagnostico, ma comunque si possono presentare due difficoltà. La prima è che con la microscopia ottica convenzionale può essere difficile differenziare certi linfomi non Hodgkin da un carcinoma indifferenziato a piccole cellule. Questa difficoltà può essere facilmente superata ricorrendo alla microscopia elettronica o a metodi immunoistochimici, che mettono a profitto la capacità delle cellule in esame di legarsi con anticorpi monoclonali (cioè tutti uguali tra loro, anche per quanto riguarda la specificità) diretti contro antigeni di differenziazione dei linfociti. Una seconda difficoltà è più sottile e dipende dal fatto che, anche in presenza di un infiltrato linfocitico, può restare incerto stabilire se si è di fronte ad una forma neoplastica (per la quale è giustificato il termine di linfoma) o a una forma di altro genere (infiammatoria, reattiva) con una componente linfocitaria prevalente. Il problema è in genere risolto da un esperto anatomopatologo, ma dev’essere sottolineato che esistono forme infiltrative polmonari la cui attribuzione o meno ai linfomi è problematica. L’alternativa è, in genere, tra un linfoma e una reazione immunopatologica. L’esempio più interessante di forme di questo tipo è la cosiddetta granulomatosi linfomatoide, da molti considerata una vasculite (e perciò da noi ricordata nel capitolo 19), ma che può evolvere in un linfoma o forse essere un linfoma fin dall’inizio. Altre forme che pongono problemi simili sono ricordate nel capitolo 19. Per la terapia dei linfomi polmonari si veda il capitolo dei linfomi nella parte di ematologia.
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NEOPLASIE PLEURICHE I tumori pleurici sono complessivamente piuttosto rari, predominano nel sesso femminile e incidono prevalentemente nel 6° decennio di vita. Si distinguono forme benigne che traggono origine dalle strutture sottomesoteliali (lipomi, fibromi, sarcomi, ecc.) e forme maligne che originano dal foglietto sieroso (mesoteliomi). A. Anatomia patologica. L’interessamento metastatico della pleura è molto più frequente di quello primitivo. Le sedi da cui più spesso cellule neoplastiche colonizzano la pleura sono il polmone, la mammella e l’ovaio; le metastasi causano un versamento sieroematico. L’esame citologico del sedimento del versamento permette non solo di riconoscere le cellule maligne, ma anche di precisare la natura primitiva o metastatica della neoplasia e, in questo caso, di suggerire l’organo di origine. I tumori primitivi, mesoteliomi, possono essere benigni e maligni. Il mesotelioma benigno è istologicamente un fibroma e costituisce una massa delimitata, a volte peduncolata, che comprime il polmone senza invaderlo. Il mesotelioma maligno tende a occupare estesamente il cavo pleurico, comprimendo ed anche invadendo il polmone e altre strutture toraciche; il suo aspetto istologico esprime il duplice potenziale evolutivo delle cellule del rivestimento mesoteliale, essendo riconoscibili aree di cellule fusate, di tipo sarcoma, e aree tubulari e papillari, di tipo carcinoma. B. Clinica. Il quadro clinico è assai eterogeneo. A volte la manifestazione prima è quella di un versamento pleurico ad insorgenza più o meno rapida ma comunque con tendenza a recidivare dopo la toracentesi. Spesso il versamento ha carattere emorragico. L’emitorace interessato ha tendenza a retrarsi. Un sintomo precoce è il dolore, più o meno intenso ma non raramente terebrante. Gli altri sintomi sono quelli comuni ad altre malattie respiratorie (tosse, dispnea) e alle altre forme neoplastiche (dimagramento, anemia, astenia). In fase avanzata il tumore potrà interessare la parete toracica, il pericardio e il peritoneo. C. Diagnosi. La diagnosi si basa sull’indagine radiologica, sull’esame del liquido di versamento e sulla biopsia della pleura. L’esame radiologico potrà rilevare (Fig. 40.10): • un versamento pleurico con tendenza a retrazione dell’emitorace; • un ispessimento pleurico a margini irregolari; • la presenza di masse accollate alla parete e con angolo di attacco ottuso. Utile per lo studio morfologico può essere il pneumotorace artificiale. Alla toracentesi è tipica la sensazione di dura cotenna da superare. Il liquido pleurico è emorragico, comunque a carattere essudatizio (PS > 1018, proteine > 3 g/100 ml, LDH superiore al 60% rispetto al tasso ematico), vischioso per la ricchezza di acido jaluronico, riccamente cellulato. Le cellule tumorali sono invece presenti solo nel 65% dei casi perché il tumore è poco esfoliativo.
Opacità tumorale Opacità del tumore + versamento
Figura 40.10 - Tumore pleurico. (Da J. Chrétien, Pneumologia, Masson, Milano, 2a ed., 1984)
La biopsia pleurica con ago o per via pleuroscopica è l’esame d’accertamento fondamentale. La prognosi è naturalmente nefasta e il decorso abbastanza rapido (da 1 a 3 anni). La terapia chirurgica è raramente attuabile. La terapia medica prevede introduzione di farmaci antitumorali in cavo pleurico e pratiche destinate ad ottenere sinfisi pleurica (tetracicline ed aspirazione). La pleura è infine interessata spesso in via riproduttiva da tumori polmonari (sia per invasione che per via linfatica od ematica), da tumori mammari e da neoplasie di altra origine. La diagnosi avviene con lo studio del liquido pleurico (spesso emorragico) del suo contenuto in cellule tumorali e mediante la biopsia pleurica. D. Terapia (*) 1. Mesotelioma pleurico. È difficile giungere a conclusioni univoche sul trattamento di questa neoplasia per la sua relativa rarità e per la disomogeneità delle casistiche. La malattia è diagnosticata in stadio I (T1 o T2 N0 M0) in non più del 25% dei casi; è una situazione in (*) E. Bucci e G. Di Lucca.
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cui la terapia di elezione è rappresentata dalla chirurgia; l’intervento chirurgico è però molto demolitivo (pleuropneumonectomia). Esistono dunque frequenti controindicazioni mediche alla sua attuazione: si deve inoltre tener conto dell’elevata mortalità (scesa comunque all’8-10%) e, soprattutto, della frequente incidenza di complicanze, a conseguente discapito della qualità di vita. Interventi più limitati (pleurectomia) non assicurano la radicalità oncologica e hanno sostanzialmente un valore palliativo. La sopravvivenza a 2 anni dall’intervento di pleuropneumonectomia è compresa tra il 20% e il 30%, ma meno del 10% dei pazienti è vivo dopo 5 anni. Questo vuol dire che l’intervento chirurgico assicura una sopravvivenza a lungo termine in meno del 2% dei pazienti affetti da mesotelioma pleurico. La radioterapia ha un ruolo esclusivamente palliativo; le dosi efficaci sono però dell’ordine di 40 Gy e possono quindi comportare notevoli effetti collaterali, anche se il controllo del dolore è raggiunto nella grande maggioranza dei casi. Una radioterapia intracavitaria con isotopi radioattivi (198Au, 32P) è stata utilizzata a scopo palliativo, con buoni risultati per quanto riguarda il controllo del versamento pleurico ma efficacia quasi nulla nella riduzione di masse pleuriche voluminose. La terapia sistemica o intracavitaria è difficile da valutare perché le casistiche sono numericamente limitate e i mezzi di valutazione della risposta obiettiva sono spesso imprecisi. Solo i dati più recenti della letteratura fanno costantemente riferimento alla TC e alla RM per la quantificazione dimensionale della risposta. La maggior parte dei farmaci chemioterapici, utilizzati come agenti singoli, ha un’attività inferiore al 20% di risposte obiettive. Il farmaco più utilizzato, a scopo palliativo, è l’adriamicina, somministrato a dosi di 60-75 mg/m2 ogni 3 settimane. Gli studi di polichemioterapia non hanno sinora ottenuto risultati più incoraggianti della monochemioterapia; le risposte obiettive per regimi come adriamicina + cis-platino, mitomicina-C + cis-platino, gemcitabina + cis-platino sono state apparentemente superiori a quelle ottenibili con singoli farmaci, ma la sopravvivenza non è parsa influenzata. La raccomandazione è che un trattamento polichemioterapico sia somministrato soltanto nelle condizioni di uno studio clinico controllato. Nonostante alcuni vantaggi teorici, l’instillazione intracavitaria di farmaci chemioterapici e agenti biologici, come l’interferon- e l’interleuchina-2, ha fallito in modo pressoché uniforme nell’obiettivo di aumentare i modesti tassi di risposta della terapia sistemica. Tuttavia, sono in corso studi volti a valutare l’efficacia di questa strategia dopo intervento chirurgico anche non radicale. 2. Versamenti pleurici neoplastici. Il versamento pleurico neoplastico è un evento clinico molto frequente nella pratica oncologica. Il trattamento dev’essere ovvia-
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mente diretto alla neoplasia primitiva, ma vi sono situazioni in cui il versamento pleurico rappresenta il problema clinico principale e la bassa probabilità di una risposta clinica con una terapia sistemica giustifica un trattamento mirato su questa localizzazione. In circa il 25% dei casi non è necessaria alcuna terapia, in quanto il versamento è di entità moderata, non provoca sintomi e si modifica molto lentamente. Nei versamenti che invece hanno una velocità di formazione piuttosto rapida e provocano dispnea, il primo provvedimento da mettere in atto è una toracentesi. Questa manovra, di rapida e semplice attuazione, che può a sua volta avere alcune complicanze (sanguinamento, pneumotorace, crisi vagali al momento in cui la pleura parietale viene perforata dall’ago, edemi polmonari da riespansione del parenchima, spesso favoriti dall’ipoprotidemia), assicura un beneficio sintomatico generalmente transitorio. Il ricorso ripetuto alla toracentesi può provocare l’infiltrazione neoplastica del tragitto traumatico e la successiva invasione della parete toracica, ed è comunque disturbante per il paziente. In tali casi è possibile impiantare stabilmente un tubo toracostomico per drenare completamente il versamento; altri dispositivi (Pleurocath) consentono l’infissione di un sottile catetere collegato ad un dispositivo valvolare e ad un rubinetto, con la possibilità di evacuare il versamento ogni qualvolta sia clinicamente necessario, per un lungo periodo di tempo. Il problema maggiore di queste manovre è legato al blocco del catetere da parte di coaguli o tappi di fibrina e al rischio infettivo. Inoltre, il versamento tende spesso a concamerarsi, rendendo inattuabili le procedure evacuative. Gli effimeri risultati ottenuti con i drenaggi pleurici a permanenza hanno spinto ad attuare tentativi terapeutici più definitivi, in grado di impedire la riformazione del versamento per mesi. Introducendo nel cavo pleurico agenti di per sé privi di attività antineoplastica, ma fortemente irritanti, o farmaci antiproliferativi (la cui azione antitumorale, in questi casi, sembra però di importanza secondaria), si può ottenere una fibrosi pleurica (scleroterapia). Una recente revisione degli agenti più utilizzati restringe il campo dei farmaci consigliabili a tre classi fondamentali: a) le tetracicline, b) la bleomicina, c) un agente immunoterapico, il Corynebacterium parvum. Le percentuali di risposta con questi tre agenti (per risposta completa si attende assenza di qualsiasi segno di versamento a 4 settimane dalla procedura) sono sovrapponibili (tra il 50% e il 75%) e la scelta viene quindi guidata dall’esperienza del centro e da considerazioni farmacoeconomiche (costi maggiori per il Corynebacterium parvum, seguito dalla bleomicina e dalle tetracicline). L’instillazione di talco è considerata molto efficace, ma richiede l’anestesia generale e una procedura toracoscopica, ed è quindi più indaginosa e costosa e non utilizzabile per pazienti con marcata compromissione delle condizioni generali e della funzione respiratoria.
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TUMORI DELL’APPARATO DIGERENTE, FEGATO, VIE BILIARI E PANCREAS V. BALDINI, E. BUCCI, G. DI LUCCA
TUMORI DELL’ESOFAGO Tumori benigni I tumori benigni dell’esofago sono molto rari e spesso vengono riscontrati soltanto in sede autoptica. In genere sono localizzati prevalentemente al III distale di quest’organo e la varietà più comune è rappresentata dal leiomioma, che solo nel 50% dei casi solitamente è sintomatico (meno frequente è la presenza di fibromi, adenomi, lipomi, papillomi, angiomi). Queste neoplasie, specialmente se di notevoli dimensioni, possono provocare disfagia, sensazione soggettiva di corpo estraneo, rigurgiti ed emorragie. La diagnosi è fondata sull’esame radiologico o endoscopico dell’esofago, eventualmente con prelievi bioptici del tessuto neoplastico; talvolta soltanto l’indagine istologica consente di escludere la natura maligna di questi tumori. La sola terapia di queste affezioni è quella chirurgica.
Tumori maligni Il carcinoma dell’esofago costituisce circa il 5% di tutti i tumori maligni, prevale nettamente nel sesso maschile ed insorge più spesso tra i 60 e i 70 anni. Esistono spiccatissime differenze nell’incidenza di questa malattia nelle diverse popolazioni: infatti da 5-10/100.000 abitanti casi per anno negli USA (razza bianca), si sale a 150-160 in Rhodesia, 350-360 in Sud-Africa, fino addirittura a 550 casi per anno/100.000 abitanti in Kazakhstan, dove vengono raggiunti i livelli di incidenza più elevati. Questi tumori prediligono come sede i restringimenti fisiologici dell’esofago; nella donna è più frequente la localizzazione al III prossimale. A. Eziopatogenesi. Come per ogni altra neoplasia, l’eziologia del carcinoma esofageo è sconosciuta; esistono, però, alcune condizioni che sembrano giocare un
ruolo favorente la sua insorgenza: fra queste, particolarmente importante è l’insulto flogistico cronico sulla mucosa esofagea esercitato da fattori diversi, quali le lesioni irritative dovute a caustici, l’esofagite da reflusso e l’ernia iatale. Anche l’abuso di alcool o del fumo di sigarette è statisticamente correlato con un’aumentata incidenza di questa malattia, al pari della presenza di alcune lesioni precancerose come certi tumori benigni (per esempio i papillomi) o dell’acalasia (nel 5% dei casi si sviluppa carcinoma dell’esofago). Non trascurabili sono anche alcuni fattori dietetici, quale il consumo di cibi o bevande particolarmente caldi (riso fra i cinesi, tè fra gli anglosassoni), che può in parte giustificare la differente incidenza nei diversi gruppi etnici. Infine, va ricordata l’associazione di questa neoplasia con la sindrome di Plummer-Vinson (correlata all’anemia sideropenica: Cap. 44), specialmente nei paesi scandinavi, dove questa patologia è particolarmente frequente. B. Anatomia patologica. Il carcinoma esofageo può essere distinto, dal punto di vista istologico, in due forme principali: quella epidermoide, che è senza dubbio la più frequente e che prevale in genere nel tratto superiore; l’adenocarcinoma, che predilige il tratto distale e che si sviluppa da isolotti ectopici di mucosa gastrica o direttamente dalle ghiandole cilindriche dell’esofago. Macroscopicamente, si distinguono essenzialmente forme vegetanti (di tipo polipoide, stenosanti, ma che presentano anche particolare tendenza a dare fenomeni ulcerativi e necrotici con possibile formazione di fistole) e forme infiltranti, che provocano stenosi anulare dell’esofago. C. Clinica. Il quadro clinico si manifesta, di solito, inizialmente con disturbi di entità modesta caratterizzati da disfagia intermittente, spesso solo in seguito all’ingestione di cibi solidi o di boli voluminosi, pirosi che insorge subito dopo la deglutizione, bruciore retrosternale dopo ingestione di liquidi caldi.
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I disturbi del transito hanno andamento progressivo ed ingravescente: la disfagia riguarda ad un certo punto anche i liquidi e si accompagna spesso ad eruttazioni, scialorrea (per riflessi esofago-salivari), rigurgiti, vomito alimentare (quando la stenosi esofagea è di grado rilevante). Il dolore non è molto frequente: può essere continuo o subcontinuo, a localizzazione retrosternale, talvolta irradiato al dorso e, in genere, è correlato all’estendersi del processo neoplastico nel mediastino alle strutture periesofagee. Il quadro clinico può essere diverso in rapporto alle sedi della neoplasia: in quelle del tratto prossimale prevalgono scialorrea, tosse “esofagea” (stizzosa), disfonia da paralisi del ricorrente e disfagia; in quelle distali sono prevalenti i disturbi dispeptici, singhiozzo molesto e, nelle fasi avanzate, disfagia. Emorragie massive con ematemesi e, talora, anche melena, non sono frequenti (5% dei casi), mentre è praticamente costante uno stillicidio cronico, in grado nel tempo di provocare anemia sideropenica. Nelle fasi avanzate possono essere presenti manifestazioni di carattere sistemico, come in tutte le neoplasie maligne, caratterizzate da anoressia con sensazione di inappetenza verso tutti i cibi, calo ponderale e progressivo deterioramento delle condizioni generali, fino a vera e propria cachessia. L’esame obiettivo è assai poco significativo, a parte la compromissione dello stato generale che si instaura progressivamente nel tempo; è possibile, talvolta, la palpazione di tumefazioni linfoghiandolari per interessamento metastatico, soprattutto alle stazioni cervicali e sovraclaveari, talora solo sinistra con positività del segno di Troisier, più comune nel carcinoma gastrico (si veda in seguito).
ONCOLOGIA MEDICA
mette di evidenziare la riduzione del diametro del lume esofageo i cui contorni sono caratterizzati di solito da irregolarità e rigidità, spesso associate inizialmente a segni indiretti della neoplasia (spasmi esofagei più frequenti al di sopra del tumore ed arresto dell’onda peristaltica); frequente è la presenza di variabile dilatazione del tratto a monte (Fig. 41.1). 3. L’esame citologico è molto importante e fornisce risultati attendibili in un’elevata percentuale di casi. Viene eseguito mediante l’impiego di un sondino nasogastrico (la cui estremità distale deve giungere fin nello stomaco), attraverso il quale si effettuano lavaggi con soluzione fisiologica dell’esofago, raccogliendo il liquido di lavaggio stesso e il secreto gastrico (per recuperare le cellule cadute nello stomaco): questo materiale viene centrifugato e si procede quindi alla colorazione delle cellule esfoliate con il metodo di Papanicolau (se correttamente eseguita, questa tecnica consente di raggiungere un risultato diagnostico in oltre il 95% dei casi). 4. L’esofagoscopia permette di ottenere un’osservazione diretta della neoplasia ed eventualmente, in caso di
D. Complicanze. Le complicanze sono dovute all’invasione di strutture circostanti: • nervo laringeo ricorrente: disfonia con voce bitonale; • trachea e grossi bronchi: fistole esofagotracheali ed esofagobronchiali con tosse stizzosa “esofagea”; • aorta: emorragie fulminanti. Il carcinoma esofageo può metastatizzare per via linfatica, coinvolgendo i linfonodi cervicali e sovraclaveari (neoplasie del terzo superiore), i linfonodi tracheobronchiali (neoplasie del terzo medio), i linfonodi celiaci e della piccola curvatura dello stomaco (neoplasie del terzo inferiore); oppure la metastatizzazione può avvenire per via ematogena, con più frequente interessamento del fegato e dei polmoni. E. Diagnosi. 1. Gli esami di laboratorio non sono di grande utilità per la diagnosi di questa malattia: frequente è l’anemia sideropenica e quasi sempre positiva è la ricerca di sangue occulto nelle feci. 2. La metodica diagnostica fondamentale è l’esame radiologico dell’esofago con solfato di bario, che per-
Figura 41.1 - Carcinoma infiltrante a carattere prevalentemente stenosante del terzo superiore dell’esofago che provoca condizionante grave ostacolo alla canalizzazione e dilatazione a monte. (Istituto Scientifico S. Raffaele, Dipartimento bioimmagini, Milano)
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incertezza diagnostica all’esame macroscopico, di eseguire prelievi bioptici. Va ricordato, peraltro, che la pratica della biopsia, al di là del rischio di emorragia o di perforazione, non sembra in grado di fornire un ugual livello di significatività diagnostica rispetto all’indagine citologica, risultando positiva soltanto nel 65% circa dei casi. F. Decorso, prognosi e terapia. Il decorso di questa malattia, come quello di tutte le neoplasie maligne, è progressivo e ingravescente e la prognosi è infausta. La diagnosi di carcinoma esofageo viene frequentemente effettuata quando la malattia si trova in una fase già avanzata; questa caratteristica clinica spiega la prognosi infausta per la maggior parte dei pazienti, con una sopravvivenza globale a 5 anni inferiore al 10%. Dev’essere ricordato che il carcinoma squamocellulare resta l’istotipo più frequente, nonostante il rapido aumento d’incidenza dell’adenocarcinoma: nell’ultimo ventennio questo istotipo è passato dal 7% al 25% delle neoplasie esofagee, e in talune casistiche costituisce l’istotipo prevalente a livello dell’esofago distale. Pertanto, la maggior parte delle considerazioni che verranno proposte a proposito della terapia del carcinoma esofageo si riferiscono al carcinoma squamocellulare anche se, come vedremo, non vi è ragione di credere che il comportamento dell’adenocarcinoma sia particolarmente differente. 1. Chirurgia. La chirurgia è l’unica modalità terapeutica attuabile con intenti curativi, anche se negli ultimi anni si è assistito ad un grande sforzo per realizzare studi di terapia combinata, integrante chemio- e radioterapia, con l’obiettivo primario di migliorare la prognosi. L’intervento chirurgico ottimale (esofagectomia) consiste nell’avulsione di un tratto di esofago esteso per almeno 8-10 cm a monte e a valle dei limiti macroscopici della neoplasia. Ampie casistiche sulla resezione segmentaria hanno infatti dimostrato che in poco meno del 50% dei casi isole di tessuto neoplastico sono rinvenibili a 5 e più cm di distanza dai limiti macroscopici della neoplasia. Senza entrare nei dettagli delle tecniche chirurgiche, si deve ricordare che esistono diverse tecniche di esofagectomia (esofagectomia toracica totale, intervento di Lewis, esofagectomia transiatale), la cui scelta è spesso guidata dalla competenza dell’équipe chirurgica o da tendenze di “scuola”; negli ultimi anni sembra esserci un aumento di preferenza verso l’esofagectomia transiatale (che non richiede la toracotomia), anche se questa tecnica riduce significativamente solo la perdita di sangue. Inoltre, in uno studio randomizzato l’esofagectomia toracica totale ha dimostrato una tendenza ad ottenere una migliore sopravvivenza. Le neoplasie dell’esofago cervicale richiedono una laringoesofagectomia, ma a causa della crescita infiltrativa nei confronti delle strutture adiacenti una resezione radicale è fattibile in una minoranza dei pazienti. La mortalità perioperatoria è ancora piuttosto elevata (8%).
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La sopravvivenza a 5 anni dall’intervento, nei centri più avanzati, è in funzione dello stadio; globalmente, si attesta intorno al 20%. Sono tuttavia possibili recidive anche a diversi anni di distanza o recidive lentamente evolutive, che rendono la sopravvivenza a 5 anni un parametro poco attendibile per la valutazione integrale dei risultati. L’intervento chirurgico viene attuato anche nei pazienti con metastasi ai linfonodi regionali, nonostante si tratti di un fattore prognostico molto negativo, in quanto occasionali guarigioni sono state descritte anche in questo caso. 2. Radioterapia. Il carcinoma squamocellulare è una neoplasia radiosensibile. La radioterapia può dunque rappresentare un momento importante del trattamento integrato di questi tumori oppure, in pazienti non candidabili ad un intervento chirurgico radicale per problemi medici intercorrenti, per la sede della neoplasia (esofago cervicale) o per la sua estensione alle strutture adiacenti, può essere applicata con intenti curativi. In questo caso i risultati migliori si ottengono nei pazienti con estensione longitudinale della neoplasia inferiore a 10 cm; le dosi curative sono superiori a 60 Gy. In centri specializzati, la sopravvivenza a 5 anni ottenuta con la radioterapia è risultata sovrapponibile a quella ottenuta con la chirurgia (circa il 20%), ma mancano veri studi prospettici randomizzati. L’applicazione preoperatoria della radioterapia in forme localmente avanzate non sembra migliorare né i tassi di resecabilità né la sopravvivenza a lungo termine. Mancano tuttora dati conclusivi sulla radioterapia postoperatoria; casistiche limitate sembrano indicare un aumento del controllo locale della malattia senza alcun impatto sulla sopravvivenza a lungo termine. Anche se è possibile che alcuni sottogruppi di pazienti traggano un beneficio da una radioterapia adiuvante, questa modalità di trattamento non dev’essere considerata standard. Si deve ricordare l’importanza palliativa della radioterapia; il trattamento radiante è in grado di risolvere l’ostruzione esofagea e i sintomi disfagici nel 75-85% dei pazienti, e questo effetto può protrarsi per diversi mesi. 3. Chemioterapia e trattamenti integrati. Anche se si riesce ad ottenere un adeguato controllo locale, molti pazienti con carcinoma esofageo soccombono per lo sviluppo di metastasi a distanza; questa fase può essere preceduta dallo sviluppo di micrometastasi, che si ritiene siano già presenti in molti casi al momento dell’intervento chirurgico. Questo comportamento giustifica il ricorso ad una terapia sistemica già all’inizio del trattamento. I risultati della chemioterapia nei pazienti con metastasi clinicamente rilevabili non vanno oltre gli obiettivi palliativi. La valutazione dell’attività dei singoli farmaci è resa difficile dalla spiccata eterogeneità di questi pazienti, le cui condizioni generali sono spesso scadute e non consentono approcci aggressivi. Inoltre, molti studi sono stati condotti in pazienti già pretrattati. Anche le dosi e le modalità di somministrazione sono molto variabili. In linea di massima, nessun farmaco dimostra livelli di attività superiori al 20-25% di risposte obiettive, quasi sempre parziali e di breve
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durata. Il farmaco più attivo è considerato il cis-platino, che viene pertanto quasi sempre incorporato nelle chemioterapie di combinazione. La polichemioterapia è più efficace dei farmaci singoli, ma le percentuali di risposta obiettiva restano basse (intorno al 40%) e la sopravvivenza dei pazienti è influenzata in modo del tutto marginale, restando tra 7 e 9 mesi. Il regime più utilizzato è la combinazione di cis-platino (100 mg/m2) e 5-fluorouracile in infusione continua (1000 mg/m2 al giorno per 4-5 giorni). Le prospettive più interessanti per la chemioterapia derivano dal suo uso preoperatorio (chemioterapia primaria o di induzione o neoadiuvante). In questo caso essa può essere somministrata da sola o in associazione alla radioterapia. Gli studi che hanno esplorato quest’ultimo approccio hanno dimostrato che molti pazienti con neoplasia localmente avanzata possono ottenere risposte tali da rendere possibile l’intervento chirurgico; inoltre, in una percentuale significativa dei casi operati (40%) non si riscontrano residui tumorali nel campione resecato (vale a dire, la chemioradioterapia è in grado di ottenere risposte complete microscopiche), con un evidente prolungamento della sopravvivenza. Tuttavia, la maggior parte degli studi è stata gravata da un aumento delle complicanze e della mortalità perioperatoria. Alcuni studi hanno cercato di evitare l’intervento chirurgico, proponendo una chemioradioterapia definitiva, ma la percentuale di recidive locali si è dimostrata nettamente superiore rispetto agli studi in cui l’atto chirurgico era parte integrante del trattamento. Gli studi di chemioterapia primaria hanno quasi sempre ottenuto risposte cliniche nell’ordine del 50-60%, con occasionali risposte complete microscopiche; l’operabilità è risultata soddisfacente, senza un apparente aumento di incidenza di complicanze. Non sono tuttavia ancora stati dimostrati sicuri benefici sulla sopravvivenza. In conclusione, la chemioterapia preoperatoria deve essere ancora considerata un trattamento sperimentale, e quindi essere proposto ai pazienti nell’ambito di studi rigorosamente costruiti e controllati. Gli studi sulla chemioterapia adiuvante sono ancora più limitati dal punto di vista numerico ed eterogenei per i criteri di selezione. È evidente la difficoltà di sottoporre un paziente operato di esofagectomia ad un trattamento chemioterapico o chemioradioterapico aggressivo; le percentualità di mortalità correlata ad eventi tossici sono sempre piuttosto elevate (15-20%) in questo tipo di studi. Esistono pochi studi clinici randomizzati dai risultati ancora non conclusivi. Il trattamento chemioterapico postoperatorio deve dunque essere considerato ancora meno “standard” rispetto al trattamento preoperatorio. 4. Adenocarcinoma. Le casistiche sull’adenocarcinoma esofageo sono numericamente limitate e consentono di trarre pochi suggerimenti sul trattamento di queste forme. Un intervento chirurgico con finalità curative è attuabile in una minoranza di pazienti, per i quali comunque la sopravvivenza a distanza è assai modesta. Le forme avanzate, sino a qualche anno fa assimilate ad adenocarcinomi gastrici, non sembrano invece dimostra-
ONCOLOGIA MEDICA
re differenze significative di comportamento rispetto all’istotipo squamocellulare, quando inserite negli studi clinici di chemio- e/o radioterapia preoperatoria o adiuvante. Dev’essere ricordato che l’esofago di Barrett rappresenta una condizione precancerosa per lo sviluppo di adenocarcinomi (con un rischio relativo 30-125 volte più alto rispetto alla popolazione generale) e quindi necessità di uno stretto “follow-up” endoscopico. A chiusura della terapia medica del carcinoma esofageo, devono essere ricordate le manovre terapeutiche attuate con finalità esclusivamente palliative per consentire l’alimentazione, quali la dilatazione endoscopica, il posizionamento di protesi, la laser-terapia, la brachiterapia intraluminale, gli interventi di diversione alimentare (digiunostomia).
TUMORI GASTRICI Tumori maligni Tumori epiteliali: carcinoma A. Epidemiologia. Il carcinoma gastrico è una delle neoplasie maligne più frequenti: pur se la sua incidenza è in progressiva diminuzione in tutti i paesi industrializzati, esso rappresenta tuttora la seconda più comune causa di morte per tumore nel mondo (nel 1930 negli USA era al primo posto tra gli uomini ed al terzo tra le donne e la sua incidenza, come causa di morte, era di circa 30/100.000 abitanti ed è poi diminuita nei successivi decenni fino agli attuali valori di 10/100.000 tra gli uomini e 5/100.000 tra le donne). Questa tendenza, cui fa riscontro l’aumento di decessi per le neoplasie degli altri tratti del tubo digerente e del pancreas, non trova conferma, almeno nella stessa misura, in altri paesi come il Giappone (dove il carcinoma dello stomaco rimane il più frequente tumore in entrambi i sessi e rappresenta il 20-30% di tutte le neoplasie con una incidenza di circa 70/100.000), la Cina, il Sud America (Cile soprattutto) e l’Europa dell’Est, ma anche, per quanto in misura minore, l’Austria, la Finlandia, la Germania, il Portogallo e l’Italia (circa 2030/100.000). È piuttosto raro che vengano colpiti soggetti con meno di 40 anni (solo il 5% di tutti i casi) e la frequenza della malattia aumenta nelle età successive raggiungendo l’incidenza più alta nel settimo decennio; vengono colpiti gli uomini più che le donne (2:1). Il calo di frequenza riguarda in particolare le forme di carcinoma gastrico a localizzazione distale (antro e corpo), mentre l’incidenza rimane abbastanza elevata per quelle della giunzione gastroesofagea e della porzione più prossimale: il che suggerisce l’ipotesi che queste ultime abbiano, verosimilmente, una patogenesi comune che sia differente da quella delle neoplasie a localizzazione distale. B. Eziopatogenesi. La causa del carcinoma gastrico è sconosciuta; sono state individuate, peraltro, varie condizioni predisponenti.
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1. Fattori genetici (eredocostituzionali). Il cancro dello stomaco è particolarmente frequente in alcune famiglie (storicamente rilevante il caso della famiglia Bonaparte: Napoleone, suo padre Carlo e suo nonno Giuseppe morirono tutti a causa di questa malattia così come alcuni fratelli e sorelle). I pazienti con carcinoma del colon-retto non poliposico ereditario (sindrome di Linch di tipo II), una rara sindrome autosomica dominante, presentano un elevato rischio di cancro dello stomaco. L’incidenza della malattia nei familiari dei soggetti che ne sono affetti è più alta di 2-3 volte che nella popolazione generale. Nell’ambito di una stessa nazione, inoltre, sono spesso particolari gruppi etnici ad essere più frequentemente colpiti di altri (neri americani, popolazione di origine celtica). Altri fenomeni sembrano ulteriormente avvalorare l’importanza di fattori genetici: l’incidenza della malattia tra i soggetti di gruppo sanguigno A è maggiore del 10-20% che nella restante popolazione, mentre tra i portatori di questa neoplasia non si trovano praticamente individui “Lewis-negativi” che nella popolazione generale rappresentano circa il 7%. 2. Fattori geografici. Il cancro gastrico, come già ricordato, tende ad essere più frequente in alcuni paesi e, nell’ambito della stessa nazione, l’incidenza può variare nelle diverse zone (maggiore al nord che al sud, nelle regioni a clima freddo rispetto a quelle a clima caldo); inoltre è stato osservato che gli emigrati da paesi ad elevata incidenza verso altri ad incidenza bassa presentano una diminuzione della frequenza della malattia intorno alla seconda-terza generazione. 3. Fattori metabolico-nutrizionali. Sono state identificate correlazioni statistiche tra alcuni cibi consumati nei paesi ad alto rischio e l’incidenza del cancro gastrico; la dieta comune in queste nazioni è ricca di carboidrati e cereali, ma povera di frutta fresca e verdura, di grassi e di vitamine, soprattutto vitamina A. Non sembra che tale particolare composizione della dieta sia di per sé carcinogena, piuttosto essa sarebbe in grado di favorire l’azione di eventuali noxae patogene nei confronti della mucosa gastrica. È di recente osservazione, inoltre, che la presenza nell’acqua potabile o nel cibo di nitroguanidina o di metilacetilnitrosurea è in grado di provocare l’insorgenza di cancro gastrico nell’animale da esperimento. Questi nitrocomposti (nitrosamine) possono formarsi anche nell’uomo in seguito alla conversione di nitrati contenuti negli alimenti in nitriti che interagiscono quindi nello stomaco con amine secondarie o terziarie formando nitrosamina ad attività cancerogena; in questo senso un ruolo patogenetico importante è quello svolto da batteri anaerobi che spesso colonizzano lo stomaco già affetto da gastrite atrofica e metaplasia intestinale ed in grado di trasformare nitrati e nitriti in nitrosamine (per es., è stata osservata una correlazione positiva in Giappone tra l’incidenza del cancro gastrico ed il consumo di pesce salato la cui conservazione, come quella di tutti i cibi affumicati, richiede discrete quantità di nitrati; in Cile, inoltre, esistono abbondan-
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ti depositi di nitrati la cui concentrazione, perciò, può essere particolarmente elevata negli alimenti e nell’acqua). Per quanto riguarda il fumo, esso aumenta il rischio di tumore dello stomaco di 1,5-3 volte così come è aumentato in questi casi il rischio di displasia gastrica e di altre lesioni potenzialmente precancerose. 4. Gastrite atrofica. L’importanza di questa malattia come lesione precancerosa è correlata al fatto che dal punto di vista anatomopatologico essa è caratterizzata dalla scomparsa della componente ghiandolare e dalla presenza, in oltre il 40% dei casi, di metaplasia intestinale e di fenomeni rigenerativi aberranti della mucosa, localizzati soprattutto nella regione antrale. L’importanza di questa lesione deriva dalla sua elevata incidenza nella popolazione: infatti è stato calcolato che il 2025% dei soggetti giovani apparentemente sani ed il 5060% delle persone anziane presentano istologicamente una gastrite atrofica. D’altra parte, più della metà dei tumori maligni dello stomaco insorgono in zona di metaplasia intestinale in corso di gastrite atrofica e l’intestinalizzazione della mucosa gastrica è stata associata al 90% dei casi di cancro gastrico; inoltre l’osservazione protratta (oltre 10 anni) di pazienti con gastrite cronica atrofica ha dimostrato che, nell’8-10% dei casi, si sviluppa il carcinoma gastrico. 5. Anemia perniciosa. Il 6% dei pazienti affetti da questa malattia sviluppa nel tempo il cancro gastrico (il rischio è 2-3 volte maggiore che nella popolazione generale); anche in questo caso la condizione predisponente sta nelle modificazioni anatomopatologiche rappresentate dalla presenza di metaplasia intestinale. 6. Polipi adenomatosi gastrici. Queste neoplasie benigne vanno considerate come vere e proprie lesioni precancerose: l’1,5% circa di tutti i pazienti affetti da disturbi gastrici sono affetti da polipi, che costituiscono il 10% di tutti i tumori dello stomaco. Il rischio di degenerazione neoplastica vale solo per i polipi con il carattere di adenomi, i quali si localizzano soprattutto in regione antrale e pilorica e sono particolarmente frequenti in corso di gastrite atrofica, specialmente se associata ad anemia perniciosa. I polipi possono essere peduncolati o sessili; in questi ultimi la degenerazione neoplastica è più frequente; il rischio è minore nelle poliposi multiple che sono costituite quasi sempre da polipi iperplastici; infine la probabilità di degenerazione maligna aumenta con l’aumento delle dimensioni del polipo (in particolare se il diametro supera i 2 cm). 7. Ulcera gastrica. La frequenza della degenerazione neoplastica di questa malattia è assai variabile nelle differenti casistiche (in media 10% dei casi). Le ulcere di piccole dimensioni sembrano degenerare meno frequentemente rispetto a quelle di dimensioni maggiori; le ulcere situate in regione prepilorica e cardiale degenerano più frequentemente rispetto a quelle localizzate altrove.
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In realtà gli studi più recenti sembrano indicare che la degenerazione maligna di un’ulcera benigna è un evento estremamente raro e che nella quasi totalità di questi casi si tratta già di neoplasie gastriche in stadio molto precoce, con aspetto ulcerato, tanto da essere confuse con l’ulcera vera e propria. È stato anche osservato che il rischio di carcinoma gastrico aumenta nel tempo (10-20 anni) dopo intervento di resezione gastrica parziale secondo Billroth II per ulcera peptica. 8. Helicobacter pylori. Studi epidemiologici hanno chiaramente dimostrato l’esistenza di un’associazione tra infezione da H. pylori e carcinoma gastrico (il rischio è più alto di 3-6 volte). Tale associazione sembra essere ristretta al tumore di tipo intestinale (si veda oltre) e a localizzazione distale e non sembra essere correlata allo sviluppo di ulcera peptica che di frequente si riscontra in questi soggetti. Il ruolo preciso dell’infezione da H. pylori nella carcinogenesi gastrica non è chiaro per quanto si ritenga che sia da mettere in relazione all’insorgenza di gastrite cronica atrofica indotta da tale microrganismo. D’altra parte il carcinoma gastrico si sviluppa soltanto in una piccola percentuale dei pazienti portatori di H. pylori per cui si suppone che l’insorgenza della malattia neoplastica richieda l’intervento di altri fattori, genetici o di altra natura (tra l’altro l’effetto della prevenzione o del trattamento dell’infezione da H. pylori sul rischio di sviluppo di carcinoma dello stomaco non è conosciuto, a differenza di quanto avviene per il linfoma gastrico H. pylori-correlato). Le tappe dell’evoluzione della gastrite cronica da H. pylori a carcinoma gastrico sono riassunte nello schema di figura 41.2. 9. Genetica molecolare. Il ruolo degli “oncogeni” e dei geni “antioncogeni” nella patogenesi del carcinoma dello stomaco è stato recentemente considerato con attenzione. Così come per il carcinoma del colon-retto, delezioni alleliche dei geni MCC, APC e del gene della proteina oncosoppressiva p53 sono state descritte in una variabile percentuale di pazienti con cancro gastrico; per contro, a differenza di quanto avviene per il carcinoma del colon e del pancreas, in questo caso molto raramente si riscontrano mutazioni a carico dell’oncogene K-RAS. Peraltro, a proposito di questo argomento, nuovi studi sono necessari per poter meglio definire il significato di queste caratteristiche molecolari nell’eziopatogenesi di questa malattia. C. Fisiopatologia. Il carcinoma gastrico è una neoplasia di tipo epiteliale costituita da elementi provenienti dalla mucosa dello stomaco, la quale mostra di solito nella sede di impianto del tumore imponenti segni di metaplasia intestinale con caratteristica assenza di cellule principali e parietali nel contesto del tessuto neoplastico. L’adenocarcinoma rappresenta più del 90% dei tumori dello stomaco (il resto essendo costituito soprattutto da linfomi non-Hodgkin e leiomiosarcomi).
ONCOLOGIA MEDICA
Mucosa gastrica normale
H. pylori
Gastrite cronica attiva di tipo B 1. Fattori genetici 2. Fattori macroambientali (dieta, farmaci, fumo, alcool, ecc.) 3. Fattori microambientali (reflusso duodenogastrico, batteri, nitroso-composti)
Gastrite cronica atrofica
Metaplasia intestinale completa
Metaplasia intestinale incompleta di tipo I e II
Metaplasia intestinale incompleta di tipo III
Displasia
Carcinoma gastrico intestinale
Figura 41.2 - Schema dell’evoluzione della gastrite cronica.
In rapporto agli aspetti macroscopici, si possono distinguere tre varietà principali: ulcerativa (28%), polipoide (23%), infiltrativa (13%); esiste, inoltre, un ulteriore più numeroso (36%) gruppo di carcinomi dello stomaco, comprendente le caratteristiche delle diverse varietà contemporaneamente. La forma ulcerativa presenta alcuni caratteri distintivi rispetto alle ulcere benigne in particolare per quanto riguarda la localizzazione, assai frequente sulla grande curvatura, e le dimensioni potendo alcune ulcere neoplastiche superare il diametro di 4 cm. La forma polipoide è una proliferazione vegetante all’interno dello stomaco che può raggiungere anche dimensioni ragguardevoli; di regola presenta un aspetto a cavolfiore. La forma infiltrativa è caratterizzata da uno sviluppo intramurale che può limitarsi allo spessore della mucosa o infiltrare la parete a tutto spessore fino a completa rigidità di quest’ultima; in questo gruppo va compresa anche la cosiddetta “linite plastica”, in cui si riscontra un notevole incremento di tessuto connettivo con deformazione di tutta la cavità gastrica o di parte di essa (stomaco a borsa di cuoio nel primo caso, stomaco a clessidra nel secondo). Dal punto di vista anatomopatologico, attualmente si considerano prevalentemente due tipi di carcinoma gastrico: quello intestinale e quello diffuso. Il primo, più
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frequente, colpisce più spesso soggetti di età avanzata, si associa alla gastrite e alla metaplasia intestinale ed è caratterizzato da elementi ghiandolari ben distinti e da una diffusione circoscritta. Il tipo diffuso, invece, colpisce anche soggetti di giovane età, non è associato alla metaplasia intestinale ed ha una spiccata tendenza alla diffusione ed all’infiltrazione. In questi ultimi decenni si è assistito ad un progressivo decremento dell’incidenza del carcinoma gastrico di tipo intestinale, mentre, al contrario, la forma diffusa ha mantenuto un’incidenza sostanzialmente costante. Il termine carcinoma in situ viene invece utilizzato per le forme in cui la proliferazione neoplastica è limitata alla sola tonaca mucosa e si ritiene che questo sia uno stadio costante nello sviluppo di ogni neoplasia. Tutte le zone dello stomaco possono essere colpite; in ordine decrescente: regione pilorica e antrale (50% dei casi), piccola curvatura (20%), regione cardiale (9%), grande curvatura (7%). Le localizzazioni piloriche e cardiali provocano in genere precoce insorgenza della sintomatologia, la quale, comunque, compare piuttosto presto in tutte le forme, in quanto la diffusione metastatica avviene di regola molto precocemente. Questa può seguire numerose vie, come l’estensione per contiguità, l’embolizzazione attraverso le vie linfatiche (sono colpiti linfonodi vicini al tumore senza che siano reperite cellule neoplastiche nelle vie di drenaggio linfatico), la diffusione per via linfatica (caratteristico l’interessamento dei linfonodi in sede sovraclaveare, specie quelli di sinistra o segno di Troisier), la diffusione per via ematogena (soprattutto al fegato), la colonizzazione delle sierose (nella donna: localizzazione ad entrambe le ovaie attraverso il peritoneo, tumore di Krukenberg). Negli ultimi anni è stata definita una particolare entità anatomoclinica di questa neoplasia, detta “early gastric cancer” che ha trovato la sua caratterizzazione soprattutto in Giappone, dove gli screening di massa hanno permesso l’identificazione di carcinomi limitati esclusivamente alla mucosa ed alla sottomucosa; l’incidenza del cancro precoce, con il progredire delle tecniche diagnostiche, è aumentata dal 5 al 30%; la sintomatologia clinica è di regola assai scarsa e la sua identificazione avviene per lo più casualmente; i disturbi soggettivi non sono facilmente differenziabili da quelli di un’ulcera peptica. D. Clinica. 1. Sintomi iniziali. Il carcinoma gastrico può decorrere per lungo tempo asintomatico o con sintomatologia lieve ed aspecifica, così da ostacolare spesso la possibilità di una diagnosi tempestiva; è calcolato in media in 6-8 mesi il tempo che intercorre tra la comparsa dei primi sintomi e la prima osservazione da parte del medico e tale intervallo corrisponde anche al tempo che intercorre tra l’esordio clinico e l’inoperabilità della neoplasia. Nella maggior parte dei casi i primi sintomi sono rappresentati da generici disturbi digestivi: vago senso di fastidio e di ripienezza in epigastrio, rigurgiti, erutta-
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zioni, digestione prolungata; in circa il 25% dei casi i sintomi inziali possono simulare un’ulcera gastrica con tipico dolore ritmato con i pasti. Altre volte, in assenza di qualsiasi sintomatologia a carico dell’apparato digerente, i sintomi iniziali sono di carattere generale: astenia, febbre, perdita di peso, anoressia generica o più specifica per un determinato alimento (soprattutto la carne, sarcofobia), perdita di desiderio del fumo. È meno frequente, ma non eccezionale, che l’esordio sia rappresentato da un episodio emorragico con ematemesi e/o melena; raramente nelle forme ulcerative l’inizio può essere contrassegnato da un episodio di perforazione gastrica. Talvolta, precedendo anche di molti mesi qualsiasi altro sintomo, l’esordio è rappresentato da anemia, più spesso di tipo microcitico (sideropenica). Nei tumori localizzati in prossimità dell’orifizio cardiale, la sintomatologia iniziale predominante può essere di tipo disfagico, mentre in quelli prepilorici il quadro clinico può esordire con sintomi di ostruzione pilorica. Talvolta, infine, in assoluta latenza di disturbi gastrici, la neoplasia può essere rivelata solo attraverso il riscontro delle metastasi. Il cancro gastrico “iniziale” può presentarsi in tre forme principali all’esame endoscopico: piatta, escavata (facilmente confondibile con l’ulcera benigna) e polipoide. Per quanto riguarda l’istogenesi, le forme indifferenziate, più frequenti nei giovani, traggono origine da mucosa gastrica normale, mentre le forme differenziate, solitamente più comuni in età avanzata, originano in genere da aree di metaplasia intestinale. Il termine “iniziale” è usato in senso prognostico per indicare uno stadio del carcinoma gastrico in cui esso è ancora guaribile: per esempio, vengono riportate per questi casi, dopo terapia chirurgica, percentuali di sopravvivenza a 5 anni superiori al 90% e a 10 anni superiori all’80%, nettamente migliori di quelle che si registrano per tutte le altre forme di carcinoma dello stomaco (si veda in seguito). 2. Sintomi delle fasi avanzate. Con il progredire della malattia, le manifestazioni cliniche di carattere generale e quelle gastriche divengono più marcate e frequenti: dispepsia, anoressia, nausea, perdita di peso, astenia, anemizzazione, comparsa di edemi discrasici soprattutto ai malleoli; può essere presente febbre e nei confronti di alcuni cibi, classicamente la carne, il paziente può avere invincibile ripugnanza. Non infrequente è il vomito, spesso di materiale brunastro (caffeano) da emorragia intragastrica; emorragie massive possono provocare ematemesi e/o melena. Quando il tumore è localizzato in sede cardiale, la sintomatologia è dominata da disfagia e dolore retrosternale di tipo oppressivo; spesso nelle forme di tipo scirroso, come la linite plastica, possono essere presenti diarrea e dolori ai quadranti addominali inferiori; un addome acuto può conseguire alla perforazione. 3. Segni. In circa il 40% dei pazienti è possibile apprezzare una massa in sede epigastrica soprattutto nelle fasi più avanzate in cui, inoltre, è frequente il riscontro di epatomegalia metastatica e di tumefazioni linfonodali, specialmente in regione sopraclaveare sinistra (segno
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di Troisier) o pettorale (segno di Irish) o prerettale (segno di Blumer). I pazienti appaiono pallidi per l’anemia, fortemente astenici e nelle forme più avanzate possono presentare ascite, noduli cutanei e, nella donna, tumefazione ovarica all’esplorazione ginecologica da metastasi bilaterale alle ovaie (tumori di Krukenberg). Inoltre possono essere osservate, per quanto in modo non frequente, varie sindromi paraneoplastiche tra le quali ricordiamo: anemia emolitica microangiopatica, glomerulopatia membranosa, rapida comparsa di cheratosi seborroica (segno di Leser-Trelat), Achantosis nigricans, coagulopatia intravascolare disseminata con possibile trombosi arteriosa e/o venosa (sindrome di Trousseau) e, assai di rado, dermatomiosite. E. Diagnosi. 1. Esami di laboratorio. L’esame del secreto gastrico è importante dal punto di vista diagnostico anche se il suo significato è considerato meno probante che in passato; infatti l’acloridria dopo stimolazione con pentagastrina può senz’altro escludere l’esistenza di ulcera peptica benigna, e deporre per una forma neoplastica, ma è stato riscontrato che molti pazienti con cancro-ulcera hanno una debole secrezione acida. Anemia sideropenica per stillicidio occulto e per alterato assorbimento del ferro è presente in circa il 50% dei pazienti; l’anemia può essere macrocitica in caso di associazione con anemia perniciosa e gastrite atrofica. La ricerca del sangue occulto nelle feci è positiva in circa il 50% dei casi; la presenza di significativo aumento di 5-nucleotidasi o fosfatasi alcalina o -GT può essere indice di metastasi epatiche od ossee; i livelli di albumina sierica possono essere ridotti a causa della protidodispersione da parte della mucosa gastrica coinvolta dalla neoplasia. A dispetto dell’entusiasmo iniziale, i marker tumorali sierologici non sembrano molto utili per la diagnosi precoce di carcinoma gastrico. Il CEA è meno di frequente elevato che nelle neoplasie del colon-retto; sebbene livelli patologici (> 5 ng/ml) siano stati riportati nel 40-50% dei pazienti con carcinoma gastrico metastatico, incrementi di analoga entità sono stati osservati soltanto nel 10-20% dei soggetti con malattia chirurgicamente resecabile (se mai questo marker può essere utile nel “follow-up” postoperatorio nel senso che un suo aumento, dopo la normalizzazione conseguente all’intervento chirurgico, può suggerire la comparsa di recidiva della malattia). Anche l’-fetoproteina (più spesso associata a carcinoma epatico) ed il CA 19.9 (o GICA, più comunemente correlato al carcinoma del pancreas) sono elevati in circa il 30% dei pazienti con tumore dello stomaco, ma, come il CEA, il loro incremento si registra soprattutto nei casi di malattia estesa e, perciò, anch’essi non sono utili per la diagnosi precoce. 2. Esami strumentali. La radiologia costituisce ancora oggi una tecnica diagnostica molto efficace nello studio delle lesioni dello stomaco; la sensibilità del metodo raggiunge anche il 95% dei casi (se con la tecnica del doppio contrasto).
ONCOLOGIA MEDICA
Gli aspetti più caratteristici delle neoplasie maligne sono rappresentati da: • forme vegetative: difetti di riempimento, dovuti alla presenza di vegetazioni tumorali che sporgono nel lume (Fig. 41.3); • forme ulcerative: immagini di nicchie con aspetti differenti: a fondo piatto o “en plateau” con margini notevolmente rilevati; ad incastro, perdita di sostanza nell’ambito della proliferazione neoplastica; a menisco, immagine di plus di forma semicircolare circondata da ampio alone radiotrasparente dovuto alla presenza del tumore; • forme infiltrative: rigidità e mancata distensione delle pareti gastriche, globale (stomaco a borsa di cuoio) o segmentaria (stomaco a clessidra); queste forme sono di solito meglio evidenziabili con l’esame radiologico che con l’endoscopia; • immagini di stenosi: frequenti soprattutto in caso di neoplasie in prossimità del piloro. La gastroscopia è, comunque, la tecnica fondamentale diagnostica delle neoplasie gastriche. Malgrado la grande versatilità dei moderni endoscopi, l’aspetto macroscopico da solo non è sempre sufficiente per distinguere un’ulcera benigna da un’ulcera maligna e la sensibilità di questa metodica è dell’80-90%, ma, se ad essa si aggiungono biopsie multiple e la citologia, sale al 96-98%. Per quanto riguarda la citologia, questa costituisce un importantissimo completamento diagnostico dell’esame
Figura 41.3 - Carcinoma vegetante dell’antro gastrico. (Istituto Scientifico S. Raffaele, Dipartimento Bioimmagini, Milano)
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endoscopico e morfologico (sensibilità del 90%) eventualmente con l’integrazione della tecnica del “brushing”, in quanto in alcuni casi è difficile ottenere cellule in quantità sufficiente dal liquido di lavaggio, soprattutto in presenza di neoplasie non epiteliali. La TC dell’addome (o “total-body”), infine, può mettere in evidenza l’estensione del tumore primitivo così come la presenza di metastasi ai linfonodi loco-regionali o di localizzazioni secondarie in altre sedi (lo stesso vale per l’ecografia), ma il confronto tra i risultati forniti da questa metodica e quelli della laparotomia indica che la TC tende spesso a sottostimare l’estensione della malattia (peraltro con essa e con l’ecografia si può ottenere una valutazione abbastanza corretta riguardo lo sviluppo della neoplasia con un’approssimazione del 70-80%). F. Prognosi. La gravità della prognosi è strettamente correlata alla notevole difficoltà di una diagnosi precoce; infatti lo stadio patologico della neoplasia rappresenta il fattore prognostico più importante (da questo punto di vista il tumore primitivo può, in sintesi, essere differenziato in: Tis o carcinoma in situ; T1 con invasione della lamina propria e/o sottomucosa; T2 con invasione della tonaca muscolare; T3 con invasione della tonaca sierosa; T4 con invasione delle strutture adiacenti). Al di là dello stadio della malattia, il carcinoma gastrico di tipo intestinale è associato ad una più alta percentuale di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi, dopo resezione chirurgica, rispetto al carcinoma di tipo diffuso (rispettivamente circa 25% e 15%). La prognosi è peggiore nelle forme poco differenziate ed in quelle in cui sono presenti alterazioni di carattere genetico (delle quali s’è già parlato); inoltre è importante, in questo senso, la localizzazione della neoplasia primitiva ricordando che, per esempio, negli USA il 37% di questi tumori si sviluppa nel III prossimale dello stomaco, il 20% nel III medio, il 30% nel III distale ed il 10% circa coinvolge l’intero stomaco. La percentuale di sopravvivenza a 5 anni dall’exeresi chirurgica è del 20-25% per i pazienti con tumore distale, 10% per quelli con tumore prossimale e meno del 5% per quelli in cui la malattia interessa tutto lo stomaco (la minore sopravvivenza dei pazienti con neoplasia a localizzazione prossimale può essere espressione di maggiore aggressività clinica o di più indifferenziate caratteristiche istologiche o anche di maggiori difficoltà tecniche per un’exeresi radicale in cui, cioè, sia possibile ottenere margini liberi da malattia sufficientemente ampi). G. Terapia 1. Chirurgia. Nonostante la continua riduzione di incidenza negli USA e in Europa Occidentale, il carcinoma gastrico resta una delle maggiori cause di morte per cancro nel mondo. Il miglioramento delle conoscenze sulla biologia di questo tumore non si è sinora tradotto in un aumento delle probabilità di guarigione, che restano in sostanza affidate ad una diagnosi precoce e al-
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la possibilità di attuare un intervento chirurgico radicale. Ancora oggi, circa il 60% dei pazienti giunge alla diagnosi con una malattia in stadio avanzato (stadio III o IV), in cui l’intervento chirurgico con intento curativo è difficilmente realizzabile. La sopravvivenza a 5 anni dopo intervento chirurgico per pazienti con malattia in stadio III è pari al 13-28%, mentre per lo stadio IV scende al 3-8%; si tratta dunque di neoplasie in gran parte incurabili. Viceversa, le neoplasie in stadio I (più frequentemente riconosciute in Estremo Oriente per l’attuazione di campagne di screening endoscopico) hanno una sopravvivenza a 5 anni superiore all’80% (Tab. 41.1). L’intervento chirurgico di scelta, per adeguatezza oncologica e bassa incidenza di complicanze gravi, è la gastrectomia radicale subtotale, che prevede la rimozione di circa l’80% dello stomaco (con margini di resezione ad almeno 5 cm dai limiti visibili della neoplasia), dell’omento, della prima porzione del duodeno e del tessuto linfatico contenuto nel legamento epatoduodenale, nel legamento gastroepatico e nel legamento gastrocolico. Per le neoplasie più prossimali, gli Tabella 41.1 - Stadiazione del carcinoma gastrico (TNM 2002). T Tx T0 Tis T1 T2 T2a T2b T3 T4 N Nx N0 N1 N2 N3 M Mx M0 M1
Tumore primitivo Impossibilità di stabilire l’estensione del tumore primitivo Nessuna evidenza del tumore primitivo Carcinoma in situ Invade la lamina propria o la sottomucosa Invade la muscolare propria o la sottosierosa - Invade la muscolare propria - Invade la sottosierosa Invade la sierosa (peritoneo viscerale) senza invasione delle strutture adiacenti Invade le strutture adiacenti Linfonodi regionali Impossibilità di valutare l’estensione ai linfonodi regionali Linfonodi regionali indenni Metastasi in 1-6 linfonodi regionali Metastasi in 7-15 linfonodi regionali Metastasi in >15 linfonodi regionali Metastasi a distanza Impossibilità di valutare la presenza di metastasi a distanza Assenza di metastasi a distanza Presenza di metastasi a distanza
Raggruppamento in stadi Stadio 0 Tis, N0, M0 (sopravvivenza a 5 anni: 89%) Stadio IA T1, N0, M0 (sopravvivenza a 5 anni: 78%) Stadio IB T1, N1, M0 oppure T2a-b, N0, M0 (sopravvivenza a 5 anni: 58%) Stadio II T1, N2, M0 oppure T2, N1, M0 oppure T3, N0, M0 oppure T2, N2, M0 (sopravvivenza a 5 anni: 34%) Stadio IIIA T3, N1, M0 oppure T4, N0, M0 (sopravvivenza a 5 anni: 20%) Stadio IIIB T3, N2, M0 oppure T4, N1-N3, M0 (sopravvivenza a 5 anni: 8%) Stadio IV T1-T3, N3, M0 oppure ogni T, ogni N, M1 (sopravvivenza a 5 anni: 7%)
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interventi di scelta sono invece la gastrectomia totale o la resezione gastrica prossimale, che però è gravata da una maggiore incidenza di disturbi postoperatori (anoressia, “dumping”, bruciore retrosternale). La splenectomia dev’essere limitata ai casi con evidente interessamento della milza o dei linfonodi dell’ilo splenico o ai casi in cui la neoplasia invade la metà prossimale dello stomaco (anche se la sua utilità profilattica, in questa situazione, è contestata da diversi Autori). È ancora aperto un vivace dibattito tra i sostenitori dei diversi tipi di resezione linfonodale. È stato infatti dimostrato che la prognosi del carcinoma gastrico è funzione del livello dei linfonodi interessati ma soprattutto del numero dei linfonodi interessati, come stabilito dall’ultimo TNM (2002). Nella resezione D1, utilizzata soprattutto negli USA, è necessaria la rimozione dei linfonodi lungo la piccola e grande curvatura; l’intervento è considerato adeguato se nel campione sono rinvenuti almeno 15 linfonodi. Nella resezione D2, lanciata dai chirurghi giapponesi e negli ultimi anni sempre più utilizzata in Europa, è effettuata la rimozione integrale della borsa omentale attraverso la dissezione dello strato frontale del mesocolon traverso con isolamento completo dei peduncoli vascolari dello stomaco. Al momento, due studi randomizzati effettuati in Olanda e nel Regno Unito non sono riusciti a dimostrare alcun beneficio di sopravvivenza per la resezione più estesa, che tuttavia continua a essere preferita in molti centri di alta specializzazione, anche oltre oceano (per esempio, all’MD Anderson Cancer Center di Houston e al Memorial Sloan Kettering di New York), in grado di contenere la maggiore morbilità e mortalità perioperatoria di questa procedura. È da porre l’accento sull’importanza di un’accurata stadiazione preoperatoria per evitare interventi troppo estesi in pazienti con malattia limitata (“early gastric cancer”) o già estesa oltre i limiti di curabilità chirurgica. Le linee guida internazionali raccomandano l’uso della TC addominale e pelvica, ma sempre più utilizzati sono l’ecografia endoscopica, la laparoscopia e l’ecografia laparoscopica, mentre ancora sperimentali sono la PET e la biopsia del linfonodo sentinella. 2. Chemioterapia. Ha sino ad oggi prodotto risultati complessivi modesti nel trattamento del carcinoma gastrico metastatico. La maggior parte dei farmaci antiproliferativi ha un’attività moderata (10-20% di risposte obiettive) o minima (< 10%) nei confronti delle forme avanzate. Come risultato, negli studi multicentrici su larga scala sino ad ora condotti la sopravvivenza mediana non ha mai superato i 9 mesi, senza nessuna evidente superiorità di uno schema sull’altro, se si eccettua lo studio britannico che ha confrontato lo schema ECF (epirubicina, cis-platino, 5-fluorouracile in infusione continua) con lo schema FAMTX (5-fluorouracile, adriamicina, methotrexate). Lo schema ECF è attualmente il più utilizzato in Europa, con tassi di risposta obiettiva intorno al 40%. Negli USA sono invece più frequentemente utilizzati schemi comprendenti nuovi farmaci, come le combinazioni di irinotecan e cis-platino, docetaxel e cis-platino, docetaxel, cis-platino e 5-fluorouracile in infusione continua. Quest’ultimo
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schema è risultato superiore all’associazione convenzionale di cis-platino e 5-fluorouracile sia in termini di risposta (38% contro 23%) che di sopravvivenza (10,2 mesi contro 8,5). Come in altre malattie, sono in corso studi sulla “targeted therapy”, diretta contro bersagli molecolari critici per la crescita, la progressione e la metastatizzazione del carcinoma gastrico. 3. Terapia adiuvante. Per la maggior parte dei pazienti con carcinoma gastrico, l’intervento chirurgico, per quanto radicale, si traduce in una probabilità di guarigione definitiva piuttosto bassa. Da ciò deriva il tentativo di migliorare i risultati con interventi di terapia adiuvante. Non esistono allo stato attuale dati conclusivi per raccomandare l’uso routinario della chemioterapia adiuvante al di fuori di studi clinici. I regimi chemioterapici utilizzati sino alla fine degli anni ’90 non hanno dimostrato alcun beneficio negli studi randomizzati contro la sola osservazione e una meta-analisi pubblicata nel 1999 ha confermato la sostanziale inefficacia della chemioterapia adiuvante. Sono in corso studi che includono regimi chemioterapici più moderni, con farmaci dimostratisi attivi nella fase palliativa della malattia metastatica. Il progresso maggiore è dovuto alla pubblicazione dei risultati dello studio americano intergruppo (SWOG 9008/INT 0116), in cui pazienti con carcinoma gastrico resecato (stadio IB-IV, senza metastasi a distanza) sono stati randomizzati ad una semplice osservazione o ad una chemioradioterapia con 5-fluorouracile, acido folinico e radioterapia (45 Gy). Nonostante una tossicità elevata, sia la sopravvivenza libera da malattia (30 mesi contro 19) che la sopravvivenza globale (35 mesi contro 28) sono risultate significativamente superiori per il braccio con il trattamento combinato. Questo studio ha fatto divenire standard la chemioradioterapia adiuvante con 5-fluorouracile e acido folinico negli USA, ma è stato rilevato che la sopravvivenza osservata nel braccio osservazionale è inferiore a quella registrata in altri studi e ciò può essere legato ad una chirurgia inadeguata, con una resezione linfonodale inferiore agli standard raccomandati. In Europa la chemioradioterapia adiuvante non è routinariamente impiegata e si attendono i risultati di altri studi. La chemioterapia primaria o neoadiuvante è in grado di produrre risposte cliniche tali da rendere radicalmente asportabili il 40-60% delle neoplasie localmente avanzate che si presentano non resecabili alla laparotomia di prima istanza. La possibilità di effettuare in questi pazienti un intervento chirurgico radicale si traduce in un netto vantaggio in termini di sopravvivenza mediana (24 mesi vs. 6 mesi). Tuttavia i problemi aperti dalla terapia neoadiuvante sono ancora molti e il suo utilizzo è per questi motivi scarsamente diffuso. La stadiazione prechirurgica è spesso ancora imprecisa e questo determina l’inclusione in protocolli di chemioterapia neoadiuvante di pazienti con malattia più limitata (per i quali questo approccio può essere un sovratrattamento) o più estesa (per esempio, pazienti con carcinomatosi peritoneale occulta, che hanno una probabilità di risposta nettamente inferiore e non traggono vantaggi in termini di sopravvi-
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venza). Molti dei regimi chemioterapici attualmente utilizzati sono tossici e quindi possono compromettere l’ attuazione rapida di un intervento chirurgico con intenti curativi, oltre che essere gravati da una mortalità intrinseca. Nonostante queste limitazioni, meritano una citazione i risultati dello studio MAGIC, condotto nel Regno Unito, che ha dimostrato un vantaggio in termini di sopravvivenza libera da progressione e di sopravvivenza globale per i pazienti trattati con 3 cicli di chemioterapia primaria secondo lo schema ECF, chirurgia e altri 3 cicli di chemioterapia adiuvante nei confronti dei pazienti trattati con sola chirurgia. Tumori non epiteliali Rappresentano circa il 10% di tutte le neoplasie maligne dello stomaco; le forme più comuni sono linfomi e leiomiosarcomi.
A. Linfomi gastrici. Costituiscono circa il 3% dei tumori maligni dello stomaco; molto più spesso si tratta di linfomi non-Hodgkin rispetto ai linfomi di Hodgkin così come molto rari sono i plasmocitomi (i linfomi gastrici primitivi sono meno comuni di quelli secondari). I due sessi sono colpiti con uguale frequenza; l’età prevalente è compresa fra i 50 e i 60 anni. La sintomatologia è praticamente indistinguibile da quella dell’ulcera o del carcinoma gastrico; l’ematemesi (20%) e la perforazione (10%) si verificano più spesso che nel cancro dello stomaco; una tumefazione addominale è apprezzabile in circa il 30% dei pazienti; nella metà dei casi è presente anemia sideropenica con positività della ricerca del sangue occulto nelle feci; la secrezione gastrica acida è spesso conservata tranne che nelle forme molto estese. La diagnosi è fondata sull’esame radiologico e su quello endoscopico, ma spesso l’aspetto macroscopico non è sufficientemente indicativo, per cui solo la biopsia mirata è in grado di risolvere i dubbi diagnostici legati alla presenza di queste neoplasie. Il trattamento consiste di una combinazione di terapia chirurgica, radioterapia e chemioterapia; per quanto riguarda la prognosi, nel 30-50% dei casi la sopravvivenza supera i 5 anni. Un aspetto particolare è quello che riveste l’associazione tra linfoma primitivo dello stomaco (che, come già detto, rappresentano circa il 3% dei tumori maligni a carico di questo organo) e infezione da H. pylori. Questi tumori sono di regola linfomi a cellule B, ad alto (70%) o basso (30%) grado di malignità, che originano dal “tessuto linfoide associato alla mucosa” (MALT). Il MALT non è presente normalmente a livello della mucosa dello stomaco, ma la sua formazione è correlata all’infezione da H. pylori: esistono attualmente numerose conferme epidemiologiche che legano lo sviluppo nello stomaco di questo microrganismo all’insorgenza di linfoma gastrico primitivo. Il 90% dei soggetti con tale patologia è portatore di infezione da parte di questo batterio e, di recente, è stato osservato che in questi casi l’infezione precede lo sviluppo della malattia.
Alla radice di quest’associazione sta non soltanto il fatto che l’H. pylori induce la formazione del MALT, ma anche che determina un continuo effetto stimolante, mediato da cellule T, sul processo linfoproliferativo. Questo spiega i recenti successi conseguiti con il trattamento antibiotico eradicante nei linfomi gastrici a basso grado di malignità in cui si è assistito, dopo l’eliminazione dell’infezione, alla regressione del linfoma nella maggior parte dei casi (oltre il 75%). Il linfoma MALT dello stomaco corrisponde, nella gran parte dei casi, secondo la classificazione di AnnArbor modificata nel 1975 da Musshoff, agli stadi Ie (senza linfonodi e interessamento di mucosa, sottomucosa, muscolare e sierosa) e, più raramente, II 1e (infiltrazione di linfonodi regionali) e II 2e (infiltrazione di linfonodi non regionali). B. Leiomiosarcomi. Costituiscono l’1-3% delle neoplasie gastriche maligne; l’età più colpita è intorno a 60 anni; la frequenza è uguale nei due sessi. Questi tumori sono più frequenti nella metà craniale dello stomaco; i segni clinici più importanti sono rappresentati da ematemesi e melena in rapporto alla particolare frequenza con cui queste neoplasie tendono ad ulcerarsi e a dare necrosi nella parte centrale; una tumefazione epigastrica è apprezzabile in circa il 50% dei casi; spesso è presente dolore nella stessa sede; frequente il riscontro di anemia sideropenica. L’esame radiologico non consente di regola di distinguere il leiomiosarcoma dal leiomioma benigno per cui la diagnosi è affidata soprattutto alla gastroscopia con biopsia mirata ed eventualmente con esame citologico dopo “brushing”. La terapia è essenzialmente chirurgica; la prognosi è in genere infausta, anche in relazione alla notevole estensione che la neoplasia può raggiungere e che spesso impedisce l’exeresi radicale del tumore.
Tumori benigni Rappresentano circa il 10% di tutte le neoplasie gastriche; hanno la medesima frequenza nel sesso maschile ed in quello femminile; l’età più colpita è per i tumori epiteliali al di sopra dei 40 anni, per quelli mesenchimali al di sopra dei 60; rarissime sono le neoplasie benigne dello stomaco in età infantile. Tumori epiteliali A. Adenomi o polipi epiteliali. Nelle diverse casistiche rappresentano dal 5 al 10% delle neoplasie dello stomaco; è importante tenere presente che gran parte dei cosiddetti polipi adenomatosi (80-90%) sono in realtà polipi di tipo iperplastico che non vanno considerati di natura neoplastica, trattandosi di proliferazioni costituite da normali componenti della mucosa gastrica; pertanto è necessario distinguere tra polipi iperplastici o rigenerativi ed adenomi, anche se abitualmente queste neoformazioni vengono tutte comprese in uno stesso gruppo, includendo sia le forme sessili sia quelle peduncolate.
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Gli adenomi veri e propri sono costituiti da ghiandole iperplastiche rivestite da epitelio cilindrico, senza cellule parietali e principali; la superficie è in genere liscia (polipo adenomatoso), ma può anche presentare proiezioni digitiformi (adenoma villoso). I polipi adenomatosi sono particolarmente frequenti nelle gastriti atrofiche, soprattutto se associate ad anemia perniciosa (5-20%); la sede più abituale è l’antro gastrico. Abitualmente i polipi adenomatosi hanno un diametro superiore a 2 cm e tendono a crescere nel tempo (quelli iperplastici di regola al di sotto di 1,5 cm); l’esame istologico mostra spesso metaplasia intestinale diffusa associata a notevoli atipie cellulari, mentre essa è molto infrequente e se mai focale nei polipi iperplastici. Solo gli adenomi, infatti, hanno una reale potenziale malignità correlata alla presenza della metaplasia, soprattutto per le forme sessili rispetto a quelle peduncolate e per le forme solitarie rispetto a quelle multiple, specialmente se di tipo villoso. Un’adenomatosi multipla a carico dello stomaco può essere presente nella sindrome di Peutz-Jeghers (poliposi familiare) o nella poliposi giovanile o nella sindrome di Cronkhite-Canada; la prima, che è anche la più frequente, è una poliposi multipla del tubo gastroenterico, ereditaria, trasmessa come carattere autosomico dominante, che nel 25% dei casi interessa lo stomaco o il duodeno e che si accompagna alla presenza di chiazze di pigmentazione bruna sulla cute e sulle mucose, soprattutto la cute intorno alle labbra, delle mani e dei piedi e la mucosa orale, rettale e nasale. È stato dimostrato che nel 2-3% dei casi la sindrome di Peutz-Jeghers evolve verso il carcinoma gastrico o duodenale. B. Altre neoplasie benigne. Le più rare sono il tumore carcinoide, neoplasia del sistema enterocromaffine più comune nel tenue e nel grosso intestino, ed il tumore da pancreas ectopico, molto simile ai polipi adenomatosi, localizzato soprattutto sulla grande curvatura e caratterizzato dalla presenza di tessuto pancreatico tipico. Tumori mesenchimali A. Leiomiomi. Sono i tumori mesenchimali benigni più frequenti; localizzati soprattutto nella regione del corpo, tendono ad assumere dimensioni notevoli (anche oltre 5 cm di diametro). Traggono origine dalla muscolatura liscia dello stomaco e possono svilupparsi sia verso la cavità sia verso la sierosa; notevole è la tendenza a dare necrosi centrale, per cui relativamente frequenti sono ematemesi e melena; tra i tumori mesenchimali sono quelli a più elevata potenziale malignità. B. Tumori neurogeni. Circa il 10% di tutti i tumori benigni dello stomaco sono costituiti da neoplasie di origine neurogena; tra essi prevalgono le forme che traggono origine dalle cellule della guaina di Schwann ed in particolare neurinomi e neurofibromi; si localiz-
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zano preferenzialmente al III medio dello stomaco; anche in questi casi è frequente la necrosi centrale con tendenza a dare ematemesi e melena. C. Altre neoplasie. Molto rare sono altre neoplasie come lipomi (III distale dello stomaco), fibromi e angiomi. 1. Clinica delle neoplasie benigne dello stomaco. La maggior parte dei tumori benigni dello stomaco sono un reperto casuale di indagini cliniche o autoptiche. La sintomatologia è variabile in rapporto alla sede, alle dimensioni, alla direzione di crescita, alla tendenza alla necrosi ed alle emorragie ed alla potenziale capacità di degenerazione maligna. Il quadro clinico è caratterizzato di regola dalla dispepsia presente in forme diverse in tutte queste neoplasie; sintomi come da stenosi del piloro sono spesso associati a polipi peduncolati o a lipomi localizzati in prossimità dello sfintere; tensione e dolore in epigastrio, senso di ripienezza postprandiale sono spesso presenti in caso di neoformazioni benigne di notevoli dimensioni. Gastrite atrofica, con ipo- e acloridria, si associa all’80-90% di tutti i polipi adenomatosi. Ematemesi e melena sono frequentemente associate ai tumori di origine mesenchimale. Non sono rare anche le perdite occulte di sangue con le feci e la presenza di anemia sideropenica. 2. Diagnosi e terapia. La diagnosi è fondata sull’esame radiologico e quello endoscopico, quest’ultimo completato eventualmente da biopsie mirate della massa neoplastica; la terapia consiste essenzialmente nella asportazione endoscopica o chirurgica del tumore; un’indicazione assoluta alla resezione gastrica è data dalla presenza di una poliposi multipla o di un polipo solitario villoso o comunque dalla presenza di atipie cellulari, in rapporto alla potenziale malignità della lesione.
TUMORI INTESTINALI I tumori dell’intestino tenue, sia benigni che maligni, sono estremamente rari (circa l’1% di tutte le neoplasie dell’apparato digerente); essi sono rappresentati soprattutto da adenocarcinomi, ma sono relativamente frequenti anche i linfomi, sia quelli primitivi, talvolta correlati al morbo celiaco, sia quelli secondari. La diagnosi di queste neoplasie è sempre estremamente difficile, anche per la loro evoluzione spesso piuttosto lenta, per cui di regola è raro che ne venga riconosciuta la presenza prima che si manifestino delle complicanze rappresentate solitamente da emorragie, stenosi e perforazione. Questi tumori insorgono prevalentemente in età avanzata, soprattutto nel sesto-settimo decennio di vita, e si localizzano più frequentemente nei seguenti terminali dell’ileo.
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41 - TUMORI DELL’APPARATO DIGERENTE, FEGATO, VIE BILIARI E PANCREAS
Dei tumori carcinoidi dell’intestino tenue s’è già detto ampiamente nella parte dedicata agli apudomi (Cap. 24), ai quali, pertanto, si rimanda per questo argomento. Ci occupiamo, invece, più diffusamente delle neoplasie del grosso intestino, la cui importanza è strettamente correlata alla loro elevata frequenza nell’ambito della popolazione, come dimostrano i dati epidemiologici al riguardo. Vengono considerate separatamente in questa trattazione le neoplasie maligne, molto più comuni, e quelle benigne.
Tumori maligni I tumori maligni del colon rivestono importanza notevole in rapporto alla loro elevata frequenza. In relazione al tessuto da cui hanno origine, si distinguono in epiteliali o carcinomi (soprattutto adenocarcinomi) e non epiteliali o sarcomi (soprattutto linfo e reticolosarcomi). I primi sono senza dubbio i più importanti per la elevata incidenza di queste neoplasie nella popolazione. Carcinoma Il carcinoma del crasso rappresenta il 10-12% di tutte le neoplasie dell’apparato gastroenterico ed è, quindi, il più frequente dopo il cancro dello stomaco. L’epoca di massima incidenza corrisponde al quinto e al sesto decennio di vita, anche se può insorgere in età più giovanile o più avanzata; in rapporto al sesso, sembra esistere una leggere prevalenza per quello maschile; la sede preferenziale è a livello dell’ultimo tratto del grosso intestino e l’incidenza percentuale diminuisce passando dalla porzione rettosigmoidea, dove raggiunge il 7080% rispetto a tutte le altre localizzazioni intestinali, procedendo in senso cefalico. A. Epidemiologia. Questa patologia presenta un’elevata incidenza nel Nord America, soprattutto nei paesi industrializzati dell’ovest (all’incirca 50/100.000 abitanti), tanto da essere seconda soltanto alle neoplasie polmonari. Elevata incidenza si riscontra anche nel Canada, nell’Europa occidentale e meridionale; ancora inferiore nei paesi africani, in Giappone ed in certe aree del Sud America. In Italia l’incidenza è di circa 30 casi/anno/100.000 abitanti, con una lieve prevalenza per il sesso maschile rispetto a quello femminile; si pone, quindi, come incidenza dopo il cancro del polmone nell’uomo e dopo quello della mammella e dell’utero per la donna. I tumori del colon e quelli del retto sono epidemiologicamente correlati tra loro: infatti, presentano entrambi la più alta e la più bassa incidenza nelle stesse aree geografiche o nelle stesse comunità; inoltre è stata dimostrata una stretta correlazione tra queste neoplasie e lo sviluppo economico in quanto l’incidenza minore di questa patologia corrisponde ai paesi sottosviluppati, mentre valori medi di incidenza sono riscontrabili nelle nazioni in via di sviluppo.
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B. Eziopatogenesi. Numerose ricerche sono state effettuate allo scopo di identificare eventuali condizioni predisponenti l’insorgenza del carcinoma del grosso intestino. 1. Dieta. Alcuni Autori hanno rilevato l’esistenza di una correlazione tra la dieta ricca di grassi e il cancro del colon: l’ipotesi più accreditata per spiegare questo fenomeno è che la composizione della dieta non solo comporta la variazione dei metaboliti presenti nel lume intestinale, ma soprattutto modifica quantitativamente e qualitativamente la flora batterica, la quale, a sua volta, può produrre sostanze cancerogene a partire da quelle presenti nell’intestino. La dieta ricca di grassi agirebbe, dunque, aumentando l’apporto di particolari substrati nel lume intestinale, quali i sali biliari e gli steroli neutri, potenziali agenti carcinogenetici (così come altre sostanze di origine alimentare, quali le nitrosamine, che derivano dai nitrati aggiunti agli alimenti come conservanti), mentre non è da escludere che i batteri intestinali siano in grado di elaborare di per sé sostanze potenzialmente cancerogene. 2. Sali biliari. È stata particolarmente valorizzata la potenziale carcinogenicità di alcuni acidi biliari: infatti, la loro struttura chimica di base (nucleo ciclopentanoperidrofenantrenico) è sostanzialmente simile a quella di idrocarburi policiclici dotati di sicura attività cancerogena; inoltre, è stato dimostrato che queste sostanze possono essere trasformate chimicamente in un noto agente cancerogeno, il 3-metil-colantrene. Recenti studi hanno confermato che i pazienti portatori di cancro del colon presentano una maggiore concentrazione fecale di acidi biliari rispetto ai soggetti normali e questo dato appare ancora più significativo quando si tiene conto del fatto che l’aumento di queste sostanze è strettamente correlato alla quantità di grassi presenti nella dieta. 3. Familiarità. Sebbene la maggior parte dei carcinomi del colon sia correlata a fattori acquisiti, prevalentemente ambientali, e soprattutto alimentari, una generica tendenza ereditaria si deve ammettere considerando i rapporti di queste neoplasie con alcune condizioni predisponenti geneticamente trasmesse e la maggior incidenza in gruppi familiari con anamnesi positiva per questo tipo di patologia. L’incidenza di questi tumori è, infatti, estremamente elevata nella poliposi diffusa familiare, trasmessa con carattere autosomico dominante, o nella sindrome di Gardner, rara forma di poliposi ereditaria, anch’essa autosomica dominante. 4. Lesioni precancerose. Il carattere di lesione precancerosa del polipo solitario o multiplo è ammesso da diversi Autori; l’incidenza di carcinomi nei soggetti con polipi del colon, indipendentemente dalle forme ereditarie sopra ricordate, è significativamente elevata ed in talune casistiche raggiunge la percentuale del 10%. Si ritiene che il semplice polipo iperplastico, frequentemente riscontrabile all’indagine endosco-
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pica, non presenti abitualmente caratteri di malignità e difficilmente, quindi, sembra correlarsi al carcinoma; per contro, il polipo adenomatoso e, soprattutto, quello villoso mostrano spiccata potenzialità maligna e pertanto sono ritenuti lesioni di sicuro significato precanceroso. Le probabilità di riscontrare la trasformazione in carcinoma di un polipo aumentano in rapporto alle sue dimensioni; secondo alcune casistiche, questo processo degenerativo coinvolgerebbe circa il 30% dei polipi con diametro superiore a 2 cm. Per quanto riguarda i rapporti tra carcinoma del colon e malattie infiammatorie del grosso intestino, è importante ricordare la frequenza dello sviluppo di una neoplasia maligna nella rettocolite ulcerosa, la cui potenziale malignità si accresce col perdurare della malattia (circa 10 volte più frequente in questi soggetti che nella popolazione generale). Infine, le indagini epidemiologiche dimostrano che il carcinoma del colon e la diverticolosi presentano una stretta correlazione per quanto riguarda la distribuzione anatomica, l’incidenza rispetto al sesso e la distribuzione geografica; inoltre, in circa il 25% dei soggetti portatori di diverticolosi si riscontra la coesistenza di un polipo o di un carcinoma. A questo proposito particolare importanza sembra avere, anche in questo caso, la dieta se questa è molto povera di scorie: infatti essa provoca, da un lato, un aumento del tono e delle contrazioni segmentarie del colon che determina, a sua volta, un incremento della pressione endoluminale con possibile formazione di diverticoli, mentre, dall’altro, la carenza di fibre grezze porta ad un’alterazione della composizione delle feci che si disidratano e ristagnano; il rallentamento del contenuto intestinale favorisce la proliferazione batterica, in particolare di quei batteri che degradano i sali biliari a metaboliti potenzialmente carcinogenetici, la cui attività cancerogena è maggiore perché il ristagno fecale permette un contatto più prolungato con le pareti del colon. C. Anatomia patologica. Le forme macroscopiche del carcinoma del colon sono principalmente: • vegetante: proliferazione sessile che protrude nel lume con aspetto encefaloide o a cavolfiore; • polipoide: proliferazione peduncolata, in genere derivata dalla trasformazione maligna di un polipo adenomatoso o villoso; • colloide: neoplasia caratterizzata da notevole ricchezza di cellule muco-secernenti; • scirrosa: neoplasia caratterizzata da abbondante stroma connettivale con scarse formazioni ghiandolari che determina restringimento circolare del lume che assume aspetto tipico di “anello portatovagliolo”. Nella quasi totalità dei casi (oltre l’85%), si tratta istologicamente di adenocarcinoma. La stadiazione TNM dei carcinomi del colon-retto è riportata nella tabella 41.2. Si utilizza la stessa classificazione sia per la stadiazione patologica che per quella clinica.
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Tabella 41.2 - Stadiazione TNM dei tumori del colon. T Tx T0 Tis T1 T2 T3
T4
Tumore primitivo Il tumore primitivo non può essere definito Non segni del tumore primitivo Carcinoma in situ: intraepiteliale o invasione della lamina propria Tumore che invade la sottomucosa Tumore che invade la muscolare propria Tumore con invasione attraverso la muscolare propria nella sottosierosa o nei tessuti pericolici o perirettali non ricoperti dal peritoneo Tumore che invade direttamente altri organi o strutture (compresi altri segmenti del colon-retto attraverso la sierosa) e/o perfora il peritoneo viscerale
La sottostadiazione V e L si utilizza per identificare la presenza o l’assenza di invasione vascolare o linfatica N Nx N0 N1 N2 M Mx M0 M1
Linfonodi regionali I linfonodi regionali non possono essere definiti Non metastasi nei linfonodi regionali Metastasi in 1-3 linfonodi regionali Metastasi in 4 o più linfonodi regionali Metastasi a distanza La presenza di metastasi a distanza non può essere accertata Non metastasi a distanza Metastasi a distanza
D. Clinica. Il carcinoma del grosso intestino suole manifestarsi con sintomi comuni a tutte le localizzazioni e sintomi caratteristici in rapporto alla sede; per quanto riguarda i primi ricordiamo: 1. Dolore. È fra i sintomi più precoci; può essere localizzato o diffuso a tutto l’addome ed è da correlarsi a fenomeni spastici, ad irritazione peritoneale o a compressione da parte della tumefazione neoplastica. Abitualmente è ingravescente e segue l’evoluzione inesorabile della malattia; quando si instaura stenosi del lume intestinale, i dolori tendono ad assumere il carattere della colica e si accompagnano a borborigmi e distensione addominale. 2. Turbe del transito. Sono rappresentate da accelerazione o da rallentamento fino ad ostacolo vero e proprio del passaggio del contenuto intestinale: per questo si può avere diarrea, dovuta soprattutto a fenomeni irritativi della porzione a monte della neoplasia o anche al disfacimento necrotico del tessuto tumorale, oppure stipsi più o meno ostinata, alternata a diarrea (alvo alternante), fino a manifestazioni subocclusive ed ileo meccanico; spesso è presente mucorrea o pseudodiarrea, emissione ripetuta di piccole quantità di feci miste a muco e talvolta a detriti neoplastici, che di solito maschera una condizione di tipo occlusivo, più frequente nelle forme del colon sinistro.
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3. Proctorragie. Sono molto comuni, anche se molto spesso si tratta di stillicidio cronico ed il sangue è dimostrabile soltanto con metodo chimico. Nelle forme più conclamate, il sangue si presenta di solito intimamente mescolato con le feci nelle neoplasie del colon destro, mentre in quelle del colon sinistro, del retto e della giunzione rettosigmoidea, esso vernicia in genere le feci o anche la proctorragia può verificarsi indipendentemente dall’emissione del materiale fecale. 4. Sintomi generali. Il paziente è anoressico, astenico, presenta progressivo calo ponderale; può avere febbre ed essere anemico. In genere, il quadro clinico ha un esordio subdolo ed un andamento lentamente ingravescente; più raro è un esordio acuto con manifestazioni di tipo subocclusivo o con vera e propria sindrome occlusiva. Per quanto riguarda i sintomi correlati alla sede della neoplasia, distinguiamo in particolare. • Carcinomi del colon destro. Sono prevalentemente di tipo vegetante; difficilmente danno luogo ad occlusione intestinale perché in questo segmento il contenuto fecale ha ancora carattere liquido. In genere si manifestano con sintomi “colitici” per il frequente sovrapporsi di processi flogistici; le turbe dell’alvo sono rappresentate prevalentemente da diarrea; frequenti e precoci sono i disturbi dispeptici così come sintomi di carattere generale quali l’astenia ed il dimagramento; comune è la febbre. Frequente è il riscontro di sangue intimamente mescolato con le feci, mentre è rara la comparsa di melena vera e propria. • Carcinomi del colon sinistro. Sono prevalentemente di tipo scirroso, cioè stenosanti e quindi tendono a dare luogo precocemente a manifestazioni occlusive o subocclusive, tenendo conto del fatto che in questo tratto dell’intestino il materiale fecale ha già carattere solido. Per questo motivo, la sintomatologia dolorosa tende ad assumere le caratteristiche della colica, mentre, rispetto alle localizzazioni del colon destro, nettamente meno frequenti sono i disturbi dispeptici e la compromissione delle condizioni generali salvo che nelle fasi più avanzate della malattia. L’alvo, naturalmente, è dominato dalla stipsi, talvolta con episodi di diarrea o di pseudodiarrea; frequenti sono le proctorragie con
il sangue che vernicia le feci; talora si verifica vera e propria melena. • Carcinomi del retto e della giunzione rettosigmoidea. Sono prevalentemente di tipo vegetante, a volte con aspetto infiltrante a volte ulcerato, mentre a livello del canale anorettale si possono trovare rari carcinomi a cellule squamose. Nella maggior parte dei casi la sintomatologia consiste in alterazioni del transito con prevalente diarrea, più di rado stipsi oppure alternanza di diarrea e di stipsi. Le emorragie rettali sono abituali e consistono nell’emissione di sangue rosso vivo che vernicia le scibale o anche nell’emissione di sangue indipendentemente da quella di materiale fecale. Il tenesmo rettale (stimolo doloroso alla defecazione non seguito dall’evacuazione del contenuto intestinale) è solitamente precoce ed è dovuto all’irritazione dell’ampolla da parte della neoplasia, la quale provoca spesso particolari conformazioni delle scibale (feci nastriformi, feci caprine, ecc.). La sintomatologia dolorosa è in genere tardiva, così come la compromissione delle condizioni generali del paziente. Per quanto riquarda l’esame obiettivo, la palpazione della massa neoplastica non è frequente e, comunque, di solito tardiva, anche in presenza di un’importante sintomatologia intestinale. L’obiettività addominale può evidenziare, peraltro, zone di dolorabilità, specialmente alla palpazione profonda, in corrispondenza della sede della neoplasia. Più significativo può risultare l’esame obiettivo in presenza di complicanze di questa malattia, quali l’occlusione intestinale, la perforazione o l’esistenza di metastasi. Queste ultime possono verificarsi localmente per contiguità, coinvolgendo in questo caso anche la sierosa peritoneale (con frequente insorgenza di carcinosi peritoneale disseminata) oppure attraverso il sistema linfatico, che viene interessato precocemente con coinvolgimento iniziale delle stazioni linfoghiandolari locoregionali o, più tardivamente, attraverso il circolo sanguigno con diffusione metastatica nel sistema portale da cui consegue il frequentissimo interessamento secondario del fegato, caratteristico di queste neoplasie. Sono stati elaborati stadi clinici del carcinoma del colon-retto che indicano la gravità della malattia con numeri romani o lettere dell’alfabeto. Riportiamo nella tabella 41.3 le più accettate di queste classificazioni.
Tabella 41.3 - Stadiazione clinica del carcinoma del colon-retto. STADIO 0 I IIA IIB IIIA IIIB IIIC IV
T
N
M
DUKES
MAC
Tis T1 T2 T3 T4 T1-T2 T3-T4 ogni T ogni T
N0 N0 N0 N0 N0 N1 N1 N2 ogni N
M0 M0 M0 M0 M0 M0 M0 M0 M1
_ A A B B C C C _
_ A B1 B2 B3 C1 C2/C3 C1/C2/C3
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E. Diagnosi. La diagnosi di carcinoma del grosso intestino può essere avanzata anche in rapporto al quadro clinico del paziente. Gli elementi di sospetto sono rappresentati soprattutto dall’insorgere di irregolarità dell’alvo, anche se saltuarie, in un soggetto adulto o anziano con precedenti normali funzioni intestinali, dalla comparsa di proctorragie, dolori di tipo colico, crisi subocclusive ed occlusive, anemia, astenia, progressivo deterioramento delle condizioni generali. Il sospetto diagnostico dev’essere confermato da opportune indagini di laboratorio, strumentali e radiografiche. Molto importante è la ricerca del sangue occulto nelle feci, che risulta costantemente positiva; alterati possono essere, soprattutto nelle fasi più avanzate della malattia, gli indici ematochimici di flogosi. La determinazione dell’antigene carcinoembrionario (CEA) può assumere significato clinico di rilievo, anche se il suo valore diagnostico non è assoluto; esso, infatti, risulta alterato nella maggior parte dei pazienti con carcinoma del colon, ma è stato riscontrato aumentato anche in molte altre neoplasie dell’apparato digerente (stomaco, fegato, pancreas) o anche in carcinomi polmonari o in corso di malattie non neoplastiche (cirrosi epatica, bronchite cronica dei fumatori). Più importante sembra essere il monitoraggio di questo antigene nel senso che la diminuzione del CEA, dopo trattamento medico o chirurgico, depone
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favorevolmente, mentre l’incremento progressivo del suo valore assume un significato prognostico negativo indicando la probabile recidiva della malattia. L’esplorazione rettale dev’essere sempre eseguita consentendo la palpazione diretta della neoplasia se questa è localizzata nella parte distale del retto; fondamentali dal punto di vista diagnostico sono l’esame radiografico e quello endoscopico (rettosigmoidoscopia o colonscopia), che permettono l’osservazione indiretta e diretta della neoplasia ed eventualmente di eseguire nei casi dubbi prelievi bioptici nel corso dell’indagine endoscopica per l’esame istologico della sospetta lesione neoplastica (Fig. 41.4). La diagnosi differenziale dev’essere posta innanzi tutto con le malattie infiammatorie croniche che possono colpire il grosso intestino con particolare riguardo per la malattia di Crohn del colon e, soprattutto, la rettocolite ulcerosa; importante è anche la distinzione nei confronti della diverticolosi-diverticolite oltre che, naturalmente, di eventuali processi neoplastici di natura benigna, abbastanza frequenti in questa sede. F. Decorso e prognosi. Nonostante le considerevoli risorse impiegate nei programmi di diagnosi precoce e le importanti prospettive di prevenzione aperte dalle nuove conoscenze sulle forme ereditarie, il carcinoma del colon-retto (CRC) rappresenta la seconda causa di morte per cancro e nella pratica clinica 1/4 circa dei ca-
A.
B.
Figura 41.4 - (A) Carcinoma vegetante del cieco; (B) Carcinoma del sigma: l’alterazione interessa il passaggio colon discendente-sigma ed ha caratteristiche prevalentemente infiltranti. (Istituto Scientifico S. Raffaele, Dipartimento Bioimmagine, Milano)
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Tabella 41.4 - Sopravvivenza a 5 anni di pazienti con carcinoma del colon-retto in funzione dello stadio clinico. STADIO
SOPRAVVIVENZA A CINQUE ANNI
0,I
> 90%
I
85-90%
IIA/B
70-75%
IIIA
77-91%
IIIB
54-73%
IIIC
26-37%
IV
< 5%
si si presenta con una malattia avanzata e non più operabile con intenti curativi. Inoltre, dei 3/4 dei casi rimanenti, 1/3 circa morirà per recidiva della malattia, potendosi stimare pertanto una guarigione nella metà dei casi circa. La sopravvivenza a 5 anni in funzione dello stadio clinico è riportata nella tabella 41.4. G. Terapia. Il carcinoma del colon-retto rappresenta è il terzo tumore più frequente nel sesso maschile e il secondo nel sesso femminile. Negli anni ’90 se ne contavano quasi 800.000 nuovi casi all’anno nel mondo, nel 2000 ne sono stati stimati più di 900.000. Fortunatamente negli ultimi anni si sono confermati e consolidati i risultati delle terapie adiuvanti e si sono sperimentati con successo nella malattia avanzata nuovi composti o nuove modalità di trattamento citostatico. 1. Chirurgia. La chirurgia moderna aveva già affrontato e in buona parte risolto negli anni passati molte problematiche inerenti alla tecnica ideale di rimozione del tumore. È stata anche riconosciuta da anni l’importanza di evitare trasfusioni di sangue allogenico nel periodo postoperatorio dimostrandosi vantaggioso dal punto di vista oncologico (minor numero di ricadute) oltre che in termini di costo/beneficio ricorrere agli autodepositi. Ciò che in campo chirurgico si è affermato negli ultimi anni è in primo luogo il ricorso alla tecnica laparoscopica in alternativa a quella classica laparotomica: l’esperienza è ormai ampia in molti centri e comune è l’osservazione di minori complicanze e ridotto periodo di degenza. Inoltre recenti ampi studi randomizzati hanno dimostrato benefici in qualità di vita del paziente nel breve termine e vi sono iniziali segnalazioni di un minor numero di ricadute. Tutti gli affinamenti descritti della tecnica non possono, tuttavia, superare due importanti limiti, quello “anatomico” in alcuni tumori del retto, specie distali, per i quali non è tecnicamente possibile un’escissione radicale e il limite biologico, presente in tumori insorti in qualsiasi sede, costituito dalla presenza di micrometastasi occulte già al momento dell’intervento, evenienza tanto più frequente quanto più è avanzato il tumore.
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2. Terapie mediche. Chemioterapia dei tumori metastatici. • Monochemioterapia con 5-fluorouracile. La storia della chemioterapia del CRC è iniziata con l’introduzione delle fluoropirimidine e in particolare del 5-fluorouracile (5-FU) e del suo desossiriboside floxuridina (FUdR) e ancora poggia in buona parte su questi composti. È stata definitivamente confermata l’importanza di modificatori biologici che sono in grado di potenziare l’effetto del 5-FU e quello di nuovi farmaci appartenenti a categorie diverse dalle fluoropirimidine. Utilizzato in monochemioterapia, il 5-FU produce risposte in percentuali inferiori al 20% e raramente complete; è dotato di un provato effetto palliativo ma non è comunque in grado di modificare la storia naturale della malattia. L’infusione continua di 5-FU mediante pompa portatile consente di somministrare dosi maggiori di farmaco e di aumentare l’esposizione allo stesso di frazioni di cellule tumorali a lenta crescita. Si osserva, tuttavia, nella meta-analisi degli studi pubblicati, solo un marginale vantaggio in termini di sopravvivenza pur essendo maggiore il numero di risposte (traducibile in effetti palliativi). La tossicità ematologica è inferiore e, a bassa dose, anche l’incidenza di stomatite, ma può manifestarsi una sindrome particolare dermatologica caratterizzata da eritrodisestesia palmo-plantare e denominata “hand-foot disease”. Il maggior inconveniente è però rappresentato dalla necessità di un sistema infusionale (pompa portatile) collegato ad un accesso venoso centrale permanente con i rischi connessi (trombosi, infezione, ecc) e il disagio per il paziente. • Modulazione biochimica delle fluoropirimidine. L’associazione di 5-FU e acido folinico (FA) si fonda sul dimostrato effetto di stabilizzazione da parte dei folati ridotti del legame fra il FdUMP (fluorodesossiuridina monofosfato, che costituisce la seconda tappa metabolica del 5-FU dopo il FUdR) e l’enzima timidilatosintetasi (TS), che rafforza pertanto la competizione con il normale substrato (dUMP, ovvero desossiuridina monofosfato) fornendo minori quantità di timidilato per la sintesi del DNA delle cellule tumorali. L’associazione 5-FU/FA in studi randomizzati si è dimostrata significativamente superiore al solo 5-FU in termini di risposta oggettiva e di beneficio per il paziente. Assai meno certo, invece, appariva il beneficio in termini di sopravvivenza fino ai dati di una nuova recente meta-analisi che modifica le conclusioni rispetto alla precedente del 1992 provandone la superiorità rispetto al 5-FU. • Altre fluoropirimidine. Esistono altre possibilità di utilizzo delle fluoropirimidine ed una di queste consiste nell’utilizzo di profarmaci del 5-FU assorbibili per os, tra cui la capecitabina, in grado di raggiungere maggiore concentrazione a livello delle cellule tumorali rispetto a quelle sane, con il presupposto di una maggiore efficacia e minore tossicità. Farmaco assimilabile è lo ftorafur che viene somministrato per os assieme all’uracile (la combinazione vie-
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ne chiamata UFT) e per il quale, analogamente alla capecitabina, è stata dimostrata pari efficacia e minore tossicità rispetto al 5-FU-FA e sono state testate con successo le associazioni con irinotecan e oxaliplatino. • Nuovi farmaci chemioterapici. Alle fluoropirimidine si sono aggiunte nella prima metà degli anni ’90 (da qui la relatività del termine “nuovi”) tre categorie di farmaci: 1) gli inibitori specifici della timidilato sintetasi (TS); 2) gli inibitori della topoisomerasi I; 3) i nuovi analoghi del cisplatino. Capostipite della prima categoria è il composto denominato raltitrexed, che però è risultato meno efficace e più tossico di trattamenti convenzionali. La seconda categoria aveva come capostipite in passato la camptotecina, farmaco rivelatosi inattivo nei CRC e pertanto abbandonato. Fra gli altri inibitori della topoisomerasi I, l’irinotecan (o CPT-11) è apparso il più efficace. L’associazione di irinotecan e 5-FU-FA in I linea si è dimostrata più efficace (anche in termini di sopravvivenza) di quest’ultimo da solo. Tra gli analoghi del cisplatino (che è ben poco efficace nei CRC) l’oxaliplatino ha trovato una sua precisa collocazione nel trattamento del CRC. In monoterapia dimostra una modesta ma provata attività (10%) nei pazienti resistenti alle fluoropirimidine. • Nuovi agenti antitumorali. Il termine nuovo è in questo caso giustificato dal più recente sviluppo ma soprattutto dalla peculiarità del meccanismo d’azione. Da anni gli studiosi ricercano bersagli e modalità alternative di trattamento antitumorale. Due linee di ricerca hanno premiato: 1) lo sviluppo di anticorpi diretti contro fattori di crescita tumorali, in particolare antiEGFR (Epidermal Growth Factor Receptor); 2) lo sviluppo di anticorpi diretti contro il cosiddetto “microambiente” tumorale”, in particolare anti-VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor). L’agente che appartiene alla I categoria è il cetuximab, dimostratosi efficace in monoterapia o in associazione all’irinotecan in pazienti divenuti resistenti a quest’ultimo. Il trattamento ha come prerequisito l’espressione di EGFR sul tumore (anche se non sono ancora ben chiare le correlazioni fra espressione ed efficacia della terapia), consente di ottenere un modesto ma significativo vantaggio nel contesto clinico specifico (impensabile anni fa una terza linea di trattamento efficace della malattia metastatica), è gravato da tossicità cutanea (eruzione acneiforme che sembra correlare con la risposta). L’entusiasmo che ha suscitato soprattutto per la modalità di azione alternativa e complementare alla chemioterapia è smorzato dagli alti costi. Il farmaco è già disponibile e sono in corso sperimentazioni in associazione con altri schemi chemioterapici anche in I linea o in “adiuvante”. Costi e tossicità (vascolare in questo caso) sono gli ostacoli che sembrano frapporsi all’impiego su vasta scala dell’anticorpo anti-VEGF denominato bevacizumab che si è rivelato particolarmente efficace in I linea in associazione a 5-FU e irinotecan (pur con lo schema “inferiore” IFL), non utile in pazienti pretrattati. Al momento della stesura la commercializzazione del farma-
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co in Italia non è imminente, mentre negli USA ne è già stato approvato l’uso. 3. Terapie adiuvanti • Problemi generali. La necessità di un trattamento complementare a quello chirurgico dipende dalla probabilità di ricaduta e i fattori “anatomici” (entità della penetrazione del tumore attraverso la parete e interessamento dei linfonodi) sono tuttora i più importanti dal punto di vista prognostico. Negli anni si sono succeduti diversi sistemi di stadiazione del CRC: l’ultima revisione secondo il sistema TNM è del 2002 ed è presentata nella tabella 41.2, mentre nella tabella 41.3 sono riportate la suddivisione in stadi e il confronto con le classificazioni precedenti di Dukes e Astler e Coller modificata (MAC). Se si dà uno sguardo alla tabella 41.4 si può notare come la prognosi del II e soprattutto del III stadio TNM siano sensibilmente inferiori a quella dello stadio I. A parità di stadio (II per esempio) si considerano inoltre alcune situazioni cliniche che possono peggiorare la prognosi e fra queste ricordiamo: la presenza di perforazione del viscere, lo stato occlusivo preoperatorio, i livelli elevati preoperatori di CEA. Anche dal punto di vista anatomopatologico, oltre allo stadio, si considerano fattori prognostici negativi la presenza di invasione vascolare e linfatica, frazione di crescita e grading elevati, istotipo mucinoso. Da molti anni ferve inoltre la ricerca di altri parametri “biologici” che possano contribuire ulteriomente a stimare il rischio di ricaduta di pazienti affetti da CRC e anche predire l’utilità o meno di una terapia adiuvante. Tra i vari che si sono studiati vi è una certa concordanza sul valore prognostico negativo della mancata espressione del gene oncosoppressore DCC (Deleted in Colon Cancer), strettamente connessa con la perdita dello stato eterozigote 18q (altro documentato fattore negativo), i livelli elevati di timidilato-sintetasi (prognosticamente negativi per risposta a chemioterapia con 5-FU) e la presenza di instabilità microsatellitare (1) (fattore invece positivo, più frequentemente presente nei tumori del colon destro, possibile indicatore di inutilità se non di effetto deleterio di chemioterapia con 5-FU). Un altro aspetto estremamente importante per comprendere il ruolo delle terapie adiuvanti è costituito dai quadri di ricaduta di malattia. Le sedi anatomiche del colon e del retto (inteso come porzione al di sotto della riflessione peritoneale) si distinguono nel comportamento clinico e vanno pertanto mantenute distinte nell’indicazione al trattamento adiuvante. È da tempo noto, infatti, che nel carcinoma del retto si verificano con maggiore frequenza ricadute locali rispetto al carcinoma del colon. Ciò è probabilmente legato a cause anatomiche ossia alla vicinanza delle pareti pelviche e alla mancanza di un adeguato rivestimento sieroso dell’or(1) Con il termine si definisce l’instabilità di sequenze nucleotidiche ripetute (cosiddetti “microsatelliti”), indipendente da un’alterazione della capacità di riparazione del DNA che è presente nei CRC ed è nota anche come RER (Replication Error Repair).
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gano. Come di regola accade per i tumori solidi, sono gli stadi avanzati localmente (T3 e T4) o soprattutto anche a livello linfonodale (N1 N2) ad essere a rischio, con percentuali di ricaduta che, anche con le migliori tecniche chirurgiche, possono ancora superare il 20%. Diversamente, nel carcinoma del colon le percentuali di ricaduta esclusivamente locale vanno dal 3 al 12%, mentre quelle a distanza colpiscono più di un terzo dei casi. Da queste premesse si comprende come nel carcinoma del retto si siano da tempo integrati trattamenti radianti, peraltro meno gravati in questa sede da effetti collaterali legati all’inclusione nei campi di trattamento di ampi settori di intestino tenue, assai sensibile agli effetti lesivi dei raggi sulla mucosa. Viceversa nei carcinomi del colon il ricorso al trattamento radiante adiuvante è stato proposto solo per situazioni particolarmente a rischio di ricaduta, essendovi limitazioni per sede ed estensione del campo di trattamento. • Terapia adiuvante del carcinoma del retto. Nel carcinoma del retto è noto da tempo che la radioterapia postoperatoria è in grado di ridurre le recidive locali (aspetto molto importante anche per la qualità di vita del paziente) ma senza un significativo miglioramento della sopravvivenza. L’utilizzo della radioterapia preoperatoria è attraente in quanto agisce in una condizione di migliore ossigenazione locale ed evita il rischio di irradiare anse intestinali che risultano fisse dopo l’intervento, ma è d’altro canto limitato dal rischio di sovratrattare quei pazienti che all’intervento sarebbero risultati appartenere agli stadi T1/T2N0 (ovvero a basso rischio di ricaduta e non candidabili a trattamenti adiuvanti). Tuttavia il miglioramento delle tecniche diagnostiche preoperatorie (ecoendoscopia, risonanza magnetica) sta sempre più riducendo questo rischio. Vi sono numerose evidenze a favore di un effetto radiosensibilizzante della chemioterapia (in particolare, del 5-FU) e nei tumori del retto operati l’approccio combinato chemioradioterapico postchirurgico è già da diversi anni uno standard. Schemi che prevedono l’utilizzo del 5-FU, associato o meno all’acido L-folinico e somministrato con diverse modalità, hanno evidenziato in carcinomi del colon negli stadi II e III una consistente riduzione della probabilità di ricaduta locale (intorno al 10% in più rispetto alla sola radioterapia), del rischio di sviluppare metastasi e della mortalità globale con vantaggio di sopravvivenza intorno al 10-15%. La tossicità, particolarmente quella gastroenterica ed ematologica, non è, tuttavia, trascurabile per entità e frequenza essendo riportata come seria nel 25-50% dei casi. Inoltre pesano spesso nel lungo termine sulla qualità di vita del paziente disfunzioni intestinali, urinarie e della sfera sessuale. L’utilizzo preoperatorio di una radioterapia con dosi e frazionamento convenzionali, associata a chemioterapia (prevalentemente 5-FU in infusione continua) e seguita da un adeguato intervallo di tempo (6-8 settimane) prima dell’intervento chirurgico è in primo luogo meglio tollerata, consente in una significativa percentuale dei casi una riduzione del tumore ovvero una co-
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siddetta “destadiazione” (“down-staging”) che può portare addirittura alla scomparsa del tumore (risposta patologica completa, ottenibile in circa il 15% dei pazienti utilizzando un schema standard). Queste sono le ragioni per cui già da alcuni anni in Europa vi è un sempre maggiore orientamento verso i trattamenti preoperatori che potranno essere peraltro “perfezionati”. In conclusione appare evidente che nel carcinoma del retto, a prescindere dallo schema che si vuole utilizzare, l’aggiunta del 5-FU aumenta l’efficacia della radioterapia postoperatoria nel prevenire le ricadute locali e riesce a migliorare la sopravvivenza anche per un effetto di riduzione delle metastasi a distanza e deve pertanto essere considerato trattamento standard degli stadi II e III già operati. Va considerata, viceversa, l’omissione della RT in casi a minor rischio di ricaduta locale. Nei tumori in cui la stadiazione preoperatoria deponga con certezza per uno stadio III e in assenza di controindicazioni mediche il trattamento di scelta al giorno d’oggi è da ritenersi la chemioradioterapia preoperatoria. • Terapia adiuvante del carcinoma del colon. Il cammino della chemioterapia adiuvante nel carcinoma del colon non fu in passato coronato da successi, nonostante la premessa corretta di utilizzare il 5-FU per la dimostrata efficacia nelle forme metastatiche. Tra gli errori metodologici, oltre che quelli di ordine statistico, furono l’utilizzo di questo farmaco in monochemioterapia o in polichemioterapie comprendenti farmaci leucemogeni o immunostimolanti aspecifici, anche se fu proprio l’associazione di 5-FU con uno di questi, il levamisolo, un antielmintico con proprietà immunostimolanti più ipotetiche che dimostrate, a produrre negli stadi III una riduzione del rischio relativo di ricaduta e di morte. Nel nostro e in altri Paesi europei il levamisolo non ha guadagnato popolarità poiché ben presto si è preferito utilizzare l’acido folinico (FA) in associazione al 5-FU. Anche negli USA non pochi erano gli scettici sul reale ruolo dell’antielmintico ritenendo che i vantaggi emersi negli studi fossero solo da attribuire al 5-FU e all’adeguatezza dei campioni. È già piuttosto datata (1990) la “Consensus conference” che proponeva come standard questa terapia adiuvante (un anno di 5-FU + levamisolo). I dati a favore dell’utilizzo in terapia adiuvante dell’associazione 5-FU/acido folinico derivano da diversi studi randomizzati, che hanno dimostrato infine che sono sufficienti 6 mesi di terapia, che il levamisolo non aggiunge beneficio, che i diversi regimi (mensile, settimanale, con basse o alte dosi di acido folinico) si equivalgono in termini di efficacia. Permangono al momento attuale, invece, molte perplessità sul trattamento dello stadio II. In generale non vi sono vantaggi significativamente dimostrati nel trattare questa popolazione, stimandosi un miglioramento della sopravvivenza che non va oltre il 2-4%. La chemioterapia per via portale nasceva dal presupposto che circa un quarto dei pazienti affetti da CRC svilupperà metastasi epatiche come iniziale sede di ripresa; i diversi studi condotti, che quasi sempre prevedevano
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l’utilizzo del solo 5-FU come chemioterapico associato a eparina, hanno fornito risultati contraddittori. Alcuni Autori hanno sperimentato un’immunoterapia passiva con anticorpi monoclonali murini diretti verso una glicoproteina di superficie: i successi iniziali riportati da un gruppo tedesco non sono stati confermati da un più ampio studio randomizzato che ha dimostrato l’inferiorità dell’anticorpo rispetto alla chemioterapia e l’inutilità dell’associazione con la stessa. In conclusione riteniamo che un trattamento adiuvante che comprenda 5-FU + acido folinico costituisca ancora lo standard negli stadi III di carcinomi del colon (la scelta del tipo di schema dipende in primo luogo da considerazioni sulla tossicità e in secondo luogo dalle preferenze del paziente); l’aggiunta di oxaliplatino va pesata tenendo in considerazione l’entità del rischio (e della sua potenziale riduzione con la terapia), la maggiore tossicità (neurotossicità in particolare) e i più alti costi del regime di combinazione. È probabile che la capecitabina possa sostituire la somministrazione di 5-FU infusionale. Nello stadio II non vi è ancora indicazione standard alla chemioterapia adiuvante, da limitarsi alle situazioni ritenute clinicamente “a rischio”. Stante l’incertezza ancora presente in materia è auspicabile l’inserimento di pazienti in sperimentazioni cliniche controllate volte soprattuto a identificare le sottocategorie ad effettivo rischio di ricaduta. 4. Terapia delle forme avanzate. Per forme avanzate intendiamo sia tumori inoperabili alla diagnosi per estensione locale o per presenza di metastasi a distanza, sia tumori che, dopo un trattamento chirurgico con intenti curativi, sviluppano una recidiva locale e/o a distanza. Considerata la storia naturale del tumore del colon-retto, la condizione caratterizzata dalla presenza di metastasi esclusivamente localizzate al fegato va tenuta distinta dalle altre. Poco meno del 25% di pazienti affetti da CRC sviluppa metastasi esclusivamente epatiche (metacrone o sincrone al tumore primitivo). Il ruolo della chirurgia in queste situazioni appare pertanto fondamentale ai fini terapeutici e le casistiche chirurgiche riportano una sopravvivenza a 5 anni compresa tra il 16% e il 49% con una mortalità operatoria compresa fra lo 0 e il 9%. Sembra pertanto evidente un netto guadagno di sopravvivenza e soprattutto una consistente speranza di guarigione definitiva. È chiaro che per pazienti che manifestano continua propensione alla recidiva sarebbe essenziale un trattamento complementare efficace nel contrastare questa tendenza. La somministrazione per via sistemica di 5-FU/FA non si è rivelata efficace in queste condizioni, mentre l’infusione arteriosa continua di FUdR (per i dettagli sulla metodica si veda la parte sulle terapie regionali) è in grado di contrastare questa tendenza senza però influire positivamente sulla sopravvivenza soprattutto per il mancato controllo sulle tendenza di ricaduta metastatica in altre sedi. Si è pertanto cercato di seguire la strada di combinare la terapia locoregionale con quella sistemica e vi sono già dati po-
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sitivi sulla terapia adiuvante mediante associazione di FUdR intraepatico + chemioterapia sistemica con schemi a base di 5-FU. La disponibilità negli ultimi anni di combinazioni chemioterapiche più efficaci (con oxaliplatino e irinotecan) ha offerto la possibilità a una certa quota di pazienti inoperabili di divenirlo in seguito grazie al trattamento chemioterapico “primario”. In conclusione possiamo ricordare che la monochemioterapia con 5-FU in bolo “biomodulato”, schema standard del passato, o in infusione continua è oggi poco impiegata nella malattia avanzata essendo soppiantata dallo schema ibrido (detto “de Gramont”, che combina boli e infusione continua) e da nuovi schemi di combinazione di 5-FU con irinotecan o oxaliplatino. Anche nei pazienti anziani, con comorbidità o con compromissioni dello stato di validità tali da non essere candidabili a terapie combinate, una monochemioterapia orale con capecitabina sembra preferibile al solo 5-FU. L’opzione è “obbligata” in assenza – temporanea o definitiva – di accessi venosi. Si ritiene che, con tutta probabilità, i profarmaci per os andranno a sostituire la via infusionale del 5-FU. In tumori che esprimono l’EGFR vi è la possibilità di utilizzare il cetuximab in III linea. L’integrazione dello stesso cetuximab e di altri farmaci promettenti (bevacizumab) in fase più precoce di malattia è oggetto di studio. 5. Terapia regionale delle metastasi epatiche. Le metastasi epatiche ricevono il loro apporto ematico prevalentemente dall’arteria epatica, mentre il fegato sano dal sistema portale. Inoltre i chemioterapici attivi nei CRC (fluoropirimidine) presentano un alto tasso di estrazione epatica. Questi tre aspetti costituiscono la premessa per la chemioterapia regionale intrarteriosa. I progressi nella tecnica dei sistemi di infusione e in particolar modo lo sviluppo dei sistemi totalmente impiantabili hanno dato un impulso a questa modalità terapeutica. L’utilizzo di 5-FU per via regionale non è superiore al 5-FU somministrato per via sistemica, mentre il FUdR, che ha elevata estrazione epatica, è attivo nel 40-60% dei pazienti, più di quanto non lo sia il 5-FU per via sistemica. Cionostante non si sono mai dimostrati benefici significativi sulla sopravvivenza. In conclusione la chemioterapia regionale intrarteriosa è efficace ma non ancora standardizzata; costi e tossicità ne suggeriscono l’impiego all’interno di protocolli di studio o in casi selezionati. Negli ultimi anni una metodica di trattamento regionale si è imposta su approcci più “datati”: essa consiste nella termoablazione con radiofrequenze, con la quale si ottiene una necrosi coagulativa conseguente allo “shock” termico. È una terapia relativamente semplice (l’approccio è ecografico), relativamente scevra da rischi (sanguinamento soprattutto per lesioni sottoglissoniane) e in grado di garantire un buon controllo locale a patto che le lesioni non siano di grosse dimensioni (> 4.0 cm). È anche un prezioso ausilio in sede operatoria per potere trattare lesioni parzialmente o non asportabili. Non
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è noto ancora se la metodica offra dei benefici di sopravvivenza. La criochirurgia è invece più difficilmente praticabile (necessità di laparotomia e difficoltà di monitorare il processo di congelamento). Tra le modalità di trattamento regionale locale già impiegate da molti anni ricordiamo anche la chemioembolizzazione, metodica impiegata soprattutto nell’epatocarcinoma e che consiste nella somministrazione di agenti embolizzanti (microsfere di amido, collageno, alcool polivinilico, spugne di gelatina, ecc) e chemioterapici, unendo quindi all’azione occlusiva sul ramo arterioso quella della permanenza prolungata del farmaco nelle sede del tumore.
Tumori benigni Le neoplasie benigne del grosso intestino sono rappresentate soprattutto dai polipi, formazioni rilevate al di sopra del piano della superficie della mucosa, con aspetto sessile o peduncolato e di grandezza variabile. In rapporto al loro numero, si distinguono in polipi solitari ed in polipi multipli, questi ultimi, talvolta, distribuiti in forma di poliposi diffusa. La sede preferenziale di queste neoplasie epiteliali benigne è costituita dall’ultimo tratto del grosso intestino (75% dei casi nel segmento compreso tra 10 e 30-50 cm dall’orifizio anale). Il polipo solitario può essere considerato relativamente comune, mentre senz’altro più rara è da ritenersi la poliposi multipla ed ancor più quella diffusa. La forma solitaria si manifesta clinicamente con maggior frequenza nel quinto e sesto decennio di vita, le forme multiple possono interessare ogni età e quelle diffuse prediligono l’età giovanile. Dal punto di vista anatomopatologico, i polipi possono essere distinti in: a) polipi iperplastici; b) polipi adenomatosi; c) adenomi villosi. Polipi iperplastici Costituiscono circa il 90% di tutte le formazioni polipoidi che si riscontrano nel 25-50% dei soggetti adulti; si tratta di piccole rilevatezze mucose, a superficie regolare, in cui è conservata la differenziazione tra cellule mucipare e cellule assorbenti; non presentano alcuna tendenza alla degenerazione maligna. Polipi adenomatosi Traggono origine dalle cellule dell’epitelio ghiandolare localizzate in profondità nelle cripte di Lieberkuhn; in queste formazioni sessili o peduncolate la differenziazione tra cellule mucipare e cellule assorbenti non è più conservata; sembra accertata la potenziale malignità di queste lesioni, soprattutto in rapporto all’estensione della proliferazione ed al grado di maturazione degli elementi epiteliali. Adenomi villosi In genere sotto forma di polipi sessili, originano dalle cellule superficiali della mucosa formando delle villosità che si espandono ramificandosi; la differenziazione cellulare è scarsa e la tendenza alla degenerazio-
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ne maligna particolarmente elevata (molto più che per i polipi adenomatosi), tanto che gli adenomi villosi vengono considerati certamente la più importante delle lesioni precancerose del grosso intestino. Il quadro clinico di queste neoplasie ricalca in linea di massima quello dei tumori maligni di questo tratto dell’intestino, anche se le manifestazioni cliniche correlate alla presenza di queste formazioni polipoidi presentano gravità minore ed un andamento più irregolare, spesso capriccioso e transitorio e non progressivamente ingravescente. Le condizioni generali si mantengono abitualmente buone anche se può insorgere un certo grado di anemia in caso di proctorragie piuttosto frequenti. L’adenoma villoso, inoltre, può provocare l’insorgenza di un quadro di enteropatia protidodisperdente e di squilibrio idroelettrolitico per effetto della perdita di diverse sostanze attraverso la secrezione abbondante di materiale mucoso e di acqua che si verifica spesso in questa neoplasia (mucorrea). La diagnosi è fondata sul quadro clinico, ma soprattutto su alcuni esami strumentali, quali l’esplorazione rettale, il clisma opaco, la rettosigmoidoscopia ed, eventualmente, la colonscopia. La prognosi dev’essere considerata con molta attenzione, in particolare tenendo conto della potenziale malignità di queste lesioni, alla cui valutazione (legata in genere all’esame istologico di materiale prelevato in corso di indagine endoscopica) conseguirà un differente atteggiamento terapeutico. L’esistenza di alterazioni istologiche sospette farà optare per la resezione endoscopica o, se questa non è possibile, per l’intervento chirurgico di resezione radicale che è indispensabile nelle forme multipla e diffusa della poliposi. Principali varietà di poliposi multipla e diffusa A. Poliposi familiare diffusa. Interessa tutto il grosso intestino ed è caratterizzata dalla presenza di numerosissime formazioni polipoidi che, istologicamente, possono essere classificate come polipi adenomatosi e, più raramente, come adenomi villosi. La malattia esordisce in genere intorno ai 25-30 anni, ha carattere ereditario (è trasmessa come carattere autosomico dominante) e la tendenza alla cancerizzazione è molto elevata. B. Sindrome di Gardner. Condizione ereditaria, trasmessa come carattere autosomico dominante, caratterizzata da polipi multipli diffusi del colon (ma anche del tenue, in genere di tipo adenomatoso, molto più di rado di tipo villoso), in numero minore rispetto alla poliposi familiare diffusa. Inoltre nella sindrome di Gardner sono presenti anche tumori ossei, di solito benigni (mandibola, sfenoide, mascella) e tumori dei tessuti molli (lipomi, cisti sebacee, fibromi, leiomiomi, ecc.); l’insorgenza è di regola più tardiva che nella poliposi familiare; la tendenza alla cancerizzazione è sempre molto elevata. C. Poliposi giovanile del colon. Rappresenta circa l’85% delle lesioni polipoidi dell’infanzia; si tratta di
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formazioni di tipo amartomatoso, non suscettibili di trasformazione maligna. D. Sindrome di Peutz-Jeghers. Si veda il paragrafo sui tumori gastrici benigni.
TUMORI DEL FEGATO (*) Il fegato è molto spesso sede di processi neoplastici. Di gran lunga più frequenti sono quelli secondari, ma non sono rari nemmeno quelli primitivi: l’incidenza di questi tumori è, peraltro, in continuo aumento in tutti i paesi del mondo, ma ancora oggi è più elevata presso i popoli asiatici ed africani.
Tumori primitivi Possono essere benigni o maligni, con grande prevalenza di questi ultimi e possono avere origine da svariate strutture: adenoma • epatociti epatocarcinoma adenoma • dotti biliari colangiocarcinoma stroma fibroma • connettivale sarcoma emangioma • vasi sanguigni emangioendotelioma
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A. Epidemiologia. Dei tumori benigni il più frequente è l’emangioma che, secondo alcune statistiche, è rilevabile, benché spesso molto piccolo, nel 10-20% circa delle autopsie, con incidenza 5-10 volte maggiore nella donna rispetto all’uomo. Per quanto riguarda le altre neoplasie benigne, tutte molto rare, l’adenoma semplice, di più frequente riscontro in donne che usano anticoncezionali estroprogestinici, dev’essere distinto dall’iperplasia nodulare rigenerativa. Quest’ultima condizione, spesso associata a malattie epatiche croniche (specie alla cirrosi), è caratterizzata da una diffusa nodularità epatica. I noduli, con diametro variabile da 0,1 a 1 cm, possono appunto ricordare un adenoma, perché caratterizzati da un’iperplasia epatocitaria. Assente è la fibrosi. Dubbi sono i rapporti tra iperplasia ed epatocarcinoma, ma potrebbe trattarsi di una forma precancerosa. Molto più importanti per la loro maggiore frequenza sono le neoplasie maligne: l’epatocarcinoma e il colangiocarcinoma. Il primo è circa 5 volte più frequente del secondo, peraltro senza differenze significative dal punto di vista clinico fra le due varietà istologiche. Rarissimi sono i sarcomi e gli emangioendoteliomi. Il sesso più colpito è quello maschile (5:1): tra gli uomini, infatti, l’epatocarcinoma è la settima più comune forma di cancro; tra le donne la nona, ma la frequenza è in continuo aumento. L’età di più frequente insorgenza è superiore ai 40 anni in Europa ed in Nord America, inferiore ai 40 anni in Africa ed in Asia. (*) Con la collaborazione di P. Dri.
A questa differenza d’età corrisponde pure una diversa incidenza della malattia: 0,5/100.000 nei paesi occidentali; addirittura 110/100.000 in alcuni paesi africani, ove risulta il tumore più frequente in assoluto. L’Italia è in una situazione intermedia, con un’incidenza di 10/100.000. B. Eziologia. L’epatocarcinoma, soprattutto nei paesi occidentali, si associa frequentemente a cirrosi. In realtà non si tratterebbe di una relazione causa-effetto, quanto del fatto che entrambe le patologie avrebbero alcune possibili cause comuni. La più stretta correlazione è infatti con il virus dell’epatite B. Da un punto di vista epidemiologico, dove alto è il numero di portatori di HBsAg alto è il numero di epatocarcinomi (classico esempio sono le regioni dell’Africa in cui più del 10% della popolazione è HBsAg positiva). Da un punto di vista biologico, è ormai stata ampiamente dimostrata la capacità dell’HBV di indovarsi nel DNA degli epatociti e studi di biologia molecolare hanno dimostrato la presenza di materiale genetico del virus B incorporato nel DNA delle cellule di carcinoma epatico, a suggestiva conferma del ruolo eziologico di questo virus nell’insorgenza di queste neoplasie. In egual modo, l’agente causale potrebbe essere il virus dell’epatite C, come è ormai ampiamente provato. Un altro fattore predisponente, o comunque associato, di notevole importanza è rappresentato dall’emocromatosi, mentre per quanto riguarda le sostanze alimentari, attività carcinogenetica è svolta sicuramente dalle nitrosamine, che derivano dai nitrati presenti in diversi alimenti, o anche dal cloruro di vinile e da alcune micotossine. Di queste ultime la più importante è l’aflatossina, prodotta da un fungo, l’Aspergillus flavus, che è diffuso in certi paesi tropicali, come l’Uganda, in cui è frequente la contaminazione del cibo da parte di questa sostanza ed in cui il carcinoma primitivo del fegato è molto comune. Altri possibili fattori cancerogeni sono rappresentati dal trattamento prolungato con androgeni ad alte dosi, dal fumo di sigarette e soprattutto dall’alcool. C. Anatomia patologica. I tumori primitivi del fegato si presentano come una massa tumorale unica, per lo più a carico del lobo destro oppure come una neoplasia multinodulare diffusa, con frequenti combinazioni tra le due forme. L’origine può essere unicentrica, con eventuale diffusione metastatica intraepatica, oppure pluricentrica, come avviene più di frequente nella cancro-cirrosi. Le metastasi extraepatiche sono comuni soprattutto nei linfonodi dell’ilo epatico, ma possono coinvolgere anche quelli del mediastino e quelli cervicali, ed eventualmente il polmone, lo scheletro (specialmente vertebre e coste) e l’encefalo. L’epatocarcinoma, dal punto di vista anatomopatologico, è caratterizzato da una proliferazione di epatociti maligni, con grado variabile di anaplasia. Queste cellule possono formare noduli solidi, trabecole variamente anastomizzate tra loro o strutture pseudoghiandolari (molto difficile può essere la differenziazione tra ade-
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noma epatocellulare ed epatocarcinoma ben differenziato); molto spesso il tessuto epatico circostante ha aspetto cirrotico. Per quanto riguarda il colangiocarcinoma, si tratta di una neoplasia primitiva maligna che deriva da una proliferazione di cellule dei dotti biliari: nelle forme più differenziate gli elementi neoplastici tendono a costituire strutture pseudotubulari, non contenenti bile, circondate da abbondante stroma fibroso poco vascolarizzato. La differenziazione fra epatocarcinoma e colangiocarcinoma è relativamente semplice su materiale bioptico o sul pezzo operatorio; molto più complessa è invece la distinzione su materiale citologico prelevato sotto guida ecografica o tomografica, poiché è assai facile confondere un epatocarcinoma scarsamente differenziato con un colangiocarcinoma così come non è sempre possibile riconoscere quest’ultimo da una metastasi di adenocarcinoma a partenza dall’apparato digerente (colon, stomaco, pancreas, ecc.). D. Clinica. La sintomatologia è molto varia ed in genere subdola all’inizio; spesso compare un dolore sordo, di tipo profondo, mal localizzato (all’epigastrio, all’ipocondrio destro, talvolta anche posteriormente, in regione dorsale); poco significativi sono di solito i disturbi gastrointestinali sotto forma di nausea, anoressia, pesantezza epigastrica postprandiale; più importante ai fini diagnostici è il rapido dimagramento, tanto più sospetto se insorge in presenza di cirrosi epatica. Può esserci febbre, in genere non elevata; l’ittero, pur frequente, non è costante in tutti i casi e comunque non è mai molto intenso, salvo nel caso in cui si stabilisca una compressione dei grossi dotti biliari da parte di linfonodi metastatici. L’aumento di volume del fegato è il reperto obiettivo più costante: molto importante dal punto di vista diagnostico è l’irregolarità del margine inferiore, talora plurilobato, di consistenza dura, a volte lapidea, in genere non molto dolente a meno che non vi sia una distensione della glissoniana o ancor più flogosi peritoneale; la dolorabilità è comunque maggiore che nella cirrosi; la superficie può apprezzarsi bernoccoluta. Nel caso in cui il processo neoplastico si impianti su un fegato già cirrotico, si verifica di solito un improvviso aggravamento della sintomatologia ed un rapido aumento delle dimensioni di quest’organo. Si può anche apprezzare all’ascoltazione un soffio in regione epatica per l’aumento e l’irregolarità della vascolarizzazione arteriosa; talvolta il quadro clinico è caratterizzato dall’improvvisa comparsa di coliche epatiche con emobilia o emoperitoneo e, quindi, anche addome acuto: infatti, il tessuto tumorale, fragile, molto vascolarizzato, senza uno stroma connettivale sufficiente (in caso di epatocarcinoma) può rompersi per traumi minimi e la conseguente emorragia produce il brusco mutamento del quadro. La presenza di tumefazione splenica, sebbene non frequente, non esclude la diagnosi di cancro del fegato, poiché può essere correlata alla precedente condizione di cirrosi o può derivare da ipertensione portale, dovuta per lo più a trombosi neoplastica della vena porta o dei suoi rami principali.
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L’ascite è presente in circa il 50% dei casi con liquido talora ematico o comunque di tipo misto, ma di regola con discreto contenuto di proteine. E. Diagnosi. Salvo che non si tratti di epatocarcinoma in cirrosi contrasta spesso con il quadro clinico la non drammatica alterazione delle prove di funzionalità epatica. Nelle forme più conclamate l’elettroforesi mostra un aumento anche notevole, a banda larga, policlonale, come nella cirrosi, delle -globuline ed un incremento variabile delle 2-globuline; aumentano anche le transaminasi, ma soprattutto la fosfatasi alcalina, la -GT e gli altri enzimi di colestasi quali la 5-nucleotidasi e la leucino-aminopeptidasi. Nel 30% dei casi risulta alterata la ritenzione della BSF, mentre in 1 caso su 4 è nettamente aumentata la quota di bilirubina coniugata. Di solito si riscontra modesta anemia con leucocitosi neutrofila; talora è presente poliglobulia con eritroblasti in circolo in rapporto ad abnorme sintesi epatica di eritropoietina. Abitualmente diminuiscono l’attività protrombinica e la pseudocolinesterasi. La diagnosi può trovare un dato di supporto nel dosaggio di un antigene embrionario specifico, l’-fetoproteina (AFP). Questa è una proteina sintetizzata dal fegato fetale, ma non più dal fegato adulto. Ricompare nel siero dei pazienti con epatocarcinoma, perché l’epatocita trasformato tende a sdifferenziarsi, riacquistando capacità proprie delle cellule fetali. In realtà, anche nell’adulto normale esistono tracce di questa sostanza (fino a 10-15 ng/ml), ma valori oltre i 200 ng/ml devono essere considerati altamente sospetti per la presenza di carcinoma epatocellulare. Tale incremento è positivo in un’elevata percentuale di questi tumori, specialmente se estesi, e tende a regredire completamente dopo asportazione della massa neoplastica; interessante è ricordare che l’-fetoproteina non aumenta in caso di colangiocarcinoma. L’AFP può però incrementarsi anche in corso di altre epatopatie e, in particolare, in corso di cirrosi epatica. Se infine si considera che il 25% degli epatocarcinomi, essendo molto ben differenziati, non producono AFP, si comprendono bene i limiti di questo marker. Tra gli esami strumentali, il più importante è senza dubbio l’ecotomografia addominale, che permette di riconoscere lesioni del diametro inferiore ai 2 cm. Meno sensibile, ma utile per la stadiazione, è l’esame tomografico computerizzato, mentre la scintigrafia epatica ha perso gran parte del suo significato, se si escludono alcune neoplasie situate subito sotto la cupola diaframmatica. Utile soprattutto nell’ipotesi di intervento chirurgico è l’angiografia, che consente di evidenziare le caratteristiche vascolari della neoplasia. Ancora non del tutto precisati i limiti e i vantaggi della RM rispetto a una TC; essa permette, comunque, sicuramente di meglio vedere i rapporti vascolari e la struttura della neoplasia nel contesto epatico. In ogni caso, la diagnosi di certezza può essere posta solo su un prelievo bioptico, che può essere effettuato in corso di laparoscopia o, con minor danno per il paziente, durante il controllo ecografico.
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In quest’ultimo caso, si tratta di un agoaspirato eseguito con un ago molto sottile (ago di Chiba), che arriva fino alla massa, permettendo di prelevare le cellule atipiche. Si tratta quindi di un citologico; con un ago leggermente più grosso si può invece prelevare un piccolo frustolo e ottenere un microistologico, che permette più facilmente di porre diagnosi. F. Prognosi e terapia. La prognosi dei pazienti affetti da epatocarcinoma è infausta, in buona parte a causa della grave compromissione d’organo presente già al momento della diagnosi. L’unica modalità di trattamento in grado di prolungare la sopravvivenza è la chirurgia ma, sfortunatamente, solo il 25% dei pazienti si presenta con una lesione epatica potenzialmente resecabile; di fatto, poi, solo una quota intorno al 10% viene effettivamente operata. La presenza di cirrosi epatica concomitante è considerata, specie nei paesi occidentali, una controindicazione all’intervento, per cui solo il 20% circa dei pazienti che vengono candidati a chirurgia risulta affetto da cirrosi. In altri paesi si tende ad estendere l’indicazione all’intervento e ciò spiega la più alta mortalità operatoria rispetto alle casistiche occidentali (9-33% contro 1-15%) e la minore sopravvivenza a 5 anni (11-19% contro il 30%). È evidente, quindi, quanto la presenza di cirrosi costituisca un importante fattore prognostico per l’efficacia della terapia chirurgica, al pari della dimensione del tumore da asportare, delle sue caratteristiche anatomopatologiche (la variante fibrolamellare ha migliore prognosi) e della entità della resezione chirurgica. Una moderna e affascinante alternativa alla resezione chirurgica è costituita dal trapianto di fegato. Nonostante gli interessanti presupposti teorici, i risultati sinora pubblicati non sono, tuttavia, molto incoraggianti: in un’ampia casistica solo il 24% dei pazienti è sopravvissuto e il 14% è libero da malattia per un tempo variabile da alcuni mesi ad anni. È probabile, però, che su questi risultati pesino fattori di selezione che hanno fatto sì che sinora venissero sottoposti a trapianto pazienti con malattia molto avanzata. Diversamente, infatti, soggetti trapiantati per condizioni non neoplastiche e in cui incidentalmente si sono riscontrati foci tumorali hanno presentato un andamento molto più favorevole; ciò suggerisce che, anche nel caso del trapianto, siano cruciali le dimensioni del tumore. Quando un HCC risulta non resecabile o presenta metastasi a distanza non esiste un trattamento standardizzato ed è pertanto giustificato il ricorso a terapie sperimentali nell’ambito di studi controllati. In generale, al momento della diagnosi, è l’interessamento epatico a dominare il quadro clinico e solo il 25% dei pazienti presenta disseminazione metastatica. Per questa ragione e visti soprattutto i modesti risultati ottenibili con la chemioterapia per via sistemica (5-FU e adriamicina sono i farmaci più attivi con percentuali di risposta comprese tra il 20% e il 30% e nessuna dimostrata superiorità di combinazioni polichemioterapiche rispetto alla monochemioterapia) gran parte della ricerca clinica si è concentrata sulla chemioterapia loco-regionale attraverso l’arteria epatica.
ONCOLOGIA MEDICA
Alle numerose ed entusiastiche segnalazioni apparse in letteratura negli anni scorsi derivanti da studi non controllati (in cui si sono utilizzati prevalentemente il 5-FU e la fluorodesossiuridina, o FUdR, in infusione continua) non hanno tuttavia fatto seguito altrettante conferme derivanti da studi randomizzati. Talora i risultati della chemioterapia intrarteriosa non sembrano superiori a quelli ottenibili con la sola legatura dell’arteria epatica, il cui effetto è solamente quello di far mancare l’apporto ematico alla zona interessata dal tumore, promuovendone la necrosi. Tecniche più moderne dette di chemioembolizzazione, che utilizzano mezzi di contrasto, quali il lipiodol, associati o meno a chemioterapici oppure microsfere, hanno creato molti seguaci ma sempre in carenza di studi adeguatamente controllati. In generale il difetto di queste sperimentazioni consiste nei criteri di selezione dei pazienti che fa sì che quelli che vengono effettivamente trattati finiscano per possedere fattori prognostici favorevoli che da soli giustificano sopravvivenze relativamente lunghe erroneamente attribuite al trattamento. Al momento attuale, dalle terapie loco-regionali ci si può attendere un’efficacia in una percentuale di casi effettivamente superiore alla terapia sistemica e che si manifesta con una necrosi centrale del tumore e una riduzione, anche se transitoria, delle sue dimensioni. È ancora, però, da dimostrare il reale impatto di questo tipo di approccio sul decorso della malattia. Inoltre, va sottolineato che questo genere di trattamento, sia perché richiede un intervento chirurgico per l’impianto del sistema di microinfusione, sia perché è sempre in qualche modo epatotossico, è controindicato in presenza di ipertensione o trombosi portale, di ittero franco o di compromissione significativa della funzionalità epatica. Interessanti sono anche i risultati ottenibili con un’altra tecnica moderna che consiste nell’alcolizzazione per via percutanea sotto guida ecografica: la metodica sembra indicata soprattutto per lesioni di numero e dimensioni limitate situate profondamente. Lo stesso si può dire per la più recente metodica della radiofrequenza con la quale ci si prefigge la distruzione di lesioni focali epatiche (in genere non > 5 cm di diametro, ma anche più grandi) mediante l’applicazione di calore con l’impiego di particolari “elettrodi”. Un altro interessante approccio sperimentale recentemente segnalato si basa sulla nota attitudine degli HCC a produrre ferritina e consiste nell’utilizzo di anticorpi antiferritina coniugati con iodio 131 somministrati da soli o in associazione a radiosensibilizzanti. Anche se in uno studio la somministrazione di anticorpi non si è dimostrata superiore alla sola chemioterapia, è comunque ragionevole attendersi una ripetibilità dei risultati stimabili in un 30% di risposte obiettive, che, in una certa percentuale di casi (non più del 10% del totale) può condurre all’operabilità di un tumore precedentemente non resecabile. Anche la radioterapia, a dosi non eccessivamente elevate in quanto epatotossiche, può risultare utile a questo scopo all’interno di protocolli sequenziali radio-
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chemioterapici (eventualmente seguiti da somministrazione di anticorpi antiferritina) proponibili anche per pazienti metastatici. Vale la pena ancora una volta sottolineare che si tratta sempre di terapie sperimentali per le quali è sempre auspicabile l’inserimento di pazienti, che abbiano fornito il proprio consenso informato, all’interno di studi controllati.
Tumori secondari Il fegato è la sede più frequente di metastasi tumorali per via ematica, sia attraverso la porta, sia attraverso l’arteria epatica; tale interessamento si verifica in circa il 30% di tutti i casi di neoplasia maligna che si sviluppano nell’organismo ed in circa il 50% di quelli che riguardano organi addominali. Il fegato può anche essere invaso da tumori di organi adiacenti (per es., carcinomi del rene destro) per contiguità o, assai più raramente, per via linfatica retrograda o per diffusione lungo i vasi venosi (porta o cava inferiore). La caratteristica obiettiva principale del fegato metastatizzato è una notevole epatomegalia, che si sviluppa rapidamente, molto irregolare per nodosità, ma singolare soprattutto per la consistenza, che è di solito lapidea; d’altra parte, le modificazioni di forma, di volume e di consistenza di questo organo possono risultare molto diverse da caso a caso. Può essere presente dolore, per lo più sordo, più raramente acuto; spesso si ha febbre e, di regola, prima o poi compare ittero ostruttivo; in circa il 20% dei casi si riscontra splenomegalia, verosimilmente per compressione della vena splenica. Per quanto riguarda gli esami di laboratorio, è sempre presente disprotidemia con incremento precoce e marcato delle -globuline e delle 2; spesso si rileva un aumento degli indici di stasi e di necrosi epatica (in particolare fosfatasi alcalina, -GT, transaminasi); un’iperbilirubinemia diretta è frequente, accompagnata dalla presenza di bilirubina nelle urine. La diagnosi viene fatta, di regola, con l’ausilio di indagini strumentali: ecotomografia, TC, angiografia, laparoscopia o agobiopsia epatica. La terapia del paziente con metastasi epatiche è sintomatica; il trattamento chemioterapico del tumore primitivo trova nell’impegno epatico una remora, poiché numerose sostanze ad effetto oncolitico sono anche epatotossiche. La terapia chirurgica è riservata ai pochi casi nei quali le metastasi interessano soltanto uno dei lobi, così da consentire un’eventuale lobectomia.
TUMORI DELLE VIE BILIARI I tumori delle vie biliari possono essere distinti dal punto di vista nosografico in: • tumori della colecisti; • tumori delle grandi vie biliari.
Tumori della colecisti A. Tumori benigni. Le neoplasie benigne della colecisti sono molto rare e sono rappresentate soprattutto da adenomi, adenomiomi e papillomi. Occasionalmente la loro presenza viene riscontrata nel corso di indagini radiologiche o ecografiche della colecisti (eseguite in genere nel sospetto di una calcolosi), quando abbiano raggiunto discrete dimensioni. Più spesso queste neoplasie vengono evidenziate nel corso dell’esame autoptico di questo organo (piccoli papillomi, per es., sono presenti addirittura in circa l’80% dei casi). Clinicamente, questi tumori sono generalmente asintomatici; solo quando raggiungono dimensioni ragguardevoli possono parzialmente compromettere la motilità e la funzionalità della colecisti provocando l’insorgenza di una sindrome dispeptica di grado variabile. La colecistectomia è indicata come provvedimento precauzionale specialmente nei casi in cui il volume della neoplasia (che alla colecistografia dà origine ad un’immagine di minus) tende progressivamente a crescere, poiché questo provoca il sospetto che possa trattarsi piuttosto di una malattia di natura maligna. B. Tumori maligni. Le neoplasie maligne della colecisti sono rappresentate soprattutto da adenocarcinomi; essi sono presenti nello 0,3% delle autopsie e nel 510% delle colecisti asportate in soggetti di età superiore ai 65 anni; costituiscono, nel complesso, meno dell’1% di tutti i carcinomi. Questo tumore predilige l’età avanzata (massima incidenza tra il 5° e il 7° decennio di vita) ed i soggetti di sesso femminile (rapporto uomo/donna di 1:4), in particolare la donna in età senile con lunga storia di colecistite cronica litiasica (circa il 90% delle neoplasie maligne della colecisti conclude la storia pluridecennale della colelitiasi e della colecistite cronica concomitante). Le zone della colecisti più colpite sono il fondo (50-60%) ed il colletto (20-30%), cioè quelle che sono più spesso interessate dalla localizzazione dei calcoli e dal conseguente processo infiammatorio. Il quadro clinico è quanto mai vario e poco caratteristico in rapporto alla frequente associazione con la presenza di colecistite e colelitiasi di cui tende, nel complesso, a riprodurre la sintomatologia. Suggestivo può essere il dolore quando assume carattere gravativo e continuo, ribelle agli analgesici ed agli antispastici, specialmente se in un primo tempo, in rapporto alla presenza di calcolosi della colecisti, il dolore si presentava con i caratteri tipici della colica biliare. Obiettivamente è talvolta possibile apprezzare, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, la presenza, in regione sottocostale destra, di una massa di consistenza dura, irregolare, a volte bernoccoluta e dolente, corrispondente al fondo della cistifellea coinvolto nel processo neoplastico. Frequente, sempre negli stadi avanzati, è l’insorgenza di ittero ostruttivo, che si accentua di solito lentamente nel tempo e che è dovuto ad interessamento da parte della neoplasia delle vie biliari e, in particolare, del coledoco.
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ONCOLOGIA MEDICA
Le metastasi epatiche, per continuità-contiguità o anche per via linfatica o ematogena, sono in genere precoci e costanti; estremamente frequenti anche quelle a carico delle vie biliari, del duodeno, dello stomaco, del pancreas, del colon e del peritoneo; in tutti questi casi, il quadro clinico è più complesso, arricchendosi delle manifestazioni correlate all’interessamento degli organi raggiunti dalle metastasi. La diagnosi è affidata alle manovre strumentali per lo studio della colecisti e delle vie biliari (di cui s’è parlato in precedenza), ma il più delle volte soltanto la laparotomia esplorativa consente di evidenziare la presenza di queste neoplasie. La prognosi è infausta a breve scadenza (pochi mesi in media); l’unica terapia è quella chirurgica, ma nel 75% circa dei casi l’intervento, al momento della diagnosi, risulta tardivo, in quanto alla laparotomia esplorativa la colecisti appare non più asportabile per l’invasione degli organi vicini da parte della neoplasia.
Tumori delle grandi vie biliari I tumori, sia benigni che maligni, delle grandi vie biliari sono molto rari; i più importanti sono quelli maligni (soprattutto adenocarcinomi): • del coledoco; • della papilla (o ampolla) di Vater. Queste neoplasie, di cui quelle del coledoco sono le più frequenti, colpiscono di preferenza soggetti di sesso maschile (2:1) e l’epoca di maggiore incidenza è tra i 50 ed i 70 anni. A. Carcinoma del coledoco. È un adenocarcinoma molto spesso associato alla colelitiasi (50% dei casi) ed è descritta anche la frequente associazione con la colite ulcerosa; in Estremo Oriente, dove la più comune malattia delle vie biliari è la colangite suppurativa da Clonorchis sinensis (piccolo verme trematode), il tumore maligno delle grandi vie biliari ne costituisce una non rara complicanza. Colpisce con uguale frequenza il dotto epatico di destra e quello di sinistra, ma predilige il coledoco comune ed il punto di coinfluenza dei due dotti epatici. Il sintomo fondamentale è l’ittero, che ha le caratteristiche tipiche dell’ittero ostruttivo ed ha un andamento progressivamente ingravescente nel tempo; si associa di regola al prurito per la ritenzione dei sali biliari; coliche biliari vere e proprie sono eccezionali a meno che non coesista una colelitiasi. Sono inoltre presenti tutti i disturbi dovuti al deficit dei sali biliari con i conseguenti fenomeni di malassorbimento. Obiettivamente, se la neoplasia è localizzata a valle dello sbocco del cistico può essere positivo il segno di Courvoisier-Terrier: infatti, la colecisti, per effetto della stasi biliare, si riempie di bile e si dilata, divenendo apprezzabile direttamente alla palpazione in regione sottocostale destra (così come nel carcinoma della testa del pancreas). Il fegato è aumentato di volume, come in
tutte le condizioni in cui è presente ostruzione delle vie biliari. La diagnosi è fondata sullo studio radiologico delle vie biliari mediante colangiografia, soprattutto quella transepatica percutanea e quella retrograda; la diagnosi differenziale va posta specialmente tra queste neoplasie e quelle della testa del pancreas, le quali provocano lo stesso quadro clinico quando coinvolgono il coledoco, ostruendolo. La terapia è esclusivamente chirurgica e la prognosi è sempre molto grave. B. Carcinoma dell’ampolla di Vater. Può avere localizzazione diversa: infatti, il processo neoplastico origina o dall’epitelio di rivestimento della cavità ampollare o dall’epitelio della mucosa duodenale periampollare; altre volte direttamente dall’epitelio del coledoco terminale o del tratto terminale del Wirsung. Istologicamente la neoplasia è quasi sempre un adenocarcinoma ben differenziato che insorge su un adenoma tubulare o tubulo-villoso, con caratteristiche analoghe a quelle degli adenomi del grosso intestino. La particolare differenziazione di questi tumori rende spesso molto difficile la diagnosi di malignità che, spesso, può essere dimostrata soltanto dopo intervento chirurgico e successiva valutazione istologica del materiale operatorio. Il quadro clinico può presentare caratteristiche in parte differenti in rapporto alla sede della neoplasia; in genere prevalgono i sintomi ed i segni dell’ostruzione biliare ed, in particolare, l’ittero ed il prurito: il primo, tipicamente colestatico, s’instaura in modo progressivo ed ingravescente; il prurito è correlato alla ritenzione dei sali biliari. Nelle neoplasie che originano dalla mucosa duodenale periampollare, il quadro clinico può essere differente essendo spesso caratterizzato da un andamento intermittente dell’ittero, da ricorrenti episodi di infezione delle vie biliari e da emorragie digestive (talora anche con melena, ma, più spesso, con stillicidio ematico cronico); infatti questi tumori presentano una particolare tendenza all’ulcerazione ed alla necrosi, per cui è frequente la comparsa di fenomeni emorragici che possono portare ad anemia sideropenica (in questo caso il processo ulcerativo-necrotico cui va incontro il tessuto neoplastico comporta una riduzione della stenosi con conseguente attenuazione dell’ittero). Spesso è presente dolore addominale, prevalente in epigastrio, di carattere variabile, generalmente senza alcuna relazione con l’assunzione dei pasti; frequente nel corso della malattia è anche la febbre per la già ricordata sovrapposizione di complicanze colangitiche. L’esame obiettivo può evidenziare, oltre alla presenza dell’ittero ed al progressivo deterioramento delle condizioni generali, la positività del segno di CourvoisierTerrier, per la distensione della colecisti quando è presente ostruzione neoplastica delle vie biliari a valle dello sbocco del cistico (in questi casi si riscontra anche epatomegalia di grado variabile). La diagnosi delle neoplasie dell’ampolla è fondata sulle già ricordate indagini radiologiche per lo studio delle vie biliari (soprattutto la colangiografia transepa-
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tica percutanea e la colangiografia retrograda); inoltre, per le forme duodenoampollari, possono essere utili l’esame radiologico con solfato di bario e lo studio endoscopico della seconda porzione del duodeno. La diagnosi differenziale va posta soprattutto nei confronti del carcinoma del coledoco e di quello della testa del pancreas, ma anche nei confronti della pancreatite cronica specialmente nelle forme più gravi di questa malattia. La prognosi è sempre molto grave e la terapia è esclusivamente chirurgica.
TUMORI DEL PANCREAS I tumori del pancreas possono essere distinti in: • tumori del pancreas endocrino; • tumori del pancreas esocrino.
Tumori del pancreas endocrino Possono avere origine dai diversi tipi di cellule delle isole di Langerhans. • Da cellule producenti insulina: insulinomi, che hanno la natura benigna di adenomi nell’80-90% dei casi; danno ipoglicemia. • Da cellule producenti glucagone: glucagonomi, che hanno la natura maligna di carcinomi nel 60% circa dei casi; danno diabete mellito. • Da cellule G producenti gastrina: gastrinomi; danno la sindrome di Zollinger-Ellison (Cap. 25). • Da cellule D producenti somatostatina, ma anche gastrina; compaiono nell’ambito dell’adenomatosi endocrina multipla di tipo I o sindrome di Wermer, insieme con neoplasie benigne (adenomi) delle paratiroidi e dell’ipofisi.
Tumori del pancreas esocrino Possono essere benigni o maligni. Tumori benigni I tumori benigni sono estremamente rari: adenomi solidi o cistici (cistoadenomi). Tumori maligni Il carcinoma del pancreas è di gran lunga il tumore più frequente di quest’organo ed è uno dei più frequenti in assoluto. Il carcinoma del pancreas rappresenta circa il 2% di tutti i tumori maligni ed il 10% circa di quelli dell’apparato gastroenterico, secondo solo al tumore del colon; la sua incidenza è notevolmente aumentata negli ultimi decenni, raggiungendo la frequenza di 10 casi/100.000 abitanti negli USA, dove questa neoplasia rappresenta
la quarta causa di morte tra tutti i decessi dovuti a tumore (dopo polmone, mammella e colon). Il carcinoma del pancreas è un poco più comune nell’uomo che nella donna (1,3:1), nei soggetti di colore rispetto alle popolazioni bianche; l’epoca massima di incidenza è nel 5°-7° decennio di vita. A. Eziopatogenesi. Come per la gran parte delle neoplasie maligne, l’eziologia è sconosciuta; tuttavia sono stati identificati alcuni fattori di rischio: due sicuri esempi sono il fumo di sigaretta e una dieta ricca di grassi e carne; non tutti gli Autori sono invece d’accordo nell’inserire, in questo elenco, il diabete mellito, a carico del quale ci sarebbero dati contrastanti; maggiore incidenza del carcinoma del pancreas si riscontra anche nei pazienti con pancreatite cronica calcifica; al contrario sarebbe stata recentemente smentita l’ipotesi che il consumo di caffè possa contribuire allo sviluppo del carcinoma pancreatico. Tra i fattori protettivi va ricordata una dieta ricca di frutta fresca e verdura, più in generale di cibi ricchi di scorie. B. Anatomia patologica. Il carcinoma del pancreas, dal punto di vista anatomopatologico, ha in genere le caratteristiche di un adenocarcinoma, che origina dall’epitelio duttale; la localizzazione più frequente è quella a carico della testa (65%), mentre più raro è l’interessamento del corpo (30%) ed ancor più quello della coda (5%) (Fig. 41.5). C. Clinica. I sintomi e i segni che con maggiore frequenza si manifestano nel carcinoma del pancreas sono: • • • •
dolore dispepsia dimagramento ittero.
1. Il dolore è presente nel 75-90% dei casi; in genere insorge precocemente, soprattutto quando la neoplasia è localizzata alla testa, in rapporto alla distensione dei dotti pancreatici per effetto della stasi del secreto; in seguito, il dolore può essere dovuto anche ad infiltrazione e compressione dei plessi nervosi. La sede più frequente, specie per il tumore della testa, è a livello dell’epigastrio con irradiazione in ipocondrio destro; per il tumore del corpo, la sede più tipica è la regione periombelicale; per quello della coda, l’ipocondrio sinistro; molto spesso assume una distribuzione a cintura con coinvolgimento dei quadranti addominali superiori ed irradiazione posteriore al dorso. Il dolore è di solito intenso, fastidioso, continuo o subcontinuo, talora esacerbato dai pasti, più spesso indipendente da questi; è tipico il suo carattere posturale: infatti, è solitamente accentuato dal decubito dorsale ed è attenuato da alcune manovre, come la flessione del tronco in avanti, il decubito laterale destro e la compressione dell’addome. 2. La dispepsia è più frequente nel cancro della testa e consiste in genere in anoressia, nausea, specie per i cibi grassi, vomito, peso epigastrico postprandiale, irre-
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ONCOLOGIA MEDICA
Carcinoma della testa del pancreas che ha invaso il duodeno
A.
B.
Carcinoma della faccia posteriore della testa del pancreas che ostruisce il condotto coledoco
C.
Carcinoma della coda del pancreas che aderisce alla milza, metastasi ai linfonodi e al fegato
Figura 41.5 - Aspetti delle neoplasie pancreatiche. (A) Carcinoma della testa del pancreas infiltrante la parete duodenale. (B) Carcinoma della testa del pancreas che comprime e ostruisce il coledoco. (C) Carcinoma della coda del pancreas con aderenze all’ilo della milza e metastasi a linfonodi e fegato.
golarità dell’alvo (stipsi alternata a diarrea, talora con vera e propria steatorrea). 3. La perdita di peso è progressiva e notevole qualunque sia la localizzazione della neoplasia (anche per quelle della coda e del corpo) ed è correlata alla anoressia, alla dispepsia ed al malassorbimento, che è costante in questi casi per effetto del deficit della funzionalità del pancreas esocrino. Da questo punto di vista il carcinoma pancreatico può essere considerato come una delle malattie che danno più rapidamente uno stato di vera e propria cachessia. 4. L’ittero è uno dei segni più costanti e precoci del carcinoma della testa (80-90%), meno frequente e più
tardivo in quello della coda e del corpo (10-40%); è dovuto alla compressione ed all’invasione del coledoco e può avere andamento intermittente, in rapporto alla variabile componente flogistica ed edematosa presente. Ha il carattere tipico degli itteri colestatici o ostruttivi, con prevalente incremento della bilirubinemia diretta (oltre il 50% di quella totale), feci ipocoliche fino ad acolia completa, urine contenenti bilirubina e povere o prive di urobilinogeno. L’ittero è spesso preceduto ed accompagnato da prurito diffuso per ritenzione dei sali biliari. L’esame obiettivo di questi pazienti permette di evidenziare soprattutto il notevole dimagramento ed il co-
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41 - TUMORI DELL’APPARATO DIGERENTE, FEGATO, VIE BILIARI E PANCREAS
lorito itterico; l’obiettività addominale, nelle fasi più avanzate della malattia, può mostrare la presenza di una massa palpabile in epigastrio (nel 40-50% dei casi nel tumore del corpo e della coda). Spesso si apprezza epatomegalia anche cospicua, come conseguenza della stasi biliare (quindi soprattutto nel tumore della testa); la colecisti è di solito distesa, ma è direttamente palpabile soltanto nel 15-40% dei casi (segno di Courvoisier-Terrier positivo specialmente nelle neoplasie della testa: la colecisti non dovrebbe invece essere distesa e palpabile in caso di occlusione biliare calcolotica, poiché in quest’ultima è facile che le sue pareti siano irrigidite da processi sclerotici). Frequente è anche il riscontro di splenomegalia e di versamento peritoneale, per compressione o invasione o anche trombosi delle vene del circolo portale, soprattutto della vena splenica. Talvolta è possibile apprezzare un soffio all’ascoltazione dell’addome in sede periombelicale ed al quadrante addominale superiore di sinistra, il quale è dovuto a compressione o invasione dell’arteria splenica da parte del tumore. In circa il 10% dei casi sono presenti tromboflebiti migranti agli arti inferiori, a patogenesi sconosciuta, più frequenti nelle neoplasie del corpo e della coda. Ematemesi e/o melena (o più di frequente sanguinamento occulto) si possono verificare per erosione o ulcerazione della mucosa duodenale da parte del tumore nel corso della sua propagazione agli organi contigui. D. Diagnosi. 1. Esami di laboratorio. Gli esami di laboratorio soltanto occasionalmente sono utili nella diagnosi di carcinoma del pancreas. L’amilasi e la lipasi risultano elevate nel sangue e nelle urine soltanto nel 10% dei casi; nel 20% circa dei pazienti è presente iperglicemia o glicosuria postprandiali, mentre il test di tolleranza al glucosio è alterato nel 50% dei casi, e questo anche se solo il 6% dei pazienti sviluppa diabete mellito clinicamente evidente. L’anemia, presente nel 30% dei casi, può avere diverse cause: deficit nutrizionale, perdita di sangue occulto con le feci (50% dei casi) ed anemia delle malattie croniche; le feci possono essere frequentemente di consistenza diminuita (spesso poltacee), ma una vera e propria steatorrea si riscontra solo in una minoranza di questi soggetti (10% dei casi). In presenza di colestasi (e quindi più spesso e più precocemente nel tumore della testa), si riscontra iperbilirubinemia diretta (da cui l’ittero) e l’aumento degli enzimi del “polo biliare” degli epatociti (-glutamiltranspeptidasi e fosfatasi alcalina). Di recente, particolare significato dal punto di vista diagnostico è stato attribuito alla determinazione nel sangue e nelle urine del CEA (Carcino Embryonic Antigen), del GT II (Galactosyl Transferase Isoenzyme II) e del GICA (Gastric Intestinal Carcinoma Associated Antigen). Elevati valori sierici di CEA e di GT II sono stati riscontrati in circa il 70% dei pazienti, anche se questi dati non sono specifici del carcinoma pancreati-
co, potendo rilevarsi anche in altre condizioni (cirrosi epatica, pancreatite cronica, altri tumori gastrointestinali e non). Al contrario, il GICA (chiamato anche CA 19-9, sigla dell’anticorpo monoclonale diretto contro di esso) risulta essere alterato in quasi il 90% dei pazienti con questa malattia, mantenendo una buona specificità. Un marker di neoplasia promettente è il rapporto tra testosterone e diidrotestosterone, rapporto che si abbassa sino a un valore di 5 (normale 10) in oltre il 70% degli uomini con Ca pancreatico; risulterebbe più specifico, sebbene meno sensibile, rispetto al CA 19-9. I test che studiano la funzionalità del pancreas esocrino (come il test alla secretina o quello con colecistochinina-pancreomizina) risultano spesso alterati (80% dei casi), ma tale alterazione non è differenziabile da quella che si riscontra in presenza di pancreatite cronica. Poco significativo sembra essere, dal punto di vista diagnostico, l’esame citologico della secrezione pancreatica sia basale sia dopo stimolazione (con secretina o colecistochinina-pancreomizina). 2. Esami strumentali. Esami radiologici. L’esame radiologico dell’apparato digerente con solfato di bario consente di evidenziare segni indiretti della presenza di carcinoma del pancreas, soprattutto quando è interessata la testa di questo organo, ma in genere soltanto nelle fasi già avanzate della malattia. Le alterazioni più frequenti sono rappresentate da: allargamento dell’ansa duodenale (la cosiddetta “C” duodenale), compressione del corpo e dell’antro gastrico, irregolarità del disegno plicale del duodeno specialmente in corrispondenza del margine mediale, segno del “3 rovesciato” (dovuto allo stiramento del bordo interno della seconda porzione del duodeno). Risultati migliori per quanto riguarda la diagnosi radiologica di carcinoma del pancreas possono essere ottenuti mediante colangiografia percutanea transepatica (che permette di valutare le alterazioni delle vie escretrici in seguito alla presenza della neoplasia attraverso l’iniezione del mezzo di contrasto nelle vie biliari intraepatiche) o ancora per mezzo della colangiopancreatografia retrograda o anche della wirsungrafia retrograda perendoscopica (tecniche fondate sull’iniezione del mezzo di contrasto direttamente nelle vie escretrici ed, in particolare, nel dotto di Wirsung). Queste ultime metodiche consentono di evidenziare la presenza di neoplasia del pancreas (testa, corpo o coda) in un’elevata percentuale di casi (75-85%). Arteriografia. L’arteriografia pancreatica selettiva, eseguita mediante iniezione del mezzo di contrasto nel tripode celiaco o nella mesenterica superiore, consente la visualizzazione della normale vascolarizzazione arteriosa pancreatica e dell’eventuale sovvertimento di tale quadro che si verifica in presenza di neoplasia (la significatività di questa indagine è elevata risultando positiva nel 70-80% dei casi). Ecografia e tomografia. L’esame ecografico è utile nella diagnosi di carcinoma del pancreas soprattutto come indagine di screening iniziale: esso è poco costoso, facilmente ripetibile e risulta particolarmente significa-
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ONCOLOGIA MEDICA
Figura 41.6 - Carcinoma del pancreas (immagine tomografica). (A) Carcinoma della testa. (B) Carcinoma del corpo e dell’istmo con invasione dell’ilo epatico. (Istituto Scientifico S. Raffaele, Dipartimento Bioimmagini, Milano)
tivo, dal punto di vista diagnostico, quando la neoplasia abbia un diametro superiore ai 2 cm e sia localizzata nella testa o nel corpo, mentre poco efficace si rivela questa metodica nel tumore della coda (Fig. 41.6). Diverse sono le caratteristiche della tomografia assiale computerizzata: tale indagine è più accurata nell’indicare le dimensioni della neoplasia e nel definire i rapporti della massa neoplastica con le strutture vicine; inoltre i suoi risultati non risentono della struttura fisica del paziente anche se è meno facilmente ripetibile rispetto all’ecografia e sicuramente economicamente più dispendiosa; la TC è diagnostica per neoplasia pancreatica in oltre l’80% dei casi. La risonanza magnetica nucleare non ha ancora sicuramente dimostrato di essere superiore ad altre tecniche diagnostiche quali, per esempio, la TC. Risulta peraltro molto utile nel diagnosticare o nell’escludere un interessamento da parte della neoplasia delle strutture arterovenose (in particolare vena porta, per la frequenza di interessamento di tale vaso). Altri. Recentemente sono state proposte nuove tecniche diagnostiche: tra queste hanno suscitato particolare interesse la SPECT con anticorpi monoclonali marcati e l’ecografia endoscopica. Recentemente è stata messa a punto una nuova metodica diagnostica, la biopsia percutanea del pancreas per aspirazione, che viene eseguita con l’ausilio del controllo radiologico o ecografico o tomografico, e che risulta assolutamente decisiva per la diagnosi di questa malattia, rendendo anche non necessaria l’esplorazione chirurgica di questo organo. E. Decorso e prognosi. La prognosi è molto severa anche in relazione al fatto che la diagnosi è spesso tardiva: infatti, al momento del riscontro della neoplasia, questa è circoscritta al pancreas soltanto nel 15% circa dei casi, mentre nel 25% dei pazienti ha già avuto una diffusione a livello dei linfonodi loco-regionali e nel 60% dei casi sono già presenti metastasi a distanza.
F. Terapia. Le neoplasie maligne del pancreas esocrino rappresentano circa il 95% dei tumori pancreatici; il 90% dei casi è rappresentato da adenocarcinomi di origine duttale. Si tratta di una delle neoplasie maligne con un costante incremento d’incidenza negli ultimi decenni, legato non soltanto all’invecchiamento della popolazione (attualmente il picco d’incidenza si registra intorno ai 70-75 anni di vita) ma anche, verosimilmente, a fattori dietetico-ambientali, la maggior parte dei quali non ancora correttamente identificati. Purtroppo la mortalità di pazienti affetti da adenocarcinoma duttale del pancreas è praticamente sovrapponibile all’incidenza, con una prognosi infausta in quasi tutti i pazienti, se si eccettuano i casi infrequenti di tumori operati radicalmente in stadio iniziale (pT1 pN0), per i quali la sopravvivenza libera da recidiva a 5 anni è intorno al 25-30%. Per gli altri pazienti operabili, la sopravvivenza a 5 anni non supera il 15% nelle migliori casistiche; la sopravvivenza mediana del carcinoma del pancreas metastatico è di circa 5 mesi. La chirurgia richiede un’accurata valutazione preliminare per una stima corretta dell’estensione della neoplasia, che deve essere realizzata con ecografia, eco-colorDoppler dei vasi mesenterici (la cui infiltrazione rappresenta un criterio di inoperabilità), TC spirale dinamica a scansioni sottili (5 mm), eventualmente integrate da colangio-pancreatico RM, eco-endoscopia (con eventuale biopsia transduodenale) ed ERCP. Le pancreasectomia (duodenocefalopancreasectomia per i tumori della testa, pancreasectomia distale per i tumori del corpo e della coda) è un intervento complesso, con complicanze perioperatorie maggiori nel 20-25% dei pazienti e tassi di mortalità perioperatoria del 5-7%. È evidente l’importanza di équipes multidisciplinari (chirurghi, anestesisti, internisti con specializzazione in gastroenterologia ed endocrinologia, radiologi, nutrizionisti, infettivologi) con adeguata esperienza (almeno 2-3 pancreasectomie al mese) per ottenere i risultati migliori. Il trattamento adiuvante postoperatorio ha dato lungamente risultati inconsistenti, fondamentalmente attri-
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buibili alla mancanza di farmaci realmente efficaci e alla difficoltà a somministrare dosi adeguate di chemioterapia e/o radioterapia in pazienti generalmente debilitati dalla malattia e dall’intervento chirurgico. Recentemente sono stati presentati i risultati di uno studio randomizzato multicentrico (ESPAC-1) che ha confrontato, dopo chirurgia radicale, la sola osservazione ad un trattamento chemioterapico con 5-FU + acido folinico, mentre un terzo braccio comprendeva un trattamento chemioradioterapico combinato (5-FU + radioterapia, 40 Gy). Il solo trattamento chemioterapico è risultato prolungare significativamente la sopravvivenza mediana (da 13,5 mesi a 19,5 mesi). Questi risultati meritano tuttavia conferma, in quanto il fluorouracile, anche in combinazione con acido folinico, ha un’attività minima nei confronti delle forme avanzate e quindi è difficile comprendere come possa risultare così efficace nel ritardare le recidive. Esistono diverse esperienze, perlopiù monoistituzionali, di chemioterapia o chemioradioterapia primaria
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(di induzione o neoadiuvante) nelle forme localmente avanzate, con risultati interessanti ma tutt’altro che definitivi, spesso ottenuti a prezzo di tossicità elevata. Il farmaco chemioterapico più utilizzato nel trattamento palliativo della malattia avanzata è la gemcitabina, che è risultata significativamente più efficace del 5-FU sia in termini di tasso di controllo di malattia (parametro che include CR + PR + SD), che in tempo alla progressione e in sopravvivenza mediana. Esistono diversi schemi di combinazione tra la gemcitabina e altri farmaci, in particolare con il 5-FU e con derivati del platino. Nonostante l’efficacia degli schemi di combinazione sia quasi sempre superiore alla monoterapia negli studi di fase II, spesso gli studi di conferma non sono riusciti a replicare i risultati. Tuttavia, alcuni schemi (gemcitabina + oxaliplatino, GEMOX; gemcitabina + cis-platino + epirubicina + 5-FU in infusione continua, PEF-G, ideato dagli oncologi del S. Raffaele di Milano), sembrano effettivamente più attivi, anche se la loro tossicità è ovviamente superiore.
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C A P I T O L O
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ALTRI TUMORI A. BORRI, L. CANTALAMESSA, G.F. CIBODDO
TUMORI DELLE OSSA (*) Possono derivare da tutte le diverse popolazioni cellulari che compongono l’osso o essere metastasi di altri tumori primitivi.
Tumori primitivi Dal punto di vista fisiopatologico, il dato più caratteristico è il riassorbimento dell’osso che avviene per la capacità delle neoplasie ossee di stimolare la differenziazione o l’attivazione degli osteoclasti mediante la produzione di fattori di attivazione degli osteoclasti (OAF), sostanze paratormonosimili, interleuchina-1, ecc. La crescita del tumore tuttavia può essere ostacolata da una reazione della struttura sana circostante, che può determinare una osteosclerosi ed una modificazione della struttura ossea. Dal punto di vista clinico, i tumori ossei si possono rendere manifesti per diversi motivi: talora per la presenza di una massa nei tessuti molli circostanti, altre volte per una vera e propria deformazione dell’osso stesso, oppure per dolore spontaneo o dolorabilità alla palpazione o per fratture patologiche. Per la diagnosi sono utili le indagini radiologiche classiche coadiuvate dalla TC in sedi mirate e dalla scintigrafia ossea con 99mTc polifosfato. Importante la valutazione istologica bioptica.
Tumori maligni Sono perlopiù di origine mesenchimale e possono essere grossolanamente distinti in osteosarcomi e fibrosarcomi. Probabilmente derivano da una comune cellula progenitrice, pur mostrando un notevole polimorfismo istologico. A. Osteosarcomi. La massima incidenza è tra i 20 e 40 anni di età. Le sedi più colpite sono le metafisi delle ossa lunghe e la sintomatologia è di solito caratterizzata da dolore e gonfiore locale. Il quadro radiologico è assai vario e dipende dall’aggressività del tumore e dalla capacità di reazione riparativa dell’osso circostante: si andrà quindi da lesioni esclusivamente litiche, a lesioni circondate da orletti riparativi, a dense aree radiopache o a lesioni mostruose contenenti spicole o strani ammassi radiopachi; spesso si può osservare una discontinuità della regione corticale che sovrasta il tumore. La terapia, una volta sempre infausta, è migliorata grazie al nuovo approccio multidisciplinare chirurgico-chemioterapico. B. Condrosarcomi. Compaiono in età più tarda (oltre i 40 anni) e colpiscono in genere sedi diverse: pelvi, coste, diafisi del femore e dell’omero. Hanno un decorso più lento e meno aggressivo. C. Sarcoma di Ewing. È un tumore assai maligno tipico della giovane età; istologicamente è caratterizzato dalla presenza di piccole cellule rotondeggianti; si localizza per lo più alle ossa lunghe. Il trattamento in genere è chirurgico + chemioterapico. D. Mieloma multiplo e linfomi. Sono tra i più comuni tumori a localizzazione ossea (Capp. 48 e 49).
Tumori benigni I più importanti sono gli osteocondromi, gli encondromi, i tumori gigantocellulari, gli osteomi osteoidi e i fibromi non ossificanti. Quando i tumori non hanno raggiunto dimensioni molto importanti, il trattamento chirurgico locale è generalmente risolutivo.
I sarcomi primitivi dell’osso sono tra le neoplasie in cui il trattamento multimodale ha ottenuto i risultati mi-
(*) G.F. Ciboddo.
(*) E. Bucci e G. Di Lucca.
Terapia (*)
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gliori, sia in termini di qualità della vita (conservazione dei segmenti artuali colpiti) che di sopravvivenza. Si ricordi che si tratta di neoplasie relativamente rare, il cui trattamento deve pertanto essere affidato a centri altamente specializzati. A. Osteosarcoma. È il tumore maligno osseo più comune; la sua incidenza segue una classica distribuzione bimodale, con un primo picco tra i 15 e i 25 anni di vita e un secondo picco (più modesto) intorno ai 60 anni. La terapia standard prevede la sequenza chemioterapia neoadiuvante → chirurgia conservativa → chemioterapia adiuvante. Attualmente, è possibile attuare una chirurgia conservativa (volta a evitare l’amputazione dell’arto) in circa il 70-90% dei pazienti. Un parametro prognostico molto importante, ai fini della realizzabilità di un intervento conservativo, del rischio di recidiva locale o sistemica e della sopravvivenza globale è la percentuale di cellule necrotiche su campioni bioptici esaminati dopo chemioterapia neoadiuvante. Una percentuale di necrosi ottimale è uguale o superiore all’8090% delle cellule. I regimi chemioterapici applicati sono molto complessi; in alcuni casi è prevista la somministrazione di farmaci per via intra-arteriosa. Farmaci inclusi in quasi tutti gli schemi sono il methotrexate ad alte dosi (8-12 g/m2), il cis-platino, l’ifosfamide e l’adriamicina. Gli stessi farmaci sono usualmente utilizzati negli schemi di chemioterapia adiuvante. Globalmente, la sopravvivenza libera da malattia varia dal 50 al 75%. Per l’osteosarcoma la radioterapia ha un ruolo limitato, se si eccettuano sedi particolari (mascella, mandibola, colonna vertebrale) e la palliazione delle forme avanzate. I polmoni sono di gran lunga la sede più frequentemente interessata da metastasi, che raramente (10%) possono essere presenti già alla diagnosi. La presenza di metastasi polmonari non preclude la possibilità di attuare un intervento terapeutico con finalità curative; la chirurgia delle metastasi (preceduta o seguita da chemioterapia) è fondamentale, e può assicurare una sopravvivenza libera da malattia anche del 40%. B. Condrosarcoma. È il secondo, in ordine di frequenza, tra i tumori maligni dell’osso (circa il 20%, in termini percentuali). L’età di insorgenza è nettamente più elevata rispetto all’osteosarcoma (in media, intorno a 50 anni). Il trattamento si basa sulla chirurgia e sulla radioterapia, che può sostituire l’intervento quando la neoplasia insorge in sedi particolari, ma più spesso ha un ruolo postoperatorio. Le casistiche sulla chemioterapia sono disomogenee; si ritiene però che regimi analoghi a quelli utilizzati per l’osteosarcoma possano essere impiegati con successo nelle forme metastatiche o quale complemento alla chirurgia in situazioni ad elevato rischio di recidiva. C. Sarcoma di Ewing. È attualmente inquadrato nel gruppo di neoplasie definite tumori neuroectodermici primitivi (PNET, dall’acronimo inglese). È un tumore caratteristico dell’età pediatrica, con un picco di incidenza tra i 10 e i 12 anni, ed è del tutto occasionale al di sopra dei 30 anni. Dal punto di vista citogenetico è
ONCOLOGIA MEDICA
caratterizzato da una traslocazione cromosomica specifica, t (11;22) (q24; q12). Il bacino è la sede più frequente d’insorgenza. Come per l’osteosarcoma, il trattamento del sarcoma di Ewing è basato su un’integrazione complessa di chemioterapia, radioterapia (in questa neoplasia molto più importante che nell’osteosarcoma) e chirurgia. I farmaci fondamentali per la chemioterapia del sarcoma di Ewing sono la vincristina, l’actinomicina D, la ciclofosfamide, l’ifosfamide e l’adriamicina. Negli schemi più recenti trova frequentemente spazio l’etoposide e, nei pazienti con malattia ad alto rischio, si sta valutando il ruolo della chemioterapia ad alte dosi con trapianto di midollo osseo o di cellule staminali periferiche. Attualmente, l’applicazione di queste strategie assicura la sopravvivenza a lungo termine in circa il 50% dei pazienti. D. Tumori a cellule giganti e cordomi. Diamo solo dei cenni alla terapia di tumori più rari dell’osso. La chirurgia gioca un ruolo fondamentale nella terapia di questi tumori. Queste ultime neoplasie, che insorgono da residui della notocorda posti sulla linea mediana e interessano pertanto il rachide (soprattutto a livello sacro-coccigeo) e la base del cranio presso l’area sfenooccipitale, possono trarre beneficio dalla radioterapia, soprattutto nei rari centri in cui è possibile irradiare particelle pesanti (protoni). E. Istiocitoma fibroso maligno dell’osso. Ha una cattiva prognosi se trattato solo con chirurgia; l’uso di schemi chemioterapici analoghi a quelli dell’osteosarcoma è fortemente consigliato, anche se mancano le prove che essi siano in grado effettivamente di migliorare la sopravvivenza.
Metastasi ossee Sono molto comuni nei carcinomi, rare nei sarcomi. Possono essere asintomatiche o determinare lo stesso genere di problemi dei tumori primitivi ossei, in genere tuttavia sono multiple. La disseminazione avviene per lo più attraverso la via ematogena. Le metastasi istologicamente e radiograficamente possono dare quadri osteolitici, osteoblastici o misti. I carcinomi della tiroide, del rene e del colon in genere determinano la comparsa di osteolisi; altri tumori danno lesioni osteoblastiche, come per esempio la prostata e i carcinoidi maligni. Il carcinoma della mammella può dare quadri misti di osteolisi od osteosclerosi. Le metastasi osteolitiche determinano facilmente ipercalcemia, ipercalciuria ed aumento dell’idrossiprolinuria, mentre la fosfatasi alcalina sierica si eleva poco al contrario; le metastasi osteolastiche determinano importanti elevazioni della fosfatasi alcalina ma non ipercalcemia. A. Terapia delle metastasi ossee (*). È molto più comune che il medico generale, l’internista o l’oncolo(*) E. Bucci e G. Di Lucca.
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go generale debbano affrontare la situazione di tumori maligni metastatici all’osso che non il problema di tumori primitivi dell’osso. I tumori che più frequentemente danno metastasi ossee sono il carcinoma della mammella nella donna (75% dei casi con metastasi) e il carcinoma della prostata nell’uomo (85% dei casi con malattia metastatica). Naturalmente, il trattamento fondamentale è quello specifico per la neoplasia di base, ma meritano menzione alcune considerazioni particolari. Metastasi ossee particolarmente dolorose o a rischio di frattura patologica trovano un trattamento palliativo elettivo nella radioterapia, le cui dosi variano notevolmente a seconda delle sedi coinvolte e della politica dei centri di trattamento, ma convenzionalmente si erogano dosi dell’ordine di 25-36 Gy in frazioni di 1.8-2.5 Gy. In malattie con metastasi ossee particolarmente disseminate, può essere utilizzata l’irradiazione emicorporea (ossia, si irradia con singole frazioni di 6-7 Gy la metà superiore o la metà inferiore del corpo). Questa modalità di trattamento assicura un rapido controllo del dolore in oltre il 70% dei pazienti, soprattutto nel carcinoma della prostata e nel mieloma multiplo, ma comporta un rischio piuttosto consistente di depressione midollare (soprattutto per l’emicorpo inferiore) e di tossicità polmonare (per l’emicorpo superiore). Un’altra modalità di trattamento efficace in situazioni di metastasi ossee disseminate è rappresentata dalla somministrazione di isotopi radioattivi con concentrazione elettiva nel tessuto osseo. L’esperienza più consolidata è con lo stronzio-89 (89Sr): una singola dose di 150 Mbq assicura una riduzione superiore al 50% del dolore in oltre l’80% dei pazienti trattati, soprattutto in casi di carcinoma prostatico. L’unico effetto collaterale di rilievo è una tossicità midollare in genere contenuta; l’applicazione estesa di questa metodica è limitata dalla rarità di unità di ricovero di Medicina Nucleare e dai costi relativamente elevati. Altri isotopi radioattivi di più recente introduzione sono il samario-153 e il renio-186 o 188. Per quanto riguarda il trattamento medico delle metastasi ossee, negli ultimi anni è cresciuto enormemente l’uso dei difosfonati per via endovenosa. Il pamidronato, alla dose di 90 mg in infusione endovenosa di 2-4 ore ogni 3-4 settimane, è risultato significativamente efficace nel ridurre il numero di complicanze ossee (fratture patologiche, ipercalcemia) e nel controllo del dolore in pazienti con carcinoma mammario metastatico e con mieloma multiplo. In alcuni casi è stata osservata la ricalcificazione di aree litiche. Il trattamento con questo farmaco risulta efficace anche nel ridurre il tasso di progressione ossea, misurato in termini di nuove sedi dolorose. L’acido zoledronico è somministrato alla dose di 4 mg in infusione rapida (15 minuti) ogni 3-4 settimane. Rispetto al pamidronato, ha dimostrato un’efficacia palliativa in uno spettro più ampio di neoplasie maligne con metastasi ossee (in particolare, carcinomi del polmone, del rene e della prostata, oltre che mieloma multiplo e carcinoma della mammella). Nei limitati studi di confronto diretto, si è dimostrato superiore al pamidronato, che sta superando nella pratica quotidiana anche per la maggiore accettazione dei pa-
zienti, grazie alla possibilità di infusione rapida. L’unico limite è rappresentato dal costo più elevato. Esula dagli scopi del testo una trattazione del trattamento chirurgico delle metastasi ossee; basterà ricordare che i vantaggi del trattamento delle fratture patologiche (in particolare di quelle vertebrali) dev’essere attentamente soppesato con l’attesa di sopravvivenza del paziente e la disponibilità di altre metodiche palliative efficaci. B. Terapia dell’ipercalcemia (*). Un’altra situazione clinica piuttosto frequente, in oncologia generale, è l’ipercalcemia. Questa complicanza non è sempre correlata alla presenza di metastasi ossee, ma può essere in relazione a secrezioni ormonali ectopiche (peptidi correlati al paratormone). I carcinomi squamocellulari del polmone e di altre sedi dell’organismo, il carcinoma renale e il carcinoma vescicale sono le neoplasie che più comunemente si associano a questa manifestazione paraneoplastica. In altri casi (in particolare, in neoplasie di derivazione emolinfopoietica) alla base dell’ipercalcemia vi sono alterazioni del metabolismo della vitamina D. Il trattamento dell’ipercalcemia nel paziente neoplastico è complesso. In una certa quota di pazienti, l’ipercalcemia è soltanto un dato di laboratorio senza sintomi. In genere, si tratta di casi in cui l’alterazione è insorta molto gradualmente e non presenta tendenza ad evolvere rapidamente. In questi pazienti ci si può astenere da un trattamento aggressivo, limitandosi a un monitoraggio clinico e ad un intervento terapeutico solo nel caso vengano superati valori quasi sempre sintomatici (≥ 3.0 mmol/l) o comunque potenzialmente responsabili di danni d’organo (rene, cuore, ecc.). Poiché molti pazienti neoplastici sono ipoalbuminemici e il calcio sierico è legato per circa il 40% all’albumina, dev’essere ricordata l’importanza di misurare anche il calcio ionizzato, quale parametro più attendibile di ipercalcemia. Possono essere raccomandate misure d’ordine generale, quali l’attività fisica (compatibilmente con le condizioni cliniche), la restrizione dell’apporto dietetico di calcio e la sospensione di farmaci che possono incrementare ulteriormente i valori di calcemia (vitamina A, vitamina D, diuretici tiazidici). Nei casi di ipercalcemia sintomatica, la prima misura terapeutica è l’espansione del volume extracellulare attraverso l’infusione di soluzioni saline, che correggono la disidratazione presente nella maggioranza dei casi, aumentano il filtrato glomerulare e l’escrezione di calcio a livello del tubulo prossimale. Ovviamente, questo intervento terapeutico dev’essere commisurato alla situazione generale del paziente (molta cautela, per esempio, in pazienti cardiopatici o gravemente ipoalbuminemici). Normalmente, la correzione dell’ipercalcemia richiede infusione di 35 l di soluzione fisiologica nelle 24 ore. Sono dunque evidenti i limiti di questo approccio nel paziente oncologico. Inoltre, i risultati sono raramente completi e tendono ad essere effimeri. Alla reidratazione devono dun(*) E. Bucci e G. Di Lucca.
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que essere associati altri provvedimenti terapeutici. Il più semplice ed economico è basato sull’utilizzo di farmaci calciuretici. A questa classe appartengono fondamentalmente due farmaci: la furosemide e la calcitonina. La furosemide è il diuretico dell’ansa più utilizzato; nel paziente euvolemico, la somministrazione di furosemide è in grado di aumentare del 30% la frazione d’escrezione del calcio (mentre nel paziente disidratato la somministrazione di furosemide può peggiorare l’ipercalcemia). Dopo un’adeguata idratazione, si consiglia di somministrare dosi generose di furosemide (60100 mg ev ogni 2 ore) sino a normalizzazione della calcemia o riduzione dei sintomi. Naturalmente, questo trattamento intensivo dev’essere strettamente monitorato per evitare ipovolemia, ipotensione, perdita eccessiva di altri elettroliti (potassio, magnesio). Non esiste un razionale per una terapia diuretica a lungo termine nel paziente ipercalcemico. La calcitonina, a dosi relativamente basse (100-200 UI al giorno), ha un’attività calciuretica basata sull’inibizione del riassorbimento di calcio a livello del tubulo distale. La condizione perché questo fenomeno si verifichi è che il paziente sia euvolemico. Come si dirà in seguito, questa ed altre azioni della calcitonina tendono ad esaurirsi rapidamente. Anche se non si può fondare sulla sola calcitonina la terapia dell’ipercalcemia nei pazienti oncologici, questo farmaco ha tuttavia un importante ruolo come adiuvante nei casi di emergenza. Tutti i provvedimenti sopra elencati hanno un’efficacia incompleta e comunque transitoria. È necessario pertanto intervenire sui meccanismi alla base dell’ipercalcemia per un controllo più duraturo. Naturalmente, nei casi in cui vi è una certa probabilità di risposta della neoplasia alla terapia citostatica (chemioterapia, ormonoterapia), questo intervento gioca un ruolo fondamentale. In tutti i casi, è indicata la somministrazione di farmaci che interferiscono con il riassorbimento osseo, inibendo l’attività degli osteoclasti. Tra le molecole provviste di questa proprietà, i più efficaci sono i difosfonati. Si tratta di composti strutturalmente analoghi al pirofosfato, in cui un legame P-O-P è sostituito da un legame P-C-P stabile alla scissione enzimatica. Il loro meccanismo d’azione è complesso e non ancora del tutto chiarito; accanto a interazioni fisico-chimiche con la componente minerale dell’osso, che in ultima analisi si traducono in un rallentamento o un arresto della dissoluzione dei cristalli di idrossiapatite, entrano sicuramente in gioco altri processi (per es., inibizione degli enzimi lisosomiali degli osteoclasti). Nella terapia dell’ipercalcemia, i difosfonati più utilizzati sono il pamidronato e l’acido zoledronico, mentre sono stati pressoché abbandonati i difosfonati di prima generazione (etidronato, clodronato). L’effetto normocalcemizzante dovuto al pamidronato inizia dopo 24 ore ed è in genere completo dopo 3-5 giorni; quello ottenuto con l’acido zoledronico è leggermente più rapido. La normocalcemia ottenuta con questi schemi di trattamento endovenoso si protrae, in media, per 3 settimane. In alcuni casi di ipercalcemia grave e rapidamente recidivante, può essere utile un trattamento di mantenimento con clodronato per os, alle dosi di 1200-3200 mg al giorno.
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Gli effetti collaterali dei difosfonati sono contenuti. Nel 20% circa dei casi l’infusione di pamidronato e acido zoledronico può essere seguita da febbre e sintomi simil-influenzali, in genere di entità contenuta. Nei pazienti ipercalcemici è necessaria un’adeguata espansione del volume plasmatici prima di somministrare difosfonati, pena il rischio di insufficienza renale acuta. Si è già detto dell’azione calciuretica della calcitonina; quest’ormone, tuttavia, ha anche potenti effetti antiosteoclastici, che purtroppo vanno incontro rapidamente (8-10 giorni) a fenomeni di resistenza. Per questo motivo il farmaco è sempre meno utilizzato. Tuttavia, la rapidità di azione della calcitonina la rende un farmaco ideale per l’associazione con i difosfonati nel trattamento d’urgenza dell’ipercalcemia. Uno schema raccomandato di trattamento prevede la somministrazione di 8 UI/kg im ogni 6 ore per 1-2 giorni; alternativamente, si possono somministrare 100 UI im ogni 12 ore per 3 giorni. Nella terapia dell’ipercalcemia sono usualmente impiegati anche i corticosteroidi, la cui utilità è tuttavia dubbia, se si escludono i casi di ipercalcemia legati ad alterazioni del metabolismo della vitamina D (in cui i corticosteroidi inibiscono l’assorbimento enterico di calcio) e i casi di neoplasie in cui questi farmaci possono avere attività antiproliferativa (linfomi, mielomi; in alcuni casi carcinoma della mammella e della prostata).
TUMORI DEL RENE (*) Il rene, come tutti gli altri organi, può essere sede di processi tumorali primitivi o metastatici. In quest’ultimo caso il quadro clinico è solitamente silente. Nel caso delle neoplasie primitive, distinguiamo forme benigne e maligne, di cui le più importanti sono: • tumori benigni – adenoma; – angiomiolipoma; • tumori maligni – carcinoma a cellule chiare; – nefroblastoma (tumore di Wilms); – carcinoma a cellule transizionali della pelvi.
Tumori benigni Adenoma Gli adenomi sono tumori di piccole dimensioni e di frequente riscontro incidentale, che solo talvolta si rendono evidenti clinicamente. Hanno colorito giallastro, sono ben delimitati, ma non capsulati ed hanno sede nella corticale del rene; essi originano dalle cellule dei tubuli contorti prossimali. La diagnosi differenziale con il carcinoma è difficile, poiché le due neoplasie hanno la medesima istogenesi, lo stesso aspetto macroscopico, (*) A. Borri con la collaborazione di G. Colombo, M. Freschi.
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microscopico, ultrastrutturale e istochimico. Si è perciò convenuto, in assenza di altri criteri, di considerare benigne le neoplasie di diametro inferiore a 3 cm e maligne quelle di diametro superiore; per quanto apparentemente grossolano, questo criterio è in grado di predire il comportamento biologico delle neoplasie con discreta accuratezza. Esistono adenomi composti esclusivamente da cellule di forma tondeggiante con citoplasma ampio, eosinofilo e granuloso, ricco di mitocondri, che vengono chiamati oncocitomi. Il loro comportamento biologico viene attualmente considerato benigno. Angiomiolipoma È una malformazione amartomatosa, composta da cellule adipose muscolari lisce e vasi con parete ispessita, in proporzioni variabili. È raro nella popolazione generale, presentandosi come lesione singola e voluminosa. È invece frequente in pazienti affetti da sclerosi tuberosa, una rara malattia caratterizzata da adenomi sebacei del volto e lesioni della corteccia cerebrale, responsabili di epilessia e ritardo mentale. Clinicamente provoca dolore lombare ed emorragie, talora molto gravi. Se associato a sclerosi tuberosa, l’angiomiolipoma è di piccole dimensioni, multiplo e bilaterale. È pertanto opportuno esaminare entrambi i distretti renali con una angiografia, che dimostra piccoli aneurismi arteriosi, senza shunt arterovenosi. La nefrectomia radicale è indicata solo in caso di lesione unilaterale. Nel rene si può sviluppare qualsiasi forma di tumore mesenchimale benigno, come l’emangioma o il fibroma. Una interessante e rara neoplasia è il tumore a cellule iuxtaglomerulari, composto da piccole cellule con citoplasma granulare PAS positivo, a disposizione perivascolare, simile all’emangiopericitoma, dal quale si differenzia per la secrezione di renina e la conseguente ipertensione.
Tumori maligni Carcinoma renale (o adenocarcinoma renale, tumore di Grawitz o ipernefroma)
L’adenocarcinoma renale rappresenta il 3% di tutti i tumori maligni e il 90-95% delle neoplasie che originano dal rene; fra tutti i tumori urologici è attualmente quello con il tasso di mortalità più alto: (più del 40% rispetto a circa il 20% del tumore della prostata e della vescica). Il numero di nuovi casi diagnosticati annualmente è in costante aumento; ciò è dovuto, almeno in parte, all’uso sempre più diffuso di indagini strumentali non invasive, che permettono il riscontro incidentale del tumore. Più frequente negli uomini che nelle donne (con un rapporto di 2:1 fra i due sessi), raramente si manifesta prima dei 20 anni, con un picco di incidenza massimo nel sesto decennio. L’eziologia del tumore renale è a tutt’oggi sconosciuta, ma molti sono i fattori ambientali, occupazionali, ormonali, genetici studiati come possibile causa predisponente all’insorgenza della neoplasia. Azione canceroge-
na accertata hanno il fumo di sigarette, alcuni metalli pesanti (piombo, cadmio), l’asbesto, il thorotrast (mezzo di contrasto usato in passato), l’abuso di analgesici (in particolare, la fenacetina), ecc. Gli ormoni e, in particolare gli estrogeni, sono in grado di indurre l’insorgenza del tumore negli animali da esperimento; pur non essendoci una prova diretta nell’uomo, è dimostrato che l’obesità, soprattutto femminile, aumenta il rischio di adenocarcinoma renale. Più recenti sono le segnalazioni di una maggiore incidenza della neoplasia sia nei soggetti con insufficienza renale cronica che sviluppano la malattia cistica acquisita dopo dialisi prolungata, sia nei soggetti sottoposti a trapianto di rene. Particolare attenzione è stata data negli ultimi anni agli studi genetici; sebbene, infatti, la maggior parte dei tumori renali si manifesti sporadicamente (non ereditario), nell’1-4% dei casi è dimostrata una predisposizione genetica che si traduce in una maggiore incidenza della neoplasia nello stesso nucleo familiare. Inoltre, da tempo è noto che nei soggetti con la malattia di von Hippel-Lindau, una rara malattia ereditaria caratterizzata da aumentato sviluppo di tumori in vari organi, l’incidenza di tumore renale è molto alta (circa 40%) ed è dovuta a un’alterazione genetica (gene VHL) sul braccio corto del cromosoma 3. Recentemente, è stato dimostrato che modificazioni puntiformi sul gene VHL e altre alterazioni cromosomiche sono responsabili non solo dei tumori renali “familiari”, ma anche della maggior parte di quelli sporadici. Il tumore renale origina dalle cellule di tubuli contorti prossimali; pertanto le sue cellule frequentemente sono caratterizzate da ampio citoplasma chiaro ricco di glicogeno e materiale lipidico. Questo conferisce al tumore il classico colorito giallastro, responsabile della errata interpretazione istogenetica di derivazione da inclusi di corticale surrenalica (ipernefroma) attribuitagli in passato. Istologicamente si riconoscono essenzialmente 5 varianti di carcinoma renale: a cellule chiare convenzionale (75%), a cellule cromofile o papillare (15%), a cellule cromofobe (5%), oncocitico (3%), dei dotti collettori (2%); nella maggior parte dei casi, il tumore è costituito da una commistione dei diversi tipi istologici. Non è raro, infine, il riscontro di cellule di tipo sarcomatoide che, se presenti in elevata percentuale, sono associate a una maggior rapidità di crescita e a prognosi peggiore. Insorge preferenzialmente ai poli dell’organo ed ha tendenza ad espandersi, sia in direzione centrifuga, deformando dapprima il profilo renale, poi superando la capsula propria e infiltrando il tessuto adiposo perirenale, sia centripetamente invadendo la midollare, la pelvi e la vena renale fino alla vena cava. Frequenti sono l’emorragia, la necrosi e la fibrosi intratumorale. Le metastasi hanno come sedi più frequenti polmone, ossa ed encefalo, ma non è raro riscontrare metastasi in sedi inusuali, prima della manifestazione clinica del tumore primitivo. A. Fisiopatologia. Come tutti i tumori, il carcinoma renale esercita i suoi effetti principali attraverso l’invasione dello spazio contiguo e la compressione delle
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A.
B.
Figura 42.1 - Diversi aspetti (A e B) di TC addominale in sezione frontale che mostra un carcinoma al polo inferiore del rene destro. (Da Prokop M., Galansky M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003.)
strutture adiacenti. A causa della sua propensione ad invadere le vene renali può determinare, a sinistra, una occlusione della vena spermatica interna che, da questo lato, si congiunge con la vena renale. La conseguenza è un varicocele. È probabile che ad una compressione dell’arteria renale possa attribuirsi l’ipertensione arteriosa che viene notata in un terzo dei casi; talvolta il tumore produce direttamente renina. In realtà il tumore può produrre varie sostanze: pirogeni (e quindi la possibilità di febbre), una sostanza simile all’eritropoietina (e in tal caso si ha eritrocitosi), una sostanza simile al paratormone (e quindi ipercalcemia), oppure, come è stato descritto in casi isolati, ormoni di altro tipo, quali la prolattina, le gonadotropine e i corticosteroidi. Raramente entro il tumore esistono anastomosi arterovenose, che possono determinare uno scompenso cardiaco ad alta gettata. B. Clinica. Il tumore renale rimane clinicamente silente nella maggior parte dei casi. La contemporanea presenza di ematuria, dolore e massa palpabile al fianco, che veniva una volta considerata la triade classica di presentazione, è in realtà molto rara (10%) e indicativa di malattia in fase avanzata. Nel 25-40% dei casi il tumore non dà sintomi e viene diagnosticato incidentalmente con esami effettuati per altri motivi. Molto spesso la diagnosi viene fatta per comparsa di sintomi legati alla presenza di metastasi o per sintomi sistemici quali la febbre (circa il 20% dei casi), l’astenia e la perdita di peso (30%). Comuni sono anche i disturbi dovuti ad anemia, ipercalcemia e policitemia. L’esame obiettivo è generalmente normale, ma in caso di tumori di discrete dimensioni della porzione media e inferiore del rene, può essere palpabile una massa a livello del fianco. Non raro è il riscontro di varicocele, più comunemente a sinistra. Gli esami di laboratorio non mostrano alterazioni specifiche; oltre alle già citate anemia, policitemia,
ipercalcemia, in rari casi possono essere presenti alterazioni degli enzimi epatici (sindrome di Stauffer) non correlate alla presenza di metastasi al fegato. Di fondamentale importanza per la diagnosi sono le indagini strumentali. L’urografia è generalmente impiegata nella valutazione iniziale di una massa renale, ma ha bassa specificità e sensibilità in caso di carcinoma renale. L’ecografia permette di definire la natura cistica o solida di una massa renale; è in grado, inoltre, di fornire informazioni sulle dimensioni e l’estensione del tumore, sull’eventuale coinvolgimento del surrene e dei linfonodi e sull’infiltrazione vascolare (vena renale e vena cava). L’arteriografia renale, maggiormente usata in passato, fornisce informazioni precise sulla vascolarizzazione del tumore, utili per il chirurgo. Essendo un esame invasivo, il rischio di complicanze (sanguinamento, formazione di fistole arterovenose, embolia) è maggiore rispetto alle altre indagini. La TC con mezzo di contrasto è l’esame più sensibile e specifico per il carcinoma renale, capace di definire con accuratezza le dimensioni, l’estensione, il coinvolgimento di altri organi da parte del tumore, oltre che di individuare lesioni in stadio molto iniziale (Fig. 42.1). La RM fornisce immagini tridimensionali che possono essere un utile completamento per il chirurgo nella pianificazione dell’intervento chirurgico. Nei soggetti con allergia al mezzo di contrasto, la RM è una valida alternativa alla TC. C. Prognosi. Numerosi fattori influenzano la prognosi del carcinoma renale; nei casi non metastatici alla diagnosi e sottoposti a intervento chirurgico, la sopravvivenza dipende dalle dimensioni e dall’estensione del tumore, dal grado di malignità, dalle condizioni generali e dall’età del pazienti. In media, 5 anni dopo la diagnosi e l’intervento chirurgico, sopravvive il 30-50% dei soggetti, ma nelle forme confinate al rene è possibile una sopravvivenza del 70% a 10 anni. Nei casi già metastatici alla diagnosi la prognosi è estremamente sfavorevole, con solo pochi soggetti che sopravvivono a
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3 anni. Ciò vale soprattutto nei pazienti con malattia metastatica in più sedi e con sintomi sistemici come l’anemia, l’ipercalcemia e il calo ponderale. D. Terapia (*). La chirurgia è tuttora il solo trattamento in grado di guarire un paziente affetto da carcinoma renale. Nel 30-40% dei casi sono già presenti metastasi al momento della diagnosi e complessivamente circa la metà dei pazienti operati svilupperà comunque localizzazioni secondarie. Fortunatamente, i notevoli progressi conseguiti negli ultimi 20 anni nella conoscenza delle basi biologiche e genetiche del carcinoma renale, nelle tecniche di diagnosi e stadiazione clinica, nelle tecniche chirurgiche stanno rapidamente modificando la storia di questo tumore. I tumori diagnosticati incidentalmente sono oggi circa il 60% di tutti i tumori renali, contro il 10% degli anni Settanta. L’intervento chirurgico più utilizzato è la nefrectomia radicale, che comporta l’asportazione del rene, del grasso perirenale, della ghiandola surrenale e della fascia di Gerota, ma non necessariamente la rimozione dei linfonodi regionali. Non è infatti ancora stato chiarito se quest’ultima procedura sia utile nel migliorare la sopravvivenza. È noto che questa è significativamente ridotta dalla presenza di metastasi linfonodali; purtroppo, a tutt’oggi non esistono indagini strumentali in grado di accertare prima dell’intervento l’interessamento linfonodale e di fornire quindi indicazioni utili per l’intervento stesso. I risultati preliminari di uno studio randomizzato ancora in corso sembrano dimostrare che l’aggiunta della linfoadenectomia regionale non modifichi la sopravvivenza rispetto alla nefrectomia semplice in caso di tumore localizzato al rene. Per contro, molti studi retrospettivi ribadiscono il vantaggio offerto dalla procedura nei casi in cui le indagini diagnostiche preoperatorie abbiano evidenziato ingrossamento dei linfonodi. Ne deriva che, in attesa di indicazioni precise, nei casi con sospetto interessamento linfonodale, la dissezione linfonodale regionale è indicata. Per tumori diffusi alla vena renale o alla vena cava l’intervento deve essere esteso per rimuovere l’intera vena renale, il trombo cavale o porzioni di vena cava. Con tale trattamento questi pazienti, pur compresi nel III stadio, possono avere una prognosi discreta. Per neoplasie resecabili, ma particolarmente estese e vascolarizzate, è utile l’embolizzazione preoperatoria dell’arteria renale, realizzabile con diversi mezzi fisici o chimici. Si tratta di una metodica utile anche a fini palliativi in pazienti non operabili o metastatici. Negli ultimi 10 anni, grande sviluppo hanno avuto le tecniche chirurgiche meno invasive. Fra queste, la nefrectomia per via laparoscopica si è dimostrata una valida alternativa alla chirurgia radicale a cielo aperto. In tumori di dimensioni non superiori a 8 cm, localizzati, senza coinvolgimento della vena renale e dei linfonodi, questa tecnica è ugualmente efficace e molto gradita ai pazienti; riduce infatti il dolore postoperatorio, il perio(*) Con la collaborazione di E. Bucci e G. Di Lucca.
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do di ospedalizzazione e la convalescenza. Già da tempo, casi selezionati (pazienti mononefrici, con tumore bilaterale o altre condizioni in cui sia indispensabile mantenere la funzionalità del rene interessato) vengono trattati con semplice enucleazione o resezione parziale del tumore, senza che questo si traduca necessariamente in un’elevata percentuale di recidiva locale (10% in media). Oggigiorno, le indicazioni a questo tipo di chirurgia conservativa, anche per via laparoscopica, si stanno estendendo a tutti i casi di tumori di dimensioni non superiori a 4 cm. Recentemente, molto discussa è l’indicazione alla asportazione del surrene di routine, durante la nefrectomia radicale. Studi recenti dimostrano che l’incidenza di metastasi surrenalica per contiguità è bassa e nella maggior parte dei casi, se presente, è evidente alle indagini strumentali preoperatorie. Nei soggetti a cui viene risparmiata l’asportazione del surrene, l’incidenza di recidive locali è bassa. Per contro, nella storia naturale del carcinoma renale non è raro lo sviluppo nel tempo di metastasi al surrene controlaterale per via ematogena; in questo caso, i soggetti già sottoposti ad asportazione del surrene possono andare incontro a insufficienza surrenalica con la necessità di terapia sostitutiva steroidea. Quali alternative al trattamento chirurgico del tumore renale non metastatico, sono attualmente allo studio altre tecniche meno invasive come la crioablazione per via laparoscopica e l’ablazione percutanea tramite radiofrequenza. Ancora discussa è l’indicazione alla nefrectomia radicale nei tumori metastatici. La possibilità che l’intervento abbia finalità curative inducendo la regressione spontanea delle metastastasi è un evento molto raro (0,8% dei casi) e, in ogni caso, apparentemente non in grado di modificare la sopravvivenza. L’intervento chirurgico trova indicazione con finalità palliative nei soggetti con importante dolore da massa tumorale, ematuria persistente, eritrocitosi o ipercalcemia non corretta dalla terapia medica. È inoltre dimostrato che la riduzione del carico di malattia offre un vantaggio in termini di sopravvivenza nei soggetti candidabili a successivi trattamenti, specie di tipo immunoterapico. Ha invece un ruolo definito la chirurgia delle metastasi singole (per es., polmonari) e delle recidive locali (che si ritiene derivino da incompleta radicalità del primo intervento), specie se comparse successivamente all’intervento sul tumore primitivo (la prognosi è in questo caso migliore rispetto alle metastasi “sincrone”). Si può raramente parlare di guarigione, ma si raggiungono percentuali ragguardevoli di sopravvivenza (anche del 45% a 3 anni e più del 30% a 5 anni). Il carcinoma renale è scarsamente radiosensibile; tuttavia il trattamento radiante si dimostra efficace dal punto di vista palliativo nei tumori primitivi inoperabili e nelle metastasi, soprattutto ossee, polmonari e cerebrali. Per quest’ultime, recentemente sono stati ottenuti risultati incoraggianti con l’impiego della radiochirurgia stereotassica, una tecnica particolare di radioterapia che consente, in un’unica seduta, di somministrare dosi elevate di radiazioni limitate alla sede della metastasi (e per questo, come effetti, sovrapponibile alla chirurgia). Or-
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mai completamente abbandonata è invece la radioterapia utilizzata a scopo adiuvante prima o dopo l’exeresi chirurgica, poiché sembra non offrire alcun vantaggio nel prevenire le recidive locali e/o le metastasi linfonodali. La storia della terapia medica del carcinoma renale era sicuramente una delle più sconfortanti dell’oncologia medica fino a che non si sono profilati all’orizzonte i primi risultati delle bioterapie. Prima di ciò, infatti, si potevano solo annoverare insuccessi o mancate conferme di efficacia dei vari agenti chemioterapici o ormonali. La recente scoperta che le cellule del tumore renale esprimono costituzionalmente il gene MDR-1 (Multi-drug Resistance), che codifica per la proteina di trasporto p 170 (in grado di “espellere” i farmaci citotossici), rende forse finalmente ragione di tanti insuccessi in campo chemioterapico. Da una recente revisione di tutti gli studi condotti per provare i diversi chemioterapici nel carcinoma renale, si deriva che le uniche sostanze dotate di una certa efficacia sono le pirimidine fluorinate (ossia, il 5-fluorouracile, la capecitabina e il FUDR). Risultati inferiori, ma confermati in diversi studi, sono stati ottenuti con la gemcitabina. La vinblastina, che per anni ha rappresentato il trattamento convenzionale per il carcinoma renale metastatico, è in grado di indurre risposte (in genere parziali e di breve durata) solo nel 7% dei casi. Dati promettenti, seppur molto preliminari, sono stati recentemente ottenuti con l’uso combinato di gemcitabina e 5-fluorouracile. L’ormonoterapia ha goduto nel corso degli anni di interessi alterni. Basata su presupposti di cancerogenesi sperimentale, è stata ampiamente testata in passato con l’uso di progestinici (tipicamente il medrossiprogesterone acetato). La dimostrata inefficacia in regime adiuvante postoperatorio e i bassi tassi di risposta ottenuti in non più del 5% dei casi (peraltro in soggetti con sedi di malattia favorevoli) ne hanno successivamente notevolmente ridimensionato l’impiego. I recenti buoni risultati ottenuti con il toremifene, un antiestrogeno normalmente utilizzato per la cura del tumore mammario, hanno risvegliato l’interesse per l’ormonoterapia. Gli scarsi risultati ottenuti con le terapie convenzionali hanno da sempre fatto rivolgere l’attenzione a trattamenti alternativi. In particolare, la possibilità, seppur rara, di regressione spontanea delle metastasi, ha indotto da tempo a far ipotizzare che esista una particolare relazione fra sviluppo del carcinoma renale e sistema immunitario dell’ospite, con conseguente possibilità di interferire con la crescita tumorale mediante trattamenti di tipo immunoterapico. I primi tentativi effettuati stimolando in modo aspecifico il sistema immunitario con sostanze adiuvanti (come il BCG o il Corynebacterium parvum) hanno dato risultati contraddittori e sono stati ormai abbandonati. La svolta definitiva nell’immunoterapia del carcinoma renale risale a circa 20 anni fa, quando, grazie alla tecnologia del DNA ricombinante, si sono resi disponibili su larga scala i modificatori della risposta biologica, in particolare l’interferone umano ricombinante (IFN-) e l’interleuchina-2 (IL-2). L’IFN- è una citochina normalmente prodotta in gran quantità dai leucociti in risposta a diversi stimoli (per
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es., virali); la sua azione antitumorale non è ancora stata chiarita definitivamente, ma si ritiene che si esplichi attraverso più meccanismi: stimolando la fagocitosi da parte delle cellule mononucleate, aumentando l’espressione degli antigeni di istocompatibilità di classe I sulle cellule tumorali (fatto che le rende più riconoscibili dal sistema immunitario), con un’azione citolitica diretta (dimostrata in vitro). Nei numerosi studi condotti fino ad oggi, l’IFN-, somministrato per via sottocutanea, si è dimostrato in grado di indurre risposte (sia parziali sia complete) in circa il 15% dei casi, con percentuale che varia sensibilmente in base alle condizioni del paziente, al numero e alla sede delle metastasi. Purtroppo, ad oggi non sono ancora disponibili dati che dimostrino che la citochina abbia effetti sulla sopravvivenza, così come indicazioni sulla dose ottimale da impiegare e sulla durata del trattamento. Sono invece stati pubblicati di recente i risultati di alcuni studi randomizzati che dimostrano che l’IFN-, usato in assetto adiuvante, dopo l’intervento di nefrectomia nei tumori non metastatici, non offre alcun vantaggio sulla sopravvivenza e sulla comparsa di recidive e/o metastasi rispetto alla semplice osservazione. Studi sperimentali hanno dimostrato che linfociti esposti all’IL-2, una citochina prodotta dai linfociti T, acquisiscono la capacità di lisare cellule tumorali e vengono pertanto chiamati cellule LAK (Lymphokine Activated Killer); questo effetto si realizza con un meccanismo a cascata che coinvolge la liberazione di altre citochine, quali l’IFN- e il fattore di necrosi tumorale (TNF). Da quando sì è resa disponibile l’IL-2 ricombinante (rIL-2), più di 300 schemi di trattamento sono stati riportati in letteratura, diversi per dosi e modalità di somministrazione (endovenosa a boli, endovenosa in infusione continua, sottocutanea). Purtroppo, i tassi di risposta più alti (19%) e di durata maggiore sono quelli ottenuti con la somministrazione ad alte dosi in bolo endovenoso, che è la modalità gravata da maggior tossicità (ipotensione, edema polmonare, insufficienza renale) e da un tasso di mortalità dovuta alla terapia del 4%. Nel tentativo di ridurre questi gravi effetti collaterali, sono stati provati i numerosi schemi alternativi sopra citati: globalmente i risultati sembrano dimostrare una riduzione della tossicità con percentuali di risposta sovrapponibili, ma mancano ancora ampi studi randomizzati che confermino questa impressione. Come per l’IFN-, è stato di recente dimostrato che il trattamento adiuvante postchirurgico con l’IL-2 non comporta nessun vantaggio (né maggior sopravvivenza né minor incidenza di ricadute). Il diverso meccanismo d’azione delle due citochine (capacità dell’IFN- di aumentare l’espressione degli antigeni MHC di classe I e quindi la suscettibilità delle cellule tumorali all’azione citotossica della rIL-2) ha indotto ben presto al loro uso combinato. Anche in questo caso, moltissimi sono gli schemi provati con diverse modalità e dosi di somministrazione; c’è però fino ad oggi un solo studio randomizzato che confronta l’efficacia dell’uso dell’IFN- da solo, della rIL-2 da sola e dell’IFN- + rIL-2 in combinazione. I tassi di risposta migliori sono riportati per lo schema di combinazio-
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ne, anche in questo caso con possibilità di risposte di lunga durata. Non sembra invece che ci siano significative differenze nella sopravvivenza nei tre gruppi. Particolare interesse è stato rivolto alcuni anni fa sia all’immunoterapia adottiva, che consiste nella somministrazione di cellule LAK (ossia linfociti prelevati al paziente e stimolati in vitro con rIL-2) insieme all’interleuchina-2, sia all’uso delle TIL (Tumor Infiltrating Lymphocytes), ossia linfociti prelevati dal tumore, stimolati in vitro con rIL-2 e reinfusi al paziente contemporaneamente alla somministrazione dell’interleuchina. La dimostrazione che queste particolari opzioni di terapia non offrono alcun beneficio ulteriore rispetto all’uso dell’IL-2 e/o dell’IFN- ha fatto rapidamente interrompere questo filone sperimentale. In conclusione, dopo circa 20 anni di trattamenti con l’IFN- e l’IL-2 è ormai dimostrato che le due citochine hanno la potenzialità di modificare la storia del carcinoma renale metastatico. Tuttavia, poiché le possibilità di risposta variano sensibilmente in base alle caratteristiche dei pazienti (con particolare riferimento alle buone condizioni cliniche, alla sede e al numero delle metastasi, alla durata dell’intervallo libero da malattia dopo la nefrectomia), l’obiettivo attuale è quello di definire precisi gruppi di rischio che, in base ai diversi fattori prognostici, possano più o meno essere candidati ai diversi schemi di immunoterapia. Le più recenti scoperte sull’immunologia dei tumori, l’identificazione di proteine tumorali immmunogeniche e di anticorpi in grado di riconoscere gli antigeni tumore-associati, oltre ai progressi nella terapia genica, hanno aperto negli ultimi anni la strada a nuove strategie di terapia per il carcinoma renale, tumore per il quale ancora oggi non esistono sufficienti valide alternative terapeutiche. Si ritiene che il trapianto di cellule staminali da donatore compatibile dopo chemioterapia non mieloablativa abbia un effetto di lisi delle cellule tumorali sfruttando i linfociti T del donatore tramite il riconoscimento degli antigeni minori di istocompatibilità. Provato in un numero limitato di soggetti con carcinoma renale in stadio avanzato non responsivo ai comuni trattamenti immunoterapici, ha dato risultati promettenti (percentuali di risposta variabili dal 33% al 55%), ma è purtroppo gravato da un tasso elevato di mortalità correlata alla terapia (33%). Numerose sono le strategie di vaccinazione provate utilizzando vaccini preparati partendo dal tumore autologo. Seppur generalmente ben tollerata, la terapia vaccinica ha finora dato risposte sporadiche nel carcinoma renale; ciò è legato all’estrema difficoltà, in questo tumore, di individuare gli antigeni tumore-associati. La recente individuazione di un antigene (G250) espresso nell’85% dei carcinomi renali, ma non nelle cellule renali sane, ha dato nuovo impulso a queste sperimentazioni. L’individuazione degli antigeni tumore-associati è il punto di partenza per il trattamento con gli anticorpi monoclonali, il cui obiettivo è colpire selettivamente le cellule tumorali sfruttando l’interazione fra l’antigene (espresso sulle cellule malate ma non su quelle sane) e l’anticorpo specifico. Le proprietà intrinseche dell’anti-
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corpo o il legame con sostanze tossiche possono portare alla lisi cellulare; in alternativa, il legame con radioisotopi può essere sfruttato a fini diagnostici. Anticorpi monoclonali, costituiti a partire dall’antigene G250 sopra citato, sono già stati sperimentati in più di 200 soggetti con carcinoma renale, dimostrando di essere ben tollerati e in grado di modulare la storia naturale della malattia. È stato da tempo ipotizzato e più di recente dimostrato che i tumori producono sostanze in grado di provocare angiogenesi, ossia la formazione di nuovi vasi indispensabili per la crescita tumorale; negli ultimi anni sono stati individuati molti fattori dotati di azione antiangiogenetica, ma i risultati sorprendenti ottenuti negli studi preclinici sugli animali non sono ancora stati raggiunti nell’uomo, probabilmente perché ancora molto si deve comprendere nei meccanismi di angiogenesi. Nel carcinoma renale sono stati già provate, con risultati incostanti ma promettenti, numerose sostanze fra cui la talidomide, alcuni chemioterapici (5-fluorouracile, vinblastina) e l’IFN- utilizzati a dosi molto basse (dosi che non inducono distruzione diretta delle cellule tumorali, ma rallentano la formazione di nuovi vasi), e soprattutto molecole in grado di inibire i diversi fattori di crescita, primo fra tutti il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF), indispensabile per la formazione di nuovi vasi. La scoperta che sia nei carcinomi renali ereditari sia in quelli sporadici lo sviluppo del tumore è legato a una mutazione sul gene VHL, che si traduce in un netto aumento nella produzione di VEGF, ha reso il carcinoma renale il terreno ideale di prova per gli inibitori del fattore di crescita endoteliale. Fra i numerosi inibitori attualmente in studio, risultati molti incoraggianti sono stati già ottenuti nel carcinoma renale metastatico con un anticorpo monoclonale in grado di neutralizzare il VEGF (bevacizumab). Infine, come per tutti i tumori, anche per il carcinoma renale molte speranze sono oggi riposte nella terapia genica, che si sviluppa essenzialmente in due filoni di ricerca: la terapia genica correttiva e la terapia immunogenica. La prima ha l’obiettivo di sostituire il gene modificato, responsabile dello sviluppo di uno specifico tumore, con il gene “sano”; la seconda, di trasferire, nel corredo genetico delle cellule immunocompetenti, “informazioni” in grado di potenziare e rendere più specifica la loro azione contro il tumore. Nefroblastoma (tumore di Wilms) È la neoplasia maligna più frequente dell’età infantile. Spesso si associa a malformazioni (aniridia, emipertrofia globale o segmentaria, malformazioni genitourinarie) e ad alterazioni cariotipiche. È una neoplasia che spesso raggiunge notevoli dimensioni ed è composta da stipiti cellulari di aspetto sia epiteliale che mesenchimale, che formano strutture pseudoglomerulari o tubulari, immerse in uno stroma a cellule fusate. Le neoplasie con prevalente aspetto sarcomatoide hanno prognosi peggiore. A. Clinica. Nel 50% dei casi, la diagnosi viene posta prima dei 3 anni e mezzo di età. Solitamente la madre conduce il bambino all’osservazione del medico
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poiché ha notato una massa addominale palpabile al fianco o in regione ipocondriaca. A tal proposito, bisogna ricordare che la palpazione dell’addome deve essere eseguita con molta prudenza, per evitare rotture della neoplasia che, talora, è estremamente fragile. Altri disturbi che possono essere presenti sono dolori addominali, ematuria ed ipertensione arteriosa. B. Prognosi e terapia. Fino a 20 anni fa la sopravvivenza era molto bassa. L’uso combinato di chirurgia, chemioterapia e radioterapia ha notevolmente migliorato la prognosi fino al 90% a lungo termine, con grande successo anche nei confronti delle recidive. Tumori delle vie urinarie Le vie urinarie sono rivestite da epitelio transizionale e comprendono la pelvi, l’uretere, la vescica e l’uretra. Il carcinoma a cellule transizionali della vescica rappresenta il 90% di tutte le neoplasie maligne dell’apparato urinario, mentre nella pelvi, negli ureteri e nell’uretra questo tumore è molto più raro. A. Eziologia. Sempre più numerosi sono i dati relativi alla carcinogenesi indotta da alcune sostanze come naftalina, benzidina, aminodifenile, utilizzato nelle industrie chimiche, della gomma e dei coloranti. Si ritiene che il 25% dei tumori delle vie urinarie insorga dopo esposizione a queste sostanze. Ben più importante è il ruolo del fumo di sigaretta, responsabile del 50% di questi tumori: la durata dell’esposizione al fumo è l’elemento essenziale per determinare il rischio di insorgenza della neoplasia, rischio che si ritiene rimanga immutato per almeno 10 anni anche dopo la sospensione dell’abitudine. Altri fattori associati ad aumentata incidenza di questo tumore sono: la dieta ricca di grassi, l’infezione da Bilharzia (endemica in Egitto), l’uso cronico di ciclofosfamide. Cancerogeni chimici attivi sull’urotelio vengono prodotti in soggetti con anomalie del metabolismo del triptofano (acido chineureninico). B. Anatomia patologica. I tipi istologici più frequenti sono: • • • •
papilloma a cellule transizionali (benigno); carcinoma a cellule transizionali; carcinoma squamocellulare; adenocarcinoma.
Il papilloma è un tumore con asse vasculo-connettivale ramificato rivestito da 5-6 strati di cellule transizionali senza atipie e con rarissime mitosi confinate allo strato basale. La diagnosi differenziale con il carcinoma papillare a cellule transizionali di basso grado è molto difficile: comunque, poiché il papilloma insorge su un urotelio attivato, predisposto a recidive o a nuove neoplasie (malattia policronotopica dell’urotelio), è necessario seguire il paziente come nel caso di un tumore maligno. Il carcinoma a cellule transizionali è composto da cellule con nucleo ipercromico e dismetrico disposte spesso in più di 7 strati. Può presentarsi come una lesione papillare e/o infiltrante.
ONCOLOGIA MEDICA
Il carcinoma squamocellulare rappresenta il 5% delle neoplasie delle vie urinarie; tende ad infiltrare la parete e ha prognosi peggiore. È l’istotipo più frequentemente associato all’infezione da Bilharzia. L’adenocarcinoma può derivare da residui dell’uraco, e in questo caso ha sede nella cupola vescicale, o da ghiandole periuretrali e periprostatiche, ed ha sede allora verso il collo della vescica. C. Clinica. Il carcinoma a cellule transizionali è più frequente nei maschi (rapporto 2:1) di età superiore ai 50 anni. I sintomi più frequenti sono ematuria, infezioni ricorrenti, dolori colici (tumori della pelvi o degli ureteri). D. Diagnosi. L’esame citologico delle urine è l’indagine più semplice ed economica per confermare una neoplasia delle vie urinarie. Altri esami indispensabili per definire lo stadio della malattia sono l’urografia, la cistoscopia, l’ecografia, la TC e la RM; le ultime due, in particolare, permettono di dimostrare l’eventuale infiltrazione degli organi vicini e di orientare nella scelta terapeutica. E. Prognosi e terapia. La prognosi del tumore delle vie urinarie e, in particolare, di quello della vescica, è estremamente variabile in relazione all’estensione locale della lesione; ne consegue che la scelta del trattamento, in prima istanza chirurgico, varia da caso a caso: si va da semplici resezioni endoscopiche fino alla cistectomia totale. Poiché il tumore ha un’elevata tendendenza a recidivare, dopo l’exeresi chirurgica è indispensabile un attento follow up. Di fondamentale importanza per la cura di questo tumore, altamente chemiosensibile, è la chemioterapia che può essere impiegata in assetto neoadiuvante (prima dell’intervento), adiuvante (dopo l’intervento) e nella malattia metastatica. L’uso di schemi polichemioterapici (comprensivi di cisplatino) ha negli ultimi 20 anni modificato in modo sensibile la storia naturale di questo tumore, con tassi di risposte del 70% (di cui circa 20% complete) e un significativo aumento della sopravvivenza anche nella malattia metastatica.
TUMORI DELLA TIROIDE (*) A differenza delle neoformazioni benigne (adenomi) che sono estremamente frequenti, le neoplasie maligne (carcinomi) sono rare. L’incidenza dei carcinomi tiroidei clinicamente rilevabili è stata stimata pari a 25 nuovi casi/milione/anno dall’US Public Health Service, mentre la mortalità è calcolata intorno a 4-5/milione/anno e rappresenta solo lo 0,4% di tutti i decessi per cancro. Tuttavia, in base a studi di ordine anatomoistologico, l’incidenza di lesioni cancerose a livello tiroideo è assai più elevata di quanto non appaia clinicamente. In studi autoptici eseguiti in pazienti deceduti per malattie non ti(*) Con la collaborazione di A. Catania.
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Tabella 42.1 - Neoplasie maligne della tiroide. CARATTERISTICHE ISTOLOGICHE
Derivate dalle cellule follicolari
FREQUENZA RELATIVA
Differenziate Indifferenziate
• Primitive della tiroide
• Di natura metastatica
Derivate dalle cellule parafollicolari Di derivazione mesenchimale
roidee e con tiroide apparentemente normale, piccoli focolai di “carcinoma occulto” sono stati evidenziati in una percentuale variabile dal 6 al 28% dei casi. Questa discrepanza tra rilievi anatomoistologici e clinicoepidemiologici può essere spiegata dal fatto che i carcinomi differenziati della tiroide (e in particolare il “carcinoma occulto”) hanno una malignità potenziale non molto elevata. Nonostante queste ridotte morbilità e mortalità da carcinoma tiroideo, le neoplasie della tiroide rivestono grande importanza clinica, in quanto le lesioni cancerose devono essere differenziate dai molto più frequenti noduli da adenoma benigno che, come sopra detto, sono rilevabili nel 4-7% della popolazione. In base al grado di anaplasia questi tumori vengono suddivisi in forme differenziate e indifferenziate. I diversi tipi e la frequenza relativa approssimata sono riportati nella tabella 42.1. Le neoplasie maligne della tiroide hanno uno spettro biologico molto ampio che va dalle neoplasie differenziate, che sono a bassa malignità, al carcinoma anaplastico, che è la neoplasia più letale dell’uomo. Riportiamo in modo schematico le caratteristiche principali delle singole neoplasie tiroidee. A. Carcinoma papillare. È la neoplasia tiroidea più comune, rappresentando oltre la metà di tutti i carcinomi tiroidei. Colpisce prevalentemente soggetti giovani, in genere al di sotto dei 40 anni. Nell’anamnesi, frequentemente si rilevano pregresse irradiazioni del collo e del torace. È il carcinoma tiroideo dotato di minor grado di malignità. La malignità del tumore tende comunque ad aumentare nei pazienti di età più avanzata. Metastatizza con assoluta prevalenza per via linfatica, localizzandosi ai linfonodi regionali. L’accrescimento è assai lento e la neoplasia rimane localizzata alla tiroide e ai linfonodi del collo per molti anni. Macroscopicamente il carcinoma papillare si presenta come massa mal delimitata, di colorito grigio biancastro, di consistenza dura, che raramente può presentare aspetto cistico. In alcuni casi la diagnosi di carcinoma papillare è incidentale, in tiroidi asportate per altre patologie, soprattutto se il nodulo è inferiore a 1 cm (variante sclerosante occulta) o se è mascherato da nodularità diffuse della ghiandola. Dal punto di vista
Carcinoma papillare (incluse le forme miste papillari-follicolari) Carcinoma follicolare Carcinoma anaplastico Carcinoma midollare Linfoma, sarcoma, angiosarcoma
50-60% 20-30% 5-10% 5-10% < 1% < 1%
istologico, la neoplasia ha prevalente struttura papillare, ma possono essere presenti anche aree di struttura follicolare (variante detta anche “con nuclei a vetro smerigliato”). In una elevata percentuale di carcinomi papillari si ritrovano nel contesto del tumore delle formazioni rotondeggianti dette “corpi psammomatosi”, costituite da lamelle concentriche di tessuto che vanno incontro a processi di calcificazione rendendosi visibili all’esame radiologico. Clinicamente si presenta come un nodulo tiroideo duro ben distinto dal parenchima circostante; in circa il 10% dei casi la manifestazione iniziale è rappresentata da un linfonodo isolato, in regione latero-cervicale. L’esame citologico mediante agoaspirato permette di diagnosticare il carcinoma papillare con elevatissima sensibilità e specificità. B. Carcinoma follicolare. Colpisce età più avanzate ed ha maggiore malignità del carcinoma papillare; anche in questo carcinoma la malignità aumenta con l’età del paziente. Vi sono differenti tipi di carcinoma follicolare: capsulato e non capsulato. Entrambi, anche se in misura differente, hanno tendenza all’angioinvasività e danno metastasi prevalentemente per via ematogena al polmone e alle ossa. Macroscopicamente il carcinoma follicolare è di colorito bianco pallido, molle ed opaco; ha accrescimento espansivo monocentrico o a noduli satelliti confluenti. Microscopicamente la neoplasia ha aspetto microfollicolare o trabecolare, con scarsa produzione di colloide densa e omogenea. Nella forma capsulata dev’essere ricercata l’invasione neoplastica delle vene di medio e grosso calibro presenti nella capsula oltre che nel parenchima tiroideo circostante. Clinicamente si presenta come un nodulo tiroideo duro o come una massa che interessa anche un intero lobo. Talora è dolente. All’agoaspirato il quadro citologico di proliferazione follicolare non sempre permette di differenziare il carcinoma dall’adenoma benigno. Il tumore primitivo può passare inosservato e la prima manifestazione clinica può essere rappresentata da una frattura patologica o dal rilievo di metastasi polmonari. Si tratta in genere di noduli scintigraficamente freddi; tuttavia, rispetto agli altri carcinomi, i carcinomi folli-
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colari captano il radioiodio con maggiore intensità, talora con intensità analoga a quella del tessuto normale circostante (“nodulo isocaptante”). Il tumore a cellule di Hürthle è considerato una variante del carcinoma follicolare, di cui ripete le caratteristiche cliniche. C. Carcinoma midollare. Origina dalle cellule C o parafollicolari della tiroide che producono calcitonina. Come è noto, le cellule C originano dal neuroectoderma e le cellule neoplastiche da esse derivate hanno la capacità di produrre, oltre alla calcitonina, una serie di sostanze bioattive: antigene carcinoembrionario (CEA), peptide correlato al gene della calcitonina (CGRP), amiloide, somatostatina, ACTH, VIP, serotonina, prostaglandine ed altre, la cui ipersecrezione può talora rivestire importanza anche sotto il profilo clinico. Il tumore può presentarsi in forma sporadica o ereditaria. Nell’ambito delle forme ereditarie, il carcinoma midollare può manifestarsi come un’entità patologica isolata, carcinoma midollare familiare (FMTC, “familial medullary thyroid carcinoma” della letteratura anglosassone), oppure può rappresentare la manifestazione a livello tiroideo di una sindrome da neoplasie multiple endocrine di tipo MEN IIa o di tipo MEN IIb (Cap. 61). Le forme ereditarie vengono trasmesse con meccanismo autosomico dominante; esse sono dovute a mutazioni del protoncogene ret, localizzato nella regione prossimale del braccio lungo cromosoma 10, che codifica per un recettore della tirosinchinasi. Gli studi di genetica molecolare hanno permesso di identificare una serie di mutazioni puntiformi responsabili delle singole forme ereditarie di carcinoma midollare e hanno evidenziato che i familiari sani portatori delle anomalie genetiche sono ad alto rischio di sviluppare il carcinoma midollare. Anche in una quota non trascurabile di carcinomi midollari sporadici vi sono mutazioni somatiche (presenti nelle cellule neoplastiche ma non nel DNA genomico) identiche a quelle rilevate nelle forme ereditarie. Si ritiene assai probabile che tali mutazioni somatiche abbiano un ruolo eziologico nello sviluppo del carcinoma midollare. La frequenza relativa delle diverse forme di carcinoma midollare varia da una casistica all’altra. Il carcinoma midollare sporadico è comunque la forma più comune, con una prevalenza che giunge sino all’80%. Tra le forme ereditarie, la MEN IIa sembra la più frequente. Clinicamente esistono differenze tra le forme sporadiche e quelle ereditarie. Nelle forme sporadiche il carcinoma è di solito unifocale e si presenta come un nodulo isolato, talora con precoce interessamento dei linfonodi cervicali; il 5° e il 6° decennio sono le fasce di età più frequentemente colpite. Nelle forme ereditarie il carcinoma midollare è invece abitualmente multifocale e bilaterale, e si manifesta clinicamente in età più precoce. Nei pazienti con MEN II coesistono le manifestazioni cliniche causate dal feocromocitoma e/o dall’iperparatiroidismo; nella MEN IIb sono inoltre presenti le caratteristiche alterazioni somatiche causate dalla ganglioneuromatosi diffusa (Cap. 61). Il decorso del carcinoma midollare è assai variabile. Le forme sporadiche presentano talora una precoce e rapida dif-
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fusione a linfonodi e ai tessuti circostanti, in altri casi hanno una progressione molto lenta. Tra le forme ereditarie la MEN IIb è la più aggressiva, mentre la FTMC ha il decorso più indolente. Indipendentemente dalla natura sporadica o ereditaria del carcinoma, i pazienti lamentano talora: diarrea, vampate, sintomi cushingoidi in rapporto alla secrezione di sostanze biologicamente attive da parte delle cellule neoplastiche. Il carcinoma midollare può essere differenziato dagli altri carcinomi tiroidei in base ad alcuni elementi. • l’esame citologico, ottenuto con l’agoaspirato, mediante metodiche di colorazione immunoistochimiche evidenzia la presenza di calcitonina nel citoplasma delle cellule neoplastiche e nella sostanza amiloide che è interposta tra i gruppi di cellule tumorali; • elevati livelli circolanti di calcitonina e CEA. La calcitonina è, di regola, spiccatamente aumentata già in condizioni basali e aumenta in modo esagerato dopo stimolazione con pentagastrina e/o calcio. Il test provocativo viene preferibilmente eseguito combinando i due stimoli e cioè iniettando endovena calcio gluconato (2 mg/kg di calcio in un minuto) immediatamente seguito da un bolo di pentagastrina (0,5 g/kg in 5 secondi) e dosando la calcitonina in campioni di sangue prelevati subito prima e 1, 2 e 5 minuti dopo lo stimolo. Anche il CEA, meno specifico ma facilmente dosabile in qualsiasi laboratorio, è aumentato nei pazienti con carcinoma midollare e rappresenta un buon indice di attività della malattia nella fase postoperatoria. La diagnosi di carcinoma midollare impone inoltre una serie ulteriore di indagini: • l’estensione del tumore in sede extratiroidea va ricercata con indagini strumentali, come TC, RM, scintigrafia. Il carcinoma midollare non fissa il radioiodio, ma altri traccianti, in particolare il tallio 201 cloruro e l’indio 111 pentatreoside. La scintigrafia con questi traccianti serve per visualizzare la sede del tumore in fase diagnostica e soprattutto per evidenziare residui locali e metastasi dopo la tiroidectomia; • va sempre ricercata prima dell’intervento la possibile coesistenza di altre neoplasie endocrine. In particolare, il feocromocitoma e l’iperparatiroidismo, presenti nella MEN II. Va quindi sempre eseguito il dosaggio almeno delle catecolamine urinarie, della calcemia e del PTH intatto; • le indagini di genetica molecolare sul protoncogene ret del DNA genomico vanno eseguite anche quando, in base ai dati anamnestici e clinici, il carcinoma midollare sembra sporadico. In caso di positività vanno estese ai familiari. Lo screening genetico viene di solito associato al dosaggio della calcitonina basale e dopo test provocativo nei parenti di primo grado. Nei parenti con test genetico positivo per mutazioni ret non vi è accordo sulla condotta terapeutica. Secondo alcuni è consigliabile eseguire precocemente la tiroidectomia, mentre altri preferiscono controllare regolarmente i livelli di calcitonina (basale e dopo test provocativo) e decidere il tempo dell’intervento in base all’attività secretoria delle cellule C.
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D. Carcinoma indifferenziato. È una neoplasia dell’età avanzata e ha un andamento molto aggressivo, con precoci metastasi per via ematogena, quasi sempre letale in tempi brevi. Dal punto di vista istologico comprende due varietà: a grandi cellule e a cellule fusate. La prima è caratterizzata da proliferazione solida di cellule giganti e mostruose, accompagnata da ampie aree di necrosi e di emorragia. La varietà a cellule fusate presenta aspetto microscopico di tipo sarcomatoso. In quest’ultima categoria rientrano tutte le neoplasie a differenziazione vascolare, connettivale, muscolare, condroide ed ossea, che in passato sono state etichettate come sarcomi e che grazie alle tecniche immunologiche e di microscopia elettronica si sono dimostrate di origine epiteliale. Clinicamente si presenta, di regola, come un nodulo tiroideo talora già presente, asintomatico da molti anni, che va incontro a un rapido processo di accrescimento infiltrando le strutture circostanti e provocando dolore e tensione locali; vengono interessati i linfonodi regionali; non fissa il radioiodio. E. Linfoma. I linfomi della tiroide possono essere primitivi o secondari a localizzazioni linfonodali. Si tratta in genere di linfomi maligni non Hodgkin, soprattutto di derivazione B linfocitaria (linfomi dei centri germinativi, immunoblastici o plasmocitoidi). È descritta l’associazione con la tiroidite di Hashimoto, che può precedere l’insorgenza della neoplasia. F. Metastasi. La tiroide è sede, anche se infrequente, di metastasi da tumori primitivi polmonari, renali e più raramente mammari. G. Diagnosi. La diagnosi, volta essenzialmente a distinguere le lesioni maligne dagli assai più frequenti adenomi, si avvale di criteri clinici e di indagini strumentali, quali: esame scintigrafico, ecografia, biopsia mediante agoaspirato, già discusse a proposito del gozzo nodulare. Tra queste indagini, la biopsia mediante aspirazione con ago sottile ha acquistato crescente importanza diagnostica, tanto da essere considerata la tappa principale nello studio dei noduli tiroidei. Se il nodulo presenta aree di colliquazione all’ecografia o è apprezzabile con difficoltà alla palpazione è preferibile eseguire l’agoaspirato sotto guida ecografica. Rispetto alle altre indagini l’agobiopsia presenta il vantaggio di permettere la diagnosi preoperatoria del carcinoma con elevata sensibilità e specificità. Tuttavia, anche nelle mani più esperte, in una percentuale non trascurabile di pazienti, il quadro citologico resta “indeterminato” o “non diagnostico”; questa eventualità si verifica in particolare nelle neoplasie follicolari, nelle quali in base all’esame citologico talora non è possibile differenziare il carcinoma dall’adenoma. In breve, anche l’agoaspirato non ha sensibilità e specificità assolute e le informazioni fornite dall’esame citologico vanno integrate con i dati clinici e con i risultati delle indagini strumentali e biochimiche. Gli esami ormonali abitualmente impiegati per valutare la funzione tiroidea sono di regola normali e non offrono alcun aiuto nella diagnosi di carcinoma. I livel-
li di tireoglobulina (Tg) circolante sono elevati nei pazienti con carcinomi differenziali della tiroide (non nei carcinomi anaplastici). L’aumento di Tg circolante riveste tuttavia scarsa importanza nella diagnosi preoperatoria dei carcinomi, in quanto elevate concentrazioni di tireoglobulina possono riscontrarsi in altre tireopatie benigne come gli adenomi, il gozzo semplice, il morbo di Basedow. Il dosaggio della Tg circolante risulta invece di grande utilità nel controllo a lungo termine dei pazienti affetti da neoplasie tiroidee operati di tiroidectomia totale in quanto il rilievo, nei pazienti così trattati, di elevati valori di Tg è indicativo della presenza di residui locali e/o di metastasi. Tra gli altri marker tumorali, l’antigene carcinoembrionario (CEA) è presente in circolo in elevata concentrazione in una rilevante quota di pazienti con carcinoma midollare, mentre è normale nei pazienti con carcinomi tiroidei differenziati. H. Terapia (*). Il trattamento dei carcinomi tiroidei si basa su una serie di misure terapeutiche tra loro complementari: tiroidectomia, terapia radiante, terapia soppressiva con ormoni tiroidei. L’intervento chirurgico rappresenta l’approccio terapeutico iniziale in tutti i tipi di carcinomi. La tiroidectomia totale è generalmente considerata l’intervento chirurgico elettivo, anche se alcuni ritengono che la tiroidectomia subtotale sia sufficiente in presenza di carcinomi papillari. Per quanto riguarda la terapia postchirurgica delle singole forme di carcinoma tiroideo vengono qui presentate alcune indicazioni generali. 1. Carcinoma papillare e carcinoma follicolare. Nei pazienti tiroidectomizzati, per evidenziare l’eventuale presenza di residui di tessuto tiroideo o di metastasi, viene eseguita, alcune settimane dopo l’intervento, una scintigrafia corporea totale con radioiodio. Se sono presenti residui tiroidei o metastasi iodocaptanti si somministra 131I in dosi terapeutiche e si inizia successivamente la terapia ormonale con L-tiroxina. Se non sono presenti residui tiroidei o metastasi iodocaptanti la terapia ormonale viene iniziata immediatamente. La somministrazione di ormoni tiroidei non ha solo lo scopo di mantenere il paziente in condizioni di eutiroidismo, ma ha anche quello di sopprimere la secrezione di TSH. Poiché le metastasi di carcinomi follicolari e papillari mantengono la responsività allo stimolo tireotropinico, l’elevata concentrazione in circolo di TSH, causata dalla tiroidectomia, rappresenta un pericoloso stimolo all’accrescimento di eventuali piccoli focolai metastastici. L’efficacia della terapia soppressiva a lungo termine con ormoni tiroidei è dimostrata dalla maggior sopravvivenza dei pazienti trattati rispetto ai non trattati. Viene preferibilmente usata la L-tiroxina in dosi tali da sopprimere i livelli basali di TSH e la risposta del TSH al TRH. 2. Carcinoma midollare. La tiroidectomia rappresenta il solo intervento terapeutico realmente efficace e (*) Con la collaborazione di E. Bucci e G. Di Lucca.
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deve essere quindi totale con exeresi dei linfonodi locoregionali. La terapia con 131I non è applicabile in quanto le cellule parafollicolari non captano il radioiodio. La L-tiroxina viene somministrata a dosi sostitutive per correggere l’ipotiroidismo, mentre le dosi elevate usate per sopprimere il TSH non sono indicate, in quanto le cellule C non sono sensibili allo stimolo tireotropinico. Gli altri mezzi terapeutici sono di incostante e incerta efficacia. La radioterapia esterna viene impiegata in presenza di residui locali non asportabili chirurgicamente, mentre la polichemioterapia con varie combinazioni di antiblastici (ciclofosfamide + vincristina + dacarbazina; bleomicina + adriamicina + platino; dacarbazina + 5-fluorouracile) viene usata nelle forme metastatizzate. L’impiego di octreotide sembra utile sotto il profilo sintomatico nelle forme in cui è associata diarrea, mentre la capacità di incidere sul decorso della malattia sembra irrilevante nella maggior parte degli studi. 3. Carcinoma anaplastico: gravato da una prognosi rapidamente infausta, nella maggioranza dei casi, non è suscettibile di approccio chirurgico. La sensibilità alla radioterapia e alla chemioterapia è modesta; trattamenti combinati (per es., adriamicina 10 mg/m2 alla settimana + radioterapia iperfrazionata 57,6 Gy in 6 settimane) sembrano poter ottenere un buon controllo locale. Poche e transitorie le risposte alla chemioterapia nella malattia metastatica.
TUMORI DEL TESTICOLO (*) I tumori del testicolo vengono divisi in due gruppi: tumori germinali (97,5%), che originano dall’epitelio germinale dei tubuli seminiferi, e tumori non germinali (2,5%), che originano dalle cellule di Leydig, di Sertoli o da altre cellule stromali non specificate (Tab. 42.2). Essi rappresentano solo il 2% delle neoplasie osservabili nell’uomo, ma sono anche i tumori maligni più frequenti in giovani uomini fra i 25 e i 29 anni di età. I tumori del testicolo, nella quasi totalità dei casi, sono forme maligne e colpiscono prevalentemente soggetti in giovane età: il 3° e il 4° decennio sono le fasce di età più colpite. L’incidenza varia anche in rapporto a fattori etnici e razziali; per esempio negli USA la frequenza di neoplasie testicolari nei bianchi è 5 volte superiore a quella rilevabile nella popolazione di razza nera. Fattore importante, anche nelle neoplasie testicolari, è una corretta stadiazione della neoplasia sia dal punto di vista clinico che anatomopatologico. Uno schema classificativo comunemente usato è il TNM che prevede la seguente suddivisione in stadi: • T1 Neoplasia limitata al testicolo. • T2 Neoplasia che ha superato la tunica albuginea. • T3 Neoplasia che ha infiltrato la rete testis e/o l’epididimo. • T4 Neoplasia che si è estesa al dotto deferente e/o allo scroto. (*) Con la collaborazione di L. Cremagnani.
Tabella 42.2 - Classificazione dei tumori del testicolo secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. FREQUENZA RELATIVA % • Tumori a cellule germinali – Seminoma (classico e spermatocitico) – Carcinoma embrionario – Tumore del sacco vitellino – Poliembrioma – Corioncarcinoma – Teratoma maturo – Teratoma immaturo – Teratoma cancerizzato (teratocarcinoma)
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} }
• Tumori dello stroma gonadico – Tumori a cellule di Leydig (Leydigoma) – Tumore a cellule di Sertoli (androblastoma) • Tumori a cellule germinali e dello stroma gonadico – Gonadoblastoma – Altri tumori
30 <1 10
<1 <1
}
<1
• Tumori misti
Tumori germinali Le cellule germinali possono dare origine a tumori morfologicamente diversi, che corrispondono ai vari stadi maturativi dello sviluppo embrionale. A. Seminoma. Si divide in seminoma classico e in seminoma spermatocitico; esso si osserva anche in sedi extragonadiche, come retroperitoneo, mediastino ed epifisi. Il corrispondente tumore nell’ovaio è denominato disgerminoma. Il seminoma si presenta macroscopicamente come una massa biancastra di aspetto midollare e di consistenza molle; presenta crescita più di tipo espansivo che infiltrativo. Microscopicamente è costituito da una proliferazione compatta di grosse cellule rotonde o poligonali con voluminoso nucleo con nucleolo centrale; il citoplasma è chiaro o otticamente vuoto. Nello scarso tessuto stromale si osservano aggregati di elementi linfoplasmocellulari. Il seminoma spermatocitico si differenzia per la presenza di cellule più mature, simili agli spermatidi e talora per la presenza di cellule plurinucleate simplastiche. Si osserva in soggetti più anziani, oltre i 60 anni. B. Carcinoma embrionario. È più frequente fra i 20 e i 30 anni. Macroscopicamente è costituito al taglio da tessuto biancogrigiastro, variegato, per la presenza di numerose aree di necrosi e/o emorragia. Microscopicamente è costituito da aggregati cellulari epiteliomorfi, tendenti talora a formare strutture ghiandolari e papillari. La forma infantile viene detta tumore del sacco vitellino o del seno endodermico. Microscopicamente riproduce le strutture del mesoderma e dell’endoderma extraembrionario del sacco vitellino, costituendo strutture cordonali, papillari ed abbozzi vascolari.
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C. Corioncarcinoma. È analogo al tumore che origina dal tessuto placentare ed è costituito da cellule del cito e del sincizio-trofoblasto. D. Teratoma. La forma matura, nell’infanzia, si comporta da tumore benigno; nell’adulto può tuttavia metastatizzare. La superficie di taglio può avere un aspetto variegato per la presenza di vari tipi di tessuto; frequentemente si osservano aree cistiche. Microscopicamente è costituito da diversi tessuti a derivazione dall’ectoderma, dall’endoderma o dal mesoderma, in forma matura, immatura o, nel caso che uno o più di questi tessuti vada incontro a una trasformazione, maligna. Tumori dello stroma gonadico A. Tumore a cellule di Leydig. Produce androgeni, dà pseudopubertà precoce e notevole innalzamento dei livelli dei 17-chetosteroidi nelle urine. Più frequentemente è un adenoma, costituito da grandi cellule poligonali disposte in grossi nidi; raramente si osservano cristalloidi citoplasmatici. B. Tumore a cellule di Sertoli. Produce estrogeni e raramente può dare pseudoermafroditismo maschile. È costituito da strutture tubulari o da nidi e cordoni solidi rivestiti da epitelio cubico o cilindrico. C. Tumori misti. Circa il 40% dei tumori testicolari è composto da più di un istotipo. È importante identificare istologicamente tutte le componenti di una neoplasia testicolare, in quanto la presenza anche di un piccolo focus di una componente più aggressiva può peggiorare la prognosi e modificare la terapia. Le metastasi possono essere composte da una o più delle varie componenti neoplastiche. Benché l’eziologia dei tumori testicolari non sia nota, esistono numerose osservazioni che dimostrano una predisposizione alla degenerazione neoplastica da parte dei testicoli ritenuti. Il rischio di sviluppare una neoplasia è 20-40 volte superiore in un testicolo ritenuto rispetto ad un testicolo normalmente disceso nello scroto. Si ritiene, comunemente, che la maggior temperatura ambiente in cui si trova il testicolo ritenuto e i processi degenerativi a cui va incontro la componente seminale favoriscano la trasformazione in senso neoplastico. La correzione chirurgica del criptorchidismo in epoca prepuberale riduce infatti il rischio di neoplasia. Si è tuttavia rilevato che nel criptorchidismo unilaterale la tendenza a degenerare è presente anche nel testicolo controlaterale. Circa il 20% dei tumori testicolari si sviluppa infatti nel testicolo presente nello scroto, suggerendo l’esistenza di una disgenesia testicolare che può avere importanza eziologica sia nello sviluppo della neoplasia delle cellule germinali sia nella mancata o incompleta discesa del testicolo nel sacco scrotale. Le neoplasie testicolari hanno spesso attività endocrina: nei tumori germinali le cellule trofoblastiche presenti nel tessuto tumorale secernono gonadotropina corionica (HCG). Più raramente, i tumori testicolari pos-
sono produrre elevate quantità di testosterone e/o di estrogeni con un duplice meccanismo: per secrezione autonoma delle cellule tumorali (neoplasie interstiziali) o per stimolazione del tessuto non interessato dalla neoplasia da parte di HCG prodotto dal tessuto tumorale. D. Clinica. Il tumore viene avvertito dal paziente come una tumefazione del testicolo che provoca sensazione di ripienezza e di peso nello scroto. Solo una percentuale limitata di pazienti riferisce anche tensione e dolore. Spesso il paziente attribuisce ad un trauma precedente la responsabilità dei suoi disturbi. Non sembra peraltro che si possa attribuire alcun ruolo eziologico ad eventi traumatici; è probabile che il trauma richiami solo l’attenzione del paziente sulla tumefazione testicolare passata sino ad allora inosservata. In alcuni pazienti compare ginecomastia, che è generalmente associata a produzione, da parte degli elementi trofoblastici del tumore, di HCG che stimola le cellule di Leydig a secernere quantità eccessive di estrogeni. In altri (5-10%) le prime manifestazioni cliniche sono rappresentate da un’adenopatia inguinale metastatica o da metastasi a distanza, allo scheletro o ai polmoni. I tumori derivati dalle cellule interstiziali, se insorgono nell’adolescenza, possono provocare pseudopubertà precoce; se compaiono in età adulta possono manifestarsi con diminuzione della libido, femminizzazione e ginecomastia. E. Diagnosi. La presenza di una tumefazione testicolare dev’essere sempre considerata con forte sospetto di natura neoplastica. In assenza di elementi clinici chiaramente indicativi di forme infiammatorie (epididimiti, orchiepididimiti) è necessario eseguire esami biochimici e strumentali. 1. Biomarcatori umorali. Elevati livelli di HCG e della subunità β (HCGβ) sono costantemente presenti nei pazienti con coriocarcinoma, in circa la metà dei pazienti con carcinoma embrionario o con teratocarcinoma ed in una percentuale minore di pazienti con seminoma. Anche l’-fetoproteina è presente in un’elevata percentuale di pazienti con tumori a cellule embrionali. HCG e fetoproteine rappresentano ottimi “marker” del tumore, non solo per svelarne l’esistenza in ogni paziente che presenti una massa testicolare, ma anche per monitorare i risultati della terapia. 2. Esami strumentali. L’ecografia e l’eventuale agobiopsia con esame citologico possono identificare la presenza di una neoplasia. In presenza di dubbi diagnostici anche minimi, la natura della tumefazione testicolare deve essere sempre indagata mediante inguinotomia esplorativa ed accertamenti intraoperatori. F. Prognosi e terapia (*). La prognosi dei tumori maligni testicolari ha subito un drastico cambiamento quando, negli anni Sessanta, ne è stata riconosciuta l’elevata sensibilità alla chemioterapia. Decisiva è stata (*) E. Bucci, G. Di Lucca.
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l’introduzione del cis-platino, farmaco grazie al quale la maggior parte delle neoplasie testicolari è oggi guaribile. Rimangono diversi il comportamento clinico, la prognosi e quindi il trattamento dei seminomi rispetto agli altri istotipi (globalmente etichettati come non seminomi). La maggior parte degli studi condotti in questi ultimi anni ha poi avuto come obiettivo l’individuazione di fattori prognostici in base ai quali differenziare il trattamento, per poterne ridurre gli effetti collaterali senza comprometterne l’efficacia. 1. Seminomi. Negli stadi iniziali la chirurgia seguita da radioterapia sulle stazioni linfonodali pelviche e lombo-aortiche assicura percentuali di guarigione superiori al 90%. Le rare ricadute possono essere guarite con chemioterapia. Le forme avanzate rispondono molto bene alla chemioterapia: il regime di riferimento è quello messo a punto dal gruppo britannico del Royal Marsden ed è basato sull’associazione di cis-platino, etoposide e bleomicina (PEB). Si stanno accumulando evidenze che si possa rinunciare alla bleomicina (EP) o addirittura usare un analogo del cis-platino, il carbo-platino, come agente singolo, ottenendo gli stessi risultati ad un costo molto inferiore in termini di tossicità. Globalmente, i tassi di guarigione sono intorno all’80-85%. 2. Non-seminomi. Si tratta di un gruppo molto eterogeneo, nel complesso dotato di una maggiore aggressività biologica e quindi di una prognosi peggiore. Tuttavia, è possibile identificare dei gruppi a rischio standard, che hanno alte probabilità di guarigione con programmi convenzionali, rispetto a gruppi ad alto rischio, in cui i risultati sono più aleatori. Le variabili prognostiche più utilizzate sono il numero di sedi metastatiche, il livello
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di marcatori sierici specifici (-fetoproteina, -HCG) e di un enzima che esprime l’estensione di malattia (LDH). Nei pazienti con forme limitate il trattamento di scelta è la chirurgia, che può comprendere la resezione profilattica o terapeutica delle stazioni linfonodali retroperitoneali. L’applicazione routinaria di questa procedura è discussa, in quanto comporta il rischio di trattare in eccesso alcuni pazienti e soprattutto può comportare la perdita dell’eiaculazione, anche se i progressi della tecnica chirurgica hanno reso questo danno iatrogeno meno frequente. In corso di valutazione la chemioterapia adiuvante. Nelle forme avanzate, i pazienti a rischio standard hanno percentuali di guarigione con chemioterapia simili a quelle dei pazienti con seminoma (ancora una volta, è la PEB lo schema di riferimento). Per i pazienti ad alto rischio sono frequentemente necessarie strategie più complesse, che prevedono, di volta in volta, l’integrazione con la chirurgia (estirpazione della malattia residua dopo chemioterapia), l’uso di schemi comprendenti farmaci non-cross-reagenti (ifosfamide, alcaloidi della vinca, actinomicina D) ed il ricorso a chemioterapia ad alte dosi con trapianto di midollo osseo autologo. La sopravvivenza a lungo termine è nell’ordine del 50-60%. Neoplasie germinali extragonadiche Un breve accenno, in chiusura, alle neoplasie germinali extragonadiche (che insorgono da residui della cresta genitale localizzati prevalentemente nel retroperitoneo, nel mediastino o nella ghiandola pineale). Le rarissime forme seminomatose hanno prognosi del tutto identica a quella dei seminomi testicolari, mentre i nonseminomi hanno una prognosi complessivamente peggiore rispetto agli analoghi testicolari.
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ONCOLOGIA MEDICA
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(829) Parte ottava (3AB) 25-07-2005 11:27 Pagina 829
PARTE OTTAVA
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI a cura di F. CALIGARIS CAPPIO, L. CAMBA
Documento1 28-07-2005 11:56 Pagina 1
C A P I T O L O
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43
INTRODUZIONE ALL’EMATOLOGIA L. CAMBA
In questo capitolo prenderemo in considerazione tre argomenti generali dell’ematologia che sono: • l’emopoiesi e la regolazione della sintesi dell’emoglobina; • l’esame del sangue e del midollo osseo includendo alcune tecniche fondamentali per la diagnostica ematologica quali la citofluorimetria, la citochimica, la citogenetica e l’uso dei radioisotopi; • l’approccio generale al paziente ematologico.
EMOPOIESI La formazione delle cellule ematiche, emopoiesi, o ematopoiesi, avviene, nell’adulto, esclusivamente nel midollo osseo (MO). L’emopoiesi include la formazione di globuli rossi o eritropoiesi, di granulociti e monociti o mielopoiesi e di piastrine o trombopoiesi. Il midollo osseo è anche sede della produzione di linfociti B. Durante la vita intrauterina, nelle prime settimane di gestazione, il sacco vitellino è il sito principale dell’emopoiesi. Dalla sesta settimana al settimo mese di vita intrauterina la funzione emopoietica viene assunta dal fegato e dalla milza. Dal settimo mese di vita fetale il midollo osseo diventa il tessuto emopoietico principale e conserva questa funzione nell’età adulta. Solo in alcune condizioni patologiche altri organi, in particolare il fegato, la milza e i linfonodi, possono diventare sede di emopoiesi extramidollare, come, per esempio, nelle emoglobinopatie, eccezionalmente in altre anemie croniche e carenziali, nei disordini mieloproliferativi, in particolare la mielofibrosi. Subito dopo la nascita e nella prima infanzia più del 90% del midollo è occupato da tessuto emopoietico e il restante 10% da tessuto adiposo. Nell’età adulta la proporzione di tessuto emopoietico si riduce mediamente al 50% di tessuto emopoietico/adiposo e in tarda età circa solo il 30% è rappresentato da tessuto emopoietico. Inoltre si ha una riduzione centripeta dei siti di produzione di tessuto emopoietico, che nell’adulto si riducono al bacino, alle vertebre, alle coste e al cranio. In
numerose condizioni patologiche, generalmente quelle stesse che possono dar luogo a emopoiesi extramidollare, e in condizioni di emopoiesi da stress, le cellule adipose vengono sostituite da tessuto emopoietico.
Cellule staminali e precursori emopoietici Colture in vitro di midollo osseo e di sangue periferico (SP) possono, in particolari condizioni, generare colonie di precursori emopoietici (PEP) delle tre linee principali e le rispettive cellule ematiche mature. Poiché è possibile dimostrare la clonalità delle cellule di ciascuna colonia, si deduce che ciascuna colonia derivi da una singola cellula. Quindi si evince che: 1) esistono cellule capaci di generare precursori emopoietici appartenenti a più linee ematiche; 2) che tali cellule, oltre ad essere localizzate nel midollo osseo, circolano nel sangue periferico in condizioni fisiologiche, anche se in numero così esiguo da non poter essere facilmente misurabili. La controparte in vivo di questi esperimenti di laboratorio è rappresentata dalla capacità che ha il midollo osseo, infuso in animali HLA-identici trattati con dosi letali di radiazioni, di rigenerare tutte le linee emopoietiche e le cellule del sistema immunocompetente. In esperimenti più recenti condotti su cellule midollari marcate con vettori retrovirali, l’integrazione del DNA virale è stata dimostrata in tutte le linee emopoietiche in vivo dopo il ripopolamento midollare, anche mesi dopo il trapianto. Ciò è un’ulteriore dimostrazione dell’esistenza di cellule capaci di dare origine a tutte le cellule del midollo e del sangue periferico. Le cellule dotate di questa potenzialità sono le cellule staminali emopoietiche (CSE). Su questi principi si basa la metodologia del trapianto di midollo osseo e di cellule staminali da sangue periferico (CSSP). Nella gerarchia della cellula staminale emopoietica, la cellula progenitrice più indifferenziata capace di ge-
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832
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
CSE totipotente
CSE multipotente 1
CFU-GEMM
CFU-L CSE orientate (committed)
2
Timo BFU-E 3
CFU-Mk
CFU-GM
4
CFU-E
5
CFU-M
9
CFU-Eo 6
CFU-Baso
7
Pre-B
8
Pre-T 10
11
CFU-G
5
6
16 Proeritroblasto
12
Mk-blasto
13
Monoblasto
Mieloblasto
14
15
Midollo osseo
17
18
Plasmacellula
Eritrociti
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13
Piastrine
Monociti
Granulociti
SCF, IL-11, IL-12, IL-6, G-CSF, IL-1, GM-CSF, IL-3, IL-9 IL-1, IL-6, IL-9, IL-11, SCF, IL-4, IL-3, GM-CSF, G-CSF IL-3, GM-CSF, EPO, SCF, IL-9 IL-3, GM-CSF, IL-6, IL-11, SCF, EPO, TPO IL-3, GM-CSF, M-CSF IL-3, GM-CSF, G-CSF IL-3, GM-CSF, IL-5 SCF, IL-3, IL-4 IL-3, GM-CSF, EPO IL-1-IL-6, IL-11 IL-1-IL-7, IL-12 EPO (eritropoietina) TPO (trombopoietina)
Linfociti B
T4
T8
14 GM-CSF, M-CSF 15 IL-3, GM-CSF, G-CSF 16 IL-2-IL-6 17 IL-1, IL-2, IL-4, IL-6 18 IL-5, IL-6 Baso = basofilo. Eo = eosinofilo. BFU = Burst Forming Unit CFU = Colony Forming Unit CSF = Colony Stimulating Factor GEMM = granulo-eritro-mono-megacariociti G, GM, M = granulo, granulo-mono, mono Mk = megacariociti SCF = Stem Cell Factor
Figura 43.1 - Gerarchia della cellula staminale emopoietica (CSE).
Sangue periferico
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43 - INTRODUZIONE ALL’EMATOLOGIA
nerare colonie non-linfoidi e linfoidi è la cellula staminale totipotente (CSE-To) non orientata (“non committed”). Da questa derivano cellule staminali emopoietiche pluripotenti ormai orientate in senso emopoietico o linfopoietico. Il processo di orientamento (“commitment”, spesso detto commissionamento), una volta innescato, conduce, con successive divisioni mitotiche, verso linee cellulari sempre più specializzate (Fig. 43.1). Esistono, dunque, vari gradi di differenziazione e specializzazione della cellula staminale emopoietica prima di giungere ai precursori emopoietici midollari identificabili citologicamente al microscopio ottico. Le caratteristiche principali della CSE-To è quella della autoreplicazione e dell’automantenimento, che permette di alimentare un serbatoio, compartimento, pressoché inesauribile di cellule staminali (Fig. 43.2). La maggior parte di queste cellule sono in G0 ed entrano in ciclo quando ricevono lo stimolo a differenziarsi. Poiché non è possibile identificare citologicamente in vivo e in vitro la cellula staminale emopoietica, per definirla ci si riferisce alla sua capacità di produrre colonie cellulari in vitro e, più recentemente, alle sue proprietà immunofenotipiche analizzate al citofluorimetro. Alle CSE-To corrispondono, in vitro, le CFU (Colony Forming Unit), ovvero cellule capaci di generare una singola colonia. Con opportuni accorgimenti sperimentali è possibile realizzare la crescita di colture miste CFU-GEMM (granulociti, eritrociti, monociti e megacariociti) e CFU-L (linfoidi). Come illustrato in figura 43.1, dalle CFU-GEMM e CFU-L derivano altre CFU sempre più differenziate e orientate verso i precursori emopoietici delle singole linee emopoietiche fino a quelli citologicamente identificabili alla microscopia ottica. Gli elementi più immaturi individuabili al microscopio, il mieloblasto, il proeritroblasto, il megacarioblasto, il monoblasto hanno perso ormai la capacità di autoreplicazione, ma hanno mantenuto quella proliferativa e maturativa. Morfologicamente le cellule staminali emopoietiche sono indistinguibili tra loro e appaiono simili a un linfocito. Questo si deduce dal fatto che il prodotto di espianti midollari, o di raccolte aferetiche di cellule staminali da sangue periferico, contengono solo cellule linfocito-simili, di cui numerose hanno le caratteristiche immunofenotipiche delle cellule staminali emopoietiche, ovvero esprimono l’antigene CD34. La scoperta dell’antigene CD34 della Cluster of Differentiation (CD) ha permesso l’identificazione e la separazione della cellula staminale emopoietica in citofluorimetria. Una cellula CD34 positiva, ma negativa per tutti i marcatori non-linfoidi e linfoidi, è con tutta probabilità la CSE-To primitiva capace di sostenere colture a lungo termine in vitro in metilcellulosa e con l’aggiunta di cellule dello stroma (LTC-IC, Long Term Culture-Initiating Cell). Sono stati ipotizzati diversi modelli di differenziazione e orientamento. Un primo modello prevede che la CSE-To sia priva di recettori linea-specifici e la comparsa di questi ne determini la differenziazione. Un secondo modello ipotizza la presenza sulla superficie della cellula di un gran numero di recettori, ma espressi in minima misura: l’esclusione di certi recettori e l’incremento di altri impegna la cellula verso l’una o l’altra linea emo-
CSE totipotente
CSE orientata
Precursori midollari
Automantenimento
Cellule mature periferiche
Maturazione Differenziazione
Figura 43.2 - Da una singola cellula staminale emopoietica (CSE) totipotente possono derivare >106 cellule mature. Differenziazione e maturazione comportano perdita della capacità di automantenimento della CSE.
poietica. La terza ipotesi, più accreditata, è che solo un numero limitato di recettori viene espresso dalla cellula staminale e l’acquisizione e la perdita di recettori per i diversi fattori di crescita ne determina l’orientamento e la perdita delle potenzialità staminali. Cellule CD34+ rappresentano l’1-4% delle cellule del midollo osseo e meno dello 0,1% delle cellule del sangue periferico, di cui solo una frazione è totipotente. Cellule CD34+, ma che esprimono antigeni mieloidi (CD33, CD13, CD14), eritroide (glicoforine), megacariociti (CD41, CD42, CD61) e linfoidi (TdT, CD2, CD5, CD7, CD19), o antigeni di attivazione (CD38, CD45, DR) sono cellule ormai orientate verso le linee cellulari corrispondenti. È verosimile che prima di arrivare alla produzione di elementi cellulari preterminali e terminali (gli elementi immaturi del midollo osseo e le cellule mature del sangue periferico), ogni volta che la cellula staminale emopoietica si divide va incontro a una progressiva e inesorabile riduzione delle sue potenzialità staminali di autoreplicazione/mantenimento e acquista sempre più caratteristiche biologiche di cellula orientata e linea-specifica. Queste fasi intermedie, un tempo frutto di speculazione in quanto non identificabili in alcun modo, cominciano ad affiorare in tutta la loro complessità nei test clonogenici in colture di cellule CD34+ purificate.
Regolazione dell’emopoiesi La complessa organizzazione piramidale illustrata in figura 43.1 è un processo di alta precisione regolato da diversi fattori legati sia al microambiente midollare che alla fisiologia della cellula staminale emopoietica: • lo stroma; • l’espressione di molecole di adesione; • le citochine, i fattori di crescita e i rispettivi recettori cellulari; • meccanismi molecolari intracellulari. Naturalmente tutti questi fattori agiscono all’unisono, si influenzano vicendevolmente e rispondono agli stimoli fisiologici e patologici derivanti dall’interno e dall’esterno del microambiente midollare. Che il microambiente abbia
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
un ruolo primario per la vita del tessuto emopoietico è dimostrato dalla capacità di “ritorno alla base” o “a casa” (“homing”), caratteristica delle cellule staminali emopoietiche, quando vengono infuse attraverso il sangue periferico nella procedura del trapianto. Questa affinità per l’ambiente midollare permette alle cellule del midollo osseo e alle cellule staminali di sangue periferico di ripopolare gli spazi midollari svuotati per effetto delle alte dosi di radio-chemioterapia somministrate pretrapianto. A. Stroma. Lo stroma è l’impalcatura su cui cresce e prolifera il tessuto emopoietico ed è rappresentato da numerosi elementi cellulari, quali fibroblasti, cellule endoteliali, macrofagi, cellule adipose, osteoblasti e osteoclasti. È verosimile che ciascuna delle cellule stromali abbia una funzione specifica nel prendere contatto con la cellula staminale emopoietica ed invii a questa segnali diversi. Gli spazi intercellulari sono ricchi di sostanze prodotte dalle cellule stesse: la matrice extracellulare, costituita dal collageno e da proteine di adesione capaci di legare tenacemente le cellule emopoietiche durante le diverse fasi maturative, soprattutto durante gli stadi più immaturi prima di riversarsi nel sangue. B. Molecole di adesione. L’interazione tra stroma e cellule staminali emopoietiche avviene grazie alla presenza sulla membrana cellulare di molecole di adesione cellulare (CAM, Cell Adhesion Molecules), molecole ubiquitarie il cui sito specifico di adesione è dato dalla sequenza di tre aminoacidi, RGD (arginina, glicina, asparagina) e i cui recettori, o ligandi, si trovano su altre cellule o su strutture molecolari contenute nella matrice extracellulare, come collageno, fibronectina, fattore von Willebrand, acido ialuronico. Il legame CAM-ligando innesca una serie di segnali intracellulari importanti per la replicazione e la differenziazione della cellula staminale emopoietica. Inoltre, variazioni dell’espressione delle CAM sulla cellula stromale e sulla cellula staminale emopoietica possono favorire o inibire l’adesività di queste ultime e condizionarne il comportamento, come per esempio la capacità di migrare o, nel caso di cellule neoplastiche, di metastatizzare. È verosimile che l’antigene CD34, che ha le caratteristiche di una CAM, abbia un ruolo importante nelle fasi di ancoraggio della cellula staminale emopoietica alle strutture dello stroma: i precursori più maturi
(CD34–) perdono infatti l’adesività e, una volta liberi dal legame con lo stroma, completano la loro maturazione nel midollo osseo e migrano nel sangue periferico. La tabella 43.1 elenca alcune molecole di adesione cellulare. C. Citochine e fattori di crescita. Un’altra importante funzione delle cellule stromali è la produzione di citochine. Queste rappresentano un gruppo di glicoproteine capaci di stimolare l’emopoiesi e comprendono i fattori di crescita (HGF, Haemopoietic Growth Factor o CSF, Colony Stimulating Factors), le interleuchine (IL), l’eritropoietina (EPO) e la trombopoietina (TPO). Altre sostanze fungono da inibitori dell’emopoiesi: gli interferoni, il TNF (Tumour Necrosis Factor), il TGF- (Transforming Growth Factor-), la MIP-1a (Macrophage Inflammatory Protein-1a). Le tabelle 43.2 e 43.3 riportano le caratteristiche salienti dei principali attivatori e inibitori dell’emopoiesi. Soprattutto per quanto concerne le interleuchine, la tabella è tutt’altro che completa, in quanto nuove IL si aggiungono continuamente alla lista. Ciò dà una visione della complessità del coordinamento dei vari elementi e delle diverse fasi dell’emopoiesi a livello del microambiente. Un fattore può stimolare più di un tipo di cellule staminali emopoietiche e precursori emopoietici e più fattori possono agire in sinergia o in sequenza su un solo progenitore in una o più fasi della sua evoluzione. Per esempio, la produzione dei neutrofili è stimolata da almeno tre CSF: G-CSF, GM-CSF e IL-3 (o multi-CSF), ma ciascuno di questi agisce anche su altre linee cellulari. D. Meccanismi intracellulari: formazione e trasmissione del segnale. L’effetto di questa intricata rete di fattori è di generare segnali chimici che, attraversando la membrana cellulare e il citoplasma, giungano al nucleo, dove geni specifici vengono attivati e generano segnali in senso opposto che modificano il comportamento della cellula e ne condizionano la proliferazione, la differenziazione, l’apoptosi o morte programmata. Il meccanismo di segnalazione cellulare o trasduzione del segnale (“signal transduction”) inizia con il legame tra il primo messaggero, un fattore di crescita, un ormone o qualunque altro ligando, con il suo recettore sulla membrana. Il contatto innesca l’attivazione di una chinasi intracellulare direttamente o attraverso il sistema delle G-proteine di
Tabella 43.1 - Alcune molecole di adesione cellulare e rispettivi ligandi. CLASSE Ig superfamily Selettine
Integrine Syndecans
RECETTORE CD2 CD51/61 CD62E CD62L CD62P CD49a-f Complesso CD18/CD11 CD41/61 (gp IIb/IIIa) CD44
DISTRIBUZIONE Cellule T e NK Plt, Mk, Mo, Ma, CE CE Leucociti Plt, Mk, CE Linfociti Leucociti Plt, Mk Ubiquitario
LIGANDO CD58, CD59 (DAF) Vtrn, fbrn, F, vWF, trspn Ac. sialico, CD162 Ac. sialico, CD162, eparan solfato Ac. sialico, CD162, eparan solfato F, collageno, fbrn CD54, F vWF, F Acido ialuronico
CE = cellula endoteliale; Ma = macrofago; Mk = megacariocito; Mo = monocito; DAF = Decay Accelarating Factor; fbrn = fibronectina; F = fibrinogeno; Plt = piastrine; trspn = trombospondina; vWF = fattore von Willebrand; vtrn = vitronectina.
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43 - INTRODUZIONE ALL’EMATOLOGIA
Tabella 43.2 - Interleuchine. CROMOSOMA IL-1 IL-2 IL-3 IL-4 IL-5 IL-6 IL-7 IL-8 IL-9 IL-10 IL-11 IL-12 IL-13
2q 4q 5q 5q 5q 7p 8q 4q 5q 1 1q 5q 5q
ORIGINE Mo, Ma, B, T, CD, FB, E T T T, MC T T, Ma, FB CS Mo, Ma, T, FB T helper B, T, Mo, Ma CS B, Ma T attivati
EFFETTI SULL’EMOPOIESI Potenzia: FB, G-CSF, GM-CSF, M-CSF, SCF, IL-3, IL-6 B attivati, T CSE e PEP di tutte le linee emopoietiche B, T helper, MC, MHC classe II, potenzia IL-11 B, Eo G, Ma, Mk; potenzia SCF, IL-1, IL-3, B, PC pre-B e T; Mo Fattore chemiotattico per Ne, Mo e linfociti. EP; T helper T attivati, MC. Inibisce la produzione di Cch da parte di T e Mo. CSE, EP, Mk, Ig. Inibisce l’adipogenesi. T, NK B, Ig. Inibisce la produzione di Cch dai Mo.
B = linfociti B; Cch = citochine; CD = cellule dendritiche; CS = cellule stromali; CSE = cellula staminale emopoietica; E = endotelio; EP = eritropoiesi; FB = fibroblasti; G = granulociti; Ig = immunoglobuline; Ma = macrofagi; MC = mastociti; Mk = megacariociti; Mo = monociti; Ne = neutrofili; NK = cellule NK; PC = plasmacellule; PEP = precursori emopoietici; SCF = Stem Cell Factor; T = linfociti T.
Tabella 43.3 - Fattori di crescita e di inibizione dell’emopoiesi. FATTORI DI CRESCITA EPO G-CSF GM-CSF M-CSF SCF TPO FATTORI DI INIBIZIONE* Ferritina (catena H) IL-4 Interferoni Lattoferrina MIP-1a TGF- (1-5) TNF-
CROMOSOMA 7p 17q 5q 1p 12q 3q CROMOSOMA 11 5q Vari 3p 17q Vari 6p
ORIGINE Rene, fegato Mo, FB CT, CE, FB, Ma Ma, CE CS, FB Fegato ORIGINE Ubiquitaria (v. tabella 43.2) L, Mo, Ma Ne Ma, CT Mk Ma
CELLULE BERSAGLIO Eritroblasti Ne Ne, Mo, Ma, Mk, CE Mo, Ma CSE, MC Mk, piastrine CELLULA BERSAGLIO PEP Mo, Ma Mo, Ma, CS Mo CS CSE, PEP, CE, FB Mo, Ma
CFU BERSAGLIO CFU-E, BFU-E CFU-G CFU-GM, -G, -M, -GEMM, -Eo, -Meg, BFU-E CFU-M Potenzia PEP e HGF CFU-Meg ATTIVITÀ INIBITA PEP EP, IL-3-dipendente IL-1, IL-3, IL-6 IL-1, CSF CFU-S, -GM, -GEMM; BFU-E PEP, L, recettori per G, GM, IL-3 EP, CFU-G
* Per le sigle si veda anche la figura 43.1 e la tabella 43.2. TGF = Transforming Growth Factor; MIP = Macrophage Inflammatory Protein; TNF = Tumour Necrosis Factor.
membrana. Queste ultime rendono disponibile nell’ambiente citoplasmatico un secondo messaggero, il Ca o il cAMP (AMP ciclico), anch’essi attivatori di chinasi citoplasmatiche. La maggior parte dei recettori dei fattori di crescita emopoietici (HGF-R) possiede un dominio citoplasmatico con attività tirosina-chinasica, che viene attivata direttamente dopo il contatto con il fattore di crescita (recettori catalitici). Altri, come accennato, agiscono con meccanismo indiretto, dove il complesso HGF/recettore si lega a una G-proteina (GTP-Binding Regulatory Protein o G-protein). Il gruppo inattivo GDP (guanosindifosfato) viene trasformato a GTP attivo. Le G-proteine sono prodotti dei protoncogeni ras (Tab. 43.4; Fig. 43.3) e agiscono attivando un’adenilciclasi di membrana che facilita l’ingresso di ioni Ca+ nel citoplasma. Questo elemento promuove il metabolismo del fosfati-
dil-inositolo (PI) mediante l’attivazione di una fosfolipasi C specifica Ca-dipendente, che catalizza la produzione di inositolo trifosfato (InsP3) e diacilglicerolo (DAG). InsP3 contribuisce ulteriormente a incrementare il Ca+ intracellulare, indispensabile per le chinasi Cadipendenti; il DAG attiva direttamente una proteina chinasi Ca-dipendente. Il risultato del legame HGF/recettore è dunque l’attivazione di chinasi citoplasmatiche come la tirosina chinasi, la serina e la treonina chinasi, capaci di fosforilare e attivare enzimi contenenti tali aminoacidi. Alcune di queste proteine sono fattori nucleari di trascrizione, regolazione e soppressione genica, e agiscono legandosi a specifiche sequenze nucleotidiche del DNA controllandone la trascrizione a mRNA e i rispettivi prodotti genici o proteine. Come è noto, numerosi protoncogeni codificano per fattori proteici con attività chinasica, con funzione sia di
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tabella 43.4 - Alcuni protoncogeni cellulari. CROMOSOMA • Fattori di crescita – sis – int-2 – fgf-5 – fgf-6 • Recettori di membrana – Erb B-1 – Erb B-2 – fms – kit • TK della membrana cellulare – abl – sea – hck – lyn – src 1 • G-Proteine – H-ras – K-ras – N-ras • Chinasi citoplasmatiche – raf-1 – mos • Fattori nucleari – fos – jun – myb – myc
PRODOTTO GENICO
ATTIVITÀ/FUNZIONE
22q 11q 4p 12p
PDGF-B, p28 FB-GF FB-GF FB-GF
FB FB; legame con eparina SNC; legame con eparina FB; legame con eparina
7q 18q 5q 4q
recettore recettore recettore recettore
Lega EGF e TGF; TK recettore TK MCP, RE TK, HGF, GC-GF
9q 11q 20q 8q 20p
p145 gp70
TK TK TK; PEP TK; PEP TK; T memoria
11p 12p 1p
p21Hras p21Kras p21Nras
GTP-asi; regola adenilciclasi GTP-asi; regola adenilciclasi GTP-asi; regola adenilciclasi
3p 8q
p33mos
Serina/treonina chinasi Serina/treonina chinasi
14q 1p 6q 8q
p55-p72 p39 p62 p62
regolatore della trascrizione regolatore della trascrizione sintesi DNA e proliferazione cellulare sintesi DNA e proliferazione cellulare
EGF EGF M-CSF SCF
RE = reticolo endoplasmatico; EGF = Epidermic Growth Factor; FB-GF = Fibroblast Growth Factor; MCP = membrana citoplasmatica; TK = tirosina chinasi; HGF = Haemopoietic Growth Factor; GC-GF = Germ Cell Growth Factor; PEP = precursori emopoietici.
Attivazione del recettore
ras p21-GDP
Forma inattiva
GDP GAP (GTP-ase activating protein) NF-1
1: inibizione
GTP
ras p21-GTP
Forma attiva
Proliferazione cellulare 1: mutazioni del gene ras ostacolano l’idrolisi del GTP a GDP e promuovono la crescita cellulare (si veda anche il testo).
Figura 43.3 - Formazione e trasmissione del segnale biologico: ruolo degli oncogeni.
fattori di crescita, sia di recettori di membrana, che di fattori nucleari coinvolti nella regolazione dei meccanismi di differenziazione e crescita cellulari normali. In tabella 43.4 sono elencati alcuni protoncogeni e i loro prodotti proteici. In numerose neoplasie ematologiche e tumori solidi alcuni protoncogeni vanno incontro ad alterazioni strutturali o riarrangiamenti che codificano per una proteina anomala, oppure ad alterazioni quantitative, con amplificazione della trascrizione del mRNA e della sintesi della rispettiva proteina. In questi casi si parla più propriamente di oncogeni. I geni oncosoppressori (TSG, Tumour Suppressor Genes), al contrario, codificano, in condizioni fisiologiche, per molecole capaci di inibire la crescita incontrollata della cellula (Tab. 43.5). L’inattivazione di questi geni, dovuta a mutazioni puntiformi, delezioni o riarrangiamenti, favoriscono la crescita incontrollata della cellula che acquista le caratteristiche della crescita neoplastica. Il prototipo è l’oncogene p53 il cui prodotto genico è la proteina p53, che risulta aumentata in numerose neoplasie umane. In ambedue i casi, attivazione di oncogeni e soppressione di TSG, la cellula assume i caratteri della cellula neoplastica.
Eritropoiesi e regolazione della sintesi dell’emoglobina A. Eritropoiesi. I precursori eritroidi orientati si differenziano sotto l’azione di diversi fattori di crescita, principalmente dell’eritropoietina (EPO), per generare i
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43 - INTRODUZIONE ALL’EMATOLOGIA
Tabella 43.5 - Geni oncosoppressori.
apc nf-1 nf-2 p53 rb-1 wt-1
CROMOSOMA
SITO
FUNZIONE
MUTAZIONI EREDITARIE
5q 17q 22q 17p 13q 11p
C C C N N N
? G-proteina ? Fattore di trascrizione Fattore di trascrizione Fattore di trascrizione
APC NF tipo 1 NF tipo 2 Li-Fraumeni Retinoblastoma Tumore di Wilms
NEOPLASIE PRINCIPALI Colon, tiroide, stomaco Neurinomi, schwannomi Schwannomi, meningiomi Mammella, surrene, sarcomi, leucemie Retinoblastoma, osteosarcoma Tumore di Wilms
C = citoplasma; N = nucleo; APC = adenopoliposi familiare del colon; NF = neurofibromatosi.
proeritroblasti, la prima cellula eritroide morfologicamente visibile al microscopio ottico. In termini colturali le prime cellule staminali orientate in senso eritroide sono le BFU-E (Burst Forming Unit-Erythroid), cellule CD34+ sensibili al GM-CSF, IL-3 ma ancora insensibili all’eritropoietina. Nello stadio maturativo successivo, le CFU-E, le cellule hanno perso gran parte dei recettori per le citochine, hanno sviluppato i recettori dell’eritropoietina insieme a nuovi antigeni di membrana, come gli antigeni eritrocitari, la glicoforina, i recettori per la transferrina. Da questi elementi, sotto l’azione dell’eritropoietina, appare il proeritroblasto, una cellula del volume di circa 900 fl (rispetto ai 90 fl del globulo rosso), da cui derivano l’eritroblasto basofilo, il policromatofilo, l’ortocromatico, il reticolocito e l’eritrocito. Da un solo proeritroblasto derivano circa 50 eritroblasti intermedi e 110 reticolociti ed occorrono 5 divisioni cellulari e circa 5 giorni prima che il nucleo venga estruso e si formi il reticolocito. Durante questa maturazione la membrana eritrocitaria perde i recettori dell’eritropoietina, si arricchisce in spettrina, antigeni eritrocitari, recettori per la transferrina; nel citoplasma inizia la sintesi dell’eme e quantità sempre crescenti di Hb vengono depositate nel citoplasma fino a costituire il 95% del patrimonio proteico del globulo rosso. La produzione di globuli rossi è strettamente sotto il controllo dell’eritropoietina, una glicoproteina di 34 kD prodotta per il 90% nei reni dalle cellule interstiziali corticali, in prossimità delle cellule del tubulo prossimale, e in minima parte, 10%, dall’epatocito, residuo dell’emopoiesi fetale. La produzione di eritropoietina è regolata dalla tensione di O2 con un meccanismo non del tutto chiarito. Usando sonde (“probes”) di mRNA radioattivo, si è visto che il numero di cellule produttrici di eritropoietina aumenta dopo un episodio di ipossia marcata. L’ipossia, inoltre, determina un incremento della trascrizione del gene eritropoietina, che, all’estremità 3’, contiene un elemento ipossia-dipendente che viene attivato da fattori non ancora ben identificati (probabilmente una emoproteina) prodotti in condizioni di bassa tensione di O2. Recettori dell’eritropoietina si trovano in scarsa misura sulle BFU-E e sugli eritroblasti maturi. Le CFU-E e in minor misura i proeritroblasti contengono il maggior numero di recettori di eritropoietina; gli eritroblasti ortocromatici e i reticolociti ne sono del tutto privi. Il contatto eritropoietina/recettore determina un’autofosforilazione e attivazione delle tirosina-chinasi di membrana e intracitoplasmatiche (Jak, Janus chinasi 2, GAP, GTP-ase activating
protein, Fig. 43.3) che servono per la trasduzione del segnale e l’attivazione di protoncogeni. Tuttavia l’esatta natura del messaggio generato dal contatto eritropoietina/ recettore non è chiarito. L’effetto globale dell’eritropoietina sull’eritropoiesi consiste in un’amplificazione della produzione di elementi eritroidi tramite reclutamento di un maggior numero di precursori a entrare nella fase mitotica, ovvero una più rapida differenziazione da CFU-E a proeritroblasto; aumento della sintesi del DNA; stimolazione della sintesi di Hb; riduzione dei tempi di transito midollare e passaggio in circolo di elementi non ancora del tutto maturi, come reticolociti ed eritroblasti. B. Controllo della sintesi della globina. Come già accennato, gli organi emopoietici nella vita prenatale sono rappresentati dal sacco vitellino durante le prime settimane di vita embrionale. Dalla quinta alla sesta settimana il fegato è l’unico organo emopoietico, che dalla sedicesima settimana circa viene affiancato in maggior misura dalla milza e in minima parte dal midollo osseo. Nel feto a termine l’emopoiesi è sostenuta quasi totalmente dal midollo osseo e quella epatica e splenica si spengono dopo poche settimane. Contemporaneamente anche la sintesi dell’Hb va incontro a caratteristiche variazioni. Durante il periodo embrionale il cluster dei geni produce, oltre a catene , una quota di catene . Il cluster produce, oltre alla catena , la catena embrionale . Durante questo periodo si hanno perciò tre Hb embrionali, 22, 22, 22, rispettivamente Hb Gower 1, Hb Gower 2, Hb Portland. Dall’ottava settimana i geni embrionali si spengono e rimangono attivi quelli , e in minima parte : il feto produce perciò HbF (22) e una minima quantità di HbA (22). Dopo la nascita la sintesi di decresce rapidamente e aumenta quella della catena . Entro il primo anno l’HbA e l’HbF raggiungono i valori adulti, salvo alcune eccezioni, come i portatori sani di -talassemia, dove valori elevati di HbF possono protrarsi oltre. I meccanismi che regolano il controllo dello “switching” emoglobinico, cioè il passaggio da una produzione di tipo fetale, HbF, a uno adulto, HbA, non sono ancora del tutto chiari. Questo fenomeno avviene non solo fisiologicamente dopo la nascita, ma anche in certe condizioni ematologiche acquisite, come anemia aplastica, emoglobinuria parossistica notturna, leucemie acute e croniche, chemioterapia (Tab. 43.6). È possibile che lo stato di metilazione dei geni coinvolti, l’azione di fattori nucleari di transactivazione sugli elementi regolatori ed “enhancer”
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
tori. Una volta prodotti, i monomeri e non- si uniscono spontaneamente in tetrameri e si uniscono all’eme per formare la molecola dell’Hb.
Tabella 43.6 - Produzione di HbF nell’adulto. CONDIZIONI EREDITARIE • Sindromi talassemiche – -talassemia – -talassemia – HPHF – thal/HbE – Hb Lepore • Sindromi falcemiche – Omozigosi – thal/HbS – HbS/HbC
CONDIZIONI ACQUISITE • Gravidanza • Anemie congenite – Diamond-Blackfan – Diseritropoiesi congenite • Malattie ematologiche – Mielodisplasie/aplasie – Leucemie acute – Disordini mieloproliferativi • Farmaci – Chemioterapici (idrossurea, 5-azaciticina) – Eritropoietina
HPHF = persistenza ereditaria di HbF (Hereditary Persistance of HbF).
dei geni siano alla base dello spegnimento di un gene e dell’accensione dell’altro. Un ruolo preminente sembra avere la regione fiancheggiante il cluster , chiamata LCR (Locus Control Region), che contiene sequenze dotate di una particolare affinità per DNA-polimerasi e fattori di trascrizione che possono spegnerne o accenderne l’espressione (Fig. 43.4). Il mRNA viene trascritto nella sua interezza, includendo introni (i frammenti non tradotti) e gli esoni (i frammenti strutturali tradotti); i frammenti esonici vengono poi uniti tramite i meccanismi di “splicing” con l’eliminazione degli introni. L’inizio della sintesi delle catene globiniche viene regolato da fattori proteici (“initiation factors”) e dall’eme, di cui è stata provata l’importanza nella stimolazione e inibizione di tali fat5’
3’ LCR
G
A
A.
LCR B.
LCR C.
LCR = Locus Control Region Frecce continue: interazioni in atto tra LCR e promoter globinico; gene attivo. Frecce tratteggiate: gene parzialmente espresso. G, A = geni polimorfi della catena . G e A indicano glicina e alanina al 136° posto della sequenza di aminoacidi. Il rapporto è circa 3:2 in utero e post partum; si inverte quando l’assetto emoglobinico adulto viene raggiunto.
Figura 43.4 - Modello di regolazione dell’espressione dei geni globinici del cluster nelle diverse fasi della vita umana. (A) Fase embrionale. (B) Fase fetale. (C) Fase adulta.
ESAME DEL SANGUE PERIFERICO E DEL MIDOLLO OSSEO L’interpretazione dell’esame emocromocitometrico, o emocromo, dello striscio di sangue periferico (SP) e dell’aspirato midollare (AM) costituisce un momento importante dell’attività dell’ematologo. L’aspirato midollare viene solitamente completato con l’esecuzione della biopsia osteomidollare (BOM), che viene generalmente analizzata dall’anatomopatologo. Sia lo striscio di sangue periferico sia quello dell’aspirato midollare vengono colorati con la colorazione MayGrünwald-Giemsa a base di metanolo, blu di metilene ed eosina e osservati al microscopio ottico. Negli ultimi anni anche l’analisi dell’immunofenotipo degli elementi ematici maturi e immaturi è entrato a far parte della diagnostica ematologica ed ha assunto un ruolo essenziale nella diagnosi delle leucemie acute e croniche e dei linfomi. Altre tecniche oggi fondamentali per la diagnostica ematologica sono lo studio del cariotipo e l’analisi molecolare, cui si farà cenno in questo capitolo.
Sangue periferico A. Parametri cellulari. La conta delle cellule ematiche viene eseguita con contaglobuli elettronici basati su due principi fondamentali: impedenza e diffusione luminosa (“light scattering”). Il primo si basa sulla proprietà delle cellule di essere cattive conduttrici di elettricità: una sospensione di cellule che passa attraverso un foro molto stretto immerso in un campo elettrico provoca una riduzione dell’impulso elettrico. Le variazioni del campo elettrico dovute al passaggio delle cellule vengono trasformate in variazioni di impulsi elettrici, che, opportunamente trasformati, vengono tradotti in cifre, in conte cellulari e in istogrammi, le curve di distribuzione delle popolazioni cellulari esaminate dallo strumento. I valori di Hb vengono letti da uno spettrofotometro incorporato nello strumento dopo che i globuli rossi sono stati lisati da una sostanza lisante. Negli strumenti basati sulla diffusione luminosa un raggio laser monocromatico che colpisce la cellula va incontro a variazioni del suo percorso: diffrazione, diffusione e assorbimento da parte della cellula stessa. Queste variazioni dipendono da fattori chimicofisici, quali dimensioni della cellula, composizione del citoplasma e del nucleo. Se le cellule vengono anche trattate con fissativi e coloranti che esaltano le proprietà del nucleo e del contenuto del citoplasma, è possibile ottenere una migliore definizione delle cellule che attraversano lo strumento. Strumenti altamente sofisticati combinano le due tecnologie e riescono a identificare le cellule con grande precisione riducendo al minimo la necessità di esaminare lo striscio di sangue periferico al microsco-
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43 - INTRODUZIONE ALL’EMATOLOGIA
pio ottico. La presenza di popolazioni cellulari numericamente e qualitativamente anomale e di cellule immature produce dei segnali (“flags”) sui monitor degli strumenti e sugli istogrammi cartacei. In tal modo l’operatore è in grado di decidere quale campione deve essere esaminato al microscopio ottico. 1. Parametri eritrocitari. Alcuni parametri vengono detti assoluti, ovvero calcolati direttamente dallo strumento, altri derivati da questi ultimi. I primi sono rappresentati dal numero dei globuli rossi, dall’Hb e dal MCV (Mean Cell Volume, o volume globulare medio), come illustrato in tabella 43.7. In un passato non del tutto remoto l’ematocrito (Hct) veniva misurato manualmente centrifugando un capillare riempito con sangue intero. Ciò costituiva il parametro assoluto per il calcolo del MCV e del MCHC (Mean Cell Haemoglobin Concentration, concentrazione emoglobinica corpuscolare media). I parametri eritrocitari variano con l’età. Durante le prime settimane di vita extrauterina si ha una sostituzione della eritropoiesi fetale megaloblastica con una popolazione adulta normocitica, cui segue una fase di modesta microcitosi nell’infanzia e la successiva normocitosi dell’adulto. Al microscopio ottico il globulo rosso ha una forma discoidale con un diametro di 6-8 , uno spessore di 2-3 e una parte centrale più chiara dovuta alla minore concentrazione di Hb in sezione trasversale. In patologia il globulo rosso va incontro ad alterazioni morfologiche dovute a quattro cause principali: • alterazioni dell’eritropoiesi (carenze vitaminiche, mielodisplasie, diseritropoiesi congenite); • alterazioni della sintesi dell’Hb (emoglobinopatie, sideropenia); • alterazioni della membrana eritrocitaria intra o extraeritrocitarie (sferocitosi, enzimopenie/patie, anemie emolitiche autoimmuni); Tabella 43.7 - Parametri eritrocitari assoluti e derivati1. ESPRESSI IN
CALCOLO
• Assoluti – Globuli rossi × 1012/l – Emoglobina (Hb) g/dl o g/l – MCV femtolitri (fl) – Reticolociti (RC)1 × 109/l • Derivati – Ematocrito (Hct) % o frazione GR × MCV3 – MCH picogrammi (pg) Hb : GR – MCHC g/dl di GR Hb : Hct × 100 – Reticolociti2 % % – Indice reticolocitario % % RC × HctO:HctO 1 Ottenuti con contaglobuli elettronici o con metodo citofluorimetrico (RC). 2 Per il calcolo dei reticolociti dalla lettura del vetrino, il valore assoluto è: % R × GR/l : 100 = reticolociti/l. Esempio: R = 2%, GR = 4 × 1012/l, il calcolo è: 2 × 4 : 100 = 8 × 1010/l. Per convenzione si esprime in × 109/l: 80 × 109/l. 3 Nell’era pre-contaglobuli l’Hct veniva ottenuto con particolari micro-centrifughe e costituiva il parametro assoluto per il calcolo del MCV. MCV = Mean Cell Volume (valore corpuscolare medio). HctO = Hct osservato. HctC = Hct controllo. MCH = Mean Cell Hb. MCHC = Mean Cell Hb Concentration. Femtolitro = microncubo.
• tentativo del midollo osseo di compensare uno stato di anemia (eritropoiesi da stress, emorragie, emolisi). Le stesse anomalie possono essere causate da patologie congenite e acquisite. Così le sindromi talassemiche e la carenza di ferro causano aniso-poichilocitosi e microcitosi, che dovranno essere differenziate in base allo stato del ferro e allo studio delle emoglobine patologiche. Una visione quantitativa dell’aniso-poichilocitosi è resa dal RDW o Red cell Distribution Width (ampiezza della curva di distribuzione dei globuli rossi) che è tanto più alto quanto maggiore è il distacco dalla norma. Gli ellissociti possono essere presenti nell’anemia sideropenica come nell’ellissocitosi ereditaria. Sferociti sono presenti non solo nella sferocitosi ereditaria, ma anche nelle anemie emolitiche autoimmuni. Un’importante causa di alterazioni eritrocitarie è la splenectomia che dà luogo non solo a quasi tutte le alterazioni morfologiche eritrocitarie, ma anche ad alterazioni nucleari, i corpi di Jolly, ovvero frammenti di DNA. Per altri dettagli si veda la tabella 43.8. Tra i parametri eritrocitari possiamo includere i reticolociti, cioè eritrociti immaturi contenenti RNA, pertanto capaci ancora di sintetizzare Hb. Possono essere riconosciuti dal caratteristico reticolo, costituito da RNA, se colorati con coloranti sopravitali ovvero senza i fissativi che uccidono la cellula (alcoli, aldeidi). Vengono convenzionalmente espressi in percento o per mille di emazie e contati su un vetrino colorato con blu di metilene. Più spesso ci si riferisce all’indice reticolocitario, cioè il valore percentuale dei reticolociti moltiplicato per il rapporto tra l’Hct (o Hb) del paziente e del controllo (Tab. 43.7). Un valore di 0,5% è normale in una persona con 15 g/dl di Hb ma in un individuo con 5 g/dl indica una ridotta eritropoiesi (5 : 15 × 0,5 = 0,16%). Oggi i reticolociti possono essere espressi direttamente in valore assoluto e contati da speciali contaglobuli, basati sul principio della citofluorimetria, che sfruttano la capacità del RNA di legare fluorocromi, eliminando le variazioni soggettive della conta sul vetrino. 2. Globuli bianchi. Come è noto i leucociti o globuli bianchi sono rappresentati da granulociti, monociti e linfociti. I primi comprendono i granulociti neutrofili, eosinofili e basofili. La cosiddetta “formula leucocitaria” esprime la percentuale dei vari elementi sui leucociti totali (Tab. 43.9). È buona norma esprimere il numero dei globuli bianchi in valori assoluti (× 109/l), clinicamente più significativi. Anche i globuli bianchi vanno incontro a variazioni di numero e morfologia. Si parla di leucocitosi, neutrofilia, eosinofilia, basofilia, monocitosi e linfocitosi o di leucopenia ecc., per indicare un aumento o una diminuzione dei vari elementi. Variazioni numeriche fisiologiche sono rappresentate per esempio da una linfocitosi nell’età infantile, da una leucocitosi in seguito a esercizio fisico intenso, da una neutropenia che si incontra nei soggetti di origine africana, dove la quota circolante di granulociti neutrofili è inferiore a quella marginata, cioè aderente all’endotelio. Le cause di leucocitosi e leucopenia sono elencate nelle tabelle 43.10 e 43.11.
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Tabella 43.8 - Alterazioni dei globuli rossi. DIFETTO
DESCRIZIONE
CAUSA Alterato rapporto colesterolo/fosfolipidi
A--lipoproteina Fenotipo McLeod3
Epatopatie, anoressia, splenectomia
Anisocitosi1
Aspetto spinoso della membrana eritrocitaria Variazione di volume
Anemie ereditarie
Tutte le forme di anemia
Cellule a bersaglio
Area centrale più scura
Emoglobinopatie
Epatopatie, splenectomia
Corpi di (Howell-) Jolly Corpi di Heinz2
Residui di cromatina
Ridotto contenuto di Hb Ridotto spessore e contenuto di Hb dei GR Diseritropoiesi
Diseritropoiesi congenite
Splenectomia
Hb denaturata e precipitata Passaggio attraverso maglie di fibrina Emoglobina S Difetti delle proteine di membrana; MCHC ↑ Carenza di catene —
Hb instabili, favismo
Danni ossidativi (farmaci, reagenti chimici ecc.) Fibrosi midollare di qualunque origine — Anemia sideropenica e megaloblastica (macrovalociti)
—
Talassemia, anemia sidero- Anemia sideropenica blastica Anemia megaloblastica, Diseritropoiesi congenite mielodisplasie, epatopatia, alcolismo, reticolocitosi Talassemia, anemia sidero- Anemia sideropenica blastica Piropoichilocitosi ereditaria Fisiologica nel neonato
Acantocitosi1
Dacriociti
Inclusioni della membrana Forma a lacrima
Drepanociti Ellissocitosi, ovalocitosi
Emazie a falce Forma ellittica, ovale
Inclusioni di HbH2 Ipercromia Ipocromia
Catene precipitate Contenuto di Hb ↑ (MCH) Ridotta MCH
Macrocitosi
MCV >100 fl
Ridotto numero di divisioni cellulari
Microcitosi
MCV < 80 fl
Piropoichilocitosi
Poichilocitosi con forme bizzarre Alterazione della morfologia
Aumentato numero di divisioni cellulari v. ellissocitosi ereditaria Varia con la patologia
Poichilocitosi1
Punteggiature basofile Schistocitosi
Residui di RNA
Sferocitosi
Forma sferica; ipercromia Area centrale a forma di fessura
Stomatocitosi
Frammenti di GR
Ridotto catabolismo del RNA Traumi della membrana Difetti delle proteine di membrana Difetti delle proteine di membrana
DISORDINI CONGENITI
— Sindromi falcemiche Ellissocitosi ereditaria
Malattia da HbH Diseritropoiesi congenite
DISORDINI ACQUISITI
— Anemia megaloblastica
Anemie carenziali, microangiopatiche, disordini mieloproliferativi Anemie ereditarie, diseritro- Avvelenamento da piombo, mielodisplasie, infezioni poiesi congenite Anemie carenziali, emolitiAnemie ereditarie che, microangiopatiche, ustioni, SUE, PTT Anemie emolitiche autoimSferocitosi ereditaria muni, microangiopatiche Alcolismo Stomatocitosi ereditaria Varia con la patologia
1 Una valutazione numerica del grado di aniso-poichilocitosi è dato dal RDW, Red cell Distribution Width o ampiezza della distribuzione eritrocitaria (si veda il testo). 2 Tetrameri di catene visibili con la colorazione sopravitale dei reticolociti. 3 Delezione gene della proteina precursore del sistema Kell. SUE = sindrome uremico-emolitica; PTT = porpora trombotica trombocitopenica.
Alterazioni morfologiche riguardano principalmente i granulociti neutrofili e i linfociti sia a livello del nucleo che del citoplasma. È da menzionare la ipersegmentazione del nucleo (> 5 lobi in più del 5% dei granulociti neutrofili) dovuta in primo luogo a deficienza di vitamina B12 e folati, più raramente a deficienza di ferro e a sindromi mielodisplastiche; in queste ultime sono più frequenti le cellule iposegmentate, con uno o al massimo due lobi. Il citoplasma può contenere granulazioni tossiche (infezioni croniche) o scarse granulazioni (mielodisplasie).
Granulazioni o inclusioni patologiche sono presenti in rare affezioni congenite del contenuto di enzimi lisosomiali dei granulociti e dei monociti. Le alterazioni non neoplastiche dei linfociti più salienti sono rappresentate dalle forme reattive dovute alla presenza di malattie virali. Si tratta di cellule più grandi dei linfociti normali, dal citoplasma abbondante, leggermente basofilo e spesso a contorni irregolari; il nucleo è spesso reniforme o indentato, raramente nucleolato, talvolta con aspetto immaturo da far pensare a un linfoblasto: i cosiddetti “virociti”, particolarmente evidenti nella mono-
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nucleosi infettiva, che talvolta, soprattutto nei bambini, possono essere confusi con elementi di una leucemia linfoblastica acuta. 3. Piastrine. Derivano dalla frammentazione del citoplasma dei megacariociti e si riversano nel sangue periferico per prendere parte al processo dell’emostasi. Sullo striscio di sangue periferico appaiono come corpuscoli del diametro di 2-3 di aspetto grigiastro e granulati. Il numero non varia con l’età, ma fisiologicamente solo dopo esercizio fisico. Trombocitosi (o piastrinosi) e trombocitopenia (o piastrinopenia) indicano aumento e diminuzione. Le cause di trombocitosi sono molteplici e sono trattate nel capitolo sulle trombocitosi. Anche le piastrine possono andare incontro a variazioni morfologiche, come anisocitosi, piastrine giganti, presenza di corpi inclusi, in numerosi disordini ematologici, in particolare nei disordini mieloproliferativi e mielodisplastici. Talvolta l’esame dello striscio mette in evidenza aggregati piastrinici, un fenomeno che avviene in vitro in seguito al contatto
Tabella 43.9 - Parametri emocromocitometrici tipici nell’adulto. UOMINI DONNE VALORI ASSOLUTI (INTERVALLO) Globuli rossi 5,2 (4,5-6,0) 4,5 (4,0-5,0) Emoglobina 15,5 (14,0-17,5) 13,5 (12,0-15,0) Ematocrito 46 (42-50) 40 (35-45) MCV 88 (80-95) fl MCH 30 (27-33) MCHC 34 (32-36) RDW 13 (11,5-14,5) Piastrine 300 (150-450) Globuli bianchi 7,5 (4,2-10,5) Granulociti neutrofili 4,2 (2,0-6,8) Linfociti 2,4 (1,0-4,2) Monociti 0,4 (0,1-0,8) Granulociti eosinofili 0,2 (0,05-0,4) Granulociti basofili < 0,1
%
×1012/l g/dl % pg/GR g/dl GR CV (%) ×109/l ×109/l 100 ×109/l 45-60 ×109/l 30-45 ×109/l 2-10 ×109/l
2-5
×109/l
<1
Tabella 43.10 - Cause di leucocitosi. NEUTROFILIA
LINFOCITOSI
MONOCITOSI
EOSINOFILIA
BASOFILIA
Infezioni
Batteriche
Virali, pertosse, toxoplasma
Croniche
Parassitarie
Vaiolo
Malattie infiammatorie croniche Neoplasie Malattie metaboliche Farmaci Malattie del midollo
Disordini autoimmuni, necrosi tissutale, gotta La maggior parte Acidosi, uremia, emolisi Terapia steroidea DMP
DLP Ipertiroidismo
Alcuni
DLP
Mielodisplasia
Altre
Emorragie
Splenectomia
Malattie cutanee, PNA Morbo di Hodgkin Mixedema Allergie DMP, sindrome ipereosinofila
DMP
DLP = disordini linfoproliferativi; DMP = disordini mieloproliferativi; LMMC = leucemia mielomonocitica cronica; PNA = panarterite nodosa.
Tabella 43.11 - Cause di leucopenia. NEUTROPENIA
LINFOPENIA
• Malattie ematologiche – Anemia aplastica, EPN, infiltrazioni midollari – Anemia megaloblastica, neutropenia ciclica – Forme congenite, radio-chemioterapia • Infezioni – Tifoide, TBC miliare, HBV, protozoi, HIV • Etnica – Popolazioni africane • Disordini immuni – Neutropenia idiopatica, Sindrome di Felty, LES • Farmaci – Meccanismo idiosincratico (anemia aplastica) – Meccanismo immune
• Infezioni – Influenza, HIV, malaria, TBC miliare, malattia di Whipple • Procedure terapeutiche – Radio-chemioterapia – Siero antilinfocitario, steroidi • Neoplasie – Ca metastatico, morbo di Hodgkin • Malattie autoimmuni – LES e altre collagenopatie, miastenia grave, GVHD • Sarcoidosi • Immunodeficienze • Anemia aplastica
GVHD = Graft Versus Host Disease (malattia del trapianto contro l’ospite); HBV = virus dell’epatite B; HIV = Human Immunodificiency Virus; LES = lupus eritematoso sistemico; TBC = tubercolosi.
delle piastrine con un anticoagulante (in genere l’EDTA). In questi casi il contaglobuli elettronico può dare una falsa piastrinopenia (pseudopiastrinopenia). Il valore corretto viene ottenuto usando una provetta con un diverso anticoagulante (per esempio, eparina o citrato di calcio). La pseudopiastrinopenia è dovuta alla presenza di anticorpi IgM attivi a basse temperature e solo in presenza dell’anticoagulante che funziona da aptene. Esso è inattivo a temperatura corporea e, conseguentemente, nella corrente sanguigna.
Aspirato midollare e biopsia ossea(*) L’aspirato midollare (AM) nell’adulto è oggi quasi sempre accompagnato dalla biopsia osteomidollare (BOM). L’aspirato sternale è stato quasi del tutto soppiantato dall’aspirato dalle spine iliache posteriori superiori per l’impossibilità di eseguire un prelievo bioptico dallo sterno. L’aspirazione, eseguita in anestesia locale, dà luogo ai “frustoli” midollari, ovvero aggregati di tessuto (*) Con la collaborazione di M. Ponzoni.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
emopoietico e adiposo misto a sangue midollare. Il campione così ottenuto può essere strisciato subito su vetrini o trasferito in provetta contenente EDTA (etilen-diamino-tetracetato) come anticoagulante per essere strisciato, fissato e colorato quando raggiunge il laboratorio. Talvolta l’aspirazione dà origine a una punctio sicca, ovvero assenza di materiale midollare, generalmente dovuto a marcata iperplasia o fibrosi midollare, infiltrazione del midollo con neoplasie ematologiche o metastatiche da tumori solidi. In questi casi l’aspirato midollare non è conclusivo ed è indispensabile l’osservazione della biopsia osteomidollare. La procedura della biopsia osteomidollare viene eseguita in corrispondenza di una delle spine iliache superiori posteriori in anestesia locale. L’ago da biopsia osteomidollare viene inserito perpendicolarmente alla superficie dell’osso con il paziente in posizione prona o in decubito laterale. Una volta raggiunto il periostio si sfila il mandrino e si spinge l’ago nell’osso per almeno 2 cm. Ruotando l’ago sul suo asse e con movimenti laterali si lussa il segmento osseo intrappolato nel lume dell’ago e si sfila l’ago lentamente. A. Esame morfologico del midollo osseo. La cellularità midollare è rappresentata per la maggior parte dai precursori emopoietici delle tre linee cellulari eritroide, mieloide e megacariocitaria e da cellule adipose. Il tessuto adiposo costituisce solo circa il 10% nella prima infanzia, il 50% nell’età adulta e il 70% in età avanzata. Inoltre con l’età si ha una contrazione della produzione emopoietica in senso centripeto: bacino, coste, sterno e cranio. Nella tabella 43.12 sono illustrati i vari elementi cellulari del midollo osseo e i rispettivi elementi maturi del sangue periferico. I progenitori emopoietici più immaturi citologicamente identificabili della serie bianca sono rappresentati dai mieloblasti, cellule grandi (15-20 ) con alto rapporto nucleo-citoplasmatico e presenza di nucleoli. Da questi, per successive divisioni, derivano i promielociti, i mielociti e i metamielociti. Il mieloblasto presenta fini granulazioni citoplasmatiche, i cosiddetti granuli primari, che aumentano di numero nella fase successiva di promielociti. In questi ultimi il nucleo si contrae, perde il nucleolo, o ne conserva una debole traccia e assume una posizione eccentrica, molto aderente a un polo della cellula, mentre
il citoplasma si fa meno basofilo. Il mielocito è una cellula più piccola con un nucleo decisamente più contratto, eccentrico, privo di nucleolo, un citoplasma acidofilo con scarse granulazioni primarie e numerosi granuli secondari specifici del tipo granulocitario, neutrofilo, eosinofilo o basofilo. I metamielociti neutrofili hanno un nucleo reniforme non ancora lobato e assomigliano per il resto ai granulociti neutrofili. Anche i granulociti eosinofili e basofili sono molto simili agli elementi maturi, ma leggermente più grandi e meno granulati. La forma più immatura della serie eritroide è il proeritroblasto che ha un citoplasma più abbondante del mieloblasto e molto basofilo, una cromatina più addensata e nucleoli ben visibili. Con le divisioni successive il nucleo perde i nucleoli e si fa sempre più addensato, ma rimane al centro della cellula, mentre nel citoplasma comincia la sintesi dell’Hb che impartisce una colorazione sempre più acidofila quanto più i precursori maturano e si dividono. L’assenza di granulazioni citoplasmatiche li differenzia dai precursori mieloidi. L’eritroblasto ortocromatico, infine, si libera del nucleo e si trasforma in reticolocito, che è in grado di superare la barriera ematomidollare e circolare nel sangue periferico. Le plasmacellule si riconoscono per il loro caratteristico citoplasma basofilo con un evidente Golgi, la caratteristica forma ovale e il nucleo eccentrico che viene definito a ruota per la sua caratteristica struttura. Sebbene la stima della cellularità e l’architettura del midollo osseo sia più affidabile sulla biopsia osteomidollare, data la maggiore estensione e l’integrità del campione esaminato, una buona approssimazione si può avere guardando i frustoli e la densità della cellularità sullo striscio. L’aspirato midollare è superiore alla biopsia osteomidollare nella valutazione della morfologia cellulare, e quindi nella diagnosi di leucemia e mielodisplasia. La tabella 43.13 riporta un esame morfologico tipico dell’aspirato midollare o mielogramma. B. Biopsia osteomidollare. L’architettura del midollo osseo è costituita da una rete tridimensionale di trabecole ossee tra le quali sono comprese, in proporzioni variabili, vasi sanguigni (arteriole, capillari e sinusoidi), elementi stromali, tessuto adiposo e cellule emopoietiche. Variazioni fisiologiche del tessuto emopoietico ri-
Tabella 43.12 - Elementi cellulari del midollo osseo e del sangue periferico. MIDOLLO OSSEO1 • Proeritroblasto – Eritroblasto basofilo – Eritroblasto policromatofilo – Eritroblasto ortocromatico
• Mieloblasto – Promielocito – Mielocito – Metamielocito
• Monoblasto – Promonocito
• Linfoblasto • Megacarioblasto – Linfocito – Megacariocito – Plasmacellula
SANGUE PERIFERICO – Reticolocito – Eritrocito 1
– Granulocito
– Monocito
– Linfocito
– Piastrina
Il proeritroblasto e il megacarioblasto sono facilmente distinguibili tra loro e dagli altri blasti. Il mieloblasto, il monoblasto e il linfoblasto se osservati singolarmente in un midollo normale con meno del 3% di blasti possono facilmente confondersi.
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Tabella 43.13 - Esame morfologico dell’aspirato midollare. TIPO DI CELLULE • Serie mieloide – Mieloblasti – Promielociti – Mielociti – Metamielociti – Forme a banda/neutrofili – Monociti – Eosinofili – Basofili • Serie eritroide – Proeritroblasti – Eritroblasti basofili – Eritroblasti policromatofili – Eritroblasti ortocromatici • Linfociti • Plasmacellule • Macrofagi • Megacariociti • Rapporto L:E (leucoeritroblastico)
% 45-65 <3 2-5 8-18 12-25 20-40 1-2 1-5 Rari 15-40 1- 3 1-5 10-25 5-20 5-20 1-4 Rari * 1-4
* Non esprimibile in % per l’irregolarità della distribuzione sullo striscio.
spetto a quello adiposo dipendono dall’età del soggetto, ed è di circa il 90% alla nascita per scendere a valori del 30-40% in età avanzata. La distribuzione delle varie linee emopoietiche nella biopsia osteomidollare non è casuale. La serie granulopoietica si dispone in sede paratrabecolare e periarteriolare con gli elementi più immaturi, i mieloblasti, prossimalmente e quelli più maturi distalmente a queste strutture, ma senza raggiungere i sinusoidi. La serie eritroide si dispone in nidi di elementi a vari stadi maturativi organizzati centralmente attorno a un macrofago. Anche qui le forme più immature tendono ad occupare gli spazi interni di tali aggregati, che si localizzano preferenzialmente in prossimità dei sinusoidi. I megacariociti sono per lo più distribuiti nel contesto del midollo, preferenzialmente in sede parasinusoidale senza rag-
giungere le trabecole ossee. In questo modo possono rapidamente riversare il loro contenuto, le piastrine, nel torrente circolatorio in condizioni di stress. I linfociti sono distribuiti sia nell’interstizio, sia, anche se meno frequentemente, in aggregati linfoidi, generalmente in sede intertrabecolare. Anche le plasmacellule possono disporsi nell’interstizio oppure a formare “cuffie” pericapillari. Lo stroma produce solo rare fibrine reticoliniche particolarmente in sede perivascolare. Le lamelle ossee hanno un profilo regolare e sono lambite da osteoblasti e osteoclasti in proporzione che varia con l’età. Alcune differenze tra aspirato midollare e biopsia osteomidollare sono elencate in tabella 43.14.
Citochimica Oltre alle colorazioni standard ematossilina-esosina, che stanno alla base della microscopia ottica, spesso è necessario ricorrere a colorazioni speciali che permettono di differenziare le cellule in esame e la linea di appartenenza. Queste vengono impiegate in modo particolare nella caratterizzazione dei blasti leucemici a differenziare i blasti linfoidi da quelli mieloidi. Esse si basano sulla colorazione speciale che le strutture citoplasmatiche assumono quando messe a contatto con un determinato substrato enzimatico. Ne risulterà una colorazione di tipo (pattern) diffuso o granulare a granuli fini o grossolani. Il colore specifico dipende dalla variazione di colore del substrato dopo l’azione dell’enzima. Gli enzimi utili a questo scopo sono rappresentati da: • mieloperossidasi (MPO) per l’identificazione delle cellule della linea mieloide; • esterasi leucocitarie: le cosiddette esterasi specifiche (-naftile acetato e butirrato) per la colorazione delle cellule istio-monocitarie e le esterasi aspecifiche (naftol-ASD cloroacetato) per la serie granulocitaria; • fosfatasi leucocitarie: quella alcalina (LAP o NAP, Leucocyte o Neutrophil Alkaline Phosphatase) per la colorazione dei granulociti neutrofili e quella acida per la colorazione dei linfociti T. Una diminuzione
Tabella 43.14 - Alcune caratteristiche della biopsia e dell’aspirato osteomidollare. BIOPSIA OSTEOMIDOLLARE La BOM è superiore all’AM nei seguenti casi: • valutazione della cellularità e della sua distribuzione nel contesto del midollo; • nella stima dei megacariociti; • valutazione della architettura dell’osso; • nei casi di punctio sicca; • nella ricerca di metastasi occulte; • nella stadiazione dei disordini linfoproliferativi, dove la conoscenza del tipo di crescita neoplastica (nodulare, interstiziale, diffusa) fornisce importanti informazioni prognostiche; • nelle malattie granulomatose.
ASPIRATO MIDOLLARE • L’AM è superiore alla BOM nella diagnostica delle leucemie acute e delle mielodisplasie;
• la qualità del preparato e la morfologia cellulare possono essere danneggiate da un’aspirazione forzata e dalla permanenza prolungata del campione a temperatura ambiente; • la distinzione tra mieloblasto, monoblasto o linfoblasto in un midollo normale può essere problematica, oltre che superflua, quando la quota di blasti è < 5%, cioè normale; • la quota di megacariociti è meglio apprezzabile a basso ingrandimento.
Sia nella BOM che nell’AM: • il maggior numero di elementi cellulari sono rappresentati da precursori mieloidi, eritroidi e da linfociti; • il rapporto L:E (leucoeritroblastico) può variare in condizioni normali tra 4:1 a 1:1, ma nell’AM, a differenza della BOM, dipende anche dalla qualità del prelievo e dal grado di contaminazione con elementi ematici maturi.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
della NAP si riscontra tipicamente nella leucemia mieloide cronica; • a queste si aggiungono la colorazione del PAS (acido periodico-Schiff) che ossida i carboidrati ad aldeidi e il Sudan nero. Le aldeidi ossidano il colorante aggiunto (reagente di Schiff) e impartiscono la caratteristica colorazione rosa alle strutture del citoplasma. Il Sudan è equivalente alla mieloperossidasi e si basa sulla colorazione di alcuni substrati lipidici del citoplasma. Una variante della citochimica è rappresentata dalla immunocitochimica (o immunoistochimica se su preparati istologici). Qui la ricerca di un determinato antigene delle strutture cellulari (interne o esterne) viene effettuata con un anticorpo monoclonale specifico legato ad un enzima, generalmente perossidasi o fosfatasi. Se, avvenuta la reazione antigene-anticorpo, si aggiunge un substrato per uno degli enzimi usati, la cellula o il tessuto in esame si colorano. L’assenza di colore indica l’assenza della sostanza (antigene) ricercato. Per l’interpretazione delle colorazioni specifiche si veda il capitolo 47 sulle leucemie acute.
Citofluorimetria Questa metodica è una derivazione più sofisticata della tecnica di citometria basata sulla diffusione luminosa o “light scatter”. Lo strumento, il citofluorimetro, oltre a essere in grado di identificare le cellule col “light scatter”, cioè in base alle loro proprietà fisiche, è programmato per identificare particelle che emettono luce fluorescente. Una popolazione cellulare può essere marcata con particolari sostanze fluorescenti ed essere identificata con precisione. Se la sostanza fluorescente è associata ad un anticorpo monoclonale che reagisce con una proteina di membrana nota e specifica di una data popolazione cellulare, lo strumento è in grado di identificare la cellula in base alle sue caratteristiche fisiche e alla espressione degli antigeni cellulari specifici. Lo studio delle proteine di membrana ha consentito di individuare un gran numero di antigeni (Ag) che sono stati classificati e raggruppati nella cosiddetta “cluster designation and differentiation” (CD). Molti di questi Ag sono caratteristici di certe popolazioni cellulari e ne indicano il grado di maturazione e differenziazione. Gli anticorpi monoclonali vengono marcati con
sostanze fluorescenti come fluoresceina (verde) o picoeritrina (rossa); si può migliorare ulteriormente la tipizzazione di una popolazione cellulare, ovvero l’immunofenotipo, usando fluorocromi diversi (verde o rosso) legati ad anticorpi con specificità diverse. Un particolare modello di citofluorimetro è il FACS o Fluorescence Activated Cell Sorter che, dopo l’analisi delle popolazioni cellulari, è in grado di concentrare e separare una o più popolazioni prescelte sospendendole in piccole quantità di tampone. La citofluorimetria e l’immunofenotipo hanno migliorato notevolmente la diagnostica delle leucemie acute e dei disordini linfoproliferativi cronici. Gran parte dei marcatori, ovvero degli antigeni CD, sono lineaspecifici e permettono di caratterizzare l’appartenenza a una linea emopoietica e, in parte, il suo grado di differenziazione: si parla perciò di marcatori della linea mieloide, della linea linfoide e delle cellule indifferenziate. Tuttavia, soprattutto nelle popolazioni leucemiche, alcuni di questi Ag non sono strettamente specifici e possono mostrare il fenomeno della “lineage infidelity”, ovvero la capacità di reagire con anticorpi monoclonali specifici di un’altra linea. Le tabelle 43.15 e 43.16 riportano alcuni degli usi più comuni di questa metodica in ematologia e degli anticorpi monoclonali più in uso per la diagnosi di leucemia e linfoma. Tabella 43.16 - Alcuni marcatori utili in ematologia. MARCATORI Progenitori
CD34 TdT CD10
Cellule staminali Cellule linfoidi Linfociti pre-B, B attivati
Linfociti T
CD1 CD3/TCR CD2 CD5 CD4 CD7
Timociti, cellule di Langerhans Linfociti T Linfociti T e NK Linfociti T, sottopopolazioni B Linfociti T, monociti, eosinofili Linfociti T, leucemia mieloide acuta (LMA)1 Linfociti NK, neutrofili Linfociti NK, plasmacellule Linfociti T citotossici
CD16 CD56 CD57 Linfociti B
Leucemie acute Disordini linfoproliferativi o immunoproliferativi Malattia residua dopo chemioterapia o trapianto di CSE Determinazione del contenuto di DNA Diagnosi di emoglobinuria parossistica notturna (EPN) Diagnosi di LAD (Leucocyte Adhesion Deficiency) Diagnosi di piastrinopatia di Bernard-Soulier e di Glanzman
CSE = cellule staminali emopoietiche.
Ig CD19 CD20 CD21 CD22 CD23
Tabella 43.15 - Applicazioni più comuni della citofluorimetria. • • • • • • •
LINEE CELLULARI
Granulociti/ monociti
CD11c CD13 CD14 CD15 CD33
Eritroidi
Alcuni casi.
Granulociti, DLP Granulociti, monociti, LMA Monociti, LMA, leucemia linfoide acuta (LLA)1 Granulociti, monociti, LMA Granulociti, monociti, LMA
Glicoforina Cellule eritroidi, LMA (M6)
Megacariociti CD41a CD61 1
Linfociti B, plasmacellule (intracitoplasmatiche) Linfociti B, LMA1 Linfociti B, disordini linfoproliferativi (DLP) Linfociti B, DLP Linfociti B, DLP Linfociti B, DLP
Megacariociti, LMA (M7) Megacariociti
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Citogenetica Per lo studio del cariotipo le cellule, midollari o ematiche, vengono messe in coltura per 24-72 ore con l’aggiunta di un farmaco antimetabolita allo scopo di bloccare brevemente la divisione cellulare, sincronizzare le fasi del ciclo cellulare e permettere un allungamento dei cromosomi. Al termine dell’incubazione viene aggiunta della colchicina che arresta le cellule in metafase. Dopo trattamento con soluzioni ipotoniche per rompere la membrana cellulare, e con fissativi, le cellule vengono lasciate cadere su un vetrino, colorate, guardate al microscopio e fotografate per essere poi sviluppate e stampate. Dalle fotografie vengono poi ritagliate le coppie di cromosomi per la composizione del cariotipo. Recentemente, computer programmati per l’analisi delle immagini e collegati al microscopio ottico permettono di elaborare molto rapidamente e fotografare la mappa cromosomica. Questa permette di identificare le numerose anomalie cromosomiche illustrate in tabella 43.17. Per quanto riguarda le alterazioni specifiche si vedano i capitoli sulle leucemie acute e croniche e sugli altri disordini neoplastici del sangue. Negli ultimi anni tecniche più sofisticate possono individuare anomalie cromosomiche direttamente sulle metafasi: la FISH, o Fluorescence in Situ Hybridization, che può essere eseguita su strisci di sangue periferico o midollare o su preparati istologici. Un nucleotide o sonda sintetica copia di una sequenza nucleotidica nota, legata a una sostanza fluorescente, viene fatta reagire con le metafasi esaminate. La presenza della fluo-
rescenza segnala la presenza della sequenza ricercata, che può essere una sequenza normale o patologica, per esempio il sito di una traslocazione o quello derivato da un’inversione o da una delezione. Come verrà precisato nei capitoli successivi la citogenetica ha un ruolo fondamentale nella classificazione, diagnosi e prognosi delle leucemie acute e nella ricerca della malattia minima residua dopo chemioterapia o trapianto di cellule staminali emopoietiche.
Analisi molecolare Uno degli obiettivi della biologia molecolare è l’identificazione, lo studio e il clonaggio di un gene dal suo DNA o dal suo mRNA. Applicazioni più recenti includono la manipolazione del genoma tramite la modificazione o l’inserimento di geni, la marcatura e la terapia genica. La diagnostica molecolare si avvale oggi di diverse tecniche di laboratorio, ma il progresso odierno non sarebbe stato raggiunto senza due ausili fondamentali: gli enzimi di restrizione e la Taq polimerasi che è alla base della Polymerase Chain Reaction o PCR. I primi sono delle endonucleasi che agiscono su siti specifici del DNA dividendolo in frammenti più piccoli e più maneggevoli per l’analisi molecolare. Il secondo è un enzima che agisce ad alte temperature e permette di amplificare il DNA da analizzare diverse migliaia di volte partendo da pochi microgrammi. Il DNA viene estratto con tecniche particolari dai leucociti di sangue periferico perché di facile accesso. Le tecniche di analisi molecolare comprendono:
Tabella 43.17 - Terminologia in citogenetica. TERMINE/SIMBOLO Add Aneuploidia Aploidia Breakpoint, punti di rottura Costituzionale Centromero Delezione Inversione Iper/ipodiploide Isocromosoma Marcatore Braccio corto/braccio lungo p+/-, q+/Parentesi quadre Parentesi tonde Cromosoma ad anello Terminale Traslocazione Trisomia/monosomia Banda Punto Punto e virgola Punto interrogativo Virgola
SIGNIFICATO Materiale in più di origine ignota Anomalia del numero dei cromosomi 23 cromosomi Sito di riarrangiamento strutturale per delezione o traslocazione Presente in tutte le cellule dell’organismo — Perdita di materiale Rotazione di un segmento di cromosoma Numero di cromosomi ≥ 47, ≤ 45 Fusione di 2 bracci uguali dello stesso cromosoma Cromosoma anomalo non identificabile — Acquisto o perdita di materiale nei rispettivi bracci Contiene il numero delle cellule esaminate Contiene i cromosomi e i breakpoint — Anomalia alla fine del cromosoma Scambio di materiale tra 2 cromosomi Acquisto/perdita di un cromosoma Bande chiare e scure che caratterizzano ciascun cromosoma Separa le bande Separa i cromosomi e breakpoint tra più cromosomi Cromosoma o banda di incerta attribuzione Separa i numeri dei cromosomi, i cromosomi X e Y e le anomalie
* Esempio: t(9;22)(q34;q11)[25]: cromosoma Philadelphia in 25 metafasi analizzate.
ABBREVIAZIONE
c cen del inv +/– seguito dal n. (+ 8; – 7) i (per es.: i17q) +mar p/q (per es.: 14q+; 5q–) [ ]* ( )* r (ring) ter t (per es.: + 8; – 7) .* ;* ? ,*
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• il Southern blotting dal nome del suo inventore. Il DNA viene digerito con un pannello di enzimi di restrizione, di cui è nota la sequenza di restrizione (generalmente 6 coppie di basi). I frammenti vengono separati tramite elettroforesi su agar gel e trasferiti per filtrazione (“blotted”) su una membrana di nylon o nitrocellulosa. Delle sonde di cDNA a sequenza nota (radioattive o fluorescenti per permetterne l’identificazione) vengono incubate con la striscia di agar gel e si legano alle sequenze complementari (ibridizzazione). Usando più enzimi di restrizione è possibile costruire la mappa di un gene o di un segmento di DNA. I vari segmenti di DNA che si ottengono dall’azione di tali enzimi possono variare fisiologicamente grazie al normale polimorfismo delle parti non trascritte del DNA, oppure in relazione a vicinanza di geni alterati (per esempio nelle emoglobinopatie). Tale fenomeno viene detto Restriction Fragment Length Polymorphism (RFLP). Questo tipo di analisi viene anche detta linkage analysis, in quanto lega la lunghezza del frammento alle mutazioni polimorfiche del DNA. Talvolta il sito di restrizione coincide con la sequenza anomala del gene strutturale alterato: in questi casi si genera un frammento anomalo che è caratteristico solo dell’alterazione in esame; • il Northern blotting è una variante del Southern ma applicato al mRNA (Northern non dal nome dell’autore, bensì dalla complementarità DNA-RNA e SudNord). Il mRNA viene estratto e trattato con metodiche analoghe a quella precedente (il Western blotting usa procedimenti analoghi ma applicati allo studio di materiale proteico non identificabile con i metodi ordinari di laboratorio); • Polymerase Chain Reaction (PCR). Come dice il nome stesso è una reazione a catena polimerasi-indotta che permette di amplificare qualunque frammento di DNA, da 50 a 2000 bp (base pair), in poche ore fino e oltre un milione di volte la quantità originale. Si basa sulla ripetizione (per un numero qualsivoglia di volte) di cicli di replicazione del DNA per effetto dell’enzima. Il doppio filamento di DNA (dsDNA, double stranded) viene suddiviso nei due filamenti singoli (ssDNA, single stranded) e ciascuno di questo ibridizzato con oligonucleotidi specifici per l’estremo 5’ di uno e quello 3’ dell’altro frammento. A questo punto l’enzima costruisce il DNA del nucleotide sintetico e quello dell’altro filamento che costituisce il DNA originario che funziona da stampo (“template”): da due filamenti complementari se ne hanno ora 4 (primo ciclo). Il nuovo DNA sintetizzato funge da stampo per nuovo DNA in modo esponenziale: dai due filamenti originali se ne ottengono 4 nel primo ciclo, 8 nel secondo, 16 nel terzo e così via fino a diversi milioni di copie (2n per n cicli) in poche ore. Una variante della PCR è rappresentata dalla RT-PCR, reverse transcriptase-PCR, in cui si parte dal mRNA per la produzione di cDNA tramite l’azione della trascrittasi inversa. Le applicazioni in campo ematologico riguardano la ricerca di mutazioni nelle malattie congenite, partico-
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larmente quelle dei globuli rossi, la ricerca di riarrangiamenti genici prodotti da anomalie cromosomiche a scopi diagnostici o per il follow-up della malattia minima residua dopo chemioterapia o trapianto di cellule staminali emopoietiche, la tipizzazione HLA per la scelta di un donatore compatibile per il trapianto, la ricerca della clonalità nei disordini linfoproliferativi, tramite l’analisi del riarrangiamento dei geni delle immunoglobuline e del TCR (“T Cell Receptor”).
Metodi radioisotopici Questi permettevano lo studio della cinetica e della sopravvivenza dei globuli rossi, delle piastrine e dei globuli bianchi, del metabolismo del ferro e della eritropoiesi, della massa eritrocitaria totale, del volume plasmatico e del metabolismo della vitamina B12 per la diagnosi di anemia perniciosa (test di Schilling). Gli unici test diagnostici che hanno conservato una sicura utilità sono la misura del volume ematico totale (eritrocitario e plasmatico) e il test di Schilling. Meno frequentemente si fa ancora ricorso alla sopravvivenza eritrocitaria nei casi di anemia da emolisi cronica di dubbio significato. Negli altri casi una migliore conoscenza della fisiopatologia e l’avvento di tecniche di immagine più sofisticate hanno reso tali metodiche pressoché obsolete. La misura della massa eritrocitaria si basa sull’infusione di una quantità nota di sostanza radioattiva contenuta in un piccolo volume di emazie del paziente marcate con l’isotopo 51Cr (che si lega prevalentemente alle catene dell’HbA) e la misurazione della stessa in campioni di sangue prelevati a intervalli regolari dopo l’infusione. La misura dell’attività residua nei campioni è inversamente proporzionale alla diluizione e quindi alla massa eritrocitaria. Il volume plasmatico si misura secondo gli stessi principi iniettando una piccola quantità di un colloide (generalmente albumina umana) legato a un radioisotopo (125I). Per il test di Schilling si veda il capitolo sulle anemie.
IL PAZIENTE EMATOLOGICO Spesso sono segni fisici evidenti a portare il paziente dall’ematologo, per esempio un’adenomegalia o la comparsa di sintomi emorragici; altre volte sono parametri di laboratorio alterati, come un picco monoclonale o una stato di anemia. Talvolta, come nell’ultimo caso, o nei casi di piastrinopenia o di leucopenia, il paziente è del tutto asintomatico ed è necessario orientarsi nel processo diagnostico. Questo è completo solo se l’interpretazione dei dati di laboratorio è integrata con un’anamnesi e un esame obiettivo accurati. A. Anamnesi. Il paziente può presentarsi per sintomi direttamente legati ad alterazioni ematologiche, come anemia, leucopenia, piastrinopenia, difetti della coagulazione. Molto spesso, tuttavia, alcune malattie ema-
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43 - INTRODUZIONE ALL’EMATOLOGIA
Tabella 43.18 - Alterazioni ematologiche più comuni e sintomi associati. CAUSA
SINTOMI PIÙ COMUNI
Anemia
Affaticamento, astenia, dispnea, palpitazioni, cefalea, vertigini, lipotimie, tinnitus Leucopenia Infezioni gravi o ricorrenti Trombocitopenia Emorragie, petecchie, ecchimosi anche dopo lievi traumi o spontanee Difetti coagulativi Emorragie sproporzionate in seguito a trauma o intervento chirurgico, ematomi, emartri Sindromi trombofiliche Trombosi venose e arteriose Neoplasie ematologiche Alterazioni dell’emocromo; organomegalie; dolori ossei, sintomi neurologici, ortopedici
tologiche possono associarsi a sintomi sistemici che costringono il paziente a ricorrere a specialisti diversi. Nella tabella 43.18 sono illustrati i sintomi o gruppi di sintomi fondamentali dei pazienti ematologici. 1. Anemia. I sintomi illustrati in tabella 43.18 non dipendono solo dal grado di anemia, cioè dal livello di Hb, ma anche dalla velocità di insorgenza dello stato anemico. In pazienti cardiopatici l’anemia può provocare angina o mettere a nudo una cardiopatia allo stato latente. I pazienti con anemia, soprattutto sideropenica, costituiscono una buona parte dei pazienti ematologici ambulatoriali. Informazioni sul ciclo mestruale, le abitudini alimentari (dettate talvolta da appartenenza a credi particolari), la presenza di sintomi gastroenterici, l’alvo, il colore delle feci e delle urine possono rivelare fattori predisponenti, come perdite ematiche manifeste od occulte. L’origine etnico-geografica del paziente può indirizzare verso una diagnosi di anemia ereditaria, come talassemia, falcemia, favismo. 2. Leucopenia. La causa più frequente di leucopenia è una neutropenia, che può essere isolata o accompagnare malattie più gravi quali mielodisplasia, leucemia, anemia aplastica, infiltrazione midollare da neoplasie ematologiche o da tumori solidi. Il paziente può presentarsi con infezioni ricorrenti o un singolo episodio infettivo grave, come polmonite, meningite. Neutropenie di natura più lieve, come la neutropenia ciclica, forme autoimmuni, danno origine a episodi infettivi generalmente meno gravi ma spesso ricorrenti. Infine è da rilevare la pseudoneutropenia dei soggetti di origine africana, in cui anche valori di 1 × 109/l, sono normali. Essa è dovuta a una riduzione della quota di neutrofili circolante rispetto a quella marginata. 3. Trombocitopenia. Un numero di piastrine al di sopra di 100 × 109/l non dà luogo a emorragie spontanee o provocate da traumi. Con valori compresi tra 50 e 100 × 109/l possono comparire emorragie post traumatiche o perioperatorie. Valori inferiori a 50 × 109/l predispongono a emorragie spontanee superficiali cutanee e mucose, come epistassi, gengivorragie, metromenorragie e sanguinamento eccessivo in seguito a trauma o
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intervento chirurgico. Con piastrine ≤ 20 × 109/l le emorragie spontanee sono la regola e minimi traumi possono provocare ematomi ed emorragie profonde. Circa il 5% di pazienti con valori < 10 × 109/l possono andare incontro a emorragie gravi, come emorragie cerebrali e gastroenteriche, spesso fatali. Nelle forme autoimmuni la soglia di rischio è generalmente più alta, trattandosi di piastrine più grandi (come rilevato da un volume piastrinico o MPV generalmente aumentato) e più ricche in granuli, ovvero in fattori procoagulanti. 4. Poliglobulia, leucocitosi, trombocitosi se causate da condizioni neoplastiche (policitemia vera, leucemia mieloide cronica, trombocitemia essenziale, leucemie acute) possono provocare disturbi trombotico-emorragici sia a causa di alterazioni funzionali piastriniche sia per un aumento della viscosità ematica. Disturbi da eccesso di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine non sono causati solo da condizioni ematologiche primarie come quelle citate, bensì anche da malattie sistemiche acute e croniche non neoplastiche: cardiopatie e pneumopatie croniche (poliglobulie secondarie), malattie infettive, malattie infiammatorie croniche e neoplasie solide (leucocitosi e trombocitosi). L’anamnesi dovrà quindi guidare l’ematologo anche nella ricerca di eventuali condizioni non ematologiche responsabili dei sintomi e delle alterazioni ematochimiche in atto. Tra i sintomi sistemici il prurito è caratteristico dei disordini mieloproliferativi, in particolare policitemia e mielofibrosi. 5. Disordini linfoproliferativi acuti e cronici, mielomi, spesso si presentano con disturbi neurologici, ortopedici e dolori ossei causati da localizzazioni meningee, del sistema nervoso centrale e ossee. Frequentemente il paziente viene sottoposto a una lunga serie di visite ed esami ortopedici e neurologici prima di giungere all’ematologo. Ciò porta inevitabilmente a notevoli ritardi nella diagnosi e a progressione di malattia soprattutto nei casi di mieloma, con importanti conseguenze sull’efficacia della terapia se eseguita a uno stadio più avanzato di malattia. 6. L’anamnesi familiare è essenziale nei casi di anemie e disturbi emorragici o trombofilici. Alcune malattie ematologiche ereditarie sono riportate in tabella 43.19. Le più comuni sono sicuramente quelle dei globuli rossi e le sindromi trombofiliche. Non è da trascurare un’anamnesi familiare neoplastica, che per ora ha solo un valore epidemiologico. Nel caso di neoplasie ematologiche, in particolare leucemie acute, linfomi e mielomi, è bene conoscere fin dall’inizio se il paziente ha fratelli o sorelle, per un’eventuale terapia trapiantologica. È utile la conoscenza della professione ed eventuali fattori di rischio neoplastico (per es., uso di solventi, pregresse esposizioni a radiazioni ionizzanti), del contesto sociale e religioso del paziente, in cui rientrano il consumo di alcool e di sigarette e le abitudini alimentari: ipovitaminosi marcata può derivare da una dieta vegetariana priva di qualunque cibo di origine animale, tra cui uova, latte e derivati (Vega). È superfluo, infine, sottolineare l’importanza dell’anamnesi farmacologica e del ruolo dei farmaci sull’attività delle cellu-
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tabella 43.19 - Alcuni comuni disordini ematologici ereditari. GLOBULI ROSSI Membrana eritrocitaria Emoglobina Metabolismo
Sferocitosi ed ellissocitosi ereditarie Talassemie, sindromi falcemiche, altre emoglobinopatie Carenza di G6PDH e PK
COAGULAZIONE E PIASTRINE Sindromi emofiliche Altri difetti coagulativi Sindromi trombofiliche Piastrinopenie/-patie
Emofilia A (FVIII), emofilia B (FIX), malattia di von Willebrand FVII, FXII, FV, FII Carenza di PC, PS, ATIII, resistenza alla PC attivata; carenza di t-PA; disfibrinogenemia Sindrome di Bernard-Soulier e di Glanzman, anomalia di May-Hegglin, difetti congeniti dei granuli
GLOBULI BIANCHI (MOLTO RARI) Difetti del burst respiratorio
Adesione e chemiotassi
Malattia granulomatosa cronica, deficienza di MPO, G6PDH, difetti del metabolismo del glutatione LAD (Leucocyte Adhesion Deficiency, carenza di CD11/CD18)
DIFETTI LISOSOMIALI
stando dietro al paziente seduto; quelle ascellari col paziente supino e sostenendo il peso del braccio dello stesso lato; i linfonodi inguinali vanno esaminati durante l’esame dell’addome. Un addome globoso in un paziente con adenomegalie o con una diagnosi di disordine linfoproliferativo può indicare presenza di splenomegalia e ingrandimento di linfonodi profondi intraddominali. Le cause di adenomegalia sono molteplici e sono illustrate in tabella 43.21. La presenza di infezioni locali, sia cutanee che degli organi profondi, va accuratamente vagliata soprattutto in zone suscettibili a infezioni. Nel caso di adenomegalie cervicali vanno considerate infezioni locali come otiti, faringiti, angine tonsillari, carie. Le stazioni ascellari e inguinali possono ingrandirsi in seguito a ferite o infezioni agli arti superiori e inferiori. Oltre alla grandezza e all’estensione è importante la consistenza, che sarà morbida nelle infezioni, lignea nelle metastasi tumorali, di consistenza intermedia, gommosa o duro-elastica, nei disordini linfoproliferativi. Il dolore alla palpazione è caratteristico di linfonodi che si sono ingranditi rapidamente, soprattutto nelle infezioni. La tendenza alla confluenza e le diTabella 43.20 - Alcuni segni clinici in ematologia. VISO Pallore Giallo citrino Ittero Pletora
Qualunque tipo di anemia Anemia megaloblastica Anemia emolitica Poliglobulia, policitemia
Malattia di Chediak-Higashi CAVO ORALE G6PDH = glucosio-6-fosfato deidrogenasi; PC = proteina C; PK = piruvato chinasi; PS = proteina S; MPO = mieloperossidasi; t-PA = attivatore del plasminogeno tissutale.
Ulcere Glossite Stomatite angolare Candida (mughetto)
le emopoietiche come causa di anemie emolitiche, anemie aplastiche, trombocitopenie e leucopenie. Tra i farmaci vanno considerate pregresse chemioterapie e radioterapie, per il noto effetto leucemogeno.
CUTE Pallore e ittero Porpore Ulcere trofiche
ESAME DEL PAZIENTE L’osservazione del paziente durante l’anamnesi può evidenziare certe caratteristiche che possono già dare un orientamento diagnostico: il pallore intenso, le sclere bluastre e le alterazioni ungueali dell’anemia sideropenica; la tinta giallo-limone dell’anemia megaloblastica; l’aspetto pletorico del policitemico; l’ittero della anemia emolitica. Alcuni segni clinici della cute e delle mucose sono riportati in tabella 43.20. Di particolare interesse per l’ematologo è, naturalmente, l’esame dell’apparato linfatico e della milza. Le stazioni linfonodali più comunemente coinvolte sono quelle del collo (nucali, latero-cervicali, sottomandibolari, sopraclaveari), quelle ascellari e quelle inguinali. Le stazioni cervicali vengono generalmente esaminate
Neutropenia Anemia megaloblastica Anemia sideropenica Anemia sideropenica Paziente immunodepresso
Prurito
Si veda sopra Trombocitopenia Malattie autoimmuni (vasculiti) Disordini mieloproliferativi Anemie emolitiche ereditarie Policitemia, mielofibrosi
Tabella 43.21 - Cause comuni di adenomegalia. • Localizzata – Infezioni batteriche circoscritte – Disordini linfoproliferativi – Metastasi • Sistemica – Infezioni Virali (mononucleosi, citomegalovirus, HIV) Toxoplasma Batteriche (per es. tubercolosi) – Disordini linfoproliferativi – Leucemie acute – Malattie autoimmuni – Neoplasie disseminate
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43 - INTRODUZIONE ALL’EMATOLOGIA
mensioni dei linfonodi vanno annotate soprattutto per seguirne il decorso anche in previsione di terapie specifiche. Un linfonodo inguinale dovrà essere differenziato da un’ernia femorale irriducibile. All’esame della milza, se non eseguito correttamente, può sfuggire un ingrandimento dell’organo. L’ispezione dell’addome può rivelare un polo inferiore sporgente sul piano della cute nella regione paraombelicale nei casi di marcata splenomegalia. La palpazione eseguita direttamente a livello dell’ipocondrio sinistro può risultare negativa se il polo splenico inferiore è al di sotto dell’area ispezionata, come nel caso di splenomegalia marcata. La palpazione (eseguita sempre alla destra del paziente) va quindi iniziata nei quadranti bassi, a partire dalla fossa iliaca sinistra, per salire gradualmente. La mano va tenuta piatta sull’addome e la punta del secondo e del terzo dito della mano destra affondano nell’addome mentre si chiede al paziente di eseguire un’inspirazione profonda. Talvolta ruotare il paziente leggermente sul lato destro può aiutare a individuare il polo inferiore splenico. Una volta individuato l’organo bisognerà apprezzarne la dolorabilità, le dimensioni in centimetri dall’arcata costale a partire dalla 10a costa, la consistenza. Un organo dolente può essere segno di un infarto splenico recente; una consistenza morbida è in genere associata a un ingrandimento recente, come infezioni virali o leucemie acute; una consistenza dura è in genere dovuta a mielofibrosi e a leucemia a cellule capellute (Hairy Cell Leukaemia); una consistenza intermedia è propria dei disordini linfoproliferativi cronici, come linfomi e leucemia linfatica cronica. La diagnosi differenziale con una massa renale si basa sulle
Tabella 43.22 - Cause più comuni di splenomegalia. INGRANDIMENTO
CAUSE
Modesto (< 6 cm1)
Disordini mieloproliferativi Disordini linfoproliferativi Infezioni Anemie emolitiche Connettivopatie Ipertensione portale
Marcato (≥ 8 cm1)
Mielofibrosi Leucemia mieloide cronica Policitemia vera Linfoma, Hairy Cell Leukaemia Leucemia prolinfocitica Malaria, leishmania
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Sotto l’arcata costale a partire dalla 10a costa di sinistra.
seguenti caratteristiche semeiologiche: la sua forma caratteristica con l’incisura mediale, l’assenza di un polo superiore palpabile, il movimento con gli atti respiratori, non è ballottabile. Le cause più comuni di splenomegalia sono riportate in tabella 43.22. In sintesi: 1) nella diagnosi delle malattie ematologiche l’anamnesi e l’esame obiettivo sono un complemento essenziale degli esami ematochimici; 2) anomalie della crasi ematica, quali anemie, leucopenie e trombocitopenie sono accompagnate da sintomi prevedibili; 3) anormalità degli indici ematologici possono essere causati da malattie sistemiche, ereditarie e da farmaci.
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C A P I T O L O
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ANEMIE F. PELLÒ, C. CAMASCHELLA, G. GROMO, M. STORTI
GENERALITÀ (*) L’anemia è definita dalla diminuzione del patrimonio emoglobinico totale dell’organismo; poiché l’emoglobina è contenuta nelle emazie, si ha anemia quando è diminuita la massa eritrocitaria. In condizioni fisiologiche si ammette che la distribuzione delle emazie nell’organismo sia omogenea per cui la stima, nell’unità di volume di sangue periferico, della concentrazione di emoglobina (g/dl) e della quota del volume ematico occupato dagli eritrociti (valore ematocrito o Hct) dà valori ben correlati all’entità della massa eritrocitaria. Invece non è significativo in questo senso il numero dei globuli rossi che, in alcune forme di anemia, come per esempio la talassemia minor, possono presentare numero normale o anche aumentato con contenuto corpuscolare medio di emoglobina ridotto e quindi con diminuzione della concentrazione di emoglobina nell’unità di volume di sangue; queste emazie hanno costantemente anche volume corpuscolare medio ridotto, da cui una riduzione del valore ematocrito. Tenendo presente il concetto di massa totale eritrocitaria riuscirà più facile la comprensione di alcune situazioni di anemia o di poliglobulia solo apparenti.
Classificazione La massa eritrocitaria normale nell’uomo corrisponde ad un volume di 30 ± 5 ml/kg, gli eritrociti hanno una vita media di circa 120 giorni, per cui si è calcolato che circa lo 0,8% della massa eritrocitaria deve essere sostituita giornalmente ad opera del midollo osseo. La massa eritrocitaria (M) è proporzionale alla quantità di emoglobi° ) per la vita media dei globuna prodotta giornalmente (H ° × T; si ha anemia li rossi in giorni (T); la formula è M = H quando M è inferiore alla norma. (*) F. Pellò.
La formula permette una classificazione patogenetica ° o di T o di entrambi i delle anemie, per riduzione di H termini; all’interno di ciascun gruppo i meccanismi responsabili possono essere diversi. • Anemie per diminuita produzione di emoglobina: – da distruzione o alterazione funzionale delle cellule staminali, da cui insufficiente produzione di globuli rossi; – da distruzione dei precursori nel midollo con eritropoiesi inefficace; – da difettosa sintesi della globina o dell’eme. • Anemie per riduzione del tempo di sopravvivenza dei globuli rossi: – da perdita secondaria ad emorragie acute o croniche; – da distruzione ad opera di un meccanismo emolitico. Le due situazioni possono coesistere e la massa eritrocitaria può ridursi per il sommarsi dei due meccani° che di T). smi patologici (riduzione sia di H In genere l’insufficiente produzione di globuli rossi e l’eritropoiesi inefficace sono caratterizzate da un basso numero di eritrociti giovani (reticolociti) nel sangue periferico; al contrario, le anemie postemorragiche e quelle emolitiche dimostrano nel sangue periferico segni di iperattività midollare, con incremento del numero dei reticolociti, presenza di emazie con policromasia o punteggiatura basofila o addirittura con la comparsa di qualche eritroblasto. Altre alterazioni sono pure caratteristiche delle anemie emolitiche, come l’aumento della lattico-deidrogenasi (LDH) del siero, derivato dalla lisi delle emazie, l’iperbilirubinemia indiretta e l’urobilinuria (Cap. 26), e la diminuzione della concentrazione di aptoglobina. Tuttavia, l’aumento della LDH del siero è presente pure nell’eritropoiesi inefficace, che può anche determinare un certo aumento della bilirubinemia (iperbilirubinemia da shunt).
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È molto importante tenere presente questa classificazione patogenetica per risalire dall’anemia alla diagnosi della malattia che ne è all’origine: infatti l’anemia è in alcuni casi un elemento di evenienza secondaria e non obbligatoria nel corso di una forma morbosa a dignità nosografica ben definita, in altri invece essa costituisce il rilievo clinico più importante della malattia, che da essa prende il nome (per es., anemia megaloblastica, anemia aplastica, ecc.). Bisogna però tener presente che il primo approccio alla situazione anemica è fornito dall’esame emocromocitometrico, con i valori di emoglobina, numero di globuli rossi ed ematocrito, dai quali si calcolano le costanti corpuscolari, e dall’esame dello striscio del sangue periferico che dà informazioni significative sulla forma dei globuli rossi e sulla loro affinità tintoriale. In base ai valori di volume corpuscolare medio (MCV), contenuto corpuscolare medio di emoglobina (MCH) e intensità di colorazione si costruisce la seguente classificazione cosiddetta “morfologica” delle anemie. • Anemia ipocromica microcitica (MCV < 80 fl; MCH < 27 pg, emazie ipocolorate). • Anemia normocromica normocitica (MCV da 80 a 94 fl; MCH 29,5 ± 2,5 pg). • Anemia macrocitica (MCV > 94 fl; MCH > 32 pg). Non vi è una correlazione precisa tra meccanismo patogenetico dell’anemia e tipo morfologico, però per ciascuno di questi gruppi vi sono delle frequenze obbligate e delle frequenze preferenziali. • Anemia ipocromica microcitica: – anemia sideropenica; – anemia sideroblastica; – talassemie, alcune emoglobinopatie; – rari casi di carenza di rame, di piridossina. • Anemia normocitica: – anemie emolitiche acquisite; – sferocitosi ereditaria; – emoglobinuria parossistica notturna; – alcune emoglobinopatie; – anemia aplastica; – anemia da mielosostituzione; – anemia delle malattie croniche. • Anemia macrocitica: – anemia da deficit di vitamina B12 o di acido folico (anemia megaloblastica); – anemia delle epatopatie croniche; – anemia dell’ipotiroidismo; – alcuni casi di anemia aplastica; alcune fasi in corso di anemia emolitica. Da questa classificazione, in un certo senso “semeiotica”, deve partire il ragionamento diagnostico che, con l’aiuto di ulteriori esami indicati caso per caso, permetterà di stabilire il meccanismo patogenetico dell’anemia e di risalire alla causa determinante.
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Fisiopatologia Il globulo rosso, con il suo contenuto di emoglobina, è un anello essenziale nella catena di trasporto dell’ossigeno; questo dipende sia dall’integrità della molecola di emoglobina che dalla sua funzione, che può essere modificata dall’interazione con altri composti contenuti nell’emazia. In questa modulazione della funzione emoglobinica è principalmente coinvolto il 2,3-difosfoglicerato (2,3-DPG), la cui concentrazione è regolata dall’attività glicolitica dell’emazia; esso stabilizza la conformazione deoxy dell’emoglobina e riduce l’affinità per l’ossigeno: 2,3-DPG ed ossigeno sono leganti competitivi per l’emoglobina. In realtà l’effetto del 2,3-DPG è praticamente nullo alle alte pressioni parziali di ossigeno, così che non interferisce con l’assunzione di ossigeno da parte dell’emoglobina nei polmoni, mentre è significativo alle basse pressioni parziali di ossigeno, in modo che ne viene favorita la cessione ai tessuti. Un’alterazione del trasporto di ossigeno da parte dell’emazia può quindi derivare da: • riduzione della massa globulare (anemia classica); • abnorme funzione dell’emoglobina per anomalie strutturali; • concentrazione inappropriata di 2,3-DPG. L’ipossia tissutale induce una serie di modificazioni compensatorie mediante risposte di adattamento volte ad aumentare la circolazione del sangue e l’estrazione di ossigeno dall’Hb arteriosa, a livello soprattutto degli organi vitali (cervello, cuore, rene, fegato e ghiandole surrenali). Questo si verifica per: • aumento della ventilazione alveolare; • aumento della portata cardiaca; • ridistribuzione del sangue da organi non vitali (cute, tratto gastroenterico ed estremità) ad organi vitali; • diminuzione dell’affinità dell’emazia per l’ossigeno, mediante diminuzione del pH cellulare ed aumento del 2,3-DPG; • stimolazione dell’eritropoiesi (per quanto possibile). La velocità con cui insorge l’anemia è molto importante ai fini dell’entrata in funzione di questi meccanismi di adattamento; infatti un’anemia a lenta progressione permette che essi si instaurino gradualmente e raggiungano la loro massima efficacia: è infatti noto come l’anemia cronica consenta una vita relativamente normale, per lo meno a riposo, anche per valori di emoglobina notevolmente ridotti. In presenza di lieve anemia entra in azione piuttosto lentamente (circa in 10 ore) il 2,3-DPG, che riducendo, come si è visto, l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno ne permette una aumentata disponibilità per i tessuti: è questo un meccanismo di compenso “biochimico” che richiede un certo tempo per la sua realizzazione. Nell’anemia grave entra in gioco un meccanismo dinamico costituito dall’aumento della portata cardiaca: all’inizio esso è dovuto prevalentemente ad un aumento della gettata sistolica, con buon rendimento energetico; quando l’anemia è molto grave aumenta considerevol-
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44 - ANEMIE
mente la frequenza cardiaca, con basso rapporto efficienza/lavoro. Il livello di emoglobina in cui l’anemia diviene funzionalmente limitante e il grado di compromissione sono inversamente proporzionali al grado di massimo adattamento e direttamente proporzionali all’intensità dell’attività fisica e conseguentemente, poiché il lavoro fisico è principalmente aerobico, alle richieste di ossigeno.
Sintomatologia Ogni tipo di anemia ha caratteristiche peculiari e di questo verrà detto nei rispettivi paragrafi; la sintomatologia generale, secondaria all’ipossia e all’esaltata funzione di compenso cardiorespiratorio, è comune a tutte le forme di anemia e viene qui brevemente esposta. Il sintomo più comune riferito dal paziente, che è il solo presente nella maggioranza dei casi, è l’astenia, soprattutto sotto sforzo. In casi particolari possono sopravvenire disturbi da diminuita ossigenazione di vari distretti corporei (per lo più quando la loro irrorazione è già compromessa per lesioni aterosclerotiche) e si possono avere claudicatio intermittens, crampi notturni, vertigini, cefalea, episodi di sincope, dolore precordiale di tipo anginoso. Il segno più tipico dell’ipossia tissutale è il pallore cutaneo e mucoso che va esplorato in determinate sedi quali il palmo della mano, il padiglione auricolare, la mucosa dell’interno delle labbra, la congiuntiva palpebrale; in presenza di anemia emolitica il pallore è accompagnato da subittero. La cute può talora essere piuttosto succulenta per la tendenza all’edema ai malleoli e alle parti declivi, espressione di iniziale scompenso di circolo; i capelli sono opachi e fragili; nelle anemie croniche le unghie possono avere forma a vetrino di orologio; si nota uno stato di scarsa ripienezza dei grossi tronchi venosi superficiali. L’esaltata funzione di compenso cardiorespiratorio ha come sintomi iniziali la dispnea da sforzo e le palpitazioni; l’esame obiettivo rileva polso molle e frequente, ipotensione arteriosa, tachicardia, soffi funzionali a livello cardiaco e dei grossi vasi del collo, secondari all’aumentata velocità di circolo e alla ridotta viscosità del sangue. Con l’aggravarsi dell’anemia si arriva ad una situazione di scompenso di circolo ad alta gettata, con ortopnea e dispnea a riposo, cardiomegalia, edemi importanti, talvolta ascite. Le alterazioni elettrocardiografiche non sono patognomoniche; possono riscontrarsi segni aspecifici di ischemia diffusa. Un altro meccanismo di compenso attivo in certe anemie è costituito dall’iperplasia eritroide midollare secondaria alla riduzione emoglobinica, da cui ipossia renale ed aumentata secrezione di eritropoietina. In caso di anemia di particolare gravità e di insorgenza precoce (come per es. nelle anemie emolitiche congenite) l’espansione eritropoietica invade gli spazi midollari disponibili, può anche fuoriuscire dalla cavità midollare ed è causa di modificazioni patologiche ossee ed extraossee.
Infine, nell’anemia si riscontra talvolta una diminuita resistenza alle infezioni, forse per un’alterata risposta immunitaria cellulo-mediata. In conclusione, va sottolineato che la probabilità di comparsa della sintomatologia clinica dovuta ad anemia va considerata in modo dinamico, ossia come rapporto tra richieste di ossigeno e capacità di soddisfarle mediante i meccanismi di compenso. Di conseguenza, tranne che per gradi estremi di riduzione emoglobinica, si ha una grande variabilità individuale del quadro clinico, in dipendenza dalle modificazioni istantanee metaboliche e funzionali. In sostanza, l’attività fisica è il fattore più importante nel determinare il fabbisogno totale di ossigeno, perché essa provoca aumenti significativi nel metabolismo dei muscoli scheletrici e, in minor misura, del miocardio, per cui la sintomatologia può diventare manifesta solo in coincidenza di lavoro fisico particolarmente intenso.
ANEMIA APLASTICA(*) L’anemia aplastica è definita come una pancitopenia del sangue periferico con ipocellularità del midollo osseo, da difetto primitivo o secondario dei progenitori ematopoietici. Come si è visto dallo schema dell’ematopoiesi, le cellule in grado di replicarsi sono le cellule staminali (CFU-L-M e CFU-S), quindi un loro pool adeguato e normalmente funzionante ha significato critico per il mantenimento della normale crasi ematica. Queste cellule in condizioni normali si trovano per lo più in G0 e funzionano da serbatoio di riserva per gli elementi ematici; quando si verifica una situazione che richiede una esaltata ematopoiesi, esse possono essere reclutate in ciclo e procedere verso l’una o l’altra delle due vie (autoreplicazione o differenziazione) insite nella loro potenzialità evolutiva. Una distruzione o un’alterazione delle cellule staminali, conseguente a danni di genesi diversa, ha come conseguenza un progressivo impoverimento del tessuto parenchimale midollare, perché gli elementi a valle delle CFU-S nel processo di differenziazione ematopoietica, via via che si dividono e muoiono, non possono venire rimpiazzati. Si crea quindi una pancitopenia limitata alle serie di derivazione mieloide (eritrociti, granulociti e piastrine), perché i linfociti hanno capacità di replicarsi sino allo stadio di avanzata maturazione e quindi il loro pool è relativamente indipendente dal continuo rifornimento da parte delle cellule staminali. Il termine anemia aplastica coniato dalla letteratura anglosassone ed entrato nell’uso potrebbe essere opportunamente sostituito da quello di “mielosi totale aplastica” secondo la scuola italiana, che meglio definisce l’aplasia a carico delle tre serie midollari; per mielosi parziale aplastica si intende la citopenia a carico di una singola serie (o di due di esse). (*) F. Pellò.
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Tabella 44.1 - Anemia aplastica acquisita. • Idiopatica • Secondaria a farmaci – chemioterapici – agenti con meccanismo dose-dipendente – agenti con meccanismo idiosincrasico • Da agenti chimici e tossine • Da radiazioni • Da infezioni, in particolare da epatite • In rare altre circostanze (gravidanza; timoma)
L’anemia aplastica può venire distinta in acquisita (Tab. 44.1) e costituzionale.
Eziopatogenesi A. Anemia aplastica acquisita. 1. La forma idiopatica è così denominata perché non si è trovato uno specifico agente eziologico responsabile; sarebbe forse più esatto parlare di anemia aplastica ad eziologia sconosciuta. Osservazioni cliniche e sperimentali sono a favore di un meccanismo immunologico responsabile della soppressione dell’ematopoiesi. Dal punto di vista clinico conforta questa ipotesi l’osservazione che una quota notevole di trapianti di midollo tra fratelli singenici attuati per la terapia di una anemia aplastica richiede il precondizionamento del ricevente con una immunosoppressione per evitare il rigetto. Inoltre in questa malattia sono stati ottenuti buoni risultati terapeutici con la globulina antitimocitica e le globuline antilinfociti del dotto toracico (che svolgono un’azione immunodepressiva). Nelle esperienze di cocoltura in cui linfociti di pazienti con anemia aplastica sono mescolati con cellule midollari normali istocompatibili, si osserva l’inibizione dello sviluppo di normali colonie da parte dei precursori ematopoietici normali. Come in molti altri disordini autoimmuni, anche nella cosiddetta anemia aplastica idiopatica vi è, rispetto alla popolazione generale, un eccesso di un particolare antigene di istocompatibilità, l’HLA-DR 15. 2. L’anemia aplastica da farmaci ha meccanismi e modi di insorgenza distinti. • Nel caso di farmaci chemioterapici l’effetto mielosoppressivo è prevedibile ed è dose-dipendente; essi danneggiano le cellule bloccandone la replicazione; hanno azione non selettiva sulle cellule con intensa attività proliferativa, quindi anche sui progenitori e precursori ematopoietici, ed esercitano quindi un’azione tossica sul midollo. • Nel caso di farmaci non citostatici può aversi, in alcuni pazienti, un effetto citopenizzante dose-dipendente, che si verifica durante la somministrazione del farmaco, con ripristino della normale attività midollare alla sospensione. Un’azione di questo tipo si può avere per esempio con il CAF, la difenilidantoina, la cloropromazina, il thiouracile, la metilcillina. Pare che lo svi-
luppo di una soppressione eritroide reversibile sia dovuto a blocco della sintesi dell’eme; morfologicamente nell’anemia aplastica da CAF si ha spiccata vacuolizzazione del citoplasma eritroblastico. • I farmaci non citostatici possono indurre anemia aplastica mediante un altro meccanismo, detto “idiosincrasico” o da reazione di ipersensibilità. L’aplasia, rara ma spesso fatale, si sviluppa settimane o mesi dopo l’inizio della terapia e per essa si sospetta una predisposizione genetica, sostenuta dal riscontro (nel caso del CAF e della difenilidantoina) di un’aumentata incidenza familiare. Lo stesso farmaco può dare aplasia sia dose-correlata sia con meccanismo idiosincrasico; le due modalità non si verificano nello stesso paziente. 3. Composti chimici e tossine. La maggior parte dei composti chimici in grado di provocare anemia aplastica contiene benzolo, presente in parecchi solventi, derivati dal carbone e prodotti del petrolio; anche alcuni insetticidi sono veicolati da solventi a base di petrolio, da cui la possibilità di un duplice effetto lesivo sul midollo. Per il benzolo hanno soprattutto importanza le esposizioni lavorative negli agricoltori, nei lavoratori della pelle (calzolai), negli operai che usano collanti. L’incidenza di rischio ematologico aumenta con l’intensità e la durata dell’esposizione. Una curiosa possibilità, rara in Italia ma frequente in Gran Bretagna e negli USA, è l’anemia aplastica dei “fiutatori di colla” (un’abitudine voluttuaria psicologicamente correlata con le tossicodipendenze). L’emopatia benzolica non si limita però all’aplasia; nella maggior parte dei casi l’azione lesiva a livello delle cellule staminali induce la formazione di precursori eritroidi difettosi, con atipie morfologiche (gigantismo cellulare, polinuclearità), incapaci di giungere a maturazione ed integranti quindi un’eritropoiesi inefficace. L’alterazione qualitativa dei precursori predispone all’insorgenza di leucemia acuta non linfatica. 4. Radiazioni. L’esposizione a dosi massive di radiazioni, per esempio nei sopravvissuti all’esplosione nucleare di Hiroshima e Nagasaki, ha determinato una quota rilevante di casi di anemia aplastica. Incidenti possono verificarsi anche nei lavoratori addetti agli impianti nucleari: una ventina d’anni fa alcuni fisici iugoslavi investiti da notevole irradiazione per un errore nella lavorazione furono sottoposti al primo trapianto di midollo per anemia aplastica; uno dei pazienti morì; negli altri, anche se il midollo non attecchì, durò un tempo sufficiente a consentire al midollo residuo di riprendere a funzionare. I raggi Roentgen usati nella terapia antitumorale possono, per irradiazione estesa e protratta, determinare un danno alle cellule staminali e quindi anemia aplastica. Anche nei radiologi, negli anni dal 1948 al 1961, si è trovata negli USA un’incidenza di anemia aplastica di 20 volte superiore alla popolazione controllo; attualmente, con le moderne attrezzature radiologiche, il rischio è notevolmente ridotto. Il danno indotto dalle radiazioni è a carico della replicazione del DNA, per cui le cellule staminali si dividono “a vuoto”, consumandosi: non si ha quindi un’azione lesiva diretta ma un esaurimento.
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5. L’anemia aplastica è di riscontro occasionale o frequente in alcune infezioni virali (da virus epatitici, da virus di Epstein-Barr, da cytomegalovirus, da parvovirus, da virus dell’herpes zoster e varicella), nella toxoplasmosi, nella brucellosi, raramente nella tubercolosi. Di particolare importanza è l’anemia aplastica postepatitica, più spesso conseguente ad epatite non A-non B, ma anche ad epatite A o B; vi è preferenza per il sesso maschile e per l’età giovanile, sotto i 20 anni. Di solito l’anemia aplastica si riscontra entro 2 mesi dall’inizio dell’epatite, in pochi casi vi è stato un intervallo anche di mesi o anni. 6. Vengono segnalati pochi casi sicuri in cui l’anemia aplastica si è sviluppata in gravidanza ed è regredita dopo il parto; viene ipotizzato uno squilibrio tra l’azione promuovente dell’eritropoietina e l’effetto mielosoppressore degli estrogeni. B. Anemia aplastica costituzionale. Il termine costituzionale indica una malattia congenita o familiare, cioè una predisposizione al deficit midollare; lo sviluppo dell’aplasia può essere innescato da alcuni degli agenti prima ricordati (farmaci, virus, ecc.). L’anemia aplastica costituzionale comprende: • • • •
l’anemia di Fanconi; l’anemia aplastica familiare; la discheratosi congenita; la sindrome di Shwachman-Diamond.
I pazienti con anemia di Fanconi mostrano alla nascita caratteristiche anomalie fisiche, con incidenza diversa a seconda dei casi; esse includono: pollice assente o ipoplastico, aplasia radiale, anomalie renali, ritardo mentale, microftalmia e microcefalia, strabismo, sordità, deficit staturale. Le manifestazioni ematologiche e l’iperpigmentazione compaiono di solito verso i 5-10 anni; l’eredità è autosomica recessiva; nelle famiglie di pazienti con anemia di Fanconi si possono ritrovare anomalie fisiche del tipo descritto, leucemie, tumori, diabete mellito, anche senza aplasia midollare. Il reperto di laboratorio più caratteristico è la rottura di cromosomi ed il loro riarrangiamento osservati in colture di cellule midollari e di linfociti periferici, espressione di un deficit nel ripristino del DNA. Le altre forme elencate sono di riscontro più raro; nella discheratosi congenita si hanno iperpigmentazione reticolare, unghie distrofiche e leucoplachia delle mucose; può associarsi pancitopenia.
Clinica I sintomi sono secondari alla pancitopenia, con anemia, piastrinopenia, granulocitopenia e diminuzione dei monociti. L’entità dei sintomi dipende con buona correlazione dal grado della citopenia; l’anemia aplastica grave è definita da parametri ematomidollari molto compromessi, con grave ipoplasia midollare; piastrine < 20 × 109/l; granulociti < 0,5 × 109/l e reticolociti (con valore corretto per l’ematocrito) < 1%.
Il quadro clinico varia a seconda della rapidità con la quale si manifesta la forma: forme acute, a rapida instaurazione, e forme croniche, a lenta instaurazione. Nelle forme acute prevalgono i sintomi conseguenti alla granulocitopenia (vita media dei granulociti circa 1 giorno) e alla piastrinopenia (vita media delle piastrine circa 9 giorni); l’anemia richiede molto più tempo per instaurarsi, data l’emivita dei globuli rossi di circa 120 giorni. La granulocitopenia molto spiccata predispone alle infezioni, che si sviluppano più facilmente nelle sedi ove si trovano organismi saprofiti, come a livello dell’anello faringeo e dell’orifizio anale; la manifestazione infettiva è frequentemente accompagnata da fenomeni ulcerativi. La piastrinopenia è causa di manifestazioni emorragiche, rappresentate da porpora, prevalente agli arti inferiori, alle mucose del cavo orale, alle congiuntive, al fondo dell’occhio. Si hanno inoltre ecchimosi, gengivorragie, epistassi, menorragie o metrorragie, ematuria e melena. Nelle forme croniche l’anemia ha il tempo di manifestarsi e domina quindi il quadro clinico, con i sintomi già descritti (da cui il nome di anemia aplastica, per la forma di pancitopenia) mentre granulocitopenia e piastrinopenia di solito sono più lievi e non danno luogo a sintomi molto evidenti. A. Esami di laboratorio. L’esame emocromocitometrico dimostra un’anemia normocromica normocitica, raramente macrocitica; leucopenia con linfocitosi relativa, granulocitopenia e monocitopenia assolute; piastrinopenia. Lo striscio del sangue periferico dimostra la normocromia delle emazie con aniso-poichilocitosi nei limiti di norma; non si osservano di regola forme immature in circolo né eritroidi né mieloidi: in sostanza lo striscio mostra l’aspetto del “sangue diluito”. Nella presunzione di anemia aplastica, l’esame del midollo va eseguito direttamente con la tecnica della biopsia con prelievo del cilindretto osteomidollare; l’esame istologico dimostra il reticolo dell’impalcatura stromale con maglie riempite principalmente da tessuto adiposo, alcuni linfociti e plasmacellule nei punti nodali ed estrema povertà della componente parenchimale. Nel caso dell’emopatia benzolica il quadro midollare è caratteristico, con eritroblasti di grandi dimensioni, qualche volta di tipo megaloblastico, frequentemente polinucleati; anche a carico dei precursori mieloidi si notano aumento di dimensioni, specie dei mieloblasti e promielociti, ipergranulosità azzurrofila e specifica, curva maturativa granuloblastica tendente all’inibizione. Poiché, come si è visto, l’esame del midollo è effettuato su un campione casuale di tessuto, è possibile che il prelievo cada su uno dei piccoli foci di midollo ipercellulare ancora presenti. In questo caso l’esame dà reperto di normalità e pone un quesito di diagnosi differenziale con l’anemia refrattaria; è opportuno allora eseguire, meglio se in anestesia generale, uno o più altri prelievi in sedi diverse, per confermare la presenza di anemia aplastica.
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Tra gli altri esami di laboratorio significativamente alterati va segnalata la sideremia elevata, con saturazione quasi completa della transferrina e le prove di emostasi ed emocoagulazione che forniscono risultati abnormi in rapporto alla piastrinopenia.
ristiche dell’emoglobinuria parossistica notturna. La trasformazione in leucemia acuta, osservata nel 5-10% dei casi di anemia aplastica ad oltre due anni dalla diagnosi, sia per la forma acquisita che congenita, è probabilmente espressione di una seconda malattia clonale.
Diagnosi
Cenni di terapia
La diagnosi differenziale deve tenere conto delle situazioni di pancitopenia periferica non accompagnate da ipocellularità midollare: questo si ha obbligatoriamente in caso di anemia mieloftisica, cioè di mielo-sostituzione da parte di elementi neoplastici delle serie ematologiche (leucemia acuta, mieloma multiplo) o anche, più raramente, da parte di elementi neoplastici metastatizzati nel midollo (linfomi, neoplasie epiteliali); in caso di anemia refrattaria con midollo iperplastico ed eccesso di mieloblasti. Pancitopenia periferica può aversi nell’anemia megaloblastica da carenza di vitamina B12 o di acido folico, in alcuni rari casi di anemia sideropenica e di anemia sideroblastica. L’emoglobinuria parossistica notturna con midollo spesso ipoplastico si differenzia dall’anemia aplastica per la caratteristica situazione emolitica. L’anemia aplastica va anche differenziata dalla pancitopenia da ipersplenismo, ossia da quella condizione di cospicua splenomegalia (da qualsiasi causa provocata) con sequestro degli elementi ematici circolanti; anche in questo caso l’esame del midollo è discriminante, in quanto esso si presenta polimorfo, con elementi morfologicamente normali e curve maturative inizialmente stimolate, nel tentativo di sopperire alle perdite periferiche. A lungo andare, se non si interviene con la splenectomia, si determina una carenza di costituenti essenziali per l’eritropoiesi, in particolare folati, ed infine si può arrivare ad una fase di esaurimento midollare, in genere transitoria, ma che può anche esitare in vera aplasia.
Nell’anemia aplastica secondaria a farmaci, ad esposizione a tossici o a raggi X, il primo provvedimento è la sospensione del farmaco o l’allontanamento dall’agente responsabile. La terapia dell’aplasia stabilizzata, sia congenita che acquisita, primitiva o secondaria, prende in considerazione tre tipi di intervento: • stimolazione con androgeni; • terapia immunosoppressiva con globulina antilinfociti T, con ciclosporina, con farmaci immunosoppressori; • trapianto di midollo. La terapia con androgeni è basata sul loro effetto stimolante la produzione di eritropoietina e l’induzione in ciclo delle cellule staminali, con sintesi di DNA: in questo modo si ha un maggior numero di cellule eritropoietina-sensibili sottoposte ad una più intensa attività eritropoietinica. È ovvio che questo tipo di effetto richiede una residua presenza di progenitori disponibili e quindi gli androgeni trovano indicazione nell’anemia aplastica non di estrema gravità. La terapia con globulina antilinfocitaria, associata o meno a farmaci immunosoppressori come la ciclofosfamide, è utilizzata nell’anemia aplastica acquisita idiopatica in cui è ipotizzato un danno alle cellule staminali mediato dai linfociti T; nell’aplasia eritroblastica pura associata a timoma va eseguita l’asportazione del timoma e successivamente può essere impiegata la ciclofosfamide; nei casi non associati a timoma, a sospetta patogenesi autoimmunitaria, trova indicazione teorica l’uso della terapia immunosoppressiva. Il trapianto di midollo, da fratello HLA identico, è la terapia di elezione dell’anemia aplastica grave, in età giovanile, in particolare dell’aplasia postepatitica.
Decorso e prognosi Sono differenti per i diversi tipi di anemia aplastica; le forme secondarie a farmaci citostatici o agli altri farmaci ad azione dose-dipendente regrediscono di solito alla sospensione della sostanza responsabile; in caso di citopenia da meccanismo idiosincrasico la regressione non è obbligatoria e può anche instaurarsi un’aplasia definitiva. L’aplasia postepatitica è molto grave, la remissione spontanea è assai rara, la mortalità ad un anno è intorno al 90%. La forma acquisita idiopatica ha decorso diverso in funzione di alcuni fattori prognostici: sono da considerare sfavorevoli il sesso maschile, la rapidità di comparsa dei sintomi, le manifestazioni emorragiche precoci, il quadro periferico di “anemia aplastica grave”. In alcuni pazienti l’anemia aplastica sembra essere associata con lo sviluppo di cloni abnormi; l’anomalia più comune, probabilmente di natura clonale, è lo sviluppo di una popolazione di cellule che presentano le caratte-
APPENDICE Aplasia pura della serie eritroide (o eritroblastopenia pura) Nel midollo può verificarsi una situazione di aplasia elettiva del compartimento eritroide, ossia una mielosi parziale aplastica, acquisita o congenita, che ha come conseguenza anemia, non accompagnata da granulocitopenia e piastrinopenia. L’aplasia eritroide pura acquisita ha andamento cronico, si verifica negli adulti, molto spesso associata a timoma; si ipotizza una patogenesi autoimmune con meccanismo operante la distruzione intramidollare dei precursori eritropoietici e/o l’inibizione della normale differenziazione eritropoietica. Nel siero dei pazienti si sono dimostrati:
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• un anticorpo citotossico complemento-dipendente che lisa elettivamente gli eritroblasti midollari; • un anticorpo IgG antieritropoietina; • un anticorpo che interferisce con il legame dell’eritropoietina con i precursori eritroidi e quindi inibisce la differenziazione delle BFU-E. Aplasia eritroide pura acquisita, di solito transitoria, può aversi in corso di anemia emolitica cronica, di lupus eritematoso sistemico, durante la terapia con alcuni farmaci (per es., aminopirina, CAF, clorpropamide, fenilbutazone, isoniazide, ecc.), con meccanismo per lo più dose-dipendente. Una forma particolare è stata osservata in pazienti con anemia da insufficienza renale cronica che assumono eritropoietina a scopo terapeutico. In alcuni di questi casi si è osservato un aggravamento dell’anemia dovuto ad aplasia pura della serie rossa. Questo è dovuto allo sviluppo di anticorpi neutralizzanti ad alta affinità diretti contro l’eritropoietina. Questa sostanza, impiegata a scopi terapeutici, è di natura ricombinante e differisce da quella endogena per la sua componente carboidrata. Tuttavia, gli anticorpi che si possono produrre in questo caso non sono diretti contro carboidrati che entrano nella molecola dell’eritropoietina, ma verosimilmente contro un epitopo conformazionale della proteina. Le conseguenze di questa reazione immunitaria sono molto negative, perché gli anticorpi stimolati dall’eritropoietina ricombinante reagiscono anche contro l’eritropoietina endogena, determinando un’aplasia pura della serie rossa. Non sono descritti casi simili negli sportivi, soprattutto ciclisti, che assumono eritropoietina come una forma di “doping”, ma questo evento avverso è teoricamente possibile. L’aplasia eritroide congenita o anemia di DiamondBlackfan è una malattia rara; è accompagnata da lievi anomalie fisiche, del tipo di quelle descritte per l’anemia di Fanconi; il tipo di trasmissione ereditaria è autosomico recessivo; i livelli di eritropoietina sono elevati, probabilmente vi è un deficit a livello delle BFU-E, incapaci di rispondere al normale stimolo maturativo.
ANEMIE MEGALOBLASTICHE(*) Viene definita megaloblastica un’anemia caratterizzata da presenza di eritroblasti anomali, detti megaloblasti, nel midollo e da macrovalociti nel sangue periferico. Essa è determinata da un difetto nella sintesi di DNA conseguente a carenza di vitamina B12 e/o folati. L’alterazione biochimica che ne sta alla base (difettosa sintesi di DNA) influenza tutte le cellule provviste di elevata attività proliferativa, tra le quali i precursori ematopoietici hanno un posto preminente.
Cenni di fisiologia Per spiegare la genesi della megaloblastosi, che di per sé non è necessariamente accompagnata da anemia, non (*) F. Pellò.
si può prescindere da una breve premessa sulle modalità di sintesi del DNA e sulle principali caratteristiche della vitamina B12 e dell’acido folico, che in essa hanno importanza essenziale. Per una migliore comprensione del discorso che segue si riporta, nella tabella 44.2 la nomenclatura dei costituenti degli acidi nucleici. Come è noto, i costituenti del DNA differiscono da quelli del RNA per due caratteristiche: a) sono deossiribosidi anziché ribosidi; b) comprendono la timina in luogo dell’uracile. La timina differisce dall’uracile perché ha un gruppo metilico in più: perciò la metilazione dell’uracile, e la sua conversione in timina, è un passo fondamentale per la sintesi del DNA, che è essenziale per la divisione cellulare. In realtà la metilazione non avviene direttamente a livello dell’uracile, ma nel corso della seguente successione: 1 Uridina
↓
2 Deossi-uridina
↓
3 Deossi-uridilato
↓
4 Timidilato
↓ DNA
3 a 4 , ad La metilazione avviene nel passaggio da opera dell’enzima timidilato-sintetasi. Il deossi-uridilato si trasforma in timidilato ricevendo un metile da un coenzima folico, il 5-10 metilene-tetraidrofolato (5-10 metilene THF) che, come si vedrà per i coenzini folici, ha una notevole capacità di trasferire unità monocarboniose. Dopo cessione della unità monocarboniosa il 5-10 metilene THF è trasformato in diidrofolato, una forma che necessita l’acquisizione di altri due atomi di idrogeno, ad opera dell’enzima diidrofolato-reduttasi per convertirsi in tetraidrofolato (THF) ed essere così in grado di rigenerare il 5-10 metilene THF, assumendo gruppi metilenici dalla serina che si trasforma in glicina (Fig. 44.1). La sintesi del DNA richiede quindi che ci sia a disposizione una quantità sufficiente di acido THF; esso però non si trova nei depositi come tale, ma come coenzima folico N5-metil-tetraidrofolato, che per trasforTabella 44.2 - Nomenclatura degli acidi nucleici. ACIDO NUCLEICO RNA
DNA
BASE Adenina (1) Guanina (1) Citosina (2) Uracile (2) Adenina (1) Guanina (1) Citosina (2) Timina (2)
(1) Basi puriniche. (2) Basi pirimidiniche.
NUCLEOSIDE Adenosina Guanosina Citidina Uridina Deossi-adenosina Deossi-guanosina Deossi-citidina Timidina
NUCLEOTIDE Adenilato Guanilato Citidilato Uridilato Deossi-adenilato Deossi-guanilato Deossi-citidilato Timidilato
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5-metil-THF
Deossi-uridina
Omocisteina Vit. B12 Metionina THF
Deossi-uridilato
Serina Glicina 5-10-metilene-THF
TIMIDILATOSINTETASI
Diidrofolato Timidilato Diidrofolatoreduttasi DNA
Figura 44.1 - Sintesi del DNA a partire dal timidilato. Ruolo dei coenzimi folici e della vitamina B12.
marsi in acido THF cede un gruppo metilico alla vitamina B12 (questa da cobalamina diventa metilcobalamina, funzionando da accettore di metile), che a sua volta lo trasferisce all’omocisteina che si trasforma in metionina (reazione catalizzata dall’omocisteina-metionina metil-transferasi). In caso di deficit di vitamina B12 non può verificarsi quest’ultima reazione di trasferimento del gruppo metilico e si ha quindi “intrappolamento del metil-tetraidrofolato”; il suo accumulo riduce il pool disponibile dei coenzimi folici, ivi inclusi l’acido THF e il 5-10metilene-tetraidrofolato, necessario come si è visto per la sintesi del DNA. A. Vitamina B12. La molecola consiste di due parti principali: un nucleotide (5,6-dimetil-benzimidazolo) ed un anello corrinico (gruppo planare) che assomiglia alla porfirina. L’anello corrinico contiene al centro un atomo di cobalto. Nell’uomo si trovano due coenzimi principali della vitamina B12. • La deossi-adenosil-cobalamina, presente principalmente nel fegato, in cui il gruppo anionico legato al cobalto è il 5-deossi-adenosile; è il coenzima richiesto per la conversione del metilmalonato coenzima A in succinil-coenzima A. La sua carenza porta ad aumento dell’escrezione di metilmalonato. • La metil-cobalamina, presente nel plasma, in cui il gruppo anionico è il metile; è il coenzima implicato nelle reazioni con i folati per la sintesi di DNA, come si è già visto. La vitamina B12 catalizza anche la riduzione dei ribosidi, contenuti nell’acido ribonucleico (RNA) a desossi-ribosidi, contenuti nel DNA. Le preparazioni in commercio sono l’idrossicobalamina, in cui il gruppo anionico è l’ossidrile, e la cianocobalamina, con il gruppo -CN legato al cobalto. La vitamina B12 si trova negli alimenti di origine animale ed è resistente alla cottura; una dieta media quoti-
diana ne contiene da 5 a 30 , di cui solo una piccola parte viene assorbita attraverso un’opportuna mediazione rappresentata dal fattore intrinseco. Il fattore intrinseco è una glicoproteina costituita da due catene polipeptidiche, prodotta dalle cellule parietali del corpo e del fondo gastrico. La vitamina B12 si lega ad esso molto avidamente formando un complesso che viene assorbito a livello dell’ileo, ove la membrana dei microvilli delle cellule della mucosa ha recettori con un’elevata affinità per il complesso suddetto. Dopo l’assorbimento la vitamina B12 viene staccata dal fattore intrinseco, pare a livello dell’orletto a spazzola della mucosa, ed è veicolata nel sangue dalle transcobalamine. Le transcobalamine sono indicate con i numeri romani I, II e III. La I e la III sono assai simili, rappresentando frazioni diverse della cobalofillina, una glicoproteina presente nei granulociti normali e di leucemia mieloide cronica, nella saliva, nel latte, nel liquido amniotico, nella bile; rappresenta in un certo senso una forma di deposito perché lega piuttosto intensamente la vitamina B12; il tempo di dimezzamento della vitamina ad essa legata è di circa 9-10 giorni. Il contenuto totale di vitamina B12 nell’organismo è di 2-5 mg, di cui circa la metà è contenuta nel fegato. Dal fegato una certa quota è eliminata attraverso la bile e recuperata completamente mediante riassorbimento con il fattore intrinseco: circolo entero-epatico. Il fabbisogno giornaliero nell’adulto è inferiore ad 1. La transcobalamina II ha un peso molecolare di circa 30.000, non è una glicoproteina, lega la vitamina B12 con scarsa energia, il suo tempo di dimezzamento è circa di un giorno e costituisce il veicolo che somministra la vitamina B12 ai tessuti. Nel siero il valore normale di vitamina B12 è 160-900 ng/l. B. Acido folico (o acido pteroilglutamico). La molecola è costituita da tre parti: pteridina, acido p-aminobenzoico ed acido glutamico (Fig. 44.2); è contenuto principalmente negli alimenti vegetali, nel fegato crudo, nel lievito, sotto forma di poliglutammati, costituiti da catene di sette o più residui di acido glutamico attaccati l’uno all’altro. Notevoli quantità di folato possono essere assorbite dai poliglutammati della dieta, principalmente a livello del digiuno prossimale, previa idrolisi ad opera di un enzima denominato “coniugasi”, presente nella mucosa intestinale. L’acido pteroilglutamico non si trova però come tale nei tessuti in quantità significativa e non è biochimicamente attivo; esso è il capostipite di una serie di composti (coenzimi folici), ottenuti da reazioni di riduzione (diidro o tetraidro) per aggiunta di idrogeni nelle posizioni 5, 6, 7, 8 dell’anello pteridinico e per sostituzione di un C in posizione N5 e/o N10 con gruppi chimici contenenti un solo atomo di carbonio (formilici, metenilici, formiminici e metilici: unità monocarboniose). La riduzione enzimatica dell’acido pteroilglutamico è catalizzata dalla diidrofolico-reduttasi. L’acido folinico è l’acido 5-formil-tetraidrofolico.
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A. Cause di carenza di vitamina B12. 1. Il deficit di apporto nutritivo è un’evenienza che non si verifica in pratica, date l’esiguità del fabbisogno giornaliero (meno di 1g), l’entità delle scorte dell’organismo (circa 5 mg) e la ridotta eliminazione (circa lo 0,1% giornaliero della quantità totale presente); occorrerebbero molti anni di dieta vegetariana per esaurire le scorte! Acido paraaminobenzoico
Acido glutamico
Pteridina
Figura 44.2 - Molecola dell’acido folico. Gli atomi segnati con pallini neri sono quelli che legano gli atomi di idrogeno nella conversione a THF. Le linee punteggiate indicano gli atomi che possono legare le unità monocarboniose C1.
Il deposito normale di folati è dell’ordine di 5-10 mg; il fegato ne contiene una gran parte sotto forma di 5-metil-tetraidrofolato, che sembra essere la forma principale di folato normalmente circolante. Il fabbisogno quotidiano di folati per un adulto è 100-200 , la concentrazione di acido folico nel siero è 10 /l; la concentrazione nei globuli rossi è 30 volte tanto: 300 /l. La vitamina B12 è di fondamentale importanza per permettere l’ingresso dell’acido folico nelle cellule; in caso di carenza di B12 si ha aumento del rapporto acido folico siero/acido folico GR. I coenzimi folici sono implicati in tutte le reazioni in cui vi è un trasferimento di un’unità monocarboniosa; esse includono: • la sintesi delle purine; • la biosintesi della pirimidina (mediante metilazione, come si è visto, dell’acido deossi-uridilico ad acido timidilico); • tre conversioni di aminoacidi: della serina a glicina; dell’istidina ad acido glutamico; la conversione dell’omocisteina a metionina, che richiede la vitamina B12.
Eziopatogenesi In linea teorica una carenza può determinarsi per: • insufficiente introduzione, per ridotto apporto con la dieta; • malassorbimento; • aumentato fabbisogno, per aumento delle richieste in situazioni fisiologiche o patologiche; • inadeguata utilizzazione. Verranno prese in considerazione separatamente le cause di deficit di vitamina B12 e di acido folico, anche se molte malattie accompagnate da malassorbimento sono in grado di provocare una carenza di entrambe le vitamine.
2. Il malassorbimento è la causa di gran lunga prevalente di carenza di vitamina B12. Esso può verificarsi in una serie di condizioni morbose e precisamente: • in caso di alterazioni quantitative o qualitative del fattore intrinseco: anemia perniciosa, gastrectomia; • nelle malattie intestinali accompagnate da malassorbimento (sprue tropicale, malattia celiaca dell’adulto, ecc.) o in alterazioni intestinali anatomiche (ileite terminale, resezione ileale, sindrome dell’ansa cieca, fistole ed anastomosi intestinali); • per consumo della vitamina B12 da parte di microrganismi o parassiti intestinali (come avviene, per es., nelle infestazioni da botriocefalo). Esistono condizioni di malassorbimento congenito della vitamina B12, come nella sindrome di ImerslundGräsbeck, che si accompagna a proteinuria, oppure in casi di fattore intrinseco abnorme o assente, ed infine in caso di alterazioni nel trasporto ed immagazzinamento della vitamina B12 per deficit di transcobalamina I e II. Si è già detto come il punto debole nell’assorbimento della vitamina B12 sia la disponibilità del fattore intrinseco: se esso manca, la vitamina B12 alle dosi fisiologiche non viene assorbita (in grandi quantità è possibile che una certa quota diffonda attraverso le pareti della mucosa); in assenza di fattore intrinseco non viene neppure assorbita la vitamina che esce dal fegato, per cui si interrompe il circolo entero-epatico; a ciò consegue un aumento di escrezione, il fabbisogno quotidiano si sposta da 1 a 3 g e le scorte si possono esaurire in tempo minore. 3. L’anemia perniciosa è l’anemia megaloblastica che si accompagna a gastrite cronica atrofica, con secrezione di fattore intrinseco ridotta o assente e malassorbimento di vitamina B12. Non è completamente chiarita la genesi dell’atrofia gastrica, anche se nei pazienti con anemia perniciosa si sono trovati anticorpi anticellule parietali, con percentuali dell’85-90% nel siero, del 75% nel succo gastrico e del 60% nelle plasmacellule della mucosa gastrica; questi reperti hanno significato diagnostico, ma non sono sicuramente indicativi della patogenesi autoimmune della malattia. Anche nella gastrite cronica apparentemente idiopatica, senza anemia perniciosa, l’anticorpo anticellula parietale è presente nel 30-60% dei casi. Un secondo tipo di anticorpi diretti contro il fattore intrinseco è stato trovato in un numero minore di pazienti con anemia perniciosa; gli anticorpi antifattore intrinseco sono di due tipi: il tipo I (anticorpo bloccante) blocca il sito combinatorio del fattore intrinseco per
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la vitamina B12; il tipo II (anticorpo legante) si lega al complesso fattore intrinseco + vitamina B12. L’anticorpo di tipo I è stato dimostrato nel 75% dei sieri di anemia perniciosa, l’anticorpo di tipo II in circa il 45% dei casi e di solito sempre in presenza anche dell’anticorpo di tipo I. Anticorpi di tipo I e II sono stati dimostrati nel succo gastrico e di tipo II nelle plasmacellule della mucosa gastrica. Nel siero predominano anticorpi di tipo IgG, nel succo gastrico di tipo IgA. L’ipotesi, ritenuta assai probabile, di una patogenesi autoimmune dell’anemia perniciosa è sostenuta anche da considerazioni di ordine clinico: per esempio, nello stesso paziente può coesistere un’altra malattia a patogenesi sicuramente (tiroidite di Hashimoto) o presumibilmente autoimmune (morbo di Addison, ipoparatiroidismo, vitiligine). Anche nei parenti di pazienti con anemia perniciosa è stata rilevata un’aumentata incidenza nel siero di anticorpi anticellule parietali. B. Cause di carenza di acido folico. 1. L’insufficiente apporto dietetico si verifica per esempio nelle persone anziane, negli alcolisti, nelle persone che assumono una dieta quasi priva di frutta e verdure fresche. 2. Il malassorbimento è una causa molto frequente e ritroviamo qui alcune delle malattie già citate per il malassorbimento di vitamina B12 (la sprue tropicale, la malattia celiaca) e in genere le malattie appartenenti al vasto capitolo della patologia dell’intestino tenue, comprendenti deficit di secrezioni esocrine e malattie primitive della parete intestinale. Alcuni farmaci anticonvulsivanti (difenilidantoina, primidone e barbiturati) ostacolano l’assorbimento dei poliglutammati per inibizione della coniugasi intestinale. La carenza di acido folico da malassorbimento è evenienza più frequente della carenza di vitamina B12 perché le scorte di acido folico si esauriscono in un tempo relativamente breve (circa un mese), mentre le scorte di vitamina B12 richiedono anni per esaurirsi; nelle sindromi da malassorbimento si potrà avere inizialmente anemia megaloblastica da carenza di acido folico e solo successivamente, dopo un tempo relativamente lungo, anche da carenza di vitamina B12. 3. L’aumentato fabbisogno ha luogo in tutte le condizioni in cui nell’organismo vi è una rapida proliferazione cellulare; ciò può aversi in condizioni fisiologiche in gravidanza, perché l’acido folico è necessario per la sintesi del DNA dell’embrione e del feto; durante l’allattamento; nei bambini prematuri. In condizioni patologiche un aumentato fabbisogno si ha nelle neoplasie caratterizzate da rapido accrescimento cellulare; il prototipo è rappresentato dalle leucemie. Nelle anemie emolitiche, in cui la notevole riduzione del ciclo vitale degli eritrociti che vanno incontro a rapida distruzione determina il reclutamento di cellule di riserva dal midollo che aumenta di 3-4 volte la sua attività eritropoietica, si ha esaltata attività sintetica di DNA e quindi maggior fabbisogno di folati; se questi non vengono riforniti in quantità sufficiente, al mecca-
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nismo emolitico si somma la carenza di folati come causa di anemia. In alcune malattie infiammatorie (artrite reumatoide, morbo di Crohn, dermatite esfoliativa) e metaboliche (tireotossicosi, omocistinuria) in cui si ha probabilmente un aumentato turn-over di cellule, come leucociti, cellule cutanee, può crearsi, anche se non abitualmente, una carenza di folati. 4. L’inadeguata utilizzazione è tipica nel deficit di vitamina B12 che, come si è visto, serve ad estrarre il folato dalla trappola del metilfolato; un elevatissimo apporto di acido folico potrebbe prescindere dalla presenza di vitamina B12, la quale resta però sempre il fattore essenziale in caso di apporto fisiologico di folati. Una ridotta utilizzazione si ha anche in corso di terapia con farmaci antifolici, somministrati intenzionalmente come chemioterapici (metotrexate), che inibiscono la diidrofolico-reduttasi, enzima che converte il diidrofolato in tetraidrofolato. Azione analoga possiedono altri farmaci (per es., pirimetamina, trimetoprim) come effetto collaterale indesiderato. L’anemia megaloblastica si verifica, al di fuori delle situazioni di carenza di vitamina B12 ed acido folico, in altre condizioni iatrogene o spontanee che hanno come conseguenza un’alterata sintesi di DNA. Ricordiamo in primo luogo la somministrazione, nel corso di chemioterapia antitumorale, di farmaci classificati come “antimetaboliti” e precisamente gli antagonisti della sintesi purinica (6-mercaptopurina, azatioprina) e pirimidinica (5-fluorouracile, 6-azauridina), e di altri, come per esempio la procarbazina e l’idrossiurea, tutti inibitori della sintesi del DNA. Esistono infine alcune sindromi di carenza enzimatica, come la sindrome di Lesh-Nyhan, da deficit dell’enzima ipoxantina-guanina transferasi, implicato nella sintesi delle purine, e l’orotico-aciduria, in cui il deficit enzimatico si situa sulla via sintetica dell’uridina, nucleotide pirimidinico.
Fisiopatologia Nell’anemia megaloblastica la sintesi di RNA avviene normalmente, mentre il processo di sintesi del DNA, che precede ogni divisione mitotica, avviene con difficoltà; l’intervallo di tempo che passa tra una replicazione cellulare e l’altra, per le cellule in rapida replicazione, è allungato; si ha quindi una produzione normale di RNA ed una maggiore quantità di DNA nel nucleo: in un midollo megaloblastico parecchie cellule hanno una quantità intermedia di DNA tra diploide e tetraploide. Esse (megaloblasti) appariranno più grosse, sia a livello del nucleo che del citoplasma, perché la fase di prolungata sintesi nel ciclo cellulare permette la formazione in eccesso di alcuni composti citoplasmatici, inclusa l’emoglobina che blocca la successiva replicazione, e quindi passerà più tempo tra una divisione cellulare e l’altra. Questo vale per tutte le cellule in rapida replicazione, ma in particolare per i precursori eritropoietici; così, mentre negli eritroblasti normali (normoblasti) il nucleo tende a rimpicciolirsi con l’evoluzione verso la cellula matura ed è tondo e compatto, nei megaloblasti il nucleo è grosso, con reticolo cromatinico
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fine e lasso. Queste cellule spesso non arrivano neppure a dividersi, morendo nel midollo senza riuscire a maturare, realizzando così un’eritropoiesi inefficace. Poiché la difficoltà di sintesi del DNA ha luogo in tutte le cellule, pur essendo l’anemia il fenomeno principale, sono presenti granulocitopenia e piastrinopenia e si ha sofferenza anche a livello delle cellule di tessuti in rapida proliferazione, non precursori ematopoietici. Ciò vale principalmente per le cellule delle mucose delle vie digerenti, del naso, dei bronchi, delle vie urinarie e genitali. Nella carenza di vitamina B12 esiste una manifestazione patologica ulteriore (che non si ha nel deficit di acido folico), determinata da un’alterazione nella sintesi della mielina. Si è visto che il processo di isomerizzazione del metil-malonil-coenzima A in succinilcoenzima A è mediato dalla deossi-adenosil-cobalamina; il metilmalonil-coenzima A deriva dall’acido propionico, che a sua volta deriva dal metabolismo di molti aminoacidi: quindi questa sostanza è presente nell’organismo in discreta quantità e per poter essere metabolizzata completamente necessita la conversione a succinil-coenzima A da parte della vitamina B12; in carenza della vitamina si determina accumulo di tutti i metaboliti a monte, con incorporazione di acidi grassi anomali nella molecola della mielina. Da questo deriva una sintomatologia neurologica caratteristica, che interessa soprattutto i cordoni spinali e specialmente quelli posteriori.
Clinica A. Anamnesi. L’anamnesi familiare è importante, in quanto possono essere riscontrate forme di anemia non necessariamente macrocitica ma anche aplastica sideropenica o emolitica; endocrinopatie a patogenesi autoimmune (si sono già ricordati la tiroidite, alcune forme particolari di diabete, l’ipoparatiroidismo, il morbo di Addison), più raramente cirrosi biliare primitiva e ipo-globulinemia acquisita. L’anamnesi fisiologica prenderà in considerazione l’eventualità di una gravidanza o di un allattamento in epoca recente, le abitudini alimentari (dieta povera di verdura e frutta fresca, abuso di alcolici), la presenza di diarrea, l’assunzione di farmaci (antimetaboliti, anticonvulsivanti). Nell’anamnesi patologica remota verranno indagate in modo particolare malattie di tipo immunitario o a patogenesi autoimmune; forme precedenti di anemia (per es., anemia sideropenica), interventi chirurgici (di gastroresezione, di resezione ileale), malattie intestinali accompagnate da sindrome da malassorbimento. I sintomi che portano il paziente dal medico sono di tipo aspecifico, comuni alle altre forme di anemia ed anche ad altre malattie non accompagnate da anemia: il paziente accusa astenia ingravescente, sonnolenza, aumentata sensibilità al freddo, sensazione di peso epigastrico e di rallentamento della digestione. Solamente in caso di deficit di vitamina B12 si potrà avere una sindrome neurologica, con parestesie alle mani e ai piedi, difficoltà a mantenere la stazione eretta e alla deambulazione, più raramente difficoltà all’uso delle mani;
possono aversi anche paresi spastica e disturbi visivi da neurite retrobulbare. È opportuno ricordare che questa sindrome neurologica può essere riscontrata anche in pazienti che non presentano anemia: si tratta di pazienti in cui l’anemia megaloblastica da carenza di vitamina B12 è stata trattata con dosi elevate di acido folico; come si è visto dallo schema di interreazione metabolica tra vitamina B12 e acido folico, questo a dosi elevate può sopperire alla mancanza relativa di B12 ed innescare ugualmente la sintesi del timidilato; però la conversione del metil-malonil-coenzima A in succinil-coenzima A richiede necessariamente la presenza di vitamina B12; in sua assenza si ha accumulo del metil-malonato, ritenuto responsabile delle alterazioni neurologiche. B. Esame obiettivo. L’esame obiettivo mette in evidenza cute pallida con sfumatura giallastra (colore “cera vecchia”), la lingua appare arrossata e lucida (glossite di Hunter) ed ha perso il normale aspetto vellutato perché le papille sono spianate per difetto di rigenerazione cellulare. Sarà inoltre possibile rilevare una modesta epatosplenomegalia per l’aumentata attività del sistema reticoloistiocitario, secondaria all’aumento dell’eritrocateresi C. Esami di laboratorio. 1. Quadro ematologico. L’esame emocromocitometrico dimostra una diminuzione del contenuto di emoglobina di entità minore rispetto alla diminuzione dei globuli rossi; una diminuzione del valore ematocrito, un aumento del volume corpuscolare medio e del contenuto corpuscolare medio di emoglobina mentre la concentrazione di emoglobina corpuscolare media è normale: non si ha ipercromia, solamente i globuli rossi sono più grandi e quindi contengono più emoglobina, ma la sua concentrazione per ogni unità di volume di globulo rosso è normale. Si ha anemia perché è notevolmente diminuito il numero dei globuli rossi. L’esame dello striscio del sangue periferico è abbastanza patognomonico, in quanto dimostra la presenza di macrociti, talvolta a forma ovoidale (macrovalociti), policromasia diffusa o punteggiatura basofila, eccezionalmente rari megaloblasti policromatofili o ortocromatici. I granulociti hanno nucleo ipersegmentato; l’esistenza di tre elementi presentanti cinque lobi o anche di un solo elemento con sei lobi permette di diagnosticare quasi sicuramente un’anemia megaloblastica. Si hanno inoltre discreta leucopenia con neutropenia ed una modesta piastrinopenia. Solamente con l’esame del midollo, però, è possibile documentare con certezza l’anemia megaloblastica: nei casi tipici e conclamati all’esame a piccolo ingrandimento si osservano una straordinaria ricchezza di elementi cellulari ed una prevalenza di voluminosi elementi a citoplasma basofilo (cosiddetto midollo blu). L’osservazione a forte ingrandimento dimostra il reperto più caratteristico, la presenza di megaloblasti, in numero variabile ma sempre considerevole, non solo in fase basofila, ma anche policromatofila e perfino ortocromatica. Si tratta di elementi cellulari di grandi di-
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mensioni, con sviluppo asincrono del nucleo e del citoplasma, con nucleo di aspetto lasso, reticolato, a cromatina delicata, citoplasma ampio, che in fase basofila ha una basofilia disomogenea, con fenomeno di disbasofilismo, consistente in zone di citoplasma a sfumatura grigio rosata commiste alle zone decisamente basofile. Come si è già detto, l’asincronismo maturativo nucleo-citoplasmatico è anch’esso conseguenza del difetto di sintesi del DNA. Va tenuto presente che la megaloblastosi non è un fenomeno “tutto o nulla”, per cui, nel midollo, accanto ad elementi francamente megaloblastici si trova una quota di elementi con aspetto intermedio tra megaloblasti e normoblasti ed anche una discreta quota di elementi francamente normoblastici: evidentemente il difetto sintetico del DNA responsabile della morfologia megaloblastica non colpisce uniformemente tutti gli elementi. Infine, occorre sottolineare come una dose anche piccola di vitamina B12, insufficiente per svolgere un’azione terapeutica completa, sia in grado di provocare a livello del midollo, nel giro di poche ore, modificazioni della morfologia dei megaloblasti, che tendono ad assumere l’aspetto dei normoblasti; si possono quindi incontrare difficoltà diagnostiche anche considerevoli, per cui è molto importante che il paziente esegua gli esami prima di qualsiasi intervento terapeutico e che comunque venga fatta un’anamnesi accurata per accertare se sia stata eseguita in precedenza una terapia per l’anemia cosiddetta “ricostituente”, di solito a base di estratto epatico e vitamina B12. Anche a carico della serie granuloblastica si osservano modificazioni caratteristiche: i promielociti e specialmente i mielociti presentano dimensioni più grandi che di norma e nucleo con aspetto bizzarro (a tronco d’albero, a gozzo) per cui viene a mancare quasi completamente il normale stadio a nucleo rotondo e dal promielocito si passa quasi direttamente, attraverso queste forme bizzarre, al granulocito gigante ipersegmentato, ormai definitivamente maturo. L’alterazione della serie granuloblastica risente in modo minore di eventuali piccole dosi di vitamina B12 somministrate in precedenza e costituisce spesso un dato di utile orientamento diagnostico nei casi in cui la morfologia della serie eritroide è meno tipica, perché parzialmente modificata da una terapia intempestiva e inadeguata. 2. Altri esami. Nel siero è presente spesso lieve iperbilirubinemia, di tipo indiretto, espressione di una accentuata attività emolitica, secondaria all’eritropoiesi inefficace. Nell’anemia perniciosa l’esame del succo gastrico, in condizioni basali, dimostra achilia, che rimane invariata dopo stimolazione con istamina o pentagastrina. Nei casi in cui vi è sindrome da malassorbimento, l’esame delle feci dà il reperto caratteristico, come è stato detto nel capitolo 24 relativo alle malattie dell’intestino. In presenza di un’anemia megaloblastica è importante discriminare se vi sia all’origine una carenza di vitamina B12 o di acido folico. Il metodo più diretto consiste nel dosare la vitamina B12 nel siero e l’acido folico nel siero e nelle emazie. Poiché la vitamina B12 è di fat-
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to indispensabile per permettere l’ingresso dell’acido folico nelle cellule e quindi, tra le altre, nei globuli rossi, in carenza di essa si ha aumento del rapporto acido folico del siero/acido folico dei globuli, che, come si è visto, in condizioni normali è circa 1/30. La carenza di acido folico non ha alcuna influenza sulla ripartizione della vitamina B12, a meno che non sia di grado tale da determinare atrofia gastrica e/o intestinale e da compromettere l’assorbimento. Altri metodi diagnostici sono basati sullo studio di processi metabolici elettivamente condizionati dalla vitamina B12 o dall’acido folico. La carenza di vitamina B12 è responsabile di mancata conversione del metil-malonil-coenzima A in succinilcoenzima A; si avrà quindi escrezione urinaria di acido metil-malonico, di entità maggiore se sarà stato somministrato in precedenza un carico di aminoacidi (valina o isoleucina). L’acido folico è importante nel metabolismo dell’istidina; esso è necessario come coenzima per la trasformazione dell’acido formominoglutammico (FIGLU) in acido glutamico; se si somministra un carico di istidina in carenza di acido folico si ha eliminazione di FIGLU con le urine. Un metodo molto semplice è quello della prova terapeutica, che consiste nel trattare il paziente per una decina di giorni con il fattore che si ritiene più verosimilmente in causa come responsabile dell’anemia; la prova va fatta somministrando dosi piccolissime (1 g/die nel caso della B12 e 100 g/die nel caso dell’acido folico) perché con dosi elevate si può avere una risposta positiva anche se il fattore in causa non è quello in prova. La risposta è considerata positiva se, entro una settimana, si verifica un franco incremento numerico di reticolociti. Il procedimento seguito sin qui ha portato ad accertare la presenza di anemia megaloblastica e a determinare qual è fattore carente; il successivo passaggio diagnostico è volto a ricercare la causa della carenza in termini di apporto inadeguato, malassorbimento, aumentate richieste o alterata utilizzazione più o meno variamente combinati. La carenza di vitamina B12 è dovuta quasi esclusivamente ad un difetto di assorbimento ed esiste un test specifico, chiamato test di Schilling, che consente di verificare le modalità dell’assorbimento stesso. In pratica vengono somministrati per via orale 2 g di vitamina B12 radioattiva (57CoB12), seguita da un’iniezione intramuscolare di 1000 g di vitamina B12 non radioattiva, al fine di saturare i depositi. Si raccolgono le urine delle 24 ore e poi si iniettano altri 1000 g di vitamina B12 non radioattiva e di nuovo si raccolgono le urine per 24 ore; normalmente nelle 24 ore viene escreta con le urine una quantità superiore al 5% della dose orale somministrata. Se non si ottiene un risultato normale si ripete il test dopo aver aggiunto alla vitamina B12 radioattiva il fattore intrinseco; nell’anemia perniciosa in questo secondo caso si ha normalizzazione del test; quando invece l’alterato assorbimento non è secondario a deficit di fattore intrinseco, ma, per esempio, a malattia intestinale con malassorbimento, l’escrezione della vitamina radioattiva è scarsa anche dopo
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l’aggiunta di fattore intrinseco. È di grande importanza che il test di Schilling venga eseguito solo dopo che con l’esame del midollo sia stata accertata l’anemia megaloblastica e dopo che il trial terapeutico abbia permesso di discriminare il fattore responsabile; infatti la grande quantità di vitamina B12 iniettata per saturare i depositi è in grado di alterare entrambe le prove. In tutti i casi di anemia megaloblastica va eseguito uno studio radiologico completo del tubo digerente, data l’importanza che riveste la patologia di questo apparato per il malassorbimento di B12 e di folati. In presenza di anemia perniciosa va eseguito anche un esame gastroscopico con prelievo bioptico per documentare la presenza e l’entità della gastrite atrofica; va inoltre eseguito l’esame chimico del succo gastrico prelevato mediante sondino ad intervalli di tempo successivi e dopo stimolazione, per indagare la presenza o meno di achilia.
Diagnosi La diagnosi di anemia megaloblastica è basata sul rilievo di anemia macrocitica all’esame del sangue periferico e di una megaloblastosi midollare. L’anemia macrocitica può trovarsi in alcune forme di anemia emolitica; in questi casi si hanno consistente iperbilirubinemia ed elevata reticolocitosi; nell’anemia aplastica con macrocitosi l’aspetto dei globuli rossi non è quello dei macrovalociti, mancano i granulociti neutrofili ipersegmentati, coesistono marcate leucopenia e piastrinopenia; anemia macrocitica può aversi nelle leucemie, sia prima della terapia che in corso di chemioterapia, nell’anemia sideroblastica, nel mixedema, nell’alcolismo cronico. Il midollo in questi casi non è di solito di tipo megaloblastico, tranne che in casi particolari di leucemia e di anemia emolitica. Se l’anemia megaloblastica è associata ad altre situazioni patologiche responsabili di anemia ipocromica, per esempio la carenza di ferro, gli indici ematologici danno valori compatibili con anemia normocitica o anche microcitica: questo può aversi nei gastroresecati, con malassorbimento della vitamina B12 e del ferro; nel deficit di folato da inadeguata nutrizione in cui coesistono carenze multiple (di folati, di ferro, di proteine); in caso di carcinoma gastrico sanguinante, in cui lo stillicidio cronico causa la carenza di ferro.
Decorso e prognosi Il decorso è diverso, a seconda dell’eziologia dell’anemia megaloblastica. In ogni situazione in cui la causa della carenza viene spontaneamente a cessare o può essere completamente rimossa, un’opportuna terapia atta a reintegrare i depositi riporta la situazione in condizioni di assoluta normalità. Quando non è possibile una terapia eziologica, per esempio nell’anemia perniciosa, in caso di resezione gastrica o ileale, la terapia sostitutiva con il fattore ritenuto carente riporta alla normalità il quadro clinico ed ematologico; è ovvio che in questi ca-
si la terapia debba essere perseguita per tutta la vita; la prognosi è buona e l’aspettativa di vita dei pazienti è nei limiti della norma.
Cenni di terapia La terapia deve essere, se possibile, eziologica, volta cioè a correggere la situazione patologica responsabile dell’anemia: anche se questo è possibile vanno reintegrati i depositi di vitamina B12 o di acido folico; se la condizione morbosa di base non può essere rimossa, la terapia sostitutiva va continuata indefinitamente. La via di somministrazione sarà parenterale per il deficit di B12, generalmente secondario a malassorbimento, e per i casi in cui il deficit di folato riconosce questo meccanismo. Negli altri casi il folato può essere somministrato per via orale. Nell’anemia perniciosa, che, come si è visto, riconosce probabilmente una patogenesi autoimmune, sono stati fatti tentativi terapeutici con prednisone, associato o meno a vitamina B12: questo indirizzo terapeutico non è però codificato e viene riservato a casi particolari.
ANEMIE SIDEROPENICHE(*) L’anemia sideropenica si manifesta quando la disponibilità di ferro nell’organismo è insufficiente per una adeguata sintesi di emoglobina. La sua caratteristica distintiva è perciò la diminuzione del contenuto corpuscolare medio di emoglobina che si accompagna ad una riduzione del volume medio dei globuli rossi (microcitosi).
Epidemiologia La carenza di ferro è la causa di anemia oggi conosciuta più comune in tutto il mondo (Paesi sottosviluppati e non). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito il concetto di anemia come un valore di Hb inferiore ai 14 g/dl nell’uomo, ai 12 g/dl nella donna e agli 11 g/dl nella donna gravida. Questo criterio non precisa però lo stato clinico di sideropenia latente (si veda Eziopatogenesi). Nei Paesi maggiormente sviluppati l’incidenza della sideropenia è del 3% tra gli uomini adulti, del 20% tra le donne e del 50% tra le donne gravide. Percentuali, queste, destinate a salire quando si prendano in esame alcuni Paesi dell’Africa o dell’Asia dove una dieta ridotta e un’eccessiva perdita di ferro provocata dalla presenza di parassiti intestinali portano l’anemia sideropenica ad interessare più del 50% della popolazione. Tra gli adulti è soprattutto il sesso femminile a venir colpito, in particolare durante l’età fertile. (*) C. Camaschella, G. Gromo, M. Storti.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Diverso l’andamento nell’uomo, nel quale si riconoscono infatti due picchi di incidenza: durante l’adolescenza e dopo i 30 anni. L’incidenza massima comunque si verifica tra i 6 e i 20 mesi di vita (indifferentemente maschi e femmine) ed in particolare nei prematuri. Il deficit di ferro infine è più frequente nei ceti meno abbienti che non nelle classi medio-alte (61% contro 39%).
Metabolismo del ferro(*)
GR ~ 50 mg%
MIDOLLO
SRE
PLASMA 60-100 g%
Il ferro è un elemento essenziale per il trasporto di ossigeno, il metabolismo ossidativo e la proliferazione cellulare. In condizioni fisiologiche il ferro totale dell’organismo è di circa 3-4 g, con ampie variazioni tra i sessi (35-50 mg/kg nell’uomo; 25-35 mg/kg nella donna) (Tab. 44.3). Il ferro dell’organismo è distribuito in tre compartimenti: funzionale, di deposito e di trasporto. Il ferro funzionale è il più importante ed è rappresentato dall’emoglobina (il 70% pari a circa 2000 mg), dalla mioglobina (10%, circa 300 mg) e da enzimi (in minima quantità). Il ferro di deposito è presente come ferritina ed emosiderina per un totale di circa 1000 mg, soprattutto nel fegato e nel sistema reticolo-endoteliale (milza e midollo osseo). Il ferro di trasporto è legato alla transferrina che ne contiene 3-4 mg (0,1%), una quota minima, ma rapidamente scambiabile con i tessuti. Il metabolismo del ferro è conservativo: il ferro recuperato dall’emocateresi viene riciclato dai macrofagi e prontamente ceduto alla transferrina circolante (20-25 mg/die), e solo 1-2 mg di ferro, perduti per desquamazione cellulare, vengono ricambiati giornalmente (Fig. 44.3). Il mantenimento dell’omeostasi del ferro è assicurato dalla regolazione dell’assorbimento intestinale, che è incrementato per le esigenze dell’eritropoiesi e ridotto quando i depositi di ferro sono abbondanti. Le perdite di ferro nell’uomo e nella donna dopo la menopausa ammontano a circa 1 mg/die (desquamazione di cellule intestinali, della cute, delle vie urinarie). Nella donna in
Figura 44.3 - Schema del ricambio del ferro nell’organismo. SRE = Sistema reticolo-endoteliale.
età fertile le perdite sono incrementate in considerazione del ciclo mestruale (normalmente fino a circa 25 mg/ciclo) e delle gravidanze, in quanto, dal concepimento al parto, si ha una perdita di ferro aggiuntiva di circa 700 mg; la perdita dovuta ad allattamento è di circa 1 mg/die. Il fabbisogno quotidiano di ferro varia quindi in diverse condizioni fisiologiche, anche tenendo conto delle esigenze correlate all’accrescimento corporeo (Tab. 44.4). Una dieta “comune” comporta l’assunzione di 10-20 mg di ferro al giorno, ma in condizioni normali solo il 5-10% (1-2 mg circa) viene assorbito. Se il fabbisogno è aumentato si può anche arrivare al 10-20%. Il processo attraverso il quale l’organismo va incontro alle proprie necessità di ferro può essere riassunto in tre fasi principali: • tipo di alimentazione, che influenza il trasporto intraluminale e l’estrazione del ferro emico e non-emico; • assorbimento mucoso; • trasporto del ferro nel circolo sanguigno.
Tabella 44.3 - Distribuzione del ferro nei suoi compartimenti. FERRO TOTALE CORPOREO (%) UOMINI • Compartimento funzionale – Emoglobina – Mioglobina – Enzimi – Transferrina • Immagazzinamento – Ferritina-emosiderina (65%) (35%)
(*) C. Camaschella.
DONNE
72 10 0,2 0,2 82,4
73,5 13 0,4 0,2 87,1
17,6
12,9
100
Tabella 44.4 - Fabbisogno quotidiano di ferro.
100
FERRO (MG/DIE) Uomo adulto normale Donna mestruata Donna gravida Donna che allatta (con amenorrea) Donna postmenopausa Adolescente Bambino Neonato
0,5-1,0 1,2-2,0 2,4-4,8 0,5-1,0 0,5-1,0 1,0-2,0 0,4-1,0 0,5-1,5
N.B. Solitamente viene assorbito il 5-10% del ferro ingerito; nel caso della donna in gravidanza non è possibile raggiungere simili dosaggi con la sola dieta, è dunque necessario aggiungere ferro con uno dei preparati a disposizione.
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44 - ANEMIE
Tipo di alimentazione Esistono due sistemi di assorbimento, diversi a seconda che il ferro si presenti nella struttura porfirinica dell’eme o sotto forma di sali inorganici di ferro. Nel primo caso (mioglobina, emoglobina, proteine di origine animale) il ferro è assorbito come eme e viene liberato nelle cellule epiteliali intestinali. Questo tipo di assorbimento è scarsamente sensibile alle modificazioni di pH e quindi poco influenzato dalla dieta. Nel secondo caso, invece, il ferro deve venire ridotto da ferrico, che tenderebbe a precipitare nel lume intestinale, a ferroso. Ai fini di questo processo è importante la presenza di acido cloridrico gastrico e del normale tempo di svuotamento gastrico. Infatti l’ambiente acido libera il ferro non emico dagli alimenti e ne facilita il legame con mucopolisaccaridi o sostanze a basso peso molecolare (zuccheri, aminoacidi, acido ascorbico, ecc.), direttamente assorbiti nel duodeno o digiuno. In ambiente alcalino, invece, il ferro si lega in forma indissociabile con proteine ad alto peso molecolare, non viene assorbito e può ritrovarsi come ione ferrico nelle feci. Anche la stessa alimentazione influisce sull’assorbimento del ferro: ossalati, fitati, tè, fibre, uova, fosfati lo ritardano, perché formano con il ferro composti relativamente insolubili. Viceversa, alcool e sostanze riducenti (acido ascorbico, cisteina, fruttosio, ecc.) lo favoriscono. Assorbimento mucoso Le cellule della mucosa duodenale e digiunale presentano sulla superficie luminale il trasportatore di ferro DMT1 (Divalent Metal Transport 1), che coopera con una ferro-reduttasi della membrana per recuperare dal lume il ferro trasformandolo in ferroso. Una volta nella cellula intestinale, il ferro va incontro a destinazioni diverse a seconda delle necessità: una quota viene esportata ed entra in circolo legandosi alla transferrina circolante. Questo processo richiede l’intervento di una proteina transmembrana denominata “ferroportina” e di un’ossidasi (efestina) che lo ossida a ferro ferrico; una quota viene depositata nelle cellule della mucosa sotto forma di ferritina e, come tale, verrà perduta nel lume intestinale; una quota, infine, viene direttamente utilizzata per le esigenze delle cellule epiteliali intestinali. Regolazione dell’assorbimento intestinale È rimasto a lungo ignoto in che modo la cellula intestinale riceva l’informazione per modulare in modo intelligente l’assorbimento di ferro, che viene aumentato nelle situazioni di sideropenia e in caso di esaltata eritropoiesi, mentre si riduce nelle situazioni di sovraccarico marziale. Recentemente il principale regolatore dell’assorbimento intestinale di ferro è stato identificato e denominato “epcidina”. Si tratta di un piccolo peptide di produzione epatica, che ha la struttura dei peptidi antimicrobici. Il peptide attivo è formato da 20-25 aminoacidi a partire da un precursore di 84 aminoacidi prodotto nel fegato. La produzione di epcidina è in grado di bloccare l’assorbimento in caso di eccesso di ferro; la soppressione di epcidina in caso di carenza di ferro o
Membrana basolaterale
Lume Dcytb Fe3+ Fe2+
Fe2+ DMT1 Ferritina
Efestina Fe2+ Fe3+
Fe3+
Ferroportina
Figura 44.4 - Rappresentazione schematica dell’assorbimento intestinale di ferro. Per essere assorbito nella circolazione il ferro della dieta deve superare due membrane: sul versante luminale è trasferito all’interno dell’enterocita dal trasportatore di metalli DMT1 (Divalent Metal Transporter 1), che coopera con una reduttasi di membrana, Dcytb, in grado di ridurre il ferro da ferrico a ferroso. All‘interno dell’enterocita il ferro viene immagazzinato come ferritina in condizioni di eccesso di ferro. Altrimenti è ceduto alla transferrina circolante da un esportatore di ferro della membrana basolaterale, la ferroportina, coadiuvata da una ossidasi, efestina, che ossida il ferro ferroso allo stato ferrico. La regolazione sistemica dell’assorbimento mediata da epcidina si esplica sul versante basolaterale.
ipossia/anemia permette l’assorbimento di quote ingenti di ferro (Fig. 44.4). A questa scoperta si è arrivati tramite lo studio di modelli animali (il topo in cui il gene di epcidina è costitutivamente inattivato sviluppa sovraccarico di ferro, mentre il topo che iperesprime epcidina muore alla nascita per anemia sideropenica grave) e dell’emocromatosi ereditaria, che è una patologia tipica da sregolazione dell’assorbimento (si veda il Cap. 10). L’epcidina è una proteina di fase acuta che viene indotta dalla flogosi in risposta a citochine infiammatorie, in particolare all’IL-6. La sua aumentata produzione nell’infiammazione blocca l’assorbimento di ferro e causa sequestro di ferro nei macrofagi, entrambe caratteristiche dell’anemia delle malattie infiammatorie croniche, con la finalità di sottrarre un fattore di crescita di eventuali microrganismi. La produzione di epcidina è regolata dalla proteina HFE, codificata dal gene HFE le cui mutazioni sono all’origine della più comune forma di alterata regolazione dell’assorbimento del ferro che si osserva nella emocromatosi ereditaria (si veda il Cap. 30) Trasporto del ferro nel circolo sanguigno Il ferro, entrato nel torrente circolatorio, si trova in un sistema chiuso dove viene costantemente riciclato tra plasma e tessuti. Il midollo osseo ne impiega la gran parte per l’eritropoiesi, spetta invece al sistema reticolo-endoteliale (cellule macrofagiche del midollo, e più relativamente della milza e del fegato) fagocitare le emazie al termine del loro ciclo vitale di 120 giorni circa, recuperare il ferro e ritrasmetterlo nuovamente agli eritroblasti attraverso due vie: la transferrina (la quota maggiore) e il meccanismo della rofeocitosi (dal greco, aspirare), ovvero direttamente dai macrofagi agli eritroblasti (la quo-
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ta minore). La transferrina è formata da una catena polipeptidica singola, del peso molecolare di circa 80.000, provvista di due siti specifici di legame per il ferro, situati agli estremi N-terminale e C-terminale della molecola. La sua concentrazione plasmatica è di 240-280 mg/dl. Può essere misurata in termini di capacità ferrolegante totale del plasma (TIBC, Total Iron-Binding Capacity), normalmente 300-400 g/dl. Nel normale, la sideremia è circa 100-130 g/dl, per cui la transferrina è normalmente saturata per circa 1/3. La transferrina esiste in forma di apotransferrina (cioè priva di ferro), transferrina monoferrica (con un solo legame saturo) e transferrina diferrica (con entrambi i legami saturi). Sulla superficie della maggior parte delle cellule sono situati recettori per la transferrina: la captazione cellulare del ferro ha inizio con lo stabilirsi di un legame tra il complesso transferrina-ferro e il recettore della transferrina. La differenza nel numero di recettori adatta la captazione del ferro alle necessità del singolo tessuto; i recettori tissutali mostrano un’avidità preferenziale per la transferrina diferrica. Le cellule con maggior numero di recettori sono il trofoblasto placentare e i precursori eritroidi del midollo, soprattutto durante la loro maturazione in relazione alle necessità di produrre emoglobina. Il meccanismo di captazione del ferro avviene attraverso un fenomeno di endocitosi in cui il recettore, la transferrina e il ferro vengono internalizzati dalla cellula in un ciclo endosomico. Il ferro viene rilasciato al pH acido dell’endosoma e, mediante il trasportatore di membrana DMT1, viene rilasciato al citoplasma per le esigenze cellulari, mentre il recettore e l’apotransferrina vengono riciclati sulla superficie cellulare ed iniziano un nuovo ciclo. Recentemente è stato dimostrato che anche HFE, il gene dell’emocromatosi ereditaria, si associa al recettore della transferrina in questo ciclo endosomico, verosimilmente con funzione regolatoria. Deposito Il ferro di deposito viene immagazzinato sotto due forme: ferritina ed emosiderina. La ferritina è una molecola proteica di peso molecolare 440.000, costituita da catene legere L e pesanti H, con funzioni diverse. La proteina forma una sorta di guscio che ricopre un nucleo di sale ferrico insolubile, comprendente sino a circa 4500 atomi per molecola. Il ferro ferritinico è rapidamente mobilizzabile. La ferritina è presente nel siero dove riflette, con buona approssimazione, i depositi di ferro nell’organismo e può essere dosata con metodo RIA. Esistono differenze tra i sessi per quanto riguarda i livelli di ferritina sierici, che possono anche essere alterati da processi infiammatori, anche di lieve entità. L’emosiderina, costituita da aggregati di molecole di ferritina, rappresenta una forma di deposito più stabile da cui il ferro è scarsamente mobilizzabile; in passato veniva distinta dalla ferritina per la sua insolubilità e la positività alla colorazione con il blu di Prussia nelle preparazioni microscopiche. La diminuzione o l’assenza di emosiderina a livello midollare rappresenta la prima spia di un deficit di ferro nell’organismo: questo può accadere con largo anticipo, anche di parecchi mesi, sulla comparsa dell’anemia. Nelle situazioni di esaltata eritropoiesi, l’assorbimen-
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to del ferro non è costantemente aumentato; infatti, nelle anemie emolitiche croniche esso si mantiene nei limiti della norma, mentre nell’eritropoiesi inefficace è notevolmente incrementato. Nelle anemie emolitiche il ferro liberato dalle emazie lisate viene captato a livello del sistema reticolo-endoteliale, in grado di mobilizzarlo prontamente, mentre nella talassemia major, oltre al fatto che l’entità dell’eritropoiesi è maggiore, vi è un’elevata captazione di emoglobina-aptoglobina da parte del fegato e questo ferro è meno prontamente mobilizzabile di quanto non lo sia il ferro del sistema reticoloendoteliale.
Eziopatogenesi Uno stato di carenza marziale può essere determinato da: • • • •
apporto inadeguato; aumentato fabbisogno; assorbimento inadeguato; perdita protratta di ferro.
1. Un diminuito apporto senza che vi siano problemi di assorbimento o di fabbisogno è evento raro. Questo avviene più spesso nei vegetariani, perché anche se frutta e verdura contengono percentuali discrete di ferro (1) è altrettanto vero che vi si trovano nitrati, fosfati e carboidrati che tendono a chelare il ferro e a ridurre l’assorbimento (si veda Metabolismo del ferro). Durante il primo anno di vita, come si è detto, possono comparire anemie sideropeniche su base alimentare dal momento che il latte materno, e soprattutto quello artificiale, sono poveri di ferro. 2. Le condizioni nelle quali si registra un fabbisogno aumentato di ferro sono sostanzialmente tre: infanzia, gravidanza e allattamento. Nel primo anno di vita il bambino triplica il suo peso corporeo ed ha bisogno di 150 mg di ferro per espandere la sua massa eritrocitaria circolante e produrre proteine contenenti ferro quali la mioglobina. Il latte materno di per sé non è sufficiente, occorrono quindi alimenti ricchi di ferro come i cereali e la carne. Oppure un apporto farmacologico supplementare. Più complesso invece il bilancio del ferro in gravidanza. Ciascuna gravidanza comporta una perdita da parte della madre di circa 680 mg di ferro, equivalente a 1300 ml di sangue. Considerato che il pool totale in una donna di 50-55 kg si aggira sui 2000 mg di ferro, se ne può facilmente dedurre che la perdita totale è di un terzo. Perdita in gran parte dovuta all’espansione della massa eritrocitaria (450 mg, recuperabili) e in misura minore alle necessità del feto, alle perdite fisiologiche, alla placenta, al cordone ombelicale, alle emorragie durante il parto. Subito dopo la gravidanza, la lattazione rappresenta un ulteriore impegno per la madre. La perdita di ferro è (1) Che gli spinaci ne siano particolarmente ricchi è però una leggenda nata da un errore nella compilazione delle prime tabelle del contenuto di ferro di vari alimenti.
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stimata attorno a 0,5-1 mg/die. Il fabbisogno medio legato a questa particolare fase della vita di una donna è pari circa a quello delle mestruazioni, inibite nel postpartum. Questo è il motivo per cui non si assiste ad una anemizzazione ingravescente. 3. Il diminuito assorbimento è raramente causa di questa anemia. Pur tuttavia, conviene ricordare, a questo proposito, il ruolo svolto dall’acido cloridrico di derivazione gastrica (si veda Metabolismo del ferro). Logico quindi che tutte quelle condizioni caratterizzate da achilia presto o tardi alterino l’assorbimento del ferro. È il caso della gastrite atrofica o di una gastroresezione con asportazione del piloro. Da notare come la stessa anemia sideropenica possa provocare a sua volta achilia (si veda Clinica) per alterazione della mucosa gastrica. Infine, possono determinare sideropenia tutte le malattie che sono causa di malassorbimento, quali morbo celiaco, sprue tropicale, linfomi a localizzazione addominale, ecc. 4. La causa più comune di anemia sideropenica è la perdita protratta di ferro. Nell’uomo e nella donna dopo la menopausa la sede più frequente di sanguinamento cronico è il tratto digestivo. Infatti questo può datare da tempo senza dare segno di sé, ovvero riconoscere sovente una causa benigna non destinata ad un’evoluzione progressiva. Possono così trascorrere molti anni prima che si manifesti una situazione carenziale, fatta eccezione nel caso di una pregressa gravidanza o di mestruazioni particolarmente abbondanti che abbiano già intaccato le scorte dell’organismo. Le sedi e le cause più frequenti di sanguinamento sono: emorroidi, varici esofagee, ernie iatali, ulcere gastriche e duodenali, poliposi, gastriti emorragiche, cancro gastrico, diverticolosi, diverticolo di Meckel, colite ulcerosa, morbo di Crohn, cancro del colon e cause iatrogene (salicilati, corticosteroidi, FANS). Da notare, inoltre, che i sanguinamenti dalle porzioni distali del tubo digerente (per es., emorroidi) vengono considerati di solito un disturbo banale e come tale sottovalutati anche nel caso di una perdita ematica di proporzioni cospicue. Circa il 20% dei sanguinamenti dovuti a ulcere peptiche non comporta una sintomatologia dolorosa tale da richiamare l’attenzione sulla presenza o meno di una condizione emorragica. Eppure è sufficiente una piccola perdita anche di soli 10-15 ml/die per provocare nell’individuo adulto anemia sideropenica. È necessaria quindi una ricerca di sangue occulto nelle feci, dopo dieta acarnea e per un congruo numero di giorni (3), infatti spesso i sanguinamenti sono intermittenti. Anche l’ernia diaframmatica paraesofagea (iatale) rappresenta una condizione relativamente frequente di anemia sideropenica nell’età avanzata. Può accompagnarsi anche sintomatologia dolorosa e dispeptica. Infine sono da citare le neoplasie del tratto digerente ed in particolare quelle del colon destro (tratto ascendente), perché solitamente non si accompagnano a fenomeni di occlusione (più precoci se la neoplasia interessa il colon di sinistra) e perché il sanguinamento è di grado difficilmente rilevabile, comunque modesto. Nelle donne in età fertile, oltre alle situazioni sopra menzionate, la causa più frequente va ricercata in even-
Tabella 44.5 - Fattori eziologici della sideropenia. • Apporto inadeguato – Dieta • Aumentato fabbisogno – Infanzia – Gravidanza – Lattazione • Assorbimento inadeguato – Acloridria – Chirurgia gastrointestinale – Morbo celiaco – Altre malattie che provocano malassorbimento • Perdita protratta di ferro – Sanguinamento a partenza gastrointestinale (causa più frequente nel sesso maschile) – Menorragia (causa più frequente nel sesso femminile in età fertile) – Donatori di sangue – Emoglobinuria – Sindrome di Goodpasture – Teleangectasia emorragica ereditaria – Disturbi dell’emostasi N.B. Possibile sovrapposizione di più fattori eziologici contemporaneamente nello stesso paziente.
tuali emorragie dell’apparato genitale (alterazioni del ciclo mestruale, metrorragie da cause organiche, meccaniche od ormonali). Giova prendere in considerazione anche eziologie meno comuni, quali epistassi frequenti, emorragie in varia sede da disordini emocoagulativi, gravi ematurie, varie forme di emoglobinuria, lo stillicidio intestinale da anchilostoma o da Necator americanus. Infine, è importante segnalare anche l’anemia sideropenica possibile nei donatori di sangue. Vi sono poi numerosi casi che non rientrano necessariamente in una delle quattro cause principali esposte sopra, quanto piuttosto in un loro reciproco combinarsi. Per esempio la gravidanza, dove all’instaurarsi dell’anemia ferropriva concorrono sia un diminuito apporto che un aumentato fabbisogno (Tab. 44.5).
Fisiopatologia Il termine sideropenia è impiegato per definire una condizione nella quale tutto il contenuto in ferro dell’organismo è ridotto, senza menzione alcuna delle cause. Dal momento che le riserve di ferro possono esaurirsi prima che si manifesti una riduzione dell’eritropoiesi, ecco che l’anemia è uno stadio tardivo della sideropenia. In altre parole, si può parlare di una sideropenia prelatente quando, prima ancora di avere una diminuzione del ferro circolante, la presenza di emosiderina a livello del sistema reticolo-endoteliale midollare è notevolmente ridotta. Non sembra esserci evidenza biochimica di questo stato, fatta eccezione, forse, per una modificazione dei livelli di ferritina sierica. In questa fase si assiste ad un aumento compensatorio dell’assorbimento del ferro.
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C’è poi uno stato di sideropenia latente. Con questo termine si intende la sideropenia che si accompagna ad una diminuzione del ferro plasmatico, ma non ad alterazioni ematologiche. Da ultimo, si verifica uno stadio di eritropoiesi sideropenica, dove la produzione di emoglobina è via via sempre più limitata dalla ridotta quantità di ferro plasmatico (Tab. 44.6). Tale limitazione avviene regolarmente ogni qualvolta la saturazione della transferrina scende sotto il 16%. Non sempre, però, ridotti livelli ematici significano eritropoiesi sideropenica, dal momento che talora questi dipendono da anormalità del metabolismo del ferro anche in assenza di sideropenia, come nel caso dell’anemia delle malattie croniche. Una volta sviluppatasi la sideropenia, col passare dei mesi compare una microcitosi. Questo perché nella maturazione della serie eritrocitaria le duplicazioni avvengono fino a quando il contenuto in Hb non abbia raggiunto una certa quantità. Se vi è carenza di ferro la duplicazione procede ugualmente, ma con perdita di massa cellulare e immissione nel torrente circolatorio di eritrociti più piccoli. Si tratta, però, di una microcitemia che, inizialmente, interessa solo una minoranza delle cellule e almeno in questa fase non si accompagna ad una diminuzione significativa del volume corpuscolare medio (MCV), diminuzione che, viceversa, compare quando la sideropenia perdura ormai da lungo tempo. Perché vengano prodotti eritrociti maturi occorre dunque che negli eritroblasti venga formata una congrua quantità di Hb. Se le scorte di ferro (che è costituente essenziale della Hb) sono esaurite, il singolo eritrocita avrà quantità insufficienti di Hb al suo interno. È opportuno sottolineare l’espressione “se le scorte di ferro sono esaurite”: infatti l’organismo intacca le proprie risorse prima di palesare un difetto nella produzione di Hb. Al microscopio ottico, con i comuni metodi di colorazione, si osserva così ipocromia dapprima ristretta a pochi elementi e solamente più tardi una diffusa riduzione della concentrazione emoglobinica. In condizioni ordinarie si tratta dunque di una situazione caratterizzata da ipocromia, microcitosi e minor trasporto di ossigeno ai tessuti. Il rene, però, risponde a questa ipossigenazione secernendo eritropoietina, che a sua volta stimola il midollo. Si tratta di un compenso apparente: in realtà le emazie in via di maturazione che hanno difficoltà a fabbricare e incorporare l’Hb nel loro citoplasma sono anche più fragili e più difficilmente arrivano a comple-
ta maturazione. E infatti una quota di globuli rossi può morire nel midollo stesso (eritropoiesi inefficace), rendendo vano il compenso dovuto ad un’aumentata produzione numerica degli elementi della serie rossa. In linea teorica non ci dovrebbero essere modificazioni a carico degli altri stipiti cellulari (globuli bianchi e piastrine), in realtà non è raro il riscontro di granulocitopenia e trombocitosi, di oscura interpretazione. Ma il metabolismo del ferro non riguarda esclusivamente l’Hb; infatti, entra nella mioglobina e in molti coenzimi, principalmente nei citocromi, nelle catalasi, perossidasi e nelle metalloflavoproteine. Un suo deficit, quindi, provoca conseguenze soprattutto in quelle cellule caratterizzate da rapido turn-over. Si notano alterazioni a livello di epiteli di rivestimento, annessi cutanei, cavo orale e mucosa gastrica.
Clinica La maggior parte dei pazienti presenta una progressione estremamente lenta e graduale della sintomatologia. Il paziente affetto da ulcera peptica, per esempio, o da neoplasia dell’apparato digerente, o ancora la donna che lamenta mestruazioni abbondanti o frequenti quando si rivolgono al medico curante presentano già dei valori di Hb inferiori a 8 g/dl. Clinicamente il paziente lamenta disturbi generali comuni a tutte le forme di anemia quali cefalea, astenia ingravescente, tachicardia, dispnea da sforzo, facile irritabilità, insonnia, labilità emotiva, pallore. Caratteristica invece dell’anemia sideropenica sembra essere la “voglia” di particolari sostanze (pica), di argilla, di amido da bucato o di ghiaccio (pagofagia). In una parte dei pazienti, soprattutto in quelli in cui l’anemia dura da tempo, possono comparire lesioni a carico della cute, annessi cutanei e mucose. La frequenza di questi segni (peculiari anch’essi della anemia sideropenica) è diversa a seconda della popolazione presa in esame. In Europa e negli USA sono piuttosto rari, a differenza del Sud-est asiatico, ma le ragioni di questa curiosa distribuzione non sono ben chiare. La cute diventa secca, anelastica; i capelli sottili, fragili, radi; le unghie opache, fragili, rigate longitudinalmente, talvolta appiattite o addirittura concave (coilonichia). I disturbi a carico delle mucose riguardano soprattutto il cavo orale e, più raramente, il faringe.
Tabella 44.6 - Diversi livelli di sideropenia.
Ferro del SRE Sideremia Anemia Ipocromia/microcitosi Aumentato assorbimento di Fe Alterazioni epiteliali MCV/MCHC
NORMALE
SIDEROPENIA PRELATENTE
SIDEROPENIA LATENTE
ANEMIA INIZIALE
ANEMIA SEVERA
Normale Normale No No No No Normali
Ridotto Normale No No Sì No Normali
Assente Ridotta No No Sì No Normali
Assente Ridotta Sì (modesta) Sì (alcune cell.) Sì No Normali
Assente Ridotta Sì (grave) Sì (diffusa) Sì Sì Ridotti
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Le labbra presentano piccole ragadi alle commissure (cheilite angolare); la mucosa orale è arrossata, la lingua liscia, levigata, pallida. Al confine tra ipofaringe ed esofago si possono notare creste mucose che sporgono all’interno del lume, riducendone il calibro. Questo causa disturbi della deglutizione (disfagia sideropenica). La triade sintomatologica comprendente anemia, glossite ed esofagite viene definita sindrome di Plummer-Vinson o Paterson-Kelly. Si possono registrare anche disturbi gastrici. A tutt’oggi i rapporti sideropenia-atrofia della mucosa gastrica con acloridria non sono ancora del tutto chiariti. I dati esistenti, infatti, divergono soprattutto in ragione del sistema impiegato per stimolare la secrezione gastrica. Oggi si può affermare che la presenza di una gastrite riduce l’assorbimento del ferro, la cui carenza peggiora ulteriormente la sintomatologia gastrica. Nelle donne è frequente l’atrofia della mucosa vaginale. A. Esami di laboratorio. Quando il quadro clinico è conclamato, l’anemia è tipicamente microcitica. Il patrimonio emoglobinico e l’ematocrito sono sempre inferiori alla norma. Nel caso della Hb si possono toccare valori molto bassi, ma più comunemente ci si mantiene attorno agli 8 g/dl. Quanto ai globuli rossi, raramente scendono sotto i 3 × 1012/l e nelle forme lievi si mantengono ai limiti inferiori della norma. Tutti diminuiti, invece, i parametri corpuscolari. Al microscopio si osserva una particolare diafania della parte centrale dei globuli rossi (ipocromia), che sono anche più piccoli (microcitemia). Inoltre, proprio perché l’eritropoiesi è anomala, si troveranno emazie di grandezza differente (anisocitosi) e di forme bizzarre (poichilocitosi). L’entità delle alterazioni morfologiche è proporzionale alla gravità dell’anemia. Il numero dei reticolociti può essere aumentato se l’attività del midollo stimolato supera la quota di eritropoiesi inefficace, in caso contrario sono diminuiti; più spesso si mantengono nella norma. Il parametro ematochimico fondamentale ai fini della diagnosi è la concentrazione di ferro nel siero, cioè la sideremia. Nelle anemie sideropeniche si possono avere valori molto bassi: 5-10 g/dl. Il ferro nel siero è legato alla transferrina. Questa viene dosata solitamente come TIBC, che, confrontata con la concentrazione di ferro sierico, permette di valutare la percentuale di transferrina che è saturata dal ferro, normalmente del 20-35%. La concentrazione di transferrina nel siero è inversamente proporzionale ai depositi di ferro, per cui in caso di sideropenia l’aumentata sintesi di transferrina, che risulta scarsamente saturata, porta ad aumento del valore della TIBC (capacità ferrolegante totale) e della LIBC (capacità ferro-legante latente). Un altro dato determinante ai fini diagnostici è rappresentato dalla ferritina. Può circolare nel plasma in piccole quantità (12-300 g/l) e bene si correla con la quantità di ferro presente nell’organismo. Solitamente la diagnosi di anemia sideropenica non richiede il pun-
tato sternale a fini diagnostici. Comunque, nel caso venga eseguito si potrebbero osservare una perdita dei depositi di ferro (negativa la colorazione con il blu di Prussia per la presenza di emosiderina) ed una quota ridotta di sideroblasti. Il numero dei leucociti è nella norma, ma talvolta può ridursi; le piastrine possono arrivare a 600-1000 × 109/l, ed il meccanismo responsabile dell’aumento non è noto.
Diagnosi La diagnosi di anemia sideropenica è basata essenzialmente sui dati di laboratorio. Ci sono peraltro anemie microcitiche ipocromiche che possono essere scambiate per una carenza di ferro. Nel caso di anemie sideroblastiche e talassemie la distinzione è sufficientemente facile, dal momento che si tratta di patologie associate ad una concentrazione di ferro normale o elevata. Nelle anemie delle malattie croniche, invece, dove è presente una riduzione della sideremia, la diagnosi differenziale è posta grazie alla transferrinemia e alla ferritinemia. Nelle anemie sideropeniche, infatti, avremo sideremia e ferritinemia diminuite ma transferrina aumentata; se si dosa poi la TIBC, risulterà un aumento assoluto della transferrinemia. Invece, nel caso dell’anemia delle malattie croniche, sideremia e transferrinemia sono ridotte; la ferritina è normale o aumentata. Va sottolineato che, per quanto riguarda la ferritina, un suo tasso sierico inferiore a 12 g/l è correlato sicuramente ad una carenza di ferro, mentre il riscontro di un valore normale o anche aumentato non è da ritenere significativo per escludere un’eventuale carenza marziale, perché il livello di ferritina si modifica nel corso di infezioni o infiammazioni (come sopra citato, per esempio, nel caso delle malattie croniche), per cui sul valore finale possono interferire due meccanismi di segno opposto. Si può ricorrere, infine, anche al puntato sternale e alla valutazione dei depositi di ferro con metodo citochimico: nell’anemia sideropenica, come si è detto, si osserva una loro deplezione.
Prognosi Si può parlare di prognosi solo facendo riferimento alla causa che ha provocato l’anemia, diversa nel caso di un carcinoma gastrico sanguinante o di emorroidi. Raramente il paziente giunge a morte per l’anemia in quanto tale, ma piuttosto per la causa di essa. Frequenti le ricadute: il 33% dei pazienti donne e il 25% degli uomini.
Cenni di terapia Il trattamento di elezione è rappresentato dal ferro (vi sono più di cento preparati in commercio). Quasi tutti i pazienti con anemia sideropenica rispondono ai prepa-
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rati per os. Nelle gastriti atrofiche si somministra solfato ferroso, che non necessita di acido cloridrico per essere assorbito. Conviene somministrare ferro per via endovenosa (o intramuscolare) solo nei casi documentati di malassorbimento. Ad eccezione di quei pazienti con una perdita di ferro cospicua e continua, la correzione dello stato anemico può essere raggiunta in circa 2 mesi. Una volta corretta l’anemia, si deve continuare la terapia per altri 6 mesi, allo scopo di ripristinare le riserve del ferro. Quanto alle lesioni epiteliali, quelle riguardanti le unghie e la lingua si risolvono entro 3-6 mesi, ma già dopo 2 settimane si osservano segni di miglioramento. Non responsiva del tutto (o meno responsiva) sembra essere la disfagia sideropenica. Così pure la gastrite e i difetti di secrezione gastrica, soprattutto negli adulti.
ANEMIA DELLE MALATTIE INFIAMMATORIE CRONICHE (2) L’anemia delle malattie infiammatorie croniche è di riscontro abbastanza frequente, isolata od associata ad altre forme di anemia; essa si riscontra in pazienti portatori di neoplasie, infezioni croniche, malattie infiammatorie croniche, tipica tra queste l’artrite reumatoide. Si tratta di un’anemia ipoproliferativa da lieve a moderata con iposideremia, transferrinemia ridotta, basso indice reticolocitario, aumento della protoporfirina delle emazie, depositi reticolo-endoteliali di ferro normali o aumentati, con assenza o notevole riduzione dei sideroblasti. A. Eziopatogenesi. Non è definitivamente chiarita, ammettendosi la responsabilità di tre meccanismi principali tra loro interagenti in misura diversa: una ridotta sopravvivenza delle emazie, una ridotta attività proliferativa del midollo ed un’alterata liberazione del ferro nel plasma, per blocco a livello del sistema reticolo-endoteliale. Il punto chiave sembra l’incapacità del midollo di incrementare la produzione di emazie per sopperire alla perdita dovuta alla modesta emolisi, per cui una situazione emolitica di grado lieve è sufficiente a provocare anemia. In ricerche sperimentali con colture di midollo si è dimostrato che i macrofagi attivati, e non i macrofagi in stato di quiete, sopprimono la formazione di colonie eritroidi e questo si verifica anche in presenza di un piccolo numero di macrofagi, indicando così la responsabilità di un fattore solubile. Esso è da identificare con il fattore di necrosi tumorale (TNF) o cachettina, che inibisce lo sviluppo delle cellule ematopoietiche a livello delle CFU(2) Questa anemia era tradizionalmente chiamata “anemia delle malattie croniche”. Il nome è stato abbandonato perché potrebbe generare confusione: l’ipertensione arteriosa e il diabete sono malattie croniche nelle quali non si verifica questa anemia. In realtà, anche la denominazione attuale non è perfetta perché, oltre che nelle infiammazioni croniche, questa anemia si può osservare anche nelle neoplasie.
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
GEMM, CFU-GM, BFU-E e CFU-E. Per l’inibizione delle BFU-E e CFU-E si sono dimostrate efficaci concentrazioni picomolari, simili a quelle prodotte spontaneamente da monociti isolati di pazienti anemici portatori di neoplasia. Infine, per la patogenesi di questa forma di anemia, viene tradizionalmente riconosciuta l’importanza del cosiddetto “blocco reticolo-endoteliale del ferro”. Con metodiche di ferrocinetica si è effettivamente dimostrata una difettosa capacità del sistema reticolo-endoteliale di reimmettere il ferro in circolo e di renderlo in tal modo disponibile al midollo, ma il deficit è di entità modesta e non tale da rendere completamente conto dell’anemia. Questo blocco, tuttavia, può spiegare l’iposideremia di questa particolare forma di anemia. La transferrinemia è bassa non solo per la prevalenza del catabolismo proteico, ma anche perché, di fatto, le scorte di ferro nelle cellule del sistema reticolo-endoteliale sono aumentate (Fig. 44.5). B. Clinica. Le manifestazioni cliniche sono soprattutto quelle riferibili alla malattia di base. Affaticabilità, perdita di peso, astenia, anoressia, pallore possono instaurarsi insidiosamente nella gran parte delle affezioni croniche. È perciò difficile stabilire il reale apporto dello stato anemico a questi sintomi. Raramente una ridotta quantità di Hb rappresenta il primo riscontro di una malattia di base fino a quel momento ignorata. Esiste comunque una correlazione grossolana tra entità dello stato anemico e attività della malattia di base qual è indicata dalla febbre, infiammazione, suppurazione o calo ponderale. L’anemia può essere normocitica e normocromica quando prevalgono la diminuita sopravvivenza degli eritrociti e la ridotta attività midollare, oppure microcitica se viceversa prevale la tendenza a trattenere ferro nei depositi. L’Hb è solitamente compresa tra 8-12 g/dl, i reticolociti nella norma o di poco ridotti. Caratteristicamente vi sono iposideremia, marcata diminuzione della TIBC e
T T T S S N
AS
S AMC
Figura 44.5 - Relazioni tra sideremia (S) e concentrazione di transferrina (T) nel siero, nel normale (N), nell’anemia sideropenica (AS) e nell’anemia delle malattie infiammatorie croniche (AMC).
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normale o moderata riduzione della saturazione di transferrina, RDW normale (si veda la diagnosi differenziale delle anemie sideropeniche). La ferritina sierica e il ferro midollare sono normali o aumentati, mentre i sideroblasti nel midollo sono ridotti o assenti. Da segnalare, inoltre, un discreto aumento della cupremia, della protoporfirina libera eritrocitaria e della escrezione urinaria di coproporfirine. È importante sottolineare come lo studio della crasi ematica sia di scarso aiuto nel precisare l’esatta natura della malattia cronica presente. Si tratta infatti di un segno aspecifico comparabile all’aumento del numero dei granulociti o alla VES elevata. L’unica terapia efficace è quella diretta nei confronti della malattia cronica esistente.
ANEMIE SIDEROBLASTICHE (*) Le anemie sideroblastiche sono un gruppo eterogeneo di disordini caratterizzati dalla presenza di eccessive quantità di ferro nei mitocondri perinucleari dei normoblasti. Questa anomalia si rende evidente negli strisci midollari colorati per il ferro (blu di Prussia) dove compaiono eritroblasti con un anello più o meno completo attorno al nucleo (sideroblasti ad anello).
Eziologia Molti sono i disordini associati con l’anemia sideroblastica e altrettanto numerose le classificazioni proposte (Tab. 44.7). Tabella 44.7 - Classificazione delle anemie sideroblastiche. Ereditarie • Legata al cromosoma X (deficit di ALA-sintetasi) • Autosomica recessiva Acquisite • Idiopatica refrattaria (una delle forme di mielodisplasia) • Secondaria a: – Farmaci antagonisti della vitamina B6 (isoniazide, L-dopa, ecc.); tossine mitocondriali (cloramfenicolo, ecc.); meccanismo d’azione ignoto (azatioprina, ecc.) – Alcolismo – Intossicazione da piombo – Malattie mieloproliferative (per es., mielofibrosi, leucemia) – Malattie linfoproliferative (per es., linfoma, mieloma) • Cause varie (per es., tubercolosi, artrite reumatoide, malattie della tiroide, porfirie, neoplasie, ecc.)
(*) G. Gromo.
Una prima suddivisione riguarda la presenza di una forma acquisita e di una ereditaria. Quest’ultima è trasmessa come un’anomalia legata al cromosoma X, con penetranza variabile (ci sono segnalazioni anche in favore di una trasmissione autosomica-recessiva). La forma acquisita (molto più frequente) può osservarsi in associazione con una grande varietà di farmaci, di infiammazioni croniche, di neoplasie. Spesso può capitare di non riuscire a identificare una possibile causa e allora si parla di anemia sideroblastica acquisita idiopatica refrattaria; essa appartiene alle mielodisplasie e sarà descritta più oltre.
Patogenesi L’abnorme accumulo di ferro nei mitocondri degli eritroblasti ha fatto sì che l’interesse si concentrasse sugli aspetti mitocondriali della sintesi dell’eme (per la regolazione della sintesi dell’eme e il metabolismo delle porfirine si veda la figura 65.3 nel capitolo 65). La prima tappa comporta la formazione di acido -aminolevulinico, a partire da glicina e succinil CoA. Questa reazione è catalizzata da un enzima mitocondriale, l’acido -aminolevulinico-sintetasi, ALA-sintetasi, che è l’unico enzima della catena metabolica limitante la velocità di reazione e richiede l’intervento del piridossal-5-fosfato, che è la forma coenzimatica attiva della vitamina B6. Esiste quindi una relazione tra vitamina B6 e sintesi della Hb. La trasformazione dell’acido -aminolevulinico in porfobilinogeno, uroporfirinogeno III, coproporfirinogeno e protoporfirina IX si verifica a livello delle creste mitocondriali o nel citoplasma, mentre la coniugazione tra le molecole di ferro e le protoporfirine è mediata dall’eme-sintetasi, un enzima mitocondriale. Esiste infine un meccanismo a feed-back negativo sull’attività dell’ALA-sintetasi: se c’è molto eme si accentua l’inibizione, se l’eme manca si riduce l’inibizione. La difettosa sintesi dell’eme, ritenuta il meccanismo patogenetico principale, può conseguire dunque ad alterazioni del metabolismo della vitamina B6 e a modificazioni di attività dell’ALA-sintetasi, dell’eme-sintetasi o di qualcuno degli altri enzimi implicati nella sintesi porfirinica. Tra i casi ereditari, complessivamente rari, la forma più frequente, trasmessa come carattere legato al cromosoma X a penetranza variabile, sembra potersi ascrivere a un deficit di ALA-sintetasi oppure di coproporfirinogeno-ossidasi, l’enzima che catalizza il passaggio da coproporfirinogeno III a protoporfirinogeno IX. Come si è accennato, l’anemia acquisita idiopatica refrattaria appartiene al gruppo delle mielodisplasie e quindi delle malattie delle cellule staminali ematopoietiche ad evoluzione clonale, analogamente alle leucemie. Nel caso delle forme acquisite secondarie a numerosi farmaci e ad alcolismo l’alterazione principale è a livello del metabolismo della vitamina B6, per il frequente verificarsi di un deficit condizionato da un aumento del fabbisogno e non da un diminuito apporto.
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Infine nell’intossicazione da piombo il quadro ematologico può essere correlato a diversi effetti biochimici. In primo luogo si ha inibizione dell’acido -aminolevulinico-deidratasi, della coproporfirinogeno-ossidasi e dell’eme-sintetasi, enzimi, come si è visto, interessati alla sintesi dell’eme. Ma il piombo interferisce anche sulla pompa del sodio della membrana dei globuli rossi inibendo l’ATPasi (ridotta sopravvivenza delle emazie, si veda a proposito della sferocitosi), nel metabolismo del DNA e del RNA (inibizione della pirimidin-nucleotidasi) e infine nei processi calcio-dipendenti, ivi compresa la respirazione mitocondriale: quest’ultima alterazione, unita alla compromissione della sintesi dell’eme, può contribuire alla formazione di sideroblasti ad anello.
Fisiopatologia Le anemie sideroblastiche sono caratterizzate da una difficoltosa formazione di emoglobina, in quanto il ferro che viene normalmente assunto dagli eritroblasti, a causa delle alterazioni enzimatiche citate, non viene regolarmente incorporato nelle molecole di emoglobina e si deposita all’interno degli eritroblasti stessi, in particolare nei mitocondri perinucleari. L’anemia si presenta, in una parte di casi, con gli stessi caratteri dell’anemia sideropenica, con ipocromia e microcitosi a distribuzione non uniforme; in altri casi il volume corpuscolare medio è normale e talvolta addirittura aumentato. Questa variabilità di reperti indica, oltre all’esistenza di un disturbo nella sintesi dell’emoglobina, anche un’alterata maturazione degli eritroblasti, che si accompagna ad una certa quota di eritropoiesi anomala ed inefficace.
Clinica Nella forma ereditaria l’anemia può essere presente nei primi mesi di vita ma di solito viene diagnosticata per la prima volta nei giovani adulti di sesso maschile, anche se non è chiara la ragione di questo ritardo diagnostico. L’anemia acquisita idiopatica refrattaria si verifica soprattutto nei soggetti di oltre 50 anni (età media 66 anni); è comunque possibile che sia sottodiagnosticata e come tale molto più frequente di quanto non si pensi. Le forme ereditarie e quelle acquisite (ad eccezione di quella idiopatica) si comportano in maniera abbastanza simile e non si discostano, per quanto riguarda la sintomatologia, dalle altre anemie. Il grado di anemizzazione (mediamente 6,5/g/dl di Hb), come pure l’ipocromia e la microcitosi, è notevole. Al microscopio si osserveranno anisopoichilocitosi, cellule a bersaglio, granulazioni basofile e un relativo dimorfismo eritrocitario. Per confermare la diagnosi è necessario l’esame di un preparato midollare colorato con blu di Prussia, per la dimostrazione del ferro; mentre il midollo normale presenta circa il 30-50% di eritroblasti contenenti alcuni granuli di ferro disposti nel citoplasma in modo del tutto casuale (sideroblasti), in condizioni patologiche sono stati descritti due tipi di sideroblasti. Un primo tipo è caratterizzato da un aumento generaliz-
zato del numero e del diametro dei granuli citoplasmatici e si riscontra in numerose affezioni quali emosiderosi, emocromatosi, talassemie, anemie ipoplastiche ed emolitiche; un secondo tipo, proprio delle anemie sideroblastiche, mostra il ferro localizzato elettivamente nei mitocondri perinucleari (sideroblasti ad anello). Il quadro midollare presenta anche, con discreta frequenza, un’iperplasia eritroblastica con prevalenza degli elementi basofili e talvolta una piccola quota di megaloblasti. La sideremia è elevata, la transferrinemia bassa. Al quadro sopra descritto fa eccezione la forma idiopatica refrattaria, che presenta alcune peculiarità. L’esame obiettivo è generalmente nella norma, ad eccezione di un’epatosplenomegalia modesta (40% dei casi). Quanto alle costanti ematologiche si rileva, più di frequente, una macrocitosi (MCV 100 fl), talvolta associata a piastrinopenia e granulocitopenia. Da segnalare, inoltre, a livello midollare un’iperplasia eritroide (M:E ratio = 1:1); modificazioni in senso megaloblastico; dal 43 al 95% di sideroblasti ad anello. La percentuale di saturazione della transferrina è notevolmente aumentata, come pure la ferritina. Nel 50% dei casi ci sono anomalie cromosomiche. La sopravvivenza mediana di questi pazienti è di 10 anni, destinata comunque ad aumentare in quei casi dove non si richiede terapia trasfusionale. Nel 7% l’evento terminale è una leucemia mielomonoblastica acuta.
Diagnosi Le anemie sideroblastiche devono essere distinte da altre cause di anemia microcitica ipocromica. Nel corso di una carenza di ferro, sideremia e ferritina sono ridotte, la capacità totale legante il ferro (TIBC) aumentata e negli strisci midollari macrofagi ed eritroblasti sono privi di ferro colorabile con il blu di Prussia. L’anemia delle malattie croniche è caratterizzata da sideremia bassa, ridotta TIBC, ferritina normale e depositi di ferro midollare normali o modestamente aumentati. Quanto ai sideroblasti patologici, pur essendo presenti, non hanno mai la caratteristica struttura ad anello. Nell’anemia sideroblastica idiopatica refrattaria la macrocitosi e la presenza di megaloblasti a livello midollare potrebbero ricordare una carenza primaria di B12 o acido folico. Anche se i sideroblasti ad anello possono essere presenti in queste forme, tuttavia il loro numero è notevolmente inferiore. Resta pur sempre la possibilità di una sovrapposizione, cioè di una carenza di folati secondaria ad anemia sideroblastica.
Cenni di terapia La terapia è possibile nei casi dove esiste un deficit condizionato di vitamina B6, quindi nelle forme acquisite secondarie ad altre malattie, a farmaci o ad agenti tossici. Assai di frequente, però, le dosi curative sono molto elevate, nell’ordine delle centinaia di milligrammi.
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Le forme ereditarie non sempre rispondono alla piridossina, e non di rado si osservano comportamenti diversi tra i membri affetti di uno stesso nucleo familiare. Nella forma idiopatica, viceversa, non vi è praticamente nulla da fare, anche se si registrano alcuni casi sensibili alla somministrazione di piridossal-5-fosfato (supposto deficit di piridossal-chinasi).
TALASSEMIE (*) Le talassemie sono un gruppo di anemie ereditarie caratterizzate da una ridotta o abolita produzione di una o più delle catene peptidiche che costituiscono la porzione globinica della emoglobina. Questa situazione comporta un alterato rapporto tra catene peptidiche globiniche di diverso tipo, precipitazione intracellulare delle catene peptidiche che risultano in eccesso ed alterazioni tanto dell’eritropoiesi che della sopravvivenza degli eritrociti che in queste condizioni vengono prodotti. Le talassemie sono molto comuni in una fascia geografica che va dalle coste del Mediterraneo ai Balcani, al Medio Oriente, all’India, all’Asia sudorientale, fino alla Nuova Guinea. In Italia una forma particolare di talassemia (-talassemia) è particolarmente comune nelle regioni insulari, nel meridione della penisola e nel delta padano (con particolare concentrazione nella provincia di Ferrara).
Regolazione genetica della sintesi di emoglobina La porzione proteica della molecola emoglobinica, o globina, è formata da quattro catene peptidiche a due a due uguali (Fig. 44.6). Nell’adulto la maggior parte dell’emoglobina comprende due catene di 141 aminoacidi, dette , e due catene di 146 aminoacidi, dette . La costituzione dell’emoglobina dell’adulto (HbA) viene perciò indicata come 2 2. In realtà, i geni strutturali che codificano la sintesi dell’emoglobina sono ben più di due (uno per le catene e uno per le catene ) e possono essere distinti in due gruppi. Il primo, che per comodità chiameremo di tipo , include due geni strutturali presenti sul cromosoma 16, indicati (dal nome della catena peptidica che codificano) con le lettere greche zeta () e alfa (). Questi ultimi sono presenti in due copie su ciascun cromosoma 16. Il secondo gruppo, che per comodità chiameremo di tipo non , include ben quattro geni strutturali, presenti sul cromosoma 11, indicati con le lettere greche epsilon ( ), gamma (), delta ( ) e beta (). I geni e sono contigui e sono presenti ciascuno in una singola copia. Per le catene esiste, in realtà, un blocco di geni strutturali definiti rispettivamente G1, G2, e A, co(*) F. Pellò.
sì che le catene sintetizzate sono in realtà una miscela eterogenea. Le differenze sono però così trascurabili che, ai fini pratici, possiamo considerare le catene come se fossero omogenee e codificate da un singolo gene. L’organismo utilizza tutti questi geni nelle varie tappe del suo sviluppo, alcuni di essi in successione in una specie di staffetta, dando origine a vari tipi di emoglobina in base alla regola che si ha una combinazione due a due tra le catene di tipo e le catene di tipo non prodotte in un particolare momento. Nella vita embrionale vengono utilizzati, sul cromosoma 16, prima i geni che codificano le catene e poi i geni che codificano le catene , mentre, sul cromosoma 11, vengono utilizzati prima i geni che codificano le catene e poi i geni che codificano le catene . Il risultato è che vengono prodotte in successione prima un’emoglobina definita Hb Gower 1 (2 2), poi una miscela tra una emoglobina definita Hb Gower 2 (2 2) ed un’emoglobina definita Hb Portland (22), e infine un’emoglobina definita Hb F (22) o emoglobina fetale: questa denominazione dipende dal fatto che questa emoglobina predomina nettamente durante tutta la vita fetale. Nella vita fetale, tuttavia, inizia l’utilizzazione di altri due geni strutturali del cromosoma 11, prima quelli che codificano le catene e poi quelli che codificano le catene . Può perciò iniziare la formazione della emoglobina di tipo adulto o HbA (22) e della HbA2 (2 2). L’utilizzazione del gene che codifica le catene cresce con il tempo e va di pari passo con una minore espressione del gene che codifica le catene . Ne consegue che all’aumentare della formazione di HbA corrisponde una riduzione nel tempo della formazione di HbF. Alla nascita la HbF è circa il 60% di tutta l’emoglobina, mentre al termine del primo anno di età è ridotta a quantità trascurabili e tale resterà per il resto della vi-
Cromosoma 16 Due copie di una tra le seguenti catene di tipo : ,
Cromosoma 11 Due copie di una tra le seguenti catene di tipo non : , , ,
Figura 44.6 - Rappresentazionre schematica della struttura delle emoglobine. Gli spicchi rappresentano le catene peptidiche della globina. I cerchi con il segno + i gruppi eme, uno per ciascuna catena peptidica. A fianco sono indicate le possibili catene peptidiche dei due tipi che, nelle emoglobine normali, sono sempre a due a due uguali.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Cromosoma 16
100%
Cromosoma 11
60%
0,5%
40%
97,0% 2,5%
Embrione
Feto
1° anno
dopo il 1° anno
Figura 44.7 - Successione temporale della sintesi delle varie emoglobine.
ta (circa 0,5%). La formazione di catene prosegue nella vita adulta, ma sempre in misura modesta, così che la HbA2 si aggira normalmente sul 2,5% del totale. Perciò, nella vita adulta la HbA costituisce normalmente circa il 97% di tutta la emoglobina. Uno schema con la successione temporale della sintesi delle varie emoglobine è presentato nella figura 44.7.
Eziopatogenesi Le talassemie dipendono da un’anomalia di uno o più dei geni che codificano le catene peptidiche della globina, anomalia tale da abolirne del tutto o da ridurne la produzione. In teoria il difetto può interessare uno qualsiasi di questi geni, ma in realtà i difetti che contano sono a carico dei geni codificanti le catene , -talassemia; dei geni codificanti le catene , -talassemia; o, in forma combinata, dei geni codificanti le catene e quelle , --talassemia. A. Natura dell’alterazione genetica. La normale espressione dei geni delle catene peptidiche dell’emoglobina comporta la loro trascrizione primaria in lunghe molecole di RNA (detto RNA eterogeneo nucleare o HnRNA). Nel nucleo degli eritroblasti queste molecole sono trasformate nella forma più piccola e definitiva del RNA messaggero (mRNA) grazie ad una operazione definita convenzionalmente in inglese “processing”, che consiste nell’eliminazione di questi segmenti dell’HnRNA che corrispondono agli introni (porzioni di DNA non destinate ad essere tradotte) e nella congiunzione (“splicing”) di quei segmenti che corrispondono agli esoni (porzioni di DNA destinate ad essere tradotte). Successivamente il mRNA è tradotto nella globina sui poliribosomi del citoplasma con coinvolgimento di RNA transfer che trasporta gli aminoacidi specifici sui polipeptidi globinici in crescita. Le catene di tipo e di tipo non complete, che vengono costruite su ribosomi separati, vengono liberate, si inserisce il gruppo eme e si forma il tetramero di emoglobina. Molte forme di -talassemia e alcuni tipi di o
--talassemia dipendono dalla delezione totale o parziale dei geni corrispondenti. Nella maggior parte dei casi di -talassemia l’alterazione genetica è di tipo differente ed è per lo più legata a mutazioni puntiformi che interferiscono con una qualsiasi delle tappe che
Figura 44.8 - Crossing-over asimmetrico che conduce a formazione del gene Hb Lepore e anti-Lepore.
conducono alla trascrizione e alla traduzione dei geni così mutati, o che condizionano la formazione di catene globiniche altamente instabili che sono distrutte subito dopo essere formate. Le possibilità sono varie, così che deve essere ricordato che, sul piano della genetica molecolare, esistono diverse forme di -talassemia e per molte di queste il meccanismo molecolare non è ancora stato accertato. Un caso particolare è rappresentato dal gene Lepore, che deriva da un crossing-over asimmetrico tra il gene che codifica le catene e quello che codifica le catene (Fig. 44.8): l’Hb Lepore ha normali catene combinate con catene derivanti dalla fusione tra i residui NH2 terminali della catena ed i residui COOH terminali della catena . Il punto di fusione è variabile, per cui si hanno tipi diversi di Hb Lepore, per diversa lunghezza dei residui
e nella catena non . Il gene Lepore sintetizza la corrispondente catena peptidica in misura quantitativamente ridotta rispetto alle normali catene e da qui deriva la classificazione di questa anomalia tra le talassemie. Le emoglobine anti-Lepore sono i prodotti reciproci, in cui persistono un gene e un gene completo più il prodotto di fusione consistente delle porzioni di geni e persi nell’emoglobina Lepore: le principali sono l’Hb Miyada e l’Hb P-Nilotic. Una situazione correlata alle talassemie è la persistenza ereditaria della Hb fetale (Hereditary Persistence of Fetal Haemoglobin) HPFH, in cui la produzione di quantità relativamente grandi di Hb fetale continua nella vita adulta, in assenza di anomalie ematologiche importanti. L’emoglobina F è distribuita uniformemente nelle emazie, al contrario di quanto avviene nella -talassemia; la condizione è dovuta al mancato switch perinatale F → A. B. Varianti genetiche. 1. Difetto di catene . Come si è visto, l’-talassemia è dovuta, nella maggior parte dei casi, a delezione genetica. Essendo presenti in due copie sui cromosomi
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44 - ANEMIE
16 i geni che codificano le catene , ne consegue che esistono due alterazioni possibili a livello del singolo cromosoma: a) delezione di entrambe le copie del gene della catena (situazione indicata con la notazione 0) e b) delezione di una sola copia del gene della catena (situazione indicata con la notazione +). Le combinazioni genetiche possibili sono indicate nella tabella 44.8. Come si vede dalla tabella, l’assenza di una sola delle quattro copie normalmente disponibili del gene per le catene (due per ciascuno dei due cromosomi) è priva di equivalente clinico e comporta solo lo stato di portatore silente. L’assenza di due copie del gene determina un’alterazione ematologica lieve compatibile con un buono stato di salute e definita trait -talassemico (si veda in seguito). L’assenza di tre copie del gene è invece accompagnata da un quadro clinico molto grave con presenza nelle emazie di un’emoglobina anomala formata da tetrameri di catene (HbH = 4). L’assenza di tutte e quattro le copie del gene è incompatibile con la vita, entrando le catene nella costituzione di tutte le emoglobine a partire dalla vita fetale. Ne risulta la morte intrauterina con il quadro della idrope fetale. La scarsa quantità di emoglobina che si forma in queste condizioni è anomala e formata da tetrameri di catene (Hb Barts = 4). Una variante di -talassemia importante per la conferma del modello genetico è quella associata con la presenza nel sangue della cosiddetta emoglobina Constant-Spring (HbCS), che contiene catene normali ed una catena abnormemente lunga, con 172 (CSI) o 169 (CSII) aminoacidi (in luogo dei normali 141) situati all’estremità C terminale della catena CS. L’HbCS è sintetizzata in quantità ridotta; allo stato omozigote vi è il 5-6% di HbCS, HbA2 normale, tracce di Hb Barts ed il resto costituito da HbA, ad indicare che esistono loci normali nell’omozigosi CS e quindi che il locus è duplice (CS/CS). L’emoglobina Constant-Spring è diffusa nel Sud-est asiatico, dove è presente nel 3% della popolazione. 2. Difetto di catene (semplice o associato). Si è visto che i meccanismi molecolari alla base della -talassemia sono molteplici e diversi da un caso all’altro. Tuttavia, fortunatamente per il clinico, i risultati possono essere solo due: a) assenza completa di sintesi di catene , ed i geni corrispondenti vengono indicati con la notazione °; b) ridotta sintesi di catene , ed i geni corrispondenti vengono indicati con la notazione +. Lo stesso può dirsi per la --talassemia, nella quale il Tabella 44.8 - Combinazioni genetiche possibili nella -talassemia e corrispettivi clinici. GENI
GENOTIPI
= (normale) /–, (+) portatore silente – = + –/–, (+/+) trait talassemico /– –, (/°) trait talassemico – – = ° – –/–, (°/+) malattia da HbH (4) – –/– –, (°/°) idrope fetale con Hb Barts (4)
condizionamento genetico può comportare la mancata produzione di entrambe le catene peptidiche ( -)° o la loro produzione in quantità ridotta ( -)+ (è questa una forma che influenza la sintesi delle catene globiniche in forma molto lieve e che ha importanza soprattutto per la discendenza). È da segnalare che in alcune forme di -talassemia con il gene + e in tutte le forme di
--talassemia con il gene ( -)° si ha una persistenza a livelli superiori alla norma di HbF: questo si traduce in una minore gravità del quadro clinico in caso di omozigosi. Le combinazioni genetiche possibili in queste forme morbose sono indicate nella tabella 44.9. Il significato dei termini impiegati nella tabella 44.9 verrà spiegato in seguito (si veda Clinica delle -talassemie). Risulta perciò chiaro che i pazienti con le forme più lievi di talassemia sono eterozigoti e quelli con le forme più gravi omozigoti. Nel caso di matrimonio di un eterozigote con un normale esiste una probabilità del 50% che nascano figli talassemici, essi pure con la forma eterozigote della malattia. Nel caso del matrimonio di due eterozigoti esiste una probabilità del 25% che nascano figli con la forma omozigote della -talassemia e del 50% che nascano figli con la forma eterozigote. Perciò i pazienti affetti da talassemia major dovrebbero avere entrambi i genitori affetti dalla forma più lieve della malattia. In casi nei quali solo uno dei genitori è apparso in realtà affetto, lo studio della sintesi delle catene globiniche negli eritroblasti del genitore apparentemente sano ha dimostrato che anche questi presenta un difetto che può essere ricondotto a una forma eterozigote di ( -)+ talassemia. Deve essere aggiunto che, derivando per lo più il difetto genetico della -talassemia da mutazione del gene per la catena peptidica corrispondente (e non da delezione genetica), è facile che questa forma sia diffusa in aree geografiche dove coesistono altre anomalie ereditarie della sintesi dell’emoglobina, sempre prodotte da mutazione del gene delle catene , ma che conducono alla sua sintesi in forma qualitativamente alterata (emoglobinopatie). Si possono perciò avere casi di doppia eterozigosi tra il gene della -talassemia e quello della emoglobina anomala. Tabella 44.9 - Combinazioni genetiche possibili nella -talassemia e corrispettivi clinici. GENE
OMOZIGOTE
ETEROZIGOTE
+
Talassemia major o intermedia
Talassemia minor o minima
°
Talassemia major
( -)° ( -)+ Lepore
Talassemia intermedia Non descritta Talassemia major con Hb Lepore
Talassemia minor o intermedia Talassemia minor Portatore (1) silente Talassemia minor con Hb Lepore
(1) Menomazione della sintesi delle catene e molto lieve e che ha importanza solo nella discendenza qualora il coniuge sia portatore di -talassemia (si veda il testo).
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Fisiopatologia L’ematopoiesi talassemica è dominata dallo sbilancio sintetico /non . Nelle forme più gravi di -talassemia (un solo gene funzionante) si ha un eccesso di catene che formano tetrameri di HbH (4): questa emoglobina è altamente instabile e può precipitare nelle cellule. Nella -talassemia si ha diminuita produzione di catene globiniche ed eccesso relativo di catene che, quando non vengono incorporate nella HbA o nella HbF, sono relativamente instabili in soluzione e tendono ad aggregarsi e a precipitare; in quantità relativamente piccole si trovano anche catene libere. Nei pazienti non talassemici il rapporto / è all’incirca 1; nei reticolociti della -talassemia eterozigote esso è intorno a 2; negli omozigoti, quando le catene sono dimostrabili, varia tra 5 e 25. Il materiale globinico aggregato può essere visto alla microscopia elettronica sia nei nuclei che nel citoplasma degli eritroblasti e nei reticolociti. La precipitazione dell’eccesso di catene ha luogo quando procede l’emoglobinizzazione degli eritroblasti e compare già negli eritroblasti policromatofili. La quota di cellule che contengono inclusi aumenta via via con la maturazione eritroblastica; in alcuni casi di grave deficit delle catene le inclusioni possono assumere le dimensioni del nucleo picnotico dei normoblasti maturi. Gli effetti della precipitazione intracellulare dell’eccesso di catene possono essere così riassunti: • un’eccessiva liberazione di radicali liberi che provocano la perossidazione della membrana, la formazio-
ne di metaemoglobina e un danno a diversi processi metabolici che hanno come effetto un aumento della rigidità dell’emazia; • un’inibizione della proliferazione delle cellule eritroidi, con blocco in fase G1 e morte in situ (eritropoiesi inefficace); • un’alterata fosforilazione delle proteine della membrana che causa una spiccata distorsione dell’emazia; queste emazie con membrana difettosa, unitamente agli eritrociti provvisti di corpi inclusi, che vengono ulteriormente danneggiati dal passaggio attraverso la milza (con asportazione dei corpi inclusi), causano un rallentamento a livello del microcircolo. La mancanza di catene e l’eccesso dannoso di catene sono parzialmente compensati dalla riattivazione della sintesi delle catene e che sono in grado di aumentare l’emoglobinizzazione del globulo rosso con la formazione di emoglobina F e A2 e la “neutralizzazione” di alcune delle catene libere. Ugualmente nella
--talassemia e nella HPFH la mancanza della sintesi globinica ha un minore effetto sul bilancio /non perché la sintesi di catene compensa in parte quella di catene . La fisiopatologia dei sintomi della talassemia ha come punto centrale l’anemia (Fig. 44.9), dovuta a prematura mortalità intramidollare degli eritroblasti (eritropoiesi inefficace), al minor volume delle emazie (microcitosi), al minor contenuto corpuscolare medio di emoglobina (ipocromia), alla diminuita sopravvivenza eritrocitaria per esaltata emocateresi splenica secondaria al danno di membrana. Prematura mortalità intramidollare degli eritroblasti (eritropoiesi inefficace)
Poche cellule in circolo, microcitiche ipocromiche, talora con corpi inclusi
Ridotta sopravvivenza delle emazie
Processo emolitico
ANEMIA CRONICA
Aumentato assorbimento di Fe
Stimolo all’eritropoiesi
Terapia emotrasfusionale
Espansione eritropoietica
Altre ACCUMULO DI FE Modificazioni ossee Miocardiosiderosi Epatosiderosi
Figura 44.9 - Schema sintetico della fisiopatologia dei sintomi delle talassemie.
Alterato sviluppo e accrescimento
SPLENOMEGALIA
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44 - ANEMIE
L’anemia cronica stimola l’eritropoiesi che si espande a livello midollare in aree dalle quali essa è normalmente assente, come le ossa lunghe, ed anche a livello extramidollare, nel fegato, nella milza, nei linfonodi. Nella talassemia major questo si verifica in fase precocissima di sviluppo, con conseguenti alterazioni della struttura e della forma delle ossa, aventi come risultato la facies similmongoloide. Successivamente il midollo può uscire attraverso i fori vascolari provocando formazioni pseudotumorali vicino al luogo della sua origine, di solito in sede paravertebrale. I precursori eritroidi -talassemici contenenti le inclusioni di aggregati di catene vanno incontro in buona parte a morte intramidollare (nel midollo si è osservata la fagocitosi di interi eritroblasti); quando essi giungono a maturazione, i corpi inclusi nelle emazie vengono elettivamente “snocciolati” dalla milza e si originano in questo modo eritrociti dalla forma bizzarra (schistociti, eritrociti a lacrima, ecc.). In sostanza il destino di ogni cellula dipende dal grado del danno subito durante i vari stadi di sviluppo: quelle più gravemente lese sono incapaci di abbandonare il midollo e muoiono in situ; quelle con minori precipitati nel passaggio attraverso la milza possono essere private degli inclusi e ritornare in circolo oppure venire distrutte. La milza va incontro ad aumento di volume per iperplasia della componente reticolare macrofagica, di conseguenza aumenta il sequestro splenico delle emazie, da cui emolisi più intensa, instaurandosi così un circolo vizioso. Nell’organismo talassemico si viene a creare un accumulo marziale dovuto al processo emolitico, all’aumentato assorbimento di ferro che si ha quando è stimolata l’eritropoiesi (si veda il paragrafo dedicato all’assorbimento del ferro) e all’apporto di ferro coincidente con la terapia emotrasfusionale, necessaria nei casi più gravi. Si ha come conseguenza una siderosi dei vari parenchimi, in particolare del miocardio, del fegato, del pancreas. Comuni sono anche le alterazioni endocrine per il danneggiamento di pancreas, tiroide, paratiroidi e surreni, che sono le complicanze più comuni per accumulo di ferro nei pazienti adulti. Negli adolescenti l’accumulo di ferro nell’ipofisi anteriore disturba la maturazione sessuale in circa il 50% dei casi.
• anemia grave con sopravvivenza impossibile oltre l’età infantile in assenza di emotrasfusioni, talassemia major; • anemia grave, ma con sopravvivenza possibile fino all’età adulta, anche in assenza di emotrasfusioni, talassemia intermedia; • anemia modesta spesso compatibile con uno stato di salute normale, trait talassemico, tradizionalmente indicato nella letteratura italiana come talassemia minor o malattia di Greppi-Rietti-Micheli. Tuttavia possono darsi forme di talassemia minor totalmente irrilevanti ed altre di qualche significato; queste sono definite nella letteratura anglosassone come stati di portatore silente ed erano state indicate tradizionalmente nella letteratura italiana con il termine di talassemia minima. Riteniamo perciò giustificato adottare per le prime la dizione, da alcuni abbandonata, di talassemia minima (o trait talassemico). A. Generalità. Le manifestazioni cliniche della -talassemia hanno intensità diversa in rapporto: • alla riduzione della HbA normale; • all’età di comparsa della ridotta sintesi di emoglobina; • all’entità dello sbilanciamento sintetico /non , con presenza più o meno rilevante di catene libere con i caratteristici precipitati che danno luogo ai corpi inclusi; • alla presenza di altre emoglobine che possono esercitare una funzione di relativo compenso, in particolare l’HbF.
Clinica delle -talassemie
Come è indicato nella tabella 44.9, i tre principali quadri clinici di talassemia major (o morbo di Cooley), talassemia intermedia e talassemia minor (o malattia di Rietti-Greppi-Micheli) riconoscono una pluralità di genotipi, anche se le forme più gravi sono preferenzialmente associate all’omozigosi e la talassemia minor alla eterozigosi. A questi tre fenotipi principali vanno ancora aggiunti la talassemia minima (o trait talassemico) e lo stato di portatore silente. Va però sottolineato che l’eccessivo schematismo non inquadra tutti i genotipi possibili, tenendo conto anche dei casi di doppia eterozigosi tra due geni talassemici o tra un gene talassemico ed un gene responsabile di emoglobinopatia. D’altra parte, poiché la fisiopatologia del processo talassemico è unitaria, il quadro clinico ed ematologico è caratterizzato da alcuni sintomi fondamentali presenti, con diversa intensità e con passaggio sfumato e graduale, nelle forme di talassemia di diversa gravità.
Nel discorso che segue parleremo prima di -talassemia e poi di -talassemia; la -talassemia è infatti diffusa nell’area mediterranea ed in Italia, mentre l’-talassemia lo è soprattutto nel Sud-est asiatico. Nella descrizione clinica delle singole forme talassemiche occorre una precisazione terminologica. La più ampia varietà di forme cliniche è stata descritta per la -talassemia, per la quale si sono considerate tre possibilità:
B. -talassemia major (morbo di Cooley). È la forma più grave di anemia emolitica congenita. Le manifestazioni cliniche compaiono al 4°-6° mese di vita, quando nel soggetto normale ha luogo il passaggio dalla prevalenza della produzione di catene alla prevalenza della produzione di catene e . I pazienti hanno i sintomi di una grave anemia. All’esame obiettivo si nota ipoevolutismo somatico, con peso e statura inferiori alla norma. La cute è pallida con
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
un colore caratteristico dovuto alla combinazione di ittero ed aumentata deposizione di melanina. La facies è “mongoloide”, con ossa zigomatiche prominenti, ossa del cranio ispessite, radice del naso infossata, palpebre tumide, allargamento delle mandibole con malocclusione. È costante una cardiomegalia, per il sommarsi dell’ipossia cronica e della siderosi miocardica, con segni di scompenso di circolo; pure costante è l’epatosplenomegalia. L’epatomegalia di solito è meno spiccata della splenomegalia, ma raggiunge dimensioni notevoli dopo splenectomia, esercitando una specie di funzione vicariante della milza per quanto riguarda le funzioni filtranti e di ematopoiesi extramidollare. Si possono anche avere epatiti da trasfusione, epatopatia cronica da sovraccarico marziale, da scompenso di circolo congestizio, da deficienze nutritive. La splenomegalia, per l’ingombro addominale, può determinare eventuale compressione dello stomaco e del rene sinistro; inoltre la milza ingrandita può andare incontro, anche se raramente, ad infarto splenico ed infine può instaurarsi un ipersplenismo con pancitopenia (Cap. 51). La maggior parte di questi segni può essere notevolmente ridotta se il paziente è regolarmente ed adeguatamente trasfuso; in questo caso, tuttavia, risultano particolarmente gravi i segni derivanti dalla deposizione di ferro nel miocardio ed in altri parenchimi. 1. Esami di laboratorio. L’esame emocromocitometrico rivela un’anemia molto spiccata, con diminuzione dell’emoglobina e del numero dei globuli rossi; microcitosi con MCV spiccatamente diminuito; ipocromia con MCH ridotto e MCHC normale. È di fondamentale importanza l’esame morfologico dello striscio del sangue periferico; i globuli rossi hanno un aspetto estremamente polimorfo e questo è il reperto più caratteristico del morbo di Cooley, cioè l’estrema anisopoichilocitosi: si osservano infatti normociti, macrociti, leptociti ipocromici quasi trasparenti, sferociti, cellule a bersaglio, eritrociti a lacrima (specialmente dopo che la milza ha “snocciolato” i corpi inclusi costituiti dai precipitati di catene ), eritrociti con punteggiatura basofi-
la o policromatofila, eritrociti a biscotto, schistociti, ecc. È di frequente riscontro la presenza in circolo di eritroblasti, per lo più ortocromatici, ma talvolta anche policromatofili e perfino basofili. L’elettroforesi dell’emoglobina dà reperti diversi a seconda del genotipo responsabile della talassemia major, come è indicato dalla tabella 44.10. L’esame del midollo dimostra una ricchezza cellulare con iperplasia della serie eritroide costituita da eritroblasti per lo più di piccole dimensioni (microeritroblasti) e curva maturativa eritroblastica stimolata. Lo studio delle resistenze globulari all’ipotonia salina rivela un’aumentata resistenza osmotica, con una notevole quota di cellule intatte sino a concentrazioni di NaCl più basse della soglia emolitica media normale di 4,0-4,45 g/l. La diminuita fragilità osmotica è dovuta alla presenza di emazie appiattite (leptociti) in cui il rapporto volume/superficie è molto diminuito. Gli altri dati di laboratorio dimostrano un aumento della bilirubina non coniugata e un modesto aumento dei reticolociti, secondario all’iperemolisi; un aumento della sideremia e una diminuzione della transferrinemia totale; i parametri caratteristici dell’eritropoiesi inefficace, cioè un aumentato turn-over del ferro plasmatico ed una diminuita incorporazione del 59Fe nelle emazie. La radiografia delle ossa, specie delle ossa corte e piatte, dimostra un assottigliamento della trabecola più esterna e la presenza di una striatura perpendicolare tra i tavolati; nella porzione alta dell’osso frontale e nell’osso parietale del cranio le trabecole si dispongono perpendicolarmente alla superficie, dando luogo al cosiddetto “cranio a spazzola”; nelle vertebre ci sono degli aspetti particolari detti a ragnatela, per il reticolo a maglie larghe formato dalle trabecole. 2. Decorso e prognosi. La malattia di Cooley in senso stretto è una malattia grave, caratterizzata da una cronica e spiccata anemia, e il paziente arriva con difficoltà all’adolescenza. Questi pazienti, dipendenti dalla terapia emotrasfusionale, vanno incontro ad un sovraccarico marziale iatrogeno che si aggiunge, come si è visto, al ferro derivante dall’aumentato assorbimento e dal processo emo-
Tabella 44.10 - Emoglobine presenti nei vari tipi di -talassemia. TIPO DI TALASSEMIA
OMOZIGOTE
+
Talassemia
+
Talassemia con alta F
°
Talassemia
( -)°
Talassemia o F Talassemia
( -)+
Talassemia
Non descritta
Lepore
Talassemia major HbF + Lepore
Talassemia major Hba + F + A2 Talassemia intermedia HbA + F + A2 Talassemia major HbF + A2 Talassemia intermedia Solo HbF
ETEROZIGOTE Talassemia minor Aumento HbA2 Talassemia minor 5-12% HbF Talassemia minor o intermedia Aumento HbA2 Talassemia minor HbF 5-15% HbA2 normale Portatore silente HbF e A2 normali Talassemia minor HbA + Lepore + A2
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44 - ANEMIE
C. Talassemia intermedia. Questo termine è utilizzato per indicare un gruppo di pazienti che presentano un quadro clinico ed ematologico di gravità intermedia tra la forma major e la forma minor di talassemia. I genotipi responsabili della talassemia sono indicati nella tabella; a questi vanno aggiunte alcune situazioni di doppia eterozigosi e precisamente la doppia eterozigosi per la e --talassemia e la doppia eterozigosi per la -talassemia e la persistenza ereditaria di emoglobina fetale. Si suppone che alcuni pazienti omozigoti per la -talassemia possano avere una capacità aumentata di degradare le catene globiniche libere prevenendone le conseguenze dannose, mentre il contrario sembra avvenire in pazienti eterozigoti che presentano importanti precipitati -globulinici a livello degli eritroblasti. Lo sviluppo psichico e fisico di questi pazienti è normale; le deformazioni ossee sono scarse o assenti, per cui la facies microcitemica è molto sfumata, l’intensità del pallore è variabile a seconda della gravità dell’anemia; si ha costante epatosplenomegalia con siderosi epatica; frequente colelitiasi, rare ulcere trofiche malleolari. Il quadro ematologico è qualitativamente analogo a quello descritto per la forma di talassemia major, però l’anemia ipocromica microcitica è meno spiccata ed è quasi sempre associata ad elevata reticolocitosi. La sopravvivenza è variabile, data la variabilità del quadro clinico ed ematologico; in alcuni pazienti è abbastanza lunga, anche in assenza di terapia emotrasfusionale. D. Talassemia minor (malattia di Rietti-GreppiMicheli). È la forma eterozigote della -talassemia di cui i possibili genotipi sono elencati nella tabella 44.10. Il paziente è un soggetto cronicamente anemico sin dall’infanzia, con anemia non grave; spesso essa è riconosciuta solo occasionalmente in coincidenza di un esame di laboratorio eseguito per altri motivi. Talvolta la sintomatologia è limitata ai sintomi e segni generali dell’anemia; in altri casi si può osservare colorito giallognolo della cute per l’ittero secondario alla componente emolitica; questa può anche portare alla colelitiasi da calcoli di bilirubina. In questi pazienti la colelitiasi, a cui paiono predisposti, può anche essere costituita da calcoli di colesterolo. Altri dati obiettivi sono la splenomegalia, non costante e comunque non cospicua, e la presenza, rara, di ulcere ai malleoli, fenomeno caratteristico di tutte le anemie emolitiche croniche. 1. Esami di laboratorio. L’esame emocromocitometrico dimostra un’anemia da lieve a media (Hb dai 9 ai 12 g/dl) con numero di emazie spesso aumentato (poliglobulia), con volume corpuscolare medio ridotto (microcitosi) e contenuto corpuscolare medio di emoglobi-
100
Emazie normali Emazie di talassemia
Emolisi %
litico. Ne consegue, in assenza di altre complicanze intercorrenti come infezioni, emorragie o altro, una situazione di emocromatosi secondaria con siderosi miocardica e scompenso di circolo irreversibile.
50
0 0,5
0,4
0,3
0,2
NaCl%
Figura 44.10 - Resistenze globulari all’ipotonia salina.
na ridotto (ipocromia). I reticolociti sono notevolmente aumentati, a valori oltre il doppio del normale. L’esame dello striscio del sangue periferico mette in evidenza l’anisopoichilocitosi tipica di queste malattie, ma in grado meno pronunciato di quanto non si abbia nella forma di talassemia major; la presenza di qualche eritroblasto ortocromatico in circolo è occasionale, mentre è quasi costante il rilievo di punteggiatura basofila e policromatofila negli eritrociti. Le resistenze globulari all’ipotonia salina sono aumentate quasi costantemente (Fig. 44.10); l’elettroforesi dell’emoglobina permette di quantificare la quota di HbA2 e di HbF e di differenziare l’eterozigosi di -talassemia, con HbA2 aumentata, dalla eterozigosi di --talassemia, con HbF aumentata; negli eterozigoti di Hb Lepore essa rappresenta solo il 15% del totale, la restante emoglobina è costituita da HbA e HbA2 (Tab. 44.10). E. Portatore silente. È la situazione eterozigote per la +-talassemia; nei soggetti portatori di questo trait talassemico manca ogni manifestazione di malattia; l’esame emocromocitometrico dà poliglobulia con microcitosi ed ipocromia; lo striscio del sangue periferico dimostra i leptociti e gli schistociti, l’elettroforesi dell’emoglobina mette in evidenza l’aumento della HbA2 a valori oltre il doppio del normale (Tab. 44.10). Il riconoscimento di questi individui è molto importante ai fini della profilassi eugenetica della talassemia. In Italia esistono numerosi centri per lo studio e la prevenzione delle microcitemie, che sottopongono le fasce di popolazione a rischio a esami di laboratorio (resistenze globulari, elettroforesi dell’emoglobina) in grado di svelare il trait talassemico; ovviamente la possibilità di prevenzione per i discendenti è affidata alla scelta libera e responsabile di ogni persona.
Clinica delle -talassemie Si distinguono quattro fenotipi principali di -talassemia; la situazione più grave è l’idrope fetale con Hb Barts: la sintesi di catene è completamente assente,
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per cui non si ha HbA né HbA2 né HbF; virtualmente tutta l’emoglobina presente è un tetramero di 4 chiamato Hb Barts, inefficiente dal punto di vista respiratorio, data la sua alta affinità per l’ossigeno. In questo caso si ha morte intrauterina del feto. In ordine di gravità decrescente vi è la malattia da emoglobina H (4); la sintesi di catene è ridotta a circa il 30-60% della sintesi delle catene ; le emazie dei pazienti portatori di questa malattia contengono circa il 15% di HbH e l’85% di HbA. Si tratta di una malattia grave analoga all’omozigosi di -talassemia, pur potendosi avere anche un quadro di gravità minore, con modesta anemia e splenomegalia non cospicua; rare sono le modificazioni ossee. L’esame emocromocitometrico dà anemia ipocromica di grado da intenso a discreto con evidente anisopoichilocitosi. L’incubazione delle cellule con il blu brillante di cresile dà luogo alla precipitazione di corpi inclusi, dovuti alla precipitazione in vitro di HbH; dopo splenectomia si osservano corpi di Heinz in alcuni eritrociti. I casi di malattia da HbH in cui il genotipo contiene il gene per l’HbCS hanno livelli più alti di HbH ed un maggior numero di cellule con corpi inclusi; anche la splenomegalia è di maggiori dimensioni. La manifestazione clinica più importante per entrambi i genotipi di malattia da HbH è l’insorgenza di episodi acuti di emolisi dopo infezioni. Le altre due sindromi di -talassemia e gli eterozigoti per l’emoglobina CS sono essenzialmente asintomatici; nel trait talassemico si hanno lieve ipocromia e microcitosi, con un rapporto / di 0,7-0,8. Lo stato di portatore silente è una condizione praticamente non rilevabile dal punto di vista clinico ed ematologico, analogamente al portatore silente della -talassemia. Gli omozigoti per l’emoglobina CS sono sintomatici: hanno lieve anemia, ittero e splenomegalia; il MCV è normale, spesso le emazie presentano punteggiatura basofila; il tasso di HbCS è circa il 5% della Hb totale.
Diagnosi I reperti clinici ed ematologici in caso di -talassemia omozigote e in caso di malattia da emoglobina H sono così caratteristici che di solito non presentano difficoltà diagnostiche. L’anamnesi riguarda principalmente la razza, la presenza di anemia nella famiglia, l’età di insorgenza dell’anemia, il tipo di sviluppo; l’esame obiettivo rileva il pallore, l’eventuale ittero, la splenomegalia, le deformità scheletriche; l’esame emocromocitometrico, l’esame dello striscio del sangue periferico e l’elettroforesi dell’emoglobina danno i reperti già descritti. Gli stati di eterozigosi presentano maggiori difficoltà diagnostiche, però le alterazioni caratteristiche nelle emoglobine F e A2 di solito chiarificano la situazione. Molto importante è la diagnosi differenziale con l’anemia sideropenica, ugualmente ipocromica e microcitica: i criteri differenziali più importanti in quest’ultima forma sono la bassa sideremia con bassa saturazione della
transferrina; il basso valore di reticolociti (prima della terapia marziale); la normalità del quadro emoglobinico. Diagnosi prenatale Le cellule o i tessuti per la diagnosi prenatale possono essere ottenuti mediante biopsia dei villi coriali (per via transcervicale o mediante aspirazione per via transaddominale) oppure mediante amniocentesi o mediante fetoscopia. La biopsia dei villi coriali permette di ottenere il DNA fetale nel 1° trimestre di gravidanza (9ª-12ª settimana di gestazione), l’amniocentesi in periodo più tardivo (17ª18ª settimana di gestazione); per la fetoscopia l’epoca del prelievo è tra la 19ª e la 22ª settimana. Tutte queste metodiche comportano un rischio di perdita del feto, con percentuali che variano tra le diverse casistiche, comunque intorno al 4% per la biopsia dei villi coriali e intorno al 2% con la tecnica dell’amniocentesi. La fetoscopia è quella che presenta il rischio maggiore. L’analisi del DNA può essere eseguita con metodo indiretto o con metodo diretto; il primo si basa sullo studio dei polimorfismi di siti per enzimi di restrizione (enzimi batterici che tagliano il DNA a livello di sequenze molto specifiche) del gruppo dei geni globinici, per mezzo dei quali è possibile marcare un carattere genetico e seguirne l’ereditarietà. Essendo basato su studi di linkage (3) è necessario studiare preventivamente non soltanto la coppia di genitori, ma anche un altro figlio affetto o normale. Il metodo diretto si basa sull’identificazione del difetto molecolare (preventivamente noto); le delezioni e le mutazioni puntiformi possono essere riconosciute direttamente attraverso analisi con enzimi di restrizione, o con oligonucleotidi sintetici marcati con 32P e usati in test di ibridizzazione per il DNA normale e talassemico. In epoca tardiva di gestazione si ricorre al prelievo di sangue fetale su cui viene eseguita l’analisi quantitativa delle catene globiniche fetali sintetizzate in vitro. Nelle forme omozigoti per 0 talassemia non si evidenzia alcuna sintesi di catene globiniche, mentre nelle forme omozigoti per + talassemia esse vengono prodotte in quantità molto ridotta rispetto al soggetto normale, con possibilità di sovrapposizione tra gli omozigoti + con produzione di catene globiniche relativamente alta ed eterozigoti con bassa produzione; il rischio di errore diagnostico è intorno all’1%.
Cenni di terapia I pazienti gravemente anemici, come nella -talassemia omozigote o in alcune forme di talassemia intermedia, debbono essere sottoposti a trattamento trasfusionale. In passato era stato raccomandato il cosiddetto trattamento “ipertrasfusionale”, allo scopo non solo di correggere l’anemia, ma anche di sopprimere l’eritropoiesi (il che è utile per evitare i danni dell’eritropoiesi inefficace) e di inibire l’assorbimento gastrointestinale di ferro. Co(3) Associazione su uno stesso cromosoma di geni che segregano insieme nella meiosi.
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me si vedrà, infatti, l’accumulo di ferro nell’organismo è il principale problema di questi pazienti, indipendentemente dal fatto che siano trattati con trasfusioni. Oggi si è visto che l’eccesso di trasfusioni, di per sé, è in grado di generare un sovraccarico di ferro nell’organismo e perciò si preferisce aderire allo schema proposto da Autori italiani (Cazzola et al., 1997) che hanno raccomandato un approccio più prudente, suggerendo di trasfondere sangue solo se, prima di ogni trasfusione, i livelli di emoglobina non superano i 9,5 g/dl. Si è visto che questo regime è associato con un’adeguata soppressione midollare e con un inferiore accumulo di ferro. Comunque, il problema dell’accumulo di ferro resta e deve essere affrontato con la regolare somministrazione di un chelante. A questo scopo il farmaco ordinariamente impiegato è la desferoxamina, che deve essere somministrata per via parenterale, endovena, sottocute o intramuscolo. Il farmaco è sicuramente efficace e, in pazienti già affetti da fibrosi epatica per eccessivo accumulo di ferro, si è dimostrato in grado di impedire la progressione in cirrosi. La somministrazione di desferoxamina deve essere regolata in base all’accumulo di ferro nell’organismo e questo viene comunemente fatto basandosi sui livelli ematici di ferritina. Questo è un parametro impreciso, perché si stima che indichi in maniera affidabile le scorte organiche di ferro solamente in circa il 50% dei casi. Un metodo molto più preciso, che non può però essere eseguito con troppa frequenza, è la valutazione del ferro in biopsie epatiche, considerando che un carico di questo elemento non superiore a 15 mg/g di peso secco diminuisce notevolmente il rischio di manifestazioni cliniche da iperaccumulo di ferro. L’impiego di immagini ottenute con la risonanza magnetica è invece inaffidabile. Esiste, per la verità, una tecnica incruenta per misurare la quantità di ferro depositata nel fegato, chiamata “suscettometria magnetica”. Tuttavia, le apparecchiature in grado di praticarla sono poche in tutto il mondo. Un trattamento più radicale della malattia di Cooley è il trapianto di midollo da donatore HLA-identico. Il successo di questa misura è tanto più probabile quanto minori sono i danni già instauratisi per accumulo di ferro. In bambini indenni da questi danni la sopravvivenza senza segni di malattia supera il 90% a tre anni dal trapianto, mentre in quelli che già li presentano e nella maggior parte degli adulti questa cifra scende al 60%. Sono allo studio terapie sperimentali, come l’impiego di un chelante attivo per somministrazione orale, il deferiprone, che però è risultato deludente sia dal punto di vista dell’efficacia che da quello degli effetti collaterali, oppure come i tentativi di aumentare la sintesi di emoglobina fetale con l’uso di vari farmaci, per lo più chemioterapici con discreta tossicità. Anche quest’ultimi tentativi sono stati finora deludenti. Un nuovo approccio terapeutico, di tipo eziopatogenetico, si attende dalle ricerche di biologia molecolare, che hanno portato un notevole contributo alla comprensione delle fini alterazioni genetiche delle talassemie e dei conseguenti meccanismi di alterata sintesi delle catene globiniche. Poiché, come si è visto, lo sbilanciamento sintetico /non è di importanza preminente
per la fisiopatologia del processo talassemico, mediante metodiche di manipolazione genetica potrebbe essere indotta la riattivazione della sintesi delle catene globiniche e o la soppressione dell’eccesso di sintesi di catene ; inoltre, il gene patologico potrebbe essere sostituito con un gene purificato. Esiste una condizione naturale a riprova dell’importanza che lo sbilanciamento sintetico tra le catene globiniche riveste per la patogenesi del quadro clinico della -talassemia; questa condizione si verifica nei soggetti portatori del doppio trait -talassemico e -talassemico: il rapporto /, che è 2,5 nel trait -talassemico, in questi casi è 1. La sintesi globinica bilanciata porta ad una alterazione minore delle emazie, il volume corpuscolare medio è normale. Infine, la recente scoperta di sottopopolazioni di eritroblasti capaci di sintetizzare preferenzialmente HbF potrebbe portare all’identificazione di farmaci in grado di incentivare la proliferazione di cellule sintetizzanti HbF, che possiede una buona attività funzionale.
ALTERAZIONI DELLO SCHELETRO DELLA MEMBRANA ERITROCITARIA (*) Negli ultimi anni sono state identificate numerose alterazioni nello scheletro della membrana eritrocitaria; alcune di esse consistono in alterazioni primitive, di tipo strutturale o funzionale, delle proteine costituenti lo scheletro della membrana, risultanti in anomalie morfologiche dell’emazia, con o senza ridotta sopravvivenza eritrocitaria. Attualmente sono sicuramente ascrivibili a questo gruppo la sferocitosi ereditaria, l’ellissocitosi ereditaria con le sue varianti e la piropoichilocitosi ereditaria, ad esse strettamente collegata. Prima di trattare delle malattie da difetto primitivo della membrana, viene premessa una breve descrizione della struttura della membrana eritrocitaria. Se mediante lisi ipotonica si vuota l’emazia del suo contenuto (l’emoglobina), l’ombra della membrana che rimane è denominata con la parola inglese “ghost” per descriverne l’aspetto evanescente, appunto come un fantasma. Essa è costituita per circa il 41% di lipidi, per il 52% di proteine e per il 7% di carboidrati. I lipidi sono costituiti in parti uguali da fosfolipidi e da colesterolo libero; i fosfolipidi appartengono a quattro classi principali: sfingomielina, fosfatidilcolina, fosfatidiletanolamina e fosfatidilserina. I fosfolipidi formano intorno all’emazia un doppio strato, con le estremità polari in contatto con la fase acquosa (citoplasma o plasma) e le catene degli acidi grassi orientate verso la faccia interna dello strato stesso. Le proteine della membrana sono divise in due gruppi: le proteine periferiche, che formano un reticolo all’interno dello strato lipidico, rivolto verso il citopla(*) F. Pellò.
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sma, e le proteine integrali, che attraversano i lipidi sia dal lato intracellulare che dal lato extracellulare, e che sono perciò anche dette proteine transmembranose. Queste proteine sono indicate con particolari denominazioni o con numeri che si riferiscono alla loro mobilità elettroforetica su gel di poliacrilamide (la quale è dipendente dal peso molecolare delle proteine che vengono fatte migrare), contando dall’estremità catodica a quella anodica del gel. Con il termine di scheletro della membrana si indica l’insieme di quelle proteine che residuano dopo estrazione dei “ghost” con il detergente non-ionico Triton X-100, che allontana i lipidi. A differenza del citoscheletro delle più complesse cellule eucariotiche che forma strutture intracellulari (microfilamenti, filamenti intermedi, microtubuli), nei globuli rossi lo scheletro è molto più semplice e fa parte della superficie citoplasmatica della membrana cellulare: perciò è chiamato scheletro della membrana. La proteina principale di questo scheletro è chiamata spectrina ed è un dimero (SpD) formato da due proteine filamentose, le proteine 1 e 2 (dette anche, più comunemente e ). Le due proteine decorrono affiancate con l’estremità amino-terminale della catena posta accanto alla estremità carbossi-terminale della catena (Fig. 44.11). Queste due estremità appaiate formano quella che viene chiamata la “testa” della spectrina (e perciò le estremità opposte rappresentano la “coda”). Due unità di spectrina possono associarsi testa contro testa formando dei tetrameri. Le code delle unità di spectrina non possono associarsi direttamente, ma riescono a farlo legandosi ad un’altra proteina dello scheletro della membrana, la F-actina (proteina 5). Questo legame è notevolmente stabilizzato dal coinvolgimento di un’altra proteina, che è indicata con il numero 4.1. Perciò, sia per collegamento diretto tra di loro delle unità di spectrina, sia grazie all’intermediazione del complesso F-actina-proteina 4.1, sulla superficie citoplasmatica della membrana eritrocitaria si forma una rete composta da molteplici unità di spectrina. Questa rete deve essere ancorata alle proteine integrali della
Interazione Sp-4.1 Glic.-A
membrana e, attraverso di esse, al doppio strato lipidico. L’ancoraggio avviene in due modi. La proteina 4.1 (che, come si è visto, costituisce uno dei punti nodali della rete) si lega con la porzione intracitoplasmatica della proteina integrale glicoforina A. Le catene della spectrina sono in grado di legarsi a una proteina detta anchirina o proteina 2.1 (il legame avviene in prossimità delle giunzioni testa-testa delle unità di spectrina) che, a sua volta, si attacca alla porzione intracitoplasmatica della proteina integrale designata con il numero 3. Tanto la glicoforina A che la proteina 3 sono glicoproteine. La glicoforina A determina la specificità dei gruppi sanguigni M e N a seconda dei residui aminoacidici situati in posizione 1 e 5. La proteina 3 è implicata nel trasporto del glucosio e degli anioni. Quindi, le proteine principali dello scheletro interagiscono tra loro secondo un piano orizzontale, parallelo alla membrana, e secondo un piano verticale, perpendicolare alla membrana. Le interazioni secondo il piano orizzontale, cioè le interazioni tra i dimeri di spectrina, e tra i dimeri di spectrina, la proteina 4.1 e la F-actina servono ad assicurare la continuità del reticolo proteico submembranoso, organizzato in una struttura bidimensionale; le interazioni verticali, tra spectrina, ankirina e proteina 3 e tra spectrina, proteina 4.1 e glicoforina assicurano la connessione del reticolo dello scheletro ai costituenti integrali della membrana. È probabile che alterazioni delle interazioni proteiche secondo i due diversi piani siano responsabili di modificazioni di forma differenti del globulo rosso.
Sferocitosi ereditaria Si tratta di un’anemia causata da un’anomalia intrinseca della membrana eritrocitaria che ne modifica la forma da biconcava in sferica, ne riduce la deformabilità e ne favorisce l’intrappolamento a livello splenico. È una malattia congenita con modalità classica di trasmissione ereditaria di tipo autosomico dominante, raramente di tipo autosomico recessivo.
Interazione Sp-2.1-3
Proteina 3
Doppio strato lipidico
Glicoforina-A Ankirina
Proteina 4.1
Profilamento F-actina Interazione Sp-actina 4.1
Interazione SpD-D
Figura 44.11 - Modello dello scheletro della membrana del globulo rosso. (Si veda il testo)
Catena Catena
Spectrina
Proteina 4.1
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Più comune tra le popolazioni del Nord Europa, è tuttavia segnalata in tutte le razze. Colpisce i due sessi con uguale frequenza; la prevalenza è di 20 casi su 100.000. A. Eziopatogenesi. Il difetto primario, trasmesso ereditariamente, è a livello della membrana dei globuli rossi; nel 25% dei casi le alterazioni della membrana sono di riscontro apparentemente sporadico. I tipi di deficit sono due: la mancanza totale o parziale di una proteina dello scheletro della membrana oppure un’interazione anomala delle proteine periferiche tra loro o con una proteina integrale. Le anomalie di riscontro più frequente sono: • una diminuzione della spectrina; • una riduzione della proteina 3 associata alla riduzione di spectrina; • un difetto molecolare all’estremità distale (coda) della spectrina, risultante in un legame difettoso con la proteina 4.1; • un assemblaggio alterato dei dimeri della spectrina. È stata osservata, inoltre, anche una netta riduzione dei fosfolipidi e del colesterolo della membrana. Si ammette che la modificazione della forma del globulo rosso da discocito a sferocito sia dovuta ad una riduzione del rapporto superficie/volume, per riduzione della superficie da instabilità e perdita di membrana, dovuta a sua volta ai vari difetti della spectrina. Infatti il deficit di spectrina fa sì che vi siano aree in cui il doppio strato lipidico, privo di sostegno, va incontro a perdita di materiale, con conseguente instabilità anche delle proteine integrali. I globuli rossi a tipo di sferociti vanno incontro ad importanti modificazioni delle loro proprietà, cioè acquisiscono una diminuita plasticità e deformabilità, un alterato metabolismo cellulare, soprattutto a livello del trasporto degli ioni attraverso la membrana, un’aumentata fragilità osmotica, un aumento della viscosità del citoplasma con aumento della concentrazione di emoglobina, attribuita a lieve disidratazione cellulare. L’alterato metabolismo cellulare è rappresentato principalmente da un aumento della permeabilità eritrocitaria agli ioni sodio e potassio. Perché la concentrazione intracellulare di sodio e potassio si mantenga nei limiti fisiologici, è necessario che nei globuli rossi di questi soggetti si abbia un incremento di attività del sistema enzimatico noto come “pompa sodio/potassio”. Esso è legato alla membrana dell’emazia ed è stato descritto come ATPasi Na+/K+ dipendente, volendo con ciò indicare che si tratta di un sistema che idrolizza l’ATP a una velocità che dipende dalla concentrazione dei cationi; si rende quindi necessaria una elevata produzione di ATP che negli sferociti si realizza grazie ad un incremento della glicolisi anaerobia. È per questo aumento di funzione della pompa Na+/K+ che le cellule si deprivano di ATP in assenza di glucosio. Non è però perfettamente nota la natura di questa anomala permeabilità dei globuli rossi al sodio in corso di sferocitosi ereditaria. Nelle emazie di SE si è anche dimostrato un basso livello di 2,3-difosfoglicerato unitamente ad una riduzione del pH, che ne è probabilmente la conseguenza.
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L’aumentata fragilità osmotica si ritiene sia dovuta al fatto che la configurazione di sferocito, cioè con un volume dell’emazia aumentato rispetto alla superficie, predispone di per sé alla lisi osmotica in presenza di concentrazioni più alte di cloruro di sodio rispetto a quanto si verifica nei globuli rossi normali a forma di discocita; infatti anche i discociti, prima di andare incontro alla lisi, assumono la forma di sferocito. B. Fisiopatologia. Il punto chiave nella sferocitosi ereditaria è, come si è visto, un’anomalia intrinseca all’emazia che la rende suscettibile ad una distruzione prematura nella milza. La diminuita sopravvivenza dei GR nella sferocitosi ereditaria è causata dal loro intrappolamento nei sinusoidi splenici: dopo splenectomia, infatti, migliora sensibilmente l’anemia e la sopravvivenza degli eritrociti ritorna a valori pressoché normali. Durante il passaggio nella polpa rossa della milza, i GR devono deformarsi per attraversare il microcircolo splenico, superare i cordoni, i seni e passare poi nel circolo venoso. Gli sferociti, in ragione della loro ridotta deformabilità, si trattengono a lungo nella milza, dove non trovano una quantità di glucosio (= energia) sufficiente a mantenere il loro elevato metabolismo, esauriscono progressivamente il contenuto in ATP e perdono i lipidi di membrana. Si forma così una popolazione di microsferociti fagocitati dai macrofagi e destinati ad una rapida emolisi. È importante ricordare, infine, come gli eritrociti di pazienti affetti da sferocitosi ereditaria abbiano una sopravvivenza ridotta quando vengono trasfusi in soggetti sani, normale quando invece il ricevente è splenectomizzato. Come pure è normale la vita media di emazie isogruppo trasfuse ad un soggetto con sferocitosi. Ciò significa che: a) il difetto è intrinseco al globulo rosso; b) vi è emolisi solo in presenza della milza. Pertanto, la sferocitosi ereditaria è caratterizzata da un’emolisi extravascolare e quindi da iperbilirubinemia indiretta con urobilinuria. Il midollo può incrementare la sua attività eritropoietica in misura tale da mantenere in termini modesti l’anemia, anche se in certi periodi questo compenso può essere difettoso e si possono sviluppare episodi di più marcata anemizzazione (crisi “aplastiche”). C. Clinica. La triade sintomatologica della malattia è rappresentata da: a) anemia emolitica con sferocitosi periferica; b) ittero; c) splenomegalia. Tuttavia l’espressività dei sintomi e segni è assai variabile, a seconda della gravità della malattia. Si distinguono infatti tre forme principali. • Una forma lieve, che interessa circa 1/4 dei pazienti, senza anemia, perché la produzione midollare di eritrociti è in grado di compensare completamente la distruzione. Gli altri membri della famiglia possono anch’essi presentare questa forma lieve oppure essere affetti dalla forma grave. I segni di emolisi e la splenomegalia possono essere modesti o assenti, ma la situazione può aggravarsi in occasione di malattie virali (per es., la mononucleosi infettiva), di uno sforzo fisico importante, della gravidanza.
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• Una forma moderata che interessa circa i 2/3 dei pazienti, con distruzione emolitica degli eritrociti non compensata e periodi intermittenti di ittero, spesso collegati ad infezioni virali; la splenomegalia è di solito presente, di entità variabile. • Una forma grave, che interessa una piccola quota di pazienti (< 10%), con anemia grave, spesso richiedente emotrasfusioni di concentrati di globuli rossi; questi pazienti possono presentare un ritardo di crescita ed andare incontro a modificazioni nella struttura delle ossa del cranio, con la tipica turricefalia (per ispessimento delle ossa frontali e parietali). Nelle forme più gravi possono comparire anche ulcerazioni agli arti inferiori, soprattutto perimalleolari, simili a quelle di facile riscontro nella talassemia minor e nella drepanocitosi. Frequente è la colelitiasi, complicanza peraltro di molti disturbi emolitici cronici. Tutti i pazienti, ma con maggior probabilità e frequenza quelli affetti dalla forma grave, possono andare incontro a due tipi di crisi: emolitica ed aplastica. La crisi emolitica può essere precipitata da un’infezione o dallo stress ed è caratterizzata da aumento della bilirubinemia indiretta, splenomegalia ed anemia; di solito essa non è molto grave e richiede una terapia trasfusionale. Le crisi aplastiche sono molto più gravi e possono anche avere esito fatale; si presentano con febbre, dolore addominale, vomito, reticolocitopenia ed anemia, talvolta anche neutropenia e piastrinopenia. La crisi dura da 10 a 14 giorni e la fine è contrassegnata dalla comparsa dei reticolociti nel sangue periferico. L’eziologia della crisi aplastica è molto verosimilmente virale, in particolare da parvovirus. I parvovirus sono comuni agenti di malattia negli animali; il loro nome (da parvus = piccolo) è dovuto al fatto che essi sono i più piccoli virus (15-28 nm di diametro alla microscopia elettronica) contenenti DNA in grado di infettare cellule animali. Il parvovirus è stato descritto nel 1975 e si è rivelato l’agente eziologico, nelle persone normali, della quinta malattia nei bambini e di una sindrome di tipo poliartralgico negli adulti. L’infezione da parvovirus è molto contagiosa e il riscontro, nel 50% degli adulti normali, di anticorpi antiparvovirus nel siero presuppone un’immunità acquisita nell’età scolare. La nomenclatura ufficiale è parvovirus B19, che è il termine impiegato dallo scopritore del virus. Questo virus è importante in ematologia perché la prima malattia che è stata associata all’infezione da parvovirus B19 è la crisi aplastica transitoria osservata in pazienti con drepanocitosi; successivamente si è dimostrato che il parvovirus B19 può indurre crisi aplastiche transitorie in pazienti affetti da numerosi processi emolitici di base: la già ricordata drepanocitosi, la sferocitosi ereditaria, la talassemia, l’anemia emolitica da deficit degli enzimi eritrocitari, l’anemia emolitica autoimmune. Talvolta la crisi aplastica rappresenta l’esordio clinico di un’anemia emolitica misconosciuta. Le crisi aplastiche transitorie sono caratterizzate dalla
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brusca insorgenza di grave anemia, talvolta accompagnata da granulocitopenia e piastrinopenia, con assenza di reticolociti e presenza nel midollo di scarsi precursori eritroidi. I pazienti con crisi aplastiche spesso non hanno altri sintomi oppure possono presentare febbre con sintomi di infezione delle vie aeree superiori, gastroenterite o malattia similinfluenzale. Nelle prove in vitro con colonie in mezzo semisolido l’effetto inibente del parvovirus B19 si è dimostrato altamente specifico per la linea eritropoietica e privo di effetto sul numero di colonie derivate dalla CFUGM. Vi sono, infine, alcune segnalazioni molto recenti che in soggetti immunodepressi, per esempio portatori di sindromi di immunodeficienza congenita, di neoplasie in terapia chemioterapica, di AIDS, gli episodi di improvviso deficit midollare che talvolta si verificano possono essere dovuti ad infezione da parvovirus. D. Esami di laboratorio. I valori di emoglobina sono generalmente compresi tra 8 e 11 g/dl, anche se, in occasione delle crisi “aplastiche”, l’anemia può aggravarsi notevolmente. Lo striscio di sangue periferico presenta circa il 20-30% della popolazione eritrocitaria con una forma rotondeggiante, intensamente e omogeneamente colorata (priva cioè della consueta area centrale chiara). L’anisopoichilocitosi è marcata; il volume corpuscolare medio è di solito normale, mentre la CHCM il più delle volte si presenta elevata. Vi è una reticolocitosi (5-20%) che può anche essere notevolmente superiore, soprattutto nel periodo che segue immediatamente una crisi “aplastica”. Nel midollo emopoietico si osserva una spiccata iperplasia della serie rossa, talvolta con inversione del rapporto leuco/eritroblastico. La bilirubina indiretta nel siero è aumentata, l’aptoglobina sierica assente o diminuita. L’escrezione urinaria di bilinogeno è aumentata, le feci, poi, hanno elevatissimi quantitativi di bilinogeno. Non esistono esami di per sé specifici della sferocitosi ereditaria. La diagnosi poggia quindi su di una costellazione di dati che, presi nel loro complesso, suggeriscono l’esistenza della malattia. Tra questi, di particolare importanza sono il test di fragilità osmotica e quello di autoemolisi. Gli sferociti, rispetto agli eritrociti normali, presentano minore superficie per unità di volume e quando vengono incubati con soluzioni ipotoniche si lisano più facilmente. Il sangue di un paziente con sferocitosi ereditaria comincia ad emolizzare alle concentrazioni 0,5-0,7% di NaCl (normalmente l’emolisi inizia con NaCl allo 0,45%). La presenza poi di una “coda” osmoticamente resistente riflette la percentuale di reticolociti presenti. La sferocitosi presenta una netta riduzione delle resistenze globulari osmotiche (RGO), quando i GR vengono preincubati a 37 °C per 24 ore e poi sottoposti allo stress iposmotico (infatti c’è un’ulteriore deplezione di ATP). Nei casi lievi quest’ultima avvertenza permette di “sensibilizzare il sistema” ed evidenziare ugualmente la presenza dell’anomalia, altrimenti non dimostrabile.
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Nel test di autoemolisi il sangue è incubato a 37 °C, sterilmente, per 48 ore. In condizioni normali il rilascio di Hb arriva al massimo al 4%; nella sferocitosi ereditaria, viceversa, può raggiungere anche il 40%. Questa non è la sola malattia nella quale l’autoemolisi sia incrementata, tuttavia è possibile restringere ulteriormente il campo delle ipotesi aggiungendo ATP o glucosio nel mezzo di sospensione. Una marcata riduzione del fenomeno dopo aggiunta di queste sostanze è fortemente suggestiva di sferocitosi ereditaria, anche se un risultato analogo è osservabile nell’anemia emolitica da deficit di triosofosfato-isomerasi. La sopravvivenza eritrocitaria, infine, con emazie marcate con 51Cr è diminuita nei pazienti non splenectomizzati e normale in quelli che sono stati sottoposti all’intervento chirurgico. Ulteriori conferme alla diagnosi si ottengono con uno studio della famiglia del paziente. Lo screening può essere fatto molto semplicemente con emocromocitometria, conta dei reticolociti, esame dello striscio di sangue periferico. E. Diagnosi. Nell’anemia emolitica autoimmune è possibile che si verifichi una certa sferocitosi a carico degli eritrociti. Questa forma è però facilmente differenziabile dalla sferocitosi ereditaria per la positività del test di Coombs e per la normalità del test di autoemolisi. Un possibile problema, in presenza di ittero evidente e lieve anemia, come può capitare nella sferocitosi ereditaria, è la differenziazione da una sindrome di Gilbert (Cap. 26). Quest’ultima, tuttavia, non si accompagna di regola né a urobilinuria né ad alcuna delle stigmate ematologiche proprie della sferocitosi. F. Decorso e prognosi. La malattia ha un andamento cronico, con saltuarie esacerbazioni dell’anemia, caratterizzate da splenomegalia dolente, ittero franco, reticolocitosi, iperbilirubinemia indiretta in occasione delle crisi emolitiche. Come si è visto, raramente insorgono crisi aplastiche con carattere di maggiore gravità. Complessivamente la prognosi è buona perché si ha a disposizione una terapia patogenetica in grado di normalizzare il quadro ematologico, rappresentata dalla splenectomia. G. Cenni di terapia. La splenectomia è l’unica terapia utile. Una volta eseguita, il difetto intrinseco dei globuli rossi persiste, tuttavia il quadro ematologico si normalizza ad eccezione della comparsa di lieve trombocitosi e leucocitosi. Talvolta la mancanza di guarigione è ascrivibile alla presenza di milze accessorie, più spesso a diagnosi non esatta. L’aumentata frequenza di batteriemie che si osservano nei bambini di età inferiore ai 5 anni dopo splenectomia impone che l’intervento sia ritardato per quanto possibile (almeno dopo il decimo anno di età). Non di rado l’emolisi cronica e la eritropoiesi accelerata che ne consegue richiedono l’istituzione di una terapia con acido folico.
Ellissocitosi ereditaria Il nome della malattia deriva dall’aspetto ellittico dei globuli rossi nel sangue periferico. Si tratta di una ma-
lattia eterogenea, sia in termini di espressione clinica che di morfologia delle emazie. Sulla base della forma dei globuli rossi si possono distinguere tre gruppi principali: la forma comune in cui l’emazia è biconcava, la forma sferocitica, che rappresenta un fenotipo ibrido tra la sferocitosi ereditaria e l’ellissocitosi, e la forma stomatocitica (emazie a forma di scodella), comune nelle popolazioni della Malesia che, a differenza delle altre due forme di ellissocitosi, conferisce resistenza all’infestazione malarica. L’ellissocitosi comune, la più frequente delle tre forme, si trasmette ereditariamente come carattere autosomico a dominanza incompleta; allo stato eterozigote costituisce o una condizione asintomatica con normale sopravvivenza delle emazie o si esprime con un’emolisi da lieve a moderata. Gli omozigoti hanno di solito grave anemia emolitica con evidenti micropoichilocitosi, microellissocitosi e microsferocitosi. La piropoichilocitosi ereditaria, malattia strettamente correlata all’ellissocitosi, è trasmessa con modalità autosomica recessiva, caratterizzata da spiccatissima micropoichilocitosi ed instabilità termica delle emazie. Il difetto molecolare alla base dell’ellissocitosi e della piropoichilocitosi ha luogo a livello delle proteine del citoscheletro della membrana, che possono essere qualitativamente alterate, con deficit funzionale, o ridotte quantitativamente. Il difetto più comune riscontrato in circa un terzo dei pazienti con ellissocitosi ereditaria e in quasi tutti i pazienti con piropoichilocitosi è costituito da un difetto di assemblaggio dei dimeri della spectrina in tetrameri ed oligomeri, per un difetto strutturale delle catene della spectrina. La notevole instabilità delle emazie riscontrata nelle forme gravi di ellissocitosi e piropoichilocitosi, con conseguente frammentazione dei globuli rossi, poichilocitosi ed emolisi, è verosimilmente dovuta ad instabilità dello scheletro della membrana. Non è completamente chiarito il meccanismo di formazione degli ellissociti; si suppone che i globuli rossi normali assumano transitoriamente una forma ellittica quando sottoposti allo stress dovuto all’attrito da scivolamento sulla parete endoteliale: poiché, come si è già visto, l’alterazione a livello dello scheletro della membrana ne riduce la flessibilità e la plasticità, cioè lo rende più rigido, esso non sarebbe in grado di riprendere la forma iniziale al venir meno dello stress.
ANEMIE DA DEFICIT DEGLI ENZIMI ERITROCITARI (*) Si tratta di anemie emolitiche ereditarie secondarie a ridotta attività di uno degli enzimi necessari al metabolismo glucidico eritrocitario, ovvero gli enzimi della via glicolitica di Embden-Meyerhof e quelli dello shunt (*) G. Gromo.
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dell’esosomonofosfato. Le forme di più comune riscontro sono quelle causate da deficit di glucosio-6-fosfatodeidrogenasi (G-6-PD) e di piruvato-chinasi (PK).
Cenni sul metabolismo eritrocitario Durante il suo sviluppo, il globulo rosso perde molte delle “vie biochimiche” presenti nella cellula nucleata. Il globulo rosso maturo, infatti, non può sintetizzare acidi nucleici, lipidi, enzimi, glucidi ed eme. Non possiede gli enzimi del ciclo degli acidi tricarbossilici, la catena respiratoria e la fosforilazione ossidativa. Gli eritrociti maturi mantengono unicamente integri la glicolisi anaerobia e il ciclo del glucosio-6-fosfato. Infatti, nonostante un’attività metabolica molto limitata, l’eritrocita richiede energia per mantenere flessibile la membrana cellulare, regolare il flusso degli ioni sodio e potassio, far funzionare il sistema ossido-riduttivo capace di proteggere la cellula dall’azione di sostanze ossidanti endogene ed esogene. Questi obiettivi vengono raggiunti grazie alla glicolisi ed in particolare mantenendo appropriati livelli intracellulari di alcune molecole specifiche quali ATP, GSH, NADH, NADPH e 2,3-DPG (Tab. 44.11). Circa il 90% del glucosio che giunge nell’eritrocita viene metabolizzato ad acido lattico attraverso la glicolisi anaerobia. È questa la sola via utilizzata dal GR per produrre ATP. Per ogni mole di glucosio vengono prodotte due moli di ATP sufficienti a mantenere attive le funzioni ATPdipendenti, cioè il trasporto attivo attraverso la membrana di ioni calcio, sodio e potassio, la fosforilazione delle proteine di membrana e la glicolisi stessa. Attraverso la glicolisi anaerobia si produce anche NADH, un cofattore di fondamentale importanza nelle reazioni di ossidoriduzione. Lo shunt di Rapaport-Luebering, la via alternativa nel passaggio da 1,3-difosfoglicerato a 3-fosfoglicerato, permette poi la sintesi e la degradazio-
Tabella 44.11 - Composti intermedi metabolici di fondamentale importanza nel globulo rosso. COMPOSTO ATP
2,3-DPG GSH
NADPH NADH
FUNZIONE PRINCIPALE Fornisce energia per il trasporto attraverso la membrana di ioni sodio, potassio e calcio; trasferisce gruppi fosforici ad alta energia alle proteine di membrana. Riduce l’affinità della Hb per l’O2 e consente una maggiore cessione di O2 ai tessuti. Fornisce gruppi sulfidrilici utilizzabilil per metabolizzare le sostanze endogene ed esogene ossidanti; contribuisce alla detossificazione della H2O2. Fornisce protoni per rigenerare il glutatione ridotto dal glutatione ossidato. Cofattore nella reazione che previene l’accumulo di metaemoglobina.
ne di 2,3-DPG, un importante regolatore del processo di ossidazione dell’emoglobina. Solo il 10% del glucosio che penetra nel globulo rosso viene normalmente catabolizzato attraverso il ciclo dei pentosi. La principale funzione di questa via è quella di produrre NADPH e di mantenere così il glutatione in forma ridotta (GSH) (Fig. 44.12). Il GSH protegge i globuli rossi dalle sostanze ossidanti (ioni superossido e perossido di idrogeno) liberate da macrofagi e granulociti durante la fagocitosi o prodotte dagli stessi globuli rossi dopo assunzione di determinati farmaci. Non viene generato, invece, ATP. La quantità di glucosio che entra nel ciclo dei pentosi non è costante, ma è in funzione della quantità di NADP e può aumentare fino a 30 volte.
Anemie da difetto degli enzimi della glicolisi anaerobia Sono anemie rare. Il 90% dei casi è provocato da deficit di PK, il 4% da deficit di glucosiofosfato-isomerasi (GPI), i restanti casi dalla carenza di altri enzimi della via glicolitica anaerobia. A. Anemia emolitica da deficit di piruvato-chinasi (PK). Si tratta di una malattia diffusa in tutto il mondo, anche se la gran parte dei casi è stata segnalata nella popolazione europea. 1. Eziopatogenesi. Il difetto enzimatico è ereditato come carattere autosomico recessivo; maschi e femmine vengono interessati in egual misura. La malattia conclamata si ha solo negli omozigoti ed è associata ad un’attività dell’enzima PK pari al 5-25% dell’attività normale. Negli eterozigoti l’attività della PK è ridotta di circa il 50% senza che vi sia un’evidenza clinica del difetto; tuttavia una sintomatologia, se pur meno marcata, è presente anche in alcuni pazienti con eterozigosi per due mutazioni distinte ed interagenti (doppia eterozigosi). È importante inoltre ricordare che nei tessuti umani sono presenti tre isoenzimi della PK: il tipo I è contenuto nei GR e nel fegato; il tipo II nei reni e il tipo III in leucociti, piastrine, fegato, reni, muscoli e cervello. Non sempre esiste una correlazione fra entità della anemia ed entità del deficit enzimatico. La ridotta attività della PK è dovuta, nella gran parte dei casi, ad un difetto quantitativo; in altri casi sono state riconosciute varianti strutturali con alterate proprietà cinetiche. 2. Fisiopatologia. La PK eritrocitaria è un tetramero con un peso molecolare di 225.400. Catalizza la conversione da fosfoenolpiruvato in piruvato e interviene così in una delle due reazioni glicolitiche capaci di produrre ATP (l’altra è catalizzata dalla fosfoglicero-chinasi). La carenza di PK, quindi, provoca una riduzione della sintesi di ATP, un accumulo dei metaboliti che precedono questa tappa nella sequenza glicolitica (PEP; 3 PG; 2,3-DPG) e una diminuzione dei substrati a valle (piru-
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H2O2
H2O2 Glutatione-perossidasi
GSH
GSSG Glutatione-perossidasi
GLUCOSIO NADP
(glicolisi anaerobia)
GLUCOSIO-6-FOSFATO
NADPH
Glucosio-6-fosfato-deidrogenasi
(shunt dell’esosomonofosfato)
6-FOSFOGLUCONATO 6-fosfoglucodeidrogenasi PENTOSOFOSFATO
Piruvico-chinasi PIRUVATO LATTATO
Figura 44.12 - Ruolo della glucosio-6-fosfato-deidrogenasi nella produzione di NADPH e nel mantenimento del glutatione in forma ridotta (GSH).
vato e lattato). Il danno metabolico principale dei GR carenti di PK è la diminuita produzione di ATP con conseguente riduzione di tutte le funzioni ATP-dipendenti. Compaiono lesioni funzionali della membrana eritrocitaria che provocano riduzione della concentrazione intraeritrocitaria di potassio e accumulo di ioni calcio. La membrana diviene più rigida, meno elastica, e possono comparire, alla superficie, protuberanze e spicole (acantocitosi). Le emazie così modificate vengono riconosciute dal sistema reticolo-endoteliale del fegato e della milza, e fagocitate. Da segnalare che anche i reticolociti (capaci di sfruttare la fosforilazione ossidativa mitocondriale per produrre ATP) sono distrutti nella milza dal momento che quest’organo costituisce un ambiente sfavorevole (pH basso, ridotta PO2, bassa concentrazione di glucosio) per il metabolismo mitocondriale dei reticolociti. 3. Clinica. L’espressione della malattia è variabile; talvolta si manifesta alla nascita con grave ittero neonatale, altre volte il deficit di PK viene diagnosticato, del tutto occasionalmente, durante l’età adulta. In genere, comunque, anemia e ittero compaiono nel corso della infanzia. La sintomatologia è, con buona approssimazione, simile a quella osservata nelle anemie emolitiche croniche (anemia, ittero, reticolociti aumentati, splenomegalia). Elevata l’incidenza di litiasi biliare. Rare le ulcere agli arti inferiori, come pure le modificazioni ossee (soprattutto bozze frontali) associate ad iperplasia del mi-
dollo emopoietico quali si osservano in altre forme di anemie emolitiche croniche ereditarie. 4. Esami di laboratorio. L’anemia normocitica normocromica è di gravità variabile, il tasso di emoglobina può variare da 6 a 12 g/dl e l’ematocrito dal 17 al 37%. Non esistono solitamente fluttuazioni nell’entità della anemia, rare le esacerbazioni in occasione di infezioni o interventi chirurgici. Tutti i parametri morfologici caratteristici di un’eritropoiesi accelerata sono presenti nello striscio periferico: policromasia, anisocitosi, poichilocitosi e GR nucleati. Talvolta sono stati osservati acantociti ed echinociti. La reticolocitosi è spiccata (5-15%) ed aumenta ulteriormente dopo splenectomia (50%). Normali i leucociti e le piastrine. La bilirubina indiretta è aumentata, la sideremia normale, le urine presentano un’elevata escrezione di urobilinogeno, il midollo osseo è ipercellulare con intensa iperplasia della serie eritropoietica. 5. Diagnosi. In passato, il primo esame di screening da eseguire nel sospetto di un deficit di PK era il test di autoemolisi. Si può infatti osservare una percentuale di emolisi del 20-30% (v.n. 4%) corretta dall’aggiunta di ATP ma non di glucosio (a differenza di quanto avviene nella sferocitosi ereditaria). Oggi si preferisce dosare direttamente l’attività dell’enzima presente nei GR del paziente, calcolando la velocità di ossidazione del NADH a NAD. Nei pazienti con deficit di PK dei GR (isoenzima I) è ancora presente la PK leucocitaria (isoenzima III). Ci
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deve quindi essere particolare attenzione nell’allontanare i leucociti, dal momento che l’attività della PK leucocitaria è 300 volte maggiore di quella dei GR e potrebbe inficiare il risultato del test. Il deficit di PK si presenta comunemente come un’anemia emolitica normocitica normocromica. La diagnosi differenziale, dopo aver escluso i più comuni processi emolitici, deve comprendere le anemie emolitiche ereditarie da emoglobina instabile e le altre enzimopatie ereditarie dei globuli rossi. La presenza di emoglobina instabile può essere dimostrata ricorrendo al test della stabilità al calore o a quello della precipitazione con isoproterenolo; le altre enzimopatie, con dosaggi quantitativi dell’attività dei diversi enzimi. Quanto poi alla sferocitosi, il quadro periferico e le resistenze globulari dovrebbero essere sufficienti a dirimere eventuali dubbi diagnostici. 6. Cenni di terapia. Non esiste terapia specifica e le cure sono essenzialmente di supporto: acido folico per compensare l’aumentato consumo dovuto alla marcata eritropoiesi, terapia trasfusionale nelle forme più gravi. La splenectomia spesso migliora il quadro clinico, benché raramente si assista ad una completa risoluzione dell’anemia emolitica. B. Anemie emolitiche da deficienza di altri enzimi della glicolisi anaerobia. Sono forme molto rare. Il deficit è trasmesso solitamente come carattere autosomico recessivo ed è causa di anemia solo se è presente allo stato omozigote. Unica eccezione la carenza di fosfoglicero-chinasi (PGK), che è trasmessa come carattere legato al sesso. I maschi sono affetti da grave anemia, mentre le femmine no. In alcuni casi il difetto è localizzato solo nei globuli rossi (deficit di esochinasi), altre volte anche nei leucociti, che peraltro mantengono le loro normali funzioni (deficit di fosfoglicero-chinasi e glucosio-fosfato-isomerasi). Da ricordare, poi, il caso della triosofosfato-isomerasi (TPI) dove l’enzima è diminuito nei leucociti, nelle cellule muscolari e nel liquido cefalorachidiano. L’anemia sarà allora accompagnata da frequenti infezioni e gravi disturbi cardiaci e neurologici. La diagnosi di questi deficit si ottiene determinando l’attività degli enzimi glicolitici eritrocitari. La terapia è sintomatica.
Anemie da difetto degli enzimi dello shunt dei pentosofosfati Il deficit di glucosio-6-fosfato-deidrogenasi (G-6-PD) è l’anomalia più importante dello shunt dei pentosi. Si calcola che oltre 100 milioni di persone nel mondo ne siano portatrici. Gli altri difetti enzimatici sono rarissimi e solo sporadicamente sono stati documentati casi di carenza di glutatione-sintetasi e glutatione-reduttasi. A. Anemia emolitica da deficit di glucosio-6-fosfato-deidrogenasi (G-6-PD). Il deficit di G-6-PD nei glo-
buli rossi maturi è il risultato della sintesi di un enzima instabile e con emivita ridotta. Meno comunemente il deficit è dovuto ad una ridotta sintesi o alla sintesi di un enzima inattivo o cineticamente anomalo. Questo difetto enzimatico è stato riscontrato in tutte le popolazioni, ma con particolare frequenza in una zona geografica che comprende il bacino mediterraneo, l’Africa occidentale e centrale, l’Asia minore e quella sud-orientale. In Europa l’incidenza è dello 0,1%; in Italia dello 0,4%; fra le popolazioni nere del Nord America raggiunge il 10%. La distribuzione geografica è simile a quella della talassemia, della malaria e della drepanocitosi. Si ritiene che questo difetto enzimatico costituisca un vantaggio selettivo nei confronti della malaria da Plasmodium falciparum. Infatti, i globuli rossi con deficit di G-6-PD sono meno frequentemente parassitati rispetto ai GR normali in vitro. Il gene per la G-6-PD è posto sul cromosoma X, la trasmissione ereditaria è pertanto legata al sesso. Quindi i maschi che portano il gene per il deficit di G-6-PD sono emizigoti. In questi soggetti, dunque, esistono solo geni anomali per la G-6-PD, dal che consegue un interessamento generale della popolazione eritrocitaria. Le donne che presentano il gene anomalo, invece, sono comunemente eterozigoti. Infatti, ogni cellula eritropoietica presenta, a caso, uno solo dei due cromosomi X attivo, mentre l’altro è inattivato precocemente durante la vita embrionale (ipotesi di Lyon). Una femmina eterozigote per il deficit di G-6-PD ha quindi due popolazioni di GR, una normale e l’altra carente. Ma poiché il processo di inattivazione del cromosoma X è casuale (l’ampiezza di ciascuna popolazione, infatti, può non essere esattamente del 50%) la gravità dell’anemia dipenderà dal numero complessivo di GR carenti di G-6-PD. 1. Eziopatogenesi. La ridotta efficienza dell’enzima è provocata, nella quasi totalità dei casi, dalla presenza di varianti strutturali di G-6-PD con caratteristiche biochimiche e cinetiche alterate, quali la stabilità al calore, l’affinità per i substrati, il grado di inibizione prodotto dal NADPH, il pH ottimale di attività, la mobilità elettroforetica e cromatografica. La variante corrispondente ad una attività enzimatica “normale”, viene definita G-6-PD B+, è la più comune ed è considerata lo standard di riferimento. La variante seconda in ordine di frequenza e ad attività enzimatica solo lievemente ridotta (pari all’84%) è la G-6-PD A+. Rispetto alla B+ è elettroforeticamente più veloce e differisce strutturalmente per un singolo aminoacido. Si trova nel 30% della popolazione nera maschile statunitense e, in genere, tra quanti originano dall’Africa occidentale e centrale. Le varianti patologiche più comuni sono la G-6-PD A– e la G-6-PD Mediterranea. La G-6-PD A– si osserva in individui di discendenza africana. Ha un’attività pari al 5-15% di quella dell’enzima normale. La migrazione elettroforetica è sovrapponibile a quella della G-6-PD A+, ma la G-6-PD A– è estremamente instabile e con caratteristiche cinetiche anomale.
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La G-6-PD Mediterranea è maggiormente frequente tra i caucasici. L’attività enzimatica nei GR maturi degli individui con questa variante è quasi assente per deficiente sintesi dell’enzima stesso. La mobilità elettroforetica è identica a quella della G-6-PD+. Altre varianti a ridotta attività che si osservano con relativa frequenza sono la G-6-PD Canton e la G-6-PD Debrousse. La G-6-PD Oklahoma è caratterizzata da ridotta affinità dell’enzima per il suo substrato. Sono state descritte fino ad ora più di 160 varianti, raggruppabili, in base alle caratteristiche biochimiche ed ai quadri clinici che determinano, in diverse classi. • Classe I: varianti con grave deficienza enzimatica associata ad anemia emolitica cronica. • Classe II: varianti con grave deficienza enzimatica non associata ad anemia emolitica cronica. Tra queste è compresa la Mediterranea. In questa classe alcuni farmaci, infezioni e alimenti possono scatenare un’emolisi acuta. • Classe III: varianti con modesto deficit enzimatico. La più frequente è la A–. • Classe IV: varianti con attività enzimatica normale o quasi. Tra queste, la A+ e la B+. • Classe V: varianti con attività enzimatica aumentata. 2. Fisiopatologia. Nei soggetti normali l’attività della G-6-PD decresce lentamente e progressivamente durante l’invecchiamento fisiologico dei GR, tuttavia dopo 120 giorni, è ancora sufficiente a mantenere una quantità di NADPH e di GSH tale da preservare l’integrità dell’eritrocita. Diverso, invece, il comportamento del GR con deficit di G-6-PD. Infatti le varianti patologiche comportano un decremento di attività enzimatica più rapido, così da raggiungere prima dei 120 giorni il livello critico oltre il quale il GR viene rimosso dal sistema reticolo-endoteliale (emolisi extravascolare). In alcune varianti quali A– e Mediterranea questo processo avviene quando il GR ha 90-100 giorni di età, il che comporta un quadro di emolisi spontanea che però è del tutto compensato dall’aumento dell’attività eritropoietica. Invece altre varianti (per es., New York o Oklahoma) presentano una diminuzione critica dell’enzima dopo solo 20 giorni. In questi casi vi è sempre anemia emolitica cronica, più o meno grave a seconda del tipo di variante. Ma la carenza di G-6-PD è anche causa di crisi emolitiche acute. Infatti, quando i GR sono sottoposti ad uno stress ossidativo (farmaci, infezioni, alimenti) l’attività di G-6-PD richiesta a difesa dell’integrità e funzionalità della membrana è più elevata. Tuttavia gli eritrociti normali, anche nel corso di queste evenienze, non sono distrutti. Infatti le sostanze ossidanti sono ridotte nel GR dal sistema del glutatione in cui sia GSH che NADPH fungono da donatori di H+. In carenza di G-6-PD vengono meno questi substrati e le emazie divengono sensibili all’azione tossica delle sostanze ossidanti. Da parte sua, il sistema delle catalasi non è sufficiente da solo a proteggere le cellule. Alcuni farmaci (Tab. 44.12), direttamente o generando perossido di idrogeno, ossidano i lipidi di membrana, il gruppo emico della Hb e le catene globiniche. La
conversione, poi, di Hb in meta-Hb insieme alla produzione di ione superossido comporta un effetto dannoso per la membrana. La molecola della Hb diventa instabile e precipita nel GR sotto forma di corpo di Heinz. I corpi di Heinz (visibili al microscopio ottico in uno striscio di sangue dopo colorazione con cristalvioletto o altri coloranti sopravitali) sono dei microprecipitati delle dimensioni di 0,2-2 . In una prima fase si trovano al centro del citoplasma eritrocitario, poi aderiscono alla membrana alterandone il trasporto ionico. Le emazie che contengono i corpi di Heinz vengono trattenute nella microcircolazione splenica. Prima di essere nuovamente rilasciate in circolo vengono liberate da questi corpi inclusi (pitting splenico), il che porta ad un ulteriore danno di membrana. Anche durante la fagocitosi, in occasione di processi infettivi, vengono liberate sostanze ossidanti dai granulociti e dai macrofagi. Ovvero l’emolisi potrebbe essere provocata dall’azione ossidante di sostanze endogene prodotte in corso di certe malattie. Per quanto riguarda gli alimenti, sono soprattutto da ricordare le fave. Da questi legumi è stata isolata una sostanza capace di interferire nel metabolismo del glutatione: si tratta del dopachinone, un metabolita della L-dopa, che catalizza l’ossidazione del GSH. 3. Clinica. La carenza di G-6-PD può dare origine a: a) anemia emolitica cronica non sferocitica; b) crisi emolitica acuta in occasione di assunzione di farmaci; c) crisi emolitica acuta in corso di infezioni; d) crisi emolitica acuta in occasione di assunzione di particolari alimenti; e) ittero neonatale. a) Anemia emolitica cronica non sferocitica. Le varianti associate a questo quadro sono circa 50. Di recente sono stati segnalati alcuni casi anche tra i portatori della variante Mediterranea. Il decorso è sovrapponibile a quello di altre anemie emolitiche croniche. Può esordire alla nascita con ittero emolitico neonatale e talvolta complicarsi con improvvise crisi di emolisi che compaiono in occasione di infezioni o dopo assunzione di certi farmaci. b) Crisi emolitica acuta secondaria a farmaci. Sono assai numerosi i farmaci in grado di scatenare una crisi emolitica in un paziente portatore di deficit di G-6-PD. Uno stesso farmaco, poi, può scatenare crisi in alcune varianti e non in altre. Per esempio il CAF induce emoliTabella 44.12 - Farmaci responsabili di emolisi negli eritrociti con deficit di G-6-PD. • • • • •
Sulfamidici (sulfacetamide, sulfanilamide, ecc.) Antipiretici e analgesici (aminopirina, acetofene, ecc.) Antimalarici (primachina, pamachina) Nitrofurani (nitrofurantoina, furazolidone, ecc.) Varie (vitamina K, isoniazide, probenecid, acido nalidixico, CAF, ecc.)
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si nei portatori di variante Mediterranea ma non in quelli di variante A–. La crisi di solito si manifesta improvvisamente dopo 1-3 giorni dall’assunzione delcomposto. L’anemia è molto marcata, l’emoglobinuria intensa, compaiono i corpi di Heinz, aumenta la bilirubinemia e l’ittero si fa manifesto. Spesso tutto questo si accompagna a senso di profondo malessere, brividi, nausea, vomito, febbre, dolori addominali e lombari. Dopo 5 giorni circa, compare intensa reticolocitosi cui fa seguito un sostanziale miglioramento dell’anemia. Nella variante A– l’emolisi è di breve durata ed autolimitante, cioè il quadro emolitico non peggiora anche se continua la somministrazione del farmaco alle medesime dosi che hanno scatenato la crisi. Infatti, dopo la brusca emolisi iniziale della metà più vecchia dei GR, il processo emolitico si riduce perché le cellule più suscettibili sono state ormai distrutte. D’altra parte, le emazie con meno di 50 giorni di vita dispongono di una maggior quantità di enzima G-6-PD e sono meno suscettibili, o del tutto insensibili, ai danni ossidativi. A questo punto l’emolisi è presente, ma solo una piccolissima percentuale di emazie è distrutta giornalmente, per cui può essere compensata dall’eritropoiesi midollare. Nelle varianti a deficit enzimatico più grave (per es., Mediterranea), invece, l’anemia si aggrava se il composto non viene subito sospeso. Infatti, in queste varianti l’attività enzimatica è inadeguata a fronteggiare le richieste aumentate anche nei GR giovani e nei reticolociti. Tra una crisi emolitica e l’altra il quadro ematologico è nella norma, senza reticolocitosi o splenomegalia. c) Crisi emolitica acuta secondaria a infezioni. Sono state documentate con certezza crisi emolitiche in corso di: polmonite lobare, insufficienza renale acuta, influenza, epatite, chetoacidosi diabetica, salmonellosi. Il miglioramento è lento a causa di una diminuita produzione di reticolociti e sovente inizia dopo che l’infezione è guarita o l’alterazione metabolica è stata corretta. d) Crisi emolitica acuta secondaria ad alimenti (favismo). Che l’esposizione alle fave (Vicia fava) fosse tossica e talvolta mortale è cosa risaputa fin dai tempi di Pitagora, ma solo di recente si è scoperto che questo rischio riguarda esclusivamente alcuni portatori di variante Mediterranea, mentre non è mai stato riscontrato nei portatori di variante A– o di altre varianti. L’emolisi può essere molto grave e inizia solitamente alcune ore dopo l’esposizione ai pollini o 2 giorni circa dopo l’ingestione di fave. Circa il 90% degli attacchi di favismo acuto è causato da ingestione di semi freschi o cotti della pianta, mentre i restanti casi sono dovuti all’esposizione a pollini di fave (soprattutto in primavera), particolarmente in Sardegna, ove l’incidenza della variante G-6-PD Mediterranea raggiunge il 35%. In alcuni casi la crisi è mortale. Si pensa ad una predisposizione genetica, dal momento che solo pochi individui con variante Mediterranea, per lo più appartenenti allo stesso nucleo familiare, presentano sensibilità alle fave. e) Ittero neonatale. Il deficit di G-6-PD è la causa più frequente di ittero neonatale dopo la malattia emolitica del neonato (incompatibilità materno-fetale per il
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fattore Rh). L’abnorme suscettibilità all’emolisi (talvolta così grave da rendere necessaria l’exanguinotrasfusione) può essere dovuta a ipoglicemia, a ridotta attività della glutation-perossidasi, all’azione ossidante della vitamina K talora somministrata ai neonati. L’ittero neonatale è raro nella mutazione G-6-PD A– africana. 4. Diagnosi. L’anemia emolitica da deficit di G-6-PD non presenta un quadro ematologico caratteristico. Il mezzo più specifico per porre diagnosi è la valutazione dell’attività dell’enzima mediante dosaggio quantitativo spettrofotometrico della velocità di riduzione del NADP a NADPH. Questo esame può dare falsi negativi in pazienti ammalati se è effettuato subito dopo la crisi emolitica, quando la popolazione eritrocitaria residua è molto giovane. Le femmine eterozigoti rappresentano un problema diagnostico, dal momento che coesistono cellule normali e cellule carenti di G-6-PD e questo può mascherare la presenza del difetto. Le due principali classi di anomalie che possono simulare un deficit di G-6-PD sono: • riduzione della concentrazione intracellulare di GSH; • emoglobine instabili. Le cause, oltre al deficit di G-6-PD, che provocano la riduzione di GSH intracellulare sono molto rare. È sufficiente ricordare il deficit di glutation-sintetasi o di -glutamil-sintetasi. Le Hb instabili, da parte loro, possono essere facilmente differenziate mediante la dimostrazione di un’alterata mobilità elettroforetica o con test di precipitazione. 5. Cenni di terapia. Il più importante provvedimento consiste nell’evitare la somministrazione di farmaci che causano emolisi per stress ossidativo nei GR carenti di G-6-PD. La splenectomia raramente si dimostra efficace; talvolta è necessaria la terapia trasfusionale nelle crisi emolitiche di pazienti portatori della variante Mediterranea. B. Anemie emolitiche da deficienza di altri enzimi dello shunt dei pentosi. Sono stati segnalati, benché assai rari, deficit congeniti della -glutamil-cisteinasintetasi e della glutation-sintetasi. Poiché questi due enzimi partecipano alla sintesi del glutatione, queste affezioni presentano quadri clinici analoghi a quelli del deficit di G-6-PD. Alcuni episodi di ittero emolitico neonatale vengono poi attribuiti a deficit di glutation-perossidasi.
EMOGLOBINOPATIE (*) Sono condizioni ereditarie caratterizzate dalla sintesi di emoglobine strutturalmente anomale. Sono state descritte almeno 400 varianti di emoglobine anomale, ma solo in un terzo dei casi l’alterazio(*) G. Gromo, M. Storti.
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ne strutturale comporta “malattia”. Più del 90% delle emoglobinopatie è attribuibile alla sostituzione di un solo aminoacido nella struttura primaria della Hb per mutazione puntiforme nella corrispondente tripletta del gene strutturale. Altre varianti si caratterizzano per la sostituzione di uno o più aminoacidi, per la produzione di Hb a catena allungata o per la fusione di geni differenti dopo crossing-over (per es., Hb Lepore e anti-Lepore). Sono malattie trasmesse con carattere autosomico a dominanza parziale: è cioè possibile la presenza nello stesso individuo di due varianti emoglobiniche (ereditate l’una dal padre e l’altra dalla madre). Le Hb patologiche, per convenzione, vengono indicate con lettere dell’alfabeto o nome del luogo dove sono state scoperte, seguite dalla lettera dell’alfabeto greco che dà il nome alla catena polipeptidica della globina interessata dall’anomalia strutturale, dal numero che precisa la posizione nella catena polipeptidica occupata dal residuo mutato e dal nome del nuovo aminoacido (per es., Alabama 39 Gln → Lys). Le emoglobine patologiche sono caratterizzate da quattro alterazioni funzionali principali, responsabili di altrettanti quadri clinici: • alterata affinità per l’ossigeno, che provoca cianosi o poliglobulia a seconda di una diminuita o aumentata affinità per l’ossigeno; • formazione di HbM con metaemoglobinemia e cianosi; • presenza di emoglobine instabili accompagnate da corpi di Heinz ed emolisi; • HbS e HbC (meno frequenti HbD, E, O) con formazione di tattoidi.
Emoglobinopatie dovute ad emoglobine con alterata affinità per O2 Alcune varianti strutturali sono caratterizzate da uno spostamento dell’equilibrio tra ossi e desossi-emoglobina verso la forma ossigenata o non ossigenata. A. Aumentata affinità. In questo caso la Hb ha una struttura più stabile nella forma ossigenata, il che significa una minor cessione di ossigeno ai tessuti. La produzione di eritropoietina è aumentata e ne consegue eritrocitosi di compenso. Quando la massa di GR è cresciuta in modo tale da compensare l’ipossia tissutale, anche l’eritropoietina torna a valori normali. Si tratta comunque di una patologia rara (45 varianti in poco più di 200 casi segnalati) e limitata a gruppi familiari ben distinti. I pazienti sono pletorici, asintomatici, con alti valori di Hb (> 16 g/dl) e di Hct (45-65%), e raramente necessitano di salassi. Piastrine e leucociti sono nella norma (si vedano Poliglobulie secondarie e Policitemia vera, Cap. 45). La diagnosi non è facile e non sempre è possibile grazie ad una comune elettroforesi della Hb, dal mo-
mento che più del 50% delle varianti ad alta affinità migra in modo del tutto regolare. Viceversa, la curva di dissociazione dell’ossiemoglobina, completamente deviata a sinistra, è diagnostica. B. Diminuita affinità. La struttura della Hb è più stabile nella forma deossigenata, per questo motivo l’ossigeno viene rilasciato ai tessuti assai rapidamente. Si tratta comunque di un’anomalia ancor più rara delle precedenti. I pazienti sono cianotici, talvolta c’è modesta anemia, riferibile a diminuita eritropoietina e a una ridotta sopravvivenza delle emazie dovuta alla contemporanea presenza di Hb instabile.
Emoglobinopatie da HbM Prima di entrare nel dettaglio della patologia conviene fare una breve digressione sul significato della cianosi. Per cianosi si intende una colorazione azzurrognola o bluastra della cute o delle mucose, prodotta da un incremento della concentrazione assoluta di Hb ridotta nei capillari o dalla presenza di composti anomali di Hb (metaemoglobina o solfoemoglobina). La cianosi diventa manifesta quando sono presenti 5 g o più di Hb ridotta per dl di sangue ovvero 1,5-2 g/dl di metaemoglobina o 0,5 g/dl di solfoemoglobina. Le emoglobinopatie da HbM sono caratterizzate da una sostituzione aminoacidica (nella catena o ) responsabile dell’irreversibile ossidazione del ferro emico a ferro ferrico, in uno stato cioè non più suscettibile di riduzione ad opera della NADH metaemoglobin-reduttasi o di qualsiasi altro sistema di metaemoglobinreduttasi del globulo rosso. Si tratta dunque di una metaemoglobinemia congenita dove solo lo stato di eterozigosi permette la sopravvivenza. Rara in tutto il mondo, è comunque l’emoglobinopatia più importante in Giappone. I pazienti hanno un quadro clinico variabile, a seconda della sostituzione specifica. Negli eterozigoti, solo il 25-30% dell’Hb totale è emoglobina M; ciò è dovuto verosimilmente alla diminuita velocità di sintesi della Hb anomala. Vi può essere metaemoglobinemia anche in presenza di emoglobina instabile, tuttavia è transitoria e precede il momento della precipitazione (si veda Emoglobinopatie da emoglobine instabili). La cianosi compare dopo la nascita se il difetto è sulla catena (interessa infatti anche l’HbF), ma solo 3-6 mesi più tardi se è la catena ad essere interessata. Si tratta di una condizione destinata a durare tutta la vita, asintomatica e per la quale il trattamento non è né indicato né possibile. Utili a fini diagnostici l’esame spettrofotometrico di un emolisato acido e l’elettroforesi delle Hb (a pH 7,1 migrano più rapidamente della HbA). Si deve inoltre porre la diagnosi differenziale con la metaemoglobinemia da deficit di NADH-reduttasi e da agenti tossici (per es., nitrati, chinoni, clorati).
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Emoglobinopatie da emoglobine instabili Sono caratterizzate dalla precipitazione intracellulare della Hb, che causa la formazione di inclusi (i corpi di Heinz) ed emolisi. L’affezione è pienamente espressa nello stato eterozigote; l’omozigosi è incompatibile con la vita. I globuli rossi alterati dalla precipitazione dell’emoglobina hanno ridotta deformabilità, incontrano difficoltà a superare il microcircolo e vengono trattenuti nel passaggio dai cordoni splenici ai sinusoidi. In molti casi i corpi di Heinz sono rilasciati nella milza (fenomeno del pitting); la parte restante del GR richiude la sua membrana e ritorna in circolo, ma solitamente è più suscettibile ai processi emolitici. Da qui il riscontro, dopo splenectomia, di un numero superiore di GR contenenti corpi di Heinz. Il quadro clinico è molto variabile, soprattutto a causa delle notevoli differenze strutturali fra le varianti di Hb instabili. Ne sono state identificate più di 70, comunemente classificate in quattro gruppi in relazione alla gravità dei segni e dei sintomi: da una modesta emolisi senza anemia ad anemia emolitica intensa, con reticolociti aumentati, ittero, splenomegalia ed epatomegalia. Per dimostrare la presenza dei corpi di Heinz si incubano le emazie con coloranti ossidanti come il cristalvioletto e il blu di metilene. Talvolta è necessaria l’aggiunta di un altro agente ossidante come l’acetilfenilidrazina. La diagnosi di anemia emolitica secondaria a Hb instabile può essere fatta con il riscontro dei corpi di Heinz e con alcuni test specifici (che possono essere reperiti sui testi specialistici). L’elettroforesi della Hb è indicativa solo nella metà dei casi, dal momento che l’anomalia strutturale implica una modificazione di carica della molecola non sempre evidenziabile con una “normale elettroforesi”.
dei Caraibi ha un trait falcemico, lo 0,16% ha anemia drepanocitica e lo 0,18% una doppia eterozigosi (HbSC 0,06%; HbS -talassemia 0,12%). Fra le popolazioni di origine mediterranea, la HbS/-talassemia è la più comune forma di malattia drepanocitica. In Italia le regioni più interessate sono la Calabria e la Sicilia. 1. Eziopatogenesi. L’HbS differisce dalla HbA soltanto per la sostituzione dell’acido glutamico in posizione 6 della catena con la valina. Esiste dunque una catena alterata codificata da un gene anomalo. Questo gene può essere allo stato omozigote per l’HbS e dare anemia a cellule falciformi, eterozigote per l’HbS (trait falciforme), di doppia eterozigosi HbS e HbC o HbD ovvero HbS/-talassemia (microdrepanocitosi). Si osserva il fenomeno della falcizzazione ogni qualvolta la pressione parziale di O2 scende sotto i 50-60 mmHg. La desossi-emoglobina S, infatti, è meno solubile della desossi-emoglobina A e tende a polimerizzare perdendo la propria disposizione secondo una geometria casuale e formando, all’interno dell’eritrocita, fasci di fibre tubulari a decorso parallelo dette “tattoidi” (Fig. 44.13). Ciascuna fibra è a sua volta composta da 6-8 filamenti disposti a spirale lungo un asse centrale. Ogni filamento è costituito da numerosi tetrameri di HbS polimerizzati a formare una struttura rigida e ordinata, longitudinale, di molecole impilate. Questi fasci deformano la membrana del GR, che assume l’aspetto a falce. Questo fenomeno è osservabile direttamente con la microscopia elettronica e indirettamente misurando le alterazioni di viscosità e filtrabilità. L’equilibrio del-
Emoglobinopatie da HbS, C, D, E A. Emoglobinopatia da HbS. È una malattia ereditaria dovuta alla presenza nei GR della HbS, che polimerizza in particolari condizioni di ipossigenazione e deforma i GR impartendo loro una conformazione falciforme. In inglese si chiama Sickling Cell Disease e da sickle (falce) viene la lettera S con cui è indicata la emoglobinopatia. L’HbS è presente con un polimorfismo bilanciato (4) e una frequenza del 10-40% in alcune popolazioni esposte alla malaria endemica, particolarmente tra i neri dell’Africa centrale e occidentale, tra i loro discendenti emigrati e in alcune popolazioni caucasiche del Mediterraneo del Nord, Medio Oriente e India. Attualmente l’8% dei neri nordamericani, latinoamericani e
(4) Questo significa che gli eterozigoti hanno un vantaggio sugli omozigoti sia per il gene normale che per quello patologico. Nel caso della HbS il vantaggio potrebbe essere derivato da una maggiore resistenza delle loro emazie al parassita malarico.
Figura 44.13 - Formazione dei tattoidi in coincidenza di una riduzione della pressione parziale di O2.
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la HbS fra la sua fase amorfa (liquida, irregolare, casuale) e quella solida (cristallina, regolare) è condizionato, come si diceva, dalla diminuita pressione parziale di O2. Ma intervengono anche altri fattori: • la disidratazione o l’aumento dell’osmolarità plasmatica, che favoriscono la fuoriuscita di H2O dalle emazie e l’aumento della concentrazione di HbS nelle cellule; • le alte temperature, che aumentano la velocità di polimerizzazione della HbS; dal momento, però, che i valori cui bisogna arrivare sono al di fuori di quelli fisiologici, si tratta di un dato ad esclusivo uso “di laboratorio”; • la concentrazione di HbS (se è inferiore al 50% non c’è falcizzazione) e il tipo di Hb che è associata all’HbS nel GR; se l’HbS si trova associata alla HbF il tasso di falcizzazione è notevolmente ridotto perché in questa mescolanza viene inibita la polimerizzazione. Con l’HbA (l’eterozigosi più comune a trovarsi) la situazione si discosta di poco dalla norma. Viceversa, il quadro si presenta molto grave con grado di falcizzazione estremamente elevato nei soggetti portatori di HbS/C; situazione, questa, non rara dal momento che entrambe le Hb sono diffuse nelle medesime zone geografiche. In caso di doppia eterozigosi HbS/-talassemia si registra un aggravamento della sintomatologia anemica, più di quanto non lo sarebbero i soggetti portatori di talassemia minor. 2. Fisiopatologia. I globuli rossi rigidi e deformati dopo che ha avuto luogo il processo di falcizzazione sono intrappolati nel microcircolo, soprattutto nella milza, dove la filtrazione si verifica in condizioni di ipossia, acidosi e lento flusso ematico. La trasformazione a falce dei GR provoca un incremento della viscosità del sangue, ne ostacola il flusso nei piccoli vasi, aggrava l’anossia locale, favorisce un’ulteriore falcizzazione e innesca in tal modo un circolo vizioso. Il fenomeno della falcizzazione è inizialmente reversibile e in presenza di una normale pressione di ossigeno l’HbS si depolimerizza e le cellule riassumono una forma normale. Ciascun ciclo di falcizzazione provoca però una perdita, da parte del globulo rosso, di acqua, potassio e calcio, per cui esso alla fine non sarà più in grado di riprendere la sua forma regolare biconcava. Infatti, negli individui con anemia falciforme (omozigosi per il gene HbS) è sempre presente una quota di cellule (dal 4 al 44%) che non riacquista la forma normale allorché il sangue viene riossigenato, una quota di globuli rossi cioè che rimangono irreversibilmente falciformi. In inglese si chiamano ISC (Irreversibly Sickled Cell) e sono quelle cellule che si vedono negli strisci di sangue periferico allestiti senza particolari accorgimenti (si veda Esami di laboratorio). Le emazie così alterate hanno una sopravvivenza nettamente accorciata e, per questa ragione, nei soggetti nei quali si ripetono nel tempo varie crisi di falcizzazione, interviene anche un’anemia emolitica.
Inoltre la presenza nell’emazia di HbS non solo provoca le profonde alterazioni di forma del globulo rosso in condizioni di ipossigenazione, ma è anche causa di effetti secondari che ne modificano le proprietà della membrana a livello dei fosfolipidi e delle proteine. Si è osservato che l’emazia a falce ha una netta tendenza ad aderire in modo abnorme alle cellule endoteliali, ai monociti e ai macrofagi; l’abnorme adesività è stata attribuita alle modificazioni di membrana che, accanto all’aumento di viscosità e alla presenza di emazie deformate e rigide, è responsabile dei fenomeni di occlusione vascolare tipici della malattia. • HbS/S (omozigosi) a) Clinica. La malattia esordisce solitamente nel corso del 1° anno di vita. Quando il bambino nasce presenta all’incirca il 50% di HbF e il 50% di HbS; col passare dei mesi la quota di HbF, protettiva ai fini delle crisi di polimerizzazione dell’emoglobina S, diminuisce, aumenta invece quella di HbS e i primi segni della anemia emolitica cronica cominciano a manifestarsi. Due aspetti sono particolarmente interessanti: • l’aumentata suscettibilità a contrarre infezioni; • le crisi dolorose. Per quanto riguarda il primo punto, principale responsabile di un’elevata mortalità infantile (10% dei casi nel 1° anno di vita), si riconoscono numerose cause tra le quali viene soprattutto attribuita importanza a un danneggiamento della microcircolazione splenica dove le cellule falcizzate ristagnano. Col passare del tempo questo organo, sottoposto ad una serie di numerosissimi infarti, diviene fibroso e si atrofizza. La milza, cioè, non è più in grado, fin dai primi anni di vita, di assolvere alle sue consuete funzioni di filtro dei microrganismi, anticorpopoiesi, emocateresi, ecc.: si verifica sostanzialmente una condizione di asplenismo. Le crisi dolorose sono invece dovute a fenomeni di occlusione vascolare acuta a opera delle ISC e delle cellule falciformi reversibili che più a lungo si trattengono nel microcircolo. Non è viceversa dimostrato che la trombosi in quanto tale svolga un ruolo primario nella produzione di infarti tissutali, anche se l’aumentata distruzione di emazie rilascia in circolo materiali ad attività tromboplastinica (si veda Emoglobina parossistica notturna). Le crisi dolorose possono essere avvertite in varie sedi: torace, addome, più spesso agli arti, alle dita delle mani soprattutto nei bambini, o dei piedi. La frequenza delle crisi è variabile: da giorni ad anni; pure variabile la durata, ore o giorni. Sono scatenate da fattori occasionali: ipossia, stress emotivi, malattie respiratorie, episodi infettivi acuti, abbassamento della temperatura corporea o disidratazione. I ricorrenti episodi ischemici provocano, con l’andar del tempo, danni irreversibili agli organi e apparati interessati. Cuore: nella circolazione coronarica vi è sempre una considerevole estrazione di ossigeno dai GR, perciò facilmente si avrà comparsa di falcizzazione, ingorgo dei vasi e arresto del flusso ematico. Nell’80% dei casi, dopo i 5 anni di età, si osserva cardiomegalia; dopo i 40
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anni scompenso cardiaco congestizio; raramente infarto. I reperti auscultatori mimano quelli dell’insufficienza mitralica. Polmone: è l’organo più frequentemente colpito. Anche in pazienti asintomatici, con le prove di funzionalità respiratoria si dimostrano alterazioni di perfusione e di diffusione dovute verosimilmente al danno endoteliale esercitato cronicamente sulle pareti vascolari da parte dei globuli rossi rigidi e deformati. La malattia polmonare cronica, che spesso provoca cuore polmonare cronico, è la più frequente causa di morte negli adulti. Rene: la midollare del rene, a causa dell’iperosmolarità, è particolarmente suscettibile all’infarto da falcizzazione. Frequente la comparsa di ematuria spontanea non dolorosa. Il difetto principale consiste in una ridotta capacità di concentrare le urine; nella maggioranza dei pazienti vi è così isostenuria. Ossa: possono verificarsi infarti ossei, soprattutto alle ossa lunghe in vicinanza delle articolazioni e ai corpi vertebrali. Una complicanza tutt’altro che rara è la osteomielite. Gli agenti patogeni più frequentemente responsabili sono le salmonelle e lo stafilococco. Possono verificarsi anche fratture patologiche e schiacciamenti. Probabilmente la deformità più invalidante è la coxopatia cronica secondaria a necrosi asettica del femore (fabbisogno di O2 aumentato in relazione all’accrescimento da un lato, insufficiente vascolarizzazione dall’altro). Meno frequente è la necrosi asettica dell’omero. Entrambe le lesioni sono generalmente bilaterali. Una complicanza possibile durante l’infanzia è la cosiddetta sindrome mano-piede dovuta a microinfarti della midollare del carpo e del tarso. Le lesioni scompaiono senza terapia, ma lasciano residui radiologici simili all’osteomielite. Occhi: vi sono aree di degenerazione retinica con infarti, emorragie del vitreo, distacco di retina e retinite proliferativa. Nel 90% dei casi si riscontrano microaneurismi nei vasi superficiali della congiuntiva bulbare. Cute: ulcere atrofiche degli arti inferiori, soprattutto alla superficie mediale della tibia e della caviglia.
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anemizzazione con reticolociti diminuiti e ipoplasia midollare. L’aplasia può durare dai 7 ai 10 giorni; al termine, la ripresa dell’emopoiesi è segnalata da una crisi reticolocitaria e dalla comparsa di eritroblasti in circolo. Talvolta si instaura carenza di acido folico con megaloblastosi midollare ed eritropoiesi inefficace. Il quadro è attenuato dall’elevata percentuale di HbF che non solo inibisce la polimerizzazione della HbS, ma possiede anche un’elevata affinità per l’O2. b) Esami di laboratorio. Si tratta di un’anemia emolitica normocitica normocromica, con Hb fra i 6-9 g/dl, salvo riduzioni ulteriori in occasione di crisi emolitiche o di aplasia. A partire dal 6° anno di vita, quando iniziano la fibrosi splenica e l’autosplenectomia, si osservano percentuali variabili di cellule falciformi irreversibili (ISC). La loro sopravvivenza in circolo è breve, hanno basso MCV e alta MCHC. I reticolociti sono aumentati (10-20%), talvolta ci sono eritroblasti. Le piastrine sono normali, discretamente aumentati invece i granulociti neutrofili. A dispetto dell’anemia, la VES è normale per le anomalie morfologiche degli eritrociti. c) Diagnosi. Il classico test di falcizzazione su vetrino consiste nell’incubare del sangue con una sostanza riducente (metabisolfito di sodio) al di sotto di un coprioggetto, sigillato per favorire lo stato di ipossia dei GR. Un altro test indicativo, ma non sicuramente specifico, è quello della precipitazione della Hb (rilevabile attraverso un intorbidamento della soluzione) quando un emolizzato che contiene questa emoglobina viene diluito con una soluzione contenente un’alta concentrazione di fosfati. D’altra parte, l’elettroforesi dell’emoglobina in condizioni standard non consente, in quanto tale, la diagnosi di anemia drepanocitica, dal momento che sono più di 50 le varianti emoglobiniche che presentano la medesima migrazione elettroforetica della HbS. La diagnosi è tuttavia possibile con tecniche particolari (per le quali si rinvia ai testi specialistici).
Fegato e vie biliari: un terzo dei pazienti sviluppa colelitiasi a metà adolescenza, solo il 10% di essi presenta ostruzione biliare. Descritti anche necrosi e infarti splenici. L’epatomegalia è costante.
d) Decorso e prognosi. Con una buona nutrizione e con il rapido controllo dei processi infettivi la lenta crescita prepubere dei soggetti affetti da anemia falciforme è compensata da una pubertà ritardata, per cui lo sviluppo alla fine è normale. Nei pazienti che superano il primo decennio di vita la prognosi è migliore e la mortalità inferiore al 5%. Raramente il paziente sopravvive fino a 50-60 anni. La gravità del quadro clinico è variabile e la malattia decorre con peggioramenti improvvisi o crisi, intervallati da periodi di relativo benessere. Le infezioni e gli infarti tissutali rappresentano spesso un problema clinico di notevole entità, molto più dell’anemia in quanto tale.
L’anemia ha un andamento cronico, esacerbato da crisi emolitiche e di aplasia. Le crisi aplastiche frequentemente dovute al parvovirus provocano una franca
e) Cenni di terapia. Non esiste terapia specifica in grado di migliorare le manifestazioni cliniche della malattia. Infatti l’impiego di sostanze che inibiscono la ge-
Di non raro riscontro è il priapismo. Sistema nervoso: circa il 25% dei pazienti affetti da anemia falciforme presenta lesioni neurologiche. Esse comprendono emiplegia, amaurosi, paralisi dei nervi cranici. Di solito queste manifestazioni si verificano prima dei 15 anni. Più raramente il quadro si complica fino alla comparsa di episodi convulsivi, stato soporoso, coma.
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lificazione dell’HbS e bloccano la falcizzazione si è rivelato finora inefficace, se non addirittura tossico. Le crisi dolorose devono essere trattate tempestivamente somministrando sufficienti quantità di liquidi, ossigeno in modo intermittente e analgesici. Benché non ci siano studi controllati, una exsanguinotrasfusione parziale (ogni 3-6 settimane), con globuli rossi HbA/A concentrati riduce i globuli rossi HbS/S al di sotto del 50%, fa cessare la crisi o previene ulteriori infarti. Si dovrebbe limitare comunque questo tipo di trattamento a situazioni di crisi dolorose gravi, persistenti e refrattarie, e alle donne in stato di gravidanza. • Eterozigosi per HbS (trait falcemico) Il trait falcemico consiste in una condizione solitamente asintomatica, senza emolisi o alterazioni clinicamente significative. Si è già detto in precedenza della distribuzione geografica, tuttavia è utile ricordare come l’elevata presenza del gene S sia dovuta ad un vantaggio selettivo dello stato eterozigote (AS) rispetto agli stati omozigoti (AA e SS), cioè ad un polimorfismo bilanciato. Il vantaggio è probabilmente legato ad una protezione contro la malaria. Infatti il plasmodio sopravvive meno all’interno degli eritrociti HbS. La sopravvivenza eritrocitaria è normale perché la percentuale di HbS contenuta nelle emazie non è sufficiente a innescare la falcizzazione. In condizioni normali gli unici effetti notati sono lesioni alla midollare del rene (ematuria e ipostenuria per danno tubulare), oltre a saltuari infarti splenici. Questo può verificarsi nel corso di esercizi fisici intensi, voli ad alta quota in aerei non pressurizzati, immersioni marine, anestesia, ecc. La durata della vita media dei pazienti portatori di trait non è significativamente diminuita. L’Hb nel trait è costituita dal 25-45% di HbS, dal 55-75% di HbA, da quantità normali di HbF e HbA2. Il test di falcizzazione e quello di solubilità della Hb sono positivi. • HbS/-talassemia Se il gene della -talassemia è un 0 o un + che comporta un’alterazione grave dell’eritropoiesi, il quadro clinico può essere indistinguibile da quello della forma omozigote HbS/S. Se invece il gene della -talassemia è un + che comporta una forma lieve, il quadro clinico che ne risulta è una forma lieve di anemia a cellule falciformi. • HbS/C Il gene C prevale nelle popolazioni dell’Africa occidentale. Il quadro è simile a quello dell’omozigosi HbS/S, anche se di entità più lieve. Le complicanze sono dovute principalmente all’alta viscosità ematica e consistono in crisi dolorose, lesioni retiniche, necrosi asettiche della testa del femore, ematuria e priapismo. Il grado di anemia è modesto, frequente la splenomegalia, rare nello striscio le ISC. L’emoglobina è costituita dal 50% di HbS, 50% di HbC; A2 e F normali.
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• HbS/D L’emoglobina D (Punjab) deriva dal nord dell’India. L’anemia è assai modesta, poco frequenti le complicanze infettive e le crisi dolorose. Al tracciato elettroforetico di routine su acetato di cellulosa non può venir distinta dalla HbS/S. B. Emoglobinopatie da HbC. L’HbC è dovuta alla sostituzione dell’acido glutamico con la lisina nella posizione 6 della catena dell’emoglobina. È frequente soprattutto fra le popolazioni nere dell’Africa occidentale (40% nel nord del Ghana). Nei neri americani l’incidenza del trait si aggira attorno al 2%. 1. Clinica dello stato omozigote (HbC/C). La malattia da omozigosi causa di solito un’anemia emolitica cronica di lieve entità; il più delle volte è asintomatica. La splenomegalia è costante. Vi può essere ittero, frequente nell’adulto la colelitiasi. La fragilità osmotica dei GR è diminuita. Lo striscio di sangue contiene numerose (50-90%) cellule a bersaglio ben emoglobinizzate. Per la diagnosi definitiva occorre identificare la presenza di HbC (la quasi totalità) e l’assenza della HbA o di altre emoglobine anomale all’elettroforesi. La C migra lentamente insieme con la A2. Non comporta una mortalità più elevata della norma. 2. Clinica dello stato eterozigote. I pazienti sono asintomatici e non presentano anemia. Vi sono molte cellule a bersaglio (20-50%) nel periferico e la fragilità osmotica appare diminuita. L’HbC raggiunge il 30-40% del totale. C. Emoglobinopatie da HbD. La variante più comune, D Punjab, è dovuta alla sostituzione dell’acido glutamico con la glutammina nella posizione 121 della catena . La frequenza di questo gene in India è del 3%; vi sono solo rarissime segnalazioni di omozigosi per il gene D. In questo caso si osserva solo lieve anisocitosi, ma non anemia, ittero o splenomegalia. L’eterozigosi per l’emoglobina D è asintomatica. La fragilità osmotica è ridotta, mentre è aumentata l’affinità per l’O2 se confrontata con quella della HbA. Da segnalare infine che la solubilità della HbD è simile (allo stato deossigenato) a quella della HbA, perciò i test di falcizzazione e di solubilità della Hb sono negativi. Quando è ereditata insieme con la HbS, attenua in modo significativo le manifestazioni cliniche di quest’ultima. D. Emoglobinopatia da HbE. È dovuta alla sostituzione dell’acido glutamico con la lisina nella posizione 26 della catena . Si trova soprattutto nel Sud-est asiatico (in Thailandia raggiunge il 30%) e viene ereditata come trait autosomico dominante. L’elevata frequenza, poi, nelle stesse regioni della - o -talassemia comporta alte probabilità di associazione tra i due disordini. Lo stato omozigote può avere lieve anemia con microcitosi ed emazie a bersaglio. L’emoglobina E è instabile e può quindi andare incontro ad emolisi accelerata se esposta ad agenti ossidanti. Lo stato eterozigote è asintomatico.
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Nel caso di un doppio eterozigote tra HbE e -talassemia, condizione diffusa tanto da essere considerata la più comune seria emoglobinopatia in tutto il mondo, si possono avere quadri clinici molto variabili, che vanno da una condizione non distinguibile dalla talassemia maior a forme molto più lievi che non necessitano di trasfusioni.
EMOGLOBINURIA PAROSSISTICA NOTTURNA (*) L’emoglobinuria parossistica notturna (EPN), o sindrome di Marchiafava-Micheli, è un’anemia emolitica causata da un difetto acquisito della membrana eritrocitaria che rende una popolazione di globuli rossi notevolmente sensibile all’azione litica del complemento, comunque esso venga attivato. Clinicamente è caratterizzata, nella forma classica, da attacchi di emolisi intravascolare ed emoglobinuria, talora notturni. Nella gran parte dei pazienti, tuttavia, si osservano anemia emolitica cronica senza una precisa correlazione con la notte, pancitopenia, sideropenia e ricorrenti episodi trombotici. La EPN colpisce indifferentemente individui di ambo i sessi, per lo più tra i 20 e 40 anni; raramente la si incontra nell’infanzia e tra gli anziani. Non vi è familiarità né predisposizione razziale.
Eziopatogenesi La EPN è caratterizzata da una anomala sensibilità di globuli rossi, piastrine e granulociti alla azione litica del complemento. Questo è facilmente dimostrabile, in vitro, con l’impiego di un antisiero contenente anticorpi antieritrociti fissanti il complemento. I globuli rossi EPN fissano più C1 per unità di anticorpo presente alla loro superficie di quanto non facciano le cellule normali. A sua volta, il C1 promuove una maggior fissazione del C3 (per molecola di C1) (per l’attivazione della cascata del complemento, si veda il Cap. 68). Tuttavia la presenza dell’anticorpo non è necessaria per la lisi dei GR di pazienti con EPN, infatti il C3 si fissa di preferenza attraverso la via alternativa (properdinica). Non tutte le emazie in corso di EPN sembrano risentire della lisi complemento-mediata. Dopo attente ricerche si sono potute identificare tre sottopopolazioni: EPN I normale, EPN II sensibile 6-7 volte più del normale al complemento e infine EPN III 20-25 volte più sensibile. Le tre popolazioni possono coesistere nel sangue dei pazienti in tutte le combinazioni possibili, dando così vita a differenti quadri clinici, riferibili, comunque, soprattutto alla percentuale di EPN III presente. Tuttavia, in una buona parte di pazienti affetti da EPN viene riscontrata nel sangue una semplice miscela (*) G. Gromo, M. Storti.
di cellule EPN I e EPN II. L’aumentata sensibilità delle cellule EPN II e EPN III al complemento non ha però ancora trovato una spiegazione davvero soddisfacente. Le ricerche intraprese al fine di accertare eventuali alterazioni a livello di membrana non hanno fornito ancora dati certi, ad eccezione di una ridotta o assente attività acetilcolinesterasica di membrana nelle popolazioni EPN II e III. Studi più recenti sembrano aver identificato come base patogenetica il deficit alla superficie delle emazie di due proteine importanti per tenere a freno l’attivazione del complemento: una indicata con la sigla MIRL (Membrane Inhibitor of Reactive Lysis), o CD59; una seconda contrassegnata con la sigla DAF (Decay Accelerating Factor), o CD55. In realtà è sufficiente la carenza della prima proteina, che antagonizza le tappe avanzate della cascata del complemento, per rendere le emazie suscettibili alla lisi. Queste due proteine, ed altre, sono vincolate alla superficie cellulare in una maniera particolare. Infatti, non attraversano la membrana cellulare a tutto spessore grazie ad un segmento idrofobico della loro catena peptidica, ma sono tenute ancorate grazie al legame con un oligosaccaride contenente glicosil-fosfatidil-inositolo (GPI) e perciò detto GPI-àncora. Questa molecola è immersa nello strato esterno del doppio foglietto lipidico e la sua assenza fa sì che tutte le molecole proteiche che le sono ordinariamente collegate non siano più trattenute alla superficie cellulare. Perciò, nella EPN il difetto fondamentale riguarda la sintesi della GPI-àncora, che avviene in maniera difettosa in conseguenza di mutazioni somatiche. Sono stati individuati vari geni importanti per la sintesi della GPI-àncora. Il più importante è chiamato PIG-A, è situato sul cromosoma X ed è necessario per il primo passo della sintesi della GPI-àncora, ossia l’aggiunta di N-acetil glucosamina a fosfatidil inositolo. La EPN può essere assimilata al gruppo di forme morbose classificate come “sindromi mielodisplastiche”. Si tratta di malattie che presentano alterazioni in tutte e tre le linee staminali, ma – a differenza delle forme mieloproliferative – sono caratterizzate da una situazione “ipoproliferativa” (Cap. 47). Interconversioni tra le diverse patologie sopra elencate non sono rare, e il rapporto EPN/anemia aplastica ne è un esempio. Tutte queste forme, a loro volta, possono poi esitare in leucemia mieloide acuta (Cap. 47).
Fisiopatologia L’alterazione più caratteristica della EPN è l’insorgenza di crisi notturne intravascolari con emoglobinuria. La frequenza di queste crisi è variabile e in larga misura dipende dalla percentuale di GR EPN III patologicamente sensibili al C. Se sono inferiori al 20%, l’emolisi, seppure rilevabile, sarà di modestissima entità; tra il 20-50% si presenta emoglobinuria saltuaria, che diventa costante quando superano il 50%. In pazienti con
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eritrociti appartenenti alla popolazione EPN II, raramente si ha emoglobinuria. Tali crisi sembrano essere legate più propriamente al sonno. Infatti avvengono di giorno in quei soggetti che presentano un ritmo sonno/veglia invertito, dal momento che svolgono la loro attività nel corso della notte. Anni fa si ipotizzava che la ridotta attività dei centri respiratori durante il sonno, con relativo aumento della pressione parziale di CO2 ematica e lieve riduzione del pH, favorisse l’attivazione della via alternativa del C e l’emolisi delle popolazioni EPN II e III. Oggi questa ipotesi sembra raccogliere però meno consensi. Analoghe spiegazioni sono state prese in considerazione in relazione al ritmo circadiano di secrezione del cortisolo. Anche lo sforzo fisico continuato e l’acidosi che ne deriva potrebbero scatenare la crisi di EPN. Un’altra caratteristica dei pazienti con EPN è un’aumentata propensione alle trombosi venose. Anche per questa alterazione è stato supposto un ruolo della carenza di una proteina, questa volta alla superficie dei leucociti e delle piastrine. Si tratterebbe del recettore per l’attivatore del plasminogeno ad opera dell’urochinasi (uPAR: urokinase Plasminogen Activator Receptor), che è importante per la generazione di plasmina e perciò per la fibrinolisi. Un punto importante è la riconosciuta associazione della EPN con l’anemia aplastica. A questo proposito si è supposto che in questa condizione, immunologicamente mediata, le cellule staminali emopoietiche, alterate per la mutazione somatica che conduce alla EPN, godrebbero di un vantaggio selettivo, in quanto più resistenti ai meccanismi di distribuzione immunologica e, in modo particolare, all’azione delle cellule “natural killer” (NK). Infine, i pazienti con EPN hanno una notevole propensione alle infezioni batteriche, attribuibile in parte alla leucopenia (per la frequente associazione con anemia aplastica) e in parte a menomazione delle funzioni dei granulociti, probabilmente in conseguenza del fatto che, per la maggior parte, sono derivati da un clone abnorme di cellule ematopoietiche (lo stesso che dà origine agli eritrociti particolarmente suscettibili all’azione del complemento).
Clinica L’emoglobinuria è presente all’esordio solo in un quarto dei casi, ma nel decorso della malattia compare quasi in tutti i pazienti, talora con esacerbazioni emolitiche notturne. In questi pazienti, oltre alla ritmicità del sonno-veglia degli episodi emolitici, si registrano crisi di emolisi acuta di varia durata (pochi giorni/qualche settimana) con anemizzazione intensa. Solitamente la causa di queste crisi rimane sconosciuta, anche se talvolta esse si accompagnano a infezioni virali, trasfusioni, mestruazioni, interventi chirurgici, vaccinazioni o assunzione di sali di ferro. L’emoglobinuria non è mai correlata alla esposizione al freddo. I sintomi di tali crisi sono dolori retrosternali, lombari (forse dovuti all’iperat-
tività delle cellule dei tubuli prossimali nel riassorbire l’Hb, con iperemia renale), addominali (a tipo colica, della durata di 1 o 2 giorni). Compaiono inoltre astenia, pallore, febbre, cefalea e subittero. Talvolta nausea e vomito (per via riflessa, dopo distensione della capsula renale?). Il quadro clinico delle crisi è in parte sovrapponibile a quello di una reazione da incompatibilità trasfusionale. Le complicanze più frequenti sono aplasia midollare, trombosi venose e infezioni. Quanto all’anemia aplastica, la sua associazione con la EPN è stata documentata almeno in tre circostanze: nel caso di anemia di Fanconi, di anemia aplastica farmacoindotta, di anemia aplastica idiopatica. Più spesso la diagnosi di EPN segue quella di pancitopenia, più raramente si verifica l’opposto. Le trombosi venose rappresentano la principale causa di morte dei pazienti con EPN (50%). Vengono interessati i distretti degli arti inferiori, il sistema portale, il circolo cerebrale e quello mesenterico. Importante, dunque, porre la massima attenzione ai dolori addominali talvolta segnalati dal paziente; dolori che, in assenza di emolisi acuta, trovano una possibile eziologia nella trombosi. In particolare va presa in considerazione l’ipotesi di una trombosi delle vene epatiche (nausea, coliche addominali, epatomegalia improvvisa, ascite), un fatto questo che, destinato ad essere rapidamente fatale, si verifica in circa il 30% dei pazienti con EPN. Anche la cefalea potrebbe essere dovuta a piccole trombosi o rappresentare il segno premonitore di una complicanza cerebrovascolare. Da segnalare, inoltre, la presenza di gravi disfagie e odinofagie in correlazione con le crisi emolitiche. Studi sulla peristalsi hanno infatti evidenziato contrazioni esofagee 10 volte superiori a quelle normali. La patogenesi di questo fenomeno è sconosciuta. Le infezioni sono assai frequenti. Il 10% dei decessi può essere ascritto alle infezioni, perché, anche se di scarsa entità, favoriscono comunque l’insorgenza di un processo emolitico ovvero di una crisi di aplasia midollare.
Esami di laboratorio Il quadro ematologico è spesso grave con Hb inferiore ai 6 g/dl. I GR solitamente sono macrocitici, ma l’anemia può anche essere normocitica o microcitica per le notevoli quantità di ferro perse nel corso delle crisi di emoglobinuria. I reticolociti sono percentualmente aumentati, anche se in valore assoluto si mantengono su valori bassi a causa della gravità dell’anemia, e per il sovrapporsi di un’anemia aplastica. Nel 50% dei casi si ha leucopenia con possibile neutropenia e relativa linfocitosi. La vita media dei GR è ridotta, normale invece quella dei neutrofili, con riduzione della fosfatasi alcalina leucocitaria, chemiotassi, fagocitosi e attività acetilcolinesterasica. Anche la trombocitopenia è assai frequente, ma vita media e funzioni piastriniche appaiono del tutto normali, il che sembra in contraddizione con le segnalazioni di alterazioni di membrana che ne modificherebbero la
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sensibilità al C. Sembra dunque esserci, per quanto riguarda piastrine e leucociti, un problema di produzione ridotta piuttosto che di aumentata distruzione. Durante la crisi il plasma si presenta color bruno-oro e riflette la presenza di elevati livelli di bilirubina non coniugata, emoglobina e metemalbumina. La sideremia è bassa, il test di Coombs negativo, le LDH molto elevate. Nelle urine l’urobilinogeno aumenta e talvolta c’è emoglobinuria; le cellule dei tubuli prossimali metabolizzano l’Hb dopo averla riassorbita ed eliminano il ferro sotto forma di emosiderina. Questo spiega perché l’emoglobinuria non sia un segno sempre costante al pari della emosiderinuria. Utile si rivela strisciare su di un vetrino parte del sedimento urinario, colorarlo con il blu di Prussia e confermare così la presenza o meno di granuli di emosiderina. Alta, infine, l’incidenza di alterazioni renali, sia funzionali che anatomiche (ematuria, ipostenuria, alterazioni tubulari, ridotta clearance della creatinina). Il midollo osseo mostra ampia variabilità di reperti, dall’iperplasia normoblastica con lieve riduzione dei megacariociti all’aplasia parziale o totale. Studi citogenetici non hanno evidenziato alcuna alterazione cromosomica diagnostica di EPN, anche se le segnalazioni sono numerosissime (delezione della Y, trisomia 9, ecc.). Test diagnostici. La diagnosi di EPN si fonda sulla possibilità di stabilire la presenza di “emazie troppo sensibili al C”. Il classico test in vitro per la diagnosi di EPN consiste nell’incubare i globuli rossi del paziente in presenza di siero umano acidificato (test di Ham). In ambiente acido, infatti, il C viene attivato per la via secondaria e provoca emolisi. È importante risospendere le emazie nel siero di un altro soggetto compatibile perché quello del paziente può avere i fattori del C consumati, data la ripetuta attivazione sui GR sensibili. Tra gli altri test in vitro che permettono di svelare la malattia, il più comunemente usato è la lisi al saccarosio. Quando il siero e i GR sono incubati in una soluzione di carboidrati a debole forza ionica (per es., il saccarosio) si attiva il C sia per la via classica che per quella alternativa. Dal momento che l’attivazione è pur sempre di modesta entità, soltanto le emazie EPN subiranno una certa emolisi, non quelle normali. C’è poi il test della trombina o test di Crosby. Una sospensione acidificata di emazie viene messa a contatto con trombina bovina. L’emolisi che si verifica è attribuibile alla presenza di anticorpi emolitici eterofili contaminanti la preparazione di trombina bovina. Il test è di più facile realizzazione dei precedenti, ma meno specifico. Da ultimo, il test al calore: se il sangue di un paziente affetto da EPN è lasciato a 37 °C per 1-3 ore si verifica emolisi. Si tratta di una prova aspecifica, dal momento che risulta positiva anche con gli sferociti e con le emazie di pazienti affetti da alcuni tipi di anemie emolitiche autoimmuni. D’altra parte, la sua negatività costituisce una prova a sfavore della diagnosi di EPN.
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Diagnosi La diagnosi di EPN deve essere considerata in ogni paziente che presenti i segni di emolisi intravascolare, in presenza di: emoglobinuria ed emosiderinuria; pancitopenia in associazione con emolisi, sia con midollo ipo che normocellulare; persistente e grave iposideremia soprattutto se in concomitanza di crisi emolitiche; ricorrenti trombosi venose, specialmente addominali; inspiegabili ma ricorrenti coliche addominali; cefalee accompagnate da un quadro di emolisi cronica. Deve comunque essere differenziata dalle anemie emolitiche immuni e dall’emoglobinuria parossistica a frigore.
Decorso e prognosi Si tratta di una malattia cronica con sopravvivenza mediana intorno ai 10 anni. La gravità del quadro e la prognosi dipendono soprattutto da tre fattori: • ampiezza della popolazione patologica (EPN II/III); • grado di ipoplasia midollare; • frequenza delle complicanze trombotiche ed infettive. In una piccolissima percentuale di pazienti la malattia regredisce completamente, in un 50% si registra un discreto miglioramento della popolazione complemento-sensibile anche se persiste la positività ai test sierologici specifici. Nella maggioranza dei casi, però, l’evento terminale è un’aplasia midollare globale; occasionalmente la EPN esita in leucemia mieloide acuta o in mielofibrosi.
Cenni di terapia Ad eccezione del trapianto di midollo osseo, non vi è terapia specifica, ma solo sostitutiva, dell’anemia. Sono stati tentati, fino ad oggi, pochi trapianti. In caso di attecchimento, comunque, scompaiono i cloni sensibili all’azione del complemento. Gli androgeni si sono rivelati solo saltuariamente utili (si veda Anemia aplastica), i corticosteroidi a dosi elevate possono arrestare una crisi emoglobinurica. Le trasfusioni di globuli rossi lavati in soluzione fisiologica correggono momentaneamente l’anemia perché le emazie trasfuse vivono regolarmente nel paziente ed inoltre sopprimono transitoriamente la produzione di cloni EPN II/III.
ANEMIE IMMUNOEMOLITICHE (*) Con il termine immunoemolisi si indica un processo per il quale le emazie sono prematuramente distrutte a causa dell’interazione con anticorpi diretti contro antigeni propri della loro membrana o contro antigeni estranei all’organismo (farmaci), in grado di stabilire con la membrana eritrocitaria vari tipi di associazione. (*) G. Gromo.
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La produzione degli anticorpi responsabili dell’immunoemolisi può far parte della normale risposta immunitaria verso gli antigeni riconosciuti come non facenti parte del se stesso. Dato che molti antigeni sulla membrana delle emazie presentano un polimorfismo (ossia sono, per condizionamento genetico, diversamente ripartiti tra gli individui), è possibile che questo avvenga quando le emazie veicolanti un particolare antigene vengono a contatto con il sistema immunitario di un soggetto che è sprovvisto di quell’antigene e che perciò lo riconosce come estraneo a se stesso. Le reazioni immunoemolitiche di questo tipo vengono dette da alloimmunizzazione o, più comunemente, da isoimmunizzazione e sono provocate da trasfusione di sangue incompatibile o da incompatibilità materno-fetale. Un processo immunoemolitico può anche essere provocato da anticorpi prodotti dallo stesso soggetto cui appartengono le emazie, per un errore del sistema immunitario nella discriminazione tra se stesso e non se stesso. Le reazioni di questo tipo vengono dette da autoimmunizzazione. I farmaci possono indurre reazioni emolitiche principalmente in quanto riconosciuti come sostanze estranee all’organismo. Si vedrà, tuttavia, che non è impossibile che provochino genuine reazioni autoimmunitarie verso costituenti della membrana eritrocitaria. Tenendo conto di tutto questo, le anemie immunoemolitiche sono perciò distinte in (Tab. 44.13): • anemie emolitiche da isoimmunizzazione; • anemie emolitiche autoimmuni (tra le quali possono essere incluse anemie immunoemolitiche indotte da farmaci). Le anemie immunoemolitiche sono normocitiche normocromiche, presentano aumento del numero dei reticolociti, sferocitosi, iperbilirubinemia indiretta, iperplasia eritroide del midollo osseo e splenomegalia. La sopravvivenza eritrocitaria è diminuita sia con emazie autologhe sia di donatore compatibile. È invece normale quando gli eritrociti di un paziente affetto da aneTabella 44.13 - Classificazione delle anemie immunoemolitiche. Anemie immunoemolitiche da isoanticorpi – Reazioni emolitiche post-trasfusionali – Malattia emolitica del neonato da isoimmunizzazione materno-fetale Anemie immunoemolitiche da autoanticorpi • Anemie da anticorpi incompleti caldi – Idiopatiche – Sintomatiche di malattie linfoproliferative, di malattie autoimmuni e di processi infettivi – Secondarie all’assunzione di farmaci • Anemie da anticorpi completi freddi – Idiopatiche – Sintomatiche di malattie linfoproliferative e di processi infettivi • Anemie da emolisine bifasiche
mia emolitica autoimmune vengono trasfusi in un soggetto sano. Si tratta di malattie che nella forma pura (non coesistendo altre forme morbose) sono piuttosto rare. Più frequenti, viceversa, le forme associate ad altre malattie.
Generalità Le variabili importanti per la comprensione delle caratteristiche peculiari delle anemie immunoemolitiche sono: • la natura degli antigeni implicati; • le proprietà degli anticorpi; • il meccanismo dell’emolisi. A. Antigeni. Come si è detto, gli antigeni che sono bersaglio delle reazioni immunoemolitiche possono essere costituenti propri della membrana eritrocitaria o sostanze estranee all’organismo. La natura chimica degli antigeni propri della membrana eritrocitaria è nota molto imperfettamente. Una distinzione utile è però tra antigeni polisaccaridici e antigeni proteici. Gli antigeni polisaccaridici sono più resistenti ai processi di estrazione e purificazione e possono essere meglio caratterizzati chimicamente. In realtà si tratta di sostanze largamente diffuse in natura e presenti anche in strutture come la parete cellulare dei batteri, le cellule vegetali, ecc. Dato che questi antigeni sono resistenti ai processi di digestione, essi, quando sono liberati da microrganismi intestinali o sono ingeriti con alimenti vegetali, possono essere assorbiti come tali nell’intestino e stimolare il sistema immunitario. Questo processo avviene naturalmente in maniera diversa da un individuo all’altro, nel senso che ciascun individuo reagisce solo agli antigeni che non possiede alla superficie delle proprie cellule. A causa della larga distribuzione in natura di queste sostanze e del loro polimorfismo, sono moltissimi coloro che posseggono nel sangue anticorpi di questo tipo che, non essendo derivati da un’immunizzazione manifesta con cellule incompatibili, sono chiamati anticorpi naturali. Sono antigeni polisaccaridici quelli del sistema ABH-Lewis e del gruppo P (glicolipidi), e quelli indicati come I e i (glicoproteine). Gli antigeni proteici sono sostanze chimicamente molto meno note a causa della facilità con la quale vengono alterate nel processo di purificazione. Non esistono anticorpi naturali contro questi antigeni: d’altro canto, anche se fossero largamente diffusi in natura, questi antigeni non potrebbero indurne la formazione perché sono degradati dai processi digestivi. Sono antigeni proteici quelli dei sistemi Rh, Kell e Duffy. B. Anticorpi. Gli anticorpi implicati nelle reazioni immunoemolitiche possono essere distinti in isoanticorpi se reagiscono con antigeni eritrocitari propri della specie, ma assenti nell’individuo che li ha prodotti, e autoanticorpi se reagiscono con antigeni eritrocitari
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posseduti dall’individuo che li ha prodotti. Alcune caratteristiche di questi anticorpi meritano di essere considerate. 1. Classe immunoglobulinica. Molto spesso una risposta anticorpale è inizialmente e transitoriamente con anticorpi della classe IgM, e successivamente e persistentemente con anticorpi della classe IgG (o IgA). Il passaggio dall’una all’altra classe immunoglobulinica, ferma restando la specificità anticorpale, viene indicato con il termine inglese “switch”. Nel caso degli anticorpi impegnati nelle reazioni immunoemolitiche lo switch avviene limitatamente quando sono diretti contro gli antigeni polisaccaridici. Perciò gli anticorpi di questo tipo, siano essi naturali o immuni, sono generalmente, ma non esclusivamente, della classe IgM. Dato che gli anticorpi della classe IgM sono incapaci di attraversare la placenta, ne consegue che le incompatibilità materno-fetali per antigeni polisaccaridici provocano raramente anemia emolitica del neonato. Lo switch avviene regolarmente quando gli anticorpi sono diretti contro antigeni proteici della membrana eritrocitaria e contro farmaci con essa associati. Gli anticorpi di questo tipo (che, come si è visto, sono sempre immuni) sono perciò in larga parte della classe immunoglobulinica IgG e sono capaci di attraversare la placenta e di provocare anemia emolitica del neonato nel caso di incompatibilità materno-fetale. 2. Termicità. Una caratteristica importante degli anticorpi impegnati nelle reazioni immunoemolitiche è la temperatura ottimale alla quale essi più facilmente reagiscono. Gli anticorpi diretti contro gli antigeni polisaccaridici (che, come si è visto, sono più spesso della classe IgM) reagiscono in genere meglio a temperature più basse di 37 °C, e sono detti anticorpi freddi. Si pensa che questo fatto sia dipendente da alterazioni di conformazione, o degli antigeni o dei siti ricognitivi anticorpali, indotte dalla bassa temperatura. L’ambito di termicità è molto variabile da un anticorpo all’altro. Gli anticorpi diretti contro gli antigeni del sistema ABH, pur reagendo meglio a temperature più basse, lo fanno comunque in maniera sufficiente anche a 37 °C. Gli altri anticorpi di questo tipo, tuttavia, reagiscono significativamente solo al di sotto di 32 °C e questo limite viene assunto per definire “freddo” un anticorpo. Gli anticorpi diretti contro gli antigeni proteici e contro i farmaci reagiscono meglio a 37 °C e sono perciò detti anticorpi caldi. 3. Capacità di agglutinare le emazie. Fisiologicamente gli eritrociti sono in sospensione nel plasma e non agglutinano fino a che non subentra “qualcosa” a far da ponte tra l’uno e l’altro. Gli anticorpi sono detti completi o incompleti a seconda che siano o non capaci di agglutinare direttamente le emazie. La maggior parte dei globuli rossi, infatti, è dotata alla superficie di carica elettrica negativa, presenta cioè un potenziale detto z di circa 15 mV che determina un reciproco allontanamento.
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Le IgM, che sono pentameri, riescono a superare la repulsione tra globuli rossi e a provocare agglutinazione: sono perciò dette anticorpi completi. Le IgG, invece, pur essendo bivalenti, non riescono a vincere il potenziale z e ad avvicinare due globuli rossi: sono perciò dette anticorpi incompleti (Fig. 44.14). Tuttavia si è potuto ugualmente dimostrare la presenza di anticorpi incompleti tipo IgG alla superficie dei globuli rossi o nel siero nonostante non siano in grado di agglutinare spontaneamente. E questo grazie ad un test di emoagglutinazione in vitro chiamato test di Coombs. Con il test di Coombs diretto si rileva la presenza di anticorpi (o di frazioni del complemento) adesi alle emazie; con il test di Coombs indiretto, la presenza di anticorpi liberi nel siero (Fig. 44.15). Nel test di Coombs diretto i globuli rossi del paziente, dopo essere stati opportunamente lavati, sono incubati con siero di coniglio antimmunoglobuline umane (siero di Coombs) o con sieri specifici anti-IgG, anti-IgA, anti-IgM, anti-C3 o anti-C4. Se sulle membrane dei globuli rossi sono adesi gli anticorpi o le frazioni complementari corrispondenti si avrà reazione con gli anticorpi presenti nel siero di Coombs, e questi ultimi riusciranno a formare ponti tra le singole cellule e a indurre agglutinazione. Nel test di Coombs indiretto il siero in esame viene incubato con emazie di altro soggetto dotate dell’antigene nei riguardi del quale sono diretti gli anticorpi di cui si va alla ricerca. Se gli anticorpi sono presenti nel siero in esame, essi si legheranno alla superficie delle emazie, per cui la successiva aggiunta del siero di Coombs provocherà agglutinazione con lo stesso meccanismo con cui questo avviene nel test diretto.
15 mV
A.
B.
Figura 44.14 - Rappresentazione schematica di anticorpi incompleti IgG (A) che non riescono a vincere la repulsione delle cariche elettriche negative sulle emazie. La repulsione può essere invece vinta dagli anticorpi IgM (B) che perciò sono detti completi.
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➀
➀
➁
➁
➂ ➂
A.
B.
Figura 44.15 - A. Test di Coombs diretto. ➀ I GR del paziente sono già ricoperti di anticorpi incompleti caldi (IgG antieritrociti); ➁ si aggiunge un siero di coniglio antimmunoglobuline umane; ➂ gli anticorpi aggiunti riconoscono le IgG adese e formano dei ponti tra queste ultime che si trovano sui GR e ne provocano l’agglutinazione. B. Test di Coombs indiretto. ➀ Gli anticorpi sono liberi nel siero del paziente; ➁ si aggiunge questo siero a GR aventi Ag che si credono corrispondenti a tali anticorpi; ➂ gli anticorpi si fissano ai GR se ne riconoscono i siti antigenici. Si procede poi come per eseguire un test di Coombs diretto.
4. Capacità di fissare il complemento. La reazione tra antigeni ed anticorpi attiva la sequenza del complemento per la via classica, cioè a partire dai componenti della frazione C1. Perché la fissazione del complemento possa avvenire occorre che due unità anticorpali giustapposte reagiscano con l’antigene. Per gli anticorpi della classe IgG, che sono monomeri, questo ha poca probabilità di accadere se la concentrazione anticorpale nel siero non è molto elevata. Infatti, gli anticorpi si distribuiscono casualmente alla superficie delle emazie e la probabilità che ve ne sia un numero significativo di così strettamente adiacenti da realizzare la giustapposizione necessaria dipende dalla loro distanza media. La probabilità che questo accada è, ovviamente, molto più elevata se la concentrazione di anticorpi nel siero è alta (Fig. 44.16). Diverso è il caso degli anticorpi della classe IgM, che sono dei pentameri e perciò possono facilmente fissare il complemento grazie alla reazione con l’antigene di due subunità della loro molecola. Tuttavia, la termicità degli anticorpi ha molta importanza ai fini dello sviluppo della cascata del complemento, una volta che si sono realizzate le condizioni per il suo inizio. Infatti, l’attivazione del complemento procede bene a temperature intorno ai 37 °C e si verifi-
A.
B.
C
Figura 44.16 - Capacità di anticorpi IgG di fissare il complemento sulle emazie. La probabilità che questo avvenga è bassa se il titolo anticorpale è modesto (A), mentre con titolo più elevato (B) è più probabile che due molecole anticorpali siano giustapposte e venga attivata la sequenza complementare (C).
ca in misura molto minore a temperature inferiori. Ne consegue che gli anticorpi della classe IgG, che sono caldi e quindi dotati della termicità adatta per l’attivazione del complemento, possono fissare il complemen-
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to raramente, e cioè solo quando sono molto concentrati nel siero. Al contrario, gli anticorpi della classe IgM, che facilmente fissano il complemento, sono di regola freddi e perciò agiscono a temperature poco adatte per l’attivazione complementare. C. Meccanismo dell’emolisi. L’immunoemolisi può verificarsi tanto con un meccanismo intravascolare, quanto con un meccanismo extravascolare. L’emolisi intravascolare è possibile solo quando la sequenza complementare alla superficie delle emazie si svolge fino all’attivazione delle frazioni C8 e C9. Come si è visto, questo può avvenire solo se la fissazione del complemento è adeguata e se il processo della sua attivazione avviene a 37 °C. In pratica questi due requisiti, per le ragioni precedentemente esposte, sono soddisfatti solo per gli anticorpi della classe IgG a concentrazione molto elevata nel plasma e per gli anticorpi della classe IgM diretti contro gli antigeni del sistema ABH, che, pur essendo definibili in senso lato anticorpi freddi, si legano significativamente alle emazie anche a 37 °C. Nella maggior parte dei casi si verifica perciò una emolisi extravascolare. Questa dipende da un’accelerata distruzione negli organi emocateretici delle emazie ricoperte di immunoglobuline e/o frazioni del complemento (Fig. 44.16). Si è visto che gli anticorpi della classe IgG sono incompleti, ossia incapaci di agglutinare le emazie. Essi possono tuttavia essere adesi con i loro siti leganti l’antigene alle emazie normalmente circolanti, esponendo perciò alla superficie di queste cellule quella regione della loro molecola che corrisponde al frammento Fc. Quando le emazie così ricoperte attraversano gli organi emocateretici tendono ad essere trattenute e distrutte dai macrofagi, che sono dotati di una struttura di superficie complementare alla regione Fc delle IgG (cosiddetto recettore per Fc). Questo processo avviene prevalentemente nella milza, dove i globuli rossi sono normalmente concentrati e, se ricoperti con IgG, beneficiano meno dell’azione competitiva che le IgG circolanti nel plasma possono esercitare per il recettore per il Fc dei macrofagi (azione che interferisce con l’emolisi e risulta protettiva). L’attività distruttiva dei macrofagi, o eritrofagocitosi, può essere completa o solo parziale; in questo caso viene rimossa una porzione più o meno estesa della membrana delle emazie e ne risultano cellule frammentate, sferociti, poichilociti che vengono sequestrati quando passano attraverso la milza o il fegato. Può anche capitare che i globuli rossi circolanti siano ricoperti da frazioni complementari. Questo può dipendere dall’effetto di anticorpi della classe IgG sufficientemente concentrati da iniziare la fissazione del complemento, ma non tanto da provocare l’emolisi intravascolare (e in questo caso le emazie saranno ricoperte tanto da IgG che da frazioni complementari). Può dipendere anche dall’azione di anticorpi freddi della classe IgM, che fissano il complemento nel microcircolo periferico di quelle regioni corporee (viso, mani) dove, per esposizioni ambientali, può essere raggiunta la temperatura adatta per la loro azione. In questo caso, mobilizzandosi verso la circolazione generale e riportandosi a 37 °C, le emazie si liberano
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dal legame con questi anticorpi, ma rimangono ricoperte di frazioni del complemento che era stato fissato, ma non sufficientemente attivato (e in questo caso le emazie saranno ricoperte solo da frazioni complementari, e non da anticorpi). La frazione complementare importante a questo riguardo è il C3b (il C3 attivato si scinde in C3b che resta attaccato alle emazie, e C3a, che passa in soluzione). I macrofagi posseggono, infatti, un recettore per il C3b e le emazie ricoperte da questa frazione complementare sono preferenzialmente trattenute e distrutte negli organi emocateretici. Questo processo si differenzia da quello analogo che ha luogo per le emazie ricoperte da IgG per due caratteristiche. In primo luogo, non esistendo C3b circolante nel plasma, manca l’azione competitiva per il recettore dei macrofagi e la distruzione delle emazie ha luogo anche al di fuori della milza e, in realtà, avviene largamente nel fegato ad opera delle cellule di Kupffer. In secondo luogo, quando le cellule sono ricoperte solo da C3b, l’emolisi è molto meno efficiente che quando sono ricoperte da IgG. Questo dipende anche dal fatto che, nella gran parte dei casi, prima che l’emazia venga fagocitata, il C3b si scinde in C3c e C3d grazie ad un enzima fisiologicamente presente nel plasma (C3b inattivatore). La frazione C3c rimane adesa al macrofago, quella C3d (riconosciuta dal siero anti-C3 nel test di Coombs diretto) al globulo rosso. Perciò l’emolisi dipende sia dal numero di frazioni C3b adese, sia dal grado di efficacia del C3b inattivatore. Per un’emolisi massiva la fissazione del C deve essere rapida e “superare la protezione” dell’inattivatore. Quando i globuli rossi sono ricoperti tanto da IgG che da C3b l’emolisi è invece di intensità maggiore rispetto a quando sono ricoperti solo da IgG, dato che si addizionano i due meccanismi che i macrofagi mettono in opera per trattenerli e distruggerli negli organi emocateretici.
Anemie immunoemolitiche da isoanticorpi Generalità sui gruppi sanguigni I gruppi sanguigni sono caratterizzati da antigeni presenti alla superficie dei globuli rossi (GR). Ne esistono più di 300, raggruppati in sistemi, e vengono trasmessi come caratteri autosomici codominanti. Il solo che presenta una trasmissione legata al sesso (cromosoma X) è quello denominato Xga. È possibile suddividere i principali sistemi antigenici (Tab. 44.14) in relazione alla loro associazione con isoanticorpi immuni o naturali. Gli isoanticorpi naturali sono immunoglobuline la cui origine è ancora oggetto di discussione, ma che compaiono al di fuori di ogni stimolo antigenico dimostrabile. Alcuni anticorpi (Ab) sono presenti sistematicamente nel plasma di individui le cui emazie sono portatrici di determinati antigeni. È questo il caso degli anti-A, anti-B, e anti-AB sempre dimostrati negli individui di gruppo B, A, 0: sono detti Ab naturali regolari. Anche se generalmente appartengono alla classe IgM, possono essere anche IgG o IgA. In genere i sog-
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44 - ANEMIE
Tabella 44.14 - Principali sistemi di gruppi sanguigni. GRUPPI
ANTIGENI PRINCIPALI
• Caratterizzati da anticorpi naturali – AB0 – Lewis – P1 – Ii – MNSs • Caratterizzati da anticorpi immuni – Rh – Kell – Kidd – Duffy – Lutheran – MNSs
A1A2BH LeaLe P1Pk Ii MNSs CDEec KkJsa JkaJkb FyaFyb LuaLub MNSs
getti di gruppo A e di gruppo B posseggono pressoché esclusivamente Ab naturali della classe IgM, mentre quelli di gruppo 0 hanno anche una significativa quantità di Ab naturali della classe IgG. Altri Ab sono più rari, come gli anti-P, riscontrati nei soggetti P1 anti-Lea,b,x nei soggetti Le, ecc., e sono definiti Ab naturali irregolari. Gli isoanticorpi immuni compaiono in risposta a stimoli antigenici noti. Moltissimi Ab di gruppi sanguigni sono di questo tipo. Gravidanze e trasfusioni sono responsabili dell’isoimmunizzazione anti-Rh, Kell, Duffy, Kidd. Gli Ab formati in questo modo risultano di regola prevalentemente della classe IgG. Una prima immunizzazione induce la produzione transitoria di IgM, mentre il persistere del medesimo stimolo antigenico o più stimolazioni ripetute determinano la sintesi di IgG. Nel discorso che segue parleremo esclusivamente dei sistemi AB0 e Rhesus. A. Sistema AB0. L’espressione fenotipica degli antigeni (Ag) A e B è sotto la dipendenza di due geni interdipendenti: il gene H e il gene A o B. Il gene H (il cui allele inattivo è il gene h), presente nella gran parte della popolazione umana, produce un enzima che permette, grazie alla fissazione di un L-fucoso su di un mucopolisaccaride “di base”, la formazione dell’Ag o sostanza H. I soggetti che hanno sul secondo gene l’allele A producono a loro volta un enzima capace di fissare la N-acetilgalattosamina al complesso polisaccaride-L-fucoso (o sostanza H) originando la sostanza A. Tutti i soggetti di gruppo A hanno in comune una stessa sostanza di gruppo A, ma l’80% di essi ha inoltre una sostanza supplementare A1. Costoro vengono chiamati di gruppo A1 mentre il restante 20% che possiede A ma non A1, viene chiamato A2. I soggetti A2 o A2B presentano in circolo un Ab naturale anti-A1. I soggetti che hanno sul secondo gene l’allele B presentano una galattosio-transferasi in grado di annettere al complesso polisaccaride-L-fucoso il galattosio, originando così la sostanza B. Coloro che non hanno né l’allele A né l’allele B sono incapaci di modificare la sostanza H e sono perciò di gruppo 0.
Ci sono poi alcuni soggetti che non possiedono il gene H (sono cioè omozigoti per h). Costoro, anche se ereditano il gene A o B, non posseggono sui loro GR gli antigeni (Ag) A o B corrispondenti, poiché sono privi del precursore H. Peraltro, possono trasmettere l’antigenicità A o B alla prole, nel caso che questa acquisisca la capacità di produrre la sostanza H dall’altro genitore. Sono detti di fenotipo “Bombay” e presentano nel siero Ab anti-A, anti-A1, anti-B e anti-H. Per quanto riguarda gli anticorpi, gli anti-A e anti-B sono anche detti “agglutinine” rispettivamente e ; il titolo anticorpale può variare, per l’anti-A tra 1:64 e 1:512, per l’anti-B tra 1:16 e 1:64. Nei soggetti di gruppo 0, oltre agli Ab antiA e anti-B, esistono anticorpi la cui molecola è in grado di reagire sia con l’antigene A che con quello B (attività cross-reattiva anti-AB), Ab anti-A, A1, B e H. B. Sistema Rhesus. Il sistema Rhesus (d’ora in poi Rh) riveste un’importanza capitale in biologia umana e comprende determinanti antigenici principali CDE-ce. Un sistema genetico complesso controlla la presenza di tali sostanze sui GR. I geni DCE sembrano essere situati in tale ordine sul medesimo cromosoma C, c (come pure E, e), sono alleli e si esprimono separatamente, cioè il soggetto eterozigote C/c avrà le due sostanze sui GR, mentre gli omozigoti ne avranno una sola. Quanto a d, invece, designa semplicemente l’assenza di D. Non esistono quindi Ab anti-d. D è l’antigene più immunogeno di questo sistema e di tutti i sistemi di gruppi caratterizzati dalla produzione di anticorpi immaturi (Tab. 44.14). L’85% dei soggetti di razza bianca è Rh-positivo, cioè è omozigote o eterozigote per l’AgD, mentre il 15% è Rh-negativo, cioè non presenta l’antigene D. L’immunogenicità dell’antigene D è molto importante, perché dopo una sola trasfusione di globuli rossi Rhpositivi (o D+) AB0 compatibile il 30-50% dei riceventi Rh-negativi (o D–) sviluppa un anti-D nei 6 mesi successivi. Questa frequenza dipende dalla quantità di emazie trasfuse. Il rischio è minore per gli antigeni c, E (1,5%) e minimo per C, e (inferiore allo 0,05%). Le tecniche di ricerca degli anticorpi del sistema Rh devono tener conto della classe di questi anticorpi: IgM, dopo la prima stimolazione ma più spesso IgG e solo eccezionalmente IgA. C. Altri sistemi di gruppi sanguigni. Oltre al sistema AB0 e al sistema Rhesus, esistono numerosi altri sistemi di gruppi sanguigni che costituiscono allotipi o marcatori genetici, vale a dire Ag di cui nella specie umana esistono molte varianti: è questo un esempio di polimorfismo genetico (Tab. 44.14). Alcuni di questi sistemi come Kell, Duffy, Kidd assumono una grande importanza nella pratica trasfusionale: per esempio, il rischio di immunizzazione è particolarmente elevato per gli antigeni del sistema Kell (5%). Altri sistemi, come il Lutheran, rappresentano eccellenti marcatori genetici negli studi familiari e delle popolazioni. Infine, come già detto, il sistema Xg, è, fino ad oggi, l’unico tra i sistemi di gruppi sanguigni conosciuti che sia controllato dal cromosoma sessuale X.
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Reazioni trasfusionali Nonostante i suoi benefici, la trasfusione di emocomponenti può dare luogo a complicanze importanti. Queste possono essere suddivise in due gruppi principali: • reazioni di tipo non-immune; • reazioni di tipo immune. A. Le reazioni di tipo non-immune, che esulano dalla trattazione di questo capitolo, si possono manifestare durante la terapia infusionale come shock settico da contaminazione batterica massiva del sangue trasfuso (evenienza questa divenuta rara da quando si impiegano materiali di plastica monouso), scompenso cardiaco congestizio, oppure a distanza come infezioni batteriche o virali (per es., epatite virale, AIDS, sifilide, malaria, toxoplasmosi, brucellosi, infezioni da cytomegalovirus), danni da sovraccarico di ferro (emosiderosi) o di citrato (ipocalcemia) quando vengono infuse grandi quantità di sangue. B. Le reazioni di tipo immune comprendono invece la sindrome brivido-ipertermia (secondaria alla presenza di leucoagglutinine acquisite per immunizzazione precedente del paziente; analoga situazione si ha nel caso di isoimmunizzazione antipiastrine), la porpora trombocitopenica post-trasfusionale, le reazioni allergiche (orticaria, prurito, edema di Quincke, crisi d’asma), ma soprattutto le reazioni emolitiche trasfusionali. Le reazioni emolitiche trasfusionali, benché serie e spesso fatali, sono oggi abbastanza rare. Sono provocate dalla distruzione delle emazie del donatore o del ricevente in seguito all’infusione di sangue immunologicamente incompatibile. 1. Distruzione dei globuli rossi del donatore. Nella maggior parte dei casi è provocata da isoanticorpi immuni e si verifica soprattutto in pazienti precedentemente immunizzati (politrasfusi, pluripare). Va sottolineata, a questo proposito, l’importanza degli Ab anti-Rh, Kell, Duffy e Kidd. Trattandosi di IgG e data la dispersione degli Ag Rh sulla membrana eritrocitaria, l’emolisi è extravascolare. La gravità della reazione dipende dalla quantità di emazie trasfuse, come pure dal titolo anticorpale (in questo caso Ab immuni). Un principio, questo, che è valido per ogni tipo di reazione trasfusionale emolitica. La sintomatologia è caratterizzata da nausea, brivido e febbre. Shock e insufficienza renale sono assai rari. Talvolta l’emolisi può essere provocata da isoanticorpi naturali (errore di tipizzazione del gruppo, scambio delle sacche di sangue) nell’ambito del sistema AB0. Trattandosi di IgM, sono capaci di fissare il C e provocare quindi emolisi intravascolare. Immediatamente dopo l’inizio della trasfusione il malato riferisce cefalea, dolori lombari, brividi, palpitazioni, tachipnea, nausea e vomito. L’ipotensione è la regola, il rialzo termico invece è lievemente ritardato. Talvolta compare il quadro della coagulazione intravasale disseminata (CID o DIC).
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Sono presenti tutti i segni di emolisi intravascolare: emoglobinemia elevata, emoglobinuria senza ematuria, metalbuminemia, diminuzione del tasso di aptoglobina. In un secondo tempo, entro 12 ore, compare ittero franco. Quando l’emolisi è massiva, il rischio più grave è quello di shock irreversibile con insufficienza renale acuta da necrosi tubulare. 2. Distruzione dei globuli rossi del ricevente. Si tratta di un’evenienza molto più rara della precedente, che tuttavia può avere conseguenze assai gravi quando, per errore, in caso di estrema necessità, sangue di gruppo 0 contenente Ab immuni anti-A o anti-B ad alto titolo (superiore a 1:200/300) viene trasfuso ad un paziente di gruppo A o B. Quando, invece, gli anticorpi anti-A e anti-B sono presenti a basso titolo nel sangue trasfuso, essi possono venire assorbiti dalle sostanze A e B solubili eventualmente presenti in circolo nel ricevente. È importante ricordare, infine, come talora la reazione emolitica sia ritardata (da 3 a 15 giorni dopo la trasfusione) e si manifesti con riduzione dell’emoglobina e ittero. Si verifica in persone già immunizzate (gravidanze, trasfusioni) con isoanticorpi a titolo molto basso non accertabili con le comuni tecniche di gruppaggio. C. Terapia. Il sospetto di incidente trasfusionale impone la sospensione immediata della trasfusione di sangue. Le reazioni allergiche in genere regrediscono dopo antistaminici e antipiretici, talvolta è necessario ricorrere all’uso di corticosteroidi. Per i provvedimenti da adottare in caso di shock e insufficienza renale acuta si vedano i capitoli 2, 35. L’emorragia secondaria a DIC può essere controllata con eparina e infusione di fattori plasmatici della coagulazione oltre che con antitrombina III, piastrine e fibrinogeno. Isoimmunizzazione materno-fetale Si definisce isoimmunizzazione materno-fetale l’insieme delle manifestazioni patologiche che hanno come causa l‘immunizzazione della madre determinata da un alloantigene cellulare presente nel feto, e come conseguenza, la malattia più o meno grave di quest’ultimo. È la causa più frequente di ittero neonatale non fisiologico. Il passaggio attraverso la placenta di immunoglobuline (classe IgG) materne provoca nel feto la distruzione delle sue emazie qualora presentino un antigene di gruppo ematico ereditato dal padre ed estraneo alla madre. La quasi totalità dei casi osservati riguarda incompatibilità nell’ambito dei sistemi Rhesus e AB0. Quest’ultimo tipo di isoimmunizzazione, due volte più frequente, presenta però un quadro clinico assai sfumato e non sempre rilevabile. A. Malattia emolitica del neonato (MEN) da incompatibilità Rh. 1. Eziologia e patogenesi. Si osserva MEN ogni qualvolta la madre è Rh-negativa e il feto Rh-positivo. Più spesso è interessato l’antigene D (90% dei casi), ma
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vengono segnalati casi di incompatibilità per gli antigeni c ed E. Questo soprattutto da quando viene eseguita di routine, al momento del parto, la profilassi materna con immunoglobuline anti-D. Non trattandosi di anticorpi naturali, la presenza di immunoglobuline anti-D (o Rh) nella madre è necessariamente secondaria a precedente immunizzazione. Il passaggio dei GR attraverso la placenta può verificarsi a partire dalla 5ª settimana di gravidanza, ma è soprattutto al momento del parto che queste “trasfusioni” sono di entità notevole. Sarebbero favorite da manovre ostetriche: versione esterna, prelievi di liquido amniotico, scollamento manuale della placenta. Oltre alla via placentare, il passaggio di emazie dal feto alla madre sarebbe possibile attraverso i capillari mesenterici e attraverso quelli delle tube del Falloppio (in caso di parto cesareo). Infine, in donne Rh-negative che sono state trasfuse inavvertitamente con sangue Rh-positivo. Il rischio di immunizzazione della madre è in funzione del numero dei GR che attraversano la barriera placentare. Il test di Kleihauer (eluizione dell’Hb adulta mediante acido citrico a pH 3,3) ha consentito di mettere in evidenza (in percentuale) la presenza di GR fetali sullo striscio di sangue materno. Un limite di questa prova è la presenza fisiologica di HbF (0,5-1,0%) nell’adulto. Approssimativamente 1 GR fetale per 100.000 GR materni corrisponde a 0,02 ml. Recenti studi eseguiti in donne primipare con figlio Rh-incompatibile segnalano alcuni dati:
di anticorpi, questa volta di tipo IgG (tutte le sottoclassi sono interessate). Le IgG anti-D materne si fissano alla superficie delle emazie fetali e ne facilitano la distruzione (per lo più extravascolare).
• passaggio non rilevabile di GR del feto: rischio di immunizzazione pari a 1,3%; • passaggio di circa 0,25 ml di GR del feto: rischio dell’8%; • passaggio di circa 0,25-3 ml di GR del feto: rischio del 20%; • passaggio superiore a 3 ml di GR nel feto: rischio del 50%.
3. Clinica ed esami di laboratorio. Le manifestazioni cliniche più importanti della MEN sono rappresentate da anemia, ittero, epatosplenomegalia e, nei pazienti non trattati, ittero nucleare (o kernittero). Le conseguenze della malattia vanno da un processo emolitico non sempre evidenziabile nonostante la positività per il test di Coombs (30-40% dei casi) a malattia emolitica grave più o meno tardiva (40-50%), a idrope fetale subito dopo il parto (5%), a morte intrauterina del feto tra la 25ª e la 35ª settimana (15%).
Vi è tuttavia molta variabilità, infatti circa il 25-30% delle donne Rh-negative, nonostante ripetute stimolazioni, non è in grado di sintetizzare anticorpi anti-Rh. L’incompatibilità AB0 possiede un certo effetto protettivo e previene l’isoimmunizzazione, se pur in modo non del tutto completo. Verosimilmente in questo caso le emazie fetali vengono rapidamente distrutte dagli “anticorpi naturali” della partoriente, prima che si possa sviluppare una risposta anticorpale per il sistema Rh: la protezione sembra più completa in presenza di anticorpi anti-A (90%) che non anti-B (55%). Il rischio di MEN nel corso della prima gravidanza è minimo, sia perché il passaggio dei GR del feto alla madre avviene prevalentemente al momento del parto sia perché la risposta immune primaria provoca la sintesi di IgM che non attraversano la placenta. In caso di una seconda gravidanza incompatibile, le prime emazie fetali che entrano nel circolo materno determinano una nuova stimolazione, provocando una rapida produzione
2. Fisiopatologia. L’anemia che consegue alla distruzione delle emazie fetali comporta iperplasia della serie eritroide midollare ed eritropoiesi extramidollare compensatoria. I reticolociti saranno aumentati di numero e si avrà presenza in circolo di eritroblasti. Qualora l’emolisi sia di entità tale da superare le capacità di compenso del feto compare marcata ipossia tissutale che si traduce in gravi lesioni epatiche, cardiache e turbe della funzione di scambio a livello placentare. L’ittero alla nascita generalmente è assente perché la bilirubina viene eliminata attraverso la placenta. Compare però nelle prime 24 ore di vita. La bilirubina indiretta aumenta poi rapidamente sia perché il processo emolitico continua sia perché l’attività della glucuroniltransferasi epatica nel neonato è molto bassa. Quando il pigmento biliare raggiunge valori superiori ai 20 mg/dl, soverchia la capacità legante dell’albumina e si deposita nei tessuti ricchi di lipidi (per es., nell’adipe sottocutaneo, nella corticale del surrene), ma soprattutto nei nuclei grigi centrali del cervello, in quanto la barriera ematoencefalica non è ancora capace di impedire il passaggio del pigmento. Questo porta a gravi complicazioni neurologiche di tipo extrapiramidale (ittero nucleare) capaci di determinare la morte del neonato oppure complicanze psicomotorie drammatiche ed irreversibili.
Idrope fetale. Qualora l’emolisi fetale sia estremamente grave, dapprima si registra un incremento compensatorio dell’eritropoiesi epatica, destinata a sovvertire, entro breve, la struttura parenchimale del fegato. Compaiono ipertensione della vena porta e di quella ombelicale, edema placentare, ipertrofia trofoblastica. Come risultato finale si avranno gravi turbe della circolazione feto-placentare con riduzione dell’apporto nutritivo al feto. Si registrano edemi generalizzati, versamenti ascitici, pleurici e pericardici con abnorme distensione dell’addome e del torace (anasarca). L’epatosplenomegalia è imponente. I piccoli pazienti presentano inoltre estese soffusioni emorragiche cutanee secondarie a deficit di sintesi dei fattori epatici della coagulazione. I feti, in genere, vengono partoriti prevalentemente al 7°-8° mese e le possibilità di sopravvivenza non superano il 10-20%.
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Anemia emolitica grave. Qualora non la si affronti tempestivamente, si tratta di una situazione spesso mortale. La maggior parte dei pazienti affetti da MEN alla nascita non presenta particolare pallore e la concentrazione emoglobinica nel cordone ombelicale spesso è solo ai limiti inferiori della norma. Tuttavia, entro le prime 24 ore di vita i valori scendono a livelli estremamente bassi. Compare ittero che raggiunge il massimo di intensità in 4ª giornata. La bilirubina supera i 20 mg/dl e, tra il 2° e il 5° giorno, possono comparire segni di ittero nucleare (ipotonia, modificazione della tonalità del pianto, sonnolenza, perdita del riflesso della suzione e della prensione, irregolarità nella respirazione). Subentrano poi, qualora la sintomatologia si aggravi, opistotono e contrazioni. Nella maggior parte dei casi, però, i neonati non muoiono ma sviluppano nel tempo paralisi cerebrale con disturbi motori, paresi con movimenti involontari distonici o atetosici, ipoacusia e disturbi dell’intelligenza. I parametri ematologici evidenziano la presenza di anemia, reticolocitosi marcata e GR nucleati in circolo. L’anemia è macrocitica con intensa poichilocitosi; assente la sferocitosi, caratteristica della MEN da incompatibilità AB0. I reticolociti possono raggiungere valori del 60%. Uno degli aspetti più caratteristici dei neonati affetti da MEN è però sicuramente il riscontro in circolo di precursori dei GR nucleati (eritroblastosi fetale). A fronte dei normali 0,2-2 × 109/l nei bambini nati a termine o prematuri, nei casi di MEN il numero degli elementi nucleati della serie rossa raggiunge i 10-100 × 109/l. Sono aumentati di volume ma non si tratta di megaloblasti, come in passato alcuni Autori hanno sostenuto. Compare anche leucocitosi (30 × 109/l) e bene si correla alla gravità dell’anemia. Si deve tuttavia ricordare che alla nascita i valori normali sono compresi tra 15 e 20 × 109/l. Aumentano soprattutto i granulociti neutrofili. Normale invece il numero delle piastrine. Occasionalmente il quadro di anemia emolitica compare dopo alcune settimane dal parto. Non è ancora del tutto chiarito il meccanismo patogenetico responsabile di questa anemia “tardiva” ma sembra dovuto alla persistenza in circolo di anticorpi anti-D o a momentaneo “esaurimento” midollare. Un’ipotesi, quest’ultima, in parte negata dalla reticolocitosi quasi sempre rilevabile. L’anemia è di grado modesto, l’ittero assente, come pure assenti sono gli eritroblasti in circolo. Il quadro solitamente è transitorio e regredisce spontaneamente in 8ª settimana. 4. Diagnosi perinatale e postnatale. La diagnosi in corso di gravidanza si basa: • sulla presenza di isoanticorpi anti-D nel siero della madre; • su esame del liquido amniotico. La sensibilizzazione materna e la MEN sono rare nel corso della prima gravidanza, salvo che la donna non
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sia stata immunizzata in precedenza con trasfusioni Rhpositive. Perciò solo 1,5-2% delle primipare presenta anticorpi anti-D al termine della gravidanza. L’immunizzazione avviene soprattutto al momento del parto e gli anticorpi IgM divengono titolabili solo circa dopo 8 settimane. La concentrazione anticorpale rimane comunque bassa fino alla seconda gravidanza, allorquando un nuovo passaggio di sangue fetale (di solito nel 2° trimestre) provoca l’aumento del titolo anticorpale. Questa volta gli anticorpi sono IgG. Si effettua una prima determinazione alla 16ª settimana e una seconda tra la 28ª e la 32ª. Qualora si registri un incremento di anticorpi anti-Rh si eseguono ulteriori controlli ogni una o due settimane. Nella gran parte dei casi l’entità è correlabile alla gravità della MEN. Ulteriori informazioni si possono ricavare tra la 28a e la 32a settimana eseguendo un prelievo di liquido amniotico e valutandone il contenuto di bilirubina e l’eventuale presenza di anticorpi anti-Rh. In genere lo studio spettrofotometrico del liquido amniotico permette di valutare con precisione la concentrazione di pigmento presente (in gran parte bilirubina) e quindi l’aumentata emolisi fetale. Dal che si deduce quale condotta adottare: astensione terapeutica, parto provocato, trasfusione intrauterina. La diagnosi alla nascita è soprattutto immunologica e si basa sull’incompatibilità materno-fetale (AB0, Rh) e sul test di Coombs diretto, la cui positività dimostra l’avvenuta sensibilizzazione delle emazie del neonato. Il test di Coombs va eseguito sul sangue del cordone ombelicale. Positivo, invece, il test di Coombs indiretto effettuato sul sangue materno. La diagnosi è anche biologica, dal momento che si fonda sull’anemia ingravescente, sul dosaggio della bilirubina indiretta e sulla comparsa di ittero. 5. Cenni di terapia. In corso di gravidanza, quando i dati di laboratorio indicano la presenza di una grave forma di MEN, è utile anticipare il travaglio anche alla 34a settimana. Qualora invece si manifesti rischio di morte intrauterina prima della 34a settimana si deve provvedere alla plasmaferesi del sangue materno (per eliminare gli anticorpi circolanti) e alla trasfusione intrauterina del feto. Così facendo si ottengono risultati soddisfacenti nel 60-70% dei casi. Alla nascita, in tutti quei casi che presentano Hb inferiore ai 12 g/dl e bilirubina maggiore di 5 mg/dl nel sangue del cordone ombelicale, si deve eseguire exsanguinotrasfusione. In questo modo si rimuovono dal circolo del neonato i GR ricoperti di anticorpi, si corregge l’anemia e si riduce l’iperbilirubinemia. La selezione del sangue da trasfondere ovviamente è in rapporto ai gruppi sanguigni della madre e del neonato. La somministrazione di albumina (capace di fissare una certa quantità di bilirubina) e la fototerapia (esposizione del bambino ai raggi ultravioletti) costituiscono importanti supporti alla terapia trasfusionale.
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6. Profilassi. La profilassi della MEN si realizza principalmente nel prevenire, al momento del parto, la immunizzazione della madre nei confronti degli Ag fetali del sistema RH. Si inoculano 300 di -globuline anti-D entro le prime 72 ore dal parto alle madri Rh negative, non immunizzate nei confronti dell’antigene D, con figlio Rh positivo (ivi compresi i figli con D debole). Si ritiene che le gammaglobuline anti-D rimuovano con rapidità i GR Rh positivi dal circolo materno ovvero blocchino direttamente i siti antigenici dei GR fetali. La prevenzione è oggi concepita come un fenomeno temporaneo e quindi va ripetuta ad ogni gravidanza incompatibile. La profilassi è indicata anche nei casi di aborto, di amniocentesi o quando sussista il fondato sospetto di una emorragia transplacentare. B. Malattia emolitica del neonato (MEN) da incompatibilità AB0. 1. Eziologia e patogenesi. Si tratta di un evento non eccezionale (2 volte più frequente della MEN da incompatibilità Rh) dovuto alla distruzione intravascolare delle emazie di un feto di gruppo per lo più A (talvolta B) figlio di madre di gruppo 0. Infatti solo le donne di gruppo 0 (curiosamente) possono sintetizzare anticorpi anti-A di tipo IgG che passano la placenta, entrano nel circolo fetale e lisano le emazie. Statisticamente circa il 20% di tutte le gravidanze presenta incompatibilità AB0 del tipo che potrebbe portare a MEN, ma l’incidenza di fatti emolitici significativi è di 1:150 nascite, e circa un bambino a rischio su cinque presenta ittero. 2. Clinica. L’ittero di media gravità compare entro il primo giorno di vita e non causa quasi mai sintomatologia neurologica tipo kernittero. Anche l’anemia è modesta. Di particolare interesse la sferocitosi assai spiccata. Compaiono inoltre iperplasia eritroide a livello midollare e reticolocitosi. Il test di Coombs diretto, espletato sul sangue ombelicale, spesso è negativo. Questo perché gli anticorpi, dato il loro esiguo numero, occupano siti distanti sulla membrana delle emazie. Nella gran parte dei casi il decorso è benigno e la prognosi favorevole. Si differenzia dalla MEN da incompatibilità Rh per i seguenti motivi: • pari frequenza di interessamento del primo nato e dei seguenti; • né il rischio né la gravità della malattia aumentano nelle maternità successive se il primogenito è affetto da MEN; • media gravità della sintomatologia clinica. 3. Principi di terapia. Raramente trova giustificazione l’exsanguinotrasfusione. Di solito è sufficiente la fototerapia.
Anemie emolitiche autoimmuni (o anemie immunoemolitiche da autoanticorpi) Sulla base delle caratteristiche chimico-fisiche degli autoanticorpi è possibile stabilire una classificazione delle anemie emolitiche autoimmuni (AEA): • AEA da anticorpi incompleti caldi; • AEA da anticorpi completi freddi; • AEA da emolisine bifasiche. A. AEA da anticorpi incompleti caldi. Sono anemie emolitiche caratterizzate da un’emolisi secondaria alla formazione di anticorpi diretti contro eritrociti normali (autoanticorpi antieritrociti). Gli anticorpi caldi appartengono solitamente alla classe di immunoglobuline IgG, più raramente a quella IgA. Di consueto sono diretti specificamente contro determinanti antigenici del sistema Rh (soprattutto il D). Generalmente si distinguono forme idiopatiche e secondarie. Queste ultime compaiono in associazione a malattie immunoproliferative, autoimmuni, infezioni batteriche, virali o vengono provocate da farmaci (Tab. 44.15). 1. Epidemiologia. Non sembra esserci una particolare predisposizione razziale, anche se la maggior parte degli studi riguarda la razza caucasica. L’incidenza annuale si aggira su 1 caso su 80.000. Vengono colpite tutte le età (picco di incidenza sotto i 40 anni) con una leggera prevalenza per il sesso femminile, soprattutto nelle forme cosiddette idiopatiche. Queste ultime costituiscono circa il 40% delle AEA anche se l’incidenza reale (dal 20 all’81%) risulta assai difficile a valutarsi con precisione a causa della diversa importanza attribuita a malattie concomitanti e soprattutto al periodo di osservazione. Le forme sintomatiche, che interessano di norma una popolazione di età superiore ai 45 anni, rappresentano circa il 60%, di cui un 20% è secondario all’assunzione di farmaci. Tabella 44.15 - Farmaci che provocano anemie immunoemolitiche. • Farmaci che agiscono provocando la formazione di autoanticorpi – -metildopa – Levodopa – Acido mefenamico • Farmaci che agiscono come apteni – Penicilline – Cefalosporine • Farmaci che agiscono mediante la formazione di immunocomplessi (tipo “astante innocente”) – Chinidina – Fenacetina – Acido para-aminosalicilico – Sulfonamidi – Isoniazide – Altri
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2. Patogenesi. Il meccanismo fondamentale consiste nell’autoimmunizzazione verso qualche antigene dei GR. In alcuni casi si tratta di autoantigeni, in altri di antigeni estranei che si trovano occasionalmente sui GR e che evocano una risposta anticorpale. Le emazie sono per lo più coperte solo da IgG e non c’è complemento perché la disposizione casuale degli anticorpi rende poco probabile che ve ne sia una significativa quantità di contigui l’uno all’altro (per attivare il complemento, infatti, sono necessari almeno due anticorpi, molto vicini tra loro, fissati al bersaglio). Viceversa, quando la concentrazione anticorpale è molto elevata si può fissare il complemento con le IgG. Le cause e i meccanismi che determinano la formazione di autoanticorpi antieritrocitari sono in gran parte sconosciuti, anche se numerose ipotesi sono state formulate a questo proposito (si veda Autoimmunità). Nelle anemie emolitiche da anticorpi caldi l’emolisi è intrasplenica, come è stato spiegato nella trattazione generale di questo argomento. Raramente l’emolisi può essere di tipo intravascolare. Questo si verifica in presenza di un titolo particolarmente alto di anticorpi quando è completata l’intera sequenza di attivazione del complemento. 3. Clinica ed esami di laboratorio. L’esordio e il decorso variano da caso a caso. Il quadro clinico non è particolare, ma richiama quello già descritto per altre anemie. Più spesso la malattia si sviluppa in modo insidioso con un’anemia emolitica di modesta gravità che si accompagna a subittero e lieve splenomegalia. Si tratta di un’anemia normocitica normocromica; la lieve macrocitosi saltuariamente presente è riferibile alla reticolocitosi (i reticolociti sono infatti del 10% più grandi delle normali emazie). Nei casi più gravi, ad esordio fulminante e spesso letale (emolisi improvvisa, febbre, quadro di shock), si possono trovare nel sangue periferico segni di un’intensa rigenerazione midollare dei GR quali, a carico delle emazie, la presenza di punteggiature basofile, una colorazione grigiastra anziché rosa (al May-Grünwald Giemsa). Inoltre, sullo striscio periferico ci sono numerosi sferociti. Infatti il GR con adese le IgG può non essere completamente distrutto dal macrofago, fagocitato in parte, alterato nella sua normale configurazione e tendere alla sferocitosi. La sopravvivenza eritrocitaria è sempre ridotta e le emazie da donatore sano hanno anch’esse emivita ridotta. Nella gran parte dei casi sono presenti iperbilirubinemia indiretta, elevata escrezione di bilinogeni urinari e fecali, e una diminuzione dell’aptoglobina sierica. La sideremia può essere elevata. Una volta accertata la presenza di un’anemia di tipo emolitico, se ne dimostra con maggior precisione la natura grazie al test di Coombs diretto, capace di rilevare la presenza o meno di anticorpi e/o di frazioni complementari sulle emazie del paziente in esame. Nei casi più lievi può anche mancare l’anemia e l’unico sintomo è la positività per il test di Coombs diretto per le IgG. Solitamente, invece, è presente anemia di media gravità con test di Coombs diretto positivo per le IgG e negativo per la frazione C3 del complemento. Il test di Coombs indiretto, invece, è per lo più negati-
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vo. Quando invece l’anemia è grave, il test di Coombs diretto è positivo sia per le IgG che per il C3: infatti il numero di immunoglobuline fissate al GR è alto e le IgG, occupando siti vicini, permettono la fissazione del C. In alcuni casi si può positivizzare anche il test di Coombs indiretto a testimonianza della presenza tanto di anticorpi adesi alle emazie, quanto di anticorpi circolanti. Da segnalare, infine, come un ristretto numero di pazienti affetti da AEA presenti test di Coombs diretto negativo. Ciò si verifica in circa il 3% dei casi e sembra dovuto al basso numero di anticorpi adesi all’eritrocita. Con gli antisieri in commercio, infatti, il test di Coombs risulta positivo quando il numero di anticorpi adesi a ciascuna emazia è compreso tra 500 e 100. I “casi negativi” ne presentano solitamente meno di 10. Il più delle volte, comunque, si usano sieri di Coombs diretti contro globuline umane totali, scarsamente sensibili, che reagendo sia con le frazioni complementari (soprattutto C3b) sia con le IgG non permettono di differenziare ciò che è fissato in realtà alle emazie. 4. Decorso e prognosi. L’andamento della malattia è cronico ed è contraddistinto da un alternarsi di remissioni e riacutizzazioni del processo emolitico. Nel 2030% dei casi l’evoluzione è fatale (emolisi particolarmente acuta, embolie polmonari, processi trombotici); la sopravvivenza a 5 anni è del 70% circa. Gli episodi infettivi riguardano in particolare i pazienti splenectomizzati o sottoposti a terapia con citostatici. 5. Cenni di terapia. I pazienti con test di Coombs positivo ma senza segni clinici di emolisi solitamente non richiedono alcuna terapia. Viceversa, nei casi caratterizzati da importante emolisi il trattamento di elezione è rappresentato dai corticosteroidi (5). Nel 70% (alcune statistiche parlano del 90%) dei casi il quadro ematologico migliora nettamente, con il 2030% di remissioni definitive. Il più delle volte, tuttavia, è necessario proseguire la terapia di mantenimento a dosi scalari per lunghi periodi (mesi o anni) perché un’eventuale sospensione è seguita immediatamente da ricadute. Nei pazienti che non hanno tratto alcun beneficio dalla terapia steroidea (20%) e in quelli che hanno bisogno di elevate terapie di mantenimento, si ricorre anche all’impiego di farmaci immunosoppressori. La splenectomia è destinata a migliorare l’emolisi nel 50% dei casi, percentuale che aumenta qualora la sede di distruzione dei GR sia prevalentemente splenica (e non epatica, per es.). Le trasfusioni devono essere praticate solo nei casi di estrema necessità e comunque presentano un’utilità limitata, dal momento che i GR trasfusi vengono agglutinati e lisati. Recentemente si è dimostrato che la somministrazione endovenosa di -globuline umane ad alte dosi può essere utile. (5) La AEA idiopatica trae beneficio dai corticosteroidi non tanto per la loro generica attività immunosoppressiva quanto perché interferiscono con le capacità fagocitarie dei macrofagi, riducendo il numero dei loro recettori per Fc e C3.
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6. Forme sintomatiche di malattie linfoproliferative autoimmuni e di processi infettivi. Si possono sviluppare in corso di linfomi maligni, leucemie (soprattutto linfatica cronica), mielomi, più raramente altre neoplasie (carcinomi renali, della prostata, del colon). Talvolta si associano ad artrite reumatoide, epatite cronica attiva, colite ulcerosa, ma soprattutto LES. Da ultimo, processi infettivi, batterici, virali e fungini. I quadri ematologico e sierologico sono del tutto sovrapponibili a quelli dell’AEA idiopatica, anche se talvolta la sintomatologia è largamente influenzata dal tipo di patologia associata. Da ricordare, infine, come l’anemia emolitica possa anticipare di mesi o anni la malattia di base, costituendone l’unico segno rilevabile. 7. Forme secondarie all’assunzione di farmaci (Tab. 44.15). Tra i farmaci che possono scatenare una emolisi di tipo autoimmune ricordiamo: • -metildopa. Agente antipertensivo di largo uso. Si ritiene che il farmaco stabilisca un legame con un auto-Ag, determinando per questa via la cooperazione dei linfociti T e quindi l’autoimmunizzazione. L’auto-Ag sarebbe un antigene di superficie delle emazie di solito appartenente al sistema Rh. Il farmaco e i suoi metaboliti non partecipano direttamente alla reazione emolitica. Una volta che si sono formati, gli anticorpi, infatti, si legano alle emazie anche in assenza del composto. Oltre agli anticorpi anti-GR è possibile dimostrare, nei pazienti che fanno uso di -metildopa, la presenza di altri autoanticorpi quali ANA, fattore reumatoide, anticorpi antimucosa gastrica. Si tratterebbe dunque dell’induzione di un fenomeno autoimmunitario da parte di un fattore estrinseco che non sembra prendere poi parte direttamente al processo immunitario che ha generato. Non tutto è stato ancora chiarito circa il meccanismo responsabile dell’induzione di questi autoanticorpi. Dati recenti dimostrerebbero che l’-metildopa possiede attività inibente sui linfociti soppressori sia in vivo che in vitro, come pure sulla risposta dei linfociti ai mitogeni policlonali. Questi effetti, che perdurano a lungo anche dopo sospensione del farmaco, sarebbero mediati da un persistente aumento dell’AMP ciclico intralinfocitario. I fattori genetici, poi, sembrano rivestire un qualche ruolo nel determinare o meno una suscettibilità a questo o quel farmaco. Infatti, una larga parte di coloro che sviluppano una positività per il test di Coombs presentano l’antigene di istocompatibilità HLA B27. L’uso della -metildopa rende positivo il test di Coombs diretto con siero antimmunoglobuline totali o con siero anti-IgG nel 10-30% dei casi, ma solo l’1% (o meno) accusa anemia emolitica. Questo dipende dagli autoanticorpi e dall’affinità tra autoanticorpi e auto-Ag (fattori entrambi variabili). Di solito il test di Coombs diviene positivo dopo 3-6 mesi dall’inizio del trattamento. Questo intervallo di tempo rimane invariato anche quando il farmaco viene somministrato ad un paziente che abbia già avuto in una precedente occasione una positività del test di Coombs indotta da -metildopa.
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Sospendendo la terapia si assiste ad una negativizzazione del test di Coombs in un tempo che varia da poche settimane a due anni. Altri farmaci si comportano con meccanismo analogo alla -metildopa e sono la L-dopa e l’acido mefenamico. La L-dopa non determina comparsa di anemia emolitica, anche se viene riscontrata positività per il test di Coombs nel 6-8% dei soggetti che ne fanno uso. Il quadro clinico dell’anemia emolitica autoimmune provocata dalla -metildopa (e farmaci a comportamento similare) presenta un esordio insidioso e un decorso lento mai ingravescente. Non sono stati descritti quadri clinici particolari e la sintomatologia è del tutto sovrapponibile a quella già descritta per la AEA idiopatica da anticorpi incompleti caldi. La reticolocitosi è modesta, come pure l’iperbilirubinemia. Di solito la sospensione del farmaco è sufficiente ad arrestare l’emolisi. • Penicillina. Preziosissimo antibiotico usato per un numero elevatissimo di infezioni. Si lega alla membrana del GR e causa la produzione di anticorpi (IgG) diretti contro il complesso farmaco-emazia. La penicillina si comporta da aptene, per cui non sarebbe in grado di determinare la produzione di anticorpi se non si legasse alle proteine di membrana dei GR dando luogo ad un Ag completo. Ovvero gli anticorpi emolizzano solo gli eritrociti che hanno il farmaco legato alla superficie. Tra gli effetti collaterali della penicillina, l’AEA è di gran lunga meno frequente della comparsa di fenomeni allergici (talvolta fino allo shock anafilattico) o della malattia da siero, fenomeni questi dose-indipendenti. L’AEA può invece venir indotta soltanto in caso di trattamento prolungato e a dosi estremamente elevate (20.000.000 U o più nelle 24 ore), il che si verifica nella sola endocardite infettiva. Circa il 3% dei pazienti che ricevono dosi analoghe per via endovenosa presenta un test di Coombs diretto positivo per le IgG, ma solo una percentuale minima sviluppa AEA. Alla sospensione del trattamento il test di Coombs si negativizza prontamente. L’emolisi non è mediata dall’attivazione del C (test di Coombs diretto per il C = negativo), ma è secondaria a sequestro splenico ed eritrofagocitosi. Il quadro clinico dell’AEA da penicillina è improvviso e si manifesta pressoché esclusivamente in quei pazienti sottoposti a terapia con dosi molto alte di penicillina. L’emolisi è prevalentemente extravascolare. Alla interruzione della terapia segue una rapida guarigione e il test di Coombs diretto diventa negativo nel giro di qualche giorno o settimana. • Cefalosporine. Anche gli antibiotici della classe delle cefalosporine provocano raramente AEA con meccanismo analogo a quello della penicillina. Tuttavia le cefalosporine, quando sono impiegate ad alte dosi e/o sono somministrate negli uremici, possono rendere positivo il test di Coombs (in assenza di anemia emolitica) anche con un altro meccanismo. Questi farmaci, infatti, modificano (se somministrati ad alte dosi), con meccanismi non immunologici, le membrane eritrocita-
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rie in modo tale che ad esse si legano per assorbimento passivo varie proteine sieriche (albumina, fibrina, immunoglobuline, talvolta frazioni del complemento). Questa sensibilizzazione aspecifica non sembra però indurre emolisi. • Chinidina. Si tratta di un composto abbastanza frequentemente impiegato in cardiologia. Il farmaco, dopo essersi legato ad una proteina plasmatica, induce la produzione di anticorpi del tipo IgM, IgG o ambedue. L’immunocomplesso, per ragioni non del tutto chiarite, tende a fissarsi alla membrana dei GR. Responsabile di questo legame sarebbe l’attivazione del C ad opera degli immunocomplessi, dato che le emazie hanno affinità per il C3b, allo stesso modo dei macrofagi. Il più delle volte l’immunocomplesso, dopo attivazione del C, si stacca dalla membrana dell’eritrocita ed è libero di agire con altre cellule. Le emazie dunque sono “astanti innocenti”, dal momento che vengono emolizzate senza neppure partecipare alla reazione immunitaria. Questo fatto rende ragione di due fenomeni: • positività del test di Coombs diretto per il C e non per IgM e IgG; • assenza di correlazioni tra quantità di farmaco ed entità dell’emolisi. Reazioni analoghe sono state documentate per numerosi altri farmaci (Tab. 44.15). Il quadro di anemia si manifesta all’improvviso in modo particolarmente grave e, come detto, non è correlato alla dose di farmaco assunta. L’emolisi è prevalentemente intravascolare con emoglobinemia, emoglobinuria ed intensa reticolocitosi. Da segnalare la possibile comparsa di trombocitopenia e/o neutropenia, insufficienza renale (50% dei casi) e DIC. Si deve sospendere immediatamente il farmaco responsabile ed eventualmente ricorrere a terapia trasfusionale. Gli steroidi in questo caso non presentano alcuna utilità, dal momento che l’emolisi è prevalentemente intravascolare. B. AEA da anticorpi completi freddi (crioagglutinine). Sono anemie emolitiche caratterizzate da una emolisi secondaria alla formazione di anticorpi diretti contro eritrociti normali (autoanticorpi antieritrocitari). Gli anticorpi freddi appartengono alla classe di immunoglobuline M. Si legano ai GR tra 0 e 4 °C e tendono a staccarsi a temperature superiori ai 32 °C. Fissano il C, la sequenza di attivazione del quale viene però raramente completata. La maggior parte presenta una specificità per i determinanti antigeni del sistema I/i e più raramente per Ag H, M, N. Ogni essere alla nascita presenta alla superficie eritrocitaria una sostanza polisaccaridica, le qualità antigeniche della quale vengono identificate dalla lettera i. Col passare del tempo la massima parte degli individui cambia questo antigene in una sostanza diversa chiamata I, che può essere considerata, per la sua diffusione, un “antigene pubblico”.
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Come si è detto, nella maggior parte dei casi gli autoanticorpi in questa forma morbosa reagiscono o con l’antigene I presente nelle emazie della maggior parte degli adulti o con l’antigene i del sangue del cordone ombelicale. Esistono pazienti che hanno anticorpi che reagiscono con le emazie di ambedue i tipi e che perdono la capacità di reagire se le emazie sono trattate con enzimi proteolitici. Gli anticorpi di questo tipo sono chiamati “anti-Pr”. Di questa forma di AEA esistono forme idiopatiche e forme sintomatiche; l’andamento clinico può essere acuto o cronico. 1. Forme idiopatiche. L’autoanticorpo è monoclonale (a differenza della gran parte delle altre forme): presenta infatti, per cause imprecisate, un solo tipo di catena leggera, più spesso . La malattia sembra dovuta al fatto che una cellula capace di produrre questo particolare autoanticorpo (linfocito B) sfugge ai meccanismi di regolazione e si mette a proliferare autonomamente. Si realizza così, in breve tempo, un clone cellulare di dimensioni tali da produrre quantità elevate in proporzione di questo particolare autoanticorpo. Questa AEA da anticorpi freddi è di più facile riscontro nei soggetti anziani (maggiori di 50 anni) e presenta un andamento per lo più cronico. 2. Forme sintomatiche di malattie linfoproliferative. Si hanno in corso di macroglobulinemia di Waldenström, linfomi, leucemia linfatica cronica e mieloma. In questi casi le agglutinine possono essere specifiche sia per l’antigene I che per l’Ag i. Spesso sono monoclonali e possono formare crioprecipitati in vitro. 3. Forme sintomatiche di infezioni. In queste circostanze si verifica la produzione di crioagglutinine di tipo policlonale. Nelle infezioni da Mycoplasma pneumoniae (PPLO) la produzione di crioagglutinine (specificamente dirette contro l’Ag eritrocitario I) è comune, ma raramente compare emolisi. Il Mycoplasma provoca più di una reazione autoimmune e si ritiene lo faccia attraverso reazioni crociate. Nella mononucleosi infettiva, invece, le crioagglutinine sono dirette contro un Ag eritrocitario. Tuttavia, poiché questo Ag si trova di solito nei GR del feto mentre ne sono sprovvisti gli eritrociti dell’adulto, l’emolisi non dovrebbe verificarsi. In realtà, anche se rara, può capitare. 4. Patogenesi. Le crioagglutinine e il complemento (C) si fissano ai GR nelle aree periferiche (punta del naso, mani, piedi, lobi delle orecchie) della circolazione superficiale, dove la temperatura è più bassa e facilmente si ha vasocostrizione e quindi stasi. Quando gli eritrociti fanno ritorno nei tessuti a temperatura più elevata, l’anticorpo si stacca dai GR, mentre il C vi rimane legato. La capacità delle crioagglutinine è massima a 4 °C e decresce progressivamente fino ai 31 °C. Al contrario, il C comincia a fissarsi a 12 °C e raggiunge il massimo della sua attivazione a 37 °C. Quindi a 37 °C il test di Coombs diretto per le IgM sarà negativo, mentre sarà positivo quello per il C (Fig. 44.16). Nel-
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44 - ANEMIE
C3a
C3c
C3b
C3d
Figura 44.17 - Scissione della frazione C3 del complemento durante l’attivazione della sequenza complementare. Alla superficie delle emazie è fissata dapprima la frazione C3b e successivamente residua solo la frazione C3d.
la gran parte dei casi la sequenza di attivazione non è completa, ma si arresta allo stadio C3b (Fig. 44.17). I GR ricoperti di C3b sono riconosciuti soprattutto dalle cellule del Kupffer e distrutti (in misura minore, però, rispetto a quando sono ricoperti da Ig). La presenza, poi, di C3d sulla superficie dei GR, che residua dopo la scissione del C3b ad opera del C3 inattivatore, li protegge da una nuova attivazione della sequenza del C indotta dagli autoanticorpi e li preserva dalla lisi. 5. Clinica. In corso di polmonite da Mycoplasma pneumoniae, di mononucleosi infettiva, di influenza spesso vengono prodotte crioagglutinine, tuttavia raramente la loro concentrazione è tale da provocare emolisi. Quando ciò avviene, il quadro sintomatologico è quello di anemia emolitica acuta: pallore, febbre, ittero, vomito, diarrea, dolori lombari e addominali, reticolocitosi, leucocitosi neutrofila, lieve epatosplenomegalia. Nelle forme idiopatiche e sintomatiche di malattia linfoproliferativa l’anemia insorge gradualmente e la sintomatologia tende ad aggravarsi con la stagione fredda. Spesso l’unico sintomo è rappresentato dall’acrocianosi, secondaria all’agglutinazione di emazie nei capillari cutanei delle estremità. Il fenomeno raramente porta alla gangrena ischemica e regredisce di solito con il riscaldamento. Il test di Coombs diretto è positivo per il C e negativo per le IgM. È possibile comunque dimostrare direttamente la presenza di anticorpi completi freddi inducendo l’agglutinazione delle emazie in presenza del siero del paziente a freddo (a 4 °C). Si usano GR presi dal cordone ombelicale per ricercare anticorpi anti-i, mentre eritrociti di adulto per gli anticorpi anti-I. La agglutinazione è reversibile, cioè scompare, riportando le emazie incubate col siero del paziente a 37 °C. Solita-
mente il titolo non è molto alto (1:32; 1:128) tranne che nelle forme idiopatiche (1:1000; 1:256.000 e oltre). L’agglutinazione spontanea delle emazie in vitro rende difficile o impossibile il conteggio eritrocitario, come pure conferisce un aspetto tipico agli strisci di sangue dove tutti i GR sono impilati. Il numero dei reticolociti è normale, talvolta è presente iperbilirubinemia. Il midollo osseo presenta un aumento del numero assoluto degli eritroblasti e spesso dei linfociti. Da segnalare, a questo proposito, come un quadro di linfocitosi midollare associato a iper--globulinemia di tipo M monoclonale avvicini la forma cronica idiopatica al morbo di Waldenström. 6. Cenni di terapia. Il paziente deve evitare esposizioni al freddo così da precludere l’insorgenza di crisi emolitiche. Le forme sintomatiche di malattie infettive guariscono spontaneamente e pertanto non richiedono alcun trattamento. Le forme idiopatiche e sintomatiche di processi linfoproliferativi talvolta rendono necessario un trattamento volto a limitare il processo emolitico. Splenectomia e corticosteroidi raramente si sono rivelati utili. Infatti, i cortisonici intervengono nel rapporto regione Fc delle IgG/macrofagi, che, come si è detto, ha luogo essenzialmente nella milza, mentre nelle anemie di questo tipo gli anticorpi della classe IgG non sono implicati. Qualche risultato in più sembrano invece ottenere gli schemi terapeutici che ricorrono ai farmaci immunosoppressivi. In alcuni casi è stata utilizzata, con successo, la plasmaferesi, che riduce il tasso di anticorpi circolanti. C. AEA da emolisine bifasiche (emoglobinuria parossistica a frigore). È una rara forma di AEA caratterizzata dalla presenza di anticorpi bifasici (emolisina di Donath-Landsteiner) che appartengono alle IgG. È da rilevare che si tratta di anticorpi freddi, che cioè fanno eccezione alla regola che vede prevalenti gli anticorpi della classe IgM tra quelli con queste caratteristiche termiche. Sono specifici per gli antigeni eritrocitari del sistema Pp (ma soprattutto P). La malattia può essere idiopatica, sintomatica di sifilide (acquisita o congenita), di infezioni virali quali rosolia, parotite, varicella, influenza e morbillo. Il meccanismo di formazione di questi particolari anticorpi è sconosciuto. 1. Patogenesi. A 37 °C l’emolisina bifasica è priva di qualsiasi attività sulle emazie. Solo in presenza di basse temperature, nel microcircolo delle aree corporee periferiche dove il raffreddamento può raggiungere il sangue circolante, ha luogo il legame dell’anticorpo con le emazie, e di solito il titolo anticorpale è sufficientemente elevato da fissare il C. Trattandosi di un anticorpo incompleto, non si ha nessuna agglutinazione delle emazie e nessuna stasi di queste cellule nelle aree fredde. Il rapido passaggio dei GR che hanno interagito con l’anticorpo nella circolazione generale, a 37 °C, consente il rapido completamento della attivazione complementare e l’emolisi intravascolare.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
2. Clinica. La malattia non presenta preferenza né di sesso né di età. La sintomatologia è caratterizzata da crisi emolitiche accessionali cui seguono periodi di remissione completa. In corrispondenza dell’esposizione di tutto il corpo o di parti di esso alle basse temperature o anche alcune ore dopo (fino a un massimo di 8) si ha comparsa di brividi, febbre, dolori lombari, crampi addominali, vomito e diarrea. Dopo l’attacco compare emoglobinuria (urine color lavatura di carne), che dura per circa 24 ore. Il grado di anemizzazione, reticolocitosi e iperbilirubinemia indiretta dipende dall’entità della crisi, che solitamente non si prolunga oltre le 2 ore. Ben presto compare leucopenia, cui segue granulocitosi. Talora è presente splenomegalia e possono presentarsi disturbi tipo fenomeno di Raynaud. Il test di Coombs diretto per le IgG non è positivo dato l’allontanamento delle immunoglobuline dagli eritrociti alla temperatura di 37 °C. Positivo invece il test di Coombs diretto per il C. La diagnosi si basa sul riscontro diretto dell’anticorpo di D-L e su alcune prove quali il test omonimo, che consiste nella dimostrazione di emolisi in vitro riscaldando a 37 °C per 30 min un campione di sangue in precedenza tenuto a 0 °C per 10 min. La diagnosi differenziale è posta soprattutto con l’emoglobinuria da marcia, l’emoglobinuria parossistica notturna, la mioglobinuria. 3. Cenni di terapia. La prognosi è molto buona nel caso di una forma sintomatica di morbillo e di parotite: al cessare della malattia si avrà infatti completa reversibilità del quadro ematologico senza alcuna terapia specifica. La forma idiopatica (molto rara) tende ad avere andamento cronico, mentre quella sintomatica di sifilide si attenua curando l’infezione. La splenectomia e l’uso di corticosteroidi sono inutili; spesso l’unica terapia possibile è quella di evitare le esposizioni del paziente al freddo.
Tabella 44.16 - Anemie emolitiche da fattori extraglobulari. Anemie immunoemolitiche Anemia in corso di splenomegalia (ipersplenismo) Anemia da effetti tossici diretti sulle emazie • Da veleni chimici • Da veleni di serpenti • Da agenti biologici (infezione da clostridi, malaria) Anemie da fattori fisici • Ustioni • Radiazioni • Trauma meccanico – Emoglobinuria da marcia – Turbolenza nelle cavità cardiache (protesi valvolari, stenosi aortica calcifica) – Anemia emolitica microangiopatica
tiche le emazie sono normali, ma è qualcosa che agisce dall’esterno che le conduce ad una distruzione precoce. È questo un esempio di anemia emolitica da fattori extraglobulari. Ne esistono varie altre che sono elencate nella tabella 44.16. Dell’anemia emolitica in corso di ipersplenismo si è parlato nel capitolo 28. Tra le altre anemie emolitiche vogliamo soffermarci in modo particolare sulla anemia emolitica microangiopatica. Questa è dovuta a rottura dei globuli rossi circolanti per l’impatto traumatico contro trombi che si vengono a formare nella microcircolazione. Esistono tre cause di anemia emolitica microangiopatica:
ALTRE ANEMIE EMOLITICHE
• la coagulazione intravascolare disseminata (Cap. 52); • le anomalie della parete vasale nel corso di situazioni come la ipertensione maligna e la sclerodermia (microangiopatia trombotica secondaria), la eclampsia, il rigetto di un trapianto renale e le vasculiti; • la microangiopatia trombotica primitiva (porpora trombotica trombocitopenica, sindrome emoliticouremica) di cui si parlerà nel capitolo 52.
Un meccanismo emolitico contribuisce alla patogenesi di molte delle anemie di cui si è parlato in precedenza e di alcune è l’esclusivo fattore patogenetico. Nella maggior parte dei casi dipende da fattori intraglobulari, ossia da anomalie insite nelle emazie che ne accorciano la sopravvivenza. Nel caso delle anemie immunoemoli-
Dal punto di vista clinico la anemia emolitica microangiopatica è una anemia normocromica normocitica, con reticolocitosi e aumento della lattico-deidrogenasi nel siero e diminuzione della aptoglobina. La sua caratteristica distintiva è la presenza sullo striscio del sangue periferico di eritrociti deformati o frammentati (schistociti).
C A P I T O L O
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POLIGLOBULIE E TROMBOCITOSI G. GROMO
Per poliglobulia si intende un aumento numerico del contenuto di cellule del sangue. In realtà il termine, nella pratica comune, è riferito all’aumento dei globuli rossi e quindi meglio sarebbe impiegare la dizione eritrocitosi. Le eritrocitosi si distinguono in relative ed assolute (Tab. 45.1). È importante premettere questa suddivisione dal momento che nelle eritrocitosi relative la massa eritrocitaria è normale, e l’aumento del numero dei GR è secondario ad una riduzione del volume plasmatico o ad un’alterata distribuzione delle emazie e del plasma nel sistema vascolare, mentre nelle eritrocitosi assolute l’incremento dei GR si correla con un aumento della massa eritrocitaria. A loro volta le eritrocitosi assolute possono essere primitive o secondarie. La forma primitiva o policitemia vera (o morbo di Vaquez) è un disordine mieloproliferativo che si accompagna ad un’accentuata elevazione non solo del numero di GR ma anche di GB e piastrine (panmielosi) ed è indipendente dalla produzione di eritropoietina. Tabella 45.1 - Poliglobulie (1). Eritrocitosi relative • Eritrocitosi transitorie • Eritrocitosi da stress o sindrome di Gaisböck Eritrocitosi assolute “secondarie” • Eritrocitosi secondaria fisiologica compensatoria – Da alte quote – Da cause respiratorie – Da cardiopatie – Da alterata affinità per l’ossigeno • Eritrocitosi secondaria non fisiologica – Da neoplasie – Ereditarie Eritrocitosi assoluta “primitiva” (o policitemia vera o morbo di Vaquez) (1) Si veda il testo circa il più corretto impiego del termine “eritrocitosi”.
Le forme secondarie comportano invece un aumento del numero dei GR reattivi a determinate situazioni caratterizzate, in sequenza, da ipossigenazione tissutale, elevata increzione di eritropoietina, aumentata produzione e maturazione delle emazie.
CENNI DI FISIOLOGIA Eritropoietina La massa eritrocitaria circolante è mantenuta costante in virtù di meccanismi di controllo che modulano la eritropoiesi in risposta a stimoli fisiologici (per es., la normale distruzione eritrocitaria) e patologici (anemia, ipossia, sanguinamento, ecc.). Il controllo si esplica a livello della cellula staminale totipotente (a fronte di una richiesta aumentata la differenziazione è indirizzata prevalentemente verso la linea eritroide); a livello del compartimento già determinato in senso eritroide; a livello delle cellule differenzianti e proliferanti. Mentre è poco noto quale fattore eserciti un controllo a livello della cellula totipotente, a livello del compartimento staminale unipotente riveste particolare importanza l’eritropoietina. Essa agisce in modo elettivo a livello di una popolazione di cellule dette “responsive” all’eritropoietina (Erythropoietin Responsive Cells, ERC) che nella linea maturativa eritroide sono precedute da cellule denominate pre-ERC (nello schema dello sviluppo della linea eritroide, figura 43.1, la popolazione delle pre-ERC è situata tra le BFU-E mature e le CFU-E). L’effetto maggiore della eritropoietina è di iniziare la tappa differenziativa che converte le ERC in precursori eritroidi in via di maturazione, essa cioè avvia la sintesi emoglobinica. Le pre-ERC sono stimolate dalla eritropoietina ad abbreviare il loro tempo di ciclo cellulare, subiscono quindi uno stimolo alla proliferazione ma, a differenza
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delle ERC, non possono andare incontro a differenziazione in cellule sintetizzanti emoglobina senza subire un ulteriore processo maturativo. Infine, l’eritropoietina accelera la dismissione dei reticolociti dal midollo. Il ruolo dell’eritropoietina nel controllo dell’eritropoiesi è documentato da alcune evidenze cliniche e sperimentali: • nelle poliglobulie secondarie e nella maggior parte delle anemie l’eritropoietina è aumentata; • dopo trattamento trasfusionale protratto diminuiscono contemporaneamente eritropoiesi e tassi di eritropoietina; • la presenza di anticorpi antieritropoietina può indurre aplasia della serie rossa. La produzione e la secrezione di eritropoietina dipendono dalla tensione di ossigeno a livello dei tessuti. Ogniqualvolta si verifica una situazione di ipossia tissutale la produzione di eritropoietina viene stimolata; viceversa, condizioni di elevata tensione tissutale di ossigeno la deprimono. L’eritropoietina (umana) è una glicoproteina di pm 35.000 circa. La sede di produzione principale nel corso della vita adulta è il rene, mentre durante la vita fetale e neonatale è il fegato. Attualmente si pensa che il rene non rilasci direttamente eritropoietina, bensì un fattore eritropoietico renale (FER) inattivo. Il FER si coniugherebbe poi con un profattore plasmatico di origine epatica capace di attivarlo. L’eritropoietina è presente nel plasma e nelle urine dove viene escreta nella misura di 1-4 U nelle 24 ore (in condizioni di normalità). Il dosaggio, assai complesso, viene comunque eseguito solo nei laboratori specialistici.
Viscosità e flusso ematico La sintomatologia clinica caratteristica delle eritrocitosi sembra dipendere in larga misura dall’iperviscosità ematica. Nella pratica clinica si misura la viscosimetria relativa del sangue (cioè rispetto ad un’altra sostanza: per es., acqua distillata) a 37 °C, per mezzo del viscosimetro di Ostwald. La viscosità relativa, espressa in centipoise, corrisponde al tempo di scorrimento di un volume determinato di sangue diviso il tempo di scorrimento di un egual volume d’acqua, a temperatura e pressione costanti. Per la verità il sangue (una sospensione di cellule in plasma che è a sua volta soluzione acquosa di sali e di macromolecole idratate) è un caso alquanto complesso di liquido “non newtoniano” nel quale cioè la viscosità dipende non solo dalla pressione e dalla temperatura ma anche dalla velocità di flusso. Tuttavia il sangue, nelle condizioni operative fisiologiche normali, si comporta sostanzialmente come un liquido “non newtoniano” solo per velocità molto alte o molto basse. La viscosità dell’acqua è fatta convenzionalmente uguale a 1 centipoise, quella del sangue intero 3,6-5,4; del plasma 1,9-2,3; del siero 1,4-1,8.
La viscosità del sangue intero varia consensualmente in funzione di variazioni del valore ematocrito (anche della concentrazione delle proteine plasmatiche e della resistenza alla deformabilità delle emazie, che però, in questa particolare patologia, non variano) ma con un andamento non lineare. In effetti variazioni rilevanti dell’ematocrito, quali appunto si osservano nell’eritrocitosi, producono aumenti estremamente elevati nella viscosità ematica. Una volta ottenuti i valori di flusso in funzione dei diversi Hct e conosciuta la quantità di ossigeno presente nel sangue, si potrà facilmente calcolare la percentuale di ossigeno trasportato. Quest’ultima sarà bassa non solo, come è naturale, con un Hct ridotto (inferiore al 30%) ma anche con un Hct elevato (superiore al 60%). Infatti, oltre il 60% di Hct la viscosità tende ad aumentare a tal punto che il flusso di sangue nei piccoli vasi (arteriole, precapillari e capillari) viene nettamente ridotto e il trasporto di ossigeno peggiora drasticamente. Ai valori intermedi il trasporto di ossigeno è migliore e raggiunge l’optimum attorno a un Hct del 45%. Per questo motivo l’incremento della massa eritrocitaria al di là di certi valori comporta sintomi e segni da diminuita ossigenazione di vari organi e tessuti (sindrome da iperviscosità) (si veda Macroglobulinemia di Waldenström, Cap. 50).
Eritrocitosi relative Sono eritrocitosi caratterizzate da ematocrito elevato senza aumento della massa eritrocitaria. Si dividono in transitorie e da stress. Eritrocitosi transitorie In queste forme l’aumento dei GR sembra dipendere dalla emoconcentrazione secondaria alla riduzione del volume plasmatico. Si può osservare una riduzione del volume plasmatico in caso di: • ustioni molto gravi, diarrea inarrestabile, vomito persistente e terapia diuretica; • drastica riduzione dell’introduzione di liquidi; • anomala ripartizione del plasma tra vasi capillari e interstizio, come nella sindrome da schiacciamento o in alcune forme di insufficienza circolatoria. Eritrocitosi da stress o sindrome di Gaisböck Si manifesta soprattutto in soggetti apparentemente sani, di sesso maschile, talora ipertesi e/o in sovrappeso, forti fumatori, che conducono una vita stressante e lamentano disturbi quali astenia, cefalea, dolori addominali, iperidrosi. Spesso vanno incontro a episodi di trombosi. L’eziopatogenesi di questa forma di eritrocitosi non è nota. I parametri di laboratorio segnalano un ematocrito costantemente superiore al 50%, GR tra 6,5-7 × 1012/l ed Hb tra 18-20 g/dl. La massa eritrocitaria totale è nella norma come pure il tasso di eritropoietina e la saturazione arteriosa di ossigeno.
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45 - POLIGLOBULIE E TROMBOCITOSI
È possibile distinguere due gruppi di pazienti. Nel primo il valore di ematocrito è elevato perché si verifica la coincidenza di una massa eritrocitaria ai limiti superiori (questo può essere importante nei forti fumatori, con un possibile aumento della carbossiemoglobina che non partecipa al trasporto di ossigeno) e di un volume plasmatico a quelli inferiori. Nel secondo, invece, la massa eritrocitaria è normale, mentre il volume plasmatico è diminuito. La terapia è indicata solo in quei soggetti ad alto rischio per complicanze cardiovascolari e tromboemboliche (forti fumatori, ipertesi, pletorici e obesi) e consiste in salassi e reinfusione di plasma, nell’indurre calo ponderale con una dieta adeguata, nel controllo dei valori pressori e nell’astensione dal fumo. È assolutamente controindicato l’uso di farmaci diuretici.
Eritrocitosi assolute secondarie Sono condizioni caratterizzate da un aumento assoluto della massa eritrocitaria e del numero delle emazie dovuto ad una stimolazione del midollo ad opera della eritropoietina. Si parlerà allora di eritrocitosi secondaria fisiologica compensatoria (o eritrocitosi anossica) in quelle situazioni dove è presente uno stato di ipossia tissutale secondario a una riduzione del contenuto di ossigeno nel sangue o ad un’aumentata affinità dell’emoglobina per l’ossigeno; di eritrocitosi secondaria non fisiologica in quelle condizioni dove l’aumento del tasso di eritropoietina è del tutto autonomo (tumori, nefropatie, anomalie ereditarie). La sintomatologia riscontrabile è essenzialmente quella della patologia responsabile del quadro di eritrocitosi. Quanto poi al quadro clinico relativo all’aumento della massa eritrocitaria e all’iperviscosità, esso è del tutto modesto. Di frequente riscontro: acufeni, cefalea, un colorito rosso acceso della cute. Vi è inoltre un modesto aumento del numero dei reticolociti e un rapido turn-over del ferro plasmatico. Assente la splenomegalia, normali bilirubinemia e latticodeidrogenasi nonostante la distruzione di una quota elevata di massa eritrocitaria circolante. Eritrocitosi secondaria fisiologica compensatoria Una diminuzione della saturazione arteriosa di ossigeno può rappresentare la conseguenza di: • diminuzione della pressione parziale di ossigeno atmosferico (alte quote); • modificazioni delle pareti alveolari che interferiscano con la normale diffusione dell’ossigeno; • ipoventilazione alveolare; • shunt destro-sinistri cardiopolmonari, con passaggio di sangue venoso non ossigenato nei vasi arteriosi (cardiopatie congenite); • alterata capacità di trasporto dell’ossigeno da parte di emoglobine anomale.
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A. Eritrocitosi da alte quote. Rappresenta la risposta fisiologica del sistema eritropoietico all’ipossia da alta quota. Quando un soggetto sano si reca in alta montagna, superando un dislivello notevole, e vi permane a lungo, tende a compensare l’inadeguata ossigenazione del sangue nei polmoni secondaria alla diminuzione della PO2 dell’aria atmosferica. I primi meccanismi di compenso sono l’iperventilazione e l’aumento della gettata cardiaca (miglior perfusione dei tessuti con incremento dell’estrazione di O2). Dopo un’iniziale alcalosi iperventilatoria con spostamento a sinistra della curva di dissociazione della Hb, aumenta il contenuto intraeritrocitario di 2,3 DPG che riporta a destra la curva di dissociazione, modificando così l’affinità della Hb per l’ossigeno e facilitando il rilascio di quest’ultimo ai tessuti (Cap. 44). Tuttavia, nessuno di questi meccanismi fisiologici è in grado da solo di assicurare un sufficiente apporto di ossigeno ai tessuti periferici ad un’atmosfera a pressione notevolmente diminuita; al contrario, tali meccanismi possono diventare svantaggiosi per l’organismo. Infatti l’incremento del lavoro ventilatorio e cardiaco aumenta il consumo di ossigeno e lo spostamento a destra della curva di affinità della Hb per l’ossigeno può ridurre (a PO2 molto basse) l’entità di saturazione della Hb a livello polmonare. In realtà, nel giro di alcuni giorni, si potrà osservare un aumento del numero dei reticolociti (secondario ad iperincrezione di eritropoietina) seguito da eritrocitosi più o meno marcata. In tal modo non compaiono segni di ipossia tissutale. A ben vedere, però, neppure l’eritrocitosi costituisce un meccanismo di compenso completamente positivo perché aumenta la viscosità ematica (si veda Cenni di fisiopatologia). Il quadro clinico presentato dai membri di comunità che vivono in regioni quali l’altopiano andino e la catena dell’Himalaya è contraddistinto da un colorito rosso vivo della cute e delle mucose, dalla espansione “a botte” della gabbia toracica, da frequenti epistassi. L’ematocrito supera il 55% e gli eritrociti i 7 × 1012/l. Piastrine e leucociti sono nella norma, come pure la massa eritrocitaria. Aumentato, invece, il volume plasmatico. Assente epatosplenomegalia. B. Eritrocitosi secondaria a cause respiratorie. Le pneumopatie sono una causa frequente di ipossiemia e di poliglobulia secondaria. Infatti alcune malattie polmonari croniche, accompagnate da modificazioni strutturali del parenchima, ostacolano l’ossigenazione a livello capillare e provocano una riduzione della saturazione arteriosa (Cap. 16). Il meccanismo fisiopatologico più spesso interessato è un’alterazione del rapporto ventilazione/perfusione; meccanismi addizionali possono essere un’ipoventilazione alveolare e, talvolta, un’alterata diffusione. Un’ipoventilazione alveolare non associata a pneumopatia si verifica a seguito di alterazioni delle funzioni encefaliche, come in corso di intossicazione da barbiturici, trombosi cerebrali, encefaliti, tumori cerebrali. Ma anche per cause “periferiche” che compromettono la meccanica della ventilazione quali distrofie muscola-
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ri (con interessamento del diaframma), obesità estrema (sindrome di Pickwick; in questo caso è presente anche un’anomala risposta all’ipossigenazione), spondiliti, cifoscoliosi, poliomielite. In tutti questi casi si osserva iperincrezione di eritropoietina. L’eritrocitosi, in queste patologie, si associa di frequente a cianosi e sonnolenza. C. Eritrocitosi secondaria a cardiopatie. Una eritrocitosi si osserva di regola nei pazienti con cardiopatie congenite cianogene, con shunt dal cuore destro al sinistro (Cap. 11). Uno stimolo eritropoietico di grado moderato può essere presente anche nello scompenso cardiaco cronico, secondario a cardiopatia acquisita; tuttavia il concomitante aumento del volume plasmatico spesso maschera l’incremento della massa eritrocitaria. D. Eritrocitosi secondarie ad alterata affinità per l’ossigeno. La curva di dissociazione della Hb descrive i rapporti tra la pressione di O2 e la saturazione del sangue. Dal momento che la curva alla sua sommità è relativamente piatta, nei polmoni si realizza una saturazione quasi completa per un ampio ambito di pressioni. Inversamente, a livello tissutale, anche una piccola modificazione della pressione si associa a notevoli variazioni di rilascio di ossigeno. Una deviazione cronica a sinistra della curva di dissociazione della Hb rende più difficile la cessione di ossigeno ai tessuti, aumenta perciò l’eritropoietina e provoca eritrocitosi. Nell’intossicazione cronica con monossido di carbonio, quando la percentuale di carbossiemoglobina si avvicina a valori del 5%, si osserva eritrocitosi secondaria. Infatti il pigmento ematico così trasformato non riesce a trasportare l’ossigeno e subentra uno spostamento a sinistra della curva di dissociazione della restante Hb normale. Anche la metemoglobinemia congenita (da deficit di metemoglobina-riduttasi) e quella da HbM presentano eritrocitosi compensatoria che, viceversa, è assente nelle metemoglobinemie acquisite (Cap. 44). Infine ci sono varianti emoglobiniche con aumentata affinità per l’ossigeno. Da segnalare anche eritrocitosi secondarie a sostanze quali il cobalto (inibisce il metabolismo ossidativo cellulare con ipossia tissutale periferica) o il testosterone (incrementa la produzione di eritropoietina e sensibilizza i precursori eritroidi). Eritrocitosi secondarie non fisiologiche Si tratta di situazioni caratterizzate da un’aumentata increzione di eritropoietina di origine renale o extrarenale. L’eritrocitosi è di grado modesto, non c’è splenomegalia; PO2 arteriosa, GB e piastrine sono normali. A. Eritrocitosi secondaria a neoplasie. Una eritrocitosi può osservarsi in associazione soprattutto a neoplasie renali, miomi uterini, emangiomi cerebellari, epatomi. Più raramente in portatori di feocromocitoma, carcinomi ovarici, adenomi secernenti aldosterone. L’1-3% dei pazienti con ipernefromi presenta eritrocitosi. Non è ben chiaro però il meccanismo patogeneti-
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
co. Infatti sarebbero le cellule tumorali medesime a secernere eritropoietina ovvero la massa neoplastica a comprimere il parenchima renale determinando uno stato di ipossia locale. Sono state descritte anche eritrocitosi secondarie a tumori di Wilms o ad adenomi renali benigni. Gli emangiomi cerebellari talora provocano eritrocitosi. Anche se non è di raro riscontro la presenza di eritropoietina nel liquido delle cisti neoplastiche, tuttavia la sede del tumore lascia supporre che vi sia qualche altro meccanismo di origine centrale che possa concorrere alla patogenesi dell’eritrocitosi. Del tutto sconosciuta la patogenesi dell’eritrocitosi associata ad epatomi (10% dei casi). È probabile che il tumore stesso secerna (o attivi) eritropoietina, o comunque una molecola eritropoietina-simile, ma non si possono escludere altri meccanismi. I miomi uterini infine, soprattutto se molto voluminosi, possono causare eritrocitosi. Anche in questo caso, come per gli ipernefromi, l’aumentata secrezione di eritropoietina può dipendere da uno stato di relativa ipossia del parenchima renale secondario a compressione delle arterie renali (in tutti i casi descritti i tumori erano notevolmente voluminosi). B. Eritrocitosi secondaria a malattie non neoplastiche. Si tratta nella quasi totalità di affezioni renali, quali cisti (solitarie o multiple, rene policistico) o idronefrosi. La dimostrazione del ruolo causale di queste condizioni (come del resto nelle neoplasie) è data dalla scomparsa dell’eritrocitosi dopo la loro rimozione e/o trattamento. Raro (e comunque transitorio) il riscontro di eritrocitosi in pazienti dopo trapianto di rene; viceversa, l’improvvisa ricomparsa di reticolocitosi elevata, eritroblasti in circolo ed elevati valori di eritropoietina può preludere al rigetto dell’organo trapiantato. Infine, nel 18% dei casi di ipertensione renale si registra un aumento significativo del numero dei GR e dell’Hct. C. Eritrocitosi ereditarie. Sono state identificate numerose famiglie i membri delle quali presentano una eritrocitosi, talvolta estrema, verosimilmente secondaria a produzione autonoma di eritropoietina. Le prime manifestazioni si osservano fin dall’infanzia ma non si conosce il difetto (genetico?) sottostante.
Policitemia vera (morbo di Vaquez) La policitemia rubra vera o morbo di Vaquez è una sindrome mieloproliferativa, ed è trattata nel capitolo 48.
Trombocitosi Con il termine di trombocitosi si indica un aumento del numero delle piastrine al di sopra delle 500 × 109/l
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45 - POLIGLOBULIE E TROMBOCITOSI
che può arrivare anche a valori superiori a 1000-2000 × 109/l. Le trombocitosi sono secondarie e primitive.
Tabella 45.2 - Cause di trombocitosi. Trombocitosi secondarie (o reattive) • Fisiologiche: esercizio fisico, parto • Malattie infettive e infiammatorie (acute e croniche): osteomielite, TBC, colite ulcerosa, sprue, enterite regionale, sarcoidosi, cirrosi epatica, artrite reumatoide, ecc. • Assenza della milza: splenectomia, agenesia o atrofia della milza, trombosi della vena splenica • Neoplasie: linfoma HG, non-HG, numerosi carcinomi (ad esempio, mammario, polmonare) • Farmaci: adrenalina, vincristina • Malattie ematologiche: anemia postemorragica, trombocitosi da “rebound” dopo sospensione di trattamento mielosoppressivo, anemie sideropeniche, emolitiche, da carenza di acido folico o di B12, talvolta in corso di mieloma multiplo • Varie: dopo interventi chirurgici, osteoporosi, sindrome nefrosica, cisti renali, morbo di Cushing, ecc. Trombocitosi primitive • Malattie mieloproliferative: policitemia vera, trombocitemia essenziale, leucemia mieloide cronica, mielofibrosi
Tabella 45.3 - Differenze tra trombocitosi secondarie e trombocitemia essenziale. TROMBOCITOSI
N. piastrine Morfologia piastrine Leucocitosi Emorragie Trombosi Splenomegalia Vitamina B12 nel siero Alterazioni cromosomiche Durata
SECONDARIA
ESSENZIALE
≤ 1000 × 109/l
> 1000 × 109/l Anormale Presente Presenti Presenti
Normale Assente Assenti Talvolta presenti Assente Normale Assenti Transitoria
Presente (80%) Aumentata Presenti Persistente
1. Le forme secondarie possono comparire in condizioni fisiologiche (parto, sforzo fisico prolungato) oppure in corso di malattie infiammatorie e infettive, di neoplasie, a seguito di intense emorragie, dopo assunzione di farmaci o nel decorso postoperatorio (Tab. 45.2). In particolare, la splenectomia causa intensa piastrinosi che raggiunge l’acme dopo 3-4 settimane e regredisce generalmente dopo 2 mesi circa; talvolta persiste per mesi o anni. Per lo più le trombocitosi secondarie sono provocate da un’aumentata produzione di piastrine, più raramente derivano da massiva dismissione dalle sedi di deposito (milza e polmoni) come nel caso di esercizio fisico prolungato. Di solito il numero delle piastrine non supera le 1000 × 109/l; morfologia e test di funzionalità piastrinica sono nella norma (Tab. 45.3). 2. Le forme primitive sono rappresentate dalla trombocitemia essenziale (si veda Cap. 48).
Clinica Di regola le trombocitosi sono asintomatiche. Qualora il valore delle piastrine superi le 1000 × 109/l si possono avere manifestazioni trombotiche ed emorragiche. Le prime sono causate da aggregazione spontanea delle piastrine; le seconde, presenti esclusivamente nelle forme primitive, non riconoscono una patogenesi univoca e certa; tra i fattori responsabili si suppone una coagulopatia da consumo conseguente a fenomeni di trombosi nel microcircolo e/o un’alterazione funzionale delle piastrine, primitiva (da difetto poietico da parte della cellula staminale neoplastica delle malattie mieloproliferative) o secondaria al coinvolgimento delle piastrine nei microtrombi e loro successiva reimmissione in circolo.
Cenni di terapia Le forme secondarie non richiedono trattamento, solo in casi di trombocitosi estrema può rivelarsi utile l’impiego di farmaci antiaggreganti o anticoagulanti.
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C A P I T O L O
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46
AGRANULOCITOSI G. GROMO
Conviene meglio chiarire termini quali granulocitopenia (o più semplicemente neutropenia) e agranulocitosi. Per granulocitopenia (o neutropenia) si intende una riduzione del numero assoluto dei neutrofili circolanti. Per agranulocitosi si intende invece, in senso stretto, la scomparsa totale dei granulociti dal sangue periferico. Di fatto, però, il termine di agranulocitosi è quasi sempre usato per definire una grave forma di neutropenia non secondaria ad altra malattia ematologica per lo più collegabile con l’assunzione di farmaci. Le neutropenie costituiscono un complesso di sindromi eterogenee. Esistono forme idiopatiche, raramente ereditarie, e forme acquisite. Di maggiore interesse pratico e in relazione agli scopi del presente volume, sono le agranulocitosi indotte da farmaci (d’ora in poi semplicemente: agranulocitosi) e di queste ci occuperemo. È difficile acquisire informazioni utili circa l’incidenza reale e le cause di agranulocitosi, soprattutto per la scarsità dei dati esistenti e per la loro frammentarietà. Fa eccezione in questo senso la Svezia, grazie al suo particolare sistema sanitario centralizzato. Proprio da questo paese viene una stima dell’incidenza annuale di agranulocitosi: 100 casi per milione di abitanti. Un altro dato interessante è quello che riguarda i farmaci responsabili: in Svezia mutano circa ogni 10 anni ma l’incidenza globale di agranulocitosi non varia. Il che ribadisce il ruolo giocato a questo proposito dalla suscettibilità individuale, piuttosto che dalla composizione chimica del prodotto. Colpisce prevalentemente le donne (3:2) e si manifesta in età avanzata o medio-avanzata, raramente nei giovani, eccezionale nell’infanzia.
EZIOPATOGENESI Esistono agenti che inducono agranulocitosi costantemente: a questo gruppo appartengono radiazioni ionizzanti e citostatici che bloccano la proliferazione delle cellule staminali attraverso molteplici meccanismi biochimici; inducono solitamente anche anemia, trom-
bocitopenia e sono dose-dipendenti (si veda Anemia aplastica, Cap. 44). Più raramente, anche il benzene e alcuni antibiotici (cloramfenicolo, ristocetina, rifampicina) possono provocare agranulocitosi con meccanismo non immunologico ma danneggiando in maniera selettiva la cellula staminale granulocitopoietica. I farmaci che, viceversa, solo occasionalmente provocano agranulocitosi, esercitano principalmente due tipi di meccanismi, cui corrispondono altrettanti quadri clinici. 1. Farmaci con meccanismo immune. Il loro numero è in continuo aumento, non sono dose-dipendenti e danno origine a quadri clinicamente assai importanti. Nella gran parte dei casi l’azione tossica non è prevedibile sulla base della loro struttura chimica e si manifesta dopo ripetute somministrazioni della sostanza, anche in tempi lontani, ma non è raro che il fenomeno si osservi anche durante la prima esposizione. Sebbene da un punto di vista strettamente patofisiologico si potrebbe ascrivere l’agranulocitosi a una distruzione rapida, acuta, dei neutrofili, tuttavia il meccanismo immunologico che ne sta alla base non risulta ancora ben chiarito. Si sono fatte numerose ipotesi: • il farmaco si comporta da aptene: si lega alla membrana del granulocita, crea un antigene completo e provoca una risposta anticorpale specifica (per es., cefalotina); • il farmaco (o un suo metabolita) si combina con una molecola proteica formando un antigene completo verso il quale si sintetizzano anticorpi; in un secondo tempo il complesso immune antigene/anticorpo aderisce alla membrana dei granulociti e li distrugge (per es., aminopirina, chinidina, composti antitiroidei); • il legame farmaco-granulocita altera le caratteristiche antigeniche di quest’ultimo, che diventa così “nonself ” (per es., fenilbutazone). 2. Farmaci con meccanismo idiosincrasico. Si tratta di sostanze in grado di provocare (in modo del tutto imprevedibile, occasionalmente in pazienti immunologicamente o biochimicamente predisposti = idiosincra-
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
sia), agranulocitosi dopo settimane di trattamento, rendendo così necessaria la pronta sospensione del prodotto, cui però non sempre segue una normalizzazione del quadro ematologico. In questi ultimi casi il quadro midollare è caratterizzato da ipoplasia più o meno spiccata della serie granulocitaria, con aumento relativo dei linfociti. E questo si differenzia da quanto avviene con i farmaci che agiscono con meccanismo immune, che esercitano un’azione prevalentemente sul sangue periferico, a carico degli elementi circolanti. L’effetto tossico, che si esplica soprattutto sulla sintesi del DNA, sembra essere in funzione del tempo di somministrazione e legato alla suscettibilità del singolo. A questo proposito sono state particolarmente studiate le fenotiazine, anche in ragione del loro vasto impiego nella pratica clinica. Si è così potuto osservare come i soggetti suscettibili avessero una ridotta incorporazione di precursori marcati per la sintesi di DNA e RNA, se confrontati con una popolazione “non suscettibile”. È importante, comunque, sottolineare che talune sostanze possono esplicare un’azione lesiva sulla serie granulocitaria in più modi e quindi una classificazione che si basa sui diversi meccanismi d’azione non può essere rigida.
CENNI DI FISIOLOGIA GRANULOCITARIA
rie) o sequestrati dal SRE (polmone, milza e fegato). Il tempo che intercorre tra lo stato di mielocita e quello di granulocita circolante è di 5-7 ore, ma può ridursi a 2 ore in corso di infezioni. La sopravvivenza in circolo varia da 4 a 10 ore. Ciò significa che il pool granulocitario viene rinnovato completamente 2,5 volte al giorno. In corso di infezione la produzione può aumentare di parecchie volte e si determina una mobilizzazione della riserva granulocitaria midollare (9 × 109 cell/kg). B. Funzioni dei granulociti. La principale funzione dei granulociti neutrofili è la difesa, mediante la fagocitosi, dalle infezioni batteriche. Questa “difesa” si esplica attraverso varie fasi. 1. Chemiotassi. Dalle sedi di penetrazione dei batteri diffondono, secondo un gradiente di concentrazione, sostanze che attraggono i neutrofili. I meccanismi biochimici coinvolti in questo fenomeno riguardano l’attivazione del complemento, la fibrinolisi e la produzione di chinine plasmatiche. Dalla lisi dei batteri e dalla necrosi tissutale si liberano poi numerosi fattori chemiotattici (per es., lipidi ossidati, polipeptidi con gruppi idrofobici esposti). 2. Opsonizzazione. Mentre taluni microbi vengono fagocitati direttamente, altri batteri (streptococchi, pneumococchi, Staphylococcus Aureus, Haemophilus influenzae) vengono ingeriti solo dopo essere stati sensibilizzati da sostanze sieriche dette opsonine. Hanno azione opsonizzante, per esempio, sia il fattore C3b sia taluni anticorpi (IgG).
A. Cinetica e regolazione. Nel soggetto adulto la produzione di granulociti neutrofili è di esclusiva pertinenza del midollo osseo. Durante la vita fetale, invece, e in talune patologie (si veda Cap. 48, I disordini mieloproliferativi) vi può essere granulocitopoiesi in altri organi (fegato, milza, linfonodi). La cellula staminale della linea granulocitaria e monocitaria è una cellula morfologicamente non riconoscibile che viene orientata in senso granulocitopoietico attraverso meccanismi solo in parte chiariti (stimoli umorali specifici, microambiente). Le cellule della linea granulocitopoietica vengono suddivise in due compartimenti: quello proliferante/differenziante (mieloblasti, promielociti e mielociti) e quello maturante e della riserva midollare (metamielociti, “band forms” e granulociti maturi). I granulociti del sangue periferico si distribuiscono in due pool equivalenti dal punto di vista quantitativo e in costante equilibrio: • cellule circolanti; • cellule marginate che aderiscono alle pareti dei capillari e delle venule postcapillari (soprattutto dove è più intensa la microcircolazione: polmone e milza).
4. Degranulazione. Successivamente i granuli citoplasmatici si fondono con i fagosomi e vi liberano proteine cationiche ed enzimi lisosomiali. I meccanismi biochimici grazie ai quali questi enzimi partecipano alla digestione dei batteri sono poco conosciuti (perossidasi, lisozima). Contemporaneamente, nei neutrofili avviene una riduzione enzimatica dell’ossigeno con produzione di radicali ossidrilici che diffondono nei fagosomi e, insieme agli enzimi lisosomiali liberati dai granuli, uccidono e digeriscono i batteri.
I granulociti del sangue periferico nel soggetto adulto normale sono 0,7 × 109/kg di peso corporeo. I granulociti neutrofili lasciano il circolo periferico attraverso l’endotelio e penetrano nei tessuti; qui termina il loro ciclo vitale: vengono eliminati a livello delle superfici mucose (orofaringe, sistema gastroenterico, vie urina-
CLINICA
3. Locomozione. I neutrofili, dotati di proteine contrattili, si dirigono verso la sorgente dei fattori chemiotattici con movimenti ameboidi alla velocità di 20-50 m/min. Circondano i batteri con pseudopodi che, unendosi alle estremità distali, formano vescicole (fagosomi) in cui i microrganismi rimangono rinchiusi.
5. Flogosi. Durante la fase di degranulazione e di digestione batterica, enzimi lisosomiali e radicali ossidrilici possono venire liberati anche nell’ambiente esterno (fagosomi incompleti, morte e lisi dei neutrofili medesimi), danneggiare le cellule di molti tessuti e digerire mucopolisaccaridi della sostanza fondamentale del connettivo.
Il quadro si presenta diverso a seconda del meccanismo interessato.
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46 - AGRANULOCITOSI
A. Tipo I. È possibile individuare tre periodi nello svolgimento di un’agranulocitosi: • febbre, malessere, talvolta brivido: sintomi prodromici che spesso il paziente neppure ricorda; • un intervallo libero di 7-10 giorni o meno in caso di riesposizione; in questo periodo il numero dei leucociti si riduce e scompaiono i granulociti; • infine l’esordio vero e proprio, improvviso, caratterizzato da brivido, ipertermia, prostrazione profonda. Lesioni ulcero-necrotiche si possono rilevare fin dall’esordio nelle regioni dove più abbondante è la flora batterica ovvero al cavo orale (anello faringeo) e nella regione perianale. Si tratta di lesioni rapidamente ingravescenti con aree edematose ed eritematose che si coprono di essudato giallastro, prive di fenomeni emorragici (si veda Cap. 47, Leucemie acute e mielodisplasie). Si registra, inoltre, una linfoadenopatia regionale, non generalizzata; talora il quadro è complicato da setticemia. Frequenti i focolai necrotici al fegato, con epatomegalia e ittero. B. Tipo II. I sintomi prodromici sono assenti o del tutto modesti, spesso il riscontro è occasionale. Non sono presenti lesioni ulcero-necrotiche, raramente i GB scendono sotto i 2,0 × 109/l (con numerose fluttuazioni), l’anemia è modesta. Spesso la situazione si risolve anche se il trattamento con il farmaco responsabile non viene sospeso. C. Esami di laboratorio. Nel sangue periferico è presente una spiccata neutropenia, con linfocitosi e monocitosi relative. I granulociti sono meno di 0,2 × 109/l o completamente assenti, hanno nucleo picnotico, citoplasma vacuolato e granuli poco colorabili; di solito non coesistono anemia e trombocitopenia; le prove di coagulazione sono nella norma, la VES è elevata. Il quadro midollare ha aspetto diverso nei due tipi di agranulocitosi. Nel tipo I, in cui l’azione dei farmaci si esercita prevalentemente a livello del sangue periferico a carico degli elementi circolanti, si ha un midollo normo o ipercellulare, con eritropoiesi e megacariocitopoiesi conservate e con curva maturativa granuloblastica “apparentemente” inibita, con prevalenza di elementi in fase mieloblastica e promielocitica; il numero dei mielociti, metamielociti e stableucociti (leucociti a bastoncino) appare ridotto per l’accelerato processo di maturazione delle varie fasi della serie sino al granulocita maturo, che a sua volta viene rapidamente dismesso in circolo. Questo aspetto midollare pone in discussione la diagnosi differenziale con la leucemia acuta promielocitica. Nel tipo II, sempre in presenza di serie eritroide e megacariocitica di solito normali, si ha un’ipoplasia più o meno spiccata della serie granuloblastica, con relativo aumento dei linfociti e delle plasmacellule. È importante, infine, eseguire numerose emocolture, come pure tamponi faringei nelle sedi delle lesioni ulcero-necrotiche. Le urine possono contenere tracce di albumina.
DIAGNOSI L’esordio è subdolo e sovrapponibile a quello di numerose altre affezioni. Da ricordare inoltre che le lesioni mucose non sono sempre presenti. Di fondamentale importanza l’accurata anamnesi farmacologica che deve comprendere anche quei prodotti assunti casualmente (analgesici, antipiretici, ecc.). Una volta eseguite le indagini ematiche appropriate (emocromocitometrici, striscio, aspirato midollare, emocolture, tampone faringeo) non sarà difficile giungere alla diagnosi di certezza. Infatti: • le malattie infettive associate a leucopenia (febbre tifoide, morbillo, rosolia) si instaurano gradatamente e con sintomi caratteristici; • la mononucleosi infettiva presenta un’intensa neutropenia ma transitoria, riscontro di anticorpi eterofili e di linfociti attivati; • l’anemia aplastica si accompagna sempre anche a trombocitopenia ed anemia; • la leucemia acuta si distingue per la presenza di pancitopenia; tuttavia nella fase conclamata dell’agranulocitosi di I tipo la diagnosi può riuscire quasi impossibile e verrà chiarita solo dal decorso clinico, che nell’agranulocitosi è molto spesso orientato verso la risoluzione.
DECORSO E PROGNOSI Prima della comparsa degli antibiotici e dei sulfamidici la prognosi era estremamente grave (84% di mortalità). Attualmente i soggetti maggiormente a rischio sono quelli anziani che presentano ancora elevata mortalità. Il miglioramento è dimostrato dalla comparsa nel sangue periferico dapprima di metamielociti e mielociti, e più raramente di mieloblasti, da ultimo di polimorfonucleati. La presenza di monociti ed eosinofili, come pure un midollo iperplastico o normocellulare con tendenza all’evoluzione maturativa, sono fattori prognostici positivi.
CENNI DI TERAPIA La prima misura terapeutica è la sospensione immediata del medicamento o dei medicamenti responsabili dell’agranulocitosi. Una stimolazione della granulocitopoiesi può essere ottenuta somministrando androgeni associati a corticosteroidi, come pure il carbonato di litio. Utile iniziare quanto prima un trattamento antibiotico delle infezioni locali o generalizzate (possibilmente mirato). Questo è particolarmente importante nel caso delle forme, oramai divenute le più comuni, di neutropenia conseguente alla somministrazione di chemioterapici
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citostatici. In questi casi, infatti, si ha anche una linfopenia, una menomazione delle funzioni fagocitiche e una rottura delle funzioni di difesa delle mucose come conseguenza di una mucosite. È comune dunque che le infezioni siano dovute a più di una specie batterica e perciò l’impiego empirico di antibiotici a largo spettro è giustificato. Dal 1980 si è imparato che una febbre persistente durante un trattamento antibiotico di questo tipo è dovuta a focolai criptici di infezioni fungine, principalmente da Candida albicans, che sono difficili da diagnosticare. Perciò, la pratica clinica corrente, quando si verifica febbre in un paziente neutropenico, è di assumere che un’infezione fungina può essere presente e di trattarla empiricamente. Questo viene fatto con l’impiego di amfotericina, un farmaco frequentemente associato con effetti tossici, principalmente a
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
carico dei reni. Esiste una preparazione liposomiale di questo farmaco meglio tollerata, ma è costosa. In soggetti ad alto rischio di infezioni fungine, come i pazienti sottoposti a trapianto di midollo o a trattamento con cellule staminali, anche in assenza di febbre è indicato un trattamento profilattico con un antifungino. In questi casi, buoni risultati sono stati ottenuti con fluconazolo. La terapia sostitutiva con infusione di concentrati granulocitari, da riservare ai pazienti affetti da sepsi grave e minacciosa, insensibile alla terapia antibiotica, presenta un’efficacia transitoria per la breve sopravvivenza delle cellule trasfuse (poche ore) e per la comparsa di reazioni trasfusionali causate dalla sensibilizzazione del ricevente agli antigeni granulocitari del sistema HLA del donatore.
C A P I T O L O
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47
LEUCEMIE ACUTE E MIELODISPLASIE L. CAMBA, M. BERNARDI
LEUCEMIE ACUTE Le leucemie acute (LA) sono malattie neoplastiche delle cellule staminali emopoietiche, che sono incapaci di normale differenziazione e maturazione. La crescita neoplastica le rende indipendenti dai normali meccanismi regolatori intra- ed extracellulari, impartendo una resistenza all’apoptosi, o morte programmata, e un ciclo cellulare generalmente più lento della controparte normale. È grazie a questa discrepanza tra i due cicli cellulari, normale e neoplastico, che il midollo osseo si ripopola più rapidamente con precursori emopoietici normali dopo la chemioterapia. Nella maggior parte dei casi si tratta di cloni di origine mieloide o linfoide; molto rare sono le leucemie acute totalmente indifferenziate, ovvero mancanti di marcatori linea-specifici e quelle bifenotipiche, con marcatori di differenziazione sia mieloidi che linfoidi, o miste, con popolazioni di origine diversa (Tab. 47.1). Il grado di differenziazione e di maturazione della cellula leucemica è alla base della classificazione delle leucemie acute.
A. Classificazione morfologica. Essa si basa sulla visione al microscopio ottico di un campione midollare ben strisciato e colorato. Poiché la colorazione standard con il metodo May-Grünwald-Giemsa spesso non è sufficiente a identificare il tipo di cellula, è necessario ricorrere alle colorazioni citochimiche, che evidenziano la presenza di enzimi specifici delle varie linee cellulari. Il tipo di enzima evidenziato e la sua distribuzione nel citoplasma aiutano a caratterizzare le cellule con migliore approssimazione che non la sola colorazione citologica, come illustrato in tabella 47.2. La classificazione morfologica attualmente vigente è la classificazione FAB (French-American-English) che prende in considerazione le caratteristiche morfologiche e citochimiche delle cellule, come illustrato nelle tabelle 47.3a e 47.3b. Seppure rari sono da segnalare quei casi ad aspetto altamente indifferenziato e negativi a tutte le colorazioni citochimiche, che possono essere classificati solo in base all’immunofenotipo o alle indagini biomolecolari. Tabella 47.1 - Tipi di leucemie acute in base alle cellule di origine (tra parentesi la classificazione FAB).
Classificazione La classificazione delle leucemie acute non ha solo un valore nosologico, ma è fondamentale per la scelta della terapia più appropriata. Esistono due grandi categorie: le leucemie linfatiche acute (LLA) e le leucemie acute non-linfatiche o mieloidi (LMA). Spesso l’identificazione del tipo di leucemia acuta presenta dei problemi, soprattutto nelle forme indifferenziate e in quelle bifenotipiche. Per arrivare a una diagnosi corretta è spesso necessaria l’applicazione di metodiche di laboratorio appropriate. La classificazione delle leucemie acute si basa dunque sui seguenti criteri fondamentali: • • • •
morfologici; immunologici; citogenetici; molecolari.
• Leucemia linfatica acuta – A cellule pre-pre-B, o pro-B (L1-L2) – A cellule pre-B (L1-L2) – A cellule B (L3) – A cellule T (L1-L2) • Leucemia mieloide acuta – Con minima differenziazione (M0) – Con minima maturazione (M1) – Con maturazione (M2) – Promielocitica (M3) – Mielomonocitica (M4) – Monocitica (M5) – Eritroblastica (M6) – Megacariocitica (M7) • Leucemia acuta indifferenziata • Leucemia acuta bifenotipica • Leucemia acuta mista
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tabella 47.2 - Alcune reazioni citochimiche dei blasti leucemici. ELEMENTI CELLULARI TIPICAMENTE POSITIVI
SUBSTRATO • Mieloide – Mieloperossidasi, sudan nero (MPO)
Serie granulocitaria
– Cloroacetato esterasi (specifica) (ES)
Serie granulocitaria
– Esterasi non specifica* (ENS)
Serie monocitaria
• Linfoide – PAS (Periodic Acid Schiff)
Linfoblasti
– TdT (desossiribonucleotidil-transferasi terminale) – Fosfatasi acida
COMMENTI
Granuli numerosi e grossolani nei mieloblasti Granuli piccoli e radi negli elementi monocitari Granuli di medie dimensioni e diffusi Presente anche nei megacariociti Granuli scarsi e grossolani Presente anche nei megacariociti e negli istiociti Granuli grossolani e radi Piccoli e diffusi anche in elementi monocitari Intranucleare Tipicamente un solo grosso granulo aderente alla membrana citoplasmatica
Linfoblasti Linfociti T
* -naftile-butirrato esterasi.
Tabella 47.3a - Classificazione morfologica FAB delle leucemie acute mieloidi (LMA). SOTTOTIPO
MORFOLOGIA
M0 M1 M2 M3 M3v M4 M5a
LMA, con minima differenziazione LMA, con minima maturazione LMA, con maturazione Leucemia Acuta Promielocitica (LAP) LAP, variante ipogranulata Mielomonocitica Monoblastica, senza maturazione
M5b
Monoblastica, con maturazione
M6
LMA, eritroblastica o eritroleucemia
M7
LMA, megacarioblastica
Mieloblasti non granulati ≤ 10% cellule mieloidi in maturazione > 10% cellule mieloidi in maturazione ≥ 30% mieloblasti + promielociti ≥ 20% componente monocitaria ≥ 80% elementi monocitari; ≥ 20% di questi sono monociti immaturi ≥ 80% elementi monocitari; ≥ 80% di questi sono elementi maturi ≥ 50% eritroblasti; blasti ≥ 30% della quota non eritroide Numerosi megacarioblasti anomali e micromegacariociti
MPO
ES
ESN
AUER
– + + +++ +++ +
– ± ± + + +
– – – – – +
– ± + ++ ++ ±
– –
– –
+ +
– ±
+
–
±
+
–
±
±
–
Tabella 47.3b - Classificazione morfologica FAB delle leucemie acute linfatiche (LLA). MORFOLOGIA Dimensione dei blasti Cromatina Nucleo Nucleoli Citoplasma Basofilia Vacuoli citoplasmatici
L1 Piccoli Addensata Regolare o indentato Indistinti Scarso Lieve Scarsi
B. Classificazione immunologica. La citofluorimetria a flusso impiega anticorpi monoclonali contro Ag o recettori di superficie e citoplasmatici. Con l’ausilio dei criteri morfologici e quelli immunologici è
L2
L3
Misti Fine Irregolare Presenti Abbondante Lieve Scarsi
Grandi Fine Regolare Presenti Meno abbondante Marcata Numerosi
possibile determinare il tipo cellulare in circa il 95% delle leucemie acute. La caratterizzazione immunofenotipica ha permesso di definire non solo la linea cellulare, ma anche il grado di maturazione del processo
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47 - LEUCEMIE ACUTE E MIELODISPLASIE
leucemico. Tuttavia, gli Ag espressi dalle cellule leucemiche non sempre rispecchiano la controparte normale: si può avere la coespressione anomala di recettori mieloidi e linfoidi sulla stessa cellula leucemica, verosimilmente a causa di un alterato meccanismo di differenziazione. Per esempio l’Ag CD34, il marcatore della cellula staminale pluripotente, può essere ancora presente nelle leucemie acute i cui blasti esprimono Ag di maturazione linfoide o mieloide, come CD22 o CD33. Sono frequenti i casi di LLA con marcatori mieloidi, LMA con marcatori linfoidi. Più rare sono le leucemie acute bifenotipiche e quelle indifferenziate (per assenza di marcatori di linea-specifici). Nella tabella 47.4 sono riportati alcuni dei marcatori cellulari più comunemente usati per la diagnosi di leucemia acuta. Il tipo di Ag espresso sui linfociti B identifica lo stato di differenziazione e maturazione degli elementi cellulari, più di quanto facciano i marcatori mieloidi nelle LMA. I progenitori B esprimono gli Ag immaturi non linea-specifici (in quanto espressi anche dai blasti mieloidi) HLA-DR, CD34 e TdT (l’enzima desossiribonucleotidil-transferasi terminale). Lo stato maturativo successivo, pre-pre-B, è caratterizzato dalla espressione di CD10, CD19, CD22 citoplasmatico (cCD22), dal riarrangiamento dei geni delle catene pesanti delle immunoglobuline. Il CD10, o CALLA (Common Acute Lymphoid Leukaemia Antigen), è espresso nel 90% delle LLA-B, 20% delle LLA-T (dove ha un valore prognostico negativo), nel 5% delle LMA e nel 40% dei linfomi linfoblastici oltre che in numerosi tessuti non emopoietici. I precursori T, protimociti, esprimono TdT, cCD3 e CD7, e, maturando a timociti e linfociti T, assumono CD4 e CD8 dei linfociti maturi, T4 e T8. Per quanto riguarda i marcatori mieloidi, il grado di maturazione è in genere segnalato dalla perdita degli Ag di immaturità, come il CD34 o l’HLA-DR, più che dall’espressione di Ag particolari. L’orientamento emopoietico viene definito solo in base ad Ag linea-specifici, come gli Ag eritrocitari e megacariocitari per la diagnosi di M6 (eritroleucemia) e M7 (leucemia megacariocitica). I marcatori non specifici sono presenti nelle forme molto immature sia linfoidi che mieloidi. Il CD34, un marcatore dei progenitori staminali linfoidi e mieloidi, è espresso in più del 50% delle LMA, soprattutto quelle più indifferenziate, e nel 75% delle LLA-B. L’Ag tissutale DR, che è normalmente espresso sui linfociti B, monociti e linfociti T attivati, è positivo in quasi tutte le forme di LMA, eccetto quelle più mature (M3, talvolta M2 con un alto grado di maturazione) e nella LLA-T. Infine, nel 10-20% dei casi di LLA vengono descritti marcatori di linee cellulari mieloidi, principalmente CD13 e CD33, che hanno un valore prognostico negativo. Gran parte dei blasti leucemici mieloidi esprimono il CD4 e in una percentuale variabile tra il 5 e il 40% si ha la coespressione di marcatori linfoidi (CD19, CD7, CD2, TdT). Quando Ag aberranti sono espressi sulla stessa cellula si parla di leucemie bifenotipiche; le leu-
Tabella 47.4 - Marcatori cellulari nelle leucemie acute. LINEA CELLULARE • Linfoide – Cellule B – Cellule T • Mieloide – Granulocitaria – Monocitaria – Eritroide – Megacariocitica – Ag lineaindipendenti
ANTIGENI DI MEMBRANA TdT, CD19, CD20, CD21, CD22, CD23, CD24 TdT, CD1, CD2, CD3, CD4, CD5, CD7, CD8* CD13, CD33, CD11b, CD15 CD14, CD11b Glicoforina A CD41, CD42b, CD61, CD62 CD45, CD34, CD10 (CALLA), HLA-DR
* Antigene nucleare.
Tabella 47.5 - Caratteristiche immunofenotipiche e biomolecolari della LLA. Pro-B C-ALL Pre-B B Pre-T T • Immunofenotipo – CD10 – CD19, CD20, CD22, CD24, CD79a – CD2, CD3, CD5, CD7 – HLA–DR – Citoplasmatiche – Ig di membrana
–
+
±
±
±
±
+ – + – –
± – + – –
+ – + + –
+ – + – +
– + – – –
– + – – –
• Antigeni nucleari – TdT
+
+
±
–
+
+
• Riarrangiamenti – Catene pesanti – Catene leggere – T cell receptor
+ ± –
+ + –
+ ± –
+ + –
– – +
– – +
cemie miste sono quelle con cloni cellulari misti (B + T, mieloide + linfoide). Nelle forme indifferenziate è impossibile determinare l’orientamento cellulare in base sia alla classificazione morfologica che a quella immunofenotipica. In questi casi può essere di ausilio la citogenetica e lo studio del riarrangiamento dei geni delle Ig e del TCR. Tuttavia, un certo numero di riarrangiamenti aberranti sono stati descritti. Attualmente le forme inclassificabili sono tra l’1 e il 5%. Le tabelle 47.4 e 47.5 illustrano gli anticorpi monoclonali utilizzati per la classificazione immunologica delle leucemie acute. C. Criteri citogenetici. Con tecniche appropriate, in più del 90% delle leucemie acute sono documentabili anomalie clonali del cariotipo rappresentate da alterazioni strutturali (traslocazioni, delezioni, inversioni), alterazioni numeriche in eccesso o in difetto (trisomie, monosomie) e da aneuploidia (aploidia, iperdiploidia). L’importanza di queste alterazioni è duplice: nosologica e clinica. Certi tipi di leucemia acuta sono
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tabella 47.6 - Anomalie cromosomiche nella leucemia linfoblastica acuta e nella leucemia mieloide acuta.
Pre-pre-B/pre-B
Pre-B Cellule B Cellule T
LLA Anomalia cromosomica
Oncogeni interessati
t(12;21) t(4;11) t(11;19) t(9;22) t(5;14) t(1;19) t(8;14) t(2;8) t(8;22) t(1;14) t(1;7) t(7;9) t(1;14) del 1
TEL, AML1 AF-4/MLL MLL/ELL/ENL BCR, ABL IL3/IgH E2A/PBX1 MYC/IgH Igk/MYC MYC/Ig TAL1/TCR TAL1/TCR TCR/TAN1/TAL2 RBTN/TCR TAL1
M1, M2
M2 M3 M4Eo M4 M4, M5 M5 M6 M7
LMA Anomalia cromosomica
Oncogeni interessati
+4, +11 t(6;9) * t(9;22) t(8;21) t(8;21) t(15;17) inv(16), del(16), t(16;16) +22, t(1;3) t(6;11), t(11;19) t(9;11), t(8;16) ** t(3;5) t(1;22)
?, MLL DEK, CAN ABL, BCR ETO, AML1 ETO, AML1 PML, RAR MYH11, CBF ? AF6, MLL AF9, ELL, ? MLF1, NPM ?
* Con basofilia. ** Con eritrofagocitosi.
legati a cariotipi particolari, linfoide o mieloide (si veda Tab. 47.6). Inoltre l’indagine citogenetica è utile per la valutazione della malattia minima residua e per lo studio del chimerismo cellulare nei trapianti allogenici.
Epidemiologia L’incidenza delle leucemie acute ha subito un impercettibile aumento negli ultimi 30 anni, ed è di 1-3 casi per 100.000 abitanti/anno. La distribuzione in base all’età è nettamente diversa per la LLA e la LMA. La prima è concentrata nella prima infanzia: l’80% dei pazienti con LLA ha un’età inferiore ai 15 anni. Al contrario, l’incidenza della LMA aumenta con l’età: meno del 20% dei pazienti con LMA sono bambini e più dell’80% adulti. Nelle società industrializzate vi è un’incidenza superiore, forse in relazione a fattori ambientali.
Eziologia e patogenesi Le leucemie acute possono essere primarie o secondarie. Queste ultime insorgono in pazienti esposti a fattori leucemogeni noti: radiazioni, farmaci, agenti chimici, fattori ambientali, sindromi mielodisplastiche, fattori ereditari o genetici (Tab. 47.7). La maggior parte delle forme secondarie è di tipo mieloide. Come discusso nel capitolo 39 l’ipotesi eziologica attualmente più accreditata è l’attivazione di oncogeni cellulari (c-onc) o l’inibizione di geni soppressori con conseguente disfunzione dei meccanismi di regolazione cellulare e dell’apoptosi e la tendenza all’espansione e alla colonizzazione. La maggioranza delle alterazioni cromosomiche associate a leucemia acuta avvengono in corrispondenza di sequenze oncogeniche. Le più comuni alterazio-
Tabella 47.7 - Fattori predisponenti nelle leucemie acute. FATTORI AMBIENTALI • Solventi: benzene • Radiazioni ionizzanti – Terapia radiante, 32P – Centrali nucleari, bomba atomica • Chemioterapici – Agenti alchilanti: ciclofosfamide, tiotepa, chlorambucil, melphalan • Inibitori della toposomerasi – Antracicline, etoposide • Altri farmaci – Cloramfenicolo, tazone
fenilbu-
• Sindromi preleucemiche – Mielodisplasia – Disordini mieloproliferativi – Emoglobinuria parossistica notturna
FATTORI EREDITARI • Difetti congeniti – Sindrome di Down – Sindrome di Turner – Sindrome di Klinefelter – Sindrome di Li-Fraumeni – Sindrome di Bloom – Monosomia del cromosoma 7 – Neurofibromatosi • Insufficienze midollari – Anemia di Fanconi – Discheratosi congenita – Sindrome di Schwachman Diamond – Trombocitopenia megacariocitica – Sindrome di Kostmann – Anemia aplastica familiare
ni cromosomiche, con i relativi oncogeni coinvolti, sono illustrati nella tabella 47.6. Tra queste sono da segnalare le traslocazioni t(8;21) e t(15;17), della M2 e M3 rispettivamente, la inv16 della forma eosinofila della M4 (M4e). Nell’ambito delle LLA sono patognomoniche le alterazioni della LLA-B, L3, in cui viene amplificata l’espressione del c-onc MYC; le traslocazioni t(1;19) e t(4;11) delle forme pre-B e le t(8;14) e t(11;14) delle forme T. Infine è da segnalare la t(9;22), caratteristica della leucemia mieloide cronica, ma che può ritrovarsi in circa il 10% delle leucemie acute dei bambini e nel 25% in quelle degli adulti, e che è associata a una prognosi particolarmente sfavorevole.
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Fisiopatologia e clinica Il quadro clinico è dominato dall’insufficienza midollare secondaria all’infiltrazione leucemica, dalla tendenza alla diffusione in altri organi o sistemi e da sintomi generali caratteristici di tutte le neoplasie. L’infiltrazione midollare è causa di anemia, neutropenia e piastrinopenia con sintomi clinici corrispondenti, in particolare astenia, infezioni, emorragie cutanee e mucose (emorragie cutanee, congiuntivali, epistassi, gengivorragia, ematuria, melena). La tendenza alla diffusione è prevalente nella LLA e può manifestarsi con organomegalie (adenomegalie, epatosplenomegalia), impegno mediastinico (più caratteristico delle forme T), infiltrazione meningea e testicolare. Si possono avere quindi quadri di insufficienza respiratoria, segni neurologici sia centrali che periferici, tra cui frequente è la paralisi del VII nervo cranico. La LMA può presentarsi con segni di infiltrazione cutanea e mucosa; caratteristica è l’ipertrofia gengivale nella M4 (mielomonocitica) e cutanea nella M5 (monocitica). Infine, quasi sempre presenti sono i sintomi da ipercatabolismo come febbre, astenia, anoressia, perdita di peso, sudorazioni, dolori ossei da espansione midollare. Una diatesi emorragica è molto comune ed è dovuta sia alla piastrinopenia, che a una coagulopatia da consumo o CID scatenata dal rilascio di fattori pretrombotici da parte delle cellule neoplastiche. Quest’ultima è patognomonica e particolarmente grave nella forma promielocitica di LMA (M3).
Esami di laboratorio Gli esami ematochimici rivelano generalmente la presenza di anemia e piastrinopenia, salvo nei casi di diagnosi particolarmente precoce. Vi è in genere leucocitosi, ma non è infrequente la presentazione con leucopenia; in tali casi si può avere un quadro “aleucemico”, con rari blasti in circolo. Lo striscio di sangue periferico mette in evidenza un numero variabile di blasti e scarsi granulociti neutrofili maturi (iato leucemico). Vi possono essere segni di diseritropoiesi con alterazioni morfologiche dei globuli rossi ed eritroblasti circolanti. L’aspirato midollare mostra una quota di blasti midollari ≥ 30% della quota non eritroide; la serie granulopoietica normale residua, quella eritroide e quella megacariocitaria sono generalmente ridotte e dismielopoietiche. Le colorazioni citochimiche e le indagini immunofenotipiche permetteranno una caratterizzazione dei blasti leucemici. In caso di CID si avranno le alterazioni caratteristiche (diminuzione del fibrinogeno, aumento dei prodotti di degradazione del fibrinogeno, prolungamento del PT e del PTT, chistocitosi). Inoltre si ha aumento delle LDH e iperuricemia. L’esame del liquor, che deve essere eseguito in tutti i casi di LLA, potrà rivelare la presenza di blasti.
Diagnosi Il sospetto diagnostico sorge facilmente quando il corredo sintomatologico ed ematochimico è completo:
segni e sintomi di insufficienza midollare, organomegalia, diatesi emorragica, l’esame emocromocitometrico che rivela lo stato di anemia, leucocitosi, piastrinopenia e la presenza di blasti sullo striscio del sangue periferico. L’esame morfologico del midollo osseo è indispensabile per la diagnosi e deve contenere, per definizione, una quota di blasti ≥ 30%. Sul campione midollare devono essere eseguiti gli esami immunofenotipici e citogenetici per una completa caratterizzazione del tipo di leucemia acuta. Esami strumentali, quali radiografia torace, ecografia addominale, permettono di definire l’estensione della malattia extramidollare. Come accennato sopra, una rachicentesi diagnostica è indispensabile in tutte le forme di LLA, anche quando non esistono segni neurologici di malattia.
Decorso e prognosi I fattori prognostici vanno considerati con attenzione alla diagnosi perché possono influenzare la scelta della terapia, in particolar modo nella LLA, e della strategia trapiantologica. Questi sono illustrati nelle tabelle 47.8a e b. Sono rari ora i decessi in fase diagnostica prima di intervenire con una chemioterapia e sono dovuti principalmente a emorragie, soprattutto cerebrali, a localizzazioni cerebrali in rapida espansione, a infezioni gravi e irriducibili in pazienti anziani o debilitati. Subito dopo la diagnosi è indispensabile iniziare immediatamente la chemioterapia per bloccare il processo leucemico. Durante la fase di aplasia secondaria alla chemioterapia il paziente, neutropenico e piastrinopenico, può andare incontro a episodi infettivi, soprattutto di origine batterica, meno frequentemente fungina, e a emorragie gravi che mettono a rischio la sua vita. Più in generale, la prognosi e il destino del paziente dipendono in maggior misura dalla presenza di fattori prognostici sfavorevoli già menzionati. Questi dipendono principalmente dall’età, dal tipo di leucemia, dalla presenza di alterazioni cromosomiche particolari, dal grado di leucocitosi, dall’immunofenotipo, dall’estensione del tumore, dal coinvolgimento di organi vitali. Quanto migliore è la prognosi tanto minore è il rischio di recidiva anche a distanza di anni. Purtroppo, sebbene si parli spesso di “guarigione” per i pazienti lungo-sopravviventi, la recidiva può aversi anche dopo diversi anni dalla remissione completa.
Clinica A. Leucemia linfoide acuta. Come accennato sopra la LLA è particolarmente frequente nel bambino, dove ha anche una prognosi migliore, ad eccezione della fascia di età inferiore a 1 anno e superiore ai 10. Ciò è anche in relazione al fatto che le forme dell’adulto hanno una maggiore incidenza di fattori prognostici sfavorevoli, come la traslocazione t(9;22), una minore frequenza del fenotipo CD10 o CALLA, una maggiore frequenza di forme bifenotipiche. A differenza della LMA, la LLA ha una maggiore tendenza alla diffusio-
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Tabella 47.8a - Fattori prognostici nella leucemia linfoide acuta.
Età (anni) Sesso Leucocitosi Organomegalia/mediastino Sistema nervoso centrale Citogenetica Immunofenotipo Remissione completa Altri
FAVOREVOLI
SFAVOREVOLI
2-10 Femminile < 50 × 109/l Contenuti No Iperploidia > 50 cromosomi, t(12;21), t(1;19) CD10, LLA-T (adulti), L1 Precoce (< 4 settimane) LDH nella norma, Hb >10g/dl
< 1 10-20 > 50 Maschile ≥ 50 × 109/l Massivi Sì t(9;22), t(4;11), t(11;19), del 9 e del 11 Pro-B, LLA-T (bambini), L3, bifenotipiche Tardiva (> 4 settimane) LDH aumentata, Hb < 7g/dl
Tabella 47.8b - Fattori prognostici nella leucemia mieloide acuta. FAVOREVOLI
SFAVOREVOLI
Età Tipo di leucemia Leucocitosi Citogenetica
< 45 Primaria < 25 × 109/l t(8;21), t(15;17); inv(16), +8
Tipo FAB Corpi di Auer Eosinofilia Segni di mielodisplasia Marcatori cellulari
M2, M3, M4 Presenti Presente Assenti CD34-, DR-, Tdt-, MDR1-
< 2, > 60 Secondaria > 100 × 109/l t(9;22), cariotipi complessi, anomalie di 3, 5, 7, 9, 11, -X/Y M0, M6, M7 Assenti Assente Presenti CD34+, DR+, Tdt+, bifenotipica, MDR1+
ne e quindi a causare adenomegalie, epatosplenomegalia, localizzazioni testicolari, malattia mediastinica, soprattutto nella forma a cellule T, a superare la barriera ematoencefalica e dare luogo a localizzazioni meningee, del sistema nervoso centrale e periferico. In questi casi il paziente può presentare sintomi di pressione endocranica, sintomi neurologici da compressione; più raramente neuropatia periferica da invasione delle guaine nervose o dei gangli nervosi. Queste localizzazioni, insieme a quelle testicolari, costituiscono i cosiddetti “santuari”, ovvero siti difficilmente raggiungibili dalla chemioterapia, pertanto talvolta di difficile diagnosi e difficilmente eradicabili. Anche in assenza di sintomi neurologici e di malattia documentabile a livello meningeo o del SNC alla diagnosi, alcuni pazienti, dopo aver raggiunto la remissione completa, possono avere recidive solamente in questi distretti pur con un midollo ancora libero da malattia. Particolarmente sfavorevoli sono le forme con iperleucocitosi, malattia bulky, ovvero con spiccata organomegalia e impegno mediastinico. Molto sfavorevole è la LLA-B o L3, particolarmente frequente nel bambino, caratterizzata dalla caratteristica morfologia “similBurkitt”, dalle tipiche alterazioni citogenetiche, marcata adenomegalia e splenomegalia e dalla scarsa risposta alla terapia. B. Leucemia mieloide acuta. In generale le forme più indifferenziate, M0 e M1 hanno una prognosi più sfavorevole di quelle più differenziate verso la linea granulopoietica, M2, M3 e M4. Particolarmente infausta è la prognosi della M6 e della M7, delle forme indifferenziate e di quelle bifenotipiche.
1. LMA-M2. Costituisce il 30% dei casi di LMA. Ha una quota di blasti mieloidi < 89% ed è associata, in circa il 40% dei casi, alla traslocazione t(8;21) e talvolta a una componente eosinofila, M2Eo, o basofila, M2Baso. Il maggiore grado di maturazione impartisce alla M2 una prognosi più favorevole. 2. LMA-M3, leucemia promielocitica. È caratterizzata, oltre che dalla specifica traslocazione t(15;17), dall’eccesso di promielociti patologici infarciti di granuli abbondanti che riempiono il citoplasma e si condensano spesso a formare corpi di Auer, che talvolta possono infarcire l’intero citoplasma della cellula. Accanto a questa forma ipergranulare esiste una variante ipo o microgranulare, che ha le stesse caratteristiche biologiche e cliniche della forma classica. Le caratteristiche più salienti della M3 sono la presenza di una grave coagulopatia da consumo, dovuta a ipercoagulabilità e a iperfibrinolisi, e la tendenza a presentarsi con leucopenia piuttosto che con blastosi periferica. La coagulopatia, assimilabile ad una coagulazione intravascolare disseminata, è dovuta alle proprietà protrombotiche dei granuli che agiscono come fattori tissutali, innescando i meccanismi della coagulazione, e alla presenza di enzimi ad azione fibrinolitica, come le elastasi, di cui i blasti abbondano. Ne consegue la caratteristica sindrome clinica della coagulazione intravascolare disseminata con formazione di microtrombi, rapido consumo di fattori della coagulazione, di fibrinogeno e di piastrine e grave sindrome emorragica. Fino a qualche anno fa tale sindrome era causa di elevata mortalità durante la fase di induzione, ma quelli che superavano questa fase iniziale avevano una buona sopravvivenza. Da qualche anno, dall’avvento, cioè, dell’a-
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cido trans-retinoico capace di indurre la maturazione dei promielociti leucemici, la mortalità secondaria alla coagulopatia si è notevolmente ridotta. Tuttavia la prognosi rimane più sfavorevole nelle forme con iperleucocitosi. La M3 rappresenta il 5-10% delle LMA. 3. LMA-M4, mielo-monocitica. Si presenta spesso con adenomegalia e spenomegalia, infiltrazioni cutanee e mucose, in particolare della mucosa gengivale, causando ipertrofia gengivale. Non di rado vi è una tubulopatia e ipopotassiemia causata da eccesso di produzione ed escrezione di lisozima da parte dei blasti leucemici. Il marcatore citogenetico inv16q è patognomonico della variante eosinofila della M4, Eo, che ha una prognosi più favorevole. Costituisce il 15% delle LMA. 4. LMA-M5, monocitica. Questa può manifestarsi in due forme: con blasti immaturi, M5a (monoblastica), o con elementi più maturi, M5b (monocitica): vedi tabella 47.3a. La M5 tende a invadere altri tessuti, tra cui la cute, le mucose, il SNC. Una variante con basofilia è associata alla traslocazione t(8;16). Costituisce circa il 15% delle leucemie acute.
•
•
•
5. LMA-M6, eritroblastica. Numerosi casi derivano da una trasformazione leucemica di una sindrome mielodisplasica (SMD). La prognosi è pertanto molto sfavorevole. Per la diagnosi è necessario che una quota ≥ 50% della cellularità sia rappresentata da elementi eritroidi. Costituisce il 3-4% delle leucemie acute. 6. LMA-M7, megacarioblastica. Può essere associata a spiccata e rapida produzione di fibrosi midollare e a splenomegalia marcata, tanto che in passato veniva spesso denominata “mielofibrosi acuta”. Senza l’ausilio dei marcatori di superficie la diagnosi può essere difficile, dato l’aspetto spesso “linfoide” e talvolta eritroide dei blasti. Rappresenta il 5% circa delle LMA.
Cenni di terapia
•
ma ancora di incerto valore nella LMA, della durata di 18-24 mesi, che prevede cicli mensili di reinduzione (vincristina, citarabina), somministrazione giornaliera di analoghi delle purine (6-mercaptopurina) e settimanali di metotressato; nei casi a prognosi particolarmente sfavorevole e nelle recidive si ricorre al trapianto di midollo allogenico se un donatore HLA identico, familiare o volontario, è disponibile; se questo non è disponibile, si può ricorrere al trapianto autologo; un cenno a parte merita il trattamento della LMA-M3 o promielocitica, la cui prognosi è molto migliorata con l’uso dell’acido tutto-transretinoico o ATRA (All-transretinoic Acid), che grazie alle sue proprietà differenzianti sui promielociti leucemici, ha quasi del tutto eliminato il problema della coagulopatia. Tuttavia questa sostanza va usata contemporaneamente alla chemioterapia, sia per l’instaurarsi di una resistenza all’ATRA, sia perché la differenziazione e maturazione della massa di blasti può provocare una sindrome da ATRA (iperleucocitosi, infiltrati polmonari, tumor cerebri); la terapia di supporto è della massima importanza per garantire il buon esito della terapia di induzione e di quella trapiantologica con un’attenta profilassi e la prevenzione delle infezioni e delle emorragie. Alla prima contribuiscono il ricovero in ambienti costruiti ad hoc, l’adesione a protocolli di terapia antibiotica efficaci e approvati, una sorveglianza microbiologica molto stretta. Le emorragie possono essere evitate con controlli giornalieri dell’emocromo e con un buon supporto trasfusionale che consenta di garantire trasfusioni di piastrine non appena queste scendono al di sotto di 20 × 109/l; è comunque indispensabile arruolare i pazienti con leucemia acuta in protocolli terapeutici approvati da commissioni di esperti su scala regionale, nazionale o internazionale. Ciò garantisce un’uniformità di comportamento e la possibilità di valutare le combinazioni e le procedure terapeutiche associate a più alte percentuali di remissione completa.
Come accennato sopra, la diagnosi è essenziale per la scelta del protocollo terapeutico più appropriato. La terapia della leucemia acuta si divide generalmente in più fasi:
SINDROMI MIELODISPLASTICHE
• una fase di induzione, con lo scopo di indurre la remissione completa midollare, definita come una quota di blasti midollari < 5%, neutrofili ≥ 1,5 × 109 ×/l e piastrine ≥ 100 × 109 ×/l. I farmaci più usati sono il prednisone, la vincristina e l’aspariginasi, per la LLA e la citarabina e un’antraciclina per la LMA; • una fase di consolidamento, indispensabile per prolungare il periodo di remissione completa e che prevede l’uso di uno o più farmaci non utilizzati nella prima fase o gli stessi farmaci a dosi più alte: citarabina a dosi medio-alte, ciclofosfamide, etoposide, antracicline; • tutti i casi di LLA devono ricevere chemioterapia intrarachide e radioterapia sull’encefalo (sostituita in alcuni protocolli da terapia ad alte dosi che superano la barriera ematoencefalica come metotressato e citarabina) per la profilassi delle localizzazioni meningee; • una fase di mantenimento indispensabile nella LLA,
Le sindromi mielodisplastiche (SMD) sono un gruppo eterogeneo di malattie clonali della CSE caratterizzate da 1) alterazioni morfologiche, 2) emaopoiesi inefficace, 3) un alto rischio di trasformazione in leucemia mieloide acuta. Le alterazioni morfologiche sono alla base della classificazione FAB (French-American-English) delle SMD che ha permesso di assegnare a queste entità, apparentemente eterogenee, una base biologica comune. Questa è rappresentata tipicamente dall’inefficacia sia biologica che clinica della produzione cellulare, ovvero un midollo normo o ipercellulato di fronte a citopenia periferica: anemia, leucopenia, piastrinopenia. Non è inappropriata una delle denominazioni comunemente usata negli anni precedenti di “sindromi preleucemiche”, data l’alta percentuale di pazienti che vanno incontro a leucemia acuta.
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Tabella 47.9 - Le sindromi mielodisplastiche secondo la classificazione FAB. CLASSIFICAZIONE FAB
Midollo osseo
AR ARSA AREB LMMC AREBT
<5 <5 6-20 < 20 21-30
BLASTI (%) Sangue periferico <1 <1 <5 <5 ≥ 5; c. di Auer
SIDEROBLASTI AD ANELLO
MONOCITI
< 15 ≥ 15 – – –
– – – > 1 × 109/l –
AR = anemia refrattaria. ARSA = anemia sideroblastica. AREB = AR con eccesso di blasti. LLMC = leucemia mielodisplastica cronica. AREBT = AREB in trasformazione.
Classificazione La classificazione universalmente accettata è quella FAB che si basa sulla quota di blasti nell’aspirato midollare e nel sangue periferico, come illustrato in tabella 47.9. Tutte le condizioni con blasti midollari ≥ 30% sono da definirsi LMA; tutte quelle con blasti midollari < 30% sono mielodisplasie (a parte i disordini mieloproliferativi in trasformazione leucemica). Insito nella classificazione è dunque il concetto di progressione della malattia: infatti prima che una AR (anemia refrattaria) si trasformi in leucemia acuta, vi è generalmente un periodo di durata variabile, da mesi ad anni, in cui il quadro ematologico passa attraverso le fasi di AREB e AREBT. Un altro punto da considerare è l’esistenza di forme cosiddette “overlapping”, cioè a ponte tra le sindromi mielodisplastiche classicamente intese e le sindromi mieloproliferative. Queste forme vengono definite malattie mielodisplastiche/mieloproliferative perché alla presentazione sono caratterizzate da aspetti sia displastici sia proliferativi. Appartengono a questa categoria la leucemia mielomonocitica cronica, la leucemia mieloide cronica atipica e la variante giovanile di leucemia mielomonocitica. Segue una breve descrizione delle diverse forme di sindromi mielodisplastiche. A. Anemia refrattaria (AR). Citopenia periferica di almeno una linea emopoietica; midollo normo-ipercellulato con alterazioni displastiche; blasti midollari e periferici < 5 e 1% rispettivamente. Il termine di anemia refrattaria può essere inappropriato se la citopenia non riguarda i globuli rossi e non vi è anemia. Tuttavia è ancora la terminologia corrente. B. AR con sideroblasti ad anello (ARSA). La citopenia è in genere rappresentata dall’anemia. La morfologia del midollo osseo e del sangue periferico è simile alla AR, ma una quota ≥ 15% di tutte le cellule nucleate è rappresentata da sideroblasti ad anelli (eritroblasti con una distribuzione perinucleare dei granuli di emosiderina). C. AR con eccesso di blasti (AREB). Citopenia di almeno due linee cellulari; normo-ipercellularità del midollo con alterazioni displastiche di tutte le serie emopoietiche; blasti midollari compresi tra 5 e 20%; blasti periferici < 5%.
D. Leucemia mielomonocitica cronica. Monocitosi periferica (monociti > 1 × 109/l); blasti midollari e periferici < 20 e 5% rispettivamente. Questa entità è spesso accompagnata da leucocitosi e splenomegalia. E. AREB in trasformazione (AREBT). Quadro ematologico simile alla AREB, ma con blasti midollari e periferici rispettivamente > al 20 e al 5% e presenza di corpi di Auer.
Epidemiologia Le SMD sono una patologia prevalentemente dell’anziano. L’incidenza aumenta quasi esponenzialmente dopo i 50 anni, raggiungendo un picco tra i 70 e gli 80 anni: circa 0,5 e > 50/100.000/anno rispettivamente prima dei 50 anni e dopo i 70. Rari casi sono descritti in età infantile e giovanile. Spesso viene descritta la presenza in vari membri familiari nelle famiglie di pazienti più giovani. Il rapporto maschio/femmina è di circa 1,5:1.
Eziologia e patogenesi Che le mielodisplasie siano delle sindromi preleucemiche è dimostrato 1) dal dato clinico della alta percentuale di pazienti che sviluppano una leucemia acuta dopo un certo numero di mesi o anni dalla diagnosi di SMD; 2) dal dato epidemiologico che numerosi fattori di rischio che predispongono alla LMA sono presenti nella storia clinica dei pazienti con SMD; 3) dalla presenza di alterazioni citogenetiche in comune con le leucemie acute, principalmente mieloidi; 4) dagli studi in vitro sulla clonalità (si veda anche il capitolo 48 sui disordini mieloproliferativi) e sulle modalità di proliferazione in vitro delle colture di midolli di pazienti con sindrome mielodisplastica. Tali studi hanno dimostrato l’affinità dei cloni displastici con quelli della LMA consistente in una differenziazione e maturazione difettose. Analogamente a quanto accade nelle leucemie acute, le SDM possono, dunque, essere primarie e secondarie, ovvero associate agli stessi fattori leucemogeni ambientali e genetici considerati per le leucemie acute e illustrati in tabella 47.7. A quelli menzionati per le LMA, sono da aggiungere la terapia con agenti alchilanti, re-
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47 - LEUCEMIE ACUTE E MIELODISPLASIE
Tabella 47.10 - Alcuni oncogeni e oncoinibitori nelle sindromi mielodisplastiche.
N-RAS H-RAS K-RAS FMS p53 IRF-1
CROMOSOMA
PROTEINA (KD)
ATTIVITÀ
FUNZIONE
LOCALIZZAZIONE
1p 11p 12p 5q 17p 5q
21 21 21 140 53 40
GTP-asi GTP-asi GTP-asi Tirosina-chinasi – Attivatore della trascrizione
Trasduzione del segnale Trasduzione del segnale Trasduzione del segnale Recettore del M-CSF Soppressore tumorale Soppressore tumorale
Citoplasma Citoplasma Citoplasma Membrana Nucleo Nucleo
sponsabile del maggior numero di SMD secondarie, la terapia radiante, il fosforo radioattivo 32P usato per la policitemia rubra vera e per la trombocitemia essenziale. Le forme secondarie a inibitori delle topoisomerasi, come le antracicline e l’epipodofillotossina, hanno in genere una durata più breve, evolvendo più rapidamente verso una LMA, e hanno anomalie cromosomiche generalmente diverse: monosomie dei cromosomi 5 e 7, trisomia dell’8, delezioni dell’11 e del 17. In alcuni pazienti vi può essere una predisposizione genetica: un aumentato rischio è stato documentato in individui portatori di anomalie del gene (polimorfo) della glutationetrasferasi con conseguente ridotta capacità detossificante nei confronti degli agenti cancerogeni. In uno studio, circa il 50% dei pazienti con SMD studiati hanno mostrato una ridotta espressione di tale gene e dell’attività dell’enzima. Infine in circa il 40% dei pazienti si riscontrano alterazioni del gruppo di c-onc RAS, come illustrato in tabella 47.10.
Fisiopatologia e clinica Come già accennato, la caratteristica essenziale delle SMD è l’emopoiesi inefficace, ovvero la asincronia tra proliferazione e differenziazione. Da qui la morte prematura, verosimilmente dovuta a un’accelerata apoptosi, dei precursori emopoietici nel midollo osseo ancora prima di raggiungere il sangue periferico. Come già accennato, test clonogenici in vitro hanno messo in evidenza una difettosa e limitata capacità differenziativa e proliferativa dei precursori emopoietici orientati sia in senso mieloide, che eritroide, che megacariocitari. Fa eccezione la LMMC, i cui progenitori mostrano una spiccata sensibilità in vitro ai fattori di crescita, in particolare il G-CSF (Granulocyte-Colony Stimulating Factor). Nella ARSA è prevalente la diseritropoiesi accanto ad alterazioni del metabolismo dell’eme mitocondriale, che sembra essere in relazione ai depositi di ferro (siderosomi) attorno al nucleo, dove sono situati i motocondri. Spesso nella ARSA, e meno frequentemente nelle altre forme di sindrome mielodisplastica, la diseritropoiesi è associata all’aumento delle Hb F e A2 o ad una diminuzione della sintesi delle catene globiniche, dando dei quadri similtalassemici. Anche la funzionalità dei neutrofili e delle piastrine possono essere compromesse nelle SMD: caratteristica è la diminuzione della fosfatasi alcalina dei neutrofili (NAP) (impropriamente chiamata fosfatasi alcalina leucocitaria; LAP), una diminuzione della funzione fagocitaria e della motilità leucocitaria. Alterazioni
funzionali simili a quelle delle sindromi mieloproliferative possono predisporre ad anomalie della funzionalità piastrinica e a una diatesi emorragica spesso anche con conte normali. La tabella 47.11 riassume alcune di queste anomalie funzionali. Il paziente può essere asintomatico alla diagnosi, che spesso avviene per caso in occasione di esami di controllo: vi può essere una lieve anemia o una lieve leucopenia e piastrinopenia. Col passare del tempo, pur rimanendo invariati i blasti midollari, può accentuarsi la citopenia e insorgono i sintomi dell’anemia, della leucopenia, della piastrinopenia, come già illustrato a proposito della leucemia acuta. Similmente a quanto accade nelle sindromi mieloproliferative, la normalità numerica non va sempre di pari passo con la normalità funzionale. Come già segnalato, vi possono essere anomalie funzionali dei neutrofili e delle piastrine, che possono predisporre il paziente a rischio di infezione ed emorragie, malgrado la normalità delle conte. Un certo numero di pazienti va incontro a manifestazioni paraneoplastiche come fenomeni autoimmuni: vasculiti, artriti, pericardite, pleurite, miosite e polineuropatia, che rispondono alla terapia steroidea. Generalmente l’esame obiettivo non rileva organomegalia salvo nelle LMMC e nella mielodisplasia con mielofibrosi, che si accompagnano a splenomegalia. Vi possono infine essere manifestazioni cutanee come localizzazioni cutanee di tessuto emopoietico ectopico, sindrome di Sweet (si veda Cap. 48), pioderma gangrenoso. Tabella 47.11 - Anomalie funzionali nelle sindromi mielodisplastiche. ANOMALIA
ESAMI DI LABORATORIO ALTERATI
Eritropoiesi inefficace
Macrocitosi, morfologia eritrocitaria, ferrocinetica
Difetto di sintesi della globinica
↑HbF, HbA2, HbH acquisita
Ridotte funzioni granulocitarie
NAP, attività fagocitaria, batterica, della mobilità
Ridotta funzionalità piastrinica
Ridotta aggregazione alla adrenalina e al collageno
Ridotta funzione del sistema immune
Riduzione delle cellule CD4 e NK Gammopatia poli e monoclonale Presenza di autoanticorpi
NAP = fosfatasi alcalina dei neutrofili.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Esami di laboratorio Alterazioni dell’emocromo sono il primo segnale di una sindrome mielodisplastica: citopenie periferiche, alterazioni morfologiche dei globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. I globuli rossi mostrano in genere macrocitosi con aniso-poichilocitosi, forme bizzarre, punteggiature basofile, residui nucleari (corpi di Howell-Jolly), eritroblasti ortocromatici. I granulociti neutrofili sono spesso ipogranulati, o con una distribuzione disomogenea dei granuli citoplasmatici, presentano anomalie nucleari, come iposegmentazione, nuclei bilobati (pseudo-Pelger). Le piastrine possono mostrare anisocitosi e diminuzione dei granuli piastrinici. L’esame del midollo è essenziale per la diagnosi. La cellularità è tipicamente aumentata, raramente normale, eccezionalmente diminuita. La serie eritroide mostra alterazioni citoplasmatiche (punteggiature basofile, difetti di emoglobinizzazione o vacuoli) e nucleari (segmentazione, frammentazione, multinuclearità, ponti internucleari). La serie granulocitaria è in genere ipogranulata, soprattutto a livello dei mielociti, che talvolta possono essere del tutto privi di granuli tanto da renderne difficile l’identificazione; inoltre si ha arresto maturativo a livello degli elementi intermedi (promielociti e mielociti), vi possono essere metamielociti giganti o con nucleo ad anello. Infine i megacariociti possono essere aumentati e mostrare ipogranularità, difetti di maturazione, ridotte dimensioni (micro-megacariociti), tendenza alla frammentazione nucleare. Tutte le serie possono presentare asincronia maturativa tra nucleo e citoplasma, forme nucleari bizzarre, irregolarità dei contorni cellulari. La biopsia ossea mostra i caratteristici ALIP (Abnormal Localization of Immature Precursors), ovvero gruppi di precursori immaturi posti centralmente piuttosto che sulla superficie endostale. Nella ARSA saranno evidenti i depositi di ferro perinucleare che occupano i due terzi della circonferenza. L’esame del cariotipo può essere dirimente per la diagnosi, quando questa si basa su fini alterazioni morfologiche in un soggetto che si presenta con modesta citopenia. Le alterazioni citogenetiche più comuni sono illustrate in tabella 47.12. Lo studio dei cromosomi ha inoltre permesso di individuare dei gruppi definiti dal punto di vista clinico: la sindrome 5q– (trombocitosi, macrocitosi, sesso prevalentemente femminile) e la 20q– con
Tabella 47.12 - Anomalie cromosomiche e molecolari nelle SMD. • Alterazioni cromosomiche – Monosomie 5, 7, 17, Y – Delezioni 5q, 7q, 11q, 12p, 20q – Duplicazioni 8, 11, 21 – Traslocazioni t(3;3), t(3;21), t(1;7), t(5;17), t(5;12), t(7;17) – Altre iso 17, inv3 cariotipo complesso (≥ 3 anomalie) • Alterazioni molecolari
RAS, FMS, p53
prognosi particolarmente favorevole; 17p– con neutrofili con nucleo bilobato; monosomia 7 con disfunzione dei neutrofili e prognosi più infausta; 3q– con trombocitosi e megacariociti displastici. Altre anomalie ematochimiche sono espressione dell’emopoiesi inefficace e ipercellularità midollare: aumento della LDH, iperuricemia.
Decorso e prognosi Come accennato sopra la trasformazione leucemica è parte della storia naturale della malattia. Il periodo di tempo tra la diagnosi e l’evoluzione leucemica dipende principalmente dalla quota dei blasti midollari (ovvero della classificazione FAB), dal numero delle citopenie periferiche e dalle alterazioni cromosomiche. Questi tre fattori sono alla base dell’IPSS (International Prognostic Score System) illustrato in tabella 47.13. La sopravvivenza va da alcuni mesi nelle forme AREB e AREBT ad alcuni anni nella ARSA e nella AR con alterazioni citogenetiche particolarmente favorevoli, come la sindrome 5q-, o le delezioni del cromosoma 20. Più del 40% dei pazienti, comunque, non arriva alla trasformazione leucemica ma decede prima di questo evento in seguito alle complicanze infettive ed emorragiche dell’insufficienza midollare, dell’emosiderosi trasfusionale (insufficienza epatica, insufficienza cardiaca) o per altre cause, spesso legate all’età avanzata.
Diagnosi Il sospetto diagnostico nasce ogni qualvolta un paziente si presenta con una citopenia periferica persistente di una o più linee cellulari, oppure una macrocitosi inspiegabile di fronte a normalità dei livelli di vitamina B12, acido folico, funzione tiroidea, assenza di etilismo. Tabella 47.13 - Criteri prognostici nelle mielodisplasie IPSS (International Prognostic score System). VALORE 0
0,5
1,0
1,5
2,0
Blasti <5 5-10 11-20 21-30 midollari Prognosi del Fausta (1) Intermedia (2) Infausta (3) cariotipo Citopenie 0-1 2-3
IPSS SCORE Basso Intermedio basso Intermedio alto Alto
VALORE
SOPRAVVIVENZA MEDIANA (ANNI)
0 0,5/1,0 1,5/2,0 ≥ 2,5
5,7 3,5 1,2 0,4
(1) Cariotipo normale, 5q-, 20q-, -Y. (2) Tutte quelle non incluse in (1) e (3). (3) Anomalie del cromosoma 7 e anomalie complesse.
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47 - LEUCEMIE ACUTE E MIELODISPLASIE
Un’anamnesi positiva per pregressa radio-chemioterapia rafforza il sospetto di mielodisplasia. Un esame del midollo osseo e del cariotipo confermeranno il sospetto diagnostico. È opportuno tener presente che alcune malattie possono presentare segni midollari di dismielopoiesi a carico di una o più linee emopoietiche, come malattie autoimmuni, malattie neoplastiche, AIDS, infezioni croniche, tubercolosi. Alterazioni morfologiche simili a quelle delle SMD sono comuni, inoltre, in pazienti sottoposti a chemioterapia o che assumono farmaci o sostanze che possono interferire anche temporaneamente con la maturazione dei progenitori emopoietici (antibiotici, antiflogistici, alcool), nelle carenze di vitamina B12 e folati. Nei rari casi di SMD con midollo ipocellulato la diagnosi differenziale si pone con l’anemia aplastica; la presenza di alterazioni citogenetiche saranno dirimenti per la diagnosi. Infine i disordini mieloproliferativi cronici atipici sono spesso caratterizzati da dismielopoiesi spiccata, come nella leucemia neutrofilica cronica, la leucemia mieloide cronica giovanile, le LMC atipiche BCR-ABL negative. Tuttavia il carattere “proliferativo” della malattia farebbe escludere una SMD.
Cenni di terapia L’approccio è conservativo nei pazienti anziani, soprattutto se portatori di altre patologie. Tale approccio prevede la correzione dell’anemia con un regime trasfusionale regolare tale da mantenere un valore di Hb ≥ 9 g/l soprattutto nei pazienti cardiopatici. Inoltre è opportuno somministrare farmaci ferro-chelanti (deferrioxamina, Desferal) per ritardare il più possibile la emosiderosi trasfusionale. Fa parte di un approccio conservativo l’aggiunta di corticosteroidi a basso dosaggio e derivati del testosterone, che in rari casi possono ridurre il fabbisogno trasfusionale e l’uso di agenti differenzianti, quali colecalciferolo, l’acido cis-retinoico, la citarabina a basse dosi. Nei pazienti più giovani si preferisce assumere un atteggiamento più aggressivo nelle forme di AREB o AREBT utilizzando terapia antileucemica, soprattutto se appartenenti a un gruppo prognostico particolarmente sfavorevole. Se il paziente ha un’età inferiore a 55 anni e ha un donatore consanguineo HLA-compatibile, il trapianto di cellule staminali emopoietiche midollari o periferiche è attualmente la terapia di elezione.
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C A P I T O L O
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48
DISORDINI MIELOPROLIFERATIVI E SINDROME IPEREOSINOFILA L. CAMBA, E. MORRA, E. PUNGOLINO
INTRODUZIONE (*) I disordini mieloproliferativi (DMP) sono malattie clonali originate da una cellula staminale emopoietica pluripotente: l’espansione cellulare che ne risulta può pertanto interessare più di una linea emopoietica. Tuttavia, in ciascun tipo di disordine mieloproliferativo vi è una linea prevalentemente coinvolta che lo caratterizza: la linea granulocitaria nella leucemia mieloide cronica; le cellule eritroidi nella policitemia rubra vera; la linea megacariocitaria nella trombocitemia essenziale; i megacariociti e un’espansione policlonale (reattiva) dei fibroblasti nella mielofibrosi idiopatica. Poiché il difetto primario interessa la cellula staminale emopoietica pluripotente, si riscontrano caratteristiche cliniche ed ematologiche in comune, presentazioni ibride o forme di transizione tra una forma e un’altra. Così, è possibile riscontrare una spiccata trombocitosi nella leucemia mieloide cronica e nella policitemia rubra vera, una spiccata fibrosi midollare nella leucemia mieloide cronica, la presenza di elementi immaturi nel sangue periferico (caratteristica essenziale per la diagnosi di leucemia mieloide cronica), nella mielofibrosi idiopatica. Inoltre è possibile che un disordine mieloproliferativo si trasformi in un altro: particolarmente (*) L. Camba.
frequente è la transizione da policitemia rubra vera e trombocitemia essenziale a mielofibrosi idiopatica. Oltre ai disordini mieloproliferativi sopra citati e che costituiscono l’argomento di questo capitolo, ve ne sono altri più rari e di incerto inquadramento nosologico, come la leucemia neutrofilica cronica, la leucemia eosinofilica cronica, la mastocitosi sistemica, la leucemia mielomonocitica cronica con impronta mieloproliferativa, la mielodisplasia con mielofibrosi, che per la loro rarità non vengono qui trattati. Alcuni dati epidemiologici sono illustrati in tabella 48.1.
Clonalità In tutti i disordini mieloproliferativi è stata dimostrata la clonalità della crescita neoplastica grazie all’identificazione di alterazioni metaboliche, citogenetiche e biomolecolari non solo nella popolazione prevalentemente anomala ma anche nelle altre linee emopoietiche apparentemente normali. Per esempio, lo studio degli isoenzimi della G-6-PD in pazienti donne ha rivelato la presenza dello stesso isotipo nelle linee granulocitaria, eritrocitaria, megacariocitaria e spesso linfocitarie sia nelle cellule midollari fresche sia nelle colture cellulari da midollo. Più recentemente, allo stesso risultato si è arrivati con metodiche di citogenetica, con lo studio del polimorfismo di geni legati al cromosoma X (fosfogli-
Tabella 48.1 - Epidemiologia dei disordini mieloproliferativi. ETÀ MEDIANA
M:F
INCIDENZA SOPRAVVIVENZA 100.000/ANNO MEDIANA (ANNI)
Leucemia mieloide cronica
65
1,2:1
1-2
3-5
Policitemia rubra vera
60
2:1
0,2-5
10-13
Mielofibrosi idiopatica Trombocitemia essenziale
60 60
1:1,3
<1 <1
5 (1-10) 12-15
TRASFORMAZIONE
CAUSE PREVALENTI DI MORTE
Leucemia acuta Leucemia acuta (crisi blastica) Mielofibrosi idiopatica, Trombosi leucemia acuta Leucemia acuta Insufficienza midollare Mielofibrosi essenziale, Trombosi, emorragia leucemia acuta
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
cerochinasi, ipoxantina-fosforibosil-transferasi), con la metodica Fluorescence in situ Hybridisation, che utilizza sonde di DNA fluorescenti. Tali metodiche hanno consentito di documentare la stessa anomalia citogenetica o molecolare in più linee emopoietiche derivate dal midollo e dal sangue periferico dello stesso paziente. Questi risultati hanno perciò dimostrato non solo la clonalità di questi disordini ma anche l’origine da una comune cellula staminale emopoietica pluripotente che si è poi differenziata nelle altre linee emopoietiche.
Fisiopatologia dei disordini mieloproliferativi Numerosi sono gli aspetti clinici ed ematochimici in comune tra i vari disordini mieloproliferativi (riassunti in tabella 48.1). Essi sono essenzialmente dovuti al grado di espansione cellulare e alle alterazioni funzionali del clone neoplastico. Tra i primi sono da segnalare sintomi clinici da ipercatabolismo cellulare (febbre, astenia, anoressia, perdita di peso); iperuricemia (artropatia gottosa); iperviscosità da aumento della massa eritrocitaria e da iperleucocitosi e leucostasi (disturbi neurologici, disturbi circolatori e ischemici); prurito (probabilmente in relazione all’aumento dei granulociti basofili); dolori ossei da espansione midollare; lesioni cutanee (localizzazioni di malattia, ulcere trofiche, sindrome di Sweet) (1). Le alterazioni ematochimiche sono dovute alla rapida proliferazione cellulare: iperuricemia (accelerato catabolismo del DNA), aumento della vitamina B12 (aumento delle transcobalamine I e III di origine granulo-monocitaria), aumento della lattico deidrogenasi, riduzione della Neutrophil Alkaline Phosphatase nella leucemia mieloide cronica. Le alterazioni funzionali più rilevanti dal punto di vista clinico sono però quelle a carico delle piastrine, che contribuiscono in misura diversa allo stato di trombofilia e alla diatesi emorragica caratteristiche dei disordini mieloproliferativi. Le alterazioni piastriniche riguardano la morfologia (anisocitosi, ipogranularità, presenza di inclusioni); la membrana (riduzione di proteine e recettori superficiali); i granuli (riduzione del contenuto dei granuli e ); il metabolismo (alterazioni delle lipo-ossigenasi); l’attività procoagulante (aumentata o diminuita); l’aggregazione (aggregazione spontanea in vitro, alterata risposta agli agenti aggreganti). Ne risultano disturbi emorragici ma prevalentemente disturbi trombotici che talvolta possono coesistere nello stesso paziente. L’occlusione di vasi venosi e arteriosi di maggiore calibro dà origine a sindromi cliniche diverse secondo il distretto colpito: miocardio (ischemia, infarto del miocardio), sistema nervoso centrale e periferico (paresi, fenomeni epilettici, parestesie), vasi retinici (difetti visivi), distretto splancnico (coliche addominali,
sindrome di Budd-Chiari, priapismo), arti inferiori e superiori (trombosi venose e arteriose profonde, cancrene, eritromelalgia), distretto placentare (aborti spontanei). Frequenti, in particolare nella trombocitemia essenziale, sono gli episodi di eritromelalgia, dovuti a infarcimento dei capillari da parte di globuli rossi e piastrine, con conseguente ischemia e ipossia del distretto colpito. Gli arti, soprattutto quelli inferiori, presentano un eritema spesso a chiazze. Vi è, in genere, sensazione di bruciore e dolore, acrocianosi e, seppur raramente, fenomeni di cancrena. Preparati istologici mostrano rigonfiamento endoteliale, proliferazione delle strutture fibromuscolari dell’intima e occlusione vascolare. Ci limiteremo alla trattazione dei principali disordini mieloproliferativi: la leucemia mieloide cronica, la policitemia rubra vera, la mielofibrosi idiopatica e la trombocitemia essenziale.
LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA (*) La leucemia mieloide cronica è una sindrome mieloproliferativa originata dall’espansione clonale di una cellula progenitrice emopoietica pluripotente, ma ancora con capacità proliferative e differenziative. L’espansione riguarda in primo luogo la serie granulocitaria, con accumulo di elementi mieloidi sia nel sangue periferico che nel midollo, ma può interessare anche la serie megacariocitaria e dare trombocitosi importante: in questi casi è fondamentale la conoscenza del marcatore caratteristico della leucemia mieloide cronica, il cromosoma Filadelfia (Ph, si veda oltre). Alcuni dati epidemiologici sono riportati in tabella 48.1.
Eziopatogenesi Il cromosoma Filadelfia (Fig. 48.1) è il prodotto di una traslocazione reciproca bilanciata tra i segmenti 5’ terminali del braccio lungo dei cromosomi 9 e 22, t(9;22)(q34; q11). Ne risultano due cromosomi atipici:
q11
Normale 22 q34
Normale 9
Derivato 9
Figura 48.1 - Il cromosoma Filadelfia. (1) Dermatite neutrofilica febbrile, presente anche nelle leucemie acute e nelle sindromi mielodisplastiche; ne esiste anche una forma idiopatica.
(*) E. Morra, E. Pungolino.
Derivato 22
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48 - DISORDINI MIELOPROLIFERATIVI E SINDROME IPEREOSINOFILA
un cromosoma 9 più lungo e un cromosoma 22 più corto che è appunto il cromosoma Filadelfia. Sul cromosoma 9 la rottura avviene in corrispondenza del proto-oncogene abelson (c-ABL), con perdita di 26 codoni. Sul cromosoma 22 il punto di rottura varia all’interno di una regione del DNA chiamata Breakpoint Cluster Region (BCR). Il gene chimerico BCR/ABL codifica per una proteina del peso molecolare di 210 kD, p210, che si accompagna alla forma classica di leucemia mieloide cronica. Il gene c-ABL fornisce la sua sequenza a partire dal 2° esone (a2), mentre il BCR dal 2° (b2) o dal 3° (b3) esone che danno luogo ai segmenti ibridi di mRNA b2a2 o b3a2. In alcuni casi un riarrangiamento differente può dar luogo a una proteina di peso molecolare minore, p190, dovuta a un segmento BCR di minore lunghezza. Generalmente la p190 è associata a leucemia linfatica acuta Ph+. Un altro raro ibrido è la p230, associata alla rara leucemia neutrofilica cronica, caratterizzata da iperplasia granulocitaria, un andamento più indolente e una più lunga sopravvivenza. Infine esistono rari casi con caratteristiche morfologiche simili alla leucemia mieloide cronica classica ma cromosoma Filadelfia e BCR/ABL negativi, che sono da annoverare nei disordini mieloproliferativi o mielodisplastici atipici. La proteina normalmente codificata dal proto-oncogene c-ABL, p160, è dotata di attività tirosina-chinasica ed è deputata alla regolazione della “morte cellulare programmata” o apoptosi. La proteina ibrida p210 ha un’attività antiapoptotica superiore a quella normale e determina un’immortalizzazione della cellula e una malattia da accumulo. È verosimile che la p210 interagisca con altre proteine citoplasmatiche e del citoscheletro, alterando alcune funzioni cellulari, come la risposta chemiotattica, e la morfologia delle cellule ematiche (acantocitosi, cellule a bersaglio, piastrine giganti frammenti di megacariociti). Infine, la p210 provoca alterazioni stromali e del microambiente che possono causare una minore adesione delle cellule della leucemia mieloide cronica allo stroma e la loro tendenza a migrare nel sangue periferico. Nel midollo di pazienti con leucemia mieloide cronica sono presenti, oltre a cellule staminali Ph+, anche cellule Ph– normali, tuttavia, per meccanismi non del tutto noti, le cellule staminali della leucemia mieloide cronica sfuggono ai meccanismi che regolano la capacità di autoreplicazione mediata dai fattori ambientali solubili, quali G-Stem Cell Factor, Granulocyte Monocyte-Colony Stimulating Factor, interleuchina-3. È verosimile che una produzione autocrina di Granulocyte Monocyte-Colony Stimulating Factor determini una progressiva espansione e maturazione delle cellule Ph+ a scapito delle cellule staminali normali. Cellule Ph+ in coltura hanno dimostrato una riduzione della capacità autoreplicativa, una maggiore tendenza alla differenziazione e un allungamento del ciclo cellulare. Ciò starebbe a confermare che l’aumento numerico delle cellule in questa malattia è causato non da un’incrementata replicazione, ma da incapacità di giungere alla morte programmata o apoptosi, come accennato prima.
Fisiopatologia e clinica In circa 2/3 dei pazienti la malattia viene diagnosticata casualmente su un esame emocromo eseguito per altre ragioni. Negli altri casi la sintomatologia è legata a 1) malattia sistemica, 2) iperleucocitosi, 3) organomegalia, analogamente agli altri disordini mieloproliferativi e come descritto e riassunto in tabella 48.2. La spiccata espansione prevalentemente mieloide è dunque responsabile della maggior parte dei sintomi e dei segni clinici della malattia: iperleucocitosi, splenomegalia, sintomi catabolici. Nei casi di leucocitosi spiccata, con valori di globuli bianchi superiori a 400 × 109/l, si possono avere i segni e sintomi da iperviscosità e rallentamento del circolo in vari distretti. Ne risultano sintomi neurologici e cerebrali (parestesie, vertigini, disturbi del sensorio fino alla confusione e al coma), oculari (diplopia, edema della pupilla), polmonari (tosse, dispnea, cianosi), priapismo per rallentamento del circolo nei vasi penieni. Nelle forme con trombocitosi si possono avere fenomeni trombotici, che possono essere aggravati dallo stato di iperviscosità. Nei casi di splenomegalia marcata vi possono essere dolori addominali da compressione della milza sugli organi limitrofi o perisplenite secondaria a infarti splenici. L’iperuricemia può dare luogo alle note manifestazioni gottose e l’ipercatabolismo ai sintomi sistemici di anoressia e perdita di peso, sudorazione e febbre.
Esami di laboratorio Il primo sospetto diagnostico viene dall’esame dell’emocromo e dalla formula leucocitaria. In più del 50% dei casi si ha una conta di leucociti 100 × 109/l con eosinofilia, basofilia e anemia variabili. In circa 1/3 si ha trombocitosi, raramente trombocitopenia. L’esame dello striscio periferico mostra l’intera gamma di precursori, dal metamielocito al blasto, con prevalenza di mielociti e promielociti. Inoltre si osservano alterazioni morfologiche sia delle piastrine (piastrine giganti, lembi di megacariociti) che dei globuli rossi, aniso-poichilocitosi. Nella
Tabella 48.2 - Caratteristiche comuni dei disordini mieloproliferativi. ANOMALIE CLINICHE O DI LABORATORIO
CONSEGUENZE
Ipercatabolismo cellulare
Febbre, astenia, anoressia, perdita di peso Segni di ipersplenismo Espansione midollare Splenomegalia, lesioni cutanee Disturbi neurologici, ischemici, trombotici Trombosi, emorragie Gotta Probabilmente causa del prurito Vitamina B12 e LDH elevate
Splenomegalia Dolori ossei Emopoiesi extramidollare Iperviscosità Anomalie piastriniche Iperuricemia Basofilia Massa leucocitaria ↑
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fase cronica la diagnosi differenziale si pone con le reazioni leucemoidi, dove però l’indagine citochimica della Neutrophil Alkaline Phosphatase risulta aumentata, a differenza della leucemia mieloide cronica, dove è diminuita. Altri esami ematochimici alterati sono l’aumento della LDH, della vitamina B12 e dell’uricemia, segni della leucocitosi e dell’incrementato catabolismo del DNA. L’aspirato midollare e la biopsia osteomidollare mostrano la caratteristica iperplasia granulocitaria con espansione della componente proliferante (mieloblasti e promielociti) e megacariocitaria. Spesso si riscontra un aumento della fibrosi soprattutto nelle fasi avanzate della malattia. L’indagine citogenetica sul sangue midollare deve confermare la presenza del cromosoma Filadelfia e la traslocazione t(9;22); in caso di risultato negativo, l’indagine biomolecolare dovrà risultare positiva per il riarrangiamento BCR/ABL. Spesso, alla diagnosi sono presenti traslocazioni complesse oltre al cromosoma Filadelfia che, seppure peggiorino la prognosi, non sono segno di accelerazione come quelle che si presentano durante il decorso della malattia. Tra queste ultime sono da segnalare la duplicazione del cromosoma Filadelfia (+Ph), l’isocromosoma 17 (i17q), la trisomia dei cromosomi 8 e 19 (+8, +19), la perdita di un cromosoma sessuale (–X, –Y), la monosomia del cromosoma 7 (–7).
Diagnosi Come accennato precedentemente, la tendenza a eseguire esami del sangue periodicamente anche in persone giovani può rivelare la presenza di modesta leucocitosi con neutrofilia asintomatiche. Sarà prudente eseguire altre indagini per escludere altre cause, generalmente infettive, che possono spiegare la neutrofilia. La diagnosi viene agevolmente sospettata di fronte al quadro clinico ed ematochimico completo: splenomegalia, sintomi sistemici, leucocitosi con elementi immaturi in circolo. Un esame dell’aspirato midollare e della biopsia ossea mostreranno un midollo ipercellulato per l’aumento della quota granulocitaria. Tuttavia una conditio sine qua non è la conferma della diagnosi con la ricerca del cromosoma Filadelfia o del riarrangiamento BCR/ABL e della proteina p210.
Decorso e prognosi La leucemia mieloide cronica, come anticipato, è una malattia evolutiva. Il decorso è contrassegnato da tre fasi ben distinte (Tab. 48.3). La fase cronica, stabile e oligosintomatica, è invariabilmente seguita, dopo un periodo di 3-5 anni, da un peggioramento dei parametri clinici ed ematologici, la cosiddetta fase accelerata. Quest’ultima sfocia, più o meno rapidamente, in una fase blastica, dovuta alla trasformazione in leucemia acuta. I fattori di rischio alla presentazione sono riportati in tabella 48.4. Nella maggior parte dei casi è riconoscibile una progressiva evoluzione della fase cronica alla fase accelerata alla fase blastica, le cui caratteristiche sono illustrate in tabella 48.3. In casi rari la malattia si presenta già in fase bla-
Tabella 48.3 - Fasi cliniche della leucemia mieloide cronica. CRONICA ACCELERATA BLASTICA Blasti midollari < 15% Blasti periferici < 10% Basofilia/eosinofilia < 20% Anomalie citogenetiche No* aggiuntive Resistenze al trattamento No standard Interessamento extramidollare No
< 29% < 29% ≥ 20% Sì
≥ 30% +/– +/– +/–
Sì
+/–
Sì
+/–
*Le alterazioni complesse alla diagnosi non rappresentano accelerazione di malattia.
Tabella 48.4 - Fattori di rischio nella leucemia mieloide cronica. A Età Milza
B ≥ 60 ≥ 10 cm
Blasti periferici ≥ 3% Blasti midollari ≥ 5%
Blasti periferici Blasti + promielociti periferici Basofilia Piastrine
• Gruppo 1
0-1 fattori
• Gruppo 4
• Gruppo 2 • Gruppo 3
2-3 fattori > 3 fattori
RISCHIO RELATIVO Gruppi
≥ 15% ≥ 30% ≥ 20% < 100 × 109/l Almeno 1 fattore
BASSO
INTERMEDIO
ALTO
1
2
3-4
stica, ovvero con una leucemia acuta di tipo mieloide con la tipica t(9;22). La terapia per la leucemia acuta può ripristinare il tipico assetto ematochimico e clinico della leucemia mieloide cronica. Si presume che in questi casi la fase cronica sia stata di breve durata, oligosintomatica e sia sfuggita alla diagnosi. La fase cronica è caratterizzata da modesta sintomatologia, scarsa blastosi midollare e periferica, scarsa basofilia ed eosinofilia, scarsa splenomegalia, assenza di localizzazioni extramidollari, e buona risposta alla terapia iniziale. Tale fase ha una durata estremamente variabile, potendo raggiungere anche i 10 anni, ma la durata mediana è di circa 3 anni. Ciò significa che circa il 50% dei pazienti va incontro a crisi blastica entro i primi 3 anni dalla diagnosi. La fase accelerata è caratterizzata dalla comparsa di sintomi sistemici di malattia, incremento della blastosi midollare e periferica, anemia, piastrinopenia o piastrinosi. Come già accennato, si segnala la comparsa di alterazioni citogenetiche aggiuntive. Tipicamente si ha una perdita della risposta al trattamento standard. Tale fase ha una durata media di pochi mesi. La fase blastica è sovrapponibile a una leucemia acuta, generalmente a fenotipo mieloide, raramente linfoide o misto (2) (Tab. 48.5). La quota di blasti mi(2) Infatti la t(9;22), sebbene tipica della leucemia mieloide cronica, si incontra anche in numerosi casi di leucemia mieloide acuta e leucemia linfoblastica acuta. Ciò indica che la lesione molecolare avviene in una cellula staminale multipotente non ancora orientata verso la linea mieloide o linfoide.
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Tabella 48.5 - Trascritti e relative proteine nelle leucemie Filadelfia positive. PUNTO DI ROTTURA BCR/ABL
PROTEINA DI FUSIONE
e1/a2
p190
e6a2 b2a2, b3a2 c3a2
> p190 p210 p230
TIPO DI LEUCEMIA Leucemia linfoblastica acuta, leucemia mieloide cronica*, leucemia mieloide acuta Leucemia mieloide cronica Leucemia mieloide cronica, leucemia linfoblastica acuta Leucemia neutrofilica cronica
* Con aspetti morfologici atipici. a2 = esone 2ABL; b2, b3, c3, e1, e2 = esoni BCR.
dollari è, per definizione, superiore al 30%. Il paziente in fase blastica non trattato ha una sopravvivenza di poche settimane, ma anche nei pazienti sottoposti a terapie aggressive la sopravvivenza mediana è di pochi mesi, essendo difficile indurre una seconda fase cronica stabile.
Cenni di terapia Fino a pochi anni or sono i cardini della terapia della leucemia mieloide cronica erano rappresentati dall’idrossiurea, l’interferone- e la chemioterapia ad alte dosi (HDC, High Dose Chemotherapy) seguita da trapianto di cellule staminali emopoietiche. I primi due farmaci rappresentano la cosiddetta terapia convenzionale, in opposizione alla terapia mieloablativa seguita dal trapianto. L’idrossiurea è un antimetabolita con un rapido effetto citoriduttivo e notevole maneggevolezza, poiché alla sospensione si ha una rapida risalita delle conte di leucociti e piastrine e solo eccezionalmente induce un’ipoplasia prolungata. La dose è di 2-3 g/die nella fase di citoriduzione e di 0,5-1,0 g, o meno, al giorno come mantenimento. Oltre all’idrossiurea un certo impiego trova ancora il busulfano, un agente alchilante che, al dosaggio di 2-4 mg/die, viene utilizzato soprattutto negli anziani che rispondono (o tollerano) all’idrossiurea. Durante le fasi accelerate, per i pazienti che non rispondono alla terapia iniziale si è fatto ricorso ad altri farmaci, quali 6-tioguanina, 6-mercaptopurina, pipobromano, citarabina a basse dosi. L’interferone ha modificato la storia naturale della malattia, verosimilmente grazie alla sua capacità di indurre una risposta non solo ematologica, ma anche citogenetica, ovvero la comparsa di una quota variabile di cellule Filadelfia negative. Pazienti che ottengono una buona risposta citogenetica hanno una più lunga sopravvivenza rispetto a quelli con risposte minori o nulle, o a quelli trattati con sola idrossiurea. La terapia farmacologica non è in grado di eradicare la malattia, ma, nella migliore delle ipotesi, come nel caso dell’interferone, di ritardare l’insorgenza della crisi blastica. L’unico intervento terapeutico radicale è rappresentato dal trapianto di cellule staminali emopoietiche allogeniche. I migliori risultati vengono ottenuti quando il trapianto viene effettuato durante la fase cronica dopo citoriduzione. Due fattori importanti limitano la fattibilità del trapianto di cellula staminale emopoietica: la presenza di un donatore familiare compatibile e l’età del
paziente. Per il primo punto, solo 1/3 dei pazienti trapiantabili possiede un donatore familiare compatibile. In tali casi si può ricorrere alla ricerca di donatori volontari di midollo HLA/DR compatibile per effettuare un Matched Unrelated Transplant, che purtroppo è gravato da una mortalità da trapianto più pesante rispetto al trapianto familiare. L’età deve essere inferiore a 55 anni per il trapianto di cellula staminale emopoietica familiare e a 40 anni per il Matched Unrelated Donor. Infine, sono ancora in fase sperimentale le procedure autotrapiantologiche che sfruttano la possibilità di isolare cellule staminali emopoietiche Filadelfia negative dopo terapia ad alte dosi. I risultati sembrano promettenti soprattutto se tale procedura viene eseguita subito dopo la fase di citoriduzione che segue alla diagnosi. Recentemente la terapia della LMC è stata rivoluzionata dall’impiego di un nuovo farmaco, originariamente denominato STI571 (per Signal-Transduction Inhibitor), in grado di bloccare in modo specifico l’attività enzimatica della proteina BCR-ABL. STI571, attualmente noto come imatinib mesilato, è il primo farmaco sviluppato in oncologia secondo un modello razionale, basato sulla comprensione dei meccanismi molecolari che operano nelle cellule leucemiche. In uno studio clinico condotto in pazienti con LMC trattati in fase cronica circa il 90% ha ottenuto un ritorno alla normalità nella conta dei globuli bianchi e circa il 50% ha avuto una risposta citogenetica maggiore. I dati di tre grandi studi in fase II hanno dimostrato che pazienti con leucemia mieloide cronica, trattati con imatinib dopo il fallimento della terapia con interferone-, hanno raggiunto l’88% di risposta ematologica e il 49% di risposta citogenetica intesa come scomparsa o riduzione delle cellule positive al cromosoma Philadelphia. I risultati degli studi finora condotti mostrano che l’efficacia di STI571 appare più elevata durante la fase cronica della malattia rispetto alla fase di crisi blastica anche se è stata osservata una risposta citogenetica in pazienti in stadi di malattia più avanzata (21% in fase accelerata e 14% in crisi blastica).
Policitemia rubra vera (*) La policitemia rubra vera è un disordine mieloproliferativo caratterizzato da un’espansione clonale preva(*) L. Camba.
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lentemente a carico dell’eritropoiesi che causa un aumento dell’Hb e dell’Hct. Tale espansione può interessare in minor misura anche le altre linee emopoietiche e dare leucocitosi e trombocitosi. A. Eziologia e patogenesi. Anomalie citogenetiche o alterazioni geniche specifiche per la policitemia rubra vera non sono state finora documentate. Un’alterazione presente nella policitemia rubra vera (e non nelle poliglobulie secondarie) è rappresentata da anomalie posttraduzionali del recettore della trombopoietina. Peraltro, il significato fisiopatologico di questa alterazione è al momento ignoto. L’anormalità dell’eritropoiesi nella policitemia rubra vera è evidenziata dalla crescita spontanea in vitro di colonie eritroidi (colonie endogene) sia da midollo osseo che da sangue periferico senza l’aggiunta di eritropoietina nel terreno di coltura: le minime quantità contenute nei sieri di coltura (anche se apparentemente privi di eritropoietina) sono sufficienti per la crescita di colonie “spontanee” nella policitemia rubra vera ma non nei controlli e nei pazienti con policitemie secondarie. Inoltre, colture in condizioni standard e in presenza di eritropoietina danno luogo a un maggior numero di colonie non solo eritroidi, ma anche mieloidi e megacariocitarie rispetto ai controlli. Ciò conferma ulteriormente che l’anomalia nella policitemia rubra vera è a livello di una cellula staminale emopoietica ancora indifferenziata. Gli studi molecolari sul recettore dell’eritropoietina, intrapresi nell’ipotesi che le colonie endogene fossero il risultato di una particolare sensibilità del recettore a dosi minime di eritropoietina, non ha messo in evidenza alcuna alterazione strutturale di questa molecola, né del suo RNA e DNA. La risposta eccessiva in coltura si è dimostrata anche nei confronti di altri fattori di crescita, quali IL-3, GM-, CSF-, SCF e IGF-1, il cui significato nella patogenesi della policitemia rubra vera rimane ignoto. B. Fisiopatologia. In questa malattia valgono alcuni dei principi di fisiopatologia illustrati per le policitemie poliglobulie non mieloproliferative (vedi Cap. 45). In comune con queste ultime sono le conseguenze dovute all’iperviscosità ematica dovuta all’espansione eritrocitaria. Tuttavia la morbilità e la mortalità nella PRV sono influenzate dalle complicanze tromboemboliche e, in minor misura, emorragiche, causate dalle alterazioni piastriniche che ne peggiorano notevolmente la prognosi. Inoltre, a differenza delle poliglobulie non mieloproliferative, la splenomegalia con metaplasia mieloide è parte essenziale del quadro clinico soprattutto nelle fasi più avanzate, quando le dimensioni della milza possono causare sintomi da compressione sugli organi addominali. C. Clinica. L’esordio della malattia è piuttosto lento e insidioso, talvolta casuale. Prevalgono all’inizio i sintomi generali dovuti allo stato di iperviscosità, ipercoagulabilità, ipercatabolismo e splenomegalia (vedi anche tabella 48.2). I sintomi e segni sono prevalentemente a carico della cute e le mucose, del sistema cardiovascolare, nervoso e gastroenterico.
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1. Cute e mucose. Tipico è il colore rosso vivo del volto, eritrosi che può interessare anche le mucose, in particolare le congiuntive, e la cute degli arti inferiori. Questi ultimi possono essere interessati dai fenomeni di eritromegalia già descritti. Molto frequenti sono il prurito, aggravato da un bagno o una doccia caldi, e le sudorazioni profuse, soprattutto notturne. Infrequenti sono le manifestazioni emorragiche cutanee (porpore, ecchimosi, ematomi) e mucose (epistassi, gengivorragie, meno-metrorragie). 2. Sistema cardiovascolare. La combinazione di iperviscosità e ipercoagulabilità favoriscono l’insorgenza di episodi trombotici sia venosi che arteriosi: più del 50% dei pazienti soffre di tali episodi alla diagnosi o durante il corso della malattia. Tutti gli organi e distretti possono essere interessati, dal sistema nervoso centrale alle estremità. In ordine di frequenza si osservano attacchi ischemici transitori (TIA, Transient Ischaemic Attack), angina e infarto del miocardio, trombosi venose e arteriose, embolia polmonare, ischemia periferica (fenomeni di Raynaud, claudicatio intermittens, acrocianosi, cancrene). 3. Disturbi neurologici e muscolari. Anche questi sono dovuti allo stato di sofferenza vascolare dovuto all’iperviscosità e a fenomeni ischemici dei distretti interessati. I sintomi più comuni sono cefalea, vertigini, lipotimie, astenia, disturbi visivi e ipoacusia e sindrome di Menière. Più gravi ma meno frequenti sono gli episodi di TIA e ictus con deficit neurologici permanenti. 4. Sistema gastroenterico. Oltre a uno stato di ipercatabolismo con anoressia e perdita di peso, il paziente può andare incontro a emorragie gastriche o episodi dolorosi acuti che possono simulare un addome acuto. Tali episodi sono verosimilmente causati da microtrombi nel circolo gastroenterico e conseguente gastroduodenite erosiva o infarti mesenterici. Meno frequenti sono trombosi della vena porta e delle vene sovraepatiche (sindrome di Budd-Chiari) che si presentano con dolori addominali acuti, dolore all’ipocondrio destro, epatomegalia e ascite. Una splenomegalia, presente in circa un terzo dei casi, è generalmente asintomatica all’esordio, ma nel corso degli anni il graduale aumento dell’organo dà luogo a senso di ingombro, ripienezza gastrica, dolori in ipocondrio sinistro dovuti a infarti splenici. L’aumento di volume è causato dalla presenza di emopoiesi extramidollare o metaplasia mieloide. D. Esami di laboratorio. L’emocromo mostra un aumento dell’Hb, dell’Hct e dei globuli rossi. Un Hct > 52% e un Hb > 180 gr/l impongono la misura della massa eritrocitaria e del volume plasmatico, come descritto nella tabella 48.6. Altri parametri eritrocitari alterati sono la reticolocitosi, conseguenza dell’aumento degli eritrociti, e una microcitosi, dovuta a uno stato di carenza relativa di ferro, i cui depositi vengono presto esauriti dalla imponente eritropoiesi. Nel 50-60% dei casi si riscontrano leucocitosi (neutrofilia) e trombocitosi (Tab. 48.6). Lo striscio del sangue periferico mostra anisocitosi e poichilocitosi delle emazie, alcuni precursori eritroidi e mieloidi (eritroblasti ortocromati-
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ci, metamielociti e mielociti), talvolta eosinofilia e basofilia. L’esame dell’aspirato midollare e della biopsia ossea mostrano uno spiccato aumento della cellularità e una riduzione fino alla totale scomparsa degli spazi adiposi. L’ipercellularità riguarda tutte le serie, spicca particolarmente la serie megacariocitaria. I depositi midollari di ferro sono pressoché assenti. Altri esami di laboratorio secondari sono un aumento della vitamina B12, iperuricemia, aumento delle fosfatasi alcaline leucocitarie dei neutrofili, una lattico deidrogenasi elevata, un livello di eritropoietina generalmente diminuito. Non alla portata di tutti i laboratori è l’esecuzione delle colture midollari per la ricerca delle colonie eritroidi spontanee. L’analisi del cariotipo mostra anomalie cromosomiche in circa il 15% dei casi, nessuna specifica; le più comuni comprendono delezioni nei cromosomi 1, 8, 9, delezioni del 13q e del 20q. E. Diagnosi. Il sospetto di policitemia rubra vera deve nascere in primo luogo da un Hct o una Hb elevati. Se questo viene confermato in un successivo esame, il secondo passo è quello di eseguire la misura della massa eritrocitaria e del volume plasmatico. Una massa eritrocitaria aumentata e un volume plasmatico normale o aumentato sono compatibili con una diagnosi di policitemia, sia essa primaria o secondaria. Una massa eritrocitaria normale e un volume plasmatico diminuito sono invece caratteristici della policitemia relativa. Una volta documentato l’incremento della massa eritrocitaria è necessario fare una diagnosi di policitemia rubra vera. I criteri diagnostici sono illustrati in tabella 48.6. Nel calcolo della massa eritrocitaria bisogna tenere conto che questa viene sottostimata nelle persone obese e che sarebbe più opportuno usare formule che si basano sulla superficie corporea, non sul peso. In questi casi un aumento della massa eritrocitaria viene definito tale se è superiore del 25% al valore per la superficie corporea del paziente. Più recentemente, si è proposto di aggiungere ai criteri diagnostici cui si fa riferimento nella tabella 48.6 la ricerca della clonalità basata sulla presenza di alterazioni cromosomiche, la crescita di colonie spontanee dal midollo o dal sangue periferico e il livello di eritropoietina serica, generalmente basso nella forma primaria e alto in quelle secondarie. Contemporaneamente bisognerà anche eseguire tutti gli esami ematochimici e strumentali per escludere una policitemia acquisita secondaria a malattie neoplastiche o renali. La diagnosi differenziale con le altre forme di policitemia è illustrata in tabella 48.7. È importante l’anamnesi familiare per la diagnosi delle forme di eritrocitosi ereditarie. Nel sospetto di tali forme familiari sarà opportuno eseguire le indagini relative alla saturazione di O2, il dosaggio del 2-3DPG, studi molecolari sull’eritropoietina e il suo recettore. F. Decorso e prognosi. Da quanto detto sopra si deduce che la mortalità è legata soprattutto a episodi tromboembolici, più raramente emorragici, cui contribuisce in certa misura l’età dei pazienti. In circa 1/3 dei pazienti si osserva la trasformazione in un’altra malat-
Tabella 48.6 Criteri diagnostici per la policitemia rubra vera. A. Criteri maggiori • A1 Aumento della massa eritrocitaria – Uomini ≥ 36 ml/kg – Donne ≥ 32 ml/kg – Oppure massa eritrocitaria ≥ 25% di quella teorica (calcolata in base alla superficie corporea) • A2 Normale saturazione arteriosa dell’O2 (≥ 92%) • A3 Splenomegalia B. Criteri minori • B1 Trombocitosi: piastrine > 400 × 109/l • B2 Leucocitosi: GB ≥ 12 × 109/l • B3 Aumento della vitamina B12 Aumento della Neutrophil Alkaline Phosphatase La diagnosi di policitemia rubra vera si ha con: 1. A1 + A2 + A3 o 2. A1 + A2 + almeno due dei criteri minori B.
Tabella 48.7 - Diagnosi differenziale tra policitemia rubra vera (PRV), policitemia secondaria (PS) e relativa (PR) ed eritrocitosi idiopatica (EI).
Splenomegalia Massa eritrocitaria Trombocitosi Leucocitosi Vitamina B12 Fosfatasi alcalina leucocitaria Saturazione arteriosa O2 PO2 Anomalie piastriniche Eritropoietina CFU-E spontanee
PRV
PS
PR
EI
Sì A Sì Sì A D N N Sì D Sì
No A No No N N N/D N No N/D No
No N No No N N N N No N No
No A No No N N N A No N No
A = aumentata, N = normale, D = diminuita.
tia ematologica, principalmente mielofibrosi idiopatica (20%) e leucemia mieloide acuta (15%). La trasformazione leucemica è in parte legata alla storia naturale della malattia, in parte alla chemioterapia alchilante e all’uso del fosforo radioattivo. Una lieve riduzione di tale tendenza si ha con l’uso dell’idrossiurea come farmaco citoriduttivo, che non è un agente alchilante. Spesso la trasformazione leucemica avviene dopo la fase di trasformazione in mielofibrosi idiopatica. Quest’ultima si instaura lentamente ed è preceduta da una fase in cui il fabbisogno di salassi terapeutici diminuisce, le dimensioni della milza aumentano per la comparsa di emopoiesi ectopica, il midollo osseo si fa sempre meno ipercellulato e compare la fibrosi midollare. Il decesso può avvenire a causa dell’insufficienza midollare che accompagna la mielofibrosi o a causa della trasformazione leucemica. La sopravvivenza del paziente con policitemia rubra vera è inferiore a quella di una popolazione della stessa età ed è molto breve, meno di 2 anni, se il paziente non viene prontamente trattato, a causa dell’alta incidenza di episodi tromboembolici. Una rapida riduzione della
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massa eritrocitaria con i salassi e un controllo della emopoiesi con la terapia citoriduttiva ha notevolmente migliorato la prognosi di questi individui e permesso lunghe sopravvivenze di 10-20 anni. G. Cenni di terapia. Da quanto esposto sopra, appena fatta la diagnosi è imperativo cercare di diminuire al più presto l’Hct per ridurre il rischio incombente di fenomeni tromboembolici fatali o debilitanti. Questo si ottiene con salassi ripetuti di 200-400 ml, anche uno al giorno se necessario. Raggiunto il valore normale, è sufficiente mantenerlo con salassi frequenti. Spesso i salassi non riescono a controllare adeguatamente l’eritropoiesi e la loro frequenza e la deficienza di ferro che inevitabilmente si instaura non vengono sempre tollerate dal paziente. Nei casi di trombocitosi spiccata e nei pazienti con precedenti trombotici l’introduzione della terapia citoriduttiva migliora la qualità della vita e il rischio trombotico. Questa è rappresentata da idrossiurea, come farmaco di prima scelta. Farmaci alternativi sono il busulfano, il fosforo radioattivo (32P) e l’interferone .
Mielofibrosi idiopatica (*) La mielofibrosi idiopatica (MFI) è un disordine mieloproliferativo è caratterizzato da splenomegalia, fibrosi midollare, emopoiesi extramidollare (EPEM), presenza di cellule immature mieloidi ed eritroidi e di dacriociti (emazie a lacrima) nel sangue periferico. L’emopoiesi extramidollare, o metaplasia mieloide, riguarda principalmente la milza ed è causa della splenomegalia, ma può estendersi ad altri organi, tra cui, al primo posto, il fegato, e secondariamente altri tessuti. Oltre alla forma primaria, vi possono essere forme derivate da altri disordini mieloproliferativi, di transizione, come la policitemia rubra vera e la trombocitemia essenziale, che possono passare attraverso un fase di mielofibrosi idiopatica per poi trasformarsi in leucemia acuta. Talvolta la leucemia mieloide cronica può presentare un tale grado di fibrosi e splenomegalia da simulare una mielofibrosi idiopatica. La mielofibrosi idiopatica va infine distinta dalle forme di fibrosi midollari reattive descritte in tabella 48.8. Tabella 48.8 - Malattie associate a fibrosi midollare. MALATTIE NEOPLASTICHE
MALATTIE NON NEOPLASTICHE
• Disordini mieloproliferativi – MFI, PRV, LMC • Leucemie acute – LMA-M7, LLA • Mielodisplasie – SMD con mielofibrosi • Hairy Cell Leukaemia • Mieloma • Carcinoma metastatico • Mastocitosi sistemica
• • • • • • • • • •
(*) L. Camba.
Malattia granulomatosa Malattia di Paget Ipo e iperparatiroidismo Osteodistrofia Deficit di vitamina D Osteoporosi Lupus Sclerodermia Gray Platelet Syndrome Tubercolosi disseminata
A. Eziologia e patogenesi. Nella maggior parte dei casi non si segnalano fattori predisponenti o cancerogenici nella storia del paziente. In una piccola quota di individui si è riscontrato esposizione a radiazioni ionizzanti e benzene e quantità eccessive di mezzo di contrasto per esami radiologici. Che la mielofibrosi idiopatica sia un disordine clonale di una cellula staminale pluripotente è stato dimostrato, oltre che dagli studi citati nel paragrafo introduttivo, anche dalla presenza di alterazioni di oncogeni: in un caso è stata descritta una mutazione del codone 12 dell’oncogene N-RAS. Lo stipite cellulare che nella mielofibrosi idiopatica ha il maggior vantaggio proliferativo è lo stipite megacariocitario. Tuttavia i fibroblasti non fanno parte della proliferazione clonale, ma hanno un’origine policlonale, giacché nessuna delle alterazioni sopra citate è stata trovata in tali cellule. L’iperplasia dei fibroblasti è dunque reattiva e verosimilmente dovuta all’azione di vari fattori prodotti localmente dal clone anomalo. Tali fattori includono il Platelet Derived Growth Factor, Platelet Factor-4, Transforming Growth Factor-, Epidermal Growth Factor, la -tromboglobulina, calmodulina (e forse altri non ancora identificati), tutte sostanze prodotte in quantità eccessiva dal clone megacariocitario neoplastico. Tali sostanze agiscono come mitogeni stimolando la proliferazione dei fibroblasti e la produzione delle proteine del collageno (tipo I, III, IV, V e VI, fibronectina, laminina, vitronectina, acido ialuronico), favorendo l’angiogenesi o inibendo (Platelet Factor-4) le collagenasi specifiche che dovrebbero degradare il collageno depositato. Un incremento della concentrazione serica e urinaria di alcuni di questi fattori è stato riscontrato in pazienti con mielofibrosi idiopatica e con fibrosi midollare reattiva, ma non in altri disordini mieloproliferativi senza fibrosi midollare. Alcuni di questi fattori, come il Transforming Growth Factor-, sono prodotti anche dal sistema monocitario, e potrebbe esserci una possibile interazione, mediata da molecole di adesione, tra queste cellule e la matrice midollare. Il processo di disfibrogenesi riguarda non solo la matrice midollare ma anche la membrana basale dell’endotelio delle strutture vascolari, in particolare dei sinusoidi midollari e splenici, che appaiono dismorfici e dilatati. Il risultato di queste anomalie è la deposizione di quantità abnormi di fibrina, un incremento della neovascolarizzazione dell’ambiente midollare e splenico, la rottura della barriera ematomidollare e la migrazione di elementi emopoietici che, una volta fuori dal microambiente midollare, colonizzano la milza e in minor misura il fegato. Tuttavia, questa mielopoiesi ectopica rimane confinata all’interno della milza, è quantitativamente inefficace, pertanto incapace e inadatta a compensare l’insufficienza midollare che inesorabilmente si instaura negli ultimi stadi della malattia. Raramente, la deposizione massiccia di fibre collagene è accompagnata da deposizione di nuove trabecole ossee da parte degli osteoblasti. Tale condizione viene chiamata osteosclerosi. B. Fisiopatologia e clinica. L’età mediana di presentazione è di 60 anni, anche se sono note forme del
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bambino e del giovane e una rara forma familiare. Non vi è differenza di distribuzione tra i due sessi. In circa 1/4 dei pazienti la diagnosi è casuale e viene posta in seguito all’esame dello striscio di sangue e al riscontro di una modesta splenomegalia in un paziente asintomatico. I sintomi più comuni alla diagnosi sono astenia, cui può contribuire una modesta anemia, sintomi da ipercatabolismo, come perdita di peso, sudorazioni notturne e febbre, dolore in sede splenica e una diatesi emorragica di lieve entità, raramente ittero modesto dovuto a eritropoiesi inefficace, ipertensione portale, artropatia gottosa. Un segno fisico pressoché costante è l’epatosplenomegalia. La milza può essere appena palpabile, raggiungere dimensioni cospicue e massive sia alla diagnosi che durante il decorso della malattia. È di consistenza aumentata e può essere causa di ingombro addominale accompagnato da dolore epigastrico o sede di infarto splenico con dolore in ipocondrio sinistro. Il fegato può essere sede di emopoiesi extramidollare fin dalla diagnosi e può causare ipertensione portale negli stati più avanzati. Manifestazioni più rare sono dovute a localizzazioni inusuali di emopoiesi extramidollare: cutanee, sierose, linfonodali, del sistema nervoso centrale e periferico. C. Esami di laboratorio. Le alterazioni ematiche tipiche sono osservabili sullo striscio di sangue periferico e sono rappresentate da poichilocitosi degli eritrociti, presenza di emazie a lacrima o dacriociti, eritroblasti ortocromatici ed elementi granulocitari immaturi, metamielociti e mielociti. In genere queste alterazioni portano all’esecuzione di un aspirato midollare e una biopsia osteomidollare (BOM). Il primo può dare luogo a una punctio sicca oppure a frustoli midollari ipercellulati e di aspetto fibrotico. La biopsia osteomidollare è indispensabile per la diagnosi poiché mette in evidenza la fibrosi midollare. È necessario qui distinguere una fibrosi midollare da mielofibrosi idiopatica, un disordine mieloproliferativo con fibrosi midollare da una fibrosi midollare reattiva o secondaria (Tab. 48.9). Alla diagnosi vi è in genere un’ipercellularità che riguarda tutte le linee cellulari con una normale distribuzione. L’impregnazione argentica mostra un aumento del numero e dello spessore delle fibre reticoliniche. Col progredire della malattia i precursori mieloidi ed eritroidi si riducono per lasciare lo spazio ai megacariociti e al tessuto fibroso. Le alterazioni midollari della mielofibrosi idiopatica sono riassunte in tabella 48.10. Come si può dedurre, il progredire della malattia si accompaTabella 48.9 - Criteri diagnostici per la MFI. • • • •
Fibrosi midollare ≥ 1/3 dell’area di midollo esaminato Quadro leuco-eritroblastico nel sangue periferico Splenomegalia Assenza di dati di laboratorio compatibili con un altro DMP • Assenza di una malattia sistemica associata a fibrosi midollare secondaria
gna a uno stato di insufficienza midollare grave cui contribuiscono l’emopoiesi inefficace, il grado di fibrosi midollare e la splenomegalia. Come avviene in tutti i disordini mieloproliferativi vi possono essere alterazioni funzionali e del contenuto dei granuli delle piastrine e alterazione dei test di aggregazione. La fosfatasi Neutrophil Alkaline Phosphatase è normale o aumentata a differenza della leucemia mieloide cronica, dove è diminuita. Vi può essere una riduzione del folato, un aumento della vitamina B12, della lattico deidrogenasi, dell’acido urico nel siero. Lo studio dell’eritropoiesi con ferro radioattivo (52Fe) mostra una riduzione della produzione eritrocitaria e una minore utilizzazione da parte dell’eritrone, un’incorporazione principalmente a carico della milza e scarso rilascio nel sangue periferico (che sta a indicare l’inefficacia dell’eritropoiesi splenica). Occasionalmente, alcuni pazienti possono sviluppare positività a indagini di autoimmunità, test di Coombs diretto, autoanticorpi, immunocomplessi circolanti, consumo del complemento, il cui significato è sconosciuto. Altre osservazioni più rare sono la comparsa di inclusioni di HbH (malattia da HbH acquisita, che si osserva anche in certi pazienti con mielodisplasia), la comparsa di un fenotipo EPN (emoglobinuria parossistica notturna) ed eritroblastopenia. Non vi sono alterazioni citogenetiche specifiche. Circa il 40% ha delle anomalie cromosomiche, tra cui le più comuni sono delezioni 13q e 20q. D. Diagnosi. La diagnosi di mielofibrosi idiopatica viene sospettata in presenza di alterazioni dell’esame emocromocitometrico e di splenomegalia e si fonda sull’osservazione del sangue periferico, del midollo osseo e sull’esame del paziente (Tab. 48.9). Leucocitosi e trombocitosi, talvolta anche spiccate, e una modesta anemia sono piuttosto frequenti alla diagnosi, ma in presenza di spiccata fibrosi e splenomegalia il paziente può sviluppare citopenia di una o più linee cellulari. Un Tabella 48.10 - Fasi istologiche della MFI. • Fase cellulare – Iperplasia con normale maturazione – Modesto incremento dei megacariociti – Aumento del reticolo • Fase fibrotica – Riduzione della serie mieloide ed eritroide – Incremento dei megacariociti – Aumento del reticolo e del collageno – Alterazioni dei sinusoidi – Deposizione di collageno • Fase sclerotica o mielosclerosi – Sovvertimento dell’architettura della biopsia osteomidollare – Aggregati (cluster) di megacariociti – Marcato aumento dei fibroblasti, del reticolo e del collageno • Fase osteosclerotica o osteomielosclerosi – Le stesse caratteristiche della fase precedente – Proliferazione di osteoblasti e neoformazione di osso
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quadro leucoeritroblastico e la presenza di dacriociti, pur essendo indispensabili per la diagnosi, sono compatibili con fibrosi midollare, ma non necessariamente patognomonici di mielofibrosi idiopatica. Come accennato sopra, vi possono essere elementi immaturi della serie bianca e talvolta anomalie delle piastrine, con piastrine giganti, frammenti di megacariociti, micromegacariociti circolanti. L’aspirato midollare può dare una punctio sicca in caso di spiccata ipercellularità e fibrosi. Spesso l’aspirazione dà esito a sangue midollare privo di frustoli e con elementi midollari immaturi displastici. La biopsia osteomidollare è l’indagine di elezione per la diagnosi di mielofibrosi idiopatica, pur con le riserve sopra accennate. Spesso la mielofibrosi idiopatica si presenta con leucocitosi e trombocitosi spiccate e un alto valore di Hb, con un aumento della massa eritrocitaria a simulare rispettivamente una leucemia mieloide cronica, una trombocitemia essenziale o una policitemia rubra vera. Nel primo caso la diagnosi si baserà sulla ricerca del cromosoma Filadelfia, nel secondo la fibrosi midollare non supera il 30% della cellularità totale. Infine, nella policitemia rubra vera la fibrosi midollare è assente o minima. E. Decorso e prognosi. La malattia si avvia inesorabilmente verso un’insufficienza midollare grave o una trasformazione leucemica. La sopravvivenza mediana varia da 3 a 7 anni e meno del 10% sopravvive più di 10 anni. La prognosi è tanto più favorevole quanto meno gravi sono la citopenia periferica e la splenomegalia. Col progredire della malattia si accentuano l’anemia e la piastrinopenia. Si accentua la leucocitosi e compaiono mieloblasti in circolo, che non significano necessariamente trasformazione leucemica. La milza può ingrandirsi a tal punto da provocare un’importante citopenia periferica con aumento del fabbisogno trasfusionale, emorragie e tendenza alle infezioni. A queste può contribuire una progressiva insufficienza midollare dovuta a un incremento massivo della fibrosi, a un’accentuazione delle alterazioni displastiche e dell’emopoiesi inefficace. In circa il 10% dei casi si ha una trasformazione in leucemia acuta di tipo mieloide, raramente linfoide. Può insorgere ipertensione portale cui contribuisce la presenza di emopoiesi extramidollare, un aumento del flusso ematico portale dovuto alla splenomegalia, trombosi delle vene sovraepatiche. I sintomi ipercatabolici si aggravano, in particolare l’astenia, l’anoressia, la perdita di peso e la febbre. La morte avviene in genere per insufficienza midollare (infezioni, emorragie), episodi tromboembolici, insufficienza epatica, trasformazione leucemica. F. Cenni di terapia. Questa è principalmente sintomatica. L’uso di idrossiurea o busulfano, gli stessi chemioterapici utilizzati negli altri disordini mieloproliferativi, è indicato nel tentativo di ridurre le dimensioni della milza o la fibrosi midollare. In caso di mancata risposta si può ricorrere all’irradiazione splenica o alla splenectomia in pazienti in buone condizioni cliniche per ridurre il fabbisogno trasfusionale, migliorare la sintomatologia di ingombro addominale o alleviare l’ipertensione portale.
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Trombocitemia essenziale (*) La trombocitemia essenziale, o trombocitosi clonale, rappresenta una delle varie forme possibili di trombocitosi (piastrine > 450.000 /mm3) che, più comunemente, sono reattive e per lo più secondarie a processi infiammatori o neoplastici (Tab. 48.11). Questi sono spesso di per sé evidenti, ma talora, come nel caso di tumori occulti, possono creare seri problemi diagnostici. A. Meccanismi di trombocitosi. La differenziazione e la proliferazione dei megacariociti, e la conseguente generazione di piastrine, è dipendente dall’ormone trombopoietina sintetizzato nel fegato. La sua produzione è stimolata dalla citochina interleuchina-6 (IL-6) che ha un ruolo chiave nelle cosiddette reazioni di fase acuta che accompagnano processi infiammatori o neoplastici. Sia i megacariociti sia le piastrine hanno in superficie un recettore per la trombopoietina, denominato c-Mpl. In condizioni normali, se le piastrine diminuiscono, è minore la quantità di trombopoietina circolante che si fissa alla loro superficie risultando così maggiore la quantità a disposizione dei megacariociti per legarsi. Se, al contrario, le piastrine aumentano, una quantità più elevata di trombopoietina sarà fissata alla loro superficie nel sangue circolante e ne resterà di meno per i megacariociti. Con questo meccanismo si realizza un’omeostasi che tende a mantenere costante il numero delle piastrine nel sangue. Nel caso delle trombocitosi reattive (secondarie) si ha un’aumentata produzione di IL-6 che determina un incremento della trombopoietina generata dal fegato, con un’azione stimolante sui megacariociti. Perciò, in questi casi, in presenza di un elevato numero di piastrine nel sangue, nelle trombocitosi secondarie i livelli ematici di trombopoietina sono aumentati o normali, mentre dovrebbero essere diminuiti. Questo dato, tuttavia, non può essere utile per differenziare le trombocitosi reattive dalla trombocitemia essenziale, perché anche in quest’ultima condizione i livelli ematici di trombopoietina sono aumentati o normali. Questo apparente paradosso è spiegato con il fatto che nella trombocitosi clonale esistono nei megacariociti e nelle piastrine alterazioni nell’eTabella 48.11 - Cause di trombocitosi reattiva. • Malattie infettive • Malattie infiammatorie croniche e autoimmuni • Neoplasie • Emorragie • Anemia sideropenica • Splenectomia e iposplenismo • Attività fisica intensa • Anemia emolitica • Reazioni a farmaci (vincristina, acido tutto-trans-retinoico, citochine, fattori di crescita)
(*) C. Rugarli.
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spressione del recettore c-Mpl che comportano un difetto del legame con la trombopoietina sintetizzata costitutivamente e che ne lasciano una maggiore quantità disponibile a circolare nel sangue. Questo fatto differenzia la trombocitemia essenziale dagli altri disordini mieloproliferativi, nei quali la proliferazione clonale di una linea di cellule ematopoietiche comporta un feed-back negativo nei confronti del rispettivo fattore di crescita. Per esempio, nella policitemia vera si ha una diminuzione del livelli ematici di eritropoietina e nella leucemia mieloide cronica si verifica nel sangue un decremento del GCSF (Granulocyte Colony-Stimulating Factor). Esistono anche rare forme di trombocitosi familiari, ereditate come carattere autosomico dominante e dovute a un gene che determina un’eccessiva produzione di trombopoietina. B. Eziopatogenesi. La trombocitemia essenziale presenta punti di contatto importanti con le altre sindromi mieloproliferative. Anche in queste è possibile che si verifichino anomalie nell’espressione del recettore c-Mpl sui megacariociti e sulle piastrine, ma, a differenza delle altre forme, nella trombocitemia essenziale i megacariociti sono sensibilissimi alle pur ridotte quantità di trombopoietina che fissano e sono indotti alla proliferazione. D’altro canto, una certa trombocitosi si può osservare anche in sindromi mieloproliferative di altro tipo, soprattutto nella policitemia vera. Per di più, si è visto che quella che inizialmente appare una trombocitemia essenziale può in seguito evolvere verso una mielofibrosi: per questi casi si è attualmente introdotta la denominazione di mielofibrosi prefibrotica. È stato inoltre visto che alcuni pazienti con trombocitemia essenziale hanno un cromosoma di Filadelfia o il riarrangiamento genetico BCR-ABL, anche in assenza di leucocitosi o di altri segni di leucemia mieloide cronica. La clonalità della trombocitemia essenziale è stata accertata mediante studi su marcatori polimorfici legati al cromosoma X in pazienti femmine. Sono, però, stati descritti anche casi nei quali la trombocitosi non appariva clonale. Vi sono varie possibili spiegazioni per questo fatto: la malattia potrebbe essere inizialmente non clonale e divenirlo in seguito; oppure, la clonalità potrebbe essere limitata in alcuni casi ai megacariociti, che non sono le cellule sulle quali la valutazione di clonalità viene effettuata. C. Fisiopatologia e clinica. La maggior parte dei pazienti alla diagnosi è asintomatica e il riscontro di trombocitosi è del tutto casuale. Circa 1/3 dei pazienti va incontro a episodi tromboembolici, mentre più rari sono i sintomi emorragici. I fenomeni vascolari riguardano principalmente i piccoli vasi e danno luogo a fenomeni ischemici e ipossici agli arti inferiori (eritromelalgia), disturbi visivi (amaurosi), acustici e neurologici (disestesie, vertigini, cefalea, attacco ischemico transitorio), cardiaci (angina). I fenomeni emorragici sono più rari, insorgendo in circa il 10% dei pazienti, e sono rappresentati principalmente da petecchie, ecchimosi, emorragie mucose,
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specialmente gastriche, e raramente da ematomi superficiali e profondi. La probabilità di insorgenza di episodi tromboembolici è generalmente proporzionale al numero delle piastrine e aumenta particolarmente quando queste superano il milione per mm3 (1000 × 109/l). Altri segni clinici sono rappresentati da splenomegalia in meno di 1/3 dei casi e generalmente non alla diagnosi, soprattutto quando questa è precoce. Ripetuti infarti splenici determinano atrofia splenica che spiega l’assenza di splenomegalia in questi pazienti. D. Esami di laboratorio. Data la diagnosi sempre più precoce è raro oggi trovare pazienti con più di 1,5-2,0 × 109/l piastrine. Lo striscio di sangue periferico può presentare alterazioni morfologiche delle piastrine, aggregati piastrinici, frammenti di citoplasma di megacariociti, fino a micromegacariociti circolanti. Vi può essere leucocitosi neutrofila con precursori mieloidi nel sangue periferico. Talvolta modica anemia e alterazioni morfologiche dovute a iposplenismo: acantociti, cellule a bersaglio, residui nucleari o corpi di HowellJolly, eritroblasti ortocromatici. Lo studio della funzionalità piastrinica ha messo in evidenza anomalie biologiche funzionali. Da una parte vi sono alterazioni in accordo con la tendenza trombofilica di questi pazienti (uno stato di iperattivazione piastrinica e aumento dell’attività procoagulante). Dall’altra sono descritti difetti acquisiti, quali riduzione del contenuto dei granuli e , che predispongono a manifestazioni emorragiche. L’aggregazione piastrinica è generalmente ridotta a uno con più reagenti (ADP, collageno o adrenalina) oppure vi può essere aggregazione spontanea in vitro dovuta a iperaggregabilità. Tuttavia i test di laboratorio non hanno un valore predittivo circa il rischio di episodi trombotici o emorragici e non hanno nessun rapporto con la loro incidenza. La terapia citostatica nel controllare la popolazione megacariocitaria anomala riduce tale incidenza. L’esame dell’aspirato midollare e della biopsia ossea (BOM) mostrano, in genere, un incremento della cellularità in rapporto all’età del paziente e in particolare una iperplasia della serie megacariocitaria. Tali elementi sono spesso aggregati in nidi e possono presentare anomalie morfologiche, come ipernuclearità, e anomalie citoplasmatiche. Nella biopsia osteomidollare vengono spesso osservati all’interno dei sinusoidi. Molto frequenti ammassi di piastrine. Talvolta l’aspirazione risulta difficile e dà una punctio sicca, ma non così frequentemente come nella mielofibrosi midollare. Vi può essere un’accentuazione del reticolo ma la fibrosi midollare deve rimanere al di sotto del 30% della cellularità totale, limite oltre il quale il disordine mieloproliferativo risponde, per definizione, ai criteri di mielofibrosi. E. Diagnosi. La differenziazione diagnostica tra una trombocitemia essenziale e una trombocitosi secondaria non è facile quando mancano i segni della condizione patologica associata con la seconda, per esempio quando esiste un tumore occulto. Una distinzione clinica utile deve tenere conto del fatto che di solito le trombocitosi secondarie non provocano fenomeni ischemici o episodi
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trombotici o emorragici rilevanti. Questo dipende dal fatto che nelle trombocitosi secondarie l’interazione delle piastrine con le pareti vascolari rimane qualitativamente normale. Inoltre, nelle trombocitosi secondarie le funzioni piastriniche sono sempre normali, mentre, come si è visto, nella trombocitemia essenziale sono spesso alterate. Per di più, in questa malattia si possono osservare negli strisci di sangue periferico piastrine giganti e nel midollo un aumento numerico dei megacariociti, che possono essere giganti, con forme displastiche con ploidia aumentata, associate con grandi masse di detriti piastrinici. Tuttavia, esistono casi di trombocitemia essenziale nei quali queste caratteristiche cliniche e di laboratorio non sono evidenti e perciò, in presenza di una trombocitosi senza una malattia associata evidente, è opportuno eseguire estese indagini alla ricerca di una condizione morbosa occulta, soprattutto di una neoplasia. F. Decorso e prognosi. Anche se in passato si è sostenuto che la trombocitemia essenziale non riduce l’aspettativa di vita dei pazienti che ne sono affetti, studi estesi hanno dimostrato che questo non è il caso e che coloro che sono affetti da questa malattia hanno una sopravvivenza che è significativamente ridotta rispetto ai soggetti sani. Le cause principali di morte sono le trombosi e gli eventi vascolari che ne derivano. In una minoranza di pazienti si può avere, indipendentemente dall’impiego di trattamenti mutageni, la conversione in leucemia acuta o in mielodisplasia o l’evoluzione in mielofibrosi. G. Terapia. Le trombocitosi secondarie non richiedono altro trattamento se non quello della condizione morbosa associata. Più delicato è il problema della terapia della trombocitemia essenziale, per il quale qui riportiamo le linee guida indicate da Schafer in una rassegna del 2004. Secondo questo Autore, un soggetto nel quale viene diagnosticata questa malattia, ma nel quale non si siano verificati episodi ischemici, trombotici o emorragici, può essere considerato asintomatico. Se poi questo soggetto non ha fattori di rischio cardiovascolari ed è di età inferiore ai 60 anni, può essere considerato a basso rischio e può essere non trattato ma solamente seguito nel tempo, indipendentemente dal numero delle piastrine nel sangue (purché non superino un milione e mezzo per mm3). L’efficacia di un trattamento profilattico con farmaci che riducono il numero delle piastrine non viene considerata adeguatamente valutata. Se il paziente è pure asintomatico ed è ad alto rischio per l’esistenza di problemi cardiovascolari o perché ha superato i 60 anni di età o perché le piastrine nel sangue superano il milione e mezzo per mm3, è indicato un trattamento per ridurre il loro numero (citoriduzione), associato o meno (nel caso che l’indicazione derivi solo dal numero delle piastrine) a un trattamento antiaggregante con aspirina. Anche se una dose di questo farmaco di 100 mg/die viene considerata piuttosto sicura, tale trattamento è raccomandato con qualche prudenza nella trombocitemia essenziale, dato che questa malattia può provocare di per sé emorragie. Per i pazienti che sono sintomatici per una storia di trombosi o emorragie è indicata una terapia di citoridu-
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zione, con l’aggiunta di aspirina se sono presenti le trombosi. Nei casi più gravi di ischemia cerebrovascolare o alle dita, oltre alla citoriduzione e all’aspirina può essere presa in considerazione anche la sottrazione di piastrine dal sangue con piastrinoaferesi. Rispetto alle raccomandazioni terapeutiche tradizionali, che suggerivano un trattamento di citoriduzione in ogni caso quando le piastrine nel sangue superavano il valore di 600.000/mm3, queste indicazioni appaiono meno interventiste. È possibile che ciò derivi da preoccupazioni circa gli effetti mutageni e leucemogeni dei farmaci impiegati per la citoriduzione che, in una malattia non particolarmente maligna, dovrebbero essere impiegati per molti anni consecutivi, soprattutto in soggetti giovani. Abbandonati, per evitare questi rischi, gli alchilanti, il farmaco comunemente impiegato per la citoriduzione è l’idrossiurea, a dosi non superiori a 2 g/die. Tuttavia, anche per questo medicamento si è visto che, per trattamenti molto prolungati, può non essere privo di effetti leucemogeni, soprattutto in soggetti che hanno una delezione del braccio corto del cromosoma 17. È stato perciò considerato un significativo progresso l’introduzione nella terapia della trombocitemia essenziale dell’anagrelide, un derivato chinazolinico che inibisce la proliferazione e la differenziazione dei megacariociti. Questo farmaco viene assunto per os alla dose iniziale di 2 mg/die (dato in 2 o 4 dosi divise), da aumentare di 0,5 mg ogni 7 giorni fino a una dose finale (se necessario e se le piastrine non si riducono di numero con una dose più bassa) di 10 mg/die. L’anagrelide non ha azione mutagena ma, sfortunatamente, non è priva di effetti collaterali. Circa il 30% dei pazienti che l’assumono deve interrompere il trattamento per le sue attività vasodilatatrice e inotropa positiva. I fenomeni che si possono verificare sono ritenzione di liquidi, palpitazioni e aritmie, scompenso cardiaco e cefalea. Non sembra perciò molto adatta al trattamento di pazienti anziani e con problemi cardiovascolari. Un altro farmaco impiegato con un certo successo per la citoriduzione è l’interferon-, che provoca seri effetti collaterali, ma che è il trattamento di scelta per le donne in gravidanza, dato che l’idrossiurea ha un effetto teratogeno e l’anagrelina supera la barriera placentare e non si sa quali effetti possa avere sul feto.
SINDROME IPEREOSINOFILA Numerose sono le condizioni patologiche che possono causare un aumento del numero degli eosinofili nel sangue oltre il valore normale di 0,4 × 109/l. Come illustrato nella tabella 48.12, vi sono forme reattive, non clonali associate a varie condizioni patologiche: infettive, neoplastiche, allergiche, infiammatorie. Accanto a queste esistono eosinofilie che si possono definire clonali in quanto la popolazione cellulare degli eosinofili appartiene al processo proliferativo neoplastico, come quelle illustrate nella tabella 48.13. Perché un’ipereosinofilia venga definita sindrome ipereosinofila (SIE), deve rispondere ai seguenti criteri:
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48 - DISORDINI MIELOPROLIFERATIVI E SINDROME IPEREOSINOFILA
Tabella 48.12 - Alcune cause di eosinofilia reattiva. • Malattie parassitarie – Filaria, anchilostoma, echinococco, ascari, schistosoma, ecc. • Malattie allergiche – Asma, rinite, dermatite, orticaria • Malattie respiratorie – Bronchiectasie, fibrosi cistica • Reazioni da farmaci • Malattie neoplastiche – Linfomi, tumori polmonari, intestinali, renali, mammella • Malattie autoimmuni – Poliarterite nodosa, artrite reumatoide, granulomatosi di Wegener, sindrome di Churg-Strauss • Malattie dermatologiche – Dermatite atopica, eczema, pemfigo
Tabella 48.13 - Disordini ematologici associati a eosinofilia di • Malattie parassitarie – Filaria, anchilostoma, echinococco, ascari, schistosoma, ecc. • Disordini mieloproliferativi – Leucemia eosinofilica cronica – Leucemia mieloide cronica – Policitemia – Trombocitemia essenziale – Mastocitosi sistemica • Leucemie acute – Leucemia mieloide acuta, M4 (variante eosinofila con inv 16) – M2, variante eosinofila • Sindromi mielodisplastiche
• eosinofili ≥ 1,5 × 109/l per ≥ 6 mesi; • presenza di patologia d’organo dovuta a infiltrazione di eosinofili. La SIE rappresenta dunque un gruppo eterogeneo di condizioni: 1) una forma reattiva o secondaria; 2) una malattia clonale; 3) una sindrome ipereosinofila idiopatica (SIEI) in cui sussistono i criteri della SIE ma senza una causa nota.
Eziopatogenesi La produzione di eosinofili è dipendente da tre citochine: l’interleuchina-5 (IL-5), l’interleuchina-3 (IL-3) e il GMCSF (Granulocyte-Macrophage Colony-Simulating Factor). Di queste la più specifica è la IL-5, dato che i precursori ematopoietici destinati a differenziarsi in eosinofili presentano alla superficie recettori ad alta affinità per questa citochina. In alcuni casi di sindrome ipereosinfila esiste, anche se non è apparente con le indagini ematologiche ordinarie, una popolazione monoclonale di cellule T che producono grandi quantità di IL-5. I pazienti con questa variante della malattia hanno per lo più una dermatite intrattabile e con il tempo possono svi-
luppare un linfoma cutaneo a cellule T. D’altro canto, esistono linfomi o leucemie le cui cellule producono in eccesso la IL-5 e che perciò sono accompagnati da eosinofilia. Le sindromi ipereosinofile dipendenti da una popolazione monoclonale di cellule T secernenti IL-5 sarebbero perciò imparentate con questi linfomi. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, le sindromi ipereosinofile non sono causate da eccesso di IL-5, ma l’ipereosinofilia è totalmente indipendente da fattori di crescita e la condizione patologica presenta affinità con le sindromi mieloproliferative. Un interessante suggerimento sulla patogenesi di queste sindromi ipereosinofile è derivato dall’osservazione che alcuni casi rispondono alla somministrazione di imatinib mesilato. Questo farmaco è efficace nei casi di leucemia mieloide cronica nei quali, per effetto della traslocazione cromosomica che dà origine al cosiddetto cromosoma di Filadelfia, si viene a creare la proteina di fusione BCR-ABL, che ha attività tirosina-chinasica. Dato che la traslocazione BCR-ABL non avviene nelle sindromi ipereosinofile, si deve pensare che l’imatinib mesilato agisca su varie tirosina-chinasi, tra le quali quella della proteina BCR-ABL e un’altra che deve essere presente nelle sindromi ipereosinofile responsive a tale agente terapeutico. È possibile che questa seconda tirosina-chinasi sia pure originata da una traslocazione cromosomica, diversa da quella propria della leucemia mieloide cronica, e questa è stata effettivamente trovata. Si tratta di una traslocazione tra i cromosomi 1 e 4, meglio definita come t(1;4)(q44;q12). In questo caso il cromosoma 4 va incontro a una delezione di parte del suo materiale cromosomico che lascia i frammenti di due geni, FIPIL1 e PDGFRA, che si fondono e formano un nuovo gene, FIPIL1-PDGFRA. Per una straordinaria coincidenza, il prodotto di PDGFRA, che è la proteina PDGFR, è una tirosina-chinasi, e la proteina FILPIL1 che viene a trovarsi fusa con la prima, la mantiene continuamente attiva. La traslocazione t(1;4)(q44;q12) è stata trovata in circa la metà dei pazienti con sindrome ipereosinofila. È perciò possibile che altre anomalie molecolari siano presenti nelle sindromi ipereosinofile oltre quella qui descritta, il che è in accordo con l’eterogeneità di tale forma morbosa.
Fisiopatologia Lo stato di attivazione degli eosinofili, siano essi di origine neoplastica o reattiva, e il rilascio delle sostanzae contenute nei granuli eosinofili sembrano alla base della patologia d’organo legata a questa malattia. Gli eosinofili reattivi delle SIE esprimono un maggior numero di molecole di adesione e producono un gran numero di sostanze proinfiammatorie, come interleuchine (IL-1-2-34-5-6-10-16), chemochine (IL-8, MIP-1) e fattori di crescita (GM-CSF, TGF, TNF). Per un meccanismo autocrino si ha un aumento della chemiotassi, un accumulo di eosinofili nei tessuti e organi bersaglio e liberazione del loro contenuto citoplasmatico. Il danno tissutale può derivare dall’azione di sostanze nocive riversate nell’ambiente extracellulare, come la EDN (Eosinophil-derived
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tabella 48.14 - Danni tessutali nella sindrome ipereosinofila. • Cardiaci – Pericarditi, miocarditi, fibrosi, insufficienze valvolari • Polmonari – Infiltrati, fibrosi, versamenti pleurici, embolia • Neurologici – Neuropatie periferiche, ictus, epilessia, demenza • Dermatologici – Angioedema, orticaria, lesioni papulo-nodulari e bollose, ulcere, fenomeni di Raynaud • Gastroenterici – Gastriti, coliti, pancreatiti, diarrea, sindrome di BuddChiari • Oculari – Microtrombi, arterite retinica • Articolari – Artralgia, poliartrite, versamenti
Neurotoxin), la ECP (Eosinophil Cationic Protein), la MBP (Major Basic Protein). Il danno ai tessuti è aggravato da fenomeni di trombosi locale innescati dall’incrementata tendenza delle cellule eosinofile ad aderire all’endotelio, a causa di un aumento dell’espressione di molecole di adesione o dei loro recettori. Ne consegue un danno endoteliale con fenomeni trombotici locali. Qualunque organo e tessuto può subire l’effetto nocivo degli eosinofili stimolati; alcune di queste manifestazioni sono riportate in tabella 48.14. Nelle forme primitive ematologiche è possibile che l’accumulo di queste cellule sia favorito da una downregulation, o attenuazione, dei processi di apoptosi, che è una caratteristica dei disordini mieloproliferativi e mielodisplastici.
Clinica I sistemi maggiormente coinvolti sono il sistema cardiovascolare e quello polmonare, seguiti dalle manifestazioni a carico degli altri distretti come illustrato in tabella 48.14. Generalmente il paziente si presenta con sintomi polmonari, quali tosse secca, dispnea, broncospasmo e un quadro di insufficienza respiratoria mista ostruttiva e restrittiva. Il quadro radiologico documenta infiltrati interstiziali o opacità risultanti da pregresse infezioni polmonari o esiti cicatriziali. I sintomi cardiaci sono rappresentati da insufficienza cardiaca di tipo congestizio con edemi e ascite. Le manifestazioni neurologiche, che sono talvolta rapidamente progressive, vanno da sintomi dovuti a neuropatia periferica a deficit neurologici, epilessia e demenza. Le manifestazioni cutanee comprendono prurito, porpore vascolari, rash cutanei, eritema nodoso. I sintomi gastroenterici possono essere dovuti a gastriti, duodeniti, ulcera gastroduodenale, colangiti, coliche addominali. Talvolta è presente modesta epatomegalia. Una patologia renale è rara e può dare ematuria, albuminuria, insufficienza renale.
Esami di laboratorio e diagnosi In molti casi il riscontro di un’eosinofilia modesta > 1,5 × 109/l è un reperto casuale e l’esame emocromo
generalmente non evidenzia altre alterazioni. Nelle forme più gravi con eosinofili > 5,0 × 109/l le cellule possono mostrare degranulazione e forme immature intermedie appaiono in circolo. L’osservazione dell’aspirato midollare e della biopsia ossea vengono effettuate soprattutto per escludere la presenza di un disordine mieloproliferativo o mielodisplastico. È importante eseguire lo studio del cariotipo per stabilire la natura clonale della malattia. La presenza del cromosoma Filadelfia, ad esempio, farà porre diagnosi di leucemia mieloide cronica ed esclude una forma reattiva o idiopatica. Inoltre, la presenza di una qualunque altra alterazione del cariotipo midollare ci suggerisce che la malattia non è più una SIE, ma una malattia clonale di tipo mieloproliferativo o mielodisplastico. Il corredo degli altri esami di laboratorio e di quelli strumentali devono servire a distinguere tra una forma secondaria e una forma primaria: la ricerca di parassiti fecali, le prove allergologiche, la ricerca di anomalie cromosomiche, la radiografia del torace per la presenza di infiltrati, l’ecografia addominale per la ricerca di organomegalie e in particolare di una splenomegalia, indagini strumentali per diagnosticare una cardiopatia.
Decorso La sopravvivenza può andare da pochi mesi a molti anni e dipende dalla gravità dei danni soprattutto cardiaci e polmonari. Alcune forme particolarmente gravi, come quella associata all’aspergillosi polmonare o la sindrome di Churg-Strauss (ipereosinofilia, vasculite sistemica e asma bronchiale) possono portare a morte per insufficienza respiratoria grave. Le forme chiaramente proliferative o LEC si comportano come i disordini mieloproliferativi, con una fase cronica della durata variabile da alcuni mesi ad alcuni anni fino alla fase accelerata e alla trasformazione leucemica. Numerose forme idiopatiche possono sopravvivere lunghi anni prima di subire un processo di accelerazione verso un disordine mieloproliferativo o una leucemia acuta, più raramente un linfoma.
Cenni di terapia Se si individua una causa infettiva, parassiti o aspergillo, la terapia antibiotica è appropriata, associata o meno agli steroidi contro i sintomi di tipo allergico. Nelle forme idiopatiche, alla terapia steroidea e anti-istaminica potrebbe essere necessario associare una terapia citotossica, generalmente l’idrossiurea, per ridurre la proliferazione degli eosinofili e, conseguentemente, il danno tessutale. In alcuni casi particolarmente gravi si è ricorso al trapianto di cellule staminali emopoietiche. Come si è accennato a proposito dell’eziopatogenesi, l’imatinib mesilato promette di rivoluzionare il trattamento di una buona parte di queste sindromi, dato che nella quasi totalità dei casi si possono ottenere remissioni complete e durature.
C A P I T O L O
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MALATTIE DEL SISTEMA LINFATICO F. PELLÒ
GENERALITÀ SUL SISTEMA LINFATICO (*) Il sistema linfatico è formato dall’insieme dei linfociti circolanti nel sangue e nella linfa, dagli organi linfatici primari (timo e midollo osseo) e dalle strutture dove anatomicamente i linfociti tendono a concentrarsi per esplicare le loro funzioni: milza, linfonodi, aggregati linfatici in relazione con gli epiteli di rivestimento dell’apparato respiratorio e digerente. In alcuni casi, come le tonsille, le placche di Peyer e l’appendice, essi sono particolarmente differenziati, ma in genere, in tutti gli organi e tessuti, eccetto il sistema nervoso centrale, sono dimostrabili degli aggregati linfatici meno definiti. Esiste una stretta connessione tra i vari distretti del sistema linfatico, che è assicurata dalla circolazione linfocitaria. Assumendo come punto di partenza un linfonodo, si può vedere che i linfociti si fanno strada verso i vasi linfatici efferenti e, attraverso questi, giungono nel dotto toracico che li riversa nel sangue. I linfociti circolanti nel sangue possono riguadagnare i linfonodi quando li raggiungono con la circolazione ematica. Infatti, a livello delle venule postcapillari, i linfociti possono farsi strada tra le cellule endoteliali, abbandonare il lume della venula e reimmettersi nel contesto del linfonodo, donde possono iniziare nuovamente il ciclo circolatorio. Nelle strutture linfatiche in relazione con gli epiteli di rivestimento la circolazione linfocitaria avviene sostanzialmente nello stesso modo (i linfociti si allontanano guadagnando i vasi linfatici efferenti e vi ritornano attraverso la circolazione ematica), mentre nella milza il passaggio dei linfociti verso il sangue e dal sangue è diretto (Fig. 49.1). Per poter attraversare la parete vascolare a livello delle sedi linfatiche, i linfociti sfruttano la presenza di zone specializzate nelle venule postcapillari, dette “high endotelial venule” perché tappezzate da particolari cel(*) C. Rugarli e M.G. Sabbadini.
lule endoteliali di aspetto cubiforme e metabolicamente molto attive. Nel processo di diapedesi, le cellule linfatiche utilizzano una serie di recettori di superficie, chiamati nel loro insieme molecole di adesione, con cui si ancorano
Figura 49.1 - Schema della circolazione dei linfociti dall’albero arterioso ai linfonodi e poi nella linfa attraverso il dotto toracico fino alla vena cava superiore in cui si reimmettono nel torrente circolatorio.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Timo
Ormoni
Cellula epiteliale
T-suppressor/citotossico
Timocito Cellula staminale ematopoietica
Precursore linfoide
T-helper/induttore
Cellule che presentano antigeni
IgM + IgD
IgM
IgM
Mieloide slgM
Eritroide Megacariocitico
Cellula pre-B
IgM + IgD + IgG1,2,3 o 4 IgG1,2,3 o 4
Cellula B immatura
IgM + IgD + IgA1 o 2
IgA1 o 2
IgG1,2,3 o 4
IgA1 o 2
Fegato fetale Midollo osseo IgM + IgD + IgE
IgE
Cellule B mature
IgE
Plasmacellula
Figura 49.2 - Genealogia delle cellule immunologicamente competenti. (Da N. Engl. J. Med. 311:235, 1984.)
ai corrispondenti ligandi presenti sulle cellule endoteliali e a proteine della matrice (fibronectina, collagene, laminina, ecc.). L’espressione dei recettori di adesione e la loro affinità per il ligando viene modulata nella cellula in relazione allo stato di attivazione e alla precedente “storia” immunologica. In questo modo, la fuoriuscita dei linfociti a livello delle diverse stazioni linfatiche o dei diversi organi non è casuale ma avviene in sedi particolarmente confacenti la loro funzione, con un processo che in inglese è definito “homing” (parola che in italiano potrebbe tradursi come “accasamento”). È importante ricordare che non tutti i linfociti circolano allo stesso modo (i T lo fanno più dei B e infatti sono molto più abbondanti nel dotto toracico) e che la recircolazione avviene in modo differente per i linfociti che hanno già avuto l’incontro con l’antigene (detti “memory”) rispetto a quelli ancora “vergini”: i primi tendono a ritornare nella stessa sede dove è presente l’antigene, mentre i secondi migrano preferenzialmente nelle stazioni linfatiche. Le regole di questo viavai linfocitario vengono però sovvertite in presenza di un processo infiammatorio, perché l’endotelio della zona sede di infiammazioni esprime nuove molecole di adesione aumentando l’afflusso dei linfociti, a scapito della selettività di migrazione. È verosimile che anche le modalità di crescita e diffusione delle neoplasie linfatiche sia fortemente influenzata dal sistema delle molecole di adesione.
Linfopoiesi I linfociti presentano una fondamentale differenza rispetto a tutti gli altri elementi cellulari circolanti nel sangue. Questi ultimi, come si è visto, rappresentano lo stadio terminale di un processo differenziativo nel corso del quale hanno perso la capacità di autoreplicarsi: la loro continua produzione (che bilancia le perdite) dipende perciò dall’attività di cellule staminali (si veda al capitolo 43 quanto scritto a proposito della mielopoiesi). I linfociti, al contrario, anche quando sono pienamente maturati, sono ancora capaci di rigenerare se stessi come conseguenza della loro trasformazione, per effetto di adatte sollecitazioni, in cellule di aspetto blastico che vanno incontro a mitosi. La linfopoiesi dipendente da precursori indifferenziati non avviene perciò con la stessa intensità lungo tutto l’arco della vita (come è il caso della mielopoiesi), ma è particolarmente importante durante lo sviluppo corporeo e nell’età giovanile, attenuandosi con il passare del tempo. A differenza di quanto avviene in altri campi dell’ematologia, le tappe del processo maturativo dei linfociti non possono essere facilmente seguite con criteri morfologici tradizionali. Esse sono però caratterizzate dalla comparsa sulla membrana cellulare di molecole proteiche o glicoproteiche (indicate per consuetudine con la parola inglese “marker”), individuabili con anticorpi monoclonali e con tecniche di immunofluorescenza. Gli anticorpi monoclonali sono immunoglobuline prodotte da un unico
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clone cellulare (ibridoma). La tecnica messa a punto da Kohler e Milstein nel 1975 si basa sulla fusione in vitro di splenociti di topo immunizzato con l’antigene desiderato e una linea tumorale mielomatosa autoreplicantesi. L’ibrido così ottenuto continuerà a crescere in vitro o dopo inoculo in un topo e a produrre quantità virtualmente illimitate di anticorpi specifici per l’antigene impiegato nell’immunizzazione, tutti rigorosamente omogenei dal punto di vista chimico e immunologico. Grazie all’impiego di questi reattivi è stato possibile identificare un’ampia serie di molecole di superficie delle cellule linfatiche che venivano convenzionalmente indicate con l’iniziale della popolazione su cui erano presenti in modo elettivo. Attualmente si preferisce impiegare, per quelle meglio caratterizzate, la sigla CD (Cluster of Differentiation) seguita da un numero. È del tutto comune infatti che la stessa molecola sia espressa da popolazioni linfocitarie diverse e non possa in questo caso essere considerata come un marker distintivo di un particolare stipite cellulare. Al momento attuale i CD identificati su linfociti e altre cellule ematiche sono oltre 250. Le caratteristiche principali dei CD noti possono essere facilmente reperite sul web al sito http://www.ncbi.nlm.nih.ga/prow/. La linfopoiesi avviene da un progenitore comune, una stem cell midollare “committed”, verso la linea linfoide e procede secondo due linee alternative che portano rispettivamente all’espansione e differenziazione della popolazione dei linfociti B, destinati a produrre anticorpi, e dei linfociti T cui è devoluta una serie complessa di funzioni regolatorie e la produzione degli effettori citotossici (Fig. 49.2).
Ontogenesi dei linfociti B La linfopoiesi B avviene direttamente nel midollo osseo (ma anche nel fegato fetale durante lo sviluppo). I linfociti che ne derivano sono perciò detti linfociti B (da Bone marrow, midollo osseo in inglese; ma anche da Bursa di Fabricius che è l’organo linfoepiteliale prossimo alla cloaca nel quale avviene lo stesso processo negli uccelli). Le tappe differenziative dei linfociti B sono state studiate sia con l’impiego degli anticorpi monoclonali, che con tecniche di biologia molecolare. Il punto cruciale nella maturazione dei precursori B è rappresentato dal processo che permette la trascrizione e la sintesi dei prodotti dei geni delle immunoglobuline. I linfociti B, infatti, sono le uniche cellule capaci di sintetizzare gli anticorpi o immunoglobuline (Ig). Uno degli aspetti più difficili da chiarire è la modalità con cui un numero limitato di geni (nell’uomo si calcola che i geni che codificano per gli anticorpi siano solo alcune centinaia) permettano la produzione di un numero enormemente superiore di molecole anticorpali, pari alle 108-109 specificità che costituiscono il repertorio del sistema immunitario adulto. In altre parole, poiché ogni singola cellula B produce una sola specificità anticorpale e il patrimonio genico è uguale per tutte le cellule dell’organismo, questo vuol dire
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che durante l’ontogenesi devono generarsi 108-109 cloni B in ciascuno dei quali i geni immunoglobulinici iniziali devono essersi diversificati secondo tale ordine di grandezza. Questo è esattamente ciò che avviene mediante un riarrangiamento genico che comporta un complesso processo di taglia-e-cuci del materiale cromosomico all’interno dei tre loci che contengono i geni delle Ig. Nella cellula germinale, così come in tutte le cellule somatiche, i geni per le immunoglobuline sono disposti in sequenza lineare: sul cromosoma 14 quelli per la catena pesante (H), sui cromosomi 2 e 22 rispettivamente per le catene leggere (L) e . I geni della catena H sono raggruppati in quattro regioni: alcune centinaia di geni della variabilità (V), una dozzina di geni della diversità (D), sei geni della giunzione (J) e nove geni per gli isotopi della parte costante (C, C, C1, C2, C3, C4, C1, C2, C). Le famiglie dei geni per le catene leggere sono costituite in modo analogo anche se più semplice: una serie di geni della variabilità (V), geni di giunzione (J) e un unico gene per la parte costante (C o C). In questa configurazione, detta “germ line”, nessuna sequenza può venire trascritta. Trascrizione e sintesi proteica iniziano solo dopo il processo di riarrangiamento. Questo processo è esclusivo e peculiare della linea differenziativa B e viene iniziato dall’attivazione di geni definiti RAG 1 e RAG 2 (da “Recombination Activating Genes”), inizialmente nel locus della catena H, sul cromosoma 14. Sotto l’influsso di una serie di enzimi detti ricombinasi, il nastro di DNA si ripiega avvicinando a caso un singolo gene V a un gene D e a un gene J. Le sequenze intercalate vengono tagliate via mentre i geni selezionati vengono ricongiunti tra di loro a formare una unica sequenza lineare che viene a sua volta ricongiunta al gene C immediatamente seguente sul cromosoma. Poiché l’assortimento dei geni V, D e J è casuale in ogni singola cellula, si genera una notevole varietà di combinazioni che si riflette nell’estrema varietà delle sequenze aminoacidiche che costituiscono la parte variabile della catena H-immunoglobulinica. Un ulteriore elemento di diversificazione è dato dall’aggiunta, nei punti di ricongiunzione tra D e J, di nuovi nucleotidi, operato da un enzima, la desossi-nucleotidil-transferasi terminale (TdT), presente nei linfociti B e T solo durante questo stadio della maturazione. A causa della sua collocazione sul cromosoma, il gene C selezionato per primo, a cui viene ricongiunto il segmento V-D-J, è C. La prima catena H prodotta è perciò quella dell’isotipo IgM. Un processo così complesso ha evidentemente molte probabilità di non riuscire ad essere completato in modo adeguato (riarrangiamento non-produttivo). In questo caso la cellula ha ancora la possibilità di tentare il processo sull’altro allele del cromosoma 14. Se anche qui le cose vanno male, la cellula non può procedere nella differenziazione e muore a questo stadio. Se invece le cose vanno bene già al primo tentativo, il secondo cromosoma viene silenziato con proces-
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so detto di esclusione allelica mentre il gene neoformato, V-D-J-C, comincia a venire trascritto. La comparsa di catene nel citoplasma costituisce perciò la prima tappa differenziativa rilevabile in immunocitochimica delle cellule B. Si parla di “linfocita pre-B”. Il secondo passo differenziativo consiste nell’elaborazione, con un processo molecolare del tutto simile, del materiale genico che codifica per le catene leggere. Il riarrangiamento inizia prima sul cromosoma 2, nel locus di e se tutto procede senza intoppi il linfocita maturo monterà catene (60% delle cellule periferiche). In alternativa, la ricombinazione verrà tentata per . La cellula è ora in grado di sintetizzare un’immunoglobulina completa (IgM) e la monta in superficie. A questo stadio il linfocito B può lasciare il midollo osseo e migrare negli organi periferici, ma non è ancora in grado di proliferare e differenziarsi in risposta all’antigene (“linfocito B immaturo”). Entro pochi giorni la cellula comincia ad utilizzare (sempre in apposizione con la stessa combinazione V, D, J) il gene CH che viene immediatamente di seguito a quello utilizzato per primo, e che è il gene che codifica la regione costante delle catene . In questa fase viene prodotto un trascritto nucleare “lungo” che contiene le sequenze V-D-J-CH-CH. A livello di mRNA esso viene quindi riarrangiato in due forme alternative, V-D-J-CH o V-D-J-CH, che determinano la sintesi contemporanea, in proporzioni variabili, delle due catene e . Alla superficie del linfocito compaiono perciò anche delle immunoglobuline IgD, con la stessa specificità delle IgM che già erano presenti. La presenza in membrana di IgD potrebbe avere un ruolo nell’induzione della tolleranza sui linfociti. A questo punto i passi fondamentali della maturazione dei linfociti B possono essere considerati conclusi. I linfociti B così maturati sono eterogenei. Ciascuno di essi ha alla superficie immunoglobuline (IgM e IgD) di specificità differente e dipendente dal particolare assortimento di geni per le regioni variabili delle catene pesanti e leggere che ha avuto luogo durante il processo di maturazione. Ma, come si è detto, ciascun linfocito è capace di replicare se stesso. Tutti gli elementi discendenti da una singola cellula che è giunta a questo stadio di maturazione utilizzano lo stesso materiale genetico e ne riproducono la specificità: formano perciò un clone. Nell’ambito di ciascun clone di linfociti B può avvenire un ulteriore passo differenziativo, definito con la parola inglese “switch” (difficile da tradurre letteralmente, ma il cui significato può essere reso con un esempio: quando si gira un interruttore di un circuito elettrico da una posizione all’altra si opera uno switch). Questo consiste nel cambiare l’assortimento genetico che serviva a codificare la parte costante delle catene pesanti, sostituendo al gene CH utilizzato per primo uno qualsiasi tra quelli rimanenti. La cellula resta capace di sintetizzare catene pesanti con la stessa regione variabile di prima (perciò la specificità anticorpale non cambia), ma muta la classe delle immunoglobuline che produce (onde il termine switch).
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
SECERNE Ig
IgM
IgM Ag T – IND IgM - IgD
IgG (IgA)
IgM - IgD - IgG (IgA)
Ag+T IgM - IgG (IgA) IgG (IgA)
IgG (IgA)
IgG (IgA)
IgG (IgA)
SECERNE
Figura 49.3 - Linee differenziative dei linfociti B a seconda che vengano stimolati da antigeni T indipendenti (Ag TIND) o da antigeni che richiedono la cooperazione dei linfociti T (Ag + T). All’interno delle cellule sono indicate le classi di Ig citoplasmatiche, all’esterno quelle di membrana.
Mentre gli eventi maturativi descritti prima sono antigene-indipendenti lo switch verso le altre classi immunoglobuliniche avviene solo al momento dell’incontro con l’antigene e necessita dell’aiuto di una sottopopolazione di linfociti T, i T helper. In assenza di stimolazione antigenica la maturazione del linfocita B si arresta a questo stadio e la cellula muore in alcuni giorni. Lo switch va dalla classe immunoglobulinica IgM (e IgD) a una qualsiasi delle classi IgG (e delle sue sottoclassi 1, 2, 3 e 4), IgA (e delle sue sottoclassi 1 e 2) o IgE. Gli eventi a livello cellulare sono allora i seguenti. Per un breve periodo il linfocito B esprime alla sua superficie tanto le IgM e IgD quanto le immunoglobuline della classe verso la quale è avvenuto lo switch (per es., IgM, IgD e IgG). In seguito solo queste ultime immunoglobuline verranno espresse alla superficie cellulare. In alcuni casi
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particolari lo switch non si verifica, il linfocito B può solamente trasformarsi in una cellula producente immunoglobuline della classe IgM (Fig. 49.3). Il linfocito B così maturato è pronto a svolgere la funzione cui è destinato; trasformarsi in plasmacellula producente immunoglobuline della stessa specificità e della stessa classe di quelle espresse in superficie.
Ontogenesi dei linfociti T Il timo è la sede di maturazione più importante per i linfociti T. Infatti, le persone affette da una rara malattia, la sindrome di Di George che comporta agenesia timica (così come alcuni ceppi di topi congenitamente privi di timo, topi “nudi”), sono quasi totalmente privi di linfociti T nel sangue periferico e negli organi linfatici e manifestano una grave immunodeficienza. Peraltro, il fatto che le cellule T, pur molto scarse, non siano completamente assenti in questi casi suggerisce che debbano esistere altre sedi non meglio caratterizzate di maturazione dei linfociti T. Nel timo la cellula progenitrice va incontro a una serie di processi replicativi, differenziativi e selettivi, al termine dei quali viene rilasciato nel sangue l’elemento maturo denominato linfocita T (da timo) che colonizzerà gli organi linfatici periferici. Analogamente a quanto abbiamo visto per i linfociti B, anche per le cellule T la caratteristica più rilevante sarà la capacità di esprimere un recettore per l’antigene, diverso da una cellula all’altra, capace di garantire un amplissimo repertorio di specificità. Anche nel caso dei linfociti T, i geni che codificheranno questo recettore non sono presenti già preformati nella cellula germinale, ma si originano durante l’ontogenesi con un processo di riarrangiamento genico. Il timo dirige la maturazione linfocitaria grazie alla diretta influenza del suo microambiente cellulare e di alcuni peptidi biologicamente attivi, detti ormoni timici, che possono essere secreti nel sangue ed estendere la loro azione sui linfociti T anche dopo che questi sono stati rilasciati dall’organo. Nell’uomo la colonizzazione timica da parte di un precursore midollare indifferenziato avviene verso la 7a-8a settimana di gestazione. I timociti più immaturi sono localizzati nella corticale timica dove vanno incontro a un intenso processo di replicazione. Malgrado questo, più del 95% dei timociti muore prima di raggiungere la midollare; questa elevata mortalità è dovuta sia alla perdita di cellule che non sono state in grado di compiere correttamente il processo di riarrangiamento genico necessario per esprimere il recettore clonotipico, sia a un processo di selezione che favorisce l’espansione solo dei timociti capaci di interagire efficientemente con le molecole MHC del self (selezione positiva). Di questo complesso processo, chiamato “educazione timica” si parlerà più diffusamente nel capitolo 68. Nella zona corticale, i timociti entrano in stretto contatto con le cellule dell’epitelio timico: negli strati più superficiali esse comprendono le cellule “nurse”, che li avvolgono nelle invaginazioni della loro membrana ci-
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toplasmatica, e, più profondamente, delle cellule con lunghe propaggini citoplasmatiche, tra cui i timociti, devono scorrere per raggiungere la midollare. Alla giunzione corticomidollare sono invece presenti un secondo tipo di cellule, di derivazione emopoietica, i macrofagi e le cellule dendritiche, cui è affidata la selezione negativa (eliminazione dei cloni linfocitari potenzialmente autoreattivi; Cap. 68). Il processo di maturazione intratimico dei linfociti T non ha un equivalente morfologico ben definito, ma è contrassegnato dalla comparsa di marker di membrana caratteristici che permettono di dividerlo in tre diversi stadi. Il primo è caratterizzato dall’acquisizione dell’antigene (CD2) che permarrà sulla cellula anche a maturazione completata. Il CD2 è il recettore per le emazie di montone, proprietà che veniva sfruttata nel test delle rosette E per numerare i linfociti T prima dell’avvento degli anticorpi monoclonali (si veda: Caratterizzazione fenotipica dei linfociti.) CD2 è una glicoproteina a peso molecolare 50 kD capace di trasdurre segnali attivatori. Il suo ligando naturale è una molecola chiamata LFA-3, espressa su moltissimi stipiti cellulari; è verosimile che l’interazione CDE2/LFA-3 abbia un effetto stimolatorio sulla proliferazione dei timociti in questa fase. Un’altra molecola che compare a questo stadio capace di indurre proliferazione è CD28; il suo significato funzionale non è ancora completamente chiaro ma essa viene conservata ed è funzionale anche nella cellula matura. Vengono poi acquisiti e persi prima del rilascio dal timo della cellula matura gli antigeni CD1a. CD1a ha una certa omologia strutturale con la catena degli MHC di I classe (Cap. 68) ed è presente in membrana anch’esso associato alla 2 microglobulina. CD71 è il recettore per la transferrina e viene riespresso dai linfociti T maturi dopo attivazione. CD10 è la stessa endopeptidasi neutra presente anche sui linfociti B immaturi. Esso è espresso perciò su molte cellule leucemiche della linea linfatica e viene anche chiamato CALLA (Common Acute Lymphoblastic Leukemia Antigen, antigene comune della leucemia linfatica acuta). Il passaggio al secondo stadio è caratterizzato dal riarrangiamento dei geni che codificano per il recettore antigenico, che viene montato in membrana insieme a un complesso molecolare detto CD3. Il recettore per l’antigene delle cellule T (TCR) è un eterodimero formato da due catene, e , che assomiglia piuttosto da vicino al frammento Fab dell’immunoglobulina. L’informazione genetica per la parte variabile, destinata a combinarsi con l’antigene delle due catene, è contenuta, in modo analogo a quanto avviene per le immunoglobuline, in due o tre famiglie di geni, V, D e J per la catena , codificata sul cromosoma 7, V e J per la catena , codificata sul cromosoma 14. Diversamente dalle immunoglobuline, per il TCR esiste un unico gene C per la catena e due geni C quasi identici per la catena . Durante la maturazione intratimica queste due regioni subiscono un riarrangiamento che determina l’avvicinamento, con assortimento casuale, di un singolo gene per ciascuna famiglia e la congiunzione del materiale così riarrangiato. L’intera sequenza può a questo punto venire trascritta. Il processo molecolare di generazione del re-
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pertorio recettoriale T assomiglia perciò strettamente a quello delle immunoglobuline, con alcune differenze: a) esistono molti meno geni V per il TCR che per le Ig, ma il repertorio generabile è più ampio grazie a una maggiore diversificazione casuale nelle regioni di giunzione durante il processo di ricombinazione; b) una volta completato il riarrangiamento, il segmento VDJ-C non subisce più ulteriori modificazioni né va incontro a mutazioni somatiche come avviene invece nel gene delle immunoglobuline durante il processo di maturazione per affinità del recettore e dello switch di classe. Il recettore viene espresso in membrana associato a un complesso molecolare detto CD3, formato da cinque catene (, , , , ) che funge da transduttore del segnale attivatorio alla cellula. Nella stessa epoca maturativa in cui compare il recettore antigenico, compaiono anche altre due glicoproteine, CD4 e CD8, destinate però, nella successiva maturazione (3° stadio), a venire alternativamente conservate o perse. Mentre nel timo, infatti, la maggior parte delle cellule possiedono, insieme al CD3, sia il CD4 che il CD8, i linfociti T maturi sono alternativamente o CD4+ (70% circa dei linfociti T circolanti) o CD8+ (30% circa). CD4 è formato da una singola catena e può legarsi alla parte invariante della catena della molecola MHC di II classe, permettendo ai linfociti che lo esprimono di prendere più stretto contatto con le cellule positive per queste molecole. CD8 è un eterodimero che svolge la stessa funzione di ancoraggio per le molecole MHC di I classe. Una sequenza della catena di CD4 viene utilizzata dal virus dell’immunodeficienza umana (HIV) per ancorarsi e penetrare nelle cellule. I linfociti CD4+ sono detti T helper perché aiutano i linfociti B a impegnarsi nella risposta immune. Quando vengono attivati dall’incontro con l’antigene essi rilasciano una varietà di fattori solubili, detti linfochine, attraverso i quali influenzano l’attività delle altre cellule della risposta immune. Del tutto recentemente è stato proposto che anche nell’uomo, come nel topo, i linfociti T helper possano essere distinti in due sottopopolazioni in base al tipo di linfochine prodotte. I linfociti T helper 1 (Th1) produrrebbero essenzialmente IL-2, IFN-; essi sarebbero i maggiori effettori delle risposte di ipersensibilità ritardata. I T helper 2 (Th2) produrrebbero invece IL-4, IL-5, IL-6, IL-10 (si veda Tab. 68.1) e sarebbero più specificamente deputati alla regolazione della risposta anticorpale e al controllo dello switch isotipico. Non è ancora stato individuato nell’uomo un marker di superficie che permetta di distinguere questi due tipi cellulari. I linfociti CD8+ sono detti soppressori/citotossici perché sono in grado di svolgere attività litica sulle cellule che presentano loro un’informazione antigenica estranea. Una parte di essi sembra inoltre dotata di attività regolatoria negativa sulla risposta immune. È stata anche individuata una piccola quota di linfociti T che sono CD3+ ma non esprimono né il CD4 né il CD8. Essi montano, in associazione al CD3, un secondo tipo di recettore per l’antigene, formato da una catena e da una catena . I geni per queste due catene sono localizzati sugli stessi cromosomi di e , e vanno incontro a un analogo processo di riarrangiamento. Le cellule /
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sembrano essere linfociti più “primitivi” rispetto ai linfociti T / . Il recettore è dotato di una minore variabilità e può venire stimolato in modo aspecifico da molecole di derivazione batterica dette “superantigeni” o da proteine cellulari sintetizzate per effetto di vari stress tra i quali il più importante è quello termico (onde il nome di “heat shock proteins”). Durante i primi stadi della maturazione intratimica una larga quota di cellule esprime questo recettore, ma sui linfociti T maturi esso è confinato a meno del 5%. Si ritiene che possa esistere una maturazione direttamente a livello tissutale (extratimica) dei linfociti /, dal momento che essi sono particolarmente numerosi in alcuni tessuti (per es., intestino) e che sono presenti anche nei topi congenitamente atimici. Le cellule CD3 / sono dotate di attività citotossica non MHC-ristretta (si veda il paragrafo seguente). Oltre ai linfociti T e B ne esistono altri che non possono essere classificati né nell’una né nell’altra popolazione. La maggior parte di queste cellule è morfologicamente classificata nella categoria dei Large Granular Lymphocytes ed è dotata della funzione natural killer (cellule NK). L’ontogenesi delle cellule natural killer è ancora per larga parte misteriosa. Esse condividono un tipico marker di membrana dello stipite cellulare T (il CD2) ma non esprimono né il CD3 né l’eterodimero recettoriale / o /. Le cellule NK sono cellule citotossiche che esercitano una prima linea di difesa verso le infezioni virali e verso le neoplasie. Non è ancora stato chiarito attraverso quale struttura esse riconoscano il loro bersaglio e con che livello di specificità. In effetti non necessitano di una precedente sensibilizzazione né che l’antigene sia loro presentato nel contesto degli antigeni di istocompatibilità (restrizione MHC). Il marker caratteristico delle cellule NK è costituito da un recettore a bassa affinità per la regione Fc delle immunoglobuline IgG (CD16). Attraverso questo recettore esse possono svolgere attività killer verso cellule bersaglio ricoperte di anticorpi con un meccanismo che viene chiamato ADCC (Antibody Dependent Cellular Cytotoxicity) (Fig. 49.4).
ADCC Ab K IgG
K
Figura 49.4 - Citotossicità con il meccanismo della ADCC. Il linfocito killer (K) è avvicinato alla cellula bersaglio da un anticorpo IgG per la regione Fc del quale possiede un recettore specifico.
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Un’attività citotossica non MHC ristretta contro la maggior parte dei tumori (perciò più ampia di quella delle classiche cellule NK, attive in vitro solo contro alcune linee tumorali) può essere acquisita dalle stesse cellule NK e da alcuni linfociti T, in presenza di elevate concentrazioni di interleuchina-2. Le cellule così attivate sono chiamate cellule LAK (da Lymphokine Activated Killer).
C. Sensibile ad AG
Ag
C. Memoria
I LINFOCITI NEI PROCESSI IMMUNITARI I linfociti T e B sono le cellule che assicurano la specificità delle risposte immunitarie. Questa specificità ha il suo fondamento nella eterogeneità clonale di queste popolazioni linfocitarie. Un clone è definito dalla reattività esplicata dal suo recettore per l’antigene, costituito dalle immunoglobuline di superficie per i linfociti B e dall’eterodimero / o / per i linfociti T. Ciascun singolo linfocita e tutta la sua progenie (clone) è in grado perciò di rispondere solo nei confronti di un ben preciso antigene e non di altri. La base della risposta immune può quindi essere considerata come un arco riflesso le cui tappe sono le seguenti: a) interazione dell’antigene con quei linfociti che si trovano ad avere strutture recettoriali complementari (recettori dei linfociti T, immunoglobuline di superficie nei linfociti B); b) trasformazione dei linfociti, dopo l’interazione, in cellule blastiche che vanno incontro a mitosi; c) rigenerazione, per effetto di queste mitosi, dei linfociti interagenti che divengono più numerosi per espansione del clone; d) produzione, sempre per effetto di queste mitosi e per espansione clonale, di elementi che si differenziano in modo da essere in grado di operare una serie di reazioni dirette contro l’antigene che ha messo in moto l’arco riflesso (Fig. 49.5). Le cellule prodotte nella tappa c) sono di nuovo in grado di riprodurre l’arco riflesso, ad una seconda esposizione all’antigene, con maggiore prontezza e intensità. Sono perciò la base della memoria immunologica e sono dette cellule memoria. Le cellule prodotte nella tappa d) sono gli effettori delle reazioni immunitarie; quando sono linfociti T provocano le reazioni cosiddette dell’immunità cellulare (citotossicità, reazioni di tipo ritardato), quando sono linfociti B si trasformano in plasmacellule che producono anticorpi diretti contro l’antigene inducente. Numerose cooperazioni cellulari hanno luogo nell’induzione e nello svolgimento delle reazioni immunitarie. Un ruolo chiave nell’induzione delle reazioni immunitarie è svolto dai linfociti T helper. Queste cellule riconoscono gli antigeni convenzionali (1) non come segnale singolo, ma solo quando sono loro presentati nel contesto di particolari antigeni di istocompatibilità autologhi, detti di classe II (e che nell’uomo sono inclusi
(1) Per antigene convenzionale intendiamo un antigene che non sia di istocompatibilità.
Ag
C. Effettrice
Figura 49.5 - Arco riflesso immunitario.
tra quelli codificati nella regione cui appartiene la serie HLA-DR; DQ e DP; Cap. 68). L’induzione può perciò essere ottenuta solo se esistono cellule capaci di “processare” l’antigene, smontandolo in frammenti più piccoli che vengono appunto riespressi alla superficie intimamente associati agli antigeni di istocompatibilità di classe II (si veda il Cap. 68). I linfociti T citotossici, che hanno fenotipo CD8+, riconoscono pure gli antigeni convenzionali assieme ad antigeni di istocompatibilità autologhi, ma questi debbono essere gli antigeni detti di classe I (che nell’uomo corrispondono a quelli delle serie HLA-A, B e C; Cap. 68). È questa la cosiddetta citotossicità MHC-ristretta (dove MHC sta per Major Hystocompatibility Complex), la quale si differenzia da quella che avviene indipendentemente dagli antigeni di istocompatibilità e che è propria delle cellule NK e LAK. A differenza degli antigeni di istocompatibilità di classe II, limitati a cellule particolari, quelli di classe I sono espressi da tutte le cellule nucleate. Qualsiasi cellula dell’organismo può perciò presentare il doppio segnale necessario ai linfociti T citotossici, purché abbia alla sua superficie un antigene convenzionale (situazione tipica: una proteina codificata dal genoma di un virus). Questa interazione è però necessaria ma non sufficiente perché si svolga l’arco riflesso immunitario. Occorre anche che i linfociti T citotossici siano sottoposti all’azione dell’interleuchina-2 prodotta da linfociti T helper attivati in parallelo. I linfociti B non hanno, a differenza dei linfociti T, la necessità di “vedere” gli antigeni convenzionali nel contesto degli antigeni di istocompatibilità autologhi. Mediante i loro recettori immunoglobulinici essi sono capaci di legare l’antigene in forma nativa. La loro espansione clonale e la differenziazione in plasmacellule secernenti anticorpi è però dipendente dall’attivazione parallela dei linfociti T helper. Questa cooperazione richiede che i linfociti B esprimano alla loro superficie gli stessi antigeni di istocompatibilità di classe II pre-
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senti sui macrofagi che hanno presentato gli antigeni estranei ai linfociti T helper, ed è mediata dalla produzione di fattori solubili da parte di questi ultimi.
Caratterizzazione fenotipica dei linfociti Si è visto che i linfociti sono eterogenei. L’individuazione delle diverse popolazioni in cui possono essere classificati è perciò della massima importanza e richiede, come si è detto, tecniche particolari. Non esiste infatti nessuna differenza morfologica che permetta di differenziare i linfociti T dai linfociti B o le sottoclassi dei linfociti T tra di loro. L’unica popolazione linfocitaria che può essere contraddistinta morfologicamente è quella dei linfociti grandi granulari (LGL, Large Granular Lymphocytes, cui appartengono le cellule citotossiche natural killer), il cui citoplasma è ricco in granuli contenenti enzimi litici. Per tutte le altre popolazioni una distinzione è fattibile solo mettendo in evidenza dei marker di membrana caratteristici. Prima dell’avvento degli anticorpi monoclonali questo poteva essere fatto solo in modo indiretto. Per identificare i linfociti T, per esempio, veniva sfruttata la capacità della molecola CD2 di legare le emazie di montone, fenomeno che appariva al microscopio come una figura definita con un po’ di immaginazione rosetta (test delle rosette E, Fig. 49.6). Qualcosa di simile veniva fatto con le emazie di topo, che possono venire legate dai linfociti B immaturi (rosette mouse). Il recettore per le rosette mouse viene perso durante la successiva maturazione del linfocito B, ma può persistere sulle cellule di certe leucemie linfatiche croniche.
T
B B
Figura 49.6 - Metodi di riconoscimento delle popolazioni linfocitarie nel sangue periferico. In alto, un linfocito T che forma una rosetta con globuli rossi di montone. In basso a sinistra, un linfocito B con recettori immunoglobulinici: questi possono essere visualizzati tramite il legame con anticorpi fluorescenti anti-Ig umane (in basso a destra).
Questi metodi sono stati largamente sostituiti dall’impiego degli anticorpi monoclonali; esiste oggi un repertorio molto vasto di monoclonali che permette di studiare le varie popolazioni e sottopopolazioni linfocitarie con una complessità analitica che pone persino qualche problema. L’individuazione dei linfociti T globali grazie all’antigene CD3 e la suddivisione nelle due popolazioni helper (CD4+) e soppressori/citotossici (CD8+), rappresentano gli esempi più semplici. Oltre al complesso CD3, che è il marcatore più caratteristico, altre molecole presenti su tutte le cellule T mature sono il CD2, CD5, CD7, CD45 (presente anche sui linfociti B e chiamato perciò “antigene leucocitario comune”). Recentemente è stato proposto che la popolazione CD4+ possa essere a sua volta suddivisa in due sottopopolazioni in base alla presenza di due ulteriori antigeni, il 2H4 che marcherebbe le cellule naïves e il 4B4 che comparirebbe sulle cellule CD4+ memoria. Le prime collaborerebbero in qualche modo con le cellule CD8+ nella regolazione negativa della risposta immune, mentre le seconde sarebbero i veri aiutanti dei linfociti B nella produzione anticorpale. Nel topo esiste una certa corrispondenza tra cellule a fenotipo naïves e linfociti Th1, e tra cellule memory e linfociti Th2, ma nell’uomo questa associazione non può essere stabilita. L’antigene 2H4 è in realtà un’isoforma a più alto peso molecolare del cosiddetto “antigene leucocitario comune” (CD45). La sua sigla è CD45RA in contrapposizione a CD45RO che contraddistingue la forma a peso molecolare più basso e che viene preferenzialmente impiegata dalle cellule memoria. 4B4 identifica la catena 1 delle integrine, una famiglia di molecole presenti su molte cellule ematiche e non, che permettono l’adesione cellulare a proteine della matrice. I linfociti esprimono queste molecole dopo diversi cicli di attivazione. Anche i linfociti B posseggono diversi marcatori caratteristici che ne permettono l’identificazione con appositi anticorpi monoclonali. Essi comprendono, oltre al recettore immunoglobulinico, gli antigeni DR (MHC II classe), CD19 e CD20. Questi antigeni vengono acquisiti precocemente, prima delle immunoglobuline di superficie, e conservati nella cellula matura. Successivamente compare il CD10 che verrà invece perso nella maturazione. La maturazione successiva è segnata dalla comparsa di CD21, recettore per la frazione C3d del complemento (CR2) e per il virus di Epstein-Barr, e di CD22. Una sottopopolazione di B linfociti maturi coesprime la molecola CD5, un marker dei linfociti T. L’espressione di CD5 si ritrova sulla superficie delle cellule di leucemia linfatica cronica. Nella differenziazione a plasmacellule verranno ulteriormente acquisiti alcuni antigeni come CD38 e CD138, mentre vengono persi quasi tutti i marcatori B. Oltre alle molecole costitutivamente presenti sulla membrana cellulare, dopo attivazione i linfociti possono esprimere i recettori per diverse interleuchine, per fattori di crescita e di differenziazione. Il più noto di questi recettori è il recettore per l’interleuchina-2, un dimero formato da due catene associate in modo non
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covalente. La catena (p75) isolata è presente alla superficie delle cellule NK e T non attivate e, in questo stato, ha un’affinità ridotta per la IL-2. Dopo attivazione viene espressa la catena T (antigene Tac o CD25) e le due catene associate formano il recettore ad alta affinità per l’interleuchina. Una serie di molecole molto interessanti, non specificamente ristrette a singole popolazioni ma ampiamente rappresentate sulla maggior parte dei leucociti (ma anche su piastrine, cellule endoteliali, fibroblasti, ecc.) e di recente scoperta sono le cosiddette molecole di adesione. In effetti il riconoscimento adesivo tra cellule e delle cellule verso i componenti della matrice extracellulare è un momento fondamentale in moltissimi processi, dalla morfogenesi tissutale alla differenziazione e proliferazione cellulare, alla locomozione e passaggio extravasale. Lo stabilirsi di uno stretto contatto tra cellula e cellula è in effetti un momento essenziale in moltissime funzioni leucocitarie, dall’attacco delle cellule citolitiche al loro bersaglio al riconoscimento dell’antigene presentato dai monociti, alla fagocitosi, all’homing nei linfonodi e nelle altre strutture linfatiche. Schematicamente si possono riconoscere almeno quattro diverse famiglie di molecole che intervengono nei processi di adesione, caratterizzate da una stretta omologia di struttura dei loro membri. Nella tabella 49.1 sono presentate le più note. Molte di esse sono costitutivamente presenti sui leucociti, mentre altre vengono espresse solo dopo attivazione. In ogni caso il loro ruolo nel mediare l’adesione dipende, momento per momento, da una
serie di fattori che includono sia il microambiente circostante che lo stato di attivazione o il contemporaneo ingaggio di altri recettori da parte della cellula. Nella superfamiglia della Ig abbiamo già visto la molecola CD2, usata dai linfociti T e dalle cellule NK e il suo ligando, una glicoproteina ubiquitariamente distribuita, chiamata LFA-3. È appunto la presenza di LFA-3 sulle emazie di montone che permette il fenomeno delle rosette E. La famiglia delle integrine comprende sia molecole che funzionano da recettori per la matrice, riconoscendo sulle proteine della matrice una sequenza di tre aminoacidi (Arg-Gly-Asp) caratteristica, sia molecole che servono per l’interazione cellulare. Una di esse, presente su tutti i leucociti è LFA-1 (Lymphocyte Function-associated Antigen). LFA-1 è formata da due subunità, (CD11a) e (CD18): la subunità è condivisa da altre due molecole, Mac1 e p150/95, presenti su macrofagi, monociti, granulociti e su una piccola frazione di linfociti T. Mac1 e p150/95 funzionano come recettori per la frazione C3b inattivata del complemento (iC3b), mentre il ligando di LFA-1 è una molecola presente sia sui linfociti che sulle cellule mieloidi detta ICAM-1. ICAM-1 viene espresso dalle cellule endoteliali sotto l’azione delle citochine infiammatorie e favorisce l’adesione e l’estravasione dei linfociti in queste sedi. L’incapacità geneticamente determinata a sintetizzare la catena di LFA-1 determina una gravissima sindrome da immunodeficienza dovuta all’alterata adesività leucocitaria.
Tabella 49.1 - Le principali molecole di adesione e loro ligandi. CLUSTER DIFFERENZIAZIONE
SUBUNITÀ
• Superfamiglia immunoglobuline – CD2 – LFA-3 (CD58) – ICAM-1 (CD54) – VCAM-1
Monomero Monomero Monomero Monomero
LFA-3 CD2 LFA-1, Mac-1 VLA-4
• Integrine – LFA-1 (CD11a/CD18) – Mac-1 (CD11b/CD18) – p150/95 (CD11c/CD18) – VLA-1 (CD49a/CD29) – VLA-2 (CD49b/CD29) – VLA-3 (CD49c/CD29) – VLA-4 (CD49d/CD29) – VLA-5 (CD49e/CD29) – VLA-6 (CD49f/CD29) – GpIIb/IIIa (CD41/CD61)
ICAM-1, ICAM-2 ICAM-1, iC3b, fX, fibrinogeno Non noto Laminina, collagene Laminina, collagene Laminina, collagene, fibronectina Fibronectina, VCAM-1 Fibronectina Laminina Fibrinogeno, f vW
• Selectine – E-selectina (ELAM-1) – L-selectina – P-selectina
Monomero Monomero Monomero
Sialil-LewisX Adressina vascolare Non noto
• Caderine – E-caderina – N-caderina – P-caderina
Monomero Monomero Monomero
Legame omofilico Legame omofilico Legame omofilico
L/ 2 M/ 2 X/ 2 1/ 1 2/ 1 3/ 1 4/ 1 5/ 1 6/ 1 IIb/ 3
LIGANDO
LFA = Lymphocyte Function Associated Antigen; ICAM = Intercellular Adhesion Molecule; VCAM = Vascular Cell Adhesion Molecule; Mac = Macrophage; VLA = Very Late Antigen; E = endotelio; L = leucociti; P = piastrine; f = fattore; vW = von Willebrand.
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LINFOMI Con il termine di malattie linfoproliferative si intende, in senso stretto, un gruppo di condizioni morbose derivato dalla trasformazione neoplastica di un clone linfocitario. Le migliorate conoscenze sul ruolo funzionale dei linfociti e sulla loro caratterizzazione fenotipica hanno avuto una profonda influenza sulla classificazione delle malattie neoplastiche che colpiscono queste cellule. L’idea centrale è stata che un clone di cellule neoplastiche di derivazione linfocitaria fissa i suoi elementi proliferanti a un determinato stadio di differenziazione e che da questo dipende l’espressione patologica della malattia. Così, se lo stadio di differenziazione è proprio di cellule circolanti, si avrà una leucemia linfatica; se è caratteristico di elementi collocati negli organi linfatici si avrà un linfoma; se interessa cellule anticorpopoietiche si potrà avere una discrasia plasmacellulare. Appare comunque evidente che esiste una sostanziale unità delle malattie linfoproliferative che in qualche caso possono anche convertirsi l’una nell’altra o esprimersi in forme intermedie. Giustamente i patologi hanno perciò deciso di considerarle globalmente sotto la denominazione di linfomi maligni. Per i clinici, tuttavia, la distinzione tra leucemie linfatiche, linfomi e discrasie plasmacellulari (intendendo questo termine in senso molto ampio, come si vedrà in seguito), mantiene una sua sostanziale validità per le notevoli differenze fenomenologiche e terapeutiche che esistono tra questi tre gruppi di malattie. Ci atterremo pertanto a questo criterio clinico nell’esposizione che segue.
Classificazione Da un punto di vista strettamente patologico, come si è visto, i linfomi includono la totalità delle malattie linfoproliferative (comprese le leucemie linfatiche e le discrasie plasmacellulari). Dal punto di vista clinico, per linfomi in senso stretto si intendono tumori solidi, singoli o multipli, localizzati alle strutture linfatiche o, se in altri organi, costituiti da elementi che hanno un corrispettivo nelle strutture linfatiche. Una distinzione preliminare, sulla quale sono d’accordo patologi e clinici, è quella tra linfoma di Hodgkin e linfomi non Hodgkin. Il linfoma di Hodgkin (dal nome di Thomas Hodgkin che nel 1832 descrisse sette casi clinici, almeno tre dei quali vengono oggi considerati esempi effettivi della malattia che porta il suo nome) ha peculiarità distintive sul piano patologico e clinico. Dal punto di vista patologico caratteristiche di questo linfoma sono la presenza, nelle lesioni elementari, di cellule tipiche che sono dette di Reed-Sternberg e la coesistenza di altri elementi cellulari che possono essere considerati “reattivi” (linfociti, plasmacellule, macrofagi, granulociti eosinofili). Le cellule di ReedSternberg sono gli elementi neoplastici veri e propri. Dal punto di vista clinico è pure abbastanza comune os-
servare in questa malattia sintomi e segni che possono avere un uguale significato reattivo e possono farla somigliare a una malattia infettiva. Molto più complicato è il problema della classificazione dei linfomi non Hodgkin. La prima, più elementare, classificazione distingueva due forme: il linfosarcoma e il reticolosarcoma, intendendo che nella prima l’elemento proliferante fosse di derivazione linfocitaria e nella seconda fosse di derivazione istiocitica (gli istiociti sono i macrofagi tissutali e sono un’importante componente del sistema reticolo-endoteliale: onde il nome di reticolosarcoma). Questi termini erano poco felici in quanto il suffisso sarcoma evoca, per similitudine con le altre neoplasie che si rifanno a questo termine, l’idea di una malignità ben superiore a quella propria della maggior parte di queste malattie. Per questo motivo fu introdotto il termine di linfoma e quando, nel 1977, l’Organizzazione Mondiale della Sanità propose una classificazione di queste malattie nella quale veniva reintrodotto il termine di linfosarcoma, questo suggerimento non fu praticamente accolto da nessuno. Per comprendere questi problemi classificativi è molto importante avere presente la struttura dei linfonodi, nella corteccia dei quali sono presenti i follicoli linfatici. Si sa oggi che nei centri germinativi dei follicoli linfatici avviene l’espansione clonale e la differenziazione dei linfociti B in risposta a stimoli antigenici. Questo è favorito dal fatto che nelle regioni interfollicolari sono presenti particolari elementi della linea monociti-macrofagi, detti cellule dendritiche (cioè ramificate), per il fatto che sono dotate di processi citoplasmatici allungati che ne incrementano notevolmente la superficie. Le cellule dendritiche esprimono in notevole quantità gli antigeni di istocompatibilità di II classe e hanno un ruolo molto importante nella focalizzazione degli antigeni e nell’induzione delle reazioni immunitarie (si è visto che i linfociti B necessitano della cooperazione dei linfociti T e che a questi occorre l’interazione con macrofagi). L’infiltrazione linfonodale da parte del tessuto linfomatoso ha spesso una distribuzione nodulare. Questi noduli possono essere considerati l’espansione di singoli follicoli linfatici e sono formati da linfociti B. Nel 1966 Rappaport propose una classificazione basata fondamentalmente su due parametri morfologici: l’aspetto generale del tumore (nodulare o diffuso), la supposta derivazione delle cellule, linfocitica o istiocitica, e le dimensioni delle cellule: grandi, con prognosi peggiore, e piccole, con prognosi migliore; le cellule grandi sono “poco differenziate” e le piccole “ben differenziate”. Questa classificazione è riproducibile e di grande utilità prognostica. Tuttavia lo sviluppo degli studi sulla caratterizzazione fenotipica dei linfociti ha portato al superamento della classificazione di Rappaport. Dal punto di vista teorico, il fatto più notevole è che le forme definite “istiocitiche” sono in realtà pure costituite da linfociti, variamente trasformati. Si è cercato inoltre di differenziare le forme dovute a linfociti T e B e a caratterizzarle in relazione ai vari stadi della loro differenziazione. Dal punto di vista pratico, questi studi han-
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no indicato che il tipo cellulare implicato in un linfoma ha più importanza, ai fini della stima della malignità, dello sviluppo nodulare o diffuso della malattia. Oltre a quella di Rappaport si sono avute nei recenti anni almeno altre cinque classificazioni importanti. Tra queste meritano di essere ricordate quella di Lukes e Collins, basata interamente sulla caratterizzazione immunologica degli elementi linfomatosi (ma difficile a farsi e poco riproducibile), e quella adottata da una convenzione dei patologi europei, detta anche di Kiel, dalla città ove avvenne la riunione degli esperti che la concordarono. Infine, poiché le sei principali classificazioni proposte per i linfomi non Hodgkin hanno, almeno apparentemente, creato uno stato di confusione per cui non è sempre possibile stabilire una correlazione tra i risultati di casistiche cliniche valutate con classificazioni istopatologiche diverse, è stata elaborata la cosiddetta “Working Formulation”. In pratica, al fine di giungere a una relativa omogeneizzazione di linguaggio, l’istituto nazionale americano per le ricerche sul cancro (National Cancer Institute, NCI) ha organizzato e finanziato uno studio multicentrico basato su oltre 1000 casi di linfoma non Hodgkin giunti consecutivamente all’osservazione nei quattro centri scelti per la ricerca (Istituto Nazionale Tumori, Milano; University of Minnesota Hospitals, Minneapolis; New England Medical Center, Boston; Stamford University Medical Center, Stamford). Lo studio istologico, eseguito da sei anatomopatologi autori delle sei principali classificazioni (che hanno classificato i preparati ciascuno secondo il proprio schema), è stato completato da altri sei anatomopatologi che hanno classificato gli stessi preparati secondo tutt’e sei le classificazioni per stabilirne, almeno in via approssimativa, i termini equivalenti. I risultati hanno permesso di elaborare una “formulazione operativa per uso clinico dei linfomi non Hodgkin” (“Working Formulation”). Il punto più importante della Working Formulation (WF) è la divisione dei linfomi non Hodgkin in tre gruppi, a malignità di basso grado, intermedia, di grado elevato, che tengono conto principalmente delle differenze di sopravvivenza. La Working Formulation è di grande utilità pratica, ma non classifica alcune forme di linfomi e di leucemie linfoidi (che, dal punto di vista biologico, debbono essere considerate affini ai linfomi). Per questo motivo una nuova classificazione è stata proposta nel 1994 ad opera di un gruppo di studio internazionale (International Lymphoma Study Group), indicata con l’acronimo REAL (“Revised European-American Classification of Lymphoid Neoplasms”). Questa classificazione include tutte le neoplasie linfoidi, anche quelle che non erano comprese in altri schemi, e utilizza dettagliati studi immunologici e citogenetici per caratterizzare le singole entità morbose. Distingue più semplicemente i linfomi in forme “indolenti” (traduzione italiana imperfetta dell’aggettivo inglese “indolent”, che non significa infingardo, ma qualcosa che non dà dolore e perciò, in senso estensivo, che non è clinicamente grave) e aggressive. Negli ultimi anni la classi-
ficazione REAL ha costituito la base per la classificazione, attualmente considerata standard a livello internazionale per tutte le neoplasie del sistema linfoemopoietico, nota come classificazione della World Health Organization (WHO). Un’ultima considerazione a proposito del fatto che tutte le classificazioni moderne dei linfomi non Hodgkin non includono forme di genuina derivazione istiocitaria: queste, benché rare, tuttavia esistono. Franchi tumori costituiti da istiociti possono insorgere nei linfonodi o in altri tessuti, per esempio nell’intestino. Una forma analoga può essere considerata l’istiocitosi maligna, una rara malattia caratterizzata dall’invasione midollare, linfonodale, epatica e splenica da parte di istiociti neoplastici che, nella milza e nel fegato, esibiscono il fenomeno dell’eritrofagocitosi. La malattia evolve verso la invasione cutanea e ossea da parte degli elementi neoplastici e ha esito rapidamente mortale. Il gruppo di malattie denominato istiocitosi a cellule di Langerhans (Cap. 19) può essere considerato collegato a questa categoria nosologica in quanto pure contrassegnato da proliferazione di elementi cellulari con le caratteristiche della linea monociti-macrofagi.
Problemi clinici: lo “staging” La diffusione nell’organismo dei linfomi può essere molto variabile. Essi possono essere localizzati in una sola sede anatomica (il che deve avvenire di norma in fase iniziale, essendo la loro origine monocentrica) o in più sedi (come accade spesso in occasione della diagnosi), dato che gli elementi neoplastici hanno la tendenza a propagarsi lungo il tragitto della circolazione linfocitaria, per via solo linfatica (come è il caso di stazioni linfonodali contigue), o per via linfatica ed ematica (il che comporta il coinvolgimento di parecchie sedi anatomiche, anche distanti tra di loro). Il grado di diffusione di un linfoma è di grande importanza dal punto di vista clinico, perché influenza notevolmente la prognosi e le scelte terapeutiche. Per questo motivo è della massima utilità che gli stadi di questa malattia siano esattamente classificati. Una classificazione in stadi della malattia di Hodgkin è stata proposta da un apposito comitato ad Ann Arbor nel 1971 ed è tuttora utilizzata, anche se con alcune modifiche di dettaglio, dai principali centri onco-ematologici mondiali. • Stadio I: compromissione di una singola struttura linfatica (2). • Stadio II: compromissione di due o più strutture linfatiche dallo stesso lato del diaframma. Può anche venire indicato il numero delle regioni linfatiche interessate (per es., II 3). • Stadio III: compromissione di strutture linfatiche da entrambi i lati del diaframma. (2) Le strutture linfatiche sono i linfonodi, la milza, il timo, l’anello di Waldeyer, l’appendice e le placche di Peyer. La compromissione epatica è sempre considerata diffusa e quindi stadio IV.
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• Stadio IV: interessamento diffuso o disseminato di uno o più organi o tessuti extralinfatici con o senza interessamento linfoghiandolare concomitante. Sintomi A o B: ogni stadio viene suddiviso nelle categorie A e B a seconda dell’assenza o della presenza di sintomi generali. La classificazione B viene attribuita ai pazienti che presentano: a) una perdita di peso superiore al 10% rispetto al peso iniziale nei sei mesi precedenti, senza causa apparente; b) una febbre superiore a 38 °C in assenza di segni di infezione; c) una profusa sudorazione notturna. Altre specificazioni: la lettera X viene impiegata per indicare una localizzazione massiva (“bulky”), vale a dire un allargamento del mediastino alla radiografia del torace di più di un terzo, oppure la presenza di una massa linfonodale con un diametro massimo superiore a 10 cm; la lettera E indica il coinvolgimento di un singolo sito extralinfonodale che è contiguo o prossimale e una localizzazione linfonodale nota. Questa classificazione in stadi è stata successivamente accettata anche per i linfomi non Hodgkin, nonostante che in questi la sua utilità pratica sia minore. Sfortunatamente, al clinico non riesce di solito evidente lo stadio di un linfoma, dato che l’interessamento di strutture profonde (per es., linfonodi lombo-aortici) può sfuggire completamente. Per questo motivo, il problema diagnostico nei riguardi di un linfoma è duplice: a) la diagnosi della malattia e del suo tipo istologico che, come si è visto a proposito della classificazione, influenza la prognosi (e la terapia); b) il riconoscimento dello stadio della malattia applicando metodi di indagine di vario tipo. Questo procedimento è indicato con la parola inglese “staging”, che letteralmente significherebbe “stadiazione”. Occorre premettere che tanto per la diagnosi istologica che per lo staging può essere necessario ricorrere a metodiche invasive che comportano un prezzo non solo economico, ma anche in termini di morbilità (e, sia pure eccezionalmente, di mortalità). Perciò ogni procedimento va attentamente valutato tenendo presente il rapporto rischio/beneficio: infatti se il risultato di un esame invasivo, potenzialmente rischioso per il paziente, non cambia comunque il programma terapeutico, esso non è giustificato e non va eseguito. La diagnosi istologica è premessa indispensabile a ogni successiva valutazione della malattia; per ottenerla si effettua prelievo bioptico di linfonodi periferici, preferibilmente latero-cervicali o ascellari, quando siano disponibili; in assenza di tumefazioni linfonodali accessibili si effettua il prelievo del tessuto patologico con metodiche diverse a seconda della sede interessata, che possono includere biopsia dell’anello di Waldeyer, endoscopie a livello del tubo digerente con prelievo bioptico, fino alla laparoscopia e laparotomia esplorativa con biopsie epatiche e dei linfonodi addominali profondi. Infatti per arrivare alla diagnosi è giustificato ricorrere anche ai mezzi di indagine cosiddetti “invasivi” qualora non vi sia alternativa. Il procedimento di staging mette a profitto vari metodi che possono essere considerati di due tipi: clinico e
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patologico. Lo staging clinico si avvale dei comuni metodi della semeiotica fisica e di laboratorio e di una serie di esami strumentali in grado di indicare l’invasione di una sede anatomica profonda da parte del tessuto linfomatoso (in realtà nessuno di questi esami clinici dà una indicazione così diretta, ma, in presenza di una diagnosi istologica positiva, è lecito assumere che la lesione indicata dall’esame strumentale è della stessa natura di quella dimostrata con la diagnosi istologica). I procedimenti messi in atto per eseguire lo staging clinico sono indicati nella tabella 49.2. Lo staging clinico è obbligatorio in tutti i casi sino al 4° punto; le ultime metodiche vanno impiegate in determinate situazioni cliniche in cui si configura un’indicazione elettiva. In pratica, lo staging clinico va completato con la radiografia del tubo digerente, ed eventualmente con la gastroscopia in presenza di interessamento dell’anello di Waldeyer o in presenza di sintomi suggestivi, sangue occulto nelle feci, massa addominale. L’urografia è da eseguire in pazienti con funzionalità renale abnorme o linfoadenopatia massiva intraddominale. Uno degli aspetti più importanti e più difficili da dimostrare è la compromissione dei linfonodi che non sono accessibili ai prelievi bioptici e sono meno visualizzabili dalle indagini strumentali più semplici: sono le localizzazioni lombo-aortiche. Per metterle in evidenza sono essenzialmente disponibili la linfografia bilaterale, la TC addominale e l’ecotomografia addominale. È importante avere presente qual è il tipo e l’entità di informazione che può fornire ogni singola metodica, quali sono i rischi, il costo, l’indicazione elettiva. Se sono presenti epatosplenomegalia e tumefazione palpabile dei linfonodi inguinali, se cioè vi sono i segni di malattia sottodiaframmatica, non occorrono in teoria altre metodiche di staging addominale; va tuttavia segnalato che vi è accordo quasi unanime ad eseguire sempre la linfografia, che permette una visualizzazione relativamente duratura dei linfonodi addominali, tale da poterne seguire nel tempo le variazioni dipendenti dall’eTabella 49.2 - Staging clinico. • Accurata anamnesi, in particolare per la presenza di sintomi generali caratteristici del gruppo B. • Esame obiettivo, con particolare attenzione alle stazioni linfoghiandolari periferiche, alle dimensioni del fegato e della milza, all’anello di Waldeyer. • Principali esami di laboratorio: esame emocromocitometrico con conta delle piastrine e formula leucocitaria, velocità di eritrosedimentazione, elettroforesi del siero, prove di funzionalità epatica e renale, uricemia, cupremia, sideremia e transferrinemia, LDH nel siero. • Radiografia del torace in proiezione antero-posteriore e laterale. • Linfografia bipedale. • Esame radiologico del tubo digerente, gastroscopia, urografia, ecotomografia addominale, tomografia assiale computerizzata (TC) toracica e/o addominale, scanning totale con gallio67 e testo ed eventualmente altri esami utilizzanti radioisotopi.
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voluzione della malattia e dal trattamento terapeutico. La linfografia si esegue iniettando in un piccolo vaso linfatico del piede, dopo averlo messo in evidenza con un colorante elettivo, il liquido di contrasto iodato: le alterazioni tipiche consistono in aumento di volume dei linfonodi patologici e disomogeneità nella captazione del mezzo di contrasto, con il classico aspetto schiumoso. La linfografia è in grado di mettere in evidenza i linfonodi iliaci comuni ed esterni e la catena paraortica al di sotto della seconda vertebra lombare; di solito non vengono opacizzati i linfonodi ilari splenici, l’asse celiaco, i linfonodi iliaci interni e i mesenterici. Va tenuto presente che dopo la sua esecuzione non è possibile effettuare indagini istologiche sui linfonodi che hanno captato il mezzo di contrasto e perciò subito alterazioni, che possono condurre a risultati non conclusivi. Le complicanze di questa indagine sono costituite da febbre nel 40% circa dei casi; microemboli polmonarioleosi, di solito asintomatici, in proporzione all’incirca uguale; è controindicata nei pazienti asmatici, nei portatori di gravi malattie polmonari e in caso di grandi masse retroperitoneali e associate anastomosi linfaticovenose, con rischio consistente di embolie polmonari massive da materiale oleoso. La linfografia e la TC addominale danno all’incirca le stesse informazioni per i linfonodi paraortici bassi; la TC può dimostrare linfonodi anche al di fuori dei paraortici; nessuna delle due dimostra con sicurezza l’interessamento splenico. La TC addominale e l’ecotomografia sono molto utili nelle presentazioni rare dei linfomi, specialmente non Hodgkin, come, per esempio, in sede gastrica, ileale, pericardica, pleurica, cerebrale. Lo scanning totale con gallio67 ha un ruolo limitato ma occasionalmente importante: la sensibilità è intorno al 90% nel mediastino e nella parte alta e mediana dell’addome. In conclusione la TC, l’ecotomografia e lo scanning con gallio sono utili per valutare i quadranti superiori dell’addome; nessuna di queste tecniche, usate singolarmente, è in grado di sostituire la linfografia ma l’associazione TC + ecotomografia è il sostituto migliore. Lo staging patologico si avvale di metodiche più o meno invasive per dimostrare la diffusione della malattia non indirettamente, come avviene nello staging clinico, ma direttamente attraverso il prelievo di materiale sul quale il patologo possa osservare la compromissione linfomatosa. Lo staging patologico viene quindi messo in atto per individuare le localizzazioni linfomatose che non possono essere dimostrate con lo staging clinico e per raggiungere livelli di maggiore certezza rispetto al primo metodo. I procedimenti adoperati per eseguire lo staging patologico sono indicati nella tabella 49.3. La biopsia ossea è positiva con frequenza diversa nei diversi tipi di linfoma, in particolare nei non Hodgkin, e la positività è correlata con l’estensione della malattia. In una certa quota di pazienti ritenuti portatori di linfoma poco disseminato e per i quali si prevedono protocolli terapeutici più semplici, eventualmente senza l’impiego della chemioterapia, è indispensabile che la
Tabella 49.3 - Staging patologico. • Biopsia osteomidollare bilaterale dalla spina iliaca posteriore superiore. • Laparoscopia con biopsie epatiche e spleniche multiple. • Laparotomia con splenectomia, biopsie epatiche e biopsie dei linfonodi paraortici, mesenterici, portali e dell’ilo splenico. • Puntura lombare con esame citologico del liquor. • Esame citologico di ogni versamento.
situazione venga accertata con il maggior approfondimento diagnostico possibile a mezzo della laparotomia esplorativa. Essa permette di ottenere campioni di linfonodi mesenterici e portali difficili da valutare per via non invasiva e interessati in circa il 60% dei linfomi non Hodgkin; di eseguire la biopsia della milza in corso di intervento chirurgico, quindi con possibile splenectomia in caso di grave complicanza emorragica; di correggere falsi negativi della linfografia e della biopsia epatica; inoltre di asportare eventuali lesioni gastrointestinali. L’esame istologico dei campioni chirurgici modifica la diagnosi preoperatoria, che potenzialmente modifica la terapia, nel 20% dei pazienti; la mortalità è intorno allo 0,50%; le complicanze intorno al 10%. L’indicazione alla laparotomia è diversa nel caso del linfoma di Hodgkin e nei non Hodgkin, come verrà esposto in seguito, ed è in funzione dello stadio della malattia.
MALATTIA DI HODGKIN La malattia di Hodgkin (o linfogranuloma maligno) è una forma particolare di linfoma caratterizzata dal fatto che nelle sue lesioni gli elementi cellulari patologici sono frammisti a cellule normali di altro tipo alle quali può essere attribuito un significato reattivo. È inoltre tipico di questa malattia una precoce compromissione dell’immunità cellulare. Dal punto di vista clinico la malattia di Hodgkin si distingue per la maggiore frequenza, rispetto agli altri linfomi, con la quale può essere accompagnata da sintomi costituzionali che ricordano le malattie infettive. La malattia di Hodgkin ha una prevalenza che è circa un terzo di quella di tutti i linfomi. La sua incidenza annua è stata stimata, negli USA, attorno a 3 per 100.000 abitanti. Nella distribuzione per età della malattia sono stati notati due picchi: uno tra i 15 e 35 anni e un secondo dopo i 50 anni. L’incidenza è maggiore negli uomini che nelle donne secondo un rapporto di 1,5:1.
Eziopatogenesi L’eziologia della malattia di Hodgkin è sconosciuta; la presenza nel tessuto patologico che costituisce la lesione hodgkiniana di elementi di tipo infiammatorio ha
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portato nel passato a supporre un’eziologia infettiva, ma un agente batterico o virale sicuramente responsabile non si è dimostrato. Del possibile ruolo del virus di Epstein-Barr si dirà in seguito. Esistono osservazioni che attribuiscono una certa importanza a fattori genetici. Questo sembra dimostrato dall’assenza di concordanza per lo sviluppo di malattia in coppie di gemelli dizigoti e dall’esistenza, al contrario, di una discreta concordanza in coppie di gemelli monozigoti. La comprensione del meccanismo patogenetico presuppone che siano definiti:
linfociti, come si è detto, avviene il cosiddetto riarrangiamento dei geni delle immunoglobuline, ossia l’assortimento casuale e la ricombinazione di uno tra diversi geni V, D e J. Questo processo ha luogo nei centri germinativi dei follicoli linfatici. Ebbene, nelle cellule di Reed-Sternberg si è dimostrato che questo riarrangiamento ha avuto luogo per quanto riguarda i geni VH, DH e JH che sono quelli delle catene pesanti delle immunoglobuline. Nel 2% dei casi la biologia molecolare ha recentemente dimostrato, in maniera inequivocabile, l’origine T linfocitaria delle cellule di Reed-Sternberg.
• la natura della cellula bersaglio dell’evento neoplastico ed il ruolo degli altri elementi cellulari che, in proporzione diversa nei diversi quadri istologici, concorrono a costituire il tessuto patologico; • il significato della precoce e caratteristica alterazione dell’immunità cellulo-mediata; • le modalità di disseminazione, correlate allo stadio e quindi al tipo di decorso clinico.
2. Normalmente, dopo il riarrangiamento di geni delle immunoglobuline, le cellule B vanno incontro a una serie di mutazioni somatiche a carico di questi geni. Il processo è, in qualche modo, diretto dall’antigene e dipendente dalla cooperazione dei linfociti T helper. Infatti, le mutazioni che comportano una maggiore affinità per l’antigene consentono la sopravvivenza e l’espansione clonale delle cellule, mentre le mutazioni che non vanno in questo senso determinano la morte delle cellule per apoptosi. Si è dimostrato che nelle cellule di Reed-Sternberg possono essere presenti geni VH che sono aberranti e perciò sicuramente non funzionali. Queste cellule perciò non dovrebbero sopravvivere se si comportassero normalmente. Il fatto che non muoiano dipende evidentemente da qualcosa che le mantiene in vita, a dispetto dei meccanismi fisiologici.
A. Quadro istologico. L’elemento neoplastico tipico della malattia di Hodgkin è una cellula con caratteristiche morfologiche peculiari e che viene indicata con l’eponimo di Reed-Sternberg. Si tratta di una cellula di grandi dimensioni, con citoplasma azzurro chiaro, frequentemente vacuolato e nucleo unico o multiplo. Il nucleo della varietà mononucleata (detta anche cellula di Hodgkin) è plurilobato con contorno irregolare e grosso nucleolo; nella varietà multinucleata i nuclei, in numero anche di 3 o 4, sono di grandi dimensioni, con nucleolo tondo e grosso, circondato da alone chiaro, detto “ad occhio di civetta”. La cellula di Reed-Sternberg ha una derivazione che è apparsa a lungo misteriosa nonostante i grandi progressi che sono stati compiuti nella caratterizzazione fenotipica cellulare con gli anticorpi monoclonali. Queste difficoltà derivano dal fatto che le cellule di Reed-Sternberg sono presenti in piccolo numero nelle lesioni della malattia di Hodgkin (spesso meno del 2% della popolazione cellulare totale del tessuto malato), perciò è difficile essere sicuri di averle isolate senza la commistione con cellule vicine che appartengono alla popolazione reattiva. Per di più, prima dell’avvento delle tecniche di biologia molecolare, era pressoché impossibile isolarne un numero sufficiente ad adeguate analisi. Perciò, gli studi del passato, eseguiti principalmente con tecniche di immunoistochimica e l’impiego di anticorpi monoclonali, avevano dato risultati discordanti, facendo attribuire le cellule di Reed-Sternberg alle volte alla linea dei linfociti B, altre volte a quelle dei linfociti T, e in alcuni casi anche alla linea dei monociti macrofagi. Oggi, grazie alle tecniche di biologia molecolare, e in particolare alla cosiddetta PCR (Polymerase Chain Reaction) che permette l’analisi di minutissime quantità di DNA, si sono conseguiti notevolissimi progressi e si hanno idee più chiare sulla natura delle cellule di Reed-Sternberg, che qui riassumiamo. 1. Le cellule di Reed-Sternberg appartengono in oltre il 98% dei casi alla linea dei linfociti B. In questi
3. Il particolare riarrangiamento dei geni delle immunoglobuline costituisce un marchio individuale con il quale riconoscere una singola cellula di Reed-Sternberg. In vari casi si è visto che cellule di Reed-Sternberg prelevate da diverse lesioni in un singolo ammalato hanno tutte lo stesso riarrangiamento. Questo è un argomento a favore della monoclonalità di questi elementi, cioè la derivazione di tutti da una sola cellula nella quale si è verificato un errore. Tuttavia, altre ricerche hanno pure dimostrato policlonalità, ossia la presenza in un singolo ammalato di cellule di ReedSternberg con marchio genetico differente. È possibile che queste discordanze dipendano da ragioni tecniche, ma è stata anche affacciata l’ipotesi che la malattia sia inizialmente policlonale e divenga monoclonale in seguito, per un accumulo di errori genetici. 4. Esistono sospetti per un ruolo del virus di EpsteinBarr nell’induzione della comparsa di cellule di ReedSternberg. Proteine, RNA e DNA appartenenti al virus di Epstein-Barr sono stati dimostrati nei tessuti coinvolti nella malattia di Hodgkin e, fatto molto importante, nelle stesse cellule di Reed-Sternberg. In complesso, i casi di malattia di Hodgkin correlati con il virus di Epstein-Barr sono compresi tra il 25 e il 60% del totale. Occorre cautela prima di concludere che questo virus ha un ruolo eziologico. Infatti, la sua diffusione è tale che potrebbe trattarsi solo di un innocente “passeggero”. Tuttavia, alcune caratteristiche del virus di Epstein-Barr ne fanno un interessante candidato come agente eziologico. Prima di tutto, questo virus ha un effetto mitogeno policlonale sui linfociti B e, se non te-
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nuto a freno dal sistema immunitario, può indurre proliferazioni pseudolinfomatose. Questo accade anche perché il virus codifica nelle cellule B infettate una proteina chiamata LMP-1 (da Latent Membrane Protein) che protegge dall’apoptosi. Perciò il virus di Epstein-Barr potrebbe essere il fattore che tiene in vita le cellule di Reed-Sternberg che, secondo le regole, dovrebbero morire a causa delle anomalie del loro gene VH. Si aggiunga che la proteina LMP-1 induce anche multinuclearità, proprio quello che si osserva nelle cellule di Reed-Sternberg. In condizioni normali, i linfociti B così infettati vengono eliminati dall’azione di linfociti T CD8+, che riconoscono peptidi codificati dal genoma virale montati su molecole MHC di classe I. Nel caso delle cellule di Reed-Sternberg è difficile che ciò avvenga perché queste sono poverissime di molecole di MHC di classe I alla loro superficie. Altri difetti immunologici da parte del soggetto malato possono contribuire alla mancata eliminazione delle cellule di Reed-Sternberg. Tuttavia, se il virus di Epstein-Barr ha un ruolo nella malattia di Hodgkin, questo è ben diverso da quello inducente pseudolinfomi e vere e proprie neoplasie in pazienti fortemente immunodepressi. Infatti, nel caso dell’Hodgkin, l’azione del virus si limita a mantenere vive delle cellule che altrimenti dovrebbero morire, ma non esercita a loro carico un’importante sollecitazione alla proliferazione. Per quanto riguarda i casi di malattia di Hodgkin nei quali non vi è traccia di virus di Epstein-Barr nei tessuti malati, si è supposto che sia in causa un virus linfotrofo sconosciuto, con caratteristiche simili. 5. Normalmente i linfociti B svolgono la funzione di cellule presentanti gli antigeni ai linfociti T e, così facendo, li stimolano. Esistono dati che fanno pensare che le cellule di Reed-Sternberg pure stimolino i linfociti T, anche se non è chiaro come questo avvenga. Per cominciare, le cellule di Reed-Sternberg presentano alla superficie un marcatore di attivazione che è la molecola CD30. Questa si trova normalmente su cellule B, T e dendritiche attivate. Inoltre, attorno alle cellule di Reed-Sternberg si osservano, nella lesione della malattia di Hodgkin, molti linfociti T a stretto contatto, che formano immagini dette “rosetta”. La presentazione di antigeni da parte delle cellule di Reed-Sternberg non può avvenire come nei linfociti B normali, perché questi, prima di esporre alla loro superficie peptidi montati su cellule MHC di classe II, debbono interiorizzare le proteine dalle quali derivano i peptidi, legandole con il loro recettore immunoglobulinico. Dato che le cellule di Reed-Sternberg sono sprovviste di questo recettore, un processo di questo tipo non può avere luogo. Per tale ragione si è anche supposto che l’antigene implicato non sia esogeno, ma endogeno. Ossia, le cellule T che interagiscono con le cellule di Reed-Sternberg sarebbero autoreattive. Un punto importante è che i linfociti T così stimolati hanno una funzione Th2. Questo può anche essere un fattore di persistenza per le cellule di Reed-Sternberg,
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dato che sono solo i linfociti Th1 che eliminano le cellule presentanti l’antigene. 6. Un punto che ha sempre sollecitato interrogativi è come sia possibile che effetti clinici importanti siano dovuti a un numero limitato di cellule di Reed-Sternberg. Queste, infatti, costituiscono circa l’1% di tutti gli elementi presenti in una lesione della malattia di Hodgkin, essendo il resto rappresentato da elementi reattivi, come linfociti, macrofagi, granulociti neutrofili, eosinofili e fibroblasti. Recenti studi hanno spiegato il paradosso, dimostrando gli importanti effetti di citochine prodotte dalle cellule T stimolate e dalle cellule di Reed-Sternberg stesse. Perciò le alterazioni di fase acuta proprie della categoria B della malattia di Hodgkin sono spiegate con la produzione di IL-1, IL-6 e TNF-; la fibrosi osservata nella variante di sclerosi nodulare è attribuibile alla produzione di TGF- e del fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGF); l’eosinofilia notata nella variante di cellularità mista è dovuta alla IL-5; la linfopenia nella variante di deplezione linfocitaria all’azione combinata di TNF- e TGF- . B. Alterazioni immunologiche. In tutte le malattie neoplastiche in fase sufficientemente avanzata si può avere una depressione immunitaria. È peculiare della malattia di Hodgkin che una depressione elettiva della immunità cellulare, cioè di quella mediata dai linfociti T, si possa verificare precocemente e indipendentemente da qualsiasi compromissione dello stato generale. La recente identificazione della malattia di Hodgkin come un tumore producente citochine ha chiarito anche questo problema. L’immunodepressione è dovuta alla produzione di IL-4, IL-10 e TGF- . Queste citochine, infatti, antagonizzano l’azione dei linfociti T con funzione Th1. La IL-10 e il TGF- inducono poi cellule regolatrici rispettivamente chiamate Tr-1 e Th3 (Cap. 68). Questa peculiare anomalia determina una diminuita capacità per le reazioni di ipersensibilità ritardata ad antigeni intradermici di richiamo (PPD, antigeni fungini o streptococcici) o ad antigeni chimici impiegati per una sensibilizzazione intenzionale (DNCB); una ridotta attitudine al rigetto dei trapianti e un’aumentata suscettibilità a certi tipi di infezioni batteriche, fungine o virali. Il deficit immunologico non ha significato prognostico ed è indipendente dal tipo istologico e dall’estensione della malattia. C. Modalità di disseminazione. La malattia di Hodgkin ha partenza unifocale e procede, lungo i vasi linfatici, interessando aree linfonodali contigue, in parecchi casi anche con direzione contraria rispetto alla via normale di flusso. Inoltre le cellule di Reed-Sternberg, attraverso il dotto toracico, hanno accesso al circolo generale e possono colonizzare anche parenchimi sprovvisti di vasi linfatici afferenti. L’assenza di disseminazione estesa negli stadi precoci del morbo di Hodgkin è verosimilmente dovuta alla bassa potenzialità colonizzante delle cellule neoplastiche circolanti; con il progredire della malattia, però, progre-
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disce anche il deficit immunologico del paziente, il processo neoplastico non è più confinato entro i vasi linfatici ed ha luogo la disseminazione ematogena nei visceri. Il significato clinico e prognostico dell’interessamento di uno stesso organo o tessuto, come il fegato, il midollo, il cervello, i polmoni, i reni o la cute è ben diverso se la localizzazione si è verificata per contiguità da una sede patologica confinante (per es., un’adenopatia mediastinica con diffusione al parenchima polmonare) o se essa è secondaria a metastatizzazione per via ematica, come avviene negli stadi avanzati di malattia.
Classificazione istologica Gli schemi di sottoclassificazione istologica proposti tendono a segregare gruppi relativamente omogenei per quanto riguarda la composizione del tessuto patologico, più in particolare la proporzione relativa dei vari tipi cellulari e la presenza o meno di bande di tessuto di granulazione e fibre collagene, al fine di stabilire una certa correlazione tra quadro istologico e prognosi. Negli ultimi quarant’anni si sono succedute varie classificazioni; nel 1947 Jackson e Parker suddivisero il morbo di Hodgkin in paragranuloma, granuloma e sarcoma con riscontro di andamento via via più sfavorevole dal primo al terzo gruppo; a lungo è stata utilizzata la classificazione detta di Rye, proposta da Lukes et al. nel 1966, che riconosce quattro gruppi principali in ordine crescente di malignità istologica: 1) predominanza linfocitaria; 2) sclerosi nodulare; 3) cellularità mista; 4) deplezione linfocitaria. Attualmente si utilizza la classificazione WHO. Gli studi clinico-biologici hanno documentato come il morbo di Hodgkin comprenda due entità nosologicamente distinte: a) il morbo di Hodgkin nodulare a predominanza linfocitaria (NLPHL) e b) il morbo di Hodgkin classico (CHL). Il linfoma di Hodkin classico, a sua volta, è costituito da quattro sottotipi: sclerosi nodulare, cellularità mista, Hodgkin ricco di linfociti, deplezione linfocitaria. • Morbo di Hodgkin nodulare a predominanza linfocitaria (frequenza relativa del 5%). Corrisponde al paragranuloma della classificazione di Jackson e Parker e alla predominanza linfocitaria della classificazione di Rye. Il linfonodo è caratterizzato dalla presenza di una proliferazione in genere nodulare di cellule di Reed-Sternberg di origine B linfocitaria dalla morfologia caratteristica (cosiddette cellule a “popcorn” o cellule L&H, acronimo che significa cellule linfocitiche e istiocitiche ed è dovuto al loro peculiare aspetto) inserite in un’ampia rete di cellule follicolari dendritiche e di linfociti reattivi. Si ritiene che la cellula, la cui trasformazione dà origine alla malattia, sia un linfocito B, più precisamente un centroblasto del centro germinativo. I pazienti sono in genere di sesso maschile e nella fascia di età compresa tra 30 e 50 anni. • Morbo di Hodgkin classico. In oltre il 98% dei casi la cellula di origine è un linfocito B maturo il cui stadio differenziativo corrisponde ai linfociti B del cen-
tro germinativo. In rari casi la cellula di origine è un linfocito T maturo (post-timico). 1. Sclerosi nodulare (frequenza relativa del 70%). Il linfonodo è attraversato da bande di collageno che delimitano noduli costituiti da cellule di Reed-Sternberg e, in vario rapporto, linfociti, istiociti, plasmacellule, granulociti neutrofili ed eosinofili. Caratteristicamente, in questo tipo istologico le cellule di Reed-Sternberg appaiono, nei preparati istologici, retratte, lasciando sul loro contorno una lacuna che le separa dall’impalcatura generale del linfonodo e sono perciò dette “cellule lacunari”. La malattia di Hodgkin a sclerosi nodulare è più comune nelle giovani donne e più facilmente localizzata in sede cervicale bassa, sopraclaveare e mediastinica. 2. Cellularità mista (frequenza relativa del 20-25%). L’architettura del linfonodo è totalmente sovvertita da un infiltrato nel quale un discreto numero di cellule di Reed-Sternberg coesiste con linfociti, istiociti, plasmacellule, granulociti neutrofili ed eosinofili. Questo tipo istologico è più comune negli uomini che nelle donne, è più spesso accompagnato da sintomi costituzionali (categoria B) e può essere osservato in tutti gli stadi clinici della malattia. 3. Morbo di Hodgkin ricco di linfociti (frequenza relativa del 5%). È caratterizzato da cellule di Reed Sternberg disperse in un sottofondo di piccoli linfociti ed ha caratteristiche clinico-prognostiche simili a quelle del Morbo di Hodgkin nodulare a predominanza linfocitaria. 4. Deplezione linfocitaria (è la variante più rara, con una frequenza relativa < 5%). Le cellule di ReedSternberg sono numerose, mentre tra le rimanenti cellule i linfociti sono scarsi. Questo tipo istologico si osserva più spesso in pazienti anziani con malattia largamente diffusa. Nei pazienti in cui si sono eseguite biopsie multiple in sedi diverse si è documentata una notevole costanza di sottotipo istologico; biopsie in tempi successivi nello stesso paziente hanno dimostrato una relativa costanza del tipo istologico nella sclerosi nodulare ed una progressione da una forma istologica meno maligna ad una più maligna nei gruppi con predominanza linfocitaria e cellularità mista.
Clinica La malattia di Hodgkin ha due modalità di presentazione. In alcuni casi si ha la casuale constatazione di tumefazioni linfonodali (più spesso latero-cervicali) in un paziente che per il resto è asintomatico. In altri casi, il quadro clinico è dominato da quei sintomi e segni costituzionali che sono propri della categoria B dei linfomi e più in particolare dalla febbre. Quando questo accade con interessamento soltanto delle stazioni linfonodali profonde (per es., lombo-aortiche), la presentazione della malattia di Hodgkin è quella di una febbre prolungata di origine sconosciuta ed i primi sospetti diagnostici sono per una malattia infettiva.
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Il quadro clinico è comunque notevolmente influenzato dalla localizzazione della malattia. Verranno elencate le sedi più frequenti o più tipiche con le relative caratteristiche cliniche. A. Linfonodi superficiali. Sono interessati nel 90% dei pazienti, con le seguenti frequenze per la localizzazione isolata: linfonodi latero-cervicali da 60 a 80% con prevalenza a sinistra; linfonodi ascellari da 6 a 20%; linfonodi inguinali da 6 a 12%; l’adenopatia è spesso asimmetrica. La complicazione principale connessa con l’interessamento dei linfonodi superficiali è l’edema unilaterale dell’arto inferiore in presenza di adenopatia inguinale. I linfonodi tumefatti (riconosciuti come tali quando il loro diametro è superiore a 1 cm) sono per lo più di consistenza duro-elastica, non fusi tra di loro, indolenti. Solo raramente possono essere dolenti per la necrosi del tessuto neoplastico. B. Localizzazione intratoracica. Un’adenopatia mediastinica di grandi dimensioni si ha in circa il 10% dei casi in fase di presentazione, ma durante il decorso si verifica nel 66% dei pazienti. È di riscontro più frequente nelle giovani donne con istologia di sclerosi nodulare ed è frequentemente associata con adenopatia sopraclavicolare destra, perché il drenaggio linfatico del mediastino avviene prevalentemente verso questi linfonodi. L’interessamento dei linfonodi polmonari si ha in circa il 20% dei casi che presentano adenopatia mediastinica, più frequentemente in caso di adenopatia mediastinica massiva. Una delle complicazioni principali della malattia mediastinica è l’ostruzione della vena cava superiore con la conseguente sindrome clinica; possono inoltre verificarsi compressione della trachea e dei bronchi principali ed anche ostruzione esofagea con disfagia e rigurgito. Il morbo di Hodgkin polmonare, di riscontro in circa il 30% dei pazienti, ha sintomatologia non specifica, costituita da tosse non produttiva e dai segni dell’insufficienza respiratoria restrittiva; in quasi tutti i casi la localizzazione polmonare è secondaria all’adenopatia mediastinica. Il tumore può invadere la parete bronchiale, proliferare in sede endobronchiale e determinare una sintomatologia di broncostenosi. Infiltrati multipli intraparenchimali di aspetto nodulare si osservano nel 10-20% dei pazienti e rappresentano uno stadio IV di malattia. Tra le localizzazioni intratoraciche di evenienza relativamente rara vanno incluse quelle al cuore, al pericardio ed al timo. C. Localizzazione retroperitoneale e intraddominale. Il rilievo della frequenza di interessamento dei linfonodi retroperitoneali dipende dalla procedura diagnostica impiegata e raggiunge il 40% nei pazienti sottoposti a laparotomia. Lo staging chirurgico dimostra quasi regolarmente l’estensione della malattia ai linfonodi iliaci e paraortici nei pazienti con interessamento apparentemente iso-
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lato dei linfonodi inguinali. I cosiddetti linfonodi di Virchow (linfonodi sovraclaveari di sinistra) sono frequentemente interessati in presenza di morbo di Hodgkin addominale. Le complicazioni della malattia retroperitoneale sono rappresentate dai fenomeni ostruttivi, per esempio a livello degli ureteri con idronefrosi e pielonefrite secondaria, o dell’intestino, e dall’infiltrazione per contiguità anteriormente, a livello del tratto gastroenterico, e posteriormente, a livello del midollo spinale. L’interessamento dei linfonodi mesenterici, piuttosto raro, determina una sindrome da malassorbimento simile al morbo celiaco. A livello del tubo digerente va distinta la localizzazione secondaria a disseminazione dal retroperitoneo, con sede preferenziale allo stomaco e al pancreas (stadio III E), dal linfoma di Hodgkin primitivo del tratto gastroenterico, caratterizzato dall’assenza di linfonodi satelliti, di linfonodi in altre sedi o di interessamento splenoepatico (stadio I E). La localizzazione splenica è quasi costantemente associata all’interessamento dei linfonodi paraortici ed è rivelata con discreta approssimazione dalla splenomegalia. Tuttavia, il solo parametro delle dimensioni della milza, valutate sia con la semeiotica fisica che con le metodiche strumentali (TC, ecotomografia) non è sicuramente correlato al reperto istologico per l’esistenza di falsi negativi e di falsi positivi. I linfomi della categoria B sono frequentemente associati ad interessamento splenico. La splenomegalia può determinare un quadro di ipersplenismo. La frequenza dell’interessamento epatico allo staging iniziale è di circa il 10%; la diagnosi di compromissione epatica non è agevole: l’epatomegalia e le eventuali alterazioni dei test di funzionalità epatica non hanno valore probante sicuro; un dato certo si ottiene solo con biopsie epatiche in corso di laparotomia. D. Altre localizzazioni. A livello del sistema nervoso è possibile un quadro di compressione del midollo per disseminazione dai linfonodi retroperitoneali lungo le radici dei nervi spinali, attraverso i vasi linfatici perineurali, nello spazio epidurale; la sintomatologia è rappresentata da dolore alla colonna, graduale disfunzione motoria, perdita della sensibilità superficiale al di sotto del livello della compressione, infine alterazione del controllo degli sfinteri. Nel caso, piuttosto raro, di Hodgkin intracranico la sostanza cerebrale è per lo più interessata, per invasione perivascolare, da un’infiltrazione meningea contigua, a sua volta eventualmente associata ad una lesione scheletrica adiacente. Il prevalente interessamento a livello della base spiega la possibilità di lesioni dei nervi cranici, specie del III, VI e VII. Per documentare l’interessamento del midollo osseo va eseguita la biopsia che comunque sottostima la percentuale di positività, perché gli infiltrati hodgkiniani hanno distribuzione focale e quindi il prelievo bioptico può cadere in una zona di midollo non coinvolta dalla malattia. Va tenuto presente che se la diagnosi è già sta-
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ta accertata mediante biopsia in altra sede, la presenza di fibrosi midollare focale o diffusa, associata a lesioni granulomatose, anche in assenza di cellule di ReedSternberg, è da considerarsi come fortemente indicativa di Hodgkin midollare. 1. La localizzazione scheletrica analogamente a quanto avviene per il midollo, può verificarsi secondo l’una o l’altra delle modalità di diffusione; prevale nei maschi nel 3° e 4° decennio, le sedi più colpite sono la colonna dorsale e lombare seguita dallo sterno e dalle coste. Dal punto di vista radiologico il quadro non è tipico; la presenza di una massa paravertebrale associata a lesioni vertebrali è un reperto abbastanza indicativo. Gli unici segni clinici della localizzazione scheletrica sono una massa superficiale dolente e la febbre; come complicazioni frequenti si hanno fratture patologiche, collasso vertebrale e compressione del midollo spinale. L’interessamento scheletrico ha significato prognostico sfavorevole, paragonabile all’interessamento epatico. 2. Il morbo di Hodgkin cutaneo è generalmente considerato una manifestazione di malattia avanzata, da disseminazione ematogena, tuttavia in alcuni casi la cute può essere infiltrata per contiguità da un sottostante linfonodo; le lesioni cutanee sono caratteristiche, consistenti di noduli duri, lisci, rilevati, con colorazione disomogenea da eritematosa a purpurica, delle dimensioni da pochi millimetri a grandi placche ulcerate; le zone più frequentemente colpite sono le spalle, le scapole e le ascelle. E. Manifestazioni cliniche non specifiche. A proposito dello staging si sono elencati i sintomi costituzionali che definiscono la categoria B. La febbre è presente in circa il 30% dei casi ed è continua o ciclica; la febbre tipica, detta di Pel-Ebstein, caratterizzata da parecchi giorni o settimane di febbre alternati con periodi afebbrili, è relativamente rara (circa 10% dei casi), ma molto utile per la diagnosi. Un sintomo non bene spiegato che si nota in alcuni pazienti con malattia di Hodgkin (e che non è elencato tra quelli della categoria B dei linfomi perché non peggiora la prognosi) è un prurito diffuso, indipendente da localizzazioni cutanee della malattia. Un altro sintomo raro e di genesi oscura è il dolore indotto dall’ingestione o dall’iniezione endovenosa di alcool, localizzato nell’area interessata dal linfoma di Hodgkin. Il dolore insorge più spesso nei pazienti con interessamento mediastinico, leucocitosi, eosinofilia e fibrosi nel tessuto neoplastico e può precedere di molto i segni clinici e radiologici della malattia; esso di solito scompare dopo una terapia efficace e può ripresentarsi in occasione di una recidiva.
Esami di laboratorio Gli esami, obbligatori ed elettivi, da eseguire in corso di staging e le relative indicazioni sono già stati descritti. Vengono qui considerati alcuni aspetti peculiari per il morbo di Hodgkin a proposito del quadro radiologico del torace e degli esami ematochimici.
A. Radiografia del torace. Quando positiva, mostra la tumefazione linfonodale soprattutto al mediastino anteriore; al di sopra dell’ombra cardiaca si osservano opacità sporgenti nei campi polmonari, con aspetto “policiclico” caratteristico. L’interessamento dei linfonodi ilari è molto meno frequente e tipico. L’esame standard può essere completato dalla TC del mediastino. B. Esami ematologici. Tutti gli elementi figurati del sangue possono andare incontro a modificazioni in corso di linfoma di Hodgkin. L’anemia è la complicazione ematologica più frequente: può aversi il tipo ipocromico microcitico iposideremico con transferrinemia elevata, come da stillicidio ematico cronico (per es., da microemorragia a livello di localizzazioni gastroenteriche) oppure, molto più spesso, con transferrinemia bassa, come nell’anemia delle malattie croniche. Raramente l’anemia è megaloblastica da carenza relativa di folati; in rari casi si è riscontrata anemia emolitica autoimmune Coombs positiva. A carico della serie bianca può aversi leucocitosi con neutrofilia ed eosinofilia. La fosfatasi alcalina leucocitaria è elevata in fase di attività della malattia; l’eosinofilia con valori anche del 40-50% è più comune in presenza di lesioni cutanee e di sintomi sistemici. I linfociti, di solito normali di numero nelle fasi precoci, diminuiscono in fase avanzata; le piastrine sono numericamente normali o lievemente aumentate. In presenza di splenomegalia può aversi il quadro tipico dell’ipersplenismo con pancitopenia. C. Altri esami. La velocità di sedimentazione è elevata in fase di attività, di solito associata ai sintomi della categoria B; è persistentemente elevata in caso di interessamento epatico oppure osseo. Un dato interessante ma non specifico è una frequente elevazione della cupremia durante la fase attiva. L’iperuricemia in fase florida e in seguito alla terapia citoriduttiva si comporta come nelle malattie mielo-linfoproliferative in genere (aumenta cioè quando si ha distruzione di un numero elevato di cellule nucleate). Anche i livelli di LDH nel siero sono aumentati tanto più quanto più elevata è la distruzione cellulare. All’elettroforesi delle proteine del siero si ha frequente ipoalbuminemia, con aumento elettivo delle 2-globuline, dovuto all’aumento dell’aptoglobina e della ceruloplasmina. In circa la metà dei casi si riscontra aumento delle -globuline, dovuto ad aumento delle IgG e delle IgA; in fase avanzata si ha ipo--globulinemia. D. Prove immunologiche. Un dato costante, correlato con le fasi di attività della malattia, è l’alterazione precoce delle reazioni di tipo ritardato, che si valutano mediante intradermoreazione ad alcuni antigeni, come tubercolina (PPD), candidina, tricofitina ed altri. Questo tipo di test è in teoria viziato dalla mancanza di informazione circa una possibile esposizione precedente dei pazienti all’antigene saggiato, ma la pregiudiziale non sussiste quando si immunizza intenzionalmente il paziente con l’agente chimico da contatto “dinitroclorobenzene” (DNCB).
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Nel siero dei pazienti sono stati dimostrati autoanticorpi antilinfociti; si è già riferito dell’anemia emolitica autoimmune Coombs positiva.
Diagnosi In presenza di un quadro clinico suggestivo, deve essere basata sul reperto istologico da prelievo bioptico in sede di tessuto patologico. La diagnosi istologica è premessa indispensabile per affermare la presenza ed il tipo del linfoma e la sottoclassificazione istologica; la biopsia va ripetuta a livello della stessa sede o di un’altra localizzazione patologica se il primo prelievo non ha permesso di ottenere un dato certo; successivamente a una diagnosi istologica sicura, si procede a stabilire lo stadio. Il problema dello staging è particolarmente importante nella malattia di Hodgkin perché la particolare modalità di disseminazione di questo linfoma fa sì che una notevole quota di pazienti si trovi in uno stadio di malattia localizzata, almeno nelle fasi iniziali. La prognosi e le strategie terapeutiche, di fronte a una malattia localizzata o diffusa, possono essere molto differenti. Si può dire che è importante riconoscere accuratamente i pazienti in stadio I, II (A e B) e quelli in stadio III A con localizzazione limitata alla milza e ai linfonodi dell’addome superiore (del peduncolo splenico, celiaci e portali) e che costituiscono un sottostadio detto III A1, e discriminarli da quelli in stadio IV, III B e III A con interessamento dei linfonodi paraortici e pelvici, che costituiscono un sottostadio detto III A2. La laparatomia con splenectomia era considerata un approccio diagnostico particolarmente accurato per la maggior parte dei pazienti e dirimente quando si riteneva che la terapia (radiante o sistemica) fosse legata all’identificazione di una malattia addominale occulta. Attualmente la laparatomia con splenectomia è eseguita raramente (e solo in casi molto selezionati) dal momento che la terapia sistemica ha un ruolo preponderante anche negli stadi iniziali della malattia. La diagnosi differenziale prende in considerazione affezioni diverse a seconda del tipo di presentazione e della sede di malattia. La linfomegalia isolata va differenziata dall’adenopatia satellite di infezioni acute, per esempio del cavo orofaringeo con adenopatia sottomandibolare o, più raramente, dall’adenopatia di infezioni croniche (tubercolosi, lue, toxoplasmosi), dalla malattia da graffio di gatto. Anche metastasi in sede linfoghiandolare di neoplasie in organi profondi (si sono già menzionati i linfonodi di Virchow) possono essere costituite da tumefazione linfoghiandolare unica, di consistenza dura, aderente ai piani sottostanti ed alla cute. Le adenopatie multiple vanno differenziate dalla sarcoidosi (frequente e tipico il reperto radiologico di adenopatia ilare bilaterale), dalle adeniti infettive croniche, più raramente dalle adeniti in corso di brucellosi, mononucleosi infettiva ed altre affezioni virali. Nel caso di localizzazioni extralinfatiche si pone la diagnosi differenziale con le neoplasie dei vari organi e
apparati: solo l’esame istologico è in grado di discriminare una neoplasia del tessuto linfatico da una neoplasia solida. In caso di localizzazione intraddominale senza adenopatie periferiche la sintomatologia può limitarsi ad una febbre continua o remittente: se si ha un sospetto fondato di linfoma addominale va eseguita la laparotomia esplorativa con i consueti prelievi bioptici.
Decorso e prognosi Il decorso è completamente influenzato dal tipo e dall’entità della risposta terapeutica, ossia dall’evenienza di una remissione completa seguita da un periodo di tempo in cui non si apprezzano segni di malattia; quando la durata del periodo asintomatico, in assenza di terapia, è superiore ai 2 anni, il paziente può con buona probabilità considerarsi guarito. La prognosi è più sfavorevole negli stadi avanzati, specie di tipo B; in presenza di malattia mediastinica massiva; in caso di istologia a deplezione linfocitaria; in caso di età avanzata; nel sesso maschile. L’evoluzione sfavorevole del linfoma di Hodgkin è dominata dalla grave compromissione immunologica aggravata dai provvedimenti terapeutici (radio-chemioterapia) e dall’eventuale splenectomia. Le manifestazioni cliniche dell’immunodeficienza sono soprattutto le gravi infezioni e l’aumentato rischio di seconda neoplasia. L’infezione rimane la più frequente causa di morte; le sepsi da germi Gram+ sono per lo più dovute a Streptococcus pneumoniae, Stafilococco aureo; Stafilococco epidermidis; tra i Gram– prevalgono Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa. Di comune riscontro sono anche le micosi da Candida e da Aspergillo e le infezioni virali da cytomegalovirus e soprattutto da virus dell’herpes zoster, che costituisce l’infezione più frequente in questi pazienti. Nel morbo di Hodgkin, particolarmente dopo chemioterapia con farmaci alchilanti, vi è un’aumentata incidenza di leucemia acuta mieloide, di sarcoma di Kaposi, di neoplasie epiteliali.
Terapia (*) La malattia di Hodgkin rappresenta il capostipite del gruppo ancora ristretto delle neoplasie maligne guaribili con terapia medica. Gli attuali programmi terapeutici consentono di ottenere la guarigione nel 70-75% dei pazienti affetti da malattia di Hodgkin; tuttavia, esistono numerosi problemi aperti, con proposte e atteggiamenti spesso conflittuali tra i vari centri di ricerca e risultati conseguentemente confusi. Gli obiettivi della ricerca sono attualmente condensabili nei seguenti punti: • ulteriore miglioramento dei risultati terapeutici, con individuazione di fattori prognostici che consentano (*) E. Bucci, G. Di Lucca.
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di definire pazienti “ad alto rischio”, la cui bassa probabilità di cura con le terapie convenzionali giustifica l’allocazione in protocolli più intensivi; • ottimizzazione del trattamento per i pazienti “a rischio standard”, con limitazione delle metodiche invasive di stadiazione (per es., laparotomia per gli stadi iniziali sovradiaframmatici), riduzione dei campi e delle dosi di radioterapia, scelta di schemi chemioterapici più concentrati, in grado di ottenere un numero ancora più elevato di risposte complete e, soprattutto, una percentuale di sopravvivenza libera da malattia prossima al 100%; • riduzione della tossicità precoce e tardiva; tra i fenomeni tardivi legati alla terapia, emerge in modo sempre più evidente il rischio di seconde neoplasie maligne indotte da farmaci antiproliferativi (alchilanti, epipodofillotossine) e dalla terapia radiante. In sintesi, si potrebbe riassumere il significato degli studi in corso con lo slogan “curare di più facendo meno danni”. Il trattamento della malattia di Hodgkin è basato fondamentalmente sulla radioterapia (trattamento di elezione negli stadi iniziali e complementare alla chemioterapia negli stadi avanzati, soprattutto per un miglior controllo di masse neoplastiche voluminose, “bulky”) e sulla chemioterapia. L’identificazione dei fattori prognostici per la risposta alla terapia e alla sopravvivenza gioca un ruolo fondamentale nel disegno delle nuove strategie terapeutiche, e rappresenta pertanto uno dei più intensi obiettivi della ricerca. Per questo motivo, accanto a parametri tradizionali (età, sesso, sintomi “B”, VES, stadio Ann Arbor, presenza di masse “bulky”, ecc.), emergono nuovi fattori prognostici “biologici” (per es., livello della molecola CD30 solubile, livello di IL-6 nel siero) in grado di consentire una definizione più appropriata delle categorie di rischio. In linea di massima, la classificazione in stadi di Ann Arbor (nella versione modificata proposta durante una conferenza a Cotswolds) resta il punto di partenza per la stratificazione dei trattamenti, consentendo di dividere in stadi iniziali (in genere, si fa riferimento con questa denominazione agli stadi I-II), intermedi e avanzati (II BX, III B, IV). A. Terapia degli stadi iniziali. Le maggiori controversie nel trattamento degli stadi iniziali (I-II) vertono sulla necessità di proseguire con la stadiazione chirurgica di routine (laparotomia), sull’estensione dei campi e sulle dosi di radioterapia e sull’indicazione ad introdurre precocemente una terapia combinata (chemioterapia + radioterapia). La radioterapia rappresenta infatti il trattamento “storico” della malattia di Hodgkin ed è tuttora il punto di riferimento nel trattamento degli stadi iniziali. Nel corso degli anni si è proceduto ad una progressiva limitazione dei campi di trattamento; da diversi anni, per esempio, la radioterapia sulla pelvi ha perso ogni indicazione (se si eccettuano i rari casi a presentazione esclusiva sottodiaframmatica) e le modalità di trattamento più utilizzate sono la radioterapia linfonodale subtotale (comprendente, oltre alle regioni
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
sovradiaframmatiche, la cosiddetta “vanga”, ossia la regione lombo-aortica, le iliache comuni con esclusione della pelvi, l’ilo splenico e, quando non sia stata attuata una stadiazione chirurgica, la milza) e la “mantellina”. Per l’attuazione di una radioterapia con intento curativo la stadiazione clinica (“clinical staging”, CS) è uno strumento imperfetto di valutazione dell’estensione della malattia; con la laparotomia viene riconosciuto un interessamento sottodiaframmatico in circa il 25-30% dei pazienti classificati come stadio I-II sulla base del semplice esame clinico e delle procedure radiologiche. La tecnica di esecuzione prevede la splenectomia con successiva sezione della milza in “fettine” di 3 mm di spessore, l’esame macroscopico del fegato e il suo campionamento bioptico con una biopsia cuneiforme del lobo destro, tre agobiopsie “random” del lobo destro e sinistro, oltre naturalmente alla biopsia di ogni area visivamente sospetta, e il campionamento casuale di tutte le aree linfonodali a rischio con l’asportazione dei linfonodi sospetti all’ispezione e alla palpazione. Il trattamento con sola radioterapia dei pazienti con interessamento sottodiaframmatico (stadio III) comporta un rischio eccessivo di recidiva; in questi casi l’adozione precoce della chemioterapia ha prodotto un netto miglioramento dei risultati. Anche nei pazienti in stadio iniziale (I, II) con sintomi sistemici la terapia di combinazione aumenta la percentuale di risposte complete e riduce il rischio di recidiva; in questi pazienti, pertanto, la stadiazione chirurgica (“pathological staging”, PS) è stata abbandonata, in quanto il significato finale della laparotomia, più che prognostico o terapeutico (non vi è nessuna prova che la rimozione di una milza interessata migliori le prospettive di risposta e di sopravvivenza), è quello di modificare la strategia terapeutica, destinando alla chemioterapia i pazienti con interessamento occulto sottodiaframmatico. Una serie di studi conclusi negli ultimi anni ha dimostrato che nei pazienti a prognosi favorevole (definiti in base a semplici fattori prognostici, come il numero di sedi linfonodali, l’età e la VES) è possibile rinunciare alla laparotomia senza compromettere i risultati del trattamento. Nelle categorie prognostiche meno favorevoli dello stadio I-II e nello stadio III A, il trattamento di riferimento è rappresentato da 4-6 cicli di chemioterapia (attualmente, lo schema più adottato universalmente è l’ABVD, descritto nei dettagli in seguito), seguita da irradiazione limitata alle sedi iniziali di malattia (cosiddetta “involved field”). B. Terapia degli stadi intermedi e avanzati. Storicamente, la malattia di Hodgkin è stata la prima neoplasia maligna umana di cui sia stata dimostrata la curabilità con la chemioterapia. Ciò viene fatto risalire al 1964, quando un gruppo di ricercatori del National Cancer Institute (NCI) di Bethesda (presso Washington), facente capo a Vincent T. DeVita jr, mise a punto una combinazione di farmaci denominata con l’acronimo MOPP (mecloretamina, vincristina = OncovinTM, procarbazina, prednisone). Tutti i farmaci di questa combinazione avevano dimostrato una buona attività come agenti singoli, anche se nessuno era stato in gra-
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do di produrre guarigioni. La revisione dell’esperienza originale del NCI ha dimostrato che la MOPP è in grado di produrre un tasso di CR dell’84%; in tutto, il 54% dei pazienti può ritenersi guarito con il trattamento di prima linea. La MOPP ha rappresentato lo schema di riferimento per la terapia degli stadi intermedi e avanzati per oltre 15 anni. Tuttavia, l’applicazione su larga scala di questo ciclo ha dimostrato che, a contrastarne l’indubbia efficacia, sull’altro piatto della bilancia pesa l’importante tossicità. La MOPP possiede un tossicità acuta (emesi; necrosi da stravaso, particolarmente grave per la mecloretamina; depressione midollare; neuropatia periferica e autonomica da vincristina, a volte permanente) e una tossicità tardiva, i cui aspetti salienti sono il danno gonadico (sterilità permanente in quasi il 100% dei maschi e in oltre il 50% delle femmine) e l’induzione di seconde neoplasie maligne (sia solide che ematologiche). Per questo motivo, sin dalla metà degli anni Settanta, uno degli sforzi principali dei ricercatori è stato quello di elaborare regimi chemioterapici che riducessero questi rischi, oltre a mantenere, o possibilmente a migliorare, l’elevata attività antitumorale della MOPP. La prima reale alternativa alla MOPP è stata rappresentata da uno schema originariamente elaborato dal gruppo di Bonadonna all’Istituto Nazionale Tumori (INT) di Milano come terapia di “salvataggio” per i pazienti non responsivi alla MOPP o ricaduti dopo una CR. Questo regime, il cui acronimo è ABVD (adriamicina, bleomicina, vinblastina, dacarbazina), ha ottenuto risposte complete nel 60% dei pazienti sfuggiti alla MOPP. Partendo da questa premessa, l’INT Milano ha confrontato la MOPP con l’ABVD come trattamento di prima linea, dimostrandone la sostanziale equivalenza in termini di efficacia. L’ABVD, tuttavia, sembra avere una tossicità acuta più contenuta e soprattutto, non contenendo farmaci alchilanti, provoca un danno gonadico nettamente inferiore e un rischio leucemogeno quasi irrilevante. Lo spettro di tossicità dell’ABVD è differente; i rischi maggiori sono da ascrivere alla fibrosi polmonare secondaria a bleomicina e alla cardiotossicità dell’adriamicina. Non è del tutto chiaro se la dacarbazina (farmaco moderatamente mielotossico, ma notevolmente ematogeno) sia un componente fondamentale dello schema; secondo molti Autori, essa potrebbe essere omessa senza compromettere l’efficacia. Successivamente, uno schema basato sull’alternanza mensile di MOPP e ABVD (MOPP/ABVD), introdotto per cercare di superare la resistenza intrinseca ai chemioterapici esponendo rapidamente la neoplasia a molti agenti attivi, si è dimostrato superiore alla sola MOPP. Lo studio più importante, che ancora oggi provoca intense discussioni e sembra aver influenzato in modo decisivo le scelte di trattamento per la seconda metà degli anni Novanta, è quello condotto dal Cancer and Leukemia Group B (CALGB), che ha confrontato, in pazienti affetti da malattia di Hodgkin in stadio III-IV, tre tipi di trattamento chemioterapico: MOPP vs ABVD vs MOPP/ABVD. In questo studio, MOPP/ABVD e ABVD sola hanno dimostrato una pari efficacia (CR
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82% vs 81%, sopravvivenza libera da malattia, RFS, a 3 anni, 64% in entrambi i bracci) e un’efficacia nettamente superiore alla MOPP da sola (CR 69%, RFS 48%). Se la tendenza attuale è quella di considerare l’ABVD come schema di riferimento, si stanno sempre più diffondendo regimi di chemioterapia rapidamente alternante (con somministrazione settimanale di farmaci a diverso spettro di tossicità, come lo schema proposto dal gruppo californiano di Stanford (Stanford V) o quello proposto dal gruppo tedesco (BEACOPP). Sono in corso studi di confronto tra l’ABVD e questi nuovi schemi. Si può concludere che il trattamento standard degli stadi intermedi e avanzati della malattia di Hodgkin consiste nella chemioterapia (ABVD, MOPP/ABVD alternante o MOPP/ABVD ibrido) per 6-8 cicli e comunque per 2 cicli oltre l’ottenimento della remissione completa. Resta da definire il ruolo della radioterapia come consolidamento. Numerosi studi dimostrano come essa sia un complemento irrinunciabile per le sedi di malattia “bulky”, particolarmente a livello mediastinico. La radioterapia “involved field” sulle sedi residue di malattia sembra comunque migliorare i risultati a lungo termine; un’applicazione più sistematica della radioterapia potrebbe invece gravare eccessivamente in termini di tossicità a breve e lungo termine, come suggerito anche da un recente studio del gruppo francese GELA. C. Terapia delle recidive. I pazienti che non rispondono alla terapia di prima linea (“primariamente refrattari”) hanno una prognosi molto grave, mentre i pazienti che, pur ottenendo una risposta obiettiva, non raggiungono una CR con la terapia di prima linea hanno una prognosi più sfavorevole rispetto ai pazienti che hanno una recidiva dopo aver ottenuto una CR. La recidiva dopo sola radioterapia rappresenta la situazione più favorevole. La percentuale di CR e di sopravvivenza a lungo termine di questi pazienti non si discostano significativamente da quelle di pazienti con lo stesso stadio di malattia non pretrattati. Sia la MOPP che l’ABVD che l’alternanza dei due regimi sono molto efficaci nell’indurre CR dopo il fallimento della radioterapia, ma si deve considerare l’elevato rischio di sindromi mielodisplastiche e di leucemie mieloidi acute secondarie che presentano pazienti splenectomizzati, irradiati e quindi trattati con schemi chemioterapici contenenti alchilanti. L’ABVD sembra dunque da preferire in questa situazione. Il problema delle recidive dopo una chemioterapia di prima linea è più complesso. Tradizionalmente, le recidive tardive, definite come le recidive che compaiono ad oltre 1 anno dall’ottenimento di una CR, non sono considerate espressione di una vera resistenza, ma di una mancata eradicazione biologica della malattia con la chemioterapia di prima linea. Il ritrattamento con lo stesso regime chemioterapico può ottenere una nuova CR in un numero elevato di casi. Anche gli studi dell’INT di Milano confermano che è possibile indurre un’elevata percentuale di CR trattando i pazienti con recidiva tardiva con lo stesso schema chemioterapico utilizzato in prima linea o con altri
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schemi “convenzionali”, ma che la sopravvivenza a lungo termine non supera il 45% e che il prezzo da pagare in termini di tossicità iatrogena è molto salato. In ogni caso, la sempre maggiore diffusione di regimi alternanti (MOPP/ ABVD o MOPP/ABV) ha provocato la proliferazione di una serie di regimi chemioterapici di “salvataggio” comprendenti, per la maggior parte, farmaci non inclusi nel trattamento di prima linea. In realtà, nessuno di questi regimi ha dimostrato una chiara superiorità rispetto agli altri, e le percentuali di risposta completa non superano quasi mai il 30-40%. Dei pazienti che ottengono una remissione completa con questi regimi “convenzionali”, non più del 30% ha remissioni sufficientemente lunghe da poter essere considerato guarito: quindi, la strategia convenzionale di trattamento “salva” solo il 10-20% dei pazienti con recidive precoci o con seconda recidiva. La maggior parte di questi regimi è quindi attualmente utilizzata (in pazienti con meno di 60 anni e in buone condizioni generali) per indurre una riduzione della massa tumorale prima di una chemioterapia mieloablativa seguita da trapianto di midollo osseo o di cellule staminali periferiche. L’approccio con chemioterapia ad alte dosi è oggi raccomandato in tutti i pazienti in recidiva o incapaci di ottenere una risposta completa dopo un adeguato trattamento chemioterapico di prima linea, con caratteristiche di età, condizioni cliniche e funzione d’organo (midollo osseo, cuore, polmoni, fegato, reni) in grado di sopportare il trattamento. Non esiste ancora accordo univoco su quale sia il momento migliore per ricorrere a questa strategia: secondo alcuni Autori, recidive tardive con estensione limitata e assenza di fattori prognostici sfavorevoli (per es., assenza di sintomi B e interessamento extralinfonodale assente o limitato) potrebbero essere gestite in modo conservativo, con un regime chemioterapico “convenzionale”, rimandando ad un’eventuale seconda recidiva la scelta della megachemioterapia con trapianto. Inoltre, recidive linfonodali limitate ad una singola regione possono essere sottoposte a radioterapia (ovviamente, se non precedentemente irradiate) con ottimi risultati in termini di sopravvivenza libera da malattia. Tuttavia, tutte le esperienze concordano sul dato che la percentuale di successi ottenibili con la megachemioterapia è inversamente proporzionale al numero di trattamenti precedenti; un atteggiamento attendista potrebbe dunque compromettere la sopravvivenza. È pratica comune far precedere al trattamento megachemioterapico 2-3 cicli di trattamento a dosi convenzionali, a scopo di testare la sensibilità della recidiva alla chemioterapia. Questo riscontro ha infatti un importante valore prognostico: dopo trapianto, la sopravvivenza delle recidive “sensibili” è nettamente superiore a quella delle recidive “resistenti”. I risultati a lungo termine delle procedure mieloablative con trapianto di midollo osseo autologo o di cellule staminali periferiche sono piuttosto eterogenei, ma le sopravvivenze libere da malattia, nelle casistiche più attendibili, vanno dal 45 al 75% a 3 anni. Evidentemente, la selezione dei pazienti gioca un ruolo molto impor-
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tante. Per quanto migliorata, la mortalità legata alla procedura si aggira ancora tra il 5 e il 10%. Per i pazienti non candidabili a un trattamento megachemioterapico, la chemioterapia convenzionale offre una ridotta probabilità di guarigione, anche se possono esistere situazioni più favorevoli in cui si possono conseguire risultati buoni. Nel caso di pazienti con plurime recidive, in condizioni generali scadute, si possono comunque usare regimi moderatamente tossici (come la CEP) o addirittura farmaci singoli (per es., vinblastina o CCNU) per raggiungere la palliazione dei sintomi. D. Tossicità iatrogena. Il problema più importante legato alla terapia della malattia di Hodgkin è dato dalla tossicità a lungo termine, che si manifesta sotto forma di danno d’organo (sterilità, ipotiroidismo, fibrosi polmonare, cardiopatia) o con la comparsa di seconde neoplasie maligne. Sin dalla prima metà degli anni Settanta fu evidente che pazienti in remissione da una malattia di Hodgkin dopo trattamento chemioterapico avevano un rischio notevolmente aumentato di sviluppare una leucemia acuta della linea mieloide, per lo più preceduta da una sindrome mielodisplastica. In generale, il rischio relativo per pazienti trattati con chemioterapia contenente alchilanti è stato stimato superiore a 100 rispetto alla popolazione generale, con una probabilità attuariale dell’8-12% a 15 anni dal trattamento, anche se la concentrazione più elevata di leucemie secondarie si osserva tra 4 e 10 anni di distanza. I fattori di rischio più importanti sono il trattamento prolungato con farmaci alchilanti (in particolare, la mecloretamina e il chlorambucil, in misura esponenziale con un numero di cicli di chemioterapia superiore a 6), con nitrosouree (che pertanto non dovrebbero essere utilizzate nel trattamento di prima linea) e con combinazioni contenenti epipodofillotossine (VP-16 e VM-26), che si associano, in particolare, all’insorgenza di leucemie mielomonocitiche o monoblastiche (M4 o M5) con una caratteristica alterazione cromosomica a livello della regione 11q23. L’aggiunta della radioterapia sembra avere un meccanismo additivo sul rischio di leucemia. Si deve ricordare come la prognosi delle leucemie secondarie sia quasi uniformemente infausta, in ragione di un’elevata resistenza alla chemioterapia. In anni più recenti è emerso anche un aumento del rischio di sviluppare seconde neoplasie solide. Le neoplasie per le quali è stata dimostrata con sicurezza un’associazione con un precedente trattamento per malattia di Hodgkin sono linfomi non Hodgkin (in genere, si tratta di linfomi diffusi a grandi cellule a comportamento aggressivo), sarcomi dell’osso e dei tessuti molli, carcinomi polmonari, carcinomi tiroidei, melanomi, carcinomi gastrici. A differenza di quanto descritto per le leucemie secondarie, la radioterapia gioca un ruolo fondamentale per la predisposizione a sviluppare tumori solidi, in quanto essi insorgono pressoché esclusivamente in aree precedentemente irradiate. Il rischio di sviluppare linfomi non Hodgkin sembra essere invece genericamente correlato all’immunosoppressione derivante dal trattamento, ed è funzione dell’estensione
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della radioterapia e del numero di cicli di chemioterapia. Mentre le leucemie secondarie insorgono quasi esclusivamente entro i primi 10 anni dal completamento della terapia, il rischio di tumori solidi è modesto prima di tale limite, ma aumenta progressivamente dopo 10 anni. La tossicità gonadica è un’altra complicanza disabilitante. La MOPP provoca azoospermia nel 100% dei casi, mentre l’ABVD e altri regimi non contenenti alchilanti hanno questo effetto secondario in una ridotta percentuale di casi (35% per l’ABVD), molti dei quali recuperano una potenziale fertilità a distanza di alcuni mesi dal termine del trattamento. L’azione sulla funzione gonadica femminile è in relazione all’età; la castrazione da farmaci si verifica in oltre il 50% delle donne con più di 35 anni, mentre l’insufficienza ovarica è per lo più transitoria nelle pazienti con meno di 30 anni. Infine, devono essere ricordati i danni ad altri organi. L’irradiazione del collo provoca frequentemente alterazioni della funzione tiroidea, in genere transitorie, anche se un ipotiroidismo permanente è stato riscontrato in circa il 5% dei pazienti. L’irradiazione del mediastino, oltre ai possibili effetti tossici acuti, può provocare una fibrosi polmonare o, molto più frequentemente, un’alterazione subclinica delle prove di funzionalità respiratoria. La somministrazione di farmaci pneumotossici come la bleomicina e le nitrosouree sembra aumentare notevolmente l’incidenza di alterazioni permanenti della funzione respiratoria. Inoltre, la radioterapia toracica comporta un aumento del rischio di coronaropatia, particolarmente elevato nei pazienti irradiati in età giovanile (< 20 anni). Un’alterazione della frazione di eiezione clinicamente rilevante è rara dopo la sola radioterapia, ma sembra aumentare con l’esposizione a farmaci cardiotossici, come le antracicline.
LINFOMI NON HODGKIN L’incidenza dei linfomi non Hodgkin (NHL) è circa doppia rispetto a quella del linfoma di Hodgkin. Questi linfomi sono complessivamente rari, circa il 2% di tutte le neoplasie; il rapporto maschi/femmine è intorno a 1,4:1; l’età di incidenza varia a seconda del tipo citologico, in particolare i linfomi a basso grado di malignità insorgono dopo i 20 anni, con un picco tra il 6° e il 7° decennio; i linfomi ad alto grado di malignità colpiscono anche l’età infantile e giovanile; il tipo linfoblastico è più frequente nei primi 2 decenni. Circa il 70% di questi linfomi, se si adotta un criterio patologico e si include nel gruppo la leucemia linfatica cronica (LLC), appartiene al gruppo a bassa malignità. Per quanto riguarda il tipo immunologico, l’80% dei linfomi non Hodgkin sono derivati da linfociti B e la maggior parte di essi è rappresentata da sottogruppi derivanti dalle cellule del centro follicolare, con immunoglobuline alla superficie ed eventualmente nel citoplasma, in quantità da moderata ad abbondante, per lo più IgM (con o senza IgD, se alla superficie), raramente con IgG.
Eziopatogenesi Come per tutte le neoplasie, l’eziologia dei linfomi non Hodgkin non è nota; alcuni fattori, sia ambientali che dell’ospite, sembrano rivestire una certa importanza. Il riscontro di focolai di aggregazione familiare, sia pure rari, ha fatto supporre l’esistenza di virus leucemogeni lenti, però la dimostrazione sicura di un virus leucemogeno è limitata al retrovirus della leucemia umana a cellule T (HTLV-1), responsabile del linfoma a cellule T concentrato in particolari zone geografiche. Anche per la micosi fungoide sembra che si sia isolato un retrovirus, per lo meno in alcuni casi. Un discorso a parte merita il linfoma di Burkitt per quanto riguarda la forma endemica di alcune zone dell’Africa tropicale e della Nuova Guinea ed i casi sporadici, ubiquitari. Nella forma africana si è dimostrata una forte associazione tra virus di Epstein-Barr e linfoma di Burkitt, con la dimostrazione di anticorpi antiEBV nel siero dei pazienti, mentre questa associazione è meno evidente nei casi sporadici che si verificano nelle aree geografiche ove il virus di Epstein-Barr dà origine di regola alla mononucleosi infettiva; d’altra parte si è notato, a lunga distanza di tempo, un modesto aumento di incidenza del linfoma nei pazienti che avevano sofferto di mononucleosi infettiva (il problema è discusso nel capitolo 81 dedicato alla mononucleosi infettiva). Un’aumentata incidenza di linfomi si è rilevata negli anestesisti, nei veterinari, in coloro che lavorano con cloruro di vinile, negli operai addetti alle raffinerie del petrolio; l’esposizione a radiazioni ionizzanti non pare significativa. Un’elevata predisposizione allo sviluppo di linfomi si è dimostrata nei pazienti portatori di deficit immunologici primari; nei portatori di sindrome di Sjögren e nei soggetti affetti da malattie immunopatologiche (lupus eritematoso, artrite reumatoide) soprattutto se trattati con farmaci immunosoppressori; nei riceventi di trapianto cardiaco o renale con la conseguente terapia immunosoppressiva. Nei pazienti con linfoma non Hodgkin vi è aumentato rischio di insorgenza di carcinoma polmonare, carcinoma della cute, leucemia acuta non linfatica. In questi linfomi sono state dimostrate parecchie anomalie citogenetiche tra cui la più caratteristica è la traslocazione di materiale cromosomico dal braccio lungo del cromosoma 8 al cromosoma 14: t (8, 14). Questo reperto, quasi costante e da ritenersi patognomonico nel linfoma di Burkitt, è stato occasionalmente riscontrato anche in altri linfomi derivanti da linfociti B. A differenza della malattia di Hodgkin, i linfomi non Hodgkin hanno notevole capacità di diffusione per via linfatica ed ematica e restano solo per un tempo limitato allo stadio di malattia localizzata. Un grado estremo di diffusione è la progressione verso una fase leucemica e si è visto, a proposito della classificazione di queste malattie, che esistono notevoli collegamenti tra i linfomi non Hodgkin e le leucemie linfatiche. La relativa probabilità di progressione del linfoma ad una fase leucemica è in funzione delle caratteristiche
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fisiologiche delle cellule normali corrispondenti: le cellule della serie linfocitica piccole e ben differenziate normalmente circolano nel sangue periferico e seguono modalità di migrazione ben definite. Perciò il linfoma linfocitico, sia poco che ben differenziato, invade con discreta frequenza il sangue periferico e diventa una leucemia. Al contrario, le cellule primitive e gli elementi del centro del follicolo sono normalmente fissi nei tessuti extramidollari e meno frequentemente circolano nel sangue periferico. Infine il linfoma di Burkitt è un esempio di sovrapposizione tra linfoma e leucemia acuta; quando si presenta come leucemia è il tipo L3 della classificazione FAB (Cap. 47).
Classificazione istologica Abbiamo anticipato che i linfomi non Hodgkin pongono vari problemi classificativi. La tabella 49.4 riporta un confronto tra la classificazione secondo la Working Formulation, quella di Rappaport e quella di Kiel. La classificazione REAL, con le sue corrispondenze, quando possibili, con la Working Formulation, è riportata nelle tabelle 49.5 e 49.6. Una comprensione dei termini impiegati in queste classificazioni è resa più facile se si hanno presenti gli aspetti morfologici e funzionali dei linfociti nella risposta immunitaria e la loro collocazione nella struttu-
Tabella 49.4 - Classificazione dei linfomi non Hodgkin. Confronto tra la WF e le classificazioni di Rappaport e di Kiel. WORKING FORMULATION (WF) A
B
C
D
E F
G
H
I
J
LM a piccoli linfociti LLC plasmocitoide LM follicolare a piccole cellule clivate con aree diffuse con sclerosi LM follicolare misto a piccole cellule clivate e a grandi cellule con aree diffuse con sclerosi LM follicolare a grandi cellule con aree diffuse con sclerosi LM diffuso a piccole cellule clivate con sclerosi LM diffuso misto a piccole e grandi cellule con sclerosi con cellule epitelioidi LM diffuso a grandi cellule con sclerosi clivate non clivate LM a grandi cellule immunoblastico plasmacitoide a cellule chiare polimorfo con cellule epitelioidi LM linfoblastico a cellule convolute a cellule non convolute LM a piccole cellule non clivate Burkitt con aree follicolari
Diversi: LM composito Micosi fungoide LM istiocitico vero Plasmocitoma extramidollare LM inclassificabile Altri
RAPPAPORT
KIEL
LM linfocitico ben differenziato
LM linfocitico, LLC LM linfoplasmacitico Linfoplasmocitoide LM centrocitico follicolare
LM nodulare poco differenziato
LM nodulare misto linfoistiocitico
LM centroblastico-centrocitico follicolare-diffuso
LM nodulare istiocitico
LM centroblastico-centrocitico follicolare-diffuso
LM diffuso linfocitico poco differenziato LM diffuso misto-linfoistiocitico
LM diffuso istiocitico
LM centroblastico-centrocitico diffuso LM linfoplasmocitoide, polimorfo LM centroblastico-centrocitico diffuso LM a grandi centrociti LM centroblastico diffuso
LM diffuso istiocitico
LM immunoblastico LM della zona T LM a cellule linfoepitelioidi
LM linfoblastico
LM linfoblastico a cellule convolute inclassificabile LM linfoblastico tipo Burkitt linfoblastico B
LM diffuso indifferenziato Burkitt non Burkitt
Micosi fungoide LM plasmocitico
LM = Linfoma maligno; per le lettere dell’alfabeto da A a J si vedano le figure 49.7 e 49.8 e il testo. A, B, C = basso grado di malignità; D, E, F, G = malignità intermedia; H, I, J = alto grado di malignità.
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Tabella 49.5 - Confronto tra la classificazione REAL dei linfomi non Hodgkin e la WF: linfomi “indolent”. REAL
WORKING FORMULATION
LLC-linfoma a piccoli linfociti, LLC prolinfocitica LLC-linfoma a cellule T, leucemia prolinfocitica Leucemia a grandi linfociti granulari Leucemia a cellule capellute Linfoma del centro follicolare (grado I) Linfoma del centro follicolare (grado II) Linfoma B della zona marginale (MALT, linfonodale, splenico) Micosi fungoide
LINEA CELLULARE
A A, E A, E Non classificata B C Non classificato Non classificata
B T T, NK B B B B T
Tabella 49.6 - Confronto tra la classificazione REAL dei linfomi non Hodgkin e la WF: linfomi aggressivi. REAL Linfoma del centro follicolare (grado III) Linfoma della zona mantellare Linfoma diffuso a grandi cellule B Linfoma primario mediastinico a cellule B Linfoma a cellule T periferiche Linfoma a cellule T angioimmunoblastico Linfoma-leucemia a cellule T dell’adulto Linfoma angiocentrico Linfoma a cellule T intestinale Linfoma anaplastico a grandi cellule
WORKING FORMULATION
LINEA CELLULARE
D E F, G, H G F, G, H Non classificato Non classificato Non classificato Non classificato H
B B B B T T T T T T (70%) Null (30%) T (90%) B (10%) B (80%) T (20%) B (95%) T (5%)
Linfoma linfoblastico a precursori di cellule T/B
I
Leucemia linfoblastica a precursori di cellule T/B
Non classificata
Linfoma di Burkitt
ra dei linfonodi. La figura 49.7 dimostra l’evoluzione dei precursori linfoidi in cellule T e B, che avviene indipendentemente dalla stimolazione con antigeni (per questo motivo queste cellule sono anche chiamate T1 e B1). Dopo l’incontro con l’antigene i linfociti divengono grandi cellule che si moltiplicano (immunoblasti) dalle quali derivano le cellule effettrici: altri linfociti nel caso delle cellule T, plasmacellule che secernono anticorpi nel caso delle cellule B. Nel corso di queste risposte vengono generate le cosiddette cellule memoria (T2 e B2). È interessante che le cellule memoria della linea B sono prodotte nei centri germinativi dei follicoli e perciò sono chiamate, a seconda del grado di maturazione, centroblasti e centrociti. I centroblasti sono grandi cellule con caratteri di immaturità, i centrociti sono cellule di medie e piccole dimensioni e hanno un nucleo particolare caratterizzato da una profonda incisura (che può essere descritto con l’aggettivo inglese “cleaved”, che è stato da molti trasformato nel neologismo italiano “clivato”; un significato analogo ha l’aggettivo inglese “indented”, che è stato italianizzato in “indentato”). La figura 49.8 mostra la struttura ge-
J
nerale di un linfonodo e le sedi di origine dei vari tipi di linfomi non Hodgkin secondo la Working Formulation (indicate con le lettere dell’alfabeto che corrispondono ai diversi tipi di linfoma). La figura riporta anche la sede di partenza della malattia di Hodgkin e dell’istiocitosi maligna. A. Correlazioni immunologiche. Numerosi sono i marcatori immunofenotipici individuabili con anticorpi monoclonali (molecole CD) che sono di grande utilità per distinguere le singole forme di linfoma nella classificazione REAL. In questo testo non è di grande utilità parlarne in dettaglio, ma può essere interessante ricordare alcuni particolari che possono stabilire una corrispondenza tra le singole entità nosologiche e le funzioni dei linfociti. 1. Linfomi B “indolent”. La leucemia linfatica cronica (LLC), nella sua forma classica, è dovuta all’accumulo di piccoli linfociti maturi che esprimono molecole IgM e IgD alla superficie e che sono anche provvisti del marcatore CD5 (che è normale per le cellule T). La leucemia prolinfocitica è una variante di questa forma con
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
I
A
H
A
Ag
Linfocita pre-T A Linfocita T1
Immunoblasto T
Linfocita T2
Cellula linfoplasmocitoide
H
Cellula staminale linfoide
Ag PLASMOCITOMA Immunoblasto B Centrocito Linfocita pre-B
Linfocita B1 Centroblasto
Linfocita B2
Centro germinativo I-J
A D-G
C-F B-E
A
Figura 49.7 - Evoluzione morfofunzionale della popolazione linfocitaria B e T a partire dalla cellula staminale linfoide. I linfomi non Hodgkin originano dalla proliferazione monoclonale di un linfocita arrestatosi in una ben precisa fase della sua naturale linea di trasformazione (le lettere in neretto corrispondono ai vari tipi di NHL secondo la WF).
Istiocitosi mal.
S F S
F PC F
PC
NHL = B, C, D, E, F, G
NHL = A, H, I, J HD
Figura 49.8 - Struttura morfofunzionale di un linfonodo. È indicata la sede di origine dei linfomi non Hodgkin. PC = paracorticale; F = follicolo; S = seno; NHL = non Hodgkin linfoma; HD = Hodgkin linfoma. Le lettere dell’alfabeto dall’A a J corrispondono ai vari tipi di NHL secondo la WF.
una maggiore espressione sulla membrana plasmatica di molecole immunoglobuliniche. Come si spiegherà meglio nel capitolo 68, i linfociti B CD5+ sono fisiologicamente deputati alla secrezione di anticorpi IgM a bassa affinità, largamente cross-reagenti. I linfomi follicolari sono così classificati dal sito anatomico della loro partenza. Sono descritti in tre gradi, a
seconda delle caratteristiche delle loro cellule: grado I (piccole cellule “clivate”), grado II (misto, con piccole cellule “clivate” e grandi cellule) e grado III (grandi cellule). Quest’ultimo è, in realtà, un linfoma aggressivo. Si tratta di forme con una notevole tendenza alla disseminazione, e questo è spiegato con il fatto che le cellule che le costituiscono sono dotate sulla loro membrana plasmatica di molecole (CD44, L-selectina) implicate nell’insediamento tissutale dei linfociti (“homing”) e nella loro ricircolazione. Si suppone che i linfomi della zona marginale siano formati da cellule B memoria. Si tratta di linfociti che hanno alla loro superficie IgM, ma non IgD e che possono trovarsi nelle mucose (soprattutto gastrointestinali), derivando dal cosiddetto MALT (Mucosal Associated Lymphoyd Tissue). Sono perciò anche detti maltomi. Possono però proliferare anche nei linfonodi (in questo caso è stata usata anche la denominazione di “linfoma monocitoide”) e nella milza (linfoma splenico con o senza linfociti villosi). 2. Linfomi T “indolent”. Le LLC, la leucemia prolinfocitica a cellule T e i linfomi a cellule T cutanei (come la micosi fungoide) sono dovute all’accumulo di linfociti T maturi con fenotipo helper (CD4+), con casi occasionali che esprimono CD4 e CD8. La leucemia a grandi linfociti granulari è dovuta all’espansione o di linfociti T citotossici (CD8+) o di cellule natural killer (CD16+, CD56+). 3. Linfomi B aggressivi. Del linfoma del centro follicolare di grado III si è già parlato. Il linfoma della zona
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49 - MALATTIE DEL SISTEMA LINFATICO
mantellare è così chiamato perché origina dai follicoli linfatici primari e dal mantello dei follicoli linfatici secondari. Il linfoma diffuso a grandi cellule è la forma più comune in questo gruppo e le sue cellule presentano alla superficie varie molecole di attivazione dei linfociti B. Lo stesso vale per il linfoma di Burkitt, con una distinzione tra la forma endemica (africana) e quella non endemica (americana). Solo la prima, infatti, ha il genoma del virus di Epstein-Barr integrato nelle cellule, che esprimono in superficie il recettore per questo virus (CD21). 4. Linfomi T aggressivi. Il linfoma a cellule T periferiche (o post timiche), nonostante la sua aggressività, è dovuto alla proliferazione di cellule che esprimono il fenotipo di linfociti T maturi, anche se è variabile l’espressione delle molecole di superficie che le contraddistinguono. Per lo più si tratta di cellule CD4+, ma in una minoranza dei casi, il fenotipo è quello dei linfociti T citotossici, CD8+. Esistono sottotipi istologici con particolari presentazioni cliniche delle quali si parlerà in seguito. Le forme anaplastiche sono formate da cellule che, pur con fenotipo di linfociti T maturi, esprimono anche il marcatore CD30 (Ki-1), che è indicativo di intensa capacità replicativa. Le forme linfoblastiche sono dovute alla proliferazione di cellule che corrispondono ai timociti allo stadio II. B. Correlazioni cliniche. Riportiamo qualche caratteristica delle più importanti forme di linfoma. 1. Linfoma maligno a piccoli linfociti (A della Working Formulation). Comprende il 20% dei linfomi non Hodgkin. Quando gli elementi neoplastici passano nel sangue periferico ha luogo una tra le varie forme di leucemia linfatica cronica (si veda in seguito). Quando i linfociti avanzano nella maturazione e arrivano a secernere immunoglobuline (varietà plasmacitoide) compare nel sangue una componente monoclonale (Cap. 50). Questo tipo di linfomi si verifica più facilmente oltre il 4° decennio di vita, più negli uomini che nelle donne, e di solito con un tipo di linfoadenopatia generalizzata. Nonostante lo stadio clinico solitamente avanzato la malignità è modesta. 2. Maltoma. Si tratta della localizzazione extralinfonodale del linfoma B della zona marginale che comunemente è dovuta a trasformazione neoplastica di cellule MALT (si veda il paragrafo sulle correlazioni immunologiche). Le localizzazioni possibili sono a carico del tratto gastrointestinale, quello respiratorio, le ghiandole lacrimali e salivari (possibile evoluzione della sindrome di Sjögren), la tiroide, le ghiandole mammarie o i polmoni. Di solito non si ha invasione midollare. Nel caso della localizzazione gastrica, che è la più frequente, si è notata una associazione con l’infezione da Helicobacter pylori. Un’interessante osservazione è che, in alcuni pazienti, l’eradicazione di questa infezione con antibiotici fa regredire il linfoma. Questo induce a pensare che, almeno in una fase iniziale, tale proliferazione linfomatosa sia sollecitata da un antigene. 3. Linfoma della zona mantellare. È stato chiamato in passato “linfoma centrocitico” e “linfoma a linfociti
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intermedi”. Le sue cellule presentano un profilo immunoistochimico caratteristico: positività per antigeni comuni a tutti i linfociti B e per l’antigene CD5, negatività per due antigeni che sono invece positivi sui linfomi a piccoli linfociti (CD23) e sui linfomi del centro follicolare (CD43). Nel 73% dei casi esiste una traslocazione cromosomica caratteristica. Si tratta di un linfoma relativamente raro (1-8% di tutti i linfomi non Hodgkin) che colpisce per lo più soggetti di sesso maschile con più di 55 anni di età. Le tipiche sedi di localizzazione sono i linfonodi, la milza, il fegato, il tratto gastrointestinale e il midollo osseo. Il sangue periferico è coinvolto nel 13-38% dei casi e la mucosa o sottomucosa intestinale fino al 20% dei casi. Qualsiasi regione del tratto gastroenterico può essere colpita e la malattia si presenta spesso come una poliposi intestinale multipla. I sintomi dei linfomi si osservano in circa un terzo dei pazienti. 4. Linfoma primario mediastinico a cellule B. Si tratta di un linfoma localizzato al mediastino, caratterizzato da una proliferazione di cellule B, con l’aspetto di grandi elementi clivati o no, commisti a rare cellule di tipo Reed-Sternberg, su uno sfondo di sclerosi. È perciò una forma clinica che pone problemi di diagnosi differenziale con la malattia di Hodgkin. 5. Linfoma diffuso a grandi cellule B. È una forma molto aggressiva che colpisce strutture linfoidi ed extralinfoidi (tratto gastrointestinale, testicoli, ossa, tiroide, ghiandole salivari, pelle o cervello). Anche il fegato, i reni e i polmoni possono essere colpiti. La malattia è fortemente invasiva, con compressione locale di vasi sanguigni, vie aeree, nervi periferici. Esiste una forte correlazione tra l’invasione del midollo e la propagazione della malattia al sistema nervoso centrale. Colpisce di solito pazienti di mezza età o più vecchi. 6. Linfomi aggressivi a cellule T. Questi contengono varie entità. a) Il linfoma a cellule T periferiche è così chiamato perché le sue cellule presentano lo stesso immunofenotipo delle cellule T normali del sangue periferico. Dal punto di vista clinico è però molto simile al linfoma diffuso a grandi cellule B. b) Il linfoma a cellule T angioimmunoblastico è una malattia degli anziani con insorgenza acuta e caratterizzata da linfoadenopatia, rash cutaneo, epatosplenomegalia e sintomi B. Sono comuni la plasmocitosi, l’iper-globulinemia policlonale e la positività del test di Coombs. c) Il linfoma angiocentrico si presenta in due varianti: una nasale, probabilmente correlata con il virus di Epstein-Barr e in passato chiamata “granuloma letale della linea mediana” (Lethal Midline Granuloma), e una polmonare, in passato inclusa nello spettro di una particolare vasculite, la granulomatosi linfomatoide (Cap. 19). d) Il linfoma a cellule T intestinale può essere l’evoluzione del morbo celiaco (enteropatia da glutine). È solitamente localizzato all’ileo e può provocare fenomeni occlusivi e perforazione.
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e) Il linfoma anaplastico a grandi cellule T CD30+ è più spesso extralinfonodale e si presenta con caratteristiche cliniche simili a quelle del linfoma diffuso a grandi cellule B. 7. Forme particolari. Della micosi fungoide, della sindrome di Sézary e del linfoma di Burkitt si parla più oltre, nella clinica dei linfomi. Nello stesso paragrafo si torna sul linfoma mediastinico a grandi cellule B. Di altre forme di linfoma-leucemia si parla nel paragrafo dedicato alle forme rare di leucemia linfatica cronica. In conclusione, i linfomi non Hodgkin sono più spesso a cellule B che a cellule T (rapporto 4:1). In genere, a parità di categoria classificativa, i linfomi T hanno un andamento clinico più grave rispetto ai linfomi B. La maggioranza insorge nei linfonodi; circa un terzo dei casi inizia in sedi extralinfonodali, ricche, però, di tessuto linfatico: orofaringe, intestino, midollo osseo, cute. Tutti, anche se in misura variabile, tendono a colonizzare linfonodi circostanti o gruppi linfonodali lontani: la milza, il fegato, il midollo osseo; in alcuni casi, le cellule neoplastiche possono riversarsi nel sangue dando un quadro di leucemia.
Clinica I sintomi costituzionali quali febbre, dimagramento, sudorazione, che fanno classificare il linfoma nella categoria B, sono più rari che nel linfoma di Hodgkin e sono ugualmente correlati con uno stadio avanzato di malattia. I linfomi non Hodgkin esordiscono in sede linfonodale classica in circa il 66% dei casi; per il rimanente hanno sede di partenza extranodale. I linfonodi interessati con maggior frequenza sono i latero-cervicali ed i sovraclaveari ma tutte le stazioni linfonodali possono essere implicate e qualche volta la sede di presentazione è a livello dei linfonodi epitrocleari o brachiali. I linfonodi interessati dalla malattia hanno dimensione variabile, da una nocciola fino a masse di notevole grandezza; nella stessa stazione linfoghiandolare essi sono frequentemente fusi tra loro, di consistenza aumentata fino a lignea, aderenti alla cute sovrastante, talvolta con ulcerazione della cute. Nei pazienti con linfoma diffuso, la linfoadenopatia bilaterale latero-cervicale bassa o sopraclavicolare è più frequentemente associata a malattia mediastinica di quanto non si abbia con una localizzazione latero-cervicale unilaterale; la malattia mediastinica (o ilare) è presente complessivamente in circa il 25% di tutti i casi fin dall’inizio ed è tipica del linfoma linfoblastico T, ove è presente nel 90% dei casi. La sindrome mediastinica, da ostruzione della vena cava superiore, è piuttosto rara. Un reperto curioso nei linfomi non Hodgkin è d’altra parte quello del cosiddetto “salto del mediastino” ossia, in una certa quota di casi, l’assenza di compromissione mediastinica in presenza di adenopatia latero-cervicale e/o sovraclaveare bilaterale.
La splenomegalia è abbastanza frequente, con percentuale diversa a seconda del tipo istologico, quasi costante nel linfoma immunoblastico; una splenomegalia di notevoli dimensioni è di solito indicativa di progressione leucemica. Le sedi extranodali di localizzazione iniziale dei linfomi, con percentuale di interessamento un po’ diversa a seconda del tipo citologico sono, in ordine di frequenza decrescente: l’anello di Waldeyer, il tratto gastroenterico, la cute ed il tessuto sottocutaneo; seguono, con percentuali dal 2 al 7%, le localizzazioni alle ossa, all’occhio, alle ovaie, ai testicoli, alla tiroide, alla mammella, all’encefalo, alle ghiandole salivari, ai polmoni. Le varie localizzazioni extralinfatiche, in particolare a livello dello stomaco, delle gonadi, ecc., danno sintomatologia identica a quella dei tumori solidi nella stessa sede. La localizzazione iniziale più frequente è quella all’anello di Waldeyer, ossia al tessuto linfatico delle tonsille, della base della lingua, del palato molle, del naso-faringe; in circa la metà dei casi si ha compromissione contigua dei linfonodi cervicali; una buona parte dei pazienti si presenta già all’inizio con contemporanea compromissione gastrica ed una certa quota sviluppa interessamento gastrico durante i primi 2 anni di decorso. Tra le localizzazioni al tratto gastroenterico, ove esistono numerose strutture linfoepiteliali nello stomaco e nell’intestino a vari livelli, il linfoma gastrico è il più comune (circa il 20% di tutti i linfomi extranodali); meno frequente è la localizzazione all’intestino tenue; abbastanza comune è la localizzazione epatica. Le localizzazioni cutanee si presentano sotto forma di noduli duri, intracutanei, incolori o con un colorito tipico rosso-bluastro. Le localizzazioni al sistema osseo possono determinare dolore localizzato alla pressione e fratture spontanee. Il linfoma primitivo, localizzato al sistema nervoso centrale, più frequente nei pazienti immunodepressi dopo trapianto d’organo, può essere multifocale o costituito da una massa singola. La localizzazione pleurica, isolata o associata a linfoma polmonare, presenta versamento di tipo essudatizio o chiloso, con reperto citologico positivo. A. Esami di laboratorio. Gli esami di laboratorio presentano alterazioni analoghe a quelle già descritte per la malattia di Hodgkin, ma con queste differenze: • le alterazioni di fase acuta (aumento della velocità di eritrosedimentazione, aumento delle 2-globuline) sono meno spiccate che nella malattia di Hodgkin in fase attiva; • si può riscontrare un aumento della lattico-deidrogenasi (LDH), con significato prognostico sfavorevole; • non si osserva l’eosinofilia; • non sono frequenti le precoci alterazioni immunologiche proprie della malattia di Hodgkin; • nell’elettroforesi delle proteine del siero si può notare ipo--globulinemia, talora con presenza di bande monoclonali (Cap. 50); una iper--globulinemia a
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banda larga è possibile nel linfoma immunoblastico a cellule B; • è possibile osservare nel siero un aumento della concentrazione di 2-microglobulina (che costituisce la parte invariante degli antigeni di istocompatibilità di I classe).
Diagnosi La diagnosi presenta problemi analoghi a quelli descritti per il morbo di Hodgkin; in questo gruppo di linfomi la diagnosi istologica definisce oltre alla presenza anche il tipo del linfoma (e quindi il grado di malignità) ed è un criterio prognostico importante. I criteri di staging del linfoma di Hodgkin sono stati applicati anche ai linfomi non Hodgkin, però il sistema si è rivelato meno valido perché mentre nell’Hodgkin si incontrano tutti e quattro gli stadi con frequenza all’incirca uguale, la maggior parte dei pazienti con linfoma non Hodgkin appartiene agli stadi III e IV; la correlazione tra stadio e prognosi è imperfetta; l’importanza dei segni generali sistemici, molto significativa per il linfoma di Hodgkin, lo è molto meno per questi linfomi. Uno staging sequenziale non chirurgico dimostra prontamente e sicuramente una malattia disseminata (IV stadio) in oltre il 60% dei casi, utilizzando soltanto la biopsia ossea e, in caso di risultato normale di questa, la diagnostica per immagini avanzata (TC, RM) che ha sostituito la linfografia. A questo scopo è indicata una biopsia del tessuto linfo-adiposo retroclavicolare destro (biopsia alla Daniel’s) che risulta positiva nel 10-15% dei casi.
Decorso e prognosi Il decorso, influenzato dalla terapia, dipende soprattutto dal tipo istologico e dallo stadio al momento della presentazione, ossia dallo stato di diffusione del linfoma quando viene iniziato il trattamento. Per quanto riguarda il tipo istologico, tutti i linfomi maligni che contengono come componente principale cellule piccole o di media grandezza appartengono al gruppo a basso grado di malignità e tendono ad avere una storia naturale indolente di 5-10 anni o più. Il linfoma immunoblastico ha decorso naturale più aggressivo, ma quando risponde al trattamento può essere controllato a lungo dai farmaci. Il linfoma della zona T ha decorso particolarmente rapido, anche se costituito da cellule in parte di tipo maturo. Con frequenza diversa nei diversi tipi citologici è possibile l’evoluzione istologica di una forma a basso grado di malignità verso un istotipo ad alto grado di malignità; questa evoluzione non è a priori prevedibile, non pare influenzata dalla terapia ed ha evenienza variabile nell’ambito dello stesso fenotipo. A proposito dello stadio di presentazione il linfoma centroblastico ha la percentuale più elevata (circa il 50%) di stadi I e II, seguito dal linfoma immunoblastico e centrocitico.
Va ancora notato che una compromissione extralinfatica iniziale limitata non è obbligatoriamente da considerare come un linfoma in stadio IV e non ha necessariamente prognosi sfavorevole; per esempio, i pazienti con linfoma localizzato al tratto gastroenterico hanno prognosi relativamente favorevole, a meno che esso non faccia parte di un linfoma già disseminato. I protocolli terapeutici attualmente in uso consentono ad una quota rilevante di pazienti una sopravvivenza di molti anni con una buona qualità di vita; un discreto numero di essi con linfoma ad alto grado di malignità (~ 30%) sopravvive senza più sottoporsi a terapia e senza segni di malattia da almeno 5 anni ed è da considerare guarito. L’evoluzione terminale della malattia è dovuta alla cachessia neoplastica o all’insorgenza di complicanze infettive non più dominabili, favorite dallo stato di depressione immunitaria secondario alla neoplasia e al trattamento chemioterapico.
Terapia (*) I linfomi non Hodgkin rappresentano una categoria estremamente eterogenea dal punto di vista biologico e clinico-prognostico. Ne deriva che sempre più l’approccio terapeutico a questa patologia è riservato a specialisti in grado di decodificare il messaggio contenuto nella complessa terminologia di classificazione e di interpretare correttamente aspetti biologici e clinici determinanti di una specifica varietà. Si possono però esporre alcuni concetti generali rimandando a testi specialistici tutti i necessari dettagli terapeutici. I linfomi sono, in generale, patologie chemio e radiosensibili, per cui chemioterapia (Tab. 49.7) e radioterapia sono le principali armi a disposizione. La chirurgia aveva e soprattutto ha un ruolo sempre più limitato agli aspetti diagnostici. Esistono linfomi a diverso grado di aggressività a seconda dell’istotipo e di altri fattori biologici; in funzione di ciò i trattamenti possono essere più o meno aggressivi. Anche all’interno di una stessa variante l’estensione della malattia nel singolo paziente può variare molto e, come noto, lo stadio clinico secondo Ann Arbor ne è una rappresentazione. A. Linfomi ad elevata aggressività (per es., il linfoma linfoblastico e il linfoma di Burkitt) ricordano molto il comportamento delle leucemie e spesso ne condividono le modalità terapeutiche che si basano su polichemioterapie intensive, eventualmente seguite da trapianto di midollo autologo o allogenico per impedirne la ricaduta. Analogamente alle leucemie si tratta di forme di cui è possibile ottenere la guarigione, con percentuali che variano molto in funzione dei fattori di rischio (età, coinvolgimento midollare, del sistema ner(*) E. Bucci, G. Di Lucca.
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Tabella 49.7 - Linfomi non Hodgkin. Composizione dei principali regimi chemioterapici. PRIMA GENERAZIONE • COPP ciclofosfamide, vincristina (OncovinTM), procarbazina, prednisone • BACOP bleomicina, adriamicina, ciclofosfamide, vincristina, prednisone • COMLA ciclofosfamide, vincristina, methotrexate, acido folinico (= leucovorin), Ara-C • CHOP ciclofosfamide, adriamicina (in inglese: hydroxydaunorubicin), vincristina, prednisone
SECONDA GENERAZIONE • m-BACOD methotrexate, bleomicina, adriamicina, ciclofosfamide, vincristina, desametasone • ProMACE → MOPP (sequenza flessibile) prednisone, methotrexate, adriamicina, ciclofosfamide, etoposide Dopo l’ottenimento della massima risposta si passa a MOPP (si veda morbo di Hodgkin) • COP-BLAM ciclofosfamide, vincristina, prednisone, bleomicina, adriamicina, procarbazina (MatulaneTM) • CHOP → HOAP-Bleo → IMPV-16 (terapia sequenziale) CHOP sino a massima risposta, poi adriamicina, vincristina, Ara-C, prednisone, bleomicina Sino a massima risposta, poi ifosfamide, methotrexate, VP-16
voso centrale, elevazione delle LDH) e a prezzo di un grosso impegno terapeutico. B. Linfomi aggressivi (il linfoma diffuso a grandi cellule B è l’esempio tipico; comportamento simile mostrano il linfoma anaplastico a grandi cellule T e “null” e il linfoma a cellule T “periferiche”) possono talora presentarsi con una malattia localizzata (stadi I e II). Se le linfoadenopatie sono inferiori ai 10 cm (ovvero nonbulky), non vi sono sintomi sistemici o altri fattori prognostici negativi, il trattamento di scelta consiste in una sequenza chemio-radioterapica, ovvero 4 cicli di polichemioterapia contenente antracicline (classico schema CHOP dove C = ciclofosfamide, H = adriamicina, O = iniziale di un nome commerciale di vincristina, P = prednisone) seguiti da radioterapia sulle sedi interessate dalla malattia. Le possibilità di guarigione sono elevate e tanto più quanto è limitata la malattia. I linfomi aggressivi in stadio avanzato necessitano quasi esclusivamente un approccio polichemioterapico mentre la radioterapia, la cui utilità non è dimostrata con certezza, viene riservata alle sedi iniziali “bulky” al termine del trattamento chemioterapico. La chemioterapia deve perseguire l’obiettivo della remissione completa della malattia che, in genere, si raggiunge con 4-6 cicli (se ciò non accade bisogna ricorrere a terapie di salvataggio) a cui se ne aggiungono 2 di consolidamento. La scelta di quale tipo di polichemioterapia impie-
TERZA GENERAZIONE • ProMACE/MOPP “ibrida” • ProMACE-CytaBOM Regime ibrido tra ProMACE (si veda a lato) e Ara-C, bleomicina, vincristina • COP-BLAM III come la COP-BLAM (si veda a lato) ma con infusione continua di vincristina e bleomicina • F-MACHOP 5-fluorouracile, methotrexate, AraC, ciclofosfamide, adriamicina, vincristina, prednisone • MACOP-B methotrexate, adriamicina, ciclofosfamide, vincristina, prednisone, bleomicina Somministrazione settimanale alternata di farmaci mielotossici e non mielotossici • LNH-84 Induzione: ciclofosfamide, adriamicina, vindesina, bleomicina, prednisone, methotrexate intratecale Consolidamento: methotrexate ad alte dosi, ifosfamide, VP-16, 1-asparaginasi, Ara-C Intensificazione tardiva: ciclofosfamide, Ara-C, VM-26, bleomicina, prednisone
gare è un problema estremamente complesso e molto dibattuto, ma è chiaro che dipende soprattutto dalle caratteristiche clinico-prognostiche della malattia. È ormai universalmente accettato un modello prognostico denominato International Prognostic Index (IPI) che, in base a parametri facilmente ricavabili (età minore o maggiore di 60 anni, LDH normali o elevate, stato di validità conservato ovvero paziente ambulatoriale oppure compromesso ovvero paziente costretto a letto dalla malattia, stadio I-II secondo Ann Arbor oppure IIIIV, presenza di una oppure di più d’una localizzazione extralinfonodale di malattia), consente di assegnare un paziente a categorie di rischio basso, intermedio-basso, intermedio-alto o alto di ricaduta con relative percentuali di sopravvivenza a 5 anni che vanno da più del 70% a meno del 25%. Per i pazienti a basso rischio (e per una parte dei pazienti a rischio intermedio-basso) 6-8 cicli di polichemioterapia CHOP (o analoghi) sono il trattamento standard al di fuori di studi sperimentali controllati. Questi ultimi, se ben concepiti, sono comunque sempre giustificati poiché è auspicabile un ulteriore miglioramento della prognosi, specie dei casi in cui altri aspetti biologici della malattia o clinici fanno temere un maggior rischio di ricaduta. Nelle categorie di rischio intermedio-alto e alto alcuni studi, seppur su casistiche “selezionate”, hanno chiaramente dimostrato che la chemioterapia ad alte dosi
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seguita da reinfusione di midollo autologo o di cellule staminali periferiche è superiore alla polichemioterapia standard. Non vi è ancora accordo, tuttavia, sulla migliore sequenza e combinazione di farmaci. È necessario pertanto che i pazienti vengano trattati nell’ambito di studi clinici controllati. La polichemioterapia seguita da trapianto di midollo è inoltre il trattamento di scelta delle recidive mentre le chemioterapie convenzionali di salvataggio contenenti farmaci non-cross resistenti non superano il 10% di successo. Nell’ambito dei linfomi aggressivi vi è, come noto, un’elevata percentuale di localizzazioni primitivamente extranodali che hanno delle peculiarità terapeutiche. Per frequenza ed importanza ricordiamo quella gastrica e cerebrale. Negli anni recenti è molto cambiato l’approccio ai linfomi aggressivi gastrici nel senso che l’intervento chirurgico, che un tempo si praticava sempre, ora è ritenuto necessario solo nei casi di perforazione o sanguinamento in atto. Negli altri il trattamento di scelta iniziale è la polichemioterapia seguita o meno da radioterapia. Nei linfomi cerebrali primitivi è necessaria una chemioterapia con alte dosi di farmaci in grado di penetrare la barriera emato-encefalica (methotrexate, citosina arabinoside) seguita da radioterapia. C. Linfomi poco aggressivi (“indolent”). Esempio tipico sono i linfomi follicolari di grado I e II ma anche i linfomi della zona marginale hanno un comportamento simile. Possono anch’essi presentarsi in forma localizzata e andare incontro a guarigione o a lunghi periodi di remissione se trattati con sola radioterapia. Brevi cicli di chemioterapia riduttiva possono essere utili in forme “bulky”. In presenza di malattia avanzata si sa che queste forme, pur con una lunga storia clinica, non possono guarire definitivamente con le terapie convenzionali. Pertanto se il paziente è asintomatico, la malattia progredisce lentamente, non vi sono segni di compromissione di organi vitali, masse voluminose o complicanze immunitarie si può differire il trattamento e limitarsi alla sola osservazione. Quando si rende necessario un trattamento la scelta è ampia e dipende dalla strategia globale. Se l’obiettivo è conservativo, il paziente non è giovane e si è al di fuori di studi sperimentali, il trattamento di scelta è una monochemioterapia con alchilanti per os, associata a prednisone in presenza di complicanze autoimmuni o quando è necessaria una rapida riduzione di masse piuttosto voluminose, seguita eventualmente da radioterapia sui residui di malattia. Se ci si pone in un’ottica più aggressiva o sperimentale che si prefigge obiettivi di maggiore durata della remissione di malattia o addirittura di guarigione le opzioni sono varie e vanno da polichemioterapie contenenti antracicline associate o meno ad interferone- a mono o polichemioterapie contenenti nuovi analoghi delle purine (fludarabina, cladribina) fino a polichemioterapie ad alte dosi seguite da trapianto di midollo. In associazione o in alternativa a queste opzioni sono già disponibili in commercio, o lo saranno tra breve, anticorpi monoclonali
anti CD20 o anticorpi coniugati con iodio131. In un prossimo futuro verranno probabilmente impiegate anche nuove modalità di immunoterapia. Anche al di fuori di studi clinici tutte queste armi possono essere utilizzate in varia sequenza e associazione alla ricaduta di malattia non prima di avere verificato l’efficacia residua della terapia utilizzata in precedenza. Delle nuove entità anatomopatologiche inserite nella classificazione REAL e non presenti nelle classificazioni precedenti almeno due meritano un cenno. D. Linfomi MALT a basso grado gastrici. Possono andare in remissione in elevata percentuale di casi con la sola terapia antibiotica eradicante l’Helicobacter pylori. In caso di inefficacia o recidiva le opzioni sono la monochemioterapia con alchilanti, la radioterapia e la gastrectomia totale (data la frequente multifocalità della malattia). E. Linfomi a cellule mantellari. Benché meno aggressivi di altri all’esordio, questi linfomi hanno la peggiore prognosi, in quanto sostanzialmente refrattari ai trattamenti chemioterapici convenzionali. Sono pertanto raccomandate terapie sperimentali. Solo se il paziente non è candidabile per età o condizioni generali si può ricorrere a radioterapia nelle malattie localizzate e a polichemioterapie convenzionali nelle malattie avanzate.
Forme particolari Micosi fungoide e sindrome di Sézary 1. Micosi fungoide. È un linfoma delle cellule T helper, con particolare predilezione per l’invasione cutanea; colpisce tutte le razze, prevale nel sesso maschile con un rapporto di 2:1; è diagnosticata di solito nel 5° decennio, raramente si riscontra anche in età giovanile; è responsabile di circa l’1% delle morti per linfoma. In pochi casi è stato isolato nel siero dei pazienti il retrovirus HTLV-1; spesso l’inizio coincide con una reazione cutanea da farmaci, con una dermatite cronica allergica da contatto o con altre eruzioni eczematose. Vi sono parecchie forme cliniche della micosi fungoide, il cui nome deriva dall’aspetto “fungoide” dei tumori cutanei. Nella “forma comune” la lesione si sviluppa progressivamente durante un periodo di mesi od anni, passando dalla fase di chiazze squamose a quella di placche infiltrate e poi di formazioni di aspetto tumorale. Nella forma “eritrodermica” (a tipo di “uomo rosso”) la cute è sede di un eritema intenso poco squamoso, vi sono discreta infiltrazione cutanea, adenopatie massive ed intenso prurito. 2. Sindrome di Sézary. Può essere considerata la variante leucemica della micosi fungoide: è caratterizzata da eritroderma generalizzato, linfoadenopatia, splenomegalia e presenza nel sangue periferico delle tipiche cellule, nelle due varietà grandi e piccole. Le cellule grandi hanno diametro di 12-14 m; il nucleo, rotondo od ovale, ne occupa i 4/5; la cromatina è
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densa, percorsa da solchi a colpo d’unghia che le conferiscono l’aspetto “cerebriforme” evidente specialmente alla microscopia elettronica. Le cellule piccole hanno le dimensioni di un linfocito normale e presentano anch’esse i caratteristici solchi nucleari. Dal punto di vista citochimico le cellule sono positive alla glucuronidasi ed alla fosfatasi acida. I linfomi cutanei a cellule T risparmiano relativamente il midollo, probabilmente in sintonia con il normale modello di insediamento dei linfociti T; le cellule di Sézary si riscontrano nei linfonodi, nel derma e all’autopsia si è riscontrata un’elevata incidenza di interessamento viscerale. Il decorso è variabile; in presenza di lesioni cutanee infiltrative può essere estremamente cronico, con regressioni spontanee e recidive; solo negli stadi avanzati si ha interessamento dei linfonodi e dei visceri e in quest’ultimo caso la sopravvivenza è inferiore ad 1 anno. Terapia. Il trattamento di queste rare forme di linfoma è estremamente specialistico. Esistono quattro modalità fondamentali di trattamento: • raggi ultravioletti A in associazione a derivati psoralenici; • radioterapia; • chemioterapia topica; • chemioterapia sistemica. Gli obiettivi del trattamento sono in genere rivolti al controllo delle manifestazioni cutanee; il fatto che tutti i tipi di trattamento citati siano in grado di ottenere remissioni complete la cui durata è di solito breve spiega perché la guarigione non sia un evento frequente. 1. I derivati psoralenici sono composti in grado di inibire la sintesi di DNA e RNA se i tessuti in cui si accumulano sono esposti alla luce ultravioletta A. Il composto più utilizzato è l’8-metossipsoralene (8-MOP), sviluppato originariamente per il trattamento della psoriasi. Il farmaco viene assunto per os, mentre il paziente segue un trattamento fototerapico con raggi UVA (picco d’emissione a 350-380 nm), con dosi e tempi basati sulla sua tolleranza. Le risposte complete sono intorno al 60%. Beneficiano del trattamento soprattutto i pazienti con malattia limitata (T1-T2), senza interessamento cutaneo o viscerale. Una variazione molto suggestiva di questo trattamento consiste nel prelevare i linfociti del paziente con leucaferesi, dopo che questi ha assunto 8-MOP, e nell’esporli ai raggi UVA all’interno del separatore cellulare prima di reinfonderglieli (fotoferesi). In studi preliminari sono stati raggiunti risultati migliori rispetto alla fototerapia tradizionale, in virtù delle ragguardevoli risposte ottenute anche in pazienti con eritrodermia generalizzata o con interessamento linfonodale. È stato postulato l’intervento di un meccanismo immunitario (alterazione di antigeni di superficie dei linfociti per effetto del trattamento PUVA). 2. La radioterapia più utilizzata prevede l’uso di elettroni generati da un acceleratore lineare. Gli elettroni non penetrano infatti oltre la superficie cutanea e ciò
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consente di erogare dosi elevate (30-36 Gy) senza incorrere in danni d’organo. Le percentuali di remissione completa sono elevate (> 80%), ma solo nei pazienti con malattia limitata si ottengono remissioni di lunga durata. 3. La chemioterapia topica è basata sull’applicazione cutanea di soluzioni od unguenti a base di farmaci antiproliferativi. Gli agenti più largamente sperimentati sono la mecloretamina e il BCNU. I risultati sono paragonabili a quelli ottenuti con la radioterapia. 4. La chemioterapia sistemica è di solito riservata a pazienti con malattia cutanea resistente ai precedenti trattamenti e a pazienti con interessamento linfonodale o viscerale. La monochemioterapia è stata quasi totalmente abbandonata (può essere uno strumento di palliazione in pazienti molto compromessi), mentre la polichemioterapia (con cicli come la CHOP) ottiene oltre l’80% di risposte complete. Purtroppo sinora non è emerso alcun impatto sulla sopravvivenza. Negli ultimi anni si stanno accumulando dati su nuovi tipi di trattamento; tra questi, particolarmente interessanti sono i risultati acquisiti con l’interferone- e con i retinoidi. Alcuni Autori sostengono che un trattamento combinato (per es., radioterapia seguita da chemioterapia sistemica) sia in grado di ottenere remissioni più durature, ma questo assunto deve essere confermato con studi randomizzati prospettici ben condotti. Linfoma di Burkitt Questo linfoma, endemico in alcune aree dell’Africa tropicale e della Nuova Guinea, venne particolarmente messo in evidenza da Burkitt nel 1958; un tumore apparentemente identico è presente sporadicamente al di fuori delle zone africane. La forma endemica è predominante, se non esclusiva, dell’infanzia, tra i 4 e i 9 anni e prevale nei maschi con rapporto 2:1. Il quadro clinico di presentazione più frequente (oltre il 70% dei casi) è una tumefazione della guancia di notevoli dimensioni, prevalentemente a partenza mascellare, meno spesso mandibolare o di entrambe, con possibile disseminazione verso l’alto, fino ad interessare l’orbita ed a provocare esoftalmo. La seconda presentazione in ordine di frequenza (circa il 50% dei casi) è la tumefazione addominale: gli organi più interessati sono i reni, le ovaie, i linfonodi mesenterici e retroperitoneali e, in misura minore, il fegato e la milza; spesso coesiste ascite. La terza presentazione (circa il 30% dei casi) è la compromissione a livello del sistema nervoso centrale. I casi sporadici appartengono di solito ai primi 3 decenni di vita, con una mediana intorno ai 10 anni; in essi prevale l’interessamento addominale mentre il tumore mascellare (o mandibolare) è presente solo nel 30% dei casi. L’esame istologico del tessuto neoplastico mostra una popolazione monomorfa di cellule linfoidi indifferenziate, con parecchie figure mitotiche; i linfociti sono di
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tipo B. Disseminati tra gli elementi linfatici spiccano i macrofagi, di aspetto più chiaro, cosicché si configura l’aspetto cosiddetto “a cielo stellato” che però non è patognomonico della malattia. Le relazioni esistenti tra questo particolare tumore linfatico e l’infezione da virus di Epstein-Barr sono discusse nel capitolo 81 nell’esposizione della mononucleosi infettiva. Linfoma mediastinico a grandi cellule B con sclerosi Colpisce principalmente, ma non esclusivamente, giovani donne e perciò può facilmente essere scambiato con la variante sclerosi nodulare della malattia di Hodgkin che ha la stessa predilezione di sesso, età e localizzazione. Se ne distingue per la tendenza a localizzazioni secondarie nel fegato, nei reni e nei surreni, mentre nell’Hodgkin la propagazione è verso i linfonodi periaortici e la milza. Nonostante queste differenze cliniche, è comune che occorra una toracotomia ed una accurata indagine patologica per diagnosticarlo distinguendolo dalla malattia di Hodgkin.
LEUCEMIA LINFATICA CRONICA La leucemia linfatica cronica (LLC) è una malattia linfoproliferativa, suddivisa in due grandi gruppi in base alla popolazione cui appartengono i linfociti neoplastici. Per ogni gruppo esistono sottogruppi diversificati per caratteri clinici, ematologici e istologici. • Gruppo a linfociti B Leucemia linfatica cronica B (classica) Leucemia prolinfocitica B Leucemia a cellule capellute • Gruppo a linfociti T Leucemia linfatica cronica T Leucemia prolinfocitica T Leucemia a cellule T dell’adulto (ATL) o Linfoma/ leucemia T dell’adulto Leucemia linfatica a grandi linfociti granulari (T-) Il tipo più frequente, che rappresenta oltre l’80% dei casi, è la leucemia linfatica cronica B, per cui dal punto di vista pratico la LLC è sinonimo di B LLC: essa verrà trattata per esteso e successivamente verranno accennate le caratteristiche più importanti delle altre forme.
Eziopatogenesi È sconosciuta come in genere nelle malattie neoplastiche. Tuttavia si ammette che in questa leucemia abbia qualche importanza la predisposizione genetica. Infatti, nei parenti di primo grado di pazienti con LLC, si ha un’incidenza superiore alla media di questa stessa malattia e di alcune sindromi da immunodeficienza (atassia, teleangectasia, sindrome di WiscottAldrich e a--globulinemia). Gli agenti chimici potenzialmente cancerogeni, come il benzolo, hanno scarso rilievo e l’esposizione a radiazioni ionizzanti ha un’importanza praticamente nulla. Alterazioni del cariotipo si osservano complessivamente in circa la metà dei pazienti, con frequenza crescente dallo stadio 0 allo stadio IV. Le più frequenti interessano i cromosomi 11 (delezione 11q), 12 (trisomia), 13 (delezione 13q) e 17 (delezione 17p). La proliferazione monoclonale interessa uno stadio relativamente precoce della differenziazione B linfocitaria, ossia quello del piccolo linfocito con IgM o IgM + IgD alla sua superficie. In circa il 60% dei casi di LLC le cellule neoplastiche presentano mutazioni somatiche dei geni delle immunoglobuline. Questo presumibilmente indica che una qualche forma di stimolazione antigenica gioca un ruolo nell’espansione clonale neoplastica. Si ritiene che questo concetto possa essere esteso anche ai casi in cui le cellule non presentano mutazioni somatiche. Infatti anche in questi cloni la caratterizzazione immunofenotipica documenta che le cellule neoplastiche hanno avuto una qualche sorta di “esperienza” antigenica. La produzione degli elementi neoplastici avviene con una certa lentezza. Tuttavia, il clone leucemico si espande progressivamente perché i linfociti che ne fanno parte non sono (salvo eccezioni) in grado di differenziarsi in cellule anticorpopoietiche e sono più longevi degli elementi normali corrispondenti. Si ritiene che queste cellule abbiano una sopravvivenza innaturalmente prolungata perché non riescono facilmente ad andare in apoptosi. L’incapacità ad andare in apoptosi pare essere legata a stimoli trasmessi alle cellule neoplastiche dall’interazione con il microambiente. I linfociti neoplastici della LLC compaiono in larga misura nel sangue perché l’espansione del clone leucemico porta ad affollamento del compartimento extravascolare e si pensa che ciò ostacoli quella tappa della circolazione linfocitaria che comporta la fuoriuscita di queste cellule dal compartimento intravascolare attraverso le venule postcapillari.
Fisiopatologia Leucemia linfatica cronica classica È il tipo di leucemia più comune in Occidente, costituendo circa il 25% di tutte le leucemie: l’età mediana al momento della diagnosi è di 60 anni; è rara al di sotto dei 30 anni. La prevalenza maschile è circa 2,5:1.
I sintomi sono secondari all’accumulo disordinato dei linfociti lentamente proliferanti: come risultato vi è un aumento, di entità variabile, del carico tumorale perché questi linfociti, piccoli e uniformi, gradualmente invadono il midollo, il sangue periferico, le stazioni linfoghiandolari, la milza, il fegato e potenzialmente tutti i
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distretti dell’organismo. La massa tumorale totale dipende dall’attitudine proliferativa insita nel clone leucemico, dal tempo di durata della LLC e dalla resistenza immunitaria dell’ospite. L’infiltrazione a livello midollare è responsabile della pancitopenia da mielosostituzione; l’aumentata massa di linfociti è dimostrata clinicamente dalla linfocitosi, dalle linfomegalie e dall’epatosplenomegalia. I B linfociti leucemici sono immunoincompetenti, incapaci di fabbricare o secernere immunoglobuline, cioè anticorpi, e contemporaneamente paiono inibire la replicazione dei linfociti B normali: si avrà quindi una immunodeficienza secondaria a carico dell’immunità umorale, dimostrata dal frequente riscontro di ipo-globulinemia. In rari casi una parte dei linfociti leucemici riesce a differenziarsi in cellule anticorpopoietiche. Si ha allora la produzione di un’immunoglobulina con i caratteri della -patia monoclonale (per una spiegazione più dettagliata si veda il capitolo 50).
Clinica La sintomatologia e il decorso sono estremamente variabili, in dipendenza dell’entità del carico tumorale, espresso dalle megalie di aree ben distinte di proliferazione linfoide, e del grado di mielosostituzione con conseguenti anemia e piastrinopenia. L’analisi multivariata di questi parametri su un numero molto elevato di pazienti ha permesso di costruire sistemi di stadiazione (staging) che identificano gruppi di pazienti omogenei per spettanza di vita e programma terapeutico. Nel 1975 Rai et al. hanno suddiviso i pazienti di LLC in cinque stadi, come nella tabella 49.8. La sintomatologia iniziale può coincidere con ognuno dei quadri clinici della malattia ma le modalità di presentazione hanno frequenza assai diversa, alcune abituali, altre da considerare eccezionali. In circa un quarto dei casi la malattia è scoperta accidentalmente in occasione di un esame emocromocitometrico o di una visita medica effettuati per motivi diversi. Un’obiettività costituita da linfomegalie multiple, simmetriche, non dolenti, presenti contemporaneamente in parecchie stazioni linfoghiandolari, con linfonodi di diametro di solito non superiore al centimetro, di consistenza teso-elastica è il rilievo più frequente. La tumefazione linfatica può interessare anche altre stazioni, come le tonsille e le adenoidi. Al momento della diagnosi la splenomegalia è presente in circa il 30% dei casi, ma essa si rende evidente praticamente in tutti i casi, con dimensioni via via crescenti, con il progredire della malattia. L’epatomegalia è presente all’inizio solo in una piccola quota di casi; una spiccata epatomegalia, con segni di alterata funzionalità epatica, è di solito una manifestazione tardiva. Una tumefazione simmetrica può verificarsi a livello delle ghiandole lacrimali e salivari, con xeroftalmia e sensazione di secchezza alla lingua e alla gola.
Tabella 49.8 - Staging della LLC. • Sistema di staging di Rai – Stadio 0 Linfocitosi assoluta di > 15 linfociti × 109/l – Stadio I Linfocitosi assoluta + Linfonodi ingranditi – Stadio II Linfocitosi assoluta + Epato e/o splenomegalia – Stadio III Linfocitosi assoluta + Anemia (Hb < 11 g/dl) – Stadio IV Linfocitosi assoluta + Trombocitopenia (piastrine < 100 × 109/l). Recentemente un gruppo internazionale di studiosi (International Workshop on CLL) ha ritenuto di poter semplificare la classificazione in soli tre stadi. • Sistema di staging di Binet – Stadio clinico A: non anemia né piastrinopenia; meno di tre aree di ingrandimento linfoide. – Stadio clinico B: non anemia né piastrinopenia, con tre o più aree compromesse. – Stadio clinico C: anemia (1) e/o piastrinopenia, indipendentemente dal numero di aree di ingrandimento linfoide. – Aree linfatiche: milza, fegato, linfonodi cervicali, ascellari, inguinali sono considerate cinque aree separate, indipendentemente se la linfoadenopatia è mono o bilaterale. (1) Anemia quando Hb ≤ g 10/dl; piastrinopenia quando le piastrine ≤ 100 × 109/l.
Essa è dovuta ad infiltrazione delle ghiandole lacrimali e salivari. Questa infiltrazione (che può verificarsi anche in altri processi morbosi) è indicata con il nome generico di sindrome di Mikulicz. Le localizzazioni a livello dei linfonodi retroperitoneali e mediastinici sono poco frequenti; la LLC può inoltre interessare ogni organo o apparato, come il tratto gastroenterico, i polmoni, le pleure con versamento essudatizio contenente cellule leucemiche. Localizzazioni relativamente rare si hanno al sistema nervoso centrale, allo scheletro, ai reni: le manifestazioni parenchimali sono di solito espressione di fase avanzata di malattia. Nella LLC di tipo B si riscontrano con discreta frequenza lesioni cutanee eritematose o eritemato-papulose, sia di natura infiammatoria che infiltrativa linfatica; vedremo però come la manifestazione cutanea sia più caratteristica della LLC di tipo T. Una considerazione a parte merita la “forma splenomegalica pura” che rappresenta meno del 5% dei casi, senza ingrandimento significativo dei linfonodi periferici; è complicata abitualmente da pancitopenia, da ipersplenismo, dominabile dalla splenectomia o dalla radio e chemioterapia. Questa forma è ritenuta un quadro clinico ben distinto, da considerare uno stadio 0, dovuta alla proliferazione di cellule B non ricircolanti di zone spleniche marginali. Un aspetto importante della sintomatologia è legato alle alterazioni immunologiche, presenti sin dall’inizio o a comparsa più tardiva: l’ipo--globulinemia si riscontra dal 50 al 75% dei casi, con maggiore riduzione a carico delle IgM; talvolta si è riscontrata a-globulinemia; raramente la LLC è associata a -patia monoclonale. La depressione dell’immunità umo-
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rale predispone il paziente alle infezioni batteriche, virali (in particolare herpes zoster) o fungine, con predilezione per la cute, le vie respiratorie e le vie urinarie; va però segnalata la possibilità che in alcuni casi, dopo infezione virale, venga sbloccata la maturazione dei linfociti, si abbia cioè una remissione clonale. In corso di LLC può aversi una patologia da autoanticorpi, come anemia emolitica autoimmune Coombs positiva, con tipico anticorpo caldo IgG, e porpora trombocitopenica autoimmune. Alcuni di questi pazienti hanno una particolare suscettibilità a sviluppare reazioni generalizzate alla vaccinazione o dimostrano un’ipersensibilità ritardata esagerata da puntura d’ape o di zanzara o infine hanno imponenti reazioni cutanee da farmaci, in particolare ampicillina. L’insorgenza di una seconda neoplasia, specie di tumori solidi della cute e del colon o di una leucemia acuta non linfatica è discretamente frequente: anche per queste evenienze è ritenuto responsabile un difetto della sorveglianza immunologica.
Esami di laboratorio A. Esami ematologici. L’esame emocromocitometrico dimostra nei casi tipici una leucocitosi, di solito non superiore a 100-150 × 109/l; meno frequentemente il numero dei leucociti è normale o basso. Per lo più in fase precoce non si ha anemia e piastrinopenia, a meno dei fenomeni autoimmunitari prima ricordati; in fase avanzata compaiono anemia e piastrinopenia, come appare anche dagli schemi di staging. La formula, nei casi con iperleucocitosi, dimostra netta linfocitosi; il tipico linfocito della LLC è una cellula piccola uniforme, di aspetto relativamente maturo; la cromatina è addensata, il citoplasma scarso, spesso ridotto solo ad un sottile orletto intorno al nucleo; anche nei casi classici vi è spesso una piccola quota di linfociti più grandi, con nucleoli prominenti, incisure nucleari e cromatina più delicata, immatura. Le cellule della LLC sono apparentemente fragili ed allo striscio se ne osservano alcune schiacciate, frammentate, costituenti le cosiddette ombre di Gumprecht, reperto di per sé quasi patognomonico nell’ambito di una linfocitosi. I granulociti neutrofili, diminuiti percentualmente, non mostrano anomalie morfologiche. B. L’esame del midollo eseguito con l’agoaspirato può incontrare qualche difficoltà per l’elevata densità del tessuto patologico: il quadro microscopico dimostra un’infiltrazione, di grado variabile, di linfociti per lo più maturi, commisti a un numero relativamente piccolo di prolinfociti e di linfoblasti. Con la biopsia midollare e l’allestimento di sezioni semifini è possibile differenziare quattro modelli di compromissione midollare: interstiziale, nodulare, misto e diffuso: nei primi stadi prevalgono i quadri interstiziale e nodulare, in fase avanzata il quadro diffuso.
Con l’immunofluorescenza si dimostra che i linfociti leucemici esprimono immunoglobuline di superficie con bassa densità e che queste sono di tipo monoclonale: la catena leggera è in tutte le cellule di un solo tipo, o o ; la catena pesante di solito IgM con o senza IgD, raramente IgG. L’immunofenotipo è caratteristico perché le cellule coesprimono bassi (talora quasi assenti) livelli di immunoglobuline con gli antigeni CD5 e CD23. L’elettroforesi del siero dimostra spesso ipo--globulinemia; nel 5% dei casi si osserva una componente monoclonale, più frequentemente di tipo IgM, accompagnata da escrezione di catene leggere prodotte in eccesso nelle urine. L’ipercalcemia e l’iperuricemia si riscontrano in circa un terzo dei casi, specie dopo terapia. C. Esami strumentali. La biopsia linfoghiandolare, indispensabile per la diagnosi di linfoma, non si esegue correntemente nel caso della LLC perché la conferma della malattia proviene dall’esame del sangue periferico con la tipizzazione linfocitaria. Anche l’esame del midollo osseo viene eseguito raramente. La radiografia del torace, obbligatoria, dimostra raramente la localizzazione mediastinica o polmonare, con o senza versamento pleurico. Poiché la LLC è per definizione una malattia diffusa, l’ecotomografia e la TC addominale sono indicate solo in circostanze particolari, per lo più per valutare i risultati del trattamento. Gli altri esami radiologici (per es., radiografia del tubo digerente, urografia, ecc.) vanno eseguiti in caso di sospetto clinico di localizzazione leucemica.
Diagnosi In presenza di linfoadenopatie multiple e simmetriche, leucocitosi con linfocitosi, splenomegalia ed assenza di segni di infezione acuta la diagnosi non presenta difficoltà; occorre tuttavia differenziarle dalla presentazione leucemica di un linfoma (es., linfoma follicolare). Alcune malattie infettive, come la pertosse e la rosolia, sono accompagnate da discreta leucocitosi (10-20 × 109/l) con linfocitosi ed adenomegalie: tipica per la rosolia la localizzazione retroauricolare. L’età dei pazienti è un importante elemento diagnostico, oltre al decorso di tipo acuto; lo stesso vale per le infezioni da cytomegalovirus o altri virus. Per la mononucleosi infettiva va sottolineato che la caratteristica della formula leucocitaria in questa forma virale è il “quadro polimorfo e variopinto” dei linfociti, che si differenziano dai linfociti monomorfi della LLC. Un problema più complicato si pone per le forme, di solito iniziali, di LLC che presentano numero di leucociti normale o basso, con aumento percentuale dei linfociti non significativo; in questi casi è essenziale la determinazione dei marker di superficie che mette in evidenza la monoclonalità degli elementi; la linfocitosi non leucemica può essere sia T che B, in quest’ultimo caso è policlonale.
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Decorso e prognosi La LLC è la più benigna di tutte le leucemie; in parecchi casi i primi anni sono caratterizzati da una linfocitosi lentamente progressiva, qualche volta con stabilizzazione della conta linfocitaria ad un plateau per mesi o anni ed un’infiltrazione midollare lentamente progressiva. Il tipo di infiltrazione midollare (nodulare o diffuso) ha grande importanza prognostica nell’ambito di ciascun gruppo A, B o C e seleziona sottogruppi di pazienti che svilppano un decorso clinico progressivo o aggressivo rispetto a pazienti in cui il decorso è benigno o stabile. La sopravvivenza è diversa a seconda degli stadi, con una mediana da 1,7 a 9 anni; allo stadio 0 la mortalità è bassissima e la sopravvivenza non valutabile; gli stadi A e B, I e II di Rai, hanno prognosi diversa se i leucociti nel sangue sono in numero inferiore o superiore a 40 × 109/l; un sottostadio comprende i pazienti con splenomegalia isolata, che si è visto hanno prognosi come allo stadio 0. Gli stadi avanzati (C, III e IV di Rai) hanno una sopravvivenza mediana di circa 2 anni; in particolare la piastrinopenia è un segno prognostico assai sfavorevole. L’assenza di mutazioni somatiche dei geni delle immunoglobuline, le delezioni 11q e 17p e l’espressione di CD38 sono associate ad un andamento clinico più aggressivo. Le cause di morte comprendono le gravi infezioni, le emorragie favorite dalla piastrinopenia, la trasformazione in una sindrome immunoproliferativa, la trasformazione in linfoma immunoblastico (sindrome di Richter). La morte può sopravvenire per causa diversa dalla leucemia ma è difficile stabilire se un evento morboso occorrente in una persona, di solito anziana, per esempio un’infezione ribelle, un’emorragia cerebrale, uno scompenso di circolo siano o meno favoriti, in questi pazienti, da un’eventuale ipo--globulinemia, da piastrinopenia o anemia. Anche se la LLC di solito rimane immodificata dal punto di vista della morfologia, ultrastruttura e fenotipo del linfocito leucemico, in alcuni casi lo stadio terminale è caratterizzato dalla comparsa in circolo in numero crescente di cellule più grandi, con nucleo a cromatina meno densa e citoplasma più abbondante, che assomigliano agli elementi della leucemia linfatica prolinfocitica. Parallelamente si ha peggioramento delle condizioni cliniche, aumento di volume dei linfonodi e della milza, resistenza alla terapia, deterioramento della funzione midollare ed aumento della depressione immunitaria. È infine possibile, in casi rari, l’evoluzione verso una forma linfomatosa assai aggressiva definita sindrome di Richter.
Terapia (*) L’individuazione del miglior approccio terapeutico ai pazienti affetti da LLC è stato sempre ostacolato dalle (*) E. Bucci, G. Di Lucca.
caratteristiche della malattia, dai limiti intrinseci delle strategie terapeutiche utilizzate sinora e da difetti metodologici nelle sperimentazioni cliniche. La malattia è di per sé complessa per l’ampia variabilità di comportamento clinico, per l’età generalmente avanzata dei pazienti e per la loro particolare “fragilità”, che in molti casi impedisce un trattamento aggressivo. D’altra parte nessuna terapia, se si fa eccezione per alcune recenti innovazioni, si è dimostrata in grado di modificare significativamente la sopravvivenza dei pazienti, cosicché l’obiettivo terapeutico è stato quasi sempre di tipo palliativo. Sono mancati, inoltre, per molto tempo criteri standardizzati e universalmente accettati di valutazione della risposta clinica, rendendo le diverse esperienze poco confrontabili. Anche l’utilizzo di sistemi differenti di stadiazione ha ostacolato le valutazioni comparative e, peraltro, non è finora stata recepita la raccomandazione di adottare la classificazione internazionale, che ne costituisce un’integrazione. L’introduzione di nuove e promettenti opzioni terapeutiche sta però stimolando molti studiosi a rimettere in discussione tutta l’impostazione del problema, iniziando dall’individuazione delle categorie di pazienti che realmente necessitano di un trattamento. Da questo punto di vista è molto interessante la dimostrazione da parte di diversi Autori che un sottogruppo di pazienti compresi negli stadi 0 di Rai e A internazionale ha una spettanza di vita pari ad una popolazione confrontabile di soggetti sani ed ha una scarsa propensione a progredire verso uno stadio più avanzato (5% a 3 anni in uno studio con criteri di selezione molto ristretti, 25% a 5 anni in un altro meno selettivo). Sono questi i pazienti per i quali il trattamento va differito sino ad eventuali segni di progressione. Le caratteristiche prognostiche favorevoli per poter rientrare in questo sottogruppo sono rappresentate, in primo luogo, oltre che dallo stadio, da una linfocitosi periferica inferiore a 30.000 per mm3 e da un’emoglobina superiore a 12-13 g/dl; se poi si è in presenza di un quadro istologico midollare di tipo non diffuso, il tempo di raddoppiamento dei linfociti è superiore ai 12 mesi e il cariotipo è normale, la prognosi è ancora migliore. Alcuni Autori utilizzano quindi, in questi casi, il termine di LLC “smouldering”, che sta ad indicare la natura non evolutiva della malattia e ne controindica il trattamento. Un atteggiamento attendista è raccomandato anche per tutti i pazienti compresi nello stadio A internazionale (che comprende lo stadio 0 secondo Rai e parte dei pazienti classificabili con I o II stadio di Rai). È stato infatti dimostrato da un ampio studio che l’utilizzo in prima battuta, in questi pazienti, di un chemioterapico alchilante, il chlorambucil, assunto giornalmente, è sconsigliabile. Infatti se il trattamento, da un lato, favorisce remissioni della malattia e ne rallenta la progressione, dall’altro peggiora complessivamente la sopravvivenza dei pazienti, rendendo meno suscettibili alla terapia quelli che progrediscono comunque verso uno stadio più avanzato e provocando un eccesso di mortalità nei soggetti trattati, legato all’insorgenza di neoplasie epiteliali secondarie.
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49 - MALATTIE DEL SISTEMA LINFATICO
Se per questa categoria di pazienti cosiddetti “a basso rischio” valgono le considerazioni esposte, diversa è la situazione per le categorie “a rischio intermedio” (stadio B internazionale, stadi I e II secondo Rai) o “ad alto rischio” (stadio C internazionale, Rai III e IV). Questi ultimi richiedono invariabilmente un trattamento, mentre per la categoria “intermedia” ci si riserva in genere un periodo di osservazione della malattia, a meno di caratteristiche prognostiche particolarmente negative quali importante linfocitosi periferica, tempo di raddoppiamento dei linfociti inferiore ad 1 anno, infiltrazione midollare di tipo diffuso, anomalie cariotipiche. Un trattamento viene iniziato anche quando sono presenti o compaiono sintomi o segni quali febbre, calo ponderale, profonda astenia, sudorazioni notturne, infezioni ricorrenti, complicanze autoimmuni non controllabili con terapia steroidea, adenopatie massive con eventuali segni compressivi, splenomegalia massiva o sintomatica, linfocitosi rapidamente progressiva. Per i pazienti di età inferiore a 50-60 anni si può però essere più interventisti perché, in questi casi, è possibile impiegare terapie eradicanti senza tossicità proibitive, ed è desiderabile una più prolungata prospettiva di sopravvivenza. La terapia può essere con mono- o polichemioterapia. La monochemioterapia viene generalmente condotta con chlorambucil. Esistono due regimi terapeutici da considerare. Nei pazienti di età inferiore a 75 anni si possono impiegare dosi più elevate del farmaco, ossia 10-15 mg die fino a risposta o tossicità. Altrimenti, e comunque nei pazienti di età superiore a 75 anni, si può usare chlorambucil a basse dosi, ossia 0,08-0,16 mg/kg die in somministrazione continua oppure secondo uno tra vari schemi di somministrazione intermittente. Per esempio, si possono impiegare 20 mg/m2 die per 3 giorni ogni 4 settimane, oppure 10 mg die per 10 giorni ogni 4 settimane. Molto usata in passato è stata la dose di 0,4-0,8 mg/kg come dose unica ogni 2-4 settimane. Questo trattamento è accreditato di un’efficacia variabile a seconda dei criteri di risposta adottati (dal 27 al 100% dei casi con una media ragionevole intorno al 60-70%), che si traduce in effetti in un vantaggio di sopravvivenza nei pazienti responsivi. Una volta ottenuto il controllo della malattia, non è indicata la prosecuzione cronica del trattamento. L’associazione del chlorambucil con corticosteroidi, pur essendo ampiamente utilizzata, non è dimostrata essere superiore al solo alchilante in studi randomizzati. Gli steroidi hanno un’azione linfocitolitica, che si manifesta con una rapida riduzione dimensionale dei linfonodi e, talora, con un paradossale incremento della linfocitosi periferica per rilascio di linfociti nel circolo ematico dalle sedi linfatiche. Sono utilissimi nel trattamento delle citopenie immuno-mediate, ma hanno uno spazio limitato, nel trattamento di fondo della LLC, ai pazienti con importante invasione midollare, con malattia avanzata o resistente. Non sono utili e gravati, viceversa, da effetti collaterali nel trattamento a lungo termine. Un altro alchilante, la ciclofosfamide, è di efficacia sostanzialmente simile al chlorambucil ed è utile per pazienti resistenti a quest’ultimo o, soprattutto, quando
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si richiede una maggiore azione immunosoppressiva in presenza di complicanze autoimmuni. Associazioni polichemioterapiche comprendenti alcaloidi della vinca, prednisone ed alchilanti (il classico schema CVP, per esempio) non si sono dimostrate superiori al solo chlorambucil nello stadio B internazionale. Negli stadi più avanzati (stadio C internazionale) l’associazione di basse dosi di adriamicina (per es., in uno schema del tipo CHOP) si dimostrerebbe superiore, anche e soprattutto in termini di sopravvivenza, a schemi basati su alchilanti senza l’uso di antracicline; tuttavia il dato non è confermato da alcuni studi preliminari, in cui vengono rivalutate le possibilità dello schema CVP o degli alchilanti a dosi più elevate. Sono in corso studi randomizzati che confrontano alchilanti e antracicline. La scelta del miglior trattamento chemioterapico è stata recentemente, e per così dire fortunatamente, complicata dall’introduzione di nuovi farmaci attivi che potrebbero modificare gli standard di trattamento futuri. In particolar modo, la fludarabina (FAMP), un analogo fluorinato dell’adenina relativamente resistente all’adeno-sindeaminasi, è risultato un farmaco molto efficace e discretamente ben tollerato in pazienti pretrattati (salvo in quelli molto anziani o con importante invasione midollare); l’associazione dello steroide, in questi pazienti, non ha prodotto un significativo miglioramento delle risposte. Testato recentemente in pazienti non pretrattati con malattia avanzata o evolutiva, ha prodotto una percentuale di remissioni complete (72%) e un tasso complessivo di risposta (79%) mai registrato precedentemente per agenti singoli nella LLC e simile ai tassi riportati per combinazioni polichemioterapiche, con le quali, tuttavia, le percentuali di risposte complete sono usualmente inferiori. Inoltre le risposte definite complete con la FAMP appaiono esserlo realmente anche da un punto di vista biologico, stante la dimostrata assenza dei marcatori di membrana caratteristici dei linfociti leucemici. È ancora presto per stabilire se ciò potrà in qualche modo modificare la storia naturale della malattia. Sono già iniziati studi randomizzati che confrontano la FAMP con il chlorambucil o con polichemioterapie contenenti antracicline. I successi raggiunti dalla FAMP hanno, in qualche modo, offuscato i risultati promettenti ottenuti con altri due chemioterapici, la pentostatina (o deossicoformicina) e la 2-cloro-deossi-adenosina, per ora sperimentati nella malattia avanzata, dove sono apparsi discretamente attivi. Avrebbero il difetto di provocare una deplezione prolungata dei linfociti T, che potrebbe aumentare il rischio di infezione, già di per sé elevato nella LLC e prima causa di morte anche fra pazienti trattati con FAMP. Un’altra moderna e promettente strategia terapeutica è il trapianto di midollo osseo allogenico (TMO), indicato per pazienti giovani; nelle casistiche, assai limitate, sinora pubblicate il 50% circa dei soggetti trapiantati è vivo e libero da malattia. Tra i modificatori della risposta biologica, l’interferone- (IFN-) è stato maggiormente studiato nella LLC;
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
relativamente inefficace negli stadi avanzati della malattia, è invece piuttosto attivo negli stadi precoci, dove però l’indicazione a questo tipo di terapia sperimentale è discutibile. Potrebbe essere interessante, invece, un suo impiego nella terapia di mantenimento delle remissioni ottenute con altre modalità terapeutiche. Risposte transitorie si sono ottenute anche con l’utilizzo di anticorpi monoclonali anti CD5 o antidiotipo. Vi sono, inoltre, presupposti teorici per l’utilizzo dell’interleuchina-4, ma finora le sperimentazioni cliniche con la citochina ricombinante, invero molto limitate, sono state deludenti. Alcuni provvedimenti terapeutici già piuttosto datati ma che rivestono tuttora un significato prevalentemente palliativo nella malattia avanzata o resistente ai farmaci sono la splenectomia e la radioterapia splenica. Diversamente la radioterapia total-body è da ritenersi ormai una pratica desueta, non essendosi dimostrata superiore e, viceversa, più tossica rispetto alla monochemioterapia con chlorambucil. La LLC è, in effetti, estremamente sensibile al trattamento radiante, che può risultare utile nel controllare linfoadenopatie regionali massive. La radioterapia splenica, oltre a risolvere i sintomi locali, ha anche un’azione terapeutica sistemica e, analogamente alla splenectomia, è in grado di controllare la piastrinopenia e l’anemia emolitica; l’effetto è, però, meno duraturo rispetto all’ablazione chirurgica. La splenectomia è sicuramente efficace a scopo sintomatico e, secondo taluni, è anche in grado di prolungare la sopravvivenza dei pazienti con importante splenomegalia; mancano, però, conferme da studi controllati. La leucaferesi è una procedura utile nell’urgenza nelle gravi linfocitosi non altrimenti controllabili; non è indicata come terapia a lungo termine. È, infine, da definire ancora l’esatto ruolo delle immunoglobuline umane endovena nella prevenzione dei rischi infettivi, visti soprattutto gli elevati costi del trattamento.
Forme rare di leucemia linfatica cronica A. Leucemia prolinfocitica a cellule B. Va subito premesso che il termine prolinfocito, entrato nell’uso, non ha il significato di cellula precursore del linfocito: queste cellule hanno fenotipo differente dalle cellule della B LLC: esprimono immunoglobuline di membrana con densità più elevata ed in genere sono CD5– e CD23–. Clinicamente è caratterizzata da splenomegalia precoce e massiva e linfomegalie assenti o minime. Dal punto di vista ematologico vi è iperleucocitosi con linfocitosi: i prolinfociti sono leggermente più grandi dei linfociti, con tipico addensamento della cromatina alla periferia del nucleo o nucleolo molto evidente. B. Leucemia a cellule capellute. Il nome deriva dall’aspetto peculiare dei linfociti neoplastici che pre-
sentano evidenti propaggini del citoplasma, tozze e sottili, simili a capelli. Questa leucemia ha un’incidenza di circa l’1% tra tutte le malattie linfoproliferative; l’età media di comparsa è sui 50 anni; il sesso maschile prevale su quello femminile con un rapporto di 4,7:1. La spenomegalia è presente in circa il 90% dei casi, l’epatomegalia nel 30-40%, le adenomegalie nel 20%. L’infiltrazione midollare di tessuto molto consistente per presenza di fibrosi non permette di solito di ottenere frustoli midollari con la tecnica dell’agoaspirazione (punctio sicca), per cui bisogna di regola ricorrere alla biopsia; nel sangue periferico il reperto più comune è una pancitopenia. I linfociti, con la caratteristica morfologica descritta, appartengono al fenotipo B e mostrano una classica positività alla colorazione citochimica con la fosfatasi acida tartrato resistente. Il decorso è di tipo cronico; è discretamente frequente la coesistenza con l’infezione tubercolare. C. Leucemia linfatica cronica T. A seconda delle casistiche viene valutata dall’1,5 al 5% di tutti i casi di leucemia linfatica cronica. L’età di incidenza è più bassa rispetto alla B LLC con una mediana inferiore ai 50 anni al momento della diagnosi. Le principali caratteristiche cliniche sono la notevole splenomegalia in assenza di linfomegalie e lo spiccato dermotropismo. I linfociti periferici sono solo modestamente elevati, intorno a 15 × 109/l; l’infiltrazione midollare è meno estesa rispetto alla B LLC. La prognosi è abbastanza favorevole, con una fase stabile di malattia a decorso prolungato; in alcuni casi può aversi anche qui l’evoluzione in linfoma immunoblastico (sindrome di Richter). D. Leucemia prolinfocitica T. Rappresenta circa il 18% dei casi di tutte le leucemie prolinfocitiche. Nei confronti della forma B si distingue per la presenza di adenomegalie ed infiltrati cutanei, più frequente anemia e piastrinopenia ed una minore sopravvivenza (mediana di 7 mesi). E. Leucemia a cellule T dell’adulto. È stata descritta nel 1977 da Autori giapponesi in pazienti geograficamente raggruppati nel sud-ovest del Giappone, nel bacino dei Caraibi ed in alcune zone del sud-est degli USA: ad eccezione dei giapponesi è stata riscontrata esclusivamente nella razza nera; prevale nel sesso femminile. L’agente eziologico è un retrovirus umano di tipo C (HTLV-1); anticorpi contro antigeni virali si sono dimostrati in quasi tutti i sieri dei pazienti. L’esame obiettivo rileva linfomegalie, epatosplenomegalia ed infiltrati cutanei. Nel sangue periferico la linfocitosi è modesta o netta, sino a 100 × 109/l, costituita da cellule T, di solito di tipo helper, raramente di tipo suppressor. Le manifestazioni più gravi sono gli infiltrati polmonari e l’ipercalcemia, spesso causa di morte per coma, direttamente correlata all’attività della malattia e alla progressione della linfocitosi periferica.
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Si suppone che l’ipercalcemia sia mediata da prodotti delle cellule tumorali simili al fattore attivante gli osteoclasti, che stimolano la funzione di queste cellule. La prognosi è infausta, con sopravvivenza mediana di circa 6 mesi. F. Leucemia linfatica a grandi linfociti granulati (T). È stata descritta negli ultimi anni ed è caratterizzata dalla presenza nel midollo, nella milza e nel sangue periferico di linfociti di grandi dimensioni, con citoplasma abbondante, di solito con granuli azzurrofili. Dal punto di vista clinico vi è neutropenia cronica o ciclica con infezioni batteriche ricorrenti e cospicua splenomegalia; spesso vi è una sintomatologia a tipo di artrite reumatoide con positività dei test per il fattore reumatoide, presenza di anticorpi antinucleo, iper--globulinemia policlonale e immunocomplessi circolanti. Il decorso è cronico e la malattia di solito non richiede terapia specifica; la prognosi rimane riservata per la frequente comparsa di complicanze infettive.
Cenni di terapia La terapia delle malattie linfoproliferative, analogamente a quanto si è visto per le sindromi mieloproliferative, è di tipo patogenetico, rivolta a ridurre in modo consistente (ed eventualmente a sradicare) la proliferazione degli elementi neoplastici: i principali mezzi a disposizione sono le radiazioni ionizzanti e la chemioterapia, utilizzata con i criteri già esposti e con farmaci un poco diversi a seconda dei vari tipi di leucemia. Recentemente è stata introdotta la terapia con interferone- (o interferone- + interferone-) che si è dimostrata particolarmente efficace nella leucemia a cellule capellute e nei linfomi a cellule T correlati alla micosi fungoide.
APPENDICE (*) Linfoadenopatia angioimmunoblastica La linfoadenopatia angioimmunoblastica (LA) è un disordine linfoproliferativo descritto per la prima volta nel 1974 e caratterizzato da linfoadenopatia generalizzata, febbre, astenia ed altri sintomi sistemici e da un peculiare quadro istologico come successivamente descritto. La malattia insorge per lo più in soggetti oltre i 50 anni ed è piuttosto rara. L’eziopatogenesi è tuttora sconosciuta; sembra tuttavia che la LA possa rappresentare una reazione iperimmune (non neoplastica) ad antigeni non identificati (tra i quali sono sospettati anche farmaci, soprattutto antibiotici), con proliferazione di B immunoblasti.
(*) M. Storti.
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Alcune osservazioni sperimentali avrebbero indicato in un deficit quantitativo e/o funzionale dei linfociti T soppressori il principale fattore patogenetico della proliferazione immunoblastica B. Dal punto di vista clinico la malattia può esordire come un linfoma maligno, ma più spesso acutamente con sintomi e segni generalizzati quali marcata astenia e malessere, sudorazioni, febbre, anoressia e calo ponderale. Spesso è presente prurito e frequentemente anche un rash cutaneo eritemato-maculo-papulare diffuso. Nella maggior parte dei casi non mancano le artralgie. Caratteristicamente si osservano linfoadenomegalie generalizzate con linfonodi di variabili dimensioni e consistenza per lo più indolenti; frequentemente si associa epatosplenomegalia. Dal punto di vista laboratoristico, nella maggior parte dei casi è presente anemia (frequentemente anche di tipo emolitico con test di Coombs positivo), modica leucocitosi neutrofila con linfopenia, talvolta piastrinopenia. È caratteristica una spiccata iper--globulinemia policlonale associata spesso a ipoalbuminemia. La VES è quasi sempre elevata. La diagnosi si basa esclusivamente sull’esame istologico di un linfonodo biopsiato e richiede la contemporanea presenza dei seguenti criteri (nessuno dei quali è singolarmente patognomonico): • sovvertimento della struttura linfonodale e della sua architettura; • proliferazione cellulare polimorfa con plasmacellule, linfociti e soprattutto immunoblasti; presenti talvolta eosinofili; • proliferazione di vasi (venule postcapillari) finemente ramificati; • depositi interstiziali di materiale amorfo PAS positivo acidofilo. Possono essere interessati dal processo immunoproliferativo anche altri organi quali fegato, milza, midollo osseo e cute (anche se con aspetti meno caratteristici dal punto di vista eziologico). La LA va posta in diagnosi differenziale con i linfomi (soprattutto il linfoma di Hodgkin) e con linfoadeniti reattive (in particolare la mononucleosi infettiva) per cui è necessario un accurato esame istopatologico sulle biopsie linfonodali. La malattia, pur non rientrando nell’ambito delle forme linfoproliferative maligne, è accompagnata da una sopravvivenza generalmente breve (in media 15 mesi) e sono stati descritti casi di trasformazione in linfomi immunoblastici. Tali aspetti rendono suggestivo l’inquadramento della malattia come una condizione “preneoplastica” (prelinfomatosa). La terapia si basa sull’uso di corticosteroidi cui si associano eventualmente citostatici. Altre iperplasie linfonodali non neoplastiche Fra le forme tuttora inquadrate come iperplasie linfonodali (reattive?) non neoplastiche, ad eziologia sconosciuta, vanno ricordate le seguenti.
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1. La malattia di Castleman caratterizzata da un’iperplasia linfonodale di tipo angiofollicolare (proliferazione vascolare nei centri follicolari). Esiste un tipo più comune che interessa linfonodi ilo-mediastinici (con sintomi e segni dovuti ad occupazione di spazio loco-regionale), e un tipo più raro (a infiltrazione plasmacellulare e istiocitica) che interessa altri linfonodi con sintomi e segni sistemici quali febbre, astenia, artralgie, ipersedimetria e iper--globulinemia.
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
2. La malattia di Rosai e Dorfman (o istiocitosi dei seni con linfoadenopatia massiva) anch’essa contraddistinta da febbre, calo ponderale, artralgie ed altri segni comuni alla malattia di Castleman e a linfomi maligni. Istologicamente è contraddistinta da infiltrazione di istiociti e plasmacellule nei seni linfonodali. L’eziologia è sconosciuta e l’andamento clinico è caratterizzato da remissioni e riesacerbazioni.
C A P I T O L O
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DISCRASIE LINFOPLASMOCITARIE E PLASMACELLULARI M. TRESOLDI
La proliferazione clonale di elementi B linfocitari più o meno maturi ed in grado di sintetizzare/secernere immunoglobuline e loro frammenti (catena pesante e leggera) costituisce l’elemento comune di un relativamente ampio gruppo di malattie di cui il mieloma multiplo (MM) e la macroglobulinemia di Waldenström (MW) rappresentano le forme più frequenti (Tab. 50.1). In questa definizione vengono comprese tutte le proliferazioni B linfocitarie in grado di secernere proteine monoclonali, tuttavia, classicamente, sono considerate in un ulteriore gruppo distinto quelle condizioni in cui l’immunoglobulina (o un frammento), per l’elevata concentrazione sierica o urinaria o per una sua specificità biologica (crioagglutinina, crioglobulina, amiloidogenicità, ecc.), condizionano in maniera significativa il quadro clinico. In questa sede verranno prese in considerazione queste ultime condizioni con particolare attenzione alle discrasie plasmacellulari ed alla macroglobulinemia di Waldenström.
La capacità di produrre e secernere immunoglobuline (o parte di esse) ha determinato, per definire queste condizioni, l’impiego in letteratura di numerose e differenti denominazioni che è utile ricordare.
Tabella 50.1 - Malattie linfoproliferative e plasmacellulari associate a componente monoclonale.
La presenza nel siero o nelle urine di una componente M costituisce l’elemento comune a queste malattie, per cui è indispensabile conoscere le principali caratteristiche delle immunoglobuline e dei principali metodi di laboratorio impiegati per analizzarle.
• • • • • • • • • • • • •
Infettiva Mieloma multiplo e sue varianti Plasmocitoma solitario Plasmocitoma extramidollare Leucemia plasmacellulare Macroglobulinemia di Waldenström Linfomi non Hodgkin Malattia delle catene pesanti Leucemia linfatica cronica Amiloidosi AL Gammapatia monoclonale di significato indeterminato Malattia cronica da crioagglutinine Crioglobulinemia
• Gammapatia monoclonale: sottolinea la capacità del clone proliferante di produrre e/o secernere una catena immunoglobulinica più o meno completa costituita da una sola classe, sottoclasse, tipo e idiotipo, quindi monoclonale (detta anche componente M sierica). Generalmente, ma non esclusivamente, queste proteine migrano nella regione gammaglobulinica del tracciato elettroforetico sierico, da cui il termine “gammapatie monoclonali”. • Paraproteinemie (disproteinemie): termine introdotto in passato e ora poco utilizzato basato sul concetto che la proteina prodotta fosse anomala dal punto di vista qualitativo rispetto all’immunoglobulina normale, fatto generalmente non vero. • Malattie immunoproliferative: termine che vuole indicare la proliferazione clonale di elementi B linfocitari del sistema immunocompetente.
IMMUNOGLOBULINE A. Origine. Le immunoglobuline, così denominate per la loro funzione anticorpale, sono caratterizzate da una grande eterogeneità, maggiore di qualsiasi altro gruppo di molecole biologiche: questa eterogeneità, essenziale per la specificità anticorpale, è correlata alla loro struttura e determinata, a livello cellulare, da un alto grado di specializzazione delle cellule producenti anticorpi.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
La teoria della selezione clonale assume che una plasmacellula e tutta la sua progenie (clone) producano una immunoglobulina omogenea, che per la sua origine è detta appunto “monoclonale”. In condizioni fisiologiche le immunoglobuline circolanti sono il prodotto di parecchi cloni plasmacellulari, ognuno producente una immunoglobulina omogenea diversa da quella prodotta da un altro clone: di conseguenza nel siero normale si hanno immunoglobuline tutte differenti tra loro perché “policlonali”. B. Struttura. La dimostrazione che i tumori plasmacellulari (e linfocitari) sono costituiti dalla proliferazione di un solo clone, ognuno producente una immunoglobulina omogenea, è stata fondamentale per lo studio della struttura di queste molecole, altrimenti molto complicato in presenza di una composizione immunoglobulinica eterogenea. Le immunoglobuline sono molecole glicoproteiche: l’unità di base, detta monomero immunoglobulinico consiste in realtà di quattro catene polipeptidiche, due catene pesanti (H), uguali tra loro, costituite da circa 450 aminoacidi, del peso di circa 54.000 D e due catene leggere (L), pure uguali tra loro, costituite da circa 215 aminoacidi, del peso di circa 25.000 D (Fig. 50.1). Le catene sono unite tra loro da legami non covalenti; i polisaccaridi sono legati alla catena pesante.
Fc
F(ab’)2
Fc’ Papaina
Pepsina
Fab
N VL
Le sequenze aminoacidiche delle catene pesanti e leggere, integranti la “struttura primaria” delle immunoglobuline, sono costituite da subunità dette “regioni omologhe” o “dominii”, ognuno comprendente 110120 aminoacidi; nell’ambito di ogni dominio un ponte disolfurico collega gli estremi di una sequenza di circa 60 residui aminoacidici, conferendole una forma globulare. La regione di ogni catena compresa tra l’aminoacido NH2 terminale e l’aminoacido 110 ha dimostrato grande variabilità nella disposizione reciproca degli aminoacidi, ossia nella loro sequenza, da una molecola all’altra: questa regione è appunto la “regione variabile” (V), sia delle catene pesanti (VH) che delle catene leggere (VL); nell’ambito delle VH e VL esistono poi delle “regioni ipervariabili”, in cui la variabilità aminoacidica è maggiore che nelle altre zone: in queste regioni è localizzato il sito combinatorio per l’antigene, detto “idiotipo” o “determinante idiotipico”. Le aree rimanenti, sia delle catene pesanti che leggere sono molto simili nelle diverse immunoglobuline e sono denominate “regioni costanti”: si riconoscono la regione costante delle catene leggere (CL) e parecchie regioni costanti delle catene pesanti (CH1, CH2, CH3 ed in alcuni casi CH4). Una particolare importanza rivestono poi alcuni frammenti della molecola immunoglobulinica ottenuti
CL
N S
VH CH 1
Fd
S HG
CH2
CH3
C
CH2
CH3
C
S S S S HG Fd
CL
VH
N
CL VL
N
Figura 50.1 - Struttura della molecola immunoglobulinica. VL = porzione variabile della catena leggera; VH = porzione variabile della catena pesante; CL = porzione costante della catena leggera; CH1-CH2-CH3 = porzioni costanti delle catene pesanti; HG = Hinge (regione cardine o cerniera); Fab = frammento anticorpale; Fc = frammento cristallizzabile; Fd = frammento dializzabile.
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ad opera della digestione enzimatica con gli enzimi proteolitici papaina e pepsina. Questi enzimi agiscono a livello di una zona della catena H, interposta tra CH1 e CH2, nota come “regione cerniera”: è a livello di questa regione, ricca in residui prolinici e cisteinici, implicati nei ponti disolfuro che uniscono tra loro le catene pesanti, che si verificano con maggiore frequenza le delezioni aminoacidiche responsabili delle malattie delle catene pesanti. La papaina scinde la molecola in tre frammenti e precisamente: • due frammenti contenenti ognuno un sito combinatorio anticorpale (Fab), costituiti da una catena L e da un frammento di una catena H detto Fd (frammento dializzabile); • un frammento in grado di cristallizzare (Fc) costituito dalla parte restante delle due catene H. Anche la pepsina dà origine a due frammenti, che differiscono dai precedenti perché la scissione della molecola avviene partendo dall’estremo C-terminale, prima della regione cerniera. Di conseguenza si avranno: • un frammento F(ab)2 costituito da due catene L e due frammenti Fd più la regione cerniera, che possiede entrambe le valenze anticorpali della molecola; • due frammenti costituiti ognuno dalla parte restante della catena pesante. Si è visto che le catene peptidiche delle immunoglobuline comprendono regioni variabili e regioni costanti. Dal punto di vista funzionale sono importanti non solo le prime, cui spetta il compito di legare gli antigeni, ma anche le seconde che, in quella parte della molecola che corrisponde al frammento Fc, sono responsabili delle funzioni proprie delle immunoglobuline, quali la capacità di attivare il complemento, di fissarsi sui macrofagi o di attraversare la placenta. Le regioni costanti delle immunoglobuline sono pure dotate di un certo grado di eterogeneità, che è definita la loro “specificità isotopica”. Le regioni costanti delle catene leggere esistono in due varianti, indicate con le lettere greche e . Le regioni costanti delle catene pesanti esistono in cinque varianti principali, indicate con le lettere greche , , , , . Le immunoglobuline possono essere perciò di due tipi (a seconda che le loro catene leggere siano o ) e di cinque classi (a seconda della specificità isotipica delle loro catene pesanti). Queste cinque classi sono denominate IgG, IgA, IgM, IgD, IgE. Nel siero umano normale le cinque classi sono diversamente rappresentate: • • • • •
IgG IgA IgM IgD IgE
6,5-15 g/l; 0,6-4,0 g/l; 0,5-3,2 g/l; 0,3 mg/l; 0,0-0,2 mg/l.
Nell’ambito delle IgG si sono riconosciute quattro sottoclassi: IgG1, IgG2, IgG3, IgG4 e nell’ambito delle IgA, due sottoclassi: IgA1 e IgA2. Le immunoglobuline di ogni classe possono essere tanto di tipo che di tipo ; le immunoglobuline di tipo sono tre volte più frequenti di quelle di tipo . La vera caratteristica individuale di ogni tipo di immunoglobulina, quindi di ogni anticorpo, è determinata dalla “specificità idiotipica”, dipendente dall’infinita eterogeneità delle regioni variabili ed ipervariabili. Le IgG, IgD ed IgE esistono come monomeri; frequentemente nel caso delle IgA e sempre nel caso delle IgM, le subunità monomeriche sono riunite in forma di polimeri che contengono un tipo aggiuntivo di catena polipeptidica nota come pezzo giunzionale (J). Le IgM normalmente circolano come pentameri mentre le IgA possono formare dimeri, trimeri, tetrameri e pentameri. Le classi circolanti nel plasma sono praticamente IgG, IgA ed IgM. Le IgG sono implicate principalmente nella memoria immunologica, sono in grado di attraversare la placenta dal circolo materno a quello fetale e quindi garantiscono il corredo immunitario del neonato. Le IgA sono sintetizzate preferenzialmente in vari epiteli di rivestimento, compaiono nelle loro secrezioni e funzionano quindi come prima linea difensiva in un gran numero di infezioni, in modo particolare la sottoclasse IgA2, molto resistente alla digestione proteolitica. La produzione di IgM rappresenta la risposta immune primaria alla maggior parte degli antigeni; queste immunoglobuline funzionano quindi come anticorpi di pronto intervento, immediatamente dopo lo stimolo. Le IgD e le IgE sono in concentrazioni così piccole che ordinariamente non vengono dosate nel siero; le IgD sono fondamentalmente strutture recettoriali alla superficie dei linfociti B; le IgE sono elettivamente fissate alla superficie delle mastzellen e dei granulociti basofili per cui si trovano in discreta quantità nei tessuti mentre nel plasma sono scarsissime.
Genetica I geni che codificano per le immunoglobuline sono costituiti da tre gruppi rispettivamente per le catene pesanti e leggere e distribuiti in tre cromosomi distinti (14, 2 e 22 rispettivamente). Su ogni cromosoma è in realtà presente un complesso che per le catene pesanti (Cr. 14) è costituito da un numero più o meno ampio di geni che codificano per la regione variabile (100-200) (V), per i segmenti di diversità (D 24) e di giunzione (J 6) e per la regione costante (C), che nel caso delle catene pesanti definisce la classe (, , , , ). Per la catena leggera il complesso (Cr. 2) è formato da 70 geni per la regione variabile, 5 per la regione J ed uno per la regione costante; mentre il complesso per la catena (Cr. 22) è formato da 70 geni per la regione variabile, 4 per quella costante ed 1 per la regione di giunzione.
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Durante l’ontogenesi dei linfociti B avviene un processo preordinato definito riarrangiamento del gene delle immunoglobuline che consiste nel fatto che, per ciascuno dei segmenti della regione variabile e della regione di giunzione, uno dei pezzi viene selezionato casualmente e congiunto con quelli delle altre regioni. Si forma così una sequenza VDJ che è pronta per codificare la sintesi della corrispondente struttura proteica e che, per la casualità dell’assortimento dei geni, è molto eterogenea da una cellula all’altra. Questo processo inizia dai geni per le catene pesanti, prosegue quindi per le catene leggere o eventualmente per quelle e darà origine infine ad una immunoglobulina completa. Il processo ha inizio con la formazione della sequenza VD e J della catena pesante che si unirà al gene che codifica per la catena costante . La prima immunoglobulina sintetizzata ed espressa alla superficie dei linfociti B è IgM, quindi, successivamente, con l’intervento dei linfociti T si verificherà il passaggio (“switching”) alle altre classi di immunoglobuline pur conservando la stessa catena variabile e la specificità anticorpale. Questo processo garantisce un’estrema possibilità di combinazioni di sequenze genomiche che consente la sintesi di un repertorio di immunoglobuline (anticorpi) estremamente ampio. Un altro aspetto fondamentale è che ogni cellula B andrà incontro ad un proprio specifico riarrangiamento che la renderà riconoscibile. Questo offre, come vedremo più avanti, un importante strumento diagnostico che sfrutta l’analisi del riarrangiamento del gene delle immunoglobuline.
Esami di laboratorio A. Elettroforesi. L’elettroforesi del siero su acetato di cellulosa consente la separazione delle proteine in base alla loro carica elettrica; nel tracciato di un siero normale si riconoscono cinque curve corrispondenti, in ordine decrescente di mobilità elettroforetica, alla albumina ed alle 1-, 2-, -, -globuline (Fig. 50.2). Il contenuto percentuale delle singole frazioni è all’incirca il seguente: albumina 60%, 1 4%, 2 8%, 12%, 16%; determinando, a mezzo di metodica appropriata, il contenuto totale delle sieroproteine, normalmente di circa 70-75 g/l, è possibile calcolare la quantità in g/l di ogni frazione. Le immunoglobuline appartengono per la maggior parte alle -globuline, ma possono spesso migrare tra le e le oppure in regione , e anche, raramente, in regione 2. Come appare dalla figura 50.2 A, nella zona di pertinenza delle immunoglobuline si hanno delle curve gaussiane larghe, molto disperse, espressione della migrazione elettroforetica di immunoglobuline policlonali e quindi eterogenee. È importante ricordare che la presenza di un picco monoclonale al tracciato elettroforetico (Fig. 50.2 C-D) va confermata all’immunoelettroforesi o, meglio, alla immunofissazione che individuano il tipo di catena pesante e leggera. Esistono situazioni in cui nonostante la produzione da parte del clone neoplastico di una componente mo-
noclonale, questa non risulta evidente al tracciato elettroforetico come nel caso delle catene leggere che passano il filtro renale, quindi solo in presenza di un danno renale compariranno all’elettroforesi. Altre rare situazioni di falsi negativi si verificano nei mielomi IgD e IgE laddove la produzione di componente M risulta esigua. Va inoltre considerata l’eventualità di false componenti M che si possono avere in presenza di fibrinogeno (siero non del tutto coagulato, impiego di plasmina nell’analisi); ipertransferrinemia (anemia sideropenica), iperlipoproteinemia; presenza di complessi emoglobina-aptoglobina (anemie emolitiche); bisalbuminemia (variante congenita o da farmaci come la penicillina che legata all’albumina ne modifica la mobilità elettroforetica) ed iperalfaglobulinemia (incremento delle proteine di fase acuta). L’elettroforesi può essere effettuata anche su altri liquidi biologici quali il liquor e le urine. Nel liquor possono essere individuate bande monoclonali nei casi piuttosto rari di localizzazione di plasmocitoma al SNC. L’elettroforesi urinaria è un importante strumento diagnostico e di monitoraggio per i pazienti affetti da mieloma multiplo. Generalmente, in presenza di una funzione renale conservata le immunoglobuline non superano il filtro glomerulare, tuttavia alterazioni renali non infrequenti nelle discrasie plasmacellulari o la sintesi di sole catene leggere, sufficientemente piccole per essere filtrate, determinano la presenza nelle urine di una componente proteica a banda ristretta identificabile dall’elettroforesi ed ancora meglio caratterizzabile alla immunofissazione. È utile qui ricordare che le comuni strisce (stick) per la ricerca delle proteine urinarie contengono reagenti sensibili alla presenza di albumina ma non alle immunoglobuline e quindi non sono impiegabili per la ricerca di componente monoclonale urinaria. B. Immunoelettroforesi. È una metodica combinata che utilizza la migrazione elettroforetica delle proteine su un particolare terreno per ottenere la separazione e contemporaneamente ne valuta le caratteristiche antigeniche a mezzo di antisieri specifici. Viene eseguita su un vetrino portaoggetti ricoperto da uno strato di agar, in cui è contenuto un sistema tampone; al centro dell’agar è scavato un pozzetto nel quale viene seminato il siero in esame. In una prima fase le proteine del siero, che funzionano da antigene, vengono sottoposte a frazionamento elettroforetico; esse sono dissociate ad un pH 7 fondamentalmente come acidi e quindi migrano verso il polo positivo; il pozzetto è posto al centro perché l’agar ha le sue cariche elettriche ma non è in grado di spostarsi, mentre si sposta il tampone in direzione opposta alla migrazione delle proteine: in sostanza la semina al centro corrisponde alla semina ad un estremo, se non intervenisse la migrazione del tampone. In un secondo tempo, da un solco lineare orientato parallelamente alla direzione della corsa elettroforetica, viene lasciato diffondere l’antisiero: nel punto di incontro antigene-anticorpo avviene una precipitazione di aspetto arciforme e compaiono tanti archi di precipitazione quanti sono i sistemi antigene-anticorpo.
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A
A.
1
2
B.
IgA IgM (IgD IgE) IgG
C.
D.
**
**
Figura 50.2 - Tracciati elettroforetici normali e patologici. A. Tracciato elettroforetico: proteine del siero di un soggetto normale. B. Tracciato elettroforetico: proteine del siero di un caso di cirrosi epatica con marcata ipergammaglobulinemia policlonale; si noti l’aspetto a base allargata della regione gammaglobulinica () per la presenza di immunoglobuline policlonali in eccesso. C. Tracciato elettroforetico di un caso di MM IgG. Evidente picco a banda ristretta (*) nella regione gammaglobulinica espressione della produzione di immunoglobuline omogenee e quindi con la stessa mobilità elettroforetica. In questo caso le immunoglobuline policlonali () risultano depresse. D. Tracciato elettroforetico di un caso di MM IgA. Presenta le stesse caratteristiche del precedente ma la CM (*) risulta più spostata verso la regione per una differente mobilità elettroforetica delle IgA rispetto alle IgG. L’altezza delle cuspidi è un indice grossolano della quantità delle immunoglobuline.
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Analoga procedura potrà essere effettuata anche su campioni di urine per determinare la presenza di catene o monoclonali (proteinuria di Bence-Jones).
A.
B.
C. Figura 50.3 - Rappresentazione schematica di un’immunoelettroforesi. Curve di precipitazione ottenute con siero normale ed antisiero diretto contro tutte le frazioni proteiche (A); siero normale ed antisiero antimmunoglobuline (B); siero di mieloma IgG ed antisiero antimmunoglobuline (C).
La metodica consente la tipizzazione immunochimica delle immunoglobuline, ossia la determinazione della classe della catena pesante e del tipo della catena leggera: infatti utilizzando antisieri polivalenti per le immunoglobuline umane si avranno tre soli archi di precipitazione, corrispondenti alle tre principali classi: IgG, IgA e IgM; utilizzando antisieri contro le catene leggere si identifica anche il tipo dell’immunoglobulina ( o ). Sono a disposizione anche antisieri anti-frammenti delle immunoglobuline, per esempio anti-Fc, antidiotipo. Gli archi di precipitazione hanno intensità proporzionale alla concentrazione dell’antigene, ossia dell’immunoglobulina: il siero normale mostra archi di intensità decrescente dalle IgG alle IgA alle IgM, inoltre esse hanno una curvatura molto allargata; in presenza di immunoglobulina monoclonale l’arco corrispondente è molto marcato e soprattutto più convesso (Fig. 50.3). C. Immunofissazione. Attualmente è da considerarsi la tecnica più sensibile e specifica per la ricerca di componenti M sieriche e/o urinarie che ha superato la stessa immunoelettroforesi. Sfrutta la combinazione tra l’elettroforesi proteica su agarosio con successiva reazione delle proteine separate con anticorpi monospecifici. In pratica, campioni di siero vengono seminati in più solchi lineari su supporti di agarosio e sottoposti a elettroforesi, quindi per ogni solco viene seminato un antisiero specifico per le catene pesanti e leggere (solitamente , , , , ). A questo punto, quando l’antisiero incontrerà l’antigene specifico determinerà un immunoprecipitato che rimarrà nel supporto di gel dopo lavaggio effettuato per allontanare le proteine non precipitate. Un’opportuna colorazione metterà facilmente in evidenza l’eventuale componente M (Fig. 50.4).
D. Immunodiffusione radiale semplice (secondo Mancini). Si utilizza per la determinazione quantitativa delle diverse classi immunoglobuliniche; è basata, come l’immunoelettroforesi, sulla precipitazione che si verifica al punto di incontro antigene-anticorpo. L’antisiero (reattivo interno) viene incorporato in agar situato in uno strato sottile sul fondo di una piastra di Petri. Il siero in esame, cioè l’antigene (reattivo esterno), viene depositato in un pozzetto scavato nello strato dell’agar e la piastra viene poi sistemata in camera umida a temperatura costante; il siero diffonde dal pozzetto circolare secondo tutte le direzioni radiali ed ai punti di incontro con l’antisiero si formano precipitati che circoscrivono un alone circolare: ad equilibrio raggiunto tra reattivo interno ed esterno, la superficie del cerchio SP
1
2
3
4
5
6 A.
SP
1
2
3
4
5
6 B.
Figura 50.4 - Immunofissazione. A. I campioni di siero sono collocati in ciascuna delle diverse corsie costituite da un supporto di gel di agarosio per elettroforesi e quindi fatti migrare in campo elettrico. B. In ogni corsia viene poi aggiunto antisiero specifico: rispettivamente antisiero umano (SP) anti , , , e . Dopo breve incubazione (1 h) si lava e si colora. Solo gli immunoprecipitati (complesso antigene-anticorpo) rimarranno nel gel. In questo caso sulla corsia (1), testata con anticorpi antisiero umano, è stata dimostrata una proteina monoclonale, identificata come IgA utilizzando anticorpi specifici (corsie 2 e 6).
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è proporzionale alla quantità di antigene, cioè di immunoglobulina. E. Nefelometria. Questa tecnica, in pratica, sostituisce la precedente sfruttando l’osservazione che complessi antigene-anticorpo formano precipitati che possono essere riconosciuti fotoelettricamente. Vari campioni di materiali biologici (siero, urine, liquor) possono essere cimentati con diversi antisieri e quindi analizzati confrontando le caratteristiche fotoelettriche con precipitati standard di cui sono note le concentrazioni. In questo modo si può facilmente e rapidamente risalire alla concentrazione della proteina in esame. F. Proteinuria di Bence-Jones. L’eccesso di catene leggere o nelle urine può essere svelato sfruttando un caratteristico comportamento di precipitazione di queste proteine. In particolare, le catene leggere (proteina di Bence-Jones) precipitano ad una temperatura di 56 °C e si ridissolvono quando si raggiunge l’ebollizione a 100 °C. Questo va considerato un esame preliminare di screening che va poi confermato con l’immunoelettroforesi e/o immunofissazione delle urine. G. 2-microglobulina. La 2-microglobulina ( 2-M) è una proteina a basso peso molecolare (11.800 D) formata da una singola catena polipeptidica di 100 aminoacidi, presente a basse concentrazioni in siero, urine, liquido cerebrospinale e colostro; la sua sequenza aminoacidica presenta un notevole grado di somiglianza con la porzione C-terminale della catena delle IgG. La 2-microglobulina entra a costituire la struttura degli antigeni HLA della maggior parte delle cellule, viene eliminata per filtrazione glomerulare e catabolizzata nel rene dopo riassorbimento tubulare. I livelli sierici aumentano con l’età e valori elevati nel siero e nelle urine si verificano sia in corso di malattie infiammatorie che neoplastiche, nel mieloma multiplo e anche nell’insufficienza renale; inoltre, in alcuni pazienti con mieloma l’insufficienza renale può contribuire all’aumento della 2-M. Poiché i livelli di 2-M si sono dimostrati correlati con lo stadio del mieloma e con la sopravvivenza, si ipotizza che essa rappresenti un prodotto delle cellule mielomatose e possa essere utilizzata come marker tumorale per predire il corso della malattia. Si è anche dimostrato che i livelli di 2-M hanno un significato prognostico indipendente e superiore a quello desumibile dal Labeling Index. H. Labeling Index. Il Labeling Index (LI) o indice di marcatura delle plasmacellule consente di valutare la percentuale di plasmacellule midollari in fase di sintesi attiva del DNA (fase S del ciclo cellulare). Il LI può essere determinato, in vitro, incubando le plasmacellule con un precursore del DNA: timidina tritiata (3H-TdR) o bromodesossiuridina (BUDR), quest’ultima somministrabile anche in vivo. Le cellule che hanno incorporato il precursore del DNA, cioè in fase S, possono essere identificate all’esame autoradiografico (per la timidina tritiata) o attraverso un anticorpo specifico (anti-BUDR). La percentuale di cellule marcate da questi traccianti è definita
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Labeling Index che nel MM, malattia con basso indice di replicazione, risulta quasi sempre piuttosto basso (1% < LI < 2%). Le forme più aggressive presentano alla diagnosi un LI superiore al 2%. I. Viscosimetria. È la misura della viscosità relativa del sangue in toto o del siero rispetto all’acqua distillata. Il metodo più semplice e soddisfacente è basato sulla legge di Poiseuille per cui la velocità di flusso dei fluidi in capillari di uguale calibro, nelle stesse condizioni di pressione e temperatura, dipende dalla forza di frizione interna (viscosità). Della misurazione della viscosità del sangue, del plasma o del siero si è già parlato nel capitolo 45. Nei pazienti con mieloma IgG e IgA e con macroglobulinemia di Waldenström (IgM) la viscosità è frequentemente aumentata: sintomi possono comparire su livelli di viscosimetria di 4; da valori di 6-7 l’iperviscosità è sempre sintomatica. L. Analisi per il riarrangiamento del gene delle immunoglobuline. In alcune situazioni risulta molto importante definire se un infiltrato cellulare è monoclonale (sindromi linfoproliferative atipiche) o se dopo un trattamento persistano ancora cellule neoplastiche (malattia residua). Le cellule linfatiche B e T, come abbiamo visto, durante la maturazione e differenziazione subiscono un processo di riarrangiamento dei geni che codificano per le immunoglobuline e/o per il T cell receptor (TCR). Al termine di questo processo si avrà un gene per le immunoglobuline che, nel caso dei linfociti B, caratterizza in maniera univoca una data cellula. Attualmente la possibilità di identificare i frammenti di DNA riarrangiati, quindi non germinali, ottenuti attraverso opportuna digestione con endonucleasi del DNA è un mezzo utilissimo per la diagnosi di proliferazione monoclonale. Il DNA di questi geni riarrangiati sarà di lunghezza differente rispetto al DNA del gene della cellula germinale ma anche di qualunque altro gene riarrangiato che codifica per catene leggere o pesanti diverse. Questa diversità può essere opportunamente identificata utilizzando la cosiddetta analisi del riarrangiamento del gene delle immunoglobuline. La metodica consiste nella digestione del DNA cellulare utilizzando enzimi che agiscono su siti ben precisi (enzimi di restrizione) dando origine a frammenti di DNA di varie dimensioni (frammenti di restrizione). A questo punto i vari frammenti possono essere separati elettroforeticamente a seconda delle loro dimensioni e successivamente denaturati. Il passo ulteriore è quello di cimentare (ibridizzazione) i vari frammenti che corrispondono ai geni che si vogliono andare ad identificare con una sonda marcata (32P). Nel caso di un processo neoplastico daranno origine a una banda di tipo monoclonale. La metodica sopradescritta è nota come ibridizzazione Southern Blot. Vi è anche la possibilità di identificare il riarrangiamento genico con la tecnica della Polymerase Chain Reaction (PCR) in grado di amplificare
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notevolmente piccoli frammenti di DNA ottenuti da campioni tissutali così da renderli identificabili all’elettroforesi.
MIELOMA MULTIPLO Il mieloma multiplo (MM) o malattia di Kahler-Bozzolo rappresenta la forma più frequente di discrasia plasmacellulare. Questo termine, non definendo l’elemento midollare neoplastico, andrebbe più correttamente sostituito con mieloma plasmacellulare o plasmocitoma a indicare che l’elemento proliferante è costituito da plasmacellule. Il mieloma multiplo si localizza nel midollo osseo che può essere più o meno sostituito. Le plasmacellule neoplastiche mantengono la capacità di sintetizzare e secernere immunoglobuline intatte, solitamente di classe IgG o IgA, mentre più raramente sono descritti mielomi con produzione di IgD o IgE. Le immunoglobuline IgM sono invece di usuale riscontro in un altro gruppo di proliferazioni linfoplasmacellulari di cui la macroglobulinemia di Waldenström è la condizione più frequente. In associazione all’immunoglobulina monoclonale intatta vengono anche sintetizzate e messe in circolo catene leggere libere ( o ) in eccesso che talora (1015% dei casi) costituiscono l’unica componente proteica prodotta dal clone neoplastico (MM micromolecolare). Infine esiste la possibilità (1% dei casi) che la plasmacellula neoplastica perda la capacità di sintetizzare e/o secernere immunoglobuline intatte o loro frammenti (MM non secernente): questa situazione potrebbe comportare un ritardo diagnostico, venendo a mancare un marker di laboratorio, che spesso conduce alla diagnosi in una fase in cui la malattia non ha ancora determinato una sintomatologia clinica. Il MM come si è detto si localizza più o meno diffusamente nel midollo osseo, tuttavia può coinvolgere virtualmente qualsiasi sede corporea (fegato, milza, polmoni, cute, sangue periferico, ecc.), soprattutto nelle fasi avanzate della malattia. Esiste inoltre l’eventualità che la sede di insorgenza sia singola, ossea (plasmocitoma solitario) o extramidollare (plasmocitoma dei tessuti molli, generalmente vie aeree superiori o cavo orale e IgA secernenti). Infine, seppur raramente, vi è la possibilità di un esordio con presenza di elementi patologici nel sangue periferico (leucemia plasmacellulare) che non va confusa con la fase leucemica terminale che alcuni pazienti con MM presentano nelle ultime fasi della loro malattia. Il MM è una malattia rara anche se il tasso di incidenza è in aumento. Dati riferiti alla popolazione italiana di età compresa tra 35 e 64 anni per il periodo 19781982 forniscono un tasso di incidenza annuale di 2,74,8 casi ogni 100.000 abitanti per i maschi e di 1,3-1,5 casi ogni 100.000 abitanti per il sesso femminile. L’eziologia del MM è ancora sconosciuta, tuttavia alcuni dati epidemiologici suggeriscono la possibile influenza di fattori familiari e genetici; condizioni di ri-
schio sono, inoltre, alcune esposizioni a radiazioni ionizzanti e sostanze tossiche, tra cui vanno attentamente considerati i derivati del petrolio, pesticidi e coloranti. La possibilità che una cronica stimolazione del sistema immunitario possa costituire un fattore di rischio per l’insorgenza del MM è stata ampiamente considerata; al momento si può affermare che per l’artrite reumatoide sembra esserci un rischio aumentato di costituire un fattore predisponente per il MM, mentre una infezione acuta o cronica non costituirebbe un reale fattore di rischio a meno che non si voglia pensare che la facilità a presentare infezioni più o meno croniche esprima un’evidenza precoce di una malattia mielomatosa già in atto. A questo proposito merita una considerazione a sé stante una particolare condizione, di cui si dirà più avanti, che è rappresentata dalla gammapatia monoclonale di significato indeterminato (MGUS). I pazienti che presentano tale situazione clinica, caratterizzata dalla presenza nel siero e/o nelle urine di una proteina monoclonale di modesta entità (≤ 30 g/l), con espansione plasmacellulare midollare contenuta (≤ 5-10%), costituiscono un gruppo a rischio di evoluzione in MM in un arco di tempo variabile ma nell’ordine di alcuni anni.
Patogenesi La patogenesi del MM non è ancora del tutto chiarita ma recentemente molte sono state le acquisizioni ottenute sui possibili passaggi attraverso i quali la plasmacellula o un suo precursore evolve in un elemento neoplastico. Al momento restano tuttavia alcune incertezze, tra cui la più rilevante è costituita dal fatto che non è ancora stato riconosciuto l’elemento cellulare normale da cui origina il clone neoplastico. Possono però essere avanzate alcune ipotesi supportate da considerazioni che tengono conto dell’ontogenesi dei linfociti B e delle caratteristiche funzionali e immunofenotipiche delle plasmacellule neoplastiche. L’elemento coinvolto sembrerebbe la plasmacellula lungo-sopravvivente (“long-lived plasma cell”) che origina nel centro germinativo dei linfonodi conseguentemente ai processi di ipermutazione somatica a cui va incontro il linfoblasto attivato e selezionato da un antigene e che ha operato anche lo switch per le immunoglobuline. Questo elemento cellulare, al termine di tali processi, si localizza nel midollo osseo. La trasformazione neoplastica di queste plasmacellule si determina a seguito di eventi genetici che, per lo più attraverso processi di traslocazione, attivano oncogeni che garantiscono l’immortalizzazione della cellula. Seguono altre modificazioni che permettono al clone neoplastico un rapporto privilegiato con il microambiente da cui ottengono importanti fattori di crescita. Da ultimo, ulteriori mutazioni consentono alla cellula di rendersi completamente autonoma da stimoli esterni (fattori di crescita) e priva di regolazione (insensibile agli stimoli apoptosici e regolatori del ciclo cellulare). Gli oncogeni maggiormente coinvolti nel processo di immortalizzazione sembrano essere il MYC, il BCL-1 e
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il gene per il recettore 3 del fattore di crescita dei fibroblasti (FGFR 3). Anche per il MM, così come per altri tumori linfocitari, l’alterata regolazione di questi geni si realizza sempre attraverso una traslocazione che vede coinvolto il locus per le catene pesanti delle immunoglobuline (cromosoma 14). La traslocazione a livello del locus per le catene pesanti delle immunoglobuline, e più raramente per le catene leggere, costituisce così probabilmente l’alterazione genetica pressoché universale del MM. Questo potrebbe apparentemente contrastare con la bassa frequenza con cui si riscontrano anomalie cariotipiche in questa malattia ma ciò è semplicemente legato al ridotto numero di metafasi che si ottengono dalle plasmacellule mielomatose, notoriamente elementi cellulari a basso indice di replicazione. L’impiego di metodiche diverse per l’individuazione di anomalie cromosomiche definite, in particolare, con l’ibridizzazione mediante fluorescenza in situ (metodica FISH) consente di dimostrare alterazioni cromosomiche nella quasi totalità dei casi di MM. Questi eventi iniziali di immortalizzazione sono condivisi anche dalle plasmacellule presenti nei casi di MGUS. Con il procedere del processo patologico la cellula, attraverso ulteriori mutazioni genetiche, ottiene sempre maggiori vantaggi di crescita rispetto alla controparte normale. In questa fase i meccanismi di regolazione cellulare sono ancora del tutto sovrapponibili a quelli fisiologici: la rete delle citochine e le molecole di adesione a cui, tuttavia, la cellula neoplastica ha una risposta abnorme o presenta espressioni atipiche. A. Citochine. È ormai noto che proliferazione, differenziazione e funzioni delle cellule del sistema linfoematopoietico vengono regolate da una complessa rete di ormoni a breve raggio d’azione, che possono agire sulle stesse cellule che le producono (azione autocrina) o su cellule vicine (azione paracrina). Questi ormoni sono detti “citochine” e sono prodotti dal sistema stesso ma anche dalle cellule che costituiscono il microambiente midollare. Non è sempre agevole definire gli effetti di una citochina in quanto la situazione in vivo è alquanto complessa e frequentemente l’effetto finale non è il risultato dell’azione di una singola citochina ma la risultante delle azioni della complessa rete di sostanze che si trovano contemporaneamente ad agire su una data cellula bersaglio. Tenuto conto di questa premessa, alcune acquisizioni relative ai fattori di crescita della cellula mielomatosa sono tuttavia da considerare ormai certe. In particolare, un ruolo predominante è attribuito all’IL-6 prodotta sia dalle cellule neoplastiche ma soprattutto dal microambiente midollare (macrofagi, osteoclasti e osteoblasti). Contrariamente alla situazione fisiologica in cui l’IL-6 stimola la differenziazione dei precursori B in plasmacellule con relativa produzione di immunoglobuline, sulla cellula mielomatosa l’IL-6 ha un effetto di stimolo della proliferazione cellulare con azione protettiva nei confronti di eventuali segnali di tipo apoptosico.
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Le modalità con cui l’IL-6 si lega al proprio recettore sulla membrana cellulare, e quindi come il segnale raggiunge il nucleo cellulare, sono oggi ampiamente studiate anche se non del tutto chiarite. Sostanzialmente, gli eventi che a livello cellulare si realizzano, una volta impartito lo stimolo ad opera dell’IL-6, sono l’attivazione di una serie di enzimi per lo più di tipo tirosinchinasico. Questi enzimi, a loro volta, attivano altri mediatori cellulari citoplasmatici capaci di trasferire il segnale all’interno del nucleo a livello di geni bersaglio la cui espressione può determinare modificazioni del ciclo cellulare, mancata inibizione del processo proliferativo, resistenza ai segnali di apoptosi (morte cellulare programmata). Nelle fasi avanzate o nelle forme di malattia aggressiva la plasmacellula neoplastica risulta svincolata dall’azione dell’IL-6 (crescita plasmacellulare IL-6 indipendente). La conoscenza di tali meccanismi offre l’opportunità di nuove prospettive terapeutiche che prevedono l’impiego di anticorpi bloccanti l’IL-6, il suo recettore o di “molecole non senso” che interferiscono con il segnale intracellulare indotto dall’IL-6 stessa (per es., inibitori delle tirosinchinasi specifiche). Altri fattori di crescita per il MM sono stati individuati e comprendono G-CSF, IFN-, IL-10, GM-CSF, IL-3, “stem cell factor”, TNF-, HGF, IGF-2 e 1. Vale la pena di sottolineare che le valutazioni dell’attività di queste molecole sono spesso ottenute in vitro e singolarmente, quindi richiedono la conferma del dato in vivo. Si consideri, per esempio, l’IFN- che è impiegato nella terapia di mantenimento del MM con discreto successo e che in vitro risulterebbe favorire la crescita delle plasmacellule. Tra le citochine con azione inibente sulla crescita delle cellule mielomatose abbiamo l’IFN-. B. Molecole di adesione. Per quanto riguarda le molecole di adesione, ricordiamo brevemente che queste hanno una notevole importanza per le modalità con cui una cellula si localizza in un determinato sito e si rapporta con le cellule del microambiente. L’espressione di determinate molecole di adesione facilita la localizzazione midollare (“homing”) delle plasmacellule neoplastiche non differenziandosi in questo dalle loro controparti normali ma la scomparsa di queste molecole può giustificare una fase leucemica della malattia. Oltre a ciò, la presenza di molecole di adesione, che normalmente non sono espresse, modifica le relazioni delle plasmacellule neoplastiche con le cellule stromali facilitando, per esempio, la produzione paracrina di IL-6. Gli eventi finali del processo di trasformazione neoplastica che si verificano nella fase tardiva della malattia mielomatosa, ma anche precocemente nelle forme aggressive, sono ancora costituiti da mutazioni genetiche. Tali mutazioni rendono la cellula neoplastica totalmente indipendente dalle influenze del microambiente. In questa fase sembrano maggiormente coinvolti l’oncogene RAS (proteina implicata nel meccanismo di trasmissione intracellulare del segnale per l’IL-6), i geni soppressori p53 e BCL-2 (responsabili del controllo dei segnali apoptosici), il gene soppressore del retino-
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blastoma (pRB, responsabile del controllo del ciclo cellulare e del passaggio dalla fase G1 alla fase S) e probabilmente altri geni ancora da definire (M-RAS). A seguito di queste modificazioni genetiche verrebbero prodotte proteine mutate che stimolerebbero la replicazione cellulare senza l’intervento dell’IL-6, ci sarebbe una resistenza aumentata agli stimoli di tipo apoptosico (p53 mutato e livelli elevati di BCL-2) e la cellula non sarebbe arrestata nella fase G1 del ciclo cellulare con passaggio continuo in fase S (proteina RB mutata).
Fisiopatologia Le manifestazioni cliniche del MM possono essere ricondotte a due elementi della malattia quali la massa tumorale e la capacità della cellula neoplastica di secernere immunoglobuline in eccesso e altre sostanze (per es., citochine) ad elevata attività biologica. Le principali conseguenze che ne derivano sono: • la sostituzione del midollo emopoietico normale da parte delle plasmacellule (mieloftisi) ma anche l’inibizione dell’emopoiesi da parte di citochine (IL-6, TNF- , IL-1 ) liberate nel microambiente da cellule stromali o da cellule mielomatose; • il danno renale dovuto all’eccesso di catene leggere o . Queste molecole sono sufficientemente piccole per superare il filtro glomerulare; una volta raggiunto il tubulo vengono riassorbite e catabolizzate determinando, tuttavia, un danno sulle cellule tubulari (nefropatia interstiziale con proteinuria di Bence-Jones). La nefropatia si viene a determinare anche per la frequente presenza di ipercalcemia e la non trascurabile incidenza di infezioni del tratto urinario. Infine non va dimenticato il possibile deposito di sostanza amiloide (si veda oltre) e la più rara malattia da deposito delle catene leggere (LCDD); • l’aumentato assorbimento osseo da riferire più che all’invasione diretta della cellula mielomatosa alla capacità di queste cellule di liberare sostanze in grado di attivare gli osteoclasti quali l’OAF (Osteoclast Activating Factor), oggi identificabile con alcune citochine (IL-1 , TNF- ); • l’ipercalcemia diretta conseguenza dell’aumentato assorbimento osseo ma anche del danno renale, peraltro favorito dall’ipercalcemia stessa; • la predisposizione alle infezioni dovuta a un deficit sia dell’immunità umorale che cellulo-mediata che si viene probabilmente a determinare, ancora una volta, per l’azione inibente di citochine liberate nel microambiente. L’entità di questi effetti, come vengono a combinarsi tra loro e la rapidità con cui si rendono clinicamente evidenti condizionano ampiamente la modalità di presentazione della malattia mielomatosa. Questo giustifica le ben note varianti cliniche del MM che comprendono forme a lento decorso come il mieloma indolent, lo smouldering mieloma e la, seppur rara, leucemia plasmacellulare.
Clinica Attualmente la situazione più frequente è quella di un paziente asintomatico che viene riconosciuto affetto da MM a seguito di accertamenti diagnostici condotti per altre ragioni. Quando la malattia diviene o risulta sintomatica le manifestazioni cliniche possono essere a carico dell’apparato scheletrico, delle vie urinarie o rendersi evidenti per la tendenza a infezioni, sanguinamenti o danni neurologici. A. Apparato scheletrico. Il coinvolgimento osseo è pressoché una costante del MM e il quadro clinico si caratterizza per la presenza del sintomo dolore che può essere diffuso o localizzato in presenza di osteoporosi e/o lesioni osteolitiche. L’insorgenza del dolore è giustificata più che da una massa tumorale con effetto destruente sull’osso dall’azione di attivatori degli osteoclasti (OAF), oggi riconosciuti in varie citochine quali IL-6, TNF- e IL-1 liberate dal microambiente midollare o dalle plasmacellule stesse. Queste sostanze, stimolando l’attività osteoclastica, determinano un effetto osteopenizzante che si può manifestare nell’ambito di un’osteoporosi o piuttosto come lesioni discrete di tipo litico. Generalmente le sedi più colpite dalle lesioni ossee sono quelle a elevato contenuto di tessuto ematopoietico (cranio, vertebre, sterno, clavicole, bacino, femori, omeri) dove più facilmente si liberano gli attivatori degli osteoclasti. Dolori ossei particolarmente intensi a insorgenza acuta o accompagnati da complicanze neurologiche come ad esempio segni di compressione midollare e/o radicolare devono far pensare alla presenza di fratture patologiche (femori, omeri, coste) e a cedimenti vertebrali con coinvolgimento di midollo spinale e/o radici nervose. B. Anemia. Altro sintomo piuttosto frequente è l’astenia che generalmente si correla con la presenza di anemia. Nel MM l’anemia è a genesi multifattoriale ed è piuttosto frequente, costituendo un parametro clinico rilevante ai fini della valutazione della massa e aggressività della malattia tumorale. Generalmente, l’anemia viene attribuita all’invasione midollare da parte delle cellule neoplastiche, tuttavia il più frequente coinvolgimento della serie rossa rispetto alle altre serie e la non sempre evidente estesa invasione midollare da malattia (mieloftisi) deve far considerare, come causa più probabile, l’azione inibente di citochine (IL-6, IL-1 , TNF- e ) nella maturazione e differenziazione della serie rossa. Alle cause centrali di anemia si devono aggiungere altre possibilità: può associarsi sideropenia da stillicidio cronico, talora favorito da predisposizione a eventi emorragici tipica della malattia (si veda oltre); è possibile che la componente monoclonale (CM) plasmatica risulti ad attività emolitica (anemia emolitica test di Coombs positiva) o che interferisca con la disponibilità
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di vitamine come la B12 o folati (anemia megaloblastica); l’insufficienza renale tipica della malattia può determinare anemia da difetto eritropoietinico. Nella valutazione dell’anemia nel MM non va trascurata la possibilità di un’emodiluizione in presenza di elevate concentrazioni sieriche della CM. C. Ipercalcemia. Fin dall’esordio può essere presente ipercalcemia che si manifesta con disturbi a carico del SNC: irritabilità, sonnolenza, rallentamento del sensorio fino al coma. L’aumento della concentrazione di calcio, soprattutto nella sua forma non legata all’albumina (calcio ionizzato), esercita non solo effetti a carico del SNC ma anche sul tratto gastroenterico: stipsi, nausea e vomito. Una particolare azione che si determina negli stati di ipercalcemia è una ridotta sensibilità del tubulo renale agli effetti dell’ormone antidiuretico (ADH) con conseguente poliuria e disidratazione che aggravano ulteriormente sia l’ipercalcemia che la funzione renale (insufficienza renale prerenale). Nelle forme più avanzate della malattia e più raramente all’esordio si rende evidente l’insufficienza renale e le complicanze infettive risultano più frequenti. D. Danno renale. Il danno renale, come abbiamo già accennato, si può evidenziare come insufficienza renale prerenale nei casi di ipovolemia, che tuttavia comporta anche deposito di calcio a livello renale con relativa nefropatia interstiziale. Inoltre il passaggio dal filtro renale di catene leggere comporta un sovraccarico della capacità di riassorbimento tubulare con progressivo danno che si esprime nell’ambito di una nefropatia interstiziale con cilindri costituiti da catene leggere. Un’altra possibilità di danno renale è costituita dal deposito di catene leggere, generalmente , in una conformazione del tutto particolare e nota come amiloidosi (si veda oltre). Queste sostanze, depositandosi lentamente nello spazio extracellulare, determinano una sofferenza degli elementi cellulari che ne risultano compressi con conseguente perdita di funzione. Il quadro clinico tipico è caratterizzato da proteinuria fino ad una condizione di sindrome nefrosica. In alternativa le catene leggere, in questo caso più facilmente le , possono depositarsi a livello glomerulare senza tuttavia assumere la disposizione tipica dei depositi amiloidotici. Le conseguenze sul piano clinico sono simili al danno da amiloide con progressivo esaurimento della funzione glomerulare. L’invasione renale da parte delle plasmacellule neoplastiche è un evento raro ed appartenente agli stadi terminali della malattia. Non è invece da trascurare il contributo che le frequenti infezioni del tratto urinario possono determinare sulla funzione renale. E. Predisposizione a infezioni. Il mieloma multiplo è malattia in cui, per la soppressione delle immunoglobuline policlonali o più in generale per un deficit immunitario che coinvolge anche la funzione macrofagica e granulocitica, vi è una predisposizione alle infezioni. Le sedi più frequentemente interessate da infezioni sono le vie respiratorie con broncopolmoniti che all’esordio sono ad eziologia Gram+ (Streptococcus pneu-
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moniae o Stafilococcus aureus) e più tardivamente determinate da Gram–. Come già sottolineato l’altra sede di infezioni sono le vie urinarie ed in questo caso gli agenti batterici più frequentemente coinvolti sono Escherichia coli, Pseudomonas aeruginosa, Proteus mirabilis e Klebsiella pneumoniae. La relativa integrità dell’immunità cellulo-mediata giustifica la ridotta tendenza a sviluppare infezioni virali e/o fungine. È utile sottolineare che la presenza di febbre non è tipica del MM e che quindi non può essere considerata una manifestazione di accompagnamento (febbre paraneoplastica) ma va sempre ricercata una possibile causa infettiva ogni qualvolta sia presente. F. Manifestazioni emorragiche e trombotiche. Seppur raramente il MM all’esordio può caratterizzarsi con manifestazioni di tipo emorragico e/o trombotico. Generalmente le piastrine quantitativamente sono normali ma possono presentare alterazioni soprattutto qualitative in relazione a un’interferenza aspecifica della CM plasmatica con la loro funzionalità. In particolare si evidenziano alterazioni dell’aggregabilità o liberazione di fattore piastrinico 3 ad azione tromboplastinica. Analogamente a quanto si determina a livello piastrinico, la CM può aspecificamente interferire con i fattori della cascata della coagulazione determinando un’alterazione talora clinicamente rilevante (emorragie mucocutanee). Meno frequentemente il legame della CM con i fattori della coagulazione è specifica (antigene-anticorpo) e questo può determinarsi virtualmente verso tutti i componenti della cascata coagulatoria. Una situazione molto particolare è quella che si verifica nell’ambito dell’amiloidosi. In questo caso è possibile che venga sequestrato nei depositi di amiloide il fattore X della coagulazione. Il legame tra amiloide e FX risulta del tutto aspecifico; il quadro clinico che si realizza è simile a quello dell’analogo deficit congenito di FX ed è proporzionale all’entità del deficit. Raramente possono essere presenti manifestazioni tromboemboliche, in questi casi vi può essere uno stato di ipercoagulabilità da deficit di proteina C o la presenza di anticoagulanti lupici. Nei casi di sindrome da iperviscosità (si veda oltre) si può verificare una certa tendenza ad eventi trombotici (cutanei, mucosi e/o retinici). G. Iperviscosità. La presenza di elevate concentrazioni plasmatiche della proteina monoclonale e la tendenza a formare polimeri determina un incremento della viscosità plasmatica. Questo comportamento è più frequente nella macroglobulinemia di Waldenström in quanto le IgM hanno una conformazione a pentamero ed un peso molecolare più elevato, tuttavia si osserva anche in una certa percentuale di casi di MM (circa il 10%) soprattutto IgA (tendenza a formare polimeri). L’incremento della viscosità plasmatica determina problemi di natura circolatoria che giustificano manifestazioni di tipo neurologico quali cefalea, vertigini, sonnolenza, stato confusionale fino al coma. A livello retinico si possono verificare fatti trombotici che causano disturbi del visus fino all’amaurosi completa e che all’esame del fundus oculi si evidenziano come emorragie
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retiniche, congestione del circolo venoso, edema della papilla. Come già visto, l’iperviscosità comporta alterazioni dell’emostasi con possibili eventi tromboticoemorragici del microcircolo, soprattutto evidenti a livello cutaneo e mucoso. L’incremento della viscosità plasmatica, quindi delle resistenze circolatorie, e l’aumento della volemia per riassorbimento di liquidi in presenza di aumentata concentrazione proteica possono favorire un sovraccarico di circolo con la possibile insorgenza di uno scompenso cardiocircolatorio. H. Manifestazioni neurologiche. Le manifestazioni neurologiche del MM possono essere di pertinenza del SNC e generalmente non sono determinate da un coinvolgimento diretto con infiltrazione di plasmacellule ma sono causate sia da prodotti del clone neoplastico (proteina monoclonale, citochine) che dalla sindrome da iperviscosità e dalla sindrome ipercalcemica. Altre manifestazioni neurologiche possono invece derivare dall’infiltrazione diretta delle plasmacellule neoplastiche che, generalmente, si verifica a carico dei corpi vertebrali con conseguenti segni di compressione a livello del midollo spinale o delle relative radici nervose. Queste sindromi compressive possono costituire il segno di esordio della malattia e rappresentano una emergenza oncologica che richiede un rapido intervento terapeutico (laminectomia decompressiva, RT vertebrale, chemioterapia citoriduttiva). È infine possibile che le manifestazioni neurologiche siano nell’ambito di polineuropatie che si possono avere per infiltrati amiloidosici a livello dei vasa nervorum; attività antinervo della CM (descritto più frequentemente nella macroglobulinemia di Waldenström).
Esami di laboratorio Negli ultimi anni, grazie all’impiego di metodiche più sensibili ma soprattutto per una maggior attitudine nella popolazione a sottoporsi a indagini di screening, la diagnosi di MM e comunque la presenza di una CM sierica viene individuata ben prima che siano evidenti i sintomi della malattia. Questo è certamente un vantaggio che consente diagnosi precoci purché vengano applicati quei criteri diagnostici (Tab. 50.2) indispensabili per distinguere le differenti discrasie plasmacellulari e soprattutto quelle condizioni che per caratteristiche cliniche (MGUS, IM, SM) non necessitano di provvedimenti terapeutici immediati. Il primo parametro, quindi, che può portare alla valutazione ematologica un paziente è il riscontro di una componente monoclonale eventualmente accompagnato da un incremento della concentrazione delle proteine totali sieriche (≥ 90-100 g/l). Nella stragrande maggioranza dei casi il picco monoclonale sarà evidente nella regione gammaglobulinica del tracciato elettroforetico e solo nei pur rari casi di MM IgA la CM può evidenziarsi in regione o addirittura 2. È possibile avere una stima quantitativa della CM che nei casi di MM IgG supera i 35 g/l mentre per le forme IgA supera i 20 g/l.
Rispettando anche quello che avviene fisiologicamente sono più frequenti i mielomi IgG (60% dei casi) rispetto agli IgA (20%). I restanti casi sono generalmente mielomi in cui viene secreta la sola catena leggera (20% dei casi); meno dell’1% dei MM è costituita da forme IgM, IgD, IgE, biclonali e non secernenti. Al tracciato elettroforetico può essere inoltre evidente una riduzione delle -globuline non comprese nel picco monoclonale e dell’albumina. Tabella 50.2 - Criteri diagnostici delle discrasie plasmacellulari. Mieloma multiplo • A Criteri maggiori – A1 Plasmocitoma documentato in biopsia – A2 Plasmacellule midollari > 30% – A3 Componente monoclonale sierica all’elettroforesi > 35 g/l per IgG o > 20 g/l per IgA, escrezione urinaria di catene o > 1,0 g/24 h in assenza diamiloidosi • B Criteri minori – B1 Plasmocitosi midollare compresa tra il 10% e il 30% – B2 Componente monoclonale presente ma a concentrazione inferiore a quelle sopra indicate – B3 Presenza di lesioni ossee litiche – B4 Ipogammapoliclonale (IgM < 500 mg/l, IgA < 1 g/l, IgG < 6 g/l) – B4 La diagnosi di MM è confermata quando si verificano una delle seguenti combinazioni in pazienti con malattia sintomatica e in progressione (la diagnosi di MM richiede almeno la presenza di 1 criterio maggiore + 1 criterio minore, o 3 criteri minori ma con A + B sempre presenti): 1. A1+B2, A1+B3, A1+B4 (1+B1 non sufficiente) 2. A2+B2, A2+B3, A3+B4 3. A3+B1, A3+B3, A3+B4 4. B1+B2+B3, B1+B2+B4 MGUS (gammapatia monoclonale di significato indeterminato) – Gammapatia monoclonale – Concentrazione della componente monoclonale: IgG < 35 g/l; IgA < 20 g/l; proteinuria di Bence-Jones < 1,0 g/24 h – Plasmocitosi midollare < 10% – Assenza di lesioni litiche ossee – Assenza di sintomatologia clinica Mieloma indolent • Criteri come per il MM con le seguenti limitazioni: – Assenza o lesioni litiche limitate (< 3); non fratture patologiche – Concentrazione della componente monoclonale: IgG < 70 g/l; IgA < 50 g/l – Asintomatico: performance status secondo Karnofsky > 70%; emoglobina > 10 g/dl; calcemia normale; creatininemia < 2,0 mg/dl; assenza di infezioni Smouldering mieloma • Criteri come per il mieloma indolent con le seguenti ulteriori caratteristiche: – Assenza di lesioni ossee dimostrabili – Plasmocitosi midollare compresa tra il 10% e il 30%
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La ricerca della proteinuria di Bence-Jones è generalmente positiva e costituisce, come vedremo, criterio diagnostico maggiore quando l’escrezione nelle 24 ore supera 1 g. La natura monoclonale della proteina evidenziata al tracciato elettroforetico va confermata all’immunofissazione, che attualmente viene considerata la metodica più attendibile. In questo modo ne viene definita classe e tipo. Un altro parametro importante da conoscere per una corretta diagnosi è la concentrazione delle classi immunoglobuliniche con l’immunodiffusione. In questo caso, accanto all’aumento della classe immunoglobulinica cui appartiene la CM, si ha una riduzione delle altre classi. Il dosaggio mediante nefelometria fornisce, ovviamente, anche la concentrazione della CM. Nel sospetto di MM l’esame del midollo osseo è indispensabile per la diagnosi. Classicamente, nel MM si fa riferimento alla valutazione citomorfologica (agoaspirato midollare) anche se la valutazione istologica (biopsia osteomidollare) costituisce un utile ausilio diagnostico. Il parametro che viene considerato maggiormente è la percentuale di plasmacellule neoplastiche presenti nel midollo. Quando questa percentuale supera il 10% (criterio minore) costituisce un indice significativo ma non sufficiente per la diagnosi che andrà confermata attraverso la dimostrazione di altre alterazioni (Tab. 50.2). Anche percentuali di infiltrazioni superiori (30%) non devono essere mai considerate, da sole, sufficienti alla diagnosi di MM; questo perché la malattia si caratterizza per infiltrazioni alquanto variabili del midollo emopoietico per cui anche in uno stesso paziente si possono avere aree midollari indenni associate a zone di infiltrazione massiva. Ecco che una singola valutazione midollare non può essere considerata sufficientemente rappresentativa del quadro midollare complessivo a meno di altre evidenze cliniche (anemia, osteolisi, ecc.) che esprimono la presenza di una rilevante massa tumorale. Le plasmacellule mielomatose possono essere del tutto simili alle plasmacellule mature normali o presentare caratteri maturativi intermedi o assumere aspetti blastici (plasmablasti). Queste caratteristiche morfologiche sono state messe in relazione con aspetti clinici della malattia osservando che in casi di maggiore aggressività della malattia stessa la percentuale di elementi blastici risultava sempre significativamente elevata. L’esame istologico (biopsia osteomidollare) definisce invece la modalità di infiltrazione plasmacellulare (nodulare, diffusa o interstiziale), l’eventuale attivazione degli osteoclasti e la presenza o meno di fibrosi midollare. Metodiche immunoistochimiche consentono di definire la monoclonalità delle plasmacellule midollari per le catene leggere o . Le valutazioni sul midollo possono essere completate con lo studio citogenetico delle plasmacellule. Infine, un altro parametro che l’esame midollare consente di misurare è il Labeling Index che nel MM è tipicamente basso ma con alcune differenze che consentono di classificare forme più o meno aggressive.
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L’esame emocromocitometrico può risultare nei limiti di norma nelle fasi iniziali di malattia, ma generalmente risulta evidente un certo grado di anemia di tipo normocitico e normocromico, espressione più di una inibizione midollare da citochine che di una mieloftisi. I globuli bianchi sono generalmente normali così come la formula leucocitaria; raramente è possibile evidenziare elementi plasmacellulari circolanti. La conta piastrinica è solitamente normale anche se casi di piastrinopenia autoimmune sono stati descritti. La piastrinosi è ancora più rara e può manifestarsi nei casi di amiloidosi con infiltrati splenici che determinano una condizione di iposplenismo. Come già accennato la CM può interferire con i processi dell’emocoagulazione. In questa situazione è talora possibile evidenziare allungamenti del tempo di protrombina e/o tromboplastina parziale. Un’altra alterazione di frequente riscontro è l’ipercalcemia. Nei casi di danno renale è possibile dimostrare aumenti di azotemia, creatinina e più raramente iperuricemia. La valutazione del danno osseo prevede l’impiego di esami radiologici, in particolare lo studio radiografico convenzionale dei segmenti ossei generalmente sede di midollo emopoietico (rachide, cranio, bacino, omeri e femori). È possibile quindi completare la valutazione con l’ausilio della tomografia assiale computerizzata (TC) e della risonanza magnetica nucleare (RM). A questo proposito è opportuno sottolineare che nei soggetti portatori di componenti monoclonali sieriche e/o urinarie è controindicata la somministrazione di mezzi di contrasto iodati (urografia, colangiografia, TC con mezzo di contrasto) per il rischio che le proteine filtrate a livello renale si leghino alle sostanze iodate determinando una precipitazione con relativo blocco tubulare e conseguente insufficienza renale acuta. I quadri radiografici evidenziabili allo studio convenzionale dello scheletro possono essere molto variabili. Da una parte si può dimostrare un’osteoporosi diffusa per cui i segmenti ossei appaiono più radiotrasparenti che di norma, le vertebre sembrano disegnate a matita con contorni evidenti ma corpi scarsamente evidenziabili. Talora si documentano crolli vertebrali così che i corpi vertebrali appaiono schiacciati e deformati. Questi aspetti radiologici non sono sempre facilmente distinguibili da quelli che caratterizzano l’osteoporosi senile soprattutto nel sesso femminile. Un’alterazione radiologica più tipica è costituita da lesioni osteolitiche, cioè aree di radiopacità ben delimitate con il caratteristico aspetto a stampo. Le zone più coinvolte sono: cranio, vertebre, bacino, clavicole, coste, epifisi prossimali delle ossa lunghe e diafisi. Le lesioni osteolitiche del MM si differenziano dalle localizzazioni ossee metastatiche di neoplasie solide per l’assenza di reazione osteoblastica che, se presente, conferisce un caratteristico orletto radiopaco. A questo proposito, in ragione dell’assente reazione osteoblastica la cui attività è evidenziata dagli studi scintigrafici con tecnezio radioattivo, la scintigrafia ossea è un esame poco adatto nella valutazione della malattia ossea mielomatosa.
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Di grande ausilio sono invece sia la TC che la RM che riescono a identificare più precocemente le aree litiche, di differenziare la natura delle lesioni osteoporotiche e identificare lesioni a carico del midollo spinale.
Diagnosi In presenza di estese lesioni litiche, infiltrato plasmacellulare midollare e un’evidente componente monoclonale sierica e/o urinaria la diagnosi di MM è piuttosto semplice, tuttavia non sempre all’esordio il quadro clinico è così evidente. È possibile, infatti, che manchino chiare lesioni ossee e la componente monoclonale non sia a concentrazioni particolarmente elevate. In tali situazioni non aiuta l’entità di infiltrato plasmacellulare midollare in quanto questo può essere estremamente variabile anche in forme conclamate, inoltre, in altre malattie, possono aversi incrementi della quota plasmacellulare nel midollo (malattie immunopatologiche, neoplasie renali, epatopatie croniche). Sono stati quindi proposti criteri diagnostici (Tab. 50.2) che variamente combinati tra loro consentono con ragionevole sicurezza di porre la diagnosi di MM. Questi criteri rispondono anche alla necessità di distinguere alcune forme di discrasia plasmacellulare che per le loro caratteristiche di non evolutività (MGUS) o di andamento indolente (smouldering mieloma, SM; indolent mieloma, IM) non necessitano di alcuna terapia. Per meglio definire queste ultime condizioni sono ulteriormente disponibili criteri diagnostici specifici (Tab. 50.2). Della MGUS si dirà più oltre mentre nel caso del SM e dell’IM la differenza sostanziale con il MM è l’asinTabella 50.3 - Stadiazione del mieloma multiplo (Durie e Salmon). Stadio I • Presenza di tutti i seguenti criteri: – Emoglobina > 10 g/dl – Calcemia normale o < 12 mg/dl – Non lesioni litiche o lesione singola – IgG < 50 g/l; IgA < 30 g/l – Catene leggere urinarie < 4 g/24 h
tomaticità, l’assenza di alterazioni laboratoristiche e una progressione di malattia assente o molto lenta, valutabile in alcuni anni (> 5 anni). Una volta posta la diagnosi di MM è necessario definire lo stadio della malattia. L’impiego di parametri laboratoristico-strumentali, direttamente influenzati dall’entità dell’infiltrato tumorale, ha consentito a Durie e Salmon di proporre, circa vent’anni fa, un sistema di stadiazione (Tab. 50.3) a cui ancora si fa riferimento per confrontare i risultati dei protocolli terapeutici. Da allora altri parametri si sono aggiunti a completare la valutazione di questa malattia. Possiamo distinguere i parametri che valutano la crescita tumorale, quali il Labeling Index e la 2-microglobulina, e altri che definiscono l’aggressività intrinseca della cellula neoplastica come l’IL-6 o la proteina C reattiva che indirettamente riflette l’attività di questa citochina. Tali parametri variamente combinati sono utilizzati per definire, anche all’interno di uno stesso stadio di malattia, pazienti a differente prognosi e che richiedono differenti approcci terapeutici (Tab. 50.4).
Decorso e prognosi Fatta eccezione per i casi di IM o SM nei quali la sopravvivenza può superare anche i 10 anni, in tutti gli altri casi trattati con cortisonici e alchilanti (terapia convenzionale) la durata mediana della malattia è di circa 36 mesi. Generalmente l’andamento clinico è caratterizzato da frequenti episodi infettivi, dal progressivo deterioramento della funzionalità renale, dallo scompenso cardiaco congestizio eventualmente determinato dall’amiloidosi, dalle complicanze ortopediche con fratture patologiche e dalle lesioni del midollo spinale con relativa paraplegia. In una percentuale di casi del 210% si può verificare un’evoluzione in leucemia mieloide acuta (LMA) talora preceduta da un quadro di mielodisplasia. L’insorgenza di LMA è più frequentemente associata all’impiego di alchilanti, ma è possibile anche in soggetti mai trattati.
Tabella 50.4 - Prognosi mieloma multiplo.
Stadio II • Tutti i casi che non rientrano nel I o nel III stadio Stadio III • Presenza di uno o più dei seguenti criteri: – Emoglobina < 8,5 g/dl – Calcemia > 12 mg/dl – Lesioni litiche multiple (> 3) – IgG > 70 g/l; IgA > 50 g/l – Catene leggere urinarie > 12 g/24 h • Sottoclassificazione (A o B): – A = creatininemia < 2,0 mg/dl – B = creatininemia > 2,0 mg/dl
(Greipp)
2-M LI Sopravvivenza mediana
RISCHIO BASSO < 2,7 mg/l < 1% 71 mesi
RISCHIO MEDIO ≥ 2,7 mg/l ≥ 1% 40 mesi
RISCHIO ALTO > 2,7 mg/l > 1% 16 mesi
SOPRAVVIVENZA MEDIANA 2-M e PCR < 6 mg/l rischio basso 54 mesi 2-M o PCR > 6 mg/l rischio intermedio 27 mesi 2-M e PCR > 6 mg/l rischio alto 6 mesi
(Bataille)
2-M = 2-microglobulina; PCR = proteina C reattiva; LI = Labeling Index.
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50 - DISCRASIE LINFOPLASMOCITARIE E PLASMACELLULARI
La fase terminale può caratterizzarsi per la presenza in circolo di plasmacellule più o meno mature. Attualmente la prognosi del MM tende ad essere migliore per un più adeguato controllo delle complicanze e, in alcuni casi selezionati di pazienti, per la disponibilità di trattamenti quali l’allotrapianto di midollo e l’autotrapianto da cellule staminali periferiche che consentono di ottenere remissioni più durature della malattia.
Cenni di terapia Date le caratteristiche biologiche della malattia, in particolare il fatto che la maggior parte della popolazione neoplastica sia costituita da elementi plasmacellulari maturi capaci di secernere immunoglobuline e citochine, è necessario che alla terapia “antineoplastica” venga affiancata una terapia “delle complicanze” per il controllo degli effetti sistemici che la crescita del clone comporta. È opinione generale che il trattamento del MM debba avere inizio quando la malattia diviene sintomatica. Tale indicazione, che si fonda su considerazioni biologiche oltreché cliniche, implica la sicurezza della definizione diagnostica e la certezza della progressione clinica della malattia. Il rischio da evitare è di trattare pazienti affetti da MGUS, da SM o da MM a lenta crescita che dalla terapia avrebbero solo gli svantaggi degli effetti collaterali. Pertanto, riferendosi alla classificazione clinica di Durie e Salmon si considerano sicuramente meritevoli di trattamento i pazienti in II e III stadio mentre per i pazienti in I stadio esiste indicazione solo in presenza di sintomi clinici. A prescindere dal trattamento antineoplastico scelto è importante conoscere gli obiettivi che possono essere raggiunti. Sia la chemioterapia convenzionale sia gli schemi polichemioterapici più aggressivi non sono in grado di ottenere la cura della malattia, ma si limitano ad un controllo più o meno adeguato, offrendo comunque un significativo allungamento della sopravvivenza. Questi risultati, pur potendo anche esprimere un insufficiente livello di attività dei farmaci attualmente disponibili, suggeriscono l’esistenza di una “barriera biologica” connessa al ridotto indice di replicazione del compartimento staminale neoplastico. Considerando inoltre che l’età media dei pazienti affetti da MM è superiore ai 60 anni, ciò induce a ritenere che il migliore obiettivo della chemioterapia sia la stabilizzazione della malattia e il migliore trattamento quello in grado di ottenere questi risultati con il minor numero di effetti collaterali. Il trattamento convenzionale più utilizzato nella fase di induzione consiste nell’impiego di alchilanti (melphalan, ciclofosfamide) per lo più in associazione a corticosteroidi (prednisone). Data la bassa percentuale di risposte complete (CR) ottenibili (0-6%) e la frequente recidiva, numerosi farmaci (antracicline, alcaloidi della vinca, nitrosuree) sono stati associati in differenti schemi polichemioterapici (M2, VMCP/VCAP, CBP). Queste differenti combinazioni, pur consentendo di ottenere una maggiore percentuale di CR (30%), non si sono dimostrate in grado
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di modificare la sopravvivenza dei pazienti, che è in definitiva il parametro più importante a cui riferirsi per valutare l’efficacia di un trattamento. Pertanto, non essendoci differenze significative in termini di sopravvivenza e considerata la minore tossicità rispetto agli schemi di polichemioterapia, il trattamento con melphalan e prednisone è da ritenersi di scelta soprattutto nei pazienti anziani che frequentemente presentano controindicazioni a terapie più aggressive. La terapia viene generalmente proseguita per 12-18 mesi fino all’ottenimento di una stabilizzazione della malattia, definita “plateau” e che consiste nell’assenza di sintomatologia con minime modificazioni della componente monoclonale sierica o urinaria rispetto ai valori più bassi ottenuti durante il trattamento, il tutto mantenuto per un periodo di almeno 6 mesi. Un’alternativa a questa scelta, e che a differenza degli altri schemi polichemioterapici trova una fondata giustificazione, è rappresentata dallo schema VAD (vincristina, adriamicina, desametasone). Il più breve tempo di citoriduzione (0,4 mesi contro 2,2) e la più specifica attività nei confronti del compartimento plasmacellulare più differenziato lo rendono indicato nei casi in cui la gravità degli effetti sistemici (insufficienza renale, ipercalcemia, mielodepressione) richieda una rapida riduzione della massa tumorale. Il trattamento consiste nella somministrazione di elevate dosi di steroidi per 4 giorni associati all’infusione venosa continua di adriamicina e vincristina. In questa fase può essere preso in considerazione il trattamento radioterapico che trova sicura indicazione come trattamento di prima linea nei pazienti con plasmocitoma solitario dell’osso o extramidollari non suscettibili di trattamento chirurgico, e come trattamento combinato nei MM con lesioni litiche discrete responsabili della sintomatologia dolorosa o a rischio di complicanze neurologiche e/o ortopediche. L’impiego della sola radioterapia nel trattamento di induzione non ottiene risposte paragonabili a quelle della chemioterapia ed è da riservare a pazienti con ridotta riserva midollare. L’idea di mantenere i risultati ottenuti attraverso somministrazione di chemioterapici a lungo termine si è rivelata inadeguata per il fallimento dell’obiettivo e per il rischio leucemogeno legato al trattamento. Risultati promettenti sono invece stati ottenuti con l’impiego dell’interferone-. Esiste la possibilità che i pazienti che abbiano risposto ai trattamenti ripresentino la malattia (recidiva) o che i pazienti manifestino una progressione di malattia durante il trattamento di induzione (resistenti). In queste circostanze lo schema VAD è ancora in grado di ottenere risposte obiettive (73% e 43% rispettivamente) così come altri schemi di polichemioterapia (EDAP, TDC). Per altri pazienti già sottoposti a polichemioterapia e con ridotta riserva midollare può essere utile il trattamento con soli corticosteroidi ad alte dosi. Tuttavia questi trattamenti di seconda linea difficilmente ottengono remissioni complete e la sopravvivenza rimane breve.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Un’altra possibilità nel trattamento dei pazienti refrattari è offerta dalla somministrazione di melphalan ad alte dosi (80-140 mg/m2), in grado di ottenere remissioni complete nel 13% dei pazienti. Tali risultati, unitamente alla disponibilità di metodiche di trattamento innovative, ha indotto alla sperimentazione di protocolli di tipo trapiantologico (trapianto di midollo allogenico o autologo) nel tentativo di eradicare la malattia. L’elevata mortalità correlata al trattamento (40%) e la limitata disponibilità di midolli compatibili costituiscono gli ostacoli maggiori alla diffusione del trapianto allogenico. Diversamente, il trattamento con chemioterapici a dosi massimali o altri regimi di condizionamento midollare (Total Body Irradiation, TBI), seguiti da trapianto di midollo autologo o di cellule staminali prelevate da sangue periferico, risulta indubbiamente meno tossico (mortalità 5%); tuttavia, nonostante gli incoraggianti risultati, la possibilità di un reimpianto di cellule mielomatose non può essere esclusa ed il ruolo di un “purging” midollare in vitro è ancora incerto. La disponibilità di modificatori della risposta biologica (interferoni, interleuchina-2 ricombinante, rIL-2) ha consentito inoltre l’impiego sperimentale di nuove terapie per il MM. In particolare sono in corso studi clinici per valutare l’efficacia dell’IL-2 nel potenziare l’azione antitumorale cellulo-mediata nella malattia minima residua. Un’altra linea di ricerca sta valutando la possibilità di bloccare la replicazione del clone neoplastico con anticorpi monoclonali anti IL-6, ritenuta il maggior fattore di crescita per la cellula mielomatosa. Del tutto recentemente sono entrati in terapia la talidomide (che verosimilmente agisce interferendo con la neoangiogenesi) e gli inibitori del proteosoma. Nell’ambito della terapia di supporto occorre ricordare che spesso gli effetti sistemici della malattia sono peggiorati dal trattamento antiblastico. Il rapido catabolismo indotto dalla terapia può infatti peggiorare l’insufficienza renale e la mielodepressione che consegue al trattamento può aumentare i rischi infettivi già esistenti. L’adeguata idratazione del paziente consente di controllare sia l’insufficienza renale che l’ipercalcemia ed il trattamento con bifosfonati migliora il controllo del dolore osseo. L’antibioticoterapia è indicata in tutti i casi in cui un episodio febbrile duri più di 48 ore, mentre l’immunizzazione passiva con immunoglobuline non si è rivelata utile. Nella terapia di supporto deve inoltre essere considerato il trattamento con eritropoietina ricombinante che sembra controllare adeguatamente l’anemia frequentemente presente in questi pazienti.
Plasmocitoma solitario dell’osso
PLASMOCITOMI LOCALIZZATI I plasmocitomi localizzati sono tumori di origine plasmacellulare che si possono localizzare nel midollo osseo (plasmocitoma solitario dell’osso) o nei tessuti molli (plasmocitoma extramidollare); complessivamente costituiscono meno del 10% delle discrasie plasmacellulari.
Il plasmocitoma solitario dell’osso (PSO) è caratterizzato dalla presenza di un’unica localizzazione mielomatosa dell’osso; ha una prevalenza maschile con rapporto 2:1 e generalmente l’insorgenza è più precoce rispetto al MM di circa 10 anni (mediana 51 anni). La struttura ossea più coinvolta è lo scheletro assiale ed il quadro clinico d’esordio è caratterizzato dal dolore osseo e, frequentemente, da segni di compressione midollare o delle radici nervose. Raramente il quadro clinico si configura nell’ambito della sindrome clinica POEMS (si veda oltre). È possibile evidenziare la presenza di una componente monoclonale sierica (IgG < 35 g/l; IgA < 20 g/l) che talora regredisce dopo rimozione chirurgica o terapia radiante della lesione ossea. La percentuale di plasmacellule midollari deve essere inferiore al 5%, non sono presenti anemia, ipercalcemia o insufficienza renale e ovviamente lo studio radiografico dello scheletro evidenzia una singola lesione ossea. Questi criteri appaiono un poco restrittivi ma così facendo è possibile escludere quelle forme precoci di MM che possono presentarsi come PSO. Questa evenienza è tutt’altro che trascurabile: infatti, utilizzando metodiche più sensibili, quali TC e soprattutto RM, è possibile dimostrare alterazioni a livello di segmenti ossei considerati normali ad un rX standard. Il decorso della malattia può variare ma generalmente è lungo, con sopravvivenza mediana superiore ai 10 anni, talora con apparente guarigione. Esiste tuttavia un notevole rischio (60% dei casi a 10 anni) di evoluzione in mieloma multiplo.
Sindrome POEMS Nel MM la polineuropatia periferica può associarsi a manifestazioni dermatologiche, alterazioni endocrine e organomegalia. Tale complesso sindromico, descritto da Autori giapponesi (sindrome di Takatsuki), è oggi definito con l’acronimo POEMS (Polyneuropathy, Organomegaly, Endocrine disorders, Monoclonal component, Skin changes) che ne sintetizza le caratteristiche fondamentali. I pazienti interessati da queste manifestazioni sono generalmente più giovani di quelli affetti da mieloma e si tratta soprattutto di soggetti di sesso maschile (M/F = 2:1). La sindrome si manifesta generalmente con neuropatia sensitivo-motoria ingravescente (caratterizzata istologicamente da degenerazione assonale e demielinizzazione). Sono spesso presenti epatosplenomegalia e/o linfoadenopatie; inoltre possono comparire disturbi endocrini della sfera sessuale (ginecomastia nei maschi, amenorrea e ipertricosi nelle femmine), distiroidismo, iperglicemia. Le manifestazioni dermatologiche sono spesso rappresentate da iperpigmentazione e/o discromie. La componente monoclonale (per lo più IgG o IgA) presenta una netta prevalenza di catene leggere di tipo ; la concentrazione sierica di tale componente M
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può non essere particolarmente elevata; scarsa o assente la proteinuria, normale la calcemia. La plasmocitosi midollare può essere poco rilevante, mentre, a differenza dei mielomi in senso stretto, le lesioni ossee sono per lo più osteosclerotiche. Va ricordato comunque che non sempre tutte le manifestazioni della sindrome POEMS sono presenti contemporaneamente. La patogenesi e soprattutto il possibile ruolo della componente monoclonale nel determinismo dei singoli coinvolgimenti d’organo sono ancora oggetto di studio.
Plasmocitomi extramidollari La tendenza delle plasmacellule a diffondere nei tessuti linfonodali e nelle mucose delle prime vie aeree rende ragione del fatto che la maggior parte dei plasmocitomi extramidollari (PSE) ha sede a livello del cavo orale e del tratto respiratorio superiore: le localizzazioni più frequenti sono i seni mascellari, il rinofaringe, le tonsille, le fosse nasali e laringee. Le manifestazioni cliniche variano a seconda della sede coinvolta ma sono sempre aspecifiche (epistassi, emoftoe, ostruzione nasale, ecc.), per cui la diagnosi può essere posta solo dopo analisi istologica della lesione. L’esame istologico va sempre associato alla ricerca delle immunoglobuline citoplasmatiche che nel caso di lesione mielomatosa saranno sempre presenti e con caratteristiche di monoclonalità. Nel PSE come nel PSO può essere dimostrata una CM sierica e/o urinaria ma il midollo non deve presentare una significativa infiltrazione plasmacellulare (< 5%) e non devono essere documentabili lesioni ossee a distanza. La prognosi è peggiore quando vi è interessamento dell’osso sottostante o metastasi linfoghiandolari e, come per il PSO, esiste un rischio non trascurabile di evoluzione in MM. Le altre possibili localizzazioni dei plasmocitomi extramidollari sono i polmoni, i linfonodi, la milza, la cute, il tratto gastroenterico; da considerare eccezionali le localizzazioni all’ovaio, all’utero, alla mammella, ai testicoli, al fegato; comunque, in tutti i casi, la prognosi è peggiore rispetto ai plasmocitomi a sede nel cavo orale o nelle vie aeree superiori, ma migliore rispetto al mieloma multiplo d’amblée, anche nei casi di disseminazione successiva; probabilmente è intrinseca in questi tumori una modalità di crescita più lenta.
LEUCEMIA PLASMACELLULARE Al polo opposto del plasmocitoma solitario o localizzato, la leucemia plasmacellulare è la forma estrema di proliferazione plasmacellulare atipica, con invasione del sangue periferico: si presenta di solito come tale sin dall’inizio oppure, come si è visto, rappresenta l’evento terminale di una piccola quota di casi di MM.
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L’esame obiettivo dimostra epatosplenomegalia, linfoadenopatie e, frequentemente, segni di diatesi emorragica: l’esame emocromocitometrico rivela grave anemia, piastrinopenia, leucocitosi anche oltre 100.0006/l con plasmacellule che costituiscono sino al 90% degli elementi circolanti. L’esame del midollo mostra un’infiltrazione plasmacellulare diffusa; nel siero è riscontrabile con maggior frequenza una banda monoclonale IgG o IgA ; è frequente una grave nefropatia con proteinuria di Bence-Jones ed ipercalcemia. La leucemia plasmacellulare colpisce entrambi i sessi, l’età più colpita è il 6° decennio e ha decorso rapidamente fatale.
GAMMAPATIA MONOCLONALE DI SIGNIFICATO INDETERMINATO La gammapatia monoclonale di significato indeterminato (Monoclonal Gammopathy of Undetermined Significance, MGUS) è caratterizzata dalla presenza nel siero o nelle urine di una proteina monoclonale senza evidenza clinica di mieloma multiplo e sue varianti, macroglobulinemia di Waldenström, amiloidosi o malattie linfoproliferative. Dalla definizione sono escluse tutte le gammapatie monoclonali che si rendono evidenti in coincidenza con altre malattie ed attualmente si ritiene giustificato separare anche quelle situazioni in cui la componente monoclonale presenti un’attività biologica (antieritrocitaria, antifattore VIII, ecc.) (Tab. 50.5) e che frequentemente richiedono un intervento terapeutico. I termini di MGUS o di gammapatia monoclonale essenziale sono più appropriati rispetto a gammapatia monoclonale benigna che falsamente orienta verso una prognosi sempre favorevole in contrasto all’evidenza clinica di possibili evoluzioni in forme linfoplasmacellulari conclamate. Nella popolazione con età superiore ai 25-30 anni l’incidenza della MGUS è intorno all’1% ma se si fa riferimento a soggetti di età superiore ai 70-85 anni si arriva ad un’incidenza rispettivamente del 3% e 10%. Per definizione i pazienti sono asintomatici e generalmente l’individuazione della CM avviene nel corso di accertamenti condotti per la valutazione di altre malattie. La componente monoclonale non supera generalmente i 30 g/l, può essere presente una modesta proteinuria di Bence-Jones (circa 500 mg/24 h) e soprattutto non si evidenziano anemia, alterazioni della funzione renale e lesioni osteolitiche, diminuzione della concentrazione delle altre classi immunoglobuliniche. La percentuale di plasmacellule midollari raramente supera il 5% e, nel caso di CM IgM, il 20% di linfociti. Alla valutazione clinica iniziale che consente di distinguere questa particolare condizione deve obbligatoriamente far seguito un attento monitoraggio; nel corso degli anni, infatti, esiste un rischio non trascurabile di evoluzione della MGUS in mieloma multiplo, amiloidosi AL, malattia di Waldenström o altra condizione linfoproliferativa.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tabella 50.5 - Gammapatie monoclonali. Gammapatia monoclonale essenziale asintomatica (MGUS) Gammapatia monoclonale essenziale sintomatica • Influenza sulle proteine plasmatiche: malattia di von Willebrand acquisita, anticorpi antieritrociti, crioglobulinemia, criofibrinogenemia, deficit acquisito del C1 inibitore (angioedema), anticorpi antitrombina, anticorpi antinsulina, anticorpi antirecettore dell’acetilcolina. • Neuropatie Gammapatie monoclonali secondarie • Malattie del connettivo e malattie autoimmuni: artrite reumatoide, malattia di Crohn, polimialgia reumatica, lupus eritematoso sistemico, sclerodermia, malattia di Sjögren, artrite psoriasica, anemia perniciosa, tiroidite di Hashimoto, miastenia gravis • Malattie cutanee: pioderma gangrenosum, psoriasi, cleromixedema, orticaria • Endocrinopatie: iperparatiroidismo • Malattia di Gaucher • Malattie epatiche • Malattie infettive: tubercolosi, corynebacterium spp., cytomegalovirus, endocardite batterica, porpora fulminante, AIDS • Tumori non di origine linfatica B o plasmacellulare: – Carcinomi: polmone, colon, prostata, ecc. – Sindromi mieloproliferative: leucemia mieloide acuta e cronica, policitemia vera – Neutropenia – Linfomi T: sindrome di Sézary • Postchemioterapia, radioterapia o trapianto di midollo • Forme transitorie
Al momento della diagnosi di MGUS non esiste alcun parametro che risulti sicuramente predittivo di un’evoluzione della malattia. Di volta in volta sono stati proposti il Labeling Index, la 2-microglobulina, la presenza di plasmacellule circolanti, la concentrazione di immunoglobulina monoclonale, la riduzione delle immunoglobuline policlonali senza che nessuno sia stato in grado di definire il gruppo di pazienti a rischio di evoluzione. In sostanza, l’atteggiamento più razionale è quello di controllare periodicamente i parametri laboratoristici e clinici così da individuare precocemente i segni di una evoluzione. È consigliabile un primo controllo della CM a 3 mesi dalla diagnosi di MGUS per escludere un MM nella sua fase iniziale. Il controllo successivo dovrebbe essere programmato a 6 mesi e una volta dimostrata la relativa evolutività della condizione programmare rivalutazioni annuali.
AMILOIDOSI L’amiloidosi è dovuta alla deposizione e all’accumulo nei tessuti di una sostanza, detta appunto amiloide, di
cui viene premessa qualche notizia sulla struttura e la composizione chimica. L’esistenza di un’infiltrazione “lardacea” nel fegato e nella milza era nota da tempo, prima che Virchow, a metà del secolo diciannovesimo, coniasse il termine di amiloidosi. Virchow era alla ricerca di isomeri dell’amido nel corpo umano ed usò per la prima volta l’aggettivo “amiloide” per lesioni circoscritte cerebrali, che chiamò “corpora amylacea”. In seguito estese il termine per designare quella che noi oggi consideriamo l’amiloidosi sistemica, non pensando però all’amido, ma alla cellulosa. Tuttavia, fu presto chiaro che la sostanza amiloide non contiene carboidrati ed è di natura proteica. Il nome è però rimasto. L’amiloide è una sostanza di aspetto omogeneo ed amorfo, resistente alla proteolisi e alla fagocitosi, dotata di proprietà tali da permetterne facilmente il riconoscimento nei tessuti, quali la peculiare birifrangenza verde al microscopio polarizzatore dopo colorazione con rosso Congo e la presenza di caratteristiche fibrille al microscopio elettronico; l’amiloide, inoltre, si colora metacromaticamente con alcuni coloranti come il cristalvioletto, il blu di toluidina ed il violetto di metile. L’amiloide, nonostante il nome e l’aspetto amorfo, simil-jalino, è in realtà una proteina fibrosa; con la microscopia elettronica, che è la metodica diagnostica più specifica, si dimostra che oltre il 95% della sostanza amiloide consiste di fibrille rigide, lineari, aggregate tra loro ma non anastomizzate, dello spessore di circa 100150 Å e di lunghezza variabile, costituite ognuna da due subunità o filamenti del diametro di 40-60 Å, separati da uno spazio chiaro. Questa struttura è dovuta a catene peptidiche nella configurazione cosiddetta “ -pieghettata” ( -pleated sheets), ossia ripiegate strettamente a zig-zag in modo da essere perpendicolari all’asse della fibra. Esistono parecchie sostanze amiloidi che, mentre non presentano differenze sostanziali per quanto riguarda le caratteristiche tintoriali o l’aspetto alla microscopia elettronica, sono assai diverse per la costituzione della molecola proteica (si veda oltre, Classificazione). Oltre alle proteine fibrillari, i depositi di amiloide contengono un componente minore, detto componente P, del peso molecolare di 180.000 D, costituito da una glicoproteina migrante come una globulina 1. Questa proteina è stata individuata con la pentraxina, una proteina di fase acuta imparentata con la proteina C reattiva. Altre sostanze trovate nell’amiloide sono glucosaminoglicani e inibitori delle proteinasi. È verosimile che queste sostanze abbiano importanza nella deposizione delle proteine a struttura fibrosa che formano la sostanza amiloide. D’altro canto, queste stesse fibre possono fungere da stampo per la deposizione ulteriore delle stesse proteine in configurazione fibrosa. Questo spiega perché, una volta iniziata la deposizione di amiloide, questa tende ad accrescersi nelle stesse sedi.
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Classificazione e patogenesi La classificazione delle varie forme di amiloidosi distingue tra forme sistemiche (Tab. 50.6) e forme localizzate (Tab. 50.7). La patogenesi dell’amiloidosi è comunque sempre dipendente o dalla produzione eccessiva di una proteina precipitabile in forma fibrillare, o dalla produzione, anche non eccessiva, di una proteina qualitativamente conformata in modo da essere particolarmente precipitabile. L’amiloidosi AA, nella sua forma di amiloidosi disreattiva o secondaria, era un tempo la più diffusa. Questa variante, infatti, deriva dalla deposizione della proteina AA, derivata dal precursore apo-SAA, che è una proteiTabella 50.6 - Classificazione dell’amiloidosi sistemica. PROTEINA DELLA AMILOIDE AA
AL
A 2-M ATTR A Gel Apo-A1 A Cys A FibA A Lys
PRECURSORE
SINDROME CLINICA
Apo-SAA
Reattiva (secondaria) Febbre familiare mediterranea Sindrome periodica associta al recettore del TNF Malattia di Muckle-Wells Catene leggere Ig Idiopatica (primaria) In corso di mieloma Locale nodulare 2-microglobulina In corso di emodialisi cronica Transtiretina Familiare Gelsolina Familiare Apolipoproteina A1 Familiare Cistatina C Familiare Fibrinogeno AA Familiare Lisozima Familiare
Tabella 50.7 - Forme localizzate di amiloidosi. PROTEINA DELLA AMILOIDE Ormoni peptidici Ormoni peptidici Ormoni peptidici (AIAPP) AB
Apr P Sc
PRECURSORE Calcitonina
SINDROME CLINICA Carcinoma midollare della tiroide 80% di soggetti oltre gli 80 anni
Ormone natriuretico atriale Polipeptide insulini- Diabete di tipo 2° co dell’amiloide Insulinoma Precursore della proteina B
Proteina di prioni
Malattia di Alzheimer Sindrome di Down Angiopatia cerebrale ereditaria con sanguinamento Malattia di CreutzfeldJacob Sindrome di GerstmannStraussler Kuru
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na di fase acuta e che è perciò prodotta in grande quantità nei processi infiammatori cronici. In passato la diffusione di malattie quali la tubercolosi cavitaria, o le bronchiectasie suppurate, o l’osteomielite erano importanti occasioni per l’instaurazione di amiloidosi secondaria. Oggi questa condizione patologica si osserva soprattutto nelle connettiviti sistemiche (in particolare nell’artrite reumatoide) e nelle malattie infiammatorie intestinali. Rara, ma interessante, l’amiloidosi AA nella febbre familiare mediterranea e nella malattia di MuckleWells. Della prima si parlerà in appendice a questo paragrafo. La seconda è una rarissima condizione ereditaria, autosomica dominante, caratterizzata da periodi febbrili, orticaria, sordità e amiloidosi renale. L’amiloidosi AL è oggi la forma più diffusa. La proteina che si deposita in forma fibrosa è rappresentata da frammenti di catene leggere immunoglobuliniche, contenenti la loro porzione variabile oltre a tratti più o meno lunghi della porzione costante. In questo caso sono implicati entrambi i fattori patogenetici che abbiamo ricordato. L’aspetto quantitativo spiega l’amiloidosi AL in molti casi di mieloma, soprattutto nelle forme con eccesso di produzione di catene leggere e proteinuria di Bence-Jones. Occorre ricordare che la porzione variabile sia delle catene pesanti che di quelle leggere immunoglobuliniche è la struttura che determina la specificità anticorpale ed è diversa da un caso all’altro di mieloma. Perciò anche una sua conformazione particolarmente adatta alla precipitazione in forma fibrosa può avere importanza nella propensione di casi individuali di mieloma a sviluppare amiloidosi. Quest’ultimo fattore è certamente determinante nella cosiddetta amiloidosi primaria, cioè un’amiloidosi AL, simile a quella del mieloma, ma nella quale tale malattia non può essere diagnosticata. In questo caso, una situazione di produzione monoclonale di catene leggere immunoglobuliniche, di per sé non maligna, diviene un’importante malattia a causa della tendenza di queste catene leggere a depositarsi nei tessuti sotto forma di amiloide. Perciò le proteine che formano i depositi dell’amiloidosi primaria sono state estesamente studiate e sono state individuate alcune loro caratteristiche. Si è visto che in questo caso le catene del tipo sono meno frequenti rispetto alle catene del tipo (rapporto 1:3), il che è il contrario di quanto avviene nello stato normale e nel mieloma (rapporto : = 3:2). Si sono anche individuate alcune varianti alleliche e sottogruppi di catene leggere che sono particolarmente amiloidogenetiche. Una curiosa e rara forma di amiloidosi primaria è quella nodulare. In questo caso l’amiloide AL si deposita in nodosità più o meno grandi (anche del diametro di alcuni centimetri) sulla cute e in organi interni, particolarmente la laringe. Sull’amiloidosi in corso di emodialisi cronica non c’è molto da dire. La proteina che si deposita è la 2-microglobulina e la sede preferita di deposizione è il tunnel carpale. Le amiloidosi familiari derivano da mutazioni puntiformi di geni che codificano una delle varie proteine elencate nella tabella 50.6. Le mutazioni rendono que-
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ste proteine alterate qualitativamente e perciò amiloidogeniche. Tra tutte le forme ereditarie la più importante per la sua diffusione nell’emisfero occidentale è quella indicata con la sigla ATTR ed è dovuta alla deposizione di una forma alterata della proteina transtiretina. Questa proteina, un tempo chiamata prealbumina, è sintetizzata dal fegato e dai plessi corioidei e serve al trasporto della tiroxina e di una proteina che lega il retinolo. Tutte le forme di amiloidosi familiare sono ereditate come carattere autosomico dominante. Le forme localizzate dell’amiloidosi (Tab. 50.7) sono meno importanti per la medicina interna. Nel caso dell’amiloide con fibrille derivate da ormoni peptidici, la deposizione avviene nell’organo interessato e può essere di scarsa rilevanza clinica. Importanti, invece, sono le forme localizzate di amiloidosi per alcune malattie neurologiche, per le quali rimandiamo ai testi di Neurologia.
• la compromissione cutanea è rappresentata da petecchie, ecchimosi, placche, noduli, lesioni bollose ed un ispessimento cutaneo simulante la sclerodermia; • manifestazioni purpuriche sono discretamente frequenti a livello della faccia, del collo e delle palpebre superiori, particolarmente dopo pizzicotto; porpora periorbitale può verificarsi in coincidenza con tosse, vomito, manovra di Valsalva, ossia in circostanze in cui si viene a creare un ostacolo temporaneo al deflusso venoso ed inoltre, tipicamente, dopo la rettoscopia per la biopsia a scopo diagnostico.
Clinica
A. Amiloidosi primaria. È di solito la forma che dà i quadri clinici più completi, praticamente con tutti i tipi di coinvolgimento di organi e tessuti che abbiamo ricordato. La macroglossia è presente solo in questa forma di amiloidosi sistemica. La neuropatia vegetativa e l’interessamento cardiaco sono comuni. In caso di mieloma il quadro clinico può essere simile, ma la malattia fondamentale è di tale importanza da rendere improbabile che si arrivi (o per la storia naturale o per effetto della terapia) a compromissione di organi e di apparati così netti come nell’amiloidosi primaria.
L’amiloidosi primaria e l’amiloidosi in corso di mieloma hanno prevalenza maschile, l’età mediana alla diagnosi è 61 anni; i sintomi di presentazione più frequenti sono astenia, cospicua perdita di peso, edema alle caviglie, dispnea, parestesie, vertigine o sincope. L’accumulo di amiloide a livello dei parenchimi dà luogo a diverse sindromi morbose, tra loro variamente associate e precisamente: • la compromissione renale, per deposito di amiloide a livello del mesangio e della membrana basale del glomerulo, dà luogo ad una sindrome nefrosica con proteinuria massiva, verificantesi in circa il 33% dei casi; • la compromissione cardiaca è responsabile di uno scompenso cardiaco congestizio, ribelle al trattamento, causa di morte in circa il 30% dei casi; si hanno anche segni clinici indicativi di cardiomiopatia restrittiva con vertigini, obnubilamento e sincope da ipotensione ortostatica: possono insorgere aritmie per interessamento del nodo del seno; infine, l’amiloidosi può simulare l’esistenza di un vizio valvolare; • a livello del tratto gastroenterico un segno molto caratteristico, anche se presente solo in circa il 20% dei casi, è la macroglossia; si possono avere quadri simulanti la colite ulcerosa, con diarrea e rettorragie; l’infiltrazione diffusa di amiloide può determinare una sindrome da malassorbimento; in circa il 50% dei casi si ha epatomegalia, meno frequentemente splenomegalia con segni di iposplenismo ed aspetto macroscopico della “milza sagù”; • la compromissione del sistema nervoso comporta una neuropatia periferica con parestesie e dolori alle gambe; il deposito di amiloide a livello dei gangli simpatici è uno dei meccanismi principali dell’ipotensione ortostatica, delle aritmie e dei disordini dell’alvo; • la deposizione di amiloide a livello dei tessuti molli del polso determina la “sindrome del tunnel carpale” con compressione del nervo mediano;
Va comunque tenuto presente che le sindromi riportate non esauriscono il quadro clinico dell’amiloidosi che è di fatto ubiquitaria, potendo interessare, in modo più o meno massivo e quindi con diversa espressività sintomatologica, qualsiasi organo e apparato. Pur esistendo una lunga sovrapposizione nelle manifestazioni cliniche tra le diverse forme di amiloidosi sistemica, vanno ricercate alcune peculiarità.
B. Amiloidosi secondaria. Il quadro clinico è dominato dall’epatosplenomegalia e dalla proteinuria. Sono possibili disordini gastrointestinali apparentemente inspiegati. Non c’è mai macroglossia. L’interessamento cardiaco è raro. C. Amiloidosi familiare ATTR. In questo caso il quadro clinico può essere variabile perché differenti mutazioni del gene che codifica la transtiretina possono comportare diverse localizzazioni dell’amiloide. Comunque, il quadro clinico è abbastanza simile a quello dell’amiloidosi primaria con preminenza di neuropatia sensitiva e vegetativa e disturbi gastroenterici. La macroglossia non è mai presente. La compromissione renale è, nella maggior parte dei pazienti, meno evidente che nell’amiloidosi primaria. L’interessamento cardiaco è il più variabile e, in certi casi, è limitato a disturbi di conduzione, mentre, anche nei casi con infiltrazione miocardica, lo scompenso cardiaco è meno grave che nell’amiloidosi primaria. D. Esami di laboratorio. Si riferiscono all’amiloidosi primaria; i reperti più significativi riguardano le proteine sieriche ed urinarie. L’elettroforesi del siero mostra una banda monoclonale nel 25% dei casi; un’ipogammaglobulinemia in un altro 25% e reperto normale nella restante metà dei casi.
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L’immunofissazione del siero mette in evidenza una proteina monoclonale in circa la metà dei casi. L’esame delle urine dimostra una massiva proteinuria in oltre il 90% dei casi; essa è costituita per la massima parte da albumina e solo in una piccola quota di casi vi è proteinuria di Bence-Jones. L’ipercalcemia è rara; frequenti sono l’aumento della creatinina, dell’azotemia e dell’uricemia, in dipendenza della situazione di insufficienza renale. A livello del midollo l’infiltrazione plasmacellulare non supera di solito il 15%. Gli altri esami di laboratorio dimostrano i reperti significativi della compromissione parenchimale presente nei singoli casi; un rilievo discretamente frequente è l’aumento delle transaminasi e della fosfatasi alcalina, in dipendenza della sofferenza epatica. Interessanti sono i reperti possibili a carico del cuore. L’elettrocardiogramma può mostrare bassi voltaggi in tutte le derivazioni e, in alcune, onde Q-S che simulano la presenza di un infarto del miocardio anche in assenza di coronaropatia. L’ecocardiogramma rivela un ispessimento concentrico del ventricolo sinistro (e talora del destro) con cavità di volume normale o ridotto. L’ecocardiografia Doppler dimostra alte pressioni di riempimento del ventricolo sinistro, in accordo con la natura restrittiva della cardiomiopatia. L’esame radiologico dello scheletro non mostra di regola lesioni litiche ma solo un’eventuale osteoporosi. Una menzione a parte meritano le prove emogeniche, le cui alterazioni non sono molto frequenti ma, quando presenti, integrano un deficit complesso del fattore X e dei fattori vitamina K-dipendenti (IX e, in grado minore VII e II) unitamente ad un’aumentata attività antitrombinica, ad un’attivazione della fibrinolisi ed infine al quadro della coagulazione intravascolare disseminata. Queste anomalie sono verosimilmente il risultato dell’interazione dei fattori emocoagulativi con le fibrille amiloidi.
Diagnosi L’amiloidosi secondaria è facilmente sospettabile in pazienti con malattie infiammatorie croniche che presentino epatosplenomegalia e proteinuria. Più difficile è la diagnosi di amiloidosi primaria, che infatti, spesso, resta a lungo non riconosciuta. La combinazione di una neuropatia vegetativa con problemi cardiaci è però un forte indice di sospetto. È caratteristico della presenza di amiloidosi cardiaca un marcato peggioramento dello scompenso quando si impegnano farmaci calcio-antagonisti, talvolta prescritti in un tentativo di trattare la disfunzione diastolica. Comunque, dal sospetto clinico occorre passare alla certezza diagnostica e questa dipende dalla dimostrazione di amiloide nei tessuti a mezzo microscopia elettronica e di opportune colorazioni. Microscopicamente, i depositi di sostanza amiloide si colorano in rosa con ematossilina-eosina e mostrano metacromasia con il cristalvioletto. La colorazione con rosso Congo im-
partisce una caratteristica birifrangenza verde quando i preparati istologici sono osservati a luce polarizzata. Una volta che la diagnosi di amiloidosi è stata stabilita con certezza, si può procedere oltre e identificare la natura della sostanza amiloide mediante colorazione con immunofluorescenza o immunoperossidasi con antisieri specifici. L’iniziale procedimento diagnostico è l’esame del midollo, perché è il più semplice da eseguire, ma il midollo è positivo solo nel 25% circa dei casi; la biopsia rettale dà risultati positivi in circa il 60% dei casi, avendo cura che il campione da esaminare contenga la sottomucosa; la biopsia renale dà risultati positivi in una percentuale più elevata, ma la procedura ha un notevole rischio emorragico, anche alla luce del difetto emostatico già ricordato. La biopsia epatica presenta, oltre al rischio di emorragia, anche quello della rottura dell’organo e va quindi evitata. Recentemente, si è ottenuta la possibilità di una facile diagnosi istologica di amiloidosi su materiale bioptico prelevato dal grasso periombelicale. Questo test è positivo nell’85% dei pazienti affetti da amiloidosi primaria, ma deve essere eseguito da mani esperte perché è facile colorare eccessivamente il tessuto. L’esame del sedimento urinario per la dimostrazione delle fibrille amiloidi, che ovviamente è il metodo più agevole, non ha purtroppo dimostrato una sufficiente attendibilità. Esistono tecniche di “imaging” per documentare l’entità della deposizione di sostanza amiloide. Il pirofosfato di 99mTc si lega avidamente all’amiloide di varie derivazioni ed è un popolare mezzo per documentare l’amiloidosi cardiaca. Tuttavia, una valutazione quantitativa con questo sistema non è possibile e le forti positività si osservano soltanto quando la compromissione del cuore è ben documentabile con l’ecocardiogramma. Studi preliminari indicano che l’aprotinina marcata con tecnezio può essere impiegata in un test più sensibile. Una scintigrafia quantitativa può essere effettuata con la componente P dell’amiloide marcata con iodio 123.
Prognosi e terapia Il decorso precedente alla diagnosi può essere assai lungo: la sindrome del tunnel carpale, la sindrome nefrosica, lo scompenso cardiaco congestizio, la sindrome da malassorbimento, la neuropatia periferica e l’ipotensione ortostatica nell’amiloidosi primaria precedono di 1-3 anni lo sviluppo completo della malattia. La prognosi è sempre infausta: la sopravvivenza mediana dal momento della diagnosi è di 14,7 mesi nell’amiloidosi primaria e di 4 mesi nell’amiloidosi in corso di mieloma. La morte si verifica di solito o per scompenso cardiaco o per disordini del ritmo. La terapia dell’amiloidosi primaria è basata sull’impiego di melphalan e prednisone come nel trattamento del mieloma: i risultati sono, nel complesso, deludenti. Perciò si è impiegato il melphalan endovena con
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ricostituzione emopoietica con cellule staminali autologhe, ma non sembrano molti i pazienti adatti a questo trattamento. Recentemente si è visto che un derivato antraciclinico, la 4 -desossirubicina, tende ad accumularsi nei depositi amiloidi e perciò è nata la speranza che questo farmaco possa prevenire la deposizione di ulteriore sostanza amiloide. Questa possibilità è in corso di valutazione. Infine, nell’amiloidosi familiare ATTR si è sperimentato con successo il trapianto di fegato. APPENDICE Febbri periodiche ereditarie Sono definite periodiche le febbri ricorrenti con episodi della durata da pochi giorni a poche settimane, separati da intervalli liberi. Possono verificarsi nel corso di varie forme morbose ben definite, come neoplasie (per esempio, la malattia di Hodgkin) e infezioni ricorrenti, ma anche in presenza di condizioni infiammatorie non infettive, come l’artrite reumatoide giovanile, la malattia di Still dell’adulto, la malattia di Crohn e la sindrome di Behcet. Ne esistono rare forme su base ereditaria che sono classificate in tre malattie: la febbre familiare mediterranea, la sindrome da iper-IgD e la sindrome periodica associata al recettore del TNF. La prima e la terza sono importanti cause di amiloidosi AA. Febbre familiare mediterranea La febbre familiare mediterranea (FMF, Familiar Mediterranean Fever) è una rara malattia ereditaria caratterizzata da ricorrenti accessi di febbre, infiammazione delle sierose (pleuriti, peritoniti) e facile sviluppo di amiloidosi di tipo AA. La malattia colpisce particolari gruppi etnici (ebrei sefarditi, armeni, turchi e arabi, ma anche italiani, soprattutto di origine meridionale) ed è trasmessa come carattere autosomico recessivo. La frequenza del gene che rende suscettibili alla malattia varia molto tra le diverse popolazioni: è massima tra gli armeni (rapporto di persone con il gene alterato rispetto a quelle con gene normale 1:7), abbastanza elevato tra gli ebrei sefarditi (rapporto tra 1:15 e 1:16) e molto più basso in altre popolazioni nelle quali pure è stata osservata la malattia (per esempio, negli ebrei ashkenaziti il rapporto è 1:135). Recentemente il gene implicato (MEFV) è stato localizzato sul braccio corto del cromosoma 16 e successivamente individuato. In soggetti normali questo gene codifica una proteina chiamata “marenostrina” da Autori francesi (da “Mare Nostrum” come gli antichi Romani chiamavano il Mediterraneo) e “pirina” da Autori anglosassoni. Mutazioni di questo gene sono all’origine della FMF. Le funzioni della marenostrina, o della pirina, come viene più comunemente chiamata, sono ancora poco chiare. Questa proteina è principalmente espressa nel citoplasma dei neutrofili e dei monociti e si pensa che regoli l’infiammazione mediata da tali cellule. In che modo questo avvenga non è noto, ma si è dimostrato che i pazienti affetti da FMF mancano di una proteasi specifica, normalmente presente nelle cavità sierose, che può inattivare tanto l’in-
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terleuchina-8 quanto l’inibitore del fattore 5a del complemento, che ha funzioni chemiotattiche. La mancata eliminazione dei geni MEFV mutati ha fatto nascere il sospetto di un polimorfismo bilanciato, ossia che gli eterozigoti abbiano qualche vantaggio. In realtà, sembra che questi soggetti abbiano una prevalenza di asma bronchiale inferiore rispetto alla popolazione normale. A. Clinica. Circa il 90% dei pazienti presenta il primo attacco della malattia prima dei 20 anni. I pazienti affetti da FMF presentano ricorrenti attacchi di febbre, spesso di livello elevato, della durata di alcuni giorni, restando in pieno benessere negli intervalli. Talora gli accessi febbrili si presentano con una periodicità regolare. La febbre è raramente isolata e più spesso è accompagnata da uno o più dei seguenti sintomi e segni. • Dolori addominali. Questi raramente mancano e sono spesso caratterizzati da difesa muscolare alla palpazione dell’addome. Il transito intestinale è rallentato. È facile che venga diagnosticato un addome acuto di pertinenza chirurgica, più spesso un’appendice acuta, e non pochi sono i casi di interventi laparotomici eseguiti per questo sospetto. • Dolori toracici. Il dolore toracico, di solito unilaterale e con i caratteri di dolore pleuritico, può accompagnare e talvolta precedere i dolori addominali. È possibile rilevare all’auscultazione degli sfregamenti pleurici e, più raramente, i segni fisici di un versamento pleurico. • Dolori articolari. I dolori articolari, indipendenti da quelli addominali e toracici, sono stati osservati nel 75% dei casi in Israele. Tuttavia sono rari negli USA e in Italia. Quando presenti sono accompagnati da tumefazione delle articolazioni, senza segni radiologici caratteristici. • Manifestazioni cutanee. Sono presenti in circa un terzo dei pazienti e sono rappresentate da aree rigonfie, eritematose, dolenti, del diametro da 5 a 20 cm, localizzate solitamente sulla parte inferiore delle gambe, il malleolo mediale o il dorso dei piedi. • Altre manifestazioni. Pericardite o meningite sono possibili, ma rare. In casi particolari sono stati descritti episodi di ematuria, e alterazioni oculari consistenti in piccole macchie bianche sul fondo dell’occhio (corpi colloidi). Talora gli episodi febbrili sono accompagnati da intensa cefalea. Giovani pazienti maschi, con meno di 20 anni di età, possono presentare una tumefazione dolorosa dello scroto. Le alterazioni delle indagini di laboratorio si verificano soltanto durante gli accessi febbrili e sono del tutto aspecifiche: leucocitosi neutrofila, aumento della velocità di eritrosedimentazione, della proteina C reattiva, dell’aptoglobina, del fibrinogeno e della ceruloplasmina. In pazienti studiati in Europa si è osservato anche un aumento delle immunoglobuline IgD nel siero sanguigno. Si discute se questa debba essere considerata un’entità nosologica autonoma rispetto alla classica FMF.
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B. Diagnosi, decorso e terapia. Non esistono test specifici per la diagnosi di febbre familiare mediterranea, che deve essere perciò fondata unicamente su elementi clinici. In questo caso, però, il criterio ex iuvantibus può essere di utilità, dato che nella FMF gli accessi febbrili possono scomparire sotto trattamento con colchicina. In realtà, dato che il gene MEFV è stato clonato, è possibile una diagnosi molecolare. Tuttavia, anche questa presenta delle difficoltà, in quanto le mutazioni del gene descritte sono circa una trentina e di solito i laboratori si limitano a valutare le cinque più comuni, così che le mutazioni rare possono essere non rilevate. In assenza di terapia, gli accessi febbrili si ripetono per tutta la vita e il paziente può sviluppare amiloidosi, la cui manifestazione più importante è la sindrome nefrosica. Sembra che questa complicanza, molto comune nei paesi orientali, non lo sia altrettanto negli USA (e, presumibilmente, in Italia). Il trattamento con colchicina è in grado di prevenire lo sviluppo di amiloidosi, perciò deve essere proseguito ininterrottamente. Sindrome da iper-IgD Questa forma morbosa era già stata descritta negli anni passati come una variante della malattia di Still o come un’entità nosologica a sé stante, denominata febbre da etiocolanolone, dall’aumentato livello di questo composto steroideo che veniva trovato nel sangue (e che, come oggi si sa, non ha un ruolo patogenetico). In seguito era stata considerata una variante della FMF, dalla quale è infine stata separata e considerata una forma di febbre periodica familiare completamente differente. La malattia, trasmessa come carattere autosomico recessivo, è stata osservata soprattutto in famiglie dell’Europa occidentale e il 60% dei casi è stato rilevato in Olanda e in Francia. La frequenza del gene che induce suscettibilità a questa malattia è bassa: nelle popolazioni studiate, il rapporto tra le persone che posseggono questo gene e quelle normali è di 1:350. La malattia deriva da mutazioni di un gene che è stato localizzato sul braccio lungo del cromosoma 12 e che codifica l’enzima mevalonato-chinasi. Questo ha un ruolo importante nella sintesi del colesterolo a partire dall’acido mevalonico, infatti i pazienti con questa malattia hanno livelli ematici di colesterolo lievemente ridotti e, durante gli attacchi, un’escrezione urinaria di acido mevalonico lievemente aumentata. In realtà, nella sindrome da iper-IgD l’attività della mevalonato-chinasi non è assente, ma solo ridotta al 515% del normale. Meno dell’1% dei pazienti con mutazioni del gene che codifica questo enzima ne hanno una mancanza totale, ma in questo caso il quadro morboso è completamente diverso da quello della sindrome da iper-IgD e configura una diversa entità nosologica, definita mevalonico-aciduria, caratterizzata da gravi deficienze di sviluppo, alterazioni neurologiche e muscolari e cataratta. Per tornare alla sindrome da iper-IgD, non è chiaro perché un difetto della mevalonato-chinasi debba comportare ricorrenti periodi febbrili con evidenti caratteristiche infiammatorie.
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A. Clinica. La malattia esordisce di regola nel primo anno di vita ed è caratterizzata da attacchi febbrili ricorrenti, che esordiscono bruscamente con brivido e che durano da quattro a sei giorni, con una defervescenza graduale. Gli attacchi sono scatenati da eventi come vaccinazioni, traumi di lieve entità, stress e sono accompagnati, pressocché costantemente, da dolori addominali con vomito e diarrea. Nel corso di un attacco, frequentemente si manifestano artralgie e artrite e segni come tumefazioni linfonodali laterocervicali, epatosplenomegalia, alterazioni cutanee sotto forma di macule e papule eritematose e anche petecchie e porpora. In una minoranza di pazienti si osservano inoltre afte e ulcerazioni dolorose nella bocca e nella vagina. Gli attacchi ricorrono per lo più ogni 4-6 settimane, ma gli intervalli possono essere anche molto più lunghi e variabili da paziente a paziente e anche in uno stesso paziente. Durante gli attacchi si nota una franca alterazione degli esami di laboratorio cosiddetti di fase acuta: aumento delle velocità di eritrosedimentazione, della proteina C reattiva nel sangue, delle -2 globuline nel tracciato elettroforetico del siero e leucocitosi con neutrofilia. Le alterazioni specifiche sono rappresentate da un aumento della concentrazione di IgD nel sangue (più di 100 UI/ml), anche se questa alterazione può mancare in pazienti di età inferiore ai 3 anni, e da un aumento anche della concentrazione di IgA che si osserva nell’80% dei casi. La valutazione dell’acido mevalonico nelle urine non è significativa perché i suoi aumenti sono di solito modesti. B. Diagnosi, decorso e terapia. La diagnosi può essere sospettata sulla base di considerazioni di tipo clinico, tenendo conto dell’esordio della malattia nel primo anno di vita e delle caratteristiche degli attacchi. Trovare nel siero elevati livelli di IgD e IgA è la conferma. È possibile anche una diagnosi molecolare, dato che la mutazione più comune del gene della mevalonato-chinasi è presente in circa l’80% dei casi e la sua ricerca ha elevate probabilità di essere significativa. La sindrome da iper-IgD non predispone allo sviluppo di amiloidosi, anche se gli attacchi febbrili si susseguono per tutta la vita, sia pure con una tendenza ad attenuarsi con l’avanzare dell’età. Solo eccezionalmente si verificano lesioni distruttive delle articolazioni. Non esiste una terapia di provata efficacia. Sindrome periodica associata al recettore del TNF Si tratta di una rara malattia, descritta inizialmente in famiglie scozzesi o irlandesi e in seguito anche altrove, ma prevalentemente nell’Europa del Nord, ed è trasmessa come carattere autosomico dominante. Il gene è stato mappato sul braccio corto del cromosoma 12 e la suscettibilità alla malattia è determinata da varie mutazioni che riguardano il recettore del TNF di tipo 1. Il TNF- è una citochina proinfiammatoria che, legandosi al suo recettore, induce secrezione di altre citochine, attivazione dei leucociti, febbre e cachessia. Quando avviene l’attivazione del recettore, la sua parte extracellulare si distacca ed entra nella circolazione, dove agi-
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sce come inibitore del TNF-, legandolo in competizione con i recettori rimasti sulle membrane cellulari. In sostanza, questo è un meccanismo di “sicura” per evitare che l’attività proinfiammatoria del TNF- sia eccessiva. È stato supposto che mutazioni che comportino alterazioni di questo recettore interferiscano con la sua capacità di distaccarsi dalle cellule e di entrare in circolo, con il risultato di lasciare non controllata l’infiammazione promossa dal TNF-. A. Clinica. La malattia esordisce solitamente prima dei 20 anni ed è caratterizzata da episodi febbrili di durata molto variabile, da 1-2 giorni a varie settimane, accompagnati da quelli che sono i segni distintivi di questa malattia, cioè congiuntivite e mialgie localizzate solo ad alcuni gruppi muscolari. Non mancano, tuttavia, sintomi che ricordano altre forme di febbri periodiche ereditarie, come dolori addominali, talvolta con caratteristiche coliche, nausea, vomito e diarrea, macule e papule eritematose sulla cute, artralgie. La congiuntivite è dolorosa e può essere accompagnata da edema periorbitario, come pure si possono avere dolore testicolare e cefalea. È però da ricordare che esistono casi con un quadro clinico molto sfumato e alcuni non presentano nemmeno la febbre lamentando solo attacchi periodici di congiuntivite e dolori muscolari localizzati. Dal punto di vista degli esami di laboratorio, durante gli attacchi si può avere aumento della velocità di eritrosedimentazione e dei livelli di poroteina C reattiva nel sangue, oltre a una leucocitosi con neutrofilia. La concentrazione di IgA nel siero può essere elevata e così anche quella di IgD, ma sempre al di sotto di 100 UI/ml. B. Diagnosi, decorso e terapia. La diagnosi può essere sospettata su base clinica, soprattutto in pazienti che oltre ai sintomi caratteristici, quali la congiuntivite e la artrite, presentano attacchi febbrili prolungati. Il test diagnostico decisivo è la dimostrazione di una riduzione nel sangue del recettore solubile di tipo 1 del TNF-. La prognosi dipende dallo sviluppo dell’amiloidosi AA alla quale questi pazienti sono suscettibili e che può essere svelata precocemente attraverso la valutazione dell’esistenza di proteinuria. Dal punto di vista terapeutico si è rivelato efficace il prednisone a dosi orali superiori ai 20 mg/die. La colchicina è assolutamente inefficace. Invece, molto promettente appare il trattamento con etanercept, un recettore solubile del TNF- impiegato nella terapia dell’artrite reumatoide.
MACROGLOBULINEMIA DI WALDENSTRÖM Il termine macroglobulinemia si riferisce all’aumento nel siero delle immunoglobuline della classe IgM; la macroglobulinemia idiopatica primitiva descritta da Waldenström nel 1944 (macroglobulinemia di Waldenström) è una discrasia linfoplasmocitoide dovuta alla proliferazione monoclonale di cellule linfatiche B producenti IgM.
È una malattia rara, molto più rara del mieloma, con un rapporto di circa 10:1, analogo al rapporto, nel siero normale, delle concentrazioni delle IgG + IgA rispetto alla concentrazione delle IgM. L’età più colpita è dai 50 ai 70 anni, con una prevalenza maschile di circa 3:1.
Eziopatogenesi È sostanzialmente ignota, analogamente a quanto si è visto per i linfomi e il plasmocitoma. La macroglobulinemia di Waldenström può infatti essere considerata uno dei tipi di presentazione clinica dei linfomi linfoplasmocitoidi in cui una popolazione di elementi B linfocitari sufficientemente differenziati per secernere IgM va incontro a proliferazione clonale di tipo neoplastico, del tutto svincolata da sollecitazioni antigeniche.
Fisiopatologia Delle due componenti principali che caratterizzano la malattia, accumulo linfoplasmocitorio ed aumentata concentrazione sierica di IgM, è questo secondo evento che determina in larga misura la sintomatologia clinica. Infatti le macroglobuline, di grandi dimensioni e di forma stellare, presenti in quantità più elevata che di norma, aumentano considerevolmente la viscosità del plasma; in aggiunta, anche i globuli rossi tendono ad aggregarsi tra loro formando i cosiddetti “rouleaux” per cui anche la parte corpuscolata contribuisce ad aumentare la viscosità: la sindrome da iperviscosità che ne consegue comprende una sintomatologia multisistemica dovuta essenzialmente ad ostacolo nella microcircolazione dei vari parenchimi. Anche altre proprietà fisico-chimiche delle IgM concorrono, sia pure occasionalmente, al verificarsi di manifestazioni cliniche particolari: la componente M tende talvolta a precipitare al freddo, comportandosi come una crioglobulina, meno frequentemente precipita a caldo (60 °C) e in questo caso si chiama piroglobulina; in altri casi essa esplica attività anticorpale contro gli antigeni Ii della membrana delle emazie oppure contro le IgG, la cardiolipina, l’eparina od altri antigeni. Inoltre possono avvenire interazioni delle proteine monoclonali con altre proteine, principalmente i fattori dell’emocoagulazione, o con le piastrine e gli endoteli vascolari, con conseguenti manifestazioni emorragiche. D’altra parte gli elementi linfoplasmocitoidi che si moltiplicano e si accumulano nell’organismo infiltrano il midollo osseo, con mielosostituzione più o meno spiccata sino alla mieloftisi, la milza, il fegato, i linfonodi con conseguenti aumenti di volume e, più raramente, possono proliferare anche a livello di altre sedi. Infine il clone patologico, analogamente a quanto avviene nel plasmocitoma, è in grado di indurre, a mezzo di un effetto soppressorio sui cloni linfocitari normali, una ridotta produzione di anticorpi, con conseguente alterazione dell’immunità umorale ed aumentata suscettibilità alle infezioni.
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Clinica L’anamnesi è spesso silente o è caratterizzata da astenia via via ingravescente, che per lo più coincide con l’instaurarsi progressivo di anemia. A differenza del plasmocitoma non si hanno, nei casi classici, dolori ossei, in quanto le localizzazioni di tipo osteolitico e/o le fratture patologiche sono estremamente rare. La sintomatologia di esordio è frequentemente dominata dalla sindrome da iperviscosità, in parte già accennata a proposito del plasmocitoma; in particolare, i sintomi legati ad alterazioni della microcircolazione cerebrale vanno dai più lievi e più frequenti come cefalea, vertigine, sonnolenza, ai più gravi e fortunatamente più rari come stupore e coma (coma paraproteinemico). L’interessamento delle arterie e delle vene retiniche provoca disturbi del visus che, nei casi gravi, possono arrivare sino alla cecità. All’esame oftalmoscopico le venule, ingorgate da rouleaux di emazie, appaiono congeste con un aspetto particolare detto “a salsiccia”. A carico del sistema nervoso centrale, l’alterazione del microcircolo a livello di una zona cerebrale circoscritta che presiede ad azioni motorie è causa di paralisi o paresi; se il disturbo di circolo non è di entità tale da condurre a una grave ischemia dei neuroni, ma determina solo una lieve ischemia con danno di tipo irritativo, si hanno manifestazioni convulsive. Una neuropatia periferica si riscontra in circa il 5% dei pazienti; la patogenesi di questa complicanza è multifattoriale: oltre all’iperviscosità, con ingorgo dei piccoli vasi nutritivi dei nervi periferici, hanno probabilmente importanza l’infiltrazione linfoide dei nervi, il deposito di amiloide e, soprattutto, l’attività anticorpale dell’IgM contro gli antigeni mielinici. Tra i disturbi uditivi il più comune è la sordità. L’iperviscosità, con ischemia delle pareti capillari secondaria al rallentamento del circolo, è uno dei fattori responsabili, accanto alle possibili alterazioni emostatiche, delle manifestazioni emorragiche costituite da petecchie, epistassi e anche emorragie viscerali profonde. Infine, sempre a causa dell’iperviscosità, viene favorita, in pazienti cardiopatici, l’insorgenza di scompenso congestizio. Quando le IgM hanno caratteristiche di crioglobuline possono precipitare nella microcircolazione delle estremità, soprattutto delle mani, provocando parestesie e fenomeno di Raynaud; in casi rari possono aversi ulcerazioni cutanee e lesioni gangrenose. Le IgM si comportano talvolta come crioagglutinine, ossia come anticorpi diretti contro l’antigene Ii delle emazie e possono determinare anemia emolitica di entità variabile, come è stato già esposto a proposito dell’anemia emolitica da anticorpi completi freddi. Un altro gruppo di sintomi deriva dall’interazione tra proteine; infatti l’esistenza di alte concentrazioni di IgM fa sì che queste interreagiscano in senso fisico, e quindi in maniera aspecifica, con altre proteine presenti nel plasma o con costituenti proteici cellulari; è quanto si verifica, esempio, in caso di interazione con i fattori emocoagulativi, in particolare il fattore VIII, con le
piastrine e le cellule degli endoteli vascolari: ne consegue una sindrome emorragica di sede e gravità variabili, in funzione della relativa espressività dei diversi fattori in causa. L’infiltrazione d’organo è causa di segni a tipo di linfoma e precisamente, in ordine decrescente di frequenza, di splenomegalia, di solito di medie dimensioni, di adenomegalie superficiali, raramente generalizzate, di epatomegalia; le localizzazioni ossee, pleuropolmonari, cutanee e digestive sono da considerare eccezionali. Le alterazioni a carico del rene sono rare; nel 10-30% dei casi si riscontra proteinuria di Bence-Jones; la lesione renale caratteristica è la formazione di veri e propri trombi occludenti a livello dei capillari glomerulari, formati dalle IgM circolanti. L’occlusione del lume dei capillari glomerulari comporta l’instaurarsi di insufficienza renale progressiva, facilitata dalla disidratazione; raro è invece il riscontro di amiloidosi renale. Analogamente a quanto si è visto per il plasmocitoma, questi pazienti sono inclini alle infezioni controllate da anticorpi solubili, quindi infezioni batteriche delle vie respiratorie (polmoniti), del tubo digerente (enterocoliti), del rene (pielonefriti).
Esami di laboratorio L’esame emocromocitometrico dimostra frequentemente anemia, di solito normocromica, che può integrarsi in un quadro di pancitopenia da mielosostituzione; altre volte la patogenesi dell’anemia è di tipo emolitico oppure può aversi anemia ipocromica sideropenica da stillicidio cronico; infine l’ipervolemia può determinare una falsa anemia da emodiluizione. I leucociti e le piastrine sono per lo più di numero normale, tranne nei casi, rari, di spiccata mieloftisi. La formula leucocitaria dimostra una certa linfocitosi con polimorfismo linfocitario e spesso un’eosinofilia, da modesta a discreta; vengono anche riportati casi con quadro periferico di tipo leucemico plasmocitoide. La caratterizzazione immunologica dei linfociti circolanti dimostra una notevole quota di linfociti B monoclonali. Gli esami determinanti per la diagnosi sono l’elettroforesi e l’immunofissazione del siero. L’elettroforesi dimostra nella maggior parte dei casi una stretta componente M situata a metà tra le e le , l’immunofissazione dimostra la natura IgM della banda monoclonale. In rari casi, con l’immunofissazione si dimostra che esistono due bande monoclonali, l’una IgM e l’altra IgG o IgA: in questo caso le componenti M che coesistono sono diverse per classe ma hanno frequentemente lo stesso idiotipo, cioè la porzione che riconosce l’antigene è la stessa, montata una volta sulla porzione costante delle IgM ed un’altra su quella delle IgG o IgA; in alcuni casi, però, le due classi immunoglobuliniche hanno anche idiotipi diversi. Infine l’elettroforesi può dimostrare un’area eterogenea, irregolare, nell’ambito delle -globuline (iperglobulinemia), dovuta all’esistenza di complessi di IgM
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omogenee con IgG eterogenee. Può aversi RA test positivo. L’altro esame fondamentale è quello del midollo; l’agoaspirato può riuscire difficile sia per la possibile notevole infiltrazione (affollamento) da parte degli elementi patologici sia perché le emazie, formando i rouleaux, lo rendono viscoso e gelatinoso, aumentandone la consistenza. L’esame microscopico dimostra una prevalenza di linfociti tendenzialmente maturi, una certa quota di plasmacellule e la presenza di elementi di aspetto “intermedio” tra linfociti e plasmacellule: in sostanza la particolarità più importante è il polimorfismo delle cellule linfoidi. È frequente il riscontro nel midollo di mastzellen e di una quota aumentata di elementi eosinofili. L’esame del cariotipo dimostra spesso la presenza di un grande cromosoma anormale, di solito come elemento addizionale in cellule con 47 cromosomi; può trattarsi di un cromosoma 3, con una delezione del braccio corto, oppure di una trisomia del cromosoma 12; in altri casi questo cromosoma rimpiazza uno dei cromosomi più grandi, conservando alla cellula l’assetto diploide. La viscosimetria può raggiungere valori molto elevati, di 5 ed oltre; tra le alterazioni ematochimiche la più importante è l’iperuricemia.
Diagnosi, decorso e prognosi La diagnosi è basata sui risultati degli esami del siero e del midollo. Il decorso è estremamente cronico; la fase silente può durare anche parecchi anni poiché la malattia giunge ad evidenza clinica solo quando si raggiunge un accumulo di cellule (1012) corrispondenti ad 1 kg di tessuto patologico sparpagliato. Calcolando i tempi di replicazione si è concluso che occorrerebbero circa 20 anni perché da una singola cellula si arrivi ad una massa di questa entità, anche se esperienze più recenti di cinetica cellulare inducono a pensare che ciò possa avvenire più rapidamente. La prognosi è infausta perché la malattia non guarisce, però la sopravvivenza mediana è di parecchi anni; un elevato livello di IgM plasmatiche è un segno prognostico sfavorevole. I pazienti muoiono per complicanze emorragiche od infettive, più raramente per insufficienza renale.
Terapia (*) Analogamente a quanto già esposto per il mieloma multiplo, l’opportunità di iniziare un trattamento nella macroglobulinemia di Waldenström dipende da una corretta valutazione dei parametri clinici che esprimono una possibile evoluzione clinica. Molti pazienti possono, infatti, presentare per anni una macroglobulinemia (*) E. Bucci, G. Di Lucca.
di Waldenström che resta stabile nel tempo; in questi casi l’atteggiamento più corretto è il monitoraggio clinico e laboratoristico senza alcuna terapia fino all’eventuale progressione. Generalmente gli indizi clinici più rilevanti sono da ricercare nella comparsa di manifestazioni neurologiche, astenia, calo ponderale, sindrome da iperviscosità, emorragie, epatosplenomegalia, linfoadenomegalie, incremento della componente monoclonale sierica e nella progressiva anemizzazione. In questi casi trova indicazione un trattamento citostatico. Attualmente non sono ancora disponibili studi di terapia controllati che confrontino i vari schemi terapeutici e la maggior parte degli Autori concorda per un trattamento in monochemioterapia con alchilanti, in grado di ottenere risposte obiettive nel 40-50% dei casi. Tra gli alchilanti non sembrano esserci sostanziali differenze nella percentuale di risposte ottenute; in particolare chlorambucil e ciclofosfamide risultano entrambi ben tollerati anche se comportano un certo grado di immunosoppressione e di rischio infettivo. Il melphalan, più impiegato nel mieloma che nella macroglobulinemia di Waldenström, non sembra offrire evidenti vantaggi a prezzo di una maggiore tossicità midollare. Un altro farmaco recentemente utilizzato nel trattamento della macroglobulinemia di Waldenström è la fludarabina (analogo dell’adenina), che si è dimostrato attivo anche nei pazienti resistenti al trattamento convenzionale o a regimi polichemioterapici aggressivi a fronte di una tossicità giudicata modesta. La pentostatina sembra anch’essa attiva, tuttavia la casistica ancora molto limitata non permette di esprimere un giudizio sull’efficacia di questo trattamento. L’associazione di corticosteroidi alla monochemioterapia è solitamente riservata ai casi in cui è presente anemia emolitica autoimmune o quando la componente monoclonale è crioprecipitabile determinando così tutte le note conseguenze della sindrome crioglobulinemica (neuropatia periferica, insufficienza renale, alterazioni epatiche). Nella macroglobulinemia di Waldenström non sembrano avere un ruolo schemi aggressivi di polichemioterapia; infatti, pur ottenendo, talora, risposte superiori alla monochemioterapia queste non sono mantenute nel tempo e i notevoli effetti collaterali sono mal tollerati da pazienti generalmente anziani ed immunocompromessi; tali trattamenti sono pertanto da considerare di seconda linea. Radioterapia, splenectomia e trapianto di midollo autologo o allogenico hanno un ruolo molto limitato e sono da riservare a casi selezionati, come in presenza di importanti adenomegalie, splenomegalia e, per il trapianto, a pazienti giovani in cui la polichemioterapia abbia ottenuto la remissione completa. Alcuni Autori suggeriscono l’impiego dell’interferon-: anche in questo caso si osservano risposte obiettive intorno al 50%; tuttavia molti pazienti presentano effetti collaterali che comportano frequentemente la so-
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spensione del trattamento. Sono pertanto necessari più ampi studi sulla reale utilità di questa citochina, in particolare per valutare la sua influenza nel modificare la sopravvivenza dei pazienti in una malattia tipica dell’età avanzata e ad andamento generalmente indolente. Da ultimo va ricordata la possibilità che pazienti affetti da macroglobulinemia di Waldenström presentino un quadro di sindrome da iperviscosità (cefalea, alterazioni dello stato di coscienza fino a coma, scompenso cardiaco, emorragie) che richiede un intervento immediato di plasmaferesi, che consiste nella rimozione giornaliera di 4/6 U di plasma al fine di ridurre la viscosità sierica ad un valore non superiore a 4 volte quello dell’acqua. Ovviamente, a questo intervento di emergenza va subito associato un trattamento citostatico volto alla riduzione del clone neoplastico responsabile della produzione della componente monoclonale sierica. Un’ulteriore cautela va posta per quanto riguarda l’indicazione alle emotrasfusioni; infatti, spesso l’anemia è dovuta a emodiluizione per l’elevata concentrazione proteica plasmatica ed inoltre le trasfusioni possono aggravare la sindrome da iperviscosità.
MALATTIE DELLE CATENE PESANTI Sono caratterizzate dalla proliferazione di elementi plasmacellulari abnormi che sintetizzano e secernono una catena pesante difettosa, con una porzione Fc intatta ed una delezione nella regione Fd; dei cinque tipi possibili, corrispondenti alle cinque classi immunoglobuliniche, si sono finora riconosciute le malattie delle catene pesanti , e . L’alterazione strutturale è sostanzialmente simile per ciascuna classe e consiste nella delezione interna delle regioni VH e CH1, unitamente alla mancata sintesi delle catene L o al loro mancato inserimento nella molecola immunoglobulinica. La proteina anomala pare non derivare, per lo meno in gran parte dei casi, dalla degradazione proteolitica di una normale molecola ma essa rappresenta il prodotto sintetico delle plasmacellule abnormi; l’anomalia è verosimilmente secondaria a una delezione genetica parziale, ma poiché le catene pesanti e leggere sono sotto un controllo genetico separato ci si aspetterebbe una sintesi normale di catene L; si suppone che questo non avvenga perché la catena pesante abnorme interferisce in qualche modo, a livello dei legami disulfurici, con i meccanismi di regolazione per la sintesi delle catene leggere.
Malattia delle catene pesanti Le immunoglobuline della malattia da catene pesanti appartengono a tutte e quattro le sottoclassi delle IgG; in base alle anomalie strutturali della molecola si distinguono vari gruppi con più o meno estesa delezione aminoacidica. Nel primo gruppo si ha una delezione di un
tratto variabile del frammento Fd in quanto le sequenze aminoacidiche, a partire dall’estremità NH2 terminale, sono normali sino ad un certo punto, poi si ha una delezione e la sequenza riprende a livello dell’acido glutammico, immediatamente prima della regione cerniera. Nel secondo gruppo la delezione interessa soltanto la regione cerniera; nel terzo gruppo vi è una delezione di un tratto variabile del frammento Fd più la regione cerniera; infine, in rari, casi si ha presenza di immunoglobuline del tutto prive di estremità amino-terminale. La malattia è rara; assomiglia più ad un linfoma maligno che al mieloma; prevale nell’età avanzata e nel sesso maschile. La sintomatologia è caratterizzata da astenia, malessere, febbre, associati ad anemia, epatosplenomegalia, linfomegalie diffuse; un reperto tipico è l’interessamento dell’anello di Waldeyer, con eritema ed edema del palato e difficoltà respiratoria. Gli esami di laboratorio dimostrano discreta anemia, leucopenia e piastrinopenia; nella formula vi è spesso spiccata eosinofilia, occasionalmente presenza di linfociti atipici e di plasmacellule. Nel midollo si riscontra un aumento discreto delle plasmacellule, dei linfociti e degli eosinofili; talvolta l’eosinofilia è l’unico reperto significativo. L’elettroforesi del siero dimostra una componente abnorme, a base larga, di aspetto eterogeneo, probabilmente dovuto alla diversa quantità di carboidrati legati alle diverse molecole; contemporaneamente vi è ipogammaglobulinemia. Con l’immunoelettroforesi la proteina abnorme può essere messa in evidenza soltanto con gli antisieri anti-IgG e anti-Fc, non con quelli antiFab e anti-catene leggere. Questa proteina è dimostrabile nelle urine in oltre la metà dei casi, anche in quantità cospicue, sino a 20 g/24 ore; non si ha proteinuria di Bence-Jones. Il decorso è variabile, di regola non complicato da lesioni ossee osteolitiche o da insufficienza renale; una rapida evoluzione può conseguire ad episodi infettivi non dominabili, favoriti da una situazione di depressione immunitaria, oppure alla comparsa, come evento terminale, di una leucemia plasmacellulare; non mancano però pazienti che mostrano una sintomatologia modesta e un decorso protratto. Spesso questa forma morbosa si associa ad altre malattie croniche come la tubercolosi, l’artrite reumatoide, la sindrome di Sjögren, la miastenia gravis, il lupus eritematoso, la sindrome ipereosinofila, tiroiditi e tumori della tiroide. La diagnosi è basata sul reperto elettroforetico e soprattutto immunoelettroforetico.
Malattia delle catene pesanti Tutte le proteine studiate si ritrovano come dimeri o grandi polimeri ed appartengono alla sottoclasse 1, carente della maggior parte della metà NH2 terminale; analogamente alle proteine si ha una delezione interna delle regioni VH e CH1 con ritorno alla norma al residuo valinico, all’inizio della cerniera, che corrisponde all’acido glutammico nella varietà .
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È la più comune delle malattie delle catene pesanti e prende il nome di linfoma mediterraneo; la proliferazione linfomatosa è localizzata essenzialmente all’intestino, ai linfonodi mesenterici, alla regione retroperitoneale, come è logico data la sintesi elettiva di IgA a livello delle mucose, in particolare di quella intestinale. L’infiltrazione linfoplasmocitaria dell’intestino determina una grave sindrome da malassorbimento, con perdita di peso, diarrea, steatorrea e ipocalcemia; frequentemente, all’esame obiettivo si apprezzano masse addominali palpabili. L’elettroforesi del siero nel 50% dei casi non dimostra alterazioni; nell’altra metà si riscontra una banda abnorme, a base larga, con mobilità in zona delle 2; l’immunoelettroforesi mette in evidenza un arco abnorme con antisieri anti-IgA, non con antisieri anti-catene leggere. Poiché queste IgA abnormi, come si è detto, circolano in forma di polimeri, solo in piccole quantità oltrepassano il filtro renale. La malattia, almeno nelle fasi più precoci, può avere un decorso relativamente lento, senza note di aggressività.
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
In casi rari la localizzazione è limitata alle vie respiratorie, con alterazioni polmonari infiltrative diffuse e linfonodi mediastinici allargati.
Malattia delle catene pesanti La struttura delle molecole proteiche di questa malattia non è completamente nota; la maggior parte è rappresentata da pentameri correlati al frammento (Fc)5; in questa malattia, in oltre la metà dei casi, vengono prodotte grandi quantità di catene leggere che tuttavia, per motivi non sicuramente chiariti, non vengono montate nella molecola immunoglobulinica e passano come tali il filtro renale, determinando una proteinuria di Bence-Jones anche di discreta entità. Dal punto di vista clinico il quadro è sovrapponibile a quello della leucemia linfatica cronica, con una caratteristica compromissione viscerale precoce a carico del fegato, della milza ed anche dei linfonodi addominali e relativo modesto interessamento dei linfonodi periferici. La diagnosi, anche qui, è basata sul reperto sierologico.
C A P I T O L O
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MALATTIE DELLA MILZA (*) G. GROMO
Nei capitoli precedenti si sono osservate numerose malattie che comportano la presenza di splenomegalia. Scopo di questo capitolo è quello di riassumere, classificandole, le cause di splenomegalia e di trattare nel dettaglio quelle “malattie della milza” che ancora non sono state affrontate. A questo proposito si è creduto opportuno dedicare una parte della presente trattazione alla fisiologia della milza (cenni), una seconda al concetto di ipersplenismo ed una terza alla splenomegalia in quanto tale.
CENNI DI FISIOLOGIA E FISIOPATOLOGIA La milza, delimitata da una capsula connettivale grigiastra, sottile e lucente, attraverso la quale traspare il parenchima rosso scuro, normalmente nell’adulto pesa da 120 a 200 g e misura da 8 a 12 cm di lunghezza, da 4,5 a 7 cm in larghezza e 3 cm in spessore. Una milza di lunghezza superiore ai 14 cm è sicuramente palpabile. Il 10% dei soggetti presenta una milza accessoria. Numerose e assai complesse sono le funzioni della milza. A. Funzioni di sequestro, fagocitosi e riserva (“pooling”). Il sequestro è un processo nel corso del quale le cellule circolanti nel sangue vengono trattenute momentaneamente nella milza prima di fare ritorno in circolo. La fagocitosi costituisce la rimozione di cellule ematiche vecchie o deformate (per es., da un sequestro prolungato a causa dell’adesione di anticorpi sulla loro membrana), di batteri, di agenti estranei da parte dei macrofagi. La riserva (“pooling”) è la presenza nella milza normale di una quota di elementi del sangue in continuo scambio con il circolo. Negli animali rappresenta una valida riserva di globuli rossi (GR), ma nel(*) Con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di M.R. Terreni.
l’uomo quest’attività è trascurabile poiché l’organo non contiene più di 20-60 ml di GR. Tuttavia, milze aumentate di volume sono in grado di sviluppare grosse riserve con ematocrito elevato e una riduzione nella percentuale di scambio di GR con il sangue circolante. Nelle persone sane esiste una buona correlazione tra quantità di sangue nella milza e sue dimensioni. Nei disordini mieloproliferativi circa il 20% del volume ematico totale può trovarsi nella milza. Una riserva aumentata la si può avere anche in certa patologia linfoproliferativa (per es., “Hairy cell leukemia” e leucemia prolinfocitica). Nella maggior parte dei linfomi, viceversa, la “riserva” non è aumentata in proporzione alle abnormi dimensioni della milza dato che esiste anche una espansione della componente linfoide con sostituzione dei sinusoidi da parte del tessuto neoplastico. Le piastrine hanno una riserva assai importante nella milza anche in condizioni normali: 20-35% del pool circolante. Per quanto riguarda, invece, i granulociti non è dimostrabile la presenza di una loro riserva nella milza in condizioni fisiologiche. È stato invece trovato un pool marginale abnorme in alcuni casi di splenomegalia associata a neutropenia. B. Funzioni immunologiche. La milza è sicuramente interessata nella produzione anticorpale ma il suo livello di coinvolgimento sembra essere diverso a seconda del tipo di antigene, della sede di inoculo e della quantità somministrata. La milza, d’altra parte, non sembra fondamentale nella produzione anticorpale dal momento che questa è presente anche nell’individuo splenectomizzato. Tuttavia, in queste circostanze, si nota un ritardo nella comparsa degli anticorpi e una riduzione del loro titolo. I microrganismi o altri antigeni che trovano la strada per giungere alla milza ivi vengono degradati ed elaborati dai macrofagi e presentati in forma adatta alle cellule immunocompetenti nel tessuto linfatico. Questo stimola la produzione di anticorpi e l’incremento dei centri germinativi della milza.
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Una seconda stimolazione antigenica evoca poi una risposta anticorpale soprattutto di tipo IgG. Oltre che nell’induzione della risposta immunitaria, la milza ha un ruolo molto importante come organo effettore per la eliminazione di microrganismi o cellule circolanti (anche autologhe) che siano stati il bersaglio di una reazione immunitaria. Infatti le cellule fagocitiche della milza sono dotate di una struttura di superficie (cosiddetto recettore) che è geometricamente complementare della regione Fc delle IgG. Quando giungono nella milza microrganismi o cellule circolanti ricoperti da anticorpi della classe IgG (ossia, come si dice, sensibilizzati) la regione Fc di queste molecole (che resta esposta alla superficie cellulare) interagisce con il recettore dei macrofagi splenici e ne facilita la fagocitosi. Questo processo è particolarmente importante nel caso esista autoimmunità nei riguardi di GR, GB o piastrine. Per fare un esempio, nell’anemia emolitica autoimmune da anticorpi incompleti caldi i GR sensibilizzati con IgG in circolo, di regola, non agglutinano ma una volta giunti nella milza trovano un microambiente sfavorevole che provoca il loro sequestro e la loro distruzione (si veda Anemie immunoemolitiche, Cap. 44). In realtà le cellule coperte di anticorpi perdono parti della loro membrana non appena entrano in contatto con i macrofagi. Questo determina, ad ogni passaggio per i sinusoidi, una progressiva riduzione dell’elasticità e flessibilità, fino a quando diventano troppo rigide per attraversare i pori endoteliali e rimangono intrappolate nella milza. Questo fenomeno è influenzato da due fattori: da un lato la prolungata sollecitazione della fagocitosi determina un incremento del numero dei fagociti nelle travate spleniche (e perciò un aumento dell’attività litica), e dall’altro lato le emazie danneggiate tendono ad ingorgare le cellule del SRE (e quindi a ridurre la lisi, almeno temporaneamente). C. Funzioni ematopoietiche. Nel feto (2°-6° mese, talvolta a termine) vi è un’emopoiesi attiva epatica ma anche, se pur di grado inferiore, nella polpa rossa splenica. Tuttavia le potenzialità in tal senso permangono anche nella vita extrauterina e in particolari situazioni (per es., talassemia, anemia emolitica cronica) si può verificare un’ematopoiesi extramidollare compensatoria. Questa deve essere distinta dalla metaplasia mieloide che si verifica nella milza in caso di mielofibrosi e occasionalmente in pazienti con leucemia o mieloftisi. Si tratta infatti, in questi ultimi casi, di una proliferazione patologica di tessuto emopoietico e non già solo di eritropoiesi compensatoria. Non è chiaro però se si tratti della medesima “stem cell” o di linee cellulari differenti. È noto, però, dalla letteratura che l’irradiazione della milza provoca leucopenia molto più rapidamente che dosi equivalenti di raggi su altri organi. Fenomeno dovuto, si pensa, alla distruzione di precursori mieloidi splenici. Di qui “il razionale” della radioterapia in sede splenica in corso di patologia mieloproliferativa. La milza contiene una grossa quantità di tessuto linfoide ma non costituisce un sito primario di linfo-
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poiesi; infatti, gran parte dei linfociti della polpa bianca splenica sono di provenienza midollare e timica. Tuttavia i centri germinativi della milza possono rispondere agli stimoli antigenici (come si è visto) con una proliferazione linfocitaria. Studi sperimentali hanno dimostrato l’esistenza di CFU-S (Colony Forming Unit Spleen) nella milza, così come nel midollo. D. Funzioni di controllo del volume plasmatico. In genere, una dilatazione del distretto vascolare splenico comporta un’espansione del volume plasmatico tale da mantenere invariato il volume della quantità di sangue contenuta nella milza. Questo incremento del volume plasmatico non è accompagnato di norma da un parallelo incremento della massa degli eritrociti, che finiscono per essere sottratti dalla circolazione extrasplenica per concentrarsi nella milza (si ricordi che nella milza il rapporto globuli/plasma tende sempre ad essere elevato). La conseguenza è un’anemia apparente, da “diluizione”. I meccanismi che determinano l’incremento del volume plasmatico in corso di splenomegalia non sono ben noti. In condizioni fisiologiche la massa eritrocitaria si mantiene costante, ma il volume plasmatico tende a presentare piccole variazioni che, di fatto, sono continuamente corrette allo scopo di mantenere invariato il volume ematico circolante. È verosimile che questi stessi meccanismi siano operativi, ma su scala maggiore, quando una splenomegalia sottrae plasma ai distretti circolatori extrasplenici, e quindi fa in modo che venga percepito un segnale di volume plasmatico diminuito. Il fattore primitivo, in molti casi, è l’espansione del letto vascolare splenico, o per una condizione patologica insita nella milza (disordini mieloproliferativi) o per una congestione passiva in corso di ipertensione portale. Un altro fattore può essere rappresentato dall’ipoalbuminemia con iper-γ -globulinemia e diminuzione della pressione oncotica delle proteine del plasma, come si verifica nella cirrosi epatica. In questo caso il volume plasmatico tenderebbe a diminuire per fuoriuscita di acqua ed elettroliti verso lo spazio extravascolare; questo fatto innesca un meccanismo di compenso e la quantità di plasma supplementare prodotta a questo fine si distribuisce nella milza più che altrove. È per questo motivo che nelle sindromi mieloproliferative le variazioni del volume plasmatico sono direttamente proporzionali all’entità della splenomegalia, mentre così non è nella cirrosi (nella quale ha importanza anche il grado della disprotidemia).
IPERSPLENISMO Per ipersplenismo si intende una condizione clinica ed ematologica caratterizzata da: • anemia, neutropenia, piastrinopenia (isolate o variamente combinate tra loro);
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51 - MALATTIE DELLA MILZA
Tabella 51.1 - Cause principali di ipersplenismo secondario. • Splenomegalie congestizie • Infiammatorie (soprattutto croniche): tubercolosi, brucellosi, malaria, istoplasmosi, leishmaniosi, sindrome di Felty • Neoplastiche: linfomi, leucemie, mielofibrosi, mastocitosi • Tesaurismosi: malattia di Gaucher, malattia di Niemann-Pick • Altre: amiloidosi, talassemia, ipertiroidismo • Dialisi
• midollo osseo normale o iperplastico per quanto riguarda i precursori della linea deficitaria; • splenomegalia; • miglioramento della crasi ematica dopo splenectomia. L’ipersplenismo viene comunemente classificato come primario o secondario. Nella maggior parte dei casi è secondario a splenomegalia congestizia cronica con ipertensione portale, ma può anche comparire in corso di processi infiammatori acuti e cronici, tesaurismosi, neoplasie, in particolare linfomi, ipertiroidismo, orticaria pigmentosa e durante trattamento dialitico (Tab. 51.1). Solo di rado non è possibile risalire alla causa responsabile dell’ipersplenismo: queste forme si definiscono primarie o idiopatiche. A. Eziopatogenesi. Per molti anni si è dibattuto circa il meccanismo responsabile dell’ipersplenismo. Alcuni Autori sostenevano che la milza provocasse pancitopenia distruggendo le cellule con un ritmo tale da non consentire al midollo, se pur funzionante in modo regolare, di compensarla. Altri ritenevano che l’ipersplenismo fosse il risultato di un’inibizione della funzionalità midollare ad opera di fattori liberati in circolo dalla milza. Nonostante ancora molto resti da capire sulla milza e il suo funzionamento, oggi si è potuto accertare con ragionevole sicurezza che: a) una milza di volume aumentato può sequestrare un gran numero di GR, GB e piastrine; b) questi possono essere danneggiati o distrutti; c) il volume totale plasmatico può aumentare in concomitanza di splenomegalia e perciò si ha una “pseudoanemia”. Sembra viceversa ormai abbandonata l’ipotesi che la milza produca fattori ormonali o umorali capaci di inibire la dismissione o la maturazione delle cellule emopoietiche midollari. 1. L’anemia è dunque principalmente dovuta a sequestro e/o distruzione degli eritrociti nella milza. La sopravvivenza eritrocitaria è sempre ridotta. Quando la splenomegalia è molto cospicua, l’anemia di fatto è solo apparente dal momento che la massa eritrocitaria è normale anche se un’elevata percentuale di eritrociti (si arriva al 40%) è intrappolata nella milza. Come ricordato poco sopra, l’anemia può essere accentuata dall’aumento della massa plasmatica (si arriva a 100 ml/kg).
2. La leucopenia che si associa di frequente a splenomegalia sembra attribuibile soprattutto ad aumentata distruzione e solo di rado a sequestro splenico. 3. Al contrario, la trombocitopenia è dovuta soprattutto ad incremento del sequestro splenico. Infatti in corso di ipersplenismo il pool splenico può costituire il 50-90% della massa piastrinica totale. B. Esami di laboratorio. L’anemia è normocromica normocitica, talora accompagnata da anisopoichilocitosi, più raramente da reticolocitosi, ittero e iperbilirubinemia indiretta. Il numero dei leucociti è ridotto generalmente meno di quanto lo sia il numero di globuli rossi e di piastrine; i neutrofili sono di solito diminuiti in modo particolare. Valori comuni per la conta dei leucociti totali sono intorno a 3-4 × 109/l e per i neutrofili intorno a 1-2 × 109/l. Il midollo osseo è normocellulare o ipercellulare e presenta un discreto aumento numerico dei precursori di quegli elementi che vengono distrutti in circolo, soprattutto di megacariociti.
SPLENOMEGALIA Si può tranquillamente affermare che le cause di splenomegalia interessano tutti i tipi di malattie dalle quali l’uomo è affetto (infettive, metaboliche, circolatorie, endocrine e neoplastiche come pure una patologia puramente meccanica) (Tab. 51.2). È comunque difficile stabilire con che frequenza queste affezioni provochino splenomegalia dal momento che ci sono enormi variazioni in funzione delle diverse condizioni socioeconomiche e geografiche. In alcune nazioni la patologia che più facilmente si associa a splenomegalia è rappresentata dalle emoglobinopatie. Si può tuttavia constatare come, globalmente, l’incidenza delle cause ematologiche sia di gran lunga inferiore rispetto a quelle di origine infettiva (in particolare malaria, schistosomiasi e leishmaniosi). Si calcola che il volume della milza debba aumentare di circa 2-3 volte prima che il suo polo inferiore divenga palpabile. Per questo motivo una radiografia dell’addome senza mezzo di contrasto, una scintigrafia splenica o un’ecografia addominale si rivelano spesso dei metodi più attendibili della semplice semeiotica fisica (si veda oltre, Metodi di indagine). L’entità della splenomegalia comunemente si esprime in cm dal margine inferiore sinistro dell’arcata costale.
Splenomegalie infiammatorie Una splenomegalia infiammatoria acuta o subacuta si può verificare in associazione con numerosi processi infettivi e infiammatori come espressione di un incremento delle “capacità di difesa” di quest’organo. La necessità di eliminare batteri, protozoi, cellule danneggiate può portare ad un incremento nel numero delle cellule reticolo-endoteliali spleniche e/o all’iperproduzione di anticorpi con iperplasia linfoide.
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1020 Tabella 51.2 - Cause di splenomegalia.
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tra le cause più comuni di splenomegalia infiammatoria ricordiamo quelle qui di seguito elencate.
Splenomegalia infiammatoria • Acute e subacute: ascessi splenici, sepsi generalizzate, mononucleosi infettiva, endocardite batterica subacuta • Croniche: tubercolosi, sifilide, sindrome di Felty, artrite reumatoide, malaria, leishmaniosi, tripanosomiasi, istoplasmosi, schistosomiasi, echinococcosi, sarcoidosi, berilliosi Splenomegalia congestizia • Cirrosi epatica • Trombosi, stenosi, trasformazione cavernosa della vena porta • Trombosi o altre forme di ostruzione della vena splenica • Scompenso cardiaco (del cuore destro) Splenomegalia iperplastica • Anemie emolitiche di vario tipo • Anemie croniche: anemia perniciosa e altre anemie macrocitiche, talassemia, emoglobina C, varie combinazioni di HbC, D, E, Lepore o HbS e talassemia, mielofibrosi, lupus eritematoso sistemico • Porpore trombocitopeniche • Morbo di Graves • Policitemia vera • Splenomegalia idiopatica non tropicale • Sindrome della grande milza Splenomegalia infiltrativa • Malattia di Gaucher • Malattia di Niemann-Pick • Amiloidosi Cisti e neoplasie • Cisti vere: epiteliali, endoteliali, da parassiti • Cisti false: emorragiche, sierose, degenerative, infiammatorie • Linfangiomi, emangiomi • Leucemie • Morbo di Hodgkin • Linfomi non Hodgkin • Istiocitosi X • Neoplasie metastatiche
Dal punto di vista anatomopatologico la milza si presenta macroscopicamente di volume aumentato, pesa tra i 200 e i 400 g ed è di consistenza molle. Al taglio la polpa rossa è mal trattenuta e i corpuscoli malpighiani sono poco visibili. La macroscopia ottica dimostra una congestione acuta della polpa rossa e follicoli linfatici iperplastici, con notevole ingrandimento dei centri germinativi. Di rado si riscontra la formazione di ascessi, infarti splenici settici si possono associare a un’endocardite infettiva. Una splenomegalia infiammatoria cronica si può verificare in situazioni flogistiche croniche, in malattie immunitarie e nelle parassitosi. La milza arriva talvolta a pesare oltre 1000 g ed aumenta di consistenza. Al taglio, la polpa rossa è congesta e i corpuscoli malpighiani appaiono ben visibili. La microscopica ottica dimostra l’iperplasia dei follicoli linfatici con grossi centri reattivi e sinusoidi ripieni di macrofagi; la polpa bianca e quella rossa contengono inoltre numerosi macrofagi, plasmacellule ed eosinofili.
A. Sindrome di Felty. L’associazione di splenomegalia, leucopenia e artrite reumatoide costituisce nell’adulto la sindrome di Felty. L’artrite reumatoide può essere in fase attiva già in precedenza, ovvero manifestarsi in concomitanza della neutropenia e della splenomegalia. Ci sono poi altri reperti concomitanti, quali pigmentazione cutanea abnorme, linfoadenopatia, noduli sottocutanei, ulcerazioni della cute, episcleriti, vasculiti, sierositi. La leucopenia è di grado variabile come pure la trombocitopenia. In particolare si registra una diminuzione della quota neutrofila e linfatica e un aumento di eosinofili e monociti. Il midollo è ipercellulare con numerosi elementi mieloidi; alcuni pazienti presentano un quadro di “arresto maturativo” con assenza di neutrofili segmentati. Il grado di attività della artrite reumatoide non sembra correlarsi direttamente con la gravità o meno del quadro ematologico. Nei pazienti affetti da artrite reumatoide la splenomegalia è presente in percentuali assai varie, dall’1 al 21%. Si avranno altri titoli di fattore reumatoide, di autoanticorpi contro antigeni nucleari e ipocomplementemia (frazione C3 ridotta). Rimane di difficile valutazione il perché della neutropenia. Le opinioni prevalenti sono che i granulociti vengono ridotti di numero per effetto di meccanismi immunologici. Inizialmente si è pensato che i responsabili fossero autoanticorpi diretti contro antigeni nucleari propri dei granulociti. Più recentemente si è attribuita importanza all’azione di linfociti T soppressori. Queste cellule sono fisiologicamente deputate alla regolazione delle risposte immunitarie, ma hanno la capacità di inibire la maturazione e la differenziazione anche di stipiti cellulari non appartenenti al sistema immunocompetente, come nel caso dei precursori ematologici. Nella sindrome di Felty, l’azione dei linfociti T soppressori, non si sa da che cosa indotta, si eserciterebbe sui precursori dei granulociti. B. Sifilide. La splenomegalia talvolta si verifica in associazione alla sifilide, in particolare se congenita, come reazione infiammatoria interstiziale alla spirochetemia generalizzata. Anche la sifilide terziaria comporta un incremento della milza sia per formazione di lesioni tipiche (gomma luetica), sia per amiloidosi secondaria. C. Tubercolosi. Esiste una rara forma (100 casi segnalati al mondo) di tubercolosi primaria alla milza, senza interessamento di altri distretti dell’organismo. Il quadro clinico è variamente caratterizzato da splenomegalia, ematemesi, ascite, ittero, porpora, anemia (raramente poliglobulia), leucopenia e trombocitopenia. La TBC può essere diagnosticata solo dopo splenectomia: si può rilevare una semplice iperplasia reattiva aspecifica della polpa bianca, oppure si possono evidenziare noduli miliari o nodi caseosi a seguito della diffusione ematogena della malattia: di una qualche utilità, al fine di prendere in considerazione l’eventualità di questa patologia, è il riscontro di calcificazioni intraspleniche.
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51 - MALATTIE DELLA MILZA
D. Malaria. La malaria nelle zone tropicali è sicuramente una delle cause più comuni di splenomegalia. Nella malattia in fase acuta la polpa è fluente, ricca di globuli rossi parassitati e di istiociti carichi di emazie distrutte, parassiti e pigmento emozoario. Nella fase di remissione i segni dell’iperattività fagica tendono a scomparire e cessano completamente con la guarigione della malattia. Se la malaria volge alla cronicità, la milza si ingrandisce progressivamente e può arrivare a pesare oltre 5 kg; la polpa bianca subisce processi di atrofia.
Frequente è l’anemia riferibile a sequestro splenico e ad incremento del volume plasmatico; normale, invece, la massa eritrocitaria anche quando si osserva una ridotta emivita delle emazie. Leucopenia e trombocitopenia non sono sempre presenti. E. Leishmaniosi (Kala-azar). Linfoadenomegalia (la milza pesa fino a 3 kg o più e aumenta di consistenza), splenomegalia, febbre, anemia, leucopenia caratterizzano sia la forma asiatica che quella mediterranea, come pure quella infantile di Kala-azar. La diagnosi si basa sulla dimostrazione del protozoo Leishmania Donovani nel midollo e nella milza: in questi organi le cellule fagocitarie appaiono ripiene di leishmanie. Ci sono poi altre infezioni quali la tripanosomiasi, l’istoplasmosi e la schistosomiasi che possono provocare splenomegalia. In particolare la schistosomiasi può presentare, per certi aspetti, alcune difficoltà di diagnosi differenziale con altre forme di splenomegalia, quali, per esempio, la sindrome bantiana (si veda oltre, Splenomegalia congestizia). Infatti, Schistosoma mansoni può interessare direttamente il fegato e provocare una reazione cronica granulomatosa, seguita col tempo da cicatrizzazione, fibrosi epatica e quindi ipertensione portale. F. Sarcoidosi. La sarcoidosi colpisce la milza in circa il 75% dei casi. Un interessamento diffuso e marcato può dare una splenomegalia superiore a 1000 g di peso. Istologicamente tutta la polpa splenica appare disseminata da granulomi che si trovano nei vari stadi di proliferazione cellulare, di fibrosi e di ialinizzazione. Pochi, tuttavia, sono i pazienti che manifestano trombocitopenia, anemia emolitica, neutropenia, pancitopenia. Evento raro è la rottura di milza.
Splenomegalia congestizia L’ingrandimento splenico dovuto ad aumento della pressione venosa splenica è frequente e può essere secondario a qualunque causa che provochi un’ostruzione venosa. Spesso è secondario a ipertensione portale dovuta a cause intra o extraepatiche, o a una trombosi della vena splenica. Alla fine del XIX secolo Banti descrisse una forma di splenomegalia che non era associata a leucemia,
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linfoma di Hodgkin, anemia emolitica, malaria, sifilide o altre malattie note. Banti stabilì tre criteri diagnostici a definizione di questa sindrome: una prima fase caratterizzata da pancitopenia, splenomegalia, episodi emorragici; una fase intermedia con epatomegalia, urobilinuria e modificazioni del colore della cute; una fase terminale di atrofia epatica e ascite. La milza si presentava aumentata di volume con notevole ispessimento della componente fibrosa. A differenza di Banti che pensava alla milza come sede primitiva del quadro, numerosi Autori, in tempi più recenti, hanno dimostrato l’associazione di questa sindrome con l’ipertensione portale. Questo ha condotto a negare l’esistenza della malattia di Banti come entità nosologica autonoma e a considerarla piuttosto come un particolare modo di presentazione di una varietà di condizioni morbose caratterizzate da ipertensione portale. Tra queste la più frequente è indubbiamente la cirrosi epatica e si può sospettare che se Banti descriveva la compromissione epatica solamente nella fase finale della malattia che porta il suo nome, questo dipendesse solamente dal fatto che, alla sua epoca, fossero difettosi i metodi diagnostici sensibili per accertare un’epatopatia cronica in fase precoce. Perciò la splenomegalia congestizia deve essere considerata una sindrome (quadro clinico provocato da cause varie) piuttosto che una malattia. A. Eziopatogenesi. Un ostacolo al deflusso venoso nel circolo della vena cava inferiore o in quello portale si ripercuote a livello splenico determinando un ristagno che può essere acuto e transitorio oppure di lunga durata. Una persistente congestione venosa della milza può quindi essere causata da un’ostruzione intraepatica al drenaggio venoso portale (cirrosi epatica), da processi ostruttivi a carico della vena porta o della vena splenica o può avere un’origine sistemica. La splenomegalia congestizia determina fondamentalmente un ipersplenismo ed essendo associata a ipertensione portale si accompagna frequentemente a episodi di emorragia da rottura di varici esofagee (pancitopenia ed emorragie descritte nella prima fase della malattia di Banti). Il fatto che sia causata spesso da cirrosi epatica spiega le alterazioni a carico del fegato descritte da Banti nella seconda e terza fase della malattia che porta il suo nome. B. Clinica e laboratorio. Se da un lato la sindrome di Banti come entità clinica a sé stante è stata largamente messa in dubbio, non così il concetto di splenomegalia congestizia. Colpisce soprattutto soggetti sotto i 35 anni di età (le donne due volte più spesso degli uomini), ma talvolta si verifica anche in età infantile. L’esordio, il più delle volte insidioso, può anche essere acuto, caratterizzato da ematemesi, feci picee, emorragie intestinali. Altre volte la sintomatologia è più sfumata: astenia, crampi addominali, flatulenza, diarrea, subittero, febbricola, talvolta epistassi. La milza si presenza notevolmente ingrandita, non così il fegato che si mantiene invariato o lievemente au-
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
mentato (il 33% dei casi). L’anemia dapprima modesta e normocromica normocitica, con la comparsa di ripetute emorragie diviene microcitica e ipocromica. È sempre presente leucopenia, che interessa soprattutto i granulociti. Anche le piastrine si presentano diminuite di numero, anche se (perlopiù) non tanto da influenzare il tempo di sanguinamento. C. Anatomia patologica. La congestione cronica causa un aumento di consistenza della milza, che presenta perisplenio ispessito e fibroso e può pesare 1000 g o più, specie nella stasi portale. Istologicamente si rileva la congestione e la dilatazione dei seni venosi, che hanno pareti ispessite per la fibrosi, e la ricca cellularità dei cordoni splenici rappresentata fondamentalmente da fibroblasti e cellule reticolo-endoteliali proliferate. In risposta ad uno stato di ipossia locale di lunga data si possono sviluppare anche focolai di ematopoiesi. D. Diagnosi. La diagnosi di splenomegalia congestizia presuppone l’esclusione di tutte quelle numerose condizioni responsabili di anemia, leucopenia e splenomegalia: anemie emolitiche, leucemie aleucemiche, talassemie e molte altre (Tab. 51.2). E. Decorso e prognosi. Il decorso è quello della malattia fondamentale. Nelle splenomegalie congestizie da occlusione vasale ed in assenza di epatopatia primitiva il decorso può essere sostanzialmente benigno e la situazione può restare stazionaria per molti anni. Nel caso che la malattia primitiva sia la cirrosi epatica è il decorso di quest’ultima che influenza in definitiva la prognosi. F. Cenni di terapia. Da un punto di vista terapeutico il problema principale è rappresentato dalle varici esofagee. Nel tentativo di ridurre l’ipertensione portale, una volta veniva praticata la splenectomia. Oggi, constatata l’inutilità e le possibili conseguenze dannose di un simile intervento, si preferisce ricorrere alla derivazione porta-cava o a procedure analoghe.
Splenomegalia iperplastica Il termine di splenomegalia iperplastica riflette una situazione di ipertrofia della milza secondaria a: a) eccessiva rimozione di cellule ematiche dal circolo, b) ematopoiesi extramidollare. È il caso di numerose forme di anemia (Tab. 51.2), di alcuni casi di porpora trombocitopenica come pure di alcuni soggetti che fanno largo uso di fenacetina. In quest’ultimo caso la splenomegalia, verosimilmente, è secondaria a emolisi marcata. Anche la splenomegalia che si accompagna a mielofibrosi, a policitemia o a anemia mieloftisica può venir classificata in questo gruppo. In genere si tratta di una splenomegalia varia-
bile (la milza pesa tra i 500 e i 1000 g) che, specialmente nella mielofibrosi, può assumere dimensioni notevoli e oltrepassare facilmente i 3-5 kg di peso. Restano infine da considerare due entità nosologiche di incerta determinazione: la splenomegalia idiopatica non tropicale e la sindrome splenomegalica tropicale (o sindrome della grande milza). I pazienti affetti da splenomegalia idiopatica non tropicale presentano un notevole aumento delle dimensioni spleniche, ipersplenismo e anamnesi negativa per esposizione alla malaria o ad altri parassiti. Il quadro clinico è variabile (astenia, febbricola, palpitazioni, ecc.), talvolta sono presenti ulcere al cavo orale e agli arti inferiori. Alcuni pazienti presentano un linfoma maligno ma il più delle volte il quadro è quello di un’iperplasia linfoide non neoplastica. Si è pensato ad un processo di tipo autoimmune ma i dati sono ancora incerti. La splenectomia sembra migliorare notevolmente le condizioni dei pazienti. Tuttavia, spesso, con intervallo di mesi o anni, nei soggetti splenectomizzati compare un linfoma. La diagnosi si fonda sul riscontro di splenomegalia massiva in assenza di altre cause possibili. La sindrome splenomegalica tropicale si evidenzia nelle aree dove la malattia è endemica, colpisce soprattutto gli adulti ed è caratterizzata da splenomegalia di dimensioni variabili, assenza di malaria in fase attiva, saltuaria febbricola, pancitopenia. La malaria sembra comunque rivestire un ruolo di particolare importanza nella patogenesi di questa sindrome. Si pensa infatti ad un’abnorme risposta immunologica ad antigeni circolanti, espressione di ripetute esposizioni al plasmodio malarico. Le IgM sieriche sono elevate e il loro livello decresce consensualmente alle dimensioni della milza e alla pancitopenia qualora venga intrapresa terapia antimalarica a lungo termine. La splenectomia si è rivelata utile solo in alcuni pazienti.
Splenomegalia infiltrativa Le tesaurismosi comprendono un gruppo di affezioni caratterizzate da un “ingorgo” dei lisosomi delle cellule del sistema RE con metaboliti non degradati a causa delle carenze geneticamente determinate di uno o più enzimi lisosomiali. Ci sono circa 30 enzimi attivi rispettivamente su carboidrati, proteine e lipidi. La milza, al pari del midollo e del fegato, presenta un alto contenuto di cellule RE che sono coinvolte nel processo di “smaltimento”. Di qui la possibilità di una cospicua splenomegalia in corso di tesaurismosi. A seconda del materiale che si accumula, le tesaurismosi vengono classificate come lipidosi, mucopolisaccaridosi, ecc. Due sono le forme di particolare interesse per quanto riguarda questo capitolo: la malattia di Niemann-Pick e la malattia di Gaucher, che si troveranno descritte nel capitolo 64.
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51 - MALATTIE DELLA MILZA
L’amiloidosi causa in genere una splenomegalia moderata; l’amiloide si deposita soprattutto nella polpa bianca e le zone interessate assumono un aspetto opaco, vitreo (milza sagù).
Cisti e neoplasie Un aumento di volume della milza può essere dovuto allo sviluppo di cisti epiteliali, endoteliali o da echinococco; pseudocisti emorragiche, sierose, infiammatorie o secondarie a colliquazione di aree infartuate. Le cisti di origine non parassitica interessanti la milza sono più frequenti nelle donne in età fertile. Una delle possibili spiegazioni sarebbe l’origine post traumatica. I tumori primitivi benigni e maligni della milza sono rari; entrambi possono provocare cospicue splenomegalie. I tumori benigni più frequenti sono i linfangiomi e gli emangiomi, spesso di tipo cavernoso. Talvolta si hanno localizzazioni primitive di linfomi Hodgkin o non Hodgkin, istiocitosi X o sarcomi molli della milza. Infine sono possibili, raramente, metastatizzazioni da carcinomi.
Metodi di indagine Una massa palpabile in ipocondrio sinistro sebbene sia nella gran parte dei casi un riscontro di pertinenza splenica (una milza ingrandita di volume, appunto) può tuttavia venir attribuita a patologie interessanti lo stomaco, il pancreas, le ovaie, il rene o altri processi tumorali (per es., retroperitoneali o della flessura splenica del colon). Al fine di meglio dirimere l’esatta natura della massa possono essere intrapresi alcuni passi diagnostici, quali un’ecografia addominale, un’urografia, una radiografia del tubo gastroenterico con mezzo di contrasto, una splenoportoradiografia, un’angiografia, una scintigrafia epatosplenica, una TC addominale. Utili, poi, le indagini eritro e trombocinetica con 51Cr al fine di documentare o meno l’entità della distruzione e/o sequestro di questi stipiti cellulari. Si tratta comunque di studi che raramente forniscono un indice accurato e predittivo dei risultati di un’eventuale splenectomia. Infine si ricorda la biopsia splenica, che comporta la possibilità di numerosi inconvenienti (primo fra tutti un’emorragia) e d’altra parte si è rivelata di una qualche utilità solo in alcune splenomegalie da parassiti (malaria e leishmaniosi) e in corso di tesaurismosi; va comunque eseguita in condizioni tali da poter intervenire con la splenectomia in caso di comparsa di emorragia inarrestabile.
Splenectomia Nonostante le attuali conoscenze circa le funzioni della milza siano largamente incomplete (si veda Cenni di fisiologia e fisiopatologia), il quadro clinico e l’esperienza medica costituiscono pur sempre un fondamento sul quale appoggiare una decisione pro o contro la splenectomia. In linea generale si può affermare che la splenectomia è indicata in tutti quei casi dove la milza esercita un ruolo
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distruttivo sulle cellule ematiche, mentre è inutile se non controindicata quando riveste un ruolo positivo nella ematopoiesi o nella risposta anticorpale. Soprattutto, la decisione dovrebbe fare riferimento alla gravità dell’anemia, alla presenza o meno di neutropenia e/o piastrinopenia, ed in alcuni casi alla valutazione della sopravvivenza eritrocitaria, del volume ematico e della massa eritrocitaria. La splenectomia comporta solitamente l’instaurarsi di: • complicanze cliniche immediate; • complicanze cliniche a lungo termine; • modificazioni più o meno permanenti del sangue periferico. Tra le complicanze immediate si devono ricordare fenomeni emorragici (soprattutto se il paziente giunge al momento dell’intervento gravemente piastrinopenico) e fenomeni tromboembolici, secondari soprattutto a trombocitosi postoperatoria e aggravati dalle possibili sepsi intercorrenti. Tra le complicanze a lungo termine si deve soprattutto segnalare la particolare suscettibilità di questi pazienti a contrarre gravi sepsi. Evenienza questa strettamente correlata all’età in cui si effettua la splenectomia: i bambini sotto i 5 anni di età manifestano in tal senso un rischio assai elevato. Per questo l’intervento andrebbe, quando possibile, differito all’adolescenza. L’aumentato rischio durante la prima infanzia è verosimilmente correlato alla generale immaturità del sistema linforeticolare, alla mancanza di esposizione a molti microrganismi e al fatto che la madre non trasmette al feto, attraverso la placenta, la frazione immunoglobulinica IgM. Verosimilmente, agenti quali lo pneumococco (responsabile del 50% delle infezioni in questi casi) in mancanza della milza e di un sistema reticolo-istiocitario efficiente raggiungono in breve una concentrazione così elevata da resistere ad una possibile risposta immunitaria. L’incidenza delle infezioni postsplenectomia varia poi in ragione dell’indicazione che ha reso necessario l’intervento. Per esempio è meno comune nei pazienti splenectomizzati per trauma o per sferocitosi ereditaria che non in quelli per malattie croniche come la talassemia. A questo proposito è stato suggerito che a seguito di un trauma alla milza, piccoli frammenti di tessuto splenico potrebbero “sedimentare” nel peritoneo e la loro secondaria ipertrofia potrebbe essere uno dei motivi della mancanza di sepsi nei pazienti che hanno dovuto subire una splenectomia per rottura. I pazienti splenectomizzati sono a rischio anche per infezioni da parassiti (soprattutto per la malaria). Le modificazioni ematologiche sono molteplici. Infatti dopo l’intervento compaiono in circolo cellule a bersaglio, acantociti (1), siderociti (2), rari eritroblasti. I GR diventano più sottili e presentano residui nucleari in forma di corpi di Howell-Jolly. (1) L’acantocita è un GR deformato, caratterizzato da estroflessioni protoplasmatiche di diverse dimensioni e forme, spaziate irregolarmente, che conferiscono alla cellula aspetto “spinoso”. (2) Si veda il capitolo 44.
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Queste alterazioni possono essere molto rare o ben evidenti. Compare usualmente anche una modesta reticolocitosi. Dopo splenectomia i GB raggiungono un massimo di 20-30 × 109/l nella prima settimana. Sono soprattutto i neutrofili a crescere di numero, più raramente e in misura minore salgono anche eosinofili e basofili. In un secondo tempo si assiste ad una graduale riduzione, anche se una certa neutrofilia può persistere per mesi o per anni.
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
In questo caso si osserverà anche una lieve linfocitosi e/o monocitosi. Di particolare interesse la trombocitosi che già a poche ore dall’intervento può raggiungere valori molto elevati (talvolta superiori a 1000 × 109/l). Il quadro si normalizza poi gradualmente anche se il 33% dei casi presenta piastrinosi permanente. La piastrinosi è particolarmente intensa e frequente quando, prima dell’intervento, sia presente anemia con midollo iperplastico.
C A P I T O L O
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DISORDINI DELL’EMOSTASI E DELL’EMOCOAGULAZIONE F. PELLÒ, C. RUGARLI
Cenni di fisiologia Si intende per emostasi il processo fisiologico deputato all’arresto delle emorragie spontanee o provocate da traumi o ferite. Questo processo comprende le seguenti tappe: a) contrazione del vaso sanguigno leso; b) adesione delle piastrine al collageno esposto al di sotto dell’endotelio leso; c) modificazione di forma delle piastrine che da discoidali diventano sferiche con protuberanze spinose e si aggregano tra loro, formando un primo tappo emostatico (trombo piastrinico); d) attivazione locale dei processi che, in ultima analisi, determinano la conversione del fibrinogeno in fibrina, la quale si deposita localmente sulla guida del trombo piastrinico; e) consolidamento del coagulo che così si è formato; f) rimodellamento (e infine dissoluzione) del coagulo in dipendenza dei processi di riparazione della lesione vascolare attraverso la digestione della fibrina. Si chiama emostasi primaria, o emostasi semplicemente, senza aggettivi, l’insieme delle prime tre tappe sopra ricordate. Si chiama emostasi secondaria, o emocoagulazione, ciò che avviene nella quarta e nella quinta tappa. Con il termine fibrinolisi si indica il processo finale di dissoluzione del coagulo. È molto importante ricordare, però, che i vari fenomeni elencati si influenzano vicendevolmente e la loro separazione schematica è utile solo per ragioni didattiche.
Emostasi primaria Si è visto che il primo evento che si verifica nella emostasi è una costrizione vascolare indotta da sostanze liberate dalle cellule endoteliali danneggiate e, in primo luogo, dalla endotelina-1 (Cap. 1). Questo processo sarebbe di scarsa utilità se non intervenissero le piastrine, con i processi successivi dell’adesione e dell’aggregazione. Entrambi questi processi dipendono da molecole di adesione presenti alla superficie delle piastrine, che,
per la maggior parte, fanno parte di una superfamiglia molecolare definita delle integrine (1). Alcune di queste molecole sono presenti in forma funzionale sulle piastrine circolanti: è il caso dell’integrina GPIa/GPIIb, detta anche VLA-2 (dove VLA sta per Very Late Lymphocyte-Activation Antigen, dato che questa ed altre integrine sono anche espresse alla superficie dei linfociti). La GPIa/GPIIb ha la capacità di legarsi al collageno ed è perciò funzionalmente inerte quando l’endotelio è integro, ma inizia l’adesione piastrinica al subendotelio quando il collageno è esposto come conseguenza di una lesione endoteliale. Anche altre molecole di adesione partecipano a questo processo legandosi a molecole presenti nel subendotelio, come la fibronectina e la laminina, ma il loro ruolo è meno importante. Questa adesione non sarebbe sufficiente a impedire la rimozione delle piastrine adese da parte della corrente sanguigna, se non partecipasse al processo un’altra molecola di adesione (che non è un’integrina), denominata GPIb. Questa ha la capacità di legare un fattore solubile chiamato, dal nome del suo scopritore, “fattore von Willebrand” (di cui si parlerà a lungo in seguito). Il fattore von Willebrand è presente nel plasma sanguigno, ma è anche molto abbondante alla superficie dei vasi, dato che è prodotto dalle cellule endoteliali, e può costituire un ponte tra la molecola GPIb delle piastrine e gli altri costituenti del subendotelio. Rappresenta perciò una specie di collante. Perché all’adesione possa seguire l’aggregazione occorre che le piastrine rendano funzionale un’altra molecola di adesione che possa collegarle l’una con l’altra, che è un’integrina chiamata GPIIb/GPIIIa, presente alla superficie di questi elementi in densità molto elevata (circa 50.000 per piastrina), tanto da rappresentare la (1) Le integrine sono composte da due catene peptidiche collegate da un legame non covalente, denominate e . Per questa ragione sono spesso indicate con due sigle separate da una barra. Esistono tre tipi di catene , ciascuno presente in più integrine. Tutte le integrine con una stessa catena (che differiscono ovviamente per la catena ) costituiscono una famiglia nell’ambito della superfamiglia.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
molecola di adesione espressa con densità massima su qualsiasi cellula. È chiaro che questa molecola non deve essere presente in forma attiva sulle piastrine circolanti a riposo, altrimenti la loro aggregazione avverrebbe indipendentemente dalle lesioni vascolari. È perciò certo che il suo sito di legame deve essere nascosto nelle piastrine a riposo e smascherato solamente dopo che la lesione ha messo in moto un processo di “attivazione” di cui si parlerà tra poco. La GPIIb/ GPIIIa ha affinità per varie molecole proteiche circolanti, tutte accomunate dal possedere lungo le loro catene peptidiche una o più volte il tripeptide arginina-glicina-acido aspartico, che costituisce il sito di legame. Tra queste molecole la più importante è il fibrinogeno, che stabilisce ponti tra la GPIIb/GPIIIa di differenti piastrine e così ne consente l’aggregazione (oltre al fibrinogeno, questa integrina può legare anche la fibronectina, la vitronectina e il fattore von Willebrand). Il requisito minimo dell’aggregazione piastrinica sta perciò nel rendere funzionale l’integrina GPIIb/GPIIIa, e la serie di meccanismi che conduce a questo risultato è della massima importanza. Una rappresentazione sintetica di alcuni processi che hanno luogo nell’attivazione piastrinica è schematizzata nella figura 52.1. Essi possono essere messi in moto da eventi esterni, come la liberazione di ADP da parte di cellule lese, o la stessa adesione delle piastrine al collageno, o l’influenza di sostanze presenti nell’ambiente come la
ADP
Epinefrina
Trombina
Adesione al collageno
epinefrina, eventualmente secreta in condizioni di stress, o la trombina, generata se si avvia il processo di emocoagulazione. È però importante ricordare che, una volta che questo processo di attivazione sia stato avviato, esso tende ad amplificarsi per effetto di modifiche che hanno luogo nelle piastrine stesse e che hanno il loro equivalente morfologico nella degranulazione di questi elementi e nelle loro modificazioni di forma. Sul piano biochimico gli eventi esterni che abbiamo ricordato agiscono attivando, alla superficie delle piastrine, gli enzimi fosfolipasi C (che idrolizza il fosfatidilinositolo) e fosfolipasi A2 (che idrolizza la fosfatidilcolina). Vengono perciò scissi i due principali fosfolipidi presenti nelle membrane cellulari e viene liberato acido arachidonico. Questo, nelle piastrine, è sottoposto all’azione sequenziale dei due enzimi ciclo-ossigenasi e trombossano-sintetasi, dando origine a trombossano A2. Questa sostanza si lega a un recettore e per effetto di tale interazione i siti attivi di legame del complesso GPIIb/GPIIIa vengono esposti alla superficie delle piastrine. Quest’ultimo processo è modulato da varie influenze. È inibito da alti livelli di adenosin-monofosfato ciclico (cAMP) all’interno delle piastrine, e perciò da tutte le sostanze che provocano questo effetto. È invece incrementato da sostanze come l’ADP, l’epinefrina, la trombina, il collageno (che abbiamo già visto fungono da agonisti nella liberazione di acido arachidonico) e da altre ancora, come la serotonina e il PAF (Platelet Activating Factor, una sostanza liberata nel corso di vari processi infiammatori). Oltre a consentire la formazione di trombossano A2, l’idrolisi dei fosfolipidi della membrana piastrinica comporta anche un’altra importante conseguenza (Fig. 52.2) (2). L’azione della fosfolipasi C sul fosfatidil-inositolo-4,5-difosfato, genera due mediatori, il diacil-gli-
Rilascio di acido arachidonico Fosfolipasi C Ciclo-ossigenasi
Fosfatidil-inositolo4,5-difosfato: PIP2
Trombossano-sintetasi
TXA2
Prostaciclina
Interazione con un recettore inibizione
stimolazione
cAMP
ADP Epinefrina Trombina Collageno PAF Serotonina
Esposizione di GPIIb/GPIIIa in forma attiva
Altre sostanze
Figura 52.1 - Fattori che influenzano l’attivazione delle piastrine. ADP = adenosin-difosfato; cAMP = adenosin-monofosfato ciclico; TXA2 = trombossano A2; PAF = Platelet Activating Factor.
Diacil-glicerolo: DAG
Inositolo trifosfato: IP3
Protein-chinasi C
Ingresso di Ca++ nel citosol
Fosforilazione di una proteina che regola la secrezione dei granuli piastrinici
Fosforilazione di catene leggere di miosina
Fig. 52.2 Conseguenze dell’idrolisi del fosfatidil-inositolo 4,5 difosfato nell’attivazione piastrinica. (2) La sequenza biochimica che è qui illustrata non è esclusiva delle piastrine, ma si può verificare in tutte le cellule suscettibili di un processo di attivazione. Per esempio, ha luogo nei mastociti dopo che un allergene ha legato due molecole di IgE alla loro superficie e conduce alla loro degranulazione.
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52 - DISORDINI DELL’EMOSTASI E DELL’EMOCOAGULAZIONE
Fosfolipidi Fosfolipasi Acido arachidonico Ciclo-ossigenasi Endoperossidi ciclici PGG2 + PGH2
Figura 52.3 - Schema semplificato del metabolismo dell’acido arachidonico per la formazione di trombossani e prostaciclina. TXA2 = trombossano A2; TXB2 = trombossano B2; PGI2 = prostaciclina; 6-keto PGF1 = 6-keto prostaglandina F1
Trombossanosintetasi
cerolo e l’inositolo trifosfato, che conducono alla fosforilazione di due substrati: uno è rappresentato da una proteina del peso molecolare di 47.000 D chiamata plekstrina, che regola la secrezione dei granuli piastrinici; il secondo è costituito dalle catene leggere di miosina che, interagendo con l’actina, provocano un accorciamento di queste strutture fibrillari e, conseguentemente, la modificazione di forma delle piastrine e la spremitura all’esterno delle sostanze contenute nei granuli (3). Tra queste sono compresi l’ADP e la serotonina, che attivano a loro volta altre piastrine ed accrescono il numero degli elementi coinvolti nell’aggregazione. Altri effetti che si verificano sono una vasocostrizione locale causata sempre dalla serotonina, un’inibizione della sintesi di prostaciclina (si veda in seguito) dovuta a un fattore chiamato -tromboglobulina, e la neutralizzazione dell’attività anticoagulante dell’eparina da parte di una sostanza chiamata “fattore piastrinico 4”. È interessante notare che anche le modificazioni di forma e la degranulazione delle piastrine sono influenzate dal trombossano A2, dato che piccole quantità di questa sostanza possono attivare la fosfolipasi C e stimolare anche la cascata di reazioni biochimiche che segue all’idrolisi del fosfatidil-inositolo-4,5-difosfato. Come si è visto, i metaboliti dell’acido arachidonico hanno un ruolo essenziale nell’attivazione delle piastrine, in quanto il trombossano A2 è coinvolto in tutti i processi che seguono all’attivazione piastrinica. Uno schema semplificato delle vie metaboliche dell’acido arachidonico che hanno rilevanza per l’emostasi è presentato nella figura 52.3. I composti che hanno la massima importanza sono il trombossano A2 che, come abbiamo detto, si forma nelle piastrine, e la prostaciclina (3) Le piastrine contengono tre tipi distinti di granuli, i granuli densi, gli -granuli e le vescicole. I granuli densi contengono ATP, ADP, serotonina, pirofosfato e calcio-ioni. Gli -granuli contengono il fattore piastrinico 4, la -tromboglobulina, il fattore di crescita derivato dalle piastrine, la fibronectina ed alcuni fattori della coagulazione, cioè il fattore V, il fattore VIII, il chininogeno ad alto peso molecolare, il fibrinogeno e il fattore von Willebrand. Le vescicole contengono parecchie idrolasi acide.
(instabile) TXA2 (stabile) TXB2
Prostaciclinasintetasi PGI2 (instabile) 6-keto-PGF1 (stabile)
(o PGI2), che invece è prodotta dalle cellule endoteliali per effetto di numerose perturbazioni chimiche e meccaniche. Tra le prime vi sono vari fattori umorali, tra i quali molte sostanze liberate nell’ambiente dai granuli delle piastrine; tra le seconde è importante fondamentalmente la pressione pulsatile esercitata dal sangue. Come si vede nella figura 52.1, il trombossano A2 e la prostaciclina esercitano effetti antagonisti, il primo favorendo e la seconda inibendo l’aggregazione piastrinica. A questo proposito è interessante discutere il ruolo dell’enzima ciclo-ossigenasi, dato che la sua inibizione (per es., con acido acetilsalicilico o aspirina) è correntemente impiegata in terapia medica allo scopo di inibire l’aggregazione piastrinica in condizioni cliniche che presentano tendenza a fenomeni trombotici. Teoricamente, l’inibizione della ciclo-ossigenasi dovrebbe condurre a un risultato nullo, dato che dovrebbe essere ridotta tanto la formazione del trombossano A2 nelle piastrine, che quella del suo antagonista, la prostaciclina, nelle pareti vascolari. Tuttavia le cose stanno diversamente. L’aspirina, infatti, inattiva irreversibilmente la ciclo-ossigenasi, mediante acetilazione di un residuo di serina nel suo sito attivo. Le piastrine, che sono frammenti cellulari e non hanno nucleo, non possono risintetizzare la ciclo-ossigenasi e restano menomate permanentemente. Perciò, perché cessi l’azione dell’acido acetilsalicilico sulle piastrine occorre il loro ricambio, e cioè che quelle sottoposte all’azione del farmaco muoiano e siano sostituite da piastrine neoformate (si ricorderà che la vita media delle piastrine è di 8-10 giorni). Le cellule endoteliali, invece, sintetizzano continuamente cicloossigenasi, e possono recuperare la loro capacità di sintetizzare la prostaciclina entro poche ore. Finora si è discusso l’argomento senza tenere conto delle influenze dietetiche. L’acido arachidonico è, infatti, presente abbondantemente nei fosfolipidi delle membrane cellulari, essendo fornito direttamente dalla carne oppure essendo derivato dall’acido linoleico dei vegetali la cui catena di atomi di carbonio è allungata a seguito di processi metabolici.
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Una situazione particolare si verifica, però, in coloro che mangiano molto pesce, nel cui grasso è abbondante l’acido eicosipentaenoico, un analogo dell’acido arachidonico con cinque doppi legami invece di quattro. In questi soggetti una significativa proporzione dei fosfolipidi delle membrane cellulari contiene acido eicosipentaenoico anziché acido arachidonico. L’acido eicosipentaenoico può essere liberato per effetto dell’azione delle fosfolipasi C e A2 ed indirizzato all’azione della ciclo-ossigenasi e della trombossano-sintetasi. I prodotti che ne derivano sono la PGI3, analogo della prostaciclina, e il trombossano A3, analogo del trombossano A2. Tuttavia, mentre la PGI3 è altrettanto potente della prostaciclina nell’inibire l’aggregazione piastrinica, il trombossano A3 è molto meno efficace del trombossano A2 nel promuoverla. Il mangiare molto pesce, o comunque l’assunzione di olio di pesce, si accompagna perciò a una ridotta tendenza all’aggregazione piastrinica. Questo spiega il fatto che la frequenza di infarto del miocardio è minore nelle popolazioni che consumano molto pesce come abitudine dietetica. Occorre tenere conto anche delle influenze farmacologiche, dato che i farmaci che agiscono sulla ciclo-ossigenasi sono comunemente impiegati anche come antiinfiammatori, principalmente in pazienti con dolori articolari. Esistono due ciclo-ossigenasi, quella costitutiva (COX-1) e quella inducibile (COX-2), che è prodotta in corso di processi infiammatori. L’aspirina e altri farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) agiscono su entrambe le ciclo-ossigenasi, con gli effetti dei quali si è già parlato. Sono stati introdotti nel commercio anche altri farmaci, che inibiscono solo la COX-2 e che sarebbero in grado di ostacolare la sintesi di prostaciclina senza influenzare la produzione di trombossano A2 generato nelle piastrine per effetto della COX-1. In teoria, perciò, questi farmaci dovrebbero avere un’attività protrombotica. In realtà, uno di questi farmaci è stato recentemente tolto dal commercio, proprio perché associato a un aumentato numero di morti per cause cardiovascolari.
Emocoagulazione Il componente fondamentale del coagulo è la fibrina, un reticolo proteico insolubile derivante da un precursore plasmatico solubile, il fibrinogeno. La conversione del fibrinogeno in fibrina è un processo che avviene con notevole rapidità ed efficienza. A questo risultato si giunge grazie all’attivazione approssimativamente sequenziale di una serie di fattori plasmatici (fattori della emocoagulazione). I componenti plasmatici, o “fattori emocoagulativi” sono numerati progressivamente dall’1 al 13, secondo una nomenclatura internazionale; ad essi si aggiungono due fattori di recente identificazione: la precallicreina ed il chininogeno ad alto peso molecolare (Tab. 52.1). I fattori della coagulazione sono di varia natura. Alcuni sono dei proenzimi (zimogeni) che, quando sono attivati, sono in grado di esplicare attività proteasica.
Tabella 52.1 - Fattori dell’emocoagulazione. Fattore Fattore Fattore Fattore Fattore Fattore Fattore Fattore
I II III IV V VI VII VIII
Fattore IX Fattore X Fattore XI Fattore XII Fattore XIII Precallicreina Chininogeno ad alto peso molecolare
Fibrinogeno Protrombina Fattore tissutale Ioni calcio Proaccelerina Fattore V attivato – Accelerina Proconvertina Fattore von Willebrand + globulina antiemofilica (1) PTC (Plasma Thromboplastin Component) – Fattore Christmas Fattore Stuart-Prower PTA (Plasma Thromboplastin Antecedent) Fattore Hageman Fattore stabilizzante la fibrina Fattore Fletcher Fattore Fitzgerald
(1) Gli eponimi accanto ad alcuni fattori derivano dal cognome o dal nome dei pazienti in cui è stato per la prima volta segnalato il deficit del fattore corrispondente. Fa eccezione il fattore von Willebrand che prende il nome dall’Autore che per primo ha descritto la malattia emorragica corrispondente.
Agendo “in cascata” queste proteasi possono notevolmente amplificare l’effetto complessivo, secondo una strategia sfruttata in natura anche per altri sistemi (per es., il complemento). Altri (l’VIII:C – globulina antiemofilica – e il V) sono cofattori che servono a mantenere in adeguato contatto un enzima con il relativo substrato. Perché questo avvenga occorrono fosfolipidi che costituiscono un’adatta superficie di reazione e ioni di calcio che favoriscono le interazioni tra enzimi, cofattori e questo tipo di superficie. Le piastrine, dopo la reazione di liberazione, offrono una superficie particolarmente adatta a processi di questo tipo. Anche microparticelle che si distaccano dalla superficie cellulare possono svolgere, sia pure meno bene, la stessa funzione. Il “fattore tissutale”, che è esso stesso un fosfolipide, può fungere tanto da cofattore quanto da superficie reattiva. I fattori della coagulazione II, VII, IX e X sono perfezionati nella loro costituzione dalla presenza della vitamina K. Il processo, che ha luogo nel fegato, consiste in una carbossilazione in posizione di residui di acido glutammico (si veda in seguito). Quando i fattori della coagulazione sono attivati vengono indicati con il rispettivo numero romano seguito da una a minuscola. Una situazione particolare è quella del fattore VIII. In realtà questo fattore è costituito da due entità collegate tra di loro. Una delle due, codificata nel cromosoma X, è detta anche “globulina antiemofilica” o fattore VIII:C e svolge un’importante funzione nel processo della coagulazione. La seconda, codificata in un cromosoma autosomico, è in realtà il fattore von Willebrand, della cui importanza nell’emostasi si è già detto. Le vie attraverso le quali può essere attivata l’emocoagulazione sono due. L’una, detta via intrinseca, è
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52 - DISORDINI DELL’EMOSTASI E DELL’EMOCOAGULAZIONE
SISTEMA INTRINSECO Contatto
HMWK PK
SISTEMA ESTRINSECO
Fattore tissutale Ca++
VIA COMUNE
VIlla* P Lipidi Ca++
Figura 52.4 - Schema generale dell’emocoagulazione. Le tappe riportate nei riquadri numerati corrispondono alle illustrazioni con lo stesso numero della figura 52.5. In questa e nella figura 52.5 le linee continue indicano processi di conversione e quelle tratteggiate le influenze catalitiche (i puntini indicano influenze che non rientrano nelle classiche vie intrinseca ed estrinseca). HMWK = chininogeno ad alto peso molecolare; PK = precallicreina.
messa in movimento dal contatto del sangue con superfici provviste di caratteri fisici differenti dalla superficie delle cellule endoteliali; è probabile che la caratteristica più importante a questo riguardo sia la dotazione di queste superfici di cariche elettriche negative. La seconda via, detta via estrinseca, è attivata ogni volta che, per effetto di una lesione qualsiasi dei tessuti, viene liberato nel plasma un cosiddetto “fattore tissutale” (fattore III). Entrambe le vie convergono in una via comune che inizia con l’attivazione del fattore X ed interessa gli stadi più avanzati del processo emocoagulativo; infatti il fattore X attivato (fattore Xa) forma un complesso con il fattore Va, il calcio ed i fosfolipidi per attivare la protrombina in trombina; questa, a sua volta, scinde il fibrinogeno in fibrina, successivamente stabilizzata dal fattore XIII (Fig. 52.4). È probabile che in vivo l’attivazione emocoagulativa sia sempre determinata dalla liberazione di fattore tissutale che, insieme al fattore VII, gioca un ruolo anche nella via intrinseca come proteasi attivante direttamente il fattore IX. Le reazioni contatto sarebbero pertanto di scarso rilievo in vivo, come dimostra la mancanza di diatesi emorragica nei pazienti carenti di fattori attivi nella fase di contatto.
Va* P Lipidi Ca++
Fn stabilizzata
* Sono attivati da IIa (trombina)
** Attiva VIII e V
Il sistema intrinseco può essere diviso in tre stadi: • l’attivazione da contatto; • l’attivazione del fattore IX; • la formazione del complesso fattore IXa + VIIIa + fosfolipidi + calcio che attiva il fattore X a Xa. Il termine “attivazione da contatto” indica propriamente un fenomeno che avviene in vitro: quando il plasma prelevato di fresco viene esposto ad una superficie caricata negativamente (vetro, caolino, celite) si sviluppa un’attività apparentemente proteolitica per cui alcuni fattori come la precallicreina, il fattore XII ed il fattore XI passano dalla fase di zimogeno a quella di proteasi; in questa fase è implicato anche il chininogeno ad alto peso molecolare che agisce come cofattore nell’accelerare l’attivazione dei tre fattori plasmatici citati (cofattore dell’attivazione da contatto). Le precise modalità di avvio dell’emocoagulazione in vivo non sono completamente chiarite; probabilmente l’attivazione da contatto è mediata dalle cellule endoteliali distrutte, in sede di lesione vascolare anche minima, e dalle fibre collagene sottoendoteliali, che funzionano da superficie estranea. Anche le piastrine attivate sono importanti a questo fine, in quanto la maggior
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
1
2
Xa PK
K
XIIa
XI
IXa
XIa
XIa
HMWK HMWK
X
IX
XII VIlla Ca++
Derivazione Influenze catalitiche
SUPERFICIE ESTRANEA Influenze catalitiche
Derivazione
4
3
TROMBINA
VIIa
VII
Ca++
IIa FT
Ca++
Xa
VIIa II
Xa
X Va Ca++
Ca++
Ca++ Derivazione Influenze catalitiche
Derivazione Influenze catalitiche
Figura 52.5 - Dettagli sul processo di emocoagulazione. I riquadri corrispondono a quelli della figura 52.4. K = callicreina; altre sigle come nella figura 52.4.
parte delle reazioni ha luogo alla superficie di una massa di piastrine aggregate che aderiscono alla sede della lesione dell’intima vascolare. Il punto essenziale per l’attivazione da contatto è la notevole tendenza posseduta dal fattore XII a legarsi ad una superficie e la sua grande suscettibilità a subire l’attivazione proteolitica da parte di varie proteasi, provocanti verosimilmente lo smascheramento del sito proteolitico. La figura 52.5 ① illustra un modello probabile del meccanismo di attivazione del fattore XII e XIIa. Il chininogeno ad alto peso molecolare (HMWK, High Molecular Weight Kininogen) aderisce alla lesione vasale. Dato che all’HMWK sono attaccati la precallicreina (PK) e il fattore XI, queste due proteine sono concentrate in prossimità del fattore XII che si viene attivando. La PK funge da fattore di amplificazione: è attivata dal fattore XIIa o lo attiva a sua volta. Il fattore XI funge da substrato del fattore XIIa. La callicreina ha parecchie altre funzioni correlate al sistema emocoagulativo-emostatico, in particolare è necessaria per l’espressione dell’attività fibrinolitica del plasma, in quanto può scindere il plasminogeno a pla-
smina e, sebbene essa non sia l’attivatore più efficiente del plasminogeno, è il solo attivatore riscontrabile nel plasma. Substrati della callicreina sono i chininogeni plasmatici, sia il chininogeno ad alto peso molecolare che quello a basso peso molecolare: da entrambi viene rilasciato il nonapeptide vasoattivo bradichinina, ad azione favorente la permeabilità vascolare, la contrazione dei muscoli lisci e l’attività chemiotattica dei leucociti. Il passaggio successivo inizia con l’attivazione del fattore IX ed esita nella conversione del fattore X a fattore Xa (Fig. 52.5 ②). In questo caso il fattore XIa + il calcio attivano il fattore IX a IXa e ciò si compie a mezzo di due scissioni proteolitiche del legame arginina-alanina e del legame arginina-valina; la superficie fosfolipidica per questa attivazione è fornita dalle piastrine attivate e quindi è probabile che l’interazione tra il fattore XI ed il fattore IX si abbia a livello della membrana piastrinica stessa, analogamente a quanto avviene per l’attivazione del fattore XI. Per un’efficiente attivazione del fattore X per la via intrinseca è necessaria la formazione di un complesso costituito da calcio, fosfolipidi, fattore VIII:C attivato
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52 - DISORDINI DELL’EMOSTASI E DELL’EMOCOAGULAZIONE
dalle prime tracce di trombina e fattore IXa (tromboplastina intrinseca) (4). Nel sistema estrinseco l’attivazione del fattore X è operata dal complesso fattore tissutale + fattore VIIa (tromboplastina estrinseca) in presenza di calcio (si veda nota (4)) (Fig. 52.5 ➂). Il fattore tissutale è un componente della membrana di parecchie cellule, tra cui endoteli e leucociti, non della membrana piastrinica; esso non è esposto direttamente; perché ciò avvenga occorre una “attivazione” delle cellule, probabilmente per una proteolisi; il semplice danno meccanico non è probabilmente sufficiente per l’esposizione del fattore tissutale, ma avvia semplicemente la proteolisi. Il fattore VII, presente nel plasma nella concentrazione più bassa tra tutti i fattori emocoagulativi noti, viene attivato da una proteolisi limitata in presenza di fattore tissutale; esso può anche essere attivato da alcuni fattori della via intrinseca e cooperare a sua volta ad attivarli. Il fattore X comunque attivato a fattore Xa inizia la via comune dell’emocoagulazione (Fig. 52.4). Infatti esso forma un complesso con il fattore Va, i fosfolipidi derivanti dalle piastrine (fattore piastrinico 3) ed il calcio, in grado di convertire la protrombina in trombina; la funzione del fattore Va consiste nel rendere la protrombina più accessibile alla scissione proteolitica da parte del f. Xa (Fig. 52.5 ➃). La protrombina è convertita in trombina mediante perdita del segmento di molecola amino-terminale deputato al legame con i lipidi; la trombina converte il fibrinogeno in fibrina. Entrambe queste vie di attivazione della coagulazione sono indispensabili. Tuttavia la carenza di alcuni fattori della via intrinseca (quelli che precedono l’attivazione del fattore IX) non comporta gravi problemi emorragici. Questo dipende dal fatto che esistono interazioni tra via estrinseca e via intrinseca. In particolare, il fattore VIIa può agire nella conversione del IX. Il fibrinogeno è una proteina dimera, di cui ciascuna metà è composta di tre diverse catene polipeptidiche designate A, B, e ; la trombina stacca un piccolo polipeptide, il fibrinopeptide A, costituito da 16 residui aminoacidici, dalla porzione N terminale della catena A, e successivamente un fibrinopeptide B, di 14 residui aminoacidici, dalla catena B. Le molecole di fibrinogeno così scisse, dette “monomeri fibrinici”, gelificano spontaneamente e si aggregano per dare origine a filamenti insolubili di fibrina; all’inizio gli aggregati di monomeri fibrinici sono uniti da legami deboli non covalenti, ma essi vengono poi (4) Attualmente si intende per “tromboplastina” il complesso di fattori direttamente attivanti il fattore X, per cui il complesso f. IXa + CA++ + fosfolipidi è la tromboplastina intrinseca; ed il complesso fattore tissutale + fattore VIIa è la tromboplastina estrinseca. Il termine tromboplastina, coniato da Howell nel 1912, era considerato sinonimo di estratto tissutale, che si ipotizzava potesse convertire direttamente la protrombina in trombina. In realtà il termine tromboplastina è ora poco utilizzato da parte degli Autori che si occupano di emocoagulazione, probabilmente a causa di questo possibile equivoco; poiché però esso ricorre in alcuni importanti test emocoagulativi, è opportuno precisarne il vero significato.
uniti saldamente per mezzo di legami covalenti indotti da un altro enzima plasmatico: il fattore stabilizzante la fibrina o fibrino-ligasi (f. XIII) attivato a sua volta dalla trombina. Come già detto a proposito dell’emostasi fisiologica, è necessario che le proteasi che via via si formano, una volta utilizzate per l’evento trombotico immediato, vengano neutralizzate, affinché non si abbia l’estensione del coagulo attraverso il sistema vascolare: i meccanismi di controllo disponibili a questo fine sono rappresentati sia da una inibizione di tipo feedback per cui ciascun prodotto attivo è in grado di limitare l’azione del rispettivo fattore (o complesso di fattori) attivante, sia dalla presenza nel plasma di inibitori naturali dell’emocoagulazione, di cui il più importante è l’antitrombina III (o cofattore eparinico). L’antitrombina III è una glicoproteina che forma un complesso stechiometrico strettamente equimolare con la trombina ed alcune altre esterasi seriniche, rendendole inattive. La sua azione è potenziata dall’eparina, che probabilmente opera una modificazione allosterica della trombina rendendola più suscettibile all’azione dell’antitrombina. L’antitrombina III è inoltre in grado di reagire con diversi altri fattori emocoagulativi come il f. Xa, XIa, XIIa e IXa, la callicreina e la plasmina; il deficit ereditario di antitrombina III predispone a manifestazioni tromboemboliche. Recentemente è stata isolata dal plasma umano una nuova glicoproteina ad azione inibente la trombina, con meccanismo eparina-dipendente; essa è distinta dall’antitrombina III ed è denominata cofattore eparinico II, che si ritiene sia attivato dal dermatan solfato.
Ruolo dell’endotelio nel controllo dell’emostasi L’endotelio ha un ruolo importante nel prevenire l’adesione e l’aggregazione piastrinica. Si è visto che questo avviene grazie alla produzione di prostaciclina, ma anche altre sostanze prodotte dall’endotelio, come l’ossido nitrico e il monossido di carbonio, hanno lo stesso effetto. Per di più, sulla parete delle cellule endoteliali è presente una molecola, denominata CD39, che è in realtà un enzima, ossia una ectonucleotidasi, che è in grado di degradare l’ADP rilasciato localmente dalle piastrine attivate, riportando le piastrine allo stato quiescente e contrastando il reclutamento di altre piastrine attivate. In stato di quiescenza l’endotelio è in grado di assicurare la fluidità del sangue per mezzo di un complesso meccanismo anticoagulante, mentre, in seguito ad una lesione anche minima della sua superficie, la cellula endoteliale costituisce un punto di aggancio per un processo di emocoagulazione localizzata, attraverso l’induzione coordinata di attività procoagulanti e la soppressione di meccanismi inibitori. Un punto chiave da sottolineare è che per l’avvio di questa emocoagulazione localizzata non si richiede necessariamente una lesione endoteliale importante (con
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messa a nudo del sottoendotelio e conseguente attivazione da contatto dei fattori emocoagulativi), ma la cellula endoteliale stessa, in stato di attivazione per una perturbazione anche lieve, rappresenta una specie di centrale metabolica in grado di avviare la reazione emostatica; in particolare è stato riconosciuto il ruolo essenziale della cellula endoteliale come focus per la formazione di trombina. In questa stessa sede l’attivazione del fattore X è mediata sia attraverso la via estrinseca, con espressione del fattore tissutale, sia attraverso la via intrinseca per un’interazione selettiva della cellula con il fattore IXa; perché si verifichi questo legame selettivo è necessaria la presenza di tutti i componenti della miscela di attivazione del fattore X, cioè dei fattori IXa, VIIIa e X. Come si è già accennato, a livello della superficie vascolare risultano operativi anche numerosi meccanismi anticoagulanti, tra i quali i più importanti sono la già citata produzione di prostaciclina (PGI2), ad attività antiaggregante piastrinica, e la generazione di proteina C. La proteina C è una glicoproteina la cui molecola, del peso di circa 62.000 D, è composta di una catena pesante e di una catena leggera contenente una regione con 11 residui di acido -carbossi-glutamico; essa è quindi vitamina K-dipendente. Circola nel plasma umano ad una concentrazione di circa 4 /ml; per svolgere l’attività anticoagulante deve venire attivata e l’unico attivatore fisiologico è la trombina. L’attivazione della proteina C a proteina C attivata ad opera della trombina procede molto lentamente, ma si è dimostrato che essa aumenta in modo esplosivo quando trombina e proteina C vengono perfuse attraverso il microcircolo di cuore di coniglio isolato: questo ha portato all’identificazione e all’isolamento di un cofattore proteico-endoteliale per l’attivazione della proteina C da parte della trombina; questo cofattore proteico è la trombomodulina. La trombomodulina purificata forma un complesso stechiometrico reversibile 1:1 con la trombina, amplificando l’attivazione della proteina C di circa 1000 volte in presenza di calcio; anche il fattore Va accelera l’attivazione della proteina C da parte della trombina, senza che sia necessaria la presenza del calcio. La proteina C priva dei residui di acido -carbossiglutamico viene attivata sulla superficie della cellula endoteliale in modo molto più lento di quanto non avvenga con la proteina C intatta e questo fa supporre che vi sia, oltre all’attivazione da parte della trombina, un altro meccanismo implicante un’interazione con la cellula endoteliale a mezzo del dominio contenente l’acido -carbossi-glutamico. La proteina C attivata esercita le sue proprietà anticoagulanti distruggendo proteoliticamente le attività coagulanti del fattore V e del fattore VIII; i cofattori attivati (Va e VIIIa) vengono distrutti più rapidamente dei pro-cofattori inattivi. L’azione della proteina C attivata può essere ulteriormente potenziata dall’interazione con un’altra proteina vitamina K-dipendente, la proteina S, e può anche subire un’inibizione da parte di un inibitore specifico. La proteina S è una proteina isolata dal plasma umano e bovino, contenente 10 residui di acido -carbossi-glu-
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tamico all’estremità aminoterminale della catena polipeptidica. La concentrazione plasmatica è di 35 /ml. La proteina S si lega al calcio e, in presenza di calcio, si lega ai fosfolipidi con affinità maggiore che non le altre proteine vitamina K-dipendenti. Essa non è una proteasi serinica. L’endotelio è in grado di fornire un’attività di cofattore che promuove la formazione del complesso proteina C-proteina S, funzionalmente attivo sulla superficie del vaso: un analogo complesso stechiometrico 1:1 tra proteina S e proteina C si forma alla superficie dei fosfolipidi. Il ruolo della proteina S è di accelerare l’inattivazione, indotta dalla proteina C attivata, del fattore Va plasmatico in presenza di calcio e di fosfolipidi, del fattore Va legato alle piastrine e del fattore VIII C purificato. L’inibitore della proteina C attiva è immunologicamente distinto dagli altri inibitori noti delle proteasi plasmatiche; la sua concentrazione nel plasma è di 5 /ml. Esso inibisce progressivamente l’attività proteolitica della proteina C attiva verso i fattori Va e VIIIa. In conclusione, è opportuno sottolineare i complessi rapporti esistenti tra parete vascolare, meccanismi favorenti l’emocoagulazione intravascolare e meccanismi in grado di limitarne l’entità e l’estensione. È noto che il sangue non coagula in vasi intatti e d’altra parte non si ha emorragia in assenza di lesione vascolare; in realtà, anche in condizioni normali non esiste l’assoluta integrità vascolare: i continui microtraumi determinano minime lesioni endoteliali in grado di innescare una coagulazione latente detta “fisiologica” in cui le varie fasi enzimatiche sono modulate da un gran numero di inibitori plasmatici e, in vivo, dalla rimozione da parte del fegato e del sistema reticolo-istiocitario dei fattori emocoagulativi attivati. L’emostasi fisiologica risulta quindi da un equilibrio tra attività dei meccanismi favorenti l’emocoagulazione intravascolare ed i sistemi ad essa antagonisti: lo spostamento dell’equilibrio nel senso di un aumento della potenzialità procoagulante o di una sua notevole riduzione ha importanti conseguenze patologiche, rispettivamente il formarsi di trombosi intravascolare o la comparsa di manifestazioni emorragiche cosiddette spontanee.
Fibrinolisi (*) La fibrinolisi comprende la serie di reazioni che hanno come evento terminale la dissoluzione in vivo del coagulo fibrinico; il processo avviene ad opera del sistema fibrinolitico consistente di parecchi fattori che promuovono, o inibiscono, la conversione di un enzima precursore, il plasminogeno, ad enzima attivo, la plasmina, in grado di digerire la fibrina e dare origine ai “prodotti di degradazione della fibrina” (Fig. 52.6). L’attivazione del plasminogeno è il processo di regolazione principale del sistema fibrinolitico; si distinguono tre differenti vie di attivazione, di cui la più importante è quella catalizzata dall’attivatore del plasmi(*) F. Pellò.
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52 - DISORDINI DELL’EMOSTASI E DELL’EMOCOAGULAZIONE
Attivatori Plasminogeno
Plasmina
Fibrina
Inibitori
Prodotti di degradazione
Figura 52.6 - Rappresentazione schematica del processo fibrinolitico.
nogeno di tipo tissutale (t-PA); essa è anche la via dove si verificano la maggior parte delle alterazioni note o sospette del sistema fibrinolitico. Il t-PA è secreto in circolo dalle cellule endoteliali e nei soggetti sani la sua concentrazione plasmatica oscilla tra 5 e 50 ng/ml; la maggior parte dell’antigene t-PA, determinato con metodica immunologica, si trova in forma legata con un inibitore, formando un complesso t-PA-inibitore. Specialmente negli ultimi anni si è dimostrata l’importanza di questo inibitore, detto inibitore ad azione rapida dell’attivatore del plasminogeno. La rapida reazione con il t-PA è probabilmente la ragione per cui questo inibitore è sfuggito a lungo al riconoscimento; esso origina da vari tessuti tra cui l’endotelio vascolare e il fegato; nelle piastrine è presente un inibitore immunologicamente correlato. L’attivatore tissutale del plasminogeno ed il suo inibitore sono presenti frequentemente nello stesso campione biologico e quindi probabilmente l’attività fibrinolitica netta stimata in un campione (plasma, elemento cellulare o estratto tissutale) è il risultato di un bilancio tra le attività opposte di queste molecole. Quindi gli agenti che alterano l’attività fibrinolitica possono interferire sul t-PA o sul suo inibitore. Una seconda via di attivazione del plasminogeno dipende dal fattore XII e questo costituisce un aspetto problematico del meccanismo emostatico. Il fattore XII, infatti, a causa della sua attività procoagulante in vitro, è classificato tra i fattori emocoagulativi, anche se non sembra essenziale per il fisiologico svolgersi del processo emocoagulativo in vivo perché, come si è già visto, il suo deficit non provoca malattia emorragica. D’altra parte i soggetti con deficit del fattore XII mancano di un meccanismo protettivo contro le malattie trombotiche perché il fattore XII, dopo la sua attivazione a fattore XIIa, converte la precallicreina in callicreina, che è un attivatore diretto del plasminogeno. Infine è stata riconosciuta una via di attivazione indipendente dal fattore XII, inibita dagli anticorpi antiurochinasi e nota come via correlata all’urochinasi, sostanza che è secreta dal rene. La streptochinasi è un materiale prodotto dagli streptococchi -emolitici del gruppo C che interagisce con
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il plasminogeno (o con la plasmina) per produrre un complesso molecolare 1:1 ad azione attivante il plasminogeno. Il plasminogeno è una -globulina del peso molecolare di 80-90.000 D, costituita da una catena polipeptidica singola; esso è prontamente scisso dagli attivatori del plasminogeno per formare la plasmina, una proteasi serinica con ampia specificità simil-tripsinica capace di digerire un gran numero di proteine, ivi incluse la fibrina, il fibrinogeno, i fattori V e VIII, la caseina, vari peptidi. La sua liberazione nel sangue circolante avrebbe effetti disastrosi, in quanto questo enzima sarebbe in grado di degradare il fibrinogeno presente nel plasma, se non fosse per il fatto che reagisce rapidamente con gli inibitori della plasmina in grado di neutralizzarla. Si sono riconosciuti vari inibitori della plasmina e precisamente: l’2-antiplasmina, l’2-macroglobulina, l’1-antitripsina, il C1 inattivatore, l’antitrombina III. L’2-antiplasmina è la più importante e la più attiva antiplasmina nota; essa inibisce, oltre alla plasmina, il fattore XIIa, il fattore XIa, la callicreina e la trombina, sia pure con attività minore. L’2-macroglobulina è capace di legare un gran numero di enzimi plasmatici, ivi incluse la trombina e la plasmina; questo inibitore agisce più lentamente dell’2-antiplasmina e probabilmente ha la funzione di neutralizzare solo la quota di plasmina eccedente la capacità inattivante dell’2-antiplasmina. L’1-antitripsina ha scarsa importanza come inibitore della plasmina. Il C1 inattivatore, oltre ad inibire la plasmina, inibisce i fattori XIIa, XIa e la callicreina e quindi influenza la fibrinolisi ad un livello più precoce della formazione della plasmina, in quanto, per mezzo dell’inibizione del fattore XII e della callicreina, impedisce la formazione dell’attivatore intrinseco del plasminogeno, contatto-dipendente. L’antitrombina III, oltre a possedere attività di cofattore eparinico ed attività antitrombinica, inibisce la plasmina in modo progressivo, formando con l’enzima un complesso equimolare indissociabile. In condizioni normali non si rileva mai plasmina libera in circolo; infatti l’azione della plasmina si svolge in modo elettivo a livello del coagulo fibrinico per adsorbimento preferenziale degli agenti fibrinolitici sulla fibrina formata, mentre ogni traccia di plasmina che diffonde in circolo dalla zona di attività viene rapidamente neutralizzata dagli inibitori, in primo luogo dall’2-antiplasmina. In particolare, la fibrina già formata o in via di formazione è in grado di adsorbire non solo il plasminogeno ma anche alcuni dei suoi attivatori; la plasmina che diffonde dai cordoni di fibrina libera probabilmente i suoi siti di legame lisinici e così si rende suscettibile all’inibizione da parte dell’2-antiplasmina circolante. In questo modo la fibrinolisi è limitata ai depositi solidi di fibrina e non si verificano la generazione e la liberazione in circolo di plasmina attiva, con le relative gravi conseguenze proteolitiche. La digestione della fibrina (ed anche del fibrinogeno) da parte della plasmina ha come risultato la for-
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
mazione di una serie di prodotti di degradazione (FDP, Fibrinogen o Fibrin-Degradation Products): inizialmente si forma un grande frammento (frammento X) più tre piccoli frammenti (A, B, C); il frammento X è poi distrutto per formare frammento Y + frammento D; il frammento Y viene digerito per formare ulteriore frammento D + frammento E. È stato sviluppato un test ELISA per dosare un prodotto di degradazione della fibrina definito D-dimero. Questo test è utile per la sua praticità, ma è poco specifico in quanto dà valori elevati in pazienti con fenomeni trombotici seguiti da trombolisi endogena, ma anche praticamente in molte altre malattie sistemiche. Questi prodotti di degradazione del fibrinogeno e della fibrina sono grandi polipeptidi che interferiscono con l’emostasi secondaria sia perché competono con l’azione della trombina e ne inibiscono parzialmente l’attività coagulante il fibrinogeno, sia perché rallentano la polimerizzazione della fibrina determinando la formazione di coaguli lassi e strutturalmente anomali.
GENERALITÀ CLINICHE (*) Con la definizione di malattie o sindromi emorragiche si intende un gruppo di forme morbose diverse per eziologia, patogenesi, epidemiologia ed incidenza che hanno appunto in comune il sintomo costituito dalla presenza di manifestazioni emorragiche, solitamente diffuse o per lo meno pluristazionali. Una prima distinzione riguarda le sindromi emorragiche a prevalente difetto dell’emostasi primaria (malattie dell’emostasi in senso stretto) e quelle in cui il deficit è soprattutto a carico dell’emostasi secondaria, per anomalie del processo emocoagulativo. Le prime sono essenzialmente costituite da alterazioni quantitative e/o qualitative delle piastrine e, in misura minore, da alterazioni della parete vasale; sono per lo più forme acquisite secondarie, raramente idiopatiche, molto raramente congenite. Le sindromi emorragiche dipendenti da una difettosa emostasi secondaria comprendono forme congenite, dovute a deficit di uno (o più) dei fattori emocoagulativi plasmatici, in particolare di quelli implicati nella via di attivazione intrinseca del fattore X. L’esame clinico del paziente (anamnesi familiare e personale ed esame obiettivo) è premessa indispensabile per formulare un’ipotesi diagnostica orientativa di malattia emorragica dell’uno o dell’altro gruppo: in un secondo tempo l’ipotesi sarà verificata con gli opportuni esami di laboratorio. Le coagulopatie congenite hanno spesso, anche se non obbligatoriamente, anamnesi familiare positiva per manifestazioni emorragiche dello stesso tipo di quelle del paziente, anche se di gravità talvolta diversa. Se le emorragie interessano gli ascendenti e collaterali solo di sesso maschile, la diagnosi è limitata alle sindromi emofiliche A e B. Nelle coagulopatie congenite le (*) F. Pellò.
emorragie compaiono per lo più nella prima infanzia, sia spontaneamente che in occasione di microtraumi o interventi chirurgici di piccola entità; tuttavia, come verrà esposto a proposito delle singole forme morbose, l’anamnesi familiare e personale negativa non esclude di per sé la presenza di una coagulopatia congenita, poiché la frequenza e la gravità delle emorragie sono proporzionali all’entità del deficit del fattore carente; un paziente con deficit di grado lieve può non avere mai presentato un’occasione emorragica, ossia non avere mai subito traumi o interventi chirurgici importanti: il rischio emorragico però sussiste se questa occasione dovesse verificarsi (5). Le malattie emorragiche acquisite idiopatiche, tipicamente la porpora trombocitopenica idiopatica cronica, hanno anamnesi familiare negativa, l’età di insorgenza varia dall’infanzia al 2°-3° decennio, colpiscono entrambi i sessi con una certa preferenza per il sesso femminile. Infine, le sindromi emorragiche acquisite secondarie ad epatopatie croniche, malattie del collageno, in particolare lupus eritematoso, malattie mielo e linfoproliferative, somministrazione di farmaci, ecc., non hanno incidenza preferenziale per sesso ed età, talvolta rappresentano l’evento iniziale o di maggiore gravità della malattia, più spesso costituiscono una sindrome di accompagnamento nel quadro clinico conclamato di un’altra forma morbosa. Il tipo di manifestazioni emorragiche è caratteristico per i deficit dell’emostasi primaria e per quelli dell’emostasi secondaria; nel primo caso la carente formazione del tappo emostatico a livello dei vasi di piccolo calibro (arteriole, capillari, piccole vene) dà luogo alla formazione delle petecchie, cioè di stravasi emorragici di piccole dimensioni a livello della cute e delle mucose; le petecchie disseminate costituiscono la porpora; quando le suffusioni emorragiche hanno dimensioni maggiori si hanno ecchimosi ed ematomi sottocutanei. In caso di deficit dell’emostasi secondaria, indispensabile per l’arresto delle emorragie a livello di vasi di calibro maggiore, come si è visto si forma regolarmente il tappo emostatico ma esso non viene consolidato dalla formazione di fibrina: le manifestazioni emorragiche sono costituite da ematomi profondi, cioè raccolte ematiche a livello di tessuti profondi, in particolare le articolazioni (emartri) ed i muscoli, negli spazi compresi tra le fasce; da ecchimosi grandi e solitarie; da emorragie ritardate e recidivanti (Tab. 52.2). Una circostanza notevole è rappresentata dalla constatazione che mentre i pazienti con deficit anche non molto gravi di fattori VIII e IX possono avere emorragie importanti, i pazienti con gravi deficit di fattore Fletcher o di fattore Fitzgerald non presentano manifestazioni emorragiche ed i pazienti carenti di fattore XII (5) A questo proposito vale la pena di ricordare che uno screening emocoagulativo completo è superfluo in un paziente con anamnesi negativa per emorragie che deve sottoporsi ad un intervento chirurgico modesto, per esempio un’estrazione dentaria: se invece lo stesso paziente deve subire un intervento di chirurgia “maggiore”, vanno comunque eseguiti un APTT ed una conta delle piastrine.
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52 - DISORDINI DELL’EMOSTASI E DELL’EMOCOAGULAZIONE
Tabella 52.2 - Tipo e localizzazioni preferenziali delle manifestazioni emorragiche nei disturbi dell’emostasi e dell’emocoagulazione. TIPO DI EMORRAGIA
DISTURBI DELLA DISTURBI DELLA EMOSTASI COAGULAZIONE
Petecchie Sì Ecchimosi Piccole, multiple Emorragie da lesioni Sì superficiali Emartri No Ematomi profondi No Emorragie ritardate No
No Grandi, solitarie No Sì Sì Sì
le presentano solo occasionalmente; i pazienti con deficit di fattore XI hanno una condizione clinica intermedia. I deficit dei fattori IX o VIII, come si è detto, danno luogo ad una coagulazione rallentata ed incompleta cioè ad una grave alterazione dell’emostasi secondaria con le relative conseguenze emorragiche.
DISORDINI DELL’EMOSTASI (*) Metodi di studio A. Prova del laccio. Si provoca, grazie all’impiego del manicotto di uno sfigmomanometro applicato per 5 min ad una pressione intermedia tra la pressione arteriosa massima e minima, un incremento della pressione a livello venoso e capillare allo scopo di valutare la presenza o meno di fragilità capillare. Il grado di positività più lieve è dato dalla comparsa di alcune petecchie nel cavo del gomito. Il grado è più grave quando le petecchie si estendono alla faccia volare dell’avambraccio, a quella dorsale e alla mano. Si tratta comunque di una prova scarsamente attendibile per la sua grossolanità. B. Tempo di emorragia (o di sanguinamento). Il tempo di emorragia viene determinato effettuando una incisione superficiale accuratamente misurata sulla cute dell’avambraccio. Pungendo senza premere compare una goccia di sangue che viene asciugata con carta bibula ogni 15 sec, registrando infine il tempo che occorre perché l’emorragia cessi completamente. Questo test risulta sicuramente più sensibile e più riproducibile se viene eseguito secondo la tecnica proposta da Ivy et al., basata sulla standardizzazione sia della pressione a livello capillare che della profondità e lunghezza del taglio. Il tempo di emorragia risulta allungato nelle porpore vascolari, nelle trombocitopenie (piastrine inferiori a 100 × 109/l) e nelle trombocitopatie, nella gran parte dei casi di malattia di von Willebrand, come pure nell’afibrinogenemia ereditaria e occasionalmente in alcu(*) G. Gromo.
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ni gravi disturbi della coagulazione. I valori normali sono compresi tra 1 e 9 min, ma devono essere stabiliti per ciascun laboratorio. La prova di tolleranza all’acido acetilsalicilico prende in considerazione l’effetto di 1 g di aspirina sul tempo di emorragia a 2 ore dalla somministrazione del farmaco. Questo metodo sarebbe utile per individuare i pazienti affetti da modesto deficit di fattore von Willebrand o da un grave deficit dei fattori VIII e IX. Ma non sembra esserci accordo tra i diversi Autori a questo proposito. C. Conta delle piastrine. Il conteggio delle piastrine si effettua al microscopio a contrasto di fase rovesciato (diluendo il sangue con una soluzione di una sostanza tipo ossalato di ammonio che lisa gli eritrociti) o avvalendosi degli opportuni contatori elettronici (Coulter Counter). Ma il numero delle piastrine può anche essere stimato nella parte più sottile di uno striscio di sangue ben eseguito, calcolando il numero medio delle piastrine presenti in 10 campi ad immersione (ciascuno dei quali deve contenere circa 200 emazie non sovrapposte) e moltiplicando quel numero per 20.000 (piastrine/l). Si può affermare con una certa approssimazione che non si verificano manifestazioni emorragiche cliniche, spontanee o post traumatiche, fino a che il numero delle piastrine si mantiene superiore a 50.000/l. In ogni caso è indispensabile osservare l’aspetto delle piastrine su di uno striscio colorato con MayGrünwald-Giemsa. Appaiono di forma ovalare, con un diametro medio di 2-5 m, per lo più aggregate (da 3 a 35 elementi). Di particolare interesse è poi la ricerca di megatrombociti (piastrine con diametro che raggiunge 10-20 m). Esiste infatti una buona correlazione tra questi ultimi e l’attività piastrinopoietica dei megacariociti. Infine si possono riscontrare anomalie della forma e della grandezza delle piastrine di una tale entità che in alcune patologie assumono un aspetto linfocitosimile (sindrome delle piastrine giganti). D. Adesività piastrinica. La capacità da parte delle piastrine di aderire a superfici estranee può essere valutata con diversi metodi. Tra questi, il test classico proposto da Hellem si avvale della determinazione del numero delle piastrine prima e dopo passaggio del sangue (eparinato o no) attraverso una colonna standardizzata di palline di vetro, ad una velocità costante. Il test risulta di difficile valutazione perché largamente influenzato dal tipo di materiale impiegato nella colonna, come pure dalla manipolazione delle sfere di vetro. Inoltre è da considerare un test non specifico, in quanto misura in modo abbastanza grossolano la fase primaria dell’emostasi in cui sono implicati sia le piastrine che fattori plasmatici, quali il fattore von Willebrand, come si è già visto; sostanzialmente questo test ha lo stesso significato del tempo di emorragia. Poiché attualmente sono disponibili metodiche molto sensibili per esplorare i deficit specifici delle varie funzioni piastriniche, il test di Hellem è praticamente abbandonato.
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E. Aggregazione piastrinica – reazione di liberazione. La formazione di aggregati piastrinici modifica le caratteristiche fisiche del plasma in cui le piastrine stesse sono sospese, mentre la concomitante reazione di liberazione di specifici costituenti piastrinici è più precisamente valutata con il dosaggio, nel plasma, delle sostanze secrete. La tendenza delle piastrine ad aggregarsi può essere valutata in vitro sia sul plasma semplicemente sottoposto ad agitazione meccanica sia dopo aggiunta di agenti proaggreganti, in primo luogo ADP (acido adenosindifosforico), epinefrina, collageno ed arachidonato. La metodica più semplice è un adattamento della tecnica turbidimetrica e consiste nella misura continua delle modificazioni di densità ottica di un campione di plasma ricco in piastrine: quando le piastrine si aggregano la densità ottica diminuisce e quando gli aggregati si disperdono la densità ottica aumenta. Tali variazioni, registrate graficamente, permettono di ottenere tracciati di aggregazione dai quali si desumono alcuni indici, quali il tempo di reazione (massima variazione della densità ottica nell’unità di tempo) e il tempo di latenza, dopo aggiunta di collageno. Determinate concentrazioni di ADP provocano la comparsa di una curva di aggregazione bifasica: la seconda fase è verosimilmente dovuta a formazione di trombossano e successiva liberazione del contenuto dei granuli intrapiastrinici (reazione di liberazione); quindi la presenza di una seconda curva di aggregazione dopo stimolazione con ADP viene ritenuta una prova indiretta di attivazione della via dell’arachidonato. La reazione di liberazione è misurata solo indirettamente dalla valutazione spettrofotometrica prima citata ed invece più precisamente mediante il dosaggio di fattori normalmente contenuti nei tre tipi di granuli piastrinici che, come si è già detto, vengono secreti nel plasma durante la reazione di liberazione. Metodiche radioimmunologiche molto sensibili sono in grado di misurare i livelli plasmatici di alcuni costituenti degli -granuli, come -tromboglobulina e fattore piastrinico IV, e dei granuli densi, tipicamente la serotonina. Va però sottolineato che i risultati di questi dosaggi variano sensibilmente in dipendenza del tipo di anticoagulante utilizzato, del tipo e della concentrazione della sostanza proaggregante, della fase di malattia in cui il test viene eseguito per cui, in conclusione, non pare che essi forniscano informazioni di maggior significato clinico rispetto al test di aggregazione piastrinica, tranne in rare situazioni di piastrinopatia congenita.
fattore von Willebrand. La sua proprietà di agglutinare le piastrine in presenza di ristocetina viene attribuita al fatto che la ristocetina, molecola di carica positiva, diminuendo la carica negativa delle piastrine ne riduce la repulsione elettrostatica e permette che il fattore von Willebrand possa agire come un ponte effettivo di connessione tra le piastrine stesse. La reazione mediata dalla ristocetina richiede non solo il fattore von Willebrand ma anche un costituente della membrana piastrinica, la già ricordata glicoproteina Ib; anche le glicoproteine GPIIb/IIIa funzionano da recettore per il fattore von Willebrand. Il test in vitro più usato per il fattore von Willebrand è appunto la misura dell’agglutinazione piastrinica in presenza di ristocetina: si è infatti osservata una buona correlazione tra difetto emostatico, cioè allungamento del tempo di emorragia, e ridotta attività del cofattore ristocetinico.
F. Agglutinazione delle piastrine in presenza di ristocetina. La ristocetina è un antibiotico che, casualmente, è stato riconosciuto capace di agglutinare le piastrine. L’agglutinazione è diversa dall’aggregazione: infatti, la seconda è un processo attivo che implica la reazione di liberazione, mentre l’agglutinazione è un processo passivo, tanto è vero che viene studiata su piastrine fissate in formalina. Il punto importante è che l’agglutinazione delle piastrine in presenza di ristocetina necessita della presenza nel plasma del
Piastrinopenie
G. Retrazione del coagulo. Quando il sangue normale coagula in una provetta di vetro, le piastrine e la rete di fibrina sono uniformemente distribuite, ma entro un’ora il coagulo si retrae fino a circa la metà del suo volume originale. Questo processo verosimilmente è dovuto alla contrazione degli pseudopodi piastrinici attaccati agli intrecci di fibrina. La retrazione del coagulo è ridotta quando il numero delle piastrine è inferiore a 50 × 109/l e assente nella tromboastenia. È viceversa normale nella gran parte delle patologie che riguardano le piastrine. H. Sopravvivenza piastrinica. Lo studio della sopravvivenza piastrinica mediante l’uso di piastrine marcate ha permesso di indagare con maggior precisione le trombocitopenie. Sono stati impiegati diversi isotopi radioattivi per marcare le piastrine: 32P, 35Sodio solfato, 14C serotonina, 75S metionina. Oggi si preferisce ricorrere al 51Cr-sodio-cromato. Non appena marcate, le piastrine autologhe e/o da donatore compatibile vengono iniettate al paziente e successivamente, a intervalli prestabiliti, si prelevano alcuni campioni di sangue dei quali si misura la radioattività. Contemporaneamente si eseguono conteggi di superficie in alcune sedi quali cuore, milza, fegato, polmoni, ecc. La sopravvivenza media normale è pari a 10 giorni, con valori limite di 7-13 giorni. Sono assai numerose le cause di una ridotta emivita: malattia di Glanzmann, di Bernard-Soulier, trombocitopenie acute di natura immunologica.
La piastrinopenia (o trombocitopenia) può essere definita come la presenza di un numero di piastrine circolanti abnormemente basso; essa rappresenta la causa più comune di sanguinamento e poiché l’organismo è in grado di tollerare una diminuzione anche spiccata del numero delle piastrine, fatti emorragici si osservano per lo più quando esse sono inferiori a 50 × 109/l; non è tuttavia raro trovare pazienti con valori di piastrine
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anche molto più bassi (5-10 × 109/l), del tutto asintomatici. I processi responsabili di una piastrinopenia sono quattro (Tab. 52.3): • • • •
difetto di produzione; difetto di maturazione; alterata distribuzione; accelerata distruzione.
A. Un difetto di produzione è di comune riscontro in corso di anemia aplastica, di emoglobinuria parossistica notturna, di mieloftisi (sostituzione del midollo da parte di tessuto neoplastico). B. Un difetto di maturazione è caratteristico di alcune anemie megaloblastiche (carenza di folati e/o vitamina B12) e di alcune alterazioni piastriniche ereditarie, accompagnate o meno da piastrinopenia, caratterizzate da piastrine più grandi (sindrome di May-Hegglin) o più piccole (sindrome di Wiskott-Aldrich) della norma e spesso da megacariocitopoiesi inefficace. C. Un’alterata distribuzione del pool piastrinico è di frequente associata all’ipersplenismo, in cui la produzione di piastrine è normale ma la gran parte di esse viene sequestrata nella polpa rossa. Tabella 52.3 - Cause di trombocitopenia. Difetto di produzione • Diminuzione del numero dei megacariociti midollari – Infiltrazione midollare (neoplasie, malattie mielo e linfoproliferative) – Ipoplasia midollare (radiazioni, insetticidi, sostanze chimiche, farmaci, virus, alcool, idiopatica) – Congenita (malattia di Fanconi, trombocitopenia autosomica recessiva, trombocitopenia ciclica, rosolia congenita) Difetto di maturazione • Trombocitopoiesi inefficace (megacariociti normali o aumentati) – Ereditaria (trombocitopenia autosomica dominante, anomalia di May-Hegglin, sindrome di WiskottAldrich) – Anemie megaloblastiche, sindromi mielodisplastiche Alterata distribuzione – Ipersplenismo – Patologie associate a splenomegalia Accelerata distruzione • Diminuzione del numero delle piastrine circolanti – Porpora trombocitopenica idiopatica – Porpora trombocitopenica da farmaci – Porpora post-trasfusionale – Porpora isoimmune neonatale – Porpora secondaria immunologica – Microangiopatia trombotica – Coagulazione intravascolare disseminata (DIC) – Emangioma cavernoso – Infezioni acute
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D. Nella maggior parte dei casi la piastrinopenia è secondaria ad un processo di accelerata distruzione da causa intracorpuscolare, extracorpuscolare o mista. I difetti intracorpuscolari, rari, sono rappresentati dalle già citate anomalie ereditarie di forma e dimensioni delle piastrine; in questi casi l’emivita delle piastrine patologiche è diminuita sia nel paziente stesso che dopo che esse siano state trasfuse in un individuo sano. La distruzione delle piastrine da causa extracorpuscolare avviene: • per meccanismo immunologico realizzante una situazione analoga alle anemie emolitiche autoimmuni; • per eccessivo consumo in corso della coagulopatia da coagulazione intravascolare disseminata (DIC) (si veda oltre); • per formazione di trombi piastrinici diffusi nel microcircolo nel quadro della porpora trombotica trombocitopenica. Infine va sottolineato che i quattro meccanismi di piastrinopenia elencati ricorrono spesso in varia associazione tra loro: per esempio, piastrine funzionalmente anomale per difetto maturativo vanno incontro a precoce distruzione; le malattie mielo e linfoproliferative con mieloftisi da sostituzione midollare ed eventuale splenomegalia provocano piastrinopenia per un difetto di produzione midollare, ma anche per alterata distribuzione da sequestro splenico con conseguente eccessiva distruzione. Le piastrinopenie dovute ai primi tre meccanismi patogenetici ricordati fanno parte del quadro di malattie nosograficamente ben definite, di cui costituiscono un sintomo, talvolta preminente; fanno eccezione i rari casi di anomalie piastriniche ereditarie. La genesi della piastrinopenia nella maggior parte dei casi riconosce un’aumentata distruzione da causa extracorpuscolare; in questo gruppo verranno trattate per esteso le piastrinopenie da cause immunologiche; la DIC verrà descritta in un apposito capitolo; infine verrà fatto un cenno alla porpora trombotica trombocitopenica e alla sindrome emolitico-uremica. Piastrinopenie da causa immunologica Sono determinate dalla presenza di autoanticorpi diretti contro antigeni piastrinici (è il caso della porpora trombocitopenica idiopatica e della trombocitopenia in corso di lupus eritematoso sistemico, leucemia linfatica cronica, linfomi o anemia emolitica autoimmune) oppure di alloanticorpi quali si possono sviluppare in corso di gravidanza o di emotrasfusioni. Le piastrine, infatti, a differenza dei globuli rossi, posseggono alla loro superficie gli antigeni di istocompatibilità del sistema HLA; questo può determinare, per esempio, l’incompatibilità materno-fetale: la madre, cioè, elabora anticorpi contro le piastrine del feto che presentino antigeni HLA paterni. Anche i farmaci (per es., chinidina, chinino, sulfamidici, ecc.) possono provocare trombocitopenia con un meccanismo analogo a quanto già osservato nelle anemie emolitiche da anticorpi caldi incompleti. Il farmaco, infatti, si lega inizialmente ad una proteina plasmatica vettrice formando un antigene primario; questo in-
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duce la produzione di anticorpi che in un secondo tempo reagiscono specificamente con il farmaco, anche in assenza della proteina vettrice. L’immunocomplesso così formatosi si lega alle piastrine, fissa il complemento e ne provoca la lisi intravascolare o l’aggregazione e la fagocitosi da parte delle cellule del sistema reticolo-endoteliale splenico: in questo caso le piastrine si comportano quindi come “astanti innocenti”. Porpora trombocitopenica idiopatica (morbo di Werlhof) Con la definizione di porpora trombocitopenica idiopatica (PTI) si intende una riduzione del numero delle piastrine circolanti in assenza di un fattore eziologico noto. La presenza, poi, di un numero normale o aumentato di megacariociti nel midollo è considerata un criterio diagnostico aggiuntivo. Nonostante oggi sia possibile documentare la presenza di autoanticorpi antipiastrine nella gran parte dei casi di PTI, purtuttavia la diagnosi di PTI rimane di esclusione. Esistono due forme di PTI, l’una acuta e l’altra cronica, che presentano quadri sostanzialmente differenti. A. Epidemiologia e genetica. La PTI colpisce soprattutto i bambini e i giovani adulti, in questi ultimi con una leggera prevalenza per i soggetti di sesso femminile. Nel 66% circa dei casi l’età colpita è sotto i 21 anni. In particolare la PTI acuta è più comune tra i 2 e i 6 anni di età, e raramente compare nel 1° anno di vita. Non sembra avere particolare predilezione per uno dei due sessi e registra un picco di incidenza nei mesi invernali. La PTI cronica, invece, riguarda soprattutto gli adulti tra i 20 e i 40 anni ed è 3 volte più frequente tra le femmine (Tab. 52.4). Numerosi studi, sia pure su piccoli campioni, non sono riusciti a dimostrare un’associazione consistente tra la PTI e antigeni HLA specifici di classe I o di classe II. Non mancano però dati che suggeriscono un condizionamento genetico alla propensione a sviluppare questa malattia. In certe popolazioni si è visto un eccesso Tabella 52.4 - Porpora trombocitopenica idiopatica: differenze tra la forma acuta e la forma cronica. ACUTA Età (picco di incidenza) Sesso (prevalentemente interessato) Infezioni pregresse Inizio del quadro emorragico Vescicole o bolle emorragiche (cavo orale) Piastrine Eosinofilia e linfocitosi Durata Remissioni spontanee
CRONICA
2-6 anni Indifferente
20-40 anni 3:1 F:M
Solitamente da 1 a 3 sett. prima Improvviso
Raramente Insidioso
Presenti
No
< 20 × 109/l Comune 2-6 sett. Nell’80% dei casi
30-80 × 109/l Rara Mesi o anni Rare, recidive frequenti
delle specificità HLA-DRw2 e DRB1*0410 in pazienti affetti da questa condizione morbosa. L’antigene HLADR 4 è stato associato con una sfavorevole risposta ai corticosteroidi e il DRB1*0410 con una risposta favorevole. L’HLA-DRB1*1501 sembra associato a una sfavorevole risposta alla splenectomia. B. Patogenesi. Esistono strette analogie tra le anemie emolitiche autoimmuni da anticorpi caldi e la PTI. Quest’ultima, infatti, è una malattia autoimmune provocata dalla produzione di autoanticorpi (prevalentemente IgG) diretti contro gli antigeni di membrana piastrinici. Gli anticorpi sono diretti prevalentemente contro glicoproteine della membrana piastrinica, diverse da caso a caso, anche se la presenza di anticorpi diretti contro più di un bersaglio in uno stesso paziente è tipica. Gli anticorpi non causano una lisi diretta delle piastrine ma, fissandosi alla loro membrana, le rendono suscettibili al sequestro e alla fagocitosi da parte dei macrofagi splenici ed epatici dotati di recettore per il frammento Fc delle immunoglobuline. La presenza di autoanticorpi nel siero di pazienti affetti da PTI (circa il 60% dei casi) può essere confermata dal fatto che: a) il plasma dei pazienti infuso nei soggetti normali può indurre piastrinopenia; b) le piastrine dei soggetti sani trasfuse in pazienti con PTI mostrano una ridotta sopravvivenza; c) il 50% dei nati da donne con PTI mostrano una ridotta sopravvivenza piastrinica. Gli anticorpi, infatti, passano la barriera placentare e si possono legare alle piastrine del feto. Tuttavia il meccanismo responsabile della PTI presuppone l’intervento di vari altri fattori che si combinano in vario modo e il ruolo dei quali non è ancora stato del tutto chiarito. • La milza ha un ruolo importante anche in quanto sito di anticorpopoiesi: l’elevata concentrazione delle immunoglobuline nei sinusoidi splenici ne favorisce l’adesione alle piastrine e determina l’immediata fagocitosi di queste ultime. • Una trombocitopoiesi inefficace si osserva spesso in caso di PTI: nel midollo si notano una netta riduzione delle figure di campeggiamento e numerose altre anomalie megacariocitiche. • Anomalie qualitative piastriniche, per esempio con deficit della reazione di liberazione, sono state descritte nella PTI; si pensa che esse possano essere secondarie alla interazione delle piastrine con anticorpi (IgG) o immunocomplessi, espressione di PTI in fase prodromica. C. Clinica. Si devono tenere ben distinti i due quadri della PTI acuta e cronica (Tab. 52.4). Nella PTI acuta la comparsa di disturbi è solitamente improvvisa. In oltre l’80% dei casi le manifestazioni emorragiche sono precedute da quadri infettivi. Più comunemente si tratta di esantemi dell’infanzia e affezioni virali respiratorie risalenti a circa un mese prima. Talvolta la PTI segue una vaccinazione. Nonostante la gravità della trombocitopenia, le manifestazioni cliniche raramente destano preoccupazione. La PTI cronica presenta esordio lento
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e insidioso; spesso si accompagna ad un’anamnesi positiva per fatti emorragici di lieve entità ma negativa per infezioni pregresse. In ambedue le forme può esserci, al momento dell’esordio, febbricola e, nel 10% dei casi, modica splenomegalia. La sindrome emorragica in corso di PTI è quanto mai polimorfa sia per quanto riguarda la gravità del quadro clinico sia per quanto riguarda la molteplicità dei sintomi emorragici stessi. Bisogna inoltre precisare che quanto segue non è caratteristico della PTI (acuta o cronica) bensì si adatta ad ogni trombocitopenia, qualunque ne sia l’eziologia. 1. Manifestazioni cutanee. Sono le più frequenti e naturalmente le più evidenti. Si tratta di emorragie puntiformi (petecchie) o più estese sotto forma di stravasi emorragici più o meno grandi (ecchimosi). Entrambe queste manifestazioni interessano il derma e non il sottocute; quando anche quest’ultimo viene interessato (quasi sempre dopo trauma) si avrà uno stravaso ematico di varia grandezza (ematoma). In corso di PTI gli ematomi spontanei sono assolutamente rari. Petecchie ed ecchimosi, pur essendo ubiquitarie, si localizzano di preferenza agli arti inferiori (senza alcuna tendenza a confluire) perché facilitate dalla pressione venosa relativamente elevata in questa sede a causa della stazione eretta. Il viso e il collo di solito sono risparmiati. È da notare infine la integrità della cute attorno alle lesioni emorragiche. 2. Emorragie mucose. Sono molto frequenti e variabili per sede e gravità. L’epistassi (sangue dal naso) costituisce un reperto di facile osservazione e può insorgere apparentemente senza causa diretta. Le gengivorragie sono provocate dal trauma della masticazione, dalle pratiche di igiene orale o da processi flogistici, quali gengiviti, ecc. Nella forma acuta si ha spesso riscontro di bolle emorragiche al cavo orale. Le emorragie uterine costituiscono talvolta l’unico segno della trombocitopenia. Si tratta per lo più di menometrorragie. Altre volte la malattia esordisce in concomitanza del menarca. Le emorragie gastrointestinali si manifestano soprattutto attraverso melena, meno di frequente con ematemesi. Gli episodi di ematuria sono di pertinenza del bacinetto, uretere o vescica; raramente provengono dal parenchima renale. Infine, le emorragie a carico del sistema nervoso centrale sono piuttosto rare (1% dei pazienti) e in genere subaracnoidee. Possono verificarsi anche emorragie sottocongiuntivali, retiniche e dei parenchimi viscerali; assolutamente eccezionali le emorragie intrarticolari. Sono caratteristici i sanguinamenti secondari a estrazioni dentarie, tonsillectomia, banali ferite superficiali; iniziano immediatamente dopo il trauma, sono persistenti, si arrestano entro 36/48 ore e non tendono a recidivare. L’esame obiettivo, a parte il pallore secondario ad una possibile anemia sideropenica da sanguinamento ripetuto e le manifestazioni emorragiche sopra ricordate, non segnala la presenza di altri reperti patologici a carico dei vari organi e apparati.
D. Esami di laboratorio. Ogni paziente trombocitopenico dovrebbe essere sottoposto alle indagini seguenti: • esami ematologici generali; • prove di emostasi. La ricerca degli autoanticorpi antipiastrine è attuabile solo in centri specialistici, utilizza metodiche di esecuzione delicata e richiede notevole esperienza per ottenere risultati riproducibili e sicuramente significativi. 1. Esami ematologici generali. Il numero delle piastrine può variare da 10 a 100 × 109/l. Per quanto le manifestazioni emorragiche di solito siano più gravi e più frequenti quanto maggiore è la piastrinopenia, non esiste un vero livello di soglia (per convenzione è considerato il valore di 50 × 109/l) al di sopra del quale non si osservano emorragie. Le piastrine giganti (o megatrombociti) sono di facile osservazione nello striscio periferico dei pazienti con PTI e si correlano bene con il numero dei megacariociti midollari. Il numero dei globuli rossi è in genere normale; però, se le manifestazioni emorragiche perdurano a lungo, si può sviluppare un’anemia sideropenica; leucociti e formula leucocitaria non presentano anomalie, talvolta vi è modesta eosinofilia e/o linfocitosi. Il quadro midollare dimostra quasi sempre un aumento numerico più o meno evidente dei megacariociti, sino a 1-2% degli elementi midollari; prevalgono le forme immature con citoplasma basofilo, povero di granulazioni e senza figure di campeggiamento, pur potendosi però osservare anche una curva maturativa megacariocitaria ad andamento normale. Le serie eritroblastica e mieloblastica sono qualitativamente e quantitativamente normali, a meno della presenza di anemia sideropenica con quadro midollare di inibizione maturativa eritroblastica. Comunque, l’aspetto midollare descritto non è patognomonico della PTI ma è presente nella maggior parte delle piastrinopenie da accelerata distruzione e si differenzia dal midollo delle piastrinopenie da difetto di produzione in cui il numero dei megacariociti è estremamente ridotto (0,01-0,05%). 2. Prove di emostasi. Il tempo di emorragia, eseguito con la tecnica di Ivy, risulta quasi sempre allungato (10-20 min). La prova del laccio è spesso intensamente positiva. Le principali prove emocoagulative, in particolare l’APTT, il tempo di Quick, il tempo di trombina sono normali; la retrazione del coagulo è assente o difettosa. La sopravvivenza delle piastrine marcate, sia autologhe che isologhe, risulta quasi costantemente ridotta (da alcune ore a 3-6 giorni); nella maggior parte dei pazienti si riscontra un sequestro patologico in sede splenica, più raramente soltanto in sede epatica. E. Diagnosi. La trombocitopenia, al pari dell’anemia, è un segno che può trovarsi in varie condizioni morbose, per cui la diagnosi di PTI richiede l’esclusione di quelle malattie accompagnate da piastrinopenia.
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1040 Tabella 52.5 - Agenti chimici e farmaci che possono provocare trombocitopenia. Agenti che sopprimono la produzione di piastrine • Che provocano mielodepressione generalizzata – Antimetaboliti, antimitotici, antibiotici antitumorali, benzene e derivati, radiazioni ionizzanti, mostarde azotate, ecc. • Che occasionalmente si associano a ipoplasia o aplasia – Cloramfenicolo, sali d’oro, fenilbutazone, metilfenil-idantoina, chinacrina • Che inibiscono selettivamente i megacariociti – Clorotiazide, ormoni estrogeni, etanolo, tolbutamide Agenti che provocano la formazione di anticorpi antipiastrine – Acetazolamide, carbamazepina, clorotiazide, clorpropamide, digitossina, sali d’oro, idrossiclorochina, alfametildopa, acido paraminosalicilico, fenitoina, chinidina, rifampicina, stibophen, chinina, ecc. Agenti che danneggiano direttamente le piastrine in circolo – Eparina, ristocetina Agenti a meccanismo d’azione ignoto La gran parte dovrebbe avere un meccanismo immunologico, ma ancora manca una definitiva evidenza degli anticorpi antipiastrine – Acetaminofene, aminopirina, aspirina, barbiturici, bismuto, clorochina, cefalotina, clorpromazina, codeina, digitale e digossina, ergotamina, isoniazide, penicillina, fenilbutazone, prednisone, reserpina, spironolattone, streptomicina, sulfamidici, tetraciclina, ecc.
In particolare, le diagnosi differenziali più importanti riguardano le forme secondarie alla somministrazione di farmaci (Tab. 52.5) o ad infezioni, e le forme sintomatiche di malattie autoimmuni, soprattutto il lupus eritematoso sistemico. Nelle piastrinopenie da consumo vi sono la caratteristica diminuzione dei fattori plasmatici della coagulazione e l’aumento degli FDP. È possibile dimostrare direttamente l’esistenza di anticorpi adesi alle piastrine o presenti nel siero sanguigno (in questo caso piastrine normali sono incubate preliminarmente con il siero del paziente) con una tecnica delicata, ma alla portata di molti laboratori. La sensibilità di questa indagine è stata stimata tra il 49 e il 66%, e la sua sensibilità tra il 78 e il 92%. Perciò, una negatività di questo esame di laboratorio non esclude la diagnosi, ma la positività la rende molto probabile. F. Decorso e prognosi. Il decorso della PTI è spesso irregolare, ma le differenze tra forma acuta e forma cronica sono tuttavia rilevanti. La forma acuta idiopatica è per lo più autolimitantesi e si osservano remissioni spontanee in circa il 90% dei pazienti. La durata della malattia può variare da pochi giorni a qualche mese.
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La forma cronica è caratterizzata da frequenti episodi purpurici e da altri sanguinamenti che si alternano a periodi di completo benessere con oscillazioni della piastrinopenia, che in alcuni casi si riduce drasticamente. Talora la forma cronica può essere monosintomatica (epistassi, menometrorragie, ecc.). Le remissioni spontanee sono rarissime e quasi mai complete. G. Terapia. La terapia è differente a seconda delle condizioni cliniche che debbono essere affrontate. In genere, la terapia nei bambini è più prudente, nonostante che in questa fascia di età sia possibile una grave manifestazione della malattia, l’emorragia intracranica (per la verità, evenienza rara, che si è osservata tra lo 0,2 e l’1% dei bambini affetti). La ragione è che nei bambini, frequentemente, la PTI regredisce spontaneamente e che gli effetti collaterali di molti trattamenti sono particolarmente gravi nell’età infantile. Parleremo perciò essenzialmente del trattamento della PTI negli adulti. 1. Terapia urgente. Questa esigenza si pone quando esistono sintomi neurologici, o sono presenti emorragie interne o situazioni di emergenza che richiedono un immediato intervento chirurgico. In questi casi bisogna praticare dei boli endovena di 6-metil-prednisolone (30 mg/kg/die, non oltre un massimo di 1 g/die, per 2-3 giorni consecutivi) insieme a -globuline ad alte dosi endovena (1g/kg/die, sempre per 2-3 giorni consecutivi) e a trasfusioni di piastrine. Eventualmente possono essere impiegati anche altri farmaci, come la vincristina e un antifibrinolitico (per es., l’acido ε-aminocaproico) per ridurre il sanguinamento delle mucose. 2. Terapia ordinaria. È quella più comunemente impiegata, dato che, come si è detto, negli adulti la malattia ha di solito un esordio graduale e insidioso. In genere i pazienti con conte piastriniche superiori a 50.000/mm3 non hanno emorragie e non richiedono alcuna terapia; quelli con valori tra 30.000 e 50.000 possono avere qualche sanguinamento con traumi minori (per es., lavandosi i denti), ma anch’essi possono non essere trattati; quelli con piastrine tra 10.000 e 30.000/mm3 possono sviluppare spontaneamente petecchie ed ecchimosi; infine, coloro che hanno meno di 10.000 piastrine/mm3 possono andare incontro a emorragie interne. Di solito, quando viene diagnosticata la piastrinopenia in un adulto, questi si trova in una delle due ultime classi e perciò necessita di una terapia. La prima terapia da eseguire è la somministrazione di prednisone per os, alla dose quotidiana di 1-1,5 mg/kg di peso corporeo. La risposta a questo trattamento è stimata tra il 50 a oltre il 75% e si verifica di solito entro 3 settimane. Un problema delicato è la durata della terapia che, a queste dosi, non può essere proseguita molto a lungo senza che si verifichino importanti effetti collaterali. Perciò, una volta ottenuta una risposta, si può gradualmente ridurre la dose del prednisone e portarla a un mantenimento (per es., 5-7,5 mg/die) da continuare molto a lungo, o addirittura da sospendere completamente se si verificasse una remissione duratura,
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evenienza che in un adulto è compresa tra il 5 e oltre il 30% dei casi. Una terapia ugualmente efficace alla presentazione della malattia è l’impiego di globuline immuni anti-D in soggetti Rh-positivi. Queste, legandosi agli eritrociti, fanno sì che le cellule ricoperte da anticorpi siano catturate nella milza e che i recettori per la regione Fc delle IgG sui macrofagi splenici siano occupati e risparmino le piastrine. Questa terapia è meno tossica di quella con prednisone, ma notevolmente più costosa. Quando si verificano emorragie interne, o esiste una estesa e progressiva porpora, o le piastrine restano sotto 5000/mm3 nonostante una terapia corticosteroideacondotta per vari giorni, occorre far ricorso alle -globuline ad alte dosi endovena (le dosi sono le stesse già indicate per la terapia urgente). Con questa terapia una risposta è attesa in circa l’80% dei pazienti. Tuttavia, si tratta di una terapia molto costosa e non priva di effetti collaterali, quali insufficienza renale, insufficienza respiratoria e anafilassi in soggetti con deficit di IgA. La splenectomia, che può essere eseguita con tecnica laparoscopica, è raccomandata dopo 3-6 mesi, quando più di 10-20 mg di prednisone al giorno sono necessari per mantenere una conta piastrinica sopra 30.000/mm3. Con questo intervento chirurgico, approssimativamente due terzi dei pazienti hanno una risposta, generalmente entro pochi giorni. La splenectomia predispone a gravi infezioni da parte di microrganismi capsulati, soprattutto nei bambini. Perciò in tutti, bambini e adulti, almeno due settimane prima dell’intervento è conveniente praticare una vaccinazione con Haemophilus influenzae di tipo b e con pneumococco. Una vaccinazione contro il meningococco è pure raccomandata. Dato che la protezione conferita dai vaccini è incompleta, nei bambini di età inferiore a 5 anni è stata suggerita una profilassi antibiotica con somministrazione quotidiana di penicillina (o di altro farmaco equivalente, se il soggetto è allergico alla penicillina) per almeno un anno dopo la splenectomia. 3. Terapia delle forme croniche refrattarie. Si tratta di pazienti che continuano ad avere piastrinopenia anche dopo splenectomia, subito dopo l’intervento, o con una ripresa di malattia a distanza di tempo, e che necessitano di una terapia cronica con corticosteroidi a dosi non irrilevanti. In questi casi si possono aggiungere altri farmaci per rendere più efficace la terapia con prednisone ed eventualmente ridurne la dose. Il danazolo (da 10 a 15 mg/kg/die) è efficace nel 20-40% dei pazienti e occasionalmente può indurre remissione della malattia dopo 3-6 mesi di trattamento. Gli effetti collaterali di questo farmaco consistono in epatotossicità, rash cutaneo e mascolinizzazione nelle donne. Il dapsone è stato pure provato, con qualche successo nel 4050% dei soggetti trattati. Sia con il danazolo che con il dapsone la risposta è, però, improbabile quando esiste refrattarietà alla terapia corticosteroidea. In altri casi, generalmente in pazienti con conte piastriniche inferiori a 20.000/mm3 e resistenti alle terapie sopra indicate, può essere considerata una terapia im-
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munodepressiva. La vincristina è stata diffusamente impiegata a questo scopo in passato, ma la risposta a questo farmaco avviene in una bassa percentuale dei casi ed esiste il pericolo di neuropatia. Sono state invece adoperate con risultati interessanti l’azatioprina (che nel complesso sembra il farmaco più maneggevole) e la ciclofosfamide a dosi che comportano solo una lieve leucopenia (1-2 mg/kg/die per os, oppure 1-1,5 g/m2 di superficie corporea endovena ogni 4 settimane, da 1 a 5 dosi). Quest’ultimo farmaco è però gravato da effetti collaterali molto seri e va impiegato solo in assenza di alternative. Microangiopatia trombotica La microangiopatia trombotica è distinta in una forma primitiva, ad eziologia ignota (spesso indicata come microangiopatia trombotica senza specificazioni) ed in una forma secondaria, che si può verificare molto raramente in corso di ipertensione maligna o di sclerodermia. Si tratta di un’alterazione della parete vasale che provoca la formazione di una pluralità di piccoli trombi piastrinici nella microcircolazione, che causano disordini funzionali a carico di vari organi e apparati (principalmente il sistema nervoso e il rene) e un’anemia emolitica microangiopatica; il consumo di piastrine nella formazione dei trombi può determinare piastrinopenia e una consistente sindrome emorragica. È importante ricordare che la microangiopatia trombotica differisce sostanzialmente dalla coagulazione intravascolare disseminata, in quanto nella prima le trombosi nella microcircolazione hanno una prevalente componente piastrinica, mentre nella seconda è l’attivazione diretta dei fattori della coagulazione che ha il ruolo preminente. Questo comporta tre conseguenze: a) nella microangiopatia trombotica le trombosi prevalgono nel versante arterioso della microcircolazione, dove la pressione più alta tende a “lavare” i fattori della coagulazione attivati, ma non a rimuovere i trombi piastrinici strettamente adesi; nella coagulazione intravascolare disseminata le trombosi si verificano prevalentemente nel versante venoso, dove le condizioni di relativa stasi favoriscono la formazione di coaguli; b) i trombi della microangiopatia trombotica, costituiti come si è visto per la maggior parte da piastrine, sono lisati meno facilmente dei trombi della coagulazione vascolare disseminata; questo fa sì che nella prima condizione si abbiano delle disfunzioni d’organo che di regola mancano nella seconda; c) nella microangiopatia trombotica il consumo di fattori della coagulazione (come è indicato da un allungamento del tempo di protrombina e del PTT) è meno evidente che nella coagulazione intravascolare disseminata. Dal punto di vista patologico la microangiopatia trombotica è caratterizzata da lesioni occlusive di arteriole e piccole arterie in una pluralità di sedi. I trombi hanno un aspetto ialino e sono costituiti principalmente da piastrine con solo modeste quantità di fibrina. Sono comuni dei depositi amorfi subendoteliali con proliferazione dell’endotelio. Lesioni ischemiche possono essere osservate a carico del rene, del cervello, del cuore, del pancreas e dei surreni.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tabella 52.6 - Principali caratteristiche della porpora trombotica trombocitopenica (PTT) e della sindrome emolitico-uremica (SEU). PTT Età
SEU
Per lo più adulti
Per lo più bambini Infezioni precedenti Rare Comuni Febbre Comune Rara Ipertensione Rara Comune Anomalie neurologiche Sempre presenti Variabili Anomalie renali Lievi Evidenti e spesso gravi Anemia emolitica Grave Variabile microangiopatica Piastrinopenia Grave Variabile
La microangiopatia trombotica comprende due forme cliniche definite, che sono la porpora trombotica trombocitopenica e la sindrome emolitico uremica, oltre ad alcune altre forme di trombosi solamente renali o sistemiche che si possono verificare dopo trapianto di reni o somministrazione di farmaci come la mitomicina, la ciclosporina, il tacrolimus e il chinino. Dal punto di vista clinico la porpora trombotica trombocitopenica e la sindrome emolitico-uremica presentano alcune sovrapposizioni, tanto che in passato si era pensato che fossero due varianti della stessa malattia, ma, ora che i meccanismi patogenetici di entrambe sono stati largamente chiarificati, è chiaro che si tratta di due entità nosologiche diverse. Per le caratteristiche cliniche si veda la tabella 52.6. A. Porpora trombotica trombocitopenica (malattia di Moschcowitz). L’evento patogenetico fondamentale di questa malattia è la presenza alla superficie delle cellule endoteliali di grossi multimeri di fattore von Willebrand, che legano le piastrine circolanti e le inducono a formare dei trombi piastrinici. In condizioni normali il fattore von Willebrand è prodotto in monomeri del peso molecolare di 280 kD, che si collegano a formare multimeri che arrivano al peso molecolare di vari milioni di Dalton. Questi multimeri sono formati nei megacariociti e nelle cellule endoteliali e sono accumulati negli -granuli delle piastrine e nei corpi di Weibel-Palade delle cellule endoteliali, dai quali sono indirizzati verso la superficie cellulare e da qui rilasciati nel sangue. Perché questo rilasciamento avvenga occorre che i grandi multimeri siano tagliati in multimeri più piccoli a opera di un enzima che è stato identificato e denominato con la sigla ADAMTS 13. L’enzima, che è una metallo-proteasi, si trova circolante nel sangue, ma agisce fondamentalmente alla superficie delle cellule endoteliali, alla quale si lega grazie a una parte della sua molecola che è simile alla trombospondina e utilizzando il recettore di questa sostanza che è normalmente presente su queste cellule. Perciò, normalmente, ADAMTS 13 e i multimeri del fattore von Willebrand si trovano spazialmente vicini sulle cellule endoteliali e l’azione dell’enzima può esplicarsi adeguatamente. La porpora
trombotica trombocitopenica si verifica quando ADAMTS 13 non funziona e i multimeri di fattore von Willebrand restano interi alla superficie delle cellule endoteliali e sono in grado di vincolare localmente le piastrine a formare dei trombi (Fig. 52.7). ADAMTS può non funzionare per diversi motivi: a) L’enzima può essere alterato per effetto di una mutazione e avere un’attività ridotta (significativa se è meno del 5% del normale). Questa è la causa di alcune rare forme familiari di questa malattia che hanno un andamento clinico cronico ricorrente, con esordio frequente, anche se non sempre nell’infanzia (talora l’esordio coincide nelle donne con la prima gravidanza). b) L’attività dell’enzima nel plasma sanguigno può essere normale, ma è il suo legame con il recettore presente alla superficie delle cellule endoteliali che è difettoso. Questa è la causa di altre forme familiari, sempre rare, della malattia e si suppone che possa esserlo anche per alcune forme acquisite. In questi ultimi casi un autoanticorpo potrebbe interferire nel legame tra l’enzima e il suo recettore. c) L’attività dell’enzima può essere inibita da un autoanticorpo diretto verso la sua molecola. Questa non è un’evenienza rara, perché, in varie casistiche, anticorpi della classe IgG contro ADAMTS 13 sono stati trovati nel sangue dei pazienti in percentuali variabili dal 40 all’80%. È interessante notare che questo anticorpo non è associato a malattie autoimmuni e che la sua presenza può essere transitoria, così che le manifestazioni della porpora trombotica trombocitopenica dovute a questa causa si presentano per lo più come episodi isolati. In alcuni (pochi) pazienti la comparsa di questo anticorpo ha fatto seguito alla somministrazione dell’antiaggregante piastrinico ticlopidina e ancora più raramente alla somministrazione del suo analogo clopidogrel. d) L’attività dell’enzima può calare senza che se ne trovi una spiegazione, in forme che sono definite acquisite e idiopatiche. Anche queste forme possono presentarsi come episodi isolati. La malattia si verifica più spesso nei giovani adulti, con una lieve prevalenza del sesso femminile. Può essere immediatamente preceduta da eventi prodromici: vaghi sintomi aspecifici o infezioni urinarie. Talora si verifica subito dopo un intervento chirurgico. L’esordio è brusco ed è caratterizzato da febbre (presente nel 98% dei casi), astenia, nausea, artralgie e mialgie. Contemporaneamente si verificano manifestazioni emorragiche, che sono presenti all’esordio della malattia nel 90% dei casi: porpora generalizzata, ma anche, meno frequentemente, emorragie retiniche, epistassi, emorragie gengivali, emottisi, ematuria, emorragie gastrointestinali, menorragie. Il quadro clinico evolve presto verso la comparsa di sintomi e segni neurologici che possono essere variabili: alterazioni dello stato mentale, irritabilità, agitazione, confusione, cefalea, disturbi visivi, deficit focali sensoriali e motori, convulsioni, stupore e coma. La compromissione renale è frequente (88% dei casi), ma in genere è lieve e un’insufficienza renale grave con uremia è rara. La pressione arteriosa per lo
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Paziente con porpora trombotica trombocitopenica
Soggetto normale
Adesione e aggregazione delle piastrine
Scissione di multimeri di fattore von Willebrand eccezionalmente grandi
Mancata scissione di multimeri di fattore von Willebrand eccezionalmente grandi
ADAMTS 13 ADAMTS 13 Sito di legame
Sito di legame
Cellula endoteliale
Cellula endoteliale Secrezione di multimeri dai corpi di Weibel-Palade
A.
Secrezione di multimeri dai corpi di Weibel-Palade B.
Figura 52.7 - Interazione tra multimeri di fattore von Willebrand prodotto dalle cellule endoteliali ed enzima ADMTS 13. Difetto che si verifica nella porpora trombotica trombocitopenica. (Modificata da Moake, 2002.)
più non è alterata e solo raramente si osserva ipertensione. In rari casi si possono avere dolori addominali dovuti a pancreatite o a ischemia intestinale, oppure aritmie o scompenso cardiaco conseguenti ad ischemia miocardica. Gli esami di laboratorio dimostrano un’anemia emolitica microangiopatica (Cap. 44) caratterizzata dalla presenza, sullo striscio del sangue periferico, di emazie deformate o frammentate (schistociti). Le piastrine sono diminuite, spesso al di sotto del valore di 20.000/mm3. I test dell’emocoagulazione (tempo di protrombina, PTT) sono normali o moderatamente allungati. Si può tuttavia osservare un modesto aumento dei prodotti di degradazione del fibrinogeno nel plasma. Nei casi con compromissione renale, che come abbiamo visto sono la maggioranza, l’esame delle urine mostra vari gradi di proteinuria, ematuria, leucocituria e cilindruria. L’aumento della creatinina, se presente, è però di solito modesto. Il decorso è fulminante e la prognosi è cattiva nei casi non trattati (in più della metà dei casi la morte interviene in meno di 6 settimane). La terapia delle forme familiari di porpora trombotica trombocitopenica prevede l’infusione di plasma fresco povero di piastrine o di supernatanti di crioprecipitati o di plasma che è stato trattato con una miscela di un solvente organico e di un detergente. Non è necessaria la plasmaferesi perché non esistono sostanze nocive
da rimuovere. È interessante notare che la sequenza aminoacidica di ADAMTS 13 sia stata determinata e che esistano speranze di avere in futuro l’enzima prodotto sinteticamente, per impiegarlo in un’adatta terapia sostitutiva. Nelle forme acquisite dell’adulto la terapia indicata è il plasma-exchange. Con questa tecnica circa il 90% dei pazienti è in grado di sopravvivere a un episodio di questa malattia, solitamente senza danni di organo permanenti. Quando i pazienti non rispondono a questo tipo di terapia e hanno alti titoli di anticorpi contro ADAMTS 13 si può aggiungere un trattamento con glicocorticoidi. B. Sindrome emolitico-uremica. Questa sindrome è dovuta a effetti diretti di una tossina batterica sulle cellule endoteliali e sulle piastrine, a una vasculopatia secondariamente indotta da leucociti e a un grave disturbo delle coagulazione in senso protrombotico. Per di più, la tossina che provoca questa malattia ha effetti lesivi diretti sul rene. La sindrome emolitico-uremica si verifica, dopo circa una settimana, nel 9-30% dei bambini che hanno sofferto di un episodio di diarrea ematica indotta da Escherichia coli, particolarmente se del sierotipo O157:H7. Anche Shigella dysenteriae e occasionalmente altri microrganismi possono provocare questa sindrome. La tossina implicata è in realtà codificata dal DNA di S. dysenteriae e perciò è chiamata tossina Shiga, ma le varianti 1 e 2 di
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questa tossina sono codificate dal DNA di batteriofagi che può essere presente in vari sierotipi di E. coli. Questi microrganismi possono contaminare carne, latte, formaggi e altri tipi di alimenti non sufficientemente cotti o non pastorizzati. Attraverso questi alimenti può essere contratta l’infezione da parte di questi microrganismi. Una volta penetrati nell’apparato digerente i batteri produttori di tossina Shiga aderiscono alle cellule epiteliali della mucosa del colon, che distruggono, e la tossina passa nella circolazione generale. L’effetto sulle cellule endoteliali è di stimolare in quantità eccessiva la produzione di grandi multimeri di fattore von Willebrand. L’adesione e l’aggregazione piastrinica sono facilitate dal fatto che le piastrine stesse sono attivate per effetto della tossina Shiga ed esprimono in quantità maggiore alla loro superficie la glicoproteina GPIb (che lega il fattore von Willebrand) e i complessi GPIIb/GPIIIa, che facilitano l’aggregazione. Per quanto normale sia l’attività dell’enzima ADAMTS 13, il suo effetto regolatore è sopraffatto dagli eventi che favoriscono la formazione di trombi piastrinici. L’effetto della tossina Shiga non si arresta a questi pur rilevanti eventi. La tossina, infatti, specialmente in associazione con il lipopolisaccaride che costituisce l’endotossina batterica, stimola la produzione di citochine proinfiammatorie da parte dei monociti e delle cellule glomerulari e tubulari dei reni: TNF-α, interleuchina-1 e interleuchina-6. Questo provoca l’instaurazione di una vasculopatia infiammatoria, soprattutto nei reni, dove avviene la liberazione delle citochine. Infine, la tossina Shiga ha un effetto citolitico diretto sulle cellule endoteliali, così come su cellule dei glomeruli e dei tubuli renali. Nel caso delle cellule endoteliali, la loro morte denuda il subendotelio, dove esiste uno strato di multimeri di fattore von Willebrand (le cellule endoteliali, infatti, lo secernono non solo sul versante circolatorio, ma anche su quello opposto). Venendo a contatto con questo strato, le piastrine aderiscono con maggior forza alla parete dei vasi. Inoltre, il contatto diretto del sangue con il collageno attiva il sistema intrinseco della coagulazione e questo determina la formazione di una rete di fibrina che stabilizza i trombi piastrinici e uno stato generale protrombotico. Esiste una forma familiare della sindrome emoliticouremica, con un patogenesi completamente diversa, che dà conto del 5-10% dei casi di questa malattia. Si tratta di una forma grave, con una mortalità molto più elevata (54%) di quella che si ha nella forma indotta dalla tossina Shiga, che è tra il 3 e il 5%. Anche questa forma si manifesta con attacchi acuti che possono essere superati, ma circa la metà di coloro che sopravvivono ha una recidiva e molti sono i pazienti che finiscono in dialisi cronica. In uno studio su soggetti affetti da questa malattia si è visto che, se sottoposti a trapianti di rene, nel 16% dei casi entro un mese avveniva un rigetto dell’organo trapiantato. Questa variante della sindrome emolitico-uremica è stata collegata con mutazioni del fattore H, una proteina che protegge le cellule da danni accidentali dovuti ad attivazione della via alternativa del complemento. Sono stati descritti casi con ereditarietà autosomica dominante e altri con ereditarietà autosomica recessiva.
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La sindrome emolitico-uremica si verifica prevalentemente nei bambini, forse perché è più probabile che gli adulti posseggano anticorpi attivi contro i microrganismi che scatenano la malattia. Come si è detto, frequentemente la malattia è preceduta da un episodio febbrile con diarrea ematica, ma l’infezione causale non è sempre evidente. L’esordio è per lo più improvviso e drammatico, dominato dalla comparsa di insufficienza renale rapidamente progressiva, con anuria in circa il 50% dei pazienti, ed insufficienza renale acuta oligurica nei rimanenti. È possibile la coesistenza di manifestazioni emorragiche o neurologiche, ma queste sono meno gravi che nella porpora trombotica trombocitopenica. La febbre è rara. L’ipertensione arteriosa è frequente. Gli esami di laboratorio dimostrano l’anemia emolitica microangiopatica e una piastrinopenia di grado variabile. I test di coagulazione sono normali o poco alterati. Il dato più saliente è l’alterazione dell’esame delle urine, con proteinuria, ematuria, cilindruria e l’aumento progressivamente ingravescente della creatininemia. La terapia della sindrome emolitico-uremica è molto meno soddisfacente di quella della porpora trombotica trombocitopenica. L’infusione di plasma o il plasma-exchange sono stai provati con risultati equivoci, anche nelle forme familiari dove teoricamente l’apporto esogeno di fattore H dovrebbe essere di giovamento. Il trattamento antibiotico, paradossalmente, peggiora la situazione in quanto incrementa il rilascio della tossina dai microrganismi. In sostanza, il trattamento della sindrome emolitico-uremica resta principalmente di supporto, con un giudizioso impiego di fluidi e la dialisi, se necessario. Va ricordato, però, che se un paziente adulto ha una sindrome acquisita che potrebbe essere, dal punto di vista clinico, tanto una porpora trombotica trombocitopenica quanto una sindrome emolitico-uremica, nell’incertezza è meglio assumere che si tratti della prima malattia e avviare il trattamento che a questa è riservato.
Piastrinopatie Si tratta di un gruppo di malattie emorragiche, congenite o acquisite (Tab. 52.7), caratterizzate da un normale numero di piastrine e dall’alterazione di uno o più dei meccanismi deputati alla completa estrinsecazione della funzionalità piastrinica. A proposito del sistema emostatico si sono già elencate le risposte base delle piastrine allo stimolo meccanico e/o chimico: l’adesività, le modificazioni di forma, la secrezione di sostanze dai granuli intracellulari, l’aggregazione. A questo fine, cioè per il corretto esplicarsi della funzionalità piastrinica, hanno importanza preminente le proprietà della membrana piastrinica e delle membrane dei granuli intrapiastrinici. Analogamente alla membrana del globulo rosso anche la membrana piastrinica è costituita da uno strato lipidico, di cui fanno parte i fosfolipidi di cui si è già più volte parlato, e da proteine, suddivise in integrali e periferiche.
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Tabella 52.7 - Piastrinopatie.
Tabella 52.8 - Caratteristiche di alcune glicoproteine (GP) della membrana piastrinica.
Congenite • Da difetto di adesività (1) – Sindrome di Bernard-Soulier • Da difetto di aggregazione (2) – Tromboastenia di Glanzmann • Da difetto della reazione di liberazione – Malattia da deficit del pool di deposito – Alterazioni della via metabolica dell’acido arachidonico • Alterazioni dell’attività procoagulante delle piastrine
GP GPIa GPIb
(1) Anche la carenza di un fattore plasmatico, il fattore von Willebrand, determina un’alterata adesività piastrinica. (2) Anche la riduzione del fibrinogeno nel plasma determina una ridotta aggregazione piastrinica.
Le proteine della membrana piastrinica meglio studiate sono le glicoproteine, classificate secondo una nomenclatura che usa la sigla GP (glicoproteina) seguita da un numero romano con una lettera minuscola. Il gruppo delle glicoproteine contiene alcune delle proteine funzionalmente più importanti, il cui deficit dà luogo a manifestazioni emorragiche. La tabella 52.8 elenca le principali glicoproteine, le loro probabili interazioni e la situazione patologica conseguente alla loro riduzione o assenza. Le affezioni più note e più frequenti sono secondarie ad alterazioni quantitative o qualitative delle glicoproteine GPIb, GPIIb e GPIIIa; infatti l’adesione delle piastrine al subendotelio è mediata dalla GPIb; le GPIIb e GPIIIa sono implicate nel legame delle piastrine con il fibrinogeno, anello essenziale per la reazione di aggregazione. La figura 52.8 dimostra schematicamente queste condizioni, oltre ai meccanismi di attivazione e di secrezione e alle loro alterazioni patologiche.
CONDIZIONE MORBOSA (QUANDO RIDOTTA O ASSENTE)
GPIIIa
Collageno-piastrine Recettore per il fattore von Willebrand e la trombina Recettore per il fibrinogeno ed il fattore von Willebrand quando forma il complesso con la GPIIIa si veda GPIIb
GPV
Substrato per la trombina
GPIX
Affinità per la GPIb
GPIIb
Acquisite • In corso di malattie ematologiche – Sindromi mieloproliferative – Leucemie acute – Discrasie plasmacellulari e disprotidemie – Malattia di von Willebrand acquisita – Coagulazione intravascolare disseminata • In corso di malattie non ematologiche – Uremia – Epatopatie – Bypass cardiopolmonare – Piastrine conservate a scopo trasfusionale • Da farmaci – Inibitori della ciclo-ossigenasi: per es., acido acetilsalicilico – Attivatori dell’adenilato ciclasi: per es., prostaciclina – Inibitori della fosfodiesterasi: per es., dipiridamolo, teofillina – Antibiotici e chemioterapici: per es., penicillina, cefalotine, nitrofurantoina – Sostanze stabilizzanti la membrana: per es., procaina, – Antistaminici, antidepressivi triciclici – e -bloccanti: per es., fentolamina, propranololo, altri farmaci, come eparina, destrano, clofibrato, ecc.
INTERAZIONI
Ignota Sindrome di BernardSoulier Tromboastenia di Glanzmann
Tromboastenia di Glanzmann Sindrome di BernardSoulier Sindrome di BernardSoulier
Le sostanze agoniste come ADP, adrenalina, trombina, collagene e fattore attivante le piastrine interagiscono con specifici recettori di membrana (R) per provocare l’attivazione delle piastrine: come conseguenza si ha la mobilizzazione del calcio dai depositi intracellulari. La secrezione delle piastrine in risposta ad ADP, adrenalina e collageno a basse concentrazioni richiede la formazione di trombossano A2 dai fosfolipidi legati alla membrana ed ha come conseguenza la liberazione del contenuto dei granuli. L’adesione delle piastrine al subendotelio è mediata dall’interazione del fattore plasmatico von Willebrand con la glicoproteina di membrana GPIb. L’aggregazione coinvolge il fibrinogeno e le proteine di membrana IIb/IIIa. Un difetto di adesività può dipendere o dalla riduzione (o assenza) della GPIb (sindrome di Bernard-Soulier) o dalla riduzione del fattore von Willebrand nel plasma (malattia di von Willebrand) o nelle piastrine (pseudomalattia di von Willebrand). Un difetto di aggregazione può dipendere o dalla riduzione (o assenza) del complesso di membrana GPIIb/GPIIIa (tromboastenia di Granzmann) o dalla carenza di fibrinogeno nel plasma (afibrinogenemia). La secrezione piastrinica può essere alterata quando il contenuto dei granuli è ridotto o assente (deficit del pool di deposito) o quando è alterata la formazione del trombossano A2 (deficit primitivo di secrezione). Piastrinopatie congenite da difetto di adesività Sindrome di Bernard-Soulier Si tratta di una piastrinopatia assai rara, trasmessa come carattere autosomico recessivo. È caratterizzata da allungamento del tempo di sanguinamento, presenza in circolo di piastrine giganti, modesta trombocitopenia, ridotto consumo di protrombina, anomalie del processo di agglutinazione piastrinica, retrazione del coagulo normale.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
AGGREGAZIONE TROMBOASTENIA DI GLANZMANN
NE SIO E AD
I VII
I GP
MALATTIA DI VON WILLEBRAND
AFIBRINOGENEMIA
SINDROME DI BERNARD-SOULIER
SECREZIONE Trombossano A2
ADP, ATP, serotonina
Trombossano-sintetasi ADP Adrenalina Trombina Fattore attivante le piastrine Collageno
R
PGG2, PGH2
R R
Ca++
Ciclo-ossigenasi mobilizzazione Acido arachidonico
? ?
Fosfolipasi
ALTERAZIONI DELLA SECREZIONE a) Deficit del pool di deposito b) Difetti primitivi di secrezione c) Anomalie della sintesi del trombossano
Fosfolipidi
Figura 52.8 - Normali risposte delle piastrine e meccanismo dei deficit principali. (Modificata da Rao A.K., Walsh P.N., Clinics Haematol, Feb. 1983.)
A. Patogenesi. La patogenesi di questa sindrome sembra essere legata ad una anomalia della superficie piastrinica, e precisamente al deficit della GPIb; inoltre le piastrine di questi pazienti sono carenti anche delle glicoproteine di membrana V (GPV) e IX (GPIX). Ricerche sperimentali eseguite con anticorpi diretti contro la GPIb hanno permesso di dimostrare che la GPIb è il recettore piastrinico per il fattore von Willebrand. A differenza di quanto avviene nella malattia di von Willebrand, l’aggiunta di plasma normale o di fattore vW non porta ad una normalizzazione della funzionalità piastrinica. Questo a conferma che il difetto emocoagulativo è intrinseco alle piastrine. B. Clinica. La sintomatologia clinica è assente nei soggetti eterozigoti, mentre negli omozigoti la diatesi emorragica è sovente grave, talvolta fatale. Le manifestazioni assai precoci (nei primi giorni o mesi di vita) sono soprattutto caratterizzate da epistassi,
menorragie, emorragie cutanee, muscolari e viscerali. Il quadro, per motivi non ancora chiariti, tende a migliorare con l’avanzare dell’età. C. Esami di laboratorio. Il tempo di emorragia è costantemente aumentato (maggiore di 20 min). Il numero delle piastrine è spesso diminuito, anche se leggermente. Notevolmente alterata, invece, la morfologia delle piastrine: sono di dimensioni maggiori del normale (anche 10-20 ) con aspetto linfocitoide, assai ricche di granuli. Presentano emivita ridotta sia nel soggetto affetto sia dopo trasfusione in un soggetto sano. Non sono in grado di agglutinare in presenza di fattore vW e ristocetina, mentre l’aggregazione è normale con ADP, collageno, trombina, adrenalina e acido arachidonico. L’adesività al vetro è diminuita, come pure quella al subendotelio dell’aorta di coniglio. D. Cenni di terapia. Non si conosce alcun trattamento efficace; l’unica terapia possibile è quella sostitutiva.
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52 - DISORDINI DELL’EMOSTASI E DELL’EMOCOAGULAZIONE
Piastrinopatie congenite da difetto di aggregazione Tromboastenia di Glanzmann È una grave malattia congenita, trasmessa come carattere autosomico recessivo. Presenta un’incidenza assai bassa, anche se si tratta della piastrinopatia più frequentemente descritta. A. Patogenesi. Il difetto principale consiste nella mancata aggregazione delle piastrine ad opera del collageno, dell’ADP, della trombina e dell’adrenalina, mentre sono normali le modificazioni della forma (indotte dagli agenti citati), l’adesività al subendotelio, la secrezione durante la stimolazione con trombina, la sintesi di trombossano dopo stimolazione con trombina ed acido arachidonico. Anche in questa malattia, l’alterazione è localizzata a livello della membrana piastrinica e consiste nel deficit delle gricoproteine GPIIb e GPIIIa, che rappresentano il recettore per il fibrinogeno, essenziale per l’aggregazione piastrinica. Inoltre le piastrine tromboasteniche contengono quantità ridotte di fibrinogeno, mentre gli altri costituenti degli -granuli sono normali. Infine sono stati segnalati pazienti in cui le piastrine avevano quantità normali di GPIIb e GPIIIa anche se esse non andavano incontro ad aggregazione e mostravano un legame anomalo con il fibrinogeno; in questi pazienti si suppone un’alterazione qualitativa del complesso GPIIb-GPIIIa. B. Clinica. La sintomatologia emorragica è analoga a quella di una grave trombocitopenia. Inizia nei primi anni di vita ed è caratterizzata da emorragie spontanee della cute e delle mucose. Si possono osservare petecchie, epistassi, gengivorragie, metrorragie, sanguinamenti prolungati dopo interventi chirurgici o dopo somministrazione di farmaci ad attività antiaggregante (per es., acido acetilsalicilico). L’evoluzione spontanea della malattia varia da paziente a paziente e, molto spesso, si osserva un miglioramento col passare degli anni. C. Esami di laboratorio. Il tempo di sanguinamento è quasi costantemente allungato; la retrazione del coagulo alterata. Il numero delle piastrine è normale o, a volte, aumentato. È assente l’aggregazione indotta da ADP, trombina, collagene, serotonina, anche a concentrazioni elevate. Normale invece la risposta agglutinante al fattore VIII/vW e alla ristocetina. D. Cenni di terapia. Non si conosce alcuna terapia specifica. L’unico trattamento attualmente disponibile è quello trasfusionale, che abbrevia temporaneamente la durata delle emorragie. Piastrinopatie congenite da difetto della reazione di liberazione Come si è ricordato a proposito dell’emostasi, nelle piastrine si distinguono tre tipi di granuli, contenenti diverse proteine, nucleotidi, idrolasi acide, che in condizioni normali vengono secreti (“liberati”) durante l’atti-
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vazione piastrinica. Le piastrinopatie da difetto di secrezione possono riconoscere meccanismi patogenetici diversi, a seconda che i granuli o il loro contenuto siano ridotti (malattia da deficit del pool di deposito, storage pool deficiency) oppure che vi sia un’alterazione nei molteplici passaggi che stanno a monte della secrezione piastrinica, cosicché il contenuto dei granuli non viene secreto, anche se presente in normali quantità. Malattia da deficit del pool di deposito (storage pool deficiency) È una sindrome emorragica, congenita, autosomica recessiva, caratterizzata da una riduzione del contenuto di nucleotidi piastrinici e dalla conseguente anomala reazione di liberazione. A. Patogenesi. Il difetto biochimico di base consiste in una riduzione dell’ADP di deposito, di norma contenuto nei corpi densi. Altre importanti anomalie sono la sintesi ridotta di prostaglandine e una diminuita disponibilità di fattore piastrinico 3. Questi rilievi rendono ragione dell’alterata aggregazione nella sede di una eventuale lesione vascolare e della diatesi emorragica che questi pazienti sviluppano. B. Clinica. La sintomatologia emorragica è di lieve entità. Si hanno soprattutto epistassi, gengivorragie e petecchie. C. Esami di laboratorio. Il tempo di emorragia è di solito leggermente aumentato. Le piastrine appaiono quasi costantemente prive di granuli densi. La carenza di ADP piastrinico (contenuto appunto nei granuli) ha come diretta conseguenza l’assenza di aggregazione da parte di quelle sostanze che intervengono sulle piastrine provocandone rilascio di ADP. Per tale ragione risultano carenti sia l’aggregazione da collageno e da trombina, sia la comparsa della “II onda” da adrenalina. Anche l’adesività al vetro è diminuita. D. Cenni di terapia. L’unico trattamento possibile è quello sintomatico. D’altra parte è molto rara la necessità di ricorrere a terapia sostitutiva. Alterazioni della via metabolica dell’acido arachidonico Uno degli effetti più importanti conseguenti all’attivazione delle piastrine è la liberazione di acido arachidonico dai fosfolipidi e la sua successiva ossigenazione a trombossano A2, provvisto di un notevole feed-back positivo con ulteriore attivazione delle piastrine stesse. La sintesi di trombossano A2 è necessaria per l’attività secretoria delle piastrine durante la stimolazione con ADP, adrenalina, collageno e trombina. In alcuni pazienti adulti, con manifestazioni emorragiche da lievi a discrete, sono state riscontrate alterazioni a livelli diversi nella via metabolica dell’acido arachidonico. Il gruppo più consistente presenta difetti di secrezione piastrinica associati ad alterata liberazione di acido arachidonico dai fosfolipidi di membrana;
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in questi pazienti l’aggregazione e la risposta secretoria all’ADP, adrenalina, collageno e PAF sono alterate, anche se il contenuto dei granuli è normale. In altri pazienti si sono riscontrati deficit di uno degli enzimi essenziali della via metabolica (la ciclo-ossigenasi o la trombossano-sintetasi) oppure una risposta anomala delle piastrine al trombossano A2. In conclusione, si tratta di piastrinopatie rare, che meritano di essere ricordate in quanto rappresentano una specie di condizione sperimentale spontanea, utile allo studio della sequenza di eventi ancora non completamente e definitivamente identificati che portano all’attivazione e alla secrezione piastrinica. Piastrinopatie acquisite Si tratta di un gruppo di condizioni patologiche estremamente eterogeneo, spesso secondario ad altre malattie o all’assunzione di farmaci. Le piastrine possono presentare uno o più deficit associati: anomalie della adesività, dell’aggregazione e della reazione di liberazione. La diatesi emorragica che si accompagna a queste trombocitopatie appare sfumata, spesso evidenziabile solo tramite opportuni esami. Nei casi in cui le manifestazioni sono di maggiore entità (emorragie cerebrali, versamenti ematici in cavità libere, ematuria, epistassi) è quasi sempre dimostrabile la partecipazione alla loro genesi di alterazioni della fase plasmatica della coagulazione, della fibrinolisi e dei vasi. Il tempo di emorragia è solitamente allungato, l’aggregazione indotta da ADP, adrenalina e collageno è ridotta o assente, vi è minor disponibilità di fattore piastrinico 3 e l’adesività al vetro è notevolmente diminuita. Numero di piastrine, valutazione degli altri parametri della coagulazione e retrazione del coagulo sono nella norma. La diagnosi differenziale va posta essenzialmente con le piastrinopatie congenite: a tale proposito il solo mezzo per poterle distinguere è il dato anamnestico di una patologia preesistente o dell’assunzione di farmaci in grado di provocare la piastrinopatia. La prognosi è strettamente legata a quella della malattia che ha determinato le alterazioni piastriniche. Nelle piastrinopatie secondarie all’assunzione di farmaci la sospensione dell’agente responsabile porta entro breve al ristabilimento di un quadro di normalità. La terapia è costituita essenzialmente dalle cure della malattia di base. La sintomatologia emorragica è di solito lieve e raramente comporta la necessità di ricorrere a terapia emostatica o sostitutiva. Piastrinopatie in corso di malattie ematologiche A. Disprotidemie (Cap. 50). Le malattie che si accompagnano a modificazioni del contenuto proteico del plasma presentano di frequente una sindrome emorragica. Alla genesi di tale sintomatologia contribuiscono sia un deficit dell’aggregazione e dell’adesività piastrinica, sia una minor disponibilità di fattore piastrinico 3 come pure alterazioni della fase plasmatica della coagulazione.
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
B. Sindromi mieloproliferative (Cap. 48). Nelle sindromi mieloproliferative sono stati osservati numerosi difetti funzionali piastrinici, come modificazioni sia della forma che della membrana piastrinica, alterazioni dei meccanismi che regolano la reazione di liberazione, il contenuto piastrinico e la disponibilità di fattore piastrinico 3. Piastrinopatie in corso di malattie non ematologiche A. Uremia (Cap. 35). I pazienti uremici presentano una sintomatologia emorragica che trova una giustificazione soprattutto in alcune alterazioni funzionali delle piastrine: ridotta adesività ed aggregazione, minor disponibilità di fattore piastrinico 3. La genesi di queste anomalie sembra dovuta alla presenza di un inibitore a basso peso molecolare presente nel plasma dei pazienti, derivante dall’urea stessa o da un suo metabolita (acido guanidino-succinico). B. Cirrosi epatica (Cap. 30). In corso di cirrosi epatica la diatesi emorragica è secondaria soprattutto a una riduzione dei fattori plasmatici vitamina K-dipendenti, a iperfibrinolisi e a piastrinopenia; inoltre sono presenti difetti piastrinici correlati ai livelli plasmatici dei prodotti di degradazione del fibrinogeno. Piastrinopatie da farmaci (6) A. Acido acetilsalicilico. Questo farmaco, di larghissimo impiego, inibisce l’aggregazione piastrinica da collageno, da ADP e adrenalina, come pure la reazione di liberazione. Si mantiene invece nella norma la adesività. L’acido acetilsalicilico, inoltre, inattiva in maniera irreversibile (dura infatti per tutta la vita della piastrina) la ciclo-ossigenasi, il che comporta la scomparsa della sintesi di prostacicline, di trombossano A2 e degli endoperossidi ciclici. L’azione antiaggregante è più intensa a basso dosaggio (0,3-0,6 g/die), perché in queste condizioni non viene inibita la produzione di prostaciclina endoteliale (che ha un’azione antiaggregante), mentre viene inibita la produzione nelle piastrine del trombossano A2. Ad alti dosaggi, invece, l’acido acetilsalicilico inibisce sia la ciclo-ossigenasi piastrinica sia quella endoteliale. Il quadro sintomatologico che segue è simile a quello che si osserva nella sindrome da deficit di liberazione. B. Indometacina. Questo farmaco, al pari di altri antinfiammatori non steroidei (fenilbutazione, acido meclofenamico, derivati dell’acido propionico, ecc.) possiede effetto antiaggregante poiché, in modo analogo all’acido acetilsalicilico, inibisce la biosintesi delle prostaglandine. L’indometacina, poi, è anche un potente inibitore dell’enzima fosfodiesterasi. Questa azione comporta un aumento dell’AMP ciclico intrapiastrini(6) I farmaci che inibiscono le funzioni piastriniche solitamente non causano emorragie ma possono aggravare qualsiasi patologia che di per sé le provochi o le favorisca. La loro azione antiaggregante è altresì sfruttata per ridurre il rischio di trombosi in condizioni di ipercoagulabilità o di trombofilia.
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co, il blocco della conversione dei fosfolipidi di membrana in acido arachidonico e quindi, indirettamente, della sintesi di prostaglandine, prostacicline e trombossani. C. Dipiridamolo. È un potente inibitore dell’aggregazione piastrinica e della reazione di liberazione. Agisce sull’enzima fosfodiesterasi al pari dell’indometacina e il suo effetto viene potenziato dalla somministrazione contemporanea di acido acetilsalicilico.
Porpore vascolari Le porpore vascolari sono un gruppo assai eterogeneo di malattie. Si conoscono forme dove il difetto è extraparietale e forme dove, viceversa, è parietale. A loro volta queste ultime possono essere congenite o acquisite. Di regola non sono gravi: consistono essenzialmente in manifestazioni purpuriche e sanguinamenti, localizzati o diffusi, spesso confinati alla cute e alle mucose (talvolta viscerali), che si arrestano spontaneamente dopo 24-48 ore e non tendono a recidivare. Porpore da difetto extraparietale A. Sindrome di Cushing. Le manifestazioni purpuriche sono in funzione dell’aumentato catabolismo proteico dovuto all’iperincrezione di glicocorticoidi che provoca alterazioni distrofiche del connettivo perivascolare (si veda Sindrome di Cushing, Cap. 58). Analogo quadro si osserva in quei pazienti sottoposti a trattamenti prolungati con dosi elevate di corticosteroidi. B. Porpora senile. Colpisce le persone anziane. È caratterizzata dalla comparsa di microecchimosi, con aspetto reticolare, di colore rosso violaceo, piuttosto estese, localizzate al viso, al torace, ma soprattutto al dorso delle mani e alla superficie estensoria delle braccia. La comparsa a volte è spontanea, ma più spesso segue a piccoli traumi. Possono durare anche alcune settimane e talvolta regrediscono lasciando chiazze iperpigmentate. La genesi sembra legata a marcata ipotrofia del collageno del derma e a diminuzione dell’adipe sottocutaneo che consentono un’anomala mobilità della cute sui vasi sottostanti ed una ridotta protezione degli stessi dai piccoli traumi. Le venule e i capillari si possono così lacerare e il sangue diffondere facilmente nel connettivo distrofico. Non si conosce alcuna terapia specifica. Porpore da difetto parietale congenito A. Teleangectasia emorragica ereditaria (malattia di Rendu-Weber-Osler). È una malattia congenita trasmessa come carattere autosomico dominante, caratterizzata da anomalie strutturali dei capillari e delle venule della cute e delle mucose, con formazione di ectasie vascolari diffuse e facile tendenza al sanguinamento. Colpisce prevalentemente la razza bianca e, con una certa predilezione, il sesso femminile. Sono descritti in
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letteratura molti casi senza precedenti nei familiari e nei collaterali, per cui si è parlato di “casi di malattia sporadica”. Questo si spiegherebbe con un diverso grado di penetranza del gene autosomico responsabile. 1. Eziopatogenesi. La teleangectasia emorragica ereditaria (TEE) è dovuta allo spiccato assottigliamento delle pareti vasali, talvolta ridotte al solo strato endoteliale per la scomparsa, nei vasi più piccoli, della membrana elastica e della tonaca muscolare. La malattia è sistemica. 2. Clinica. Sulla cute (o sulle mucose) è possibile documentare la presenza di piccole (1-3 cm) dilatazioni color violaceo, non pulsanti, che col tempo possono estendersi, diventare nodulari e rilevate, e assumere aspetto angiomatoso. Sono localizzate soprattutto alla mucosa nasale, gengivale, palatale, linguale; sulle guance, sulle orecchie, sul mento, alle estremità degli arti superiori (soprattutto ai polpastrelli delle dita e sotto le unghie). Da segnalare inoltre il possibile interessamento viscerale, gastroenterico, urogenitale, epatico, colecistico e polmonare. In particolare, nei polmoni si possono osservare fistole arterovenose, che determinano uno stato di ipossiemia cronica con dispnea, dita a bacchetta di tamburo e modesta poliglobulia. Importanti anche le gravi teleangectasie epatiche, che possono condurre a cirrosi. Di norma la sintomatologia emorragica inizia attorno ai 10-15 anni di età e all’esordio, nell’80% dei casi, è caratterizzata da marcata epistassi. Le teleangectasie compaiono più tardivamente, verso i 20-30 anni, e diventano progressivamente più marcate dopo i 40 anni. Col passare degli anni il quadro si aggrava e può comparire anemia ipocromica sideropenica. 3. Esami di laboratorio. Le diverse prove di funzionalità emostatica (dal numero delle piastrine al dosaggio dei fattori plasmatici della coagulazione, all’attività fibrinolitica) rientrano tutte nei limiti di norma. Soltanto le prove che esplorano esclusivamente la resistenza capillare possono risultare positive (per es., prova del laccio). È possibile, poi, in corso di TEE, documentare la presenza di anemia sideropenica con iperplasia eritroblastica compensatoria a livello midollare. 4. Diagnosi. La diagnosi di TEE è facile quando si possono osservare direttamente le lesioni caratteristiche in più membri dello stesso nucleo familiare. Lesioni analoghe si hanno in corso di sclerodermia, ma limitate alle mani e raramente sanguinanti. La prognosi quoad vitam è buona, dal momento che le emorragie, anche viscerali, raramente sono mortali. 5. Cenni di terapia. Il trattamento generale è sostitutivo e consiste in terapia con ferro e trasfusioni quando compare anemia sideropenica. La letteratura riporta inoltre risultati contrastanti circa l’impiego di estrogeni (etinil-estradiolo) in alcuni casi di epistassi. Questo farmaco agirebbe determinando metaplasia squamosa della mucosa nasale.
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B. Disordini ereditari del connettivo. Si tratta di anomalie molto rare, la trattazione approfondita delle quali esula dagli intenti di questo libro. Giova comunque fare alcuni cenni. Sotto il nome di sindrome di Ehlers-Danlos si raccoglie un gruppo di malattie ereditarie del connettivo caratterizzate da incremento della elasticità della cute e iperestensibilità delle articolazioni. Si riconoscono otto forme diverse sulla base di evidenze cliniche, genetiche e biochimiche. In particolare, i pazienti affetti dal tipo IV, trasmesso come carattere autosomico recessivo o dominante, presentano un’abnorme fragilità vasale secondaria a bassi livelli di collageno di tipo III. La sintomatologia emorragica è costituita da ampie ecchimosi che compaiono dopo traumi modesti. Di proporzioni più lievi, invece, la sindrome emorragica che può accompagnare la sindrome di Marfan, una malattia ereditata come carattere autosomico dominante e caratterizzata da un disordine generalizzato del connettivo con manifestazioni scheletriche, oculari e cardiovascolari. Maggiore è la gravità del quadro in corso di pseudoxanthoma elasticum. Si trovano infatti emorragie gastrointestinali, retiniche, renali, uterine e subaracnoidee. La malattia, trasmessa come carattere autosomico recessivo, è contraddistinta da anomalie del tessuto elastico. Da ultimo, la osteogenesis imperfecta (ereditaria, autosomica dominante), dove all’abnorme fragilità ossea (fratture multiple alla nascita, deformità scheletriche) si associano una porpora cutanea e frequenti emorragie mucose per rottura di vasi venosi e talora anche di grossi vasi arteriosi. Il difetto risiede, come per le altre forme sopra citate, nel collageno (ridotte quantità di collageno tipo I). Porpore da difetto parietale acquisito A. Scorbuto. La carenza di vitamina C determina la comparsa dello scorbuto. La porpora costituisce uno dei primi sintomi di questa avitaminosi, attualmente quasi del tutto scomparsa. Le manifestazioni emorragiche possono essere gravi e consistono in emorragie gengivali, gastroenteriche, sottocutanee e muscolari, ed ematuria. Nel bambino è frequente la comparsa di stravasi ematici sottoperiostei e intraossei. La genesi della sintomatologia sembra legata al ruolo della vitamina nella sintesi dell’idrossiprolina. La mancanza di questo aminoacido, infatti, comporta alterazioni strutturali della sostanza fondamentale o delle fibre collagene del tessuto connettivo. In alcuni casi sono state anche documentate modeste anomalie a carico della funzionalità piastrinica. La terapia è basata sulla somministrazione di acido ascorbico per os. B. Disprotidemie. Porpore emorragiche compaiono di frequente nelle malattie che si accompagnano a variazioni sia qualitative che quantitative delle proteine sieriche. Tra queste ricordiamo le discrasie plasmacellulari e linfoplasmocitoidi (Cap. 50), e tutte le malattie caratterizzate da crioglobulinemia. Le manifestazioni emorragiche trovano diverse spiegazioni. L’endotelio
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vasale può infatti venire modificato sia dall’anossia secondaria all’iperviscosità ematica sia dalla deposizione di paraproteine o immunocomplessi. Sovente, poi, coesistono difetti qualitativi e quantitativi delle piastrine e dei fattori plasmatici della coagulazione. C. Vasculiti da ipersensibilità, porpora di HenochSchönlein. Si rimanda la trattazione al capitolo 69.
DISORDINI DELL’EMOCOAGULAZIONE E DELLA FIBRINOLISI Metodi di studio dell’emocoagulazione L’indagine dei deficit emocoagulativi è fondata su basi molto semplici; la maggior parte delle prove consiste nel mescolare dei reagenti con il plasma in esame, in un sistema che abbia come evento terminale la formazione di un coagulo fibrinico originante dal fibrinogeno proprio del plasma stesso (nei rari casi di afibrinogenemia o disfibrinogenemia le prove vengono opportunamente modificate). Lo studio di un paziente con sindrome emorragica richiede l’impiego di un gruppo di test di facile esecuzione ma di sufficiente sensibilità per esaminare le diverse parti del sistema emocoagulativo. Parecchi di questi test, come il tempo di coagulazione del sangue intero, il tempo di ricalcificazione del plasma ossalatato, il consumo di protrombina del siero, il test di generazione della tromboplastina, sono consacrati da una lunga consuetudine ma sono di scarso valore pratico perché assai poco specifici. I test di screening più importanti, oltre al tempo di emorragia di cui si è detto a proposito delle prove di emostasi, sono: • il tempo di tromboplastina parziale attivata (APTT, Activated Partial Thromboplastin Time); • il tempo di protrombina con metodica un tempo (TP o tempo di Quick); • il tempo di trombina; • il test di solubilità in urea del coagulo per valutare il fattore XIII. Questi test sono eseguiti impiegando come materiale di partenza il plasma; infatti, al momento del prelievo, il sangue viene immediatamente mescolato con ossalato di sodio (o altra sostanza che porta allo stesso risultato) che ha la funzione di chelare il calcio, ossia di vincolarlo in un composto non dissociato. In assenza di ioni di calcio il sangue diviene incoagulabile ed il plasma può essere ottenuto centrifugando ed eliminando i globuli sedimentati. Il plasma così ricavato può essere reso nuovamente coagulabile con l’aggiunta di una quantità opportuna di una soluzione (per es., cloruro di calcio) contenente ioni calcio (“ricalcificazione”).
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3. Tempo di trombina: valuta i deficit di fibrinogeno, sia quantitativi che qualitativi; il suo allungamento indica le alterazioni del fibrinogeno, l’eventuale presenza in circolo di anticoagulanti o di sostanze in qualche modo inibenti l’emocoagulazione, per esempio i prodotti di degradazione del fibrinogeno o della fibrina (FDP). Esecuzione: si preparano diluizioni scalari di trombina e si saggiano su plasma normale, utilizzando una concentrazione tale da coagulare il plasma normale in circa 15 sec. Vengono considerati allungati tempi più lunghi del controllo di 3 o più sec. 4. Test per il fattore XIII: il deficit di fattore XIII di notevole entità provoca un coagulo fibrinico abnormemente solubile in urea 5M o in acido monocloroacetico all’1%. I risultati delle prime prove, variamente combinati, permettono un primo orientamento sul tipo di deficit in questione (Fig. 52.9): • se l’APTT è allungato e il TP è normale il deficit interessa uno o più fattori della via intrinseca; • se il TP è allungato e l’APTT è normale, il deficit della via estrinseca interessa il fattore VII (non esistono deficit di fattore tissutale); • se l’APTT e il TP sono tutt’e due allungati, espressione di un’alterazione della via comune, le prove vanno completate con il tempo di trombina: se è normale il deficit interessa uno o più dei tre fattori X, V e II; se è allungato si ha carenza di fibrinogeno o presenza di anticoagulanti circolanti. La precisazione del fattore carente, nel primo e nel terzo caso, richiede l’esecuzione delle stesse prove modificate con l’aggiunta di reattivi in grado di operare o meno una “correzione” del test alterato. In caso di allungamento dell’APTT in un paziente con sindrome emorragica la diagnosi differenziale è li-
XI VII IX
TP
VIII
TT
2. TP: valuta elettivamente la via di attivazione estrinseca del fattore X, oltre ai fattori della via comune V, II e fibrinogeno. Esecuzione: volumi uguali di plasma povero in piastrine ed estratto tissutale (cervello di coniglio) vengono preincubati a 37 °C; si ricalcifica e si registrano i tempi di coagulazione, che oscillano nella norma tra 12 e 14 sec a seconda del tipo e dell’efficienza dell’estratto tissutale; i valori normali possono variare anche sensibilmente da un laboratorio all’altro, ma non superano oscillazioni di 1 sec nello stesso laboratorio.
XII
AP
1. APTT o tempo di coagulazione caolino-cefalina: valuta elettivamente la via intrinseca di attivazione del fattore X (oltre ai fattori della via comune V, II e fibrinogeno) e, sebbene sia dotato di buona sensibilità, può dare valori ancora normali per livello di fattore VIII intorno al 20% o anche più bassi. Esecuzione: il plasma ottenuto da centrifugazione ad alta velocità e quindi “povero in piastrine” viene incubato con caolino (per standardizzare l’attivazione da contatto) e cefalina (equivalente dei fosfolipidi piastrinici o fattore piastrinico III) e successivamente si ricalcifica. I valori normali oscillano tra 40 e 60 sec.
X V II
Trombina Fibrinogeno
Fibrina
Figura 52.9 - Vie dell’attivazione della protrombina esplorate rispettivamente con APTT (via intrinseca e via comune) e con TP (via estrinseca e via comune).
mitata al deficit dei fattori VIII, IX, XI, in quanto i deficit dei fattori della fase contatto sono caratterizzati da tendenza emorragica modesta ed occasionale (fattore XII) o addirittura assente (fattori Fletcher e Fitzgerald). L’APTT viene eseguito usando come substrato miscele in parti uguali di plasma in esame e plasma sicuramente privo di uno solo dei tre fattori VIII, IX e XI, ottenuti rispettivamente da pazienti affetti da forma grave di emofilia A, B o C. Se il plasma aggiunto per la correzione non contiene il fattore carente nel plasma in esame, l’APTT della miscela risulterà allungato, in modo analogo al test di base; al contrario, si otterrà una normalizzazione quasi completa dell’APTT quando la carenza dei due plasmi interessa fattori diversi: ovviamente il deficit del plasma del paziente sarà identico al deficit del fattore (noto) del plasma aggiunto che non corregge l’APTT. Quando non sono disponibili plasmi elettivamente carenti di un singolo fattore si eseguono le prove di correzione mescolando due campioni del plasma in esame, l’uno con plasma adsorbito con solfato di Ba e l’altro con siero normale. Il plasma adsorbito contiene i fattori XII, XI, VIII e V; il siero normale contiene i fattori XII, XI, X e IX. Se entrambi i reattivi correggono l’APTT allungato si tratterà di un deficit di fattore XI (presente sia nel plasma adsorbito che nel siero); la correzione solo ad opera del plasma adsorbito indica un deficit di fattore VIII, mentre la sola correzione con il siero è indicativa di deficit di fattore IX. In caso di APTT e TP entrambi allungati e tempo di trombina normale, la correzione del TP con plasma adsorbito indica un deficit di fattore V, la mancata correzione un deficit di fattore II e/o X. Non è corretto aggiungere siero alla miscela coagulante nel tempo di protrombina perché ne verrebbe sostanzialmente alterato il significato. Oltre alle prove citate vi sono test più accurati che permettono il dosaggio di ogni singolo fattore e che ri-
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
vestono particolare utilità quando il deficit dei fattori emocoagulativi, soprattutto della via intrinseca, non altera in modo significativo l’APTT pur determinando seri problemi emorragici. Il riconoscimento esatto del fattore carente è essenziale per la terapia sostitutiva, specialmente nelle sindromi emofiliche.
Metodi di studio della fibrinolisi Le metodiche più usate per misurare l’attività fibrinolitica sono: • la prova di lisi del coagulo euglobulinico; • il tempo di lisi del coagulo del sangue diluito; • il metodo delle piastre di fibrina; • il dosaggio nel siero dei prodotti di degradazione del fibrinogeno (FDP); • la dimostrazione di complessi plasmina-2-antiplasmina nel sangue circolante. A queste prove di fibrinolisi vanno aggiunti i test di “paracoagulazione” per mettere in evidenza i monomeri di fibrina, come verrà precisato in seguito. 1. Nella vecchia terminologia fisico-chimica le globuline del sangue erano distinte in euglobuline e pseudoglobuline a seconda della loro maggiore o minore precipitabilità con solfato di ammonio; la frazione euglobulinica del plasma contiene attivatori del plasminogeno, plasminogeno, plasmina e fibrinogeno, mentre la maggior parte degli inibitori appartiene alle pseudoglobuline. Per l’esecuzione della prova la frazione euglobulinica viene separata e fatta coagulare con trombina, e viene registrato il tempo necessario alla lisi del coagulo, normalmente da 3 a 20 ore; il test deve essere eseguito entro 2 ore dal prelievo, data la labilità degli attivatori del plasminogeno. 2. La prova misura il tempo di lisi di un coagulo ottenuto, per azione della trombina, da plasma o sangue intero diluiti 1:10 in tampone di fosfati. I tempi di lisi sono circa tre volte più lunghi rispetto alla lisi del coagulo euglobulinico ed il lungo tempo di incubazione può essere causa di errori, per esempio per contaminazione batterica. 3. Il metodo delle piastre di fibrina è un mezzo sensibile ed accurato per misurare l’attività fibrinolitica complessiva degli attivatori del plasminogeno e della plasmina oppure l’attività separata di ciascuna delle due componenti. Una quantità nota del materiale in esame (plasma, frazione euglobulinica) viene deposta sulla superficie di uno strato di fibrina di spessore uniforme. Per valutare l’efficienza del sistema attivatore si impiega un substrato fibrinico ricco di plasminogeno, mentre per misurare l’attività plasminica si utilizza una piastra di fibrina da cui è stato allontanato il plasminogeno per mezzo di inattivazione al calore. Incubando le piastre a 37 °C, gli agenti fibrinolitici eventualmente presenti provocano delle aree di lisi circolare nella piastra fibrinica che vengono paragonate ad aree di lisi dovute a quantità note di preparazioni standard di attivatori tissutali o di urochina-
si, ottenendosi in tal modo una misura quantitativa dell’attività fibrinolitica del campione in esame. 4. Il riscontro nel siero dei cosiddetti FDP non ha significato univoco; essi vengono messi in evidenza con prove di agglutinazione del lattice con anticorpi antiframmenti D ed E del fibrinogeno, che non consentono di discriminare tra prodotti di digestione del fibrinogeno e della fibrina; questa distinzione è concettualmente importante poiché la presenza di prodotti di degradazione del fibrinogeno indica un’iperfibrinolisi sistemica primitiva (iperplasminemia primitiva), mentre i prodotti derivanti da lisi della fibrina, quindi di un coagulo, indicano appunto l’esistenza di un processo di coagulazione intravascolare con fibrinolisi secondaria. Inoltre non è neppure certo che gli FDP rappresentino esclusivamente la spia di una fibrinolisi, comunque avvenuta: in realtà le prove di agglutinazione mettono in evidenza semplicemente alcuni determinanti antigenici correlati al fibrinogeno e alla fibrina (FRA, Fibrinfibrinogen Related Antigen), e comuni anche ai monometri di fibrina derivanti dall’azione della trombina sul fibrinogeno, nell’ambito del processo emocoagulativo, in assenza di attività fibrinolitica. 5. I primi tre procedimenti elencati sono adatti alla valutazione di un’iperfibrinolisi sistemica di entità tale da determinare una sindrome emorragica, mentre il riscontro degli FDP, sia pure con le riserve prima esposte, è ritenuto un test sensibile anche ad episodi di fibrinolisi transitoria e/o localizzata: a questo fine la prova più attendibile per poter affermare che si è comunque formata plasmina, anche se non in quantità tale da influenzare i test di lisi del coagulo, consiste nella dimostrazione di complessi plasmina-2-antiplasmina nel sangue circolante, che viene ottenuta con tecniche specialistiche che qui non è il caso di citare. Le prove di paracoagulazione, cui si è prima accennato, consistono nella valutazione della formazione eventuale nel plasma di un precipitato (e non di un coagulo, onde il nome delle prove) in seguito a raffreddamento, aggiunta di solfato di protamina o di etanolo. Tutti questi agenti sono infatti in grado di precipitare i monomeri fibrinici derivanti dall’azione della trombina sul fibrinogeno nel corso del processo emocoagulativo. La positività delle prove di paracoagulazione è un segno sicuro di emocoagulazione intravascolare.
Malattia di von Willebrand È la più comune delle malattie emorragiche ereditarie, segnalata per la prima volta da Erik von Willebrand nel 1926, in parecchi membri di una famiglia di un paese delle isole Aland, in Finlandia. Attualmente il termine “malattia di von Willebrand” definisce una malattia emorragica assai eterogenea nelle sue modalità di trasmissione genetica, nelle manifestazioni cliniche e nei risultati delle prove di laboratorio. A. Patogenesi. Per la comprensione del meccanismo patogenetico è necessaria una premessa sulla composizione e sulle proprietà funzionali del fattore VIII.
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È stato recentemente riconosciuto che in condizioni normali nel plasma circola un complesso costituito da due componenti: fattore VIII:C-fattore VIIIR; il fattore VIIIR (proteina correlata al fattore VIII) o fattore von Willebrand è la porzione vettore, di supporto, legata in modo non covalente ad una molecola molto più piccola, il fattore VIII:C, componente proteica ad attività procoagulante. Il fattore von Willebrand è definito anche come: • fattore VIIIR:Ag: determinanti antigenici identificati mediante anticorpi eterologhi, presenti nelle piastrine normali e nella parete vascolare; • fattore VIIIR:RC (cofattore ristocetinico): proprietà del fattore VIIIR del plasma normale di agglutinare (7) piastrine normali in presenza dell’antibiotico ristocetina. È da notare che questi due diversi modi di valutare il fattore von Willebrand hanno un significato diverso: la misura dell’VIIIR:Ag è una stima quantitativa globale, mentre quella dell’VIIIR:RC rispecchia anche la prevalenza di multimeri di maggiori dimensioni del fattore presenti nel plasma e la loro capacità di legame con le piastrine. Il fattore von Willebrand (vW) è una glicoproteina di grandi dimensioni consistente di una popolazione eterogenea di multimeri, legati con legami disulfurici, di peso molecolare variante tra 800.000 e 12.000.000, con subunità di peso molecolare 200.000. Esso è sintetizzato nelle cellule endoteliali, nei megacariociti e nelle piastrine; la concentrazione plasmatica è di 8 /ml, circa 100 volte maggiore di quella dell’VIII:C. La funzione fisiologica del fattore von Willebrand nell’emostasi sembra essere, come si è già visto, la stabilizzazione delle interazioni tra piastrine e pareti vasali, essenziale per l’adesività piastrinica al subendotelio: in questo senso sono maggiormente attivi i multimeri ad alto peso molecolare. La causa primitiva della malattia di von Willebrand è una ridotta disponibilità, per condizionamento genetico, del fattore von Willebrand nel plasma e, nelle varianti più gravi della malattia, anche a livello degli endoteli e delle piastrine. Come si è detto la malattia non è un’entità omogenea ma comprende diverse varianti genetiche, raggruppate quasi tutte nei tipi I e II, ognuno con numerosi sottotipi distinti in base alla modalità di trasmissione ereditaria, autosomica dominante o autosomica recessiva; ai livelli plasmatici di antigene del fattore von Willebrand; ai livelli plasmatici di fattore VIII:C; alle modalità di agglutinazione piastrinica indotta dalla ristocetina; al comportamento dei multimeri del fattore von Willebrand nel plasma e nelle piastrine, se cioè si ha semplicemente una riduzione quantitativa di tutti i multimeri o una alterata distribuzione dei multimeri di diverse dimensioni, con deficit dei multimeri più grandi; se i multimeri hanno struttura abnorme ed infine se si trovano reperti discordanti nel plasma e nelle piastrine. (7) Il termine “agglutinazione” implica un ruolo passivo delle piastrine e, nel caso dell’agglutinazione in presenza di ristocetina, essa è presente anche dopo che le piastrine sono state fissate in formaldeide; l’aggregazione richiede un’attività metabolica attiva delle piastrine, la cosiddetta “reazione di liberazione”.
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B. Classificazione e fisiopatologia. Per una definizione esatta dei vari tipi della malattia di von Willebrand devono essere eseguiti: • la determinazione della dose soglia di ristocetina necessaria per indurre l’agglutinazione delle piastrine nel plasma ricco in piastrine; il test è essenziale per identificare i pazienti con risposta aumentata alla ristocetina; • la misura della concentrazione dell’antigene del fattore von Willebrand e dell’attività di cofattore ristocetinico nel plasma e nelle piastrine; • l’analisi della struttura dei multimeri del fattore von Willebrand del plasma e delle piastrine; • la misura dell’attività procoagulante del fattore VIII:C nel plasma. Tenendo conto di questi parametri è stata proposta una classificazione di tipo funzionale che distingue le seguenti tipologie. 1. Pazienti con anomalie quantitative del fattore von Willebrand, senza evidenza di anomalie funzionali di questo fattore. Il gruppo comprende il 50% o più degli individui con malattia di von Willebrand, appartenenti quasi tutti ai diversi sottotipi del tipo I. I pazienti hanno per lo più bassi livelli plasmatici di antigene del fattore von Willebrand e corrispondenti bassi livelli di attività del cofattore ristocetinico; anche la proteina procoagulante del fattore VIII è ridotta. La patogenesi delle emorragie è dovuta ai livelli insufficienti del fattore von Willebrand circolante e del fattore VIII:C; le manifestazioni emorragiche sono meno gravi negli individui che hanno una normale concentrazione di fattore von Willebrand nelle piastrine. 2. Pazienti il cui fattore von Willebrand ha bassa attività di cofattore ristocetinico. In prevalenza si tratta di individui che hanno nel plasma un’anomala ripartizione tra le varie forme molecolari del fattore von Willebrand, con diminuzione o assenza dei multimeri più grandi. L’attività di cofattore ristocetinico è sempre più bassa dei livelli dell’antigene del fattore von Willebrand, che può essere ridotto o anche normale; i livelli della proteina procoagulante del fattore VIII sono solitamente proporzionali ai livelli dell’antigene di fattore von Willebrand. La patogenesi delle emorragie è correlata all’assenza dei multimeri di maggiori dimensioni. 3. Pazienti con risposta aumentata alla ristocetina. Sono i pazienti del gruppo I New York e del sottotipo II B. Il plasma ricco in piastrine mostra un’aggregazione a concentrazioni di ristocetina più basse di quelle necessarie per il plasma normale; in questo gruppo i multimeri del fattore von Willebrand sono legati in vivo alle piastrine più che di norma, e questo fatto determina l’aumentata risposta alla ristocetina. Corrispondentemente si riscontra nel plasma assenza dei multimeri più grandi, presumibilmente dovuta alla loro interazione con le piastrine. Alcuni pazienti presentano piastrinopenia transitoria o persistente, in modo apparentemente spontaneo o as-
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sociato a stress, sforzo fisico o gravidanza, evenienze che provocano un aumento dei livelli di fattore von Willebrand nel plasma. 4. Pazienti con malattia di von Willebrand di tipo piastrinico. Recentemente si sono identificati pazienti portatori di anomalie del fattore von Willebrand, con aumentata risposta alla ristocetina ed episodi di piastrinopenia, analogamente a quanto si è visto per i pazienti del sottotipo II B della malattia di von Willebrand, ma essi rappresentano un gruppo distinto in quanto hanno un’anomalia piastrinica intrinseca consistente in una capacità aumentata delle piastrine di legare il fattore von Willebrand, peraltro normale. Questa malattia è anche denominata pseudo-von Willebrand. C. Clinica. La sintomatologia emorragica più comune di tutti i tipi di malattia di von Willebrand è costituita da ecchimosi, epistassi ed emorragie gengivali, che simulano un difetto piastrinico primario e sono secondarie alla ridotta adesività piastrinica al sottoendotelio. Inoltre si hanno anche emorragie in seguito ad estrazione dentaria, tonsillectomia o altre semplici procedure chirurgiche; emorragie a livello del tubo gastroenterico, menorragie ed eccessive emorragie post partum. I pazienti con forma grave di malattia di von Willebrand, carenti anche in fattore VIII:C: vanno incontro ad emartri ricorrenti, emorragie post traumatiche, ematomi muscolari profondi. D. Esami di laboratorio. L’allungamento del tempo di emorragia è il reperto tipico della malattia di von Willebrand; va però tenuto presente che esso non è allungato in modo costante durante tutto il decorso ma possono esistere fasi di malattia in cui esso è normale o solo di poco allungato. Il deficit plasmatico può essere quantificato solo mediante test in vitro, ma la correzione del tempo di emorragia rappresenta la sola valutazione fisiologica certa della funzione di questa proteina. Il fattore von Willebrand può essere messo in evidenza sia con metodiche funzionali, come attività di cofattore ristocetinico (fattore VIIIR:CR), che immunologiche, come fattore VIIIR:Ag. L’agglutinazione piastrinica indotta in presenza di ristocetina viene valutata utilizzando piastrine normali lavate, ristocetina in quantità fissa e diluizioni scalari del plasma in esame. L’attività coagulante del fattore VIII (fattore VIII:C) è valutata con test emocoagulativi. Il reperto fisiologico caratteristico della malattia di von Willebrand è il tipo di risposta all’infusione di quantità relativamente piccole di plasma normale: nei pazienti si verifica un aumento ritardato di fattore VIII:C, che raggiunge un picco dall’8ª alla 24ª ora e rimane elevato per 72 ore: questo effetto è attribuito a neosintesi di fattore VIII:C indotta dal fattore VIIIR trasfuso. E. Cenni di terapia. Lo scopo della terapia è di correggere l’allungamento del tempo di emorragia e, quando presenti, le alterazioni dell’emocoagulazione. Per ottenere ciò bisogna innalzare i livelli plasmatici sia del fattore von Willebrand che del fattore VIII:C e la tera-
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pia sostitutiva è la sola possibilità nei pazienti con tipo III che hanno livelli molto ridotti di fattore von Willebrand sia nel plasma che nei depositi tissutali. Nei pazienti di tipo I in cui si hanno notevoli depositi tissutali di fattore von Willebrand qualitativamente normale si può provocarne la liberazione, con correzione conseguente del difetto emostatico, mediante infusione o somministrazione per via endonasale di DDAVP (1-deamino-8-d-arginina vasopressina).
Emofilia Con il nome di emofilia si indicano le sindromi emorragiche geneticamente condizionate dovute a deficit quantitativo e/o qualitativo di uno dei tre fattori (XI, IX e VIII) implicati nella via di attivazione intrinseca, immediatamente dopo la contatto-attivazione. Di queste, la più importante e la più grave è la forma dovuta a deficit dell’attività coagulante del fattore VIII, denominata emofilia A; l’emofilia B è dovuta a deficit di fattore IX e l’emofilia C al deficit di fattore XI. Emofilia A A. Epidemiologia e trasmissione ereditaria. È una malattia rara che colpisce esclusivamente gli uomini, mentre le donne ne sono portatrici; la prevalenza è calcolata in 8/100.000 o 16/100.000 maschi; è più facile che si manifesti nelle famiglie con matrimoni consanguinei ed era comune nel secolo scorso nelle famiglie regnanti. L’emofilia è trasmessa ereditariamente in modo recessivo attraverso il cromosoma X; se un emofilico – (XY) sposa una donna sana (XX) tutti i figli maschi saranno sani (XY) e tutte le figlie saranno portatrici – (XX); se un uomo sano (XY) sposa una donna portatri– ce (XX) si danno quattro probabilità uguali (25% ognu– na) di nascita di figli sani (XY), –figli emofilici (XY), figlie sane (XX), figlie portatrici (XX). La donna è portatrice del gene emofilico allo stato eterozigote; il maschio emofilico–è–emizigote. La possibilità di una donna omozigote (X X) e quindi emofilica è molto remota. In circa il 30% dei casi non vi è anamnesi familiare positiva per emofilia, per la mancanza di ascendenti maschi nell’albero genealogico o per la possibile insorgenza di una mutazione. B. Eziopatogenesi. L’emofilia A è un difetto congenito del fattore VIII:C. Il fattore VIII:C è la globulina antiemofilica (AHG, Anti Hemophilic Globulin) o fattore antiemofilico (AHF, Anti Hemophilic Factor), che ha funzione di cofattore nella via intrinseca dell’attivazione del fattore X. Il fattore antiemofilico umano è di difficile purificazione; ha un peso molecolare intorno a 285.000; è relativamente resistente alla riduzione e all’inattivazione; il contenuto plasmatico in fattore VIII:C non è noto con certezza: l’attività di un dato campione plasmatico è riferita all’attività coagulante di un pool standardizzato di plasma umano ed esprime quindi una concentrazione relativa. La sede di sintesi dell’VIII:C è ignota: il fegato ha importanza preminente, ma è probabile che la sintesi sia ubiquitaria.
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Come si è già detto, il fattore VIII:C è presente nel plasma legato al fattore VIIIR o fattore von Willebrand, che funge da complesso molecolare di trasporto. Da quanto esposto, le proprietà biologiche delle due proteine appaiono indipendenti: di fatto, dopo separazione delle due componenti, si osserva che la proteina procoagulante conserva completa l’attività del fattore VIII:C anche in assenza di fattore VIIIR ed ugualmente l’attività di cofattore ristocetinico persiste quando dal fattore VIIIR è stata allontanata tutta la porzione procoagulante. Anche il controllo genetico dei due fattori è separato, infatti l’emofilia A, dovuta a deficit di fattore VIII:C, ha trasmissione ereditaria di tipo recessivo legata al sesso, mentre la malattia di von Willebrand, dovuta a carenza elettiva (o ad alterazione) del fattore VIIIR, ha eredità di tipo autosomico. Non mancano però osservazioni indicative di una certa interdipendenza delle due componenti del complesso fattore VIII, per esempio la concentrazione delle due proteine è molto simile nel plasma normale e nella maggior parte delle malattie non ematologiche. L’emofilia A è dovuta a deficit isolato del fattore VIII:C, condizionato da una mutazione a livello del cromosoma X in grado di provocare una diminuita produzione di fattore VIII:C normale oppure la sintesi di proteina VIII:C non funzionale; la maggior parte dei pazienti con emofilia grave (concentrazione di fattore VIII < 1% del normale) ha un deficit quantitativo più o meno spiccato di fattore VIII:C dimostrato con metodi immunologici (fattore VIII:CAg). In un piccolo sottogruppo di pazienti, invece, è conservata la sintesi di una molecola normalmente immunoreattiva ma non funzionale (cioè priva di attività coagulante) in grado di neutralizzare anticorpi omologhi; la proteina non funzionale è detta materiale cross-reagente (CRM, Cross Reacting Material) ed i plasmi che la contengono sono CRM-positivi; essi hanno livelli normali di fattore VIII:CAg anche se la loro attività procoagulante è molto bassa. L’incidenza delle mutazioni è stimata come particolarmente elevata in base alla considerazione che, essendo difficile che un uomo emofilico lasci discendenza, il gene dovrebbe esaurirsi, mentre in realtà la prevalenza della malattia resta più o meno stazionaria. C. Fisiopatologia. Il fattore VIII:C agisce come cofattore nel complesso: fattore IX + Ca++ + fattore piastrinico 3 + fattore VIII che, nella via intrinseca, attiva direttamente il fattore X a fattore Xa; il deficit di fattore VIII:C provoca un’alterazione dell’emostasi secondaria, con ridotta o assente formazione del coagulo fibrinico in corrispondenza del tappo emostatico. Immediatamente dopo la lesione vasale l’emostasi sembra normale perché non si ha alterazione piastrinica e si forma regolarmente il tappo emostatico; l’emorragia compare a relativa distanza dal trauma e può recidivare dopo ore o giorni, per compromissione dell’emostasi secondaria: l’insufficiente e rallentata attivazione del fattore X ha come conseguenza un’incompleta formazione di trombina, da cui scarsa formazione di fibrina.
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D. Clinica. La gravità ed il tipo delle emorragie negli emofilici sono correlati alla quantità di fattore VIII:C disponibile; si può schematicamente distinguere l’emofilia grave, con livelli di fattore VIII < 1%, l’emofilia moderata, con valori di fattore VIII tra 2 e 20%, ed una forma lieve, che può essere a lungo misconosciuta, con valori plasmatici di fattore VIII da oltre 20 a 40%. Nell’emofilia grave le emorragie sono rare nel periodo neonatale, iniziano di solito a 3-4 mesi di età, quando il bambino comincia ad esplicare una certa attività; sono emorragie apparentemente spontanee o provocate da traumi minimi e mostrano alcune localizzazioni caratteristiche, tipicamente a livello articolare e muscolare. Le emorragie articolari possono colpire tutte le articolazioni, ma in modo elettivo le ginocchia, i gomiti, le caviglie; l’articolazione è calda, tesa, molto dolente; l’emartro può regredire rapidamente ma tende a recidivare nella stessa sede, provocando la distruzione progressiva delle cartilagini e delle superfici articolari nel quadro di un’artropatia cronica evolutiva invalidante che può sfociare nell’anchilosi articolare. Le emorragie muscolari, molto dolorose, limitano il movimento e possono esercitare una compressione sui nervi e sui vasi sanguigni tale da determinare paralisi da compressione o fenomeni gangrenosi. Se si verificano a livello dei muscoli delle prime vie aeree (pavimento della bocca, laringe) possono causare una sindrome di asfissia acuta da ostruzione; gli ematomi dello psoas destro possono simulare un’appendicite acuta, situazione che, se non valutata, può portare all’intervento e alla perdita del paziente. Più raramente si hanno emorragie in altre sedi: epistassi profuse, emorragie gengivali, ematuria, emorragie dal tubo digerente, particolarmente dopo ingestione di aspirina. Gli interventi chirurgici sono estremamente rischiosi negli emofilici non adeguatamente preparati mediante infusione di concentrati di fattore VIII: un caso tipico è l’emorragia mortale che può conseguire alla circoncisione in neonati di religione ebraica non riconosciuti come emofilici; un’altra situazione di rischio è rappresentata dalle estrazioni dentarie, in cui le emorragie possono recidivare dopo ore o giorni dall’intervento. Nelle forme di emofilia moderata la sintomatologia emorragica varia da occasionali emartri o emorragie spontanee ad emorragie conseguenti a minimi traumi o piccoli interventi chirurgici; nelle forme lievi le emorragie sono provocate solo da traumi o interventi di notevole importanza. Le donne portatrici hanno una concentrazione plasmatica di fattore VIII:C inferiore alla norma, ma non necessariamente del 50%, perché ciascuno dei due cromosomi X non controlla la metà esatta delle cellule ma una quota variabile; in caso di bassi livelli di fattore VIII:C, inferiori al 35-40%, possono verificarsi ecchimosi, epistassi, menorragie, emorragie post partum ed eccessivo sanguinamento dopo estrazione dentaria.
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E. Esami di laboratorio. I risultati complessivi delle prove di laboratorio permettono di identificare un quadro emocoagulativo tipico di alterazione della via di attivazione intrinseca del fattore X. Infatti i test di emostasi ed il numero delle piastrine sono normali; l’APTT è allungato, il TP (tempo di Quick) è normale. Per identificare il fattore responsabile dell’allungamento dell’APTT possono essere utilizzate come primo screening le prove di mescolanza con plasma carente in fattore VIII, che in questo caso non provoca alcuna correzione; quando tale reattivo non sia disponibile, le prove di mescolanza utilizzano plasma adsorbito, contenente fattore VIII e quindi in grado di correggere l’APTT, e siero, carente in fattore VIII e quindi senza effetto sull’APTT. La dimostrazione certa del tipo di deficit si ottiene però con i metodi di dosaggio specifico dei singoli fattori; ad essi si deve ricorrere quando le prove di correzione danno risultato dubbio e nei casi di sospetta emofilia in cui i test emocoagulativi sono ancora nei limiti della norma; infatti, perché essi risultino alterati occorre una concentrazione plasmatica di fattore VIII:C notevolmente ridotta, intorno al 20% della norma. In alcuni pazienti emofilici ripetutamente trasfusi si riscontrano anticorpi contro il fattore VIII:C umano ed in rari soggetti si formano autoanticorpi che inattivano il fattore VIII:C. F. Diagnosi. La diagnosi dell’emofilia grave è abbastanza semplice; la malattia deve essere sospettata in un maschio con anamnesi di emorragie spontanee o posttraumatiche, specie se articolari o muscolari, datanti dall’infanzia anche se l’anamnesi familiare non è indicativa; gli esami di laboratorio daranno la conferma. La diagnosi delle forme moderate o lievi, in pazienti che non hanno subito traumi tali da provocare emorragie nel passato, può riuscire problematica; è essenziale in questi casi raccogliere un’anamnesi accurata intesa a scoprire un eventuale stillicidio emorragico prolungato anche per parecchi giorni in occasione di estrazioni dentarie o minimi interventi chirurgici. La diagnosi certa è basata sulla dimostrazione, nel plasma, di un basso livello di fattore VIII:C, di un tasso normale di fattore VIIIR e sulla normalità dei test di emostasi. Anche il riconoscimento delle donne portatrici è basato sul dosaggio plasmatico del fattore VIII:C e del fattore VIIIR. G. Prognosi e terapia. I pazienti affetti da emofilia grave, che nel passato andavano rapidamente incontro ad artropatia invalidante e ad emorragie spesso mortali, hanno prognosi sostanzialmente modificata dopo l’introduzione in terapia dei concentrati di fattore VIII. Attualmente essi hanno una qualità di vita all’incirca normale ed hanno teoricamente normale aspettativa di vita, purché tempestivamente riforniti di fattore VIII secondo modalità terapeutiche ben precise. La peculiare insolubilità del fattore VIII nel plasma a bassa t° è sfruttata per la produzione dei cosiddetti “crioprecipitati”, che vengono iniettati al paziente in quantità variabili a seconda dell’entità del deficit. Alti
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livelli plasmatici possono essere raggiunti e mantenuti solo con i concentrati, che non espongono al rischio di ipervolemia ma aumentano la probabilità di trasmissione di infezioni virali, in particolare epatite B, in quanto sono ottenuti dal pool di un gran numero di plasmi, da 500 a 5000. Recentemente si è dimostrato che anche l’agente eziologico dell’AIDS può essere trasmesso con i concentrati di fattore VIII (Cap. 81). Emofilia B L’emofilia B, dovuta a deficit di fattore IX, è clinicamente indistinguibile dall’emofilia A; è meno frequente; è trasmessa con uguale meccanismo di ereditarietà recessiva legata al sesso. La gravità delle emorragie è correlata ai livelli plasmatici di fattore IX. Gli esami di laboratorio danno risultati simili a quelli dell’emofilia con allungamento dell’APTT e normalità del tempo di protrombina del plasma. L’APTT allungato è corretto dall’aggiunta di siero, non di plasma adsorbito; la conferma della diagnosi si ottiene con il dosaggio specifico del fattore IX nel plasma. Emofilia C L’emofilia C, dovuta a deficit di fattore XI, ha trasmissione ereditaria di tipo autosomico e colpisce quindi entrambi i sessi. La sindrome emorragica non è correlata ai livelli plasmatici di fattore XI, è di solito meno importante rispetto all’emofilia grave e solo raramente si hanno emartri o emorragie spontanee; le emorragie conseguono quasi esclusivamente a traumi o interventi chirurgici. L’allungamento dell’APTT è corretto sia dall’aggiunta di plasma adsorbito che di siero, perché entrambi contengono il fattore XI, che non è adsorbito e non si consuma durante il processo emocoagulativo, ritrovandosi nel siero.
Afibrinogenemia congenita È una malattia emorragica rara, con trasmissione ereditaria di tipo autosomico recessivo, caratterizzata da livelli di fibrinogeno marcatamente ridotti o assenti nel plasma e nelle piastrine. Le manifestazioni emorragiche consistono in facilità alle ecchimosi per lievi traumi, epistassi e gengivorragie, sintomi tutti caratteristici dei pazienti con deficit della funzionalità piastrinica. Oltre a questo i pazienti possono però andare incontro anche alle emorragie tipiche della carenza dei fattori emocoagulativi, come ematomi profondi ed emartri. Gli esami di laboratorio dimostrano allungamento del tempo di emorragia ed alterata aggregabilità delle piastrine dall’ADP. L’adesività al collageno è normale. Ovviamente, dati i bassi livelli di fibrinogeno, risulta compromessa la via comune dell’emocoagulazione e di conseguenza risulteranno allungati il tempo di protrombina, il tempo di tromboplastina parziale e il tempo di trombina.
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52 - DISORDINI DELL’EMOSTASI E DELL’EMOCOAGULAZIONE
Malattie emocoagulative acquisite Le malattie emocoagulative acquisite secondarie sono più comuni delle malattie congenite e, a differenza di queste, sono quasi costantemente dovute a deficit fattoriali multipli (talvolta associati a deficit piastrinici) per alterata sintesi o aumentato consumo. Meno frequenti sono le sindromi emorragiche determinate dalla presenza in circolo di inibitori o da un’iperattività fibrinolitica primitiva. La sintesi della maggior parte dei fattori emocoagulativi (I, II, V, VII, IX, X, XIII) ha luogo nel fegato, per alcuni di essi in presenza di vitamina K. La vitamina K è essenziale per la sintesi di diverse proteine implicate nel processo emocoagulativo e precisamente dei fattori II, VII, IX e X, ad attività procoagulante, e di due glicoproteine, le proteine C ed S, ad azione anticoagulante. La vitamina K interferisce nella via sintetica di questi fattori a livello della carbossilazione dei loro residui di acido glutammico ad acido -carbossi-glutammico, che avviene appunto ad opera di una carbossilasi vitamina K-dipendente. In assenza di vitamina K, sebbene i fattori continuino ad essere sintetizzati e conservino le loro proprietà immunologiche, sono biologicamente inattivi, cioè privi di attività e denominati PIVKA (Protein Induced by Vitamin K Absence). La presenza del residuo -carbossi-glutammico è necessaria per il legame di queste proteine agli ioni calcio e ai fosfolipidi di membrana, condizione fondamentale per la completa espressione della loro attività proteolitica (Fig. 52.10). Una sintesi ridotta di questi fattori si verifica nelle epatopatie acute e croniche, in caso di carenza di vitamina K e nella combinazione delle due evenienze. Nelle malattie epatiche croniche la sindrome emorragica può riconoscere una patogenesi multifattoriale per la coesistenza di piastrinopenia da ipersplenismo e, specialmente nel caso della cirrosi, per l’eventuale associazione con un quadro di coagulazione intravascolare disseminata (si veda in seguito). Un deficit di vitamina K può originare da apporto insufficiente con la dieta (circostanza eccezionale); da un alterato assorbimento per ostruzione biliare perché la vitamina liposolubile è scarsamente assorbita in assenza di sali biliari, oppure in corso di sindrome da malassorbimento; da una sintesi ridotta per uso di farmaci inibenti la flora batterica intestinale; dall’uso di anticoagulanti orali di tipo dicumarinico, antagonisti della vitamina K per inibizione della vitamina K epossido-reduttasi, con accumulo della forma ossidata della vitamina, funzionalmente inattiva per la -carbossilazione. Un deficit di fattori emocoagulativi a patogenesi combinata si ha nella malattia emorragica del neonato, dovuta all’esagerazione patologica di una carenza fisiologica di vitamina K per l’assenza di flora intestinale in grado di sintetizzarla in quantità sufficiente; inoltre il fegato immaturo ha capacità sintetiche inferiori alla norma delle proteine emocoagulative. La sintomatologia emorragica caratteristica di queste condizioni morbose è ubiquitaria, a livello della cute e
II, VII, IX, X
GA
GA GA
GA
CO2
Vit. K
II, VII, IX, X
GA COOH
GA COOH
Ca++
GA COOH
GA COOH
Ca++
Figura 52.10 - Meccanismo d’azione della vitamina K sui fattori della coagulazione. Per i dettagli si veda il testo.
delle mucose; in corso di terapia dicumarinica possono comparire emorragie retroperitoneali, intracraniche ed anche articolari e muscolari; è infine da segnalare che un’eventuale ematuria, o una melena, in corso di terapia con questi farmaci, possono costituire la spia della presenza di lesioni potenzialmente emorragiche a carico delle vie urinarie o del tratto gastroenterico (per es., ulcera duodenale). Nella malattia emorragica del neonato, al 2° o 3° giorno di vita, compaiono emorragie ombelicali, gastrointestinali o cutanee diffuse. La malattia emorragica da anticoagulanti circolanti è dovuta alla presenza in circolo di autoanticorpi diretti contro alcuni fattori emocoagulativi, soprattutto contro il fattore VIII:C. Essi si riscontrano nel 5-10% dei pazienti emofilici, specie se sottoposti a ripetute infusioni di concentrati di fattore VIII; in pazienti portatori di malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide; in alcune infezioni, come la lue; in situazioni di ipersensibilità alla penicillina; nelle donne dopo il parto. Occasionalmente hanno insorgenza apparentemente spontanea; in ogni caso il decorso è assai variabile e può aversi la scomparsa dopo mesi o anni. È caratteristico l’anticoagulante che si riscontra in una piccola quota di pazienti affetti da lupus eritematoso sistemico e che è stato definito “anticoagulante tipo lupus” (la sigla è LAC, Lupus Anti-Coagulant). Paradossalmente i pazienti che ne sono portatori non vanno
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
incontro ad emorragie, ma sviluppano una spiccata tendenza alle manifestazioni tromboemboliche, come verrà descritto in seguito. I farmaci più frequentemente responsabili di provocare emorragie sono, oltre agli anticoagulanti dicumarinici (la cui azione viene potenziata dalla contemporanea somministrazione di parecchi farmaci, quali fenilbutazone, allopurinolo, cotrimoxazolo, aspirina, salicilati, ecc.), gli antinfiammatori non steroidei ed in genere gli altri composti ad azione disaggregante piastrinica e l’eparina, ad attività antitrombinica in presenza di antitrombina III, cofattore plasmatico essenziale per la sua azione. Coagulazione intravascolare disseminata La coagulazione intravascolare disseminata (DIC) dipende da una diffusa attivazione dei processi coagulativi a seguito di una varietà di eventi morbosi, cui non corrisponde un’adeguata attivazione dei processi fibrinolitici. Questo processo determina una pluralità di eventi trombotici in vasi di piccole e medie dimensioni cui consegue sofferenza di vari organi. Parallelamente, si ha consumo di piastrine e fattori della coagulazione che causa l’insorgenza di emorragie. Il quadro completo del meccanismo della DIC è rappresentato nella figura 52.11. A. Eziopatogenesi. Le condizioni morbose che possono provocare questa alterazione patologica sono elencate nella tabella 52.9. Tra le cause elencate nella tabella le sepsi sono quelle più comunemente implicate. Nonostante l’opinione largamente sostenuta in passato, che attribuiva un ruolo più importante alle sepsi da Gram–, oggi sembra che Gram– e Gram+ si complichino in uguale misura con la DIC. In studi eseguiti in pazienti con sepsi da Gram– si è visto che questa grave complicanza si verificava nel 30-50% dei casi. I fattori che avviano la coagulazione sono rappresentati da lipopolisaccaridi, o endotossine, o esotossine batteriche (come la -emolisina degli stafilococchi) che agiscono sulla parete vascolare e provocano la produzione di citochine proinfiammatorie. Nel caso dei traumi ha importanza il rilasciamento nella circolazione di prodotti di degradazione cellulare, che finiscono per determinare la produzione delle stes-
Attivazione sistemica della coagulazione
Deposito intravascolare di fibrina
Trombosi di vasi piccoli e medi e insufficienza d’organo
Deplezione delle piastrine e dei fattori della coagulazione
Sanguinamento
Figura 52.11 - Meccanismo della coagulazione intravascolare disseminata.
se citochine che sono liberate in corso di sepsi. Nel caso delle neoplasie sono in gioco processi analoghi, con l’eccezione della leucemia acuta promielocitica, nella quale la produzione di sostanze procoagulanti e attivanti la fibrinolisi è particolarmente caratteristica. Nei disordini ostetrici ha importanza la potente azione del liquido amniotico come attivatore della coagulazione. Negli emangiomi giganti e negli aneurismi aortici sono implicate alterazioni delle pareti vasali che comportano prima di tutto un’attivazione locale della coagulazione. I fattori della coagulazione attivati si diffondono successivamente in tutta la circolazione e provocano il disordine sistemico. Questa complicanza si verifica in circa il 25% dei pazienti con emangiomi giganti e tra lo 0,5 e l’1% dei casi di aneurismi aortici. Anche le tossine agiscono a livello della parete vascolare, mentre nei disordini immunologici ha importanza la liberazione di citochine proinfiammatorie. B. Fisiopatologia. Le caratteristiche comuni di tutte le forme di DIC sono tre: generazione di trombina, difetti degli inbitori della coagulazione e difetti della fibrinolisi. La generazione di trombina avviene esclusivamente per la via estrinseca attraverso la liberazione di fattore tissutale e l’attivazione del fattore VII, cui segue tutta la cascata emocoagulativa. Il fattore tissutale può essere liberato dalle pareti vascolari sottoposte a ingiuria o dai monociti, come risposta all’azione delle citochine proinfiammatorie. Per quanto riguarda gli inibitori della coagulazione, questi sono certamente consumati per contrastare il processo emocoagulativo che è in corso. Tuttavia, sembra che il processo patologico comprometta anche la loro sintesi, come è il caso dell’antitrombina III , della proteina C e della proteina S, o la sintesi Tabella 52.9 - Principali condizioni cliniche associate, facoltativamente, a coagulazione intravascolare disseminata. (Da Levi e ten Rate, 1999.) • Sepsi – Da Gram+ e da Gram– • Traumi – Con gravi lesioni di tessuti – Traumi cranici – Che comportano embolia grassosa • Neoplasie – Leucemie (soprattutto leucemia promielocitica) – Sindromi mieloproliferative – Tumori solidi • Disordini ostetrici – Embolia da liquido amniotico – Abruptio placentae • Disordini vascolari – Emangioma gigante (sindrome di Kasabach e Merritt) – Voluminosi aneurismi aortici • Reazione a tossine – Veleni di serpenti, farmaci, amfetamine • Disordini immunologici – Gravi reazioni allergiche – Reazioni emolitiche trasfusionali – Rigetto di trapianti
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52 - DISORDINI DELL’EMOSTASI E DELL’EMOCOAGULAZIONE
della trombomodulina endoteliale, che è importante per il controllo della coagulazione da parte di queste due ultime proteine. Questi difetti sono da attribuire alle citochine proinfiammatorie. Infine, anche il sistema fibrinolitico è largamente soppresso, e questo dipende da un persistente incremento dell’inibitore di tipo 1 dell’attivatore del plasminogeno. Perciò, anche se la fibrinolisi ha luogo, questa non riesce a tenere il passo con la coagulazione e a impedire la deposizione sistemica della fibrina. C. Clinica. La sintomatologia della DIC acuta è grave e catastrofica, con sindrome emorragica diffusa: ecchimosi a carico della cute e del tessuto sottocutaneo, ematomi in sede di iniezione, epistassi, gengivorragie, ematuria, melena, emorragie cerebrali. Le conseguenze cliniche dell’ostruzione microvascolare sono polimorfe; esse si manifestano a carico del cervello, con confusione mentale o coma; a carico dei reni con insufficienza renale; dei polmoni con grave sindrome ipossica; della cute con necrosi cutanea anche estesa; delle ghiandole endocrine, in particolare dell’ipofisi e delle surrenali, con segni di insufficienza funzionale. La sintomatologia della forma cronica è spesso silente o mostra una modesta tendenza emorragica, mentre sono più evidenti le complicanze trombotiche e l’anemia a patogenesi meccanico-emolitica (microangiopatica). La DIC in fase conclamata presenta il quadro della “coagulopatia da consumo”, con diminuzione o assenza dei fattori che partecipano quantitativamente al processo emocoagulativo, in esso appunto consumandosi. Il tempo di trombina è allungato per diminuzione del fibrinogeno e/o presenza di FDP in quantità tale da ostacolare la coagulazione della fibrina, come conseguenza del processo di fibrinolisi secondaria. Il tempo di protrombina è allungato per diminuzione del fibrinogeno, della protrombina, del fattore V e per la presenza eventuale degli FDP. Gli FDP sono di solito aumentati e questo viene messo ordinariamente in evidenza con il dosaggio del D-dimero. Le piastrine sono quasi costantemente diminuite. I test veramente diagnostici per l’esistenza di un processo emocoagulativo intravascolare sono quelli che dimostrano l’esistenza in circolo di monomeri di fibrina (prove di paracoagulazione) e del fibrinopeptide A. Nella fibrinolisi primaria i test di paracoagulazione sono negativi e le piastrine sono solitamente in numero normale. Nella DIC cronica gli esami di laboratorio mostrano una notevole fluttuazione di risultati da un giorno all’altro, per cui si rendono necessari controlli in serie per dimostrare le alterazioni tipiche. Oltre agli esami emocoagulativi è importante, in questa forma, lo studio accurato dello striscio del sangue periferico che mette in evidenza emazie frammentate, a margini dentellati, ed una frequente microsferocitosi. L’insorgenza di una DIC peggiora notevolmente la prognosi della condizione che l’ha determinata. Si è visto che, quando interviene in corso di sepsi o di gravi traumi, la mortalità è raddoppiata.
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D. Diagnosi. La DIC può essere diagnosticata facilmente quando si è in presenza di una condizione che può provocarla; si hanno conte piatriniche iniziali inferiori a 100.000/mm3 e in progressivo declino, un allungamento tanto del tempo di tromboplastina parziale quanto del tempo di protrombina, la presenza nel plasma di prodotti di degradazione della fibrina e bassi livelli plasmatici di inibitori della coagulazione come l’antitrombina III. I livelli ematici di fibrinogeno possono invece restare normali, nonostante l’importante consumo. Il fibrinogeno è, infatti, una proteina di fase acuta e in genere nelle condizioni che provocano questo disordine la sua sintesi è aumentata. Esiste una certa somiglianza tra il quadro clinico di una DIC in seguito a una condizione febbrile, per esempio una sepsi, e una porpora trombotica trombocitopenica. Ma in quest’ultima malattia mancano completamente le alterazioni emocoagulative che sono caratteristiche della DIC. Gli schistociti nel sangue possono invece essere rilevati in entrambe le condizioni, anche se più comunemente nella porpora trombotica trombocitopenica. Dal punto di vista degli esami di laboratorio può essere difficile differenziare una DIC e una grave epatopatia, dato che in quest’ultima le piastrine possono essere ridotte di numero per ipersplenismo e i fattori della coagulazione possono essere diminuiti nel plasma per difetto di sintesi. Il contesto clinico è però chiaramente diverso e nelle epatopatie mancano costantemente i prodotti di degradazione della fibrina nel plasma e gli schistociti nel sangue. E. Terapia. È chiaro che, essendo questa una condizione nella quale prevalgono i fenomeni trombotici, una terapia anticoagulante sembra indicata. Tuttavia, la condizione è anche contrassegnata da una tendenza alle emorragie e questo potrebbe suscitare delle riserve nei riguardi dell’impiego di un anticoagulante. Estesi studi clinici, però, non hanno dimostrato che l’eparina aumenti l’incidenza di complicanze emorragiche. Perciò, pur non essendo stata confermata l’utilità della terapia eparinica in studi clinici controllati, questo farmaco viene adoperato a basse dosi nel trattamento della DIC (da 300 a 500 U all’ora in infusione continua). Anche le eparine a basso peso molecolare possono essere impiegate. Una modesta riduzione della mortalità può essere ottenuta anche con l’infusione di concentrati di antitrombina III ad alte dosi. Una meta-analisi di vari studi clinici ha dimostrato che questo trattamento riduceva la mortalità in corso di sepsi dal 56 al 44%. Nei casi nei quali prevalgono i problemi emorragici, sono state raccomandate le trasfusioni di piastrine e l’infusione di plasma (allo scopo di somministrare fattori della coagulazione). Da notare che i concentrati di fattori della coagulazione non sono consigliati perché possono essere contaminati da tracce di fattori attivati che potrebbero esacerbare la tendenza ai fenomeni trombotici. In genere, i farmaci antifibrinolitici in pazienti con prevalenti fenomeni emorragici non sono consigliati,
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perché in questa condizione la fibrinolisi è già insufficiente in relazione all’attivazione della coagulazione. Occorre perciò discriminare attentamente se i fenomeni emorragici sono conseguenza di una DIC oppure di un’iperfibrinolisi primitiva o secondaria, come può avvenire in corso di leucemia promielocitica o in alcune neoplasie, nel qual caso gli antifibrinolitici sarebbero indicati.
Disordini primitivi della fibrinolisi Un aumento patologico della fibrinolisi può verificarsi in modo primitivo (iperplasminemia) o come conseguenza di un processo di emocoagulazione intravascolare; l’iperfibrinolisi può essere continua o transitoria, generalizzata o limitata ad una sede distrettuale anche di dimensioni molto piccole. Le situazioni di iperplasminemia primitiva, relativamente rare, insorgono quando il livello degli attivatori è sufficientemente elevato da determinare attivazione del plasminogeno e sua conversione a plasmina ad una velocità tale da sopraffare la capacità neutralizzante dell’2-antiplasmina. Questo può verificarsi in alcuni casi di carcinoma metastatico della prostata, del pancreas, della mammella, nella cirrosi epatica, nelle leucemie ad elementi granulosi (mieloblasti e promielociti), nel lupus eritematoso disseminato ed anche quando vengono manipolati, durante interventi chirurgici, tessuti od organi ricchi di attivatore del plasminogeno: un caso tipico è rappresentato dalla chirurgia cardiaca in circolazione extracorporea. Di evenienza più frequente e di importanza assai maggiore è la fibrinolisi sistemica secondaria a DIC, di cui si è detto a proposito delle coagulopatie acquisite.
ALTERAZIONI EMOCOAGULATIVE CON PREDISPOSIZIONE TROMBOTICA A proposito dell’emostasi si è già sottolineato come la fluidità del sangue in vivo dipenda da un dinamico e delicato equilibrio tra fattori procoagulanti attivati ed anticoagulanti naturali. Una riduzione o un’alterazione qualitativa di questi ultimi provoca un’aumentata suscettibilità alle manifestazioni trombotiche. I due gruppi principali di anticoagulanti naturali sono le antitrombine e gli inibitori dei cofattori attivati, essenzialmente le proteine C e S. Di solito si tratta di deficit congeniti, pur dandosi la possibilità, più rara, di deficit acquisiti. Il più frequente tra questi ultimi e l’anticoagulante del lupus eritematoso sistemico. Deficit di antitrombina III Tra i deficit delle antitrombine, il più frequente è quello di antitrombina III; si tratta di una malattia a tra-
smissione ereditaria di tipo autosomico dominante; lo stato omozigote è probabilmente incompatibile con la vita. Si riscontra in tutte le aree geografiche, la prevalenza è di 1/2000, o, secondo stime diverse, 1/5000, e quindi comune almeno quanto l’emofilia; i due sessi sono colpiti con la stessa frequenza. Si ritiene che il deficit di antitrombina III sia responsabile di circa il 20% delle trombosi venose recidivanti ad insorgenza apparentemente spontanea. Le sedi più frequenti di trombosi sono le vene profonde della gamba, le vene iliache, mentre la trombosi delle vene superficiali è meno comune e per lo più associata a trombosi delle vene profonde. In circa la metà dei casi vi sono segni clinici di embolia polmonare. Una sede di trombosi rara ma caratteristica è quella a livello delle vene mesenteriche. Il deficit di antitrombina III non sembra aumentare il rischio di trombosi arteriosa; sono rarissimi i casi riportati di infarto miocardico. Esistono in pratica alcune situazioni nelle quali è opportuna un’indagine per eventuale deficit di antitrombina III e precisamente: • nei pazienti con anamnesi familiare di trombosi delle vene delle gambe o delle vene mesenteriche ed embolia polmonare; • nei pazienti con trombosi venose recidivanti, di età inferiore ai 35 anni; • nei pazienti con recidiva di trombosi durante la terapia eparinica; • nelle donne con trombosi delle vene profonde in fase precoce di gravidanza. Nel classico deficit di antitrombina III vi è sintesi ridotta di una molecola biologicamente normale e di solito vi è buona correlazione tra gravità delle trombosi e diminuzione del livello di antitrombina III, in particolare della sua attività di cofattore eparinico. Sono state però anche descritte almeno 15 famiglie con una molecola abnorme di antitrombina III. La terapia con anticoagulanti dicumarinici, che in alcuni pazienti va continuata tutta la vita, può provocare, anche se non in tutti i casi, un aumento della quota di antitrombina III. I deficit acquisiti di antitrombina III possono aversi nella sindrome nefrosica (spesso con trombosi della vena renale), probabilmente a causa della perdita di antitrombina con le urine; in corso di terapia con asparaginasi; nel periodo postoperatorio; nelle neoplasie. Deficit di proteina C In gruppi familiari, soprattutto di origine olandese, carenti di proteina C (o del suo cofattore, proteina S) si è dimostrato un rischio aumentato alle manifestazioni tromboemboliche. Lo stato omozigote è incompatibile con la vita; nei neonati si manifestano trombosi venose massive o porpora fulminante. Nello stato eterozigote, un livello di proteina C ridotto al 50% predispone il soggetto al rischio di tromboembolie, principalmente trombosi venose al sistema
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delle vene superficiali e profonde delle gambe. I sintomi compaiono di solito dopo i 40 anni. Una manifestazione caratteristica del deficit di proteina C è la necrosi cutanea che può insorgere dopo l’inizio della terapia anticoagulante, probabilmente per trombosi delle vene superficiali della cute. Deficit acquisiti si hanno nelle varie condizioni di DIC, nel periodo postoperatorio precoce, negli stati di deficit di vitamina K (ivi inclusa la terapia con farmaci dicumarinici), nelle epatopatie, nel 3° trimestre di gravidanza, nei neonati a termine, in corso di terapia con L-asparaginasi. Deficit di proteina S Sono state descritte finora numerose famiglie con deficit congenito di proteina S; il quadro clinico è simile a quello descritto per il deficit di proteina C; le complicanze trombotiche compaiono, senza causa apparente, ad un’età relativamente giovane; l’ereditarietà è autosomica dominante. Resistenza alla proteina C attivata La proteina C attivata è il più potente anticoagulante endogeno. Si ammette che esiste una resistenza a questa proteina quando la sua aggiunta in un sistema in vitro prolunga il tempo di tromboplastina parziale meno che in soggetti normali. Si è visto che questo è possibile quando esiste una anomalia, su base ereditaria, della costituzione del fattore V, sul quale normalmente agisce la proteina C attivata. Questa anomalia deriva da una mutazione puntiforme nella molecola del fattore V, in conseguenza della quale una glutamina sostituisce l’arginina in posizione 506. Il fattore V così mutato viene chiamato fattore V Leiden ed è più resistente del normale all’azione della proteina C. Uno stato di eterozigosi per il fattore V Leiden comporta, negli uomini, un aumento del rischio di embolia polmonare di 2,7 volte e, nelle donne che impiegano contraccettivi orali, di 35 volte. Iperomocisteinemie e omocistinuria L’omocisteina è un aminoacido solforato non presente nelle proteine che si forma dalla metionina, dopo che questa ha donato il suo gruppo metile ad altre molecole. È presente nel plasma solo in minutissime quantità, dato che appena formata viene convertita in altri prodotti metabolici (Fig. 52.12). Questo avviene attraverso due vie: la transulfurazione (verso il basso nella Fig. 52.12), che la trasforma in cisteina, e la rimetilazione (verso l’alto nella Fig. 52.12), che la riconverte in metionina. Il primo processo comporta la formazione di un composto intermedio, la cistationina, in un processo che è dipendente dall’enzima cistationina-sintetasi e che ha come cofattore il piridossalfosfato. L’attività di questo enzima è perciò essenziale perché l’omocisteina sia smaltita attraverso la via della transulfurazione. Il secondo processo implica che un metile venga restituito all’omocisteina perché venga rigenerata la metionina. I metili possono essere donati da due fonti: la betaina e il metil-tetraidrofolato. Quest’ultimo è generato dal tetraidrofolato attraverso
Metionina
CH3
Da betaina
CH3 Omocisteina
Da metil-tetraidrofolato (1) (cofattore OH-B12)
(2) (cofattore PLP) Cistationina
Cisteina (1) metilene-tetraidrofolato-reduttasi (2) cistationina -sintetasi
Figura 52.12 - Conversione dell’omocisteina in cisteina attraverso la via della transulfurazione, e in metionina attraverso la via della rimetilazione. Le note indicano gli enzimi implicati nella generazione del metil-tetraidrofolato e nella conversione dell’omocisteina in cistationina. OH-B12 = idrosso-cobalamina; PLP = piridossal-fosfato.
il composto intermedio metilene-tetraidrofolato, sul quale agisce l’enzima metilene-tetraidrofolato-reduttasi. Per il trasferimento del metile derivato da quest’ultima fonte occorre l’idrosso-cobalamina, che lo assume divenendo metil-cobalamina e, a sua volta, lo cede all’omocisteina. Perciò, tre vitamine sono implicate nel metabolismo dell’omocisteina: la vitamina B6 nella transulfurazione e l’acido folico e la vitamina B12 nella rimetilazione. Le iperomocisteinemie finora descritte derivano da difetti enzimatici, geneticamente determinati, che menomano la conversione dell’omocisteina in cisteina e in metionina e ne determinano un aumento di concentrazione nel sangue. Le forme omozigote sono accompagnate da elevata escrezione urinaria di questo aminoacido (omocistinuria) e da importanti alterazioni tissutali dipendenti dal suo significativo accumulo nel sangue. Infatti, l’omocisteina interferisce con il normale cross-linking del collageno, alterandone le caratteristiche. In conseguenza di questo fatto, sono comuni nei soggetti con questo difetto genetico la dislocazione del cristallino, l’osteoporosi e altre alterazioni somatiche. Inoltre, l’interferenza dell’omocisteina con il metabolismo della sostanza fondamentale del connettivo comporta alterazioni delle pareti vasali con aumentato rischio di trombosi venose e arteriose. Negli eterozigoti mancano completamente le alterazioni tissutali evidenti ed i soggetti sono apparentemente normali e non sviluppano omocistinuria. Tuttavia, i livelli ematici di omocisteina sono un poco più elevati del normale ed esiste un aumentato rischio di trombosi, per esempio venose o coronariche e delle arterie cerebrali.
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Il più comune deficit enzimatico riguarda la cistationina -sintetasi. Varie sono le mutazioni che possono interessare il gene che codifica questo enzima. In alcuni casi il deficit di funzione enzimatica può essere corretto con la somministrazione di alte dosi di vitamina B6, in altri no. Una seconda possibilità è che il difetto genetico comporti un difetto dell’enzima metilene-tetradrofolato-reduttasi. Infine, sono stati descritti altri cinque tipi di difetti genetici che comportano un deficit della generazione della metil-cobalamina, ma questi sono molto rari. Dal punto di vista clinico, i soggetti omozigoti con alterazioni riguardanti la cistationina -sintetasi sono facilmente riconoscibili. In più dell’80% dei casi avviene la dislocazione del cristallino (di solito inferiormente e medialmente), alterazione che si verifica nei primi anni di vita e che conduce a glaucoma e diminuita acuità visiva. La struttura corporea è di tipo marfanoide, esiste ritardo mentale in circa la metà dei casi e l’osteoporosi è comunemente rilevabile radiologicamente, anche se è raro che dia manifestazioni cliniche. Gli eventi più gravi sono le trombosi ripetute che interessano le arterie periferiche, coronarie e cerebrali e che portano a morte circa 1/4 dei pazienti prima dei 30 anni. Dal punto di vista degli esami di laboratorio, si dimostra omocistinuria ed è aumentata nel sangue la concentrazione tanto dell’omocisteina quanto della metionina. Gli eterozigoti, come si è detto, sono apparentemente normali, ma hanno livelli di omocisteinemia lievemente più elevati della norma, specialmente dopo carico di metionina. Il problema clinico che li riguarda è l’ipercoagulabilità, con aumentato rischio di occlusione coronarica o di trombosi delle arterie cerebrali. Le manifestazioni cliniche riguardanti i soggetti omozigoti per le alterazioni genetiche comportanti un deficit di metilene-tetraidrofolato-reduttasi o della generazione della metil-cobalamina sono più gravi. Infatti provocano, fin dall’infanzia, gravi ritardi mentali e importanti problemi neurologici, quali catatonia e spasticità. Nei deficit di produzione di metil-cobalamina si possono anche osservare anemia aplastica e pancitopenia. A differenza del deficit di cistationina -sintetasi, in questi casi la concentrazione di metionina non è aumentata nel sangue, ma normale o diminuita. La terapia delle varie forme di omocistinuria è attuata con la somministrazione di vitamine. Una buona percentuale dei soggetti omozigoti con deficit di cistationina -sintetasi riduce l’escrezione urinaria e i livelli ematici di omocisteina con la somministrazione di vitamina B6. Purtroppo, non tutti i pazienti con questo deficit enzimatico sono responsivi a questa te-
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rapia. Negli altri casi, buoni risultati si sono ottenuti con la somministrazione di acido folico o alte dosi di vitamina B12. Anticoagulante tipo lupus (LAC) È un’immunoglobulina, di solito IgG (ma anche IgM) con particolare affinità per i fosfolipidi a carica negativa, come quelli della membrana piastrinica; in vitro essa ostacola l’emocoagulazione poiché rende non disponibile questa superficie catalitica: risultano di conseguenza allungati sia il tempo di tromboplastina parziale attivata che il tempo di protrombina. I pazienti che ne sono portatori presentano una sindrome clinica, nota come “sindrome da anticoagulante tipo lupus”, costituita da episodi ripetuti ed estesi di trombosi venosa profonda, occlusioni arteriose (per es., infarto miocardico o cerebrale), embolia polmonare, trombosi a livello del circolo renale, manifestazioni neurologiche. La donna gravida sembra particolarmente vulnerabile agli effetti dannosi del LAC, che è causa di aborti precoci ripetuti per trombosi dei vasi placentari, o morte intrauterina del feto al 2° o 3° trimestre di gravidanza. È risultato in realtà chiaro che molti pazienti con questa sindrome, ed in particolare le donne gravide con la sintomatologia descritta, non soddisfano i criteri clinici per la diagnosi di lupus, ma hanno autoanticorpi andiDNA nativo e falsa positività della VDRL, per la presenza di anticorpi anticardiolipina, un fosfolipide a carica negativa con cui può reagire un anticorpo antifosfolipidi. Il LAC è stato anche osservato in molte malattie in cui è ipotizzabile un meccanismo patogenetico di tipo autoimmunitario, come per esempio artrite reumatoide, sindrome di Takayasu, aplasia midollare, porpora idiopatica trombocitopenica cronica, colite ulcerosa, ipotiroidismo, morbo di Addison, ed anche in alcuni pazienti trattati con fenotiazine. Una caratteristica anatomopatologica delle trombosi arteriose o venose nei pazienti con LAC è l’assenza di vasculite. Si suppone che il LAC provochi le manifestazioni trombotiche per inibizione della produzione o della liberazione di prostaciclina da parte della parete vasale, interferendo con la disponibilità dell’acido arachidonico. Però la produzione di prostaciclina non è inibita da tutti i plasmi che contengono il LAC e d’altra parte è noto che questo anticoagulante è eterogeneo. Si è anche supposto che il LAC danneggi le piastrine ed aumenti la loro adesività, dando così inizio alla trombosi; è inoltre ben documentata l’associazione tra anticoagulante del lupus e trombocitopenia immune e si è anche osservata una correlazione significativa tra anticorpi anticardiolipina e trombocitopenia.
C A P I T O L O
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PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE L. CAMBA, A. FRIGATO, S. ROSSINI
La medicina trasfusionale è quella branca della medicina che si occupa del buon uso del sangue e dei suoi prodotti. Negli ultimi anni l’attività dei centri trasfusionali si è estesa alla raccolta e all’impiego delle CSE ampliandone gli orizzonti terapeutici. Un futuro non lontano potrebbe vedere questa disciplina sempre più coinvolta in attività più complesse, come la manipolazione delle CSE e la terapia genica delle malattie ematologiche neoplastiche (si veda appendice B sul trapianto di CSE).
DAL DONATORE AL PAZIENTE L’attività dei CT comprende il reclutamento e la gestione dei donatori di sangue, la produzione del sangue e dei suoi derivati (Tab. 53.1) e l’uso terapeutico di questi, ovvero la scelta e la assegnazione del prodotto più appropriato in base alla situazione clinica del paziente. A. Donazione volontaria. Il reclutamento di donatori di sangue è basato sul principio della donazione volontaria non retribuita, ovvero di un atto altruistico e libero da ogni costrizione o obbligazione. Le donazioni volontarie e anonime offrono maggiori garanzie per il fatto che spesso, pur di donare, i donatori non volontaTabella 53.1 - Emoderivati. SANGUE INTERO
PLASMA
AFERESI
• Emazie concentrate • PFC • Plasma – Emazie filtrate • Crioprecipitato • Piastrine – Emazie lavate – Fattore VIII • CSE – Emazie congelate – Fibrinogeno • Plasma • Criosopranatante • Piastrine – Albumina – Immunoglobuline • Granulociti – Altri fattori e inibitori della coagulazione
ri (retribuiti o dedicati, si veda oltre) potrebbero omettere informazioni importanti sul loro stato di salute. Il donatore volontario, tuttavia, deve rispondere a certi criteri stabiliti da commissioni di esperti: Consiglio d’Europa, AABB, FDA, ANRC. L’idoneità alla donazione volontaria viene accertata tramite un colloquio con il medico del CT e da esami di laboratorio. Il donatore viene informato del fatto che potrà essere escluso dalla donazione se l’anamnesi, l’esame obiettivo, le sue abitudini di vita, le indagini di laboratorio non sono conformi ai criteri stabiliti. B. Criteri di selezione del donatore. Il colloquio col medico del CT e il corredo di esami obbligatori elencati in calce alla tabella 53.2, da eseguire ad ogni visita, hanno il duplice scopo di salvaguardare la salute del paziente e quella del donatore. La tabella illustra in modo schematico i criteri di selezione dei donatori. È bene sempre sospendere momentaneamente le donazioni se l’anamnesi, l’esame obiettivo e gli esami di laboratorio rivelano delle anomalie e accertarne le cause con ulteriori esami strumentali o ematochimici. Per esempio, una ferritina bassa può essere dovuta alle donazioni, ma è opportuno appurare che non vi siano altre cause, come meno-metrorragie, problemi gastrointestinali, emorragie occulte. In caso di ALT elevate è necessario accertarsi che non vi siano state delle intemperanze dietetiche, degli sforzi fisici improvvisi o attività sportive troppo intense, tali da innalzare i valori serici di questo enzima. C. Effetti collaterali della donazione. Sono costituiti principalmente da episodi lipotimici, di regola su base ansiosa, raramente organica. Un salasso superiore al 10% del volume di sangue totale può causare reazioni vagali: l’uso di bilance elettroniche e dispositivi di sicurezza delle macchine da aferesi provvedono a interrompere il flusso di sangue quando il volume desiderato è stato raggiunto. I sintomi comprendono sensazione di freddo, ipotensione, vertigine, talvolta nausea e vomito. Tali episodi si risolvono rapidamente interrom-
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Abbreviazioni usate in questo capitolo AABB Ab ACD ACE ACI ACN AEAI Ag AGE AHG ALT ANRC ATP CID CMV CPDA CSE CSESP CT CVC DAF DMSO DPG EBV EPN EsoT-asi ExTF FDA FuT-asi GalT-asi GB G-CSF GluT-asi GPA GPB
American Association of Blood Banks Anticorpo Acido citrico destrosio Acetil-colinesterasi Anticorpi irregolari Anticorpi naturali Anemia emolitica autoimmune Antigene Antigene eritrocitario Anti Human Globulin Alanina aminotranspeptidasi American National Red Cross Adenosin-trifosfato Coagulazione intravascolare disseminata Cytomegalovirus Citrato-fosfato-destrosio-adenina Cellule staminali emopoietiche CSE da sangue periferico Centro trasfusionale Catetere venoso centrale Decay Accelerating Factor Dimetil-sulfossido Difosfoglicerato Virus di Epstein-Barr Emoglobinuria parossistica notturna Esosil-transferasi Exanguinotrasfusione Food and Drug Administration Fuscosil-transferasi Galattosil-transferasi Globuli bianchi Granulocyte-Colony Stimulating Factor Glucosil-transferasi Glicoforina A Glicoforina B
pendo la donazione, sollecitando il donatore a respirare profondamente e ponendolo in posizione supina. Talvolta i sintomi possono insorgere alcune ore dopo la donazione: persone che svolgono attività pesanti dovranno astenersi dal ritornare al lavoro lo stesso giorno. Dopo un certo numero di donazioni può insorgere un bilancio negativo del ferro. Questo può essere corretto prolungando l’intervallo tra le donazioni o avvicendandole con raccolte di plasma o piastrine. Brevi cicli di terapia marziale per os sono efficaci a ripristinare i depositi di ferro. Con la plasmaferesi e la plasmapiastrinoaferesi (raccolta di plasma ricco in piastrine) si estraggono 500600 ml di plasma. Anche se ripetuta ogni 2 mesi, non sono descritti sintomi dovuti a carenza di fattori della coagulazione o di immunoglobuline. Un effetto immediato è rappresentato dalla tossicità da citrato, l’anticoagulante usato nelle procedure di aferesi, che, essendo un chelante del calcio, può provocare uno stato di
GPC GPI GR GRC GS GVHD Hpt Hpx Ig IL IPT ISBT LDH ME MEN Metalb MSBOS PAF PFC PGD2 Plt PPT RT RTE RTEI RTER RTFNE SAG-M SI SMM T&S TCD TCI TNF TP
Glicoforina Glucosil-fosfatidil-inositolo Globulo rosso Globuli rossi concentrati Gruppo sanguigno Graft Versus Host Disease Aptoglobine Emopessina Immunoglobuline Interleuchina Infezione post trasfusionale International Society of Blood Transfusion Latticodeidrogenasi Membrana eritrocitaria Malattia emolitica del neonato Metemalbumina Maximum Surgical Blood Order Schedule Platelet Activating Factor Plasma fresco congelato Prostaglandina D2 Piastrine Porpora post-trasfusionale Reazioni trasfusionali Reazioni trasfusionali emolitiche RTE immediate RTE ritardate RT febbrili non emolitiche Salina-adenina-glucosio-mannitolo Sangue intero Sistema monocitico-macrofagico Type & Screen Test di Coombs diretto Test di Coombs indiretto Tumour necrosis factor Tromboplastina
ipocalcemia transitoria, con parestesie labiali, tremori, tetania. Rapida risoluzione dei sintomi si ottiene sospendendo la procedura momentaneamente e infondendo una fiala di Ca gluconato. D. Donazione dedicata. Consiste in una donazione proveniente da un donatore prescelto dal paziente o offerta volontariamente dal donatore a un ricevente designato. Viene generalmente scoraggiata per le seguenti ragioni: • si tratta spesso di donazioni occasionali o di prime donazioni, da persone, cioè, non adeguatamente sensibilizzate alle problematiche della donazione; • possono insorgere problemi di confidenzialità qualora il donatore venisse escluso e il paziente constatasse che la donazione attesa non viene effettuata; • il donatore, nell’intento di fare il bene del paziente, potrebbe omettere dettagli clinici importanti.
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53 - PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE
Tabella 53.2 - Criteri di selezione dei donatori. EVENTI Requisiti fisici e clinici
Comportamenti a rischio
Assunzione di farmaci Alterazioni ematochimiche (1)
Malattie infettive
Condizioni genetiche
Malattie croniche Interventi chirurgici Gravidanza e interruzione di gravidanza Trasfusione di sangue e derivati
COMMENTI Da accertare con anamnesi ed esame obiettivo Età 18-65 anni. Peso ≥ 50 kg. P.A. ed ECG normali. Aggiornare cartella clinica ad ogni visita. Esclusione permanente (estesa anche ai partner): uso di droghe ev, omosessualità, bisessualità. Sospensione temporanea: rapporti occasionali, tatuaggi, pearcing, agopuntura, elettrolisi. Antinfiammatori: 7-10 g di sospensione. Terapie assunte regolarmente non controindicano la donazione ma vanno valutate caso per caso. Sospensione temporanea per anemia: Hb < 12,5 per le donne e < 13,5 per gli uomini. Se solo ferritina bassa indirizzare all’aferesi di plasma o piastrine (accertarsi che non vi siano altre cause). Idem per ALT > valori normali. Esclusione permanente (estesa anche ai partner): positività per HIV, HCV, HBV (Ag e Ac). Sospensione temporanea: malattie intercorrenti batteriche e virali, malaria (3 anni) (2), toxoplasmosi e tubercolosi (2 anni). Portatore di talassemia: stessi criteri delle anemie. Favismo (3): escludere dalla donazione di GRC ma accettare per aferesi. Emocromatosi (4): si può donare dopo normalizzazione della ferritina, se asintomatici e se ALT normali. Esclusione permanente: neoplasie (anche in remissione completa), diabete, malattie autoimmuni, epilessia. Allergie: sospendere durante episodi acuti. Sospensione di 6 mesi. Sospensione di 1 anno. Sospensione di 5 anni.
(1) Esami obbligatori ad ogni visita per appurare l’idoneità del donatore: emocromo, ALT, HBsAg, HCV, HIV, RPR (reazione rapida reagina plasmatica per la sifilide). (2) Può donare dopo 6 mesi se non ha preso la profilassi. Se ha assunto profilassi: plasma dopo 6 mesi, GR e plt dopo 3 anni. (3) Descritti casi di emolisi in riceventi trasfusi con sangue di pazienti con carenza di GSPD. (4) Deve essere una donazione volontaria oltre che un salasso terapeutico.
E. Sangue autologo. Questo prodotto, che è certamente il più sicuro per il paziente, viene ottenuto in diversi modi: • predeposito o autodonazione preoperatoria; • recupero intraoperatorio; • emodiluizione pre o intraoperatoria. L’autodonazione è una procedura applicabile a tutti gli interventi chirurgici programmati, sempre che non vi siano controindicazioni cliniche alla donazione. A seconda dell’entità dell’intervento, da 2 a 4 autodonazioni vengono prelevate nell’arco di circa un mese, che vengono reinfuse nel periodo peri e postoperatorio. Se il numero di donazioni è superiore a 2 è bene controllare lo stato del ferro e prescrivere terapia marziale se necessario. L’uso di eritropoietina ricombinante umana viene utilizzata in alcuni CT per incrementare il numero di donazioni senza anemizzare il paziente. Il vantaggio principale del predeposito è duplice: l’eliminazione del rischio di infezioni per il paziente e un risparmio di sangue eterologo per il CT. Naturalmente, particolare attenzione deve essere usata nell’assegnare la sacca al donatore/ricevente, in quanto nessun esame obbligatorio viene effettuato al paziente. Il recupero intraoperatorio viene effettuato con macchine speciali, “blood savers”, che aspirano, lavano e reinfondono il sangue perduto sul letto operatorio. L’emodiluizione consiste nel prelevare 1-2 unità di sangue a paziente ormai sul letto operatorio e sostituirlo con succedanei del plasma. L’abbassamento dell’Hct contribuisce a migliorare la microcircolazione
grazie alla riduzione della viscosità ematica. Il sangue viene reinfuso nel corso o al termine dell’intervento. Qualunque sia la forma prescelta, l’interessato deve, firmando un consenso informato, essere reso consapevole del fatto che in caso di perdite ematiche eccessive dovrà essere utilizzato del sangue eterologo. F. Produzione e conservazione degli emocomponenti. Il SI viene raccolto in sacche di plastica contenenti ACD come anticoagulante. Il volume della donazione è 450 ml ± 10% e la frequenza delle donazioni è superiore a 3 mesi per gli uomini e le donne in menopausa e 6 mesi per le donne in età fertile. Se mantenute in semplice soluzione fisiologica, le emazie invecchiano precocemente a causa del consumo di sostanze vitali, quali glucosio, ATP e 2,3-DPG, con conseguente perdita della vitalità e della capacità di cedere O2 ai tessuti. I moderni anticoagulanti contengono CPDA che ha proprietà anticoagulanti (citrato), nutritive (destrosio), conservanti (acido citrico), sono in grado di prolungare le riserve intracellulari di ATP (adenina) e stabilizzare il pH intracellulare (fosfato), garantendo un periodo di conservazione di 35 giorni sotto forma di sangue intero (SI) o 42 giorni sotto forma di GRC. Il plasma e le piastrine vengono ottenuti sia dalla donazione di SI, che con tecniche aferetiche: plasmaferesi per la raccolta di plasma e citoaferesi per la raccolta di elementi cellulati: piastrine, leucociti, cellule staminali periferiche. Per l’aferesi vengono impiegate macchine dedicate, i separatori cellulari, che prelevano il SI da una
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vena periferica, lo centrifugano e restituiscono al donatore i globuli rossi. Il SI passa attraverso circuiti chiusi monouso che vengono eliminati alla fine di ogni procedura. Il volume estratto non supera i 600 ml. Da una sacca di SI vengono prodotti una sacca di GRC, una di piastrine e una di plasma. I primi vengono conservati in apposite frigoemoteche a 4-6 °C, le piastrine lasciate a temperatura di 22-24 °C e il plasma congelato a temperature inferiori a – 20 °C (PFC). Il frazionamento si è reso indispensabile, con il passare degli anni, per soddisfare il fabbisogno sempre crescente sia di PFC e dei suoi derivati, sia di piastrine per pazienti sottoposti a terapie mieloablative. In situazioni particolari i prodotti cellulati, SI, GRC e piastrine, vengono sottoposti a leucodeplezione e irradiazione (si veda oltre). G. Sangue intero. Da quanto detto sopra sulla necessità del frazionamento, l’uso di SI non ha più una reale indicazione: dopo poche ore i leucociti e le piastrine (che aggregano e perdono le capacità coaugulanti a basse temperature) non sono più vitali e le proteine labili della coagulazione (fattore V e fattore VIII) perdono la loro attività biologica. La trasfusione di SI, soprattutto se massiva, può perciò provocare una coagulopatia e una piastrinopenia da diluizione. Anche nei casi di emorragia acuta si deve fare uso di GRC e PFC. H. Globuli rossi concentrati. Il SI, prelevato in un sistema chiuso e sterile di sacche multiple comunicanti, viene centrifugato e i globuli rossi trasferiti in una sacca contenente una miscela di SAG-M. Quest’ultimo permette una maggiore fluidità delle emazie, che, a prodotto ultimato, hanno un Hct di 60-70%, e ne riduce l’emolisi prolungandone il periodo di conservazione a 42 giorni. I GRC costituiscono il prodotto eritrocitario comunemente impiegato per la correzione di anemie sintomatiche acute e croniche. I. Leucodeplezione. Sia il SI e i suoi derivati che le aferesi di piastrine contengono un numero variabile di globuli bianchi, responsabili della maggior parte delle RTNE e dei fenomeni di immunizzazione verso gli Ag HLA e gli Ag leucocitari e piastrinici. Sebbene durante il frazionamento una quota di leucociti, circa il 40%, venga rimossa durante la centrifugazione, il metodo più efficace è rappresentato dalla filtrazione, con cui è possibile eliminare più del 99% dei leucociti presenti in una sacca di GRC e di piastrine. Essa è effettuata al letto del paziente per mezzo di filtri speciali collegati direttamente alla sacca. La filtrazione è dunque indicata in pazienti politrasfusi, in pazienti sottoposti a terapie mieloablative e in soggetti immunocompromessi per prevenire le RTNE, ma è inefficace quando queste ultime sono dovute ad Ab verso proteine plasmatiche, che attraversano il filtro. In questi casi è indicato l’uso di emazie lavate. La leucodeplezione, infine, riduce le infezioni trasmesse da virus intracellulari, in particolare il CMV, causa di infezioni letali in pazienti trapiantati o immunocompromessi. L. Irradiazione. I linfociti del donatore proliferano a contatto con gli antigeni tissutali del ricevente e pos-
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
sono innescare una GVHD post trasfusionale in soggetti immunocompromessi. L’irradiazione, con circa 3000 cGy, di GRC e piastrine, danneggiando il DNA linfocitario, ne impedisce la divisione e la proliferazione e previene la GVH trasfusionale. L’uso di prodotti irradiati è indicato principalmente nelle immunodeficienze congenite e nel trapianto di CSE. In molti centri viene esteso alle trasfusioni intrauterine, neonatali e ai pazienti sottoposti a chemioterapia. M. Emazie congelate. Vengono oggi raramente usate. Il loro impiego è limitato a casi in cui può essere difficile reperire sangue compatibile, come in pazienti con gruppi rari o con anticorpi verso Ag comuni, ovvero presenti in più del 90% della popolazione, come per esempio un antiCellano (o k, l’Ag antitetico dell’Ag Kell). N. Uso dei GRC. L’indicazione principale è rappresentata da anemie acute e croniche sintomatiche. Uno stato di anemia non è però un’indicazione assoluta alla trasfusione. Certe forme croniche di anemia, come le sindromi mieolodisplastiche, le anemie iporigenerative, le anemie emolitiche croniche compensate, possono essere asintomatiche anche a valori di Hb di 8-9 g/dl. Al contrario, persone anziane e/o cardiopatiche spesso non tollerano valori così bassi. Il fabbisogno trasfusionale si basa quindi non solo sui livelli di Hb, ma anche sulle condizioni del paziente. Nelle anemie da carenza di ferro, folati e vitamina B12 la trasfusione è da evitare, data la transitorietà di queste condizioni e la rapidità con cui sia l’anemia che i sintomi vengono corretti dalla terapia marziale o vitaminica. Anche in caso di perdite di sangue prolungate o cospicue, o dopo interventi chirurgici, si può fare a meno di trasfondere e ricorrere alla sola terapia marziale se il paziente rimane asintomatico. O. Plasma e piastrine. Come accennato sopra, il sangue donato viene raccolto in un sistema di sacche multiple che permettono di separare sterilmente i vari componenti. Il plasma viene subito congelato a – 20 °C per conservarne intatte le proprietà coagulative. Le piastrine vengono mantenute a 22-24 °C e sottoposte a continua ma lenta agitazione o rotazione per evitarne l’aggregazione. Dopo 6 mesi il PFC viene ceduto alle industrie per la produzione di derivati plasmatici, mentre le piastrine devono essere infuse entro 5 giorni dalla donazione. I prodotti freschi non manipolati, SI, GRC, plasma e piastrine costituiscono ancora un veicolo importante delle infezioni virali più temute, HCV, HBV e HIV. I prodotti ottenuti industrialmente, quali concentrati di fattore VIII e fattore IX, inibitori naturali della coagulazione, albumina e immunoglobuline, sono oggi ritenuti sicuri grazie all’applicazione di procedure che isolano e inattivano gli agenti virali. Queste consistono nel trattamento al calore (80 °C per 72 h) e nell’uso combinato di detergenti e solventi che hanno la capacità di dissolvere la componente capsulare lipidica di alcuni virus, come l’HIV. L’applicazione di tecnologie ricombinanti (ancora limitate al solo fattore VIII) su vasta
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53 - PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE
Tabella 53.3 - Condizioni più comuni trattate con PFC. • Coagulazione intravascolare disseminata (CID) • Coagulopatia da emodiluizione (trasfusione massiva, plasmaferesi terapeutica) • Sovradosaggio da anticoagulanti orali o agenti trombolitici • Alcune anomalie congenite di fattori o inibitori della coagulazione dove non sono disponibili i concentrati • Sindrome uremico-emolitica e porpora trombotica trombocitopenica
scala potrà un giorno garantire la totale sicurezza dei derivati plasmatici. P. Uso del plasma e derivati. Le indicazioni principali sono illustrate in tabella 53.3. L’uso principale è rappresentato dalle carenze acquisite in corso di coagulopatie da CID, da emodiluizione e da terapia anticoagulante. Nei casi di coagulopatie ereditarie la terapia sostitutiva prevede l’uso dei concentrati specifici, come concentrati di fattore VIII, IX, fibrinogeno, ATIII, proteina C, durante episodi sintomatici o, preventivamente, in occasione di interventi chirurgici. È improprio l’uso del PFC come espansore della volemia nello shock acuto, in quanto sottopone inutilmente il paziente a rischio infettivo e sottrae plasma ad un uso più appropriato. Q. Uso delle piastrine. Le indicazioni per l’uso di piastrine sono elencate nella tabella 53.4. La prima categoria, da ridotta produzione, comprende le cause più comuni di piastrinopenia trasfusione-dipendente. Nella CID la trasfusione di piastrine deve essere associata al PFC. Le forme immuni sono sintomatiche a valori di piastrine più basse rispetto a quelle da ridotta produzione e da diluizione (trattandosi di piastrine con un maggiore contenuto in granuli citoplasmatici e quindi di fattori procoagulanti). L’impiego di piastrine in queste Tabella 53.4 - Uso terapeutico delle piastrine.
forme è da considerarsi improprio poiché le piastrine trasfuse vengono rapidamente distrutte dagli Ab circolanti. Tuttavia è ragionevole trasfondere in casi di emorragie molto gravi che minacciano la vita del paziente (emorragie intestinali, cerebrali), in attesa che la terapia specifica faccia effetto. L’ipersplenismo non è generalmente causa di emorragia a meno che sia associato ad altre condizioni. R. Cellule staminali (v. Cap. 54 sul trapianto di CSE). Le procedure aferetiche comprendono anche la raccolta di CSESP. Questa avviene previa inserzione di un CVC in una vena succlavia o, meno frequentemente, in una femorale. La conta delle CSESP avviene con tecnica citofluorimetrica sfruttando l’espressione dell’antigene CD34. In genere si effettuano da a 2 a 4 raccolte e occorrono non meno di 3 × 106/kg di cellule CD34+ per ottenere l’attecchimento. Le cellule, sospese in DMSO, vengono congelate in azoto liquido a temperature inferiori a – 120 °C fino al momento dell’uso. Prima della raccolta è necessario sottoporre il paziente a una chemioterapia ad alte dosi (per es., ciclofosfamide o etoposide) seguita dalla somministrazione di fattore di crescita, GCSF, che permette una rapida proliferazione delle CSE e una rapida mobilizzazione dal midollo al sangue periferico. La raccolta di CSESP viene prevalentemente utilizzata per il trapianto autologo. L’uso di CSESP eterologhe da donatori in alternativa all’impiego di midollo come fonte di CSE è ancora in una fase sperimentale. S. Granulociti. Fino a qualche anno fa i “buffy coat”, derivati dalla centrifugazione del SI e ricchi in granulociti, venivano utilizzati per pazienti con neutropenia secondaria a chemioterapia, con febbre refrattaria a terapia antibiotica e con documentata infezione. Oggi, una profilassi antibatterica più efficace, una più vasta gamma di antibiotici, l’uso di fattori di crescita e tecniche batteriologiche più avanzate hanno reso questa pratica sempre più obsoleta.
ANTIGENI ERITROCITARI
Ridotta produzione • • • • •
Chemioterapia Procedure trapiantologiche Anemia aplastica Mielodisplasie Infiltrazione midollare
Aumentata distruzione • Coagulazione intravascolare disseminata • Bypass cardiopolmonare • Autoimmune (si veda testo) Alterata funzione • Trombocitopatie congenite e acquisite Da diluizione • Trasfusione massiva • Plasma exchange • Ipersplenismo (si veda testo)
La complessa struttura proteica e glico-lipoproteica della ME contiene numerosi determinanti antigenici, detti anche antigeni eritrocitari (AGE) o, in termini di medicina trasfusionale, gruppi sanguigni (GS). Si possono avere diversi tipi di legame: • la maggior parte degli AGE appartiene a strutture proteiche che attraversano la ME una o più volte (Fig. 53.1), esponendo più di un determinante antigenico; • l’AGE è rappresentato da complessi polisaccaridici; • l’AGE è legato alla membrana con legame GPI; • può trattarsi di proteine plasmatiche semplicemente adese alla ME. I 23 sistemi di AGE descritti finora dall’ISBT sono elencati in tabella 53.5. Ciascun sistema consiste in una struttura proteica principale con diversi determinanti antigenici che rappresentano i suoi gruppi e sottogrup-
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
MNS, GE IN, KN LU, LW XG
AB0 H, LE P1, P, I
CROM YT, DO
ESTERNO KEL
NH2
NH2
COOH
RH, JK CO, DI XK
FY NH2
COOH
NH2
COOH INTERNO
un solo passaggio N-glicano
NH2
CHO
COOH
più passaggi
legame GPI
O-glicano
Figura 53.1 - Antigeni eritrocitari e loro rapporti con la membrana eritrocitaria (esclusi gli antigeni plasmatici CH/RG). Tabella 53.5 - I 23 sistemi di AGE: nomenclatura, prodotti genici e distribuzione tissutale. SIMBOLO*
SISTEMA
NUMERO DI AG CROMOSOMA
GENE
001 AB0 002 MNS 003 P1 004 RH 005 LU 006 KEL 007 LE 008 FY 009 JK 010 DI 011 YT 012 XG
AB0 MNS P Rhesus Lutheran Kell Lewis Duffy Kidd Diego Cartwright Xg
4 40 1 47 18 22 3 6 3 7 2 1
9q 4q 22q 1p 19q 7q 19p 1q 18q 17q 7q Xp
ABO GYPA, GYPB P1 RHD, RHCE LU/BCAM KEL FUT3 FY HUT11 (JK) AE1 ACHE XG
013 SC 014 DO 015 CO 016 LW 017 CH/RG
Scianna Dombrock Colton Landsteiner-Wiener Chido/Rodgers
3 5 3 3 9
1p 12p 7p 19p 6p
SC DO AQP1 LW C4A, C4B
018 H 019 XK
Hh Kx
1 1
19p Xp
FUT1 XK
020 GE Gerbich 021 CROM Cromer 022 KN Knops
7 10 5
2q 1q 1q
GYPC DAF CR1
023 IN
2
11p
CD44
Indian
VEICOLO PROTEICO O PRODOTTO GENICO GluT-asi GPA e GPB GluT-asi Acilproteine Basal cell adhesion molecule Metallopeptidasi FuT-asi (1-3) Recettore di chemochine Veicolo dell’ urea Banda 3, trasporto anioni Acetil-colinesterasi Molecola di adesione, ICAM-1, CD99 Glicoproteina Glicoproteina con legame GPI Aquaporina, trasporto H2O Molecola di adesione, ICAM-2 Componente C4, complemento FuT-asi (1-2) Per trasporto di neurotrasmettitore GPC DAF, CD55 Recettore complemento, CR1 (CD35) Molecola di adesione, CD44
ALTRI ORGANI O TESSUTI Ubiquitario R GB e Plt – Parenchimi – GB, Plt, I, R, SR, M – GB, R GB GB, M, SN GB, L – – R, F, O, E L Solo in forma solubile Si veda AB0 SN, M, C, F , R, S PR, R GB, PLT GB, R, CD Quasi ubiquitario
* Numero e simbolo dell’International Society of Blood Trasfusion (ISBT). L = linfociti; C = cuore; CD = cellule dendritiche; E = endotelio; F = fegato; I = intestino; M = muscolo; O = occhio; P = polmone; R = rene; S = milza; SN = sistema nervoso; SR = surrene. Si veda anche Abbreviazioni all’inizio del capitolo.
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53 - PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE
pi. La struttura primaria può subire lievi variazioni nei diversi individui a seconda dei riarrangiamenti cui vanno incontro i rispettivi geni (polimorfismo). Nell’ambito di un sistema, a riarrangiamenti diversi corrispondono AGE diversi e poiché si tratta di geni alleli, un solo riarrangiamento genico è possibile nello stesso locus, quindi un solo prodotto proteico (per es., gruppo A o B nel sistema AB0, sottogruppi C o c del sistema Rh). Alcuni dei riarrangiamenti possono generare la forma amorfa del gene, per delezione o mutazioni puntiformi del rispettivo DNA, che ne impediscono la trascrizione: per esempio il gruppo 0 del sistema AB0, il gruppo Rh(D) negativo del sistema Rh. Soggetti omozigoti per un antigene (per es., CC) non sono in grado di sintetizzare l’Ag antitetico, mentre lo stato di eterozigosi (Cc) implica la presenza di ambedue gli alleli, che vengono trasmessi secondo le leggi mendeliane. Nel caso di AGE polisaccaridici (AB0, P, LE, H, I) il gene relativo codifica per una EsoT-asi specifica capace di legare uno zucchero alla parte distale della molecola. Oltre ai 23 sistemi, con i loro sottogruppi, esistono numerosi raggruppamenti (“collections”) meno caratterizzati dal punto di vista strutturale, biochimico e genetico, la cui antigenicità dipende dalla contiguità spaziale di strutture proteiche diverse: non sono pertanto prodotti di geni alleli (per es., il gruppo I, il complesso globoside). Si arriva a un totale di circa 430 AGE, ma nuovi determinanti antigenici continuano a essere descritti. A. Distribuzione e funzione degli AGE. Gran parte degli AGE sono strutture ubiquitarie, non confinate ai soli eritrociti (Tab. 53.5). Alcuni AGE, come i sistemi polisaccaridici, sono solo debolmente espressi sugli eritrociti del cordone ombelicale e nelle prime settimane di vita. I sistemi proteici sono generalmente pienamente espressi sin dalla nascita. Le emazie del neonato tipicamente esprimono l’Ag i che, dopo i primi mesi di vita, viene sostituito dalle Ag I nella maggior parte degli adulti.
A sottolineare l’importanza degli AGE in fisiologia e in patologia sta quanto riportato nelle tabelle 53.6, 53.7 e 53.8, che illustrano il ruolo di alcuni AGE nella fisiologia del globulo rosso, la loro funzione di recettori di agenti patogeni, l’alterata espressione in alcune patologie ematologiche, la presenza di anemia emolitica congenita in alterazioni a carico dei geni RH, H e KEL. Infine è importante rilevare le variazioni etniche di numerosi AGE (Tab. 53.9), che possono dare luogo a problemi trasfusionali in comunità multietniche. Come già accennato, a seconda della specificità antigenica, gli AGE si distinguono in polisaccaridici e proteici. I primi comprendono i sistemi AB0, LE, P, H e I. Tutti i rimanenti, elencati in tabella 53.5, sono di natura proteica. Tabella 53.6 - Funzione dei gruppi sanguigni. PROTEINA
ANTIGENE ERITROCITARIO*
Proteine strutturali Proteine di trasporto Enzimi Molecole di adesione Recettori del complemento Recettori di organismi patogeni
MNSs, Ge Rh, Jk, Di, Co, Kx K, Yt Lu, LW, Xg, In Ch/Rg, Cr, Kn MNS, Fy, P, Le, Cr, I *
* Si vedano anche tabelle 53.5 e 53.7.
Tabella 53.7 - AGE come recettori di agenti patogeni. GRUPPO P Leb H, A I MNS CR Fy In
AGENTE PATOGENO E. coli, Parvovirus B19 Helicobacter pylori Candida albicans Mycoplasma pneumoniae Plasmodium falciparum E. coli, Enterovirus Plasm. vivax e knowlesi Poliovirus
Tabella 53.8 - Espressione di alcuni gruppi sanguigni in condizioni ematologiche. GRUPPO AB0 Rh Le Ii Di Yt Do Co Lw Ch/Rg H Kx Ge Cr In
COMMENTO Ridotto nell’emopoiesi da stress e in leucemie acute. Gruppo B acquisito in infezioni e tumori (produzione di fucosil-trasferasi anomale) Rhnull: anemia emolitica congenita. Ridotto in leucemie e disordini mieloproliferativi Ridotto in casi di fucosidosi e anemie emolitiche in corso di mononucleosi infettiva Anti-I e anti-i in crioagglutinine associate rispettivamente a Micoplasma pneumoniae e mononucleosi infettiva Ridotto nell’ellissocitosi ereditaria da delezioni della banda 3 Acetil-colinesterasi: ridotto nell’EPN Ridotto nell’EPN Ridotto in leucemie, sindromi mielodisplastiche con monosomia 7 e anemie diseritropoietiche congenite Ridotto in gravidanza e nei linfomi Ridotto in malattie autoimmuni Ridotto in leucemie. Aumentato in emopoiesi da stress. Anemia emolitica congenita nei soggetti hh (null) Acantocitosi con anemia emolitica congenita nella forma null Ridotto in sferocitosi ereditaria con deficienza di proteina 4.1 (DAF/CD55). Ridotto nell’EPN (CD44). Aumentato in leucemie e linfomi
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tabella 53.9 - Frequenza di alcuni AGE in gruppi etnici diversi (%). AGE
EUROPA
AFRICA OCCIDENTALE
CINA
B Rh(D) K Fya Jsa Dia P1
9 84 9 65 0 0 80
20 95 <1 20 20 0 95
35 100 0 99 0 5 30
no quasi esclusivamente IgM. Gli ACN legano più avidamente il complemento, tuttavia, il legame con il complemento non avviene alla temperatura corporea in quanto si tratta di Ab “freddi”, capaci di reagire con l’Ag solo a temperature inferiori a 25 °C, temperatura lontana da quella necessaria per il legame con il complemento. Fanno eccezione gli ACN anti-A e B, che hanno un’ampiezza termica maggiore, possono legare Ag e complemento a 37 °C, causando emolisi in vivo.
Tabella 53.10 - Caratteristiche della risposta immune.
B. Anticorpi verso gli AGE. L’importanza dei GS in medicina trasfusionale è legata alla loro immunogenicità, ovvero la capacità di stimolare la produzione di un Ab in riceventi sprovvisti dell’Ag trasfuso. La reazione tra l’AGE estraneo e l’Ab prodotto dal ricevente sta alla base delle RTE e della MEN. Alcuni AGE, come quelli dei sistemi Rh, Kell, Kidd o Duffy sono altamente immunogenici; altri, come quelli del sistema MN lo sono in minor misura. Inoltre molti Ag tendono a stimolare la produzione di Ab IgM (LE, MNS) clinicamente meno rilevanti, in quanto reagiscono a temperature inferiori alla temperatura corporea e non attraversano la placenta. La produzione di Ab verso i GS è regolata dalle stesse leggi che regolano la risposta immunitaria: una risposta primaria innescata dalla prima esposizione all’Ag e una risposta secondaria o anamnestica. Mesi o anni dopo la risposta primaria la concentrazione dell’anticorpo può scendere a livelli così bassi da non poter essere identificato con le metodiche comunemente in uso. La risposta secondaria è molto più rapida, genera Ig anticorpali con più alta affinità per l’Ag e per una durata più lunga (Tab. 53.10). Tale fenomeno è alla base delle RTER (si veda oltre). Dal punto di vista trasfusionale possiamo distinguere due tipi di Ab: anticorpi irregolari, ACI e anticorpi naturali, ACN. Le loro proprietà essenziali sono illustrate in tabella 53.11. Gli ACI vengono stimolati in occasione di eventi immunizzanti molteplici e illustrati in tabella 53.12. Come accennato prima, l’importanza clinica di un Ag risiede nella sua capacità di provocare una RTE, la cui gravità dipende dalle proprietà fisico-chimiche dell’anticorpo: affinità per l’Ag, avidità (forza di legame con l’Ag), concentrazione nel siero, temperatura ottimale per il legame Ag-Ab, capacità di legare il complemento. Gli ACI sono in genere Ab cosiddetti “caldi”, poiché si legano all’Ag a temperatura intorno ai 37 °C, ma, avendo scarsa affinità per il complemento, a questa temperatura non provocano emolisi in vivo, salvo a concentrazioni particolarmente elevate. Gli ACN sono così chiamati perché presenti nel siero anche in mancanza di una precedente esposizione al rispettivo Ag. È il caso tipico degli Ab anti-A e anti-B del sistema AB0. Si presume che la produzione di ACN venga stimolata da Ag polisaccaridici simil-A o B della membrana cellulare di batteri capsulati, entrati nella circolazione sanguigna attraverso le barriere intestinale e respiratoria. Mentre gli ACI sono quasi sempre IgG, soprattutto nella risposta secondaria, quelli naturali so-
Comparsa degli Ab Titolo anticorpale Tipo di Ab Affinità dell’Ab per l’Ag Dose di Ag stimolante
RISPOSTA PRIMARIA
RISPOSTA SECONDARIA
7-10 giorni basso IgM>IgG bassa alta
1-3 giorni alto IgG, IgA, IgE alta bassa
Tabella 53.11 - Caratteristiche degli ACI e ACN. ACI Classe Temperatura di legame Ag-Ab Affinità per il complemento Agglutinazione in soluzione salina Lisi intravascolare RTEI RTER Attraversano la placenta
ACN
IgG IgM 37 °C < 20 °C IgG1, IgG3 alta no sì no sì no sì sì no sì no
Tabella 53.12 - Eventi che stimolano la produzione di ACI. Trasfusione • Emazie • Piastrine • Plasma contenente GR o frammenti di GR • Prodotti derivati dalla lavorazione del plasma contenenti AGE Manovre ostetriche • Interruzioni di gravidanza, aborti • Prelievo di villi corionici • Fetoscopia diagnostica • Amniocentesi • Trasfusioni intrauterine • Parto In volontari* • Infusione di GR per la produzione di Ig anti-D e antisieri per la determinazione di GS * Soggetti che rispondono ai criteri per la donazione di sangue.
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53 - PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE
AGE polisaccaridici Come già accennato, questi sono rappresentati dai sistemi AB0, Lewis, P e dal gruppo I. Tutti questi AGE hanno una via metabolica comune e la loro formazione è determinata dall’azione di EsoT-asi specifiche che legano una molecola di esoso a una catena polisaccaridica terminale. Questa è a sua volta attaccata a una struttura sfingolipidica, ceramide, direttamente ancorata alle strutture proteiche della ME. I geni responsabili non codificano direttamente per l’Ag, come nel caso degli AGE proteici, bensì per l’enzima specifico, rappresentato nella maggior parte dei casi da una fucosil-transferasi. La figura 53.4 e la tabella 53.13 illustrano i rapporti tra i diversi gruppi polisaccaridici. Come si può vedere esistono due grandi complessi polisaccaridici: il paragloboside e il globoside. Il primo dà origine agli AGE H, A, B, P1, il secondo dà luogo ai gruppi P e Pk. Ambedue i complessi derivano comunque dalla sostanza comune lactosil-ceramide (ceramide legata al diesoso lattosio = galattosio + glucosio), come illustrato in figura 53.4. A. Sistema AB0 1. Antigeni del sistema AB0. La struttura portante del sistema AB0 è rappresentata dalla sostanza H. Questa è costituita da una lunga catena polisaccaridica, precursore o accettore, che con il suo estremo prossimale è legata a componenti glico-lipoproteiche della ME, mentre il suo estremo distale funge da accettore di fucosio: l’aggiunta del fucosio al precursore genera, appunto, la sostanza H (Fig. 53.2). La reazione è catalizzata dall’enzima FuT-asi H (FUT1, Tab. 53.5). La sostanza H rappresenta l’AGE specifico dei soggetti di gruppo 0 e la sua specifica transferasi è codificata dal gene H posto sul cromosoma 19. Quasi tutta la popolazione mondiale è HH o Hh (h è un gene amorfo, come il gene d del sistema Rh). Gli antigeni A e B derivano dalla aggiunta all’estremo distale della sostanza H rispettivamente di una molecola di N-acetil-galattosamina e una
di galattosio (Fig. 53.2) grazie all’azione delle rispettive transferasi: N-acetil-galattosaminil- e galattosil-transferasi, i cui geni si trovano nel locus AB0 sul cromosoma 9. I geni alleli A e B sono codominanti. La tabella 53.14 illustra le basi molecolari del polimorfismo dei geni AB. Differenze in singoli nucleotidi generano transferasi con strutture primarie e affinità per il substrato H diversi. L’enzima più efficiente è la FuT-asi A1, seguito dalla B e dalla A2. Nella tabella 53.15 sono riportate le possibili combinazioni dei principali gruppi del sistema AB0. Il gruppo A consiste di due sottogruppi principali, A1 e A2 e altri sottogruppi minori. La trasmissione ereditaria avviene secondo le leggi mendeliane dai geni alleli codominanti A, B. Soggetti di gruppo A1, A2, B, AB o 0 possono avere genotipi diversi. Raramente i due geni A e B si trovano in cis sullo stesso cromosoma e possono dar luogo al raro genotipo AB/0. La distribuzione nelle varie popolazioni degli Ag AB0 è variabile; alcuni esempi sono riportati in tabella 53.16. Circa l’80% della popolazione secerne sostanze A, B e H nel plasma e negli altri liquidi biologici, in particolare nella saliva. I geni ABH sono infatti attivi non solo nelle cellule eritroidi, ma in quasi tutti i tessuti. Tale capacità secernente è condizionata dall’espressione dei geni secretori Se e se (amorfo) che segregano in modo indipendente dai geni AB. Secretori sono gli individui omozigoti SeSe e eterozigoti Sese; non secretori gli individui sese. Il gene Se occupa lo stesso locus del gene H, sul cromosoma 19, delle cellule tissutali e codifica per una FuT-asi tissutale, FUT2, diversa da quella eritrocitaria. La sostanza H tissutale è solubile e viene detta di tipo 1 (Fig. 53.2) per differenziarla dalla sostanza H di tipo 2 eritrocitaria (non solubile e non secreta). Quando le transferasi A e B agiscono sulla sostanza H1, la trasformano nelle sostanze A e B di tipo 1 che vengono secrete. 2. Anticorpi del sistema AB0. Come già accennato, si tratta di ACN universalmente presenti nei soggetti di
Tabella 53.13 - Struttura dei gruppi sanguigni polisaccaridici. STRUTTURA Paragloboside
Globoside
SPECIFICITÀ ANTIGENICA
DESIGNAZIONE CHIMICA
-Gal(1-4)-GlcNac(1-3)-Gal(1-4)Glc-CER
–
-Gal(1-4)-GlcNac(1-3)-Gal(1-4)Glc-CER (1-2)l-Fuc
H
–
-GalNac(1-3)-Gal(1-4)-GlcNac(1-3)-Gal(1-4)Glc-CER (1-2)l-Fuc
A
–
-Gal(1-3)-Gal(1-4)-GlcNac(1-3)-Gal(1-4)Glc-CER (1-2)l-Fuc
B
–
-Gal(1-3)-Gal(1-4)-GlcNac(1-3)-Gal(1-4)Glc-CER
P1
–
-Gal(1-4)Glc-CER -Gal(1-4)-Gal(1-4)Glc-CER -GalNac(1-3)-Gal(1-4)-Gal(1-4)Glc-CER
– Pk P
Lactosil ceramide Ceramide triesoso Globoside
Paragloboside
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
1 1 = glico-lipoproteina sulla membrana eritrocitaria
2 3 4
8 = D-galattosio
2 = N-acetil-galattosamina
3 = D-galattosio
*
5 4 = N-acetil-glucosamina
7/8
5 = D-galattosio
7 = N-acetilgalattosamina
6 = L-fucosio
6
Precursore: 1 + 2 + 3 + 4 + 5 Sostanza H: precursore + 6 Gruppo A: sostanza H + 7 Gruppo B: sostanza H + 8
*
Tipo 1 = legame α (1-3) Tipo 2 = legame α (1-4)
Figura 53.2 - Struttura del sistema AB0. Tabella 53.16 - Frequenza dei gruppi AB0 (%) in diverse popolazioni.
Tabella 53.14 - Basi molecolari del polimorfismo AB0. RESIDUI AMINOACIDICI NELLE RISPETTIVE TRANSFERASI Alleli
156
176
216
235
266
268
A1 A2 B 0
Pro Leu
Arg
Phe
Ly
Leu
Gly
Ser
Met
Ala Arg
Gly Gly Gly
PRESENZA DI UNO STOP CODON AL NUCLEOTIDE 261 DEL GENE H Transferasi diverse hanno affinità diverse per la sostanza H. La sostanza H residua è così distribuita: 0 > A2 > A2B > B > A1B > A1.
Tabella 53.15 - Fenotipo e genotipo AB0. GRUPPO FENOTIPO A B AB 0
A1 A2 B A1B A2B 0
GENOTIPO
ACN NEL SIERO
A1/A1; A1/0; A1/A2 anti-B A2/A2; A2/0 anti-B; anti A1 (2) B/B/; B/0 anti-A no A1/B (1) anti-A1 (3) A2/B (1) 0 anti-A, anti-B
(1) Eccetto i rari casi di AB in cis (AB/0). (2) Nel 5% dei casi. (3) Nel 20% dei casi.
gruppo A, B e 0, ma assenti nei soggetti di gruppo AB (si veda Tab. 53.15). La produzione di ACN inizia dopo il 4° mese di vita e il titolo aumenta gradatamente raggiungendo i valori adulti tra i 5 e i 10 anni. Gli Ab anti-A/B
GRUPPO ANTIGENE BIANCHI
A B AB 0
A1 A2 B A1B A2B 0
32 9 11 3 1 44
NERI ORIENTALI AUSTRALIANI
19 8 20 3 1 49
26 raro 28 5 raro 43
56 0 0 0 0 44
sono IgM con ampio intervallo termico e si legano all’Ag e al complemento a 37 °C, causando emolisi a questa temperatura. Alcuni individui di gruppo 0 producono anti-A e B immuni (emolisine) con una più alta affinità per il complemento. La loro denominazione di “donatori universali pericolosi” si riferisce al fatto che il loro SI, trasfuso a persone di gruppo A, B o AB, può causare emolisi intravascolare. Talvolta, derivati del plasma, concentrati di fattore VIII e fattore IX, possono contenere tali emolisine e provocare una moderata anemia emolitica. Altri ACN del sistema AB0 sono gli anti-A1 (Tab. 53.15) e gli anti-H. I primi si riscontrano in circa il 5% dei soggetti A2 e nel 20% dei soggetti A2B. A parte rare eccezioni, si tratta di ACN inattivi a 37 °C, per lo più innocui in campo trasfusionale. Anti-H vengono infrequentemente prodotti da soggetti A1 e A1B (che hanno il minor numero di molecole H sulle emazie, si veda Tab. 53.14) e non danno nessun problema trasfusionale perché reattivi solo a basse temperature. B. Sistema Lewis. La caratteristica principale di questo sistema è quella di essere costituito da antigeni polisaccaridici solubili di provenienza non eritrocitaria.
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53 - PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE
1 7 = L-fucosio 1 = glico-lipoproteina
2 7 3 4 5
2 = N-acetil-galattosamina
3 = D-galattosio
4 = N-acetil-glucosamina 5 = D-galattosio Precursore (Tipo 1): 1 + 2 + 3 + 4 + 5 Sostanza H: precursore + 6 (FUT2) Lea: precursore + 7 (FUT3)
6 = L-fucosio
6
Leb: sostanza H + 7 (FUT3)
FUT2 = fucosil-transferasi 2, prodotto del gene Se; FUT3 = fucosil-transferasi 3, prodotto del gene Le
Figura 53.3 - Il sistema Lewis.
Essi vengono prodotti da cellule di numerosi organi e tessuti, secreti nel plasma e successivamente adsorbiti saldamente sulla membrana eritrocitaria. L’enzima responsabile del legame glicidico è una FuT-asi (1-3) che permette il legame tra una molecola di fucosio e la N-acetilgalattosamina terminale del precursore e della sostanza H di tipo 1 (Fig. 53.3), dando origine rispettivamente agli Ag Lea e Leb. Tale enzima, FUT3, è il prodotto del gene LE o FUT3, posto sul cromosoma 9. L’espressione degli antigeni LE dipende però strettamente dalla presenza del gene secretore Se e del suo già menzionato prodotto genico, FUT2, la transferasi che agisce sul precursore tipo 1 per generare la sostanza H tipo 1. I genotipi e fenotipi del sistema LE sono riassunti in tabella 53.17 che riporta anche le frequenze dei fenotipi LE. Gli anticorpi verso gli Ag LE sono prevalentemente ACN IgM, pertanto non importanti dal punto di vista trasfusionale, eccetto in rari casi in cui l’Ab è di origine immune e attivo a 37 °C. Durante la gravidanza si può avere un indebolimento dell’espressione degli Ag LE e comparsa di Ab anti-LE, che, essendo IgM, non passano la placenta e non danno luogo alla MEN.
denti dall’azione di transferasi differenti. L’unico enzima finora caratterizzato dal punto di vista biomolecolare e genetico è quello che catalizza l’aggiunta di un residuo -galattosile al precursore, chiamato paragloboside, da parte del gene P1, posto sul cromosoma 22. Gli altri Ag derivano dall’azione di enzimi non ancora caratterizzati e appartengono al precursore detto globoside. Come abbiamo detto, tutti questi AGE derivano da una struttura sfingolipidica comune (lactosil-ceramide), che costituisce il fulcro di tutti i sistemi polisaccaridici (Fig. 53.4). Gli anticorpi anti-P1, presenti negli individui P negativi, sono quasi sempre ACN IgM, raramente attivi a 37 °C, pertanto raramente causa di reazioni trasfusionali o MEN. Uno degli Ab di questo sistema, detto anti-P, contro un Ag del globoside, è la cosiddetta emolisina
C2E (lactosil-ceramide)
C. Sistema P. Questo sistema comprende Ag polisaccaridici situati su strutture proteiche diverse e dipen-
Lea
C4E
Tabella 53.17 - Frequenza dei gruppi AB0 (%) in diverse popolazioni.
Leb
H tipo 1
Paragloboside
C2E
H tipo 2
Globoside
i GENOTIPO FENOTIPO Le, Se Le, se le, Se le, se
Lea+b+ Lea+bLea-bLea-b-
SOSTANZE SOLUBILI
BIANCHI (%)
NERI (%)
Lea, Leb, H Lea H no
75 20 5 raro
55 20 25 raro
A tipo 1
B tipo 1
C2E: ceramide diesoso C4E: ceramide tetraesoso
I A tipo 2
B tipo 2
P1
P
Tipo 1: solubile; tissutale Tipo 2: eritrocitario
Figura 53.4 - Relazione tra gli antigeni AB0, H, Lewis, P1, Globoside.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
bifasica di Donath-Landsteiner, una IgG che si lega all’Ag a basse temperature (per es., nella circolazione delle estremità esposte al freddo). Quando la temperatura sale a 37 °C il complesso Ag-Ab rimane integro e lega il complemento provocando emolisi intravascolare. È causa di una rara sindrome emolitica denominata emoglobinuria parossistica a frigore, piuttosto frequente in passato in pazienti affetti da sifilide, ora incontrata occasionalmente in bambini affetti da malattie virali come morbillo e varicella. D. Antigeni I. Anche questi Ag si sviluppano sulle strutture glico-lipoproteiche degli altri gruppi polisaccaridici. Gli Ag I e i non sono codificati da geni alleli. L’Ag I deriva dall’aggiunta di gruppi disaccaridici all’Ag i, il quale, pertanto, è il precursore di I. Anticorpi anti-I e i sono spesso anticorpi freddi IgM, causa di crioagglutinine in malattie linfoproliferative e infezioni.
AGE proteici Rappresentano la stragrande maggioranza degli AGE, ma limiteremo la trattazione al sistema Rh, di gran lunga il più importante dal punto di vista trasfusionale e accenneremo solo brevemente ad alcuni altri. A. Sistema Rh 1. Antigeni Rh. Il sistema Rh comprende circa 50 AGE codificati da geni alleli del locus Rh posto sul cromosoma 1. È tra i più complessi dei 23 sistemi di AGE e, dopo il sistema AB0, è il più importante in campo immunoematologico per la sua alta immunogenicità, per i suoi rapporti con la MEN da incompatibilità materno-fetale e per l’alta incidenza di Ab anti-Rh nelle AEAI. Gli Ag più importanti del sistema Rh sono quelli denominati D, C, c, E, e. All’Ag D, il più importante del sistema, non corrisponde un Ag antitetico d, tuttavia tale lettera viene comunemente impiegata col significato di “D negativo”. Pur essendo errato, il linguaggio comune usa le espressioni “Rh positivo” e “Rh negativo”, per indicare D positivo e D negativo. Gli Ag DCcEe sono codificati da due geni distinti: RHD e RHCE che codificano per l’Ag D e gli Ag CcEe rispettivamente. Nei soggetti Rh(D) positivi sono espressi ambedue i geni RHD e RHCE, mentre nei soggetti Rh(D) negativi è espresso solo il gene RHCE. La struttura primaria degli antigeni CcEe è pressoché identica: E ed e differiscono per un solo aminoacido, C e c per quattro aminoacidi. L’Ag D differisce dagli altri in 36 posizioni. Oltre all’antigene D (a eccezione dei soggetti D negativi), tutti gli individui esprimono uno (se omozigoti) o ambedue (se eterozigoti) gli Ag antitetici delle coppie Cc, Ee. In casi eccezionalmente rari l’intero locus Rh non è espresso e nessuno degli Ag Rh viene sintetizzato. Tali individui vengono designati Rhnull e soffrono di una anemia emolitica congenita di lieve entità (Tab. 53.8). Alcuni individui D positivi reagiscono solo debolmente, o per nulla, ai comuni reagenti anti-D. La reazione può però risultare positiva con la metodica del TCI, più sensibile (si veda oltre). Si parla in questi casi
di fenotipo Du dovuto a una ridotta espressione del gene RHD, ovvero a un minor numero di Ag D sulla ME. Meno frequenti sono le forme di D varianti, Dvar, o parziali, dovute a delezioni parziali del gene RHD e alla produzione di Ag D incompleti. Soggetti Dvar che ricevono emazie Rh(D) positive possono produrre ACI anti-D verso i determinanti antigenici mancanti; per tali ragioni devono essere trasfusi con emazie D negative. Generalmente anche gli individui Du, pur essendo D positivi, vengono trasfusi con emazie D negative. Ciò dipende dalla presenza di rarissimi casi Du var e dalle difficoltà tecniche, non alla portata di tutti i laboratori, nel determinare lo stato di Dvar. Gli Ag Rh sono prodotti esclusivamente dalle cellule eritroidi e sono pienamente sviluppati alla nascita. La frequenza dell’Ag D è di circa 85% nei soggetti caucasici; ma sale al 90% nei neri e quasi al 100% nei cinesi. Soggetti D possono essere DD o Dd: da due individui Rh(D) positivi eterozigoti (Dd) possono quindi nascere figli Rh(D) negativi. Per quanto riguarda gli Ag C,c,E,e, il genotipo e il fenotipo varia tra individui e tra gruppi etnici. Non tutti gli aplotipi sono ugualmente espressi in una popolazione. La tabella 53.18 riassume gli aplotipi, i genotipi e fenotipi più frequenti dedotti da studi di popolazione. Come si può vedere la distribuzione può variare notevolmente in gruppi etnici diversi, e l’aplotipo CDe è molto comune tra i bianchi, ma raro nelle popolazioni nere, dove invece prevale il cDe. 2. Anticorpi anti-Rh. Nella maggior parte dei casi sono ACI prodotti da soggetti Rh(D) negativi (e dai rari induvidui Dvar) in seguito a eventi immunizzanti. Talvolta Ab anti-D possono essere passivamente trasmessi con trasfusione di PFC e piastrine e causare RTER. La velocità e l’intensità della risposta immune all’Ag D è variaTabella 53.18 - Genotipi e fenotipi DCcEe.
Aplotipo CDe (R1) cde (r) cDE(R2) cDe (Ro) cdE(r ) Cde (r)
A) APLOTIPI PIÙ FREQUENTI Bianchi (%) Neri (%) 41 37 17 2,5 0,9 0,7
8 25 7 49 1 2,2
B) FENOTIPI PIÙ FREQUENTI E GENOTIPI PIÙ PROBABILI Fenotipo* Genotipo Bianchi (%) Neri (%) CcDe CDe cde CcDEe cDEe cDe
CDe/cde (R1r) CDe/CDe (R1R1) CDe/cDe (R1Ro) cde/cde (rr) CDe/cDE (R1R2) cDE/cde (R2r) cDE/cDe (R2Ro) cDe/cde (Ror) cDe/cDe (RoRo)
33 18 raro 15 12 11 raro 2 raro
9 3 15 7 4 6 10 20 20
* Determinato dalla reazione con gli antisieri specifici anti-D, C, c, E, e.
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53 - PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE
Le metodiche con cui questi test vengono eseguiti prevedono l’uso di reagenti costituiti da:
Tabella 53.19 - Significato clinico di alcuni anticorpi. GRUPPO
Kell Kidd Duffy MN Ss
SPECIFICITÀ FREQUENZA FREQUENZA RTE MEN DELL’AB DELL’AG (%) DELL’AC (%)
K k Jka Jkb Fya Fyb M N S s
9 99 77 73 65 80 78 72 55 89
frequente raro frequente raro frequente raro frequente raro raro raro
sì sì sì sì sì sì sì sì sì sì sì sì rare rara rare rara sì sì sì sì
bile, probabilmente per una non ben definita disposizione genetica del ricevente stesso. La comparsa di Ab antiD nella risposta primaria può variare tra 4 settimane a 6 mesi, proporzionalmente alla quantità di emazie trasfuse ma il 10-15% dei soggetti Rh(D) negativi non produce Ab anti-D, anche se ricevono più di una trasfusione di GRC. Dopo la risposta primaria il titolo può rimanere alto per diversi mesi e talvolta anni o può scendere gradualmente e abbassarsi fino a livelli indosabili. In tali casi la trasfusione di emazie Rh(D) positivi può provocare una RTER (si veda oltre). Gli Ag CcEe sono meno immunogenici e gli Ab anti-E sono spesso ACN. Se emazie Rh(D) positivi vengono trasfuse a soggetti D negativi, è possibile sopprimere la risposta primaria mediante somministrazione im o ev di Ig anti-D. Tale pratica è necessaria in donne ancora in età fertile come profilassi della MEN da incompatibilità Rh(D) (si veda oltre). In questo modo le emazie D positive trasfuse, ricoperte dall’Ab esogeno, vanno incontro a rapida lisi e/o fagocitosi da parte del sistema macrofagico: venendo così sottratte al sistema immunitario, non stimolano la produzione di Ab anti-D. B. Altri antigeni proteici. Come accennato prima le reazioni trasfusionali e le MEN dovute agli Ag non Rh sono meno frequenti e generalmente meno gravi. Dopo il D, gli Ag più immunogenici sono quelli del sistema Kell, Kidd e Duffy: tutti possono causare RTER (talvolta anche intravascolari come gli Ab anti Jk) e MEN. Alcune informazioni salienti su altri gruppi proteici sono sintetizzate in tabella 53.19.
METODOLOGIE IN MEDICINA TRASFUSIONALE L’attività del laboratorio di immunoematologia è basata su alcuni test fondamentali: • • • • •
la determinazione del gruppo sanguigno; la ricerca di anticorpi irregolari; il test di Coombs diretto; il test di Coombs indiretto; le prove di compatibilità.
• antisieri commerciali per la determinazione del GS e di altri AGE; • eritrociti di gruppo 0 con composizione antigenica nota per la ricerca di ACI; • il siero di Coombs o siero antiglobuline umane, AHG. Inoltre sono necessari gli eritrociti (sospesi in soluzione fisiologica) e il siero del paziente per la determinazione degli esami richiesti. Questi test vengono eseguiti in provetta e il risultato evidenziato dall’avvenuta o non avvenuta reazione di agglutinazione tra l’Ag (eritrociti) e l’Ab (reagente/antisiero o siero del paziente). La presenza di agglutinazione (visibile a occhio nudo o al microscopio ottico) rende il test positivo: l’Ag o l’Ab ricercato è presente. Se l’agglutinazione non avviene il test è negativo: l’Ag o l’Ab ricercato è assente. Talvolta, con particolari Ab che legano il complemento, la reazione Ag-Ab provoca emolisi in vitro: anche questa è segno di avvenuta reazione Ag-Ab e va segnalata come risultato positivo. Recentemente si sono sviluppati sistemi in fase solida costituiti da microsfere di vetro ricoperte di antisieri a specificità nota; inoltre, particolari strumenti molto complessi possono eseguire tutte queste reazioni automaticamente e visualizzarne i risultati sia in forma cartacea che su computer. A. Determinazione del gruppo sanguigno. Anche se impropriamente, nell’accezione comune per GS si intende il gruppo AB0 e il fattore Rh(D). Gli altri AGE vengono determinati solo se necessario e generalmente quando ci sono problemi trasfusionali: per esempio se si vuole assegnare un’unità di GRC priva di un certo Ag a un paziente positivo per il corrispondente Ab. 1. Gruppo AB0. La determinazione del gruppo AB0 è completa solo se si ha il gruppo diretto per la ricerca degli Ag cellulari A e B, e quello indiretto per la ricerca degli ACN anti-A e anti-B. Il gruppo diretto è determinato dalla reazione delle emazie in esame con gli antisieri anti-A, anti-B e anti-AB; il gruppo indiretto si ottiene cimentando il siero o il plasma in esame con emazie A1, A2, B e 0 (Tab. 53.20). Gli ACN non vengono ricercati nel neonato, che, come abbiamo detto, non li produce ancora. Tabella 53.20 - Reattività per la determinazione del gruppo AB0. REAZIONE DELLE EMAZIE CON GLI ANTISIERI
REAZIONE DEL SIERO O PLASMA CON LE EMAZIE TEST
Anti-A Anti-B Anti-AB* + – + – + + + + + – – –
A1, A2 – – – +
B + – – +
GRUPPO
0** – – – –
* Per ulteriore controllo. ** Utile come controllo negativo.
A B AB 0
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
2. Gruppo Rh. Come accennato, per “Rh” si intende, anche se impropriamente, “Rh(D)”. Il fenotipo completo, CcEe, ottenuto usando i rispettivi antisieri, viene eseguito regolarmente in tutti i donatori, ma non nei riceventi: un paziente con ACI anti-Rh potrà così ricevere GRC senza il rispettivo Ag. Nei soggetti Rh(D) negativi è necessario escludere la presenza di un Du con la tecnica del TCI. 3. Altri gruppi. Solo la ricerca dell’Ag Kell è obbligatoria nei donatori. Nei riceventi nessun altro gruppo sanguigno, oltre a AB0 e Rh(D), viene eseguito, eccetto quando si riscontra un ACI; in tal caso è opportuno confermare che quel paziente non possieda l’Ag corrispondente. B. Ricerca degli anticorpi irregolari. Come già detto si tratta di Ab clinicamente rilevanti perché, reagendo a temperatura corporea, possono causare RTER. Il siero del paziente viene messo a reagire con le emazie test (di gruppo 0 per evitare che gli ACN anti-A e anti-B del siero in esame interferiscano con la reazione) e il siero di Coombs. La metodica è quella del TCI (si veda oltre).
CELLULA n. 1 2 3
Nella pratica viene eseguita una ricerca preliminare con un pannello di 3 cellule che contengono, tra tutte, la maggior parte degli AGE più frequentemente coinvolti nelle RTER: il Type and Screen (T&S). In caso di reazione negativa con tutte e 3 le cellule (T&S negativo) si conclude per assenza di ACI. Se il T&S risulta positivo con una o più delle 3 cellule del pannello (T&S positivo; Fig. 53.5) si procede all’identificazione dell’Ab con un pannello più ampio di 11 cellule: dalle varie combinazioni di reazione viene costruito un mosaico (pattern di reazione), da cui è possibile dedurre la specificità dell’Ab (Fig. 53.6). Una volta identificato l’Ab è opportuno definire anche il titolo, ovvero la massima diluizione del siero alla quale la reazione di agglutinazione è ancora positiva, che generalmente dà un’idea della sua rilevanza clinica. Il comportamento in vitro può variare da Ab ad Ab, anche in rapporto a certe proprietà dell’Ag corrispondente. Per esempio, alcuni Ag vengono distrutti dall’azione di enzimi proteolitici come bromelina o ficina (Fy, MNS), altri ne vengono potenziati (Rh). Di conseguenza se la ricerca e l’identificazione di ACI viene eseguita con emazie trattate e non trattate con enzima,
ANTIGENI PRESENTI SULLE CELLULE
RISULTATI
D
C
E
c
e
K
k
Fya
Fyb
Jka
Jkb
P1
Lea
Leb
M
N
S
s
+ + 0
+ 0 0
0 + 0
0 + +
+ 0 +
0 0 +
+ + +
0 + +
+ + 0
+ 0 +
+ + 0
+ + 0
+ 0 0
0 + +
+ + +
0 + 0
+ 0 +
0 + +
TCI ENZ + + –
– – –
Il pannello è costituito da cellule provenienti da 3 donatori, tipizzati per gli Ag più significativi. Se il siero in esame reagisce con 1 o più cellule, il pattern di reazione può orientare sulla specificità dell’Ab. Per l’identificazione dell’Ab si dovrà ricorrere al pannello più esteso a 11 cellule. L’esempio mostra una reattività positiva con le cellule 1 e 2 col TCI. Vi sono 4 Ag possibili: D, Fyb, Jkb, P1. L’abolizione della reazione con le emazie trattate farebbe pensare alla presenza di un Ab anti Fyb, in quanto questo Ag viene distrutto dall’enzima proteolitico. + = antigene presente; 0 = antigene assente; TCI = test di Coombs indiretto; ENZ = emazie del pannello trattate con enzima (si veda il testo).
Figura 53.5 - Esempio di ricerca di anticorpi irregolari con il pannello eritrocitario a 3 cellule.
CELLULA n. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 Auto
ANTIGENI PRESENTI SULLE CELLULE D
C
E
c
e
K
k
Fya
+ + + + 0 0 0 0 0 0 +
+ + 0 + 0 0 0 0 0 0 +
0 0 + 0 0 + 0 0 0 0 0
0 0 + + + + + + + + 0
+ + 0 + + + + + + + +
+ + + + 0 0 + 0 0 0 +
+ + + + + + + + + + +
+ + 0 0 + + 0 0 + + 0
Fyb
Jka
Jkb
+ + + 0 + + + + 0 0 +
0 0 + + + + 0 + + + +
+ + + 0 + + + + + 0 0
RISULTATI
P1
Lea
Leb
M
N
S
s
1
2
3
+ + + + 0 + + + + + 0
0 0 0 0 + 0 + 0 0 0 +
+ 0 + 0 + 0 + 0 + + 0
+ + + 0 + + + + + 0 +
0 + + + + 0 + 0 + + +
+ + 0 0 + + 0 + 0 0 0
+ + + + 0 0 + 0 + + +
+ + + + 0 0 0 0 0 0 + 0
+ + + + + + + + + + + +
0 0 + + + + + + + + 0 +
I risultati mostrano tre casi tipici: 1 Ab anti-D. L’autocontrollo negativo orienta verso un allo-anticorpo. 2 Anemia emolitica autoimmune da Ab caldi: l’Ab reagisce con tutte le cellule del pannello (panagglutinante). La presenza di un TCD positivo suggerisce la diagnosi di AEAI. 3 Ab anti-c in paziente CCDee recentemente trasfuso. La presenza di un TCD positivo orienta verso una RTER. Per ulteriori spiegazioni si veda il testo. + = antigene presente; 0 = antigene assente; auto = autocontrollo, ovvero reazione positiva tra emazie e siero del paziente (TCD positivo).
Figura 53.6 - Identificazione di anticorpi irregolari con un pannello eritrocitario esteso.
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53 - PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE
la scomparsa o il potenziamento di una reazione indirizza sull’identità (Fig. 53.6) dell’Ab stesso.
Tabella 53.21 - Positività del TCD. AUTOANTICORPI
C. Test di Coombs diretto. È una procedura diagnostica usata per dimostrare se le emazie in esame sono ricoperte (sensibilizzate) da IgG e complemento in vivo: l’aggiunta dell’AHG a una sospensione di GR darà una reazione di agglutinazione se le emazie del paziente sono sensibilizzate. Con procedure particolari è possibile staccare l’Ab dalle emazie (eluizione) e studiarne le caratteristiche con il TCI. Le cause di TCD positivo sono elencate in tabella 53.21. È da notare che un TCD positivo non è sempre associato a emolisi, ma può essere dovuto ad adesione aspecifica di Ig e frazioni del complemento (C3d, C4d) sulle emazie: circa l’1‰ dei donatori di sangue e il 5% dei pazienti ospedalizzati hanno un TCD positivo senza anemia emolitica. Al contrario, diversi casi sintomatici di AEAI possono avere un TCD negativo, probabilmente a causa di una rapida rimozione delle emazie sensibilizzate da parte del SMM.
• • • • •
ALLOANTICORPI
AEAI da Ab caldi AEAI da Ab freddi Malattie autoimmuni Disordini linfoproliferativi Farmaci
• RTEI • RTER • MEN da incompatibilità materno-fetale • Provenienti da plasma e derivati • Siero antilinfocitario (nell’anemia aplastica)
Il siero o l’eluato in esame vengono incubati a 37 °C con le emazie test e l’Ab, se presente, si lega all’AGE specifico. Al termine dell’incubazione le emazie vengono lavate e centrifugate per rimuovere l’Ab in eccesso non legato e si procede come per il TCD: dopo l’aggiunta dell’AHG l’agglutinazione avviene solo se l’Ab era presente. E. Prova di compatibilità. Viene eseguita cimentando il siero del ricevente con le emazie del donatore. Un’agglutinazione diretta immediata è segno di incompatibilità AB0. Applicando la metodica del TCI viene
D. Test di Coombs indiretto. Viene eseguito per la ricerca e l’identificazione di un Ab che a contatto con l’Ag non provoca un’agglutinazione diretta (Fig. 53.7).
y y
y
y
y
y
y
y y
y
y
y
y
O
y
O
y
y y
y
y
O
y
y
y O
y
y
y
y
O
y
O O
y y Emazie sensibilizzate (IgG o complemento)
Siero di Coombs (anti-IgG o C3d)
Agglutinazione
A.
y y y
y
y
y
y
O
y
O
y
y
y
y
y
O
y
y
y
y
y
y
O
y O
y
Siero del paziente
y
y
y
O
y
y
y
O
O
y
O
O
y y Emazie test
Emazie test ricoperte di IgG del siero del paziente
B.
Figura 53.7 - Test di Coombs diretto (A) e test di Coombs indiretto (B).
y Siero di Coombs (anti-IgG o C3d)
Agglutinazione
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
verificata la presenza di eventuali ACI contro le emazie del donatore.
Ricevente A. Procedure per la trasfusione di eritrociti. Nel preparare i GRC per un paziente, il CT si pone il preciso compito di: • assegnare l’unità di GRC giusta al paziente giusto; • assicurarsi che il paziente non abbia ACI; • prevenire la formazione di questi scegliendo GRC con caratteristiche antigeniche il più possibile simili a quelle del paziente. Poiché la trasfusione di emazie AB0 incompatibili può essere fatale, gli esami e le procedure pretrasfusionali, dalla richiesta di sangue all’infusione al letto del paziente, vanno eseguite scrupolosamente e con molta attenzione. L’errata assegnazione di una sacca di GRC è di rado dovuta a un errore di laboratorio, ovvero a risultati errati sul campione giusto, più comunemente si tratta di risultati giusti sul campione errato: scambio di paziente prelevato, errore di etichettatura della provetta. Il CT, attraverso una serie di procedure automatiche e per la maggior parte informatizzate, ha ridotto al minimo il rischio di errori di assegnazione e, di conseguenza, di reazioni trasfusionali gravi. 1. Richiesta di sangue. Deve contenere quei dati che permettono l’identificazione del paziente in modo inequivocabile: dati anagrafici, numero unico del paziente o della cartella clinica, reparto di provenienza, diagnosi, grado d’urgenza, storia trasfusionale e ostetrica. Tutto ciò per facilitare il compito del CT nell’individuare eventuali problemi trasfusionali e accelerare l’esecuzione degli esami pretrasfusionali. La richiesta deve essere accompagnata dal sangue del paziente (in genere una provetta con anticoagulante per la verifica del GS e una senza per la ricerca di ACI e per le prove di compatibilità). È responsabilità del medico prelevatore assicurarsi dell’identità del paziente, riportare sulle provette i dati essenziali per l’identificazione del paziente e della sua provenienza, firmare le provette, compilare integralmente e firmare la richiesta trasfusionale. È compito del CT verificare che le provette di sangue siano firmate e la richiesta compilata correttamente e firmata. Si passa quindi alla registrazione dei dati o alla loro verifica se il paziente è già registrato presso il CT. 2. Esami pretrasfusionali. Il GS va eseguito ogni volta anche per i pazienti noti e registrati (in cui viene omesso però il gruppo indiretto AB0). L’esecuzione del GS serve come ulteriore conferma dell’identità del paziente. Va eseguita, inoltre, la ricerca degli ACI con il pannello a 3 emazie. La procedura dell’esecuzione del GS e della ricerca di ACI viene chiamata con la nota terminologia inglese Type & Screen, T&S, che significa appunto esecuzione del GS e ricerca (ma non identificazione) di ACI. Con un T&S negativo è estremamente improbabile che delle unità di GRC omogruppo AB0, Rh siano incompatibili, eccetto in quei rari casi, cui si è
già accennato, in cui l’Ab ha un titolo così basso da essere indosabile. In tali casi, comunque, non si avrà mai una RTE di tipo immediato tale da mettere a rischio la vita del paziente. In caso di T&S positivo si passa alla identificazione dell’Ab col pannello esteso a 11 cellule. L’identificazione non è sempre una procedura lineare per molti motivi: • più Ab possono essere presenti nel siero e avere comportamenti differenti in vitro; • può trattarsi di un Ab contro un Ag molto raro non rappresentato sufficientemente nel pannello di emazie usato; • può trattarsi di un Ab contro un Ag presente nella maggior parte della popolazione e reagire con tutte le emazie del pannello; • vi può essere una miscela di allo e autoanticorpi. In questi casi è utile conoscere il TCD del paziente ed è necessario eseguire l’identificazione dell’Ab con più metodiche (per es., usare pannelli ficinati e non) per costruire un mosaico (“pattern”) di reattività che facilita l’interpretazione dei risultati. Si possono ravvisare tre quadri sierologici principali: • TCD negativo e ACI presenti a specificità definita: presenza di alloanticorpi. In tali casi è necessario verificare che il soggetto sia negativo per l’Ag corrispondente; • TCD positivo con ACI a specificità non definibile: probabile quadro di AEAI; • TCD positivo e ACI presenti a specificità definita: presenza di alloanticorpi in paziente recentemente trasfuso con probabile quadro di RTER. 3. Selezione dell’unità da trasfondere. L’atto finale della scelta delle unità da trasfondere può avvenire solo dopo che tutte le informazioni cliniche e immunoematologiche sono state acquisite e registrate negli archivi cartacei ed elettronici del CT. Si possono presentare tre situazioni: • T&S negativo: scegliere unità AB0, Rh(D) compatibili. La compatibilità per altri Ag meno immunogeni del D, come il Kell e gli altri Ag Rh, andrà rispettata solo in casi particolari come donne in età fertile e pazienti politrasfusi. Per la compatibilità AB0 si veda la tabella 53.22; • presenza di ACI: scegliere le unità prive dell’Ag corrispondente ed eseguire la prova di compatibilità; • presenza di un ACI non più identificabile. In circa un terzo degli individui che sviluppano un ACI, questo diventa indosabile dopo diversi mesi. Se il paziente è noto al CT si procederà come al punto secondo. Con un paziente con T&S negativo ma con una storia pregressa di trasfusioni, sia il medico di reparto che quello del CT dovranno considerare la possibilità di una RTER. Con l’esecuzione della procedura del T&S, la prova di compatibilità è diventata superflua nella maggior parte dei casi. Tuttavia è indispensabile accertarsi che la sacca assegnata sia dello stesso gruppo AB0 del ricevente controllando il GS della sacca o verificando la compatibilità
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53 - PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE
Tabella 53.22 - Compatibilità AB0 e scelta di GRC da trasfondere. RICEVENTE
DONATORE 1a
0 A B AB
scelta
0 A B AB
2a scelta
3a scelta
– 0 0 AoB
– – – 0
con una procedura abbreviata, ovvero facendo reagire il siero del paziente con le emazie da trasfondere: l’assenza di reazione immediata conferma la compatibilità tra emazie del donatore e siero del ricevente. La procedura del T&S non solo ha portato a un risparmio di tempo, e di reagenti, ma ha anche permesso di implementare la procedura del cosiddetto MSBOS (un acronimo per Maximum Surgical Blood order Schedule), ovvero il numero ottimale di unità di sangue da prenotare per un intervento chirurgico programmato. Quando un intervento non richiede utilizzo di sangue in più del 90% dei casi, un T&S è tutto ciò che serve per l’assegnazione delle unità di GRC, implementando i meccanismi di sicurezza di cui sopra. Ciascuna istituzione dovrebbe calcolare il numero di sacche mediamente consumate in più del 90% di casi per ciascun tipo di intervento e stabilire così il MSBOS per esso. Con tale procedura si evita di bloccare inutilmente un numero eccessivo di unità di GRC che potrebbero essere utilizzati per altri pazienti. B. Trasfusione di GRC in situazioni particolari. Si tratta di situazioni in cui le procedure standard subiscono variazioni, senza però varcare i limiti della sicurezza trasfusionale. Esse sono: le situazioni di urgenza, la trasfusione massiva e i problemi trasfusionali in corso di AEAI. 1. Urgenza. È rappresentata prevalentemente da pazienti in shock emorragico (traumi, rottura di aneurismi, varici esofagee sanguinanti, ecc.), in cui il tempo per eseguire i test standard è limitato. Se è disponibile un campione di sangue che non lascia dubbi circa l’identità del paziente è possibile eseguire in pochi secondi il gruppo del paziente e selezionare unità omogruppo (AB0, Rh) da consegnare nel minor tempo possibile mentre vengono completati gli altri esami, T&S o prove di compatibilità. Se non c’è tempo neppure per questo bisognerà ricorrere a sangue 0 Rh negativo. 2. Trasfusione massiva. È così definita la trasfusione di un volume di sangue uguale a quello del paziente in un periodo inferiore a 24 ore. La quasi totalità del sangue del paziente finirà per essere costituito esclusivamente da sangue trasfuso e, per definizione, precedentemente testato. Perdono pertanto di significato le
prove di compatibilità o di ricerca di ACI, ma va garantita la compatibilità AB0 dei componenti trasfusi secondo lo schema in tabella 53.22. In ambedue le situazioni sopra descritte è possibile che le scorte di sangue omogruppo o quelle Rh(D) negativo si esauriscano. Se il paziente è Rh(D) negativo e nel frattempo il T&S è risultato negativo, non bisogna esitare, di fronte a un’emorragia massiva, a usare sangue Rh(D) positivo: non vi sarà nessun pericolo immediato di reazione trasfusionale, e se il paziente si sensibilizza ciò avverrà coi tempi della risposta immunitaria primaria o secondaria, quando cioè il paziente sarà ormai fuori pericolo e il CT si sarà approvvigionato del sangue necessario. 3. Anemia emolitica autoimmune. In un gran numero di casi è impossibile trovare la specificità dell’Ab e quindi la trasfusione sierologicamente compatibile. Vi possono essere difficoltà nella determinazione del GS per il fatto che le emazie, ricoperte di Ig, agglutinano spontaneamente e il siero reagisce con tutte le emazie oltre che con quelle del paziente stesso. Se il paziente è asintomatico si cercherà di evitare la trasfusione e attendere che la terapia (farmacologica o la splenectomia) raggiunga l’effetto desiderato. Se è indispensabile trasfondere, saranno selezionate quelle unità di GRC che nelle prove di compatibilità danno un’agglutinazione di intensità uguale o inferiore all’autocontrollo (siero ed emazie del paziente incubate insieme). In caso di Ab freddi la compatibilità va eseguita sul campione del paziente mantenuto rigorosamente a 37 °C dal momento del prelievo in siringhe e provette riscaldate fino all’incubazione per le compatibilità. C. Trasfusione di plasma e piastrine. Per la trasfusione di PFC e piastrine non occorrono prove di compatibilità ma è sufficiente rispettare la compatibilità AB0. Il plasma di gruppo 0 sarà trasfuso solo a individui 0, mentre il plasma AB può essere trasfuso a tutti, qualunque sia il gruppo AB0, ed è il prodotto di elezione per le trasfusioni neonatali. Lo stesso vale per la trasfusione di piastrine da plasma-piastrinoaferesi, che generalmente sono sospese in circa 200 ml di plasma. Per le piastrine cosiddette “random”, ovvero da singole donazioni, non è indispensabile il rispetto del gruppo per l’esigua quantità di plasma in cui sono sospese, anche se è stato dimostrato che l’incremento delle conte piastriniche è migliore se le piastrine sono omogruppo. D. Conseguenze della trasfusione di sangue e derivati. Le conseguenze della trasfusione (Tab. 53.23) possono essere a breve e a lungo termine. Le prime sono generalmente di tipo immunologico o dovute a contaminazione con agenti infettivi. Le complicanze a lungo termine sono rappresentate principalmente dalla trasmissione di agenti virali delle epatiti B, C, dal virus dell’AIDS e dall’emosiderosi secondaria.
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tabella 53.23 - Effetti collaterali della trasfusione di sangue. REAZIONI IMMEDIATE • Immunologiche – Emolitiche – RTFNE – Anafilattiche – Orticariodi – Polmonari
EZIOLOGIA PIÙ COMUNE
REAZIONI RITARDATE • Immunologiche – Emolitiche – GVHD – Trombocitopenia – Immunizzazione a GR, GB plts, proteine plasmatiche e Ag tissutali (HLA)
Incompatibilità AB0 Granulociti IgA Proteine plasmatiche Aggregati GB-Ab anti GB
• Non immunologiche – Shock settico Batteri – Insufficienza cardiaca Sovraccarico Emazie alterate da: conservazione a < 4 °C, surriscaldamento, sospensione in soluzioni ipotoniche
Complicanze immunologiche Possono essere emolitiche e non emolitiche, ovvero le RTFNE. A. Reazioni trasfusionali emolitiche. Queste possono essere immediate o acute, ritardate, intravascolari, extravascolari (Tab. 53.24) e sono causate dalla reazione tra anticorpi circolanti nel siero del ricevente e le emazie del donatore; solo raramente sono dovute ad anticorpi contenuti nel plasma trasfuso (PFC, piastrine, SI) che reagiscono con le emazie del ricevente. 1. RTEI. Sono generalmente intravascolari e dovute ad ACN di tipo IgM leganti il complemento e appartenenti al sistema AB0, più raramente al sistema LE. Nella RTEI si ha la rapida attivazione del complemento ad opera del complesso Ag-Ab sulla ME. La sintomatologia, che nei casi più gravi può insorgere entro pochi minuti dall’inizio della trasfusione, consiste in senso di irrequietezza e di freddo, dolori retrosternali e lombari, nausea e vomito, brividi talvolta scuotenti, iperpiressia. Nei casi più gravi si possono avere broncospasmo, ipotensione, shock, coma. Successivamente compaiono segni di emolisi intravascolare con emoglobinuria; vi può essere CID e insufficienza renale. La fisiopatologia e la patogenesi della RTEI, illustrata in figura 53.8, ricalca quella dello shock settico ed è me-
• Non immunologiche – Emosiderosi – Epatite – AIDS – Infezioni da protozoi
EZIOLOGIA PIÙ COMUNE Incompatibilità non AB0 Linfociti trasfusi Ab anti- PlA1 Esposizione ai relativi Ag
Ferro trasfuso HBV, HCV HIV Malaria
diata dall’attivazione del complemento: produzione e liberazione di citochine da parte del SMM (IL-1, IL-6, IL-8, TNF); attivazione e degranulazione dei basofili (C5a) con liberazione di sostanze vasodilatatrici e broncocostrittrici (istamina, serotonina, PGD2, PAF); aumento della permeabilità vasale (C3a e C5a). L’attivazione della fase di contatto della coagulazione (TNF) e liberazione di fattori tissutali dalle cellule lisate innescano la CID. L’insufficienza renale acuta risulta dalla concomitanza di numerosi fattori: vasocostrizione a carico dei distretti renali, ipotensione, CID, necrosi tubulare causata dagli stromi eritrocitari ricoperti dal complesso Ag/Ab/C, in minor misura da un eccesso di escrezione di Hb libera. Quest’ultima si lega alle Hpt e viene rapidamente captata dagli epatociti. Parte dell’Hb si ossida a met-Hb e l’eme si separa dalla globina. Si formano così i complessi Hpt-globina, metalb, Hpxeme, Hpx-metalb che vengono intercettati dagli epatociti e rimossi dal circolo (Fig. 53.9). Quando la capacità legante delle Hpt plasmatiche si esaurisce, l’Hb libera attraversa il glomerulo renale, viene assunta dalle cellule del tubulo renale dove viene scissa in dimeri ed escreta nelle urine (emoglobinuria). La diagnosi di emolisi intravascolare viene confermata dalla presenza di Hb plasmatica ed emoglobinuria, da un consumo di Hpt e da un aumento della LDH (di derivazione eritrocitaria). Dopo alcune ore compare iperbilirubinemia indiretta. Le emazie trasfuse ancora in
Tabella 53.24 - Reazioni trasfusionali emolitiche. TIPO Acuta intravascolare Acuta extravascolare Ritardata intravascolare Ritardata extravascolare (1) (2) (3) (4)
ATTIVAZIONE DEL COMPLEMENTO
ESEMPIO DI AB
CLASSE IG
AB PRETRASFUSIONE
completa (C1-C9) no/parziale (C3) completa (C1-C9) no/parziale (C3)
AB0, Le Rh Kidd Duffy, Kell
IgM (1) IgG (2) IgG (2) IgG (2)
presenti (3) presenti (3) assenti (4) assenti (4)
IgG immuni (emolisine) anti-A e anti-B dei soggetti di gruppo 0 immunizzati verso tali Ag. G1, G3. ACN (AB0) o ACI (T&S positivo). T&S negativo per la bassa concentrazione di Ab.
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53 - PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE
Complesso antigene eritrocitario/anticorpo
Attivazione del complemento
Coagulazione intrinseca (attivazione del fattore XII)
Bradichinine
EMOLISI
Stimolazione dei monociti e dei basofili
Produzione di citochine
Effetti metabolici, cellulari, tissutali, sintomi sistemici
RTEI
Intravascolare
Extravascolare
SMM
Sostanze TP-simili
RTER
Coagulazione estrinseca
Stromi eritrocitari
Vasodilatazione, aumento della permeabilità vasale, ipotensione, shock CID
Insufficienza renale
Figura 53.8 - Fisiopatologia delle reazioni trasfusionali emolitiche.
Hb libera
Hb dimeri
emoglobinuria
EMOGLOBINA
Aptoglobina
Globina + eme
Emopessina
Albumina Hpt-Hb Hpt-globina
Metalb
SMM FEGATO
Hpx-eme Hpx-metalb
Iperbilirubinemia
Figura 53.9 - Destino dell’Hb liberata nell’emolisi intravascolare.
circolo possono dare un TCD positivo per IgG e complemento. In caso di negatività dei test di emolisi è lecito pensare ad una RTFNE (si veda oltre). La terapia delle RTE immediate dipende dalla complessità del quadro clinico e consiste nel mantenimento della diuresi con idratazione e diuretici, terapia per il broncospasmo, dell’edema polmonare, dello shock, della CID e dell’insufficienza renale. È necessario per prima cosa escludere che non vi sia un errore di assegnazione della sacca e implementare tutte quelle misure descritte nella tabella 53.25. Nelle forme acute extravascolari l’attivazione del complemento è assente o incompleta e mediata da ACI IgG ad alto titolo. Le emazie ricoperte di IgG e complemento vengono captate dalla milza e dal fegato grazie ai recetto-
ri per le IgG sulle cellule della milza e ai recettori per il complemento situati sull’epatocito. La sintomatologia è molto più sfumata, insorge poche ore dopo l’inizio della trasfusione; il paziente può notare urine ipercromiche qualche ora dopo e assenza del benessere che dovrebbe seguire la trasfusione. Il TCD è positivo e la tecnica dell’eluizione può aiutare a individuare l’Ab. 2. RTER. In queste forme, dovute a ACI IgG, l’Ab è generalmente assente o presente in concentrazione minima nel siero del paziente al momento della trasfusione. Il primo evento sensibilizzante può essere avvenuto mesi o anni prima e la concentrazione dell’Ab essere scesa a livelli indosabili. Se il paziente viene trasfuso di nuovo con Tabella 53.25 - Condotta nelle RTEI. Clinica • sospendere immediatamente l’infusione; • controllare l’identità e il GS del paziente e del donatore sull’etichetta della sacca e sulla richiesta trasfusionale per escludere ovvie discrepanze; • mantenere l’accesso venoso; • monitorare i segni vitali e mantenere pressione arteriosa e diuresi. Laboratorio Inviare al laboratorio campioni di sangue e urine per: • emocromo, Hb plasmatica; • elettroliti, bilirubina, studio della coagulazione, aptoglobine; • esame urine ed emoglobinuria; • controllo post trasfusionale del GS, T&S, TCD, TCI; • ripetere GS e compatibilità anche su un prelievo post trasfusione; • escludere contaminazione batterica della sacca tramite emocoltura.
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emazie che portano lo stesso AGE si può avere una risposta secondaria entro 72 ore, quando le emazie trasfuse sono ancora in circolo. Queste vengono ricoperte dall’Ab, vengono sequestrate dal sistema macrofagico e vanno incontro a lisi extravascolare, con conseguente anemizzazione, segni clinici e biochimici di incrementata emocateresi, positività del TCD. Talvolta la concentrazione e l’affinità dell’Ab dopo la risposta secondaria arrivano a livelli così elevati da legare il complemento e provocare una RTE ritardata ma intravascolare. Tuttavia l’entità della reazione non raggiunge mai la gravità della RTE intravascolare immediata. Gli Ab più comunemente incontrati nelle RTE ritardate sono anti Rh, Kidd, Duffy, Kell e MNSs. B. Malattia emolitica del neonato da anticorpi anti-D (MEN-D). Sebbene numerosi possano essere gli Ab che possono causare emolisi nel feto, di gran lunga la più frequente e clinicamente più importante è quella da Ab anti-D. Il meccanismo è comune a tutte le forme di MEN da incompatibilità materno-fetale: • negatività della madre per un Ag e positività del feto per lo stesso (di derivazione paterna); • passaggio nella circolazione materna di emazie fetali; • produzione di Ab materni contro gli Ag fetali; • passaggio delle IgG materne nella circolazione fetale attraverso la placenta. La MEN-D è dovuta dunque all’emolisi di emazie fetali Rh(D) positive da parte di anticorpi anti-D materni che attraverso la placenta sono entrati nella circolazione fetale. Oltre al parto, altri eventi ostetrici possono causare microemorragie placentari con passaggio di emazie fetali nella circolazione materna (Tab. 53.12). L’incidenza della MEN-D varia con la percentuale del fenotipo Rh(D) nella popolazione, tuttavia è sempre inferiore ai valori aspettati in quanto: • l’immunizzazione anti-D generalmente non avviene alla prima gravidanza; • metà dei neonati di padri D positivi eterozigoti (D/d) risulterà D negativa; • il 10-15% delle mamme non producono Ab anti-D (si veda sopra); • in molte gravidanze vi è anche un’incompatibilità AB0 (feto A o B e madre 0) che ha un effetto protettivo (si veda oltre). La profilassi con IgG anti-D ha ridotto notevolmente l’incidenza della MEN-D. Dei bambini nati con incompatibilità anti-D circa il 40% non richiedono alcuna terapia, il 20% solo fototerapia, il 20% una o più exanguinotrasfusioni, il 20% trasfusione intrauterina. L’immunizzazione anti-D avviene prevalentemente durante l’ultima parte della gravidanza o al parto, quando lo scambio di sangue tra feto e madre è più abbondante. Alla prima gravidanza la malattia è generalmente mite perché la madre non è ancora sensibilizzata o ha un titolo anti-D ancora basso, ma si aggrava con le gravidanze successive che stimolano una risposta secondaria. La gravità della anemia emolitica nel feto è proporzionale al titolo anticorpale materno. Nei casi più gravi si ha epatosplenomegalia per la presenza di emopoiesi extramidollare in questi or-
MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tabella 53.26 - Gravità della MEN. CORDONE OMBELICALE Hb Bilirubina (g/dl) (mol/l) Grave Moderata Lieve
< 10,5 10,5-13,0 > 13,0
> 150 > 70 > 20
Neonato Bilirubina (mol/l)< 24 ore 24-72 ore < 70 osservazione – 70-150 fototerapia osservazione > 150 exanguinotrasfus.* fototerapia
Reticolociti (%) > 20 10-20 < 10 > 72 ore – fototerapia
* Da eseguirsi indipendentemente se la bilirubina è ≥ 250 mol/l.
gani, scompenso cardiaco con ascite e anasarca (idrope fetale). L’iperbilirubina non provoca danni cerebrali perché eliminata nella circolazione materna. L’innalzamento del titolo anticorpale durante la gravidanza e controlli ostetrici ed ecografici frequenti per determinare lo stato di sofferenza fetale sono indispensabili per intervenire prontamente con trasfusioni intrauterine (con sangue Rh(D) negativo irradiato, compatibile con il siero materno) o con parto prematuro dopo la 30a-32a settimana. Il TCI e il titolo anticorpale anti-D sul sangue materno vanno eseguiti mensilmente in tutte le madri Rh(D) negative. La diagnosi di MEN-D nel neonato è confermata se la madre è Rh(D) negativa e ha un TCI positivo per l’Ag D e se il TCD del neonato è positivo. In base ai valori dell’Hb del cordone ombelicale e della bilirubina nelle prime ore dopo la nascita, la malattia può essere mite, moderata o grave e la decisione alla ExTF dipenderà dai valori di bilirubina e dalla maturità del neonato (Tab. 53.26). L’ ExTF deve essere eseguita con GRC non più vecchi di 72 ore, e deve essere Rh(D) negativo, compatibile con il siero materno, filtrato (per ridurre la probabilità di infezioni da CMV) e possibilmente irradiato (per impedire una GVHD trasfusionale). Per la prevenzione della MEN-D a tutte le donne Rh(D) negative esposte per la prima volta a emazie D positive la somministrazione di Ig anti-D dovrebbe avvenire entro le prime 72 dall’evento immunizzante. Tuttavia, non bisogna astenersi dal praticarle anche se è passato questo limite, poiché in alcuni casi la profilassi è stata efficace anche dopo 7-10 giorni dal parto. C. MEN dovuta ad altri Ab. MEN da incompatibilità materno-fetale diversa dall’Ag D è più rara e generalmente meno grave, data la minore immunogenicità degli altri Ag rispetto all’Ag D. 1. AB0. L’incompatibilità da AB0 è dovuta ad Ab antiA e anti-B immuni (emolisine IgG). Si tratta di bambini di gruppo A o B nati da madri 0. La gravità della malattia è di gran lunga inferiore a quella da anti-D in quanto: • solo le IgG e non le IgM attraversano la placenta; • le emazie fetali contengono un minor numero di siti A o B, risultando quindi meno immunogene;
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53 - PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE
• le sostanze solubili A e B materne possono interferire con la reazione tra eritrociti fetali e Ab materni; • data l’alta affinità degli anti-A e B immuni per il complemento, gran parte delle emazie fetali ricoperte dall’Ab vengono intercettate dal SMM della madre sottraendole al sistema immunocompetente. L’emolisi quindi non colpisce mai il feto ed è generalmente contenuta nel neonato. Il TCD del neonato è spesso negativo e la diagnosi si basa sul fatto che la madre è di gruppo 0 e il figlio di gruppo A o B, sulla moderata anemia e iperbilirubinemia, sulla presenza di anti-A o anti-B immuni (IgG) nel siero materno e sulla presenza di microsferociti sullo striscio periferico (segno di una parziale fagocitosi). Se si rendesse necessaria una trasfusione, saranno impiegate emazie 0 da donatore non “pericoloso” (privo di emolisine anti-A o B). 2. Altri Ab. In teoria tutti gli Ab IgG possono attraversare la placenta e provocare una MEN. Dopo l’anti-D, l’anti-A e l’anti-B, l’Ab più comunemente implicato nella MEN è l’anti-K, seguito dagli Ab del sistema Rh (CcEe). Trattandosi di forme più miti, che richiedono solo eccezionalmente ExTF, non viene praticata la profilassi con Ig specifiche. D. Complicanze immunologiche non emolitiche. Come illustrato in tabella 53.23 le complicanze immunologiche non emolitiche sono rappresentate da: • RTFNE; • PPT; • GVHD post trasfusionale. 1. RTFNE. Sono dovute in prevalenza a sensibilizzazione verso Ag leucocitari, piastrinici e plasmatici. Gli Ag cellulari più frequentemente in causa sono gli Ag HLA costituzionalmente presenti sulla superficie dei GB e per adesione sulla superficie delle piastrine. Si tratta di reazioni febbrili non gravi accompagnate da manifestazioni orticarioidi, talvolta brividi e cefalea. Generalmente non è necessario sospendere la trasfusione, basta rallentare la velocità di infusione. Se il fenomeno si ripete a ogni trasfusione di GRC o piastrine, è opportuno fare uso di filtri per la leucodeplezione. Più gravi sono le reazioni dovute ad Ab anti-IgA prodotti da riceventi con deficienza di IgA in occasione di precedenti trasfusioni. Se questa condizione è dimostrata sarà indispensabile fare uso di emazie lavate o emoderivati provenienti da soggetti IgA deficienti. Quando la sintomatologia è aggravata dalla rapida insorgenza di tosse, dispnea e fame d’aria è lecito sospettare la presenza di infiltrati polmonari. Tale fenomeno è dovuto alla reazione tra Ab antileucocitari, presenti nel siero, del donatore con i GB del ricevente, con formazione di aggregati leucocitari che rimangono intrappolati nel parenchima polmonare. L’uso tempestivo di steroidi è un salvavita. Il donatore, in genere donne multipare, devono essere rimosse dal pannello dei donatori. 2. PPT. È molto rara e si instaura 7-10 giorni dopo la trasfusione di piastrine. Queste possono scendere a valori molto bassi ed essere accompagnate da grave porpora
trombocitopenica. Essa è dovuta alla reazione tra Ab antipiastrine del ricevente, acquisite in una precedente sensibilizzazione (trasfusione o gravidanza) e le piastrine trasfuse. L’Ab piastrinico più frequentemente incontrato ha specificità anti-PlA1, un Ag presente nel 98% degli individui. Rimane ancora poco chiaro perché un Ab attivo verso un Ag presente solo sulle piastrine trasfuse dovrebbe provocare la distruzione anche delle piastrine autologhe PlA1 negative. In caso di gravi emorragie, la trasfusione di piastrine è controindicata in quanto causerebbe ulteriore distruzione delle piastrine trasfuse. La terapia di elezione è rappresentata dalle Ig ad alte dosi. 3. GVHD. È molto rara e avviene nei soggetti immunocompromessi, come pazienti sottoposti a trapianto di CSE, immunodeficienze congenite, neonati, feti sottoposti a trasfusione intrauterina di emoderivati. Come detto sopra, è dovuta alla reazione dei linfociti del donatore contro i tessuti del ricevente ed è attenuata dall’uso di emoderivati (GRC e piastrine) filtrati e inibita dall’irradiazione.
Complicanze non immunologiche Le più importanti sono rappresentate dalle complicanze infettive e dall’emosiderosi secondaria. A. Complicanze infettive. La possibilità di contrarre IPT rappresenta un deterrente all’uso incondizionato di prodotti del sangue e derivati. Gli agenti patogeni responsabili delle IPT sono caratterizzati dalla capacità di dare origine a portatori asintomatici o latenti e di rimanere vitali nel sangue conservato e nei prodotti derivati. Le IPT possono essere di natura virale, batterica e protozoica (Tab. 53.27) Per una trattazione clinico-epidemiologica dettagliata delle malattie qui accennate si rimanda ai testi specializzati. B. Infezioni virali. Una scrupolosa selezione dei donatori, test diagnostici sempre più sensibili e i metoTabella 53.27 - Infezioni trasmesse con gli emoderivati. Infezioni virali • • • • •
Epatite (B, C, A), AIDS (HIV1-2) Mononucleosi infettiva (EBV) Malattia da CMV Human T- cell leukemia lymphoma virus (HTLV1 e 2) Parvovirus umano B19 (HPV B19)
Infezioni batteriche • Endogene (dal sangue del donatore) Treponema, Brucella, Rickettsia, Yersinia Campylobacter, Staph. aureus, Strept. viridans • Esogene (dalla cute del donatore o dall’ambiente) Staph. epidermidis, Micrococcus, Sarcina, Pseudomonas, Flavobacterium bacillus Parassiti Malaria, Tripanosoma, Toxoplasma, Babesia, Leishmania
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
di di inattivazione e decontaminazione virale adottati nella produzione industriale di emoderivati hanno abbattuto notevolmente l’incidenza delle IPT di origine virale. Tuttavia, casi di trasmissione di HBV, HCV e HIV da emoderivati non manipolati (GRC, plasma e piastrine) ancora avvengono. In alcuni casi il donatore volontariamente omette informazioni importanti, come abitudini di vita, uso di droghe ev, infezioni o malattie in atto. In altri casi la trasmissione dipende dai limiti delle tecnologie di laboratorio nell’identificare titoli di anticorpi o antigeni virali al di sotto di una data soglia. Accenneremo qui esclusivamente alle infezioni da HBV, HCV, HIV. Le modalità di trasmissione di questi tre agenti virali sono simili. La trasfusione di sangue rimane il vettore principale. Seguono l’uso di droghe ev, la condivisione di aghi infetti, i rapporti sessuali promiscui e non protetti, il contatto di materiale infetto con lesioni della cute e delle mucose, la trasmissione materno-fetale. Se un ricevente sieroconverte in seguito a trasfusione di sangue, è indispensabile rintracciare i donatori da cui sono derivati i prodotti trasfusi e gli eventuali altri pazienti che hanno ricevuto emoderivati dallo stesso donatore. Alcune informazioni di interesse generale e trasfusionale sono riportate in tabella 53.28. 1. Epatite B. La presenza dell’HBsAg nel siero non è sempre segno di epatite in atto, ma può rappresentare uno stato di portatore, in cui l’eliminazione delle particelle virali può avvenire in un periodo variabile da mesi ad anni dopo l’infezione acuta. Dal punto di vista trasfusionale un’antigenemia positiva impone l’esclusione dalla donazione, anche di fronte a enzimi epatici nella norma. Anche dopo la scomparsa degli Ag di superficie e la comparsa degli Ab immuni anti-AgHBs il donatore sarà escluso per sempre nel timore che si tratti di un soggetto con bassissima carica di DNA virale. Particolarmente pericolosa è la fase iniziale della malattia, quando l’AgHBs e gli Ab sono ancora negativi (“finestra”), in particolare nelle forme asintomatiche e in quegli individui con una carica di particelle virali al di sotto della soglia di sensibilità del metodo. La presenza di Ab anti-HBc in questi casi può suscitare il sospetto di una recente o pregressa infezione; questo esame, che in molti paesi è un esame di routine eseguito a tutti i donatori, non è obbligatorio in Italia e in altri paesi. I donatori a rischio, come gli operatori sanitari, possono donare dopo vaccinazione con vaccino ricombinante. 2. Epatite C. L’introduzione di un test specifico basato sulla ricerca di anticorpi anti-HCV è relativamente recente e ha permesso di contenere l’infezione trasmessa
tramite trasfusione di sangue e derivati, che nei decenni Settanta e Ottanta hanno colpito la quasi totalità dei pazienti emofilici. A differenza dell’HBV, e analogamente all’infezione da HIV, gli Ab anti-HCV non sono neutralizzanti e protettivi, ma indicano semplicemente l’avvenuta esposizione al virus. La prevalenza nei donatori e nella popolazione generale è particolarmente alta in certe regioni geografiche, come Italia meridionale, Europa orientale e alcune popolazioni africane. Purtroppo, come per l’HIV, non esiste una profilassi e la prevenzione in ambito trasfusionale si può solo affidare alla selezione dei donatori e ai progressi tecnologici sulla diagnostica e sui processi di decontaminazione virale. 3. HIV. Dal 1985, anno di introduzione del test per gli Ab anti-HIV, il rischio di IPT da HIV è diminuito notevolmente anche grazie alla politica di autoesclusione dei donatori a rischio e a colloqui più franchi e diretti con i donatori stessi. Prima di quella data più della metà dei pazienti con AIDS erano pazienti emofilici trasfusi con concentrati di fattore VIII. Oggi questo tipo di trasmissione è scomparsa grazie alle tecniche di decontaminazione virale. La modalità di trasmissione di gran lunga più comune è rappresentata dalla tossicodipendenza e dai rapporti sessuali particolarmente a rischio come i rapporti promiscui omosessuali ed eterosessuali e non protetti. Il rischio di contrarre l’HIV da una trasfusione è intorno a 1-2 per milione di donazioni. Esiste, dunque, ancora un rischio residuo che è principalmente dovuto all’impossibilità di diagnosticare una sieroconversione nei primi giorni o settimane dopo l’avvenuta infezione, la cosiddetta “finestra”, a causa dell’insensibilità dei metodi di laboratorio a bassi titoli anticorpali. L’infezione da HIV-2, che dà una malattia simile a quella da HIV-1, anche se meno virulenta, è endemica nell’Africa occidentale e scarsamente diffusa altrove. Tuttavia, data la segnalazione di casi sporadici in numerosi paesi occidentali, il test anti-HIV-2 viene eseguito in concomitanza con il test per l’HIV-1. Se un donatore viene confermato HIV positivo è opportuno inviarlo un centro specializzato per la cura dell’infezione da HIV e individuare tutti i pazienti che hanno ricevuto il suo sangue. Altri virus possono essere trasmessi con emoderivati, come CMV, EBV, HAV, il parvovirus umano B19 (HPV B19). Tuttavia si tratta di ITP rare e non debilitanti, eccetto in pazienti trapiantati o immunocompromessi, in cui l’infezione da CMV può dare infezioni fatali e l’EBV può accompagnarsi a disordini linfoproliferativi B particolarmente aggressivi.
Tabella 53.28 - Infezioni post trasfusionali da HBV, HCV, HIV.
Incidenza (unità trasfuse) Periodo di incubazione Epatopatia cronica Cirrosi/epatocarcinoma Portatore Anticorpi immuni
HBV
HCV
HIV
1/200.000 6-24 settimane 10% 1% 5% sì
1/100.000 2-8 settimane 65% 15% ? no
1-2/1.000.000 Sieroconversione: 1- 2 mesi – – no no
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53 - PRINCIPI DI MEDICINA TRASFUSIONALE
C. Altre infezioni. Altre infezioni potenzialmente ma eccezionalmente letali sono le infezioni batteriche e la malaria. Le prime possono essere sia di origine esogena che endogena. Non tutti i prodotti contaminati causano sepsi nel ricevente sia per le proprietà battericide del sangue stesso, sia per la conservazione a basse temperature che impediscono la crescita della maggior parte dei batteri, sia per il fatto che molti pazienti ospedalizzati assumono antibiotici. Tuttavia alcuni batteri possono crescere anche alle basse temperature impiegate per la conservazione dei GRC (4 °C), come la Yersinia enterocolitica. Inoltre le piastrine, che vengono tenute a temperatura ambiente fino a cinque giorni, possono favorire la crescita batterica. Sono stati descritti casi eccezionali di sepsi mortali da sangue contaminato. La contaminazione può avvenire dal punto di inserzione dell’ago, durante la manipolazione del sangue, da batteri provenienti dal sangue del donatore, per esempio immediatamente dopo estrazione dentaria o durante il processo di fabbricazione delle sacche di plastica. La prevenzione consiste nell’assoluta sterilità in tutte le fasi di raccolta e manipolazione del sangue, nel mantenere i GRC strettamente a 4 °C fino dal momento dell’infusione e nella corretta modalità di somministrazione: per esempio, è del tutto errata e arbitraria la pratica di
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lasciare le sacche di GRC a temperatura ambiente prima della somministrazione. Una sepsi trasfusionale è sospettata dai noti sintomi: brividi, rapido innalzamento della temperatura, ipotensione, shock. La trasfusione va subito sospesa e un prelievo di sangue del paziente inviato per indagini microbiologiche. La trasmissione della malaria tramite trasfusione in zone non endemiche è un evento molto raro ed è facilmente evitabile se ci si attiene alle norme della sospensione del donatore (si veda sopra). D. Emosiderosi. Una sacca di GRC contiene 200250 mg di ferro legato all’Hb, che una volta infuso non viene più eliminato, a meno che il soggetto vada in bilancio negativo di ferro, e si deposita in tessuti e organi vitali, in particolare fegato, pancreas, cuore e sistema endocrino. Un paziente adulto cronicamente trasfuso che riceve in media 4 trasfusioni mensili di GRC, riceve 10-12 g di ferro all’anno, che sono sufficienti, dopo pochi anni, a provocare i noti sintomi dell’emocromatosi: diabete, cirrosi epatica, insufficienza cardiaca. Non esiste nessun’altra prevenzione che la somministrazione regolare di desferoxamina (desferal): 2-3 g im alla settimana integrato con una dose simile da somministrare lentamente ev il giorno della trasfusione.
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C A P I T O L O
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54
TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE L. CAMBA, F. CICERI, F. MORABITO
GENERALITÀ Il trapianto di cellule staminali emopoietiche (CSE) consiste nella somministrazione di cellule capaci di rigenerare gli elementi ematici maturi. Le cellule staminali emopoietiche si trovano prevalentemente nel midollo osseo (MO) che, fino a qualche anno fa, era la sorgente di cellule staminali più utilizzata. Una piccola quota di cellule staminali emopoietiche circola anche nel sangue periferico (SP) e, con procedure particolari, è possibile raccoglierle a scopi trapiantologici. Negli ultimi anni si sono ampliate le indicazioni del trapianto di cellule staminali emopoietiche (TCSE). Dopo le prime esperienze iniziate circa trent’anni fa per patologie rapidamente mortali quali leucemie acute, anemia aplastica e immunodeficienze congenite, l’uso del trapianto di cellule staminali emopoietiche si è esteso a un gran numero di patologie, neoplastiche e non, nel campo dell’ematologia, dell’oncologia, delle malattie metaboliche e dell’immunologia (Tab. 54.1). Il trapianto di cellule staminali emopoietiche ha la triplice funzione di sostiTabella 54.1 - Patologie trattate con trapianto di cellule staminali emopoietiche. NEOPLASTICHE
NON NEOPLASTICHE
• Ematologiche • Insufficienze midollari – Leucemia mieloide acuta – Anemia aplastica – Leucemia linfoide acuta – Anemia di Fanconi – Leucemia mieloide cronica – Talassemia – Mielodisplasie – Anemia falciforme – Leucemia linfoide cronica – Disordini congeniti dei – Linfomi non Hodgkin granulociti – Linfoma di Hodgkin – Disordini congeniti – Mieloma multiplo delle piastrine • Malattie metaboliche da accumulo • Tumori solidi • Osteopetrosi – Mammella, polmone • Malattie autoimmuni – Testicolo, ovaio • Immunodeficienze
tuire cellule staminali emopoietiche patologiche con cellule sane, ripopolare il midollo osseo colpito da dosi sovramassimali di radio-chemioterapia che causerebbero una aplasia midollare irreversibile o così prolungata da mettere a rischio la vita del paziente e infine, nel caso dell’allotrapianto, un’azione antineoplastica esercitata dal sistema immunitario del donatore: GVL (Graft Versus Leukaemia) o GVT (Graft Versus Tumour). In base all’origine delle cellule trapiantate distinguiamo diversi tipi di trapianto: trapianto autologo o autotrapianto, se le cellule staminali emopoietiche vengono prelevate dal paziente, che è allo stesso tempo donatore e ricevente; trapianto allogenico o allotrapianto, se il donatore è una persona sana diversa dal ricevente. Inoltre una fonte alternativa di cellule staminali emopoietiche è rappresentata dal cordone ombelicale. In genere l’autotrapianto è riservato a quelle patologie che non infiltrano il midollo osseo, inclusi i tumori solidi, o in cui non è disponibile un donatore HLA compatibile. L’allotrapianto è preferibile in quelle patologie ematologiche ad alto rischio di recidiva, come leucemie e anemie aplastiche. Recentemente si è cominciato a utilizzare il trapianto allogenico per i tumori solidi per sfruttare l’effetto GVT, ovvero quei meccanismi di citotossicità antitumorale innescati dal sistema immunitario del donatore. Sebbene la maggior parte dei pazienti trattati con trapianto di cellule staminali emopoietiche siano affetti da malattie neoplastiche, anche malattie non neoplastiche possono trarne beneficio, in particolare le gravi emoglobinopatie, alcune malattie metaboliche o tesaurismosi e alcune malattie autoimmuni (Tab. 54.1).
CENNI DI TERAPIA AD ALTE DOSI La chemioterapia cosiddetta convenzionale prevede la somministrazione, in più cicli, di un farmaco (monochemioterapia) o più farmaci (polichemioterapia) antineoplastici. Non sempre la monochemioterapia garantisce un lungo periodo di remissione o di sopravvivenza priva
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
Tabella 54.2 - Rapporto tra dosaggi sovramassimali (A) e convenzionali (B). FARMACO
A:B
Ciclofosfamide 8 Etoposide 3-6 Cisplatino 3 Carboplatino 4-5 Melfalan 6 Tiotepa 8-10 Doxorubicina 3-4 BCNU 3 Busulfano 1-3
ELIMINAZIONE
TOSSICITÀ
Renale Renale Renale Renale Idrolisi plasmatica Epatica Epatica, biliare Idrolisi, fegato Epatica
Cardiaca Mucosite Renale, neuropatia Rene, ototossicità Mucosite, VOD Mucosite, SNC Cardiaca, mucosite Polmonare, VOD Polmonare, VOD
VOD = Veno-occlusive Disease; SNC = sistema nervoso centrale.
di malattia (Disease Free Survival, DFS). Nella maggior parte dei casi migliori risultati si ottengono con la polichemioterapia. Questa ha un effetto antineoplastico più efficace poiché ciascun farmaco è somministrato alla massima dose tollerata provocando una breve citopenia periferica e nessuna o scarsa patologia d’organo. Inoltre ha una maggiore efficacia nel colpire cloni neoplastici resistenti e nel ritardarne la crescita. In alcuni casi di neoplasie ematologiche e nei tumori solidi la farmacoresistenza può essere superata con l’aumento dell’intensità della dose (“dose escalation”), ma il fattore limitante è rappresentato da grave tossicità midollare e d’organo (Tab. 54.2). La prima viene attenuata grazie all’infusione delle cellule staminali emopoietiche autologhe o eterologhe, mentre la tossicità d’organo può essere contenuta non superando un dosaggio massimo che varia da farmaco a farmaco. Gravi insufficienze d’organo soprattutto cardiaca, respiratoria, epatica e renale, controindicano l’uso delle alte dosi. Queste vengono utilizzate in campo trapiantologico con un duplice scopo: • la raccolta di cellule staminali emopoietiche da sangue periferico; • la terapia mieloablativa di preparazione al trapianto, il cosiddetto condizionamento, che precede l’infusione di cellule staminali emopoietiche. La terapia di condizionamento ha lo scopo non solo di colpire le cellule neoplastiche residue e di liberare gli spazi midollari per le nuove cellule da infondere, ma anche di indurre uno stato di immunodeficienza per prevenire la GVHD (Graft Versus Host Disease) o reazione contro l’ospite.
RACCOLTA E MANIPOLAZIONE DELLE CELLULE STAMINALI Le cellule staminali emopoietiche CSE possono essere estratte dal midollo osseo o dal sangue periferico. Nel primo caso il paziente, sotto anestesia generale, viene sottoposto a punture multiple su ambedue le spine iliache posteriori, raramente su quelle anteriori, solo eccezionalmente dallo sterno. Il sangue midollare estratto, espianto,
ammonta a circa 1-1,5 l. La raccolta da sangue periferico viene preceduta da una terapia ad alte dosi (generalmente ciclofosfamide al dosaggio di 5-7 g/m2) associata al fattore di crescita G-CSF. L’aplasia che ne segue e l’azione del fattore di crescita mobilizzano un gran numero di cellule staminali emopoietiche e ne favoriscono il trasferimento dal midollo osseo al sangue periferico, che è massima dopo 7-10 giorni. La raccolta da sangue periferico avviene con la metodica della citoaferesi ovvero con l’uso di separatori cellulari analoghi a quelli utilizzati per la produzione di plasma o piastrine dalla donazione di sangue dopo aver inserito una catetere venoso centrale (CVC) in una vena di grosso calibro (generalmente in vena succlavia o femorale). Le cellule staminali emopoietiche vengono quantificate, sia in vivo prima della raccolta che nelle sacche di raccolta, con citometria a flusso che permette di individuare e contare le cellule CD34+. Il campione di midollo osseo o di sangue periferico subisce una riduzione di volume e un arricchimento in cellule nucleate tramite sedimentazione e centrifugazione. Questa può essere seguita da T-deplezione o selezione delle cellule CD34+ tramite tecniche basate sull’agglutinazione con anticorpi anti-T o anti-CD34. Tali procedure durano poche ore; al termine l’espianto midollare o periferico viene infuso attraverso un CVC. Nel trapianto autologo è necessario criopreservare le cellule staminali emopoietiche, che vengono raccolte prima del condizionamento, fino al momento dell’infusione. Al momento dell’uso le cellule vengono scongelate rapidamente a 37 °C al letto del paziente e infuse. Altri metodi di purging prevedono l’eliminazione delle cellule patologiche tramite agglutinazione con anticorpi verso marcatori superficiali della popolazione neoplastica o in vitro con farmaci citotossici che danneggiano le cellule neoplastiche ma non quelle normali. La riduzione di volume prevede anche l’eliminazione del plasma e dei globuli rossi, che possono generare reazioni trasfusionali immediate se donatore e ricevente hanno gruppi sanguigni diversi, e dei linfociti T, responsabili della GVHD e di eventuali cellule neoplastiche infiltranti il midollo osseo o circolanti nel sangue periferico. Le procedure atte a eliminare i linfociti T e le eventuali cellule neoplastiche costituiscono il cosiddetto “purging”.
PREPARAZIONE AL TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI A. Valutazione del donatore. Una volta scelto in base alla compatibilità HLA, il donatore deve rispondere agli stessi criteri stabiliti per i donatori di sangue, sia per i donatori familiari sia per quelli volontari. Inoltre una valutazione anestesiologica è necessaria per valutare la sua idoneità all’anestesia generale. In alcuni casi si è ricorsi all’anestesia spinale. Se la raccolta viene eseguita dal sangue periferico è opportuno accertarsi che vi sia un accesso venoso adeguato. Due o tre autodonazioni, depositate presso il centro trasfusionale, saranno trasfuse durante o alla fine della procedura di raccolta.
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54 - TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE
Tabella 54.3 - Performance status secondo Karnofsky e ECOG/WHO. SCALA DI KARNOFSKY Punteggio Definizione 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0
Asintomatico Scarsi sintomi, normale attività lavorativa Alcuni sintomi, modesto sforzo lavorativo Difficile attività lavorativa, ma indipendente Scarsa assistenza per le proprie necessità Notevole assistenza Continua assistenza a domicilio Richiede ospedalizzazione Ospedalizzazione e terapie continue Terminale Deceduto
ECOG/WHO Punteggio Definizione
macologicamente utilizzando farmaci immunosoppressori prima e dopo l’infusione delle cellule staminali emopoietiche. Lo schema più comune prevede l’uso combinato di metotressato, metilprednisolone e ciclosporina che deve essere continuata per circa 6 mesi dopo il trapianto.
0
Asintomatico
1
Sintomatico ma indipendente
2
Sintomatico; a letto meno del 50% del tempo
E. Accesso venoso. È indispensabile l’inserzione di un catetere venoso centrale. Si tratta di cateteri di materiale sintetico inerte (poliuretano o silicone), dotati di uno o più lumi per l’infusione. Viene inserito in anestesia locale, generalmente in una vena succlavia, e spinto fino alla vena cava superiore per rendere possibile l’infusione della grande varietà e quantità di sostanze da iniettare, come chemioterapia, idratazione, emocomponenti, cellule staminali, nutrizione parenterale, oltre che per i prelievi di sangue giornalieri.
3
Sintomatico; a letto più del 50% del tempo
TRAPIANTO ALLOGENICO
4
Confinato a letto
5
Deceduto
B. Valutazione del ricevente. Il performance status (Tab. 54.3) deve essere ≤ 2. Le indagini strumentali devono dimostrare la normalità della funzione cardiaca (frazione di eiezione > 50%), respiratoria (prove respiratorie > 50% dei valori teorici), renale (creatinina < 2,0 o clearance della creatinina > 50 ml/min), epatica (bilirubina e transaminasi < 2 × normale). Devono essere cercati e bonificati focolai infettivi, come granulomi, sinusiti, cistiti, ecc., che possono costituire pericolosi focolai infettivi durante il periodo di aplasia midollare. Lo stato psichico e il supporto familiare saranno attentamente valutati. Ai pazienti maschi verrà proposta la possibilità della preservazione del seme, in quanto la radio-chemioterapia di condizionamento può causare sterilità irreversibile. Infine un catetere venoso centrale verrà posizionato in una delle vene succlavie per la somministrazione della terapia farmacologica e trasfusionale e per i numerosi prelievi di sangue. C. Regimi terapeutici di condizionamento. Sono protocolli di radio-chemioterapia o polichemioterapia ad alte dosi che rendono il paziente aplastico e immunodepresso. È necessario utilizzare combinazioni di farmaci che comprendano sostanze sia mieloablative, come busufano, melfalan, citarabina, etoposide, adriamicina, sia immunosoppressive, come la ciclofosfamide o la TBI (Total Body Irradiation o irradiazione corporea totale), che sono anche mieloablativi. Nei tumori solidi verranno usati anche farmaci verso cui il tumore è sensibile, come per esempio il platino. Nel mieloma il farmaco di elezione è il melfalan. D. Prevenzione della GVHD acuta. Oltre che con la T-deplezione, la GVHD può essere prevenuta anche far-
A. Tipi di trapianto allogenico. Convenzionalmente il trapianto allogenico viene eseguito da: • gemello monocoriale; • fratello, sorella o familiare compatibile; • donatore volontario non familiare (MUD, Matched Unrelated Donor o VUD, Voluntary Unrelated Donor). Più recentemente si sono aggiunte altre fonti di trapianto: cordone ombelicale, donatore aploidentico, cellule staminali emopoietiche di sangue periferico, infusione di linfociti di donatore. Il trapianto tra gemelli identici equivale biologicamente a un autotrapianto, pertanto con una minima GVHD ma maggiore possibilità di recidive. Il MUD, data la maggiore disparità a livello degli antigeni di compatibilità minori non analizzabili in laboratorio, è associato a GVHD di grado più elevato, quindi a una maggiore morbilità e mortalità. Per questa ragione viene limitato a individui più giovani al di sotto dei 50-55 anni. Il trapianto di cordone è dotato di una maggiore concentrazione di cellule staminali emopoietiche rispetto al midollo osseo e al sangue periferico e un minor numero di linfociti T citotossici, che attenuano l’incidenza e l’intensità di GVHD anche nei casi con disparità di uno o due loci HLA. Il trapianto HLA-aploidentico è effettuato fra membri della stessa famiglia che condividono un aplotipo, ovvero il corredo di geni HLA presenti sullo stesso cromosoma. È naturale in questo tipo di trapianto aspettarsi alte percentuali di rigetto e di GVHD e una più elevata mortalità, dovute alla maggiore disparità tra ricevente e donatore. I linfociti di donatore infusi in un paziente già trapiantato ma in procinto di recidivare o in recidiva innescano una serie di fenomeni immunologici capaci di ripristinare lo stato di remissione completa della malattia, probabilmente grazie all’effetto antitumorale di alcuni cloni linfocitari non ancora definiti. L’infusione regolare a scadenze prestabilite, dopo il trapianto viene utilizzata come strategia preventiva per la recidiva nei trapianti allogenici T-depleti. Infine, le cellule staminali emopoietiche periferiche del donatore prelevate con le stesse modalità dell’autotrapianto, ma
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
PGM3
Loci Geni Classe Alleli Antigeni
CM
DP 2211
DQ 2211 Classe II
DR 543211
86
49 65
315
GLO1
HLA
C/TNF
B
C catena pesante Classe I
A
188
42 100
85
Classe III
Figura 54.1 - Regione HLA sul braccio corto del cromosoma 6. Geni, alleli e antigeni HLA. CM = centromero; PGM3 = fosfo-glucomutasi 3; GLO 1 = glicosilasi 1; C = complemento; TNF = Tumour Necrosis Factor. Per una trattazione più completa si veda il capitolo 68.
utilizzando solo i fattori di crescita, consentono di eseguire la procedura di raccolta in regime di day-hospital risparmiando al donatore l’anestesia generale e un ricovero ospedaliero di due giorni.
efficienza dei metodi molecolari, sia perché la ricerca sierologica si è arrestata dopo l’avvento di tali metodiche. Due esempi di identificazione del donatore compatibile sono illustrati in figura 54.2 e in tabella 54.4.
B. Istocompatibilità. Come è noto il trapianto di tessuti tra due individui geneticamente diversi (ovvero che non siano gemelli monocoriali) provoca una catena di reazioni immuni che terminano con il rigetto, a meno che non si provochi una grave immunodeficienza nel ricevente o ospite. Tali reazioni sono innescate dalla diversità, tra donatore e ricevente, di antigeni cellulari di superficie che nel loro insieme vengono chiamati antigeni di istocompatibilità. Tali antigeni sono ubiquitari e vengono codificati da una complesso di geni chiamato MHC (Major Histocompatibility Complex). Gli antigeni di istocompatibilità umani vengono anche denominati HLA (Human Leucocyte Antigens), così chiamati prima ancora che se ne scoprisse la loro natura ubiquitaria. Per una trattazione più dettagliata dei geni e degli antigeni HLA si veda il capitolo 68.
C. Immunologia del trapianto allogenico. Gli eventi immunologici più importanti sono rappresentati dal rigetto, la GVHD e la ricostituzione immunologica. I meccanismi immunologici della presentazione e del riconoscimento dell’antigene vengono trattati nel capitolo 68.
C. Tipizzazione HLA e ricerca del donatore compatibile. La tipizzazione HLA, ovvero degli antigeni di istocompatibilità, è essenziale per la ricerca del donatore compatibile e viene eseguita con diverse metodiche: test sierologici (sieri provenienti da donne pluripare immunizzate verso antigeni HLA durante le gravidanze), test di linfocitotossicità e test biomolecolari basati sull’amplificazione del DNA tramite PCR (Polymerase Chain Reaction). Con quest’ultima tecnologia è possibile assegnare a un Ag il suo specifico allele, ciò che non è possibile con le tecniche sierologiche. Infatti lo stesso raggruppamento aminoacidico che costituisce il determinante antigenico (epitopo) può essere espresso da più molecole HLA e reagire con lo stesso antisiero dando fenomeni di reattività crociata. Per esempio, la specificità chiamata all’inizio A19 (il 19° Ag del sistema HLA-A descritto in ordine cronologico) è stata trovata su altri antigeni successivamente definiti con altri antisieri (A29A33, A74). Tali specificità vengono dette splits, che indica che la specificità originaria non era specifica di un solo antigene ma era divisa (split) tra proteine HLA diverse. Come si vede dalla figura 54.1 il numero di alleli conosciuti è superiore al numero delle specificità antigeniche determinate sierologicamente, sia per la maggiore
Madre c d
Padre a b A1
A2
A3
A25
B8
B44
B7
B18
DR3
DR4
DR3
DR7
A1,2; B8,44; DR3,4
A3,25; B7,18; DR2,7
Figli a d
a c A1
A3
A1
A25
B8
B7
B8
B18
DR3
DR7
DR3
DR3 b c
b d
A2
A3
A2
A25
B44
B7
B44
B18
DR4
DR3
DR4
DR7
Figura 54.2 - Esempio di tipizzazione sierologica familiare.
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54 - TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE
Tabella 54.4 - Identificazione del donatore familiare compatibile. Paziente Fratello 1 Fratello 2
A2,25; B44,18; DR4,7 A2,25; B44,18; DR4,7 A2,25; B44,18; DR4,7
Culture linfocitarie positive con il fratello 1, negative con il fratello 2
Il fenotipo HLA dei genitori era il seguente: Padre A2; B44,18; DR4 Madre A25; B18; DR7 Il genotipo (omozigosi paterna per A2, DR4, e materna per tutti i loci): Padre a A2; B44; DR4 Madre c A25; B18; DR7 b A2; B18; DR4 d A25; B18; DR7 Dunque i genotipi HLA saranno i seguenti: Paziente a/d A2; B44; DR4/ A25; B18; DR7 Fratello 1 a/c A2; B44; DR4/ A25; B18; DR7 Fratello 2 a/d A2; B44; DR4/ A25; B18; DR7 N.B. La positività della reazione MLC (Mixed Lymphocyte Cultures) non è dovuta all’aplotipo ab paterno bensì agli aplotipi c e d materni che, pur apparentemente identici, derivano da individui diversi e possono presentare differenze nei loci DP e DQ che giustificano l’incompatibilità tra paziente e fratello 1, malgrado l’apparente identità. Il donatore sarà quindi il fratello 2.
1. Rigetto. A causare il rigetto è il sistema immunocompetente residuo del ricevente attivato contro le cellule emopoietiche del donatore; può manifestarsi come mancanza di attecchimento fin dall’inizio (“graft failure”) o come rigetto dopo che l’attecchimento è avvenuto. Nel primo caso lo stato di aplasia midollare causata dalla terapia di condizionamento diventa irreversibile; nel secondo uno stato di pancitopenia si sviluppa poche settimane dopo l’attecchimento, ovvero dopo una ripresa parziale dell’emopoiesi. Sebbene non siano del tutto chiari gli eventi che portano al rigetto, è verosimile che il mancato attecchimento sia dovuto a un meccanismo mediato dalle cellule NK e dalla precedente sensibilizzazione ad antigeni MHC estranei (per es., dopo ripetute trasfusioni), mentre il rigetto tardivo è da attribuire ai meccanismi di riconoscimento di antigeni estranei da parte dei linfociti T del donatore. Il rigetto è tanto meno probabile quanto più elevato è il grado di compatibilità ricevente/donatore e quanto maggiore è il grado di immunosoppressione farmacologica al momento del trapianto. Un’altra causa di perdita del trapianto è la GVHD. Tuttavia anche la profilassi antiGVHD predispone al rigetto, in quanto ottenuta con farmaci immunosoppressori o con deplezione linfocitaria. 2. GVHD (Graft Versus Host Disease) o malattia da reazione del trapianto contro l’ospite. È una reazione immunitaria mediata dai linfociti T e NK del donatore contro i tessuti e le cellule del ricevente (ospite), amplificata dalle citochine generate dai linfociti e dalle cellule accessorie: IL-2, interferon-, TNF. I fattori predisponenti alla GVHD in ordine decrescente di importanza sono: • il grado di disparità HLA tra donatore e ricevente; • scarsa profilassi immunosoppressiva e assenza di Tdeplezione; • stesso sesso donatore/ricevente; • età adulta; • regime di condizionamento meno intenso; • concomitante infezione da cytomegalovirus.
Tabella 54.5 - Effetto del grado di compatibilità sull’attecchimento e sulla GVHD (%). HLA DEL DONATORE Genotipicamente identico Fenotipicamente identico Diversi per un antigene Diversi per due-tre antigeni
RIGETTO
GVHD
<1 5 7-10 15-25
40 50 75 85
Sebbene tipicamente associata al trapianto allogenico, forme lievi di GVHD sono descritte anche in alcuni casi di trapianto singenico e autotrapianto (Tab. 54.5) associati a trattamento con immunomodulatori, come ciclosporina, interferone e IL-2, a dimostrare la natura immune del fenomeno. Clinicamente si distinguono una forma acuta, che esordisce entro i primi 100 giorni, e una forma cronica, dopo il 100° giorno dal trapianto. La forma cronica può far seguito alla GVHD acuta o esordire gradualmente pochi mesi dopo il trapianto. Gli organi e tessuti più colpiti sono la cute, gli intestini e il fegato soprattutto nella forma acuta. Nella forma cronica le lesioni si estendono a numerosi altri organi e tessuti dando quadri simili alle malattie autoimmuni, quali collagenopatie, sclerodermia, e una grave forma di immunodeficienza, con involuzione del sistema linfopoietico, linfopenia, iposplenismo, inversione del rapporto T4/T8, ipo-globulinemia. Durante la prima fase del trapianto, ovvero le prime settimane dopo l’infusione delle cellule staminali emopoietiche, altri fattori possono causare un quadro clinico e istopatologico simile a quello della GVHD acuta, in special modo la TBI, la terapia ad alte dosi del condizionamento e l’infezione da cytomegalovirus. Le lesioni istologiche della GVHD sono essenzialmente caratterizzate da infiltrazione linfocitaria, T e NK, apoptosi degli epiteli basali dell’intestino, della cute e dei dotti biliari, necrosi tissutale e sostituzione con materiale ialino nella forma acuta e fibroso nella GVHD cronica. Col passar del tempo è possibile ridurre gradualmente la terapia immunosoppressiva fino alla sospensione totale. Un quadro riassuntivo degli effetti della GVHD sono riportati in tabella 54.6. Tabella 54.6 - Manifestazioni acute e croniche della GVHD. ACUTA
CRONICA
Cute
Eritema
Eritema, scleroderma, contratture articolari
Intestino
Diarrea
Mucosite, esofagite Diarrea, malassorbimento, cachessia
Fegato
Epatopatia
Epatopatia cronica, insufficienza epatica
Manifestazioni autoimmuni
Sindrome di Sjögren Sclerodermia Citopenie periferiche Artropatie Versamenti pleurici e pericardici Bronchiolite obliterante, pneumopatia cronica
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MALATTIE DEL SANGUE E DEGLI ORGANI EMOLINFOPOIETICI
3. Ricostituzione immunitaria. All’attecchimento segue un periodo di immuno-incompetenza della durata di diversi mesi durante i quali il nuovo sistema immunologico del donatore ripercorre gran parte delle tappe dell’ontogenesi immunitaria. La ricostituzione immunitaria è perciò tanto più lenta quanto minore è la compatibilità ricevente/donatore, quanto più spinto è il grado di deplezione linfocitaria e quanto maggiore è l’inibizione secondaria a GVHD o farmacologica. Anche l’età è un fattore sfavorevole, verosimilmente a causa della fisiologica involuzione timica. La ripresa è più rapida se la raccolta delle cellule staminali emopoietiche viene eseguita con l’uso di fattori di crescita e senza deplezione linfocitaria. L’immunità cellulare, intesa come numero e funzione delle cellule T, riprende più rapidamente di quella umorale: 6-8 mesi contro ≥ 12 mesi per i linfociti B e la produzione di immunoglobuline. Durante questo periodo si ha costantemente un’inversione del rapporto CD4:CD8 e il paziente è a rischio di infezioni sia batteriche, sia fungine e virali. Le prime sono più frequenti durante i primi 30-40 giorni di neutropenia, le seconde (particolarmente frequenti quelle da Aspergillus e da cytomegalovirus) durante il periodo di rischio di GVHD acuta (giorni 40-100) e cronica (oltre il 100° giorno). 4. Effetto antileucemico del trapianto (GVL, Graft Versus Leukaemia Effect). Il fatto che i trapianti singenici e autologhi siano associati a una maggiore probabilità di recidiva di leucemia ha fatto pensare che il controllo della malattia non sia solo in relazione alla dose di radio-chemioterapia somministrata con il condizionamento. Una maggiore incidenza di recidive si ha con la deplezione linfocitaria e quanto minori sono le manifestazioni da GVHD: è logico quindi pensare che tra i linfociti che causano la GVHD esistano cloni cellulari capaci di eliminare le cellule leucemiche residue e resistenti. L’effetto antileucemico è tanto più evidente quanto più grave la GVHD e massimo se il paziente va incontro sia a GVHD acuta sia cronica. Tali osservazioni hanno stimolato l’uso di linfociti del donatore nel trattamento delle recidive e l’uso dell’allotrapianto in altre malattie tumorali, in particolare i tumori solidi. Non molto si conosce sul meccanismo dell’effetto GVL/GVT. È possibile che sia mediato da antigeni del sistema HLA minore condivisi con le cellule neoplastiche o specifici di queste ultime e riconosciuti da cellule T effettrici del donatore. Lo sforzo attuale è quello di separare e potenziare l’effetto GVL/GVT o con una deplezione linfocitaria selettiva o con l’identificazione degli eventuali antigeni minori responsabili.
AUTOTRAPIANTO Come già accennato, le fonti di cellule staminali emopoietiche autologhe sono rappresentate dal midollo osseo e dal sangue periferico. Negli ultimi anni la raccolta di cellule staminali emopoietiche periferiche ha sostituito nella maggior parte dei casi quella dal midollo osseo. I vantaggi della seconda procedura rispetto alla prima
sono l’eliminazione dei rischi legati all’anestesia generale, il maggior rendimento in cellule staminali emopoietiche, minori restrizioni riguardo all’età dei pazienti, che si può spingere fino ai 65-70 anni, e, non ultima, la minore mortalità e morbilità rispetto all’allotrapianto. Lo svantaggio principale è rappresentato dall’assenza dell’effetto antineoplastico presente nell’allotrapianto, cui si è già accennato. Nel caso di malattie a localizzazione midollare è possibile eseguire il purging o la selezione positiva delle cellule CD34+. Poiché la raccolta e il condizionamento avvengono in tempi diversi, è necessario congelare le cellule staminali emopoietiche e scongelarle al letto del malato al momento dell’infusione.
SCELTA DEL TIPO DI TRAPIANTO Questa dipende da tre fattori fondamentali: • il tipo di malattia; • la disponibilità di un donatore compatibile; • l’età e le condizioni cliniche del paziente. A. Tipo di malattia. Come già accennato, nelle malattie delle cellule staminali emopoietiche, quali la leucemia mieloide cronica, le leucemie acute e le sindromi mielodisplastiche, l’allotrapianto è la procedura di elezione, in quanto capace di sostituire cellule patologiche con cellule sane. La scelta è anche influenzata dalla gravità della malattia stessa e dai rischi connessi alla procedura trapiantologica: malattie con sopravvivenza media molto breve come quelle citate, che va da poche settimane, se non trattate, a pochi mesi, o comunque non guaribili con la sola chemioterapia, l’allotrapianto dà maggiori probabilità di eradicazione della malattia e di lunga sopravvivenza. Tuttavia tale procedura ha ancora una mortalità del 15-30% e una morbilità legata alla radiochemioterapia di condizionamento e alla GVHD, pertanto il trapianto può essere ingiustificato in condizioni più favorevoli come linfomi o tumori solidi, soprattutto se il midollo non è infiltrato da malattia e può essere utilizzato per un autotrapianto. Solo di recente si è cominciato a sfruttare l’effetto antineoplastico dell’allotrapianto anche in quei tumori solidi che sono stati trattati finora con autotrapianto, ma si tratta ancora di procedure sperimentali di cui non si conoscono i risultati a distanza. Tra le malattie non neoplastiche sono da segnalare le emoglobinopatie gravi e le malattie metaboliche da accumulo, dove, per intuibili ragioni, l’uso dell’autotrapianto è del tutto inappropriato. In queste condizioni il trapianto va eseguito precocemente, prima che si instaurino le alterazioni somatiche o le conseguenze della terapia (per es., trasfusionale nelle talassemie). B. Disponibilità del donatore. Purtroppo solo circa 1/3 dei pazienti affetti da malattie trapiantabili possiede un donatore familiare, in genere fratello o sorella, compatibili. Quando sussiste l’indicazione al trapianto ma non è disponibile un donatore familiare si può ricorrere al registro internazionale di donatori di midollo: la quota di pazienti che possono disporre di un donatore può
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54 - TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE
Tabella 54.7 - Scelta del trapianto di CSE nelle neoplasie ematologiche. MALATTIA LMA, LLA
TIPO DI TRAPIANTO
PERIODO OTTIMALE
Allogenico
CR2 per rischio standard CR1 per alto rischio MDS Allogenico Anemia refrattaria CML Allogenico Fase cronica, entro 12 mesi dalla diagnosi Mieloma multiplo Allogenico Dopo la prima chemioterapia* Linfoma ad alto grado Autologo Recidiva Linfoma di Hodgkin Autologo Dopo la prima recidiva LLC/linfoma a basso Controverso In recidiva grado CR1, CR2: 1a, 2a remissione completa. *Vedi testo.
salire così al 50%. Una modesta quota di pazienti adulti con peso corporeo intorno a 50 kg può usufruire di cellule staminali emopoietiche da cordone ombelicale. Negli altri casi si ricorrerà all’autotrapianto, con le note limitazioni. Allotrapianti da donatore parzialmente compatibile per la presenza di uno o più loci discordanti vengono eseguiti, ma sono accompagnati da una più alta quota di mortalità e di rigetto. Attualmente è ancora in studio il trapianto aploidentico tra fratelli o tra figli e genitori che posseggono necessariamente uno stesso aplotipo, ma la mortalità da trapianto è ancora molto elevata, intorno al 50-60%. C. Età e condizioni cliniche del paziente. La mortalità aumenta in proporzione ad alcuni parametri, quali precedenti chemioterapie, lo stato della malattia prima del trapianto, le condizioni cliniche del paziente e l’età. Mentre per l’autotrapianto un’età fino a 70 anni può essere ancora accettabile se il paziente ha un buon “performance status” (si veda Tab. 54.3), l’allotrapianto non può essere spinto oltre i 50-55 anni pur con un buon “performance status”, a causa di una mortalità inaccettabile e un più alto rischio di GVHD in pazienti più anziani. Nella tabella 54.7 sono riportate le indicazioni standard generalmente accettate per il trapianto nelle neoplasie ematologiche. Tuttavia, come accennato in questo paragrafo, è necessario tenere conto della disponibilità dei donatori compatibili e della necessità di ricorrere ad altri tipi di trapianto al di fuori di quello raccomandato quando i donatori non sono disponibili. Per esempio, sebbene l’allotrapianto è da considerare la prima scelta nel mieloma multiplo per le sue potenzialità curative, tuttavia l’età del paziente spesso non consente di ricorrere a questa procedura e impone il ricorso all’autotrapianto.
COMPLICANZE DEL TRAPIANTO La tossicità del trapianto di cellule staminali emopoietiche dipende dalla radio-chemioterapia di condi-
Tabella 54.8 - Complicanze tardive del trapianto. • Immunologiche – GVHD cronica – Malattie autoimmuni • Disfunzioni endocrine – Ipotiroidismo – Ritardo della crescita – Amenorrea – Infertilità • Manifestazioni polmonari – Polmonite interstiziale – Bronchiolite obliterante – Fibrosi polmonare • Alterazioni oculari – Cataratta – Congiuntiviti croniche – Sindrome sicca • Manifestazioni osteoarticolari – Artriti – Necrosi asettica dell’osso – Osteoporosi • Manifestazioni gastrointestinali – Mucositi – Malassorbimento – Cachessia – Epatopatia • Neoplasie secondarie – Leucemie acute – Linfomi – Tumori solidi • Complicanze infettive – Virali – Fungine
zionamento e dai fenomeni immunitari innescati dalla interazione di sistemi immunocompetenti del donatore e del ricevente. Tali episodi di tossicità possono essere immediati o ritardati se avvengono durante i primi 3040 giorni dal trapianto o dopo. A queste si aggiungono le complicanze infettive. Le complicanze precoci sono dovute principalmente all’aplasia midollare secondaria al condizionamento (infezioni, emorragie). A queste si aggiungono le lesioni causate dalla radio-chemioterapia e alla GVHD acuta, assimilabili ad una “capillary syndrome” da danno endoteliale, mediata da citochine, particolarmente IL-1 e TNF. In questa fase può essere arduo distinguere clinicamente e istologicamente un quadro da tossicità acuta da radioterapia da uno dovuto a GVHD acuta. Le complicanze tardive (Tab. 54.8) sono dovute all’effetto tardivo combinato della radiochemioterapia ad alte dosi e, nel caso dell’allotrapianto, dalla GVHD cronica e dalla terapia immunosoppressiva. Le complicanze infettive costituiscono le cause più importanti di morbilità e mortalità sia precoce, sia tardiva. A queste contribuiscono le infezioni del catetere venoso centrale e la rottura della barriera gastrointestinale conseguente alla mucosite iatrogena e, nel trapianto allogenico, il lungo periodo di immunosoppressione. La tabella 54.9 riassume le infezioni più frequenti nelle diverse fasi del trapianto.
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Tabella 54.9 - Infezioni durante le varie fasi del trapianto di CSE. FASE PRECOCE (0-30 gg)
FASE INTERMEDIA (30-60 gg)
FASE TARDIVA (> 100 gg)
Batteri Gram+ Infezioni batteriche Staphilococcus epiderm., Infezioni virali Staphilococcus aureus, Cytomegalovirus, Streptococcus viridans Adenovirus, Virus BK, Varicella zoster Batteri Gram– E. coli, Klebsiella, Infezioni fungine Pseudomonas Toxoplasma gondii Pneumocysti carinii Herpes simplex
Batteri capsulati Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae Varicella zoster Pneumocysti carinii Aspergillus
Infezioni fungine Candida, Aspergillus
TERAPIA GENICA Attualmente l’espressione corretta sarebbe inserzione o trasferimento genico (“gene transfer”), ovvero l’introduzione di un genoma (DNA o RNA) estraneo in una cellula e conseguente avvio di una funzione mancante (trasduzione). Quando cellule così modificate possono essere utilizzate per il trattamento di condizioni patologiche, congenite o acquisite, si parla di terapia genica. Una particolare forma di trasferimento genico è la marcatura genica (“gene marking”), ovvero l’introduzione di un gene allo scopo di identificare le cellule trasdotte dopo la loro infusione in un organismo. La manipolazione delle cellule riguarda, nell’uomo, le cellule somatiche e provoca modificazioni genotipiche e fenotipiche della cellula stessa e dei tessuti da esse generati. Per motivazioni di ordine etico e sociale la manipolazione si limita a queste cellule e non coinvolge le cellule germinali. In campo emato-oncologico le possibili applicazioni di questi principi sono le malattie congenite, le malattie neoplastiche e le immunodeficienze congenite e acquisite. Le tappe fondamentali per la terapia genica sono le seguenti:
• isolamento del gene normale; • introduzione del gene nelle cellule somatiche, normali o neoplastiche;
• integrazione del gene in modo da raggiungere una sua espressione stabile nella cellula; ricostituzione in vivo delle cellule così trasdotte. 1. Numerosi sono i geni di malattie congenite ematologiche e non isolati e clonati grazie alle tecniche molecolari di PCR. Tuttavia non di tutti i geni sono ancora noti i fini meccanismi di attivazione, di regolazione e di espressione, soprattutto per i geni complessi la cui regolazione dipende da fattori trans, al di fuori della sua struttura, o su altri cromosomi, come il caso del gene della globina. 2. Per l’inserzione è necessario disporre di veicoli, vettori, capaci di legare il gene (transgene) e trasferirlo all’interno della cellula. I vettori sono di due specie: virali e non virali. I primi sono rappresentati da retrovirus, adenovirus e virus adeno-associati (AAV, Adeno-associated Virus). I secondi sono rappresentati principalmente da particelle liposomiali. Trattandosi di virus patogeni, il genoma originario dei vettori virali deve essere modificato e reso incapace di replicarsi all’interno della cellula bersaglio danneggiandola. I geni strutturali vengono sostituiti dai geni da trasferire e lasciati intatti
Tabella 54.10 - Campi di applicazione della terapia genica. AREA DI APPLICAZIONE
MALATTIA
OBIETTIVI
Malattie congenite
Immunodeficienze, Livelli di attività tesaurismosi, enzimatica malattie del correttivi del difetto metabolismo metabolico Ematologia Emoglobinopatie, Indipendenza emofilie trasfusionale Trapianto di CSE GVHD Controllo della GVHD tramite l’inserzione di geni suicidi. Marcatura per lo studio delle CSE dopo trapianto Oncologia Tumori solidi, Modificazione delle leucemie, linfomi proprietà di crescita tumorale e della risposta immunitaria antitumorale Infettivologia Infezione da HIV Interferenza sulla replicazione virale e sulla risposta immunologica antivirale Neurologia Malattie Correzione del degenerative difetto enzimatico muscolari responsabile della evoluzione degenerativa
quelli che ne permettono l’integrazione e la trascrizione. Ne risulta un virus capace di integrare ed esprimere il proprio genoma in quello della cellula ospite, ma incapace di replicarsi e infettarla perché privato dell’informazione genetica necessaria. Un fattore limitante è costituito dalle ridotte dimensioni del gene da introdurre. 3. Per quanto riguarda l’espressione continua del gene trasdotto, gran parte degli esperimenti di marcatura genica eseguita in cellule staminali emopoietiche in vivo hanno mostrato un lento esaurimento dell’espressione del gene trasdotto. Ciò può dipendere da un meccanismo ancora sconosciuto di blocco dei meccanismi di trascrizione o dalla sostituzione delle cellule trasdotte con cellule non manipolate dovuta alla scarsa efficienza del sistema vettoriale. L’uso di lentivirus che possono attraversare direttamente la membrana nucleare e integrarsi prima della divisione cellulare può portare al 100% l’efficienza della trasduzione. In questo modo tutte le malattie potenzialmente curabili con trapianto di cellule staminali emopoietiche allogenico potrebbero essere trattate mediante correzione genetica delle cellule staminali emopoietiche autologhe e autotrapianto. Le applicazioni cliniche sono riassunte nella tabella 54.10. Protocolli terapeutici sono in corso per alcune malattie congenite, come la deficienza di adenosin-deaminasi (associata a una grave deficienza di linfociti T), la malattia di Gaucher, l’anemia di Fanconi, la sindrome di Hunter, la malattia granulomatosa cronica. Potenzialmente tale strategia terapeutica può essere impiegata per tutte le altre malattie congenite legate a difetti di un singolo gene, come le emofilie, le emoglobinopatie, le enzimopenie ed enzimopatie, i difetti della membrana eritrocitaria, ecc.
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54 - TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE
Tra le applicazioni in patologie acquisite, possibili obiettivi sono: • modificazione di meccanismi di crescita delle cellule tumorali; • introduzione di geni della resistenza farmacologica (MDR1, Multidrug Resistance-1) in cellule normali per renderle resistenti alla chemioterapia ad alte dosi; • inibizione di oncogeni; • attivazione di geni oncosoppressori; • incremento dell’immunogenicità tumorale mediante inserzione di geni che codificano antigeni tumorali specifici di
1095 membrana (TSA, Tumour Specific Antigens), identificati dai linfociti citotossici infiltranti il tumore o di geni che inducono le cellule tumorali a produrre citochine che amplifichino la risposta immunitaria antitumorale, come IL-2, TNF e interferon-γ. Un’applicazione pratica in campo trapiantologico è stata la prevenzione della GVHD nell’infusione di linfociti di donatore. La trasduzione retrovirale dei linfociti T del donatore con il gene della timidina-chinasi (gene suicida) sensibile a un farmaco (ganciclovir) ha permesso il controllo della GVHD: la somministrazione di questo farmaco all’esordio della GVHD ne abortisce l’evoluzione.
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PARTE NONA
MALATTIE ENDOCRINE a cura di L. CANTALAMESSA
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ELENCO DELLE SIGLE CONTENUTE NEL TESTO Ach ACTH ADH cAMP ANP APUD
AVP CAH CLIP
CRH CT DHEA DHEA-S DHT DIT DOC E2 E3 FSH FT3 FT4 GABA GH GHRH
GnRH HCG HMG 5-HT ICSH IGF-1, 2 IGF BP-3 LH
Acetilcolina Ormone adrenocorticotropo Ormone antidiuretico Adenosin-monofosfato ciclico Peptide natriuretico atriale (Amine Precursor Uptake and Decarboxilation System) Sistema di cellule capaci di concentrare e decarbossilare i precursori delle amine biogene Arginin-vasopressina (Congenital Adrenal Hyperplasia) Iperplasia surrenale congenita (Corticotropin Like Intermediate Lobe Peptide) Peptide corticotropino-simile del lobo intermedio (Corticotropin Releasing Hormone) Ormone di liberazione della corticotropina Calcitonina Deidroepiandrosterone Deidroepiandrosterone solfato Diidrotestosterone Diiodotirosina Desossicorticosterone Estradiolo Estrone Ormone follicolostimolante Triiodotironina libera Tiroxina libera Acido -aminobutirrico (Growth Hormone) Ormone somatotropo o ormone della crescita (Growth Hormone Releasing Hormone) Ormone di liberazione dell’ormone somatotropo (Gonadotropin Releasing Hormone) Ormone di liberazione delle gonadotropine (Human Chorionic Gonadotropin) Gonadotropina corionica umana (Human Menopausal Gonadotropin) Gonadotropina umana della menopausa 5-Idrossitriptamina – Serotonina (Interstitial Cells Stimulating Hormone) Ormone stimolante le cellule interstiziali (Insulin-like Growth Factor) Fattore di accrescimento insulino-simile I e II (IGF binding protein-3) Proteina 3 legante l’IGF Ormone luteinizzante
-LPH MAP MEN I, II e III MIT e MSH NEFA PGE POMC PRL PRF PTH PTHrP REM
RIA SHBG SIADH SM-C SNC SS T T3 T4 TBG TG TGSI
TPO TRH TSH TSI VIP WDHA
17 KS 17 OHP 17 OHS
-lipotropina Medrossiprogesterone acetato Neoplasie endocrine multiple I, II e III Monoiodotirosina Ormone melanocitostimolante e (Non Esterified Fatty Acids) Acidi grassi non esterificati Prostaglandina E Proopiomelanocortina Prolattina (PRL Releasing Factor) Fattore di liberazione della PRL Paratormone Proteina correlata al PTH (Rapid Eye Movement) Fase REM dell’elettroencefalogramma registrato durante il sonno Dosaggio radioimmunologico (Sex Hormone Binding Globulin) Globulina veicolante gli ormoni gonadici (Syndrome of Inappropriate ADH secretion) Sindrome da inappropriata secrezione di ADH Somatomedina C Sistema nervoso centrale Somatostatina Testosterone Triiodotironina Tetraiodotironina o tiroxina (Thyroxine Binding Globulin) Globulina veicolante la tiroxina Tireoglobulina (Thyroid Growth Stimulating Immunoglobulin) Immunoglobulina stimolante l’accrescimento tiroideo (Thyroid Peroxidase) Perossidasi tiroidea (Thyrotropin Releasing Hormone) Ormone stimolante la liberazione di TSH Ormone tireotropo Immunoglobulina tireostimolante Peptide intestinale vasoattivo (Watery Diarrhea Hypokalemia Achilia Syndrome) Sindrome da diarrea acquosa, ipokaliemia e achilia 17-ketosteroidi 17-idrossiprogesterone 17-idrossicorticosteroidi
C A P I T O L O
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55
REGOLAZIONE ED ORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA ENDOCRINO L. CANTALAMESSA, A. ORSATTI
Meccanismi di controllo della funzione endocrina L’attività secretoria delle ghiandole endocrine è costantemente controllata da un complesso di sistemi regolatori che provvedono ad adeguare i livelli ormonali, e quindi la loro disponibilità periferica, alle esigenze metaboliche delle cellule effettrici. Questa regolazione può avvenire grazie ad una serie di meccanismi di controregolazione (“feed-back negativo”) attraverso i quali la variabile sotto controllo (in genere i livelli circolanti di ormone o qualche attività funzionale ad essi correlata) regola la secrezione dell’ormone stesso. Per esempio, gli ormoni prodotti in risposta alla stimolazione ipofisaria dal corticosurrene (cortisolo), dalla tiroide (T3 e T4) e dalle gonadi (testosterone, estrogeni, progesterone) regolano la propria produzione, agendo, a livello ipotalamo-ipofisario, sulla liberazione delle rispettive tropine ipofisarie (ACTH, TSH e LH rispettivamente). Il meccanismo di controregolazione negativa opera in modo tale che la risposta (per es., il cortisolo) inibisce l’azione di controllo (per es., l’ACTH); pertanto l’aumento di cortisolo circolante inibisce la secrezione di ACTH e, viceversa, la diminuzione della cortisolemia induce un aumento di ACTH. Nella realtà i meccanismi di regolazione sono più complessi di quanto appaia nell’esempio sopra indicato; alla regolazione secretoria di ogni ormone concorre una serie di meccanismi di controllo. Evidenze cliniche e sperimentali dimostrano che gli ormoni delle ghiandole periferiche esercitano la loro azione di controregolazione non solo a livello dell’adenoipofisi, ma anche a livello ipotalamico e sovraipotalamico. In alcuni casi il meccanismo di controregolazione è positivo. Talora non è la concentrazione dell’ormone, ma una funzione regolata dall’ormone (per es., la concentrazione di Ca ionizzato circolante) a regolare la funzione di controllo (paratormone). La secrezione di ogni ghiandola endocrina è quindi integrata in un sistema o asse: asse CRH-ACTH-corti-
solo, asse TRH-TSH-ormoni tiroidei, ecc., in cui l’asse va inteso come un’unità funzionale e non come un sistema a cascata con una gerarchia funzionale ipotalamo → ipofisi → ghiandola bersaglio. Il SNC da un lato e le cellule effettrici dei tessuti periferici dall’altro possono essere considerati i terminali degli assi ipotalamo-dipendenti (Fig. 55.1). Il sistema nervoso centrale, in risposta a stimoli esterni (stress, stimoli visivi, ecc.) ed interni (variazioni metaboliche dell’osmolarità, ecc.), regola l’attività endocrina mediante neurotrasmettitori (monoamine centrali, GABA, ecc.) e neuromodulatori (neuropeptidi cerebrali) che agiscono a livello ipotalamo-ipofisario. A livello periferico alcune sostanze derivate dall’attività metabolica delle cellule intervengono nella regolazione ormonale direttamente o indirettamente, con una serie di meccanismi volti essenzialmente a mantenere costante la composizione del mezzo interno (omeostasi) di fronte a stimoli di varia natura che tendono a modificarla. In tal senso i rapporti tra SNC ed apparato endocrino possono essere considerati nell’ambito delle più complesse interazioni tra ambiente esterno ed interno:
Ambiente esterno (emozioni, stress, stimoli visivi, ecc.)
SNC
Apparato endocrino Omeostasi interna
Controllo nervoso della funzione endocrina A. Organizzazione funzionale e connessioni ipotalamo-ipofisarie. Il sistema ipotalamo-ipofisi rappresenta il fulcro delle connessioni tra SNC e ghiandole
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MALATTIE ENDOCRINE
Stimoli esterni
Corteccia Sistema limbico
Stimoli interni
Stimoli nervosi
Ritmi biologici IPOTALAMO
Ormoni ipofisiotropi TRH GnRH
CRH GHRH
Somatostatina Dopamina
GH IPOFISI
PRL
Ormoni trofici
ACTH
TSH T4 T3
Cortisolo
Fegato
Somatomedina C
SURRENE Cortisolo ed altri ormoni surrenali
TIROIDE T3 T4
LH FSH Testost. Estrogeni Inibina
TESTICOLO Testosterone
Tessuti periferici
OVAIO Estrogeni Progesterone
Metaboliti tissutali (per es., glucosio)
Figura 55.1 - Organizzazione del sistema neuroendocrino. L’attività del sistema è regolata da meccanismi di controregolazione tra i vari componenti del sistema: SNC-ipotalamo-adenoipofisi-ghiandole bersaglio-cellule effettrici. In condizioni fisiologiche l’attività secretoria delle singole ghiandole endocrine è espressione di un equilibrio tra effetti stimolanti (linee continue) ed effetti inibenti (linee tratteggiate).
endocrine e può essere considerato il principale e più complesso sistema di regolazione dell’omeostasi nei primati. Nell’ipotalamo vengono in contatto cellule monoaminergiche e cellule peptidergiche. Le prime sono cellule nervose che secernono neurotrasmettitori (noradrenalina, dopamina, serotonina, ecc.) che agiscono localmente, analogamente a quanto avviene nelle altre aree del sistema nervoso. I neuroni peptidergici sono invece dei
veri trasduttori tra sistema nervoso e sistema endocrino, in quanto sono eccitabili dai neurotrasmettitori come le cellule nervose, ma in risposta allo stimolo producono dei peptidi biologicamente attivi, che vengono secreti nel circolo portale ipotalamo-ipofisario. Questi peptidi sono gli ormoni ipotalamici-ipofisiotropi (TRH, somatostatina, GnRH, ecc.), che attraverso il circolo portale raggiungono l’adenoipofisi e si fissano a recettori specifici delle cellule secernenti (cellule
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55 - REGOLAZIONE ED ORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA ENDOCRINO
Tabella 55.1 - Ormoni ipotalamici ipofisiotropi. ORMONI IPOFISARI • Releasing Hormone (RH) o Factor (RF) ipotalamici (1) – Thyreotropin Releasing Hormone (TRH) → – Gonadotropin Releasing Hormone (GnRH) → – Corticotropin Releasing Hormone (CRH) → – Growth Hormone Releasing Hormone → (GHRH) • Inhibiting Hormone (IH) o Factor (IF) – Somatostatina – Dopamina
TSH LH-FSH ACTH GH
→ GH → PRL
(1) La denominazione “hormone” dovrebbe essere riservata agli ormoni ipotalamici di cui è stata identificata la struttura chimica, mentre dovrebbero essere denominati “factors” quelli di cui non è nota la struttura chimica. Nella pratica i due termini sono intercambiabili.
tireotrope, gonadotrope, somatotrope, ecc.). Alcuni ormoni ipotalamici stimolano (“releasing hormone” o “releasing factor”) ed altri inibiscono (“inhibiting hormone” o “inhibiting factor”) la liberazione dei rispettivi ormoni dalle cellule dell’adenoipofisi (Tab. 55.1). Gli ormoni della neuroipofisi arginin-vasopressina (AVP) ed ossitocina sono invece prodotti nei neuroni dei nuclei sovraottico e paraventricolare dell’ipotalamo, raggiungono attraverso gli assoni delle stesse cellule la neuroipofisi dove vengono accumulati e quindi liberati direttamente nel circolo sistemico. Una serie di evidenze cliniche e sperimentali dimostra che la risposta degli ormoni ipofisari ai rispettivi fattori di stimolo e di inibizione ipotalamici non può essere considerata come un semplice fenomeno stimolorisposta, in quanto è modulata da altri neuropeptidi e può essere influenzata dallo stato endocrino generale. La regolazione del sistema nervoso sulla secrezione dell’ipotalamo si esplica attraverso l’azione di stimolo o di inibizione dei vari sistemi di neurotrasmissione (noradrenergico, dopaminergico, serotoninergico, ecc.). Mentre le singole cellule peptidergiche dell’ipotalamo sintetizzano un solo releasing hormone o inhibiting hormone e sono raggruppate in aree ben definite in base all’attività secretoria, ciascun neurotrasmettitore pro-
dotto dalle cellule monoaminergiche agisce su cellule ipotalamiche secernenti neurormoni diversi, per esempio il sistema dopaminergico inibisce la liberazione di prolattina, stimola quella del GH, ecc. Inoltre l’attività delle cellule ipotalamiche secernenti i vari ormoni ipofisiotropi è controllata da più sistemi di neurotrasmettitori (per es., l’asse CRH-ACTH-cortisolo è inibito dal sistema noradrenergico e stimolato da quello serotoninergico e dopaminergico, ecc.) (Tab. 55.2). B. Ritmi secretori. Oltre alla regolazione della secrezione basale o “tonica” dei vari assi, in rapporto alle esigenze metaboliche, l’integrità delle connessioni neuroendocrine è indispensabile al mantenimento dei ritmi secretori che caratterizzano l’attività dei maggiori sistemi endocrini: ritmo circadiano, dell’asse CRH-ACTHcortisolo; ritmo sonno-veglia del GH e della PRL, pulsatilità secretoria delle gonadotropine e, nella donna in età fertile, variazioni delle gonadotropine e degli ormoni ovarici durante le fasi del ciclo. Le ricerche sulla secrezione pulsatile (o ritmica) di vari sistemi ormonali ha evidenziato che quando la frequenza e l’ampiezza dei polsi (o dei picchi) secretori variano al di fuori di certi limiti la normale attività dell’asse cessa. Da questa osservazione emerge un concetto nuovo: in molti sistemi endocrini, il modello di secrezione ormonale è importante quanto la quantità assoluta di ormone prodotto (“production rate”), per l’esplicarsi della fisiologica attività del sistema. C. Risposta allo stress. L’integrità del SNC e delle connessioni neuroendocrine è anche indispensabile perché avvengano le variazioni ormonali – brusca liberazione di ACTH e conseguente aumento del cortisolo circolante, aumento di GH e PRL – che si associano allo stress. Proprio la risposta allo stress può essere considerata come uno dei fenomeni biologici più indicativi delle connessioni tra il sistema nervoso e il sistema endocrino. È noto che stimoli di natura differente, purché di sufficiente intensità (“stressor”), indotti sperimentalmente nell’animale, provocano una risposta simile, consistente in una serie di modificazioni cardiovascolari (ipertensione, tachicardia, ecc.), ormonali (brusca immissione in circolo di ACTH e cortisolo, aumento delle catecolamine, del GH, della PRL) e metaboliche, associate ad alcuni atteggiamenti comportamentali (fuga, difesa, rabbia, ecc.). Queste manifestazioni biologiche e
Tabella 55.2 - Principali effetti dei neurotrasmettitori sull’attività degli assi ipotalamo-ipofisari nell’uomo.
ASSE IPOTALAMO-IPOFISI GHRH – Somatostatina/GH Dopamina/PRL TRH/TSH CRH/ACTH GnRH/LH – FSH
NORADRENALINA ↑ → → ↑ ↑
↓ – → ↓ –
DOPAMINA
SEROTONINA
GABA
ACETILCOLINA
ENKEFALINA
↑ (1) ↓ ↓ ↓ ↓(↑)
↑ ↑ ↓ ↑ (– ↓)
↑ (↑↓) (↓) ↓ (↓↑)
↓ → – ↑ →
↑ ↑ (–) (↓) (↓)
↑ Stimola; ↓ inibisce; → nessun effetto; – azione non accertata; ( ) azione discussa. (1) Effetto inibitorio nell’acromegalia.
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MALATTIE ENDOCRINE
Stress Comportamento Tono dell’umore Apprendimento
paraventricolare, in contiguità con il sistema portale ipofisario, ma anche in varie aree del sistema limbico e del mesencefalo correlate con l’attività simpatica e con gli atteggiamenti comportamentali. Il CRH rappresenterebbe quindi il mediatore comune capace di attivare le risposte metaboliche, circolatorie, endocrine e comportamentali indotte dallo stress (Fig. 55.2).
CRH
D. Funzione neuroendocrina e fenomeni immunitari. Mentre il sistema endocrino è essenzialmente deputato a mantenere l’omeostasi interna, il sistema immunitario è volto ad adattare la risposta dell’organismo ad agenti esterni quali batteri, virus, proteine. Da quando si è evidenziato che alcuni neuropeptidi, ormoni proteici e recettori ormonali vengono espressi in comune da cellule immunocompetenti, da cellule endocrine e anche da cellule del sistema nervoso, una serie di studi ha cercato di chiarire le interazioni tra sistema nervoso centrale, sistema endocrino e risposta immunitaria.
Adenoipofisi
ACTH
-ENDORFINA
Noradrenalina Adrenalina Modificazioni metaboliche e cardiovascolari
Cortisolo Modificazioni comportamentali Adattamento allo stress
Figura 55.2 - Modificazioni biologiche e comportamentali indotte dallo stress. Nello schema viene evidenziato il ruolo centrale del CRH, che esplica la sua azione non solo a livello dell’adenoipofisi, ma anche a livello del sistema nervoso centrale e del sistema simpatico, influenzando non solo le modificazioni biologiche, ma anche gli atteggiamenti comportamentali.
comportamentali, osservabili anche nell’uomo in seguito a stimoli stressanti, sono state descritte da Selye, che le ha definite nel loro insieme “sindrome generale di adattamento”, in quanto integrate tra loro tendono a porre l’animale nelle condizioni più adatte a neutralizzare gli effetti, potenzialmente nocivi, dell’evento stressante. Ebbene, ricerche sperimentali hanno dimostrato che l’iniezione di releasing hormone della corticotropina (CRH) nel terzo ventricolo non solo induce liberazione in circolo di ACTH e cortisolo, analoga a quella osservabile dopo iniezione di CRH in vena, ma anche liberazione di catecolamine, iperglicemia e modificazioni vasomotorie e comportamentali sovrapponibili a quelle osservate dopo stress. In accordo con queste osservazioni, neuroni secernenti CRH sono stati evidenziati non solo nell’ipotalamo, in corrispondenza del nucleo
1. Ormoni e peptidi prodotti da cellule del sistema immunitario. In risposta a molecole “non self ” o ad altri stimoli adeguati, le cellule immunocompetenti producono – oltre alle immunoglobuline anticorpali – una vasta serie di peptidi che include le citochine (linfochine e monochine) e alcuni ormoni e peptidi classicamente associati con l’attività endocrina (Tab. 55.3). È interessante notare che gli ormoni ipofisari secreti dai linfociti sono regolati dagli stessi fattori che regolano l’attività delle cellule ipofisarie; per esempio, la produzione di ACTH da parte dei linfociti è soppressa dai glucocorticoidi e stimolata dal CRH, quella del GH è stimolata dal GHRH e soppressa dalla somatostatina. Benché la produzione ormonale da parte dei linfociti sia confermata da molteplici ricerche, il suo significato biologico è ancora oggetto di studio. 2. Effetti endocrini delle citochine. Le citochine, oltre a regolare la differenziazione, la proliferazione e la funTabella 55.3 - Peptidi neuroendocrini prodotti dalle cellule del sistema immunitario. ORMONI ACTH
CELLULE O TESSUTO
CARATTERISTICHE
Linfociti e macrofagi Stimolato dal CRH, inibito dai glucocorticoidi GH Linfociti Stimolato dal GHRH, inibito dalla somatostatina TSH linfociti T Stimolato dal TRH, inibito da T3/T4 PRL Linfociti Somatostatina Linfociti e macrofagi Mastociti hCG linfociti T AVP Linfociti timici Ossitocina Linfociti timici Neurofisina Linfociti timici
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55 - REGOLAZIONE ED ORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA ENDOCRINO
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zione di altre cellule immunocompetenti, esercitano rilevanti azioni su altri tessuti e sistemi dell’organismo, quali: induzione della febbre, modificazioni del metabolismo proteico e lipidico dei muscoli, e modulazione della funzione neuroendocrina. Iniezioni di IL-1 e IL-2 attivano gli assi ipofisi-surrene e la liberazione di prolattina e GH nell’uomo. L’interleuchina-1 stimola direttamente la liberazione di CRH a livello ipotalamico. Una serie numerosissima, e talora contraddittoria, di ricerche riguardanti gli effetti delle singole citochine sulle varie funzioni endocrine rende problematico sintetizzare i dati esistenti (Tab. 55.4). Il punto più interessante di questi sembra comunque, rappresentato dal fatto che, durante il processo flogistico, le citochine oltre ad essere liberate localmente vengono immesse in circolo e possono influenzare la funzione neuroendocrina agendo sull’encefalo e/o sull’ipotalamo e/o direttamente sull’ipofisi. Anche alcune cellule endocrine sintetizzano citochine che hanno probabilmente un ruolo di regolazione locale dell’attività secretoria, attraverso un meccanismo paracrino.
coidi che non sono lontani come ordine di grandezza da quelli indotti dallo stress. È stato sostenuto che la risposta dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene allo stress serva a modulare l’intensità della risposta immune e dei suoi componenti con azione infiammatoria, inclusi quelli che agiscono sul tono e sulla permeabilità vasale. Come è noto, la perdita della funzione corticosurrenale e l’assenza di risposta allo stress rendono questi soggetti estremamente vulnerabili ai processi infettivi acuti e in genere ai processi infiammatori (si veda il Cap. 58). Il fatto che i prodotti dell’infiammazione, come per esempio l’interleuchina-1, possano attivare l’asse ipotalamo-ipofisicorticosurrene ha portato ad ipotizzare l’esistenza di un meccanismo di controregolazione negativa che controlla l’intensità dei processi infiammatori. Poiché la risposta dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene è controllata dal sistema nervoso, si deve in questo caso parlare di un sistema di modulazione neuroimmunoendocrino. Gli effetti degli altri assi ipofisari sul sistema immunitario (Tab. 55.5) sono stati evidenziati con maggior difficoltà, principalmente in condizioni sperimentali, nell’animale o in vitro. È però probabile che possano avere un ruolo nella regolazione dell’attività del sistema immunitario. Per esempio, il fisiologico decremento della secrezione di GH nell’età più avanzata può essere responsabile del declino della funzione immunitaria. Un ruolo dell’attività dell’asse ipofisi-gonadi sulla modulazione della ri-
3. Regolazione neuroendocrina dei processi immunitari. Il sistema nervoso può influenzare la funzione immunitaria attraverso il sistema ipotalamo-ipofisi-ghiandole periferiche. L’asse ipotalamo-ipofisario di gran lunga più importante e più studiato in tal senso è quello ipotalamo-ipofisi-surrene, che, attraverso la produzione di glucocorticoidi, ha un potente effetto di inibizione sulla maggior parte delle componenti della risposta immune, incluse la proliferazione dei linfociti, la produzione di immunoglobuline, citochine e mediatori dell’infiammazione compresi i leucotrieni. Questi effetti inibitori rappresentano la base dell’azione antiflogistica dei glucocorticoidi usati nella pratica terapeutica. L’azione antinfiammatoria si esplica con valori circolanti di glucocortiTabella 55.4 - Principali effetti endocrini delle citochine. CITOCHINE IL-1
IL-2 e IL-6 TNF
IFN- e/o IFN-
EFFETTI Stimola la liberazione di CRH, ACTH ed endorfine Aumenta i livelli di glucocorticoidi Stimola la liberazione di GH e PRL (nell’uomo) Inibisce la liberazione di TSH (nel ratto) Inibisce la sintesi di TRH Stimola la liberazione di AVP Stimolano la liberazione di ACTH, glucocorticoidi, PRL e GH Inibisce la liberazione di GH Stimola la liberazione di ACTH e glucocorticoidi Inibisce la liberazione di TSH, T4 e T3 Inibisce la risposta della tiroide al TSH Stimola la liberazione della PRL Induce la steroidogenesi surrenale Aumenta la captazione di iodio dei tireociti
(Modificata da Reichlin S., Neuroendocrine-Immune Interaction. In: William’s Textbook of Endocrinology, W.B. Saunders, Philadelphia, 1998.)
Tabella 55.5 - Effetti immunoregolatori di alcuni ormoni. ORMONI
EFFETTI
Sopprime la sintesi di IFN- e di Ig Aumenta la proliferazione di linfociti B Sopprime l’attivazione IFN- mediata dei macrofagi Glucocorticoidi Inibiscono la sintesi e gli effetti delle linfochine Estrogeni Stimolano il numero e l’attività dei linfociti GH Aumenta la produzione di linfociti T PRL Stimola la secrezione di timulina Stimola la proliferazione di linfociti TSH Stimola la sintesi di Ig hCG Sopprime l’attività dei linfociti T citotossici e delle cellule NK Sopprime la proliferazione di linfociti T Stimola la produzione di linfociti T soppressori Somatostatina Sopprime la liberazione dai basofili di istamina e leucotriene D4 Sopprime la liberazione di cellule T -MSH Inibisce l’effetto pirogeno della IL-1 Sopprime la secrezione di IL-2 da parte dei monociti Sopprime la produzione di prostaglandine da parte dei fibroblasti Sopprime la migrazione dei neutrofili ACTH
(Modificata da Reichlin S., Neuroendocrine-Immune Interaction. In: Williams Textbook of Endocrinology, W.B. Saunders, Philadelphia, 1998.)
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MALATTIE ENDOCRINE
in particolare a variazioni della luminosità, secerne un ormone specifico, la melatonina. La melatonina o N-acetil-5-metossitriptamina è una sostanza indolica derivata dal triptofano. La presenza, nelle cellule pineali, di enzimi specifici permette la metabolizzazione della serotonina con sintesi di melatonina (Fig. 55.3). I livelli circolanti di melatonina presentano spiccate variazioni circadiane legate alla luminosità dell’ambiente, raggiungendo valori massimi durante il buio e minimi con la luce diurna. Il ruolo fisiologico della pineale varia notevolmente nelle diverse specie animali. La melatonina deve il suo nome alla capacità di stimolare, negli anfibi, la pigmentazione cutanea provocando l’aggregazione di granuli di melanina nelle cellule melanofore. Al contrario, nei mammiferi, la melatonina non ha alcuna influenza sulla pigmentazione. In alcune specie animali la melatonina influenza in senso prevalentemente inibitorio l’attività dell’apparato riproduttivo ed interviene nella regolazione stagionale dell’estro. Il ruolo della pineale nella specie umana rimane mal definito. La correlazione fra secrezione pineale ed attività gonadotropa si basa su evidenze indirette, in particolare sull’osservazione clinica di tumori della pineale associati a pubertà precoce. In base a questa osservazione si è ipotizzato che la distruzione della
sposta immunitaria è dimostrato dalla differenza dell’incidenza delle malattie autoimmuni nella donna, quali la malattia di Graves, la tiroidite di Hashimoto, l’artrite reumatoide, anche se il meccanismo attraverso cui gli estrogeni agiscono appare tuttora in gran parte non spiegato. E. Sviluppo puberale (si veda anche il Cap. 59). Sono infine strettamente connessi allo sviluppo del sistema nervoso i fenomeni che in età puberale portano allo sviluppo dell’apparato riproduttivo in ambedue i sessi. L’importanza della regolazione nervosa appare, in tal senso, particolarmente evidente nella donna: lo sviluppo puberale si associa infatti con lo sviluppo in corrispondenza dell’area preottica di un gruppo di cellule secernenti GnRH in modo ciclico (“centro ciclico”) e con l’attivazione del meccanismo di controregolazione positiva tra estrogeni prodotti dal follicolo ovarico e GnRH prodotto dal centro ciclico, che provoca il picco ovulatorio delle gonadotropine.
La pineale La pineale, o epifisi, è un organo neuroendocrino che, in risposta a stimoli provenienti dall’ambiente esterno,
Triptofano
5-idrossitriptofano
HO
Monoaminossidati (MAO) CH2CH2NH2
Acido 5-idrossindolacetico + aldeide-deidrogenasi
N H Serotonina (5-idrossitriptofano) N-acetiltransferasi + acetil-CoA
Acetilserotonina (N-acetil-5-idrossitriptamina)
S-adenosilmetionina
Idrossindolo-Ometiltransferasi (HIOMT) O
CH3O
CH2CH2NH-C-CH3 N H MELATONINA (N-acetil-5-metossitriptamina)
Figura 55.3 - Biosintesi della melatonina a partire dal triptofano. Le tappe metaboliche nel riquadro tratteggiato avvengono esclusivamente nelle cellule della pineale.
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55 - REGOLAZIONE ED ORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA ENDOCRINO
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ghiandola da parte del tumore e la brusca riduzione di melatonina rimuovano il fattore che inibisce tonicamente l’attività dell’asse GnRH-gonadotropine prima della pubertà. Tuttavia, altre osservazioni fanno ritenere che, indipendentemente dalla secrezione di melatonina, l’espansione del tumore provochi lesioni nervose con rimozione del controllo neurogeno che inibisce in età prepuberale l’attivazione dell’apparato riproduttivo. Acquisizioni recenti sembrano indicare l’esistenza di correlazioni tra secrezione della pineale e attività del sistema immune. L’inibizione funzionale o farmacologica della sintesi di melatonina, mediante esposizione permanente alla luce o somministrazione di -bloccanti nelle ore serali deprime nel ratto le risposte immunitarie, cellulari ed umorali. Al contrario, la somministrazione di melatonina secondo un modello che rispetti il ritmo circadiano potenzia la risposta immune. I tumori della pineale o pinealomi rappresentano circa l’1% dei tumori intracranici. Possono derivare da cellule parenchimali con vario grado di differenziazione (pinealocitomi, pinealoblastomi), da cellule della glia o da cellule germinali (germinomi). Questi ultimi sono altamente maligni e provocano ipertensione endocranica, idrocefalo, segni neurologici da compressione e metastasi.
I pinealomi si osservano quasi esclusivamente in soggetti giovani, di sesso maschile. Possono associarsi a pubertà precoce e ad altri disordini endocrini che interessano i vari assi ipotalamo-ipofisari. La compressione del tumore sulla regione ipotalamica può causare diabete insipido.
Esplorazione funzionale del sistema endocrino L’affinamento delle metodiche permette attualmente di dosare con grande precisione e sensibilità la concentrazione di quasi tutti gli ormoni noti, presenti nei liquidi biologici. Tuttavia, il dosaggio degli ormoni nel sangue in condizioni di base e/o la valutazione dell’eliminazione con le urine nelle 24 ore forniscono informazioni limitate che raramente permettono di porre una diagnosi definitiva. La causa è da ricercare, per taluni ormoni, nella fisiologica pulsatilità secretoria che si riflette in parallele spontanee variazioni dei livelli plasmatici (per es., cortisolo) e, per altri ormoni, nelle più precoci e spiccate variazioni degli ormoni di controllo (per es., TSH rispetto a T3 e T4 nell’ipotiroidismo primitivo).
SNC
Stimoli centrali (sforzo; ipoglicemia da insulina, ecc.)
Figura 55.4 - Nella colonna centrale è esposto uno schema semplificato del sistema neuroendocrino; nella colonna di sinistra vi sono gli agenti utilizzabili per saggiare la funzionalità dei vari elementi del sistema (gli agenti utilizzabili possono in realtà avere effetto di stimolo o di inibizione); nella colonna di destra sono elencati i mezzi impiegabili per valutare la responsività dei singoli elementi del sistema. Spesso, nella pratica, l’indagine clinica inizia con la misura della concentrazione degli ormoni delle ghiandole bersaglio in circolo e procede a ritroso saggiando la responsività dei vari elementi del sistema a stimoli appropriati.
Stimoli nervosi
Misure di neurotrasmettitori
Ipotalamo
Ormoni ipofisiotropi
Releasing o inhibiting factor
Adenoipofisi
Ormoni trofici
Ormoni trofici
Misure dei livelli circolanti
Ghiandole bersaglio
Ormoni ghiandolari Indagini utilizzate nella pratica clinica Indagini attualmente non utilizzabili nella pratica clinica
Misura dei releasing o inhibiting factor nel circolo portale
Cellule effettrici
Misure dei livelli in circolo; eliminazione con le urine
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MALATTIE ENDOCRINE
Elementi clinici di sospetto
Dosaggio concentrazione ormoni nel plasma in condizioni basali e/o eliminazione urine /24 h
Fase di orientamento
Sospetta ipofunzione
Sospetta iperfunzione
Test di inibizione
Test di stimolo
Diagnosi di iper o ipofunzione
Ulteriori test dinamici
Indagini strumentali (radiologiche, scintigrafiche, TC, ecc.)
Diagnosi di sede ed eziologia
Figura 55.5 - Schema di base dei protocolli diagnostici impiegati nello studio delle principali malattie endocrine.
Tuttavia, se le moderne tecniche di dosaggio ormonale vengono impiegate alla luce delle conoscenze sulla fisiopatologia dei vari assi o sistemi endocrini, è possibile diagnosticare le malattie endocrine con grande sicurezza e precisione. Come abbiamo detto sopra, l’organizzazione del sistema endocrino è tale che ogni ghiandola endocrina è inserita in un sistema e la secrezione di ogni ormone è controllata da vari meccanismi di regolazione. Ciò ha importanti implicazioni cliniche. 1. Il significato clinico della misura dei livelli circolanti degli ormoni delle ghiandole periferiche è in genere limitato se i valori osservati non vengono valutati tenendo conto dei fattori di regolazione (per es., in un paziente con sospetto ipogonadismo primitivo il rilievo di una concentrazione di testosterone circolante ai limiti inferiori della norma ha un valore diagnostico limitato, ma se a tale rilievo si associa un evidente aumento di LH, i dati di laboratorio forniscono un supporto decisivo alla diagnosi). 2. È necessario saggiare l’integrità del sistema in studio mediante agenti che stimolano o inibiscono i diversi componenti del sistema (Fig. 55.4).
Ciò può essere realizzato nella pratica con i test dinamici di stimolo o di inibizione, di cui diremo in dettaglio a proposito dell’esplorazione funzionale delle singole ghiandole. La conoscenza dei meccanismi che regolano in condizioni fisiologiche il sistema endocrino in esame e dei meccanismi patogenetici responsabili delle alterazioni che hanno portato il paziente all’osservazione rappresenta la premessa indispensabile per impostare un corretto programma di indagini diagnostiche. 3. La conoscenza dei ritmi secretori che caratterizzano i principali sistemi endocrini è egualmente utile per coglierne le alterazioni in alcune condizioni pato logiche (abolizione del ritmo circadiano della secrezione del cortisolo nella sindrome di Cushing, variazioni degli steroidi ovarici nelle varie fasi del ciclo). La diagnosi delle maggiori sindromi endocrine viene oggi eseguita mediante un programma diagnostico di tipo sequenziale in cui la misura della concentrazione basale degli ormoni circolanti rappresenta in alcuni casi solo la prima tappa. Sebbene i protocolli diagnostici differiscano molto nelle diverse condizioni morbose, sembra utile, per una miglior comprensione dei programmi diagnostici che verranno via via discussi, proporre uno schema generale (Fig. 55.5).
C A P I T O L O
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MALATTIE IPOTALAMO-IPOFISARIE L. CANTALAMESSA, M. BALDINI
CENNI DI FISIOPATOLOGIA Sistema ipotalamo-ipofisi Ipotalamo e ipofisi sono collegati anatomicamente e integrati funzionalmente in modo tale da formare un sistema che rappresenta il principale meccanismo di regolazione della secrezione endocrina nell’uomo. Anche da un punto di vista embriologico l’ipofisi è strettamente legata all’ipotalamo: la parte posteriore dell’ipofisi, o neuroipofisi, deriva infatti da un’estroflessione della parete ventrale del diencefalo primitivo e mantiene anche nell’adulto il suo carattere di struttura nervosa. L’adenoipofisi deriva invece dalla tasca di Rathke, che è un ripiegamento della cavità buccofaringea. Le connessioni tra ipotalamo e neuroipofisi sono di natura nervosa. Gli assoni delle cellule dei nuclei sovraottico e paraventricolare dell’ipotalamo formano il tratto ipotalamoipofisario e, attraverso il peduncolo ipofisario, raggiungono la neuroipofisi. Gli ormoni della neuroipofisi, vasopressina e ossitocina, sono prodotti nei corpi cellulari dei neuroni dei nuclei sovraottico e paraventricolare e sono trasportati, attraverso gli assoni delle stesse cellule, alla neuroipofisi, dove sono immagazzinati. Non esistono invece connessioni nervose tra ipotalamo e adenoipofisi, che sono collegati da un sistema vascolare di tipo sinusoidale: il sistema portale ipofisario. Gli ormoni ipotalamici di regolazione CRH, TRH, ecc., sintetizzati nell’ipotalamo, vengono trasportati, attraverso le fibre nervose del tratto infundibolo-ipofisario, sino all’eminenza mediana, dove vengono secreti nei capillari del sistema portale attraverso i quali raggiungono l’adenoipofisi. A livello dell’eminenza mediana non esiste la barriera ematoliquorale, i capillari sono fenestrati e la permeabilità è simile a quella degli altri distretti capillari dell’organismo. Questa particolarità anatomica dell’eminenza mediana è importante per spiegare come il si-
stema ipotalamo-ipofisario possa rapidamente rispondere a variazioni delle concentrazioni di ormoni circolanti e alla somministrazione di farmaci che non superano la barriera emato-liquorale. L’ipotalamo è collegato a molteplici strutture nervose come la corteccia cerebrale, il sistema limbico, il mesencefalo. In tal modo l’ipotalamo è in grado di provvedere ad un coordinato controllo della secrezione ipofisaria in rapporto ai livelli di ormoni periferici circolanti (meccanismi di feed-back negativi e positivi) e agli impulsi di origine viscerale e sensoriale che gli giungono attraverso le vie nervose (Fig. 56.1). A. Adenoipofisi. È formata da cordoni cellulari che si intrecciano e da una estesa rete di sinusoidi. L’endotelio dei sinusoidi è fenestrato. Le cellule contengono granuli di sostanze ormonali che vengono espulsi dalle cellule negli spazi perisinusoidali con un processo di exocitosi. Le cellule dell’adenoipofisi sono state inizialmente classificate in base a tecniche istochimiche in acidofile, basofile e cromofobe. Attualmente, mediante le tecniche immunoistochimiche e la microscopia elettronica, è possibile classificare le cellule in base alla loro attività secretoria (Tab. 56.1). B. Neuroipofisi. Non ha tessuto ghiandolare proprio ma è costituita da fibre nervose demielinizzate che originano nei nuclei sovraottico e paraventricolare. Nei corpi cellulari dei neuroni dei nuclei sovraottico e paraventricolare si formano dei granuli secretori che migrano attraverso gli assoni e si accumulano a livello della neuroipofisi, in cui sono visibili microscopicamente. I granuli sono formati dagli ormoni, vasopressina (ADH) e ossitocina, e da specifiche proteine vettrici, le neurofisine. I granuli secretori vengono liberati dalla neuroipofisi mediante un processo di exocitosi con immissione nei capillari degli ormoni legati alle rispettive neurofisine da cui si separano in circolo. I neuroni del nucleo sovraottico, i cui assoni formano il tratto sovraottico neuroipofisario, sintetizzano e secer-
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MALATTIE ENDOCRINE
Neuroni monoaminergici 3° ventricolo Neuroni tuberoinfundibolari peptidergici
IPOTALAMO
Nuclei sovraottico e paraventricolare
Arteria ipofisaria superiore Vene portali ipofisarie lunghe
Peduncolo
Vene portali ipofisarie brevi NEUROIPOFISI ADENOIPOFISI
Vena efferente
GH-prolattina-TSH ACTH-LH-FSH
ADH, ossitocina, neurofisine
Arteria ipofisaria inferiore
Figura 56.1 - Connessioni ipotalamo-ipofisarie. Le connessioni del sistema ipotalamo-neuroipofisi sono di tipo nervoso. Attraverso gli assoni dei nuclei sovraottico e paraventricolare, i granuli contenenti ADH, ossitocina e neurofisine vengono trasportati alla neuroipofisi e da qui secreti nel circolo sistemico. Le connessioni tra ipotalamo e adenoipofisi sono di natura vascolare. Gli ormoni ipofisiotropi prodotti nell’ipotalamo vengono secreti nei plessi capillari del sistema portale ipofisario e, attraverso le vene ipofisarie, raggiungono le cellule secernenti dell’adenoipofisi.
Tabella 56.1 - Cellule secernenti dell’adenoipofisi umana. TIPO CELLULARE Somatotrope Mammotrope Corticotrope Gonadotrope Tireotrope
ORMONE SECRETO Ormone della crescita, GH Prolattina ACTH e altri peptidi POMC derivati FSH-LH TSH
nono ADH la cui funzione principale è quella di conservare i liquidi corporei. Il nucleo sovraottico è collegato strettamente al centro della sete che regola l’introduzione di liquidi. I neuroni del nucleo paraventricolare sintetizzano ossitocina, un ormone che stimola la contrazione uterina e l’eiezione del latte dai dotti mammari. Una parte degli assoni dei neuroni del nucleo sovraottico termina nella eminenza mediana. Poiché la lesione di un assone provoca la degenerazione retrograda del neurone di origine, questa particolarità anatomica riveste notevole importanza pratica in quanto permette di comprendere come la resezione traumatica o chirurgica del peduncolo ipofisario o le lesioni endosellari dell’ipofisi non si associno di norma a diabete insipido.
Regolazione secretoria dei vari assi Asse GHRH – somatostatina → GH → somatomedina Il GH (Growth Hormone), o “ormone somatotropo” o “ormone della crescita” umano è un polipeptide di 191 aminoacidi sintetizzato e secreto dalle cellule somatotrope dell’ipofisi. È presente in circolo non legato a proteine vettrici; la concentrazione basale mattutina nel soggetto adulto normale è inferiore ai 5 ng/ml. A. Regolazione secretoria. La secrezione di GH è regolata da due ormoni ipotalamici: il GHRH (Growth Hormone Releasing Hormone), che ha azione di stimolo, e la somatostatina (SS), che ha azione inibente. Questi peptidi ipotalamici sono a loro volta strettamente regolati da un sistema integrato di fattori nervosi, metabolici e ormonali (Tab. 56.2). Il GHRH è un polipeptide recentemente isolato e identificato nella sua struttura chimica, dotato di una potente e specifica attività di stimolo sulla liberazione di GH. La somatostatina è un tetradecapeptide presente non solo nell’ipotalamo, ma anche in altre regioni del sistema nervoso centrale ed in tessuti extranervosi: cellule
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56 - MALATTIE IPOTALAMO-IPOFISARIE
Tabella 56.2 - Principali fattori di regolazione della secrezione di GH. STIMOLO
INIBIZIONE
Neurogeni Fase III e IV del sonno Stress (fisico e psichico) α-adrenergici β-bloccanti L-dopa
Sonno REM
Metabolici Ipoglicemia Diminuzione dei NEFA Iperaminoacidemia Uremia Digiuno prolungato o cronica malnutrizione Endocrini GHRH Estrogeni Glucagone Vasopressina Enkefaline
α-bloccanti β-agonisti Atropina e altri bloccanti colinergici Iperglicemia Aumento dei NEFA Obesità Somatostatina Corticosteroidi Medrossiprogesterone
D delle insule pancreatiche, cellule della mucosa gastrointestinale, cellule C della tiroide. Oltre ad inibire la liberazione di GH, basale e indotta da stimoli fisiologici e farmacologici, la somatostatina possiede azione inibente su molti altri ormoni: TSH, insulina, glucagone, gastrina ed altri ormoni gastrointestinali. Il controllo del SNC sulla secrezione di GH è mediato dai sistemi di neurotrasmissione centrale, principalmente - e -adrenergico, dopaminergico, serotoninergico e colinergico. Recentemente l’importanza della modulazione in senso positivo del sistema colinergico ha trovato supporto nell’osservazione che l’atropina e altri antagonisti colinergici sono in grado di bloccare la liberazione di GH indotta dal GHRH. La secrezione basale di GH avviene in modo intermittente, correlata con il ritmo sonno-veglia. Circa il 70% della produzione giornaliera di ormone viene immesso in circolo nelle prime ore del sonno (fase III e IV). Mentre i livelli basali di GH non differiscono significativamente in rapporto all’età, i picchi secretori notturni sono di entità assai maggiore nell’infanzia e tendono a diminuire con l’età. La liberazione acuta di GH è provocata da emozioni, stress fisici e chimici, esercizio fisico e traumi. È ben documentata una carenza della secrezione di GH con arresto della crescita in adolescenti che vivono in condizioni di grave carenza affettiva. I fattori metabolici che controllano la secrezione di GH sono rappresentati da tutti i substrati energetici. L’iperglicemia indotta acutamente con somministrazione di glucosio per os o endovena riduce, nei soggetti normali, i livelli basali di GH; al contrario l’ipoglicemia provoca liberazione in circolo di GH. L’effetto di stimolo è dovuto alla carenza intracellulare di glucosio, infatti la liberazione di GH può essere indotta anche somministrando 2-deossi-glucosio, un analogo del glucosio che non penetra nelle cellule. Un pasto proteico o la somministrazione in vena di aminoacidi (per es., arginina) provoca la liberazione di GH.
Elevate concentrazioni circolanti di acidi grassi riducono la risposta del GH ad alcuni stimoli, mentre la riduzione dei NEFA circolanti stimola la liberazione di GH. Nel digiuno prolungato la secrezione di GH è aumentata; probabilmente, in condizioni di carenza nutritiva, la secrezione di GH è stimolata per l’intervento di meccanismi che tentano di limitare la perdita di proteine aumentando la mobilizzazione dei lipidi (per utilizzare gli acidi grassi come fonte di energia). Molti neurotrasmettitori e neurofarmaci interferiscono con la secrezione di GH. Gli agenti dopaminergici, -adrenergici e serotoninergici stimolano la secrezione di GH nel soggetto normale. In particolare, gli agonisti dopaminergici, come la L-dopa, l’apomorfina, la bromocriptina, stimolano il release di GH, mentre gli antagonisti della dopamina, come le fenotiazine, inibiscono la secrezione di GH. Anche gli antagonisti -adrenergici, come la fentolamina, inibiscono la secrezione di GH, mentre i -bloccanti, come il propranololo, aumentano la risposta del GH a vari stimoli. Molti ormoni interferiscono con la secrezione di GH. La responsività del GH a vari stimoli è ridotta in condizioni di ipercortisolismo e di iper o di ipotiroidismo, ed aumentata dopo somministrazione di estrogeni. Oltre a questi meccanismi di regolazione “esterna” è stato recentemente evidenziato anche un meccanismo → somatomedine di controregolazione “interna”: GH ← (Fig. 56.2). Il GH stimola la produzione di somatomedine (somatomedina C o Insulin Growth Factor-1 o IGF-1 e somatomedina A o IGF-2) da parte del fegato. L’IGF-1 stimola la liberazione di somatostatina e inibisce il rilasciamento ipofisario di GH, basale e stimolato dal GHRH. L’IGF-1 inibisce la liberazione di GH sia con una azione diretta a livello delle cellule somatotrope, sia agendo a livello ipotalamico sulla produzione di GHRH e somatostatina. Lo stesso GH stimola la liberazione di somatostatina quando è presente in circolo in concentrazioni elevate, come, per esempio, quelle raggiunte durante le prove di stimolo. B. Funzioni fisiologiche e conseguenze dell’iperproduzione o della carenza di GH. Come indica il suo stesso nome, la principale funzione fisiologica del GH è quella di promuovere l’accrescimento lineare. Gli effetti metabolici dell’ormone sono alla base della sua azione sull’accrescimento. La maggior parte degli effetti del GH è mediata dalle somatomedine, una famiglia di polipeptidi prodotti dal fegato (somatomedina A e somatomedina C). La produzione di somatomedina C è strettamente GH-dipendente. Il GH, attraverso le somatomedine, stimola la sintesi proteica accelerando la trascrizione e la traslazione del mRNA. Inoltre, sotto l’effetto del GH, il catabolismo proteico tende a ridursi in quanto la mobilizzazione dei lipidi produce un’efficace fonte di energia. Il GH stimola, infatti, con un’azione diretta, la liberazione di acidi grassi dal tessuto adiposo. Il GH interferisce anche sul metabolismo dei carboidrati. In elevate concentrazioni inibisce l’utilizzazione dei carboidrati riducendo la captazione di
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MALATTIE ENDOCRINE
Sonno Esercizio fisico
Stress
DA NE
5-HT
Oppioidi
Ach
GHRH
zioni osteoscheletriche caratteristiche dell’acromegalia. La carenza di GH non ha riflessi metabolici clinicamente rilevanti, mentre l’eccesso di GH produce diabete in una quota dei pazienti acromegalici. Asse PIF/PRF → prolattina La prolattina (PRL) è un polipeptide di 198 aminoacidi sintetizzato e secreto dalle cellule lattotrope dell’adenoipofisi. I livelli circolanti sono soggetti a notevoli oscillazioni. Nella donna adulta la concentrazione di PRL non supera comunque i 25 ng/ml e nell’uomo i 15 ng/ml. A. Regolazione secretoria. Il controllo ipotalamico sulla secrezione di PRL è prevalentemente inibitorio. In tutte le condizioni sperimentali e cliniche in cui si realizza una deconnessione dell’ipofisi (sezione del peduncolo, trapianto in sede ectopica) si ha un aumento della secrezione di PRL (Fig. 56.3).
SS
Ipotalamo
STRESS
Ipofisi
GH Somatomedina C NE
5-HT
Fegato
Figura 56.2 - Regolazione dell’asse ipotalamo-GH-somatomedina. Il controllo ipotalamico della secrezione ipofisaria di GH si attua mediante l’azione di stimolo del GHRH e l’azione inibitoria della somatostatina (SS). La secrezione di GH è inoltre regolata da stimoli provenienti dal SNC, correlati allo stress, al sonno, ai livelli glicemici, che agiscono mediante neurotrasmettitori monoaminergici, acetilcolinergici e oppioidi. Anche il GH regola la propria secrezione con un meccanismo di controregolazione negativa ad ansa breve che si esplica direttamente a livello ipotalamico e con un’azione mediata dalla somatomedina C, che agisce a livello ipotalamico stimolando la secrezione di somatostatina e a livello ipofisario inibendo la secrezione di GH. NE = noradrenalina; 5-HT = serotonina; DA = dopamina; Ach = acetilcolina; GHRH = Growth Hormone Releasing Hormone; SS = somatostatina.
glucosio da parte delle cellule. Il GH antagonizza l’azione dell’insulina agendo a livello postrecettoriale. Questa azione provoca intolleranza al glucosio, i cui aumentati livelli circolanti stimolano la secrezione di insulina. La carenza di GH ha conseguenze clinicamente rilevanti solo nei soggetti giovani, nei quali il blocco dei processi di neoformazione ossea a livello delle cartilagini provoca arresto della crescita e nanismo. Al contrario, l’ipersecrezione patologica di GH produce nei soggetti giovani con cartilagini epifisarie aperte un esagerato accrescimento lineare (gigantismo) e nei soggetti adulti, con cartilagini epifisarie saldate, un accrescimento osseo sottoperiostale responsabile delle altera-
Neuroni monoaminergici Neuroni peptidergici
TIDA
PIF (dopamina)
PRF
E
PRL
Suzione del capezzolo Via spinale afferente
Figura 56.3 - Regolazione neuroendocrina della secrezione di prolattina (PRL). Il sistema dopaminergico tuberoinfundibolare (TIDA) può essere considerato la via finale comune dei vari meccanismi di controllo neuronale della secrezione di PRL. Gli estrogeni modulano la secrezione di PRL esercitando un’azione facilitante a livello ipofisario e, probabilmente, ipotalamico. Per ulteriori dettagli, si veda il testo. E = estrogeni; NE = noradrenalina; 5-HT = serotonina.
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56 - MALATTIE IPOTALAMO-IPOFISARIE
Varie evidenze sperimentali fanno ritenere che il Prolactin Inhibiting Factor (PIF) possa essere identificato con la dopamina. Tuttavia, recentemente, nel corso di studi sul GnRH è stato isolato dalla molecola del proormone del GnRH un frammento 56-carbossi-terminale o GAP (GnRH Associated Peptide) dotato di potente azione inibente la liberazione di PRL. Lo studio delle attività di questo peptide ha fatto prospettare la possibilità che il PIF (identificabile con il GAP) derivi da processi di scissione della molecola del proormone del GnRH a livello ipotalamico. Benché estratti ipotalamici dimostrino un’attività stimolante la PRL, non si è invece tuttora giunti a identificare il fisiologico Prolactin Releasing Factor (PRF). Poiché alcuni neurormoni come il TRH, il VIP (Vasoactive Intestinal Peptide), la -endorfina ed altri esercitano un’attività PRF-simile sulle cellule galattotrope, si è prospettata la possibilità che più fattori presenti nel circolo portale concorrano a stimolare la secrezione di PRL. Particolare interesse, anche sul piano clinico, riveste l’azione PRL-stimolante del TRH che è probabilmente il più potente di tali stimolatori. Il TRH stimola la liberazione di PRL a dosi soglia simili a quelle necessarie per indurre la liberazione di TSH. La risposta di TSH e PRL al TRH è ridotta nell’ipertiroidismo ed esagerata nell’ipotiroidismo primitivo. Tuttavia il TRH non può essere identificato con il releasing factor fisiologico della PRL: il persistere di un’attività stimolante la liberazione di PRL in estratti ipotalamici sicuramente privi di TRH e la mancata correlazione tra secrezione di TSH e PRL in situazioni, come l’allattamento, dove è evidente una ipersecrezione di PRL, depongono per l’esistenza di meccanismi di release della PRL diversi da quelli TRH-mediati. La PRL è secreta in modo episodico: durante il sonno si osservano picchi secretori di maggior entità, ma senza nessun rapporto con particolari fasi del sonno, come avviene per il GH, e neppure riconducibili ad un ritmo circadiano come quello dell’ACTH. La liberazione acuta in circolo di PRL può essere indotta da stress di varia natura: esercizio fisico, traumi, ipoglicemia. La stimolazione del capezzolo provoca iperprolattinemia anche al di fuori della gravidanza con un meccanismo riflesso di natura nervosa. Tra i neurotrasmettitori del SNC, il sistema dopaminergico tuberoinfundibolare ha particolare rilevanza nell’inibire la liberazione di PRL, tanto che i farmaci dopaminoagonisti (per es., bromocriptina) sono ampiamente impiegati nella terapia degli stati iperprolattinemici. Al contrario, gli antagonisti dopaminergici (per es., fenotiazine) inducono liberazione di PRL. Anche i farmaci serotoninoagonisti stimolano la secrezione di PRL. Tra gli ormoni, gli estrogeni aumentano la secrezione di PRL, mentre i glucocorticoidi e gli ormoni tiroidei tendono a ridurre la risposta delle cellule galattotrope ipofisarie ai vari stimoli.
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B. Funzioni fisiologiche della PRL e conseguenze della carenza e dell’ipersecrezione di PRL. L’unica funzione fisiologica sicuramente attribuibile alla PRL nella specie umana è quella di stimolare la lattazione durante il puerperio. In concentrazioni fisiologiche, la PRL non ha alcun ruolo dimostrabile nella regolazione dell’apparato riproduttivo umano, tuttavia la sua presenza in circolo in concentrazioni patologiche provoca ipogonadismo. La carenza di PRL, al di fuori dell’allattamento, non provoca alterazioni clinicamente rilevanti. Asse CRH → ACTH → cortisolo L’ACTH è un polipeptide di 39 aminoacidi con peso molecolare di circa 4500. I primi 23 aminoacidi della molecola formano la parte biologicamente attiva o “core” della molecola e sono gli stessi in tutte le specie animali. Gli aminoacidi 24-39 variano lievemente da specie a specie e conferiscono alla molecola le proprietà immunologiche. L’ACTH deriva da un precursore, la proopiomelanocortina (POMC), un polipeptide di 265 aminoacidi con peso molecolare di circa 29.500. La proopiomelanocortina è il precursore comune di una serie di peptidi ACTH-correlati che rivestono grande interesse biologico. Come appare nella figura 56.4, la POMC va incontro ad un processo di scissione con formazione di un frammento C-terminale, la -lipotropina (-LPH), un frammento intermedio che contiene l’ACTH e un frammento N-terminale la cui attività biologica non è ben definita. I successivi processi di scissione variano in rapporto alla sede e alle caratteristiche biologiche delle cellule corticotrope. La scissione dell’ACTH avviene solo nella pars intermedia con formazione di ormone -melanocito stimolante (-MSH) e di CLIP (Corticotropin-like Intermediate Lobe Peptide). Anche la molecola della -LPH è scissa con formazione di -endorfina (-EP), di altri peptidi endorfinocorrelati e di -MSH. La produzione di ormoni - e -melanocitostimolanti e del CLIP avviene nella pars intermedia dell’ipofisi nella maggior parte delle specie animali, ma non nell’uomo, in cui la pars intermedia va incontro ad un processo di regressione durante l’ontogenesi. A. Regolazione secretoria. La secrezione di ACTH è controllata dal sistema nervoso attraverso il Corticotropin Releasing Hormone (CRH), un polipeptide di 41 aminoacidi. Anche la vasopressina esercita una potente azione di stimolo sulla liberazione di ACTH. La secrezione di ACTH è pulsatile ed ha una ritmicità circadiana caratterizzata da un picco mattutino e da un progressivo declino durante la giornata. Le variazioni circadiane della secrezione di ACTH provocano una concordante ritmicità secretoria del cortisolo da parte della corteccia surrenale. La secrezione di ACTH è sensibilissima ai più vari tipi di stress: fisici, emotivi, chimici (ipoglicemia). Cosicché il dolore, l’esposizione al freddo, i traumi e molti altri stimoli sono in grado di stimolare acutamente la secrezione di ACTH e cortisolo. Numerosi neurotrasmettitori e neuromodulatori influenzano la secrezione di ACTH sia agendo direttamente a livello delle cellule corticotrope ipofisarie (do-
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MALATTIE ENDOCRINE
Genoma mRNA
POMC
Frammento N-terminale (1-131)
-MSH
ACTH (1-39)
-MSH
CLIP
-LPH (1-91)
-LPH
-endorfina
-MSH
Peptidi secreti dalle cellule corticotrope dell’adenoipofisi
N-POMC 1-76
ACTH
-LPH
-endorfina
Figura 56.4 - Processi di scissione che dalla molecola dalla proopiomelanocortina (POMC) portano alla formazione di peptidi biologicamente attivi nella pars distalis e nella pars intermedia dell’ipofisi, corrispondenti rispettivamente al lobo anteriore e a quello intermedio. Abbreviazioni nel testo.
pamina) sia regolando l’attività delle cellule ipotalamiche secernenti CRH. Nell’uomo, l’insieme delle osservazioni disponibili porta ad ammettere che acetilcolina e serotonina esercitano un effetto stimolante la liberazione di ACTH, tanto da indurre all’impiego di farmaci antiserotoninergici, come la ciproeptadina, nella terapia del morbo di Cushing. La dopamina e il GABA sembrano invece possedere un’influenza inibitoria sulla secrezione di ACTH. I livelli di cortisolo circolante esercitano un’azione di controregolazione negativa sulla secrezione di ACTH agendo sia a livello ipotalamico che ipofisario (Fig. 56.5). Questo meccanismo di controregolazione negativa è alla base del test di inibizione usato nella diagnosi della sindrome di Cushing. La dinamica secretoria di -LPH e di -endorfina è sovrapponibile a quella dell’ACTH: aumentano con lo stress, con l’ipoglicemia e quando si riduce la produzione di cortisolo (per es., da somministrazione di metopirone, Cap. 58), sono invece soppresse dalla somministrazione di glucocorticoidi. B. Funzioni fisiologiche dell’ACTH e conseguenze della carenza o dell’ipersecrezione di ACTH. La funzione primaria dell’ACTH è quella di stimolare la sintesi e la secrezione di cortisolo da parte del surrene: l’ACTH stimola anche la sintesi degli ormoni surrenali ad azione androgena e dell’aldosterone, ma nei riguardi di quest’ultimo l’azione di stimolo è modesta e transitoria.
Dopo ipofisectomia la sintesi dei glucocorticoidi e la loro secrezione diminuiscono nettamente; soprattutto in assenza di ACTH, il corticosurrene non è in grado di assicurare la produzione di un’adeguata quantità di cortisolo in risposta allo stress. L’ipersecrezione di ACTH provoca iperplasia surrenale ed iperproduzione di cortisolo ed è causa del morbo di Cushing (Cap. 58). Asse TRH → TSH → ormoni tiroidei La tireotropina (TSH) è una glicoproteina secreta dalle cellule tireotrope dell’ipofisi. Il TSH, al pari degli altri ormoni glicoproteici ipofisari FSH e LH e della gonadotropina corionica (HCG), è costituito da due subunità e . La subunità è simile a quella degli altri ormoni glicoproteici; la subunità conferisce all’ormone la sua attività biologica e costituisce il principale determinante della specificità immunologica. Regolazione secretoria e funzioni fisiologiche: si veda il capitolo 57. Asse GnRH → LH/FSH → ormoni gonadici L’ormone luteinizzante (LH) e quello follicolo-stimolante (FSH) sono glicoproteine secrete da un comune stipite cellulare dell’adenoipofisi. Come il TSH, sono composte da due subunità e ; la subunità conferisce a questi ormoni la loro attività biologica. I livelli circolanti di LH e FSH variano con l’età e il sesso; sono bassi prima della pubertà e aumentano in modo spiccato nella donna in età menopausale. Nelle
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56 - MALATTIE IPOTALAMO-IPOFISARIE
REGOLAZIONE CIRCADIANA STRESS
Ach
NE
5-HT Neuroni monoaminergici Neuroni peptidergici
ACTH CRH
IPOFISI
ACTH CORTISOLO
talamico, il GnRH, un decapeptide lineare che stimola la liberazione sia di LH che di FSH. Sia nell’uomo che nella donna, la secrezione di LH e FSH avviene in modo pulsatile con picchi secretori che si verificano circa ogni ora e che sono mediati da una concomitante pulsatilità secretoria del GnRH. La liberazione in modo pulsatile di GnRH è essenziale per mantenere la secrezione gonadotropinica. L’infusione prolungata e continua di GnRH provoca un iniziale aumento dei livelli di LH e FSH, seguito da una protratta e profonda depressione della secrezione gonadotropinica. Questo fenomeno, probabilmente dovuto ad un meccanismo di desensibilizzazione (“down regulation”) dei recettori ipofisari del GnRH, ha rilevanza clinica, in quanto il GnRH sintetico somministrato in forma pulsatile dimostra notevole efficacia nella terapia delle condizioni di ipogonadismo ipogonadotropo. I neuroni secernenti GnRH sono localizzati in due aree distinte dell’ipotalamo (Fig. 56.6). La prima è posta anteriormente al di sopra del chiasma ottico e presiede alla secrezione ciclica del GnRH. Questa area, denominata in passato centro ciclico, compare in epoca puberale solo in soggetti di sesso femminile. L’impianto di estrogeni in questa sede provoca liberazione di GnRH; questi neuroni sembrano quindi presiedere al meccanismo di controregolazione positivo. L’altra area di elettiva localizzazione dei neuroni di GnRH-secernenti è localizzata in corrispondenza del nucleo arcuato e controlla la secrezione tonica di GnRH; l’impianto di estrogeni a livello del centro tonico inibisce la secrezione di GnRH, per cui si ritiene
Area preottica
Figura 56.5 - Regolazione dell’asse CRH-ACTH-cortisolo. La secrezione di ACTH è stimolata dal CRH e inibita dal cortisolo, che agisce con un meccanismo di controregolazione negativa sia a livello ipofisario che ipotalamico. Anche l’ACTH svolge una funzione di controllo con un meccanismo di controregolazione negativa ad ansa breve sul CRH. La secrezione di CRH è regolata dal SNC attraverso le vie nervose monoaminergiche, colinergiche e GABAergiche. 5-HT = serotonina; NE = noradrenalina; Ach = acetilcolina; CRH = Corticotropin Releasing Hormone; AVP = vasopressina.
prime fasi della pubertà si ha dapprima la comparsa di un ritmo secretorio sonno-veglia di LH, con picchi secretori notturni. Successivamente, nella donna, compare la tipica ciclicità secretoria di LH e FSH (si veda la Fig. 59.9). Durante la prima fase del ciclo (fase follicolare) il LH aumenta progressivamente con un picco a metà ciclo che coincide con l’inizio dell’ovulazione. Il FSH aumenta nei primi giorni della fase follicolare, nei giorni successivi decresce sino al picco di metà ciclo che coincide con quello del LH. Dopo l’ovulazione i livelli di LH e FSH si riducono prontamente. Nell’uomo adulto i livelli di LH e FSH sono simili a quelli osservati nella donna durante la fase follicolare tardiva. A. Regolazione secretoria. La secrezione di LH e FSH è controllata da un singolo releasing hormone ipo-
Nucleo arcuato
GnRH
LH
FSH
Estrogeni
OVAIO
Figura 56.6 - Regolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio nella donna in età fertile. La secrezione di LH e FSH è stimolata da un unico releasing hormone (GnRH). Gli estrogeni regolano la secrezione gonadotropinica con un complesso meccanismo di controregolazione positivo a livello dell’area preottica e negativo a livello del nucleo arcuato. Per i dettagli, si veda il testo.
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MALATTIE ENDOCRINE
STIMOLI VISIVI
STIMOLI PSICHICI
STIMOLI OLFATTIVI
Neuroni monoaminergici Neuroni peptidergici
GnRH
Il meccanismo di controregolazione negativo, presente in ambedue i sessi, è ben evidente in varie condizioni fisiologiche e patologiche. Nelle donne in età menopausale l’atrofia ovarica si associa ad un netto aumento di LH e FSH che può essere soppresso con una terapia estrogenica a lungo termine. Analogamente, in soggetti di ambo i sessi castrati o con ipogonadismo primitivo, i ridotti livelli circolanti di ormoni gonadici si associano a spiccato aumento della concentrazione di LH e FSH in circolo. Nell’uomo il testosterone non è il solo inibitore della secrezione gonadotropinica; la selettiva distruzione del tessuto tubulare per processi patologici e per somministrazione di sostanze lesive (per es., ciclofosfamide) provoca infatti azoospermia e una isolata elevazione di FSH circolante. L’azione di controregolazione negativa sulla secrezione di FSH è esercitata dall’inibina, un polipeptide prodotto dalle cellule di Sertoli. Il meccanismo di controregolazione positivo è presente solo nei soggetti di sesso femminile e compare alla pubertà. Durante il ciclo mestruale il brusco aumento di estrogeni in periodo preovulatorio precede di alcune ore il picco ovulatorio di LH.
T
FSH
T LH
INIBINA
T Cellule di Sertoli Cellule di Leydig
Tubuli seminiferi
Figura 56.7 - Regolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-testicolo. La secrezione di LH e FSH è stimolata dal releasing hormone ipotalamico GnRH. Il LH stimola la produzione di testosterone da parte delle cellule interstiziali (di Leydig), mentre il FSH stimola l’accrescimento e la maturazione delle cellule seminali. A sua volta il testosterone inibisce la liberazione di LH agendo a livello ipotalamico e ipofisario, mentre l’inibina prodotta dalle cellule di Sertoli inibisce la secrezione di FSH. L’attività dei neuroni peptidergici producenti GnRH è regolata dal SNC attraverso i sistemi monoaminergici.
che essa rappresenti la sede anatomica del meccanismo di controregolazione negativo. Gli ormoni gonadici circolanti regolano la secrezione di GnRH e delle gonadotropine. I rapporti tra ormoni gonadici e sistema ipotalamo-ipofisario sono particolarmente complessi nella donna durante il periodo fertile, in quanto gli ormoni sessuali esercitano un controllo sia sulla secrezione ipotalamica di GnRH sia sulla responsività delle cellule gonadotrope dell’ipofisi al releasing hormone con un meccanismo di controregolazione che può essere negativo o positivo.
B. Funzioni fisiologiche e conseguenze della carenza e dell’ipersecrezione di gonadotropine. LH e FSH regolano le funzioni delle gonadi stimolando la produzione degli ormoni gonadici e la gametogenesi. Nell’uomo il LH ha un’azione trofica e di stimolo sulle cellule interstiziali del testicolo (cellule di Leydig) che producono testosterone. Il FSH è necessario per l’accrescimento e la maturazione dei testicoli e per l’induzione e il mantenimento della spermatogenesi. Il FSH stimola anche la produzione da parte delle cellule di Sertoli di una proteina legante gli androgeni (Fig. 56.7). Per una completa maturazione degli spermatozoi è comunque necessaria la presenza di FSH, di LH e di testosterone che, prodotto dalle cellule di Leydig, viene fissato dalla proteina legante gli androgeni e raggiunge un’alta concentrazione nei tubuli seminiferi. Nella donna il FSH è indispensabile per la maturazione puberale dell’ovaio e per l’accrescimento e la maturazione del follicolo. Il LH è indispensabile per il mantenimento del corpo luteo; in sinergismo con il FSH contribuisce allo sviluppo del follicolo e all’ovulazione. La carenza di gonadotropine in epoca prepuberale provoca arresto della maturazione dell’apparato riproduttivo con mancata comparsa dei fenomeni puberali; nell’adulto provoca ipogonadismo (Cap. 59). Un’ipersecrezione patologica di gonadotropine è evento assai raro e si associa ai disturbi dell’apparato sessuale probabilmente in rapporto al sovvertimento della pulsatilità secretoria di questi ormoni.
TUMORI DELL’IPOFISI Considerazioni generali I tumori dell’ipofisi sono relativamente frequenti, rappresentando nelle diverse casistiche dal 6 al 18% dei
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56 - MALATTIE IPOTALAMO-IPOFISARIE
Tabella 56.3 - Adenomi ipofisari. CELLULE MICROADENOMI MACROADENOMI < 1 cm > 1 cm (ISTOCHIMICA)
Secernenti (90%) PRL-secernenti (prolattinomi) GH-secernenti (adenoma acidofilo) ACTH-secernenti (adenoma basofilo o cromofobo) ACTH-secernenti (adenoma basofilo) TSH-secernenti (adenoma cromofobo) FSH; LH-secernenti (gonadotropinoma) -subunità secernenti Secernenti più ormoni (GH, PRL, TSH, Gn)
Galattotrope
+++
+
Somatotrope Corticotrope Corticotrope Tireotrope Gonadotrope
+ ++
+++ + + + + + +
Non secernenti (10%) Adenoma cromofobo
tumori endocranici. Nella grande maggioranza dei casi si tratta di adenomi, istologicamente benigni, che originano da uno dei tipi di cellule che costituiscono l’adenoipofisi. Sino a pochi anni fa i tumori ipofisari venivano distinti in base ai caratteri istologici in: adenomi acidofili (secernenti GH); adenomi basofili (secernenti ACTH) e adenomi cromofobi (non secernenti). Attualmente, grazie alle tecniche istochimiche e allo studio dell’attività secretoria delle cellule tumorali coltivate in vitro è possibile distinguere tumori delle varie linee cellulari dell’adenoipofisi. Si distinguono pertanto adenomi dalle cellule galattotrope o prolattinomi, adenomi dalle cellule GH-secernenti o somatotropinomi, ecc., come è riportato nella tabella 56.3. I prolattinomi sono i tumori più frequenti; rappresentano circa il 60% degli adenomi ipofisari, seguiti dagli adenomi GH-secernenti (20%) e da quelli ACTH-secernenti (10%); gli altri adenomi secernenti TSH, gonadotropine, ecc. sono estremamente rari e non hanno rilevanza statistica. Sono descritti anche adenomi secernenti più ormoni. I tumori non secernenti sono circa il 10%. Nelle casistiche di alcuni anni fa i tumori non secernenti rappresentavano circa il 90% dei tumori ipofisari, in quanto si ritenevano non secernenti gli adenomi cromofobi; negli anni più recenti il dosaggio della prolattina nel plasma e gli studi sulle cellule ipofisarie in vitro hanno dimostrato che ritenere le cellule cromofobe non secernenti è errato, in quanto la mancata fissazione del colorante può essere dovuta allo svuotamento delle cellule che hanno liberato in circolo l’ormone. L’impiego della tomografia assiale computerizzata ad alto potere di risoluzione e la microchirurgia dell’ipofisi hanno permesso di dimostrare l’esistenza di microadenomi dell’ipofisi nella maggior parte dei pazienti con sindromi da iperfunzione ipofisaria considerate sino ad alcuni anni fa funzionali: iperprolattinemie della sindrome di Chiari-Frommel e della sindrome di Argonz del Castillo; sindrome di Cushing ACTH-dipendente ed altre. Si è così andata imponendo la distinzione tra micro e macroadenomi (Tab. 56.4). Il microadenoma non
+
ASPETTI CLINICI
Amenorrea, galattorrea / ipogonadismo ? Acromegalia-gigantismo Morbo di Cushing Sindrome di Nelson Ipertiroidismo Infertilità Ipopituitarismo Variabili in rapporto agli ormoni secreti Segni neurologici
rappresenta necessariamente lo stadio iniziale del macroadenoma, anzi tende in genere a restare tale pur essendo note condizioni in cui un microadenoma può andare incontro ad un rapido processo di accrescimento; per esempio, i microprolattinomi durante la gravidanza. Il craniofaringioma è un tumore congenito che si ritiene derivi da residui della tasca di Rathke. Si sviluppa più frequentemente nella parte prossimale del peduncolo ipofisario e tende ad accrescersi in regione sovrasellare interessando l’ipotalamo. Per tale ragione non viene considerato un vero tumore ipofisario, ma un tumore “parasellare”. È un tumore caratteristico dell’età pediatrica che però, in una certa percentuale di casi, può dare manifestazioni cliniche nell’età adulta. Il craniofaringioma non è secernente, ma può provocare disturbi endocrini, come arresto della crescita e ipogonadismo, in quanto compromette le connessioni ipotalamo-ipofisarie.
Tabella 56.4 - Elementi distintivi dei micro e macroadenomi ipofisari. Microadenoma • • • • •
Diametro massimo inferiore a 10 mm Non ingrandimento sellare all’esame radiologico Manifestazioni cliniche da eccesso ormonale: frequenti Panipopituitarismo eccezionale Non segni di espansione extrasellare
Macroadenoma • • • •
Diametro massimo superiore a 10 mm Alterazioni della sella turcica all’esame radiologico Panipopituitarismo possibile Manifestazioni espansive possibili in rapporto alle dimensioni del tumore • Difficoltà di trattamento; necessari diversi approcci terapeutici (chirurgico, radiante, medico)
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MALATTIE ENDOCRINE
A. Eziopatogenesi. Le ricerche sull’eziopatogenesi degli adenomi ipofisari sono focalizzate sulla primitività o meno del tumore: vale a dire se l’adenoma rappresenti una malattia ipofisaria primitiva oppure se sia causato da un’alterata regolazione del sistema nervoso e dell’ipotalamo. Se si considera un’alterazione ipotalamica primitiva, si può ipotizzare che l’adenoma si sviluppi per un’eccessiva e/o inappropriata secrezione del releasing hormone specifico o alternativamente per un deficit dell’inhibiting hormone (Fig. 56.8). La dimostrazione diretta di questa possibilità manca, in quanto non è possibile dosare i releasing e gli inhibiting hormone nel circolo portale ipofisario. Una numerosa serie di dati dimostra comunque l’esistenza di anomalie dei meccanismi di regolazione sovraipofisaria nei pazienti con tu-
B. Clinica. I tumori ipofisari provocano sintomi clinici da compressione delle strutture circostanti, sintomi endocrini e segni neuroradiologici.
Normale
Somatostatina
GHRH
Normale Ipotesi ipofisaria Somatostatina
GH
Ipotesi ipotalamica
GH
GHRH
mori ipofisari. Ne ricordiamo alcune: abolizione del ritmo nictemerale e mancata risposta allo stress nei pazienti con adenomi ACTH-secernenti; abolizione delle oscillazioni secretorie sonno-veglia nell’acromegalia; risposta paradossa al carico di glucosio nei pazienti acromegalici. Sono note anche numerose anomalie di risposta alla somministrazione di neurotrasmettitori e ad altri stimoli farmacologici. D’altro canto, una serie non meno numerosa di dati può essere portata a sostegno della primitività dell’adenoma. La guarigione clinica dopo microadenomectomia, il ripristino dei ritmi secretori, la ricomparsa di una normale responsività ipofisaria alcuni mesi dopo l’intervento sembrano dimostrare che le disfunzioni ipotalamiche sono determinate dal tumore stesso, che provocherebbe un inceppamento dei meccanismi di controregolazione ipotalamo-ipofisi.
Somatostatina
GHRH
GH
Figura 56.8 - Rappresentazione schematica della regolazione secretoria del GH nel soggetto normale e possibili meccanismi patogenetici prospettati per spiegare l’ipersecrezione dell’ormone nell’acromegalia. Secondo l’ipotesi ipofisaria, un tumore primitivo delle cellule somatotrope dell’ipofisi provoca autonomamente ipersecrezione di GH. Secondo l’ipotesi ipotalamica, un difetto ipotalamico o sovraipotalamico primitivo provoca una cronica iperproduzione di GHRH, iperplasia delle cellule somatotrope ipofisarie e ipersecrezione di GH. La freccia tratteggiata indica che le due ipotesi non si escludono reciprocamente, in quanto la cronica iperstimolazione e l’iperplasia delle cellule somatotrope possono rappresentare lo stadio iniziale di un adenoma. Gli stessi modelli patogenetici sono applicabili agli altri tumori ipofisari.
1. Manifestazioni neurologiche. Sono causate dalla compressione da parte del tumore delle strutture nervose adiacenti. La cefalea, senza caratteri particolari come tipo di dolore e come sede, è dovuta alla distensione delle strutture meningee che formano il “diaphragma sellae” da parte del contenuto endosellare che, per la presenza del tumore, aumenta di volume. Spesso la cefalea scompare con la rottura della dura del diaframma. Quando il tumore si espande sopra la sella le prime strutture interessate sono il chiasma ottico, posto subito davanti alla sella, e più raramente i nervi ottici e i tratti ottici. La compressione del chiasma provoca una lesione nelle due metà nasali della retina, che si manifesta clinicamente con cecità nelle zone più esterne del campo visivo, nel classico quadro di emianopsia bitemporale (si veda la Fig. 56.11). Con l’espansione sovrasellare del tumore possono comparire anche segni di “tipo vegetativo”, da compressione dei centri ipotalamici che regolano alcune funzioni della vita vegetativa (centro della fame, ecc.) con iperfagia, disturbi del ritmo sonno-veglia, alterazioni della termoregolazione e disturbi della sfera emotiva. La frequenza delle manifestazioni neurologiche nei pazienti con tumori ipofisari ha subito una netta diminuzione negli ultimi anni, grazie allo sviluppo delle tecniche neuroradiologiche e ai test ormonali che permettono una diagnosi precoce. Mentre nelle casistiche degli anni Cinquanta il 90% dei pazienti con tumore ipofisario presentava disturbi visivi al momento della diagnosi, alla fine degli anni Settanta questa percentuale era ridotta al 25%, e attualmente è sicuramente ulteriormente diminuita. 2. Sintomi endocrini. Possono osservarsi due tipi di disturbi endocrini: a) iperfunzione in rapporto all’attività secretoria delle cellule che formano il tumore; b) ipopituitarismo da distruzione, da parte del tumore, del tessuto normale circostante. I quadri clinici sono de-
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56 - MALATTIE IPOTALAMO-IPOFISARIE
scritti nei capitoli sui prolattinomi, l’acromegalia, il morbo di Cushing e l’ipopituitarismo. 3. Segni neuroradiologici. In una piccola percentuale di pazienti il tumore ipofisario è scoperto casualmente in seguito ad una radiografia del cranio o ad una TC eseguita per altri motivi. C. Procedure diagnostiche 1. Indagini neuroradiologiche. La morfologia della regione ipofisaria viene attualmente indagata con la radiografia della sella turcica, con la TC ad alta risoluzione con mezzo di contrasto e con la risonanza magnetica nucleare (RM). L’introduzione di queste tecniche di indagine ha profondamente modificato l’approccio diagnostico alle malattie dell’ipofisi e della regione parasellare. Solo in alcuni casi può essere utile la stratigrafia della sella, mentre le procedure invasive come l’arteriografia e la pneumoencefalografia non trovano oggi indicazione. La TC ad alta risoluzione, oltre a fornire immagini delle strutture ossee sellari, permette una visualizzazione della stessa ipofisi e la definizione di lesioni anche di piccole dimensioni dell’ipofisi e dell’ipotalamo. Le indagini neuroradiologiche permettono di evidenziare: a) deformazioni del contorno sellare e/o erosioni della parete; b) estensione sovrasellare dell’adenoma; c) presenza, nel contesto del parenchima ipofisario, di immagini ipodense causate da microadenomi; d) presenza di liquor nella cavità sellare (“empty sella syndrome”) (Figg. 56.9 e 56.10). La RM risulta particolarmente utile negli adenomi a carattere espansivo, in quanto permette di evidenziare con maggiore precisione i rapporti della massa tumorale con le strutture nervose sovrasellari (chiasma ottico, cavità ventricolari, ecc.). 2. Campimetria. Lo studio del campo visivo permette di evidenziare le alterazioni da compressione del chiasma e delle vie ottiche causate da adenomi ad espansione sovrasellare. Il chiasma è la struttura più frequentemente interessata, con lesione delle fibre nervose dei quadranti nasali della retina ed emianopsia bitemporale (Fig. 56.11).
Figura 56.9 - Radiografia del cranio di un paziente affetto da acromegalia. La sella appare ingrandita con rettilineizzazione della lamina quadrilatera, parziale erosione dei processi clinoidei posteriori e approfondimento del pavimento sellare nella cavità sfenoidale sottostante. La teca cranica appare ispessita con protrusione delle arcate sovraorbitarie.
A.
3. Esami ormonali. Lo studio endocrinologico prevede, oltre alla misura degli ormoni adenoipofisari circolanti, l’esecuzione di test dinamici e, in alcuni casi, lo studio della funzionalità delle ghiandole endocrine ipofisi-dipendenti. Solo nei pazienti acromegalici o con prolattinoma i livelli basali di GH o di prolattina forniscono un’informazione che indirizza decisamente verso la diagnosi. Tuttavia, anche in questi pazienti i risultati dei test dinamici forniscono un supporto talora indispensabile alla diagnosi. Negli altri tumori secernenti è necessario ricorrere ad una serie di test e di dosaggi che non sono riconducibili entro schemi generali. Delle varie procedure diagnostiche si parlerà trattando le singole forme. B.
D. Cenni di terapia. Vengono impiegati essenzialmente tre tipi di terapia: 1. Terapia chirurgica. La microchirurgia dell’ipofisi per via transfenoidale è l’approccio terapeutico oggi
Figura 56.10 - (A) TC (proiezione frontale) dell’ipofisi in un paziente affetto da acromegalia. È evidente l’erosione del pavimento della sella con estensione del tumore nel seno sfenoidale sottostante. (B) Radiografia del cranio dello stesso paziente; la cavità sellare ha dimensioni e forma regolari.
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MALATTIE ENDOCRINE
Campo visivo temporale cieco
no egualmente efficaci; i vantaggi derivanti dal loro impiego rispetto alla bromocriptina devono essere valutati da una più ampia sperimentazione clinica. Anche alcuni derivati della somatostatina, che a differenza della molecola di base hanno una più lunga emivita circolante, offrono interessanti possibilità di trattamento nell’acromegalia. L’inibizione farmacologica della secrezione di ACTH, nei pazienti con morbo di Cushing, con sostanze capaci di interferire con l’azione dei neurotrasmettitori che regolano la secrezione dell’asse CRH-ACTH, è oggetto di attente ricerche. La sostanza più usata è la ciproeptadina, un farmaco ad azione prevalentemente antiserotoninergica, con cui si sono ottenute poche ma ben documentate remissioni della malattia. Altri farmaci usati allo stesso scopo sono la bromocriptina e il sodio valproato, un agente ad azione GABAergica.
Campo visivo nasale conservato
Globo oculare
Prolattinomi L’iperprolattinemia provoca nella donna galattorrea e/o oligoamenorrea; nell’uomo, diminuzione della libido e della vis. Globo oculare
Fibre temporali
Fibre nasali
Tumore ipofisario
Figura 56.11 - Genesi dell’emianopsia bitemporale. La compressione del chiasma ottico da parte di un tumore ipofisario ad espansione sovrasellare provoca una lesione delle fibre nervose afferenti alle metà nasali della retina, con cecità nelle metà temporali del campo visivo.
preferito in molti casi. La microchirurgia permette di rimuovere selettivamente il tessuto adenomatoso, preservando il tessuto ipofisario circostante. L’intervento è seguito da guarigione definitiva in una percentuale molto elevata di pazienti con microadenoma. 2. Terapia radiante. Può essere eseguita con telecobaltoterapia o con particelle pesanti (particelle o protoni). La sensibilità alla terapia radiante varia in rapporto al tipo di tumore; è massima nei pazienti acromegalici e nei corticotropinomi in età pediatrica. 3. Terapia medica. La scoperta della bromocriptina, un agente dopaminergico ad azione protratta, ha offerto un valido presidio farmacologico per il trattamento delle iperprolattinemie da microadenoma ed un supporto utile in alcuni pazienti acromegalici. Altri farmaci dopaminoagonisti – lisuride, metergolina, pergolide – so-
A. Fisiopatologia. L’attività principale della prolattina nella specie umana è quella di indurre e mantenere la lattazione puerperale; è quindi ben comprensibile come un’iperprolattinemia patologica possa provocare secrezione lattea anche al di fuori di questi periodi. Meno chiaro è il meccanismo o i meccanismi mediante i quali l’iperprolattinemia interferisce con la funzione gonadica. In concentrazioni fisiologiche la prolattina non sembra rivestire un ruolo definito nell’attività dell’apparato riproduttivo, tuttavia in concentrazioni sovrafisiologiche essa interferisce costantemente con la funzione gonadica, provocando nella donna anovulazione e oligoamenorrea, e nell’uomo diminuzione della spermatogenesi, impotenza, diminuzione della libido. Tutti questi disturbi sono rapidamente reversibili riportando la prolattina a livelli normali, con terapia medica o chirurgica. L’azione inibente dell’iperprolattinemia sull’apparato riproduttivo può avvenire a vari livelli: ipotalamo, cellule gonadotrope ipofisarie, gonadi. I dati più univoci e convincenti sono senza dubbio quelli che dimostrano un’interferenza dell’iperprolattinemia a livello ipotalamico, con alterazione della pulsatilità secretoria del GnRH e abolizione, nelle pazienti di sesso femminile, del meccanismo di controregolazione positiva degli estrogeni. L’alterata secrezione delle gonadotropine può essere secondaria a un difetto del tono dopaminergico che, oltre a regolare la secrezione di PRL, influenza la liberazione di GnRH. L’importanza del disordine secretorio del GnRH trova conferma nella recente osservazione che somministrando GnRH in forma pulsatile si può indurre l’ovulazione in pazienti iperprolattinemiche. Oltre che da micro o macroadenomi ipofisari, l’iperprolattinemia può essere causata da malattie ipotalamiche di varia natura o da lesioni del peduncolo ipofisario che provochino una deconnessione ipotalamo-ipofisaria.
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Poiché la regolazione neurogena della secrezione di prolattina è prevalentemente inibitoria, qualsiasi lesione ipotalamica che provochi una diminuita secrezione o un diminuito trasporto alle cellule ipofisarie dell’inhibiting factor (PIF) ipotalamico si associa ad ipersecrezione di prolattina da parte dell’ipofisi. Un’iperprolattinemia può associarsi ad alcune malattie sistemiche, con meccanismi patogenetici in molti casi non chiari. Assai più frequenti sono le iperprolattinemie causate dall’assunzione di farmaci, in particolare di psicofarmaci dotati di azione antidopaminergica (Tab. 56.5). B. Clinica. Le sindromi iperprolattinemiche sono assai più frequenti nel sesso femminile. Nella donna la malattia può esordire con galattorrea o irregolarità dei cicli mestruali. Un sintomo può precedere l’altro di mesi o di anni. La galattorrea è presente nel 50-60% delle pazienti con prolattinoma, l’oligoamenorrea nel 60-90%. L’ampia diffusione del dosaggio della prolattina ha permesso di evidenziare che un’iperprolattinemia da microadenoma può essere presente – in assenza di galattorrea – in pazienti con disturbi assai modesti della sfera genitale. Nell’uomo i segni più evidenti dell’iperprolattinemia sono legati all’ipofunzione gonadica: infertilità, impotenza, perdita della libido. La galattorrea è rara. L’iperprolattinemia di per sé non causa ginecoTabella 56.5 - Principali cause di iperprolattinemia. Fisiologiche • Gravidanza, allattamento, stress Patologiche • Malattie ipofisarie – Microprolattinomi – Macroprolattinomi – Adenomi GH + PRL-secernenti – Empty sella syndrome • Malattie ipotalamiche – Craniofaringiomi – Lesioni granulomatose – Sezione del peduncolo ipofisario e qualsiasi altra causa di deconnessione “anatomica” o “funzionale” ipotalamo-ipofisaria • Malattie sistemiche – Ipotiroidismo – Insufficienza renale grave – Insufficienza epatica grave • Lesioni della parete toracica • Policistosi ovarica • Iperprolattinemie idiopatiche o funzionali (microprolattinomi?) Farmacologiche • Dopamino-antagonisti – Bloccanti i recettori (metoclopramide, domperidone) – Depletori centrali (fenotiazine ed altri psicofarmaci) • Antagonisti dei recettori H2 (cimetidina) • Estrogeni • Oppiacei
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mastia se non eccezionalmente; questa può comparire solo in pazienti che abbiano assunto estrogeni o antiandrogeni. Al contrario di quanto si osserva nella donna, in cui l’iperprolattinemia viene più spesso diagnosticata in presenza di microadenomi, nell’uomo l’iperprolattinemia viene diagnosticata più frequentemente in presenza di macroprolattinomi che possono provocare segni neurologici da compressione delle strutture nervose contigue. C. Diagnosi. Oltre che sui dati anamnestico-clinici, utili a far escludere le forme di origine farmacologica ed alcune altre forme associate a malattie sistemiche, la diagnosi eziologica di iperprolattinemia si basa su dati ormonali e sulle indagini neuroradiologiche. 1. Esami ormonali. A differenza di quanto avviene in genere nelle malattie endocrine, nelle iperprolattinemie i valori basali di prolattina forniscono un’indicazione sull’origine della malattia. Valori molto elevati di prolattina orientano verso un adenoma ipofisario: una prolattinemia basale superiore a 200 ng/ml è virtualmente diagnostica in tal senso; valori basali tra 100-200 ng/ml sono abitualmente associati ad un prolattinoma. È però possibile che pazienti con prolattinoma abbiano un’iperprolattinemia moderata. I test di stimolo e di inibizione non distinguono con sicurezza le iperprolattinemie da adenoma dalle iperprolattinemie non tumorali; tuttavia possono fornire un valido orientamento diagnostico. In particolare, la somministrazione di TRH, che nel soggetto normale e nei pazienti con iperprolattinemia funzionale provoca uno spiccato aumento dei valori plasmatici di prolattina, nei pazienti con prolattinoma non induce, nella grande maggioranza dei casi, nessun aumento della prolattinemia. Pur non avendo valore diagnostico assoluto, la mancata responsività della prolattina al TRH riveste un sicuro significato di conferma della diagnosi di iperprolattinemia da microadenoma, specie in quei pazienti nei quali la diagnosi neuroradiologica presenta qualche margine di incertezza. 2. Indagini neuroradiologiche. In particolare, la RM e la TC ad alta risoluzione permettono spesso di dimostrare in modo definitivo la presenza del microadenoma. Tuttavia la TC non è sempre risolutiva, fornendo talora immagini con alterazioni minime e/o di incerta interpretazione. D. Terapia. Un buon controllo dell’iperprolattinemia, con scomparsa della galattorrea e normalizzazione della funzione gonadica, può essere ottenuto nella maggior parte dei pazienti con la terapia medica, alla quale solo in casi particolari è necessario associare la terapia chirurgica. 1. Terapia medica. Si avvale di farmaci ad azione dopaminergica; tra questi, la bromoergocriptina e la cabergolina sono i composti più largamente sperimentati. La somministrazione di dopaminergici, oltre a normalizzare la prolattinemia e a ripristinare una normale
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MALATTIE ENDOCRINE
funzionalità gonadica, provoca anche una riduzione dell’adenoma, producendo nella maggior parte dei pazienti una guarigione definitiva. 2. Terapia chirurgica. Consiste nell’asportazione del micro o del macroadenoma per via transfenoidale.
ACROMEGALIA E GIGANTISMO La cronica ipersecrezione di GH provoca acromegalia nell’adulto e gigantismo nei soggetti in età prepubere. Nella quasi totalità dei pazienti acromegalici l’iperincrezione di GH è causata da un macroadenoma ipofisario. In alcuni rari casi l’acromegalia può essere invece causata da secrezione ectopica di GH o del GH Releasing Hormone (GHRH) da parte di tumori insulari del pancreas, da tumori carcinoidi polmonari, da gangliocitomi ipotalamici. Proprio da neoplasie insulari causanti una sindrome acromegalica è stato isolato e purificato il GHRH. In una considerevole percentuale di pazienti l’adenoma ipofisario secerne, oltre a GH, anche PRL. L’adenoma ipofisario GH-secernente può associarsi ad altri tumori endocrini nel quadro di un’adenomatosi multipla endocrina (MEN tipo I; Cap. 61). L’acromegalia è una malattia non frequente, insorge principalmente nel 3°-4° decennio e colpisce con uguale frequenza i due sessi. La secrezione di GH è alterata nell’acromegalia non solo in senso quantitativo, ma anche per quanto riguarda il ritmo secretorio sonno-veglia e la risposta ai vari stimoli. L’adenoma è responsivo ai fisiologici ormoni regolatori ipotalamici: il GHRH stimola la liberazione di GH e la somatostatina la inibisce, ma altri agenti – L-dopa, iperglicemia, TRH, GnRH – provocano risposte paradosse o anomale con differente comportamento nei singoli pazienti. Questo disordine della dinamica secretoria del
GH è peculiare dell’acromegalia e si ritiene sia espressione di un disordine dei meccanismi neuroendocrini centrali che regolano la secrezione di GH. A. Fisiopatologia. La maggior parte degli effetti patologici causati dall’iperincrezione di GH è mediata dall’iperproduzione di somatomedine, in particolare la somatomedina C. Come è noto le somatomedine stimolano fisiologicamente l’accrescimento attraverso l’aumentata sintesi di DNA, di RNA e di proteine. Nel paziente acromegalico, l’aumento di somatomedine induce la proliferazione del tessuto osseo, delle cartilagini, dei tessuti molli e l’aumento di volume di altre strutture o visceri – cuore, fegato, tiroide, ecc. – che può essere più o meno evidente ed è caratteristico di questa malattia (Fig. 56.12). L’apparato scheletrico è particolarmente colpito. Nell’adulto, con cartilagini di coniugazione saldate, l’accrescimento osseo avviene a livello periostale: ne deriva aumento del diametro delle ossa lunghe e dello spessore di quelle piatte. Le deformazioni sono più evidenti al volto e a livello delle estremità o parti acrali. Da qui il termine di acromegalia coniato da PierreMarie nel 1886. Una serie di modificazioni dello scheletro del massiccio facciale, delle cartilagini della piramide nasale e delle parti molli concorrono a modificare profondamente i caratteri fisionomici del paziente. L’aspetto caratteristico da solo è spesso sufficiente a far porre correttamente la diagnosi. La facies acromegalica (Fig. 56.13) è caratterizzata da deformazione della mandibola con prognatismo, diastasi dentaria e malocclusione; sporgenza delle arcate sovraorbitarie e degli zigomi, allungamento e deformazione della piramide nasale. L’accrescimento dei tessuti molli contribuisce a provocare le spiccate modificazioni dei caratteri fisionomici. Nei soggetti in età prepubere, con cartilagini di coniugazione non saldate, la proliferazione cartilaginea
e del Compressione del o chiasma ottico
A.
Adenoma cromofobo che allarga la sella turcica
Figura 56.12 - Adenoma ipofisario. (A) Allargamento della sella turcica. (B) Compressione del chiasma ottico.
B.
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Figura 56.13 - Paziente affetta da acromegalia. Si notino la deformazione della piramide nasale, il prognatismo, i lineamenti grossolani e l’ingrossamento delle dita.
provoca l’allungamento delle ossa lunghe con incremento staturale e gigantismo. Le alterazioni metaboliche, in particolare la resistenza all’insulina e l’intolleranza ai carboidrati, spesso rilevabili nei pazienti acromegalici, sono causate da un effetto diretto del GH non mediato dalla somatomedina. Non è chiara la patogenesi dell’ipertensione arteriosa. B. Clinica. L’acromegalia è una malattia a lenta evoluzione. Le prime manifestazioni che richiamano l’attenzione del paziente sono rappresentate da una sensazione di gonfiore e di ingrossamento delle estremità che lo costringono a rinnovare o a far allargare gli anelli e ad acquistare scarpe e/o guanti di una misura maggiore di quella abituale. Anche i lineamenti del volto si modificano, facendosi più grossolani. Questi cambiamenti avvengono peraltro con una così lenta gradualità che spesso il paziente si rivolge al medico solo dopo anni dall’inizio della malattia, talvolta quando sono già presenti i sintomi neurologici da espansione sovrasellare dell’adenoma. L’aspetto del malato è talora così caratteristico da far porre la diagnosi con quasi assoluta certezza. Nei casi meno evidenti può essere utile confrontare l’aspetto del malato con quello di una fotografia eseguita qualche anno prima. L’esame obiettivo della cute evidenzia, oltre all’ispessimento, anche aumento della secrezione sudorifera. L’iperidrosi è considerata un sensibile indice dell’attività della malattia. Circa il 25% dei pazienti acromegalici ha un’ipertensione arteriosa che in genere viene corretta con la cura dell’acromegalia. È frequente un’alterazione del metabolismo glucidico; più limitato è il numero dei pazienti con franco diabete mellito (Tab. 56.6). Assai frequenti sono i disturbi della sfera sessuale: oligoamenorrea nelle pazienti di sesso femminile e diminuzione della libido e della potenza nei maschi. Questi disturbi possono essere causati dall’iperprolattinemia frequentemente presente nei pazienti acromegalici e/o dalla compromissione dell’attività secretoria delle cellule gonadotrope ipofisarie per compressione da parte dell’adenoma. Molto più raro l’ipotiroidismo e/o l’iposurrenalismo da distruzione delle cellule ipofisarie tireotrope e corticotrope.
Tabella 56.6 - Principali rilievi clinici e di laboratorio riscontrati nell’acromegalia. % • • • • • • • • • • • • •
Recente accrescimento delle parti acrali Ingrandimento della sella turcica Iperidrosi Astenia Artralgie Intolleranza al glucosio Malocclusione Iperfosforemia (> 4,5 mg/dl) Recente accrescimento delle parti molli Sindrome del tunnel carpale Ipertensione arteriosa Iperglicemia basale (> 110 mg/dl) Iperprolattinemia (> 25 ng/ml)
100% 96% 91% 88% 72% 68% 68% 58% 58% 44% 37% 30% 15%
Da D.R. Clemmons, J.J. Van Wyk et al., 1979.
Con il progredire della malattia, alle alterazioni osteocartilaginee da ipersomatotropinismo si associano, a livello articolare, grossolane manifestazioni artrosiche che possono provocare dolori e notevoli disturbi funzionali. Alla sintomatologia dolorosa concorrono spesso polineuriti da compressione delle radici nervose, intrappolate dai processi di accrescimento dei tessuti fibrosi o dei legamenti circostanti. Tra queste forme particolare rilievo riveste, per frequenza e gravità, la sindrome del tunnel carpale. Sono frequenti nell’acromegalia la cefalea e le manifestazioni neurologiche da espansione dell’adenoma. C. Diagnosi 1. Esami di laboratorio. Abbiamo già detto della frequente alterazione della glicemia da carico. Si osserva spesso aumento della fosforemia e della calciuria. Questi esami erano usati, in passato, come supporto alla diagnosi e per valutare l’attività della malattia; at-
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tualmente il loro valore diagnostico è assai limitato. Lo studio del metabolismo glucidico è comunque necessario per evidenziare l’esistenza di un diabete concomitante. 2. Esami radiologici. Un ingrandimento della sella turcica è evidenziabile in oltre il 90% dei pazienti acromegalici già alla radiografia del cranio (Fig. 56.9). Quando la sella è normale o presenta solo minime alterazioni l’adenoma ipofisario può essere evidenziato con la TC e la RM, che in ogni caso sono indispensabili per una migliore definizione anatomica dell’estensione del tumore e dei rapporti con le strutture anatomiche circostanti (Fig. 56.14). Oltre all’ingrandimento della sella, l’esame radiologico dello scheletro evidenzia una numerosa serie di grossolane alterazioni: ispessimento della teca cranica con riduzione o scomparsa della diploe, ampliamento dei seni frontali che sporgono verso l’avanti, allungamento della branca montante della mandibola con prognatismo, allargamento delle falangi con proliferazione “a cavolfiore” di quelle distali; cifosi della colonna dorsale con allungamento in senso antero-posteriore dei corpi vertebrali. 3. Esami ormonali. La diagnosi di acromegalia viene posta in presenza di valori basali elevati di GH e/o di anomalie di risposta dell’ormone ai test di stimolo o di inibizione. La concentrazione basale di GH è quasi costantemente elevata nei pazienti acromegalici. Vi è peraltro una grande variabilità dei livelli di GH, che possono andare da valori appena al di sopra del range normale (1-5 ng/ml) a concentrazioni plasmatiche di alcune centinaia di ng/ml. La concentrazione plasmatica di GH riflette l’attività secretoria del tumore, ma non è necessariamente correlata con la gravità dei segni clinici o con la durata della malattia. Una miglior correlazione in tal senso sarebbe ottenibile con la misura della somatomedina C circolante; tuttavia il dosaggio di questa sostanza presenta ancora qualche problema metodologico. Nei pazienti trattati i livelli basali di GH sono comun-
Figura 56.14 - RM in un paziente acromegalico. Proiezione laterale. È presente un macroadenoma ipofisario che, sfondato il pavimento della sella, si approfonda nel seno sfenoidale.
MALATTIE ENDOCRINE
que considerati un parametro valido per valutare l’efficacia della terapia. Poiché aumenti, in genere modesti, del GH circolante possono essere osservati al di fuori dell’acromegalia in condizioni di stress, di inanizione e durante malattie acute, per la diagnosi di acromegalia è indicato eseguire dei test dinamici. Fanno eccezione quei pazienti nei quali i livelli basali di GH sono già elevati in modo spiccato. La risposta ai test dinamici è costantemente alterata, anche se esiste una notevole variabilità di risposta ai singoli test da un paziente all’altro. I test più usati in clinica sono i seguenti. • Test con glucosio per os. È la prova dinamica più semplice e specifica. Nel soggetto normale la somministrazione di 100 g di glucosio per os provoca una diminuzione del GH circolante a livelli inferiori a 5 ng/ml, entro 60 min. Nel soggetto acromegalico i livelli del GH possono restare invariati, aumentare in modo paradosso o anche diminuire, ma non a valori inferiori a 5 ng/ml. • Test con TRH. La somministrazione endovena di TRH provoca una liberazione aspecifica di GH in circolo nel 70-80% dei pazienti acromegalici. • Test con L-dopa. La somministrazione per os di L-dopa provoca, nei soggetti normali, un aumento dei livelli plasmatici di GH; in circa la metà dei pazienti acromegalici si osserva invece una paradossa riduzione dei livelli di GH circolante. Possono osservarsi alterazioni dei livelli circolanti anche degli altri ormoni dell’adenoipofisi: l’iperprolattinemia è presente in una rilevante quota di pazienti acromegalici. Attualmente, grazie alla possibilità di più precoce diagnosi e ai più efficaci mezzi terapeutici, è invece raro osservare, nei pazienti acromegalici, condizioni di deficit degli ormoni trofici ipofisari: gonadotropine, TSH, ACTH con ipopituitarismo settoriale o globale. Parimenti raro è il diabete insipido. Una volta prospettata, la diagnosi di acromegalia non presenta grandi difficoltà: l’aspetto del paziente, i valori basali elevati di GH, le anomalie di risposta ai test dinamici, l’ingrandimento della sella turcica e/o la dimostrazione di un tumore ipofisario con la TC permettono di porre con sicurezza la diagnosi anche nei casi in cui il quadro clinico è più sfumato. D. Decorso, prognosi e terapia. Il decorso della malattia è lento, ma presenta notevoli differenze nei singoli pazienti in rapporto: a) alla progressione delle alterazioni scheletriche; b) alla comparsa dei distur bi metabolici, in particolare del diabete mellito; c) alla velocità di accrescimento dell’adenoma ipofisario e quindi alla comparsa dei sintomi neurologici da compressione. Talora la malattia può andare incontro a remissioni spontanee in rapporto a processi di necrosi del tessuto adenomatoso. Nel complesso, l’acromegalia provoca una mortalità doppia rispetto a quella prevedibile in soggetti di ugual sesso ed età. Come per gli altri adenomi ipofisari, i mezzi terapeutici a disposizione sono chirurgici, fisici e farmacologici.
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1. L’adenomectomia rappresenta la terapia elettiva dell’acromegalia. L’intervento ha indicazione assoluta in presenza di macroadenoma ad estensione sovrasellare, se esistono segni neurologici da compressione o segni clinici e ormonali indicativi di attività ed evolutività della malattia. 2. La terapia radiante esterna o telecobaltoterapia è attiva sugli adenomi GH-secernenti. Viene impiegata nelle forme scarsamente attive sostenute da tumori a carattere non espansivo, nei pazienti a rischio per l’intervento e quando la malattia tende a recidivare dopo adenomectomia. 3. La terapia medica con agenti dopaminergici (bromocriptina) e/o con l’octreotide, analogo della somatostatina ad azione protratta, rappresenta attualmente un complemento alla terapia chirurgica in pazienti che dopo l’intervento presentino ancora elevati livelli plasmatici di ormone somatotropo. Le potenzialità terapeutiche dell’octreotide sembrano comunque notevoli non solo nell’inibire la secrezione di GH, ma anche nel ridurre le dimensioni dell’adenoma ipofisario.
Adenomi ACTH-secernenti A. Morbo di Cushing. Il morbo di Cushing è una condizione di ipercortisolismo dovuta a iperplasia surrenale bilaterale secondaria a iperstimolazione da parte dell’ACTH ipofisario. In circa il 90% di questi pazienti è possibile dimostrare la presenza di un microadenoma ipofisario. Come per gli altri tumori ipofisari secernenti, resta aperta la questione se l’adenoma rappresenti una malattia ipofisaria primitiva o il risultato di un’alterazione dei sistemi di controllo nervosi, con cronica iperstimolazione delle cellule corticotrope da parte del CRH e formazione secondaria del microadenoma (Cap. 58). Le manifestazioni cliniche sono comunque causate dall’eccesso di glucocorticoidi e sono indistinguibili da quelle osservabili nelle altre forme di ipercortisolismo, a cui si rimanda (sindrome di Cushing, Cap. 58) per una più dettagliata discussione. B. Sindrome di Nelson. La sindrome è provocata dalla comparsa, clinicamente evidente, di un adenoma ipofisario in pazienti surrenectomizzati per morbo di Cushing. La malattia, descritta nel 1958 quando la patologia da microadenomi era praticamente sconosciuta, appare, alla luce delle attuali conoscenze, come la naturale progressione di un microadenoma preesistente, che dopo surrenectomia e rimozione dell’azione inibente dell’ipercortisolismo va incontro a rapido accrescimento. L’incidenza della sindrome di Nelson varia notevolmente nelle diverse casistiche: si può comunque calcolare che circa il 30% dei pazienti surrenectomizzati presenti una sindrome di Nelson clinicamente evidente, mentre molto più alta è la percentuale di pazienti che presentano solo un’evidenza neuroradiologica di adenoma ipofisario. La terapia radiante della re-
gione ipofisaria, eseguita a scopo profilattico prima o subito dopo la surrenectomia, non sembra realmente efficace nel ridurre la comparsa della sindrome di Nelson. Sul piano clinico la sindrome di Nelson è caratterizzata dall’iperpigmentazione causata dall’elevatissima quantità di ACTH secreto dal tumore e dai segni neurologici da espansione dell’adenoma, che è tra i tumori ipofisari più aggressivi e a più rapido accrescimento. La diagnosi non presenta soverchie difficoltà; i dati clinici trovano supporto nei valori elevatissimi di ACTH circolante e nelle alterazioni neuroradiologiche. La terapia d’elezione è chirurgica. La terapia radiante è usata in seconda istanza, quando è risultata impossibile una resezione completa del tumore.
Altri tumori secernenti dell’ipofisi Si tratta di tumori molto rari, documentati solo in un numero estremamente limitato di pazienti. A. Adenomi secernenti TSH o tireotropinomi. Sono caratterizzati clinicamente da ipertiroidismo con elevata concentrazione di TSH circolante, al contrario di quanto si osserva abitualmente nei pazienti ipertiroidei. Nella maggior parte dei pazienti il tumore ipofisario è un macroadenoma, la cui rimozione porta a remissione dell’ipertiroidismo. B. Adenomi secernenti gonadotropine o gonadotropinomi. Gli adenomi a cellule gonadotrope dell’ipofisi sono rari, ma non eccezionali come si riteneva nel passato. Si tratta quasi costantemente di macroadenomi con spiccata tendenza all’espansione extrasellare che producono FSH, più raramente FSH + subunità o FSH + LH. Sono colpiti i soggetti di età medio-avanzata, quasi costantemente di sesso maschile. Clinicamente i pazienti giungono all’osservazione per disturbi visivi da compressione del chiasma o dei nervi ottici. Non sono invece rilevabili sintomi riferibili all’ipogonadismo. In particolare, i pazienti riferiscono una storia di normale sviluppo puberale e all’esame obiettivo presentano gonadi normali e una regolare virilizzazione. Le alterazioni ormonali sono rappresentate da aumento dei livelli basali di FSH, e in rari casi di LH. Il testosterone è talora ridotto o ai limiti inferiori della norma e possono aversi ipospermia e infertilità. La dinamica secretoria di FSH (e LH) può risultare alterata con anomale risposte al GnRH e al clomifene, risposte aspecifiche al TRH, mancata o incompleta soppressione dopo somministrazione di testosterone.
EMPTY SELLA SYNDROME (sindrome della sella vuota) La empty sella syndrome è una condizione caratterizzata anatomicamente dall’estensione dello spazio subaracnoideo all’interno della sella turcica, che è quindi
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riempita in parte dal liquor. Questa situazione provoca un rimodellamento ed un allargamento della cavità sellare ed uno schiacciamento dell’ipofisi contro la parete ossea (Fig. 56.15). A. Eziopatogenesi. La empty sella syndrome è condizione non rara; rappresenta la causa più frequente di ingrandimento radiologico della sella turcica. Anomalie del diaframma sellare sono state rilevate nel 5-23% delle autopsie, in pazienti che non presentavano nella loro storia alcun sintomo riferibile a malattie ipofisarie. L’empty sella può essere causata da un difetto anatomico congenito del “diaphragma sellae” (empty sella syndrome primitiva) o può comparire dopo interventi chirurgici, terapia radiante, traumi dell’ipofisi (empty sella syndrome secondaria). Poiché oltre l’80% dei soggetti affetti da empty sella syndrome primitiva è di sesso femminile e sono in prevalenza colpite donne con numerose pregresse gravidanze, si è prospettata la possibilità che l’iperplasia fisiologica dell’ipofisi durante la gravidanza e la successiva involuzione, ripetute più volte, possano predisporre ad un’incontinenza del diaframma sellare. È ben dimostrata anche la possibilità che l’empty sella syndrome sia causata da necrosi spontanea di tumori ipofisari (Fig. 56.15, C).
B. Clinica. Nella maggior parte dei casi la diagnosi di empty sella syndrome viene prospettata per l’occasionale rilievo di un ingrandimento della sella turcica ad un esame radiologico del cranio, eseguito per la presenza di disturbi neurologici aspecifici come: cefalea, lipotimie, crisi convulsive. Tuttavia gli studi eseguiti in questi pazienti hanno permesso di osservare che l’empty sella syndrome primitiva si associa ad una serie di manifestazioni cliniche ben definite (Tab. 56.7). 1. Manifestazioni di ordine generale. L’obesità è pressoché costante e, in taluni pazienti, è cospicua. Si ritiene che l’aumento ponderale sia causato da un’alterazione del centro ipotalamico ventromediale della sazietà. La cefalea è presente in un’elevata quota di pazienti ed è il disturbo che più spesso conduce alla diagnosi, in quanto induce ad eseguire la radiografia del cranio. La sintomatologia dolorosa non presenta caratteristiche cliniche particolari, variando notevolmente da un paziente all’altro come sede, caratteristiche ed intensità. In alcuni casi sono presenti altri sintomi neurologici come: nevralgia del trigemino, lipotimie, crisi convulsive. Disturbi del visus da alterazioni di vario tipo del campo visivo, così come la rinorrea liquorale, sono riportati con diversa frequenza nei gruppi di pazienti
Normale
Empty sella
Spazio subaracnoideo
Diaframma della sella
Diaframma della sella
Spazio subaracnoideo
A.
C.
B.
Figura 56.15 - Rappresentazione schematica, in proiezione laterale, della regione ipotalamo-ipofisaria. (A) Condizioni normali; (B) “Empty sella syndrome” primitiva. La membrana aracnoidea, attraverso un difetto del diaframma sellare, protrude nella cavità sellare che è parzialmente riempita dal liquor. (C) RM in proiezione laterale. La cavità sellare appare in gran parte occupata da materiale liquorale; il tessuto ipofisario è schiacciato in corrispondenza del dorso della sella.
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56 - MALATTIE IPOTALAMO-IPOFISARIE
Tabella 56.7 - Dati clinici rilevati nell’empty sella syndrome primitiva. DATI RILEVATI Sesso femminile Obesità Cefalea Ipertensione arteriosa Edema della papilla Alterazioni del campo visivo Rinorrea liquorale Disturbi endocrini – panipopituitarismo – ipopituitarismi parziali – acromegalia – diabete insipido – altri disturbi endocrini (in prevalenza a causa di disfunzioni ipofisarie)
FREQUENZA % 87 100 71 29 13 Osservate frequentemente Osservata frequentemente 37 4 11 4 Osservato frequentemente 18
Da F.A. Neelon et al., 1973.
studiati. In circa il 30% dei pazienti si rileva ipertensione arteriosa che non ha in genere carattere di gravità e/o di evolutività. 2. Manifestazioni di ordine endocrino. Nonostante le grossolane alterazioni anatomiche della sella, alterazioni endocrine sono presenti solo in una percentuale limitata di pazienti (10-37%) e spesso hanno modesto rilievo clinico. In particolare, non esiste un assetto ormonale specifico o un quadro clinico da disfunzione endocrina caratteristico dell’empty sella syndrome. Le alterazioni endocrine più frequentemente riportate sono l’iperprolattinemia, l’ipopituitarismo, il diabete insipido. Quando l’empty sella syndrome è conseguenza della necrosi di un adenoma ipofisario funzionante, sono ovviamente presenti i sintomi e i segni della malattia di base (acromegalia, amenorrea, galattorrea, ecc.). C. Diagnosi. La diagnosi di empty sella syndrome si basa sulle indagini neuroradiologiche. L’intento di tali indagini è quello di differenziare l’ingrandimento sellare da empty sella syndrome dagli ingrandimenti causati da adenomi intrasellari. La radiografia standard dimostra un caratteristico aumento di volume, simmetrico e regolare, della sella turcica. Nel radiogramma eseguito in proiezione laterale, la cavità sellare ha un aspetto “gonfiato”, “a palloncino” con margini regolari e curvilinei che danno una configurazione “chiusa” alla sella, in contrasto con quella “aperta” causata dalle masse tumorali che spostano verso l’indietro il dorso sellare. L’aspetto radiografico della sella ha comunque solo valore orientativo, e non è sufficiente a far porre la diagnosi di empty sella syndrome. Sino a pochi anni fa la diagnosi veniva posta solo con la pneumoencefalografia, mediante la quale si poteva evidenziare la penetrazione di aria nella cavità sellare (di qui il nome di “sella vuota” dato alla sindrome). Attualmente la TC ad alta risoluzione e/o la RM permettono di evidenziare la presenza di liquor nella cavità sellare senza necessità di ricorrere ad una tecnica invasiva come la pneumoencefalografia.
D. Prognosi e cenni di terapia. L’empty sella syndrome è una condizione benigna che non richiede di per sé alcuna terapia; tuttavia i pazienti devono essere controllati per la possibilità che si manifestino disfunzioni endocrine. Un’impropria terapia radiante praticata per un’errata diagnosi di adenoma cromofobo può peggiorare la sintomatologia neurologica e la funzione ipofisaria.
IPOPITUITARISMO L’ipopituitarismo può essere causato da lesioni primitive dell’ipofisi che distruggono estesamente il tessuto ghiandolare oppure può essere secondario a processi morbosi del sistema nervoso e dell’ipotalamo che interferiscono con la produzione o il trasporto degli ormoni ipotalamici che regolano l’attività endocrina dell’adenoipofisi. La distinzione tra ipopituitarismo primitivo e secondario viene eseguita mediante l’impiego di test che valutano la responsività dell’adenoipofisi ai releasing hormone ipotalamici TRH, GnRH, CRH, ecc. Tuttavia, in assenza di lesioni anatomicamente definite dell’ipofisi o dell’ipotalamo, questa distinzione non è sempre eseguibile con sicurezza. È utile distinguere: • un ipopituitarismo globale o panipopituitarismo, quando è compromessa la secrezione di tutti gli ormoni ipofisari; ad esso si fa riferimento quando si parla di ipopituitarismo; • un ipopituitarismo parziale o settoriale, quando la carenza ormonale è limitata a uno o ad alcuni ormoni dell’adenoipofisi. Talora è associata, soprattutto nell’ipopituitarismo globale, una ridotta secrezione di ormoni della neuroipofisi che causa diabete insipido. Le manifestazioni cliniche dell’ipopituitarismo sono prevalentemente legate all’insufficienza delle ghiandole endocrine periferiche non stimolate dalle tropine ipofisarie. La carenza di ormone somatotropo ha prevalente rilevanza clinica se l’ipopituitarismo insorge nell’infanzia o nell’adolescenza, in quanto il ridotto accrescimento corporeo provoca il caratteristico nanismo ipofisario. L’unica conseguenza clinica della carenza di PRL è l’assenza di montata lattea che si osserva nella necrosi ipofisaria post partum.
Panipopituitarismo A. Eziologia. L’ipopituitarismo è una malattia non frequente; non si hanno dati precisi sulla sua incidenza in assoluto. Per quanto riguarda le singole forme, l’incidenza della necrosi ipofisaria nelle pazienti con grave emorragia durante il parto (sindrome di Sheehan) è riportata in modo assai discorde: dal 50% di tutti i parti dello stesso Sheehan, al 10% di altre casistiche. Tutta-
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via queste incidenze sembrano lontane dalla realtà attuale, in quanto per le migliorate condizioni di assistenza al parto la necrosi ipofisaria post partum è diventata una malattia di raro riscontro. Le cause di ipopituitarismo sono elencate nella tabella 56.8. Si tratta di una serie assai numerosa di processi patologici, alcuni estremamente rari, che nella grande maggioranza dei casi producono ipopituitarismo con un meccanismo di tipo sostitutivo o infiltrativo, che provoca un’estesa distruzione dell’ipofisi o dei nuclei ipotalamici. A scopo mnemonico può essere utile ricordare la regola dei nove i (“nine I’s”) degli Autori anglosassoni: “Invasive; Infarction; Infiltrative; Injury; Immunologic; Iatrogenic; Infectious; Idiopathic; Isolated”. 1. I tumori ipofisari che provocano ipopituitarismo sono macroadenomi che distruggono oltre il 60% del tessuto ghiandolare; si tratta in genere di adenomi cromofobi non secernenti, tuttavia anche i tumori secernenti, se raggiungono grosse dimensioni, possono provocare ipopituitarismo. I tumori dell’ipotalamo interferiscono con la funzione ipofisaria con molteplici meccanismi: distruggendo i nuclei ipotalamici che producono i releasing hormone; distruggendo o interferendo
Tabella 56.8 - Principali cause di ipopituitarismo. Malattie ipotalamiche primitive • Tumori primitivi del SNC (meningioma, cordoma, ependimoma, ecc.) • Tumori metastatici (neoplasie mammarie, broncogene, ecc.) • Craniofaringioma (1) • Malformazioni anatomiche (encefalocele della base; aneurisma parasellare, ecc.) • Traumi cranici (2) Malattie ipofisarie primitive • • • •
Adenomi non secernenti Necrosi ipofisaria (sindrome di Sheehan) Apoplessia ipofisaria Processi infiltrativi – Sarcoidosi – Emocromatosi – Istiocitosi X • Ipofisite autoimmune • Infezioni (lue, tubercolosi, micosi) • “Empty sella syndrome” Ablazione terapeutica • Irradiazione esterna • Impianto di Yttrio90 • Ipofisectomia chirurgica Ipopituarismo idiopatico (1) Il craniofaringioma è un tumore della regione ipotalamo-ipofisaria. (2) I traumi possono agire a livello del peduncolo ipofisario.
MALATTIE ENDOCRINE
con la funzione delle vie nervose che regolano l’attività secretoria dell’ipotalamo; impedendo il trasporto degli ormoni ipotalamici all’adenoipofisi per alterazione del circolo portale. Il craniofaringioma è il tumore più frequente della regione ipotalamo-ipofisaria. In genere si sviluppa nell’infanzia; oltre all’ipopituitarismo provoca spesso disturbi da compromissione dei nuclei ipotalamici: diabete insipido da lesione dei nuclei sovraottico e paraventricolare, polifagia ed obesità da lesione del nucleo ventromediale della sazietà (sindrome di Fröhlich). 2. La necrosi ischemica dell’ipofisi era in passato la principale causa di ipopituitarismo. La forma più frequente è quella post partum, nota come sindrome di Sheehan. Un’emorragia massiva durante o subito dopo il parto determina, attraverso lo shock o la sola caduta pressoria, un diminuito flusso attraverso il sistema portale ipofisario con necrosi ischemica dell’adenoipofisi. L’adenoipofisi al momento del parto è particolarmente vulnerabile, perché durante la gravidanza va incontro ad una iperplasia a cui non corrisponde un’adeguata irrorazione attraverso il sistema portale ipofisario per impossibilità di espansione della ghiandola racchiusa nella cavità della sella turcica. La caduta pressoria e il vasospasmo delle arterie ipofisarie possono quindi compromettere irrimediabilmente l’irrorazione arteriosa dell’adenoipofisi. La necrosi ipofisaria post partum è oggi comunemente nota come sindrome di Sheehan, meno comunemente è indicata come morbo di Simmonds. Quest’ultimo Autore descrisse per primo, nel 1924, il quadro clinico ed anatomico della necrosi ipofisaria in una paziente che 11 anni prima aveva sofferto di una grave sepsi puerperale, cui erano seguiti amenorrea, grave astenia e decadimento generale. La paziente era giunta a morte in stato cachettico, e Simmonds osservò all’autopsia un’atrofia dell’ipofisi che attribuì a necrosi settica. L’estrema emaciazione della paziente, osservata da Simmonds in fase terminale, gli fece erroneamente ritenere che il dimagramento e la cachessia fossero le caratteristiche peculiari dell’ipopituitarismo, definito “cachessia ipofisaria”. Questa definizione si è rivelata molto infelice, perché per molti anni si è posta diagnosi di morbo di Simmonds e si sono considerate affette da ipopituitarismo pazienti affette da anoressia nervosa nelle quali all’esame autoptico l’ipofisi risultava del tutto normale. Solo molti anni dopo Sheehan collegò la necrosi ipofisaria all’emorragia e al collasso durante il parto, descrivendo chiaramente gli elementi clinici della sindrome che porta il suo nome. La necrosi ischemica può essere osservata, sia pure con frequenza assai minore, in condizioni diverse dal parto: nella vasculopatia diabetica grave, nelle emorragie massive gastrointestinali, negli aneurismi della carotide, nell’arterite temporale, nelle trombosi del seno cavernoso, nell’anemia falciforme. 3. L’apoplessia ipofisaria è causata da un’emorragia intraipofisaria che avviene quasi costantemente in presenza di tumori ipofisari funzionanti o non funzionanti. Oltre all’ipopituitarismo, l’apoplessia cerebrale può
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56 - MALATTIE IPOTALAMO-IPOFISARIE
provocare, quando l’emorragia è brusca e massiva, una sintomatologia acuta di tipo neurologico con grave cefalea, compromissione del visus, oftalmoplegia, meningismo e disturbi della coscienza, e può richiedere con urgenza un intervento di decompressione del contenuto endosellare. 4. I processi infiltrativi che interessano la regione ipotalamo-ipofisaria sono la sarcoidosi, l’emocromatosi e l’istiocitosi X. L’ipotalamo è la localizzazione più frequente della sarcoidosi intracranica. L’infiltrazione granulomatosa provoca ipopituitarismo per interessamento dei nuclei ipotalamici, associato in genere a diabete insipido. Nell’emocromatosi è principalmente interessata la produzione del GnRH e delle gonadotropine; di conseguenza l’ipogonadismo ipogonadotropo è la manifestazione endocrina più frequente della malattia e talora rappresenta il sintomo di esordio. Un deficit degli altri ormoni ipofisari ACTH, TSH, ecc., è più raro e tardivo. L’infiltrazione istiocitaria che caratterizza l’istiocitosi X interessa spesso l’ipotalamo. Tra le malattie di questo gruppo (morbo di Hand-Schuller-Christian, morbo di Letterer-Siwe e granuloma eosinofilo), la prima esordisce spesso con un diabete insipido. È comunque ben dimostrata anche la possibilità di un ipopituitarismo secondario ad infiltrazione ipotalamica. 5. L’ipofisite linfocitica di origine autoimmune è una entità rara ma ben documentata che può provocare ipopituitarismo; si rileva in genere in associazione ad altri processi autoimmuni che interessano organi endocrini (poliendocrinopatie autoimmuni) ed extraendocrini. 6. L’ipopituitarismo da processi infettivi cronici (tubercolosi, sifilide) interessanti l’ipofisi è oggi eccezionale. 7. L’irradiazione della regione ipotalamo-ipofisaria può indurre ipopituitarismo. Nell’irradiazione esterna tradizionale si impiegano dosi di 4000-5000 rad, che sono molto al di sotto di quelle che producono lesioni funzionali del sistema ipotalamo-ipofisario; tuttavia nei pazienti irradiati per tumori secernenti dell’ipofisi e seguiti a lungo termine vi è un’incidenza a distanza di ipopituitarismo non trascurabile. L’impiego di particelle pesanti (protoni) è gravato da un’incidenza assai più elevata (20-50%) di ipopituitarismo. Anche alcuni farmaci antiblastici, in particolare la vincristina, provocherebbero ipopituitarismo, agendo sui nuclei ipotalamici. 8. Forme idiopatiche. Diagnosticare la malattia di base responsabile dell’ipopituitarismo è utile a scopo prognostico e terapeutico. Tuttavia in una quota rilevante di pazienti non si riesce a stabilire la causa dell’ipopituitarismo. Si ritiene che in queste forme idiopatiche la ridotta secrezione di ormoni ipofisari sia causata da un’alterazione di ordine funzionale del sistema nervoso e/o dell’ipotalamo che non dà altri segni o sintomi obiettivabili. Sono anche descritti rari casi di ipopituitarismo idiopatico familiare con trasmissione autosomica o legata al cromosoma X di tipo recessivo.
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B. Fisiopatologia. L’insufficienza delle ghiandole endocrine periferiche secondaria ad insufficiente stimolazione da parte degli ormoni trofici ipofisari differisce solo in alcuni aspetti dall’insufficienza primitiva delle stesse ghiandole. In generale, l’insufficienza ghiandolare secondaria è più sfumata e a più lenta progressione. La carenza di LH ed FSH provoca atrofia delle gonadi. Nell’uomo i testicoli diminuiscono nettamente di consistenza e di volume. Diminuiscono la libido e la potenza; anche il tessuto seminale è interessato con oligoazoospermia. Nei casi non trattati la carenza di testosterone provoca un’attenuazione dei caratteri sessuali secondari: rarefazione della barba e dei peli ascellari e pubici, ipotrofia delle masse muscolari. Nella donna adulta le alterazioni del ciclo mestruale sono di regola il sintomo di esordio dell’ipopituitarismo: le mestruazioni si fanno dapprima scarse e irregolari e poi cessano del tutto. Contemporaneamente diminuisce la libido e scompaiono i caratteri sessuali secondari; in genere è ben evidente la scomparsa dei peli pubici, mentre l’atrofia mammaria è in parte mascherata dall’adiposità. L’ipotiroidismo da carenza di TSH si manifesta lentamente con torpore, intolleranza al freddo, apatia, sonnolenza, faticabilità. La cute è secca, sottile e la comparsa di un vero mixedema è eccezionale. Il gozzo è assente. La carenza di ACTH provoca un’atrofia delle zone reticolare e fascicolata del corticosurrene con ridotta secrezione di glucocorticoidi ed androgeni. La secrezione di aldosterone, controllata dal sistema renina-angiotensina, è invece mantenuta. Mancano pertanto le alterazioni elettrolitiche, la disidratazione, l’ipovolemia caratteristiche dell’ipocorticosurrenalismo primitivo. Per la ridotta secrezione di ACTH e -LPH, è pure assente l’iperpigmentazione caratteristica del morbo di Addison, sono anzi depigmentate le aree – capezzoli, ecc. – di pigmentazione fisiologica (Addison bianco). Per il resto la sintomatologia dell’iposurrenalismo secondario a carenza di ACTH ripete in forma attenuata quella dell’iposurrenalismo primitivo: astenia, nausea, anoressia, vomito, ipotensione arteriosa. Questa situazione clinica a lenta progressione, sfumata e aspecifica può precipitare drammaticamente in una crisi di iposurrenalismo acuto in occasione di malattie infettive acute, traumi, interventi chirurgici, evidenziando l’incapacità dell’asse CRH-ACTH-surrene di rispondere adeguatamente ad un evento stressante. I disturbi del metabolismo glucidico causati dalla carenza di glucocorticoidi (ridotta neoglucogenesi, ridotta riserva di glicogeno) sono accentuati dalla concomitante carenza di GH. Pertanto l’ipoglicemia a digiuno è frequente nell’ipopituitarismo, e talora rappresenta il sintomo d’esordio della malattia. La ridotta produzione di steroidi androgeni da parte del surrene – concomitante alla carenza di gonadotropine – è responsabile, nelle pazienti di sesso femminile, della perdita dei peli pubici ed ascellari. C. Clinica. Nella sua forma classica l’ipopituitarismo ha un decorso progressivo, con iniziale carenza delle gonadotropine e successivo interessamento della secrezione di TSH, ACTH e prolattina. La carenza di
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MALATTIE ENDOCRINE
GH è costante e precoce, ma resta clinicamente occulta nei pazienti adulti. I sintomi legati alla carenza gonadotropica sono quindi di regola quelli di esordio; l’assenza di alterazioni dell’apparato sessuale (cicli normali nella donna, normalità del liquido spermatico nell’uomo) escludono in pratica un ipopituitarismo. Quando la malattia è pienamente sviluppata, come conseguenza delle carenze plurighiandolari, i pazienti ipopituitarici assumono un aspetto caratteristico che spesso già al primo impatto indirizza alla diagnosi. Il volto ha un aspetto apatico, inespressivo, con rughe sottili periorbitali e agli angoli della bocca. La cute pallida, cerea, sottile è paragonata comunemente all’alabastro. Le areole mammarie sono depigmentate, così come le altre aree di pigmentazione fisiologica, perianali e perigenitali. La rarefazione dei peli pubici e ascellari e, nell’uomo, della barba e dei baffi è progressiva e spiccata. Nell’insieme il paziente qualche volta ha l’aspetto di una persona anziana, ma più spesso di età indefinibile. Si sviluppa in genere una certa adiposità, contrariamente a quanto si è ritenuto in passato in base alla descrizione della cachessia ipofisaria fatta da Simmonds. Quando l’ipopituitarismo è dovuto ad un processo espansivo, possono associarsi sintomi neurologici (cefalea, emianopsia, ecc.), già descritti a proposito dei tumori ipofisari. Se la lesione responsabile dell’ipopituitarismo interessa anche la neuroipofisi si ha diabete insipido. La poliuria è peraltro modesta, superando raramente i 4-5 l/die, per l’iposurrenalismo concomitante. La poliuria si accentua nettamente quando l’iposurrenalismo è corretto dalla terapia sostitutiva con glucocorticoidi.
D. Esami di laboratorio. Oltre all’ipoglicemia di cui abbiamo sopra detto, è frequente rilevare un’anemia normocromica causata dalla carenza sia degli ormoni tiroidei che degli androgeni. L’iperpotassiemia caratteristica dell’iposurrenalismo primitivo è assente; può però osservarsi iponatriemia dovuta all’ipotiroidismo ed alla ritenzione di acqua. E. Diagnosi. Anche se l’anamnesi e i dati obiettivi possono fornire elementi estremamente indicativi, la diagnosi di ipopituitarismo può essere posta solo con il supporto di indagini strumentali e di dosaggi ormonali che dimostrino con sicurezza l’insufficienza ipofisaria; la diagnosi di ipopituitarismo comporta infatti per il paziente la necessità di una terapia sostitutiva complessa da continuare per tutta la vita. Le indagini diagnostiche devono essere focalizzate su due punti: • dimostrazione delle carenze endocrine; • ricerca della lesione responsabile dell’ipopituitarismo. Il dosaggio degli ormoni dell’adenoipofisi GH, LH, FSH, TSH, ACTH, PRL nel plasma sembra in questo senso l’approccio più diretto; purtroppo l’informazione che si ottiene dalla misura della concentrazione plasmatica dei vari ormoni in condizioni basali ha di per sé scarso o nullo valore diagnostico, in quanto i valori rilevati nei pazienti ipopituitarici, sebbene inferiori in media a quelli rilevati in soggetti normali, presentano ampie sovrapposizioni con essi (Fig. 56.16). La concentrazione basale degli ormoni ipofisari ha però notevole utilità se confrontata con la concentrazio-
Dati anamnestici Rilievi obiettivi indicativi di ipofunzione endocrina
Dosaggio ormoni ghiandole periferiche T4, T3, testosterone, test rapido ACTH
Normali
Non malattia endocrina
Elevati
Insufficienza primitiva ghiandole periferiche
Ridotti
Dosaggi ormoni ipofisari TSH, LH, FSH, ACTH
Normali o ridotti
Rilievi clinici e conclusioni diagnostiche
Esami ormonali e indagini strumentali
Figura 56.16 - Diagnosi di ipopituitarismo.
IPOPITUITARISMO
Test di stimolo ipotalamo-ipofisi Indagini strumentali per ricercare la lesione di base
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56 - MALATTIE IPOTALAMO-IPOFISARIE
ne degli ormoni delle rispettive ghiandole periferiche. In presenza di un’insufficienza primitiva di una ghiandola periferica, la ridotta produzione di ormoni si associa infatti, per il meccanismo di controregolazione negativa, a un’iperproduzione dell’ormone trofico ipofisario, i cui livelli circolanti sono elevati ben al di sopra dei limiti di normalità. Nell’insufficienza delle ghiandole periferiche secondaria a inadeguata stimolazione ipotalamo-ipofisaria, la riduzione dei livelli di ormoni circolanti non si associa invece all’aumento dei rispettivi ormoni trofici dell’adenoipofisi. In breve, nell’ipopituitarismo la concentrazione degli ormoni ipofisari (TSH, LH, FSH, ACTH) in circolo può sovrapporsi al range dei valori normali, ma è comunque “inappropriata” in rapporto ai ridotti livelli dei rispettivi ormoni periferici ed è pertanto indicativa di una disfunzione ipotalamo-ipofisaria. La diagnosi di ipopituitarismo deve essere confermata con l’impiego di test di stimolo atti a valutare la responsività dei vari assi ipofisari. Queste indagini dinamiche sono utili anche per indirizzare verso l’origine ipotalamica o ipofisaria dell’ipopituitarismo. Per porre la diagnosi clinica di ipopituitarismo non è comunque necessario documentare tutte le anomalie endocrine e biochimiche esistenti nell’ipopituitarismo. Devono essere scelte, per ogni asse, le procedure di provato valore diagnostico. La responsività delle cellule ipofisarie può essere saggiata impiegando i releasing hormone ipotalamici TRH, GnRH, GHRH e CRH o indirettamente con stimoli (ipoglicemia insulinica, clomifene, metopirone, ecc.) che attivano il sistema ipotalamo-ipofisario. 1. FSH, LH. In presenza di un ipogonadismo clinicamente evidente, i valori normali o bassi di LH e FSH hanno già un valore decisivo per la diagnosi di ipogonadismo ipogonadotropo. In particolare, in soggetti di sesso maschile con azoospermia e livelli ridotti di testosterone circolante il rilievo di LH e FSH non elevati è praticamente già sufficiente per la diagnosi di ipogonadismo secondario a insufficiente stimolazione. Anche nella donna in età menopausale, nella quale per l’atrofia delle gonadi i livelli di FSH e LH circolanti sono fisiologicamente elevati, il rilievo di valori di gonadotropine normali o ridotte è praticamente diagnostico. Nella donna in età fertile il problema è più complesso, perché l’amenorrea non è necessariamente dovuta a insufficiente produzione di gonadotropine, ma più spesso è causata da disturbi della ciclicità secretoria di questi ormoni. L’estradiolo circolante subisce inoltre considerevoli variazioni durante le fasi del ciclo ed ha valore limitato come indice di funzionalità ovarica. Un certo valore diagnostico può avere una netta diminuzione del testosterone circolante, che risulta ridotto nell’ipopituitarismo perché l’insufficienza ipofisaria interessa ambedue le ghiandole, ovaio e surrene, che producono l’ormone. Il test con GnRH dovrebbe teoricamente distinguere l’ipogonadismo ipogonadotropo di origine ipofisaria da quello di origine ipotalamica; così non è nella realtà, in quanto in entrambe le condizioni si possono osservare risposte delle gonadotropine normali, ridotte o esagera-
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te. Comunque, in pazienti inizialmente non responsivi, una ripresa della responsività dopo somministrazioni ripetute di GnRH è indicativa di una primitiva lesione ipotalamica. Il test con clomifene si usa per saggiare l’integrità dell’asse ipotalamo-ipofisi; il mancato incremento di LH, 5-10 giorni dopo somministrazione di clomifene, in un soggetto responsivo al GnRH, è indicativo di un difetto ipotalamico della secrezione di GnRH. 2. TSH. La misura degli ormoni tiroidei, tiroxina e T3, è sufficiente a dimostrare l’ipotiroidismo; il rilievo contemporaneo di livelli basali di TSH non elevati è fortemente indicativo di un ipotiroidismo secondario ad una disfunzione ipotalamo-ipofisaria. Il test con TRH è utile a confermare la diagnosi di ipotiroidismo secondario e a distinguere, sia pure con alcune eccezioni, le forme ipotalamiche da quelle ipofisarie: una malattia ipofisaria primitiva è caratterizzata da una ridotta o assente risposta al TRH, mentre nelle forme ipotalamiche si ha una liberazione ritardata ed esagerata di TSH. È necessario tenere presente la possibilità di un ipotiroidismo secondario, causato da secrezione di TSH biologicamente inattivo. In questi pazienti i livelli di TSH immunoreattivo circolante sono ai limiti superiori della norma o modestamente aumentati; gli altri dati clinici indirizzano verso un disordine ipotalamico responsabile della malattia. 3. ACTH. La misura del cortisolo plasmatico o urinario in condizioni basali ha scarso valore diagnostico per la diagnosi di ipocortisolismo. Per diagnosticare l’iposurrenalismo viene usato come primo approccio il test di stimolo con ACTH; il mancato aumento del cortisolo è caratteristico delle forme primitive, ma anche nelle forme secondarie a disfunzione ipotalamo-ipofisaria, per l’atrofia surrenale causata dalla cronica carenza di ACTH, la responsività del surrene è ridotta. Per dimostrare la carenza di ACTH è perciò necessario ricorrere ad uno stimolo che attivi il sistema ipotalamo-ipofisario. L’ipoglicemia insulinica induce un’attivazione stressmediata del sistema ipotalamo-ipofisario con liberazione di ACTH, GH e PRL. In alternativa può essere eseguito un test con metopirone (si veda la Tab. 58.2). Nei pazienti con iposurrenalismo secondario non si osserva alcuna risposta dell’ACTH e del cortisolo all’ipoglicemia insulinica e alla somministrazione di metopirone. L’impiego del CRH nella diagnosi dell’iposurrenalismo secondario è utile nel differenziare le carenze di ACTH di origine ipotalamica da quelle di origine ipofisaria: le prime sono caratterizzate da livelli basali ridotti di ACTH, con risposta al CRH presente, mentre nelle malattie ipofisarie la risposta dell’ACTH al CRH è ridotta o assente. 4. PRL. I valori basali di prolattina possono essere elevati in presenza di tumori o di lesioni che, interferendo con il ciclo portale, riducono o bloccano il trasporto di PIF all’ipofisi. Nei pazienti con ipopituitarismo, si può avere una ridotta risposta della PRL a vari stimoli: TRH, dopamino-antagonisti, ipoglicemia insulinica.
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MALATTIE ENDOCRINE
5. GH. La misura del GH in condizioni basali non è sufficiente a dimostrare una condizione di carente produzione di GH, che può essere diagnosticata solo in presenza di una ridotta o assente risposta a vari stimoli: ipoglicemia insulinica, arginina, L-dopa. La normale responsività del GH al “releasing factor” specifico (GHRH) in pazienti non responsivi all’ipoglicemia insulinica viene considerata indicativa di una malattia ipotalamica primitiva. 6. Ricerca della causa dell’ipopituitarismo. Poiché, nella maggioranza dei casi, l’ipopituitarismo è causato da tumori o da lesioni a carattere espansivo della regione ipotalamo-ipofisaria, le indagini neuroradiologiche, già discusse nel paragrafo relativo ai tumori ipofisari, rappresentano un supporto indispensabile per lo studio di questi pazienti. Il dato anamnestico dell’emorragia massiva durante il parto è essenziale per la diagnosi di necrosi ipofisaria; è utile ricordare che possono passare anni tra il parto e la diagnosi di ipopituitarismo. Prima di porre diagnosi di ipopituitarismo idiopatico si devono sistematicamente escludere le cause di ipopituitarismo riportate nella tabella 56.8. F. Cenni di terapia. La terapia ha due obiettivi: • curare la malattia che ha causato l’ipopituitarismo; • correggere le carenze ormonali mediante terapia sostitutiva, da continuare indefinitamente. Per ragioni di praticità si preferisce sopperire alla carenza di ACTH e TSH somministrando gli ormoni delle ghiandole bersaglio: corticosteroidi glicoattivi e ormoni tiroidei. La somministrazione di steroidi mineraloattivi non è necessaria. Per quanto riguarda l’ipogonadismo, la terapia sostitutiva può essere effettuata con steroidi gonadici oppure con gonadotropine a seconda dell’intento che si vuole raggiungere. Testosterone nell’uomo ed estrogeni nella donna sono usati in pazienti adulti nei quali si vuole solo ripristinare la libido, la potenza e i caratteri sessuali secondari. Le gonadotropine sono invece usate:
a) nel maschio per indurre la crisi puberale o per indurre e mantenere la spermatogenesi in soggetti giovani, in cui oltre alla libido e alla potenza sessuale si vuole conservare la possibilità di procreare; b) nelle donne le gonadotropine sono usate solo per indurre l’ovulazione. Il GnRH somministrato in forma pulsatile può sostituire le gonadotropine. Alla carenza di GH si può ovviare solo con l’impiego di somatotropina umana.
IPOPITUITARISMI PARZIALI O SETTORIALI Nanismo ipofisario A. Eziopatogenesi. Il nanismo ipofisario è un disturbo dell’accrescimento, ben caratterizzato sul piano semeiologico, causato da un’insufficiente stimolazione dell’apparato scheletrico da parte dell’ormone somatotropo. Può essere dovuto ad una serie di situazioni morbose, che possono essere raggruppate in: • disordini dei meccanismi nervosi e ormonali che regolano la secrezione di GH; • ridotta produzione di GH per malattia ipofisaria primitiva; • difetto dell’utilizzazione periferica del GH per ridotta sintesi di somatomedine (Tab. 56.9). I tumori ipotalamici e ipofisari, i processi infiltrativi ed altre lesioni riportate nella tabella provocano in genere oltre alla carenza di GH anche quella degli altri ormoni ipofisari, e quindi un ipopituitarismo globale. I disturbi dell’accrescimento GH-dipendenti non sono rari, l’incidenza è calcolata intorno a 1:5000. Il nanismo da carenza congenita idiopatica di GH è la forma di gran lunga più frequente; ad esso faremo riferimento nella descrizione del nanismo ipofisario. Sono note una forma sporadica e una forma familiare a trasmissione autosomica recessiva, responsabile del 5-10%
Tabella 56.9 - Nanismi GH-dipendenti. DIFETTO DI BASE
SEDE ANATOMICA DEL DIFETTO
Ridotta stimolazione ipotalamica (carenza GHRH, disordine della regolazione neuroendocrina)
SNC-ipotalamo
Ridotta produzione
Ipofisi
Difetto di utilizzazione periferica
Fegato (ridotta sintesi di somatomedine)
FORME CLINICHE Congenite • Carenza idiopatica di GH sporadica-familiare • Malformazioni del SNC Acquisite • Tumori, traumi, processi infiltrativi, carenza affettiva (nanismo psicosociale) Tumori ipofisari Displasie Produzione di GH biologicamente inattivo Nanismo di Laron (elevati livelli di GH e ridotta produzione di somatomedine) Pigmei (normali livelli di GH; ridotta produzione di somatomedina C, normale produzione di somatomedina A)
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dei casi. La forma sporadica è statisticamente correlata con il parto podalico. Il recente impiego del GHRH sembra dimostrare l’origine ipotalamica della malattia. Nei pazienti con nanismo da deficit idiopatico di GH non si ha liberazione di GH da ipoglicemia insulinica, mentre si ha un aumento, talora spiccato, del GH circolante dopo iniezione del releasing hormone ipotalamico (GHRH). La liberazione di GH dopo GHRH indica la presenza nell’ipofisi di cellule produttrici di ormone somatotropo funzionanti, mentre la mancata risposta all’ipoglicemia è indicativa di una deconnessione ipotalamo-ipofisaria per difetto di sintesi e/o di secrezione di GHRH endogeno. In breve, nella maggior parte dei casi, il nanismo da deficit idiopatico di GH sembra causato da un disordine della regolazione neuroendocrina della secrezione di GH, piuttosto che da una carenza assoluta dell’ormone. In circa il 33% dei casi la carenza di GH è isolata, negli altri si associa a un deficit di gonadotropine e/o di altri ormoni ipofisari. La carenza di gonadotropine si manifesta con mancata maturazione sessuale dei pazienti. La carenza di ACTH provoca gravi crisi ipoglicemiche già in periodo neonatale. B. Fisiopatologia. Le conseguenze della carenza congenita di GH sono particolarmente evidenti a livello dello scheletro. Lo sviluppo scheletrico è caratterizzato da un ritardo di comparsa e di maturazione dei nuclei di accrescimento epifisari e da un rallentato accrescimento dell’osso a livello delle cartilagini di coniugazione.
C. Clinica. Le dimensioni e il peso corporeo sono normali alla nascita. Il ritardo dell’accrescimento si fa evidente solo intorno al 2°-3° anno di vita. Se non si interviene con l’opportuna terapia, il paziente assume, negli anni successivi, l’aspetto tipico del nano ipofisario (Fig. 56.17). Il nanismo ipofisario è caratterizzato dal mantenimento delle normali proporzioni corporee (nanismo armonico). Lo sviluppo scheletrico avviene infatti in modo proporzionato anche se non corrispondente all’età cronologica del paziente. Le mani e i piedi possono essere estremamente piccoli (acromicria). Il volto mantiene un aspetto infantile, spesso è rotondeggiante, per una certa adiposità che interessa anche l’addome e i fianchi. Col progredire dell’età compaiono intorno agli occhi e agli angoli della bocca numerose rughe sottili che conferiscono al volto del paziente un aspetto anziano, che contrasta in modo grottesto con la struttura corporea infantile. La voce mantiene i toni alti propri dell’adolescenza. Lo sviluppo psichico e l’intelligenza sono proporzionati all’età cronologica durante l’infanzia e l’adolescenza, successivamente il paziente presenta, rispetto ai coetanei, un certo grado di infantilismo psichico. Compaiono poi quasi invariabilmente disturbi psichici legati alle grosse difficoltà di inserimento nell’ambiente sociale, che il paziente incontra a causa del suo aspetto infantile. Se il deficit è limitato al GH, la pubertà è ritardata, ma lo sviluppo sessuale è normale. Viceversa, nelle forme in cui coesiste un deficit delle gonadotropine, al nanismo si associa infantilismo sessuale. 125
Livello della sinfisi pubica
75
altezza, cm
100
50
25
Normale 2 anni
Ipotiroideo 8 anni
Ipopituitarico 8 anni
Normale 8 anni
Figura 56.17 - Nano ipopituitarico. Rappresentazione schematica dello sviluppo somatico di un nano ipopituitarico in confronto con due soggetti normali e un nano ipotiroideo. Mentre le proporzioni dei segmenti corporei del nano ipotiroideo sono infantili, con prevalenza del tronco rispetto agli arti, il nano ipopituitarico ha proporzioni simili a quelle di un soggetto che ha la sua stessa età cronologica. (Modificata da Wilkins, 1966.)
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La carenza di GH provoca una tendenza all’ipoglicemia che assume rilevanza clinica particolare nei casi in cui è associata a deficit di ACTH. Esami radiologici. L’esame radiologico dello scheletro dimostra un ritardo di comparsa dei nuclei di accrescimento epifisari che corrisponde grossolanamente all’età staturale del paziente, ma non a quella cronologica. D. Diagnosi. Il ritardo della crescita da carenza di GH viene differenziato dal ritardo costituzionale della crescita mediante lo studio della responsività del GH a vari stimoli fisiologici (pulsatilità durante il sonno, sforzo fisico, GHRH) e farmacologici (ipoglicemia insulinica, arginina, clonidina, ecc.). Nelle forme da carenza di GH si osserva una responsività assente o ridotta del GH agli stimoli. Tuttavia esiste qualche discordanza sui criteri da adottare per porre correttamente la diagnosi di ritardo della crescita da deficit di GH. Innanzitutto non esiste un generale consenso sul valore di GH che deve essere raggiunto per considerare una risposta normale. Tradizionalmente si considera adeguata una risposta quando la concentrazione di GH raggiunge almeno 6-8 ng/ml. Comunque tali valori numerici sono posti arbitrariamente sia perché la sensibilità dei metodi varia notevolmente da un laboratorio all’altro, sia perché le risposte del GH agli stimoli provocativi formano uno spettro continuo: tra l’assenza di risposta e le risposte normali si rileva infatti una serie di risposte subnormali che indicano verosimilmente una carenza parziale di GH. Alcuni studiosi considerano la misura della secrezione pulsatile di GH nelle ore notturne il test più valido per la diagnosi di carenza di GH; la sua esecuzione presenta peraltro difficoltà di ordine pratico evidenti. Anche il dosaggio della somatomedina C plasmatica in condizioni basali riveste valore diagnostico. Non tanto in senso positivo, in quanto livelli subnormali di somatomedina C possono essere presenti oltre che in pazienti con deficit di GH anche in altre condizioni morbose (come l’ipotiroidismo, le sindromi malnutritive ed altre malattie croniche) ed anche in soggetti normali nei primi anni di vita, quanto per escludere il deficit di GH. Il rilievo di una normale concentrazione di somatomedina C circolante in soggetti al di sopra dei 6 anni escluderebbe infatti la presenza di una grave carenza di GH. Nei pazienti nei quali si è dimostrata una carenza di GH, deve essere saggiata la funzionalità degli altri assi ipofisari per differenziare la carenza idiopatica isolata di GH dalla carenza di GH espressione di ipopituitarismo globale. In tal senso è indispensabile anche lo studio neuroradiologico della regione sellare e sovrasellare per escludere che l’ipopituitarismo sia dovuto a tumore. Il test con GHRH può essere utilizzato per distinguere le forme di origine ipotalamica da quelle primitivamente ipofisarie; nelle prime la somministrazione di GHRH provoca liberazione in circolo di GH, al contrario nelle seconde la somministrazione, anche ripetuta, di GHRH non induce liberazione di GH.
MALATTIE ENDOCRINE
E. Cenni di terapia. L’unico trattamento del nanismo ipofisario, di documentata efficacia, è quello sostitutivo con GH umano. I prodotti usati sino a pochi anni fa erano di tipo estrattivo, ottenuti da ipofisi umane. Un più efficace approccio alla terapia dei difetti di accrescimento GH-dipendenti è attualmente offerto dal GH biosintetico, ottenuto mediante le tecniche del DNA ricombinante.
Ipogonadismo ipogonadotropo, eunucoidismo ipogonadotropo, sindrome di Kallmann L’ipogonadismo secondario a carenza isolata di gonadotropine è condizione clinica non rara; rappresenta, con la sindrome di Klinefelter, la causa più frequente di ipogonadismo nel maschio (Fig. 56.18). L’ipogonadismo è causato da un difetto congenito della secrezione di ambedue le gonadotropine, LH e FSH. Sono interessati entrambi i sessi. Si ritiene che la carente secrezione di gonadotropine sia secondaria ad una disfunzione ipotalamica caratterizzata da una ridotta o disordinata secrezione di GnRH. Anche se non esistono prove dirette in tal senso, vale a dire misure del GnRH nel circolo portale ipofisario, un supporto indiretto all’origine ipotalamica della malattia è fornito dal rilievo che la somministrazione del GnRH stimola la secrezione di LH e FSH in questi malati. Inoltre la somministrazione di piccole dosi di GnRH in forma pulsatile, in modo tale da simulare la fisiologica pulsatilità secretoria del-
Figura 56.18 - Paziente affetto da ipogonadismo ipogonadotropo. Si nota la struttura eunucoide dello scheletro con abnorme lunghezza degli arti rispetto al tronco, l’ipoplasia dei genitali e delle gonadi, la scarsità dei peli pubici. (Da J. Hazard, 1981.)
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l’ormone, si è recentemente dimostrata un mezzo terapeutico di grande efficacia nel correggere l’ipogonadismo ipogonadotropo. Alternativamente è stata segnalata la possibilità che l’ipogonadismo sia causato da alterazioni strutturali della molecola del LH per mutazione del gene codificante per la subunità . L’ipogonadismo ipogonadotropo può comparire in forma sporadica oppure come un disordine genetico. La sindrome di Kallmann è una malattia familiare che può essere trasmessa in modo geneticamente eterogeneo: attraverso il cromosoma X con carattere dominante a penetranza incompleta oppure attraverso un “trait” autosomico dominante con espressione fenotipica variabile. La mutazione genetica di gran lunga più frequente è rappresentata dalla delezione di un gene specifico (KALIG-1), posto sul braccio corto del cromosoma X, che condiziona la mancata migrazione, durante la vita fetale, sia dei neuroni GnRH-secernenti sia di quelli del tratto olfattorio dalla loro sede di origine (la placca olfattoria è una struttura ectodermica localizzata nell’embrione al di fuori del SNC) a quella definitiva, con conseguente assenza dei neuroni GnRH-secernenti nel sistema nervoso e in particolare nella regione ipotalamica, e da agenesia o ipoagenesia del bulbo e dei tratti olfattori. Clinicamente, la sindrome di Kallmann è caratterizzata da ipogonadismo ipogonadotropo e anosmia. Possono essere associate malformazioni somatiche, quali labbro leporino, palato ogivale, criptorchidismo, agenesia renale unilaterale, e deficit neurologici come disfunzioni cerebellari, paraplegia spastica, ritardo mentale e cecità per i colori. A. Clinica. La carenza di gonadotropine si manifesta clinicamente solo in età puberale, con mancato sviluppo dei genitali e delle gonadi e mancata comparsa dei caratteri sessuali secondari. Nel maschio il pene e le gonadi mantengono un aspetto infantile; non compaiono né peli, né barba. Raramente si sviluppa ginecomastia. Nella donna non compaiono i cicli, non si ha sviluppo mammario, né comparsa di peli pubici. Poiché il GH è normalmente secreto dall’ipofisi e le cartilagini di coniugazione epifisaria non sono saldate, come fisiologicamente avviene in età puberale, si ha un progressivo abnorme allungamento degli arti che conferisce al paziente il tipico aspetto eunucoide (Fig. 56.18). Alle manifestazioni cliniche classiche da carenza di gonadotropine possono sovrapporsi altri segni clinici quando il processo morboso interessa, oltre ai nuclei che producono GnRH, altre aree ipotalamiche che regolano funzioni vegetative. Oltre alla sindrome di Kallmann sono note alcune forme cliniche particolari di ipogonadismo ipogonadotropo. 1. Sindrome di Laurence-Moon-Biedl: ipogonadismo, ritardo della crescita, ritardo mentale, obesità, polidattilia, degenerazione pigmentosa della retina. 2. Sindrome di Prader-Willi: ipogonadismo, iperfagia, obesità, ipotonia muscolare, ritardo mentale, elevata incidenza di diabete mellito.
3. Sindrome di Frölich o distrofia adiposo-genitale: ipogonadismo, obesità spiccata (causata da tumori e processi infiltrativi che ledono l’eminenza mediana e i nuclei ventromediali dell’ipotalamo). 4. Sindrome cerebellare familiare: ipogonadismo, atassia cerebellare, sordità neurogena, abnorme brevità del IV metacarpo. 5. Eunucoidismo fertile (carenza isolata di LH): maschi con aspetto eunucoide, assenza dei caratteri sessuali secondari, ginecomastia, oligospermia. B. Diagnosi. Poiché l’età dello sviluppo puberale può variare notevolmente da un soggetto all’altro, l’ipogonadismo ipogonadotropo non deve essere confuso con una pubertà ritardata. Essenziale per la diagnosi l’associazione di ipogonadismo con livelli plasmatici di LH e FSH normali-ridotti. Caratteristiche la responsività al GnRH e la mancata risposta al clomifene, come già descritto nella diagnosi del panipopituitarismo. C. Cenni di terapia. Nei maschi, la terapia con gonadotropina corionica (HCG), ad azione prevalentemente LH-simile, e con gonadotropine estratte da urine di donna in menopausa (HMG), ad azione prevalentemente FSH-simile, induce lo sviluppo puberale e la spermatogenesi. Nella donna, per indurre la maturazione sessuale si somministrano estrogeni. Con l’impiego delle gonadotropine si può indurre l’ovulazione; questa terapia è riservata a centri specializzati e limitata al periodo in cui la paziente vuole concepire. La somministrazione di GnRH sintetico in forma pulsatile fornisce attualmente un’alternativa considerata da alcuni preferibile all’uso delle gonadotropine.
Iposurrenalismo da carenza isolata di ACTH Si tratta di una condizione morbosa rara. L’ipoglicemia è la manifestazione clinico-metabolica più frequente. Oltre ai segni propri dell’iposurrenalismo in questa forma sono state occasionalmente osservate perdita di capelli e iponatriemia. La carenza isolata di ACTH non è comunque distinguibile sul piano semeiologico-clinico dalle altre forme di insufficienza corticosurrenale. La diagnosi è pertanto possibile solo mediante indagini ormonali di tipo dinamico, ed è essenzialmente basata sul rilievo di una mancata risposta dell’ACTH agli stimoli che agiscono sull’ipotalamo-ipofisi (ipoglicemia insulinica, metopirone) con normale responsività degli altri ormoni dell’adenoipofisi. Recentemente è stato osservato che gli stimoli (CRF, lisin-vasopressina) che agiscono direttamente sulle cellule corticotrope ipofisarie inducono, in una parte dei pazienti, liberazione di ACTH. Sembra pertanto che la carenza isolata di ACTH possa essere dovuta ad una malattia primitiva dell’ipofisi oppure possa essere secondaria ad un’alterazione ipotalamica.
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MALATTIE ENDOCRINE
ANORESSIA NERVOSA L’anoressia nervosa è una malattia che colpisce quasi esclusivamente giovani donne in età puberale o in genere al di sotto dei 25 anni, caratterizzata da anoressia con rifiuto ostinato del cibo, grave dimagramento e amenorrea. Benché si ritenga oggi concordemente che la malattia abbia un’origine psicogena, la trattazione in questa sede è giustificata dalle alterazioni endocrine che accompagnano la malattia. A. Alterazioni endocrine. Le alterazioni endocrine osservate nell’anoressia nervosa sono indicative di una disfunzione ipotalamica, tuttavia esse non sono specifiche, ma in gran parte sovrapponibili a quelle osservate in altre condizioni di estremo dimagramento. Inoltre sono reversibili se la paziente riprende a nutrirsi e riacquista peso. Le alterazioni del sistema ipotalamo-gonadotropine rivestono il maggior interesse dal punto di vista clinico e biologico. Sul piano clinico provocano amenorrea, senza perdita dei caratteri sessuali secondari. La persistenza e l’evidenza dei peli pubici ed ascellari, associata talora a lanugo diffusa, rappresenza anzi un elemento semeiologico caratteristico che deve essere valorizzato nella diagnosi differenziale con l’ipogonadismo ipogonadotropo di origine ipofisaria. Sul piano fisiopatologico le alterazioni della secrezione gonadotropinica sono caratterizzate da una “regressione” (o da un “arresto” nelle pazienti adolescenti) della regolazione del sistema ipotalamo-gonadotropine all’epoca puberale. La concentrazione in circolo di LH è diminuita e quella di FSH è ai limiti inferiori della norma, con aumento del rapporto FSH/LH. La pulsatilità secretoria di LH, propria della donna in età fertile, è sostituita da variazioni legate al ritmo sonno-veglia, come è appunto caratteristico dell’epoca puberale. Anomala è pure la risposta delle gonadotropine alla somministrazione di GnRH, con ridotta liberazione di LH e liberazione di FSH tardiva ed esagerata, simile a quella che si ha in età puberale. In alcune pazienti si ha anche perdita del meccanismo di controregolazione positivo degli estrogeni, con mancata risposta alla somministrazione di clomifene. La “regressione” della regolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi provoca anovulazione e formazione, a livello ovarico, di cisti follicolari multiple, con un quadro anatomo-funzionale ed immagini ecografiche sovrapponibili a quelle osservabili in epoca puberale. Questa “regressione” della secrezione gonadotropinica ha un’importanza relativa sul piano clinico-diagnostico, ma riveste un notevole interesse su quello biologico. Secondo l’ipotesi di Frisch e Revelle, il menarca coinciderebbe con il raggiungimento di un “peso critico” e di un “critico rapporto tra tessuto adiposo e peso corporeo”. Il raggiungimento di questi livelli critici rappresenterebbe il momento scatenante dei fenomeni puberali at-
traverso un incremento del metabolismo degli steroidi a livello del tessuto adiposo e una modificazione della responsività ipotalamica agli steroidi gonadici. Nelle pazienti con anoressia nervosa la riduzione del peso e della massa del tessuto adiposo al di sotto dei “livelli critici” provocherebbe la “regressione” della regolazione secretoria delle gonadotropine secondo le modalità proprie delle prime fasi della pubertà. Nell’anoressia nervosa possono essere evidenziate numerose altre alterazioni endocrino-metaboliche, talora chiaramente legate a modificazioni del metabolismo periferico degli ormoni in assenza di dimostrabili alterazioni dei sistemi di controllo ipotalamo-ipofisario. Raramente sono di entità tale da avere rilevanza sul piano clinico. I livelli plasmatici di cortisolo tendono ad essere elevati, con riduzione delle variazioni circadiane in circa il 50% delle pazienti. L’ipercortisolemia non è causata da un’aumentata produzione, ma da un rallentamento dei processi di eliminazione (aumento dell’emivita e diminuzione della velocità di clearance metabolica); è corretta dalla somministrazione di T3. I livelli di ACTH sono normali; normale è la risposta al metopirone; la responsività all’ipoglicemia insulinica è conservata. I livelli basali di GH sono talora elevati probabilmente in rapporto alla tendenza all’ipoglicemia di queste pazienti. Possono osservarsi una risposta aspecifica del GH al TRH e al GnRH e un aumento paradosso dopo la somministrazione di glucosio. Non sono descritte rilevanti alterazioni della secrezione di prolattina. I livelli di TSH sono normali; la risposta del TSH al TRH è normale o ridotta; spesso è ritardata come si osserva nelle malattie ipotalamiche. La concentrazione di T4 è in genere normale, quella di T3 è spesso ridotta con aumento del reverse T3 (biologicamente inattivo). Questo assetto ormonale, caratteristico della “euthyroid sick syndrome”, ha lo scopo, grazie alla minor formazione di T3, di regolare ad un livello più basso il metabolismo energetico nel tentativo di compensare il ridotto apporto di sostanze alimentari. In circa un terzo dei casi è presente un diabete insipido parziale che può essere corretto con la somministrazione di ADH. B. Diagnosi. I segni clinici di ordine generale (ipotensione, ipotermia, ipokaliemia, anemizzazione) non differiscono in modo sostanziale da quelli osservabili in altre condizioni di cronica inanizione. La diagnosi è quindi basata da un lato sull’età, il sesso del paziente e l’atteggiamento distorto nei riguardi di tutto quanto riguarda l’alimentazione e il peso corporeo, dall’altro sulla rigorosa esclusione di ogni malattia organica cachettizzante. C. Cenni di terapia. La terapia è prevalentemente di ordine psichiatrico e presenta notevoli difficoltà anche in mani esperte. Nei casi gravi è indispensabile nutrire la paziente attraverso una sonda nasogastrica e/o per via parenterale, provvedendo a correggere gli eventuali squilibri elettrolitici, l’anemia, le carenze vitami-
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niche. Irrilevanti sul decorso della malattia sono gli interventi terapeutici con mezzi farmacologici: antiserotoninici, steroidi anabolizzanti. La somministrazione di ormoni (estroprogestinici ed altri) trova scarso supporto nelle conoscenze fisiopatologiche e non ha alcuna utilità pratica.
MALATTIE DELLA NEUROIPOFISI Cenni di fisiopatologia Gli ormoni secreti dalla neuroipofisi umana sono l’arginin-vasopressina (AVP), o ormone antidiuretico (ADH), e l’ossitocina. I due ormoni, assai simili strutturalmente, sono formati da una catena di 9 aminoacidi, 6 dei quali legati da un ponte disolfurico, e formano un anello cui è annessa una catena laterale di 3 aminoacidi. Nei neuroni del sistema ipotalamo-neuroipofisi, oltre alla vasopressina e all’ossitocina vengono sintetizzate le neurofisine, due polipeptidi a catena singola con peso molecolare di circa 10.000. Una delle neurofisine si trova esclusivamente nei granuli contenenti vasopressina e l’altra in quelli contenenti ossitocina. Le neurofisine non sembrano possedere azioni biologiche proprie. Si legano ai due ormoni della neuroipofisi per formare complessi insolubili che vengono immagazzinati in granuli. Le neurofisine non possono neppure essere considerate delle proteine vettrici; infatti, le neurofisine sono secrete legate ai rispettivi ormoni, ma una volta in circolo, il complesso neurofisinaormone viene rapidamente e completamente scisso (Fig. 56.19).
A. Vasopressina o ormone antidiuretico. 1. Regolazione della secrezione di ADH. La secrezione di vasopressina è influenzata da svariati fattori (Tab. 56.10). • In condizioni fisiologiche la pressione osmotica dei liquidi corporei rappresenta il principale fattore di regolazione della secrezione di ADH. Le variazioni di ADH in rapporto all’osmolarità sono mediate dagli osmorecettori, cellule nervose situate nell’ipotalamo anteriore, in continuità con i nuclei sovraottico e paraventricolare, che hanno la caratteristica peculiare di essere attivate da modificazioni del volume cellulare causate da variazioni dell’osmolarità. Gli osmorecettori hanno una soglia di circa 280 mOsm/kg; al di sopra di questo valore sono sensibili a piccole variazioni dell’osmolarità. Pertanto il sistema di osmoregolazione risponde con grande precisione a variazioni anche modeste, dell’ordine dell’1% dell’osmolarità. Quando l’osmolarità del plasma aumenta, aumentano anche i livelli di ADH; al contrario quando l’osmolarità diminuisce al di sotto del valore “soglia” la vasopressina è completamente soppressa con valori plasmatici indosabili. La sensibilità degli osmorecettori non è la stessa per tutti i soluti presenti nel plasma; è massima per i sali di sodio che in condizioni normali contribuiscono per oltre il 95% alla pressione osmotica effettiva del plasma; è assai scarsa per il glucosio e l’urea. Pertanto l’infusione di soluzioni ipertoniche di urea o glucosio provoca una minima o assente liberazione di vasopressina. Il meccanismo che permette agli osmorecettori di distinguere tra i Tabella 56.10 - Fattori che regolano la secrezione di vasopressina (AVP). Fattori di regolazione fisiologica, osmotici ed emodinamici • Stimolo • Inibizione – Aumento dell’osmolarità – Diminuzione – Diminuzione della volemia dell’osmolarità – Diminuzione della pressione – Aumento della volemia arteriosa
SECREZIONE DI ADH Osmolarità plasmatica
Dolore, stress Ach
NSO NPV
NC Ix, x
Osmorecettori Tratto neuroipofisario
Recettori venosi atrio sinistro
Recettori arteriosi arco aortico
Ipofisi posteriore
Capillare del circolo sistemico
Figura 56.19 - Regolazione secretoria dell’ADH. Si veda il testo per la descrizione dettagliata. NSO = nucleo sovraottico; NPV = nucleo paraventricolare; NC = nervo cranico; Ach = acetilcolina.
Controllo neurogeno • Stimolo – Nausea, stress emotivi, dolore
• Inibizione – Ingestione acuta di alcool
Farmaci che agiscono direttamente sulla secrezione di AVP • Stimolo – Vincristina, ciclofosfamide – Carbamazepina, barbiturici – Morfina ed oppiacei, clorpropamide, nicotina, -stimolanti
• Inibizione – Fenitoina, – -adrenergici
Farmaci che modificano le risposte renali all’AVP • Stimolo – Clorpropamide, biguanidi, indometacina
• Inibizione – Litio, demetilclortetraciclina, etossiflurano
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vari soluti non è del tutto noto; secondo l’ipotesi originale di Verney, le membrane cellulari degli osmorecettori avrebbero una permeabilità selettiva per alcune molecole: sarebbero impermeabili ai sali di sodio e permeabili all’urea. In presenza di iperosmolarità extracellulare indotta da soluti che non penetrano nelle cellule, gli osmorecettori raggiungono l’equilibrio osmotico con i tessuti circostanti mediante un passaggio di acqua dall’interno della cellula allo spazio extracellulare. La riduzione del volume cellulare che ne consegue rappresenterebbe lo stimolo per la liberazione di vasopressina. • La secrezione di vasopressina è regolata anche da variazioni della volemia e della pressione arteriosa. Questi effetti sono mediati da fibre nervose afferenti che partono da pressocettori (o barocettori) e raggiungono il sistema nervoso centrale attraverso il nervo vago e il glossofaringeo. Sono stati evidenziati pressocettori per le basse pressioni localizzati nel circolo venoso (atrio sinistro, grossi tronchi venosi, circolo polmonare) e pressocettori per le alte pressioni localizzati nel circolo arterioso (arco aortico, seno carotideo). I pressocettori venosi sono principalmente stimolati dalla tensione delle pareti vasali e vengono denominati anche “tensocettori” o “recettori di volume”; sono stimolati da diminuzioni modeste del volume dei fluidi extracellulari. Una diminuzione della volemia pari o superiore al 7% è sufficiente a stimolare i tensocettori e attivare il sistema volemia-vasopressina con liberazione di ADH. I pressocettori ad alta pressione dell’arco aortico hanno una sensibilità minore di quelli situati nel circolo venoso, sono stimolati solo quando la pressione arteriosa diminuisce in modo rapido e cospicuo. L’ipotensione da emorragia massiva rappresenta il più potente stimolo alla liberazione di vasopressina. L’AVP raggiunge livelli plasmatici estremamente elevati e, oltre all’effetto antidiuretico, causa una spiccata vasocostrizione, che probabilmente ha un ruolo nel ripristino della pressione arteriosa. • Al di fuori del meccanismo osmotico e di quello emodinamico, la secrezione di ADH è regolata da stimoli nervosi che agiscono sull’ipotalamo. L’acetilcolina sembra essere il neuromodulatore che connette le vie nervose al nucleo sovraottico che secerne ADH. La nausea, gli stress emotivi, il dolore inducono liberazione di ADH attraverso meccanismi che coinvolgono i centri nervosi sovraipotalamici. Anche le -endorfine sembrano giocare un ruolo nella regolazione fisiologica della secrezione di ADH. • Una numerosa serie di farmaci stimola la secrezione di ADH: farmaci colinergici, -stimolanti, nicotina, barbiturici, vincristina, carbamazepina ed altri (Tab. 56.10). 2. Funzioni fisiologiche della vasopressina. La principale funzione fisiologica della vasopressina è quella di conservare il contenuto di acqua nei tessuti corporei mediante riduzione dell’eliminazione di acqua con le urine. L’azione antidiuretica si esplica a livello dei dotti collettori del rene dove la vasopressina, legandosi a recettori specifici (recettori V2), provoca riassorbimento di acqua, aumentando la permeabilità delle cellule dei dotti,
MALATTIE ENDOCRINE
in modo tale da permettere il passaggio di acqua dal lume dei dotti all’interstizio ipertonico delle piramidi renali. Nei primati, e probabilmente nell’uomo, la vasopressina non agisce a livello del tubulo distale. Con questo effetto sul riassorbimento dell’acqua l’ADH contribuisce a mantenere costante l’osmolarità ed il volume dei liquidi corporei in condizione di disidratazione. La vasopressina ha anche effetti extrarenali a livello dei vasi, dove, legandosi a recettori di diversa natura (recettori V1), esercita un effetto pressorio (di qui il suo nome), del tratto gastroenterico e del sistema nervoso. La concentrazione di vasopressina circolante necessaria per stimolare questi sistemi è assai più elevata di quella presente in circolo in condizioni fisiologiche. È tuttavia probabile che in alcune condizioni patologiche lo spiccato aumento della secrezione di vasopressina, indotto per esempio dall’ipotensione da emorragia massiva o dalla nausea, possa avere un ruolo nel provocare vasocostrizione arteriolare o aumentare la motilità gastrointestinale. Le osservazioni sugli effetti dell’AVP sull’attività cerebrale hanno trovato un substrato neuroanatomico in recenti ricerche. Gli assoni delle cellule dei nuclei sovraottico e paraventricolare non terminano solo nella neuroipofisi, ma in parte nell’eminenza mediana in stretta prossimità dei vasi portali e in parte nel pavimento del III ventricolo. AVP e ossitocina sono pertanto secrete nel circolo sistemico, in quello portale e nel liquor. L’ADH che giunge, attraverso il liquor, nell’encefalo sembra possa rivestire un ruolo nei processi di apprendimento e memorizzazione che sono stimolati dalla vasopressina. L’ADH liberato dalle fibre che terminano nell’eminenza mediana interferisce con i meccanismi che regolano la secrezione di ACTH, di cui l’AVP è un potente stimolatore. B. Ossitocina. La principale azione fisiologica dell’ossitocina è quella di stimolare le cellule mioepiteliali dei dotti mammari: l’ormone provoca, nelle mammelle in stato di lattazione, una contrazione di queste cellule con eiezione del latte dai dotti ai seni mammari e da qui al capezzolo. L’ossitocina stimola anche la contrazione della muscolatura liscia dell’utero. Nell’ultimo periodo della gravidanza la responsività della muscolatura uterina all’ossitocina aumenta e l’ormone esercita un importante ruolo nell’indurre e nel mantenere il travaglio.
DIABETE INSIPIDO Il diabete insipido è una malattia caratterizzata da intensa poliuria, con urine a basso peso specifico, causata da un ridotto assorbimento di acqua a livello dei dotti collettori del rene. Sete e polidipsia sono le altre caratteristiche del diabete insipido. A. Eziopatogenesi. Il diabete insipido può essere causato da un’insufficiente secrezione di ADH per una affezione dell’ipotalamo o della neuroipofisi o da una
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anomalia primitiva dei tubuli renali che sono insensibili all’azione dell’ADH. Si distinguono pertanto: • diabete insipido ipotalamico, o centrale, o neurogenico o vasopressina-sensibile; • diabete insipido nefrogenico o vasopressina-resistente. Il diabete insipido centrale può essere idiopatico o sintomatico. In questa seconda eventualità la carenza di ADH può essere provocata da lesioni di varia natura che colpiscano il nucleo sovraottico e/o il tratto sovraottico ipofisario (Tab. 56.11). Sono frequentemente in causa tumori, come il craniofaringioma, che originano primitivamente nell’ipotalamo. Poiché una parte degli assoni dei neuroni nel nucleo sovraottico termina nell’eminenza mediana senza raggiungere la neuroipofisi, gli adenomi ipofisari intrasellari non provocano di norma diabete insipido. Tuttavia gli adenomi ad estensione extrasellare possono provocare diabete insipido quando interessino il peduncolo e le fibre del tratto sovraottico ipofisario in maniera abbastanza estesa da provocare lesioni degenerative ascendenti dei neuroni del nucleo sovraottico. Anche i tumori metastatici, localizzati nell’ipotalamo, possono provocare diabete insipido. Alcuni processi granulomatosi ed infiltrativi dell’ipotalamo, come la sarcoidosi o l’istiocitosi, possono provocare diabete insipido centrale. Prima dell’avvento della microchirurgia per via transfenoidale, la chirurgia dell’ipofisi rappresentava la causa più frequente di diabete insipido centrale. Attualmente la forma più comune di diabete insipido centrale è quella idiopatica, che può comparire in forma sporadica o familiare. Quest’ultima è trasmessa Tabella 56.11 - Principali cause di diabete insipido centrale %. • Idiopatico – Insufficienza primitiva degli osmorecettori
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• Tumori – Craniofaringioma – Tumori ipofisari – Pinealomi – Metastasi di carcinoma
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• Processi granulomatosi e infiammatori della regione ipotalamo-ipofisaria – Sarcoidosi – Istiocitosi X (morbo di Hand-Schüller-Christian) – Esiti di encefalite e meningite – Meningite tubercolare – Sifilide • Lesioni vascolari – Trombosi arteriose – Aneurismi
5
4
• Traumi cranici
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• Terapia chirurgica dell’ipofisi
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Le frequenze percentuali sono tratte da uno studio su 100 pazienti affetti da diabete insipido stabilizzato giunti consecutivamente all’osservazione di D.H.P. Streeten et al. all’Upstate Medical Center, Syracuse, New York.
con modalità autosomica dominante e si manifesta già nella prima infanzia. Nell’ipotalamo di pazienti con diabete insipido idiopatico si evidenzia una spiccata riduzione delle cellule del nucleo sovraottico e, in minor misura, di quelle del nucleo paraventricolare, con gliosi e ipotrofia della ipofisi posteriore. La causa di queste alterazioni è del tutto ignota. Il diabete insipido può associarsi ad altri difetti congeniti; per esempio, nella sindrome di Laurence-Moon-Biedl il diabete insipido si associa ad obesità, retinite pigmentosa, ritardo mentale, polidattilia. Il diabete nefrogenico da resistenza delle cellule renali all’ADH può essere congenito oppure acquisito, causato da una numerosa serie di affezioni renali croniche. La comparsa di diabete insipido durante trattamenti farmacologici (sali di demetil-clortetraciclina ed altri), che agiscono prevalentemente riducendo la sensibilità delle cellule renali all’azione dell’ADH, è evento non raro, ma ha limitata importanza clinica in quanto compare in genere in forma non grave e regredisce alla sospensione del trattamento. B. Fisiopatologia e clinica. L’insufficiente secrezione di ADH provoca una riduzione della permeabilità idroosmotica delle cellule dei dotti collettori e forse anche di quelle del tubulo distale. Di conseguenza, l’urina diluita formata nella parte a monte del nefrone viene escreta pressoché immodificata. Ne risulta una perdita di acqua libera che causa una modesta disidratazione, aumento dell’osmolarità e stimolo della sete. La maggior introduzione di acqua bilancia la perdita e si stabilisce un nuovo equilibrio in cui la pressione osmotica dei liquidi corporei si stabilizza ad un nuovo livello, appena al di sopra di quello normale. La poliuria, la sete intensa e la polidipsia sono sintomi costantemente presenti. L’inizio della malattia può essere brusco. La poliuria varia notevolmente da paziente a paziente; in genere è intensa, 3-10 l al giorno o anche più, a basso peso specifico. La perdita di liquidi con le urine è comunque ben compensata dall’assunzione di acqua da parte del paziente. Infatti, nonostante la poliuria e la polidipsia massiva, nei pazienti con diabete insipido gli elettroliti plasmatici e urinari e i soluti totali sono normali. A parte il fastidio della polidipsia e della poliuria il paziente non avverte particolari sintomi o disturbi, ed anche l’esame fisico non evidenzia alterazioni obiettive particolari. L’equilibrio tra perdita e assunzione di liquidi può alterarsi se, in seguito a traumi, incidenti, malattie infettive acute, si ha perdita o obnubilamento della coscienza. In questo caso il mancato o insufficiente apporto idrico provoca rapida disidratazione, perdita di peso, shock. Più raramente l’equilibrio tra perdita e assunzione di acqua può alterarsi, con disidratazione del paziente, nei casi in cui la lesione ipotalamica si estenda ed interessi i centri della sete. L’evoluzione clinica può variare in rapporto alla causa del diabete insipido; in particolare è utile ricordare alcuni aspetti clinici che può assumere la malattia. • Presenza di segni neurologici indicativi di un interessamento ipotalamico: cefalea; alterazioni del campo
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MALATTIE ENDOCRINE
visivo e del fundus; obesità; ritardo della crescita nei bambini. • Il diabete insipido può associarsi a deficit degli altri ormoni dell’adenoipofisi con ipogonadismo, ipotiroidismo, iposurrenalismo secondario. Se coesiste insufficienza dell’adenoipofisi la poliuria e la polidipsia sono in genere modeste, ma aumentano quando si corregge l’iposurrenalismo con terapia corticosteroidea sostitutiva. • Sintomi della malattia di base (sarcoidosi, istiocitosi X, ecc.) nel diabete insipido centrale sintomatico. • Il diabete insipido post-traumatico può regredire spontaneamente a distanza di settimane o mesi dalla sua insorgenza. La grande quantità di urina che si raccoglie in vescica, specie nelle ore notturne, provoca una progressiva distensione della parete vescicale e talora idrouretere e idronefrosi con alterazioni della funzione renale. C. Esami di laboratorio e strumentali. Caratteristica del diabete insipido è l’emissione di urine a basso peso specifico (inferiore a 1005), con incapacità di concentrazione. Quest’ultima va saggiata con i test dinamici: prova dell’assetamento, infusione di soluzione salina ipertonica, test alla vasopressina (si veda Diagnosi). Quando il paziente non è disidratato, non si rilevano alterazioni dei componenti chimici del sangue e delle urine. Solo con determinazioni ripetute si può evidenziare che l’osmolarità plasmatica e la sodiemia sono in media lievemente al di sopra della norma. La funzionalità dell’adenoipofisi deve essere indagata saggiando i vari assi con gli opportuni test. La presenza di lesioni ipotalamiche deve essere ricercata in ogni paziente con diabete insipido centrale mediante un approfondito studio neuroradiologico: radiografia del cranio con studio della sella turcica, TC, RM, campimetria ed esame del fundus. È necessario anche ricordare la possibilità che la lesione ipotalamica sia secondaria a malattie generali come la lue, il mieloma, le neoplasie della mammella e dei bronchi, la sarcoidosi, che devono quindi essere ricercate.
D. Diagnosi. La diagnosi di diabete insipido si basa sulla dimostrazione che il paziente è incapace di concentrare adeguatamente le urine anche quando si provochi, con opportuni mezzi (prova dell’assetamento, infusione salina ipertonica), un’ipertonicità dei liquidi corporei. Nell’approccio pratico alla diagnosi, devono essere innanzitutto escluse le cause più comuni di poliuria (Tab. 56.12). È utile ricordare che nella maggior parte dei pazienti la poliuria rappresenta un meccanismo di compenso necessario ad eliminare un carico di soluti (diuresi osmotica). In questi casi l’osmolarità delle urine tende ad approssimarsi a quella del plasma. Al contrario, l’osmolarità delle urine nel diabete insipido (centrale e nefrogenico) e nelle polidipsie psicogene è nettamente inferiore a quella rilevabile di norma nel plasma. Di conseguenza, in presenza di poliuria con peso specifico < 1005 (< 200 mOsm/kg/acqua) si può ragionevolmente escludere una poliuria osmotica. D’altro canto, le condizioni morbose che provocano poliuria con meccanismo osmotico possono essere facilmente diagnosticate con il dosaggio di alcuni componenti chimici nel plasma e/o nelle urine: glucosio per il diabete mellito, urea e creatinina per le malattie renali. Ugualmente facile è evidenziare una poliuria causata da ipercalcemia o da ipopotassiemia o da eccessiva eliminazione urinaria di sodio (“salt loosing nephritis”). Deve essere ovviamente esclusa una poliuria indotta da farmaci. Le condizioni morbose che causano poliuria non osmotica sono: il diabete insipido centrale, il diabete insipido nefrogenico e la polidipsia primaria. La differenziazione del diabete insipido dalla polidipsia primaria o potomania può presentare notevoli difficoltà, in quanto i pazienti con polidipsia di lunga data sviluppano una transitoria riduzione del potere di concentrazione, probabilmente a causa di una diminuita tonicità della midollare del rene. Deve pertanto essere eseguita una serie di indagini; comunque, la misura dell’osmolarità plasmatica e urinaria, in condizioni basali, può già fornire un’utile indicazione diagnostica: nel diabete insipido le urine sono meno concentrate del plasma e l’osmolarità plasmatica è in genere lievemente aumentata. Nella polidipsia psicogena plasma e urine sono diluiti (Tab. 56.13).
Tabella 56.12 - Cause di poliuria. CONDIZIONE MORBOSA Con urine ipotoniche • Diabete insipido centrale • Diabete insipido nefrogenico – congenito e/o familiare – da farmaci (demetil-clortetraciclina ed altri) – nefropatia ipokaliemica, nefropatia ipercalcemica ed altre nefropatie interstiziali (pielonefrite, nefropatia da analgesici, mieloma multiplo) • Polidipsia primaria Con urine isotoniche • Diabete mellito • Insufficienza renale cronica • Nefrite con perdita di sodio (“salt loosing nephritis”)
MECCANISMO Insufficiente secrezione di ADH Nessuna risposta renale all’ADH Ridotta risposta renale all’ADH, associata a ridotta ipertonicità dell’interstizio della midollare del rene Psicogeno, potomania Diuresi osmotica o da carico di soluti
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56 - MALATTIE IPOTALAMO-IPOFISARIE
Tabella 56.13 - Differenziazione del diabete insipido (DI) da altre condizioni associate a poliuria con urine ipotoniche. • Sospendere la somministrazione dell’acqua (e bevande) dalla sera precedente (se diuresi < 10 l/die) • Pesare il paziente quando si inizia la sospensione dei liquidi; h 6 pesare il paziente e misurare l’osmolarità urinaria e plasmatica • Ripetere ogni ora fino a quando l’osmolarità urinaria è stabilizzata (variazione dell’osmolarità < 30 mOsm/kg in 3 campioni consecutivi) oppure diminuzione del peso corporeo > 3% del peso iniziale: 5 U vasopressina acquosa sottocute • Dopo un’ora misurare l’osmolarità plasmatica e urinaria Risultati • Normale: concentra le urine 2-4 volte rispetto al plasma; con vasopressina, incremento dell’osmolarità urinaria < 5% • DI centrale (completo): osmolarità urinaria non superiore a quella del plasma durante la privazione di acqua; dopo vasopressina, aumento > 50% della osmolarità urinaria • DI centrale (parziale): concentra in qualche grado le urine e aumenta di almeno il 10% l’osmolarità dopo iniezione di vasopressina (spesso caratteristico picco di osmolarità iniziale che decresce poi rapidamente con il proseguire della prova) • DI nefrogenico: non concentra né con disidratazione né con vasopressina • Polidipsia primaria: lieve aumento dell’osmolarità urinaria dopo assetamento; con vasopressina, aumento dell’osmolarità urinaria < 5%
La diagnosi di diabete insipido richiede l’esecuzione della prova di concentrazione e, in casi particolari, dell’infusione di soluzione salina ipertonica. Una netta contrazione della diuresi e un aumento spiccato del peso specifico e dell’osmolarità urinaria escludono il diabete insipido. Anche nei pazienti con potomania di lunga data e ridotta capacità di concentrare le urine, durante l’assetamento l’osmolarità urinaria raggiunge, in ogni caso, valori superiori a quelli del plasma deproteinizzato. Una volta stabilita la diagnosi di diabete insipido si deve distinguere il diabete insipido centrale dal diabete insipido nefrogenico saggiando la responsività renale alla vasopressina. La somministrazione di vasopressina non provoca alcuna sensibile variazione del peso specifico e dell’osmolarità urinaria nei pazienti con diabete insipido nefrogenico, insensibile all’azione dell’ADH, mentre determina un aumento della concentrazione delle urine nel diabete insipido ipotalamico da carenza di ADH.
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Il dosaggio della vasopressina può essere utilmente impiegato in campo clinico per la diagnosi di diabete insipido. Stimolando la secrezione di vasopressina con un test di assetamento, non si osserva alcun incremento della concentrazione plasmatica dell’ormone nel diabete insipido ipotalamico, mentre nel diabete insipido nefrogenico e nella polidipsia primitiva si osserva un normale incremento dei livelli di vasopressina. Purtroppo la vasopressina circolante è attualmente dosabile in un limitato numero di laboratori di ricerca clinica. E. Prognosi. La prognosi varia in rapporto alla causa del diabete insipido. Il diabete insipido ipotalamico idiopatico o secondario a lesioni stabilizzate è in genere una malattia ben sopportata. In presenza di tumori ipotalamici la prognosi è legata all’estensione e all’operabilità del tumore. Come sopra detto, il pericolo principale è rappresentato dalla possibilità che, per varie cause, si riduca l’apporto idrico anche per brevi periodi. F. Cenni di terapia. Nel diabete insipido sintomatico la terapia può essere definitiva quando è possibile asportare chirurgicamente o irradiare il tumore, oppure nei casi in cui è possibile curare la malattia di base. Nella maggioranza dei pazienti la terapia è però sostitutiva con polvere di postipofisi o preferibilmente con derivati della vasopressina, come la desmopressina (8 dDAVP) che, rispetto alla molecola originale, presenta i vantaggi di una maggiore e più prolungata attività antidiuretica e di una trascurabile attività pressoria. Nella terapia del diabete insipido si usano anche vari farmaci di natura non ormonale che riducono la diuresi con meccanismi farmacologici diversi; i più usati sono la clorpropamide, la clormazepina, la fenformina, il clofibrato, l’idroclorotiazide. La loro efficacia è variabile da paziente a paziente; possono essere utilmente associati all’ormonoterapia. L’idroclorotiazide è indicata in particolare nel diabete insipido nefrogenico.
SINDROME DA INAPPROPRIATA SECREZIONE DI ADH La sindrome da inappropriata secrezione di ADH (SIADH) nella grande maggioranza dei casi è associata a produzione di ADH a livello di cellule neoplastiche. Rimandiamo pertanto per la trattazione della sindrome al capitolo 62.
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C A P I T O L O
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MALATTIE DELLA TIROIDE (*) L. CANTALAMESSA, A. CATANIA
CENNI DI FISIOPATOLOGIA
altre strutture endocrine: la capacità di intrappolare lo iodio circolante e quella di sintetizzare la tireoglobulina e di immagazzinarla all’interno dei follicoli. La tireoglobulina è una grossa molecola glicoproteica i cui residui tirosilici fungono da recettore proteico dello iodio. La sintesi, l’accumulo e la secrezione degli ormoni tiroidei avvengono attraverso una sequenza di eventi metabolici dipendenti da attività enzimatiche specifiche. Le tappe metaboliche possono essere così schematizzate (Fig. 57.1).
La tiroide produce due ormoni: la L-tiroxina o tetraiodo-L-tironina (T4) e la 3,5,3-triiodo-L-tironina (T3). Si tratta di due aminoacidi iodati derivati dalla fenilalanina, che differiscono tra loro per un atomo di iodio. Solo il 20% della T3 circolante deriva dalla secrezione diretta della tiroide, mentre la quota restante deriva dalla trasformazione della T4 in T3 a livello periferico (Fig. 57.1). La T3 è l’ormone biologicamente più attivo. Il rapporto tra la concentrazione di T4 e T3 (T4/T3) circolanti può variare in condizioni patologiche della tiroide, oppure in rapporto a variazioni delle richieste metaboliche periferiche, in corso di malattie extratiroidee.
1. Intrappolamento dello iodio. Lo iodio di origine alimentare presente in circolo viene captato ed accumulato dalle cellule dei follicoli con un meccanismo attivo che provoca la formazione di un gradiente di concentrazione cellule tiroidee/capillari che può raggiungere e superare il rapporto 500:1.
A. Biosintesi ormonale. La tiroide sintetizza gli ormoni T3 e T4 grazie a due peculiari caratteristiche delle cellule follicolari che differenziano la tiroide da tutte le
3 l
3’ l
O
HO 5’
l HO
2. Organificazione dello iodio e iodinazione della tireoglobulina. Nel citoplasma delle cellule tiroidee lo
l
5 l
CH2CHCOOH NH2
l
l CH2CHCOOH
O
3,5,3’,5’ tetraiodotironina (tiroxina) (T4)
l
NH2
3,5,3’ triiodotironina (T3)
HO
l O
CH2CHCOOH NH2
l 3,3’,5’ triiodotironina (RT3)
Figura 57.1 - Struttura chimica della tiroxina (T4), della triiodotironina (T3) e della “reverse T3” (RT3). In sede extratiroidea la T4 è deiodinata con formazione di T3 o di RT3 secondo che la deiodinazione avvenga in posizione 5’ o 5. (*) Con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di M. Sironi.
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MALATTIE ENDOCRINE
iodio inorganico (I–) viene ossidato grazie ad un sistema di tipo perossidasico ed in tal forma si lega ai residui tirosilici della tireoglobulina. L’ossidazione avviene a livello della membrana apicale della cellula, la iodinazione all’interfaccia cellula-colloide, con formazione dei precursori biologicamente inattivi monoiodotirosina (MIT) e diiodotirosina (DIT). 3. Reazione di accoppiamento. Due residui tirosilici iodati posti in stretta contiguità sulla stessa molecola tireoglobulinica vanno incontro ad un processo di coniugazione ossidativa dei gruppi fenolici con formazione di triiodotironina (T3) e tetraiodotironina (T4). 4. Liberazione degli ormoni attivi. Le cellule follicolari, con un processo di endocitosi, inglobano piccole gocce di colloide che, una volta penetrate nella cellula, vengono a contatto con i lisosomi ricchi di enzimi proteolitici. Questi ultimi scindono la tireoglobulina contenuta nelle gocciole con liberazione di MIT, DIT, T3 e T4. 5. Deiodinazione delle iodotirosine. MIT e DIT liberate dall’idrolisi della tireoglobulina vengono deiodate grazie ad un sistema enzimatico dealogenante presente nelle cellule tiroidee. Lo iodio derivante dalla deiodinazione viene riutilizzato nei processi di sintesi ormonale; una piccola quota viene eliminata in circolo (“iodide leak”). 6. Liberazione di T3 e T4. Il processo termina con la liberazione in circolo di T3 e T4. Le tappe della biosintesi degli ormoni tiroidei possono essere bloccate per difetti enzimatici congeniti con ridotta formazione di ormoni attivi (ipotiroidismo) e iperplasia della tiroide (gozzo diffuso). B. Trasporto degli ormoni tiroidei circolanti. La T3 e la T4 immesse in circolo si legano quasi completamente a proteine vettrici con le quali formano complessi proteina-ormone. Il sistema proteico di trasporto della T4 è costituito da: a) un’-globulina, la TBG (Thyroxine Binding Globulin), che lega circa il 75% dell’ormone; b) una frazione prealbuminica, la TBPA (Thyroxine Binding Pre-Albumin); c) l’albumina (TBA). Le ultime due legano rispettivamente circa il 15 e il 10% dell’ormone. La TBG, a causa della sua maggiore affinità per gli ormoni tiroidei, rappresenta il principale fattore determinante l’intensità di legame delle proteine vettrici. L’interazione tra ormoni tiroidei e proteine vettrici avviene secondo un sistema dinamico in equilibio. Per esempio, per il T4 e la TBG: [T4] + [TBG] ← → [T4 – TBG] La reazione è regolata dalla legge di azione di massa con una costante di dissociazione che è diversa per T4 e T3, e per ciascuna proteina vettrice. La tiroxina libera [T4] corrisponde a circa lo 0,03% della tiroxina totale. La T3 non si lega alla TBPA e si lega meno strettamente della T4 alla TBG. Di conseguenza, la quota di T3 libera è maggiore ed è circa lo 0,3% della T3 totale.
Solo le frazioni libere di T4 e T3 si legano ai recettori cellulari e sono quindi biologicamente attive. Pertanto, lo stato metabolico del paziente è correlato con la concentrazione degli ormoni liberi presenti nel plasma e la regolazione omeostatica degli ormoni tiroidei è rivolta a mantenere costante la concentrazione degli ormoni liberi. Profondamente diverse sono quindi le conseguenze cliniche provocate da una variazione in aumento o in difetto della concentrazione delle proteine vettrici o degli ormoni tiroidei. In caso di variazione delle proteine vettrici, in presenza di un asse ipofisi-tiroide normale, si ha un pronto adeguamento della secrezione tiroidea in modo tale da mantenere normale la concentrazione di ormoni liberi. Per esempio, l’aumento della TBG in gravidanza provoca una riduzione dell’ormone libero [T4]; la minor disponibilità tissutale di T4 provoca a sua volta una stimolazione dell’asse TSH-tiroide con temporaneo aumento della secrezione tiroidea che continua sino a quando la concentrazione di ormone libero è riportata alla norma. Si stabilisce quindi un nuovo equilibrio caratterizzato da eutiroidismo clinico con aumento della tiroxina totale e della capacità legante delle proteine vettrici, e normale concentrazione della tiroxina libera. Al contrario, in presenza di variazioni primitive degli ormoni tiroidei, come avviene nell’ipertiroidismo e nell’ipotiroidismo, all’ipersecrezione o all’iposecrezione ormonale non conseguono corrispondenti variazioni delle proteine vettrici. Si ha pertanto una diminuzione o un aumento degli ormoni totali e liberi circolanti. Le variazioni di questi ultimi in eccesso o in difetto provocano una condizione clinica di iper o ipotiroidismo. Una volta penetrata nelle cellule, la T4 va incontro ad una serie di processi metabolici. Il processo iniziale e più importante è quello della deiodinazione in posizione 5 con formazione di T3 (3,5,3 triiodotironina), biologicamente assai più attiva del precursore. Circa l’80% della T3 circolante deriva dalla deiodinazione periferica della T4. Una parte della T4 va incontro a deiodinazione in posizione 5 con formazione di 3,5,3 triiodotironina o “reverse T3” biologicamente inattiva (Fig. 57.2). Il rapporto T4/T3 circolanti può variare in condizioni fisiologiche e patologiche sia per variazioni della secrezione tiroidea che per ridotta conversione periferica di T4 in T3 (Fig. 57.3). Nell’ipertiroidismo e negli stadi iniziali di ipotiroidismo primitivo in cui la ghiandola è intensamente stimolata dal TSH, la secrezione ormonale è caratterizzata da un rapporto T4/T3 ridotto, vale a dire da una proporzionale maggior quota di T3 rispetto a quella di T4. Viceversa, in alcune condizioni in cui vi è una ridotta richiesta metabolica periferica ed è utile un risparmio energetico (malnutrizione, digiuno prolungato, gravi malattie cachettizzanti, ecc.) si ha una ridotta trasformazione periferica di T4 in T3. Come conseguenza, in queste condizioni si ha una riduzione di T3 libera e totale, in assenza di ipotiroidismo. In quasi tutti questi pazienti si ha un aumento della reverse T3. Questa situazione di ipotiroidismo periferico, nota come sindrome a basso T3 (“euthyroid sick syndrome”), non rappresenta una condizione patologica, ma un adat-
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57 - MALATTIE DELLA TIROIDE
Tireoglobulina
Lume del follicolo
Microvilli
Riutilizzazione dello iodio
Fusione Cellula
Proteolisi Lisosomi
Iodio intracellulare
MIT DIT
T4
T3
Capillare
Figura 57.2 - Biosintesi e secrezione degli ormoni tiroidei. trasporto attivo dello iodio dal circolo all’interno della cellula tiroidea; ossidazione dello iodio e legame ad un residuo tirosilico della tireoglobulina; accoppiamento di due residui a formare T4 e T3; riassorbimento della colloide e proteolisi della tireoglobulina; deiodinazione delle iodotirosine (MIT e DIT); liberazione in circolo di T3 e T4. Le tappe metaboliche ai punti 1, 2, 3, 5 possono essere interessate da difetti enzimatici con blocco della biosintesi degli ormoni tiroidei.
300 g/die 90 g/die 20 g/dl 10 g/dl T4
T4 / T3 = IO
T4
25 T3
Siero
Siero
5 = T4 / T3
100
100 ng/dl T3 30 g/die
500 ng/dl
200 g/die
Figura 57.3 - Sono rappresentati schematicamente il rapporto T4 /T3 all’interno della tiroide; la produzione tiroidea di T3 e T4 , la produzione extratiroidea di T3 e la concentrazione in circolo di T3 e T4 nei soggetti normali e nei pazienti ipertiroidei. Le aree punteggiate indicano la quantità di T4 (nei rettangoli superiori) trasformati in T3 in sede extratiroidea. (Modificata da Kaplan e Utiger, 1978.)
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MALATTIE ENDOCRINE
tamento dell’omeostasi degli ormoni tiroidei utile a conservare le riserve energetiche in presenza di gravi condizioni debilitanti. C. Azioni fisiologiche degli ormoni tiroidei. La produzione di un’adeguata quantità di ormoni tiroidei è indispensabile al normale accrescimento corporeo, allo sviluppo e alla maturazione di vari apparati. L’ipotiroidismo durante la vita fetale e/o neonatale provoca un arresto irreversibile della maturazione dell’encefalo con gravi conseguenze sullo sviluppo intellettivo. Il quadro clinico che ne consegue è quello ben noto del cretinismo. Gli ormoni tiroidei sono anche indispensabili allo sviluppo dell’apparato scheletrico e alla maturazione di quello riproduttivo. Un eccesso di T3 e T4 durante l’infanzia e l’adolescenza provoca un’accelerazione dell’accrescimento, ma non un aumento in assoluto della crescita simile a quello osservabile in condizioni di iperproduzione di GH (gigantismo); viceversa, una carenza di ormoni tiroidei produce un rallentamento della crescita per ritardo di comparsa e per alterazioni dei nuclei di ossificazione epifisaria. Anche la maturazione dell’apparato riproduttivo in età puberale avviene in modo ritardato e incompleto in condizioni di ipotiroidismo. Gli ormoni tiroidei stimolano la velocità dei processi ossidativi cellulari e regolano l’attività metabolica a livello dei più svariati tessuti (Tab. 57.1). In generale l’effetto è prevalentemente anabolico a basse dosi, mentre
l’azione catabolica è preminente a dosi elevate. Questo bifasismo di azione, caratteristico degli ormoni tiroidei, è particolarmente evidente per quanto riguarda il metabolismo proteico, lipidico e quello del glicogeno. Gli ormoni tiroidei regolano l’attività del sistema adrenergico agendo sulla responsività dei tessuti periferici alle catecolamine. Un eccesso di ormoni tiroidei provoca un incremento del numero dei recettori e quindi un’iperresponsività; il contrario avviene in condizioni di carenza di T3 e T4. Nonostante una serie numerosissima di ricerche sul meccanismo d’azione degli ormoni tiroidei a livello cellulare, le nostre attuali conoscenze sono incomplete e frammentarie. L’azione di stimolo degli ormoni tiroidei sulla sintesi di mRNA e sui meccanismi di trascrizione sembra possa spiegare molti effetti noti. Nei tessuti responsivi, le cellule contengono recettori nucleari con elevatissima affinità per gli ormoni tiroidei. L’affinità dei recettori nucleari per la T3 è circa 10 volte superiore a quella per la T4 e ciò spiega la preminente attività biologica della T3. L’occupazione del recettore da parte della T3 si associa ad un’accelerazione della sintesi di mRNA e ad un aumento della produzione di molecole proteiche che rappresentano enzimi chiave di varie tappe metaboliche, recettori, ormoni polipeptidici. L’azione degli ormoni tiroidei può essere riassunta nello schema della figura 57.4. D. Regolazione secretoria.
Tabella 57.1 - Effetti generali degli ormoni tiroidei sul metabolismo. • Aumentano il consumo di O2 e la produzione di calore • Stimolano la sintesi proteica e positivizzano il bilancio azotato (1) • Aumentano la gliconeogenesi e la glicogenolisi (1) • Stimolano la sintesi, la mobilizzazione e il catabolismo del colesterolo e dei lipidi in genere. L’azione catabolica è prevalente (1) • Aumentano la responsività dei tessuti periferici alle catecolamine (1) Effetto bifasico: anabolico in dosi fisiologiche, catabolico in dosi elevate.
1. Sistema TRH → TSH → Ormoni tiroidei. La sintesi e la secrezione degli ormoni tiroidei è stimolata dal TSH che, somministrato ripetutamente, provoca anche aumento di volume della tiroide. Il TSH, infatti, oltre a stimolare l’ormonogenesi tiroidea, provoca ipertrofia e iperplasia cellulare e aumento di vascolarizzazione della ghiandola. La produzione di TSH è a sua volta regolata dalla concentrazione di ormoni tiroidei circolanti, che esercitano un’azione di controregolazione negativa, e dal TRH, che ha invece un’azione di stimolo (Fig. 57.5 e 57.6). L’azione di controregolazione degli ormoni tiroidei è esercitata dalle frazioni libere e, apparentemente, dai livelli circolanti di T4. La stretta correlazione inversa tra livelli di T4 e di TSH circolanti osservata in varie condizioni cliniche (per es., TSH normale in condizioni di
Enzimi Complesso T3 – Recettore nucleare
mRNA
Sintesi proteiche
Recettori Ormoni
Regolazione dei processi metabolici (necessari a) Differenziazione Sviluppo Omeostasi
Figura 57.4 - Meccanismo d’azione degli ormoni tiroidei.
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57 - MALATTIE DELLA TIROIDE
T3
T4
TRH
+ TRH
T4
T3 •
T4
– TSH
+
Figura 57.5 - Regolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide. Il controllo ipotalamico si attua attraverso l’azione di stimolo del TRH sulla secrezione del TSH, che a sua volta stimola la secrezione tiroidea di T4 e T3. Gli ormoni tiroidei, in particolare la T3, inibiscono la secrezione di TSH a livello ipofisario e di TRH a livello ipotalamico.
TSH ridotto o inesistente
isolata riduzione di T3: “euthyroid sick syndrome”) è in apparente contrasto con alcuni rilievi sperimentali che dimostrano un’elettiva fissazione della T3 ai recettori nucleari delle cellule tireotrope e una più efficace azione inibente della T3 rispetto alla T4. Questa discrepanza è chiarita dalla recente dimostrazione che la T4 viene convertita in T3 nelle cellule tireotrope dell’ipofisi e nei neuroni ipotalamici che producono TRH. La T3 inibisce direttamente la sintesi di TRH a livello ipotalamico, mentre a livello ipofisario l’effetto inibitorio si esplica sia con un meccanismo diretto sulle cellule tireotrope riducendo la produzione di TSH sia indirettamente diminuendo la responsività delle stesse cellule al TRH. È stata anche dimostrata un’azione di stimolo degli ormoni tiroidei sulla produzione di somatostatina che inibisce la secrezione di TSH. Il TRH prodotto nell’ipotalamo raggiunge, attraverso il circolo portale, le cellule tireotrope e stimola la sintesi e la secrezione di TSH. Si ritiene, in base a varie evidenze sperimentali, che il TRH non agisca a livello delle cellule tireotrope come un antagonista diretto degli ormoni tiroidei, ma modulando la soglia di sensibilità (“set-point”) del meccanismo di controregolazione negativo TSH-ormoni tiroidei. Dopo deconnessione ipotalamo-ipofisaria la secrezione di TSH è ridotta, ma è ancora possibile suscitare appropriate ri-
TSH normale
TSH elevato
Tiroide atrofica
Tiroide normale
Tiroide ipertrofica
Cellule follicolari piane
Cellule follicolari cubiche
Cellule follicolari cilindriche
Figura 57.6 - Fisiologia delle interazioni tra ipofisi e tiroide.
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MALATTIE ENDOCRINE
Carenza di iodio
Diminuita biosintesi ormonale
Risposta compensatoria adeguata = gozzo semplice Aumento del TSH
Iperstimolazione tiroidea
Gozzo Risposta compensatoria inadeguata = gozzo con ipotiroidismo
Fig. 57.7 Conseguenze endocrino-metaboliche e cliniche della carenza cronica di iodio.
sposte del TSH. Per esempio, dopo distruzione dell’area tireotropa dell’ipotalamo nell’animale, la tiroidectomia provoca ancora un modesto e tardivo incremento di TSH. Oltre al TRH, altri neurormoni e neurotrasmettitori intervengono nella regolazione fisiologica dell’asse TRH-TSH (si veda la Tab. 55.2). Una serie di dati sperimentali dimostra che somatostatina e dopamina hanno un’azione inibitoria sulla liberazione di TSH agendo direttamente sulle cellule tireotrope ipofisarie. I neurotrasmettitori noradrenalina e serotonina agirebbero invece a livello ipotalamico, la prima stimolando e la seconda inibendo la produzione di TRH. Tra gli stimoli esterni capaci di attivare o inibire l’asse TRH-TSH-tiroide, le variazioni di temperatura sono le più studiate. In molte specie animali, l’esposizione al freddo stimola l’asse TRH-TSH. Nell’uomo, la risposta del TSH al freddo è assai meno marcata; essa è ben evidente solo nei neonati e nei primi mesi di vita. 2. Autoregolazione tiroidea. Oltre alla regolazione TRH-TSH-dipendente, nella tiroide è presente un sistema di autoregolazione secretoria intraghiandolare, presente anche dopo ipofisectomia, caratterizzato da una regolazione inversa tra contenuto intraghiandolare di iodio organico e attività biosintetica della ghiandola. Un meccanismo di autoregolazione di questo tipo presente, tra le ghiandole endocrine, solo nella tiroide tende a mantenere normale la secrezione di ormoni tiroidei in condizioni di differente apporto iodico.
Conseguenze della carenza o dell’eccesso di iodio L’assunzione giornaliera di iodio varia notevolmente da una regione all’altra. L’apporto ottimale dovrebbe variare, negli adulti, tra 75 e 300 g/die. L’assunzione prolungata di quantità di iodio sensibilmente superiori o inferiori a quelle ottimali provoca importanti alterazioni delle biosintesi degli ormoni tiroidei. A. Eccesso di iodio. La somministrazione acuta di iodio provoca inizialmente un aumento dei processi di ossidazione ma, superata una certa dose, i processi ossidativi si riducono e di conseguenza si riducono la iodinazione della tireoglobulina e la sintesi ormonale (effetto Wolff-Chaikoff). Se lo iodio è somministrato cronicamente, si osserva una sfuggita all’effetto inibitorio di Wolff-Chaikoff; di
conseguenza, nel soggetto normale la somministrazione di iodio non provoca di regola iper o ipotiroidismo, ma solo una piccola riduzione dei livelli di T3 e T4 senza importanza clinica. Tuttavia, gli effetti dello iodio sono ben diversi in condizioni patologiche: nei pazienti con gozzo semplice la somministrazione di iodio provoca, in una rilevante quota di soggetti, l’insorgere di ipertiroidismo (gozzo basedowificato; Jod-Basedow); nei pazienti ipertiroidei la somministrazione di iodio in dosi farmacologiche provoca inizialmente una riduzione della tiroxinemia; continuando però il trattamento, l’effetto inibente dello iodio tende a diminuire o a scomparire del tutto e la sospensione del trattamento può provocare una crisi tireotossica. B. Carenza di iodio. Per sintetizzare T3 e T4 la tiroide deve disporre di una quantità adeguata di iodio. La tiroide si adatta, entro certi limiti, alla carenza di iodio e riesce a mantenere la secrezione di ormoni tiroidei nei limiti fisiologici modificando la cinetica dello iodio, con aumento della captazione, riduzione dell’eliminazione urinaria, accelerazione di tutte le tappe della ormonogenesi, produzione preferenziale di T3. Questo processo di adattamento alla carenza iodica dipende in parte dai meccanismi di autoregolazione della tiroide e in parte dal controllo del TSH. Aumenta la produzione di TSH e, come conseguenza dell’iperstimolazione tireotropinica, si ha lo sviluppo del gozzo. In alcuni pazienti, nonostante i meccanismi di adattamento, la tiroide non è in grado di produrre una quantità sufficiente di ormoni tiroidei e si ha una condizione di ipotiroidismo. La sequenza patogenetica può essere riassunta nella figura 57.7.
GOZZO Gozzo semplice diffuso Il gozzo semplice diffuso rappresenta, in genere, un fenomeno di adattamento ad una carenza cronica di iodio (si veda la Fig. 57.7) oppure ad un’alterazione della biosintesi ormonale, causata da un difetto enzimatico congenito. Più raramente il gozzo può essere causato da sostanze gozzigene naturali (verze, cavoli), di origine medicamentosa (PAS, sali di litio, fenilbutazone, ecc.) o da processi patologici intrinseci della tiroide (tiroidite di Hashimoto, tiroidite subacuta). In passato, la carenza di iodio negli alimenti di alcune regioni alpine ha rappresentato una vera calamità so-
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57 - MALATTIE DELLA TIROIDE
ciale provocando un’endemia di gozzo e cretinismo in vaste aree geografiche. L’aggiunta di iodio nel sale ed in alcuni alimenti di base ha risolto il problema del gozzo come fenomeno endemico, almeno in Italia. Attualmente è possibile osservare solo casi sporadici o piccoli focolai endemici, in zone di pregressa endemia. Il gozzo da disturbo della biosintesi ormonale ha una netta impronta familiare; si tratta in genere di forme in cui il difetto enzimatico congenito ha parziale espressività e il blocco della biosintesi ormonale è incompleto. Attualmente è eccezionale osservare un gozzo da assunzione di sostanze gozzigene di origine alimentare; meno raro è il gozzo da farmaci. La tiroidite cronica di Hashimoto può manifestarsi con un gozzo diffuso; più spesso provoca un ingrandimento irregolare della tiroide. A. Patogenesi. L’ipersecrezione di TSH viene in genere considerata il comune denominatore di tutte le forme di gozzo semplice diffuso. Il TSH, aumentato in risposta alla ridotta produzione di T4 e T3, stimola il turnover intratiroideo dello iodio e provoca un aumento del rapporto T3/T4 nel secreto tiroideo in modo tale che la concentrazione di T3 in circolo rimane nei limiti di norma. Pertanto questi pazienti sono clinicamente eutiroidei grazie all’ipersecrezione di TSH ed all’iperplasia della tiroide. Nelle fasi iniziali la tiroide è diffusamente aumentata di volume come conseguenza dell’iperplasia cellulare, indotta dalla stimolazione tireotropinica, e della neoformazione di follicoli. Successivamente, i fenomeni iperplastici persistono solo in alcune aree, mentre in altre aree, verosimilmente in rapporto ad un insufficiente sviluppo della rete vascolare rispetto all’iperplasia cellulare, i follicoli iperplastici vanno incontro a fenomeni necrotico-emorragici con sostituzione del tessuto follicolare con tessuto di granulazione ad evoluzione sclerotico-cicatriziale. Come conseguenza, si ha un’alternanza di aree iperplastiche e di aree atrofiche, e sul piano clinico si osserva l’evoluzione del gozzo semplice diffuso in un gozzo multinodulare, in cui i noduli neoformati presentano attività iodofissatrice spiccatamente dissimile, con alternanza alla scintigrafia di aree ipo ed ipercaptanti. B. Clinica. All’esame della tiroide si osserva un aumento diffuso della ghiandola, talora assai cospicuo, in assenza di segni clinici generali di iper o di ipofunzione tiroidea. La palpazione permette di apprezzare una tumefazione diffusa di consistenza parenchimatosa con assenza, almeno inizialmente, di formazioni nodulari; nei casi di gozzo più voluminoso non è più possibile riconoscere i due lobi della tiroide. Il gozzo semplice non provoca fenomeni infiammatori o di irritazione locale; solo nelle forme più voluminose, specie se ad estensione retrosternale, può provocare disturbi meccanici da compressione della trachea, disturbi della deglutizione, turgore delle vene del collo, modificazioni della voce da compressione del ricorrente. C. Esami di laboratorio. I livelli di T3 e T4 circolanti sono normali; anche quelli di TSH sono normali o
ai limiti superiori della norma. Nelle forme da carenza di iodio la captazione tiroidea del radioiodio è elevata, ma a differenza di quanto si verifica nell’ipertiroidismo il picco della curva di captazione è raggiunto tardivamente (dopo 48 ore e oltre) con mancata dismissione in circolo di proteine radioiodate (PBI-131I). Inoltre la captazione è tipicamente sopprimibile con la somministrazione di T3. La scintigrafia dimostra aumento di volume della tiroide con uniforme fissazione del tracciante. D. Diagnosi e prognosi. La diagnosi di gozzo semplice non presenta particolari difficoltà sul piano clinico. Gli esami ormonali servono ad escludere un’iperfunzione o un’ipofunzione tiroidea; l’ecografia e la scintigrafia ad evidenziare aree nodulari. L’evoluzione naturale del gozzo semplice diffuso può variare notevolmente anche in rapporto alla causa che lo ha provocato. Alcune forme più lievi in cui la carenza iodica è legata ad una maggior richiesta per particolari condizioni fisiopatologiche (pubertà, gravidanza) tendono a regredire da sole. In molti casi il gozzo semplice diffuso tende a trasformarsi in gozzo multinodulare. E. Cenni di terapia. La somministrazione di L-tiroxina provoca una rapida riduzione di volume del gozzo, nelle fasi iniziali della malattia, mentre è meno efficace a trasformazione nodulare avvenuta.
Gozzo nodulare Il rilievo di noduli tiroidei è evenienza estremamente frequente; nel 4-5% della popolazione adulta è possibile riscontrare noduli palpabili clinicamente, di diametro superiore al centimetro. La prevalenza è assai maggiore se si considerano i noduli evidenziabili solo all’ecografia. L’incidenza è nettamente prevalente nel sesso femminile. Sul piano clinico è utile distinguere il gozzo uninodulare da quello multinodulare. A. Gozzo uninodulare. Le cause di nodulo tiroideo solitario sono elencate nella tabella (Tab. 57.2). Gli Tabella 57.2 - Classificazione dei noduli tiroidei solitari. • Adenomi • Carcinomi
– –
Differenziati Indifferenziati
• Cisti tiroidee • Cisti del dotto tireoglosso • Tiroidite focale • Agenesia di un lobo tiroideo con iperplasia compensatoria del lobo presente • Iperplasia di residuo post chirurgico • Porzione più evidente di gozzo multinodulare
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MALATTIE ENDOCRINE
adenomi e le formazioni cistiche rappresentano il substrato anatomico più frequente del nodulo solitario. L’adenoma è usualmente solitario, totalmente capsulato e comprime la ghiandola circostante a differenza dei noduli del gozzo nodulare che sono multipli, con capsulazione incompleta o assente. Emorragia, necrosi, fibrosi e calcificazioni possono essere presenti anche nell’adenoma, soprattutto in quelli di dimensioni maggiori. Dal punto di vista microscopico, l’adenoma può avere struttura microfollicolare o trabecolare con scarsa o assente colloide; raramente si osservano adenomi interamente costituiti da tireociti ossifili. Il rilievo da parte del paziente o del medico è occasionale in quanto non si hanno in genere disturbi locali. All’esame clinico il nodulo può essere facilmente apprezzato con la palpazione; la differenziazione rispetto ad altre masse del collo – linfonodi, cisti ecc. – non offre particolari difficoltà quando si tenga conto della sede anatomica della tiroide e della caratteristica mobilità con la deglutizione. Una volta individuato il nodulo, il principale problema diagnostico-terapeutico consiste nella selezione dei noduli che sono potenzialmente cancerogeni e che vanno quindi asportati chirurgicamente. A tal fine l’esame scintigrafico rappresenta la prima e fondamentale tappa nello studio dei pazienti con nodulo solitario (Fig. 57.8). I noduli scintigraficamente ipercaptanti il radioiodio (“caldi”) ed autonomi possono provocare ipertiroidismo (adenoma tossico o morbo di Plummer), ma non pongono problemi per quanto riguarda l’eventuale evoluzione in senso neoplastico. In presenza di un nodulo ipocaptante (“freddo”) è necessario invece tener presente la potenziale malignità. Poiché i noduli tiroidei sono estremamente comuni e raramente maligni, per evitare di sottoporre ad intervento chirurgico un numero ingiustificatamente elevato
Figura 57.8 - Scintigrafia tiroidea. Nodulo ipocaptante.
di pazienti è necessario proseguire nelle indagini per selezionare i noduli che con maggior probabilità sono di natura maligna. Questo approccio selettivo richiede un’approfondita valutazione delle caratteristiche cliniche che rappresentano fattori di rischio per i pazienti con nodulo tiroideo (pregressa irradiazione, rapidità di accrescimento, ecc.; Tab. 57.3). Le successive tappe diagnostiche sono rappresentate dall’ecografia tiroidea e dalla biopsia mediante aspirazione con ago sottile (Fig. 57.9). L’ecografia permette di differenziare le lesioni cistiche da quelle solide o miste. L’agoaspirato permette di valutare la natura del nodulo sotto il profilo citologico.
Tabella 57.3 - Fattori di rischio dei noduli tiroidei. RISCHIO AUMENTATO
RISCHIO RIDOTTO
Anamnestici
Familiarità per feocromocitoma e carcinoma midollare Irradiazione pregressa Accrescimento recente del nodulo Disfonia
Familiarità per gozzo semplice Provenienza da area di “fall-out” radioattivo
Obiettivi
Maschi, età giovanile Nodulo duro, aderente Linfonodi (tardivo) Paralisi delle corde vocali (tardivo)
Donne adulte Nodulo parenchimatoso Gozzo multinodulare
Biochimica
CEA ↑ Calcitonina ↑
AbTG, AbMc alto titolo
Scintigrafia
Nodulo freddo
Nodulo caldo
Ecografia
Nodulo solido o misto
Nodulo cistico
Agoaspirato
Alta cellularità; atipie
Bassa cellularità; abbondanza di colloide
Terapia soppressiva
Mancata regressione
Regressione o riduzione
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57 - MALATTIE DELLA TIROIDE
Individuazione di un nodulo tiroideo unico
Scintigrafia
Nodulo ipercaptante
TSH soppresso
Nodulo ipo o normocaptante
TSH non soppresso
Agoaspirato (eventualmente sotto guida ecografica)
Nodulo o nodulo tossico (FT3 - FT4)
Esame citologico
Benigno
Non diagnostico
Maligno o sospetto
Ripetere Non diagnostico
Controllo nel tempo
Tiroidectomia
Figura 57.9 - Valutazione morfologico-funzionale di un nodulo tiroideo.
B. Gozzo multinodulare. Il gozzo multinodulare compare con maggiore frequenza in soggetti adulti o anziani; spesso rappresenta l’evoluzione naturale di un gozzo semplice, presente da lunga data. Il rischio di malignità è minore rispetto al nodulo solitario. Si deve comunque tener presente che le neoplasie tiroidee possono avere un’origine pluricentrica. I pazienti con gozzo multinodulare normofunzionante presente da anni possono andare incontro ad ipertiroidismo, “gozzo basedowificato”. L’elemento scatenante è talora rappresentato dalla somministrazione di iodio; spesso non è tuttavia possibile individuare una causa scatenante. La superficie della ghiandola è nodulare, con forma alterata e capsula ispessita; l’organo può pesare fino a 1000 g. Possono essere presenti compressione e/o dislocazione della trachea ed estensione al di sotto dello sterno nel mediastino. La superficie di taglio mostra noduli circoscritti, ben demarcati da una spessa capsula rispetto al parenchima circostante, traslucido e ricco di colloide. La marcata distensione di alcuni follicoli da parte della colloide accumulata porta alla formazione di cisti colloidi, rivestite da epitelio piatto. Dalla delicata rete vascolare possono aversi emorragie e la compressione da parte dei follicoli può causare necrosi ischemica focale del parenchima, con spandimento di emazie, accumulo di macrofagi carichi di emosiderina, deposizione di cristalli di colesterolo, di sali di calcio ed infine sostituzione fibrosa.
TIROIDITI (*) Con il termine tiroidite si designa un gruppo eterogeneo di condizioni patologiche della tiroide in cui le lesioni anatomiche prevalenti non sono rappresentate solo da fenomeni infiammatori, ma anche da infiltrazione linfocitica o da processi granulomatosi. In base a criteri anatomoclinici si distinguono forme acute, subacute e croniche. Come si vedrà, la patogenesi di molte tiroiditi è di natura autoimmune. L’autoimmunità contro antigeni tiroidei è piuttosto comune, anche in assenza di sintomi e segni dovuti a tiroidite. Negli USA si è stimato che circa il 10% della popolazione possieda nel sangue anticorpi contro antigeni tiroidei e che questi siano presenti nel 25% delle donne di età oltre i 60 anni. La maggioranza dei soggetti positivi per gli anticorpi antitiroide sono in realtà eutiroidei. Studi eseguiti in Inghilterra hanno stabilito che il 10% delle donne in postmenopausa con alta concentrazione nel siero di anticorpi antitiroide erano in realtà affette da ipotiroidismo subclinico e che i soggetti eutiroidei, ma con la stessa positività sierologica, progredivano verso l’ipotiroidismo con una frequenza di 2-4% all’anno. In conclusione, trovare anticorpi antitiroide nel siero di una persona non significa (*) C. Rugarli.
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che questa abbia una tiroidite, ma che, pur essendo assente questa condizione patologica, tende a svilupparla. Per quanto riguarda i meccanismi del danneggiamento immunologico della tiroide, questi sembrano sia di natura cellulare che umorale. L’infiltrazione linfocitaria della tiroide è caratteristica delle tiroiditi autoimmuni e i linfociti infiltranti sono del tipo sia T che B. I linfociti T CD4+ possono indurre infiammazione attraverso la produzione diretta o indiretta di citochine infiammatorie; i CD8+ possono indurre direttamente citotossicità sulle cellule tiroidee. Gli autoanticorpi rilevanti sono diretti contro la tireoglobulina e contro la perossidasi tiroidea (che è lo stesso bersaglio dei cosiddetti anticorpi antimicrosomiali tiroidei). Gli anticorpi antiperossidasi fissano il complemento e teoricamente potrebbero essere citotossici sulle cellule della tiroide, ma non è sicuro che questo effetto sia un meccanismo distruttivo primario nelle tiroiditi autoimmuni. Il ruolo degli anticorpi antitireoglobulina non è chiaro. Possono essere trovati anche autoanticorpi contro diversi bersagli nella tiroide, ma questi non sono correntemente valutati in clinica. Anticorpi diretti contro il recettore del TSH possono avere un effetto stimolante, come si vedrà nel caso della malattia di Graves, o un effetto bloccante, come può succedere nella stessa malattia di Graves e nel 10% dei casi in pazienti con tiroidite di Hashimoto. Esiste una suscettibilità genetica a sviluppare autoimmunità contro la tiroide. La tiroidite di Hashimoto e la tiroidite indolore post partum si verificano più facilmente in soggetti positivi per gli antigeni di istocompatibilità HLA-DR3, DR4 e DR5. Si osserva una più alta incidenza di tiroiditi subacute in soggetti positivi per l’antigene HLA-Bw35. Ma probabilmente anche altri geni concorrono nel condizionare la propensione all’autoimmunità antitiroide, che è molto elevata. Tra i fattori ambientali una certa importanza ha il fumo di sigaretta, dato che nella tiroidite di Hashimoto l’ipotiroidismo si sviluppa più facilmente nei fumatori. La tiroidite indolore post partum ha una prevalenza maggiore tra le donne che fumano. Anche l’abbondanza dello iodio nell’ambiente ha una certa importanza, dato un’insufficienza dietetica di iodio sembra avere un effetto protettivo nei riguardi delle tiroiditi.
Tiroidite acuta La tiroidite acuta, definita “tiroidite infettiva” o “tiroidite settica” o “tiroidite purulenta”, è una malattia, attualmente assai rara, ad eziologia infettiva causata da localizzazione batterica nella tiroide. L’infezione può avvenire per via ematica o per diffusione per contiguità da un processo settico localizzato in sede cervicale o orofaringea. La tiroidite acuta di origine infettiva ha carattere purulento; sono descritte anche forme asettiche da irradiazione o da traumi. La sintomatologia è quella di un’infezione acuta febbrile con VES elevata, leucocitosi, ecc. La tiroide è tumefatta e presenta i segni della flogosi acuta; la cute sovrastante è calda e arrossata e la palpazione provoca vivo dolore.
La diagnosi non presenta difficoltà. La terapia è a base di antibiotici nelle forme infettive, di corticosteroidi ed antinfiammatori nelle forme asettiche.
Tiroidite subacuta di De Quervain La tiroidite subacuta di De Quervain, definita anche “tiroidite subacuta dolorosa”, è una malattia non rara che colpisce con maggior predilezione il sesso femminile ed è caratterizzata da un’evoluzione generalmente benigna con guarigione nell’arco di alcune settimane o alcuni mesi. A. Eziologia. L’eziologia virale è sostenuta in base a dati clinici, epidemiologici e al rilievo di elevati titoli di anticorpi antivirali nel corso della malattia; titoli che tendono a ridursi durante le fasi di remissione. È interessante notare che questa tiroidite ha l’incidenza più alta nell’estate, quando si verifica il picco di incidenza delle infezioni da enterovirus. In base ai dati clinicoepidemiologici ed alla titolazione degli anticorpi circolanti sono risultati in causa di volta in volta il virus parotitico, i virus coxsackie, gli adenovirus, i virus influenzali e molti altri. Di conseguenza bisogna presumere che i virus costituiscano il fattore di innesco di un meccanismo patogenetico che provoca le caratteristiche alterazioni granulomatose, costantemente presenti nella tiroidite subacuta, indipendentemente dal virus in causa. Le alterazioni istologiche, in particolare la presenza di cellule giganti e la forte partecipazione di cellule fagocitiche e di linfociti, hanno suggerito la partecipazione diretta o indiretta di un meccanismo immunitario anche se mancano evidenze sperimentali a sostegno di questa possibilità. B. Anatomia patologica. La tiroide appare diffusamente o, più raramente, focalmente aumentata di volume e di consistenza. Le lesioni iniziali consistono in necrosi dell’epitelio tireocitario di follicoli singoli, associata a infiltrati interfollicolari dapprima di granulociti e poi di macrofagi. Nel lume dei follicoli, la colloide contiene istiociti schiumosi, linfociti e cellule giganti multinucleate di tipo da corpo estraneo che fagocitano la colloide. L’epitelio follicolare è progressivamente sostituito da macrofagi che si alternano a tireociti ancora indenni. Nel tessuto interstiziale si osservano microascessi, costituiti da granulociti ed istiociti. La presenza di granulomi costituiti da cellule epitelioidi senza necrosi caseosa rappresenta l’elemento caratteristico della malattia. Più tardivamente, nel tessuto interstiziale si ha deposizione di fibre collagene inter ed intralobulari. Col tempo si ha rigenerazione di strutture microfollicolari. C. Clinica. La malattia esordisce con prodromi consistenti in mialgie, faringite, modesta febbre e astenia. In seguito, persistendo la febbre, questi sintomi sono sostituiti da rigonfiamento al collo, dolore o entrambi.
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Il dolore è irradiato verso la mandibola e le regioni auricolari e si accentua con la rotazione del capo e la deglutizione. La palpazione della tiroide evidenzia la tumefazione vivamente dolente, localizzata in un’area limitata della ghiandola; raramente la tumefazione è diffusa a tutta la tiroide. Talora si osserva un fenomeno del tutto caratteristico della malattia: la migrazione della tumefazione dolente in punti diversi della ghiandola (“tiroidite migrante”). Nelle fasi iniziali della malattia può comparire una modesta e transitoria sintomatologia di ipertiroidismo causata dalla repentina immissione in circolo di ormoni tiroidei. Il decorso naturale della malattia è caratterizzato, in assenza di un opportuno trattamento, da recidive (“tiroidite recidivante”). Questo stato di tireotossicosi si può verificare in circa il 50% dei pazienti e regredisce dopo alcune settimane, con la funzione tiroidea che ritorna alla norma nel 95% dei casi e che nel rimanente 5% si trasforma un uno stato di ipotiroidismo che dura da 4 a 6 mesi. La tiroidite subacuta tende comunque a guarire spontaneamente nello spazio di alcuni mesi, di solito senza reliquati. D. Esami di laboratorio. Caratteristici della tiroidite di De Quervain sono un forte aumento della velocità di eritrosedimentazione e degli altri indici di fase acuta, e la presenza, talora, di leucocitosi. Gli anticorpi antitireoglobulina e antiperossidasi tiroidea sono assenti o presenti a basso titolo. La concentrazione in circolo degli ormoni tiroidei varia in rapporto all’evoluzione della malattia. Nella fase di esordio la concentrazione di T3 e T4 è elevata (con un rapporto di T4 e T3 inferiore a 20, il che riflette la proporzione degli ormoni immagazzinati nella tiroide) e quella di TSH è ridotta; successivamente T3 e T4 tendono a ridursi e il TSH ad aumentare. La captazione tiroidea del radioiodio è nettamente ridotta. Questo è molto utile per discriminare l’ipertiroidismo di questa tiroidite da quello della malattia di Graves, nella quale la captazione del radioiodio è aumentata. Anche l’ultrasonografia color-Doppler è utile per questa distinzione, in quanto nella tiroidite di De Quervain la vascolarizzazione tiroidea è normale o ridotta, mentre nella malattia di Graves è aumentata. E. Diagnosi. Nei pazienti con sintomatologia conclamata la diagnosi non presenta difficoltà: l’anamnesi di un recente episodio infettivo delle prime vie aeree e il rilievo palpatorio di una tumefazione dolente della tiroide sono sufficienti alla diagnosi clinica, che trova supporto nell’alterazione della VES e degli altri indici infiammatori e nella soppressione della captazione del radioiodio. Nelle forme con più spiccati segni di iperfunzione tiroidea la diagnosi differenziale deve essere posta con la malattia di Graves (captazione elevata) e soprattutto con le altre condizioni di “tireotossicosi a bassa captazione”: tireotossicosi fattizia, ipertiroidismo da eccesso di iodio, tiroidite subacuta linfocitaria. F. Cenni di terapia. La terapia sintomatica con corticosteroidi o con acido acetilsalicilico è efficace nel
controllare i sintomi ed è utile ad abbreviare il decorso della malattia e ad evitare la comparsa di recidive. Raramente è richiesta la terapia con L-tiroxina nei rari casi che sviluppano un ipotiroidismo, ma questa è indicato solo nei pazienti sintomatici e per un periodo transitorio.
Tiroidite sporadica indolore Questa forma di tiroidite è definita anche “tiroidite indolore”, “ipertiroidite”, “tiroidite subacuta atipica”. Questa diversa nomenclatura è riferita alle principali caratteristiche anatomocliniche della malattia, che è essenzialmente caratterizzata da ipertiroidismo transitorio e infiltrazione linfocitaria della tiroide. Alcune caratteristiche cliniche, il decorso e le alterazioni bioumorali sembrano in parte sovrapporsi a quelle della tiroidite di De Quervain, dalla quale la tiroidite sporadica indolore si distingue per l’assenza di dolore in sede tiroidea, per una costante fase di ipertiroidismo e per una modesta o assente alterazione degli indici di flogosi. Le caratteristiche istologiche sono indistinguibili da quelle di una forma lieve di tiroidite di Hashimoto. La tiroidite sporadica indolore sarebbe una malattia non rara, responsabile di una quota non trascurabile (520%) di ipertiroidismo, ad eziologia non definita. A. Eziologia. È sconosciuta; non esistono dati a sostegno di un’eziologia virale. La patogenesi immune è suggerita dall’infiltrazione linfocitaria, ma mancano altri elementi – associazione con altre malattie autoimmuni, presenza di anticorpi circolanti ad alto titolo, ecc. – caratteristici della tiroidite di Hashimoto. B. Clinica. Le manifestazioni cliniche da ipertiroidismo (si veda la Tab. 57.6) rappresentano l’elemento clinico più evidente; sono assenti i sintomi extratiroidei – oftalmopatia, mixedema pretibiale – caratteristici della malattia di Graves. L’ipertiroidismo è in genere lieve e persiste solo per alcune settimane (in ogni caso meno di tre mesi). La tiroide è modestamente e diffusamente aumentata di volume; non è dolente. Il decorso della malattia è caratterizzato, in circa il 30% dei pazienti, da una fase di ipotiroidismo tardivo transitorio. C. Esami di laboratorio. La concentrazione di FT3 e FT4 in circolo è elevata nelle fasi di ipertiroidismo. La captazione tiroidea del radioiodio è ridotta e non stimolabile dal TSH esogeno. A differenza di quanto si rileva nella tiroidite di De Quervain, la VES è solo lievemente aumentata e il numero dei leucociti è normale. Gli anticorpi antitireoglobulina e antitireoperossidasi (TPO) in circolo sono presenti in circa il 50% dei casi. Nella fase di ipotiroidismo si osservano un aumento di TSH e una riduzione di T3 e T4 circolanti. All’agobiopsia si osserva un quadro di infiltrazione interfollicolare di linfociti con degenerazione delle cellule follicolari.
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MALATTIE ENDOCRINE
D. Diagnosi. La diagnosi differenziale va posta con le altre condizioni di ipertiroidismo e captazione ridotta (si veda la diagnosi della tiroidite di De Quervain). La diagnosi di tiroidite sporadica indolore deve essere tenuta presente in tutte le condizioni di ipertiroidismo, in quanto in questa condizione, non rara, non è indicato il trattamento con antitiroidei e tanto meno la terapia chirurgica o radiante. E. Cenni di terapia. Durante la fase di ipertiroidismo è utile l’uso dei -bloccanti per controllare la sintomatologia. Non è indicato l’impiego di antitiroidei. In assenza di flogosi e di disturbi a livello tiroideo, l’impiego dei corticosteroidi è giustificato solo dalla capacità di questi farmaci di abbreviare il decorso della malattia. Nella fase di ipotiroidismo è necessaria la terapia sostitutiva con levotiroxina.
Tiroidite indolore post partum (*) È una forma molto simile alla precedente, che si verifica in alcune donne entro pochi mesi dal parto. La malattia è più comune nelle donne con una propensione all’autoimmunità, come avviene in coloro che sviluppano alte concentrazioni di anticorpi antiperossidasi tiroidea nel primo trimestre di gravidanza o subito dopo il parto, o nelle pazienti affette da altri disordini autoimmuni, come il diabete di tipo I, o con una storia familiare di malattie tiroidee autoimmuni. Dal punto di vista anatomopatologico la malattia è molto simile alla tiroidite sporadica indolore. A. Clinica. La sequenza ipertiroidismo, ipotiroidismo, eutiroidismo si verifica in questa malattia in soltanto un terzo delle pazienti. Quando si instaura, l’ipertiroidismo comincia da uno a sei mesi dopo il parto e dura da uno a due mesi. Questa fase può essere seguita da una fase di ipotiroidismo che inizia quattrootto mesi dopo il parto e dura per altri quattro-sei mesi. La percentuale di donne nelle quali questo ipotiroidismo diviene cronico e permanente è controversa. In alcuni studi è stato sostenuto che entro un anno l’80% delle donne che erano ipotiroideo recuperano una normale funzione ghiandolare. In altri si è sostenuto che entro sette anni il 50% delle donne con questa malattia diviene permanentemente ipotiroideo, specialmente se si tratta di donne multipare o con una storia di aborti ricorrenti. Nella maggior parte dei casi si palpa un piccolo gozzo duro, non dolente alla pressione. Dopo un primo episodio di tiroidite indolore post partum vi è una probabilità del 70% di una recidiva nelle gravidanze successive. B. Esami di laboratorio. A differenza della tiroidite di De Quervain e così come nella tiroidite sporadica indolore, la velocità di eritrosedimentazione e gli altri (*) C. Rugarli.
segni di fase acuta non sono alterati. Come si è detto, le alterazioni delle concentrazioni ematiche degli ormoni tiroidei, dello stesso tipo di quelle che si verificano nelle altre tiroiditi subacute, si osservano in circa un terzo dei casi. Sono presenti alte concentrazioni di anticorpi antitireoglobulina o antiperossidasi o entrambi. La captazione tiroidea del radioiodio deve essere praticata con cautela nelle donne che allattano, poiché lo iodio radioattivo è secreto nel latte materno. Perciò, questo esame è indicato solamente quando esista un sospetto clinico di malattia di Graves in assenza di segni di accompagnamento come l’esoftalmo o il mixedema pretibiale. L’indagine è discriminante perché nella tiroidite post partum, così come nelle altre tiroiditi subacute, il possibile ipertiroidismo è dovuto a rilasciamento di ormoni tiroidei immagazzinati e non a una loro aumentata secrezione; manca perciò l’incrementata captazione del radioiodio. Tuttavia, le madri che allattano e che si sottopongono al test debbono aspirare e scartare il loro latte per almeno 2 giorni dopo avere eseguito l’esame. C. Cenni di terapia. Come nell’ipertiroidismo delle altre tiroiditi subacute, anche in questa forma la somministrazione di antitiroidei di sintesi è controin-dicata perché può aggravare un possibile ipotiroidismo. Per combattere i sintomi di questa condizione basta la somministrazione di -bloccanti. Nella fase di ipotiroidismo può essere necessario ricorrere alla L-tiroxina.
Tiroidite cronica di Hashimoto La tiroidite cronica di Hashimoto, o tiroidite linfocitaria o tiroidite cronica autoimmune è un’affezione piuttosto comune. Rappresenta probabilmente la causa più frequente di ipotiroidismo dell’adulto. A. Eziopatogenesi. La presenza di anticorpi circolanti ad alto titolo, l’infiltrazione linfocitaria della ghiandola, la frequente associazione con altre affezioni autoimmuni (si veda la Tab. 61.2) indicano una patogenesi immunitaria della malattia. In effetti, è comune in questa malattia la presenza, anche a titolo molto elevato, di autoanticorpi diretti contro antigeni tiroidei, in particolare contro la tireoglobulina (Tg) e la perossidasi tiroidea (TPO). Meno evidente, ma probabilmente più importante, è il ruolo in questa malattia dell’immunità cellulare, ossia quella mediata direttamente da linfociti T autoreattivi contro le cellule tiroidee. Tra questi, i linfociti CD4+ possono agire determinando un’infiammazione locale, grazie alla produzione diretta o indiretta (da parte di macrofagi) di citochine infiammatorie. I linfociti CD8+, almeno teoricamente, possono esercitare un’azione litica diretta sulle cellule tiroidee. La tiroidite di Hashimoto fa parte di uno spettro di tireopatie autoimmuni che comprende la malattia di Graves, l’oftalmopatia e la tiroidite atrofica. L’importanza del meccanismo autoimmune trova ulteriore conferma nella frequente insorgenza di tiroidite linfocitica e ipotiroidismo in corso di trattamenti con
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interferon- e , molecole capaci di indurre e modulare l’espressione degli antigeni HLA di classe I e II sulla superficie cellulare e quindi di interferire con la risposta immunitaria. Esiste una notevole familiarità per le tireopatie autoimmuni. In parte questo può dipendere dagli antigeni del sistema maggiore di istocompatibilità, che sono deputati a presentare ai linfociti T, sotto forma di peptidi, gli stimoli immunogenici. Si è visto che i soggetti che presentano sulle loro cellule l’antigene HLA-DR5 hanno un rischio relativo di sviluppare tiroidite di Hashimoto che è 3,2 volte superiore rispetto ai soggetti negativi per questo antigene. Ma anche una generica predisposizione costituzionale allo sviluppo di autoimmunità sembra importante. Infatti, è ben nota una certa aggregazione familiare di alterazioni immunopatologiche, anche tra di loro diverse, e non è insolita la coesistenza della tiroidite di Hashimoto con altre malattie autoimmuni, o almeno con le alterazioni sierologiche che le caratterizzano.
senza di intenso infiltrato infiammatorio interstiziale che separa le strutture follicolari residue. Queste mostrano iperplasia, con epitelio follicolare cilindrico e chiaro, e vacuolizzazione marginale della colloide. A volte le cellule follicolari mostrano metaplasia ossifila, caratterizzata da ampio citoplasma eosinofilo granulare (che in microscopia elettronica appare particolarmente ricco in mitocondri dilatati e con creste distorte). L’epitelio follicolare residuo è infiltrato da linfociti e plasmacellule, e la colloide è fissurata e contiene rari istiociti e cellule giganti. Il tessuto interstiziale contiene un denso infiltrato di linfociti e plasmacellule, spesso organizzati in follicoli con centri chiari germinativi ben evidenti, che circonda i follicoli tiroidei e che ingloba isole solide di cellule ossifile. Il grado di fibrosi varia da caso a caso e in alcune aree mostra aspetto ialino, amiloido-simile. La tiroidite di Hashimoto tende ad evolvere dalla fase cellulare, associata talora a ipertiroidismo, a quella fibrosa, nella quale si hanno ipotiroidismo e atrofia della ghiandola (tiroidite atrofica).
B. Anatomia patologica. La tiroide è aumentata di volume, con peso tra 50 e 150 g, liscia, lobulata e dura di consistenza, simmetrica e, quindi, di forma conservata. Solo occasionalmente la malattia si presenta con un nodulo solitario di consistenza aumentata. Si osserva generalmente aumento di volume e consistenza dei linfonodi regionali. La superficie di taglio della tiroide è lobulata, grigiastra e compatta. L’architettura ghiandolare è notevolmente alterata per la pre-
C. Clinica. La malattia è caratterizzata da un gozzo di modeste dimensioni, non dolente. Dal punto di vista funzionale è caratterizzata da una lenta evoluzione verso l’ipotiroidismo. Nelle fasi iniziali la funzione tiroidea è conservata, vi è poi una fase di ipotiroidismo subclinico caratterizzata da aumento del TSH con FT3 e FT4 normali che può durare anni; solo una parte dei pazienti sviluppa un ipotiroidismo clinico (Fig. 57.10). La
NORMALITÀ
EUTIROIDISMO
IPOTIROIDISMO SUBCLINICO
IPOTIROIDISMO
Focolai di tiroidite autoimmune
Estensione dei processi di tiroidite autoimmune
Progressione dei processi di tiroidite autoimmune
Tg Ab –
Tg Ab +
Tg Ab + +
Tg Ab ±
TPO Ab –
TPO Ab ±
TPO Ab +++
TPO Ab +++
TSH
FT3 FT4
Figura 57.10 - Evoluzione della tiroidite autoimmune: Tg Ab = anticorpi (Ab) antitireoglobulina; TPO Ab = anticorpi antiperossidasi tiroidea.
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malattia viene spesso diagnosticata nella fase di ipotiroidismo subclinico per la presenza di gozzo e/o per il rilievo casuale di un aumento del TSH. In questa fase la probabilità di sviluppare l’ipotiroidismo clinico è correlata con l’entità dell’aumento del TSH e degli anticorpi antiperossidasi; in presenza di TSH maggiore di 10 mU/ml e anticorpi antiperossidasi a titolo elevato il rischio di sviluppare ipotiroidismo clinico nell’arco di pochi anni è molto alto. D’altro canto, nel decorso della malattia, possono aversi periodi di ipertiroidismo transitorio o addirittura può svilupparsi la malattia di Graves (“Hashitoxicosis”) con oftalmopatia e dermopatia. È descritta la rara possibilità che pazienti con tiroidite di Hashimoto sviluppino un linfoma della tiroide, ma una connessione patogenetica tra le due malattie non è nota. Studi recenti hanno dimostrato che nei pazienti con tiroidite cronica è aumentato il rischio di sviluppare non solo un linfoma della tiroide, ma anche neoplasie sistemiche del tessuto linfatico. Poiché anche in altre malattie autoimmuni, come la sindrome di Sjögren, vi è un aumentato rischio di sviluppare linfomi maligni, si è ipotizzato che la cronica stimolazione antigenica dei linfociti che si verifica nelle malattie autoimmuni possa indurre in alcune popolazioni linfocitarie una maggior suscettibilità alla trasformazione neoplastica. D. Esami di laboratorio. Il dato di laboratorio più probante è la presenza in circolo di anticorpi antitireoglobulina e antiperossidasi ad alto titolo. Durante le fasi precoci della malattia sono spiccatamente aumentati gli anticorpi antitireoglobulina; nelle fasi più avanzate gli anticorpi antitireoglobulina tendono a ridursi, mentre gli anticorpi antiperossidasi persistono in circolo per anni. La normalità dei livelli circolanti di FT3 e FT4 non esclude la diagnosi di tiroidite cronica autoimmune; la concentrazione in circolo dei due ormoni può essere normale, aumentata o più frequentemente diminuita secondo le fasi della malattia. La misura ripetuta del TSH circolante fornisce una preziosa informazione per monitorare l’evoluzione verso l’ipotiroidismo, che viene diagnosticato quando all’aumento del TSH si associa una riduzione della FT4. L’esame citologico mediante agoaspirato non è di solito necessario per la diagnosi, ma diviene indispensabile quando concomitino noduli e/o siano presenti focolai di tiroidite focale con aspetto ecografico o palpatorio similnodulare. E. Diagnosi. La tiroidite cronica di Hashimoto deve essere differenziata dalle altre forme di gozzo diffuso o nodulare. Gli elementi clinici e la titolazione degli anticorpi circolanti sono in genere sufficienti per porre la diagnosi. La presenza di manifestazioni autoimmuni in altre sedi va attentamente ricercata (si veda la Tab. 61.2). F. Cenni di terapia. La somministrazione di L-tiroxina, inibendo la secrezione di TSH, provoca una regressione del gozzo e corregge l’eventuale ipotiroidismo.
MALATTIE ENDOCRINE
L’ipotiroidismo subclinico non è di per sé un’indicazione alla terapia con L-tiroxina; questa è consigliabile solo quando livelli nettamente aumentati di TSH associati ad anticorpi antiperossidasi ad alto titolo facciano prevedere un’evoluzione verso l’ipotiroidismo clinico in tempi brevi.
Tiroidite cronica di Riedel La tiroidite di Riedel o “tiroidite lignea”, o “fibrosa” o “fibroinvasiva” è un’affezione molto rara, ad eziologia non definita, caratterizzata da lesioni infiammatorie croniche, ad evoluzione fibrosclerotica, che coinvolgono, oltre al parenchima tiroideo, le strutture adiacenti: trachea, esofago, paratiroidi, muscoli del collo. Il processo fibrosclerotico può interessare altri distretti: retroperitoneo, mediastino, dotti biliari, parotidi (fibrosclerosite multifocale). Il processo fibrosclerotico provoca un completo sovvertimento delle strutture anatomiche della tiroide; il tessuto follicolare è progressivamente sostituito da tralci fibrosi che inglobano isole di epitelio irregolarmente distribuite. A. Anatomia patologica. Il processo interessa solo un’area localizzata della ghiandola, che diventa di consistenza duro-lignea e fissa alle strutture limitrofe per deposizione di tessuto fibroso denso nella capsula e nel tessuto adiposo peritiroideo. Le zone colpite dalla lesione mostrano perdita della struttura lobulare e sostituzione del parenchima da parte di connettivo fibroso denso, frammisto al quale si osservano rari follicoli compressi, linfociti, plasmacellule ed occasionali granulociti; mancano le cellule giganti e gli istiociti. B. Clinica. La malattia predilige il sesso femminile. L’esordio è insidioso. I sintomi principali sono disturbi da compressione delle strutture del collo; in particolare esofago, trachea, nervi ricorrenti con disfagia, dispnea, cambiamento del tono della voce, afonia. La lesione tiroidea, inizialmente localizzata, si estende gradualmente coinvolgendo, nell’arco di mesi o di anni, l’intera ghiandola. La tiroide è di durezza lignea, indolore, aderente ai piani profondi, modestamente ingrandita. La cute non è infiltrata; i segni di infiammazione sono assenti. I pazienti sviluppano lentamente un ipotiroidismo irreversibile. Il coinvolgimento delle paratiroidi nel processo fibrosclerotico può provocare ipoparatiroidismo. C. Diagnosi. I caratteri semeiologici della tumefazione tiroidea indirizzano verso una neoplasia; la diagnosi di tiroidite di Riedel può essere posta solo istologicamente. D. Cenni di terapia. L’intervento chirurgico offre l’unica possibilità di porre una sicura diagnosi e di
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57 - MALATTIE DELLA TIROIDE
alleviare i disturbi compressivi sulla trachea e l’esofago, asportando il tessuto fibrosclerotico presente nella regione istmica e separando e lateralizzando i due lobi. L’ipotiroidismo va trattato con terapia sostitutiva.
Tiroiditi indotte da farmaci (*) Molti farmaci possono interferire con la funzione tiroidea, ma solo pochi possono provocare tiroiditi con meccanismi immunitari. Li ricordiamo brevemente. • Amiodarone. Questo antiaritmico contiene iodio e induce ipotiroidismo fino al 20% dei soggetti che lo ricevono nelle regioni ove l’apporto dietetico di iodio è sufficiente. Sono particolarmente a rischio i soggetti con preesistente autoimmunità contro la tiroide. Se si sviluppa questo difetto della funzione ghiandolare lo si può trattare con L-tiroxina pur proseguendo l’amiodarone, anche se di solito occorre adoperare dosi di questo farmaco più alte di quelle ordinariamente impiegate per normalizzare i livelli ematici di TSH. In corso di terapia con amiodarone si può anche verificare un ipertiroidismo, la cui prevalenza è stata stimata poco oltre il 20% e più facile nelle zone con scarsezza ambientale di iodio. La tireotossicosi può derivare tanto da aumentata sintesi degli ormoni tiroidei, come nella malattia di Graves (tipo I), quanto da aumentato rilasciamento di ormoni tiroidei immagazzinati nella tiroide sottoposta a processi distruttivi, come nelle tiroiditi subacute (tipo II). È chiaro che la distinzione tra le due forme è importante per gli indirizzi terapeutici, dato che il tipo I necessita di antitiroidei di sintesi e il tipo II di steroidi glicoattivi. La captazione tiroidea del radioidio non è di aiuto, perché è bassa in entrambe le forme in conseguenza dell’apporto di iodio non radioattivo che è avvenuto attraverso la somministrazione di amiodarone. L’ultrasonografia color-Doppler è invece utile perché mostra un’ipervascolarità nel tipo I e una vascolarità ridotta nel tipo II. Tenendo conto di queste importanti complicanze, viene consigliato di eseguire il dosaggio nel sangue degli ormoni tiroidei e del TSH, e la ricerca degli anticorpi antitireoglobulina e antiperossidasi tiroidea in tutti i pazienti che sono indirizzati al trattamento con amiodarone. • Litio. Si è visto che pazienti trattati con litio e con preesistente autoimmunità contro la tiroide possono presentare, dal 10 al 33% dei casi, un incremento del titolo degli anticorpi diretti contro questa ghiandola. In aggiunta, si è visto che i pazienti trattati a lungo con litio possono sviluppare tireotossicosi, o per un effetto distruttivo di questo elemento sulle cellule tiroidee o per l’induzione di una tiroidite subacuta. In entrambi i casi l’ipertiroidismo deriva da rilascia(*) C. Rugarli.
mento degli ormoni tiroidei immagazzinati nella tiroide danneggiata e non da aumento della loro secrezione. • Interferon- e interleuchina-2. L’interferon-, impiegato più comunemente nella terapia delle epatiti croniche, può indurre autoimmunità tiroidea, con comparsa di alte concentrazioni di anticorpi antiperossidasi nel siero. Come risultato si possono avere tiroiditi subacute e croniche con transitorio ipertiroidismo, che alla fine possono esitare in ipotiroidismo, e lo sviluppo di una vera e propria malattia di Graves. Anche l’interleuchina-2, impiegata nella terapia delle neoplasie renali, può condurre agli stessi risultati. È importante ricordare che tanto l’interferon-a quanto l’interleuchina-2 promuovono i processi immunitari.
IPERTIROIDISMO L’ipertiroidismo è una condizione morbosa causata da una eccessiva concentrazione di ormoni tiroidei circolanti, che deriva, quasi costantemente, da una iperattività della tiroide. Solo in rari casi l’ipertiroidismo può essere dovuto ad inappropriata secrezione di TSH, ad eccessiva assunzione di ormoni tiroidei oppure a produzione di ormoni tiroidei in sedi ectopiche. L’aumentata produzione di ormoni da parte della tiroide presuppone la presenza di un maggior numero di cellule secernenti, vale a dire un’iperplasia. Questo fenomeno può realizzarsi in maniera autonoma e circoscritta assumendo le caratteristiche di una neoformazione, solitamente benigna, unica (adenoma tossico o morbo di Plummer) o multipla (gozzo nodulare tossico), oppure può derivare da una iperstimolazione esercitata sulla ghiandola da fattori esterni che proTabella 57.4 - Cause di ipertiroidismo. • Malattia di Graves (o di Basedow) o gozzo tossico diffuso nella letteratura anglosassone • Adenoma tossico o morbo di Plummer • Gozzo multinodulare tossico • Tiroiditi subacute, di De Quervain e linfocitica (1) • Tiroidite cronica di Hashimoto (Hashitoxicosis) (1) • Ipertiroidismo secondario a produzione di HCG, o di peptidi correlati ad azione tireostimolante, da parte di tumori trofoblastici (coriocarcinoma, mola vescicolare, carcinoma embrionale del testicolo) • Tireotossicosi fattizia da ingestione di ormoni tiroidei o da ormoni tiroidei contenuti negli alimenti • Ipertiroidismo da tessuto tiroideo ectopico • Metastasi funzionanti di neoplasie tiroidee • Teratoma ovarico (struma ovarii) (1) L’ipertiroidismo è transitorio e tende ad autoestinguersi.
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vocano una iperplasia diffusa della tiroide (gozzo tossico diffuso o malattia di Graves). Le sindromi cliniche che derivano da queste diverse situazioni patologiche (Tab. 57.4) hanno in comune i sintomi e i segni causati dall’aumentata concentrazione di ormoni tiroidei circolanti, ma differiscono tra loro per molti e rilevanti aspetti clinici. Le prime tre forme riportate nella tabella sono responsabili della quasi totalità degli ipertiroidismi; in particolare la malattia di Graves è la forma più importante e frequente; ad essa faremo riferimento nella descrizione del quadro clinico.
Malattia di Graves o di Basedow Per più di un secolo questa malattia è stata chiamata nell’Europa continentale morbo di Basedow, dal nome del clinico tedesco Karl Anton Basedow che la descrisse nel 1840. Dopo la seconda guerra mondiale, con il declino dell’egemonia della letteratura medica tedesca e con l’affermazione di quella di lingua inglese, si è sempre più diffuso l’eponimo malattia di Graves, dal nome del medico irlandese Robert James Graves, che la descrisse a sua volta nel 1853. Perciò, sembrerebbe che la priorità e il diritto all’eponimo tocchino a Basedow. Ma anche questi non era arrivato primo, dato che questa malattia era già stata segnalata nella letteratura medica nel 1825 da Caleb Hillier Parry. Comunque, non è qui il caso di fare questioni di priorità, ma è bene tenere conto della globalizzazione della letteratura medica di ligua inglese e chiamare questa forma morbosa malattia di Graves, come oramai sta avvenendo in ogni parte del mondo, consegnando il nome di Basedow (ingiustamente dimenticato dagli Autori anglosassoni) alla storia della medicina. Manterremo, però, l’aggettivo “basedowiano”, dato che è nel liguaggio comune e l’aggettivo riferito a Graves non è ancora stato inventato. La malattia di Graves non è rara. L’ipertiroidismo è l’endocrinopatia più frequente, dopo il diabete mellito. In un recente studio effettuato in Gran Bretagna, l’incidenza/anno era di 2-3‰ donne. Il sesso femminile è nettamente più colpito; il rapporto maschi:femmine viene generalmente considerato intorno a 1:5; tuttavia, in alcuni studi, l’incidenza nel sesso femminile è ben maggiore: per esempio, nello studio sopra citato l’incidenza assoluta della malattia è di 19,0‰ donne e di 1,6‰ uomini; le fasce di età più colpite sono quelle tra i 20 e i 40 anni. Esiste una stretta familiarità, nel senso che tra i familiari dei pazienti basedowiani vi è un’incidenza nettamente maggiore di malattie tiroidee autoimmuni o di soggetti sani nei quali sono presenti anticorpi antitiroide in circolo. Lo studio degli antigeni di istocompatibilità ha dimostrato una prevalenza, nei pazienti basedowiani, di soggetti con aplotipo HLA-B8, DR3 e DQw2 nell’emisfero occidentale e HLA-Bw35 e B46 in Estremo Oriente. Questi risultati sembrano indicativi dell’esistenza di un fattore genetico predisponente.
A. Patogenesi. L’iperplasia e l’iperattività tiroidea sono causate da anticorpi circolanti il cui antigene specifico è rappresentato dal recettore del TSH presente sulla superficie dei tireociti. La presenza nel siero dei pazienti basedowiani di un fattore stimolante la tiroide è stata dimostrata oltre 40 anni fa da Adams e Purves che lo denominarono LATS (Long Acting Thyroid Stimulator) a causa della prolungata durata di azione del materiale contenuto nel siero rispetto al TSH. Da allora è stata identificata nel siero dei pazienti basedowiani una serie di immunoglobuline appartenenti alla classe IgG che si legano al recettore del TSH. Queste immunoglobuline, note anche come TSI (Thyroid Stimulating Immunoglobulins), hanno in realtà attività biologica differente. In particolare, l’immunoglobulina (TSH-R Ab) ritenuta direttamente responsabile della malattia di Graves, una volta legata al recettore del TSH, dà avvio ad una cascata di fenomeni – attivazione dell’adenilciclasi, incremento del volume e della vascolarizzazione tiroidea aumento della produzione e della secrezione di ormoni tiroidei – identica a quella innescata dal TSH. È stata però isolata un’altra immunoglobulina che, legandosi al recettore del TSH senza attivarlo, inibisce l’attività della tiroide agendo come un antagonista recettoriale del TSH (TSH-R BII). Anche se il TSH-R Ab non sembra direttamente coinvolto nella patogenesi dell’oftalmopatia e delle altre manifestazioni extratiroidee della malattia di Graves (mixedema pretibiale, acropachia), molteplici evidenze indicano che anche questi fenomeni sono sostenuti da un processo autoimmune che coinvolge, insieme alla tiroide, tessuti extratiroidei. In particolare, per quanto riguarda l’oftalmopatia basedowiana, si ritiene che il processo autoimmune sia iniziato e mantenuto da uno o più antigeni comuni ai tireociti e ad alcune strutture endorbitarie. Tuttavia, l’esatta natura dell’antigene in causa (forse la proteina 64kDA espressa sia dai tireociti sia dai fibroblasti e dai muscoli endorbitali), così come quella degli anticorpi, non è nota. È anche possibile che siano in atto meccanismi di immunità cellulare, mediati da linfociti T. In base alla coesistenza, nei pazienti basedowiani, di reazioni autoimmuni dirette contro bersagli diversi, l’ipertiroidismo si associa, con maggiore o minore evidenza, alle manifestazioni extratiroidee. Queste ultime, in particolare l’oftalmopatia, possono d’altro canto manifestarsi anche in assenza di ipertiroidismo. Mentre appare ben stabilito che nella malattia di Graves l’ipertiroidismo è causato dal TSH-R Ab e che le altre manifestazioni della malattia sono legate all’azione di immunoglobuline e probabilmente anche di linfociti T rivolti verso alcuni antigeni tissutali, rimane da chiarire quali sono i meccanismi responsabili di questa forma di autoimmunità. Si veda, in proposito, quanto scritto sulla patogenesi delle tiroiditi, e in particolare della tiroidite di Hashimoto (onde il termine Hashitoxicosis, gioco di parole che fonde Hashimoto e tireotossicosi). Si veda anche, a proposito dei meccanismi di autoimmunità, quanto scritto nel capitolo 68. È stata prospettata la possibilità che la reazione autoimmune sia legata ad un’espressione aberrante di antigeni di istocompatibilità di classe II, HLA-DR, sui ti-
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processo; in soggetti predisposti geneticamente vi sarebbe invece un difettoso controllo da parte dei linfociti T soppressori con innesco della malattia autoimmune. Secondo un concetto che tenta di unificare tutte le sindromi tiroidee autoimmuni (malattia di Graves, oftalmopatia, tiroidite di Hashimoto), le manifestazioni cliniche di queste sindromi deriverebbero dalla coesistenza di classi distinte di autoanticorpi, alcuni stimolanti la funzione (TSI = malattia di Graves) o l’accrescimento (Thyroid Growth Stimulating Immunoglobulin, TGI = gozzo semplice e gozzo nodulare tossico), altri citotossici (tiroidite di Hashimoto), altri bloccanti i recettori del TSH (tiroidite atrofica e mixedema). Secondo questa ipotesi, presentata nella figura 57.11, le sindromi tiroidee autoimmuni rappresenterebbero uno spettro continuo in cui le singole manifestazioni possono comparire nello stesso paziente contemporaneamente o in epoche successive. Questo concetto trova riscontro nell’esperienza clinica: è possibile osservare pazienti affetti da malattia di Graves con o senza oftalmopatia e con o senza gozzo; la malattia di Graves può coesistere o, più spesso, evolvere in una tiroidite di
reociti. In condizioni normali, i tireociti esprimono sulla superficie cellulare solo antigeni di istocompatibilità di classe I, HLA-A, B, C. È stato recentemente dimostrato che i tireociti di pazienti affetti da malattia di Graves e tiroidite di Hashimoto esprimono antigeni di istocompatibilità di classe II, HLA-DR, normalmente presenti nelle cellule (principalmente macrofagi) che presentano l’antigene ai linfociti T iniziando la risposta immune. L’espressione di antigeni di classe II permetterebbe quindi ai tireociti di presentare direttamente autoantigeni (antigene microsomale, tireoglobulina, recettore del TSH) senza la mediazione di cellule specializzate. Di particolare interesse è inoltre l’osservazione in vitro che cellule tiroidee normali stimolate con interferon- sono in grado di esprimere DR. Si può quindi ipotizzare la seguente sequenza eziopatogenetica: infezione virale → produzione di interferon- da parte della cellula tiroidea → espressione di DR → presentazione di un autoantigene → induzione di cellule T autoimmuni. Queste cellule T attiverebbero i linfociti B effettori. In soggetti normali i meccanismi di sorveglianza immunologica non permetterebbero l’amplificazione del
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Ipertiroidismo
Figura 57.11 - Rappresentazione schematica delle possibili correlazioni tra le tireopatie a patogenesi autoimmune. La coesistenza di classi separate di autoanticorpi con proprietà biologiche diverse, stimolanti la funzione o l’accrescimento, citotossici, bloccanti il recettore del TSH, rappresenta il substrato immunologico delle diverse espressioni anatomocliniche delle tireopatie autoimmuni. La possibilità che nello stesso paziente, contemporaneamente o in fasi successive della malattia, possano coesistere anticorpi di classi differenti rende d’altro canto ragione dell’esistenza di forme cliniche intermedie. Tutte le forme possono esitare nella tiroidite atrofica, anche se questa eventualità si verifica con frequenza assai maggiore nei pazienti con tiroidite di Hashimoto. (Per maggiori dettagli si veda il testo.) Il ruolo delle TGI (Thyroid Growth Stimulating Immunoglobulins) che stimolano l’accrescimento, ma non la funzione della tiroide, è ancora discusso.
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Hashimoto (Hashitoxicosis). La tiroidite atrofica con mixedema rappresenta lo stadio finale di una notevole percentuale di tiroiditi di Hashimoto e di una più piccola quota di ipertiroidismi da malattia di Graves. B. Anatomia patologica. La ghiandola appare liscia, simmetrica, succulenta e ben vascolarizzata, con superficie di taglio lobulare di colorito brunastro, grigiastro o rossastro in relazione al contenuto colloide e alla vascolarizzazione. Al microscopio ottico si osservano follicoli di dimensioni molto variabili; quelli più piccoli sono rivestiti da epitelio follicolare cilindrico, mentre quelli di diametro maggiore presentano strutture papillari focali, rivestite da epitelio cubico basso. I tireociti hanno ampio citoplasma chiaro, talora vacuolato, soprattutto in sede apicale. La colloide è chiara e con aspetto smangiato e vacuolato. C. Fisiopatologia. Le manifestazioni cliniche dell’ipertiroidismo sono in gran parte riconducibili alle modificazioni metaboliche ed all’iperattività del sistema adrenergico causate dall’elevata concentrazione di ormoni tiroidei. La principale conseguenza sul piano metabolico è rappresentata dall’aumentato consumo energetico. Il mantenimento delle funzioni fisiologiche di base e l’esecuzione del lavoro muscolare comportano un dispendio energetico superiore a quello del soggetto normale. Di conseguenza, si ha una maggiore utilizzazione e quindi un depauperamento dei depositi energetici, parzialmente compensata dalla maggiore introduzione calorica con gli alimenti. Il consumo di O2 è aumentato con contemporaneo aumento della produzione di calore. Anche il metabolismo intermedio delle proteine, dei lipidi e dei carboidrati subisce importanti modificazioni. In linea generale si ha una netta prevalenza dei processi catabolici. Questo atteggiamento metabolico è in accordo con il bifasismo d’azione degli ormoni tiroidei: in dosi fisiologiche stimolano i processi anabolici e di sintesi, mentre in dosi elevate attivano in prevalenza i processi catabolici. La sintesi e il catabolismo proteico sono stimolati, con netta prevalenza di quest’ultimo; come conseguenza il bilancio azotato si negativizza con aumentata escrezione urinaria di azoto. A livello dei muscoli scheletrici l’effetto catabolico determina liberazione di creatina (eliminata in quantità elevata con le urine) e atrofia muscolare; analogamente a livello osseo la diminuzione della matrice proteica provoca mobilizzazione del calcio con ipercalcemia, ipercalciuria e osteoporosi. L’assorbimento intestinale di glucosio è aumentato, così come la produzione di glucosio dal glicogeno, dal lattato, dal glicerolo e dagli aminoacidi. Le elevate concentrazioni di ormoni tiroidei potenziano l’azione glicogenolitica ed iperglicemizzante delle catecolamine ed anche quelle dell’insulina, con conseguente maggiore utilizzazione del glucosio da parte del tessuto muscolare e di quello adiposo. Come conseguenza dell’accelerato turn-over metabolico del glucosio, le riserve epatiche di glicogeno sono ridotte.
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La risposta dell’insulinemia e della glicemia al carico orale di glucosio sono abitualmente normali; tuttavia in circa il 30% dei pazienti ipertiroidei la risposta insulinemica al carico orale di glucosio è inadeguata e la curva glicemica da carico è alterata; si ritiene che in questi pazienti l’ipertiroidismo renda evidente una latente insufficienza della secrezione insulinica. In accordo con questi rilievi di ordine metabolico, l’esperienza clinica dimostra che nei pazienti con diabete mellito preesistente l’insorgenza di ipertiroidismo aumenta nettamente il fabbisogno giornaliero di insulina. Il metabolismo lipidico è influenzato dall’eccesso di ormoni tiroidei in tutti i suoi aspetti: sintesi, mobilizzazione, catabolismo. Anche in questo caso l’azione catabolica è nettamente prevalente. Di conseguenza si riducono i livelli di colesterolo e di trigliceridi circolanti. La mobilizzazione dei depositi di tessuto adiposo è accelerata, con aumento degli acidi grassi liberi circolanti. Una serie di evidenze cliniche e sperimentali sembra dimostrare che alcune manifestazioni dell’ipertiroidismo, soprattutto a livello cardiaco e nervoso, siano correlabili con un’iperattività del sistema adrenergico. Tuttavia, la produzione di catecolamine non è aumentata nell’ipertiroidismo; anzi, le catecolamine totali nel siero sono ridotte, mentre l’adrenalina nel siero e le catecolamine urinarie sono normali. Gli ormoni tiroidei potenziano gli effetti delle catecolamine aumentando il numero dei recettori adrenergici (e forse la loro sensibilità) a livello di vari organi, con conseguente incremento della responsività tissutale alle catecolamine. D. Clinica. L’esordio della malattia può differire notevolmente da un paziente all’altro e anche nell’evoluzione naturale della malattia di Graves non è possibile riconoscere una sequenza o una progressione nella comparsa dei sintomi (Tab. 57.5). Tabella 57.5 - Nefropatie tubulointerstiziali. SINTOMI Eretismo, nervosismo, insonnia Iperidrosi Intolleranza al caldo Cardiopalmo Astenia e faticabilità Perdita di peso Aumento dell’appetito Diarrea SEGNI Gozzo diffuso Oftalmopatia Retrazione delle palpebre Aumento della rima palpebrale Tremori Mani calde Mani umide Tachicardia (> 90/min) Fibrillazione atriale
FREQUENZA % 80-90 50-91 41-89 63-89 44-88 52-85 11-65 12-33 FREQUENZA % 37-100 49-62 38 48-62 40-97 72 76 58-100 10-38
Da S.W. Spaulding e R.D. Utiger, in P. Felig et al., Endocrinology and Metabolism, McGraw-Hill, New York, 1981, compilata sulla base di alcune delle maggiori casistiche.
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Spesso il paziente chiede l’intervento del medico per sintomi (eretismo, insonnia, astenia, faticabilità, cardiopalmo, intolleranza al caldo, dimagramento) che non presentano alcun carattere di specificità. In altri malati sono presenti già all’esordio della malattia un ingrossamento diffuso della tiroide e/o i segni oculari che indirizzano immediatamente alla diagnosi (Figg. 57.12 e 57.13). Nei pazienti più anziani spesso i sintomi della malattia sono rappresentati da manifestazioni cardiovascolari: tachicardia spiccata, fibrillazione atriale, scompenso cardiaco in assenza di ogni altro sintomo o segno clinico. L’esame obiettivo evidenzia una serie di alterazioni legate all’azione che l’eccesso di ormoni tiroidei esercita a livello dei vari organi ed apparati. L’aspetto del malato, l’espressione del volto che tradisce apprensione, il modo di comportarsi e di gestire suggeriscono spesso, al primo approccio, il sospetto di ipertiroidismo anche in assenza di gozzo o di oftalmopatia. 1. Sistema nervoso ed apparato muscolare. Irritabilità, nervosismo, insonnia, labilità emotiva sono pressoché costantemente presenti. Nonostante l’irrequietezza e l’iperattività spesso il paziente riferisce uno scadimento dell’attività lavorativa o del rendimento scolastico causato da scarsa capacità di concentrazione. Il tremore è il sintomo neuromuscolare più caratteristico e frequente; è tipicamente limitato alle mani e alle dita, i movimenti sono rapidi, uniformi, di piccola ampiezza. L’esecuzione di movimenti che richiedono una fine coordinazione può risultare difficoltosa. La compromissione muscolare può essere assai variabile; si può andare da una modesta ipotrofia muscolare, con facile esauribilità, ad una grave atrofia dei muscoli prossimali degli arti, con difficoltà a portare gli arti superiori sopra il capo, a salire su uno sgabello e/o a portarsi dalla posizione saduta a quella eretta. In questi casi la biopsia muscolare dimostra spiccata atrofia delle fibre muscolari con processi degenerativi, infiltrazione grassa e fibrosi. Nonostante l’astenia muscolare, i riflessi osteotendinei sono vivaci, con accelerazione della fase di contrazione e di rilassamento. 2. Cute e annessi. La cute è calda e umida. L’eccessiva sudorazione e l’intolleranza al caldo sono sintomi assai frequenti. Le unghie sono sottili e tendono a distaccarsi dal letto ungueale (onicolisi). Si può avere vitiligo. Il mixedema, localizzato in genere in regione pretibiale, è raro, essendo presente nel 2-3% dei pazienti basedowiani. Vitiligo e mixedema non sono causati dall’eccesso di ormoni tiroidei; sono presenti solo nella malattia di Graves in rapporto alla patologia autoimmune. 3. Oftalmopatia. Si veda in seguito. 4. Tiroide. Un aumento di volume della tiroide è assai frequente e può indirizzare alla diagnosi di ipertiroidismo. Nella malattia di Graves entrambi i lobi tiroidei sono diffusamente e simmetricamente aumentati di volume (gozzo tossico diffuso). In genere le dimensioni del gozzo sono modeste; quando il gozzo ha maggiori dimensioni è spesso possibile percepire un fremito ed
Figura 57.12 - Oftalmopatia tiroidea: esoftalmo asimmetrico.
Figura 57.13 - Paziente affetta da malattia di Graves.
ascoltare un soffio. L’assenza di gozzo non esclude comunque la diagnosi di malattia di Graves (Fig. 57.14). 5. Sistema cardiovascolare. Le manifestazioni cardiovascolari sono frequenti e possono rappresentare gli eventi clinici più precoci e più gravi dell’ipertiroidismo. Le modificazioni emodinamiche sono caratterizzate da: aumento della frequenza cardiaca e della contrattilità miocardica; aumento della gettata sistolica e della gettata cardiaca (volume/min); diminuzione delle resistenze periferiche per vasodilatazione; aumento del flusso distrettuale a livello della cute, dei muscoli, del cuore e dell’encefalo. Queste modificazioni emodinamiche rappresentano il risultato di più fattori: azione inotropa e cronotropa positiva degli ormoni tiroidei, aumentata responsività alle catecolamine, aumentata richiesta periferica di ossigeno. Sul piano clinico si osservano cardiopalmo, extrasistolia, crisi di tachicardia parossistica sopraventricolare e fibrillazione atriale. La pressione sistolica tende ad aumentare per l’aumento della gettata sistolica, mentre la diastolica tende a diminuire a causa della vasodilatazione periferica; di conseguenza aumenta la pressione differenziale. La vasodilatazione periferica ha effetti favorevoli rappresentati da un maggior apporto di ossigeno ai tessuti e da una maggiore termodispersione che compensa l’ipermetabolismo.
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B.
A.
C.
Figura 57.14 - Malattia di Graves. (A) Ingrandimento diffuso della tiroide. (B) Immagine scintigrafica della tiroide. (C) Ipertrofia diffusa della tiroide: la linea tratteggiata indica le dimensioni normali. (Illustrazioni di F.H. Netter, MD. Riproduzione autorizzata da Icon Learning Systems, a MediMedia USA Company. All Rights Reserved.)
È frequente l’associazione di fibrillazione atriale e scompenso cardiaco nei pazienti ipertiroidei. La possibilità che l’ipertiroidismo di per sé possa causare scompenso cardiaco è controversa. Si ritiene in genere che l’ipertiroidismo provochi scompenso cardiaco solo in pazienti con preesistenti alterazioni del miocardio. Tuttavia, recenti ricerche hanno dimostrato una riduzione della riserva funzionale cardiaca. L’aumento di efficienza della contrattilità miocardica, proprio dell’ipertiroidismo, è infatti presente solo in condizioni di riposo; durante lo sforzo essa si riduce nei pazienti ipertiroidei, al contrario di quanto avviene nei soggetti normali. Come già detto, nei pazienti anziani i segni dell’ipertiroidismo sono spesso confinati esclusivamente all’ambito cardiaco, tanto da far coniare agli Autori anglosassoni il termine di “apathetic hyperthyroidism”, che sottolinea come in questi pazienti siano del tutto assenti l’eretismo, l’irrequietezza e gli altri sintomi psichici che caratterizzano l’ipertiroidismo. 6. Apparato gastrointestinale. In relazione all’aumentato dispendio calorico si hanno aumento dell’appetito e polifagia. Tuttavia, nella maggior parte dei pazienti questo tentativo di compenso è insufficiente e si ha di conseguenza perdita di peso. Talora il dimagramento è cospicuo e può rappresentare per lungo tempo l’unico sintomo della malattia. In rari casi l’aumento di appetito e la maggior assunzione di cibo possono essere in eccesso rispetto all’aumentato fabbisogno calorico e può quindi aversi un incremento ponderale (cosiddetto “Basedow grasso”). Vi è aumentata motilità gastrointestinale, con aumentata frequenza della deposizione dell’alvo e raramente franca diarrea. 7. Apparato riproduttivo. Il principale effetto biochimico dell’eccesso di ormoni tiroidei è un aumento della globulina vettrice degli ormoni sessuali (SHBG); la concentrazione plasmatica di steroidi sessuali è così aumentata, ma le frazioni libere e biologicamente attive sono normali.
Nella donna in età fertile i cicli sono conservati e sono in genere di tipo ovulatorio; tuttavia, in una quota di malate può osservarsi oligoamenorrea. Nei pazienti di sesso maschile è frequente una diminuzione della libido e della potenza probabilmente in rapporto ai disturbi neuropsichici dell’ipertiroidismo. Tuttavia, nei pazienti ipertiroidei è stato segnalato un aumento dei livelli di estradiolo circolante, da accelerata trasformazione extragonadica degli androgeni in estrogeni. È probabile che queste alterazioni ormonali siano responsabili della ginecomastia – rilevata in realtà solo eccezionalmente – e delle alterazioni del liquido seminale consistenti in una riduzione del numero e della funzionalità degli spermatozoi. 8. Apparato scheletrico. In circa il 25% dei pazienti ipertiroidei si ha aumento del riassorbimento di calcio dal tessuto osseo con ipercalcemia. L’osteoporosi che ne risulta è frequente, ma raramente ha rilevanza clinica. Le ossa possono essere interessate dalla rara osteopatia ipertiroidea consistente nella neoformazione ossea subperiostale a livello delle ossa metacarpali e delle falangi che appaiono rigonfiate (acropachia). 9. Esami di laboratorio. Il numero dei globuli rossi tende ad aumentare in rapporto all’aumentata richiesta di ossigeno dei tessuti periferici. Anche il midollo osseo presenta iperplasia della serie eritroide. In un numero limitato di pazienti con malattia di Graves può però aversi anemia perniciosiforme di origine autoimmune con presenza in circolo di anticorpi anticellule parietali. In un’ampia percentuale di pazienti si possono avere modeste alterazioni di alcuni indici di funzionalità epatica: transaminasi, fosfatasi alcalina, bilirubinemia. Tuttavia la biopsia del fegato non evidenzia significative alterazioni strutturali e l’esperienza clinica dimostra che l’ipertiroidismo anche grave e di lunga durata non è gravato da insufficienza epatica.
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57 - MALATTIE DELLA TIROIDE
E. Oftalmopatia tiroidea o esoftalmo endocrino. Le alterazioni oculari dell’oftalmopatia basedowiana vengono distinte in infiltrative e non infiltrative. Le manifestazioni non infiltrative sono rappresentate da retrazione spastica delle palpebre, con conseguente aumento della rima palpebrale in assenza di una vera protrusione del bulbo oculare, e da asinergia oculopalpebrale per mancata coordinazione dei movimenti della palpebra superiore con quelli del globo oculare. Queste manifestazioni, causate da ipertono simpatico, sono responsabili dello sguardo sbarrato tipico dei pazienti ipertiroidei, della rarità dell’ammiccamento (segno di Stellwag) e dei cosiddetti segni oculari dell’ipertiroidismo: • nello sguardo verso il basso, la palpebra superiore non segue, come di consueto, il movimento del bulbo oculare, in modo tale che una parte della sclera rimane scoperta (segno di Graefe); • quando si invita il paziente a fissare un oggetto che viene avvicinato alla radice del naso, si ha una scorretta convergenza dei bulbi oculari (segno di Moebius); • nello sguardo verso l’alto non si ha corrugamento della fronte (segno di Joffroy). Le manifestazioni non infiltrative non sono esclusive della malattia di Graves, possono comparire anche in altre forme di ipertiroidismo e tendono a risolversi spontaneamente, quando l’ipertiroidismo è adeguatamente controllato. L’oftalmopatia infiltrativa riconosce un’eziologia autoimmune e si associa invece alla malattia di Graves. È caratterizzata anatomicamente dall’infiltrazione di cellule mononucleate, in prevalenza linfociti, nel tessuto retrorbitario e nei muscoli estrinseci dell’occhio. Questo processo provoca un aumento del contenuto endorbitario con proptosi, edema periorbitale, congestione congiuntivale. Clinicamente, oltre ad un vero esoftalmo con protrusione dei bulbi oculari, si ha interessamento dei tessuti molli con edema palpebrale, iniezione congiuntivale, fotofobia, chemosi, lagoftalmo. L’infiltrazione dei muscoli estrinseci dell’occhio provoca oftalmoplegia e di conseguenza diplopia; i muscoli più frequentemente interessati sono il retto inferiore e il retto interno, con impossibilità dei movimenti del globo oculare rispettivamente verso l’alto e verso l’esterno. Nei casi a più grave evoluzione si può avere interessamento della cornea con cheratite e/o compressione del nervo ottico, con compromissione del visus sino alla cecità. L’oftalmopatia tiroidea è di regola bilaterale, anche se non sempre simmetrica. L’insorgere delle manifestazioni oculari può precedere, associarsi o seguire la comparsa dei segni di ipertiroidismo. Raramente l’oftalmopatia infiltrativa si associa ad altre forme di tireopatia autoimmune: tiroidite cronica di Hashimoto, mixedema da tiroidite atrofica. Eccezionalmente l’oftalmopatia compare e si sviluppa in assenza di ogni apparente alterazione della funzione tiroidea (“euthyroid Graves’ disease” degli Autori anglosassoni).
La protrusione dei bulbi oculari può essere obiettivata e quantificata mediante l’esoftalmometria. L’infiltrazione del tessuto retrorbitario e dei muscoli estrinseci dell’occhio, così come la sofferenza da compressione del nervo ottico, sono attualmente ben documentabili con la TC delle regioni orbitarie, l’ecografia ad alta risoluzione dell’orbita e la risonanza magnetica nucleare (RM). Con queste indagini si può valutare l’evolutività dell’oftalmopatia e monitorare l’efficacia della terapia. Il controllo dell’ipertiroidismo con farmaci antitiroidei o la sua cura mediante terapia chirurgica o radiante non si associa costantemente con la remissione dell’oftalmopatia infiltrativa, che, nei casi gravi e progressivi, deve essere trattata tempestivamente con corticosteroidi ad alte dosi e con telecobaltoterapia delle regioni orbitarie. F. Crisi tireotossica. La crisi tireotossica (definita dagli Autori di lingua inglese “thyroid storm”, tempesta tiroidea) è la complicanza più grave e temibile dell’ipertiroidismo. È caratterizzata dall’improvvisa esacerbazione di tutti i sintomi di una grave iperfunzione tiroidea e dalla comparsa di quelli eventualmente assenti. La crisi insorge solitamente in occasione di interventi chirurgici sulla tiroide in pazienti non adeguatamente preparati, dopo terapia con radioiodio, durante il parto o in concomitanza di malattie intercorrenti di una certa gravità: infezioni acute, diabete scompensato, infarto del miocardio. Le manifestazioni cliniche più importanti sono rappresentate da: • ipertermia, che può raggiungere i 40 °C e si associa a vampate e a profusa sudorazione; • spiccata tachicardia, o tachiaritmia da fibrillazione atriale; • tremore intenso con imponente agitazione psicomotoria e talora delirio; • sintomi gastrointestinali, nausea, vomito, diarrea. La crisi tireotossica può portare a morte il paziente per scompenso cardiaco e shock. La responsabilità della crisi era addebitata in passato alla brusca immissione in circolo di ormoni tiroidei (spremitura manuale della ghiandola durante un intervento di tiroidectomia; brusca massiva citolisi dopo terapia con radioiodio), tuttavia il dosaggio di T3 e T4 circolanti ha dimostrato che i livelli di questi ormoni non sono particolarmente elevati; non superiori a quelli rilevati abitualmente in pazienti ipertiroidei al di fuori della crisi. Si ritiene attualmente che la crisi tireotossica sia scatenata dall’aumentata responsività alle catecolamine, con questa sequenza patogenetica: Ipertiroidismo
Malattia acuta intercorrente, stress
Aumento dei recettori delle catecolamine
Brusca immissione in circolo di catecolamine
Crisi tireotossica
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MALATTIE ENDOCRINE
G. Diagnosi. La diagnosi di ipertiroidismo può essere posta, senza particolari difficoltà, oltre che in base ai dati clinici, grazie al dosaggio della FT3 e della FT4 circolanti ed eventualmente mediante alcuni test dinamici (Fig. 57.15). Tuttavia la diagnosi di ipertiroidismo è spesso posta tardivamente, quando la malattia di Graves ha caratteristiche cliniche atipiche; in particolare, nelle forme monosintomatiche in cui, in assenza dei sintomi e dei segni più tipici della malattia, si possono osservare fibrillazione atriale e scompenso cardiaco, scarsamente sensibili alla terapia digitalica, oppure grave atrofia muscolare simulante una malattia muscolare primitiva, oppure rapido dimagramento che indirizza i sospetti verso una malattia neoplastica cachettizzante. 1. Ormoni basali. • Tiroxina e triodotironina. L’elevata concentrazione in circolo di T4 e T3 caratterizza dal punto di vista endocrino l’ipertiroidismo. Tuttavia i livelli circolanti di T4 e T3 possono risultare elevati anche in soggetti eutiroidei quando sia aumentata la TBG e/o le altre proteine vettrici. È pertanto necessario dosare le frazioni libere (FT3, FT4). Nei pazienti ipertiroidei la T3 è secreta in eccesso rispetto alla T4 e, nelle forme lievi e iniziali, può essere
DIAGNOSI DI IPERTIROIDISMO
Elementi clinici di sospetto (tachicardia, tremori, dimagramento, ecc.)
FT4; FT3 = TSH (IRMA) =
Francamente patologici
Normali
Eutiroidismo
Valori borderline
Test con TRH TSH sospeso
DIAGNOSI EZIOLOGICA
Ipertiroidismo
Scintigrafia tiroidea Iperplasia diffusa
Area calda con inibizione del parenchima circostante
Malattia di Graves
Elementi clinici e diagnostici
Adenoma di Plummer
Alternanza di aree ipo e ipercaptanti Gozzo tossico multinodulare
Dosaggi ormonali
Figura 57.15 - Valutazione di un sospetto ipertiroidismo.
rilevato solo un aumento di T3 (ipertiroidismo da T3). D’altro canto, in rari casi, si può osservare un aumento della T4 con valori normali di T3 (ipertiroidismo da T4) in pazienti in cui sia rallentata la trasformazione extratiroidea di T4 in T3 per la concomitanza di malattie extratiroidee o in seguito a trattamenti farmacologici. • TSH. Impiegando i metodi sensibili o ultrasensibili (attualmente di comune impiego), si evidenzia precocemente la soppressione dei livelli circolanti di TSH anche in forme precliniche di ipertiroidismo. 2. Test dinamici. In pazienti con segni clinici sfumati e valori ormonali non chiaramente alterati le incertezze sulla diagnosi di ipertiroidismo possono essere risolte eseguendo dei test dinamici. Queste indagini, ampiamente impiegate in passato, trovano oggi rara (stimolazione con TRH) o eccezionale (test di inibizione) indicazione, in quanto il dosaggio delle frazioni libere di T3 e T4 e la misura del TSH con metodi capaci di differenziare con sicurezza i valori soppressi da quelli al limite inferiore del range di normalità permettono quasi costantemente di diagnosticare con sicurezza l’ipertiroidismo. • Test con TRH. I livelli di TSH aumentano prontamente dopo iniezione di TRH nel soggetto normale. Nell’ipertiroidismo, in presenza di elevati livelli di ormoni tiroidei circolanti, il TSH è soppresso e non aumenta dopo la somministrazione di TRH (Fig. 57.16). Una normale risposta al TRH esclude la possibilità di ipertiroidismo. Una risposta ridotta o assente può aversi però anche in pazienti con adenoma o con gozzo multinodulare clinicamente eutiroidei e con valori di T3 e T4 ancora nei limiti di norma. In questi casi la mancata risposta al TRH è indicativa di un’autonomia funzionale della tiroide, ma non necessariamente di un ipertiroidismo. • Test di inibizione o test di Werner. Nel soggetto normale la somministrazione di ormoni tiroidei inibisce la secrezione di TSH e di conseguenza riduce di almeno il 50% l’attività funzionale della tiroide, misurata come captazione del radioiodio. In condizioni patologiche, come la malattia di Graves o di Plummer, nelle quali la funzione tiroidea è autonoma e svincolata dal controllo del TSH, la captazione del radioiodio non si riduce quando si somministrano ormoni tiroidei esogeni. 3. Captazione e scintigrafia tiroidea. La captazione tiroidea del radioiodio o del radiotecnezio è aumentata nella malattia di Graves. Inoltre la curva di captazione del radioiodio è caratterizzata da un precoce picco di captazione e da una dismissione altrettanto rapida, espressioni dell’accelerato turn-over intraghiandolare degli ormoni tiroidei. Tuttavia, la captazione non è aumentata in tutte le forme di ipertiroidismo, ma solo in quelle causate da iperproduzione di ormoni tiroidei per iperplasia della ghiandola (malattia di Graves), o per la presenza di adenomi iperfunzionanti. Viceversa, la captazione è ridotta in alcune forme di ipertiroidismo (“ipertiroidismi a bassa captazione”) causate da libera-
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zione in circolo di ormoni tiroidei per lesione dei tireociti (tiroiditi) o da assunzione di ormoni tiroidei esogeni (tireotossicosi fattizia). La scintigrafia tiroidea fornisce informazioni prevalentemente morfologiche: nella malattia di Graves la forma della ghiandola è conservata e la fissazione del tracciante avviene in maniera uniforme in tutto il parenchima ghiandolare. Pertanto l’utilità della scintigrafia nella malattia di Graves è relativa, in quanto conferma il reperto palpatorio. Tuttavia, in taluni casi essa è indispensabile per distinguere la malattia di Graves dal gozzo nodulare tossico.
TRH
TRH
NORMALE
T4 – T3
TSH
TSH-U/ml
TRH 10 20
0
30
60
120 min
Ci limitiamo a segnalare gli aspetti che differenziano queste forme dalla malattia di Graves. In linea generale, la sintomatologia è caratterizzata da:
TRH
• sintomi e segni da ipersecrezione degli ormoni tiroidei (Tab. 57.6); • mancanza delle manifestazioni cosiddette extratiroidee della malattia di Graves e, in particolare, dell’oftalmopatia; • eventuali disturbi locali causati dal gozzo.
TRH IPERTIROIDISMO
TRH TSH-U/ml
Anche il decorso di queste forme differisce da quello della malattia di Graves; quest’ultima ha in genere un’evoluzione più grave e tumultuosa, e può anche spontaneamente evolvere in una tiroidite atrofica.
20
T4 – T3
TSH
Altre forme di ipertiroidismo
10
0
30
60
120 min
Figura 57.16 - Relazioni ipotalamo-ipofisi-tiroide e risposta del TSH al TRH nel soggetto normale e nell’ipertiroidismo.
A. Adenoma tossico o morbo di Plummer. L’adenoma tossico o morbo di Plummer è un adenoma iperfunzionante della tiroide con parenchima circostante normale, ma funzionalmente inibito (Fig. 57.17). La definizione di adenoma autonomo viene riservata a tutti gli adenomi tiroidei la cui attività secretoria segue una cinetica propria, svincolata dalla regolazione ipotalamo-ipofisaria. Quando gli ormoni tiroidei pro-
Tabella 57.6 - Sintomi e segni dell’ipertiroidismo. DA IPERPRODUZIONE DI T3 E T4 Dimagramento Aumento dell’appetito Diarrea Iperidrosi Intolleranza al caldo Febbricola Tremori Eretismo Disturbi psichici Insonnia Faticabilità Tachicardia ed altri segni cardiaci (tachicardia parossistica, extrasistolia, fibrillazione atriale)
SINTOMI NON CORRELATI AD AUMENTO DI T3 E T4 Esoftalmo Oftalmoplegia Infiltrazione delle palpebre e dei tessuti periorbitari Mixedema pretibiale
GOZZO Gozzo diffuso (malattia di Graves) Nodulo unico (morbo di Plummer) Gozzo tossico multinodulare
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A.
MALATTIE ENDOCRINE
B.
C.
Figura 57.17 - Adenoma tossico. (A) Tumefazione tiroidea asimmetrica (questa non è sempre visibile ed è possibile che si individui un nodulo solo alla palpazione. (B) Immagine scintigrafica che mostra assenza della captazione della radioattività dal lato opposto a quello dell’adenoma. (C) È rappresentato l’adenoma con il lobo destro della tiroide atrofico; la linea tratteggiata indica le dimensioni normali della tiroide. (Illustrazioni di F.H. Netter, MD. Riproduzione autorizzata da Icon Learning Systems, a MediMedia USA Company. All Rights Reserved.)
dotti dall’adenoma sono in quantità tale da bloccare la secrezione di TSH, si determina l’inibizione funzionale del tessuto tiroideo circostante. In questi casi alla scintigrafia si osserva che il tracciante è fissato unicamente in corrispondenza del nodulo con inibizione del restante parenchima tiroideo (Fig. 57.18). In rapporto all’entità della produzione ormonale del tessuto adenomatoso si può osservare un’inibizione di grado variabile del tessuto circostante, che può apparire completamente inibito oppure conservare la capacità di fissare il tracciante con minore intensità. Di regola l’adenoma autonomo è unico; tuttavia, non è eccezionale osservare pazienti con due o più noduli autonomi (“Plummer a due noduli”). La presenza di un adenoma autonomo non è sinonimo di iperfunzione tiroidea. Un ipertiroidismo clinicamente evidente è presente solo in una parte dei pazienti portatori di adenoma autonomo, e solo a questi adenomi autonomi, iperfunzionanti, viene riservata la definizione di “adenoma tossico”. L’incidenza di ipertiroidismo varia notevolmente nelle diverse casistiche, andando dal 17 al 66% in popolazioni differenti. Nei soggetti asintomatici il nodulo è rilevato in genere casualmente. I livelli circolanti di FT3 e FT4 sono normali o ai limiti superiori della norma, ma il TSH è inibito e non responsivo al TRH. In questi pazienti la produzione di ormoni tiroidei da parte del nodulo è sufficiente a sopprimere la secrezione ipofisaria di TSH (di qui la mancata fissazione del tracciante sul restante parenchima tiroideo e la mancata risposta al TRH), ma non è sufficientemente elevata da provocare un ipertiroidismo clinico. L’adenoma autonomo in pazienti eutiroidei è stato considerato un “adenoma pretossico”, tuttavia il con-
trollo clinico prolungato ha dimostrato che solo una limitata quota di pazienti con adenoma autonomo sviluppa un ipertiroidismo. Nell’adenoma tossico di Plummer i sintomi cardiovascolari dell’ipertiroidismo – tachicardia parossistica, fibrillazione atriale, ecc. (si veda sopra) – sono nettamente preminenti. Il reperto obiettivo è caratterizzato da un nodulo di regola unico, apprezzabile alla palpazione, ben delimitabile, mobile con la deglutizione. La diagnosi è basata sulla dimostrazione scintigrafica di un nodulo ipercaptante con mancata fissazione del tracciante nel parenchima tiroideo circostante (Fig. 57.18). Una corretta valutazione clinica dei pazienti portatori di noduli ipercaptanti richiede comunque uno studio della funzione tiroidea, in quanto l’immagine scintigrafica è identica in presenza di adenoma tossico con ipertiroidismo e di adenoma autonomo con eutiroidismo. B. Gozzo tossico multinodulare. L’ipertiroidismo insorge su un gozzo multinodulare di vecchia data che per molti anni è stato normofunzionante. Talora l’elemento scatenante è rappresentato dall’assunzione di iodio o di sostanze iodate (Jod-Basedow). Sono colpiti più frequentemente pazienti nel 6°-7° decennio di vita, in prevalenza di sesso femminile. La sintomatologia ipertiroidea si sviluppa insidiosamente e differisce da quella della malattia di Graves per la minor gravità. Possono prevalere sintomi cardiovascolari e/o l’atrofia e l’astenia muscolare. L’insorgenza di ipertiroidismo non è necessariamente associata ad un aumento di volume del gozzo preesistente, tuttavia in alcuni pazienti il gozzo può dare disturbi locali da compressione, specie se ha estensione retrosternale.
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57 - MALATTIE DELLA TIROIDE
ne in circolo di ormoni tiroidei liberati dalla distruzione dei follicoli, tende ad autoestinguersi in alcune settimane, nella tiroidite cronica di Hashimoto, a causa delle connessioni patogenetiche con la malattia di Graves si può osservare una vera ipertireosi basedowiana che può precedere, o, più raramente, seguire la tiroidite di Hashimoto.
A.
B.
Figura 57.18 - Scintigrafia tiroidea di un paziente con adenoma tossico. In condizioni di base (A) il tracciante si fissa solo sul nodulo con inibizione funzionale del parenchima tiroideo circostante. Dopo stimolazione con TSH (B), anche il tessuto circostante l’adenoma fissa il tracciante.
C. Ipertiroidismo in corso di tiroiditi. L’iperfunzione tiroidea si associa costantemente alla tiroidite linfocitica subacuta. L’ipertiroidismo, anzi, rappresenta un elemento caratteristico ed essenziale nella presentazione clinica di questa malattia. Al contrario, nella tiroidite subacuta di De Quervain una fase di ipertiroidismo clinico si osserva solo in una quota di pazienti, mentre in altri casi, durante l’evoluzione della malattia, non si manifestano segni clinici o alterazioni ormonali indicative di iperfunzione tiroidea. Anche nella tiroidite linfocitica cronica di Hashimoto si possono osservare fasi di ipertiroidismo (Hashitoxicosis). Anche se alcuni aspetti funzionali – bassa captazione, presenza in circolo di alte quantità di proteine iodate (PBI) ed altri – sono comuni agli ipertiroidismi che compaiono in corso di tiroiditi, tuttavia le situazioni non sono sovrapponibili. Mentre nelle tiroiditi subacute l’ipertiroidismo, verosimilmente causato dall’immissio-
D. Ipertiroidismo fattizio. È l’ipertiroidismo che compare in soggetti che assumono ormoni tiroidei soprattutto a scopo dimagrante. I segni di ipertiroidismo si associano tipicamente all’assenza di gozzo. La diagnosi può presentare qualche difficoltà nei pazienti psicopatici che nascondono l’assunzione del medicamento. Comunque gli elevati livelli di T3 e/o T4 (in rapporto al prodotto assunto) si associano con una ridotta captazione di radioiodio e con bassi valori di tireoglobulina circolante in modo del tutto caratteristico. E. Ipertiroidismo secondario a ipersecrezione di TSH. Mentre nelle forme di ipertiroidismo di cui sino ad ora abbiamo discusso, il TSH è soppresso dall’eccesso di T3 e T4 prodotti dalla tiroide, in alcune rare forme di ipertiroidismo l’iperfunzione ghiandolare è causata da una cronica iperstimolazione da parte del TSH. Queste forme sono caratterizzate dalla contemporanea presenza in circolo di ormoni tiroidei in elevata concentrazione e da valori di TSH francamente elevati oppure normali, ma inappropriati in rapporto ai livelli di T3 e T4 (sindromi da inappropriata secrezione di TSH). L’ipertiroidismo secondario a ipersecrezione di TSH può essere causato da un adenoma ipofisario secernente TSH (Cap. 56) oppure da una particolare forma di resistenza agli ormoni tiroidei in cui il difetto recettoriale è presente (o prevalente) a livello delle cellule tireotrope dell’ipofisi, ma non negli altri tessuti. Per la mancata attivazione del meccanismo di controregolazione ormoni tiroidei-TSH, l’ipersecrezione di quest’ultimo stimola l’attività secretoria della tiroide e provoca ipertiroidismo. La diagnosi differenziale tra queste due rare forme di ipertiroidismo può essere fatta in base all’evidenziazione dell’adenoma TSH-secernente alla TC e/o alla RM. Inoltre, in presenza del tumore ipofisario, si rilevano: a) aumento in circolo della subunità con aumento del rapporto subunità /TSH; b) assente o ridotta risposta del TSH alla stimolazione con TRH e all’inibizione con T3. F. Cenni di terapia. La terapia dell’ipertiroidismo può essere effettuata con mezzi terapeutici diversi: • terapia medica, • terapia chirurgica, • terapia radiante. La scelta avviene in base all’eziologia dell’ipertiroidismo, all’età del paziente, all’eventuale presenza di malattie concomitanti e alla capacità del paziente di attenersi ad una terapia farmacologica di lunga durata che richiede frequenti controlli clinici e di laboratorio.
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MALATTIE ENDOCRINE
1. Terapia medica. È la terapia di prima scelta nella malattia di Graves. Il trattamento medico deve essere inoltre effettuato in tutte le forme gravi di ipertiroidismo in preparazione all’intervento chirurgico o alla somministrazione di radioiodio. I principali farmaci usati sono i tireostatici e gli antagonisti del simpatico.
4. Alcolizzazione. Questo approccio terapeutico è stato praticato con successo, negli ultimi anni, limitatamente all’adenoma tossico. Esso consiste in più iniezioni di alcool etilico nell’adenoma, sotto guida ecografica.
• i farmaci tireostatici (metimazolo, carbimazolo, propiltiouracile) agiscono bloccando la sintesi degli ormoni tiroidei, agendo a livello di più tappe della biosintesi ormonale e (limitatamente al propiltiouracile) bloccando la trasformazione periferica del T4 in T3. La terapia con antitiroidei viene in genere iniziata con dosi elevate (metimazolo 30-40 mg/die, propiltiouracile 300-400 mg/die) che sono poi progressivamente ridotte sino a raggiungere una dose di mantenimento che va continuata per molti mesi. È stato osservato che l’uso del metimazolo in gravidanza può causare nel feto l’aplasia cutis congenita, una rara anomalia dello scalpo, e per questa ragione nelle donne gravide trattate per ipertiroidismo è meglio adoperare il propiltiouracile alle dosi più basse possibili; • gli antagonisti del simpatico agiscono antagonizzando i recettori periferici delle catecolamine. I farmaci di questo gruppo impiegati nella pratica sono i -bloccanti; in particolare, quelli privi di attività simpaticomimetica intrinseca, come il propranololo. I -bloccanti hanno un’efficacia sintomatica notevole sulle manifestazioni dell’ipertiroidismo mediate dal simpatico (tachicardia, sudorazione, tremore, ecc.) e rappresentano un utile complemento dei farmaci tireostatici, che non possono però sostituire.
Si definisce ipertiroidismo subclinico una condizione caratterizzata da una concentrazione ematica di TSH molto ridotta (inferiore a 0,1 mU/l) in presenza di livelli di ormoni tiroidei normali, anche se, per lo più, ai limiti superiori di norma. Un tempo nella definizione si includeva l’assenza di sintomi tireotossici, ma oggi si ammette che sintomi sfumati possono essere presenti. L’ipertiroidismo subclinico si definisce endogeno quando è prodotto da un adenoma tiroideo in fase iniziale o da una forma molto lieve di malattia di Graves, si definisce esogeno quando deriva da dosi eccessive di L-tiroxina impiegate per trattare uno stato di ipotiroidismo. È importante ricordare, a questo proposito, che in caso di sovradosaggio di L- tiroxina, i livelli ematici di TSH restano soppressi per 6-8 settimane dopo che la dose è stata ridotta. Come si è detto, i sintomi riferibili a tireotossicosi sono sfumati e non costituiscono il problema clinico prevalente. Si discute se l’ipotiroidismo subclinico predisponga ad altre condizioni morbose, come la fibrillazione atriale e l’osteoporosi. È stato osservato che l’incrementato turn-over dell’osso che è caratteristico della malattia di Graves persiste durante il trattamento con farmaci antitiroidei se i livelli ematici di TSH rimangono soppressi, nonostante la normalizzazione degli ormoni tiroidei. Nel caso di un ipertiroidismo subclinico provocato da un gozzo multinodulare è stato sostenuto che si hanno un aumento della massa del ventricolo sinistro, un incremento della funzione sistolica e una riduzione della funzione diastolica, anche se il significato clinico di queste alterazioni cardiache non è chiaro. È stato anche affermato che, nelle persone di oltre 55 anni di età, l’ipertiroidismo subclinico aumenta il rischio di demenza da malattia di Alzheimer. Queste implicazioni extratiroidee dell’ipertiroidismo subclinico sono certamente rese più probabili dal fatto che spesso questa condizione non è riconosciuta né trattata. È importante dosare nel sangue gli ormoni tiroidei e il TSH nel caso di fibrillazione atriale o di precoce osteoporosi non altrimenti spiegate. Se si trova una soppressione del TSH, conviene eseguire una captazione tiroidea del radioiodio, che è in grado di evidenziare adenomi iperfunzionanti, ma che solitamente risulta normale in una forma sfumata di malattia di Graves. Se praticare un trattamento o limitarsi a mantenere controllato l’ammalato ogni 6 mesi è una questione da decidere caso per caso, fondamentalmente riservando il trattamento a pazienti sintomatici, non solo per complicanze come la fibrillazione atriale e l’osteoporosi, ma anche per disturbi soggettivi non facilmente definibili.
2. Terapia chirurgica. Trova elettiva indicazione nell’adenoma tossico di Plummer. In questi pazienti l’intervento è limitato al lobo interessato dall’adenoma e l’ablazione del nodulo si associa a permanente guarigione della malattia. Nel gozzo tossico multinodulare l’intervento è indicato se lo struma è voluminoso ed ha estensione retrosternale. Nella malattia di Graves l’intervento di tiroidectomia subtotale è indicato nei pazienti giovani che non tollerino la terapia medica o che, anche dopo un trattamento medico corretto, presentino una o più recidive di ipertiroidismo con carattere di gravità. 3. Terapia radiante. Viene eseguita somministrando radioiodio. Il trattamento è efficace e provoca raramente effetti collaterali immediati; purtroppo la terapia con radioiodio è gravata da una notevole incidenza di ipotiroidismo tardivo, che ne limita l’impiego ai pazienti di età avanzata, con più elevato rischio operatorio. La somministrazione di radioiodio è indicata nei pazienti con malattia di Graves di età superiore ai 50 anni quando la terapia medica non è tollerata o non riesce a controllare la malattia. Ottimi risultati si hanno anche nell’adenoma tossico, in cui la terapia radiante offre una valida alternativa alla terapia chirurgica in pazienti a rischio per l’intervento.
Ipertiroidismo subclinico (*)
(*) C. Rugarli.
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In soggetti che lamentano astenia è stato suggerito un ciclo di 6 mesi di trattamento con una dose quotidiana di 5-10 mg di metimazolo, seguito, se efficace, da una terapia ablativa con radioiodio. Nelle donne che possono andare incontro a gravidanza è meglio impiegare il propiltiouracile alla dose di 50 mg 2 volte al giorno, per le ragioni che sono state esposte nel trattamento dell’ipertiroidismo clinicamente conclamato.
IPOTIROIDISMO L’ipotiroidismo è una condizione morbosa causata da una carenza di ormoni tiroidei, con conseguente rallentamento dei processi metabolici che interessa tutti gli organi ed apparati. Le conseguenze dell’ipotiroidismo sono assai più gravi se esso insorge nell’infanzia o nell’adolescenza, in quanto il rallentamento metabolico provoca alterazioni dello sviluppo somatico e psichico che possono causare serie e permanenti alterazioni. In alcune gravi forme di ipotiroidismo l’accumulo di materiale mucopolisaccaridico negli spazi intercellulari ed in particolare nel sottocutaneo e nei muscoli provoca il caratteristico mixedema; l’ipotiroidismo non è comunque sinonimo di mixedema. A. Eziopatogenesi. L’ipotiroidismo è una malattia non rara. L’incidenza nella popolazione generale non è determinabile con precisione, in quanto essa può variare da una regione all’altra in rapporto a fattori genetici e ambientali, quali per esempio la carenza iodica. Il sesso femminile è più colpito. Le principali cause di ipotiroidismo sono riportate nella tabella 57.7. Si distinguono ipotiroidismi primitivi quando la carenza di ormoni tiroidei è causata da una malattia primitiva della tiroide e ipotiroidismi secondari causati da un’insufficiente stimolazione tireotropinica. La carenza di TSH può essere a sua volta dovuta ad una malattia ipofisaria primitiva oppure ad un’alterazione ipotalamica che causa una ridotta secrezione di TRH. In questo secondo caso l’ipotiroidismo viene definito terziario (si veda anche Ipopituitarismo; Cap. 56). Sono descritti rari casi di ipotiroidismo dovuto a produzione di TSH biologicamente inattivo oppure a resistenza dei tessuti periferici all’azione degli ormoni tiroidei. Le malattie primitive della tiroide rappresentano la causa di gran lunga più frequente di ipotiroidismo; in alcune grandi casistiche le forme primitive sono responsabili di circa il 95% di tutti gli ipotiroidismi. La tiroidite cronica di Hashimoto rappresenta attualmente la causa più frequente di ipotiroidismo nell’adulto. Si tratta di una malattia autoimmune caratterizzata, sul piano anatomico, da una massiva infiltrazione linfocitaria della tiroide che sconvolge e distrugge il tessuto ghiandolare. Anche l’ipotiroidismo idiopatico (mixedema idiopatico, morbo di Gull) viene attribuito ad un processo autoimmune. Esso rappresenterebbe lo stadio terminale della tiroidite linfocitica di Hashimoto, dalla quale si distingue anatomicamente per la prevalenza di
Tabella 57.7 - Cause di ipotiroidismo. IPOTIROIDISMO PRIMITIVO Ridotta massa del tessuto tiroideo • Congenita: agenesia o disgenesia tiroidea (per es., tiroide linguale) • Conseguente a processi autoimmuni – Tiroidite linfocitica di Hashimoto (forma classica con gozzo) – Mixedema idiopatico (morbo di Gull) – Tiroidite atrofica (verosimilmente stadio terminale di una pregressa malattia tiroidea autoimmune: tiroidite di Hashimoto o malattia di Graves) • Iatrogena: terapia radiante, tiroidectomia • • • •
Alterata biosintesi degli ormoni tiroidei Difetto dell’ormonogenesi Carenza di iodio Da gozzigeni naturali Da farmaci IPOTIROIDISMO SECONDARIO
• Da lesione ipofisaria (carenza di TSH) • Da lesione ipotalamica (carenza di TRH, ipotiroidismo terziario) • Da secrezione di TSH biologicamente inattivo IPOTIROIDISMO DA RESISTENZA GENERALIZZATA AGLI ORMONI TIROIDEI
fenomeni distruttivi e fibrotici, e clinicamente per l’assenza di gozzo (tiroidite atrofica). Nell’ambito delle forme autoimmuni è necessario ricordare che anche la malattia di Graves può talora evolvere spontaneamente verso una tiroidite autoimmune con ipotiroidismo (Hashitoxicosis; Fig. 57.10) e che un ipotiroidismo, spesso transitorio, può associarsi alla presenza in circolo di elevati livelli di anticorpi inibenti il legame del TSH al recettore specifico (TBII o TSH-R BII). Una riduzione del parenchima funzionante tale da provocare ipotiroidismo può essere causata da interventi chirurgici o da terapia radiante. La terapia con radioiodio è gravata da un’elevata incidenza di ipotiroidismo; lo sviluppo dell’ipotiroidismo non è sempre legato alla dose somministrata. I sintomi si manifestano in modo insidioso, anche molti anni dopo la somministrazione del radionuclide. È quindi consigliabile un regolare monitoraggio dei pazienti trattati per diagnosticare tempestivamente l’insorgenza dell’ipotiroidismo. L’agenesia della tiroide provoca un grave ipotiroidismo congenito. Assai più frequenti sono gli ipotiroidismi associati ad ectopia della tiroide. Ricordiamo che la tiroide si sviluppa in corrispondenza del faringe e tra la 5a e la 7a settimana di vita fetale raggiunge la sua sede definitiva, attraverso il dotto tireoglosso, che va incontro ad obliterazione. Si può avere persistenza della tiroide alla base della lingua (“tiroide linguale”) oppure arresto della migrazione lungo il tratto tireoglosso. Poiché anche in queste sedi il tessuto ghiandolare è in gra-
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do di produrre una certa quantità di ormoni, i sintomi di ipotiroidismo si manifestano talora solo nell’adolescenza o nell’età adulta. L’ipotiroidismo può essere causato da un difetto dell’ormonogenesi tiroidea per deficit di uno degli enzimi necessari alla biosintesi ormonale (si veda in seguito). La biosintesi di ormoni tiroidei può essere ostacolata anche da carenza di iodio o da somministrazione di farmaci. Nelle zone di endemia gozzigena da carenza di iodio l’incidenza di ipotiroidismo è nettamente aumentata. Oltre ai farmaci tireostatici (metimazolo, propiltiouracile, ecc.), altre sostanze medicamentose e lo stesso iodio, somministrato in dosi elevate e prolungate, possono provocare un ipotiroidismo transitorio. Tra questi farmaci ricordiamo l’amiodarone e i sali di litio, che sono i più usati attualmente. L’insufficiente stimolazione tireotropinica è responsabile di circa il 5% degli ipotiroidismi. Indipendentemente dall’origine ipotalamica o ipofisaria della malattia di base, la carenza di TSH si associa quasi costantemente a deficit degli altri ormoni dell’adenoipofisi. L’ipotiroidismo rappresenta quindi uno degli elementi clinici dell’ipopituitarismo. L’ipotiroidismo da deficit isolato di TSH è stato descritto, ma è estremamente raro. Nella rara sindrome da resistenza periferica agli ormoni tiroidei, caratterizzata da elevati livelli circolanti di T3 e T4 in presenza di TSH non soppresso, l’ipotiroidismo è raramente presente, in quanto la resistenza dei recettori è compensata dagli elevati livelli di T3 e T4. Talora il difetto recettoriale presenta gravità diversa nei vari tessuti e, di conseguenza, la carente stimolazione da parte degli ormoni tiroidei si manifesta a carico di alcuni apparati, mentre in altri possono manifestarsi paradossalmente segni di iperstimolazione (per es., tachicardia). Spesso è interessato l’apparato scheletrico che, in rapporto alla precocità del deficit di stimolazione ormonale, presenta ritardo dello sviluppo con deficit dell’accrescimento. B. Fisiopatologia. Gli effetti fisiologici degli ormoni tiroidei sono particolarmente complessi e solo parzialmente noti. Si può dire in modo estremamente schematico che gli ormoni tiroidei, regolando la sintesi proteica, controllano, durante l’età evolutiva, i processi di differenziazione e di sviluppo e, durante la vita adulta, l’omeostasi metabolica. La carenza di ormoni tiroidei provoca effetti generali che possono essere così riassunti: • riduzione dei processi ossidativi e della produzione di calore con compromissione dell’omeostasi termica; • ridotta disponibilità energetica per tutte le cellule con conseguente riduzione di ogni attività (contrattile, secretoria, proliferativa); • rallentata sintesi proteica con ridotta disponibilità di sostanze proteiche essenziali al metabolismo: enzimi, recettori, ormoni peptidici; • rallentato turn-over metabolico con prevalente compromissione del catabolismo rispetto all’anabolismo e conseguente accumulo di sostanze a ricambio più
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lento: mucopolisaccaridi = mixedema; colesterolo = iperlipidemia; • riduzione (o alterazione funzionale) dei recettori adrenergici con ridotta responsività alle catecolamine. Queste alterazioni sono responsabili delle manifestazioni cliniche dell’ipotiroidismo attraverso le modificazioni indotte sul funzionamento dei vari organi e apparati oppure attraverso la ridotta responsività alle catecolamine. Proprio alla minor responsività dei recettori delle catecolamine a livello del SNC si attribuisce attualmente un ruolo rilevante nella genesi delle manifestazioni psichiche che caratterizzano l’ipotiroidismo: diminuzione dell’attenzione, compromissione della memoria, abulia e sintomi francamente depressivi. Per la minor sensibilità dei recettori delle catecolamine si crea infatti una situazione di deficit funzionale dei neurotrasmettitori monoaminergici a livello del SNC. C. Clinica. L’inizio insidioso e la lenta evoluzione sono caratteristiche dell’ipotiroidismo. La sintomatologia è sfumata, non facilmente riconoscibile, spesso addirittura ignorata dal paziente. Talora sono i familiari che notano il caratteristico rallentamento dell’attività fisica e psichica. Spesso l’ipotiroidismo viene diagnosticato in pazienti che giungono all’osservazione o che vengono ricoverati con diagnosi completamente diverse: edemi attribuiti a malattie renali, cardiomegalia e scompenso attribuiti a miocardiosclerosi, anemia di natura da determinare, astenia e crampi muscolari, sindromi depressive o altri sintomi psichici, menometrorragia. I sintomi di ordine generale avvertiti dal paziente sono l’astenia, la faticabilità, la cattiva tolleranza al fredTabella 57.8 - Frequenza dei sintomi nell’ipotiroidismo conclamato. SINTOMI Astenia, adinamia Ipercheratosi e secchezza della cute Sonnolenza Eloquio rallentato Edema palpebrale Intolleranza al freddo Cute fredda Macroglossia Edema del volto Secchezza e fragilità dei capelli Cardiomegalia Pallore cutaneo Riduzione della memoria Stipsi Aumento di peso Perdita di capelli Pallore Mixedema periferico Voce rauca Menorragia
FREQUENZA % 99 97 91 91 90 89 83 82 79 76 68 67 66 61 59 57 57 55 52 32
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L’infiltrazione mixedematosa a livello della lingua e delle corde vocali causa la macroglossia e la tipica voce roca. I capelli sono secchi, fragili e tendono a cadere. Si osserva anche una rarefazione dei peli; caratteristica è la rarefazione delle sopracciglia limitata alla metà temporale. Anche le unghie sono fragili, sottili, fissurate.
Figura 57.19 - Paziente affetta da ipotiroidismo primitivo.
do, la sonnolenza, la stipsi ostinata (Tab. 57.8). Questi sintomi, quasi costantemente presenti, devono tuttavia essere ricercati in quanto scarsamente valutati dal paziente, che tende ad accettarli passivamente. Obiettivamente si nota che la voce è roca e profonda, l’eloquio lento, uniforme, privo di variazioni di tono. La succulenza delle palpebre, il pallore, la scarsezza dei movimenti mimici danno al volto un aspetto inespressivo caratteristico (Fig. 57.19). Nei casi più gravi le alterazioni del volto sono più spiccate: l’edema diffuso, le rime palpebrali ristrette, i capelli e le sopracciglia scarsi e la bocca semiaperta, attraverso la quale si scorge la lingua ingrossata, conferiscono al volto del paziente l’aspetto inconfondibile della facies mixedematosa. Si osserva generalmente un aumento di peso, principalmente dovuto alla ritenzione di liquidi. È comunque errata l’opinione diffusa che l’obesità sia un segno caratteristico dell’ipotiroidismo. La presenza o meno di gozzo dipende dalla causa dell’ipotiroidismo. È presente e voluminoso nelle forme da carenza di iodio e da difetto dell’ormonogenesi; è quasi sempre presente, piccolo, duro, a superficie irregolare, nella tiroidite di Hashimoto. Il gozzo è assente nell’agenesia tiroidea e nel mixedema idiopatico. L’esame sistematico del malato permette di rilevare le alterazioni causate dall’ipotiroidismo a livello dei vari organi ed apparati. 1. Cute e annessi. La cute è spessa, secca, pallida, fredda. Queste alterazioni sono dovute alla scarsa attività proliferativa dello strato basale dell’epidermide, con aumento dello strato corneo, alla ridotta attività secretoria delle ghiandole sudoripare e sebacee ed alla vasocostrizione periferica, che ha lo scopo di diminuire la dispersione di calore. Al pallore può concorrere anche l’anemia, che spesso è presente. Talora la cute ha una sfumatura giallastra per accumulo di carotene. Il mixedema è un edema caratterizzato semeiologicamente dalla consistenza duroelastica con mancata formazione di fovea alla pressione digitale e dallo sviluppo in sedi caratteristiche: regioni periorbitali, dorso delle mani e dei piedi, regioni pretibiali e avambracci.
2. Apparato cardiovascolare. La carenza di ormoni tiroidei causa bradicardia e riduzione della forza contrattile del miocardio con riduzione della gettata sistolica. Di conseguenza la gettata cardiaca è nettamente ridotta e il flusso sanguigno alla cute, al cervello, ai reni è diminuito. Si ha inoltre una vasocostrizione periferica con aumento delle resistenze e talora ipertensione. Si stabilisce pertanto una situazione emodinamica caratterizzata da: bradicardia → allungamento del tempo di circolo (per aumento delle resistenze periferiche) → diminuzione del flusso ematico ai tessuti (estremità fredde, pallide, intolleranza al freddo, riduzione del filtrato glomerulare, ecc.) → diminuito ritorno venoso al cuore → riduzione della gettata sistolica. Questa situazione emodinamica può essere parzialmente condizionata dalla minore richiesta di ossigeno da parte dei tessuti periferici. Infatti, nonostante la riduzione della gettata cardiaca, la differenza arterovenosa di ossigeno è normale e, diversamente da quanto avviene nello scompenso cardiaco, la gettata cardiaca aumenta se il paziente è sottoposto ad uno sforzo. Tuttavia nelle forme gravi e di lunga durata l’ipotiroidismo può essere complicato da scompenso cardiaco, in quanto la carenza di ormoni tiroidei causa lesioni del miocardio: edema interstiziale, rigonfiamento aspecifico delle miofibrille, deposizione di materiale mucoproteico nell’interstizio (cuore da mixedema). Clinicamente si ha una cospicua cardiomegalia. È frequente anche un versamento pericardico, in genere ben sopportato in quanto il liquido si accumula lentamente provocando una progressiva dilatazione del sacco pericardico con scarso aumento della pressione intrapericardica. La possibilità che l’ipotiroidismo, attraverso l’ipercolesterolemia, aumenti il rischio di malattia coronarica è oggetto di discussione; mancano dati epidemiologici che dimostrino con sicurezza un’aumentata incidenza di malattia coronarica nell’ipotiroidismo. È abbastanza frequente il rilievo, nei pazienti ipotiroidei, di ipertensione arteriosa che si normalizza con la terapia dell’ipotiroidismo. La genesi dell’ipertensione non è chiara; si ritiene possa essere causata dalla vasocostrizione periferica; la soppressione dell’attività reninica ha fatto anche ritenere che sia dovuta a ritenzione di sodio. 3. Apparato gastroenterico. L’appetito è ridotto in rapporto al diminuito fabbisogno energetico. Nella forma di origine autoimmune può essere presente una gastrite atrofica con acloridria e ridotto assorbimento di vitamina B12. La stipsi ostinata, dovuta al rallentamento della peristalsi intestinale, è sintomo assai frequente. Nei casi più gravi possono aversi ileo paralitico ed occlusione intestinale.
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4. Sistema emopoietico. L’incidenza dell’anemia è valutata intorno al 25-33%. Si tratta in genere di un’anemia normocromica, normocitica con ridotto numero di reticolociti e quadro midollare di tipo ipoplasico. L’anemia può aggravarsi bruscamente, divenendo sideropenica nelle pazienti che abbiano menometrorragia. Un’anemia megaloblastica da ridotto assorbimento di vitamina B12 con presenza in circolo di anticorpi anticellule parietali della mucosa gastrica può osservarsi come manifestazione patologica associata ad una tiroidite autoimmune. 5. Sistema nervoso centrale. Nell’ipotiroidismo dell’adulto si ha un rallentamento di tutte le funzioni intellettive, ma non si osservano i gravi difetti mentali presenti nell’ipotiroidismo congenito. L’atteggiamento psichico dell’ipotiroideo è caratterizzato da rallentamento dell’ideazione, perdita della memoria, difetto dell’attenzione, sonnolenza. Nei soggetti anziani la sonnolenza spesso è più accentuata sino a giungere ad una vera letargia. Non raramente possono essere presenti stati depressivi. Nei pazienti anziani si può avere un vero stato demenziale, spesso erroneamente attribuito a demenza senile. La sonnolenza può aggravarsi e portare a uno stato di letargia e al coma (coma mixedematoso). 6. Apparato endocrino. L’ipotiroidismo può interferire con la secrezione delle altre ghiandole endocrine, rendendo difficile l’interpretazione dei test eseguiti per valutare la loro integrità. Tuttavia le conseguenze dell’ipotiroidismo sono evidenti sul piano clinico soprattutto sulle funzioni dell’apparato genitale. In ambedue i sessi l’ipotiroidismo si associa a diminuzione o a perdita della libido. Nella donna si hanno spesso menometrorragie e cicli anovulatori già nelle fasi precoci della malattia. Nelle forme più gravi e prolungate si può avere amenorrea. Nel maschio si ha involuzione del tessuto seminifero. Questi disturbi della sfera genitale sono stati attribuiti alle molteplici alterazioni ormonali via via rilevate nell’ipotiroidismo: alterato metabolismo periferico degli estrogeni, ridotti livelli di SHBG, ridotta secrezione di progesterone, alterazione della ciclicità secretoria di LH ed FSH, iperprolattinemia. È probabile che tutte contribuiscano alle alterazioni cliniche a carico dell’apparato genitale. È utile ricordare che l’ipotiroidismo primitivo di origine autoimmune può associarsi ad altre endocrinopatie autoimmuni: iposurrenalismo (sindrome di Schmidt), diabete mellito, ecc. In un numero limitato di pazienti può aversi una inappropriata secrezione di ADH (SIADH) con iponatriemia. 7. Apparato respiratorio. In condizioni di base la ventilazione alveolare è adeguata alle richieste periferiche di ossigeno; pertanto la saturazione arteriosa di O2 e CO2 e il pH sono nei limiti di norma. Si hanno tuttavia un’inadeguata risposta ventilatoria all’ipossia e all’ipercapnia, ed una facile depressibilità dei centri respiratori. Queste alterazioni rivestono notevole importanza nello sviluppo del coma mixedematoso.
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8. Apparato locomotore. Le alterazioni scheletriche sono particolarmente gravi nell’infanzia (si veda Ipotiroidismo giovanile). Un notevole numero di pazienti lamenta astenia muscolare, prevalentemente localizzata ai muscoli prossimali del cingolo scapolare e pelvico, associata a crampi dolorosi e rigidità muscolare. In un numero limitato di pazienti ipotiroidei i sintomi a carico dei muscoli scheletrici assumono rilevanza preminente: si osserva una pseudoipertrofia muscolare generalizzata con facile esauribilità e lentezza della contrazione e del rilasciamento muscolare. Questa miopatia – nota come miotonia o pseudomiotonia ipotiroidea o sindrome di Hoffman nell’adulto e sindrome di Kocher-Debré-Semelaigne nel bambino – si distingue dalla miotonia vera per alcune caratteristiche cliniche, per la mancanza delle classiche alterazioni elettromiografiche della miotonia e per la buona risposta terapeutica alla somministrazione di ormoni tiroidei. D. Esami di laboratorio e strumentali. Abbiamo già discusso dell’anemia. Nell’ipotiroidismo primitivo dell’adulto (non in quello secondario) è costante il rilievo di ipercolesterolemia, talora cospicua. Può anche aversi un’elevazione di alcuni enzimi (CPK, LDH, SGOT) che riflette la sofferenza muscolare, ma che non riveste alcun significato specifico sul piano diagnostico. L’elettrocardiogramma dimostra costantemente evidenti alterazioni: bradicardia sinusale, ridotto voltaggio delle onde P e del complesso QRS, appiattimento o inversione delle onde T, prolungamento dell’intervallo QT. Queste alterazioni hanno la caratteristica di essere presenti in tutte le derivazioni e di regredire prontamente con la correzione dell’ipotiroidismo. La radiografia del torace e l’ecocardiografia possono evidenziare la cardiomegalia e la presenza di versamento pericardico. Le indagini neuroradiologiche possono evidenziare un’espansione della sella turcica indicativa di un tumore ipofisario nell’ipotiroidismo secondario. Un allargamento della sella turcica può però osservarsi anche nell’ipotiroidismo primitivo (“pseudotumore ipofisario”) di lunga durata, verosimilmente in rapporto alla cronica iperplasia delle cellule tireotrope. E. Diagnosi. L’ipotiroidismo, evidente già all’esame clinico nei casi conclamati, deve sempre essere confermato dal dosaggio della FT4 e del TSH. Il rischio di una mancata diagnosi o di una diagnosi tardiva riguarda i pazienti con sintomi sfumati che giungono all’osservazione lamentando sintomi aspecifici come: astenia, faticabilità, disturbi della sfera sessuale, perdita della memoria, depressione, edemi, nei quali l’ipotiroidismo non viene preso in considerazione e non vengono eseguite le indagini necessarie alla diagnosi. La riduzione della tiroxina libera (FT4) circolante rappresenta l’elemento biochimico indispensabile per diagnosticare qualsiasi tipo di ipotiroidismo (Fig. 57.20). Il solo dosaggio della tiroxina totale può indurre in errore, in quanto i valori di T4 possono essere influen-
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Elementi clinici di sospetto (intolleranza al freddo, sonnolenza, ecc.)
FT4
TSH
FT4
FT4, TSH normali
TSH
Eutiroidismo
Ipotiroidismo primitivo
FT4 TSH: normale Ipotiroidismo secondario
Test con TRH Risposta TSH assente Ipotiroidismo secondario a malattia ipofisaria
Risposta TSH ritardata, esagerata Ipotiroidismo secondario a disordine ipotalamico
Elementi clinici e diagnostici Dosaggi ormonali
Figura 57.20 - Diagnosi di ipotiroidismo.
zati da variazioni delle proteine di trasporto; in particolare nell’ipotiroidismo una riduzione della secrezione di tiroxina può essere mascherata da un concomitante aumento della TBG (assunzione di contraccettivi estroprogestinici, gravidanza, ecc.). Di minore utilità è la determinazione dei livelli di T3 totale e libera. La riduzione di T3 è tardiva nell’ipotiroidi-
smo e quindi i livelli circolanti di T3 possono risultare ancora nei limiti della norma in pazienti ipotiroidei con TSH aumentato e FT4 chiaramente ridotta. Questo assetto ormonale deriverebbe da un particolare atteggiamento funzionale della tiroide. Nel tentativo di sopperire alle richieste dei tessuti periferici, la ghiandola, grazie anche all’iperstimolazione del TSH, produce ormoni tiroidei con un rapporto T3/T4 aumentato, sintetizzando cioè in prevalenza l’ormone biologicamente più attivo. D’altro canto livelli ridotti di T3 sono facilmente rilevabili, in assenza di ipotiroidismo, in pazienti affetti da malattie croniche debilitanti (cosiddetta “euthyroid sick syndrome”), nelle quali è utile un risparmio energetico. L’aumento del TSH circolante rappresenta il più precoce indice di ipotiroidismo primitivo. L’elevazione del TSH circolante permette il riconoscimento anche dell’ipotiroidismo subclinico, caratterizzato da valori di FT4 circolante ancora nei limiti di normalità. In pazienti con FT4 ridotta il rilievo di TSH normale o indosabile permette di porre diagnosi di ipotiroidismo secondario. La risposta del TSH al TRH indirizza verso la natura ipofisaria (risposta assente) o ipotalamica (risposta presente, talora prolungata e/o esagerata) della malattia responsabile dell’ipotiroidismo. La ricerca degli anticorpi antitireoglobulina e antitireoperossidasi (TPO) è utile per la diagnosi eziologica di tiroidite. La captazione tiroidea del radioiodio è di regola ridotta nell’ipotiroidismo. Può risultare precocemente elevata solo in alcuni difetti congeniti dell’ormonogenesi (Tab. 57.9). Le indagini morfologiche sono utili in presenza di gozzo. L’ecografia evidenzia nei pazienti con tiroidite autoimmune alterazioni dell’ecostruttura diffuse o localizzate in caso di tiroidite focale. Nelle fasi più avanzate della malattia si può evidenziare l’ipoplasia della ghiandola.
Tabella 57.9 - Difetti congeniti della biosintesi degli ormoni tiroidei causanti gozzo ed ipotiroidismo familiare. DIFETTO
ALTERAZIONI DELLA BIOSINTESI
Trasporto dello iodio
Incapacità di concentrare lo iodio nei follicoli della tiroide (anche nelle ghiandole salivari e nella mucosa gastrica)
Organificazione dello iodio (sindrome di Pendred se associata a sordità)
Per carenza di perossidasi tiroidea lo iodio non è ossidato e non si lega alle molecole di tirosina Incapacità di coniugare MIT e DIT e quindi di formare T3 e T4; accumulo nella tiroide di MIT e DIT
Accoppiamento delle iodotirosine
Deiodinazione delle tirosine
Le iodotirosine non dealogenate vengono eliminate come tali nelle urine con perdita di iodio cui consegue ipotiroidismo da carenza di iodio
Sintesi della tireoglobulina
Per la ridotta sintesi della tireoglobulina, lo iodio si lega alternativamente ad altri substrati proteici e forma iodoalbumine o altre iodoproteine
PARAMETRI UTILIZZABILI AI FINI DIAGNOSTICI Rapporto iodio salivare/iodio plasmatico = 1 (v.n. 10-100); captazione tiroidea del radioiodio vicina allo zero e non responsiva al TSH Captazione rapida ed elevata del radioiodio con massiva dismissione da somministrazione di perclorato Nel tessuto tiroideo prelevato biopticamente alte concentrazioni di MIT e DIT e assenza di T3 e T4; captazione rapida ed elevata e rapida dismissione; test al perclorato negativo Rapida ed elevata captazione del radioiodio con rapida dismissione. MIT e DIT marcate, iniettate ev si ritrovano come tali nelle urine invece che in forma di iodio inorganico come nel soggetto normale Presenza in circolo di iodoproteine anomale. Elevato PBI con T4 e T3- diminuite
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MALATTIE ENDOCRINE
La scintigrafia è utile per rilevare la presenza di tessuto tiroideo in sede ectopica (tiroide linguale). Può evidenziarsi un gozzo ipercaptante nei difetti congeniti dell’ormonogenesi. Nei pazienti con tiroidite autoimmune deve essere sempre ricercata la possibile presenza (o l’eventuale successiva insorgenza) di altre malattie autoimmuni: iposurrenalismo, diabete mellito, ipoparatiroidismo, ecc. (si veda la Tab. 61.2). Nei pazienti con ipotiroidismo postchirurgico deve essere sempre ricercato un eventuale concomitante ipoparatiroidismo. F. Cenni di terapia. La terapia permette di controllare perfettamente tutte le manifestazioni cliniche dell’ipotiroidismo, ma non di curarlo. La somministrazione di ormoni tiroidei deve essere quindi continuata indefinitamente. La terapia è di tipo sostitutivo, si basa cioè sulla somministrazione continua, e per tempo indefinito, di ormoni tiroidei in quantità tali da far regredire le manifestazioni cliniche dell’ipotiroidismo e di normalizzare i livelli circolanti di TSH (nelle forme primarie) e di ormoni tiroidei. La L-tiroxina è il prodotto più usato per ragioni farmacologiche e fisiopatologiche (stabilità, emivita, possibilità di autoregolazione della trasformazione periferica in T3). La dose sostitutiva nell’adulto è di circa 100-200 g/die con ampia variabilità da soggetto a soggetto. La dose ottimale deve essere raggiunta gradualmente iniziando con piccole dosi, specie in pazienti anziani e/o cardiopatici. Nella terapia del coma mixedematoso, contemporaneamente alla terapia sostitutiva è indispensabile correggere i vari squilibri presenti (ipercapnia, ipotermia, ecc.) con misure sintomatiche da eseguire preferibilmente in un centro di terapia intensiva.
Ipotiroidismo subclinico (*) Si definisce ipotiroidismo subclinico una condizione caratterizzata da aumento dei livelli ematici di TSH (di solito lieve) in presenza di valori normali di ormoni tiroidei e in assenza di sintomi e segni conclamati di ipotiroidismo. In realtà, i sintomi che possono essere presenti sono lievi, sfumati e non specifici. Le cause di questa condizione dipendono da pregresse tiroiditi autoimmuni (e, in questo caso, possono coesistere con altre alterazioni patologiche autoimmuni, in particolare il diabete di tipo 1), spesso passate inosservate, o da farmaci (amiodarone, litio, interferon-, interleuchina-2). Una situazione che non può essere definita ipotiroidismo subclinico, ma che presenta problemi terapeutici affini, è la presenza nel siero di anticorpi antiperossidasi tiroidea con livelli ematici di ormoni tiroidei e TSH normali. L’ipotiroidismo subclinico è una condizione molto comune e si pensa che interessi dall’1 al 10% della popolazione mondiale. La più alta frequenza di questa (*) C. Rugarli.
forma morbosa è nelle donne di più di 60 anni di età, che sono interessate per il 20%. Le conseguenze cliniche di rilievo connesse con questo stato sono tre: rischio di passare a ipotiroidismo conclamato, sfumati sintomi di ipotiroidismo con riflessi negativi particolarmente sull’umore e sulle prestazioni cognitive, aumento del colesterolo e delle lipoproteine LDL, con incremento del rischio di patologia coronarica. Dal punto di vista obiettivo la presenza di gozzo è due volte più prevalente in questa condizione che nella popolazione generale. Per lo più l’ipotiroidismo subclinico è diagnosticato per caso, eseguendo indagini cliniche generali. Dato che la sua frequenza è elevata, è stato raccomandato da varie associazioni mediche di effettuare dei programmi di screening in quei settori della popolazione che sono particolarmente a rischio. Un consiglio che è stato dato è di dosare i livelli ematici di TSH (e, se elevati, anche quelli degli ormoni tiroidei) ogni 5 anni nelle donne di età superiore ai 35 anni e, ad intervalli più brevi, negli uomini di età superiore ai 65 anni. È opportuno anche sottoporre a queste indagini di screening le donne riconosciute gravide, perché è stato dimostrato che l’ipotiroidismo subclinico della madre influenza negativamente lo sviluppo neuropsicologico e la sopravvivenza del feto e predispone all’ipertensione e alla tossiemia. Lo stesso vale per le donne che hanno difficoltà al concepimento, perché è stato pure dimostrato che l’ipotiroidismo subclinico provoca disfunzioni ovulatorie e infertilità. Solitamente, in questa condizione l’aumento dei livelli ematici di TSH è modesto e nel 75% dei casi è compreso tra 5-10 mU/l. Gli anticorpi antiperossidasi tiroidea nel sangue sono positivi nel 50-80% dei pazienti. Quando, in presenza di normali valori di ormoni tiroidei nel sangue, coesistono alti livelli ematici di TSH e presenza di anticorpi antiperossidasi tiroidea, il rischio del passaggio all’ipotiroidismo conclamato è significativo ed è stato stimato in uno studio del 4,3% all’anno. Ma anche se solo l’una o l’altra di queste alterazioni di laboratorio era presente, il rischio risultava non trascurabile: 2,6% all’anno nel caso dell’aumento del TSH e 2,1% all’anno nel caso della positività degli anticorpi antiperossidasi. Non c’è dubbio che il trattamento con L-tiroxina può prevenire il passaggio a ipotiroidismo conclamato, ma è da valutare quando iniziare questo trattamento e, in fase iniziale, conviene riservare la terapia solo ai pazienti che hanno sia un aumento del TSH nel sangue sia positività di anticorpi antiperossidasi tiroidea, o a quelli negativi per gli anticorpi, ma con livelli ematici di TSH superiori o uguali a 10 mU/l. In ogni caso, regolari controlli di laboratorio ripetuti annualmente possono suggerire il momento più adatto per instaurare la terapia. Questa decisione dipende anche dal contesto clinico del paziente. Se si notano anche sfumati disturbi cognitivi e attenuazione della memoria, un trattamento può essere consigliato perché quattro studi indipendenti hanno riportato piccoli, ma significativi miglioramenti di queste funzioni con la terapia. Lo stesso vale in caso di infertilità in donne con ipotiroidismo subclinico, dato che la terapia con L-tiroxina può ristabilire l’ovulazione. Sfor-
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57 - MALATTIE DELLA TIROIDE
tunatamente, gli effetti del trattamento sui livelli di colesterolo e lipoproteine LDL sono di modesta entità e più evidenti solo nei pazienti con livelli di colesterolemia superiori a 240 mg/dl. Comunque, nei pazienti con alterazioni dei lipidi nel sangue o con gozzo vale la pena comunque di effettuare la terapia con L-tiroxina. Altri effetti che sono stati attribuiti alla terapia con L-tiroxina sono una riduzione della pressione intraoculare, un miglioramento della performance miocardica e un’aumentata efficienza della funzionalità dei nervi periferici. È bene che il trattamento con L-tiroxina sia iniziato con prudenza, soprattutto in pazienti con problemi coronarici. Una dose quotidiana di 25-75 g al giorno è per lo più sufficiente a normalizzare i livelli ematici di TSH. Nei soggetti coronaropatici è meglio iniziare con 12,5-25 g al giorno, aumentando, se necessario successivamente la dose. È da sottolineare che la terapia dell’ipotiroidismo subclinico con L-tiroxina non è priva di inconvenienti, dato che un sovradosaggio del farmaco è piuttosto facile, con possibile ipertiroidismo iatrogenico, che può condurre a conseguenze cliniche (fibrillazione atriale, osteopenia) che possono essere più gravi dell’anomalia trattata.
Forme cliniche particolari A. Ipotiroidismo congenito – Cretinismo. La carenza di ormoni tiroidei durante la vita fetale e/o in età neonatale provoca un ritardo dello sviluppo del SNC, con danni che divengono irreversibili se non si instaura tempestivamente un trattamento sostitutivo. La deficienza mentale è l’espressione più costante e più grave della malattia; ad essa si associano ritardo dell’accrescimento somatico, disturbi neuromuscolari e talora alterazioni degli organi neurosensoriali con difetto dell’udito e disturbi del linguaggio. È nota una lunga serie di sintomi clinici che permettono di sospettare o di diagnosticare l’ipotiroidismo nelle prime settimane di vita: persistenza dell’ittero neonatale, eccessiva sonnolenza, disturbi della suzione, stipsi, ernia ombelicale, alterazioni dello sviluppo scheletrico, ecc. Tuttavia, sulla base dei soli segni clinici, la diagnosi viene posta tardivamente rispetto alla necessità di somministrare al più presto ormoni tiroidei; pertanto si preferisce attuare un sistematico screening neonatale mediante dosaggio del TSH ed eventualmente del T4 nei primi cinque giorni di vita. B. Ipotiroidismo giovanile. L’ipotiroidismo insorto nell’infanzia è caratterizzato prevalentemente da alterazioni dello sviluppo scheletrico e della maturazione sessuale. In quest’epoca lo sviluppo del SNC è ormai completo e la carenza di ormoni tiroidei provoca un ritardo intellettivo, ma non il deficit mentale caratteristico del cretinismo. Pertanto l’ipotiroidismo giovanile differisce da quello congenito per la mancanza di cretinismo e da quello dell’adulto per l’ipoevolutismo somatico e sessuale, e per una minor evidenza clinica delle manifestazioni mixedematose.
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A carico dell’apparato scheletrico si osservano: a) ritardo nella comparsa dei nuclei di ossificazione epifisari con età ossea ritardata; b) anomalie di questi stessi nuclei che appaiono, all’esame radiografico, frammentati. Questa anomalia, nota come disgenesia epifisaria, è caratteristica dell’ipotiroidismo. Si rileva con maggior frequenza in corrispondenza della testa del femore. Come conseguenza sul piano clinico si ha un ritardo dell’accrescimento che interessa prevalentemente le ossa lunghe con nanismo disarmonico in cui gli arti sono relativamente corti rispetto al tronco (si veda la Fig. 56.17). Anche la maturazione delle ossa del volto è ritardata, soprattutto nella regione naso-orbitale, cosicché il volto del paziente mantiene una configurazione infantile. La maturazione sessuale è ritardata e l’inizio dei fenomeni puberali avviene in genere con notevole ritardo. Nel complesso il paziente sembra notevolmente più giovane della sua età cronologica. C. Coma mixedematoso. Il coma mixedematoso è una condizione clinica grave che solo eccezionalmente rappresenta lo stadio finale di un ipotiroidismo che ha seguito la sua naturale evoluzione. Assai più frequentemente il coma può essere precipitato da fattori capaci di provocare anossia del SNC, deprimendo i centri respiratori e/o diminuendo il flusso ematico cerebrale. Tra le cause scatenanti più comuni ricordiamo: l’esposizione prolungata al freddo, le infezioni, i traumi con emorragia, l’ingestione di forti quantità di alcool e soprattutto la somministrazione di sedativi o tranquillanti. Sono prevalentemente colpiti pazienti anziani, talora con ipotiroidismo non noto o trattato in modo inadeguato, affetti da malattie croniche respiratorie o dell’apparato cardiovascolare. Sul piano fisiopatologico il coma mixedematoso è caratterizzato da una serie di alterazioni metaboliche che è importante conoscere, in quanto dalla loro correzione dipende in gran parte l’esito del trattamento e la risoluzione o meno del coma. • Ipoventilazione, ipossia, e accumulo di CO2 da ridotta responsività dei centri respiratori all’ipossia e all’ipercapnia. • Iponatriemia da ritenzione di acqua causata dalla ridotta capacità del rene di eliminare H2O. • Ipotermia spiccata, al di sotto dei 34 °C, causata dalla ridotta attività della pompa sodio-potassio a livello delle membrane cellulari con minor utilizzazione di ATP. • Ipoglicemia, che può essere presente in alcuni pazienti. All’anamnesi spesso è possibile rievocare nella memoria del paziente o dei familiari una pregressa malattia tiroidea o un trattamento con radioiodio. Clinicamente il coma mixedematoso è caratterizzato dalla bradicardia, dall’ipotermia e dalla sonnolenza progressiva sino alla letargia e al coma. È importante cercare di stabilire se vi è iposurrenalismo concomitante (ipotiroidismo secondario a ipopituitarismo oppure sindrome di Schmidt) per associare alla
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terapia del mixedema quella dell’insufficienza surrenale. Non è sufficiente porre diagnosi di coma mixedematoso, è necessario ricercare e correggere la causa scatenante. D. Difetti dell’ormonogenesi tiroidea. La produzione di T3 e T4 può essere compromessa per deficit congenito di uno degli enzimi necessari alla biosintesi ormonale. Sono noti 5 difetti enzimatici che, a vario livello, causano un blocco della sintesi degli ormoni tiroidei (si veda la Fig. 57.2). Le conseguenze biochimiche e le principali caratteristiche dei singoli difetti enzimatici sono riassunte nella tabella 57.9. Caratteristiche cliniche comuni a tutti i difetti sono le seguenti. 1. La familiarità: nella maggior parte dei soggetti affetti è possibile evidenziare una trasmissione autosomica recessiva. Nei soggetti omozigoti per il gene anomalo si ha evidenza clinica della malattia con gozzo e ipotiroidismo, mentre nei consanguinei eterozigoti si hanno un lieve aumento di volume della tiroide ed eutiroidismo. Tuttavia, anche in questi ultimi, con appropriate indagini funzionali, si possono evidenziare lievi anomalie delle stesse tappe biosintetiche che sono bloccate nei soggetti omozigoti. In un’elevata quota di casi si evidenzia consanguineità dei genitori. 2. La presenza di gozzo alla nascita o la sua comparsa nei primi anni di vita. Si ritiene generalmente che il gozzo sia espressione di un’iperplasia compensatoria della tiroide che tenta di supplire al difetto della sintesi ormonale. 3. Ipotiroidismo: l’ipofunzione tiroidea può variare notevolmente di gravità, in rapporto alla severità del blocco della sintesi ormonale. Nei casi di blocco incompleto l’ipersecrezione di TSH e l’iperplasia compensatoria riescono a sopperire al fabbisogno fisiologico di ormoni tiroidei; il paziente presenta quindi un gozzo semplice con eutiroidismo. Quando il difetto enzimatico è più grave i meccanismi compensatori sono insufficienti a produrre un’adeguata quantità di T3 e T4 e si hanno gozzo e ipotiroidismo clinico.
MALATTIE ENDOCRINE
E. Modificazioni della funzione tiroidea in corso di affezioni sistemiche. L’assetto ormonale dell’asse ipofisi-tiroide può variare, nel corso di malattie acute o croniche o di gravi carenze nutritive, anche in assenza di malattie primitive della tiroide o dell’ipofisi. Questa non rara eventualità, nota come sindrome del malato eutiroideo o “euthyroid sick syndrome” dagli Autori di lingua inglese, è andata assumendo crescente importanza con l’estendersi del dosaggio degli ormoni tiroidei e del TSH anche a pazienti senza evidenze cliniche indicative di iper o ipotiroidismo. Le alterazioni interessano soprattutto i livelli circolanti di T3 e T4 o FT3 e FT4, indipendentemente da variazioni della TBG. Si osserva un’ampia gamma di variazioni degli ormoni tiroidei che riflette le modificazioni dell’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide in rapporto alla modificata attività metabolica dei tessuti periferici. Il cambiamento più precoce e comune è rappresentato dalla riduzione dei livelli di T3 (“low T3 state”) causata dalla ridotta deiodinazione periferica della T4 in T3, talora associata ad aumento della reverse T3, biologicamente inattiva (si veda la Fig. 57.1). Questa riduzione della T3 in assenza di ipotiroidismo si osserva particolarmente in corso di croniche e gravi malattie e/o di malnutrizione, tutte condizioni in cui è utile ridurre il metabolismo energetico stimolato dalla T3. La riduzione della T3 può restare isolata oppure può associarsi ad aumento della T4, cosiddetta “ipertiroxinemia eutiroidea”, oppure, quando la gravità e la durata della malattia di base sono particolarmente evidenti, si può avere una riduzione della T4 (“ipotiroxinemia senza ipotiroidismo”). Modeste riduzioni del TSH si possono evidenziare transitoriamente poco dopo l’inizio di una grave privazione calorica in pazienti che successivamente sviluppano uno stato da ridotta T4. Al contrario, il TSH può aumentare modestamente durante la convalescenza di gravi malattie extratiroidee. Tuttavia, i valori di TSH restano di regola nei limiti della norma e la loro misura è particolarmente utile per la diagnosi differenziale di queste alterazioni della T3 e della T4 dall’ipotiroidismo e dall’ipertiroidismo. Le singole alterazioni dell’assetto ormonale tiroideo in corso di affezioni sistemiche non sono caratteristiche di specifiche condizioni morbose, ma riflettono piuttosto la gravità della malattia di base e/o dello stato catabolico. Esse regrediscono totalmente con la guarigione della malattia di base.
C A P I T O L O
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58
MALATTIE DEL CORTICOSURRENE L. CANTALAMESSA, L. AIRAGHI
CENNI DI FISIOPATOLOGIA Nella corteccia surrenale, dal nucleo ciclopentanofenantrenico di base del colesterolo, viene sintetizzata, attraverso vie metaboliche diverse, una serie di ormoni steroidei che, in base all’attività biologica prevalente, vengono distinti in tre gruppi (Fig. 58.1): • glicoattivi (cortisolo e corticosterone); • mineraloattivi (aldosterone e desossi-corticosterone o DOC); • androgeni (deidroepiandrosterone o DHEA, androstenedione, testosterone). Questi tre gruppi di steroidi sono sintetizzati in zone anatomicamente distinte della corteccia surrenale (Fig. 58.2), che possono andare incontro a processi patologici diversi caratterizzati, sul piano clinico, dall’iperproduzione di un solo tipo di ormoni. In particolare l’iperproduzione di steroidi glicoattivi causa la sindrome di Cushing; l’iperproduzione di aldosterone provoca iperaldosteronismo primario e l’iperproduzione di steroidi androgeni causa la sindrome surrenogenitale. Dal punto di vista istologico, nella corteccia surrenale è possibile distinguere, procedendo dall’esterno verso l’interno, tre zone la cui denominazione deriva dalla disposizione delle cellule che la compongono: • la zona glomerulare, di tenue spessore, è formata da cellule che si dispongono in formazioni rotondeggianti subito sotto la capsula surrenale; • la zona fascicolata, formata da cellule di maggiori dimensioni disposte a palizzata in cordoni a direzione radiale; • la zona reticolare, formata da cellule ricche di granuli di lipofuscina, disposte a formare un reticolo nella parte più prossima alla midollare.
Con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di G. Dell’Antonio.
Le cellule della zona glomerulare, grazie alla presenza dell’enzima aldosterone-sintasi, costituito da due attività enzimatiche, producono aldosterone; sono invece prive dell’enzima 17--idrossilasi e non sono quindi in grado di attivare le vie metaboliche che portano alla sintesi del cortisolo e degli androgeni (Fig. 58.1). L’attività secretoria della zona glomerulare è regolata principalmente dal sistema renina-angiotensina e dal potassio ed è relativamente indipendente dall’azione dell’ACTH. Le cellule della zona fascicolata e reticolare producono glicocorticoidi ed androgeni, e sembrano costituire una singola unità funzionale; non contengono l’enzima aldosterone-sintasi e non sono quindi in grado di sintetizzare l’aldosterone (Fig. 58.2). L’attività secretoria delle zone fascicolata e reticolare è ACTH-dipendente. Un eccesso o una carenza di ACTH alterano la struttura e la funzione di queste zone: un deficit di ACTH provoca atrofia, mentre un eccesso di ormone corticotropo causa ipertrofia e iperplasia di questa parte del corticosurrene. Si ritiene che le cellule della zona fascicolata rispondano alla stimolazione acuta dell’ACTH con una brusca immissione in circolo di cortisolo, mentre le cellule della zona reticolare manterrebbero la secrezione basale di glicocorticoidi e quella indotta dalla stimolazione cronica con ACTH. Nelle zone fascicolata e reticolare vengono prodotte anche piccole quantità di estrogeni e progestinici. In condizioni fisiologiche, il ruolo del corticosurrene nella produzione di questi ormoni è trascurabile, tuttavia, in particolari condizioni morbose (per es., tumori femminilizzanti) la produzione surrenale di tali ormoni può assumere rilevanza clinica. In sintesi, in rapporto al differente contenuto enzimatico cellulare e ai diversi meccanismi di regolazione secretoria, la corteccia surrenale può essere suddivisa in due unità funzionalmente distinte: la prima, localizzata anatomicamente nella zona glomerulare, produce aldosterone ed è regolata principalmente dal sistema reninaangiotensina; la seconda, localizzata nelle zone fascico-
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MALATTIE ENDOCRINE
Colesterolo
17--idrossilasi
Pregnenolone
Progesterone
17--OH pregnenolone
3--idrossisteroido-deidrogenasi 17--OH progesterone
17,20-liasi/desmolasi
20,22-desmolasi Deidroepiandrosterone (DHEA)
aromatizzanti
21-idrossilasi
Desossi-corticosterone (DOC)
ESTRONE
Androstenedione
11-Desossi-cortisolo
17--idrossisteroido-deidrogenasi enzimi
11--idrossilasi Corticosterone
Aldosterone-sintasi
H O HO
CH2OH
CH2OH
C=O
C=O
C
HO
ALDOSTERONE
HO
O
O
O
OH
OH OH
CORTISOLO
TESTOSTERONE
ESTRADIOLO
Figura 58.1 - Principali vie sintetiche degli ormoni steroidei. Nel riquadro tratteggiato le vie biologiche presenti solo a livello della corteccia surrenale. L’aldosterone-sintasi è costituita da due attività enzimatiche: la 18-β-idrossilasi (corticosterone metilossidasi I, CMO I) e la 18-β-idrogenasi (corticosterone metilossidasi II, CMO II).
lata e reticolare, produce glicocorticoidi ed androgeni sotto il controllo ipotalamo-ipofisario. I processi morbosi causati da disordini della secrezione di aldosterone sono discussi al capitolo 1.
Glicocorticoidi A. Azioni fisiologiche. Tra gli steroidi di questo gruppo il cortisolo rappresenta l’ormone naturale che ha maggior rilevanza biologica. Questi steroidi sono stati inizialmente definiti glicocorticoidi per la loro azione di regolazione del metabolismo glucidico; tuttavia tale definizione appare riduttiva, in quanto la loro attività biologica interessa molti altri aspetti del metabolismo intermedio e regola l’attività di numerosi organi ed apparati. Analogamente agli altri ormoni steroidei, i glicocorticoidi esercitano la loro azione legandosi ad un recetto-
re specifico contenuto nel citoplasma cellulare. Recettori per i glicocorticoidi sono in pratica presenti in tutti i tessuti. Il complesso glicocorticoide-recettore va incontro ad una modificazione conformazionale che ne determina l’attivazione. Penetra quindi nel nucleo e si lega ad accettori specifici presenti sulla cromatina nucleare, attivando la RNA-polimerasi e stimolando la sintesi di mRNA e di proteine. Benché i recettori siano simili in tutte le cellule, le proteine sintetizzate variano ampiamente da un tessuto all’altro e sono il risultato dell’espressione di geni specifici presenti in differenti tipi cellulari. Le proteine neoformate influenzano la risposta metabolica ai glicocorticoidi, che può essere stimolatoria o inibitoria in rapporto all’organo bersaglio. 1. Effetti metabolici. I glicocorticoidi hanno un’azione prevalentemente proteocatabolica che si esplica in particolare sul tessuto muscolare, sul tessuto osseo,
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58 - MALATTIE DEL CORTICOSURRENE
Angiotensina II
COLESTEROLO
ACTH
K ACTH
Pregnenolone
Progesterone
Progesterone
DOC
Corticosterone
DOC
17--idrossilasi
Pregnenolone
17--idrossi-pregnenolone
17--idrossi-progesterone
DHEA
Androstenedione
11-desossi-cortisolo
Altri androgeni
Corticosterone
18--idrossilasi
18-idrossi-corticosterone
18--idrogenasi
ALDOSTERONE
CORTISOLO
Zona glomerulare
Zona fascicolata-reticolare
Estrogeni
Figura 58.2 - Organizzazione strutturale del parenchima surrenale nelle tre zone: glomerulare, fascicolata e reticolare. In alto, rappresentazione schematica della biosintesi degli steroidi surrenali; l’enzima 17-α-idrossilasi, presente solo nelle cellule delle zone fascicolata e reticolare, permette la sintesi di cortisolo; mentre l’enzima aldosterone-sintasi, presente solo nella zona glomerulare, permette la sintesi di aldosterone.
sul connettivo e sul tessuto linfatico (Fig. 58.3). In questi tessuti i glicocorticoidi inibiscono la captazione del glucosio circolante, rallentano la sintesi delle proteine e ne accelerano il catabolismo. Il fegato, il cuore, il tessuto nervoso e quello eritropoietico rappresentano delle eccezioni. Anzi, a livello epatico, i glicocorticoidi stimolano la sintesi di RNA e di proteine, la gliconeogenesi e l’accumulo di glicogeno. Questi ultimi effetti si realizzano sia per azione diretta dei glicocorticoidi sia per un “effetto permissivo”, che consiste in un’aumentata responsività epatica agli altri ormoni gliconeogenetici, in particolare al glucagone. La ridotta utilizzazione del glucosio circolante da parte del tessuto muscolare,
connettivo e adiposo provoca una tendenza all’iperglicemia ed una iperinsulinemia reattiva che mantiene, nel soggetto normale, i livelli glicemici nei limiti di norma. In soggetti con ridotta riserva di insulina (diabete latente), un eccesso di glicocorticoidi può provocare un diabete clinicamente evidente (diabete steroideo). A livello del tessuto adiposo l’effetto prevalente dei glicocorticoidi è di tipo lipolitico con liberazione in circolo di glicerolo e acidi grassi. In sintesi: a) a livello del tessuto muscolare e connettivo l’effetto catabolico dei glicocorticoidi si esplica attraverso una ridotta utilizzazione del glucosio circolante, una ridotta sintesi proteica ed una aumentata libera-
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MALATTIE ENDOCRINE
AZIONE ANABOLICA
AZIONE CATABOLICA
Glucosio Gliconeogenesi Glicogeno Sintesi enzimatiche
Tessuto muscolare
Tessuto linfatico
Tessuto connettivo
Tessuto adiposo
Aminoacidi Glicerolo Apporto energetico
Acidi grassi
Figura 58.3 - Effetti dei glicocorticoidi sul metabolismo glucidico proteico e lipidico a livello di alcuni tessuti. I segni + e – indicano rispettivamente stimolazione e inibizione. (Modificata da J.D. Baxter, P.H. Forsham, 1972).
zione di aminoacidi; questo accelerato catabolismo rende ragione degli effetti deleteri che un eccesso di glicocorticoidi esercita sull’apparato muscolare, su quello scheletrico (osteoporosi) e sui tessuti connettivi; b) a livello del tessuto adiposo i glicocorticoidi stimolano la lipolisi con liberazione in circolo di acidi grassi e glicerolo; c) a livello epatico i glicocorticoidi stimolano la gliconeogenesi e la sintesi proteica che si realizzano principalmente grazie alla maggior disponibilità di substrati metabolici (aminoacidi, acidi grassi, glicerolo), liberati dal tessuto muscolare, connettivo ed adiposo. Al complesso delle modificazioni metaboliche glicocorticoido-dipendenti è stato attribuito un ruolo essenziale per il mantenimento delle funzioni fisiologiche di base, in condizioni di mancato apporto nutritivo. In condizioni di digiuno, l’aumentata gliconeogenesi e la deposizione di glicogeno nel fegato assicurerebbero il mantenimento di livelli di glucosio circolante nei limiti richiesti dai fabbisogni fisiologici dei tessuti essenziali alla sopravvivenza (cuore, cervello, globuli rossi), a spese di una mobilizzazione di aminoacidi e di altri substrati energetici da strutture periferiche di supporto come ossa, muscoli, cute, connettivo e tessuto adiposo. Il ruolo dei glicocorticoidi è confermato in tal senso nel morbo di Addison, in cui è facile osservare una tendenza all’ipoglicemia in condizioni di carenza nutritiva. 2. Metabolismo osseo e omeostasi calcica. Gli effetti esercitati dai glicocorticoidi sul tessuto osseo sono particolarmente complessi; inoltre i limiti tra ruolo fisiologi-
co ed effetti farmacologici non sono ben definiti. Senza dubbio un eccesso di glicocorticoidi esercita effetti deleteri sull’apparato scheletrico. I glicocorticoidi inibiscono la neoformazione ossea con un’azione diretta sulla proliferazione cellulare e sulla sintesi di collageno e ialuronato, e stimolano il riassorbimento della componente minerale potenziando l’azione del paratormone. Il cortisolo ha anche effetti rilevanti sul metabolismo del calcio: inibisce l’assorbimento intestinale del calcio e ne aumenta l’eliminazione urinaria. La negativizzazione del bilancio calcico che ne deriva provoca ipersecrezione di PTH, che mantiene i livelli di calcio circolante nei limiti di norma, a spese di un aumentato riassorbimento osseo. L’eccesso di glicocorticoidi provoca quindi una negativizzazione del bilancio calcico che, associata alla ridotta formazione della matrice proteica, è responsabile dell’osteoporosi, che rappresenta spesso la più temibile complicanza della terapia steroidea a lungo termine. 3. Sistema cardiovascolare e bilancio idroelettrolitico. Il cortisolo influenza la funzionalità cardiaca, il tono dei vasi periferici, l’eliminazione di acqua e il bilancio elettrolitico. In condizioni di iposurrenalismo si hanno tipicamente: ipotensione, ridotta gettata cardiaca, tendenza allo shock. Queste anomalie sono solo parzialmente corrette dalla somministrazione di steroidi ad azione mineraloattiva. Nei pazienti addisoniani l’ipotensione persiste dopo correzione della carenza di liquidi e di elettroliti e può essere corretta solo dopo somministrazione di glicocorticoidi. Si ritiene che l’effica-
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58 - MALATTIE DEL CORTICOSURRENE
cia dei glicocorticoidi in tal senso sia dovuta all’aumento della gettata cardiaca e del tono vascolare periferico. Quest’ultimo effetto è probabilmente legato ad un potenziamento dell’azione di altri agenti vasoattivi, in particolare delle catecolamine. I glicocorticoidi influenzano il bilancio idroelettrolitico sia con un effetto legato all’attivazione dei recettori dei mineralcorticoidi (ritenzione di sodio e acqua, ipokaliemia, ipertensione) sia con un’azione mediata dai recettori specifici per i glicocorticoidi, che provoca un aumento del filtrato glomerulare. Nei pazienti con carenza di glicocorticoidi si hanno, infatti, riduzione del filtrato glomerulare e incapacità di eliminare un carico di acqua. I glicocorticoidi inibiscono inoltre la secrezione di ormone antidiuretico. 4. Glicocorticoidi e stress. La possibilità di disporre di glicocorticoidi è essenziale all’organismo per sopravvivere in occasione di eventi stressanti. Stimoli stressanti di qualsiasi origine (traumi, interventi chirurgici, emozioni, ecc.) provocano un’attivazione del sistema CRH-ACTH, con brusca liberazione in circolo di ACTH e cortisolo. La sopravvivenza dei pazienti con insufficienza corticosurrenale era, in epoca precedente all’impiego terapeutico dei corticosteroidi, estremamente limitata. La morte era causata abitualmente da shock, precipitato da eventi stressanti banali come infezioni, traumi, ecc. Successivamente la possibilità di impiegare il DOC, dotato di una potente azione mineraloattiva, aveva solo di poco migliorato la sopravvivenza, che è invece decisamente aumentata con l’isolamento e l’uso terapeutico del cortisolo. Perché i glicocorticoidi siano essenziali alla sopravvivenza durante lo stress è solo parzialmente noto. Si ritiene, in genere, che operino in tal senso gli effetti dei glicocorticoidi sul sistema cardiovascolare ed in particolare l’aumento del tono vascolare periferico e l’aumentata responsività alle catecolamine. 5. Sistema nervoso centrale. I glicocorticoidi raggiungono l’encefalo e si fissano a recettori specifici posti nell’ippocampo. Le funzioni fisiologiche dei glicocorticoidi a livello encefalico non sono completamente definite. Poiché CRH, ACTH e peptidi POMC-correlati hanno effetti ben dimostrati sul comportamento, è ragionevole ipotizzare che i glicocorticoidi esercitino un’influenza su alcuni aspetti comportamentali, in rapporto alle dirette correlazioni con il CRH, l’ACTH e i peptidi POMC-correlati. Sicuramente la carenza o l’eccesso di glicocorticoidi può profondamente alterare il comportamento e influenzare le capacità conoscitive. I pazienti addisoniani sono apatici, irritabili, negativisti con tendenza alla depressione. Anche più gravi sono i disturbi psichici associati all’ipercortisolismo endogeno o esogeno. Nei pazienti con sindrome di Cushing, oltre a disturbi della sfera emotiva (depressione) e conoscitiva (capacità di concentrazione, memoria) non è eccezionale la comparsa di vere e proprie sindromi psicotiche. 6. Sistema emopoietico. I glicocorticoidi esercitano una modesta azione stimolante sul tessuto eritropoieti-
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co, aumentando la produzione di globuli rossi e la sintesi di emoglobina. I glicocorticoidi provocano un aumento del numero dei granulociti neutrofili circolanti stimolandone la liberazione dal midollo, aumentando la loro vita media in circolo e inibendo il passaggio dal circolo al compartimento extravascolare. Al contrario i linfociti, i monociti e gli eosinofili circolanti sono ridotti principalmente per aumento del passaggio dal circolo al compartimento extravascolare. Come conseguenza, nell’insufficienza surrenale si ha anemia con neutropenia, linfo-monocitosi ed eosinofilia, mentre nella sindrome di Cushing si ha poliglobulia con neutrofilia, linfopenia ed eosinopenia. 7. Effetti sulla risposta infiammatoria e immunitaria. È noto che l’eccesso di glicocorticoidi endogeni sopprime la risposta immunitaria e che la somministrazione di dosi farmacologiche di glicocorticoidi può determinare la riattivazione di infezioni latenti, come la tubercolosi. Benché sia nota un’azione di modulazione dei glicocorticoidi a concentrazioni fisiologiche sulla risposta del sistema immunitario e sui meccanismi dell’infiammazione, l’azione utilizzata ai fini terapeutici è legata agli effetti farmacologici. Infatti, i glicocorticoidi di sintesi sono i farmaci maggiormente impiegati nella terapia della patologia immuno-mediata per il loro duplice effetto antinfiammatorio e immunosoppressivo, attraverso l’inibizione di molte fasi della risposta immunitaria, comprese la proliferazione dei linfociti e la produzione di immunoglobuline, citochine e mediatori proinfiammatori. In condizioni fisiologiche la risposta dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene allo stress può servire per modulare l’intensità della risposta immunitaria e delle sue componenti proinfiammatorie, compresa la modificazione del tono e della permeabilità vascolare. La perdita di questa funzione rende i soggetti affetti da insufficienza corticosurrenale estremamente vulnerabili durante i processi infettivi. Il fatto che citochine proinfiammatorie come IL-1 siano in grado di attivare l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, suggerisce l’intervento di un sistema di controregolazione negativa per contenere l’intensità del processo flogistico. Inoltre, i glicocorticoidi hanno un ruolo di una certa importanza nello sviluppo del sistema immunitario, poiché promuovono il processo di apoptosi o di morte cellulare programmata dei timociti, che è un meccanismo alla base della selezione negativa di queste cellule immunocompetenti. A dosi farmacologiche i glicocorticoidi rivelano proprietà antinfiammatorie, che sono probabilmente in relazione anche ai loro effetti sulla compartimentalizzazione dei globuli bianchi (si veda sopra). Infatti, i glicocorticoidi alterano l’immunità cellulo-mediata, riducendo il numero dei linfociti circolanti, in particolare dei linfociti T, per ridistribuzione dei linfociti dal compartimento intravascolare alla milza, ai linfonodi, al dotto toracico e al midollo osseo. Inoltre, i glicocorticoidi inibiscono la produzione e l’azione dei mediatori dell’infiammazione, come le citochine e le prostaglandine. I glicocorticoidi inibiscono l’attivazione del fatto-
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re nucleare K B (NF-kB), un fattore di trascrizione con un ruolo centrale nell’induzione dell’espressione del gene per le citochine, attraverso l’induzione di un inibitore citoplasmatico di NF-kB (I kB), che lega NF-kB, sequestrandolo nel citoplasma e prevenendo così la sua traslocazione nel nucleo. Le prostaglandine sono tra i mediatori della risposta infiammatoria e i glicocorticoidi inibiscono la loro sintesi, attraverso l’inibizione del processo di attivazione della fosfolipasi A2. Un altro meccanismo possibile per l’azione antinfiammatoria dei glicocorticoidi è l’inibizione degli attivatori del plasminogeno, proteasi che convertono il plasminogeno a plasmina. La plasmina cliva il chininogeno in potenti chinine, che determinano vasodilatazione e incremento della permeabilità capillare. B. Regolazione secretoria. L’ipotalamo, l’ipofisi e il corticosurrene costituiscono un asse neuroendocrino che regola la produzione di cortisolo. Di questo asse abbiamo discusso nel capitolo 56. Ricordiamo, in sintesi, che il CRH prodotto nell’ipotalamo raggiunge, attraverso il sistema portale, l’adenoipofisi e stimola la liberazione di ACTH. Quest’ultimo, attraverso il circolo sistemico, raggiunge la corteccia surrenale, dove stimola la produzione di cortisolo. Tre principali meccanismi sono coinvolti nella regolazione della secrezione del cortisolo: • il ritmo circadiano, controllato dal sistema nervoso centrale, caratterizzato da una progressiva riduzione dei livelli di cortisolo circolante nelle ore pomeridiane e notturne e da un progressivo aumento nelle prime ore del mattino con un picco intorno alle 8 a.m.; • lo stress psichico e fisico che determina la liberazione acuta in circolo di ACTH e cortisolo; • i livelli di cortisolo circolante, che inibiscono, con un meccanismo di controregolazione negativo, la produzione di CRH e ACTH.
Androgeni Gli steroidi surrenali ad azione androgena sono il deidroepiandrosterone (DHEA), il suo derivato solfato (DHEA-S) e l’androstenedione. L’androstenedione può essere convertito in testosterone nel surrene, ma la secrezione surrenale diretta di testosterone è minima. Gli androgeni di origine surrenale DHEA, DHEA-S e androstenedione hanno un’attività biologica intrinseca assai modesta, ma possono trasformarsi alla periferia nei più attivi testosterone e diidrotestosterone. In tal senso, benché il DHEA e il DHEA-S siano prodotti in maggior quantità, l’androstenedione è biologicamente più importante in quanto più facilmente trasformato in testosterone a livello dei tessuti periferici. A. Azioni fisiologiche e regolazione secretoria. Nel maschio il ruolo fisiologico degli androgeni surrenali è trascurabile; il testosterone derivato dalla conversione periferica di androstenedione contribuisce per meno del 5% alla produzione totale dell’ormone. Al contrario, nella
donna gli androgeni di origine surrenale contribuiscono in modo sostanziale alla produzione di androgeni. Il più evidente effetto fisiologico degli androgeni nella donna è quello di promuovere lo sviluppo pilifero in età puberale. La produzione degli androgeni surrenali nell’adulto è regolata dall’ACTH, analogamente a quanto avviene per gli ormoni glicoattivi. I livelli circolanti di DHEA e androstenedione dimostrano una periodicità circadiana concordante con quella dell’ACTH e del cortisolo. La concentrazione plasmatica dei due ormoni aumenta rapidamente dopo somministrazione di ACTH ed è soppressa dalla somministrazione di glicocorticoidi. Tuttavia in alcune condizioni patologiche è possibile osservare una dissociazione della secrezione di DHEA-S e di cortisolo (morbo di Cushing). È stata pertanto prospettata l’esistenza di un fattore modulante la secrezione degli androgeni surrenali, distinto dall’ACTH. In base a studi sperimentali sono stati proposti come possibili fattori modulanti la secrezione degli androgeni surrenali un glicopeptide di 60 kD e un peptide di 18 aminoacidi, corrispondente alla regione aminoterminale del peptide J della POMC. Il ruolo fisiologico di questi peptidi nell’uomo rimane incerto.
Mineralocorticoidi Il principale ormone mineraloattivo è l’aldosterone, prodotto nella zona glomerulare del corticosurrene. Solo le cellule della zona glomerulare possiedono infatti il patrimonio enzimatico necessario alla sua biosintesi (Fig. 58.2). Analogamente agli altri steroidi, l’aldosterone esplica la sua azione a livello periferico, legandosi ad un recettore citoplasmatico, noto come recettore dei mineralocorticoidi, che rappresenta il mediatore indispensabile tra lo steroide e i meccanismi cellulari direttamente responsabili dell’effetto mineraloattivo. Oltre all’aldosterone, altri steroidi surrenali, in particolare il corticosterone, il desossi-corticosterone (DOC) e lo stesso cortisolo, possono legarsi al recettore dei mineralocorticoidi, esercitando pertanto un’azione mineraloattiva. L’azione mineraloattiva di questi steroidi è tuttavia di scarsa rilevanza. La frazione libera del DOC capace di penetrare nelle cellule e legarsi al recettore è quantitativamente modesta rispetto alla quota libera di aldosterone, mentre il cortisolo viene inattivato dall’enzima 11-idrossisteroido-deidrogenasi. Questo enzima, presente nei microsomi delle cellule bersaglio dei mineralocorticoidi, converte il cortisolo a cortisone, ormone con affinità ridotta per il recettore dei mineralocorticoidi. I tessuti responsivi all’aldosterone esprimono questa attività enzimatica a concentrazioni più elevate rispetto ai tessuti non responsivi. In alcuni tessuti carenti dell’enzima 11-idrossisteroido-deidrogenasi, come l’ippocampo e il cuore, i glicocorticoidi sono in grado di esprimere i loro effetti biologici anche legandosi al recettore dei mineralocorticoidi. Di conseguenza, in condizioni fisiologiche, l’azione mineraloattiva del corticosterone, del DOC e degli altri corticosteroidi surrenali è di scarsa rilevanza. Tuttavia, in condizioni patologiche, in cui si realizzi l’iperproduzione
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di uno o più di tali steroidi (sindrome di Cushing, iperplasia surrenale congenita da deficit di 11-idrossilasi), la loro concentrazione in circolo può raggiungere livelli tali da provocare una condizione di iperattività mineraloattiva (“ipermineralocorticoidismo”) sovrapponibile a quella osservabile in presenza di iperaldosteronismo. 1. Azioni fisiologiche e conseguenze dell’eccesso o della carenza di mineralocorticoidi. Il ruolo fisiologico dell’aldosterone è quello di mantenere nei limiti di norma il volume e la composizione dei fluidi extracellulari. A differenza di quanto abbiamo visto sopra a proposito degli steroidi glicoattivi, l’attività fisiologica dell’aldosterone è assai più selettiva; l’effetto mineraloattivo consiste essenzialmente nel promuovere il riassorbimento di ioni sodio che vengono scambiati con ioni potassio e idrogeno a livello di vari sistemi secretori. Benché i recettori per i mineralocorticoidi siano presenti a livello di vari tessuti (ghiandole sudoripare, ghiandole salivari, tratto gastrointestinale), da un punto di vista quantitativo, riveste importanza preminente l’effetto mineraloattivo che l’aldosterone esplica a livello del nefrone distale, dove gli ioni sodio vengono riassorbiti dal lume del tubulo, e gli ioni potassio e idrogeno vengono secreti nel lume tubulare e quindi eliminati con le urine. Una carenza di mineralocorticoidi, come per esempio nel morbo di Addison o in alcuni difetti enzimatici con blocco della steroidogenesi surrenale, provoca quindi massiva perdita di sodio con le urine, ipotensione, tendenza all’iperpotassiemia e all’acidosi metabolica. Al contrario, un eccesso di aldosterone, come per esempio nell’iperaldosteronismo, provoca ritenzione di Na, ipertensione, ipokaliemia, alcalosi metabolica. Nell’aldosteronismo primario e in altre condizioni di persistente eccesso di mineralocorticoidi, la ritenzione di sodio raggiunge un limite oltre il quale si ha una “sfuggita” all’azione sodio-ritentrice dei mineralocorticoidi. Non si evidenzia pertanto aumento della sodiemia e non si ha la comparsa di edemi (si veda il Cap. 1). Questa “sfuggita” non si verifica comunque costantemente; per esempio nell’aldosteronismo secondario, in corso di scompenso cardiaco o di cirrosi ascitogena, la ritenzione di sodio è progressiva. È importante ricordare, per le sue implicazioni pratiche, che l’azione dell’aldosterone varia di intensità in rapporto alle quantità di sodio disponibili. Un aumento dell’introduzione di sale si associa infatti alla presenza nel tubulo di una maggior quantità di sodio che può essere riassorbito, provocando un’aumentata perdita di potassio con le urine. Al contrario, un regime iposodico, con il meccanismo opposto, riduce la potassiuria indotta dall’aldosterone. 2. Regolazione secretoria. A differenza di quanto avviene per gli altri steroidi surrenali, il principale fattore di regolazione della produzione di aldosterone non è rappresentato dall’ACTH, ma dal sistema renina-angiotensina. Altri fattori di regolazione sono rappresentati dal potassio, dallo stesso ACTH e, probabilmente, dal fattore natriuretico atriale. 3. L’angiotensina II ha un effetto diretto sulle cellule della zona glomerulare, di cui stimola l’attività biosinte-
tica e il trofismo. Come conseguenza, tutti i fattori che regolano l’attività del sistema renina-angiotensina (Fig. 58.4) si riflettono sulla produzione di aldosterone. Attraverso la regolazione della secrezione di aldosterone il sistema renina-angiotesina rappresenta il principale sistema di controllo del volume dei fluidi extracellulari. D’altro canto, variazioni del volume extracellulare, attraverso corrispondenti variazioni del volume intravascolare effettivo, si riflettono sulla produzione di renina e quindi sull’attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone. In particolare, la riduzione del volume intravascolare, indipendentemente dalla causa che l’ha prodotta (disidratazione, emorragia massiva, perdita di sodio, ipoalbuminemia), provoca attivazione del sistema renina-angiotensina e della biosintesi di aldosterone. La ritenzione di sodio e acqua indotta dall’aldosterone tende, a sua volta, a correggere la riduzione del volume dei fluidi extracellulari. Si stabilisce pertanto un meccanismo di controregolazione negativa ad ansa lunga: l’aldosterone, attraverso la ritenzione di sodio e acqua, inibisce infatti la secrezione di renina e blocca quindi l’ulteriore attivazione dei meccanismi che stimolano la sua produzione. Il funzionamento del sistema può essere meglio compreso attraverso alcuni esempi esposti in forma schematica. Condizioni fisiopatologiche (disidratazione, ecc.) che provocano una riduzione della volemia (intesa come volume intravascolare effettivo)
Aumento della secrezione di renina
Aumento della produzione di angiotensina
Stimolo della secrezione di aldosterone
Ritenzione di sodio
Espansione dei fluidi extracellulari
Aumento della volemia
Con l’aumento compensatorio della volemia si corregge la condizione iniziale responsabile dell’attivazione del sistema e si inibisce pertanto la secrezione di renina → angiotensina → aldosterone. In alcune condizioni patologiche in cui la pressione di perfusione del rene è cronicamente ridotta, per esempio quando una quantità cospicua della massa sanguigna è sequestrata nel distretto venoso come avviene nello scompenso congestizio oppure quando vi è una raccolta di liquido nella cavità peritoneale, come avviene nella cirrosi ascitogena, si ha una cronica iperstimolazione della secrezione di renina. In queste condizioni, definite di aldosteronismo secondario, un cronico aumento dell’attività renina-angiotensina provoca, indipendentemente dalla malattia di base che ne è responsabile, un’ipersecrezione di aldosterone.
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MALATTIE ENDOCRINE
Apparato iuxtaglomerulare Deplezione EVF Diminuzione della PA nelle arterie renali
Aumento della PA nell’arteria renale
Diminuita concentrazione di Na+ nel tubulo a livello della macula densa Sistema adrenergico (-recettori)
Renina Angiotensina I Angiotensina II
Passaggio dal clino all’ortostatismo
Espansione EVF ANP
ACTH Aldosterone
Ritenzione di Na+
Surrene
K+: in circolo stimola direttamente il surrene
STIMOLI
K+ inibisce direttamente la secrezione surrenale di aldosterone e previene la stimolazione da deplezione di Na
INIBIZIONI
Figura 58.4 - Regolazione della secrezione di aldosterone. I fattori che stimolano la secrezione di aldosterone, direttamente o attraverso il sistema renina-angiotensina, sono rappresentati nella parte sinistra della figura; i meccanismi che provocano inibizione della secrezione dell’ormone sono riportati nella parte destra della figura. EFV = volume dei fluidi extracellulari; ANP = peptide natriuretico atriale; PA = pressione arteriosa.
Al contrario un primitivo eccesso di aldosterone tende a sopprimere l’attività reninica. Ipersecrezione autonoma di aldosterone da parte di un tumore surrenale
Ritenzione di sodio e acqua
Espansione dei fluidi extracellulari
Aumento della volemia (e del volume ematico effettivo)
Inibizione della secrezione di renina
Ridotta generazione di angiotensina
In questo caso di aldosteronismo primario, caratterizzato da aumento dell’aldosterone plasmatico e urinario, con attività reninica soppressa e non stimolabile (Cap. 1), la riduzione di angiotensina non è in grado di inibi-
re la secrezione di aldosterone in quanto l’ormone è prodotto in modo autonomo dal tumore. La concentrazione di potassio regola la produzione di aldosterone indipendentemente dal sistema renina-angiotensina. L’iperpotassiemia stimola direttamente la secrezione di aldosterone che, a sua volta, aumenta l’eliminazione urinaria di potassio. Il contrario avviene in condizioni di deplezione potassica. Questo sistema aldosterone-potassio rappresenta un importante fattore di controllo dell’omeostasi del potassio. La somministrazione di ACTH stimola acutamente la secrezione di aldosterone, ma l’azione di stimolo è fugace e tende rapidamente ad esaurirsi. Anche se una numerosa serie di recenti ricerche tende a dimostrare che l’ACTH e i peptidi POMC-correlati, in particolare il frammento aminoterminale 1-76, possono modulare, in varie condizioni sperimentali, la secrezione di aldosterone, l’evidenza clinica sembra dimostrare che l’ACTH ha un ruolo minore nella regolazione della secrezione di aldosterone. In condizioni di cronica carenza o di soppressione dell’ACTH, come per esempio in pazienti in trattamento cronico con corticosteroidi, non si osserva una significativa riduzione della produzione di aldosterone o
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segni clinici o biochimici indicativi di una carente attività mineraloattiva. Alcuni neurotrasmettitori, in particolare la dopamina, sembrano partecipare alla regolazione della secrezione di aldosterone: i dopamino-agonisti inibiscono e i dopamino-antagonisti stimolano la secrezione di aldosterone. La serotonina stimola la secrezione di aldosterone. 4. Il peptide natriuretico atriale o ANP (Atrial Natriuretic Peptide) è un ormone proteico prodotto dalle miocellule atriali dei mammiferi. L’ANP umano è stato purificato, identificato nella sua struttura molecolare e sintetizzato, mediante tecniche del cDNA ricombinante. L’ANP è un peptide costituito da 28 aminoacidi e deriva dal clivaggio della porzione carbossiterminale di un precursore formato da 126 aminoacidi. Finora sono stati identificati altri tre peptidi natriuretici: un peptide natriuretico cerebrale (BNP; 32 aminoacidi), un peptide tipo C (CNP; 22 aminoacidi) e un peptide natriuretico renale (urodilatina; 32 aminoacidi). Anche se inizialmente descritto a livello cerebrale, il BNP è presente soprattutto a livello dei ventricoli cardiaci e la sua azione è simile a quella dell’ANP. Il CNP è sintetizzato prevalentemente nel SNC, dove funge da neurotrasmettitore. Il peptide urodilatina è sintetizzato a livello renale, dove agisce localmente sul meccanismo di trasporto del sodio. I principali stimoli della secrezione di ANP sono rappresentati dall’aumento del volume plasmatico e/o dalla distensione della parete atriale. La distensione dell’atrio sinistro stimola i recettori dello stiramento muscolare, determinando l’esocitosi dei granuli contenenti ANP dai miociti atriali al torrente circolatorio. Gli ANP, isolati nelle varie specie animali, possiedono tutti azione diuretica e natriuretica rapida e potente e sono inoltre efficaci vasodilatatori. In accordo con questi effetti periferici, recettori specifici per l’ANP sono stati identificati in vari tessuti, in particolare a livello arteriolare, renale (nell’apparato glomerulare e nei dotti collettori) e nella zona glomerulare del surrene. Molteplici evidenze sperimentali dimostrano che l’ANP inibisce la biosintesi di aldosterone sia agendo direttamente sulle cellule della zona glomerulare in condizioni basali, sia inibendo la secrezione di aldosterone indotta dall’angiotensina II e dal potassio. I dati attualmente noti non permettono di definire l’esatto ruolo dell’ANP nella regolazione della secrezione di aldosterone nell’uomo. Tuttavia, poiché l’ANP sembra rappresentare un fattore di importanza primaria nella regolazione del bilancio del sodio e della volemia in condizioni normali e patologiche, possono sussistere ben poche riserve sull’importanza dell’ANP nel condizionare, in modo diretto o indiretto, la produzione di aldosterone.
IPOSURRENALISMO La rimozione sperimentale delle surrenali, nell’animale, è incompatibile con la sopravvivenza; si comprende quindi facilmente come un’insufficienza delle
surrenali nell’uomo si accompagni ad una situazione morbosa grave che mette in pericolo la vita stessa del paziente. Sul piano clinico le conseguenze dell’iposurrenalismo variano notevolmente in rapporto alla rapidità di evoluzione del processo morboso responsabile delle lesioni surrenali (iposurrenalismi acuti e cronici) e all’estensione delle lesioni stesse. In questo senso esiste infatti una differenza fondamentale tra iposurrenalismi causati da malattie che colpiscono direttamente il surrene (iposurrenalismi primitivi), che coinvolgono diffusamente tutte le componenti anatomiche ghiandolari – zona glomerulare, fascicolata e reticolare – e gli iposurrenalismi secondari ad un’insufficiente stimolazione ipotalamo-ipofisaria (iposurrenalismi secondari), in cui si ha un’atrofia limitata alla zona fascicolata e reticolare il cui trofismo è ACTH-dipendente. Come conseguenza, negli iposurrenalismi primitivi si ha un’insufficienza globale che interessa sia la produzione di steroidi glicoattivi che mineraloattivi, mentre negli iposurrenalismi secondari è interessata la sola componente glicoattiva. Scarsa importanza pratica riveste la carenza di steroidi ad azione androgena.
Insufficienza surrenale acuta Le forme più gravi sono dovute ad emorragie massive a livello surrenale in corso di sepsi, di leucemie acute, di terapia anticoagulante. La sepsi meningococcica (sindrome di Waterhouse-Friederichsen) è, nel bambino, la causa infettiva più frequentemente responsabile di insufficienza surrenale acuta. L’infezione si accompagna a manifestazioni emorragiche diffuse che, oltre al surrene, interessano la cute (purpura fulminans), l’encefalo, i visceri. Un’altra causa di insufficienza surrenale acuta è la trombosi venosa surrenale, che può determinare un’emorragia intraghiandolare e che può verificarsi nelle condizioni di trombofilia, come la sindrome da antifosfolipidi. Più frequentemente, nell’adulto, l’iposurrenalismo acuto insorge: a) in seguito a brusca interruzione della terapia steroidea, in pazienti trattati a lungo termine; b) in pazienti con iposurrenalismo cronico primitivo o secondario misconosciuto o non correttamente trattato nei quali la ridotta riserva funzionale del surrene viene improvvisamente resa palese da traumi, stress, malattie infettive acute, episodi gravi di gastroenterite. L’iposurrenalismo acuto o crisi surrenale è caratterizzato dalla brusca insorgenza di shock rapidamente ingravescente. Alcuni elementi vengono comunemente indicati come distintivi dello shock iposurrenale: spiccata disidratazione, tendenza all’ipoglicemia, iperpotassiemia, iposodiemia. Nella pratica questi dati hanno un valore diagnostico limitato, in quanto l’evoluzione dell’iposurrenalismo acuto, non trattato, è così rapida e tumultuosa da rendere impossibile l’attesa dei risultati delle indagini di laboratorio per iniziare la terapia. La diagnosi di iposurrenalismo acuto, possibile teoricamente con vari accertamenti di laboratorio, deve essere posta, nella pratica, clinica-
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mente. La possibilità di un’insufficienza surrenale acuta deve essere presa in considerazione in ogni paziente in collasso e, se qualche elemento anamnestico o obiettivo anche vago (pregressa terapia steroidea, segni obiettivi di iposurrenalismo prima trascurati) avvalora questo sospetto, è bene iniziare immediatamente la terapia, somministrando dosi massive di corticosteroidi e reintegrando la perdita di sodio con infusioni di NaC1 isotoniche.
Morbo di Addison Il morbo di Addison consiste nell’insufficienza cronica primitiva delle surrenali. Si tratta di una malattia non frequente (1 caso ogni 4000-6000 ricoveri) che non ha particolari predilezioni in rapporto alla razza; il sesso femminile è prevalentemente colpito nelle forme ad eziologia autoimmune. A. Eziopatogenesi. I segni clinici del morbo di Addison compaiono in forma conclamata quando almeno il 90% della corteccia surrenale è distrutto. Quando Addison descrisse per la prima volta l’insufficienza surrenale primitiva, la tubercolosi era la causa più frequente. Oggi, nel mondo occidentale, tale infezione è responsabile del 7-20% dei casi, mentre la distruzione delle ghiandole surrenali a causa di un processo autoimmune rende conto del 70-90% dei casi. La cosiddetta adrenalite autoimmune è caratterizzata istologicamente dall’infiltrazione linfocitaria della corteccia surrenale e dalla presenza nel siero del 60-75% dei pazienti di anticorpi che reagiscono contro tutte e tre le zone della corteccia surrenale. Alcuni pazienti affetti da altre malattie endocrine autoimmuni – ma senza insufficienza surrenale associata – sono positivi alla ricerca degli anticorpi antisurrene e tale riscontro può precedere di diversi anni l’insufficienza surrenale clinicamente rilevabile. In questi pazienti il primo segno di insufficienza della ghiandola è rappresentato da un incremento dell’attività reninica plasmatica, associato a concentrazioni plasmatiche di aldosterone ancora normali o modestamente ridotte. Questo dato sembra indicare che la zona glomerulare rappresenta il primo bersaglio del processo autoimmune. I principali antigeni contro cui gli anticorpi antisurrene reagiscono sono gli enzimi 20,22desmolasi, 17--idrossilasi e 21-idrossilasi. Il 50% circa dei pazienti con insufficienza surrenale autoimmune può essere affetto da un’altra endocrinopatia autoimmune (Tab. 58.1; si veda il Cap. 61). Le sindromi associate ad insufficienza surrenale vengono definite sindromi poliendocrine autoimmuni di tipo I (ipoparatiroidismo, candidosi mucocutanea cronica, insufficienza surrenale, ipogonadismo primitivo, anemia perniciosa) e di tipo II, chiamata anche sindrome di Schmidt (insufficienza surrenale, tireopatie autoimmuni, diabete mellito insulino-dipendente). Tra le cause infettive di insufficienza surrenale, oltre all’infezione tubercolare già citata, sono da ricordare le infezioni micotiche sistemiche, come l’istoplasmosi e la paracoccidioidomicosi. Inoltre, nei pazienti affetti da AIDS le ghiandole surrenali sono spesso coinvolte da
Tabella 58.1 - Manifestazioni autoimmuni rilevabili in pazienti con insufficienza surrenale idiopatica. INCIDENZA % Insufficienza ovarica primitiva Tiroidite cronica, ipotiroidismo Ipertiroidismo Diabete mellito Ipoparatiroidismo Vitiligo Anemia perniciosa
23 9 7 12 6 4 4
Da J.D. Baxter, J.B. Tyrell: Endocrinology and Metabolism, Felig et al., Eds., McGraw-Hill, New Jork, 1981.
processi infettivi o sostitutivi, come infezioni da cytomegalovirus, Mycobacterium avium-intracellulare o Cryptococcus e localizzazioni metastatiche di sarcoma di Kaposi. Si ritiene erroneamente che le metastasi in sede surrenale raramente determinino l’insufficienza della ghiandola. È stato invece dimostrato che almeno il 20% dei pazienti portatori di metastasi surrenali svela una risposta subottimale del cortisolo alla somministrazione di ACTH. Le ghiandole surrenali possono essere sede di metastasi da tumori polmonari, gastrointestinali, mammari e renali. Inoltre, i linfomi Hodgkin e non Hodgkin possono presentarsi all’esordio clinico con un quadro di insufficienza surrenale per la localizzazione a livello ghiandolare. Cause rare di insufficienza surrenale in età pediatrica sono il deficit familiare di glicocorticoidi, malattia a carattere ereditario con mancata risposta delle cellule surrenali all’ACTH, e l’iperplasia surrenale congenita. Anche la resistenza primaria al cortisolo è una malattia rara, caratterizzata dalla resistenza dei tessuti bersaglio al cortisolo per un’alterazione qualitativa e/o quantitativa del recettore per i glicocorticoidi. Questa malattia si presenta con un quadro biochimico di ipercortisolismo senza le manifestazioni cliniche da eccesso di glicocorticoidi ed è stata descritta anche nei pazienti con infezione da HIV. Una causa di insufficienza surrenale è rappresentata anche da una malattia legata al cromosoma X a trasmissione recessiva, che fenotipicamente si caratterizza come adrenoleucodistrofia (ad inizio in età pediatrica e che progredisce rapidamente in demenza, cecità e tetraplegia) o come adrenomieloneuropatia (ad inizio in età puberale o in età giovane adulta con spasticità e polineuropatia distale). La malattia è determinata dall’accumulo di acidi grassi a catena molto lunga per un difetto dell’ossidazione a livello dei perossisomi. Infine, l’insufficienza surrenale può essere iatrogena, per effetto di farmaci che inibiscono la sintesi di cortisolo (aminoglutetimide, ketoconazolo e metopirone), che accelerano il metabolismo dei glicocorticoidi (difenilidantoina, barbiturici e rifampicina) o che agiscono come agenti citotossici (mitotano). Un’altra causa iatrogena di insufficienza surrenale è quella da surrenectomia bilaterale, intervento chirurgico eseguito solo eccezionalmente in quei pazienti con forme gravi di morbo di Cushing.
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B. Fisiopatologia. La carenza di aldosterone e cortisolo è responsabile delle manifestazioni più gravi del morbo di Addison, mentre alla carenza di steroidi ad azione androgena è da ascrivere solo una riduzione dell’apparato pilifero nella donna, specie a livello ascellare. La carenza di aldosterone provoca una ridotta capacità di trattenere sodio e di eliminare potassio a livello dei tubuli renali. L’eccessiva perdita di sodio determina diminuzione del volume extracellulare, ipovolemia, perdita di peso, diminuzione della pressione arteriosa, diminuzione della gettata cardiaca, astenia intensa e facile insorgenza di episodi lipotimici da ipotensione ortostatica. Il paziente tende spontaneamente a compensare questa situazione ingerendo una maggior quantità di sale. L’equilibrio così raggiunto è peraltro assai precario, in quanto una gastroenterite banale con vomito e diarrea o un processo febbrile acuto con sudorazione eccessiva sono sufficienti a scatenare acutamente un iposurrenalismo, che in genere riveste notevole gravità. La mancanza di aldosterone favorisce lo sviluppo di un’iperpotassiemia che può essere responsabile di disturbi del ritmo (asistolia, blocchi atrio-ventricolari, ecc.). La mancanza di cortisolo provoca disturbi metabolici: ridotta gliconeogenesi, diminuita mobilizzazione e utilizzazione dei grassi, tendenza all’ipoglicemia, che, insieme all’iponatriemia, sono responsabili dell’intensa astenia e della perdita di peso che caratterizzano i pazienti addisoniani. Le alterazioni metaboliche vengono ritenute responsabili anche dei disturbi psichici che sono rilevabili clinicamente in circa il 70% di questi pazienti e che consistono principalmente in apatia, ridotto interesse verso l’ambiente, depressione. Il cortisolo esercita normalmente un’azione stimolante l’eritropoiesi e influenza il traffico dei leucociti tra il compartimento intravascolare e i tessuti, inducendo aumento dei granulociti e diminuzione dei linfociti e degli eosinofili circolanti. La sua carenza determina modificazioni in senso opposto degli elementi ematici con anemia, neutropenia, linfocitosi ed eosinofilia. Poiché il sistema secretorio ACTH-cortisolo è regolato da un meccanismo di controregolazione negativo, la
Figura 58.5 - Aspetti dell’iperpigmentazione in una paziente affetta da morbo di Addison. Si possono osservare l’elettiva pigmentazione nelle aree cutanee sottoposte a pressione, nelle pieghe palmari e la presenza di chiazze di iperpigmentazione sulle gengive e sulla lingua.
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ridotta produzione di cortisolo provoca un’ipersecrezione di ACTH e di altri peptidi POMC-derivati (-MSH e -lipotropina) responsabili della caratteristica iperpigmentazione dei pazienti addisoniani. Nei pazienti con morbo di Addison da surrenectomia bilaterale, l’ipersecrezione di ACTH si associa spesso allo sviluppo di un adenoma ipofisario a cellule corticotrope a carattere espansivo (sindrome di Nelson; Cap. 56). La conseguenza più grave della mancanza di cortisolo è comunque rappresentata dall’incapacità, dei pazienti addisoniani, di rispondere adeguatamente ad ogni tipo di stress fisiologico e patologico. Questi soggetti risultano quindi estremamente fragili di fronte ad eventi morbosi, a traumi, ad interventi chirurgici che sono agevolmente superati da soggetti normali. C. Clinica. Nella maggior parte dei casi il quadro conclamato del morbo di Addison si sviluppa gradualmente in rapporto alla progressione delle lesioni distruttive della ghiandola; quando viene posta la diagnosi il paziente riferisce in genere una lunga storia di astenia, faticabilità, perdita di peso, inappetenza che hanno indotto ad eseguire una serie di esami risultati non significativi. La pressione arteriosa è diminuita e possono aversi disturbi da ipotensione ortostatica. Malesseri dovuti a fenomeni di ipoglicemia spontanea sono più frequenti nei bambini; negli adulti possono essere precipitati dal digiuno o dal vomito. L’iperpigmentazione rappresenta la manifestazione obiettiva più appariscente dell’insufficienza surrenale cronica primitiva e, quando conclamata, indirizza facilmente alla diagnosi. Nei casi iniziali l’iperpigmentazione è però più lieve e può essere confusa con i residui di una abbronzatura o con un naturale colorito bruno della pelle. È pertanto necessario ricercare alcune caratteristiche peculiari dell’iperpigmentazione addisoniana che valgono a distinguerla da altre forme: è più intensa in corrispondenza delle pieghe cutanee (specie alle palme delle mani), nelle zone esposte a pressione o ad attrito, nelle areole mammarie, nelle cicatrici di recente formazione (Fig. 58.5). Chiazze di iperpigmentazione
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sono presenti anche a livello delle mucose; in particolare in corrispondenza delle gengive e della mucosa del vestibolo orale. In alcuni pazienti con morbo di Addison di origine autoimmune si rilevano, a livello cutaneo, chiazze di depigmentazione dovute a vitiligo che contrastano in modo particolarmente evidente con l’iperpigmentazione della restante superficie cutanea. Nei soggetti di colorito bruno spesso anche i capelli e i peli divengono più scuri; nelle donne si ha una rarefazione dei peli, specie nella regione ascellare. La cute è particolarmente secca per la disidratazione dovuta alla perdita di sodio. D. Esami di laboratorio. Alcuni sono molto aspecifici, come un’anemia normocitica con linfocitosi ed eosinofilia (il perché è stato spiegato nel paragrafo relativo alla fisiopatologia). Nelle forme con coinvolgimento autoimmune della mucosa gastrica può coesistere un’anemia megaloblastica (Cap. 44). Più significative alcune alterazioni ematochimiche, come l’iperpotassiemia, l’iposodiemia e la tendenza all’ipoglicemia. Possono anche coesistere un aumento dell’urea plasmatica e della creatininemia (per meccanismo prerenale dipendente dalla ipovolemia) e un’incapacità di eliminare con le urine un carico idrico (il meccanismo è stato spiegato nel paragrafo relativo alla fisiopatologia). Inoltre, ipercalcemia può verificarsi nel 10-20% dei pazienti per un meccanismo ancora ignoto. Si tratta comunque di dati che, per la loro aspecificità e/o incostanza, hanno scarso valore diagnostico; anche le alterazioni degli elettroliti plasmatici, che quando presenti rivestono notevole valore diagnostico, nei casi iniziali possono essere modeste. E. Diagnosi. Nell’insufficienza surrenale la concentrazione plasmatica e l’eliminazione urinaria di cortisolo sono ridotte, mentre l’ACTH plasmatico è nettamente aumentato per la riduzione dell’effetto di controregolazione negativa, esercitata dal cortisolo circolante sulla secrezione di ACTH. La cortisolemia è soggetta però ad ampie oscillazioni e la sua misura in condizioni basali ha valore diagnostico limitato. Solo concentrazioni estremamente ridotte di cortisolo plasmatico sono indicative di ipocorticosurrenalismo e, viceversa, concentrazioni di cortisolo plasmatico superiori a 20 g/dl in condizioni basali consentono di escludere l’iposurrenalismo. Nelle forme moderate o lievi di insufficienza surrenale le concentrazioni plasmatiche e urinarie di cortisolo possono essere nell’ambito della normalità e la diagnosi di morbo di Addison può essere posta solo valutando la capacità del surrene di rispondere alla stimolazione con ACTH. Il test di stimolo con ACTH permette di escludere un’insufficienza corticosurrenale primitiva se la cortisolemia supera i 18 g/dl a 30 o a 60 minuti dalla somministrazione endovenosa di ACTH esogeno (250 g di Cortrosyn o ACTH1-24); viceversa, la mancata risposta del cortisolo all’ACTH esogeno permette di porre con sicurezza diagnosi di morbo di Addison (Fig. 58.6). Occorre ancora ricordare che nei pazienti affetti da insufficienza surrenale primitiva l’attività reninica pla-
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smatica è elevata, mentre le concentrazioni plasmatiche di aldosterone sono ridotte. La valutazione TC o RM della regione surrenale può dare indicazioni sull’eziopatogenesi dell’insufficienza ghiandolare primitiva. L’infezione tubercolare può determinare un ingrandimento dei surreni negli stadi iniziali, mentre nei mesi o negli anni successivi le ghiandole possono andare incontro ad atrofia e presentare delle calcificazioni. Le indagini TC e RM possono essere utili anche per evidenziare una localizzazione metastatica o un evento emorragico in sede surrenale. F. Terapia. La terapia del morbo di Addison è di tipo sostitutivo; al paziente devono essere somministrati, per tutta la vita, in dosi fisiologiche, i corticosteroidi non prodotti dal surrene. In pratica si somministrano quotidianamente cortisone che, oltre all’azione glicoattiva, possiede anche una modesta azione mineraloattiva, e un supplemento di NaCl con la dieta. Solo in pochi casi ed in particolari periodi, è necessaria l’aggiunta di uno steroide a più intensa azione mineraloattiva, come il fludrocortisone (9-fluoro-idrocortisone). Una terapia correttamente eseguita permette al paziente una vita del tutto normale. Il principale pericolo è rappresentato dall’insorgenza di crisi di iposurrenalismo acuto da sospensione della terapia. A tal fine è necessario rendere edotto il paziente e i familiari dei pericoli connessi alla sospensione della terapia steroidea, specie in occasioni di episodi febbrili, gastroenteriti, traumi, ecc. In queste occasioni la terapia corticosteroidea non deve essere assolutamente interrotta, ma anzi devono essere somministrate dosi maggiori di corticosteroidi, preferibilmente per via parenterale.
Ipocorticosurrenalismo secondario L’insufficienza corticosurrenale secondaria a carenza di ACTH è in genere dovuta a tumori dell’ipofisi o a malattie dell’ipotalamo. Un deficit isolato di ACTH è eccezionale. L’ipocortisolismo si associa, quasi costantemente, ad insufficienza delle altre ghiandole endocrine – tiroide e gonadi – il cui trofismo è regolato dagli ormoni ipofisari, nel quadro di un panipopituitarismo (Cap. 56). Un iposurrenalismo secondario isolato, transitorio può essere causato dalla somministrazione per lunghi periodi di glicocorticoidi che, sopprimendo cronicamente la secrezione di ACTH, provocano un’atrofia del corticosurrene. Le caratteristiche distintive dell’ipocorticosurrenalismo secondario rispetto a quello primitivo sono rappresentate dalla normale produzione di steroidi mineraloattivi e da livelli di ACTH circolante non aumentati. Come conseguenza, in questi pazienti manca l’iperpigmentazione della forma primitiva (Addison bianco) e sono abitualmente assenti le alterazioni degli elettroliti, l’ipovolemia e la disidratazione. Nell’ipocorticosurrenalismo secondario la risposta all’ACTH è in genere subnormale o assente perché le
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Elementi clinici di sospetto (astenia, ipotensione, perdita di peso, iperpigmentazione)
Cortisolemia basale e dopo stimolo con ACTH Normale incremento della cortisolemia
Esclusa l’insufficienza corticosurrenale primitiva
Mancato o ridotto incremento della cortisolemia
Non escludibile un deficit parziale di ACTH
Iposurrenalismo
ACTH plasmatico
Ridotto o normale
Elevato
CRH test / valutazione degli altri assi ipotalamoipofisari
Risposta normale
Risposta ridotta di ACTH allo stimolo con CRH
Esclusa l’insufficienza corticosurrenale secondaria
Insufficienza corticosurrenale secondaria
Rilievi clinici e conclusioni diagnostiche
Insufficienza corticosurrenale primitiva, morbo di Addison
Esami ormonali e indagini strumentali
Figura 58.6 - Valutazione diagnostica di una sospetta insufficienza corticosurrenale.
cellule surrenali atrofiche non sono in grado di rispondere in modo adeguato ad una singola dose di ACTH; la risposta può essere comunque normale o solo modestamente attenuata nelle forme lievi da parziale deficit di ACTH endogeno e tende a normalizzarsi con somministrazioni ripetute di ACTH. Per porre con sicurezza la diagnosi di ipocorticosurrenalismo secondario è pertanto necessario ricorrere a quei test che stimolano direttamente il sistema CRH-ACTH (Cap. 56). Quando si sia posta la diagnosi di ipocorticosurrenalismo secondario si impone lo studio morfologico-funzionale della regione ipotalamo-ipofisaria per evidenziare l’eventuale presenza di tumori e per saggiare la funzionalità ipofisaria. La terapia dell’ipocorticosurrenalismo secondario non si differenzia sostanzialmente da quella delle forme primitive; per ragioni pratiche è infatti preferibile usare cortisone per os piuttosto che ACTH per via parenterale. Non è necessario l’uso di steroidi mineraloattivi e/o di un supplemento di NaCl nella dieta.
SINDROME DI CUSHING La sindrome di Cushing è caratterizzata da una serie di manifestazioni cliniche causate dall’ipersecrezione di cortisolo, che può essere dovuta ad una malattia surrenale primitiva oppure ad un’eccessiva stimolazione del corticosurrene da parte dell’ormone corticotropo. Si distinguono pertanto varie entità cliniche (Tab. 58.2). È necessario sottolineare subito che la distinzione tra le varie forme di sindrome di Cushing, talora assai ardua sul piano diagnostico, non ha solo rilievo nosografico, ma è essenziale per la corretta terapia. In rapporto alla sede del processo morboso di base il paziente può essere avviato al neurochirurgo per un intervento sull’ipofisi o al chirurgo generale per una surrenectomia o al chirurgo toracico in presenza di una neoplasia polmonare ACTH-secernente. La frequenza delle singole forme è riportata nella tabella 58.3. L’incidenza delle condizioni morbose tabulate può per altro variare con l’età; è noto che nelle età pediatriche prevalgono le sindromi di Cushing da tumori surrenali.
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MALATTIE ENDOCRINE
Tabella 58.2 - Sindrome di Cushing: varie forme cliniche. Sindromi di Cushing ACTH-dipendenti
Morbo di Cushing (1) Morbo di Cushing (1) da ACTH ectopico (sindrome di Cushing ectopica) da CRH ectopico
Sindromi di Cushing ACTH-indipendenti Sindrome di Cushing esogena o iatrogena
Alterazioni del SNC → eccessiva produzione di CRH → iperplasia delle cellule corticotrope Microadenoma (o macroadenoma) ipofisario a cellule corticotrope Neoplasie polmonari, timomi, carcinoide Microcitoma polmonare Carcinoide bronchiale e pancreatico Carcinoma midollare della tiroide Neoplasia prostatica metastatizzata Adenomi surrenali Carcinomi surrenali Iperplasia nodulare (2) Prolungato uso di glicocorticoidi e/o di ACTH; somministrazione prolungata di dosi elevate di medrossiprogesterone acetato
(1) Poiché Cushing ha descritto la malattia che porta il suo nome in alcune pazienti con adenoma dell’ipofisi, nella comune accezione il termine “morbo di Cushing” o “malattia di Cushing” viene riservato agli ipercortisolismi ipofiso-dipendenti, mentre con “sindrome di Cushing” si intende qualsiasi tipo di ipercortisolismo. (2) Non escludibile con certezza l’ACTH-dipendenza (si veda il testo).
Tabella 58.3 - Frequenza percentuale delle singole forme di sindrome di Cushing. Morbo di Cushing Sindrome di Cushing da ACTH (o da CRH) ectopico Sindrome di Cushing surrenale Adenoma surrenale Carcinoma surrenale
68 15 17 (9) (8)
Da E.M. Gold, 1979.
La sindrome di Cushing è una condizione morbosa non frequente. I microadenomi ipofisari a cellule corticotrope, responsabili dell’ipercortisolismo in quasi il 66% dei casi, rappresentano, nelle casistiche operatorie dei neurochirurghi, solo il 10% degli adenomi ipofisari. Pur variando l’incidenza nei due sessi in rapporto alle diverse eziologie, complessivamente il sesso femminile è il più colpito; per quanto riguarda il morbo di Cushing il rapporto femmine/maschi è di 8:1. A. Eziopatogenesi. 1. Morbo di Cushing. Gli studi volti a chiarire l’origine primitivamente ipotalamica o ipofisaria del morbo di Cushing sono numerosissimi e il loro interesse è giustificato anche dalle implicazioni di ordine terapeutico. Secondo l’“ipotesi ipotalamica”, una cronica iperstimolazione da parte del CRH e/o dell’AVP provocherebbe l’iperplasia delle cellule corticotrope e indurrebbe successivamente la formazione dell’adenoma ACTHsecernente. All’ipotesi di una primitiva alterazione ipotalamica, responsabile della malattia, fornisce supporto il fatto che le principali alterazioni endocrine osservate nel morbo di Cushing (Tab. 58.4) sembrano tutte riferibili ad alterazioni dei sistemi di controllo sovraipofisa-
ri. Alternativamente, si è ipotizzato che la lesione primitiva di un clone di cellule corticotrope ipofisarie sarebbe responsabile dello sviluppo dell’adenoma, in modo autonomo e indipendente dalla stimolazione ipotalamica. Una serie di acquisizioni degli ultimi anni ha nettamente orientato verso questa seconda possibilità. Ricorderemo in breve: la natura monoclonale delle cellule tumorali; la ridotta concentrazione di CRH nel liquor; la presenza di un adenoma ipofisario, evidenziato in un’elevatissima percentuale di pazienti con morbo di Cushing grazie al progresso delle tecniche di immagine; la guarigione della maggior parte dei pazienti dopo microadenomectomia selettiva. Resta comunque la possibilità che, in una percentuale sicuramente limitata di pazienti, l’iperstimolazione del CRH o, più probabilmente, dell’AVP provochi un’iperplasia diffusa delle cellule corticotrope, che rappresenta la causa iniziale dell’ipersecrezione di ACTH. A sostegno di questa tesi vi è il riscontro di un aumento delle concentrazioni di AVP nel sangue prelevato dai seni petrosi in pazienti con morbo di Cushing. Tabella 58.4 - Alterazioni caratteristiche del morbo di Cushing. • Ipersecrezione di ACTH e cortisolo (1) • Assenza di ritmo circadiano della secrezione di ACTH e cortisolo (1) • Assente risposta di ACTH e cortisolo allo stress (1) • Anomalie della controregolazione negativa ACTHcortisolo, elevazione della “soglia” di inibizione della secrezione di ACTH da parte dei glicocorticoidi e conseguente soppressibilità solo con alte dosi di desametasone • Iporesponsività di GH, TSH e gonadotropine allo stimolo (1) Comuni a tutte le forme di ipercortisolismo.
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2. Sindrome da produzione ectopica di ACTH (si veda anche il Cap. 62). La sindrome è causata da secrezione di ACTH da parte di tumori non ipofisari. Nella grande maggioranza dei casi la sindrome è rilevabile in portatori di microcitomi polmonari e di tumori carcinoidi. Si calcola che l’1-2% dei pazienti con microcitoma polmonare sviluppi una sindrome da ACTH ectopico clinicamente rilevante. La percentuale di pazienti con neoplasie polmonari secernenti ACTH in vitro è molto più elevata. Si ritiene che l’assenza di ipercortisolismo in questi pazienti possa attribuirsi alla produzione da parte del tessuto neoplastico di precursori dell’ACTH biologicamente inattivi, ma dotati di immunoreattività (e quindi dosati dai metodi immunometrici). Questi tumori, oltre all’ACTH, producono altri peptidi POMC-correlati, in particolare -LPH e -endorfina. È stata descritta anche una sindrome di Cushing da produzione ectopica di CRH. 3. Tumori surrenali. Gli adenomi e gli adenocarcinomi secernenti glicocorticoidi si sviluppano dalla corteccia surrenale. Producono autonomamente glicocorticoidi, al di fuori del controllo ipotalamo-ipofisario. L’iperproduzione di cortisolo inibisce l’asse ipotalamoipofisario con soppressione dei livelli circolanti di ACTH ed atrofia del corticosurrene controlaterale e del tessuto surrenale circostante non interessato dal tumore. La secrezione di cortisolo avviene in modo episodico, al di fuori del ritmo circadiano, svincolata dal meccanismo di controregolazione ipotalamo-ipofisi-surrene. Pertanto questi tumori sono tipicamente non sopprimibili con desametasone anche ad alte dosi. Mentre gli adenomi secernono abitualmente solo cortisolo, gli adenocarcinomi spesso secernono, oltre al cortisolo, numerosi steroidi con diversa attività biologica: androgeni, steroidi mineraloattivi, estrogeni. L’iperproduzione di androgeni è talora spiccatamente elevata ed è causa, nelle pazienti di sesso femminile, di sintomi e segni clinici di virilizzazione che possono caratterizzare in modo preminente il quadro clinico. 4. Pseudo-Cushing. Viene così definita una condizione di ipercortisolismo lieve, associata a condizioni patologiche diverse; in particolare, depressione, alcolismo cronico e gravi disturbi della nutrizione, come anoressia nervosa o bulimia. Possono essere presenti alcuni segni clinici tipici della sindrome di Cushing, ma la risoluzione della malattia di base si associa invariabilmente alla scomparsa dell’ipercortisolismo. In assenza di elementi clinico-anamnestici indicativi della condizione responsabile dello pseudo-Cushing, può essere particolarmente arduo distinguere questa condizione della sindrome di Cushing. A tal proposito, particolarmente utile sembra un test proposto di recente, il test di inibizione con desametasone più stimolo con CRH (si veda in seguito). B. Anatomia patologica. In circa il 90% dei pazienti con morbo di Cushing sono presenti adenomi ipofisari evidenziabili all’intervento chirurgico o all’autopsia. Nella grande maggioranza dei casi (80-90%) si tratta di microadenomi spesso di dimensioni assai ri-
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dotte, difficilmente evidenziabili anche con le tecniche neuroradiologiche più sensibili. Gli adenomi ACTH-secernenti sono formati da cellule corticotrope, contenenti nel citoplasma granuli, con vario grado di basofilia, che alle colorazioni immunoistochimiche dimostrano un elevato contenuto di ACTH, di -endorfina e di altri peptidi POMC-derivati. Nei pochi pazienti con morbo di Cushing in cui un adenoma ipofisario non è dimostrabile è stata osservata un’iperplasia diffusa delle cellule corticotrope. Nella sindrome da ACTH ectopico, l’ACTH viene prodotto da neoplasie extraipofisarie, in particolare da microcitomi polmonari e carcinoidi bronchiali (Cap. 62). L’iperproduzione di ACTH provoca in ogni caso iperplasia della corteccia surrenale che interessa le cellule della zona reticolare e della zona fascicolata; la zona glomerulare non è invece interessata. Mentre l’iperplasia surrenale secondaria a tumori ipofisari, definita anche iperplasia semplice, è in genere modesta con surreni che non superano ciascuno il peso di 12 g e senza anomalie della struttura cellulare, nell’iperplasia secondaria a produzione ectopica di ACTH, verosimilmente in rapporto alle enormi quantità di ormone circolante, l’iperplasia è assai più spiccata; il peso complessivo delle due ghiandole può superare i 50 g. Inoltre, al taglio le ghiandole hanno un colore brunastro e microscopicamente l’iperplasia interessa talora tutta la corteccia surrenale. In alcuni pazienti si può osservare un’iperplasia nodulare. Gli adenomi surrenali causanti sindrome di Cushing sono capsulati, con margine ben delimitato e possono raggiungere un peso di 20-70 g. Sono formati da un tessuto giallastro costituito da cellule chiare, ricche di lipidi, simili alle cellule della zona fascicolata con aree di tessuto brunastro formato da cellule similreticolari. In casi più rari l’adenoma può presentare un colore francamente bruno (“black adenoma” della letteratura anglosassone) in quanto costituito da cellule ricche di lipofuscina. I carcinomi surrenali sono raramente responsabili di sindrome di Cushing; tali tumori sono solitamente di dimensioni notevoli (100 g o più di peso) e sono costituiti da cellule pleomorfe talora con nuclei bizzarri. Non sempre è facile distinguere istologicamente con certezza un adenoma da un carcinoma della corticale del surrene. In molti casi la diagnosi di malignità può essere stabilita solo in base all’invasione vascolare, all’estensione locale e alla diffusione metastatica. In presenza di adenoma o di carcinoma, il tessuto surrenale circostante il tumore è atrofico così come il surrene controlaterale. C. Fisiopatologia. Le manifestazioni cliniche che caratterizzano la sindrome di Cushing sono causate, indipendentemente dall’origine della malattia, dalla cronica ipersecrezione del cortisolo. Nelle pazienti di sesso femminile si sovrappongono talora segni clinici di iperandrogenismo riferibili ad un’eccessiva produzione di steroidi ad azione androgena. L’eventualità che i tumori ipofisari a cellule corticotrope raggiungano dimensioni tali da dare segni neurologici è eccezionale.
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MALATTIE ENDOCRINE
Adenoma basofilo
Ipofisi iperfunzionante
Adenoma cromofobo
ACTH
ACTH
ACTH
Iperfunzione dei surreni
Iperplasia delle surrenali
Adenoma del corticosurrene
Carcinoma del corticosurrene
Figura 58.7 - Aspetti clinici e patogenetici della malattia e della sindrome di Cushing.
Gli effetti fisiologici del cortisolo sono numerosissimi e l’azione è ubiquitaria; recettori per i glicocorticoidi sono infatti virtualmente presenti a livello di tutti i tessuti. Tuttavia gli effetti clinici dell’ipercortisolismo sono più evidenti a livello di alcuni organi ed apparati (Fig. 58.7). 1. Metabolismo proteico. I glicocorticoidi inibiscono la sintesi di DNA e stimolano il catabolismo proteico. Le conseguenze dell’accelerato catabolismo proteico sono particolarmente evidenti a livello dei muscoli e del tessuto connettivo, dove determinano una serie di alterazioni dalle quali dipende in gran parte l’aspetto caratteristico di questi pazienti. L’atrofia delle masse muscolari è responsabile dello scarso volume degli arti, che appaiono sottili, in netto contrasto con l’obesità del tronco e con l’aspetto a luna piena del volto (si veda la Fig. 58.8). Come conseguenza dell’ipotrofia muscolare il paziente lamenta astenia e faticabilità.
Anche la cute è ipotrofica, sottile, fragile, facilmente soggetta ad abrasioni. I processi di cicatrizzazione sono difficoltosi. La perdita di tessuto connettivo e la rottura delle fibre collagene ed elastiche del derma provocano, nei punti di maggior pressione, la comparsa di smagliature che, a differenza di quanto si osserva in gravidanza o in altre condizioni di rapido ingrassamento, assumono un colore rosso vivo (“strie rubre”) perché la cute sottile lascia intravvedere la ricca vascolarizzazione del tessuto sottocutaneo. Alla mancanza di tessuto di sostegno perivascolare sono attribuite la dilatazione dei piccoli vasi, ben evidente al volto, e l’aumentata fragilità capillare, responsabile della comparsa di manifestazioni di porpora e di ecchimosi in seguito a modesti traumi. 2. Metabolismo minerale. Oltre a ridurre la matrice proteica del tessuto osseo per la sua azione proteocatabolica, l’ipercortisolismo provoca una serie di alterazioni dell’omeostasi minerale con negativizzazione del bilancio del calcio, ridotta neoformazione ed aumentato riassorbimento osseo. La ridotta neoformazione ossea è causata dall’azione inibitoria diretta del cortisolo sull’attività degli osteoblasti. Più complessi sono i meccanismi che stimolano il riassorbimento; l’effetto del cortisolo sul tessuto osseo è mediato dal paratormone (PTH). L’ipercortisolismo riduce l’assorbimento intestinale del calcio e ne aumenta l’eliminazione urinaria. Questi due effetti tendono a ridurre la calcemia e provocano quindi un’ipersecrezione di PTH che mantiene normale la concentrazione di calcio circolante a spese di un aumento del riassorbimento del calcio dal tessuto osseo. L’importanza del PTH nella genesi dell’osteoporosi da ipercortisolismo è dimostrata dal fatto che nell’animale trattato sperimentalmente con dosi massive di glicocorticoidi è possibile prevenire i fenomeni di riassorbimento osseo mediante paratiroidectomia. La perdita del tessuto osseo interessa preferenzialmente le ossa di tipo trabecolare; in particolare la colonna vertebrale e le coste. Come conseguenza, nei pazienti cushinghiani si osserva abitualmente un’accentuazione della cifosi dorsale e possono verificarsi abbastanza frequentemente, specie nei pazienti anziani, collasso dei corpi vertebrali e fratture patologiche. 3. Metabolismo glucidico. I glicocorticoidi stimolano la gliconeogenesi epatica e inibiscono l’utilizzazione di glucosio a livello del tessuto muscolare e adiposo. Questi effetti sono solo parzialmente compensati dalla concomitante iperinsulinemia; si hanno pertanto ridotta tolleranza ai carboidrati e, in circa il 20% dei pazienti, un franco diabete mellito (Tab. 58.5). Ad aumentare i livelli glicemici contribuisce nei pazienti cushinghiani anche un’eccessiva secrezione di glucagone. La distruzione delle masse muscolari provoca infatti un’accelerata mobilizzazione di aminoacidi e in particolare di alanina, che è un potente stimolatore delle cellule delle isole di Langerhans. 4. Tessuto adiposo. Benché i glicocorticoidi abbiano un effetto prevalentemente lipolitico, l’ipercortisolismo provoca paradossalmente un aumento di peso e un accumulo di adipe, con una caratteristica distribuzione che
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58 - MALATTIE DEL CORTICOSURRENE
Tabella 58.5 - Alterazioni del metabolismo glucidico nella sindrome di Cushing. MECCANISMO PATOGENETICO
CONSEGUENZE CLINICHE
Cronico aumento del cortisolo
↑ Gliconeogenesi epatica ↑ dell’IRI Nuovo equilibrio metabolico
Ridotta tolleranza al glucosio Non diabete clinico
↓ Sensibilità periferica all’IRI ↓ Utilizzazione del glucosio Iperglicemia
Diabete mellito
IRI = insulina immunoreattiva; ↑ = aumento; ↓ = diminuzione.
viene definita “centrale”, in quanto l’adipe è presente al tronco, ai fianchi e al volto, ma non a livello degli arti. La ragione di questo elettivo accumulo di adipe in alcune sedi non è nota; poiché in questi pazienti l’ipercortisolismo che stimola la lipolisi si associa ad un aumento dell’insulina, che è invece un potente agente lipogenico, si è prospettata la possibilità che a livello delle diverse sedi vari la sensibilità relativa ai glicocorticoidi e all’insulina: dove prevale la sensibilità all’insulina vi è accumulo di tessuto adiposo, mentre dove è maggiore la sensibilità ai glicocorticoidi si ha lipolisi. L’aspetto caratteristico “a luna piena” del volto non è solo dovuto all’accumulo di adipe, ma anche ad un’accentuata rubeosi dovuta alla poliglobulia, spesso presente in questi malati, e alla dilatazione dei piccoli vasi del volto. 5. Ipertensione arteriosa. La genesi dell’ipertensione non è ben definita. Per molti anni si è ritenuto che l’aumento di steroidi mineraloattivi, concomitante a quello del cortisolo, fosse responsabile dell’innalzamento dei valori pressori. Questa ipotesi non ha però trovato valido supporto nei dati sperimentali: solo in alcuni pazienti con tumori surrenali è stata dimostrata un’iperproduzione di steroidi mineraloattivi, mentre nei pazienti con morbo di Cushing la produzione di aldosterone, desossi-corticosterone (DOC) e corticosterone è abitualmente nei limiti di norma. Poiché gli steroidi glicoattivi hanno una sia pur modesta attività mineraloattiva, si è prospettata la possibilità che il cortisolo in grandi quantità possa esercitare direttamente un’azione mineraloattiva con ritenzione di sodio ed elevazione pressoria. Tuttavia nei pazienti cushinghiani mancano o sono solo raramente presenti quelle alterazioni – ipopotassiemia, soppressione dell’attività reninica – che si associano costantemente ad una primitiva iperattività mineraloattiva.
Si ritiene quindi attualmente che l’ipercortisolismo induca ipertensione attraverso altri effetti di tipo “permissivo”. In particolare, il cortisolo stimola la sintesi a livello epatico di angiotensinogeno sul quale agisce la renina per formare l’angiotensina I. Nei pazienti con morbo di Cushing l’angiotensinogeno è significativamente aumentato e ciò provoca un aumento della formazione di angiotensina I. L’ipercortisolismo esercita anche alcuni effetti sulle catecolamine, che tendono ad aumentare le resistenze vascolari periferiche. Interferendo con l’azione della catecol O-metiltransferasi (COMT) inibisce la degradazione metabolica delle catecolamine e ne aumenta pertanto la disponibilità. Nelle condizioni di ipercortisolismo è inoltre aumentata la responsività vasale agli agenti vasopressori. 6. Apparato riproduttivo. Nell’ipercortisolismo è aumentata la produzione di steroidi ad azione androgena che interferiscono con la normale funzionalità dell’apparato genitale. L’amenorrea è presente, in alcune casistiche, in oltre l’80% delle pazienti. Nei pazienti di sesso maschile si osserva una diminuzione della libido talora associata a ipotrofia testicolare e più raramente a ginecomastia. Nel maschio i livelli di testosterone circolante sono ridotti; nella donna i livelli di estrogeni e progesterone circolanti sono di tipo anovulatorio, non subiscono cioè le fisiologiche oscillazioni legate al ciclo ovulatorio. L’origine di queste alterazioni non è definita nei suoi esatti meccanismi. In base ad evidenze indirette si possono prospettare vari meccanismi che, isolatamente o in concorso tra loro, possono interferire nella funzionalità del sistema ipotalamo-ipofisigonadi. Nei soggetti di sesso maschile l’ipercortisolismo, oltre ad inibire con effetto diretto la sintesi del testosterone a livello testicolare, sembra interferire sulla responsività ipofisaria delle gonadotropine al GnRH. Nelle pazienti di sesso femminile per spiegare l’aciclicità del sistema ipotalamo-ipofisi-ovaio vengono prospettati sostanzialmente due meccanismi patogenetici. Secondo il primo, nel morbo di Cushing sarebbero alterati i meccanismi nervosi che regolano la produzione in forma pulsatile del GnRH. Il secondo meccanismo si collega invece all’iperproduzione di androgeni da parte del surrene e all’aumento dei depositi adiposi che, come è noto, sono la principale sede di conversione periferica degli androgeni in estrogeni. La presenza in circolo di elevate quantità di estrogeni in forma aciclica rappresenta un segnale improprio per il meccanismo di controregolazione ipotalamo-ipofisiovaio ed innesca lo stesso meccanismo patogenetico (Cap. 59) che provoca la policistosi ovarica; un’alterazione che è possibile osservare associata alla sindrome di Cushing. A questi disturbi prevalentemente funzionali dell’apparato genitale possono sovrapporsi, nelle pazienti di sesso femminile, manifestazioni di vero iperandrogenismo. L’irsutismo e i segni di virilizzazione (si veda la Tab. 59.12), che sono espressione dell’iperandrogenismo, sono frequenti e gravi nelle pazienti con tumori surrenali, mentre sono scarsi o assenti nel morbo di Cushing da microadenomi ipofisari.
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7. Accrescimento corporeo. L’ipercortisolismo spontaneo o da trattamento farmacologico, insorto nell’infanzia o nell’adolescenza, provoca un rallentamento dell’accrescimento corporeo. Si ritiene che l’azione del cortisolo in tal senso si esplichi attraverso un’inibizione dei recettori della somatomedina C (o IGF-1) a livello della cartilagine. D. Clinica. Le numerose manifestazioni cliniche che caratterizzano la sindrome di Cushing non compaiono secondo una successione precisa che fissi le tappe evolutive della malattia e fornisca, a chi raccoglie la storia clinica, un chiaro orientamento diagnostico. Gli eventi clinici che di volta in volta portano il paziente all’osservazione – ipertensione, aumento ponderale, diabete mellito, astenia, amenorrea, dolori ossei – sono tra i più comuni ed aspecifici; nessuno di essi rappresenta una manifestazione peculiare della sindrome di Cushing; nessuno è costantemente presente in ogni paziente. L’esame del malato può fornire elementi diagnostici più chiaramente indicativi (Tab. 58.6). Innanzitutto è frequentemente presente la tipica obesità a distribuzione “centrale”. L’adipe si accumula al volto, al collo, al tronco e ai fianchi risparmiando gli arti, che appaiono anzi smilzi e sottili, per la povertà del pannicolo adiposo e per l’ipotrofia muscolare. L’accumulo di adipe al volto provoca la tipica facies “a luna piena”, che è caratterizzata anche dalla rubeosi dei pomelli e dalla presenza di una sottile e fitta peluria nelle regioni preauricolari. La raccolta di adipe al collo è particolarmente spiccata nelle regioni sopraclaveari e in sede cervicodorsale, dove forma un accumulo ben delimitato, noto come “gobba di bufalo”. Per il cedimento dei muscoli
“Gobba di bufalo”
Tabella 58.6 - Le più frequenti e caratteristiche manifestazioni cliniche della sindrome di Cushing. FREQUENZA % Facies a luna piena, pletorica Obesità del tronco Ridotta tolleranza al glucosio – diabete Ipertensione Osteoporosi (cifosi, dolori ossei) Amenorrea, ipogonadismo Strie purpuree, ecchimosi
90 85 85 80 70 70 60
Da A. Labhart, Clinical Endocrinology. Springer Verlag, Berlino, 1974.
retti addominali il ventre è pendulo. L’atteggiamento del paziente è anche caratterizzato da un’accentuazione della cifosi della colonna dorsale (Fig. 58.8). La cute è sottile, atrofica, fragile; si abrade per minimi traumi. Petecchie e manifestazioni di porpora compaiono con grande facilità. Nel 50-70% dei pazienti sono presenti smagliature di colorito rosso-purpureo (“strie rubre”) sull’addome, sulle natiche e in tutte le aree in cui l’accumulo di adipe provoca distensione e rottura del derma. L’ipertensione è uno dei segni più frequenti della sindrome di Cushing; in genere è modesta, ma le complicanze, verosimilmente per il concomitare dei disturbi metabolici, sono precoci e gravi tanto da rappresentare una delle principali cause di morbilità e mortalità nei casi in cui, per inadeguatezza dei mezzi terapeutici, la malattia segue la sua spontanea evoluzione. L’intolleranza al glucosio con tendenza all’iperglicemia è presente in un’alta percentuale di pazienti, ma la
Facies lunare
Osteoporosi-cifosi
Acne e rubeosi del volto Irsutismo
Ipertensione arteriosa Obesità del tronco
Strie rubre
Ipotrofia muscolare
Tendenza alle ecchimosi
Ipotrofia muscolare
Figura 58.8 - Paziente con sindrome di Cushing. Rappresentazione di alcuni reperti tipici della sindrome di Cushing.
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iperinsulinemia riesce a mantenere una situazione di equilibrio metabolico (Tab. 58.5). Un diabete franco con sete, poliuria, prurito è rilevabile solo in una ridotta percentuale di pazienti. L’astenia e la faticabilità causate dall’ipotrofia delle masse muscolari sono particolarmente accentuate a livello dei muscoli prossimali degli arti inferiori: il paziente sale a fatica su uno sgabello e, per esempio, sui gradini del treno o del tram. I dolori ossei, localizzati elettivamente alla colonna dorsale e lombare, sono già presenti all’inizio della malattia in un buon numero di pazienti; se l’ipercortisolismo non è corretto compaiono cifosi della colonna dorsale, collasso dei corpi vertebrali e fratture patologiche. La gravità delle complicanze a carico dell’apparato locomotore, oltre che alla durata dell’ipercortisolismo, sembra correlata all’età dei pazienti: osteoporosi e atrofia dei muscoli prossimali sono più gravi nei soggetti anziani. Al contrario, le “strie rubre” sono più frequenti ed estese nei pazienti più giovani. L’aumentata eliminazione di calcio con le urine sarebbe responsabile della maggior incidenza di calcolosi renale osservata nei pazienti cushinghiani. I disturbi della sfera sessuale sono frequenti e precoci; come abbiamo sopra detto, l’ipercortisolismo, interferendo prevalentemente con la secrezione gonadotropinica, provoca anovulazione e oligoamenorrea nella donna; diminuzione della libido, impotenza e oligospermia nel maschio. Nella sindrome di Cushing da tumore surrenale il tessuto neoplastico può però produrre una grande quantità di steroidi ad azione androgena provocando la comparsa di un quadro clinico noto come “sindrome surreno-genitale” in cui le manifestazioni di iperandrogenismo prevalgono nettamente su quelle proprie dell’ipercortisolismo. Lo studio dei disturbi psichici nella sindrome di Cushing ha destato notevole interesse per i correlati psiconeuroendocrini tra iperproduzione di ACTH e peptidi POMC-derivati, ipercortisolismo e depressione primaria. Ad un attento esame psichiatrico la quasi totalità dei pazienti con sindrome di Cushing presenta alterazioni psichiche. Nella maggioranza dei casi si tratta di manifestazioni minori: instabilità emotiva con bruschi cambiamenti di umore, accentuata irritabilità, difficoltà di concentrazione, periodi di apatia alternati ad altri di eccitazione, scadimento della memoria. Tuttavia, alterazioni neuropsichiche di sicura rilevanza clinica sono presenti in circa il 30% dei pazienti cushinghiani. I disturbi affettivi e soprattutto la depressione rappresentano le manifestazioni psichiche più frequenti e gravi. E. Esami di laboratorio. L’ipercortisolismo provoca alterazioni di alcuni esami ematochimici di routine, ai quali facciamo qui riferimento. Gli esami ormonali specifici mediante i quali si pone la diagnosi di sindrome di Cushing sono discussi nel paragrafo dedicato alla diagnosi. Delle alterazioni della curva glicemica di tipo diabetico e della possibile iperglicemia basale si è detto sopra. Sono frequenti una modesta poliglobulia da stimolazione della matrice eritropoietica ed una leucocitosi con
deplezione degli eosinofili e dei linfociti circolanti per alterata ridistribuzione dei leucociti tra compartimento vascolare e altri compartimenti. Gli elettroliti del siero sono di regola normali, con alcune eccezioni: la sindrome da ACTH ectopico e alcuni tumori surrenali. In queste situazioni si può avere ipopotassiemia anche spiccata. Vi è inoltre, in tutti i pazienti con ipercortisolismo, una spiccata sensibilità a tutti quei farmaci, per esempio diuretici tiazidici, che possono indurre ipopotassiemia anche nel soggetto normale. La calcemia è nella norma; le concentrazioni sieriche di fosforo sono ai limiti inferiori o ridotte. L’ipercalciuria è rilevabile nel 40% circa dei casi. F. Diagnosi. Solo una piccola minoranza di pazienti con sindrome di Cushing presenta il quadro clinico conclamato quando giunge all’osservazione; la maggior parte presenta solo alcune delle manifestazioni cliniche sopra descritte (Tab. 58.7). Tuttavia, anche in questi malati è possibile porre correttamente la diagnosi di sindrome di Cushing mediante l’impiego appropriato dei dosaggi ormonali e dei test che permettono di evidenziare le anomalie della dinamica secretoria del cortisolo caratteristiche della sindrome. La diagnosi procede attraverso un programma abbastanza complesso che, per semplicità, può essere distinto in due stadi (Fig. 58.9): • diagnosi di ipercortisolismo; • diagnosi eziologica. 1. Diagnosi di ipercortisolismo. Nei pazienti con sindrome di Cushing la produzione di cortisolo non solo è eccessiva, ma avviene durante tutto l’arco della giornata, non influenzata dal ritmo circadiano e da eventuali eventi stressanti. Inoltre il meccanismo di controregolazione ipotalamo-ipofisi-surrene è alterato e la secrezione endogena di cortisolo non è inibita dalla somministrazione esogena di una dose di glicocorticoidi, che è in grado di inibire l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene nel norTabella 58.7 - La clinica della sindrome di Cushing. Obesità del tronco, del collo, del volto Facies a luna piena, pletorica Ipotrofia muscolare Osteoporosi – cifosi Strie rubre Porpora, tendenza alle ecchimosi, difficoltà di cicatrizzazione Manifestazioni cardiovascolari Ipogonadismo: impotenza nel maschio; anovulazione e amenorrea nella donna Note di iperandrogenismo nella donna: acne, irsutismo Intolleranza al glucosio
}
Aspetto cushingoide
Ipertensione
Diabete mellito
Quelle elencate nei riquadri non sono le manifestazioni più frequenti in assoluto, ma quelle abitualmente prese in considerazione nella diagnosi.
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MALATTIE ENDOCRINE
1) Elementi clinici orientativi
Aspetto cushingoide, obesità centrale, ipertensione, diabete
2) Diagnosi di ipercortisolismo
Overnight Suppression Test
Cortisolemia ≥ 3 g/dl
Cortisolemia < 3 g/dl
Cortisolo libero urinario/24 ore
Normale
Normale (ripetere se il sospetto clinico è importante)
3) Diagnosi eziologica
Elevato
Dosaggio di ACTH plasmatico basale e dopo CRH; inibizione con desametasone ad alte dosi
4) Localizzazione della lesione
ACTH indosabile, irresponsivo al CRH Mancata inibizione
ACTH dosabile, responsivo al CRH Inibizione presente
TC surrenale
RM ipofisaria
ACTH dosabile/elevato, irresponsivo al CRH Mancata inibizione
Cateterismo selettivo dei seni petrosi
Normale
ISP:P ≥ 2
ISP:P < 1,8
Ricerca di neoplasia ACTH-secernente
TERAPIA ELETTIVA
Tumore surrenale
Morbo di Cushing
Sindrome da ACTH ectopico
Surrenectomia unilaterale
Adenomectomia transfenoidale
Exeresi chirurgica della neoplasia
Rilievi clinici e conclusioni diagnostiche
Esami ormonali e indagini strumentali
Figura 58.9 - Accertamento diagnostico nella sindrome di Cushing. ISP:P è il rapporto tra le concentrazioni di ACTH ottenute dai seni petrosi inferiori e quelle dal sangue periferico.
male (Cap. 56). La diagnosi di ipercortisolismo prevede quindi l’impiego di test in grado di evidenziare queste anomalie della dinamica secretoria del cortisolo. Il test di soppressione con desametasone in dose singola, 1 mg alle ore 24 (Overnight Suppression Test, OST), rappresenta il test di screening più valido. Il test è molto sensibile e, nei pazienti con sospetto ipercortisolismo, un’inibizione della cortisolemia fino a valori inferiori a 3 g/dl esclude in pratica la sindrome di Cushing. Valori di inibizione compresi tra 3 e 5 g/dl me-
ritano la ripetizione del test o l’esecuzione di altre indagini. Valori superiori a 5 g/dl indirizzano verso un ipercortisolismo patologico, anche se non permettono di porre diagnosi di sindrome di Cushing. Infatti, il test di soppressione con desametasone in dose singola è poco specifico. Una mancata inibizione si può rilevare nei casi di pseudo-Cushing oppure per interferenze farmacologiche. Alcuni farmaci (difenilidantoina, fenobarbital, carbamazepina e rifampicina) sono induttori enzimatici in sede epatica e riducono rapidamente le con-
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Tabella 58.8 - Diagnosi eziologica della sindrome di Cushing.
Morbo Cushing Tumore surrenale Sindrome da ACTH ectopico
ACTH PLASMATICO
INIBIZIONE CON DESAMETASONE AD ALTE DOSI
TEST CON CRH
N–↑ ↓ ↑
Normale inibizione Mancata inibizione Mancata inibizione
Risposta esagerata dell’ACTH Mancata risposta Mancata risposta
centrazioni plasmatiche di desametasone, determinando una risposta falsamente positiva al test di soppressione. Altri farmaci, in particolare gli estrogeni, provocano un incremento delle concentrazioni di CBG (Corticosteroid Binding Globulin), quindi un aumento della concentrazione plasmatica di cortisolo totale. Una mancata soppressione si può rilevare nel 50% delle donne che assumono estrogeni. La determinazione del cortisolo libero urinario rappresenta l’esame più usato per confermare la diagnosi di ipercortisolismo ma, come singolo test, può dare risultati falsamente positivi in caso di obesità, anoressia nervosa, pseudo-Cushing oppure per interferenze farmacologiche. Le concentrazioni del cortisolo libero urinario possono risultare elevate anche in condizioni di stress (malattie acute intercorrenti, recente trauma o intervento chirurgico) oppure nelle condizioni di iperestrogenismo, come in corso di gravidanza e durante assunzione di terapie a base di estrogeni. L’ambito di normalità per il cortisolo libero urinario è 20-90 g/24 ore, quando il metodo di dosaggio è di tipo radioimmunologico. Se invece viene utilizzata una metodica con HPLC (High Pressure Liquid Chromatography), si ottiene una determinazione più specifica della cortisoluria e l’ambito di normalità è per concentrazioni inferiori a 50 g/24 ore. La valutazione del ritmo nictemerale, cioè delle variazioni della cortisolemia in rapporto al ritmo circadiano, viene effettuata misurando la cortisolemia al mattino alle ore 8, nel pomeriggio tra le 16 e le 20 e nella notte tra le 23 e le 24. Nel soggetto normale la secrezione segue un ritmo circadiano con livelli di cortisolo circolante massimi alle 8 e minimi alle 23-24. Nei pazienti con sindrome di Cushing i valori di cortisolemia rimangono elevati in tutti i campioni. Pertanto, mentre esiste un’ampia sovrapposizione dei livelli di cortisolemia del mattino tra soggetti normali e pazienti con sindrome di Cushing, questa sovrapposizione è minima nei campioni prelevati tra le 23 e le 24, quando nel soggetto normale la cortisolemia è intorno a valori più bassi per le variazioni legate al ritmo circadiano. Attualmente questa indagine viene eseguita raramente come screening di ipercortisolismo, per la difficoltà di ottenere il campione di sangue nelle ventiquattro ore in pazienti ambulatoriali. Per ovviare a questo, è stata recentemente proposta la determinazione delle concentrazioni di cortisolo nella saliva. Concentrazioni elevate di cortisolo nel campione di saliva raccolto alla sera avrebbero una sensibilità diagnostica estremamente elevata. Il test di inibizione con desametasone più stimolo con CRH è stato proposto recentemente per poter di-
stinguere la sindrome di Cushing dallo pseudo-Cushing. Il test prevede dapprima un’inibizione con desametasone a basse dosi (0,5 mg ogni 6 ore per 48 ore), seguita da una stimolazione con CRH. Una risposta al CRH con cortisolemia maggiore di 14 g/dl si osserva costantemente nei pazienti con sindrome di Cushing di qualsiasi eziologia, mentre nei pazienti con pseudo-Cushing la cortisolemia resta soppressa e non stimolabile con CRH. 2. Diagnosi eziologica (Tab. 58.8). Si avvale di: • dosaggi ormonali e test di stimolo o inibizione che studiano le anomalie della dinamica secretoria dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene; • tecniche di immagine atte a localizzare la sede anatomica della lesione. Queste ultime devono sempre essere precedute da una definita diagnosi biochimica. Il dosaggio di ACTH basale, ed eventualmente dopo stimolo con CRH, permette di differenziare le forme ACTH-dipendenti da quelle ACTH-indipendenti, determinate da malattia primitivamente surrenale (Fig. 58.9). La sindrome di Cushing ACTH-indipendente causata da un adenoma o, più raramente, da un carcinoma surrenale è caratterizzata da livelli ridotti o indosabili di ACTH basale, che non aumentano dopo stimolo con CRH. L’ipercortisolemia non è inibita neppure con desametasone ad alte dosi (2 mg ogni 6 ore per 48 ore). La TC o la RM permettono di visualizzare il tumore surrenale (Fig. 58.10). La scintigrafia radioisotopica nei pazienti con sindrome di Cushing da adenoma surrenale è caratterizzata da un’aumentata fissazione in corrispondenza del tumore con mancata fissazione sul surrene controlaterale
Figura 58.10 - TC di paziente affetta da tumore surrenale virilizzante.
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che, come è noto, è atrofico per la cronica inibizione dell’ACTH da parte del cortisolo secreto dal tumore. Nella sindrome di Cushing ACTH-dipendente, nonostante l’ipercortisolismo, i livelli circolanti di ACTH non sono soppressi. Le indagini sono volte a differenziare le forme ipofiso-dipendenti o morbo di Cushing dalle sindromi da secrezione ectopica di ACTH. Nel morbo di Cushing l’asse ipotalamo-ipofisi è ancora sopprimibile dai glicocorticoidi, ma la soglia di sensibilità (“set-point”) è innalzata (Cap. 56); pertanto, somministrando desametasone ad alte dosi (2 mg ogni 6 ore per 48 ore) si riducono le concentrazioni di cortisolo plasmatico di più del 50% rispetto al valore basale. Il test con CRH mette in evidenza una risposta esagerata dell’ACTH allo stimolo. Nella sindrome di Cushing da ACTH ectopico i livelli di ACTH circolante sono in genere spiccatamente elevati, superiori a 200 pg/ml nel 65% dei pazienti (normale 20-100 pg/ml). Tuttavia, esiste una sovrapposizione con i valori di ACTH rilevati in alcuni pazienti con morbo di Cushing e non è possibile diagnosticare la sindrome da ACTH ectopico in base al solo dosaggio dell’ACTH. Poiché la produzione di ACTH è svincolata dal controllo ipotalamico, la secrezione di cortisolo non è sopprimibile con desametasone ad alte dosi, a differenza di quanto avviene nelle forme da ipersecrezione ipofisaria di ACTH. Inoltre, le concentrazioni plasmatiche di ACTH non dimostrano in genere variazioni significative dopo stimolo con CRH. La RM con gadolinio permette di riconoscere anche microadenomi ipofisari di pochi millimetri di diametro; si ritiene che con le più moderne tecniche neuroradiologiche si riesca ad evidenziare il microadenoma nel 70-80% dei casi. In alcune situazioni cliniche particolari le indagini ormonali sono indicative, ma non sicure, e con le indagini neuroradiologiche non si evidenzia un microadenoma. In questi casi, prima di procedere ad un intervento esplorativo, è necessario eseguire un dosaggio dell’ACTH su sangue refluo dall’ipofisi mediante cateterismo venoso e prelievo diretto dai seni petrosi inferiori. Se si calcola il rapporto tra le concentrazioni di ACTH ottenute dai seni petrosi inferiori e quelle dal sangue periferico, un risultato uguale o superiore a 2 in condizioni basali e/o uguale o superiore a 3 dopo stimolo con CRH indica la presenza di un microadenoma ACTH-secernente, mentre un risultato inferiore deve far sospettare una neoplasia extraipofisaria ACTH-secernente. Il confronto della concentrazione di ACTH tra i due seni petrosi è molto utile per fornire al neurochirurgo un’indicazione di lato, nei casi in cui il microadenoma non dia immagine di sé alla RM. F. Prognosi. La sindrome di Cushing, indipendentemente dall’eziologia, è una malattia grave, ad evoluzione non prevedibile. Se non trattata correttamente e tempestivamente può condurre a morte il paziente. 1. Morbo di Cushing. Attualmente, grazie alla microadenomectomia transfenoidale la prognosi sembra notevolmente migliorata, anche se questa tecnica chirurgica è relativamente recente e i risultati a distanza non sono del tutto noti.
MALATTIE ENDOCRINE
2. Tumori surrenali. La prognosi è favorevole nei pazienti con adenoma; la surrenectomia richiede comunque un attento controllo durante l’intervento e nelle settimane successive, in quanto il surrene lasciato in sito è atrofico e quindi l’asportazione del tumore provoca un iposurrenalismo acuto che si protrae per alcune settimane. In presenza di adenocarcinoma la prognosi è sfavorevole. 3. Sindrome da ACTH ectopico. La prognosi è sfavorevole in rapporto alla malignità della malattia di base. G. Forme cliniche particolari. 1. Tumori surrenali a prevalente secrezione androgena. Sindromi surreno-genitali acquisite. In alcuni tumori surrenali, in genere maligni, si ha una spiccata ipersecrezione di steroidi androgeni che imprimono al quadro clinico, specie nelle pazienti di sesso femminile, caratteristiche peculiari, in quanto le manifestazioni di iperandrogenismo si sovrappongono o prevalgono su quelle dell’ipercortisolismo. Le masse muscolari non sono ipotrofiche, ma anzi ipertrofiche; lo sviluppo dell’apparato pilifero non si limita a pochi peli sottili alle regioni preauricolari, ma assume i caratteri di un vero irsutismo con comparsa di peli terminali in tutte le aree androgeno-sensibili: al mento, all’addome, al tronco. I capelli si fanno invece più sottili e si osserva una regressione della linea di attacco sulla fronte e sulle tempie con uno stempiamento di tipo maschile. Acne e seborrea sono quasi costantemente presenti. La voce assume una tonalità bassa. Le manifestazioni di virilizzazione (si veda la Tab. 59.12) sono completate dalle alterazioni dei genitali con clitoridomegalia. Se il tumore surrenale androgeno-secernente si sviluppa in età prepubere provoca una pseudopubertà precoce, isosessuale nel maschio ed eterosessuale nella femmina (Cap. 59). Gli esami ormonali dimostrano costantemente alti livelli di DHEA-S circolante ed un’elevatissima eliminazione di 17-chetosteroidi urinari (> 40-50 mg/die) non sopprimibile con desametasone. 2. Sindrome da ACTH ectopico. Le caratteristiche cliniche della sindrome di Cushing da produzione ectopica di ACTH si discostano notevolmente da quelle classiche: il caratteristico aspetto cushinghiano con obesità centrale e facies lunare pletorica può mancare del tutto, andando incontro questi pazienti a notevole perdita di peso e ad anemizzazione. Le manifestazioni cliniche dell’ipercortisolismo sono limitate all’astenia muscolare, che può essere di grado notevolissimo con quadri di pseudoparesi, alle alterazioni del ricambio glucidico con diabete insulino-resistente e all’ipertensione. Sono inoltre presenti: manifestazioni da eccesso di steroidi mineraloattivi, ipopotassiemia ed alcalosi; iperpigmentazione di tipo addisoniano da ipersecrezione, da parte del tumore, di ACTH e di altri peptidi POMCderivati dotati di azione melanocito-stimolante. In rapporto agli elevatissimi livelli di ACTH circolante, l’iperproduzione di steroidi surrenali è assai spiccata e interessa, oltre ai glicocorticoidi, il DOC e altri steroidi mineraloattivi e androgeni.
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L’insorgenza della malattia è brusca e l’evoluzione è rapida ed infausta. La sindrome da ACTH ectopico è stata osservata anche in un piccolo numero di pazienti con tumori benigni, in genere carcinoidi bronchiali. In questi pazienti il decorso della malattia è più lento e progressivo e le caratteristiche cliniche sono simili a quelle classiche della sindrome di Cushing. Iperpigmentazione, ipopotassiemia e anemia sono presenti in vario grado. Anche la dinamica ormonale può essere in parte simile a quella del morbo di Cushing, creando problemi diagnostici notevoli. Per la diagnosi differenziale è indicato in questi casi il dosaggio dell’ACTH su sangue refluo dall’ipofisi mediante cateterismo selettivo. 3. Iperplasia nodulare. Nel 10-20% dei pazienti con iperplasia surrenale l’esame delle ghiandole rivela la presenza di più noduli, visibili ad occhio nudo, che spesso raggiungono un diametro di 2-3 cm. Il tessuto surrenale circostante è diffusamente iperplastico e non atrofico come si osserva costantemente in presenza di tumori surrenali e in alcune rare forme di displasia nodulare ACTH-indipendente che interessano prevalentemente l’età pediatrica e l’adolescenza. L’eziologia dell’iperplasia nodulare non è chiara, indirizzando alcuni dati sperimentali verso un’origine ipofiso-dipendente della malattia ed altri verso una affezione autonoma surrenale. Si ritiene attualmente probabile che l’iperplasia nodulare rappresenti lo stadio tardivo di una iperplasia diffusa. La cronica ipersecrezione di ACTH indurrebbe iperplasia diffusa e successivamente lo sviluppo di noduli autonomi o parzialmente autonomi. L’ipercortisolismo dell’iperplasia nodulare non presenta sul piano clinico-semeiologico elementi distintivi di rilievo. Sul piano ormonale, esaminando le casistiche più numerose, si osservano varie gradazioni di ipofisodipendenza e di autonomia surrenale, verosimilmente in rapporto alla presenza nella stessa ghiandola di tessuto iperplastico ACTH-dipendente e di noduli autonomi. È quindi impossibile delineare una sequenza precisa di test dinamici che porti alla diagnosi di iperplasia nodulare. Tuttavia, pur variando notevolmente da un paziente all’altro la dinamica secretoria del cortisolo, la caratteristica dell’iperplasia nodulare è data dalla resistenza alla soppressione con desametasone anche ad alte dosi in presenza di livelli plasmatici di ACTH non soppressi, ma normali o elevati. La TC può visualizzare i noduli; talora in presenza di un nodulo di maggiori dimensioni l’esame può erroneamente indirizzare verso la diagnosi di tumore surrenale. Le immagini scintigrafiche dimostrano asimmetria di fissazione del tracciante. 4. Sindrome di Cushing da abnorme espressione recettoriale. Sono state recentemente descritte forme di ipercortisolismo legate a un’abnorme espressione recettoriale a livello delle cellule surrenali. Si tratta di condizioni estremamente rare; nella prima l’adenoma surrenale esprime i recettori per il polipeptide gastrico inibitorio (Gastric Inhibitory Polypeptide, GIP) e la secrezione di cortisolo raggiunge i valori massimi con l’in-
gestione di cibo, seguendo parallelamente la cinetica della secrezione di GIP. Nella seconda forma le cellule surrenali esprimono recettori -adrenergici, e la secrezione di cortisolo è mediata dalle catecolamine e inibita dalla somministrazione di farmaci -bloccanti, come il propranololo. H. Cenni di terapia. Come abbiamo visto sopra, la patologia dell’ipercortisolismo è per lo più tumorale; di conseguenza, la terapia è essenzialmente chirurgica in quanto prevede innanzitutto l’asportazione del tumore. I mezzi farmacologici hanno un ruolo complementare. Nel morbo di Cushing dell’adulto la terapia di elezione è la microadenomectomia per via transfenoidale. L’irradiazione esterna dell’ipofisi è considerata da molti la terapia di prima scelta in età pediatrica. L’impiego di farmaci antiserotoninergici (ciproeptadina) e dopamino-agonisti (bromocriptina), che, agendo a livello centrale bloccano la secrezione di ACTH, riveste grande interesse sul piano biologico ma, sul piano pratico, è risultato efficace soltanto in un piccolo numero di pazienti. La surrenectomia unilaterale è la terapia elettiva dei tumori surrenali. Negli adenocarcinomi non asportabili o metastatizzati si usa il mitotano (o, p-DDD), un farmaco che provoca lesioni specifiche irreversibili delle cellule surrenali. Nella sindrome da ACTH ectopico la terapia è rivolta alla malattia di base con asportazione, quando è possibile, della neoplasia ACTH-secernente. Nei casi non operabili vengono usati farmaci – aminoglutetimide e metopirone – che bloccano la steroidogenesi. Tra i farmaci di questo tipo il ketoconazolo, un agente antimicotico dotato di potente azione inibente la steroidogenesi a livello surrenale e gonadico, è impiegato nel trattamento delle recidive di ipercortisolismo dopo microadenomectomia transfenoidale nei pazienti con morbo di Cushing.
INCIDENTALOMA La diffusione delle tecniche di immagine ad elevata risoluzione (TC, RM) ha portato al riscontro casuale di formazioni nodulari a carico della ghiandola surrenale in una percentuale di casi che può raggiungere il 4%. Circa il 10% degli incidentalomi è rappresentato da tumori endocrini: feocromocitoma, adenoma secernente glicocorticoidi, mineralocorticoidi o androgeni. Negli altri casi si può trattare di un adenoma corticosurrenale non secernente, di un carcinoma, di un lipoma o di metastasi a localizzazione surrenale. L’approccio diagnostico in pazienti con incidentaloma è ancora oggetto di studio. La valutazione biochimica comprende la determinazione dell’attività reninica plasmatica e dell’aldosterone plasmatico, specie se coesistono ipertensione arteriosa e ipopotassiemia e, in ogni caso, la determinazione delle catecolamine urinarie, poiché il feocromocitoma può provocare crisi ipertensive che mettono a repentaglio la vita del paziente. L’Overnight Suppression Test è invece il test più sensi-
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MALATTIE ENDOCRINE
bile per valutare la secrezione autonoma di cortisolo da parte di questi noduli. Anche le dimensioni del nodulo rappresentano un aspetto di rilevante importanza per la condotta terapeutica, poiché il rischio di carcinoma è strettamente correlato al diametro del nodulo. La possibilità di carcinoma è considerata elevata per i noduli di diametro uguale o superiore a 5 cm, che vanno in ogni caso asportati chirurgicamente. Vengono considerati con sospetto anche noduli di diametro superiore a 3 cm, che devono essere controllati a breve distanza di tempo (2-6 mesi) per valutare l’eventuale incremento, mentre noduli di diametro inferiore vanno comunque ricontrollati a distanza di tempo maggiore. L’esame bioptico non è in grado di distinguere l’adenoma dal carcinoma. Al fine di distinguere una lesione carcinomatosa da una benigna vengono valutate anche le caratteristiche morfostrutturali del nodulo alla TC o alla RM e le concentrazioni plasmatiche di DHEA-S. Queste ultime, quando elevate, sono indicative di carcinoma, ma questo tipo di determinazione ormonale non sostituisce in alcun modo la valutazione strumentale, per la sua non completa sensibilità e specificità.
IPERPLASIA SURRENALE CONGENITA Con la definizione iperplasia surrenale congenita (CAH, Congenital Adrenal Hyperplasia degli Autori di lingua inglese) si indica un gruppo di situazioni morbose causate da un difetto enzimatico specifico che blocca la steroidogenesi surrenale a vario livello. La ridotta sintesi di cortisolo, comune a tutte le forme, provoca
ipersecrezione di ACTH e di conseguenza iperplasia della corteccia surrenale ed ipersecrezione degli steroidi, che sono a monte del blocco enzimatico. Sono noti almeno 5 difetti enzimatici congeniti a trasmissione autosomica recessiva che provocano un blocco della sintesi di cortisolo (Tab. 58.9). Le conseguenze sul piano clinico (riportate nella Tab. 58.9) variano in rapporto: • alla gravità del blocco della sintesi del cortisolo; • alla presenza di un concomitante blocco della sintesi degli steroidi mineraloattivi; • all’attività biologica degli steroidi prodotti in eccesso, come conseguenza del blocco enzimatico. Come appare dalla figura 58.2, mentre i deficit della 21-idrossilasi e della 11--idrossilasi provocano un blocco della steroidogenesi limitato alla corteccia surrenale, negli altri difetti enzimatici sono interessati sia il corticosurrene sia le gonadi, con blocco della biosintesi del cortisolo e degli steroidi sessuali. Pur trattandosi di malattie metaboliche congenite ad estrinsecazione clinica neonatale, e pertanto di prevalente interesse pediatrico, sono numerosi i casi di blocco enzimatico incompleto, ad espressione tardiva, diagnosticati in epoca puberale o postpuberale. La possibilità di un blocco della steroidogenesi da deficit enzimatico non può essere quindi ignorata nella diagnosi differenziale di alcune situazioni cliniche di comune rilievo, come l’irsutismo o l’ipertensione giovanile. In tutti i tipi di blocco enzimatico la somministrazione di glicocorticoidi ha un’efficace azione terapeutica in quanto, oltre a sostituire il cortisolo non sintetizzato, inibiscono la secrezione di ACTH e riducono di conseguenza l’iperproduzione di steroidi a monte del blocco enzimatico.
Tabella 58.9 - Iperplasia surrenale congenita. Caratteristiche endocrine e cliniche dei vari difetti enzimatici. DIFETTO ENZIMATICO 21-idrossilasi Tipo I
ORMONI CARENTI
STEROIDI IN ECCESSO
CONSEGUENZE CLINICHE
Cortisolo
Androgeni
XX, pseudoermafroditismo XY, macrogenitosomia Virilizzazione postnatale
Cortisolo e mineraloattivi
Androgeni
Come nel tipo I + crisi addisoniana
11--idrossilasi
Cortisolo (aldosterone e corticosterone)
Androgeni Mineraloattivi (DOC)
Come nel tipo I + ipertensione Ipopotassiemia
17--idrossilasi
Cortisolo, steroidi sessuali (1) (aldosterone)
Mineraloattivi (DOC e corticosterone)
Ipertensione con alcalosi ipopotassiemica Infantilismo sessuale alla pubertà XX, amenorrea primaria XY, pseudoermafroditismo
3--idrossisteroido-deidrogenasi
Cortisolo Mineraloattivi Steroidi sessuali (1)
DHEA
Crisi addisoniana XX, lieve virilizzazione XY, pseudoermafroditismo
20,22-desmolasi
Tutti gli steroidi (1)
Tipo II
(1) Il blocco metabolico interessa la biosintesi steroidea a livello dei surreni e delle gonadi.
Crisi addisoniana XY, genitali di tipo femminile
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A. Deficit della 21-idrossilasi. È il difetto enzimatico più comune, responsabile dell’iperplasia surrenale congenita in circa il 95% dei casi. Si tratta di uno dei più frequenti difetti congeniti del metabolismo; in uno studio della clinica pediatrica di Zurigo, l’incidenza è di 1 su 5000 neonati. Negli ultimi anni sono state descritte anche forme “attenuate”, ad espressione tardiva, che si manifestano clinicamente in età puberale o postpuberale. La malattia è trasmessa con carattere autosomico recessivo, in stretto legame con il sistema maggiore di istocompatibilità (HLA). Gli aplotipi HLA-(A3), Bw47, DR7 e HLA-Bw60/40 sono associati con le forme più gravi e complete (virilizzazione e perdita di sali) del blocco enzimatico, mentre il difetto isolato della sintesi di cortisolo (virilizzazione semplice) è tipicamente associato con l’aplotipo HLA-Bw51/5. Recenti studi di genetica molecolare hanno permesso di identificare il difetto genetico di base responsabile della malattia: si tratta di mutazioni a carico di un gene strutturale, situato nella regione HLA del cromosoma 6, codificante il citocromo P-450c21 (CYPZ1A2); quest’ultimo è un enzima monossigenasico che catalizza in modo specifico l’idrossilazione steroidea in C21. La difettosa idrossilazione in C21 del 17--OH progesterone e del progesterone provoca una ridotta sintesi di 11-desossi-cortisolo e cortisolo e di 11-desossi-corticosterone (DOC) e aldosterone, rispettivamente (Fig. 58.11). L’accumulo di steroidi prossimali al blocco causa un’eccessiva produzione di androgeni, responsabili del-
la virilizzazione. Alla nascita, nei soggetti di sesso femminile i genitali esterni sono mascolinizzati, mentre le gonadi e i genitali interni sono normali. Dopo la nascita i soggetti di ambo i sessi non trattati vanno incontro ad un rapido accrescimento somatico o ad aumento di volume dei genitali. Nelle forme complete, la mancata sintesi di aldosterone provoca perdita urinaria di sali, disidratazione e shock. Il deficit della 21-idrossilasi, pur derivando da un’unica alterazione genetica, presenta un ampio spettro di forme con diversa gravità clinica e biochimica. La malattia deriva da mutazioni a carico del gene che codifica normalmente la sintesi dell’enzima 21-idrossilasi. I risultati di queste mutazioni possono essere diversi. Se l’attività dell’enzima è ridotta a livelli minimi (1-2%), ma non completamente abolita, si ha una forma con virilizzazione semplice (forma classica di tipo I). Se la mutazione comporta una delezione del gene o è del tipo non senso e comporta una perdita completa dell’attività enzimatica, si ha una forma con virilizzazione e perdita di sali (forma classica di tipo II). Se la mutazione riduce in forma più lieve l’attività enzimatica (20-60%), si ha una forma sfumata di virilizzazione (forma non classica). 1. Tipo I. Deficit della 21-idrossilasi interessante la zona fascicolata: forma lieve da blocco parziale; forma con virilizzazione semplice (da deficit della 21-idrossilasi solo nelle cellule della zona fascicolata). In questa forma sono generalmente assenti manifestazioni da deficit del cortisolo e degli steroidi minera-
Colesterolo 20,22-desmolasi 17- -OH pregnenolone
17- -OH progesterone
Androstenedione
21-idrossilasi Desossi-corticosterone (DOC)
Estrone aromatizzanti
3- -idrossisteroidodeidrogenasi
Deidroepiandrosterone (DHEA) 17,20-liasi/desmolasi
Progesterone
17--idrossilasi
Pregnenolone
11-desossi-cortisolo
17- -idrossisteroido - deidrogenasi
11- -idrossilasi
Enzimi
Corticosterone Aldosteronesintasi ALDOSTERONE
CORTISOLO
TESTOSTERONE
ESTRADIOLO
Figura 58.11 - Conseguenze del blocco della steroidogenesi surrenale per deficit della 21-idrossilasi. Nel riquadro tratteggiato le vie biosintetiche presenti solo nella corteccia surrenale. Nella zona in grigio sono indicati gli steroidi la cui produzione è ridotta o assente come conseguenza del blocco enzimatico.
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loattivi; la sintomatologia è limitata a manifestazioni di iperandrogenismo di varia gravità. Come è noto (Cap. 59), mentre il sesso gonadico è determinato geneticamente, lo sviluppo dell’apparato genitale durante la vita fetale è influenzato dalla secrezione ormonale delle gonadi primitive. In particolare, per orientare in senso maschile lo sviluppo dei genitali, è determinante la secrezione di testosterone da parte del testicolo fetale; in soggetti genotipicamente femmine (46 XX), o comunque in assenza di ormoni androgeni, lo sviluppo dei genitali avviene in senso femminile. L’eccessiva produzione di androgeni nella vita fetale provoca pertanto alterazioni dei genitali che sono assai più gravi nella femmina, con mascolinizzazione e malformazioni, che nel loro insieme compongono un quadro di pseudoermafroditismo femminile (Cap. 59). Nel maschio si ha solo macrogenitosomia alla nascita, senza alterazioni strutturali. L’entità dello pseudoermafroditismo femminile è condizionata dall’epoca della vita fetale in cui l’abnorme produzione di androgeni ha inizio. Se si verifica prima della 12a settimana, le pliche labiali, da cui normalmente si sviluppano le piccole e le grandi labbra, rimangono chiuse e danno luogo ad una formazione similscrotale. Se l’eccesso di androgeni comincia ad operare in epoca più avanzata della vita intrauterina, quando la vagina è già separata dal seno urogenitale, non si ha una vera mascolinizzazione, ma solo un’ipertrofia del clitoride. Anche nelle forme lievi in cui i genitali sono normali alla nascita, se non si interviene con l’opportuna terapia già nei primi anni di vita, l’eccesso di androgeni provoca un rapido accrescimento corporeo ed un prematuro sviluppo puberale, con maturazione dei genitali e comparsa dei caratteri sessuali secondari nel quadro di una pseudopubertà precoce. Nel maschio la pseudopubertà è isosessuale, vale a dire con sviluppo dei genitali e dei caratteri sessuali secondari concordanti con il sesso genetico; nella femmina la pseudopubertà è eterosessuale, in quanto i fenomeni puberali assumono caratteristiche discordanti rispetto al sesso genetico con clitoridomegalia, sviluppo dell’apparato pilifero e delle masse muscolari in senso maschile. In ambedue i sessi le gonadi sono immature, in quanto l’iperproduzione di androgeni non si associa alle modificazioni neuroendocrine (pulsatilità secretoria di GnRH e gonadotropine, controregolazione positiva degli estrogeni nella donna, ecc.) che caratterizzano la pubertà fisiologica. 2. Tipo II. Deficit della 21-idrossilasi interessante la zona fascicolata e glomerulare: forma grave da blocco completo; forma con virilizzazione e perdita di sali. Le manifestazioni causate da iperandrogenismo intrauterino sono evidenti alla nascita con genitali ambigui che, nelle pazienti di sesso femminile, indirizzano alla diagnosi. Il quadro clinico è comunque dominato dalle manifestazioni causate dalla carenza di cortisolo e di ormoni mineraloattivi, con massiva perdita di sali, iponatriemia, iperpotassiemia, disidratazione e shock. Se
MALATTIE ENDOCRINE
non si instaura un’appropriata terapia sostitutiva si può avere la morte per crisi surrenalica acuta. La diagnosi deve essere sospettata in presenza di alcuni elementi clinici: • in pazienti con genitali ambigui alla nascita e cariotipo (46 XX) femminile (pseudoermafroditismo femminile); • in ogni bambino che presenti shock, ipoglicemia e segni biochimici di iposurrenalismo; • in pazienti di ambedue i sessi con sviluppo puberale precoce ad impronta androide; • in pazienti di sesso femminile che alla pubertà o dopo la pubertà sviluppino irsutismo, anovulazione, irregolarità mestruali con segni di virilizzazione minimi o assenti. 3. Forma non classica. In questi casi i pazienti producono normali quantità di cortisolo e di aldosterone a spese di un lieve o moderato aumento della produzione di precursori degli ormoni sessuali. Alcuni bambini con questa forma crescono rapidamente o hanno un’età ossea avanzata o uno sviluppo precoce del pelo pubico o ascellare. Il segno più comune è l’irsutismo ed è la forma di presentazione nel 60% delle donne con questa condizione, seguito da oligomenorrea (54%) e acne (33%). Perciò la forma non classica del deficit di 21idrossilasi e la sindrome dell’ovaio policistico si possono presentare nella stessa maniera. I dosaggi ormonali permettono la diagnosi. Il dosaggio del 17--OH progesterone plasmatico è considerato attualmente il miglior test diagnostico per il deficit della 21-idrossilasi ed ha sostituito nella pratica il dosaggio dei 17-chetosteroidi e del pregnantriolo urinari. I livelli di 17--OH progesterone plasmatico possono variare notevolmente in rapporto alla severità del blocco, potendosi osservare aumenti di 100-200 volte rispetto ai valori basali nei casi più gravi e valori appena al di sopra dei limiti normali nelle forme ad espressione tardiva. In questi ultimi casi si esegue un test di stimolo con ACTH, che dimostra un’iperresponsività del 17--OH progesterone ed un ridotto aumento del cortisolo. L’ACTH circolante è elevato; ACTH e corticosteroidi circolanti sono sopprimibili con desametasone. Nelle forme con perdita di sali sono caratteristiche le alterazioni elettrolitiche: iposodiemia e iperpotassiemia con ridotti livelli di aldosterone nel plasma e nelle urine e aumento dell’attività reninica plasmatica. La diagnosi prenatale si attua con la determinazione delle concentrazioni di 17--OH progesterone nel liquido amniotico, la tipizzazione HLA delle cellule fetali e l’analisi diretta dei geni sul cromosoma 6. Quando esiste un rischio aumentato di malattia (presenza di deficit nei familiari), il miglior approccio sembra essere quello di ottenere rapidamente il genotipo delle cellule fetali da biopsia dei villi coriali, perché permette un intervento precoce con desametasone per prevenire la virilizzazione del feto di sesso femminile. Terapia. La somministrazione di glicocorticoidi ha una efficace azione terapeutica. Nella forma non classi-
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58 - MALATTIE DEL CORTICOSURRENE
ca la sola indicazione per questa terapia è l’infertilità maschile e femminile. Nelle forme con perdita di sali è necessario associare steroidi mineraloattivi e un supplemento di sali nella dieta. La terapia steroidea, attuata tempestivamente e correttamente, permette un regolare accrescimento corporeo e un normale sviluppo puberale con fertilità. Nelle bambine con genitali ambigui può essere necessaria una ricostruzione chirurgica dei genitali esterni da attuare nei primissimi anni di vita. B. Deficit della 11--idrossilasi (virilizzazione e ipertensione). Il blocco metabolico da ridotta idrossilazione in C11 provoca, oltre all’aumentata produzione di androgeni, un’aumentata formazione di 11-desossi-corticosterone (DOC) e di 11-desossi-cortisolo (Fig. 58.12). Poiché il DOC ha un’azione mineraloattiva, i pazienti con questa forma di iperplasia surrenale, oltre ai fenomeni di iperandrogenismo simili a quelli già descritti nel deficit della 21-idrossilasi, presentano ipertensione arteriosa con ipopotassiemia e inibizione dell’attività reninica. La diagnosi può essere posta dalla dimostrazione dell’aumento di ACTH, DOC e 11-desossi-cortisolo circolanti e dell’aumento nelle urine dei metaboliti di quest’ultimo che, sotto forma di tetraidro-11-desossicortisolo, sono dosati nelle urine come 17-OH steroidi di Porter-Silber. Questo dato differenzia il deficit della 11-idrossilasi da quello della 21-idrossilasi, in cui i 17-OH steroidi sono diminuiti. La terapia a base di glicocorticoidi corregge anche l’ipertensione.
C. Deficit della 17--idrossilasi (infantilismo sessuale, pseudoermafroditismo maschile, ipertensione con ipokaliemia e alcalosi). La 17--idrossilasi è un enzima essenziale per la sintesi del cortisolo, degli estrogeni e degli androgeni a livello sia della zona fascicolata del surrene sia delle gonadi (Fig. 58.13). La sua carenza provoca quindi un blocco nella sintesi del 17--OH progesterone e del 17--OH pregnenolone, con conseguente ridotta formazione di cortisolo e di steroidi sessuali. Si ha invece un’iperproduzione di steroidi mineraloattivi con ipertensione e ipokaliemia. In particolare, è aumentata la produzione di corticosterone e DOC, mentre è ridotta quella di aldosterone. Si ritiene che l’iperattività della via biosintetica dei mineraloattivi provochi una progressiva espansione dei liquidi extracellulari e della volemia, ipertensione e inibizione dell’attività reninica. La cronica inibizione dell’attività reninica sarebbe responsabile della virtuale scomparsa dell’aldosterone plasmatico, rilevata in molti di questi pazienti. Sono quindi prodotti in grande quantità corticosterone e DOC, la cui biosintesi è ACTH-dipendente e renina indipendente, mentre è scarsamente prodotto l’aldosterone, la cui biosintesi è renina-dipendente. Il blocco della sintesi degli steroidi sessuali ha conseguenze diverse nei due sessi: nei soggetti geneticamente di sesso femminile i genitali sono normali alla nascita, mentre i soggetti geneticamente maschili presentano alla nascita un incompleto sviluppo dei genitali (pseudoermafroditismo maschile). In ambedue i sessi non si ha sviluppo puberale, con infantilismo dei geni-
Colesterolo 20,22-desmolasi 17- -OH pregnenolone
17- -OH progesterone
Androstenedione
21-idrossilasi Desossi-corticosterone (DOC)
Estrone aromatizzanti
Progesterone
3- -idrossisteroidodeidrogenasi
Deidroepiandrosterone (DHEA) 17,20-liasi/desmolasi
17--idrossilasi
Pregnenolone
11-desossi-cortisolo
17- -idrossisteroido - deidrogenasi
11- -idrossilasi
Enzimi
Corticosterone Aldosteronesintasi ALDOSTERONE
CORTISOLO
TESTOSTERONE
ESTRADIOLO
Figura 58.12 - Conseguenze del blocco della steroidogenesi surrenale per deficit della 11--idrossilasi. Nel riquadro tratteggiato le vie biosintetiche presenti solo nella corteccia surrenale. Nella zona in grigio sono indicati gli steroidi la cui produzione è ridotta o assente come conseguenza del blocco enzimatico.
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MALATTIE ENDOCRINE
Colesterolo 20,22-desmolasi
17- -OH progesterone
Androstenedione
21-idrossilasi Desossi-corticosterone (DOC)
Estrone aromatizzanti
17--idrossilasi
Progesterone
3- -idrossisteroidodeidrogenasi
Deidroepiandrosterone (DHEA) 17,20-liasi/desmolasi
17- -OH pregnenolone
Pregnenolone
11-desossi-cortisolo
17- -idrossisteroido - deidrogenasi
11- -idrossilasi
Enzimi
Corticosterone Aldosteronesintasi ALDOSTERONE
CORTISOLO
TESTOSTERONE
ESTRADIOLO
Figura 58.13 - Conseguenze del blocco della steroidogenesi surrenale per deficit della 17--idrossilasi. Nel riquadro tratteggiato le vie biosintetiche presenti solo nella corteccia surrenale. Nella zona in grigio sono indicati gli steroidi la cui produzione è ridotta o assente come conseguenza del blocco enzimatico.
tali, mancata comparsa dei caratteri sessuali secondari e, nella donna, amenorrea primaria. Clinicamente, il difetto di 17--idrossilasi viene in genere diagnosticato in epoca puberale in giovani adulti che presentano ipertensione arteriosa, ipokaliemia e immaturità sessuale, con amenorrea primaria nelle donne e pseudoermafroditismo nel maschio. La diagnosi è stabilita mediante dosaggi ormonali che evidenziano alti livelli plasmatici di ACTH, LH, FSH, progesterone e DOC, mentre la secrezione di 17--OH progesterone, cortisolo, androgeni ed estrogeni è nettamente diminuita. L’attività reninica è inibita ed è nettamente ridotto anche l’aldosterone. Alla terapia con glicocorticoidi è necessario associare, in età puberale, terapia sostitutiva con steroidi gonadici. D. Deficit di 3--idrossisteroido-deidrogenasi (pseudoermafroditismo maschile o femminile e insufficienza surrenale). È bloccata una delle prime tappe della steroidogenesi surrenale e gonadica, con arresto delle vie metaboliche che portano alla sintesi degli steroidi mineraloattivi, glicoattivi e sessuali; il DHEA è l’unico steroide ad azione androgena prodotto in questa malattia (Fig. 58.14). La forma di blocco completo è grave e provoca elevata e precoce mortalità per crisi surrenale acuta. Sono però descritte forme lievi che si manifestano clinicamente all’adolescenza; poiché il DHEA ha un’attività biologica in senso androgeno assai modesta, i maschi presentano incompleta mascolinizzazione (ipospadia) e le femmine modesti segni di virilizzazione.
Anche in questa forma gli esami ormonali sono necessari per la diagnosi: DHEA e DHEA-S sono spiccatamente elevati, vivacemente responsivi allo stimolo con ACTH e sopprimibili con desametasone. Cortisolo, aldosterone, testosterone e gli altri steroidi di origine surrenale e gonadica sono ridotti. E. Deficit di 20,22-desmolasi. Iperplasia lipoidea congenita delle surrenali (insufficienza surrenale, pseudoermafroditismo maschile, infantilismo sessuale). Questo raro difetto enzimatico colpisce una delle primissime tappe della steroidogenesi; la mancata trasformazione del colesterolo in pregnenolone blocca la sintesi di tutti gli steroidi con insufficienza surrenale e gonadica. Anatomicamente è caratterizzato da uno spiccato aumento di volume delle surrenali, che sono ripiene di lipidi. I maschi affetti hanno genitali di aspetto femminile in presenza di cariotipo maschile (46 XY). La prognosi è infausta. F. Disordini della biosintesi di aldosterone da deficit della 18--idrossilasi (tipo I) o della 18--idrogenasi (tipo II). A differenza degli altri difetti enzimatici della steroidogenesi surrenale, che provocano blocco della sintesi del cortisolo e iperplasia surrenale, in queste rare forme il difetto enzimatico blocca solo la biosintesi di aldosterone con deficit isolato dell’attività mineralocorticoide. Poiché la formazione di aldosterone, a partire dal corticosterone, avviene attraverso la formazione di 18idrossi-corticosterone (Fig. 58.2), il blocco della steroi-
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58 - MALATTIE DEL CORTICOSURRENE
Colesterolo 20,22-desmolasi
17- -OH progesterone
Androstenedione
21-idrossilasi Desossi-corticosterone (DOC)
Estrone aromatizzanti
17--idrossilasi
Progesterone
3- -idrossisteroidodeidrogenasi
Deidroepiandrosterone (DHEA) 17,20-liasi/desmolasi
17- -OH pregnenolone
Pregnenolone
11-desossi-cortisolo
17- -idrossisteroido - deidrogenasi
11- -idrossilasi
Enzimi
Corticosterone Aldosteronesintasi ALDOSTERONE
CORTISOLO
TESTOSTERONE
ESTRADIOLO
Figura 58.14 - Conseguenze del blocco della steroidogenesi surrenale per deficit della 3--idrossisteroido-deidrogenasi. Nel riquadro tratteggiato le vie biosintetiche presenti solo nella corteccia surrenale. Nella zona in grigio sono indicati gli steroidi la cui produzione è ridotta o assente come conseguenza del blocco enzimatico.
dogenesi può verificarsi a due livelli: nel deficit della 18--idrossilasi o tipo I è bloccata la formazione sia di aldosterone sia di 18-idrossi-corticosterone, mentre nel deficit della 18--idrogenasi o tipo II è bloccata la produzione solo di aldosterone. I due difetti enzimatici hanno espressione clinica simile, con perdita di sodio, iponatriemia, ipotensione. La secrezione di potassio e idrogenioni, a livello tubulare, è ridotta, con conseguenti iperpotassiemia e acidosi metabolica. La perdita di sodio stimola l’attivazione del sistema renina-angiotensina, con iperproduzione di precursori dell’aldosterone, corticosterone, DOC, 18-idrossi-corticosterone (nel tipo II), che comunque non sono sufficienti a prevenire la perdita di sodio. Ambedue i difetti enzimatici tendono a manifestarsi precocemente nell’infanzia e possono associarsi a ritar-
do dell’accrescimento. La diagnosi precoce e il trattamento tempestivo del difetto, con steroidi mineraloattivi e un supplemento di sodio nella dieta correggono completamente le alterazioni del metabolismo minerale, che, peraltro, tendono talora a migliorare spontaneamente con l’età.
MALATTIE DELLA MIDOLLARE DEL SURRENE L’unica forma morbosa di interesse clinico è rappresentata dal feocromocitoma, di cui si tratta nel capitolo 1.
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C A P I T O L O
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59
MALATTIE DELLE GONADI (*) L. CANTALAMESSA, L. CREMAGNANI
PREMESSE DI ORDINE GENERALE A. Apparato riproduttivo. L’apparato riproduttivo o apparato genitale è costituito da una serie di organi dal cui coordinato funzionamento dipendono, oltre all’espletamento dell’attività sessuale, la riproduzione e quindi il mantenimento della specie. Le strutture anatomiche che compongono l’apparato riproduttivo sono le gonadi, i genitali interni e i genitali esterni. Le gonadi sono rappresentate dai testicoli nell’uomo e dalle ovaie nella donna. Le gonadi assolvono ad una duplice funzione: • la produzione e la maturazione delle cellule germinali spermatozoo e oocita, dal cui accoppiamento origina il nuovo individuo; • l’attività endocrina, in quanto sede di sintesi e secrezione di ormoni che attraverso un’azione locale e sistemica influenzano lo sviluppo e l’attività di tutto l’apparato riproduttivo. L’attività endocrina delle gonadi inizia già nella vita fetale e condiziona la differenziazione dei genitali interni ed esterni in senso maschile o femminile. Dopo la nascita la secrezione degli ormoni gonadici, regolata dal sistema ipotalamo-ipofisario, stimola lo sviluppo dell’apparato riproduttivo in epoca puberale, condiziona l’accrescimento scheletrico e influenza lo sviluppo psichico e comportamentale. I genitali interni sono rappresentati nella donna dalle tube e dall’utero; nell’uomo dall’epididimo, dal canale deferente e dalle vescicole seminali. Il trasporto delle cellule germinali rappresenta la principale funzione di queste strutture anatomiche. Nell’utero hanno luogo l’annidamento dell’uovo fecondato e lo sviluppo del feto. I genitali esterni sono il pene nel maschio, la vulva e la vagina nella donna. Essi permettono l’accoppiamento. (*) Con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di G.L. Taccagni.
B. Caratteri sessuali secondari. L’incremento della secrezione di ormoni gonadici durante la pubertà, oltre a promuovere la maturazione degli organi genitali, determina lo sviluppo nei due sessi di caratteristiche morfologiche differenziate che vanno sotto il nome di caratteri sessuali secondari. Nell’uomo si hanno: sviluppo della barba, comparsa dei peli in particolari aree androgeno-sensitive, abbassamento del tono della voce, sviluppo della muscolatura striata. Nella donna lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari è caratterizzato da: sviluppo delle mammelle, distribuzione dell’adipe sulle natiche e sulle cosce, voce a tonalità alta, distribuzione a delta rovesciato dei peli pubici. Il mantenimento dei caratteri sessuali secondari durante la vita adulta è legato alla fisiologica secrezione degli ormoni gonadici. C. Ormoni gonadici. Gli ormoni secreti dalle gonadi hanno una struttura chimica di tipo steroideo analoga a quella degli ormoni sintetizzati dalla corticale del surrene. Poiché le prime tappe della biosintesi sono comuni a tutti gli ormoni steroidei, alcuni composti intermedi sono presenti a livello di tutte le sedi di produzione. La presenza di enzimi specifici nelle cellule dei differenti tessuti ghiandolari indirizza le successive tappe della steroidogenesi in modo differenziato per ciascuna ghiandola. Come abbiamo già visto a proposito della corteccia surrenale, la presenza, in questa sede, degli enzimi 11-idrossilasi e 18-idrossilasi permette la sintesi di cortisolo e aldosterone. Analogamente, osservando la catena biosintetica degli steroidi gonadici (Fig. 59.1) si nota che i principali ormoni androgeni, il testosterone e l’androstenedione, sono gli immediati precursori dell’estradiolo e dell’estrone; la presenza nelle cellule dell’ovaio di enzimi aromatizzanti è responsabile delle tappe metaboliche che portano alla biosintesi dell’estradiolo e dell’estrone. Gli ormoni gonadici vengono distinti in tre gruppi in base all’effetto biologico prevalente: gli androgeni hanno azione virilizzante; gli estrogeni sono in grado di in-
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MALATTIE ENDOCRINE
Tabella 59.1 - Variazioni della produzione di SHBG.
Colesterolo
Aumentata Pregnenolone
Progesterone
17-OH-pregnenolone
17-OH-progesterone
Deidroepiandrosterone (DHEA)
Androstenedione
Ridotta
TESTOSTERONE
ESTRONE
DIIDROTESTOSTERONE
ESTRADIOLO
Figura 59.1 - Biosintesi degli ormoni gonadici.
durre l’estro nei mammiferi di sesso femminile; i progestinici favoriscono l’annidamento dell’uovo fecondato nell’endometrio e il mantenimento della gravidanza. Questi tre gruppi di steroidi si differenziano anche per la loro struttura chimica (Fig. 59.2). Gli androgeni sono steroidi a 19 atomi di carbonio con due gruppi metilici in posizione C-18 e C-19. Gli estrogeni sono steroidi a 18 atomi di carbonio caratterizzati dall’aromatizzazione del gruppo A dal nucleo ciclopentanofenantrenico di base, cioè dalla presenza in esso di 3 doppi legami e di un ossidrile in posizione 3. La struttura steroidea C-21 è propria del progesterone e dei glicocorticoidi.
Nucleo steroideo di base
Steroidi C-19
Steroidi C-21
Nucleo di base degli estrogeni
Figura 59.2 - Strutture di base degli ormoni steroidei. La struttura C-19 è propria degli steroidi androgeni, quella C-21 del progesterone e dei glicocorticoidi. Gli steroidi ad azione estrogena sono C-18 con 3 doppi legami nel nucleo A e un ossidrile in posizione 3.
Ipertiroidismo Terapia con estrogeni Cirrosi epatica Gravidanza Terapia con androgeni Ipotiroidismo Terapia corticosteroidea Obesità Acromegalia
Testosterone plasmatico aumentato
Testosterone plasmatico ridotto
D. Trasporto degli ormoni gonadici. Gli ormoni secreti dalle gonadi nel circolo si legano in larga misura a proteine vettrici. Il testosterone e l’estradiolo hanno grande affinità per una -globulina, nota come SHBG (Sex Hormone Binding Globulin), che lega anche il diidrotestosterone. In minor misura e/o più debolmente, testosterone ed estradiolo si legano all’albumina. Il progesterone si lega principalmente alla CBG (Corticosteroid Binding Globulin) e con minor affinità all’albumina. Gli ormoni presenti in circolo in forma libera rappresentano quindi solo una piccola quota (circa il 2% del testosterone e l’1,8% dell’estradiolo) degli ormoni totali. Tuttavia la frazione libera è quella biologicamente attiva, in quanto solo gli ormoni liberi sono in grado di penetrare nelle cellule e legarsi ai recettori citoplasmatici. La sintesi di SHBG avviene a livello epatico, e può essere stimolata o inibita da molteplici fattori fisiologici e farmacologici (Tab. 59.1); di conseguenza, la sua concentrazione in circolo può variare in rapporto a varie situazioni provocando contemporanee oscillazioni dei livelli di ormone veicolato della proteina. Analogamente a quanto detto a proposito degli ormoni tiroidei (Cap. 57), queste variazioni hanno scarso rilievo sul piano biologico, in quanto la secrezione ghiandolare si adegua ad esse in modo tale da mantenere costante la quota di ormone libero e biologicamente attivo presente in circolo e disponibile per i tessuti. Hanno viceversa importanza sul piano clinico-diagnostico, in quanto questi processi di adattamento provocano aumento o diminuzione della concentrazione totale (ormone libero + ormone legato e biologicamente inattivo) dell’ormone corrispondente. Poiché i metodi di dosaggio comunemente impiegati misurano la concentrazione totale di ormone in circolo, variazioni della SHBG possono indurre in errore, facendo interpretare processi di adattamento funzionale come condizioni di iper o di ipofunzione ghiandolare.
DIFFERENZIAZIONE SESSUALE Il processo di differenziazione in senso maschile o femminile dell’apparato riproduttivo inizia durante la vita fetale e si completa alla pubertà. La differenziazione avviene a vari livelli (Fig. 59.3):
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59 - MALATTIE DELLE GONADI
FATTORI BIOLOGICI
FATTORI PSICOSOCIALI
Fecondazione di una cellula uovo da parte di uno spermatozoo Y o X
1
Sesso genetico 46 XX o 46 XY
Differenziazione delle gonadi in testicoli od ovaie
2
Sesso gonadico
Differenziazione dei genitali. In senso maschile in presenza di testosterone; in senso femminile in assenza di androgeni
Sesso fenotipico (fetale) 3
Sesso di educazione Sesso fenotipico (puberale)
Differenziazione psicosessuale (“ruolo di genere”)
Identificazione sessuale
Figura 59.3 - Stadi della differenziazione sessuale.
• differenziazione delle gonadi in testicoli e ovaie; • differenziazione dei genitali o differenziazione del fenotipo; • differenziazione psicosessuale. In linea generale si può premettere che la differenziazione delle gonadi in senso maschile o femminile dipende dai cromosomi sessuali, ed in particolare dal cromosoma Y, mentre le successive tappe della differenziazione sono correlate alla presenza o meno dell’induzione ormonale da parte del testicolo fetale. A. Differenziazione delle gonadi. La differenziazione delle gonadi in testicoli od ovaie è strettamente dipendente dal sesso genetico. Ricordiamo che il patrimonio genetico delle cellule umane è rappresentato da 44 cromosomi somatici o autosomi e da due cromosomi sessuali. I cromosomi di una singola cellula sono convenzionalmente sistemati a coppie a formare il cariotipo costituito da 22 coppie di autosomi più una coppia di cromosomi sessuali, denominati X e Y per la loro forma.
Le cellule femminili contengono 44 autosomi più due cromosomi X (46 XX), quelle maschili 44 autosomi più un cromosoma X e un cromosoma Y (46 XY). Durante la replicazione cellulare ciascuno dei 46 cromosomi si duplica (mitosi), cosicché le cellule figlie hanno un patrimonio genetico di 46 cromosomi (23 coppie: corredo diploide). Un processo differente avviene durante la produzione delle cellule germinali: lo spermatocita (cellula progenitrice degli spermatozoi) e l’oocita (cellula progenitrice della cellula uovo) dividendosi danno luogo a due cellule dotate ciascuna di 23 cromosomi (corredo aploide). Questo processo, denominato meiosi, comporta una disgiunzione dei singoli componenti delle coppie di cromosomi. Come conseguenza, da un singolo spermatocita (46 XY) derivano due spermatozoi (23 X e 23 Y) e da ogni oocita un uovo fecondabile (23 X) e una cellula non fecondabile o globulo polare. Ciascun uovo contiene quindi un singolo cromosoma X, mentre il 50% degli spermatozoi contiene un cromosoma Y e l’altra metà un cromosoma X. Quando lo spermatozoo contenente il cromosoma Y (23 Y) fertilizza un uovo 23 X, la cellula risultante (zigote) avrà un cariogramma di 44 autosomi più XY (46 XY) e si svilupperà in senso maschile. Quando invece la fertilizzazione avviene con uno spermatozoo contenente il cromosoma X, lo zigote avrà un assetto cromosomico 46 XX, con sviluppo in senso femminile delle gonadi. Nell’embrione le gonadi primitive si sviluppano dalla cresta genitale, formata da un ammasso di cellule distinte in una parte corticale ed una midollare. Sino alla 6a settimana queste strutture sono indifferenziate e bipotenti. Durante la 6a-8a settimana, nei soggetti geneticamente maschi, per influenza del cromosoma Y, la corticale regredisce e la midollare si sviluppa in testicolo con comparsa delle cellule di Leydig che secernono testosterone. La presenza del cromosoma Y è indispensabile per la normale differenziazione della gonade primitiva in testicolo. Nei soggetti geneticamente femmine (46 XX), o comunque in assenza di cromosoma Y, la midollare si atrofizza e la corticale evolve e dà luogo all’ovaio che, in questo stadio, a differenza del testicolo non ha proprietà secretorie. La presenza di 2 X appare peraltro essenziale per il normale sviluppo dell’ovaio, in quanto in soggetti con un solo cromosoma X (sindrome di Turner) le ovaie raggiungono solo un rudimentale grado di differenziazione. L’analisi della struttura del cromosoma Y, nell’uomo, suggerisce che il braccio corto (Yp) del cromosoma, in prossimità del centromero contenga il gene (o i geni) che regolano la formazione testicolare. La semplice assenza di Yp dal cromosoma Y provoca infatti lo sviluppo di un fenotipo femminile con gonadi rudimentali. Il meccanismo con cui il cromosoma Y regola la differenziazione del testicolo è oggetto di studio. In base a vari dati sperimentali, si ritiene che esista una sostanza, prodotta localmente dalle cellule della gonade primitiva, che induce la formazione del testicolo. Tale sostanza viene attualmente identificata con l’antigene di istocompatibilità H-Y presente sulla superficie cellulare dei soggetti con cromosoma Y. Numerose evidenze sperimentali forniscono supporto al ruolo dell’antigene H-Y, anche se dati recenti sembrano suggerire che l’antigene H-Y
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MALATTIE ENDOCRINE
non rappresenta probabilmente l’unico fattore regolante lo sviluppo testicolare. B. Differenziazione dei genitali. La presenza del testicolo è determinante per la differenziazione in senso maschile dei genitali interni ed esterni. Il testicolo fetale interviene nella differenziazione dei genitali attraverso la secrezione di testosterone e di un polipeptide noto come “fattore di regressione dei dotti di Müller” (MRF), che viene prodotto dal testicolo solo durante la vita fetale. Testosterone e MRF fungono da “induttori” della differenziazione dei genitali in senso maschile; in assenza di questi induttori si sviluppa un fenotipo femminile indipendentemente dal sesso genetico. Il testosterone è anche il precursore o il preormone del diidrotestosterone (DHT), l’ormone direttamente responsabile della differenziazione in senso maschile dei genitali esterni e della prostata (Fig. 59.4, Tab. 59.2).
Gonadi Mesonefro Dotto di Müller Dotto di Wolff
Y assente
Y presente Epididimo Ovaio
Testicolo Deferenti Vescicole seminali
Utero
Prostata
A.
Vagina
Tubercolo genitale Rigonfiamento genitale Piega uretrale Diidrotestosterone assente
Diidrotestosterone presente Glande e pene
Clitoride Grandi labbra Piccole labbra Vagina
Scroto Rafe
Femmina
Maschio
B.
Figura 59.4 - Differenziazione dei genitali. (A) Interni. (B) Esterni per effetto del diidrotestosterone.
Tabella 59.2 - Ormoni che determinano lo sviluppo in senso maschile del fenotipo. • Testosterone • Diidrotestosterone • Fattore di regressione dei dotti di Müller (MRF)
Sino alla 7a-8a settimana sono contemporaneamente presenti nell’embrione i dotti genitali primitivi maschili e femminili (dotti di Wolff e di Müller), e analogamente i genitali esterni sono bipotenti. A partire dall’8a settimana nel maschio il testosterone secreto dal testicolo embrionario determina la trasformazione dei dotti genitali primordiali nei genitali interni: i dotti di Wolff si trasformano in epididimo e dotti deferenti, mentre i dotti di Müller regrediscono per effetto del MRF. Contemporaneamente, per azione del diidrotestosterone si differenziano i genitali esterni: scompare la fessura urogenitale, presente nelle prime settimane di vita fetale; si sviluppano dal tubercolo genitale il pene, dal rigonfiamento labioscrotale lo scroto, dal seno urogenitale la prostata (Fig. 59.4). Nei soggetti geneticamente femmine i dotti di Wolff si atrofizzano e dai dotti di Müller si sviluppano le tube, l’utero e il terzo superiore della vagina. Persiste la fessura urogenitale, da cui si differenziano i genitali esterni femminili. C. Differenziazione psicosessuale. Per quanto riguarda lo sviluppo del sistema nervoso, devono essere considerati due aspetti della differenziazione sessuale dell’encefalo: a) la differenziazione dei centri ipotalamici che regolano la secrezione gonadotropinica in forma ciclica nella femmina e in forma tonica nel maschio; b) la maturazione dei centri nervosi connessi con il comportamento sessuale e con l’“identità di genere”, vale a dire con l’identificazione psicosessuale dell’individuo nel rapporto con gli altri membri del proprio sesso e con quelli del sesso opposto. Mentre in molte specie animali è ben dimostrata una vera differenziazione sessuale del sistema nervoso centrale, correlata alla secrezione di testosterone da parte della gonade fetale, nella specie umana la differenziazione sessuale del sistema nervoso appare assai più complessa. Si hanno in proposito solo dati indiretti, forniti in particolare da condizioni patologiche caratterizzate da deficit congeniti di enzimi essenziali alla biosintesi steroidea. Nell’iperplasia surrenale congenita da deficit della 21 o della 11-idrossilasi (Cap. 58), soggetti geneticamente femmine sono esposti, durante la vita fetale, ad una elevata concentrazione di androgeni, che provocano mascolinizzazione dei genitali (pseudoermafroditismo femminile). Nel deficit della 5--reduttasi, per un difetto della trasformazione del testosterone in diidrotestosterone, soggetti geneticamente maschi presentano genitali ambigui alla nascita (pseudoermafroditismo maschile) tanto da indurre erroneamente a ritenerli di sesso femminile e ad educarli come tali. In epoca puberale, i soggetti con deficit della 5--reduttasi sviluppano caratteristiche sessuali di tipo maschile, vale a dire opposte a quelle del sesso di educazione.
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59 - MALATTIE DELLE GONADI
Lo sviluppo psicosessuale in epoca puberale di questi pazienti con enzimopatie congenite sembra parzialmente in contrasto con i dati sperimentali ottenuti sull’animale. Nei soggetti geneticamente femmine con iperplasia surrenale congenita, correttamente trattati con cortisolo dopo la nascita si osserva, in epoca puberale, sviluppo del centro ciclico e “identità di genere” femminile, nonostante l’esposizione agli androgeni nella vita fetale. Nei pazienti con deficit di 5--reduttasi, educati come femmine, in coincidenza con la virilizzazione in età puberale, si può osservare cambiamento o meno dell’identità di genere, in rapporto principalmente a condizionamenti ambientali o ad altri fattori di ordine culturale, sociale, ecc. Senza discutere in dettaglio di un argomento che, per molti aspetti, esula dal campo medico e biologico, per interessare psicologi e sociologi, diremo che l’insieme delle osservazioni sembra indicare che, nella specie umana, la differenziazione psicosessuale non può essere correlata solo con fattori endocrini, ma deriva dal sesso di educazione e dall’integrazione di più fattori: ormonali, psichici, culturali e dal condizionamento dell’ambiente.
Errori del processo di differenziazione sessuale Poiché la differenziazione dell’apparato genitale avviene nel feto in stadi sequenziali (Fig. 59.3), anche le anomalie conseguenti ad errori del processo di differenziazione dell’apparato riproduttivo durante la vita fetale possono essere raggruppate in: • errori di differenziazione delle gonadi causati da anomalie numeriche o strutturali dei cromosomi sessuali (disgenesie gonadiche); • errori della differenziazione dei genitali interni ed esterni riconducibili essenzialmente ad alterazioni della secrezione androgena durante la vita fetale (pseudoermafroditismi). È indispensabile precisare che gli errori di differenziazione delle gonadi o dei genitali durante la vita fetale provocano, sul piano clinico, una serie di anomalie che, dalle sindromi più tipiche e paradigmatiche, alle quali facciamo qui di seguito riferimento, sfumano in una serie di situazioni anatomocliniche talora difficilmente inquadrabili. Disgenesie gonadiche (errori del processo di differenziazione delle gonadi) Il processo di differenziazione delle gonadi dipende dal sesso cromosomico e risulta quindi alterato per anomalie dei cromosomi sessuali dovute a due condizioni. • Errata disgiunzione dei cromosomi sessuali durante la meiosi (47 XXY: sindrome di Klinefelter; 45 X0: sindrome di Turner, ecc.), oppure errata disgiunzione dei cromosomi sessuali durante le prime mitosi dell’uovo fecondato, con produzione, nello stesso soggetto, di due o più popolazioni cellulari portanti patrimoni cromosomici diversi (mosaicismo).
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Appare evidente che la mancata disgiunzione dei cromosomi materni o paterni può portare a tutta una serie di combinazioni differenti, a seconda che nell’uovo fecondato siano presenti 2 cromosomi XX, oppure che i due cromosomi XX siano presenti nel globo polare e che l’uovo sia fecondato da uno spermatozoo contenente il cromosoma X (23 X) oppure il cromosoma Y (23 Y). In pratica le combinazioni più frequenti e di maggior rilievo sul piano clinico sono rappresentate dalla formazione di uno zigote 47 XXY (sindrome di Klinefelter) oppure 45 X0 (sindrome di Turner). • Mutazione a carico di uno o più geni determinanti il sesso per alterazioni della struttura di un cromosoma sessuale. A. Sindrome di Klinefelter. La sindrome di Klinefelter è nota anche come disgenesia dei tubuli seminiferi in quanto è caratterizzata da una grave alterazione del tessuto seminale dei testicoli. All’esame istologico, le cellule germinali abitualmente presenti nei tubuli sono sostituite da tessuto ialino privo di cellule. Nel tessuto interstiziale le cellule di Leydig, secernenti testosterone, sono presenti, talora raggruppate in ammassi. L’incidenza di tale sindrome nella popolazione generale è di 1:1000. 1. Clinica. Come conseguenza delle alterazioni anatomiche sopra descritte, nei casi tipici i pazienti, apparentemente normali alla nascita e nell’infanzia, al momento dello sviluppo puberale si presentano con testicoli piccoli e duri che contrastano con il normale sviluppo del pene e dell’apparato pilifero. È costantemente presente azoospermia, anche nei casi in cui le erezioni sono del tutto normali. Nella fase più avanzata della pubertà si sviluppa, con notevole frequenza, un certo grado di ipertrofia del tessuto mammario che causa ginecomastia. La sua presenza comporta un aumentato rischio di degenerazione neoplastica e richiede un controllo nel tempo ed eventualmente l’asportazione del tessuto mammario. Nonostante la presenza di cellule di Leydig, in alcuni casi la secrezione del testosterone non è del tutto normale, non tanto in senso assoluto, ma in rapporto al fatto che l’incremento secretorio che caratterizza la pubertà è attenuato o ritardato. Da ciò derivano un ritardo della chiusura delle cartilagini di coniugazione delle ossa lunghe ed uno sviluppo scheletrico di tipo eunucoide con alta statura, arti abnormemente allungati, ginocchio e gomito valgo. Spesso questi malati presentano anomalie del carattere con irrequietezza, ideazione bizzarra, scarsa capacità di concentrazione e talora un modesto ritardo dello sviluppo mentale. Possono essere associate altre anomalie endocrine o somatiche; la più comune ed importante è il diabete mellito, rilevabile nell’8% dei pazienti. La sterilità, non correggibile da alcun intervento terapeutico nei pazienti con genotipo 47 XXY, rappresenta la conseguenza più grave sul piano pratico della disgenesia dei tubuli seminiferi. Il paziente può avere peraltro una vita sessuale e sociale del tutto normale. Nei pazienti con
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mosaicismo (XX/XXY) può aversi una certa produzione di spermatozoi sufficiente a permettere la fecondazione mediante tecniche di fertilizzazione assistita. 2. Esami di laboratorio. L’assetto ormonale, in accordo con le alterazioni tubulari, è caratterizzato da uno spiccato aumento dei livelli plasmatici di FSH, mentre più modesto e incostante è l’aumento di LH, la prolattinemia è nei limiti di norma ed anche la concentrazione nel plasma di testosterone è normale nella maggior parte di questi pazienti. 3. Diagnosi. La diagnosi di sindrome di Klinefelter, sospettabile in base ai dati clinici (testicoli piccoli e duri, ginecomastia, sviluppo scheletrico di tipo eunucoide), trova conferma nel rilievo di alti livelli di FSH, nell’azoospermia e nell’esame del cariogramma, che dimostra nella maggioranza dei casi un cariotipo 47 XXY o altre anomalie (XXXY, mosaicismo, ecc.). È importante al momento della diagnosi illustrare chiaramente ai genitori, e più tardi al ragazzo stesso, le caratteristiche della sindrome, sdrammatizzandone le conseguenze. 4. Cenni di terapia. La terapia sostitutiva con testosterone è indicata solo nei pazienti in cui sono presenti segni clinici da carenza di androgeni. Nei casi con ginecomastia evidente è utile, dal punto di vista psicologico, un intervento di chirurgia plastica con asportazione del tessuto mammario ipertrofico. B. Sindrome di Turner. La sindrome di Turner o disgenesia gonadica classica è caratterizzata, nei casi tipici, da un cariotipo 45 X0 e da una differenziazione estremamente rudimentale delle gonadi. La sua incidenza nella popolazione generale è di 1:5000. Le ovaie sono formate da masserelle fibrose prive di follicoli, di cellule germinali e di altre cellule ormono-secernenti. Come conseguenza della carenza ormonale le pazienti presentano infantilismo dei genitali e completa assenza dei cicli mestruali. Anche i caratteri sessuali secondari non si sviluppano: le mammelle sono ipoplasiche, radi peli sono presenti solo al pube. All’immaturità sessuale, che si manifesta nell’età puberale, si associano anomalie scheletriche e somatiche che sono indipendenti dalla carenza ormonale, ma sembrano piuttosto da collegare a fattori genetici, in particolare ad alterazioni strutturali del cromosoma X. 1. Clinica. La prima manifestazione che richiama l’attenzione dei parenti è in genere rappresentata dal ritardo di sviluppo staturale. Spesso sono precocemente evidenti le anomalie scheletriche, lo pterigio del collo, il particolare aspetto “a sfinge” del volto. Talora vi è un modesto ritardo mentale. Con il progredire dell’età, si rendono manifesti il persistente infantilismo dei genitali e l’assenza di menarca (amenorrea primaria); spesso la paziente giunge all’osservazione del medico proprio per l’amenorrea. Nel suo quadro clinico conclamato la sindrome di Turner è caratterizzata da: • infantilismo sessuale: il fenotipo è femminile, ma i genitali esterni sono immaturi e i caratteri sessuali se-
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condari sono appena abbozzati con rari peli pubici e mammelle ipoplasiche; i cicli sono assenti; tuttavia, in rari casi si hanno il menarca ed alcuni cicli successivi; • anomalie somatiche: le stigmate somatiche che conferiscono alla paziente un aspetto del tutto peculiare sono rappresentate da bassa statura, collo corto e palmato (pterigio), micrognazia, torace largo a scudo, valgismo del gomito, abnorme brevità del IV metacarpo, palato ogivale, orecchie sporgenti ed impiantate in basso; l’insieme di queste manifestazioni conferisce al volto delle pazienti turneriane un aspetto caratteristico, il cosiddetto “volto a sfinge”; • anomalie congenite a carico di altri organi e apparati: in una notevole quota di pazienti sono presenti anomalie congenite a carico del cuore e dei vasi (stenosi aortica, coartazione aortica), del rene (rene a ferro di cavallo), della cute (nei e cheloidi), dei vasi linfatici (linfedema delle estremità: sindrome di Bonnevie-Ullrich); • associazione con altre condizioni morbose: nelle pazienti con sindrome di Turner è statisticamente aumentata l’incidenza di condizioni patologiche di vario genere: diabete mellito; ipotiroidismo; obesità e ipertensione arteriosa; artrite reumatoide e malattie infiammatorie dell’intestino. 2. Esami di laboratorio. L’assetto ormonale, in accordo con il mancato sviluppo ovarico, è caratterizzato da livelli circolanti spiccatamente elevati di LH ed FSH, e da una netta riduzione degli estrogeni nel sangue e nelle urine. I livelli basali di GH e la responsività all’ormone non sono alterati. 3. Diagnosi. È assai semplice nelle forme tipiche: la bassa statura, le caratteristiche alterazioni somatiche, l’immaturità sessuale e l’amenorrea primaria non lasciano molti dubbi diagnostici. Nelle forme incomplete sono particolarmente utili lo studio ormonale e l’esame del cariotipo. Gli elevati livelli delle gonadotropine FSH e LH nel plasma e i bassi livelli di estrogeni indicano in un’insufficienza ovarica primitiva l’origine dell’ipogonadismo. L’esame del cariotipo dimostra la presenza di un solo cromosoma X (45 X0) nelle forme tipiche oppure di mosaicismo o anomalie strutturali di un cromosoma X nelle forme varianti. 4. Cenni di terapia. La terapia sostitutiva con estrogeni e progesterone ha utilità limitata. È possibile con tale trattamento, iniziato in epoca puberale, indurre lo sviluppo dei caratteri sessuali, ma non correggere la sterilità e le alterazioni somatiche. Tuttavia, per quanto riguarda l’ipostaturismo, il trattamento con GH ricombinante iniziato precocemente e a dosi lievemente superiori a quelle utilizzate nella terapia dell’ipostaturismo da deficit di GH, si è dimostrato sicuramente efficace nel promuovere l’accrescimento staturale di queste pazienti. C. Ermafroditismo vero. L’ermafroditismo vero è una condizione patologica caratterizzata dalla presenza di tessuto testicolare ed ovarico nello stesso soggetto. Da un punto di vista anatomico si distinguono forme
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con un testicolo da un lato ed un ovaio dal lato opposto, in cui comunque testicolo ed ovaio sono ben differenziati, ed altre in cui tessuto testicolare ed ovarico sono coesistenti nella stessa gonade (“ovotestis”). 1. Eziopatogenesi. Si tratta di una condizione rara che ha suscitato sin dall’antichità interesse e curiosità di artisti e letterati. Solo negli ultimi decenni l’ermafroditismo vero è stato studiato nei suoi aspetti biologici; le nostre attuali conoscenze si basano sullo studio di alcune centinaia di casi riportati in letteratura. In base a considerazioni teoriche si è ritenuto in passato che nell’ermafroditismo vero l’assetto cromosomico dovesse corrispondere ad un mosaicismo (46 XX/XY) o ad un chimerismo, in cui una linea cellulare contenente il cromosoma Y era comunque sempre presente. Lo studio del cariotipo, nelle maggiori casistiche, ha però dimostrato che un mosaicismo o chimerismo è presente solo in circa il 30% dei pazienti affetti da ermafroditismo vero. In oltre la metà dei casi il cariotipo è femminile (46 XX) e nel restante 20% maschile. La presenza di tessuto gonadico maschile, in assenza del cromosoma Y, è in apparente contrasto con le conoscenze genetiche di base. La scoperta dell’antigene H-Y, un antigene di istocompatibilità presente sulla superficie cellulare di soggetti maschi che ha il suo locus genetico sul cromosoma Y (SRY gene, Sex Region determining Y), ha permesso di chiarire questo contrasto. Nei soggetti con ermafroditismo vero e cariotipo 46 XX la ricerca dell’antigene H-Y è positiva. Inoltre la ricerca diretta dell’antigene H-Y su colture di cellule prelevate dall’ovotestis ha dimostrato che le cellule provenienti dalla porzione testicolare sono H-Y positive, mentre in quelle provenienti dall’area ovarica non è possibile dimostrare la presenza di tale antigene. Si ritiene pertanto che anche in assenza di cromosoma Y dimostrabile nel cariotipo, nei pazienti 46 XX con ermafroditismo vero sia presente materiale genetico proveniente dal cromosoma Y (per traslocazione su un autosoma o su un cromosoma X o per non disgiunzione) sufficiente ad indurre una sia pur parziale differenziazione delle gonadi in senso maschile. 2. Clinica. Il fenotipo dei pazienti affetti da ermafroditismo vero presenta aspetti variabili, per la diversa rilevanza che assumono i caratteri dell’uno o dell’altro sesso. Anche se nella maggior parte dei casi vi è una evidente ambiguità, in una rilevante quota di soggetti i genitali esterni hanno un aspetto femminile, mentre, in un numero minore di pazienti, i genitali sono orientati decisamente in senso maschile. La differenziazione dei genitali interni corrisponde grossolanamente a quelli della gonade adiacente; nei pazienti con ovotestis si può osservare la presenza di epididimo e deferente oppure di trombe di Falloppio o di abbozzi di ambedue. L’utero è abitualmente presente, ma ipoplasico e unicorne. L’ovaio è in sede, mentre il testicolo o l’ovotestis si possono trovare in un qualsiasi punto del tragitto di discesa della gonade durante la vita fetale. In età puberale si osservano gradi variabili di femminizzazione e mascolinizzazione e lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari non avviene sempre in modo corrispondente al sesso predominante dei genitali.
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Circa il 75% dei soggetti sviluppa ginecomastia e in circa la metà compaiono i cicli mestruali, con ovulazione in una quota minore di pazienti. Sono segnalati casi eccezionali di fertilità, dopo intervento chirurgico, con rimozione di un ovotestis. In soggetti fenotipicamente maschi i cicli mestruali possono presentarsi sotto forma di ematurie cicliche e l’ovulazione come crisi di dolore acuto al testicolo. Malformazioni associate ad altri organi o apparati sono rare. Non esiste un assetto ormonale e/o genetico caratteristico dell’ermafroditismo vero che fornisca informazioni utili alla diagnosi; questa può essere posta solo con l’esame istologico delle gonadi. Non solo deve essere dimostrata la presenza di tessuto testicolare ed ovarico nello stesso soggetto, ma ciascuno di essi deve contenere le rispettive cellule germinali. 3. Cenni di terapia. Variano in rapporto alla situazione anatomica del singolo paziente ed all’età in cui viene posta la diagnosi. In linea generale è necessario rimuovere chirurgicamente le strutture anatomiche (gonadi, genitali interni) che sono in contrasto con il sesso fenotipico predominante, il sesso di educazione e l’identità di genere del soggetto. Quando è necessario, anche i genitali esterni devono essere corretti con opportuni interventi di chirurgia plastica. Pseudoermafroditismo (errori del processo di differenziazione dei genitali) L’incompleta differenziazione dei genitali durante la vita fetale provoca pseudoermafroditismo, vale a dire la presenza, alla nascita, di genitali che presentano in parte caratteristiche dell’altro sesso in soggetti con gonadi correttamente differenziate rispetto al sesso cromosomico (46 XY = testicoli; 46 XX = ovaie). Un’insufficiente azione androgena, per insufficiente produzione di testosterone o per alterata utilizzazione dell’ormone a livello delle cellule bersaglio, provoca, quindi, in individui con sesso cromosomico e gonadico maschile, uno pseudoermafroditismo maschile, cioè sviluppo di genitali che presentano caratteristiche in parte femminili. Al contrario, in soggetti genotipicamente femmine e con gonadi femminili, una eccessiva produzione di androgeni, quale si realizza in alcune forme di iperplasia surrenale congenita, provoca segni di mascolinizzazione dei genitali alla nascita, con un quadro di pseudoermafroditismo femminile. Lo pseudoermafroditismo va distinto dall’ermafroditismo vero, che come abbiamo visto sopra, è caratterizzato dalla presenza di tessuto testicolare ed ovarico nelle gonadi dello stesso soggetto. A. Pseudoermafroditismo maschile. Si tratta di soggetti con sesso cromosomico 46 XY e gonadi maschili che presentano genitali con caratteristiche totalmente o in parte femminili. Può essere causato da: • insufficiente produzione di testosterone per difetto della biosintesi ormonale da carenza enzimatica congenita; • insensibilità dei tessuti periferici al testosterone per difetto del recettore degli androgeni (sindromi di androgeno-resistenza o di insensibilità agli androgeni);
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• difetto del metabolismo periferico del testosterone con mancata formazione di diidrotestosterone da deficit di 5--reduttasi. Difetti della biosintesi del testosterone. La biosintesi del testosterone può essere bloccata per deficit di uno dei 5 enzimi necessari alla biosintesi dell’ormone a partire dal colesterolo (Fig. 59.5). La carenza degli enzimi che agiscono a livello delle prime tre tappe biosintetiche (20-22 desmolasi; 3--idrossisteroido-deidrogenasi; 17--idrossilasi) blocca, oltre alla sintesi del testosterone, anche quella degli steroidi surrenali, provocando, oltre allo pseudoermafroditismo, iposurrenalismo, come discusso a proposito dell’iperplasia surrenale congenita (Cap. 58). Gli enzimi che agiscono a livello delle ultime due tappe metaboliche (17,20 desmolasi e 17--idrossisteroido-deidrogenasi) sono invece specifici della via biosintetica del testosterone e la loro carenza provoca solo pseudoermafroditismo maschile. I difetti enzimatici, in questo gruppo di condizioni morbose, sono trasmessi geneticamente con meccanismo autosomico recessivo (la trasmissione è legata al cromosoma X solo in alcuni casi di deficit di 17,20 desmolasi). Le alterazioni dei genitali esterni variano notevolmente da un paziente all’altro: si va dai casi più lievi nei quali si rileva solo la mancata chiusura del dotto uretrale con ipospadia, a pazienti che, oltre a una grave ipospadia, presentano difetto di fusione dello scroto e pseudovagina, ed infine a soggetti che presentano genitali esterni con caratteristiche francamente femminili.
Questa espressività così variabile del difetto enzimatico dipende dal fatto che il blocco metabolico è talora incompleto e permette ancora la sintesi di una piccola quota di testosterone. Inoltre gli steroidi prodotti a monte del blocco enzimatico possono presentare una certa attività biologica in senso androgeno. Anche lo sviluppo delle strutture derivate dai dotti di Wolff (epididimo, deferenti, vescicole seminali) è variabile; in genere è rudimentale o assente. Si ha invece una normale regressione dei dotti di Müller con assenza di residui dell’utero e delle tube, in quanto il difetto enzimatico non compromette la biosintesi del fattore di regressione mülleriana. La presenza in circolo di quantità variabili di testosterone e/o di altri steroidi ad azione androgena si evidenzia anche al momento dello sviluppo puberale, che avviene in modo assai differenziato. In alcuni pazienti manca qualsiasi segno di virilizzazione, mentre in altri si può avere uno sviluppo pressoché normale e completo dei caratteri sessuali di tipo maschile. È stato anche descritto uno pseudoermafroditismo causato da una ridotta responsività delle cellule di Leydig fetali all’HCG placentare, con conseguente ridotta o assente produzione di testosterone, durante il periodo critico per la differenziazione in senso maschile dei genitali. Sindromi da androgeno-resistenza (femminizzazione testicolare e sindromi correlate). In presenza di testicoli fetali che producono una normale quantità di testosterone, lo pseudoermafroditismo può essere causato
Colesterolo 20,22 desmolasi Pregnenolone 3--idrossisteroido-deidrogenasi Progesterone
Insufficienza surrenale e pseudoermafroditismo maschile
17--idrossilasi 17--OH progesterone Via biosintetica comune Insufficienza surrenale e pseudoermafroditismo femminile
21-idrossilasi 11 desossicortisolo 11-idrossilasi Cortisolo
17,20 desmolasi Androstenedione 17--idrossisteroidodeidrogenasi
Pseudoermafroditismo maschile
Testosterone 5--reduttasi Diidrotestosterone
Via biosintetica dei glicocorticoidi
Via biosintetica degli androgeni
Figura 59.5 - Tappe della biosintesi dei glicocorticoidi e degli androgeni e conseguenze cliniche dei principali difetti enzimatici che provocano blocco della steroidogenesi. Le tappe riportate nella parte superiore della figura, che dal colesterolo portano alla formazione del 17--OH progesterone, sono comuni alla biosintesi dei glicocorticoidi e degli androgeni.
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da mancata responsività delle cellule periferiche all’azione del testosterone. L’androgeno-resistenza è causata da deficit del recettore degli androgeni. In rapporto alla gravità delle alterazioni del recettore androgenico e quindi alla resistenza dei tessuti periferici all’azione degli androgeni, si realizza sul piano clinico una gamma di situazioni morbose che va dalla femminizzazione testicolare completa (sindrome di Morris) alla sindrome dell’infertilità maschile (Fig. 59.6). Nonostante la diversa presentazione clinica, queste sindromi possono essere considerate varianti fenotipiche di un’unica condizione morbosa. La modalità di trasmissione genetica, il meccanismo patogenetico e l’assetto ormonale sono gli stessi per tutte le forme. 1. Eziopatogenesi. Il cariotipo è maschile (46 XY). Il gene per il recettore androgenetico è situato sul cromosoma X. Si ritiene che i difetti del recettore siano dovuti ad una mutazione genetica. Esiste un’elevata familiarità tra i pazienti affetti da sindromi da androgenoresistenza. Le alterazioni recettoriali, responsabili della resistenza agli androgeni, sono state dimostrate in colture cellulari. In colture di fibroblasti ottenuti da soggetti con femminizzazione testicolare completa, il recettore endocellulare per gli androgeni è assente o presente in concentrazione estremamente ridotta. Nei soggetti con femminizzazione testicolare incompleta o con sindrome di Reifenstein (si veda in seguito) e con sindrome di infertilità maschile, il recettore per gli androgeni è invece qualitativamente anormale oppure normale ma quantitativamente ridotto. Recentemente sono stati descritti pazienti con fenotipo ed assetto ormonale esattamente sovrapponibili a quelli rilevati nelle sindromi da resistenza agli androgeni, nei quali viceversa non sono dimostrabili difetti del recettore per gli androgeni. Si ritiene che in questi pazienti il difetto sia postrecettoriale e interessi il legame del recettore attivato a livello nucleare con alterazioni della sintesi o del metabolismo del RNA messaggero. L’assetto endocrino è simile in tutte le sindromi da androgeno-resistenza, anche se nella sindrome da femminizzazione testicolare completa le alterazioni endocrine sono più evidenti e meglio caratterizzate. La dinamica ormonale, peculiare di tali sindromi, rende comprensibile la discrepanza tra una completa femminizza-
Femminizzazione testicolare completa (s. di Morris)
zione puberale e la presenza di testicoli secernenti elevate quantità di testosterone (“femminizzazione testicolare”). Il meccanismo endocrino responsabile di questa situazione paradossale è da ricercare nell’assenza di recettori degli androgeni anche a livello dei centri ipotalamo-ipofisari, dove il testosterone esercita abitualmente il suo effetto di controregolazione negativa. Si hanno, di conseguenza, un’aumentata secrezione di LH ed una massiva stimolazione delle cellule di Leydig. Poiché le cellule di Leydig secernono normalmente, oltre al testosterone, una piccola quantità di estrogeni a causa della cronica stimolazione da parte del LH, la quantità di estradiolo secreta aumenta sino a diventare biologicamente rilevante. I tessuti periferici, insensibili all’azione del testosterone, sono infatti responsivi agli estrogeni, che finiscono per influenzare in senso femminile l’aspetto dei pazienti e lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari in epoca puberale. La femminizzazione che caratterizza in modo più o meno evidente queste sindromi è quindi dovuta a due fenomeni: ridotta sensibilità delle cellule all’azione degli androgeni ed elevata produzione di estradiolo. Il grado variabile di resistenza agli androgeni, associato ad un variabile grado di iperproduzione di estrogeni, provoca quadri clinici in cui il difetto di virilizzazione e la femminizzazione sono espressi in modo più o meno evidente. Nella sindrome da femminizzazione testicolare completa il difetto è più grave e l’effetto femminizzante degli estrogeni è espresso in modo completo. 2. Clinica. Vengono abitualmente distinte quattro varianti fenotipiche delle sindromi da resistenza agli androgeni: • femminizzazione testicolare completa o sindrome di Morris; • femminizzazione testicolare incompleta; • sindrome di Reifenstein; • sindrome di infertilità maschile. • Femminizzazione testicolare completa, sindrome di Morris. Questa condizione morbosa rappresenta la più frequente forma di pseudoermafroditismo maschile ed è al terzo posto, dopo la disgenesia gonadica e le malformazioni congenite del tratto genitale, come causa di amenorrea primaria. A causa dell’insensibilità dei tessuti all’azione del testosterone tutti i processi di differenziazione dei genita-
Femminizzazione testicolare incompleta
Sindrome di Reifenstein
Infertilità maschile
Fenotipo Femminile
Assenti o anomali
Maschile Recettori androgenici
Ridotti di numero o anomali
Figura 59.6 - Spettro delle sindromi causate da resistenza dei tessuti periferici agli androgeni Le manifestazioni cliniche vanno dalla femminizzazione completa della sindrome di Morris alle forme caratterizzate da sola infertilità in soggetti fenotipicamente maschi. Il grado di femminizzazione è approssimativamente correlato con la gravità del deficit del recettore androgenico.
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li interni ed esterni durante la vita fetale sono orientati in senso femminile. Di conseguenza, il problema diagnostico non si pone alla nascita perché il fenotipo è femminile e nulla lascia sospettare uno pseudoermafroditismo. In età prepuberale la diagnosi può essere posta casualmente se i testicoli, presenti nel canale inguinale, vengono scambiati per un’ernia inguinale; all’intervento di correzione della presunta ernia si evidenzia la presenza di gonadi di tipo maschile. Se, come è più frequente, i testicoli sono ritenuti nella cavità addominale, solo in età puberale l’assenza di menarca (amenorrea primaria) richiama l’attenzione della paziente e la porta a consultare il medico. Nonostante l’assenza dei cicli, in epoca puberale si ha uno sviluppo dei caratteri sessuali secondari in senso femminile, con completa femminizzazione. Pertanto all’esame fisico il soggetto presenta fenotipo femminile: le mammelle sono ben sviluppate e la distribuzione dell’adipe è di tipo ginoide. Anche l’orientamento psicosessuale avviene in senso femminile. Il soggetto ha quindi un aspetto femminile del tutto normale, fatta eccezione per l’assenza o la spiccata scarsità di peli ascellari e pubici. I genitali esterni sono di tipo femminile, senza alcun tipo di mascolinizzazione; la vagina, però, è a fondo cieco, i genitali interni sono assenti e le gonadi sono di tipo maschile con caratteristiche istologiche (abbondanza di cellule di Leydig raggruppate in ammassi similtumorali e ipotrofia delle cellule seminifere senza segni di spermatogenesi) sovrapponibili a quelle dei testicoli ritenuti. L’assetto ormonale, caratterizzato da livelli di testosterone circolante di tipo maschile, elevata concentrazione plasmatica di LH e 17--estradiolo circolante nettamente ridotto rispetto al fenotipo, indirizza la diagnosi verso la sindrome di Morris. La diagnosi trova conferma nel cariotipo maschile 46 XY e nell’esame istologico delle gonadi. Poiché le gonadi possono andare incontro a degenerazione neoplastica, al pari dei testicoli ritenuti nel criptorchidismo, è consigliabile asportarle. Comunque, poiché i soggetti affetti hanno uno sviluppo puberale di tipo femminile concordante con il sesso fenotipico e psicosociale, è consigliabile procedere alla castrazione dopo la pubertà. • Femminizzazione testicolare incompleta. In questa forma la resistenza agli androgeni è incompleta; di conseguenza i genitali esterni presentano qualche segno di virilizzazione (clitoridomegalia, parziale fusione delle pieghe labioscrotali). I peli pubici sono presenti, inoltre in epoca puberale la femminizzazione è incompleta e si associa a segni di virilizzazione più o meno marcati. Proprio per evitare una virilizzazione puberale, in questi soggetti è indicata la gonadectomia in età prepuberale. • Sindrome di Reifenstein. I soggetti affetti presentano fenotipo maschile, ma contemporaneamente ipospadia, scroto bifido e ginecomastia. Le alterazioni dei genitali sono comunque assai variabili. I peli pubici e ascellari sono presenti, ma la barba è minima o assente. Il criptorchidismo è frequente e la spermatogenesi è incompleta.
MALATTIE ENDOCRINE
L’atteggiamento psichico è maschile e, alla pubertà, lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari è di tipo maschile. L’ipospadia e il criptorchidismo devono essere corretti chirurgicamente. • Sindrome di infertilità maschile. È il più frequente disordine causato da un difetto del recettore androgenico. A differenza delle altre sindromi da androgeno-resistenza non causa pseudoermafroditismo, ma solo azoospermia e sterilità, e talora ginecomastia. Può associarsi alla sindrome di Reifenstein in membri dello stesso ceppo familiare oppure comparire sporadicamente in soggetti con anamnesi familiare negativa. Un difetto recettoriale sarebbe responsabile di oltre il 20% dei casi di azoospermia considerata abitualmente idiopatica. Carenza di 5--reduttasi. Lo pseudoermafroditismo è causato in questi pazienti da un deficit congenito di 5--reduttasi, l’enzima che, a livello delle cellule periferiche, trasforma il testosterone in diidrotestosterone (DHT). Come conseguenza la differenziazione in senso maschile dei genitali esterni, controllata dal DHT, avviene in modo incompleto. Al contrario l’attività del testosterone induce una normale differenziazione dei genitali interni derivati dai dotti wolffiani (Fig. 59.4). Il recettore per gli androgeni è normalmente presente nelle cellule dei soggetti affetti da deficit di 5--reduttasi. Il difetto è trasmesso con modalità autosomica recessiva. Clinica. Le forme tipiche sono caratterizzate, alla nascita, da scroto bifido, grave ipospadia con uretra che si apre alla base del fallo o pseudovagina a fondo cieco. I testicoli, ben differenziati istologicamente, possono essere situati nello scroto oppure ritenuti nella cavità addominale o nel canale inguinale. Sono presenti l’epididimo, i vasi deferenti, le vescicole seminali e i dotti eiaculatori, che sboccano nella pseudovagina. In sostanza, alla nascita vi è mancata virilizzazione dei soli genitali esterni. In età puberale la secrezione del testosterone è sufficiente ad indurre virilizzazione con comparsa dei caratteri sessuali secondari maschili, senza ginecomastia e con atteggiamento psichico e comportamentale di tipo maschile. Si ha anche l’aumento del fallo e in alcuni pazienti possono aversi eiaculazioni. Il testosterone circolante è a livelli normali per soggetti di sesso maschile, mentre è enormemente elevato il rapporto testosterone/DHT, sia in condizioni basali sia dopo stimolo con HCG. Per l’ambiguità dell’aspetto dei genitali alcuni pazienti vengono considerati maschi alla nascita ed allevati come tali, altri come femmine. In questi ultimi la virilizzazione, in epoca puberale, può creare seri problemi per quanto attiene all’identificazione psicosessuale. B. Pseudoermafroditismo femminile. L’esposizione agli androgeni di un embrione di sesso femminile con corredo cromosomico 46 XX e gonadi femminili provoca mascolinizzazione dei genitali con caratteristiche più o meno spiccate di tipo maschile. Lo pseudoermafroditismo femminile è uno degli stati più frequenti di interses-
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sualità. Nella maggioranza dei casi lo pseudoermafroditismo femminile è causato da un’iperproduzione di androgeni da parte del corticosurrene per un difetto congenito della steroidogenesi da deficit enzimatico. È quanto si verifica nell’iperplasia surrenale congenita (Cap. 58). Come già discusso al capitolo 58, sono possibili diverse varianti in rapporto alle tappe metaboliche interessate. Le carenze enzimatiche responsabili di pseudoermafroditismo femminile sono: il deficit di 21-idrossilasi; il deficit di 11-idrossilasi e quello di 3--idrossisteroido-deidrogenasi (Fig. 59.5). Ricordiamo in breve che il blocco della sintesi di cortisolo determina, attraverso l’iperincrezione di ACTH, l’iperplasia surrenale e l’iperproduzione di precursori ad azione androgena. Più raramente la mascolinizzazione dei genitali può essere prodotta dall’assunzione di farmaci ad azione androgena da parte della madre durante la gravidanza o eccezionalmente dall’insorgenza, durante la gravidanza, di un tumore virilizzante materno.
ALTERAZIONI DEL PROCESSO DI MATURAZIONE SESSUALE Pubertà La pubertà è un periodo di transizione tra l’adolescenza e l’età adulta durante il quale viene raggiunta la completa maturazione dell’apparato riproduttivo. Attraverso varie fasi maturano le gonadi, si sviluppano definitivamente i genitali, compaiono e si completano i caratteri sessuali secondari. La fertilità, vale a dire la capacità di fecondare per i maschi e di essere fecondate per le femmine, segna il raggiungimento della completa maturità sessuale. La fertilità è raggiunta nei maschi con l’emissione di sperma contenente spermatozoi e nelle femmine con la comparsa del primo ciclo mestruale ovulatorio. Anche se i processi di maturazione dell’apparato riproduttivo rappresentano l’evento cardine della pubertà, la descrizione sopra riportata appare riduttiva, in quanto alla maturazione sessuale si associano complesse modificazioni somatiche e psichiche che permettono all’adolescente di acquisire la taglia fisica e le caratteristiche psichiche dell’adulto. I principali cambiamenti che avvengono durante la pubertà possono essere così riassunti: • rapida accelerazione dello sviluppo staturale, come conseguenza dell’effetto stimolante degli ormoni gonadici sulla matrice ossea, con successivo rallentamento ed arresto definitivo per saldatura delle cartilagini di coniugazione tra epifisi e diafisi delle ossa lunghe; • modificazioni della composizione corporea, in conseguenza dello sviluppo dell’apparato scheletrico e muscolare, e dei cambiamenti quantitativi e di distribuzione del tessuto adiposo; • pieno sviluppo dei sistemi cardiovascolare e respiratorio, con aumento della forza fisica e della resistenza allo sforzo;
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• una serie di modificazioni del sistema nervoso che permettono all’adolescente di acquisire l’atteggiamento psichico e comportamentale dell’adulto. L’età di comparsa della pubertà può variare notevolmente in rapporto a fattori ambientali, etnici e sociali. Verosimilmente in rapporto alle migliorate condizioni di vita si è assistito, nell’ultimo secolo, ad una progressiva riduzione dell’età puberale. Attualmente l’età di inizio della pubertà varia generalmente nelle femmine tra gli 8 e i 13 anni e nei maschi tra i 9 e i 14. A. Meccanismi che inducono la maturazione sessuale. L’evolvere in modo armonico dei fenomeni che nel loro insieme caratterizzano la pubertà è strettamente legato all’attivazione del sistema ipotalamo-cellule gonadotrope ipofisarie-gonadi. Anche in epoca prepuberale le cellule gonadotrope e le gonadi sono responsive a stimoli appropriati e il sistema ipotalamo-ipofisi-gonadi è potenzialmente in grado di funzionare. In base ad evidenze cliniche e sperimentali, si ritiene che il sistema ipotalamo-ipofisi-gonadi, durante l’infanzia, sia in una condizione di repressione per azione del SNC. In alcune specie animali (uccelli e rettili) un’azione repressiva di questo tipo è esercitata dalla pineale. Tuttavia l’importanza della pineale sembra sia andata riducendosi con l’evoluzione filogenetica. Anche se sono descritti casi di pubertà precoce associati a tumori destruenti la pineale, in base alle attuali conoscenze non sembra possibile attribuire alla pineale un ruolo fisiologico ben definito nei processi di maturazione sessuale nella specie umana. In base ad evidenze indirette (si veda, per es., Pubertà precoce vera) si ritiene che un ruolo simile venga esercitato dal SNC, anche se non sono noti né l’esatto meccanismo con cui avviene la repressione durante l’infanzia e l’adolescenza né il meccanismo che, rimuovendo l’effetto repressivo, dà inizio ai fenomeni puberali. È tuttavia ben documentata una serie di modificazioni secretorie del sistema ipotalamo-ipofisario che, attraverso fasi successive, portano alla pulsatilità secretoria delle gonadotropine e, nei soggetti di sesso femminile, all’attivazione del centro ciclico. Varie evidenze sperimentali sembrano indicare che il fenomeno iniziale sia rappresentato da un abbassamento della soglia di sensibilità (“gonadostat”) del meccanismo di controregolazione negativa ipotalamo-ipofisi-gonadi. A livello del centro tonico, la sensibilità all’azione inibitoria degli ormoni gonadici è maggiore nell’infanzia e diminuisce all’inizio della pubertà. Nell’infanzia, le quantità assai ridotte di ormoni prodotte dalle gonadi infantili sono in grado di inibire la liberazione di GnRH e la secrezione di gonadotropine. Con l’avvicinarsi dell’età puberale, si verifica una progressiva riduzione delle sensibilità dei recettori del centro tonico all’azione degli steroidi sessuali. Si giunge così ad un momento critico, coincidente con l’inizio della pubertà, in cui gli ormoni gonadici non sono più in grado di inibire l’attività neurosecretoria dell’ipotalamo. Si ha quindi uno spiccato aumento della liberazione di GnRH e delle gonadotropine FSH e LH.
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La conseguente attivazione delle gonadi provoca un aumento degli androgeni e degli estrogeni circolanti, che raggiungono una concentrazione sufficiente ad influenzare nuovamente, a livello ipotalamico, il centro di controregolazione negativo. In tal modo si stabilisce un nuovo equilibrio tra centro tonico e ormoni gonadici, regolato sulla soglia di sensibilità del centro tonico propria della vita adulta. Sempre nel periodo puberale, oltre a variare la sensibilità del sistema ipotalamo-ipofisario alla controregolazione negativa degli ormoni gonadici, aumenta anche la responsività delle cellule gonadotrope ipofisarie al GnRH. La liberazione di LH dopo GnRH, minima nell’infanzia, aumenta nettamente e progressivamente durante le varie fasi dello sviluppo puberale, in ambedue i sessi. La responsività del FSH al GnRH aumenta in modo differenziato nei due sessi, nel senso di un vivace incremento della responsività solo nei soggetti di sesso femminile nei primi stadi della pubertà. Durante la pubertà si osserva anche un aumento della responsività delle gonadi alle gonadotropine, verosimilmente in rapporto ad un effetto di sensibilizzazione (“priming effect”) che l’aumento di LH e FSH circolanti esercita sulle cellule gonadiche. L’aumentata responsività delle cellule gonadotrope al GnRH, associata alla ridotta sensibilità alla controregolazione negativa esercitata dagli steroidi gonadici, si manifesta inizialmente con una secrezione pulsatile di LH nelle ore notturne. Con il progredire della pubertà, i picchi secretori di LH e FSH si fanno più frequenti e compaiono anche nelle ore diurne, sino ad assumere il ritmo pulsatorio, proprio della piena maturità sessuale, caratterizzato da una serie di picchi o polsi secretori (circa 12 per il LH) durante l’intero arco delle 24 ore. Nei soggetti di sesso femminile, durante le fasi più avanzate della maturazione sessuale, che corrispondono agli anni immediatamente successivi al menarca, si sviluppa il meccanismo di controregolazione positivo caratterizzato da una brusca liberazione di LH in risposta al progressivo aumento di estradiolo prodotto dal follicolo ovarico in fase follicolare. Il picco di LH è seguito dalla rottura del follicolo e dalla liberazione dell’uovo fecondabile nella tuba. Lo sviluppo del meccanismo di controregolazione positiva è indispensabile all’ovulazione e quindi all’attività riproduttiva della donna. B. Adrenarca. La produzione di steroidi androgeni, deidroepiandrosterone (DHEA), DHEA-S e androstenedione, da parte della corteccia surrenale, aumenta intorno ai 6-8 anni nei ragazzi di ambo i sessi e si evidenzia con un aumento dei 17-chetosteroidi eliminati con le urine. Questo fenomeno, noto come adrenarca, avviene in genere circa 2 anni prima dell’aumento della secrezione delle gonadotropine e degli steroidi sessuali di origine gonadica (gonadarca). È stata postulata l’esistenza di un ormone trofico ipofisario stimolante la secrezione degli androgeni surrenali (AASH, Adrenal Androgen Stimulating Hormone) la cui aumentata produzione eserciterebbe, insieme all’aumento degli androgeni surrenali, un ruolo di rilievo nella genesi dei fenomeni puberali. Tut-
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tavia, la mancata identificazione dell’AASH, insieme alle successive conoscenze sulla dinamica secretoria del sistema ipotalamo-ipofisi-gonadi, di cui sopra abbiamo detto, hanno rimesso in discussione l’importanza del fenomeno. Non sembra attualmente sostenibile che, nei soggetti normali, l’aumento degli steroidi sessuali di origine surrenale rivesta un ruolo determinante nello sviluppo puberale, al di là dell’induzione della crescita dei peli pubici e ascellari nella donna.
Pubertà precoce Si considera precoce lo sviluppo sessuale prima degli 8-9 anni nella femmina e dei 9-10 nel maschio. Quando i caratteri sessuali si sviluppano in modo appropriato rispetto al sesso genetico e gonadico, vale a dire con segni di virilizzazione nel maschio e di femminizzazione nella femmina, si parla di pubertà precoce isosessuale. Quando invece si sviluppano caratteristiche sessuali discordanti dal sesso genetico si parla di pubertà precoce eterosessuale. In base ai momenti patogenetici ed alle caratteristiche cliniche si distinguono tre forme di pubertà precoce (Tab. 59.3). • Pubertà precoce vera, causata da una prematura maturazione del sistema ipotalamo-ipofisi-gonadi. • Pseudopubertà precoce, causata dalla produzione di steroidi sessuali da parte delle gonadi o del surrene in modo autonomo, svincolato dal controllo ipotalamo-ipofisario. Può essere provocata anche da produzione ectopica di HCG da parte di neoplasie di organi endocrini (microcitomi, epatomi, ecc.; Cap. 61). • Pubertà precoce incompleta, causata, verosimilmente, da un’aumentata responsività di alcuni tessuti periferici agli ormoni sessuali prodotti in quantità fisiologica. A. Pubertà precoce vera. La precoce maturazione del sistema ipotalamo-ipofisi-gonadi può essere causata da varie lesioni del sistema nervoso centrale, in particolare della regione ipotalamica posteriore: tumori ipotalamici o della pineale, amartomi, craniofaringiomi, idrocefalo, lesioni postencefalitiche, neurofibromatosi, difetti congeniti, infiltrazioni granulomatose, istiocitosi X. Tabella 59.3 - Cause di pubertà precoce. • Pubertà precoce vera – Idiopatica o costituzionale – Malattie organiche del SNC – Sindrome di McCune-Albright • Pseudopubertà precoce – Tumori delle gonadi (ovarici o testicolari) – Tumori surrenali – Iperplasia surrenale congenita da defict di 11- o di 21-idrossilasi • Pubertà precoce incompleta – Telarca – Pubarca
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Nella sindrome di McCune-Albright, caratterizzata da displasia fibrosa ossea diffusa, chiazze di pigmentazione cutanea color caffelatte e pubertà precoce, non è noto il meccanismo che attiva il sistema ipotalamo-ipofisario. Si prospetta generalmente la possibilità che la deformazione delle ossa della base cranica provochi, attraverso un effetto pressorio locale, una cronica stimolazione dell’ipotalamo. Recentemente sono stati riportati casi di sindrome di McCune-Albright con iperfunzione ovarica primitiva, e quindi con pseudopubertà precoce. Nella maggioranza dei casi di pubertà precoce vera, specie in soggetti di sesso femminile, non si riesce per altro a identificare la causa della precoce maturazione sessuale. Anche le più accurate e moderne indagini neuroradiologiche non evidenziano alterazioni anatomiche dell’encefalo. In questa condizione, nota come pubertà precoce vera idiopatica sono verosimilmente in gioco alterazioni di ordine funzionale dei meccanismi nervosi che reprimono, durante l’infanzia, l’attivazione del sistema ipotalamo-ipofisi-gonadi. La pubertà precoce è sempre isosessuale; la maturazione delle gonadi e dei genitali e lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari avviene quindi sempre in senso concordante con il sesso genetico. Nelle femmine possono comparire cicli mestruali e nei maschi si ha spermatogenesi. La sequenza degli eventi puberali è quindi sovrapponibile a quella fisiologica, ma avviene precocemente. Sul piano clinico, le conseguenze della pubertà precoce vera variano in rapporto all’eziologia. Nelle forme causate da una malattia organica del SNC la gravità è strettamente collegata alla natura del processo patologico di base, alla sua sede ed alla possibilità di asportazione chirurgica. Nei casi di pubertà precoce vera idiopatica le conseguenze riguardano soprattutto l’arresto precoce dell’accrescimento staturale per saldatura delle cartilagini di coniugazione e i problemi di ordine psicologico che il bambino deve affrontare nei rapporti con i coetanei. Nelle forme di pubertà precoce sintomatica la terapia è indirizzata alla malattia di base. Nelle forme idiopatiche si impiegano vari mezzi farmacologici nel tentativo di bloccare il sistema ipotalamo-ipofisi. Il progesterone acetato, in dosi farmacologiche, è il farmaco più largamente usato. Poiché i risultati non sono sempre soddisfacenti sono state proposte altre sostanze sulla cui efficacia esiste ancora un’esperienza limitata: il danazolo, un inibitore della secrezione gonadotropinica; gli analoghi del GnRH ad azione protratta, che inibiscono funzionalmente il sistema ipotalamoipofisi-gonadi abolendo la pulsatilità secretoria di GnRH e gonadotropine; il chetoconazolo, un derivato imidazolico abitualmente usato come antimicotico, che inibisce la sintesi steroidea. B. Pseudopubertà precoce. Nella pseudopubertà precoce la produzione di steroidi sessuali provoca manifestazioni, in genere molto evidenti, di maturazione sessuale, caratterizzate dal contrasto tra lo sviluppo dei genitali e dei caratteri sessuali secondari e l’immaturità
delle gonadi. L’eccesso di ormoni gonadici presenti in circolo blocca infatti la secrezione gonadotropinica e inibisce lo sviluppo delle gonadi. Si ha pertanto costantemente infertilità, con assenza di cicli nelle femmine e azoospermia nei maschi. Gli ormoni sessuali prodotti in eccesso possono essere concordanti con il sesso genetico (pseudopubertà precoce isosessuale) oppure può aversi un’eccessiva produzione di estrogeni in soggetti maschi, con inappropriata femminizzazione, o di androgeni in soggetti di sesso femminile, con inappropriata virilizzazione (pseudopubertà precoce eterosessuale). Nel maschio la pseudopubertà precoce isosessuale può essere causata da tumori del testicolo o del surrene oppure da iperplasia surrenale congenita, dovuta a deficit di 21- o 11-idrossilasi. Sono descritti anche casi secondari a produzione ectopica di HCG da parte di neoplasie di organi non endocrini (microcitoma polmonare, epatoma ed altri, Cap. 61). Anche i rari tumori secernenti estrogeni e causanti femminizzazione possono essere di origine testicolare o surrenale. La pseudopubertà precoce isosessuale è caratterizzata, nel maschio, da un precoce sviluppo dei genitali e dall’accrescimento staturale (macrogenitosomia), in contrasto con la presenza di testicoli piccoli di tipo infantile. Nella femmina la pseudopubertà precoce isosessuale è provocata da tumori ovarici secernenti estrogeni. La pseudopubertà precoce eterosessuale, caratterizzata da abnorme sviluppo del clitoride e da altri segni di virilizzazione, è causata da tumori surrenalici o da iperplasia surrenale congenita da deficit di 11- o 21-idrossilasi. C. Pubertà precoce incompleta. La pubertà precoce incompleta è caratterizzata dalla comparsa prematura di qualche carattere sessuale secondario isolato, in assenza di altri segni di maturazione sessuale. Le forme più frequenti sono il telarca, sviluppo delle mammelle nelle femmine, e il pubarca, sviluppo dei peli pubici. Quando telarca e pubarca compaiono isolatamente, in assenza di altri segni di sviluppo sessuale e/o di alterazione dell’assetto ormonale, devono essere considerati anomalie di sviluppo prive di importanza clinica. Si ritiene siano espressione di un’aumentata responsività dei tessuti bersaglio agli ormoni sessuali, secreti in concentrazione fisiologica, anche se mancano prove sicure in tal senso.
Pubertà ritardata o assente Un ritardo puberale deve essere preso in considerazione quando manca ogni segno di maturazione sessuale nei ragazzi al di sopra dei 16 anni o nelle ragazze al di sopra dei 14 anni. È in genere difficile o impossibile distinguere un ritardo puberale causato da un deficit del sistema ipotalamo-ipofisi-gonadi da una pubertà differita su base costituzionale o eredo-familiare. La maggior parte delle alterazioni del sistema ipotalamo-ipofisi-gonadi di origine centrale (Cap. 56) non dà infatti manifestazioni significative prima della pubertà, e i test dinamici propo-
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sti (risposte del LH e del FSH al GnRH; ridotta risposta della PRL al TRH nel deficit isolato di gonadotropine) non sempre permettono di differenziare queste due condizioni. Anche malattie di ordine generale che comportino stati malnutritivi e/o dismetabolici possono ritardare la pubertà, ma solo eccezionalmente possono impedire la fisiologica maturazione dell’apparato genitale. L’assenza di sviluppo puberale è sempre causata da un’insufficienza delle gonadi. Questa può essere secondaria ad una malattia ipotalamo-ipofisaria o ad una malattia primitiva delle gonadi, congenita o insorta in età prepuberale. Anche nell’iperplasia surrenale congenita da deficit della 17-idrossilasi si hanno amenorrea primaria nelle femmine e assenza di virilizzazione nel maschio, in quanto il blocco della steroidogenesi coinvolge anche le gonadi. La carenza di ormoni gonadici in età puberale comporta infantilismo dei genitali, assenza dei caratteri sessuali secondari ed un particolare sviluppo scheletrico caratterizzato da alta statura con arti sproporzionatamente lunghi rispetto al tronco. Questo quadro clinico, nel maschio, va sotto il nome di “eunucoidismo”. In realtà le conseguenze dell’insufficienza gonadica sono assai più appariscenti nel maschio, nel quale sono assai evidenti l’infantilismo dei genitali, l’assenza della barba, lo scarso sviluppo dell’apparato pilifero e delle masse muscolari, la cute sottile, l’adiposità sulle anche di tipo femminile, la voce a tonalità alta. Nella donna, a parte l’alta statura con arti lunghi e lo scarso sviluppo pilifero, gli altri caratteri tipologici dell’eunucoidismo (voce alta, adiposità sulle anche, ecc.) sono già naturalmente presenti.
Ginecomastia La ginecomastia è una condizione caratterizzata da un abnorme sviluppo del tessuto mammario, in soggetti di sesso maschile. La prominenza di vario grado delle mammelle ricorda, grossolanamente, l’aspetto che si osserva nella donna. Si tratta di una condizione assai frequente, specie in età puberale, che deve essere distinta, mediante l’esame obiettivo, dalla pseudoginecomastia, causata dall’accumulo di adipe in regione mammaria nei soggetti obesi. Basta palpare la mammella per apprezzare, nella ginecomastia, il tessuto ghiandolare, ben delimitato dai tessuti circostanti; al contrario nella pseudoginecomastia il tessuto ghiandolare è del tutto assente e si apprezza solo tessuto adiposo. Nella maggior parte dei casi la ginecomastia è dovuta a cause fisiologiche o all’assunzione di farmaci. Le ginecomastie patologiche sono più rare e rappresentano comunque solo un sintomo che può associarsi ad una numerosa serie di condizioni morbose (Tab. 59.4). In tutti i casi, analogamente a quanto avviene nella donna, lo sviluppo del tessuto mammario è mediato dagli estrogeni, ed è quindi espressione di un’alterazione del rapporto androgeni/estrogeni nel plasma o a livello del tessuto mammario stesso.
Il rapporto tra testosterone ed estradiolo circolanti è, nell’uomo adulto, assai elevato: 3-11 ng/ml rispetto a 550 pg/ml. Quando questo rapporto diminuisce in modo significativo, si hanno fenomeni di femminizzazione di cui la ginecomastia rappresenta la manifestazione più precoce ed evidente. Il rapporto effettivo androgeni/estrogeni può diminuire per ridotta sintesi degli androgeni o per ridotta utilizzazione periferica del testosterone, oppure per aumento della sintesi di estrogeni. Ricordiamo che la produzione di estradiolo, nei soggetti di sesso maschile, avviene principalmente a livello dei tessuti periferici per conversione dell’androstenedione. A. Ginecomastie fisiologiche. Nel neonato può essere presente ginecomastia in rapporto all’esposizione agli estrogeni di origine materna o placentare durante la vita fetale. Il fenomeno scompare in poche settimane. La ginecomastia puberale è la forma di più comune osservazione; compare in un numero rilevante di adolescenti, durante la pubertà e scompare spontaneamen-
Tabella 59.4 - Principali cause di ginecomastia. Ginecomastie fisiologiche • Ginecomastia del neonato • Ginecomastia puberale • Ginecomastia dell’anziano Ginecomastie patologiche • Ridotta sintesi o difetto dell’azione periferica del testosterone – Sindrome di Klinefelter – Anorchia congenita – Sindromi da resistenza periferica agli androgeni (sindrome di Reifenstein; femminizzazione testicolare) – Difetti della biosintesi del testosterone per carenze enzimatiche (pseudoermafroditismi maschili) – Ipogonadismi acquisiti (orchiti, traumi, ecc.) • Aumentata produzione di estrogeni – Tumori surrenali femminizzanti – Ermafroditismo vero – Tumori testicolari • Aumento di steroidi che vengono aromatizzati alla periferia – Malattie surrenali – Insufficienza epatica – Inanizione cronica – Ipertiroidismo • Aumento degli enzimi aromatizzanti Ginecomastie da farmaci • Estrogeni ed altre sostanze con azione e struttura estrogeno-simile – Derivati estrogenici, digitale, metaboliti della vitamina D • Inibitori della sintesi di testosterone – Agenti alchilanti, chetoconazolo, analoghi del GnRH) • Farmaci bloccanti il recettore androgenico – Spironolattone, cimetidina • Farmaci che agiscono con meccanismo non noto – Isoniazide, etionamide, metildopa, antidepressivi triciclici ed altri • Marijuana, eroina
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te con il raggiungimento della piena maturità sessuale. Spesso è unilaterale. La ginecomastia può comparire in soggetti anziani; in questi pazienti è talora difficile stabilire se lo sviluppo mammario sia espressione di una primitiva alterazione endocrina o sia piuttosto dovuto all’assunzione di farmaci o ad insufficienza epatica. B. Ginecomastie patologiche. Le singole condizioni morbose che, attraverso una ridotta produzione di androgeni o un difetto della loro utilizzazione periferica, causano ginecomastia sono state descritte nell’ipogonadismo e nello pseudoermafroditismo maschile. Un primitivo aumento della produzione di estrogeni può essere causato da: tumori del testicolo, in particolare tumori delle cellule di Sertoli; presenza di cellule ovariche nelle gonadi, come nell’ermafroditismo vero; tumori surrenali femminizzanti. Un’aumentata conversione periferica degli androgeni in estrogeni può realizzarsi in una numerosa serie di condizioni patologiche in cui si abbia una maggior disponibilità del substrato (androstenedione) utilizzabile per l’aromatizzazione. Questo può essere dovuto ad aumento della sintesi di androstenedione (iperplasia surrenale congenita, tumori surrenali, ipertiroidismo) oppure a una ridotta utilizzazione (insufficienza epatica). Un aumento primitivo dell’aromatasi periferica può verificarsi eccezionalmente per un’anomalia ereditaria o in pazienti con neoplasie epatiche. Si può osservare ginecomastia anche in pazienti con neoplasie secernenti HCG. Gli stati iperprolattinemici, che nella donna provocano galattorrea, nell’uomo provocano ipogonadismo, ma solo eccezionalmente ginecomastia. L’eventualità di una ginecomastia unilaterale, causata dalla proliferazione in senso neoplastico del tessuto ghiandolare, deve essere considerata, ma è eccezionale nell’uomo. È entrato nell’uso comune l’esame ecografico che, oltre a permettere di differenziare la ginecomastia vera dal tessuto adiposo della pseudoginecomastia o da formazioni extramammarie, permette anche di evidenziare la presenza di forme neoplastiche. Sono anche descritti criteri semeiologici per porre una corretta diagnosi differenziale: la neoformazione (lipoma, neurofibroma o carcinoma) è solitamente localizzata in sede periferica, mentre la ginecomastia è tipicamente subareolare. C. Ginecomastie da farmaci. Una numerosa serie di sostanze può provocare ginecomastia con meccanismi diversi. Vengono generalmente distinte sostanze che agiscono direttamente sul tessuto mammario con un’azione estrogenosimile (estrogeni, dietilstilbestrolo, digitale) e sostanze che inibiscono la sintesi (agenti alchilanti) o che competono a livello ricettoriale con il testosterone (spironolattone, cimetidina). Per molti farmaci il meccanismo d’azione non è definito. Anche l’uso di marijuana e di eroina può causare ginecomastia associata a riduzione del testosterone e aumento dell’estradiolo circolante. D. Approccio diagnostico e terapeutico. Una definizione eziologica della ginecomastia, mediante i co-
muni dosaggi ormonali, è insoddisfacente nella maggior parte dei pazienti, in quanto le tecniche diagnostiche, di uso clinico corrente, non sono sufficientemente sensibili a documentare modeste variazioni del ritmo secretorio del testosterone e dell’estradiolo e dell’utilizzazione periferica degli androgeni. L’approccio diagnostico più utile è quello clinico. È necessario innanzitutto distinguere le ginecomastie fisiologiche e da farmaci da quelle patologiche. Ciò può essere fatto, in modo semplice, mediante un’accurata anamnesi farmacologica e una valutazione clinica complessiva che consideri in particolare l’età del paziente (ginecomastia puberale); la rapidità di accrescimento del tessuto mammario (tensione locale); la presenza di altri segni di ipoandrogenismo (ipotrofia delle gonadi, malformazione dei genitali); la presenza di malattie di ordine generale ed in particolare di insufficienza epatica. Viene in tal modo selezionato un numero ristretto di pazienti nei quali esiste l’indicazione per procedere ad un’accurata valutazione endocrinologica e alle indagini strumentali e/o specialistiche necessarie ad individuare la malattia di base (Tab. 59.4). La ginecomastia puberale e quella da farmaci non richiedono alcun trattamento. Si tratta di condizioni transitorie e benigne che devono essere in genere sdrammatizzate in quanto sopravvalutate dai pazienti e dai loro familiari. Nelle ginecomastie patologiche la terapia è rivolta alla malattia di base. La mastectomia si impone naturalmente nelle forme unilaterali in cui si sospetti una neoplasia. La correzione chirurgica è indicata, inoltre, nei casi in cui la condizione di base non sia individuabile o correggibile e la ginecomastia crei al paziente problemi psicologici e/o difficoltà ambientali.
MALATTIE DEL TESTICOLO Premesse di ordine generale Il parenchima dei testicoli è formato da due componenti, anatomicamente distinte e con funzioni differenziate: • i tubuli seminiferi, che contengono le cellule germinali, in vario stadio di maturazione, e le cellule di Sertoli; • il tessuto interstiziale, contenente le cellule di Leydig o cellule interstiziali, che producono e secernono ormoni androgeni, in particolare il testosterone che rappresenta il principale ormone prodotto dal testicolo. Le due componenti del testicolo sono correlate funzionalmente ed integrate nel sistema ipotalamo-ipofisigonadi. Nel lume dei tubuli seminiferi sono presenti, nell’adulto, le cellule germinali e le cellule di Sertoli. Le cellule germinali più immature, gli spermatogoni, si trovano nella parte più esterna dei tubuli, subito a ridosso della parete; man mano che le cellule maturano trasformandosi da spermatogoni in spermatociti, spermatidi ed infine in spermatozoi, tendono a spostarsi verso il
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centro del tubulo. Nel lume dei tubuli si trovano in grande prevalenza spermatozoi. All’interno dei tubuli, a contatto diretto con la membrana basale, si trovano anche le cellule di Sertoli di cui, solo recentemente, sono stati chiariti i molteplici aspetti funzionali. Le cellule di Sertoli rappresentano un elemento essenziale all’organizzazione strutturale dei tubuli seminiferi, e, nello stesso tempo, grazie alla loro attività secretoria, provvedono a creare un ambiente ottimale per la maturazione delle cellule germinali. A livello della membrana basale le cellule di Sertoli sono strettamente connesse tra loro formando una barriera “emato-tubulare” che impedisce il passaggio di materiale proteico e di altri metaboliti dal tessuto interstiziale all’interno del tubulo. Il processo citoplasmatico delle cellule di Sertoli si estende invece verso il centro del tubulo e funge da supporto alle cellule germinali che, durante le fasi della maturazione, migrano dalla base verso il lume del tubulo. Inoltre le cellule di Sertoli, attraverso un processo attivo di fagocitosi, provvedono a rimuovere una quota di cellule germinali danneggiate. L’attività secretoria delle cellule di Sertoli, regolata dal FSH, si esplica con la produzione di due polipeptidi: l’inibina e l’Androgen Binding Protein (ABP). Quest’ultima è una proteina con alta affinità per gli androgeni che lega il testosterone prodotto dalle cellule di Leydig, veicolandolo direttamente a livello delle cellule germinali di cui il testosterone stimola, insieme al FSH, la maturazione. La presenza di questa proteina legante è indispensabile a mantenere un’elevata concentrazione di testosterone all’interno del tubulo. L’azione dell’inibina si esplica a livello ipofisario dove inibisce elettivamente la secrezione di FSH (Cap. 56). Le cellule di Leydig producono circa il 95% del testosterone nel soggetto adulto normale; la quota restante è prodotta dal corticosurrene. Oltre al testosterone il testicolo secerne direttamente altri steroidi: piccole quantità del potente diidrotestosterone (DHT); due deboli androgeni: il deidroepiandrosterone (DHEA) e l’androstenedione, di origine prevalentemente surrenale; gli estrogeni estradiolo ed estrone. Circa l’80% del DHT e dell’estradiolo circolanti non derivano dalla secrezione testicolare diretta, ma dalla trasformazione periferica del testosterone. A. Funzioni fisiologiche e meccanismo d’azione del testosterone. Le attuali conoscenze sui meccanismi attraverso i quali il testosterone esplica le sue azioni fisiologiche sono schematicamente riportate nella figura 59.7. Il testosterone libero presente in circolo penetra con un meccanismo di diffusione passiva nell’interno della cellula bersaglio. Nel citoplasma delle cellule il testosterone può andare incontro a due diversi processi: legarsi al recettore per gli androgeni formando un complesso testosterone recettore (T-R) oppure essere ridotto a diidrotestosterone (DHT) dall’enzima 5--reduttasi. Anche il DHT si lega al recettore androgenico formando un complesso DHT-R. Testosterone e DHT si legano al medesimo recettore, una proteina a grosso peso molecolare presente nel citosol cellulare. I complessi ormone-
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recettore penetrano nel nucleo e si legano alla cromatina, dove stimolano la trascrizione di RNA messaggero e quindi la sintesi di nuovo materiale proteico. Nonostante testosterone e diidrotestosterone si leghino allo stesso recettore e abbiano uno stesso meccanismo d’azione a livello della cromatina nucleare, i due ormoni hanno ruoli distinti nella regolazione fisiologica dell’apparato riproduttivo. Il testosterone regola la produzione di LH attraverso il meccanismo di controregolazione negativa a livello ipotalamo-ipofisario; induce la differenziazione dei genitali interni dai dotti di Wolff durante la vita fetale; promuove la spermatogenesi. Il diidrotestosterone è responsabile della differenziazione dei genitali esterni e della prostata durante la vita fetale e, in concorso con il testosterone, stimola la maturazione dell’apparato genitale e la comparsa dei caratteri sessuali secondari in epoca puberale. Nel maschio adulto gli androgeni sono indispensabili a mantenere la libido e la potenza. Al di fuori dell’apparato riproduttivo, gli androgeni esercitano una azione di stimolo sulla sintesi proteica con positivizzazione del metabolismo azotato. Questa attività anabolizzante è più evidente sull’apparato muscolare e sul tessuto eritropoietico, tanto da essere utilizzata anche a scopo terapeutico. Anche sull’apparato scheletrico dell’adulto gli androgeni esercitano un’azione trofica; la carenza di testosterone si associa costantemente ad una riduzione della massa del tessuto osseo, nota clinicamente come osteoporosi. Durante la pubertà l’azione del testosterone sull’apparato scheletrico è più complessa, in quanto all’inizio della pubertà l’ormone, stimolando la matrice ossea, promuove l’accrescimento, staturale, ma successivamente l’apposizione del tessuto osseo neoformato sulle cartilagini di coniugazione blocca l’ulteriore accrescimento staturale. Il testosterone influenza anche il comportamento del soggetto: per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti di individui dell’altro sesso, stimola la pulsione verso l’accoppiamento (libido); al di fuori della sfera sessuale, induce un atteggiamento di competitività e aggressività nell’ambito dei rapporti con l’ambiente. Questi effetti sono legati ad un’azione del testosterone a livello del sistema limbico in cui sono contenuti i centri nervosi che presiedono, oltre al comportamento sessuale, alle reazioni istintive e di tipo emotivo come la rabbia, la paura, ecc. A livello del SNC il testosterone agisce solo previa trasformazione in estradiolo, in quanto le cellule del sistema nervoso, in particolare a livello limbico, contengono in grande prevalenza recettori per gli estrogeni. B. Regolazione secretoria. L’attività funzionale del testicolo, sia per quanto concerne la secrezione endocrina che per quanto riguarda la spermatogenesi, è integrata dal sistema GnRH-gonadotropine-gonadi (Fig. 56.7); possono distinguersi un asse GnRH-LH-cellule di Leydig (testosterone) e un asse GnRH-FSH-tubuli seminiferi (inibina). 1. Asse GnRH-LH-testosterone. L’attività delle cellule di Leydig è controllata dal LH che stimola la se-
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59 - MALATTIE DELLE GONADI
Regolazione delle gonadotropine
LH
+R T
RD 5
plasma
Stimolazione dei dotti di Wolff
TR
T DHT
Virilizzazione dei genitali esterni
DHTR +R
Regolazione del sistema ipotalamo-ipofisigonadi
Differenziazione sessuale
NUCLEO
Testicolo Cellula bersaglio Maturazione sessuale
Sviluppo puberale
Figura 59.7 - Meccanismo d’azione del testosterone a livello cellulare e principali effetti fisiologici. T = testosterone; DHT = diidrotestosterone; R = recettore androgenico; 5RD = 5--reduttasi.
crezione di testosterone. Il LH è noto anche come IC-SH (Interstitial Cell Stimulating Hormone), in quanto, sino ad alcuni anni fa, si riteneva che l’ormone stimolante le cellule interstiziali del testicolo fosse diverso dal LH presente nella donna. L’incremento dei livelli circolanti di testosterone inibisce, con un meccanismo di controregolazione negativa, la secrezione di LH mediante un’azione diretta sull’ipofisi ed un effetto inibitorio sull’ipotalamo, mediato dall’estradiolo, che si forma localmente dal testosterone. 2. Asse GnRH-FSH-tubuli seminiferi. Il FSH si lega a recettori specifici sulle cellule di Sertoli e stimola la produzione della proteina legante gli androgeni (Androgen Binding Protein), una molecola che per la sua elevata affinità per gli androgeni mantiene un’alta concentrazione di testosterone all’interno dei tubuli seminiferi. Il FSH, per un’azione diretta e per l’effetto mediato dall’Androgen Binding Protein, induce e mantiene la spermatogenesi. L’inibina, una molecola non steroidea prodotta dalle cellule di Sertoli, inibisce la secrezione di FSH. Anche il testosterone, il DHT e l’estradiolo inibiscono la liberazione di FSH; si ritiene, peraltro, che l’azione inibente il FSH degli steroidi gonadici abbia scarsa rilevanza in condizioni fisiologiche e si esplichi solo con dosi farmacologiche di queste sostanze.
produzione di testosterone, oltre ad ipoandrogenismo, provoca anche ipofunzione dei tubuli seminiferi. Le numerose cause di ipogonadismo maschile sono riportate nella tabella 59.5; possono essere raggruppate in tre categorie: • ipogonadismi primitivi causati da una malattia testicolare primitiva; • ipogonadismi secondari o ipoganodotropi causati da disturbi della regolazione ipotalamo-ipofisaria; • ipogonadismi da totale o parziale resistenza dei tessuti periferici all’azione degli androgeni. Degli ipogonadismi secondari e di quelli da androgeno-resistenza abbiamo già discusso. Anche dell’ipogonadismo associato a sindromi iperprolattinemiche abbiamo detto nel capitolo 56. Gli ipogonadismi primitivi vengono distinti in congeniti e acquisiti; questa suddivisione non ha solo valore nosografico ma risponde ad esigenze pratiche in quanto la carenza di androgeni ha ripercussioni cliniche assai diverse in rapporto all’epoca di insorgenza (Tab. 59.6).
Ipogonadismo maschile
A. Ipogonadismi primitivi congeniti. Delle disgenesie gonadiche e delle alterazioni della differenziazione dei genitali (pseudoermafroditismi maschili) dipendenti da un’alterata funzione testicolare stabilitasi nella vita fetale abbiamo già parlato. Tra le altre forme, ne ricordiamo solo alcune di maggior interesse.
Con la definizione di ipogonadismo maschile si intende una condizione clinica caratterizzata da una ridotta funzionalità dei testicoli. L’ipogonadismo può essere: globale se il difetto interessa sia la componente interstiziale che quella tubulare; parziale se interessa la sola componente tubulare. Nel primo caso si hanno manifestazioni cliniche di ipogonadismo e sterilità; al contrario, nell’insufficienza tubulare isolata si ha solo sterilità senza segni di ipoandrogenismo. La possibilità di un ipogonadismo parziale, da compromissione della sola componente interstiziale, è teorica, in quanto la carente
B. Criptorchidismo. È una condizione caratterizzata dall’assenza di uno o ambedue i testicoli dal sacco scrotale, per mancata discesa dalla cavità addominale durante la vita fetale. Si tratta di una condizione assai frequente, presente in oltre il 3% dei maschi alla nascita. Poiché in molti casi il testicolo ritenuto tende a discendere spontaneamente nello scroto nei primi mesi di vita, l’incidenza si riduce allo 0,2-0,8% alla fine del primo anno. Il testicolo può essere ritenuto nel canale inguinale o, più raramente, nella cavità addominale o in sede ectopica.
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Tabella 59.5 - Principali cause di ipogonadismo maschile. Ipogonadismi primitivi Congeniti • Con anomalie del cariotipo – Sindrome di Klinefelter e sue varianti • Con cariotipo normale – Pseudoermafroditismo maschile – Agenesia testicolare (“vanishing testes syndrome”) – Agenesia delle cellule seminali (“Sertoli cell only syndrome”) – Sindrome di Noonan (o s. di Ullrich, o s. di Turner maschile) – Criptorchidismo Acquisiti • Insufficienza delle cellule seminali da agenti infettivi e tossici • Postorchitici • Da radiazioni • Da farmaci • Castrazione • Emocromatosi • Malattie vascolari • Malattie neurologiche • Distrofia miotonica o sindrome di Steinen • Sindrome di Alström • Sindrome di Kartagener • Insufficienza renale grave • Insufficienza delle cellule di Leydig nell’adulto • Insufficienza delle cellule seminali nell’adulto Ipogonadismi secondari o ipogonadotropi • Panipopituitarismo – Carenza isolata di gonadotropine (eunucoidismo ipogonadotropo, sindrome di Kallmann) – Carenza isolata di LH (eunucoidismo fertile) – Sindrome di Laurence-Moon-Biedl – Sindrome di Prader-Willi e simili – Sindrome cerebellare familiare – Tumori ipofisari – Malattie ipotalamo-ipofisarie non tumorali – Sindromi iperprolattinemiche – Malattie croniche* – Malnutrizione* Ipogonadismi da androgeno-resistenza • Sindrome di Morris o femminizzazione testicolare completa • Femminizzazione testicolare incompleta • Sindrome di Reifenstein
La mancata discesa dei testicoli nella sede fisiologica può essere dovuta a cause meccaniche o a carenza ormonale. Come abbiamo detto nei paragrafi relativi, il criptorchidismo è particolarmente frequente nelle sindromi da difetto della biosintesi del testosterone, in quelle da resistenza agli androgeni e nella sindrome di Kallmann. L’esame istologico dei tessuti ritenuti può mostrare un grado variabile di ipoplasia dei tubuli seminiferi, fino ad arrivare all’atrofia degli stessi, caratterizzata da un notevole ispessimento della membrana basale e dalla presenza di sole cellule di Sertoli; le cellule di Leydig sono in alcuni casi presenti in quantità normale, in altri casi possono andare incontro ad iperplasia. Le alterazioni delle cellule germinali sono assai precoci e tendono a regredire solo parzialmente con riposizione chirurgica del testicolo nello scroto. Non è pertanto chiaro se le anomalie tubulari siano causate dall’anomala situazione anatomica del testicolo, in particolare dalla maggior temperatura presente nel canale inguinale e nell’addome, oppure da un’intrinseca anormalità del tessuto gonadico. Clinicamente non si notano anomalie dei genitali o disturbi dell’accrescimento; l’esame obiettivo dimostra che lo scroto contiene un solo testicolo o è del tutto disabitato nelle forme bilaterali. Spesso è possibile apprezzare il testicolo ritenuto nel canale inguinale. Bisogna sempre porre attenzione alla possibilità che l’assenza del testicolo in posizione scrotale sia dovuta a risalita del testicolo nel canale inguinale per iperattività del riflesso cremasterico (pseudocriptorchidismo). Questa evenienza è rilevabile più frequentemente nei bambini intorno ai 5-6 anni di età se visitati in ambienti non sufficientemente riscaldati. In età postpuberale, nei soggetti non trattati, si ha oligospermia. Le principali conseguenze del criptorchidismo sono rappresentate dall’infertilità e dall’elevato rischio di degenerazione neoplastica del testicolo ritenuto. L’incidenza dell’infertilità è assai più elevata nelle forme bilaterali e nei soggetti operati di orchidopessi dopo la pubertà. Il rischio di degenerazione neoplastica (seminoma) è particolarmente elevato nei testicoli ritenuti nella cavità addominale. Per tutte queste ragioni è preferibile correggere precocemente il criptorchidismo, attuando, attorno al secondo anno di età, un trattamento con gonadotropina corionica oppure con GnRH. In caso di insuccesso della terapia medica è necessario riporre chirurgicamente il testicolo nel sacco scrotale.
* Transitorie.
Tabella 59.6 - Conseguenze della carenza di androgeni in rapporto all’epoca di comparsa. DURANTE LA VITA FETALE
NELL’EPOCA PREPUBERALE
Genitali ambigui
Ipogonadismo con aspetto eunucoide
NELL’ADULTO Ipoandrogenismo
C. Agenesia testicolare o “vanishing testes syndrome”. È una condizione caratterizzata da assenza di tessuto testicolare in soggetti fenotipicamente maschi. Poiché la secrezione di testosterone da parte del testicolo fetale è indispensabile ad una corretta differenziazione dei genitali ed il processo di differenziazione si completa nelle prime 14-16 settimane di vita embrionaria, si ritiene che questa condizione sia causata da un evento lesivo (infezione, insufficienza vascolare) che colpisce il testicolo fetale dopo la 16a settimana di gestazione. Di qui il nome di “vanishing testes”, che indica un testicolo inizialmente normale che poi è svanito, per
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59 - MALATTIE DELLE GONADI
una causa ignota. I pazienti sono fenotipicamente maschi ed hanno uno sviluppo normale. L’assenza di testicoli nello scroto viene inizialmente attribuita a criptorchidismo, ma all’esplorazione chirurgica non si riesce a reperire tessuto testicolare. In accordo con questo rilievo anatomico, il testosterone plasmatico è estremamente basso e non responsivo a stimolo con HCG, mentre la concentrazione di LH e FSH è aumentata. In età puberale non vi è alcun segno di virilizzazione. D. Sindrome di Noonan (sindrome di Turner maschile, pseudo-Turner, sindrome di Ullrich). Questa condizione è caratterizzata dall’associazione di ipogonadismo ed alterazioni somatiche similturneriane in assenza di anomalie cromosomiche. Solo negli ultimi anni la sindrome di Noonan è stata caratterizzata nei suoi aspetti genetici e clinici. Si tratta di una condizione non rara che interessa ambedue i sessi e raggruppa i casi prima descritti come: Turner maschile, pseudo-Turner, fenotipo turneriano con XX o con XY, sindrome di Ullrich ed altri. In una rilevante quota di casi, la malattia ha carattere familiare con trasmissione autosomica dominante ad espressività assai variabile; nei familiari “non affetti” spesso è rilevabile qualche tratto della sindrome in forma sfumata. Nei casi sporadici si ritiene che la sindrome sia causata da un gene mutante. I pazienti presentano caratteristiche somatiche in parte sovrapponibili a quelle della sindrome di Turner; in particolare, bassa statura e collo palmato. Tuttavia, alcuni caratteri fisionomici conferiscono alla facies un aspetto particolare: l’ipertelorismo e l’ipoplasia della mandibola danno un aspetto a triangolo rovesciato al volto, che è inoltre caratterizzato dal taglio della rima palpebrale tendente verso il basso (“antimongoloide”) e dei padiglioni auricolari impiantati in basso e prominenti. L’ipogonadismo può essere di entità assai diversa da un paziente all’altro. La differenziazione delle gonadi e dei genitali avviene in modo appropriato rispetto al sesso cromosomico. Nei maschi è frequente il criptorchidismo e, in epoca puberale, può evidenziarsi una carenza androgenica. I testicoli sono in genere ipotrofici per aplasia del tessuto germinale. Nelle femmine l’ipogonadismo è di regola più lieve; la pubertà è ritardata, ma i caratteri sessuali secondari finiscono quasi sempre per svilupparsi e i cicli sono, in alcune pazienti, ovulatori. Il ritardo mentale rappresenta un’altra caratteristica della sindrome. Anche in questo caso, il deficit intellettivo è di entità assai diversa da paziente a paziente, variando da un’intelligenza appena subnormale a gravi carenze psichiche. In circa la metà dei pazienti sono presenti malformazioni cardiache a carico del cuore destro; in particolare, stenosi della valvola polmonare. Più rari sono le malformazioni dell’apparato uropoietico, la neurofibromatosi, il linfedema. E. Ipogonadismi primitivi acquisiti. Rappresentano la conseguenza di malattie o traumi che hanno leso in modo irreversibile ambedue i testicoli. I testicoli possono essere lesi da radiazioni o da farmaci citostatici (ciclofosfamide), o possono essere interessati nel corso di malattie infettive o da malattie di
carattere sistemico, come l’emocromatosi e la miotonia di Steinert. Le lesioni sono in genere limitate alla sola componente tubulare, con preservazione della componente interstiziale. F. Fisiopatologia. La carenza di androgeni ha conseguenze cliniche assai diverse in rapporto all’epoca di insorgenza dell’ipoandrogenismo (Tab. 59.6). Nella vita fetale provoca incompleta differenziazione dei genitali con pseudoermafroditismo maschile. L’ipogonadismo insorto nell’adolescenza o comunque in epoca prepuberale determina il quadro tipico dell’eunucoidismo, con mancata maturazione degli organi genitali in epoca puberale ed abnorme accrescimento scheletrico. Mentre nel soggetto normale, in epoca puberale, l’aumento di ormoni gonadici provoca un brusco incremento staturale e quindi un arresto della crescita per saldatura delle cartilagini di coniugazione, nell’ipogonadismo manca l’incremento staturale puberale ma, per la mancata saldatura delle cartilagini di coniugazione, l’accrescimento lineare continua per anni. L’ipogonadismo insorto nell’adulto provoca diminuzione della libido e della potenza, attenuazione dei caratteri sessuali secondari ed una serie di disturbi trofici a livello di vari apparati (Tab. 59.7). G. Clinica. Le caratteristiche dell’eunucoidismo sono riportate nella tabella 59.8. L’aspetto peculiare del malato è caratterizzato dall’infantilismo dei genitali, dall’assenza dei caratteri sessuali secondari e dalla particolare struttura scheletrica. La statura è superiore alla media per l’abnorme lunghezza degli arti rispetto al tronco; le proporzioni corporee ne risultano alterate: l’apertura delle braccia è superiore all’altezza: il segmento corporeo inferiore (dal pube a terra) è maggiore del segmento superiore (vertice del capo-pube). È frequente un valgismo delle ginocchia e dei gomiti, le mani e i piedi appaiono particolarmente affinati. L’ipotrofia muscolare è particolarmente evidente a livello delle masse muscolari degli arti; esiste quasi costantemente una certa adiposità, più evidente ai fianchi, con distribuzione chiaramente ginoide (si veda la Fig. 56.17). La ginecomastia è presente solo in alcune forme (sindrome di Klinefelter, sindrome di Reifenstein ed alcune altre forme di pseudoermafroditismo maschile). Tabella 59.7 - Conseguenza dell’ipoandrogenismo nell’adulto. • Apparato genitale – Genitali Ipotrofici – Gonadi Involuzione – Libido Attenuata o scomparsa; impotenza • Caratteri sessuali secondari – Peli Diminuiti nelle aree androgenosensitive – Muscolatura Ipotrofica – Voce A tonalità alta • Scheletro
Osteoporosi, cifosi
• Cute
Sottile e secca
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1226 Tabella 59.8 - Caratteristiche cliniche dell’eunucoidismo. • Volto di aspetto infantile • Scroto e pene infantili • Mancata comparsa dei peli pubici, ascellari, della barba e dei baffi • Persistenza della voce a tonalità alta • Mancato sviluppo della prostata • Maturazione psichica ritardata • Assenza di libido • Alterazioni scheletriche caratteristiche: mancato incremento staturale puberale, ma accrescimento lineare che continua per anni per mancata saldatura delle cartilagini di coniugazione
La psiche di questi malati è spesso infantile, anche se non è in genere dimostrabile un ritardo intellettivo. L’ipogonadismo insorto nell’adulto provoca inizialmente un’attenuazione della libido e solo successivamente si ha impotenza. Nelle forme gravi e non trattate, si osservano una progressiva attenuazione dei caratteri sessuali secondari, una diminuzione della forza fisica ed una contemporanea riduzione del tono e del volume delle masse muscolari. Si possono anche avere un innalzamento del tono della voce ed una perdita di peli, specie al tronco ed agli arti. Le alterazioni obiettive a livello degli organi genitali (diminuzione del volume e della consistenza dei testicoli e delle dimensioni del pene) possono evidenziarsi abbastanza tardivamente. La prostata diminuisce invece di volume abbastanza precocemente. Tra le complicanze a lungo termine rivestono notevole importanza quelle a carico dello scheletro; la carenza di androgeni provoca osteoporosi con conseguenze particolarmente evidenti a carico della colonna vertebrale, che subisce un incurvamento (cifosi) con convessità posteriore specie a carico del segmento dorsale. A livello della colonna vertebrale le conseguenze dell’osteoporosi sono più gravi rispetto agli altri segmenti dello scheletro, perché alla deformità delle vertebre si associa l’ipotonia dei fasci muscolari che circondano la colonna. La curvatura della colonna, presente anche negli ipogonadismi giovanili, conferisce un atteggiamento particolare al malato, che appare piegato verso l’avanti con un aspetto di precoce senescenza. H. Diagnosi. L’ipogonadismo viene sospettato in base all’evidenza clinica di deficit androgenico o in presenza di sterilità coniugale. All’esame obiettivo, i criteri per valutare l’esistenza di un’adeguata androgenizzazione sono rappresentati da: presenza di testicoli di normali dimensioni (non meno di 4 cm nell’adulto) e consistenza; presenza di normali caratteri sessuali secondari, peli pubici e ascellari, barba, muscolatura; normali proporzioni corporee. L’esame del liquido seminale rappresenta una tappa obbligata nella diagnosi di ipogonadismo dell’adulto. L’ipogonadismo parziale, da alterazione tubulare causante sterilità isolata senza deficit di androgeni, può essere diagnosticato solo con l’esame del liquido semina-
MALATTIE ENDOCRINE
le, che evidenzia azoospermia od oligo e/o astenospermia. Un esame seminale isolato non è comunque sufficiente a far porre diagnosi di insufficienza tubulare isolata; l’esame del liquido seminale deve essere ripetuto almeno tre volte a distanza di 2-3 mesi. D’altro canto, in presenza di un liquido seminale normale si può ragionevolmente escludere una disfunzione gonadica. Oltre all’esame del liquido seminale, in ogni paziente con sospetto ipogonadismo devono essere dosati i livelli basali di gonadotropine FSH e LH, testosterone e prolattina preferibilmente su tre campioni di sangue prelevati a distanza di 20-40 min. È necessario ricordare che i metodi abitualmente usati permettono di dosare il testosterone totale, la cui concentrazione in circolo può oscillare in rapporto a variazioni della proteina vettrice, SHBG (Tab. 59.1), indipendentemente dall’attività secretoria del testicolo. La concentrazione di ormone libero è correlata più strettamente con la funzione testicolare. Come appare nello schema di figura 59.8, il rilievo di elevati livelli di FSH e LH indirizza immediatamente la diagnosi verso un ipogonadismo primitivo, definito proprio per tale motivo ipogonadismo ipergonadotropo. Immediato valore diagnostico ha anche il rilievo di iperprolattinemia. Negli ipogonadismi secondari i livelli di testosterone circolante sono diminuiti; LH e FSH sono normali o bassi e comunque inappropriati rispetto alla ridotta concentrazione di testosterone; la PRL è normale. Per la diagnosi eziologica degli ipogonadismi secondari a disordini ipotalamo-ipofisari sono necessarie le indagini di ordine endocrinologico e neuroradiologico di cui abbiamo discusso nel capitolo 56, a cui rimandiamo. Nei pazienti con ipogonadismo primitivo l’esame del cariotipo permette di distinguere gli ipogonadismi da disgenesia gonadica. Per la diagnosi delle forme da difetti enzimatici o da resistenza agli androgeni si rimanda ai singoli paragrafi. I. Cenni di terapia. La terapia dell’ipogonadismo primitivo globale può essere attuata con testosterone enantato (250 mg ogni 3-4 settimane) da solo o in associazione con vari esteri, o con altri derivati del testosterone, anche per via transdermica. La terapia con testosterone ripristina la libido e la potenza, induce una rapida regressione dei segni di ipogonadismo, ma non corregge la sterilità. La terapia dell’ipogonadismo secondario si basa sulla somministrazione di gonadotropine nei soggetti giovani, nei quali, oltre a correggere l’ipoandrogenismo, si intende stimolare la spermatogenesi. I pazienti con iperprolattinemia rispondono in modo soddisfacente alla sola terapia antiprolattinemica: microadenomectomia o farmaci dopaminergici.
MALATTIE DELL’OVAIO Premesse di fisiopatologia La struttura anatomica dell’ovaio è complessa, in rapporto alla duplice funzione di secrezione ormonale e di produzione dell’uovo fertilizzabile, e in conseguenza delle cicliche variazioni che portano, durante la vita fe-
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59 - MALATTIE DELLE GONADI
Evidenza clinica di deficit androgenico:
Sterilità Ipotrofia testicolare Attenuazione o scomparsa dei caratteri sessuali secondari
Testosterone LH - FSH PRL basali Esame del liquido seminale
Oligospermia
Oligo-azoospermia
Oligo-azoospermia
Oligo-azoospermia
FSH:
T:
T, LH, PRL: N
T: LH, FSH: PRL: N
LH, FSH, PRL: N
T: T: –N LH, FSH: N
Insufficienza dei tubuli seminiferi
Ipogonadismo primitivo
Ipogonadismo ipogonadotropo
Sindromi iperprolattinemiche
(ricercare la causa)
Cariotipo
Anormale
Normale
Fenotipo maschile
Fenotipo ambiguo
Fenotipo maschile
S. di Klinefelter
Pseudoermafroditismo maschile
Agenesia testicolare o lesioni testicolari acquisite
N = normale ↑ = aumentato ↓ = diminuito
Figura 59.8 - Approccio diagnostico all‘ipogonadismo maschile.
conda, alla maturazione dei follicoli. Anatomicamente si distinguono tre zone: l’ilo al punto d’attacco del mesovario, la parte midollare e quella corticale. La corticale è rivestita da un singolo tratto di cellule colonnari che costituiscono l’epitelio germinale; già nelle prime settimane di vita fetale le cellule germinali immature, gli oociti primari, racchiusi in un complesso cellulare, formano il follicolo primordiale. Nella corticale sono contenuti i follicoli in vario stadio di maturazione ed involuzione, circondati dal tessuto connettivo dello stroma. Il complesso follicolare è costituito dall’oocita circondato dalle cellule della granulosa ed esternamente a queste dalle cellule della teca; lo stroma è formato da tessuto connettivo e dalle cellule interstiziali. La midollare contiene tessuto fibrovascolare e residui cellulari di follicoli andati incontro a processi involutivi. Le strutture ovariche ad attività endocrina sono rappresentate dalle cellule che compongono il follicolo e dalle cellule interstiziali contenute nello stroma. Le modificazioni del follicolo si riflettono sulla produzione ormonale che varia, durante l’epoca feconda, in rapporto alle varie fasi del ciclo.
I vari tipi di cellule ovariche possiedono gli enzimi necessari alla biosintesi dell’estradiolo a partire dal colesterolo; esistono tuttavia differenze quantitative nel patrimonio enzimatico dei vari tipi di cellule, e pertanto gli steroidi prodotti nei vari compartimenti sono differenti. Il corpo luteo forma prevalentemente progesterone e 17-OH-progesterone; le cellule della teca e dello stroma sintetizzano in prevalenza gli androgeni, androstenedione e testosterone. Le cellule della granulosa, particolarmente ricche di enzimi aromatizzanti, trasformano gli androgeni in estrogeni, usando come substrato sia gli androgeni prodotti nelle stesse cellule sia quelli sintetizzati dalle adiacenti cellule della teca. Anche le gonadotropine agiscono in sedi differenti e in differenti tappe della steroidogenesi. Il LH agisce prevalentemente sulle prime tappe della steroidogenesi, in particolare sulla trasformazione del colesterolo in pregnenolone, a livello della teca e delle cellule interstiziali. Il FSH regola, invece, il processo finale di aromatizzazione degli androgeni in estrogeni.
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MALATTIE ENDOCRINE
prima del picco preovulatorio di LH. I livelli circolanti di estradiolo, che si aggirano intorno ai 50 pg/ml nella prima metà della fase follicolare, aumentano progressivamente sino a raggiungere una concentrazione di 200-300 pg/ml il giorno precedente il picco di LH. Proprio l’aumento della concentrazione in circolo degli estrogeni, al di sopra di una certa soglia, fa scattare il meccanismo di controregolazione positivo del centro ciclico, con la brusca liberazione in circolo di LH e quella più lenta e smorzata di FSH. Il rapido aumento di LH provoca la maturazione finale del follicolo, che si rompe con fuoriuscita dell’uovo 16-24 ore dopo il picco di LH. Durante l’ovulazione i livelli di estrogeni circolanti cadono rapidamente per aumentare di nuovo a metà circa della fase luteale. Dopo l’ovulazione, con la trasformazione del follicolo in corpo luteo, si ha un progressivo e spiccato incremento della produzione di progesterone con aumento dei livelli ematici di 20-25 volte rispetto a quelli della fase follicolare. Queste variazioni ormonali si associano a cicliche modificazioni dell’endometrio. Durante la fase follicolare gli estrogeni prodotti dal follicolo provocano iperplasia dell’endometrio, mentre le ghiandole uterine, contenute nel suo spessore, aumentano di lunghezza pur senza presentare alcun aspetto secretivo. Dopo l’o-
A. Ciclo ovarico. Il complesso follicolo-oocita rappresenta l’elemento fondamentale dell’ovaio sia dal punto di vista della sintesi e della secrezione degli ormoni steroidei sia per quanto riguarda la maturazione e la liberazione dell’uovo fecondabile. Le modificazioni del follicolo si riflettono sulla produzione ormonale, che varia, durante l’epoca feconda, in rapporto alle fasi del ciclo (Fig. 59.9). Attraverso complesse fasi di sviluppo, che iniziano già nella vita fetale, si formano follicoli primordiali che sono presenti alla nascita, ma vanno incontro ad una completa maturazione solo in epoca puberale, con produzione di cellule uovo fecondabili. Durante l’epoca feconda, dalla pubertà alla menopausa, un singolo follicolo va incontro nei primi giorni del ciclo (fase follicolare) ad una serie progressiva di modificazioni che culminano con la rottura del follicolo stesso e l’immissione dell’oocita nell’ampolla tubarica. Dopo la rottura e la fuoriuscita dell’uovo, il follicolo va incontro a trasformazioni che portano alla formazione del corpo luteo (fase luteinica). Parallelamente allo sviluppo del follicolo, all’ovulazione ed ai processi che portano alla formazione del corpo luteo, varia l’attività secretoria del follicolo (Fig. 59.9). Durante la fase follicolare, si ha un progressivo aumento della secrezione degli estrogeni, che raggiunge un massimo in fase preovulatoria, subito
OVULAZIONE
LH
FSH
IPOFISI
Granulosa
Deiscenza del follicolo
Follicolo di Graaf
Corpus albicans
Teca interna
Corpo luteo
Follicolo primordiale P
OVAIO E2
GIORNI
14
0
FASE FOLLICOLARE
28
FASE LUTEINICA
Figura 59.9 - Variazioni delle secrezioni ormonali ipofisarie e ovariche durante il ciclo mestruale.
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59 - MALATTIE DELLE GONADI
vulazione, durante la fase luteale, per azione del progesterone prodotto dal corpo luteo, l’endometrio diviene edematoso e le ghiandole assumono un atteggiamento di tipo secretorio. Sotto il profilo funzionale, mentre la fase proliferativa rappresenta la ricostruzione dell’endometrio dopo la mestruazione precedente, la successiva fase secretoria rappresenta la preparazione dell’endometrio all’impianto dell’uovo fertilizzato. Se la fertilizzazione non avviene, con la regressione del corpo luteo viene a mancare il supporto ormonale e l’endometrio si sfalda dando luogo all’emorragia mestruale. Le variazioni secretorie durante il ciclo provocano anche variazioni di minor entità della cervice uterina e della parete vaginale. Gli estrogeni rendono il muco vaginale più fluido e alcalino e ciò favorisce il trasporto degli spermatozoi, il progesterone lo rende più denso, vischioso e ricco di cellule. Al momento dell’ovulazione il muco cervicale diventa particolarmente fluido; può essere espulso dalla vagina come un “tappo di muco”, indicativo dell’avvenuta ovulazione. Il muco emesso al momento dell’ovulazione cristallizza in modo caratteristico; osservato al microscopio ottico presenta un aspetto caratteristico a foglia di felce che è sfruttato anche ai fini diagnostici. A livello della parete vaginale, gli estrogeni provocano corneificazione dell’epitelio, mentre i progestinici stimolano la proliferazione dell’epitelio con secrezione di muco. Nell’insieme gli ormoni ovarici mantengono il trofismo della parete vaginale, che diviene infatti atrofica dopo la menopausa. In età menopausale l’ovaio va incontro ad involuzione. L’atrofia della zona corticale in cui sono contenuti i follicoli si associa a cessazione dell’ovulazione e a un radicale mutamento della produzione degli ormoni gonadici. La produzione di estrogeni si riduce nettamente, sino a divenire insufficiente a produrre la proliferazione dell’endometrio ed il successivo sanguinamento mestruale. La diminuzione di estrogeni si associa ad un netto aumento delle gonadotropine circolanti per il venir meno del meccanismo di controregolazione negativo estrogenigonadotropine. L’ovaio menopausale secerne invece androstenedione, uno steroide a debole azione androgena che viene trasformato in estrone a livello dei tessuti periferici. B. Ormoni ovarici Azioni fisiologiche. L’ovaio produce estrogeni, progestinici ed androgeni. Questi steroidi sono secreti anche dal surrene ed alcuni possono essere prodotti a livello dei tessuti periferici per conversione dei precursori steroidei. 1. Estrogeni. Nella donna normale, al di fuori della gravidanza, gli estrogeni biologicamente attivi sono l’estradiolo e l’estrone. Durante l’età feconda l’estradiolo, prodotto dalle cellule del follicolo, rappresenta il principale ormone estrogeno. In età menopausale, il principale ormone ad attività estrogena è invece l’estrone, che deriva dalla metabolizzazione periferica dell’androstenedione. I principali effetti fisiologici degli estrogeni si esplicano a livello dell’apparato genitale. La presenza di estrogeni è indispensabile alla normale maturazione dei
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genitali femminili. L’aumento di volume dell’utero, della vagina e delle tube dall’infanzia alla maturità sessuale e la loro involuzione dopo la menopausa sono legati rispettivamente alla presenza ed alla privazione di estrogeni. In età puberale, oltre ad indurre il definitivo sviluppo dei genitali esterni, gli estrogeni favoriscono lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari in senso femminile, influendo in modo determinante sulla configurazione corporea di tipo femminile. Durante la vita feconda, gli estrogeni sensibilizzano l’ovaio all’azione della gonadotropine e influenzano le modificazioni cicliche dell’endometrio, in cui determinano principalmente fenomeni proliferativi. Attraverso un effetto mediato a livello del sistema nervoso centrale gli estrogeni inducono l’estro nei mammiferi di sesso femminile (da questo effetto deriva il loro nome) e influenzano la libido nella specie umana. A livello mammario gli estrogeni, oltre ad indurre lo sviluppo delle mammelle in età puberale, stimolano l’accrescimento dei dotti mammari e sono responsabili della pigmentazione delle areole. Al di fuori dell’apparato riproduttivo gli estrogeni provocano una numerosa serie di effetti metabolici, di cui ricordiamo i principali. Sono necessari al normale trofismo della cute e dei piccoli vasi nella donna; facilitano il passaggio di liquidi dallo spazio intravascolare al compartimento extracellulare provocando un certo grado di edema; la riduzione del volume plasmatico provoca una ritenzione compensatoria di acqua e sodio a livello dei tubuli renali che contribuisce ad aumentare l’imbizione tissutale. A livello del tessuto osseo gli estrogeni, antagonizzando l’azione del paratormone, inibiscono i processi di riassorbimento osseo con positivizzazione del bilancio del calcio e del fosforo. In età menopausale, la carenza di estrogeni è responsabile dell’osteoporosi che, come è noto, rappresenta la più grave complicanza della menopausa. Al contrario, in età puberale il brusco aumento della produzione di estrogeni, stimolando la matrice ossea, causa inizialmente un aumento della lunghezza delle ossa lunghe e quindi un incremento staturale. Successivamente i processi di calcificazione finiscono per saldare le cartilagini di coniugazione con arresto dell’accrescimento lineare. 2. Progestinici. Il progesterone è l’unico progestinico naturale che ha un ruolo biologico ben definito. È sintetizzato dall’ovaio e dal corticosurrene. È secreto dall’ovaio in modesta quantità durante la fase follicolare (< 1 ng/ml) ed in quantità elevate (10-20 ng/ml) dal corpo luteo, durante la fase luteica. In gravidanza il progesterone è prodotto in grande quantità dalla placenta. Il principale effetto fisiologico del progesterone è quello di creare le condizioni più adatte alla fecondazione dell’uovo e al suo annidamento nell’endometrio. In tal senso, oltre ad indurre modificazioni di tipo secretorio a livello delle tube e dell’endometrio, il progesterone agisce a livello del miometrio riducendone la contrattilità. La minor eccitabilità uterina, in risposta a vari stimoli, favorisce la permanenza dell’uovo fecondato nella cavità uterina.
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MALATTIE ENDOCRINE
A livello mammario, il progesterone stimola la proliferazione e la differenziazione dei lobuli e degli alveoli della ghiandola. Gli effetti di ordine generale del progesterone sono senz’altro inferiori a quelli degli androgeni e degli estrogeni. Il progesterone ha un ben definito effetto termogenico a cui è legato l’aumento della temperatura basale durante la fase luteinica del ciclo.
mia) e non differisce dai meccanismi analoghi che regolano la secrezione delle altre ghiandole endocrine controllate dall’ipofisi: tiroide, corticosurrene, testicolo. Il meccanismo di controregolazione positivo – estrogeni-centro ciclico (area sovraottica)-cellule gonadotrope-ovaio – implica invece una risposta rapida e transitoria (picco di LH a metà ciclo) ed è presente solo nella donna, limitatamente al periodo fecondo.
3. Androgeni. L’ovaio normale produce alcuni steroidi ad azione androgena; l’androstenedione, il deidroepiandrosterone (DHEA) e piccole quantità di testosterone. Androstenedione e DHEA possiedono un’attività biologica in senso androgeno assai blanda, ma l’androstenedione può essere trasformato alla periferia in testosterone e in estrone. L’esatto ruolo fisiologico di questi steroidi androgeni nella donna non è ben definito; sicuramente la loro presenza è indispensabile per lo sviluppo, in epoca puberale, dei peli al pube ed alle ascelle.
Ipogonadismo femminile
Regolazione secretoria. L’attività secretoria dell’ovaio e la ciclica maturazione dei follicoli sono regolate dal sistema ipotalamo-ipofisi attraverso la secrezione del “releasing hormone” ipotalamico GnRH e delle gonadotropine ipofisarie FSH e LH. La regolazione dell’asse GnRH-FSH/LH-gonadi è già stata discussa precedentemente (Cap. 56). Ricordiamo solo l’esistenza, durante l’epoca feconda, di due meccanismi di controregolazione GnRH-gonadotropine-ovaio di segno opposto in cui l’azione degli estrogeni si esplica su aree ipotalamiche differenziate e ha tempi di risposta differenti (Fig. 59.10). Il meccanismo di controregolazione negativo – estrogeni-centro tonico (area del nucleo arcuato)-cellule gonadotrope-ovaio – implica una risposta lenta e stabile (per es., aumento delle gonadotropine dopo ovariectoMeccanismo di controregolazione positivo Estrogeni
Centro ciclico Area sovraottica
Risposta rapida Brusco release di GnRH
Picco di LH a metà ciclo da aumento degli estrogeni del follicolo Meccanismo di controregolazione negativo Estrogeni
Centro ciclico Area del nucleo arcuato
Risposta lenta (FSH-LH)
Aumento delle gonadotropine da insufficienza ovarica primitiva
Figura 59.10 - Meccanismi di regolazione dell’asse GnRHFSH/LH-estrogeni nella donna.
I disturbi della funzione gonadica nella donna possono essere causati da: • insufficienza ovarica primitiva (ipogonadismo primitivo, ipergonadotropo); • insufficienza secondaria ad alterazioni della regolazione ipotalamica e/o ipofisaria (ipogonadismo secondario); • secrezione eccessiva di androgeni (iperandrogenismo) con alterazioni dei segnali che giungono al sistema di controregolazione ipotalamo-ipofisi-gonadi; • disfunzioni di altre ghiandole endocrine o gravi alterazioni metaboliche: – ipercortisolismo o sindrome di Cushing; – ipertiroidismo ed ipotiroidismo; – iperprolattinemia; – cronica malnutrizione. Le prime due forme sono associate ad insufficiente produzione di estrogeni. Nelle altre forme la concentrazione di estrogeni circolanti può essere normale o aumentata, ma la produzione è inappropriata ed aciclica e sono quindi alterati i segnali che regolano i meccanismi di controregolazione del sistema ipotalamo-ipofisiovaio. Le principali manifestazioni cliniche causate da disordini della funzione gonadica femminile sono rappresentate da: • cicli anovulatori con infertilità; • irregolarità o scomparsa dei cicli mestruali (oligoamenorrea); • mancata comparsa o regressione dei caratteri sessuali secondari. Queste ultime manifestazioni sono presenti solo quando è presente ipoestrogenismo e quindi di regola solo nell’insufficienza ovarica primitiva e secondaria. La terminologia abitualmente impiegata per definire l’amenorrea può generare confusione. Indipendentemente dalla causa (primitivamente ovarica o secondaria a disfunzione ipotalamo-ipofisaria) che l’ha provocata, con amenorrea primaria si intende la mancata comparsa di mestruazioni spontanee, e con amenorrea secondaria l’interruzione, per almeno sei cicli, dei flussi, in pazienti che in precedenza hanno avuto mestruazioni spontanee (Tab. 59.9). A. Fisiopatologia. L’abolizione dell’ovulazione e l’amenorrea possono essere provocate da un’alterazione del sistema di controllo centrale ipotalamo-ipofisa-
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59 - MALATTIE DELLE GONADI
Tabella 59.9 - Cause di amenorrea. Alterazioni del tratto genitale o dell’endometrio • Agenesia utero-vaginale (sindrome di Rokintasky) (1) • Anomalie congenite dell’utero e del tratto genitale • Malattie dell’endometrio (sindrome di Asherman) Malattie dell’ovaio • Disgenesia gonadica: sindrome di Turner e sue varianti (1) • Agenesia ovarica (1) • Sindrome dell’ovaio resistente • Malattie acquisite dall’ovaio (batteriche, da citostatici, da radiazioni) Alterazione dei meccanismi di regolazione centrale Malattie ipofisarie • Ipogonadismo ipogonadotropo isolato (1) o associato a panipopituitarismo • Tumori ipofisari • Empty sella • Sindromi iperprolattinemiche SNC-ipotalamo • Alterazioni funzionali del centro ciclico (stress, ecc.) Anoressia nervosa
• • • •
Iperandrogenismo Policistosi ovarica Tumori ovarici virilizzanti Iperplasia surrenale congenita (1) Tumori surrenalici
• • • • •
Altre malattie endocrino-metaboliche Sindrome di Cushing Ipertiroidismo Acromegalia Sindrome di Morris (1) Cronica malnutrizione
(1) L‘amenorrea è di regola primitiva.
rio (ipogonadismo secondario), oppure da un’alterazione dei segnali che vengono inviati al sistema dalla periferia. Questa seconda eventualità può verificarsi se i livelli circolanti di estrogeni non subiscono le variazioni cicliche, sincrone con la maturazione del follicolo. In tal senso possono verificarsi due eventualità: a) l’estradiolo circolante non raggiunge una concentrazione sufficiente a stimolare il picco ovulatorio di LH (insufficienza ovarica primitiva); b) la concentrazione di estrogeni in circolo non si riduce in modo tale da permettere la liberazione di FSH indispensabile alla maturazione del follicolo. Quest’ultima eventualità si verifica nelle condizioni di iperandrogenismo, nelle quali l’aumento aciclico degli estrogeni circolanti è dovuto alla conversione periferica degli androgeni in estrogeni. B. Ipogonadismo primitivo. L’ipogonadismo primitivo femminile è causato da lesioni o processi patologici dell’ovaio che comportino un’insufficiente attività endocrina e quindi un ipoestrogenismo.
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Le malattie dell’ovaio responsabili dell’ipogonadismo primitivo possono essere congenite o acquisite. La causa più frequente di ipogonadismo primitivo congenito è rappresentata dalla disgenesia gonadica, in cui le ovaie sono costituite da un rudimento fibroso. Come abbiamo già detto, i soggetti affetti da disgenesia gonadica possono presentare caratteristiche cliniche differenti. Oltre alla disgenesia gonadica tipica o sindrome di Turner, caratterizzata da assenza di un cromosoma X (45 X) e da una serie di alterazioni somatiche: bassa statura, collo palmato, torace a scudo, anomalie cardiovascoari, ecc., che vengono collettivamente descritte come fenotipo turneriano, vi sono forme incomplete con alterazioni strutturali di un cromosoma X o con mosaicismo (il più comune è 45 X/46 XX) e incompleta espressione del fenotipo, e forme di disgenesia gonadica pura in cui il mancato sviluppo delle ovaie non si associa alle alterazioni somatiche del fenotipo turneriano, ma piuttosto ad alta statura e a caratteristiche somatiche di tipo eunucoide. Una rara causa di insufficienza ovarica primitiva è la sindrome dell’ovaio resistente, caratterizzata dalla presenza nelle ovaie di molteplici follicoli che non giungono a completa maturazione, probabilmente per resistenza delle cellule ovariche all’azione del FSH, che è presente in circolo in elevata concentrazione. L’insufficienza ovarica primitiva acquisita può essere di origine iatrogena (annessiectomia, terapia radiante) oppure può essere causata da lesioni bilaterali dell’ovaio provocate da processi infettivi locali. Anche la menopausa precoce può essere considerata una forma di ipogonadismo primitivo acquisito. 1. Clinica. Le manifestazioni cliniche dell’ipogonadismo primitivo femminile possono essere ricondotte ad una carenza di estrogeni indipendentemente dalla causa che ha provocato l’ipogonadismo. L’insufficienza endocrina dell’ovaio provoca conseguenze diverse se si manifesta in età prepuberale o in epoca successiva. A differenza di quanto abbiamo visto a proposito delle alterazioni congenite del testicolo, le lesioni congenite dell’ovaio non comportano alterazioni dei processi di differenziazione dei genitali in quanto, come già discusso nella parte generale, la presenza di ormoni prodotti dalla gonade fetale femminile non influenza i processi di differenziazione dei genitali. Anche nelle forme di ipogonadismo congenito, le prime manifestazioni di insufficienza endocrina dell’ovaio si rendono quindi evidenti solo in età puberale, con assenza del menarca, mancata maturazione dei genitali esterni che mantengono un aspetto infantile, mancato sviluppo delle mammelle, dell’apparato pilifero e degli altri caratteri sessuali secondari. Per mancata saldatura delle cartilagini di coniugazione si possono sviluppare alterazioni di tipo eunucoide dell’apparato scheletrico. Quando l’insufficienza ovarica insorge nella donna adulta provoca amenorrea o irregolarità dei cicli, anovulazione cronica e infertilità, involuzione dei genitali esterni con atrofia vaginale, attenuazione o parziale regressione dei caratteri sessuali secondari, disturbi trofici soprattutto a livello del tessuto osseo (osteoporosi) e della cute, che diviene sottile e secca.
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A queste manifestazioni cliniche che, essendo in rapporto alla carenza di estrogeni, sono presenti, con varia intensità, in tutte le forme di ipogonadismo femminile, si associano manifestazioni cliniche proprie delle singole forme morbose responsabili dell’insufficienza ovarica. Talora queste manifestazioni cliniche associate prevalgono nettamente nella presentazione clinica della malattia, come avviene, per esempio, nella sindrome di Turner, mentre in altri casi sono sfumate o del tutto assenti come, per esempio, nell’insufficienza ovarica per annessiectomia chirurgica o da menopausa precoce. 2. Esami di laboratorio e diagnosi. Negli ipogonadismi primitivi l’assetto ormonale è caratterizzato da spiccato aumento delle gonadotropine circolanti (ipogonadismo ipergonadotropo), con rapporto FSH/LH aumentato, spesso superiore all’unità. I livelli di estradiolo e progesterone sono ridotti, con assenza delle variazioni fisiologiche legate alle varie fasi del ciclo mestruale. La somministrazione di progestinici (medrossiprogesterone acetato, MAP test) non provoca sanguinamento da privazione al termine del trattamento, indicando che la produzione endogena di estrogeni è insufficiente a stimolare la proliferazione dell’endometrio. 3. Cenni di terapia. La terapia è di tipo sostitutivo con estrogeni e con estroprogestinici. Nelle forme congenite o insorte prima della pubertà la somministrazione di estrogeni è indispensabile per indurre la maturazione dei genitali e lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari. Nelle forme di ipogonadismo primitivo acquisito insorto nell’età adulta la somministrazione di estrogeni deve essere decisa, di volta in volta, in rapporto agli effetti collaterali di questi ormoni. C. Ipogonadismo secondario. In queste forme l’ipogonadismo è secondario ad una carenza gonadotropinica causata da un disordine ipotalamico della secrezione di GnRH o da una malattia ipofisaria che interferisca direttamente con l’attività secretoria delle cellule gonadotrope (ipogonadismo ipogonadotropo). Gli ipogonadismi di origine ipotalamica possono essere causati da un’alterazione congenita dei meccanismi regolatori della secrezione di gonadotropine (sindrome di Kallmann, Cap. 56) o da lesioni infiltrative (sindrome di Hand-Schüller-Christian) o neoplastiche (craniofaringiomi) della regione ipotalamica (si veda la Tab. 56.8). Le malattie dell’ipofisi possono indurre insufficienza ovarica con meccanismi diversi: distruzione delle cellule gonadotrope (necrosi post partum o sindrome di Sheehan); interferenza diretta con l’attività secretoria delle cellule gonadotrope per compressione delle cellule stesse o dei vasi del sistema portale (adenomi ipofisari cromofobi); inibizione dell’attività secretoria indotta da un eccesso di PRL. Queste cause di ipogonadismo sono prevalentemente di natura organica e sono comuni ai due sessi. Tuttavia, nella grande maggioranza dei casi, le alterazioni dell’asse GnRH-gonadotropine, responsabili di amenorrea e/o di cronica anovulazione, sono causate da disordini fun-
MALATTIE ENDOCRINE
zionali dell’ipotalamo e/o dei centri nervosi superiori. La labilità dei meccanismi nervosi che regolano l’attività del centro ciclico, di fronte a svariati stimoli, provoca, in queste pazienti, anovulazione e oligoamenorrea in assenza di altri segni di ipogonadismo, in quanto la secrezione tonica di gonadotropine è conservata. È ben noto che l’amenorrea e/o l’anovulazione possono insorgere bruscamente, in giovani donne, in seguito a stress o a tensione emotiva (cambiamento di ambiente, perdita di una persona cara, ecc.). L’attività ciclica dell’apparato riproduttivo può interrompersi anche per attività fisica molto intensa (atlete, ballerine), per rapida e cospicua perdita di peso (anoressia nervosa, Cap. 56), nel corso di gravi malattie di ordine generale (insufficienza renale grave, sindromi da malassorbimento ed altre). 1. Clinica e diagnosi. Negli ipogonadismi secondari le manifestazioni cliniche causate da ipoestrogenismo non differiscono sostanzialmente da quelle sopra descritte a proposito dell’ipogonadismo primitivo; i sintomi causati dal processo patologico di base sono stati già discussi trattando delle singole forme nel capitolo dedicato alle malattie ipotalamo-ipofisarie. L’assetto ormonale dell’ipogonadismo secondario femminile è caratterizzato da livelli circolanti di gonadotropine ed estradiolo normali-ridotti in confronto al “range” dei valori rilevabili nei soggetti normali nei primi giorni della fase follicolare del ciclo. Il MAP test è negativo quando l’ipogonadismo è causato da una malattia che provoca una tonica insufficienza della secrezione gonadotropinica; è invece positivo se l’amenorrea è causata da un difetto della secrezione ciclica delle gonadotropine. Il test con clomifene si esegue solo nelle pazienti con MAP test positivo che desiderano il concepimento. Il clomifene è una sostanza non steroidea che, mediante un meccanismo competitivo con l’estradiolo a livello dei recettori per gli estrogeni ipotalamici, blocca il meccanismo di controregolazione negativa e provoca la liberazione di gonadotropine. L’aumento di LH e FSH in circolo provoca, a sua volta, la maturazione del follicolo ovarico ed un progressivo aumento della secrezione di estrogeni che continua anche dopo la sospensione del farmaco. Dopo alcuni giorni la concentrazione degli estrogeni circolanti diviene sufficiente ad attivare il meccanismo di controregolazione positivo estrogeni-centro ciclico-cellule gonadotrope ipofisarie, provocando il picco preovulatorio di LH e l’ovulazione. Il test è considerato positivo se i livelli di gonadotropine ed in particolare quelli di LH aumentano nella 4a-5a giornata di trattamento rispetto ai valori basali e se il progesterone plasmatico raggiunge, dopo 14-16 giorni dalla fine del trattamento, livelli luteinici ( 5 ng/ml) indicativi dell’avvenuta ovulazione. La negatività del test in pazienti MAP-positive è indicativa di un’alterazione del centro ciclico ipotalamico e del meccanismo di controregolazione positivo. Il test è invece positivo in quelle pazienti in cui il meccanismo di controregolazione positivo estrogeni-gonadotropine è conservato e l’anovulazione è causata da un’alterazione del segnale che dalla periferia giunge al sistema ipotalamoipofisario (Fig. 59.11).
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Elementi clinici: Anamnesi ed esame obiettivo (sviluppo mammario, presenza di peli pubici e ascellari, esame dei genitali esterni; ricercare segni fisici di ipoestrogenismo)
Escludere una gravidanza + FSH (LH)
Insufficienza ovarica primitiva +/=
PRL
Sindromi iperprolattinemiche
MAP test
Negativo
Positivo
Test con estroprogestinici
Test con clomifene Positivo
Negativo
Positivo
Negativo
Alterazione dei meccanismi di controregolazione (policistosi ovarica)
Difetto della secrezione ciclica di gonadotropine da disfunzione ipotalamica
Difetto della secrezione tonica di gonadotropine da insufficienza ipotalamo-ipofisaria
Malattia primitiva dell’endometrio o malformazione degli organi genitali
Figura 59.11 - Valutazione diagnostica dell’amenorrea. MAP test: somministrazione di medrossiprogesterone acetato nella dose di 10 mg/die per 10 giorni o 100 mg endomuscolo in soluzione oleosa, in unica somministrazione. Positivo: sanguinamento alla cessazione del trattamento; negativo: non sanguinamento alla cessazione del trattamento. Test con clomifene: somministrazione di 100 mg/die per 5 giorni. Per la valutazione si veda il testo. Test con estroprogestinici: somministrazione di un’associazione di estroprogestinici per 3 settimane. Positivo: sanguinamento alla cessazione del trattamento; negativo: non sanguinamento alla cessazione del trattamento.
Iperandrogenismo L’iperandrogenismo è una situazione di squilibrio endocrino caratterizzata da un eccesso di ormoni androgeni nella donna. L’attività androgena, nella donna, è sostenuta da vari ormoni steroidei di origine ovarica e surrenale: androstenedione, deidroepiandrosterone (DHEA), testosterone, diidrotestosterone. Androstenedione e DHEA sono i principali androgeni da un punto di vista quantitativo. Pur possedendo una modestissima attività biologica, rivestono un importante ruolo come precursori dei più attivi testosterone e diidrotestosterone. Gli androgeni presenti in circolo derivano pertanto sia dalla secrezione ghiandolare (dell’ovaio e del corticosurrene) sia dalla conversione, a livello dei tessuti periferici, di precursori meno attivi. L’androstenedione è prodotto in quantità pressoché equivalenti dall’ovaio e dal surrene; DHEA e DHEA-S (DHEA-Solfato) sono prodotti invece prevalentemente dal surrene: il testosterone deriva in quantità approssimativamente equivalenti dalla secrezione ghiandolare (ovaio e surrene) e dalla metabolizzazione periferica dell’androstenedione e del DHEA; il diidrotestosterone deriva quasi esclusivamente dalla conversione periferica del testosterone. L’iperproduzione di androgeni può quindi derivare da processi morbosi del surrene o dall’ovaio o da una accelerata conversione periferica (Tab. 59.10).
In tal senso riveste particolare importanza l’aumentata trasformazione del testosterone in DHT a livello del follicolo pilifero causata da aumento di questa in sede dell’attività 5--reduttasica. L’aumento locale di DHT provoca l’irsutismo idiopatico, condizione non rara caratterizzata, sul piano biochimico, dalla normalità del testosterone e degli altri androgeni circolanti e da aumento dei prodotti del metabolismo periferico del DHT, in particolare del 3--androstenediolo. L’irsutismo può essere causato anche da fattori che aumentano il rapporto testosterone libero/testosterone totale. In donne normali, solo l’1-2% del testosterone è libero e quindi biologicamente attivo. Il 65% dell’ormone è legato al SHBG, mentre il riTabella 59.10 - Condizioni morbose caratterizzate da iperandrogenismo. Policistosi ovarica Tumori ovarici virilizzanti (1) Tumori surrenali virilizzanti (1) Iperplasia surrenale congenita – Da deficit della 21-idrossilasi (1) – Da deficit della 11-idrossilasi (1) Sindrome di Cushing Irsutismo idiopatico (da aumentata utilizzazione periferica degli androgeni) (1) Con virilizzazione.
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MALATTIE ENDOCRINE
manente è legato all’albumina. Fattori che alterano la concentrazione sierica di SHBG (si veda la Tab. 59.1) possono condurre ad irsutismo. A. Fisiopatologia. L’eccesso di androgeni provoca irsutismo e virilizzazione con un effetto diretto sui tessuti androgeno-sensitivi. La sensibilità agli androgeni varia notevolmente da un tessuto all’altro. È massima a livello del derma. Di conseguenza l’irsutismo e l’acne sono le manifestazioni più precoci e frequenti, rilevabili anche in pazienti con modesto iperandrogenismo. Ricordiamo che esistono criteri semeiologici abbastanza precisi e restrittivi ai quali è necessario attenersi per diagnosticare un irsutismo. L’irsutismo deve essere diagnosticato non solo in base a criteri quantitativi, ma anche in base alle caratteristiche dei peli (peli terminali, rigidi, intensamente pigmentati, ricurvi) e alla loro comparsa in determinate sedi. Le aree androgeno-sensitive sono il labbro superiore, il mento, la regione sternale e periareolare e la linea mediana dell’addome. È tipica la disposizione a losanga dei peli pubici. Assai più raramente, si sviluppa una virilizzazione vera con stempiamento, ipertrofia delle masse muscolari, clitoridomegalia, ecc. (Tab. 59.11). Poiché gli androgeni vengono convertiti in estrogeni a livello dei tessuti periferici, l’iperandrogenismo si associa ad aumentata produzione extraghiandolare di estrogeni. La presenza in circolo di estrogeni in quantità elevata e aciclica interferisce con i meccanismi di controregolazione del sistema GnRH-LH/FSH, innescando la sequenza di alterazioni endocrine illustrata nella figura 59.12 e descritta nell’eziopatogenesi della policistosi ovarica, che provocano anovulazione e oligoamenorrea.
Policistosi ovarica La policistosi ovarica (PCO), nota anche come sindrome di Stein-Leventhal o sindrome dell’ovaio policistico, è una condizione anatomoclinica caratterizzata, Tabella 59.11 - Segni di virilizzazione. • • • • • • • • • • •
Irsutismo Stempiamento Recessione della linea di attacco dei capelli sulla fronte Acne e seborrea Ipertrofia delle masse muscolari Voce a tonalità bassa Clitoridomegalia Ipertrofia delle grandi labbra Aumento della libido Ipotrofia delle mammelle (1) Perdita della silhouette femminile (1)
(1) Solo quando si associa carenza di estrogeni.
secondo la descrizione originale, da ovaie ingrandite e policistiche e dalla triade sintomatologica: amenorrea, irsutismo, obesità. In alcune pazienti si osserva anche una familiarità per la sindrome. Successivamente, le conoscenze di ordine biochimico hanno permesso di definire le basi fisiopatologiche della sindrome, che è caratterizzata da anovulazione cronica associata ad iperandrogenismo di entità variabile. Il quadro clinico è andato perciò sfumando, in quanto si è osservato che la PCO può manifestarsi con una sintomatologia assai variabile per numero e gravità dei sintomi (Tab. 59.12), e può, occasionalmente, associarsi ad una serie di disfunzioni endocrine, di diversa eziologia, che provocano iperandrogenismo: sindrome di Cushing, iperplasia surrenale congenita, tumori virilizzanti ovarici e surrenali. A. Eziopatogenesi. Il substrato biologico della sindrome è rappresentato dall’iperandrogenismo che è responsabile dell’irsutismo e, indirettamente, dell’anovulazione e dei disturbi del ciclo. La patogenesi dell’iperandrogenismo è particolarmente complessa. Le conoscenze di ordine endocrinologico via via acquisite hanno permesso di stabilire l’eccesso di androgeni rappresenta la risultante di una serie di alterazioni ormonali che caratterizzano la PCO. • I livelli circolanti di LH sono elevati e dimostrano ampie oscillazioni in campioni prelevati dalla stessa paziente, in rapporto ad una esagerata e irregolare pulsatilità secretoria. La concentrazione di FSH è invece ridotta o ai limiti inferiori della norma con scarsa variabilità da un campione all’altro. Sono abolite le variazioni secretorie legate al ciclo ovulatorio. • I meccanismi di controregolazione positivo e negativo del sistema GnRH-FSH/LH-estrogeni appaiono conservati. La somministrazione di clomifene è seguita da un’elevazione di LH e FSH qualitativamente e quantitativamente simile a quella osservabile in soggetti normali, mentre un’infusione di 17--estradiolo sopprime i livelli di ambedue le gonadotropine. • La liberazione di LH dopo somministrazione di GnRH è invece esagerata, con secrezione di elevate quantità di LH anche dopo piccole dosi di GnRH. Si ritiene che questa iperresponsività ipofisaria al GnRH sia causata dall’aumento degli estrogeni cirTabella 59.12 - Frequenza delle manifestazioni cliniche rilevate nella sindrome dell’ovaio policistico. SINTOMI Obesità Irsutismo Virilizzazione Amenorrea Infertilità Sanguinamenti funzionali Temperatura basale bifasica Modificata da Goldzieher e Green, 1962.
FREQUENZA % 41 69 21 51 74 29 15
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59 - MALATTIE DELLE GONADI
IPOTALAMO - IPOFISI LH con pulsatilità accentuata e irregolare FSH Responsività ipofisaria al GnRH
Stimolazione delle c. galattotrope
FSH circolante
LH circolante
Estrogeni in circolo
TESSUTO ADIPOSO
Aromatizzazione extraghiandolare
Anovulazione cronica
Maturazione follicolare
Stimolazione di stroma e teca
OVAIO
Produzione di androgeni ovarici
Obesità
Iperandrogenismo
ANDROGENI SURRENALI
Figura 59.12 - Sequenza patogenetica responsabile dell’anovulazione cronica nella PCO. Il ciclo può essere attivato da un’eccessiva produzione di androgeni surrenali che provoca un aumento aciclico degli estrogeni circolanti o, con lo stesso meccanismo, da qualsiasi condizione morbosa che provochi aumento degli androgeni o della loro aromatizzazione con produzione aciclica di estrogeni.
•
•
•
•
colanti e sia alla base dell’esagerata pulsatilità secretoria di LH. La riduzione di FSH viene posta in relazione con il prevalente effetto inibitorio esercitato dagli estrogeni sulla secrezione di FSH e con il fatto che l’azione di stimolo del GnRH è assai più intensa sul LH che sul FSH. La produzione di steroidi ad azione androgena è elevata in rapporto alla tonica iperstimolazione delle cellule dello stroma ovarico e della teca da parte di quantità abnormemente elevate di LH. Nel sangue venoso refluo dall’ovaio è stata dimostrata una concentrazione elevata di androstenedione e assai ridotta di estradiolo. L’aromatizzazione dell’androstenedione a livello del tessuto adiposo provoca la formazione di estrogeni, in particolare di estrone, che è presente in circolo in quantità elevata, senza oscillazioni cicliche. Il rapporto estrone/estradiolo circolanti è pertanto aumentato. Una quota di steroidi circolanti ad azione androgena è di origine surrenalica (DHEA).
L’insieme di queste alterazioni ormonali ha permesso a Yen di prospettare il meccanismo patogenetico della sindrome nei termini illustrati nello schema di figura 59.12. Il momento iniziale scatenante sarebbe da ricercare in un’alterazione dello sviluppo del cortico-surrene nella
prima fase della pubertà (adrenarca) con eccessiva produzione di androgeni che causano irsutismo ed eccesso ponderale ed innescano un meccanismo destinato ad autoperpetuarsi. Le elevate quantità di androgeni presenti in circolo vengono convertite in estrogeni a livello dei tessuti periferici, in particolare a livello del tessuto adiposo, ricco di enzimi aromatizzanti. L’elevata concentrazione di estrogeni circolanti attiva i meccanismi di controregolazione ipotalamo-ipofisari, aumentando la responsività ipofisaria al GnRH e attivando in modo aciclico il meccanismo di controregolazione positiva della secrezione di LH. Il LH liberato in eccesso provoca iperplasia dello stroma ovarico e delle cellule della teca, con iperproduzione di androgeni che forniscono un ulteriore substrato ai processi di aromatizzazione periferica, perpetuando il circolo vizioso responsabile della PCO. Nelle fasi avanzate della malattia l’ovaio è la sede principale di produzione di androgeni, ma anche le surrenali possono continuare a produrre androgeni in eccesso. L’inadeguata secrezione di FSH e l’elevata concentrazione intraovarica di androgeni provocano una incompleta maturazione dei follicoli ovarici. L’assenza di follicoli maturi si associa alla ridotta produzione di estradiolo da parte dell’ovaio. In sintesi, nella PCO si stabilisce un difetto iniziale che, autoperpetuandosi, coinvolge il sistema ipotalamo-
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ipofisario e gli organi periferici e provoca, attraverso un’eccessiva e aciclica produzione periferica di estrogeni, una condizione di cronica anovulazione. L’anovulazione nella PCO non sembra pertanto la conseguenza di una primitiva alterazione del sistema ipotalamo-ipofisario o di una intrinseca anomalia dell’ovaio, ma piuttosto il risultato di un inappropriato segnale che dalla periferia giunge all’ipotalamo e all’ipofisi provocando un’alterazione funzionale della secrezione gonadotropinica. In tal senso va interpretato il fatto che questa sequenza patogenetica non è specifica, ed è reversibile spontaneamente. Qualsiasi condizione patologica che si associ ad iperandrogenismo può darle inizio. L’interruzione del circolo vizioso, con mezzi farmacologici o con la semplice riduzione del tessuto adiposo, può ripristinare cicli ovulatori. Anche le alterazioni anatomiche dell’ovaio riflettono il particolare assetto ormonale della sindrome. L’alterata secrezione gonadotropinica provoca un’incompleta maturazione di numerosi follicoli, con formazione di microcisti circondate da residui tecali iperplastici. Le ovaie sono in genere, ma non necessariamente, ingrandite, con capsula ispessita e fibrotica. Le numerose cisti follicolari sottocapsulari presentano un grado variabile di atresia, mentre le cellule tecali e lo stroma sono iperplastici. In circa il 30% delle pazienti affette da PCO si rileva una modica iperprolattinemia con valori basali circa doppi rispetto a quelli osservati in soggetti normali. Assai più raramente alterazioni policistiche dell’ovaio sono state osservate in pazienti con amenorrea-galattorrea da microprolattinoma. I rapporti tra PCO e iperprolattinemia hanno suscitato notevole interesse anche in rapporto al fatto che l’impiego di agenti dopaminergici (bromocriptina) può dimostrarsi di qualche utilità nel trattamento di alcuni casi di PCO. È noto che gli estrogeni stimolano la secrezione di PRL; questo dato sembra sufficiente a spiegare la più comune osservazione di modesta iperprolattinemia nelle pazienti con PCO. Nei rari casi di microprolattinoma associato a policistosi ovarica non si può escludere, anche se mancano prove dirette in tal senso, che un’alterazione dei meccanismi centrali (riduzione del tono dopaminergico) che provoca l’iperprolattinemia sia anche responsabile di una primitiva ipersecrezione di LH. B. Clinica. La policistosi ovarica è caratterizzata da una spiccata variabilità delle manifestazioni cliniche. La sindrome si diversifica pertanto in modo notevole da una paziente all’altra sia per la presenza o meno di determinati sintomi sia per la loro intensità e per le alterazioni ormonali rilevabili con i comuni esami di laboratorio (Tab. 59.12). Un’accurata anamnesi riveste particolare interesse per definire gli eventi clinici che hanno caratterizzato l’inizio della malattia. In un rilevante numero di pazienti si può evidenziare che alcune importanti manifestazioni cliniche sono comparse in epoca puberale: il menarca avviene in genere in età fisiologica, ma è subito seguito da irregolarità mestruali; un’amenorrea primaria è eccezio-
MALATTIE ENDOCRINE
nale. Un eccessivo sviluppo dell’apparato pilifero si verifica subito prima o intorno all’età del menarca. Un eccesso ponderale è presente in una quota di pazienti già prima del menarca. I disturbi del ciclo mestruale sono uno dei sintomi che più spesso portano la paziente a consultare il medico: possono aversi cicli anovulatori, oligomenorrea o amenorrea, senza che peraltro si possa stabilire una costante progressione o una evolutività di queste alterazioni. In rapporto alla genesi funzionale dell’anovulazione, in qualunque momento, per una fluttuazione del livello degli estrogeni, possono spontaneamente verificarsi dei cicli ovulatori. L’irsutismo è quasi costantemente presente, ma è, in genere, relativamente lieve. Talora è presente acne, mentre solo raramente si osservano segni di virilizzazione (Tab. 59.11). Sono assenti manifestazioni cliniche riferibili a ipoestrogenismo. In rapporto alle elevate concentrazioni di estrone circolante, il trofismo mammario e gli altri caratteri sessuali secondari sono in genere ben conservati. L’obesità è presente in meno della metà delle pazienti. C. Esami di laboratorio. L’assetto ormonale della policistosi ovarica è caratterizzato da: valori elevati di LH con accentuata variabilità tra un campione e l’altro; valori medio-bassi di FSH con rapporto LH/FSH aumentato; livelli di testosterone, androstenedione e DHEA-S modicamente aumentati rispetto alla normalità. Queste variazioni ormonali sono ben evidenti quando si confrontano i dati ottenuti in un gruppo di pazienti affette da PCO con quelli di un gruppo di soggetti normali; tuttavia nell’ambito delle pazienti con PCO la variabilità dei singoli valori è tale da sovrapporsi, in parte, al range dei valori normali. Come conseguenza, sul piano diagnostico-clinico i dosaggi ormonali hanno solo un valore indicativo: la normalità di uno o più di essi non esclude la PCO. D’altro canto, il rilievo di valori spiccatamente elevati di DHEA-S o di testosterone impone un’attenta valutazione diagnostica per escludere una patologia primitivamente surrenale (sindrome di Cushing da tumori surrenali, iperplasia surrenale congenita da deficit di 21-idrossilasi o di 11-idrossilasi) o un tumore ovarico secernente androgeni. Nelle pazienti con cicli conservati il dosaggio del progesterone plasmatico nella prima e nella seconda metà del ciclo viene utilizzato per evidenziare se i cicli sono ovulatori: nelle pazienti con cicli anovulatori non si osserva il fisiologico aumento dei livelli di progesterone plasmatico nella seconda fase del ciclo. I risultati dei test dinamici riflettono il particolare assetto funzionale del sistema GnRH-FSH/LH-ovaio: • nelle pazienti con amenorrea la somministrazione di medrossiprogesterone acetato (MAP test) provoca sanguinamento da privazione, indicando che la concentrazione di estrogeni circolanti è sufficiente a mantenere la proliferazione dell’endometrio, anche in assenza dei cicli mestruali;
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59 - MALATTIE DELLE GONADI
• la somministrazione di GnRH provoca una liberazione esagerata di LH, in rapporto all’iperresponsività ipofisaria al “releasing hormone” ipotalamico; • il test con clomifene è positivo in quanto il clomifene, antagonizzando l’azione degli estrogeni a livello ipotalamico, riesce a sbloccare il meccanismo di controregolazione negativo e, di conseguenza, a provocare una liberazione di FSH sufficiente a permettere la completa maturazione del follicolo ovarico.
si, non presenta particolari difficoltà. Un’anamnesi accurata che metta in luce la progressione cronologica dei sintomi riveste particolare importanza. In molte di queste pazienti, l’inizio della malattia si può localizzare intorno all’età puberale con la comparsa di irsutismo, di oligomenorrea e dell’eccesso ponderale. Riveste inoltre molta importanza stabilire la progressione dei sintomi di iperandrogenismo che, nella PCO, restano spesso stazionari o tendono a progredire lentamente. Al contrario, un iperandrogenismo insorto di recente e rapidamente progressivo richiede che vengano effettuate con urgenza tutte le indagini necessarie a distinguere la PCO da un iperandrogenismo di origine neoplastica (Fig. 59.13). Nella PCO un esame obiettivo, accurato e sistematico fornisce un’informazione sufficientemente precisa delle alterazioni endocrine: l’irsutismo, raramente associato a manifestazioni di virilizzazione, si associa ad un normale sviluppo dei caratteri sessuali secondari e a segni di adeguata estrogenizzazione (buono sviluppo mammario, normale trofismo della mucosa vaginale).
Questi test dinamici hanno pratica utilità nella diagnosi di PCO solo in situazioni particolari: il MAP test è utile solo nelle pazienti amenorroiche; il test con clomifene viene eseguito solo in pazienti che desiderano il concepimento. Le indagini strumentali che permettono di visualizzare le ovaie hanno notevole valore diagnostico. L’ecografia pelvica permette di valutare il volume delle ovaie e di evidenziare la presenza di cisti anche di piccole dimensioni. In alcuni casi può essere utile una TC dell’addome inferiore e/o una laparoscopia con biopsia. D. Diagnosi. La diagnosi di PCO si basa prevalentemente su elementi clinici e, nella maggior parte dei ca-
Elementi clinici di sospetto: irsutismo, acne, ecc.
Escludere l’assunzione di androgeni
Dosaggio di T, DHEA-S e/o 17-KS
T: –N DHEA-S: – N
T: N DHEA-S: N
Oligoamenorrea
Virilizzazione
MAP test positivo
T: DHEA-S:
–N
TN– DHEA-S:
Inibizione con desametasone (2 mg × 7 gg.)
MAP test negativo
Mancata inibizione
Inibizione Ecografia pelvica, laparoscopia
Ecografia pelvica
Ecografia pelvica, TC
Polcistosi ovarica
Irsutismo semplice
Neoplasia ovarica
T = testosterone plasmatico: DHEA-S = deidroepiandrosterone solfato plasmatico;
Figura 59.13 - Diagnosi di iperandrogenismo.
TC, scintigrafia surrenale
Iperplasia surrenale congenita
17-KS = 17-chetosteroidi urinari; N = normale
Neoplasia surrenale
aumento;
Spiccato aumento;
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Gli esami ormonali, in particolare l’aumento dei livelli di LH e del rapporto LH/FSH, forniscono un utile supporto alla diagnosi, che trova definitiva conferma negli esami strumentali ed in particolare nell’ecografia. Le immagini ecografiche delle ovaie permettono una precisa diagnosi anatomica di policistosi ovarica. L’aspetto dell’ovaio policistico è caratterizzato da aumento di volume delle ovaie, dalla presenza di cisti multiple e da aumento dello stroma. E. Cenni di terapia. I mezzi impiegati nel trattamento della PCO possono inserirsi in punti diversi del circolo vizioso (Fig. 59.12) che perpetua la condizione morbosa, interrompendolo. Si può ridurre la produzione di androgeni da parte dell’ovaio (riduzione del parenchima funzionante mediante intervento di resezione cuneiforme; somministrazione di estroprogestinici); ridurre la formazione periferica di androgeni (riduzione del peso corporeo) e antagonizzare la loro azione a livello dei recettori cellulari (ciproterone); aumentare la secrezione di FSH (somministrazione di clomifene).
MALATTIE ENDOCRINE
La scelta del mezzo terapeutico si basa sulla sintomatologia prevalente e sul fatto che la paziente sia o meno desiderosa di prole. In ogni caso di sovrappeso si impone il dimagramento. In una paziente con irsutismo che non desidera il concepimento si può bloccare la funzione ovarica mediante somministrazione di estroprogestinici o meglio con estro-antiandrogeni (estrogeni più ciproterone acetato). Nelle pazienti con amenorrea il sanguinamento da cessazione indotto da trattamento ciclico con estroprogestinici riduce anche il rischio di carcinoma dell’endometrio da iperplasia endometriale. Quando le pazienti desiderano prole, si usano induttori dell’ovulazione. Il farmaco di scelta in tal senso è il clomifene citrato (per il meccanismo d’azione). In caso di insuccesso si potrà ricorrere alla somministrazione di preparati di gonadotropine ad azione prevalentemente FSH-simile (HMG, Human Menopausal Gonadotrophin). L’efficacia della terapia con HMG è aumentata da un pretrattamento con un analogo del GnRH a lunga durata d’azione che sopprime l’iperpulsatilità del LH endogeno.
C A P I T O L O
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MALATTIE DELLE PARATIROIDI (*) L. CANTALAMESSA, M. BALDINI (*)
OMEOSTASI CALCIO-FOSFORO L’omeostasi minerale nei vertebrati superiori è regolata da due ormoni peptidici, il paratormone (PTH) e la calcitonina (CT), e da un ormone sterolico, l’1,25-diidrossicolecalciferolo o 1,25(OH)2D, che rappresenta il metabolita attivo della vitamina D. Questi ormoni sono integrati in un sistema complesso la cui funzione fisiologica principale è quella di mantenere costante la concentrazione di calcio, fosforo e magnesio nei liquidi extracellulari (Tab. 60.1). Tabella 60.1 - Azioni degli ormoni mineraloattivi. y
TESSUTO OSSEO PTH
CT
Stimola la mobilizzazione di calcio e fosforo
RENE
INTESTINO
Stimola il riassorbimento tubulare di calcio. Inibisce il riassorbimento tubulare di fosforo. Stimola la conversione 25OHD3 → 1,25(OH)2D3
Non ha effetti diretti, ma mediati dall’1,25 (OH)2D3
Inibisce la mo- Inibisce il rias- Non ha effetti bilizzazione sorbimento tu- diretti di calcio e fo- bulare di calcio sforo
Vitamina D Facilita la mineralizzazione intervenendo nel meccanismo di trasporto del calcio
Stimola il rias- Stimola l’assorsorbimento tu- bimento di calbulare di calcio cio e fosforo
(*) Con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di M. Sironi.
La biosintesi e la secrezione di PTH e CT sono regolate dalla concentrazione di ioni calcio nei liquidi extracellulari. La biosintesi della vitamina 1,25(OH)2D a partire dai precursori inattivi ha luogo a livello del rene ed è regolata dal PTH, dalla CT e dalla concentrazione di calcio e fosforo circolanti. Paratormone, calcitonina e 1,25(OH)2D regolano l’afflusso e l’efflusso del calcio e del fosforo nel compartimento extracellulare, agendo a livello di vari organi: intestino, rene e tessuto osseo. In particolare, le cellule bersaglio situate in questi organi, grazie all’azione degli ormoni mineraloattivi, sono in grado di trasportare gli ioni calcio, attraverso i vari compartimenti del liquido extracellulare, contro un gradiente di concentrazione. Altri ormoni come il cortisolo, l’aldosterone, il GH, gli estrogeni, il testosterone, la T4 hanno un sicuro ruolo fisiologico nel modulare la responsività degli organi periferici all’azione di PTH, CT e 1,25(OH)2D.
Paratormone A. Struttura e metabolismo. Il PTH è un ormone polipeptidico costituito da una catena lineare di 84 aminoacidi, con un residuo N-terminale in posizione 1 che ne condiziona l’attività biologica. Nelle cellule paratiroidee il PTH è contenuto sotto forma di due preormoni: • il pre-pro-PTH, un polipeptide di 113 aminoacidi che rappresenta il prodotto originale di trascrizione del genoma contenuto nelle cellule paratiroidee; • il pro-PTH, un polipeptide di 90 aminoacidi che deriva dal pre-pro-PTH attraverso la separazione di una catena costituita dai primi 23 aminoacidi. Il pro-PTH viene convertito a PTH, tramite rimozione enzimatica dei 6 aminoacidi N-terminali. Il PTH è presente nel circolo periferico in forme eterogenee; si possono infatti dimostrare nel siero varie componenti con immunoreattività, caratteri fisico-chimici e probabilmente effetto biologico diverso (Fig. 60.1):
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MALATTIE ENDOCRINE
Frammento C 35-84 Dosaggio con siero anti-C Pre-pro-PTH → pro-PTH PTH (1-84)
PTH 1-84 Dosaggio con siero anti-N
Ghiandole paratiroidi
Frammento N 1-34 Circolo periferico
Figura 60.1 - Rappresentazione schematica del metabolismo del PTH. Nelle cellule paratiroidee avvengono i processi di scissione che portano alla formazione del PTH dai precursori inattivi. Il metabolismo del PTH, con formazione dei frammenti C- e N-terminale, avviene invece prevalentemente alla periferia. Le diverse superfici dei riquadri che rappresentano il PTH 1-84 ed i frammenti C- e N-terminali sono indicative di analoghe differenze quantitative nel pool extracellulare dei tre polipeptidi. L’emivita del frammento C-terminale si misura in giorni mentre quella del frammento N-terminale è di pochi min.
• l’ormone nativo (PTH 1-84), di diretta derivazione ghiandolare; rappresenta solo il 10% dei polipeptidi circolanti che reagiscono con antisiero anti-PTH; • il frammento C-terminale (PTH 35-84), a metabolismo lento, biologicamente inattivo; reagisce con antisieri specifici anti-C; • il frammento N-terminale (PTH 1-34), biologicamente attivo, di piccolo peso molecolare con turnover metabolico estremamente rapido; reagisce con antisieri specifici anti-N. Questi polipeptidi PTH-derivati presenti in circolo possono essere originati sia dalla secrezione diretta da parte delle paratiroidi che dal metabolismo degradativo del PTH nativo ad opera dei tessuti periferici. Numerose evidenze sperimentali sembrano comunque dimostrare che il metabolismo del PTH 1-84 a livello periferico rappresenta la principale origine dei frammenti C ed N-terminali. Sotto quest’aspetto, un ruolo particolarmente importante rivestono rene e fegato; l’ormone nativo 1-84 si fissa infatti elettivamente in queste sedi e subisce un processo di scissione con formazione dei frammenti carbossi ed aminoterminali (Fig. 60.2). I frammenti N- e C-terminale presenti in circolo vanno incontro ad un destino completamente diverso; mentre il frammento N-terminale si fissa al tessuto osseo e alle cellule peritubulari del rene, dove esplica gli effetti fisiologici propri del PTH, il frammento C-terminale viene eliminato dal circolo mediante filtrazione glomerulare e degradazione a livello tubulare. In campo clinico, queste conoscenze sul metabolismo periferico del PTH sono necessarie ad una corretta valutazione dei risultati ottenuti dal dosaggio dei vari frammenti immunoreattivi del PTH. Come appare dallo schema di figura 60.1, il frammento C-terminale, per la sua lunga emivita, rappresenta in circolo circa l’80% dei polipeptidi PTH-immunoreattivi. Usando pertanto sieri specifici anti-C si ottengono valori di PTH immunoreattivo stabili e riproducibili, ben correlati con gli altri parametri che esprimono l’equilibrio PTH-calcio in pazienti con funzionalità renale normale. Al contrario, il frammento C-terminale può risultare abnormemente aumentato in presenza di insufficienza renale. Il dosaggio del frammento N-terminale, a causa della brevissima emivita della molecola, può invece più
PTH 1-84
Fegato
Rene Frammenti di PTH NH2-terminale
Tessuto osseo
COOH-terminale
Tubulo renale
Figura 60.2 - Metabolismo periferico del PTH. Il PTH secreto dalle paratiroidi in forma nativa (1-84) viene metabolizzato a livello del fegato e del rene con formazione dei frammenti C- e N-terminale. Il frammento N-terminale, biologicamente attivo, si fissa a recettori specifici a livello del tessuto osseo e delle cellule dei tubuli renali. Il frammento C-terminale biologicamente inattivo presente in circolo viene eliminato come tale dal rene. (Da Martin, 1979.)
fedelmente seguire le brusche variazioni della secrezione del PTH indotte dai vari stimoli. Per tutte queste ragioni si ritiene valido dal punto di vista diagnostico il dosaggio della molecola intera 1-84. B. Azioni fisiologiche. La principale funzione del PTH è quella di mantenere entro i limiti fisiologici la
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60 - MALATTIE DELLE PARATIROIDI
concentrazione di calcio nei liquidi extracellulari. Gli effetti del PTH si esplicano a livello di vari organi, mediante meccanismi diversi. A livello renale il PTH aumenta il riassorbimento tubulare di calcio e l’escrezione di fosfati. L’effetto fosfaturico del PTH ha rilevanti conseguenze sull’omeostasi del calcio; la riduzione dei fosfati circolanti stimola infatti la formazione di 1,25(OH)2D ed evita l’accumulo in circolo dei fosfati liberati dalla mobilizzazione della componente minerale del tessuto osseo, indotta dal PTH stesso. A livello del tessuto osseo il PTH esercita un effetto diretto di mobilizzazione della componente minerale. In questa sede, l’azione del PTH si esplica attraverso l’attivazione dei processi che conducono alla differenziazione delle cellule mesenchimali in osteoclasti. A livello intestinale, il PTH non esercita azioni dirette. L’aumentato assorbimento intestinale di calcio, che si osserva dopo somministrazione di PTH, è mediato dall’aumentata sintesi di 1,25(OH)2D. C. Regolazione della secrezione. La concentrazione degli ioni calcio nei liquidi extracellulari rappresenta il principale meccanismo di regolazione della secrezione di PTH. L’equilibrio del sistema calcio-PTH è regolato da un meccanismo di controregolazione negativa. Diminuzioni, anche modeste, della concentrazione degli ioni calcio circolanti provocano una rapida liberazione di PTH in circolo. L’ormone liberato, a sua volta, agisce sul rene, sull’osso e indirettamente sull’intestino in modo tale da riportare la concentrazione del calcio nei limiti di norma. Al contrario, un’elevazione dei livelli plasmatici del calcio inibisce la secrezione di PTH. Anche la concentrazione del magnesio può influenzare la secrezione di PTH, ma il ruolo fisiologico di questo ione è meno importante e non completamente definito. Mentre l’aumento della magnesiemia inibisce la secrezione di PTH in modo simile a quanto avviene per l’ipercalcemia, la situazione è del tutto diversa in condizioni di ipomagnesiemia. Infatti, una netta diminuzione della magnesiemia non stimola, ma inibisce, sia in condizioni sperimentali che nell’uomo, la secrezione di PTH. È noto che, in condizioni di malassorbimento intestinale che comportino una riduzione del magnesio nel siero, si osserva una concomitante ipocalcemia, associata ad una concentrazione inappropriatamente ridotta di PTH circolante, con scarsa responsività all’azione terapeutica del PTH. Questa refrattarietà all’azione del PTH regredisce completamente con la correzione dell’ipomagnesiemia.
Calcitonina A. Struttura e forme molecolari. La calcitonina (CT) è un ormone polipeptidico formato da 32 aminoacidi, sintetizzato e secreto dalle cellule parafollicolari o cellule C della tiroide. Le cellule parafollicolari, derivate embriologicamente dalla cresta neurale, differiscono da un punto di vista istologico e funzionale dalle cellule follicolari che secernono T4 e T3. È nota la struttura
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chimica della CT presente in molte specie animali. La molecola è costantemente costituita da una catena di 32 aminoacidi, con notevoli differenze di composizione nei singoli aminoacidi da una specie all’altra che comportano una discreta variabilità dell’attività biologica. La CT è presente in circolo in forme molecolari diverse, con diversa immunoreattività e differente attività biologica. Al contrario di quanto avviene per il PTH, non si tratta di frammenti della molecola originale ma di polipeptidi a peso molecolare maggiore, probabilmente polimeri della CT nativa. Come conseguenza pratica, poiché i dosaggi RIA misurano anche alcuni di questi polimeri, è necessario stabilire i limiti di normalità di CT immunoreattiva per ciascun antisiero impiegato. B. Azioni fisiologiche. L’effetto fisiologico meglio definito della CT è quello ipocalcemizzante, che si esplica soprattutto attraverso l’inibizione del riassorbimento osseo. L’azione della CT sul tessuto osseo è mediata da un’inibizione dell’attività degli osteoclasti; in tal senso l’effetto della CT è opposto a quello del PTH. La CT agisce anche a livello renale aumentando l’eliminazione di calcio e di fosforo; tuttavia in concentrazioni fisiologiche la sua azione in tal senso è transitoria e trascurabile. Non sembra che la CT abbia effetti sull’assorbimento intestinale di calcio; alcuni dati sperimentali sembrano tuttavia dimostrare che la calcitonina inibisce la produzione renale di 1,25(OH)2D3. È importante rilevare che, nella specie umana, il ruolo fisiologico della CT nella regolazione dell’omeostasi calcica è incerto. È probabile che durante l’evoluzione filogenetica l’importanza della CT come regolatore del metabolismo minerale sia andata progressivamente attenuandosi. Infatti, mentre un eccesso o una carenza di PTH o di vitamina D si associano a ben definite condizioni patologiche, un eccesso o una carenza di CT, che si realizzano rispettivamente in pazienti con carcinoma midollare della tiroide e dopo tiroidectomia totale, non si associano ad evidenti anomalie del metabolismo minerale. Tuttavia, poiché i livelli circolanti di CT e la sua produzione in risposta a vari stimoli tendono a diminuire nei soggetti anziani, è stata prospettata la possibilità che la progressiva diminuzione di secrezione possa costituire un fattore eziologico dell’osteoporosi senile. C. Regolazione della secrezione. La concentrazione degli ioni calcio nei liquidi extracellulari rappresenta, in condizioni fisiologiche, il principale fattore di regolazione della secrezione di CT. Elevate concentrazioni di calcio nel liquido extracellulare stimolano la liberazione di CT, mentre bassi livelli di calcio la inibiscono. Altri cationi, quali magnesio e bario, stimolano la secrezione di CT; non è tuttavia dimostrata la loro importanza fisiologica. Questo vale anche per vari enterormoni: gastrina, glucagone e colecistochinina hanno un sicuro effetto secretogogo in dosi farmacologiche. Alcune evidenze sperimentali sembrano dimostrare che il sistema nervo-
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so autonomo partecipa alla regolazione della secrezione di CT: gli agenti -agonisti la stimolano e quelli -agonisti e dopaminergici la inibiscono.
Vitamina D A. Origine e metabolismo. L’1,25(OH)2D, diidrossicolecalciferolo o calcitriolo, rappresenta la forma biologicamente attiva della vitamina D più importante e meglio studiata. L’1,25(OH)2D può essere considerata un vero ormone, in quanto viene prodotta a livello del fegato e del rene, a partire da precursori inattivi, viene immessa in circolo e si lega a recettori citoplasmatici specifici a livello delle cellule effettrici. Il meccanismo d’azione a livello cellulare è simile a quello degli ormoni steroidei. I precursori dell’1,25(OH)2D sono rappresentati dal colecalciferolo o vitamina D3, che deriva dall’irradiazione ultravioletta del 7-deidrocolesterolo a livello della cute, e dall’ergocalciferolo o vitamina D2, che si forma dall’ergosterolo nei tessuti vegetali e viene ingerito con gli alimenti. Pertanto, nell’uomo, la vitamina D può derivare dalla dieta (vitamina D2) o, in misura precipua, può essere prodotta a livello cutaneo (vitamina D3). L’attivazione delle vitamine D2 e D3 biologicamente inattive avviene a livello epatico e renale, mediante processi successivi di idrossilazione. La 25-idrossilazione ha luogo a livello epatico con formazione di 25OHD. La 1--idrossilazione della 25OHD avviene a livello del tubulo renale con formazione del metabolita attivo 1,25(OH)2D. Mentre il processo di idrossilazione in posizione 25 non è controllato da meccanismi regolatori ed avviene solo in rapporto alla disponibilità del substrato, la produzione di 1,25(OH)2D è strettamente controllata da una serie di fattori che ne modulano la sintesi in rapporto all’equilibrio minerale dell’organismo. Questa differenza dei meccanismi di controllo della biosintesi rende ragione del fatto che la 25OHD è presente in circolo in concentrazioni mille volte superiori a quelle della 1,25(OH2)D. Quando non è specificato altrimenti, i termini vitamina D, 25OHD, 1,25(OH)2D sono usati per intendere sia la vitamina D2 che la vitamina D3 e i loro metaboliti attivi. Le vitamine D2 e D3 e i loro metaboliti hanno equivalente attività biologica nell’uomo, ma i metaboliti della vitamina D3 hanno prevalente rilevanza fisiologica per ragioni quantitative. B. Regolazione secretoria. Il principale meccanismo fisiologico di regolazione della produzione di 1,25(OH)2D è rappresentato dal paratormone. I livelli circolanti di 1,25(OH)2D sono aumentati nell’iperparatiroidismo primitivo e ridotti nell’ipoparatiroidismo. La somministrazione di PTH a soggetti normali o a pazienti ipoparatiroidei provoca un aumento di 1,25(OH)2D nel siero. Le variazioni della calcemia influenzano la sintesi di 1,25(OH)2D attraverso le variazioni di senso opposto della secrezione di PTH; una brusca riduzione della calcemia si associa ad aumento della 1,25(OH)2D, mentre un aumento del calcio circolante inibisce la secrezione di PTH e la sintesi di 1,25(OH)2D.
Anche la concentrazione di fosforo, a livello dei tubuli renali, influenza la sintesi di 1,25(OH)2D. Una serie di evidenze cliniche e sperimentali dimostra che il trasporto tubulare del fosforo, PTH indotto, e la produzione renale di 1,25(OH)2D sono strettamente correlati. Per esempio, nello pseudoipoparatiroidismo il mancato effetto fosfaturico del PTH si associa ad un trascurabile incremento di 1,25(OH)2D dopo somministrazione di PTH. Sono stati dimostrati anche meccanismi di autoregolazione a livello di alcune tappe della biosintesi della vitamina D. L’1,25(OH)2D inibisce, a livello epatico, la 25-idrossilazione della vitamina D, riducendo di conseguenza la sintesi del suo precursore 25OHD, e, a livello renale, inibisce l’enzima 1--idrossilasi, riducendo la propria stessa sintesi. Un’azione inibitoria della CT sull’attività dell’1--idrossilasi renale è stata rilevata in alcune condizioni sperimentali; tuttavia il ruolo fisiologico della CT sulla regolazione della sintesi di 1,25(OH)2D non è attualmente dimostrato. C. Azioni fisiologiche. Si ritiene che il ruolo fisiologico principale della vitamina D sia quello di aumentare i livelli circolanti di calcio e fosforo, in modo tale da creare le condizioni più favorevoli per un’ottimale mineralizzazione ossea. L’aumento del calcio e del fosforo circolanti è ottenuto principalmente mediante l’azione che la vitamina D esercita a livello intestinale, dove stimola l’assorbimento di questi minerali. Nelle cellule intestinali la 1,25(OH)2D agisce con un meccanismo del tutto simile a quello degli ormoni steroidei; si lega ad un recettore citoplasmatico formando un complesso che viene secondariamente traslocato nel nucleo dove, agendo sulla cromatina, stimola la produzione di una proteina legante il calcio (CBP, Calcium Binding Protein). Quest’ultima facilita il trasporto attivo degli ioni calcio dal lume intestinale al circolo. Le principali conseguenze della carenza di vitamina D sono rilevabili a livello osseo. Consistono in grossolani difetti di mineralizzazione che caratterizzano condizioni patologiche ben note come l’osteomalacia e il rachitismo. Tuttavia i tentativi di chiarire il meccanismo d’azione fisiologico della vitamina D sui processi di mineralizzazione del tessuto osseo hanno dato risultati inconclusivi, in confronto con la ben documentata azione dell’ormone sulle cellule intestinali. In contrasto con i rilievi clinici, che dimostrano costantemente un’azione mineralizzante dell’ormone, in condizioni sperimentali la vitamina D stimola il riassorbimento osseo e inibisce la formazione della matrice proteica (collageno). Secondo un concetto classico, questa discrepanza può essere spiegata da una sequenza patogenetica di questo tipo: la vitamina D stimola, in sinergismo con il PTH, i processi di riassorbimento osseo; il calcio ed il fosforo derivanti dalla demineralizzazione ossea raggiungono, nei liquidi extracellulari, una concentrazione tale da promuovere la rimineralizzazione dell’osso con un meccanismo spontaneo vitamina D-indipendente. Pertanto, il ruolo chiave della vitamina D nell’omeostasi ossea si realizzerebbe attraverso la riutilizzazione del calcio e del fosforo liberati, che promuovono i processi di neoformazione e di mineralizzazione del tessuto osseo quando il prodotto
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delle concentrazioni Ca × P dei liquidi extracellulari supera la soglia di solubilità. Tuttavia, alcuni recenti dati sperimentali mettono in dubbio che i processi di neoformazione e di mineralizzazione ossea, vitamina D- indotti, avvengano solo in rapporto alle leggi fisiche che regolano la solubilità degli ioni calcio e fosforo. Secondo queste ricerche, i processi di mineralizzazione avverrebbero con un processo attivo regolato da uno o più metaboliti diversi della 1,25(OH)2D, ed in particolare da composti idrossilati in posizione 24 (24,25(OH)2D). Il ruolo della vitamina D nel regolare a livello renale l’eliminazione di calcio e fosforo è mal definito. Dati sperimentali sembrano dimostrare che la vitamina D stimola il riassorbimento tubulare di calcio e fosforo; questo effetto è particolarmente evidente in condizioni di carenza di vitamina D. Il riassorbimento del fosforo avviene anche in animali paratiroidectomizzati, suggerendo che la vitamina D ha un’azione diretta, PTH-indipendente, sul tubulo prossimale. Tuttavia questi effetti della vitamina D sull’eliminazione renale di calcio e fosforo non sono costantemente riproducibili usando protocolli sperimentali diversi. Inoltre, poiché in condizioni di carenza di vitamina D il 99% del calcio filtrato dal glomerulo è riassorbito a livello tubulare, l’importanza fisiologica della vitamina D nel promuovere il riassorbimento del calcio appare trascurabile. Recentemente, è stata evidenziata la presenza di recettori per l’1,25(OH)2D nelle cellule del midollo osseo e in numerose cellule e tessuti al di fuori di quelli che sono tradizionalmente considerati gli organi bersaglio della vitamina D: intestino, osso e rene. Questa osservazione sembra indicare che la vitamina D può avere numerosi effetti fisiologici in aggiunta a quelli correlati con il metabolismo minerale. Questa possibilità è, d’altro canto, in accordo con alcuni rilievi clinici ben noti, come la presenza di anemia e mielofibrosi, corrette dalla somministrazione di vitamina D, in bambini affetti da rachitismo; la facilità alle infezioni in questi stessi pazienti, correlata alla ridotta motilità e all’alterata capacità dei granulociti di fagocitare i batteri.
IPOPARATIROIDISMO L’ipoparatiroidismo è una condizione clinica causata da carenza di PTH, caratterizzata, sul piano biochimico, da ipocalcemia ed iperfosfatemia, e su quello clinico, da sintomi di tipo neuromuscolare e dalla deposizione di sali di calcio a livello dei tessuti molli. Eziologia Le condizioni morbose capaci di interessare le paratiroidi provocando una distruzione del parenchima ghiandolare di entità tale da causare una ridotta produzione di PTH sono poche e rare (Tab. 60.2). Molto più frequente è l’ipoparatiroidismo postchirurgico, causato da interventi nella regione del collo, in particolare sulla tiroide. La tiroidectomia totale è gravata da ipoparatiroidismo in una rilevante percentuale di casi, per asportazione accidentale delle paratiroidi o per lesioni di ori-
Tabella 60.2 - Cause di ipoparatiroidismo. • Iatrogeno – Postchirurgico – Tiroidectomia totale – Paratiroidectomia per iperparatiroidismo – Neoplasie maligne del collo • Da radiazioni • Idiopatico – Isolato – Associato ad altre manifestazioni autoimmuni • Da processi infiltrativi – Metastasi – Emocromatosi – Amiloidosi • Disembriogenetico – Sindrome di Di George • Funzionale – Ipomagnesiemia
gine vascolare. Spesso l’ipoparatiroidismo postchirurgico è transitorio e tende a correggersi spontaneamente nello spazio di alcune settimane. Questi soggetti possono tuttavia sviluppare ipocalcemia e tetania a distanza di tempo, in condizioni di maggior richiesta di calcio, come durante la gravidanza e l’allattamento. La somministrazione terapeutica di 131I provoca solo eccezionalmente un’ipofunzione delle paratiroidi. L’ipoparatiroidismo idiopatico è una condizione morbosa assai rara, talora a carattere familiare. È causato da un difetto genetico della sorveglianza immunitaria. Concomitano pertanto altre endocrinopatie autoimmuni e manifestazioni autoimmuni extraendocrine. Particolarmente frequente è l’associazione con la candidiasi e il morbo di Addison (Cap. 61). In alcuni casi ad estrinsecazione tardiva, l’ipoparatiroidismo compare in forma isolata ed in assenza di anticorpi circolanti. Una condizione di ipoparatiroidismo funzionale può realizzarsi in situazioni caratterizzate da cronica ipomagnesiemia: sindromi da malassorbimento, alcolismo cronico, difetto selettivo dell’assorbimento di magnesio. Come abbiamo sopra detto, una normale concentrazione in circolo di magnesio è necessaria perché il PTH sia secreto in quantità fisiologica; nei pazienti con ipomagnesiemia si rilevano livelli estremamente ridotti di PTH in circolo e ipocalcemia. Il trattamento con sali di magnesio determina un rapido aumento del PTH plasmatico con successiva normalizzazione della calcemia. L’ipoparatiroidismo può avere anche un’origine disembriogenetica (sindrome di Di George) per un difetto di sviluppo della regione branchiale. In questi pazienti l’assenza delle paratiroidi e del timo si associa ad alterazioni immunologiche e ad anomalie cardiovascolari. Fisiopatologia La carenza di PTH comporta una serie di alterazioni che possono essere così schematizzate: • riduzione dei processi di rimodellamento osseo con ridotta cessione di calcio al plasma ed aumento della densità ossea;
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• ridotta eliminazione urinaria dei fosfati con conseguente iperfosforemia e tendenza del fosforo a depositarsi come fosfato tricalcico a livello di vari tessuti; • diminuita formazione di 1,25(OH)2D3 causata dall’aumento della fosforemia, con conseguente riduzione dell’assorbimento intestinale di calcio; • aumentata eliminazione urinaria di calcio. La principale conseguenza di queste alterazioni del metabolismo minerale è rappresentata dalla riduzione del calcio ionizzato nel compartimento extracellulare e dalla deposizione, nelle forme più gravi, di cristalli di fosfato tricalcico nei tessuti molli. L’ipocalcemia determina un abbassamento della soglia di eccitabilità delle fibre nervose motorie e sensitive. La stimolazione delle terminazioni nervose provoca una risposta di tipo ripetitivo, fino all’attività continua. La crisi tetanica, caratteristica manifestazione dell’ipoparatiroidismo acuto, è espressione di questa ipereccitabilità neuromuscolare diffusa. Clinica Le manifestazioni cliniche dell’ipoparatiroidismo sono in gran parte correlate all’entità ed alla rapidità di insorgenza dell’ipocalcemia. Si possono pertanto distinguere: • forme acute, in cui predominano la tetania e gli altri sintomi e segni addebitabili ad una rapida diminuzione dei livelli di calcio circolante; • forme croniche o parziali, in cui l’ipocalcemia è meno grave e/o si instaura in un lasso di tempo più prolungato. Le manifestazioni cliniche di queste forme sono sfumate e spesso la diagnosi viene posta quando sono già presenti alterazioni dipendenti dalla deposizione di sali di calcio in vari organi e/o disturbi trofici coinvolgenti molteplici tessuti. A. Forme acute. La contrattura spastica dei muscoli che caratterizza la tetania (dal greco = tendo) rappresenta la manifestazione semeiologicamente più evidente dell’ipoparatiroidismo acuto. Le manifestazioni motorie della tetania sono in genere precedute da disturbi sensitivi, consistenti in formicolii e parestesie agli arti, alla regione periorale e alla lingua. La contrazione spastica interessa inizialmente i muscoli distali degli arti con il cosiddetto spasmo carpo-podale. Le mani, per la contrazione dei muscoli interossei, assumono la caratteristica posizione “da ostetrico” con dita iperestese, accostate fra loro e flesse sull’articolazione metacarpo-falangea (Fig. 60.3). I piedi sono invece iperestesi in posizione varo-equina. La contrattura tetanica può progressivamente coinvolgere i muscoli prossimali degli arti con iperestensione dei gomiti e delle ginocchia, i muscoli periorbicolari con protrusione delle labbra (muso di carpa) e i muscoli del tronco con opistotono. Possono essere interessati anche i muscoli della laringe con spasmo della glottide e dispnea inspiratoria (tirage). Talora la crisi tetanica assume un carattere tonico-clonico, con convulsioni generalizzate che possono essere
Figura 60.3 - Contrazione spastica della mano (“mano da ostetrico”) caratteristica della tetania.
distinte con difficoltà da manifestazioni analoghe di origine diversa: crisi epilettiche, ipoglicemia acuta, ecc. Negli intervalli tra gli episodi di acuzie, permane uno stato di ipereccitabilità sia periferica sia centrale, che viene definito come “tetania latente”. Questa si estrinseca nella presenza di iperreflessia tendinea, con eventuali spasmi muscolari localizzati, ed in uno stato di ansietà ed irritabilità psichica. La tetania latente può essere evidenziata facendo iperventilare il paziente o mediante alcune manovre semeiologiche: • percuotendo leggermente il nervo facciale subito davanti al trago, sotto l’arcata zigomatica, o tra arcata zigomatica e angolo della bocca, si osserva una contrazione spastica dei muscoli da esso innervati, ed in particolare dell’orbicolare delle labbra con contrazione dell’angolo della bocca (segno di Chvostek); • l’applicazione al braccio di uno sfigmomanometro, tenuto per almeno 2 min ad una pressione superiore di circa 20 mmHg a quella sistolica, provoca il tipico spasmo carpale, con mano da ostetrico (segno di Trousseau). B. Forme croniche. Nell’ipoparatiroidismo cronico l’ipocalcemia si instaura lentamente ed è in genere di minor entità. Pertanto le manifestazioni conclamate di tetania possono essere assenti. L’ipereccitabilità neuromuscolare causata dall’ipocalcemia può manifestarsi solo con parestesie, facile esauribilità, crampi muscolari. Comunque le manifestazioni legate all’iperattività neuromuscolare non rappresentano l’elemento clinico preminente dell’ipoparatiroidismo cronico. Il decorso prolungato della malattia permette infatti l’instaurarsi di lesioni causate dalla deposizione di fosfato tricalcico. Le sedi colpite in modo preferenziale sono le seguenti. • Il sistema nervoso centrale, ed in particolare i nuclei della base con manifestazioni di tipo extrapiramidale. Nei pazienti più giovani colpiti da ipoparatiroidismo cronico si ha anche ritardo dello sviluppo psichico. • Il cristallino, in cui la deposizione di sali di calcio provoca cataratta posteriore, spesso bilaterale, che nell’adulto rappresenta in genere la complicanza più temibile dell’ipoparatiroidismo cronico.
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• Il tessuto sottocutaneo e i tendini, in cui la deposizione di sali di calcio dà luogo alla comparsa di numerose piccole nodosità di consistenza lignea palpabili a livello del sottocutaneo e lungo il decorso dei tendini. L’ipocalcemia provoca anche disturbi trofici dei tessuti di derivazione ectodermica: la cute diviene secca e rugosa, gli annessi cutanei (unghie, capelli, peli) fragili; non raramente i capelli cadono a chiazze dando luogo ad aree di alopecia. A livello dell’apparato dentario si osservano alterazioni della dentina e dello smalto, con tendenza alla caduta precoce. Nelle forme ad insorgenza precoce queste alterazioni assumono particolare gravità, con ritardo della dentizione. Le alterazioni cutanee sono spesso complicate dalla presenza di candidiasi, che interessa prevalentemente le unghie e la mucosa orale. L’ipocalcemia può inoltre provocare: edema della papilla; alterazioni elettrocardiografiche caratterizzate da allungamento dell’intervallo Q-T e più raramente da blocchi atrio-ventricolari; malassorbimento intestinale. La genesi di quest’ultimo disturbo non è chiara, tuttavia la sua correlazione con l’ipocalcemia cronica trova supporto nell’osservazione clinica: la correzione dell’ipocalcemia si associa infatti a regressione della sindrome da malassorbimento. Quasi costantemente nell’ipoparatiroidismo si osservano manifestazioni psichiche, caratterizzate nelle forme croniche da labilità emotiva, disturbi della memoria e tendenza alla depressione. Al contrario, nelle forme acute predominano crisi d’ansia e irritabilità. A questi disturbi psichici possono associarsi segni neurologici di tipo extrapiramidale come tremori e rigidità, causati dalla presenza di calcificazioni nei nuclei della base. Esami di laboratorio e strumentali L’ipoparatiroidismo è caratterizzato, dal punto di vista biochimico, da ipocalcemia ed iperfosforemia. In assenza di insufficienza renale questi due dati sono praticamente diagnostici. Esistono alcune eccezioni in cui l’assetto biochimico è caratterizzato da una normale concentrazione di fosfati nel sangue nonostante l’ipoparatiroidismo. Questa situazione può verificarsi subito dopo una paratiroidectomia per iperparatiroidismo, in quanto il tessuto osseo è così avido di minerali da utilizzare l’eccesso di fosforo presente in circolo. La fosforemia può essere normale anche in pazienti che seguono una dieta povera di fosfati o che assumono farmaci che li adsorbono a livello intestinale (antiacidi a base di idrossido d’alluminio). L’eliminazione urinaria di fosfati è ridotta, in quanto manca l’effetto fosfaturico del PTH. Viceversa, la calciuria è diminuita come conseguenza dei ridotti livelli di calcio circolanti. Il PTH immunoreattivo presente in circolo è estremamente ridotto, in genere al di sotto della sensibilità dei metodi di dosaggio comunemente impiegati. L’aumentata mineralizzazione del tessuto osseo provocata dall’ipoparatiroidismo può essere evidenziata, solo nei casi più gravi, dall’esame radiologico dello scheletro, con un aumento della densità ossea. Quasi costante è invece l’aumento dello spessore della lamina
dura dei denti, anch’esso rilevabile radiologicamente. L’esame radiologico del cranio e ancor meglio la TC possono dimostrare la presenza di calcificazioni a livello dei nuclei della base. All’elettrocardiogramma l’ipocalcemia si manifesta con un prolungamento dell’intervallo Q-T. Diagnosi Nelle forme postoperatorie il dato anamnestico indirizza già chiaramente alla diagnosi, che deve trovare conferma nei dati biochimici. Nelle altre forme la diagnosi può essere facilmente sospettata in presenza di crisi tetaniche. In questi pazienti è necessario differenziare l’ipoparatiroidismo dalle altre condizioni che possono provocare tetania (Tab. 60.3) o manifestazioni di tipo convulsivo. Nell’ipoparatiroidismo cronico la sintomatologia clinica sfumata e le stesse caratteristiche psichiche dei pazienti (irritabili, scarsamente collaboranti, psichicamente instabili) rendono difficile sospettare l’ipoparatiroidismo. In tutti i casi il rilievo, in più campioni di sangue, di ipocalcemia ed iperfosforemia (Tab. 60.4), in presenza di livelli di PTH al di sotto della sensibilità del metodo, permette di porre la diagnosi di ipoparatiroidismo primitivo. Il riscontro di livelli di PTH ridotti rappresenta un elemento di notevole utilità nella diagnosi differenziale dell’ipoparatiroidismo rispetto allo pseudoipoparatiroidismo, causato da resistenza dei tessuti periferici all’azione del PTH. Cenni di terapia La terapia dell’ipoparatiroidismo si prefigge di normalizzare la concentrazione di calcio circolante. La terapia sostitutiva con PTH non viene in pratica usata, in quanto le preparazioni commerciali di PTH non sono sufficientemente purificate e provocano facilmente reaTabella 60.3 - Cause di tetania. Con ipocalcemia • Paratiroidee – Ipoparatiroidismo primitivo (Tab. 60.2) – Pseudoipoparatiroidismo • Non paratiroidee – Insufficiente apporto dietetico di calcio Perdita di calcio: renale (acidosi tubulare; ipercalciuria idiopatica); intestinale (diarrea; fistole) – Aumentato fabbisogno di calcio (gravidanza; allattamento) – Iperfosforemia (insufficienza renale cronica; eccessivo apporto di composti inorganici contenenti fosfati) – Avitaminosi D o resistenza tissutale alla vitamina D – Iatrogena (chelanti; alcalinizzanti; lassativi; fenobarbital) – Metastasi osteoblastiche Con calcemia normale – Alcalosi (vomito; iperventilazione) – Ipokaliemia (iperaldosteronismo primitivo; terapia diuretica; corticosteroidi)
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Tabella 60.4 - Caratteristiche biochimiche delle condizioni morbose più frequentemente associate a tetania. CAUSA DI TETANIA
CALCIO TOTALE
FOSFOREMIA
HCO–3
↓ ↓ ↓
↑ ↑ ↓
N N N
N (1) N (1) N (1) N (1)
N N N N
↓ ↑ ↑ ↑
• Ipocalcemia – Ipoparatiroidismo – Pseudoipoparatiroidismo – Rachitismo e osteomalacia • Alcalosi – Iperventilazione – Vomito – Eccessiva ingestione di alcalini – Aldosteronismo primitivo
(1) Il calcio ionizzato è ridotto in tutte le forme di tetania nota.
zioni immunitarie. Inoltre nei pazienti affetti da pseudoipoparatiroidismo con resistenza periferica all’ormone, la somministrazione di PTH è comunque priva di efficacia. La terapia dell’ipoparatiroidismo è pertanto basata su altri presidi: • restrizioni dietetiche, con eliminazione di latticini ed altri alimenti ricchi di fosforo; • supplemento calcico di 1-2 g/die per os; • somministrazione di metaboliti attivi della vitamina D: tra questi, si ricorre al diidrossicolecalciferolo (1,25(OH)2D3) e al diidrotachisterolo (AT10) in dosi farmacologiche. La vitamina D rappresenta il presidio più efficace nella terapia dell’ipoparatiroidismo in quanto, stimolando l’assorbimento intestinale di calcio e il rimodellamento del tessuto osseo, riesce a normalizzare la calcemia. L’impiego della vitamina D richiede frequenti controlli della calcemia per evitare l’instaurarsi di ipercalcemia, che rappresenta una temibile complicanza di questa terapia (“intossicazione da vitamina D”). È necessario iniziare con piccole dosi, ricordando che la dose di mantenimento va regolata in base ai livelli calcemici piuttosto che in rapporto ai rilievi clinici. Nei pazienti ipoparatiroidei esiste una notevole variabilità individuale nella dose di farmaco richiesta per controllare l’ipocalcemia. A. Terapia della crisi ipocalcemica. Si somministra calcio gluconato per via endovenosa, lentamente, fino alla remissione della sintomatologia acuta o fino a quando la calcemia non supera i 7 mg/100 ml. Si prosegue a questo punto con l’infusione di 15 mg/kg di ione calcio ogni 4-6 ore, passando gradualmente all’assunzione per os.
PSEUDOIPOPARATIROIDISMO Eziopatogenesi Lo pseudoipoparatiroidismo è una rara condizione clinica caratterizzata da segni e sintomi di ipoparatiroidismo in presenza di elevate concentrazioni pla-
smatiche di PTH immunoreattivo. L’anomalia di base è rappresentata dalla resistenza degli organi periferici all’azione del PTH. Oltre che dalle alterazioni biochimiche proprie dell’ipoparatiroidismo, lo pseudoipoparatiroidismo è caratterizzato, nella sua forma completa, da alterazioni somatiche di tipo malformativo (bassa statura, brachidattilia, collo corto, ecc.) di origine genetica, non correlate al difetto metabolico. Queste alterazioni somatiche sono note anche come “osteodistrofia di Albright”. Questa descrizione dello pseudoipoparatiroidismo appare comunque riduttiva rispetto alla realtà clinica, in quanto sono noti due diversi tipi di pseudoipoparatiroidismo e forme incomplete che non possono essere ascritte ad un unico difetto biochimico. In base al meccanismo che induce resistenza al PTH a livello renale vengono distinti: • pseudoipoparatiroidismo di tipo I, dovuto ad un difetto di interazione dell’ormone con il recettore specifico, causante una ridotta produzione di cAMP; • pseudoipoparatiroidismo di tipo II, caratterizzato dall’incapacità da parte del cAMP, normalmente formato, di iniziare gli eventi correlati con l’azione biologica del PTH. L’anomalia biochimica di base dello pseudoipoparatiroidismo di tipo I sembra rappresentata da un deficit quantitativo della proteina regolatrice (nota come proteina N) guanilnucleotide-sensibile, che accoppia il complesso ormone-recettore all’adenilciclasi. In base alle caratteristiche cliniche e alla responsività dei vari tessuti al PTH è stata descritta una serie di forme incomplete in cui sono presenti solo le alterazioni somatiche (pseudopseudoipoparatiroidismo) oppure una resistenza selettiva dei tubuli renali al PTH (pseudoipoiperparatiroidismo), oppure solo ipoparatiroidismo da resistenza al PTH senza alterazioni somatiche. Verosimilmente queste forme incomplete non rappresentano entità morbose distinte, ma sono espressioni diverse di una stessa malattia trasmessa ereditariamente con carattere multifattoriale. L’osservazione che lo pseudoipoparatiroidismo ha un carattere nettamente familiare e che forme cliniche diverse possono essere presenti nello stesso ceppo familiare sembra in accordo con questa modalità di trasmissione. Clinica A. Forma completa. Le alterazioni del metabolismo calcio-fosforo caratteristiche dello pseudoipoparatiroidismo sono sovrapponibili a quelle già descritte a proposito dell’ipoparatiroidismo, con presenza di ipocalcemia ed iperfosforemia. Anche le manifestazioni cliniche correlate all’alterazione del metabolismo minerale (tetania, ecc.) non si discostano sostanzialmente da quelle dell’ipoparatiroidismo. Nello pseudoipoparatiroidismo di tipo I è comunemente rilevabile un ritardo mentale. Non è ben chiaro se il deficit psichico sia secondario all’ipocalcemia insorta precocemente oppure se si tratti di un’anomalia associata, trasmessa geneticamente.
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Nello pseudoipoparatiroidismo, alle manifestazioni cliniche causate dal deficit della funzione paratiroidea si possono associare le malformazioni scheletriche multiple dell’osteodistrofia di Albright, che, come sopra detto, sono indipendenti dagli squilibri dell’omeostasi minerale. Il fenotipo è caratterizzato da statura nettamente inferiore alla norma con struttura corporea tozza, facies rotondeggiante, collo corto, brachidattilia per brevità delle ossa metacarpali e metatarsali, in particolare del IV e del V (Fig. 60.4). 1. Esami di laboratorio e diagnosi. Le alterazioni biochimiche (ipocalcemia ed iperfosforemia) sono sovrapponibili a quelle dell’ipoparatiroidismo. A differenza di quanto avviene nell’ipoparatiroidismo, i livelli di PTH circolante sono elevati, in modo assoluto o comunque in modo inappropriato rispetto all’ipocalcemia. La risposta renale al PTH esogeno (test di EllsworthHoward) è alterata: l’eliminazione di fosfati è spiccatamente ridotta o assente, mentre quella di cAMP urinario è ridotta solo nelle forme di tipo I. Questi dati biochimici ed ormonali sono particolarmente utili alla diagnosi nei pazienti in cui i difetti somatici sono assenti o poco evidenti. In presenza di anomalie fenotipiche spiccate, la diagnosi può essere sospettata già all’esame fisico del paziente. Le alterazioni radiologiche dello scheletro, causate dall’aumentata mineralizzazione del tessuto osseo, e la presenza di calcificazioni in varie sedi sono simili a quanto descritto a proposito dell’ipoparatiroidismo. B. Forme incomplete. Tra le varianti incomplete ricordiamo in particolare le seguenti, che sono quelle meglio caratterizzate. 1. Pseudopseudoipoparatiroidismo od osteodistrofia ereditaria di Albright. In questa forma sono presenti le alterazioni somatiche tipiche dello pseudoipoparatiroidismo in assenza del quadro biochimico di ipoparatiroidismo.
2. Pseudoipoiperparatiroidismo. È causato dalla resistenza selettiva dei tubuli renali al PTH, associata ad una normale responsività del tessuto osseo. Gli elevati livelli di PTH in circolo propri dello pseudoipoparatiroidismo provocano a livello del tessuto osseo, normalmente responsivo, le tipiche alterazioni dell’osteite fibrocistica. Pertanto in questa variante le alterazioni biochimiche (ipocalcemia ed iperfosforemia) e cliniche (tetania) dell’ipoparatiroidismo coesistono con l’osteopatia fibrocistica caratteristica dell’iperparatiroidismo. 3. Forme con sole alterazioni biochimiche da pseudoipoparatiroidismo senza manifestazioni somatiche. Cenni di terapia La terapia dello pseudoipoparatiroidismo, a base di vitamina D, non si discosta da quella dell’ipoparatiroidismo. Nessuna efficacia ha il trattamento sulle alterazioni somatiche.
IPERPARATIROIDISMO Con il termine iperparatiroidismo si indica un’eccessiva secrezione di PTH. Si distinguono abitualmente l’iperparatiroidismo primitivo ipercalcemico, causato da un’ipersecrezione di PTH dovuta in genere ad un adenoma delle paratiroidi, e l’iperparatiroidismo secondario normocalcemico, caratterizzato anatomicamente da iperplasia ghiandolare, in cui l’ipersecrezione di PTH rappresenta la risposta fisiologica ad una cronica diminuzione del calcio extracellulare comunque determinatasi. In questo secondo caso, i livelli calcemici vengono mantenuti nei limiti di norma a spese di una cronica ipersecrezione di PTH e di un’iperplasia delle paratiroidi. L’iperparatiroidismo secondario è in genere reversibile, tuttavia in alcuni pazienti con iperparatiroidismo secondario di lunga durata può instaurarsi una condizione non reversibile, nota come iperparatiroidismo terziario. In questo caso l’iperfunzione paratiroidea diviene relativamente autonoma, e l’aumentata secrezione ormonale, inizialmente regolata in misura tale da mantenere nei limiti di norma la calcemia, sfugge ai meccanismi di controllo, causando ipercalcemia.
Iperparatiroidismo primitivo L’iperparatiroidismo primitivo è una condizione morbosa caratterizzata da una serie di sintomi e segni strettamente correlati all’alterazione dell’omeostasi minerale, provocata dall’ipersecrezione di PTH. Eziologia Figura 60.4 - Anomalie delle ultime due ossa metacarpali in un paziente con pseudoipoparatiroidismo.
L’iperparatiroidismo primitivo era considerato fino a pochi anni fa una situazione morbosa poco frequente.
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L’incidenza della malattia ha però subito un brusco aumento da quando la calcemia viene eseguita come esame di routine. Secondo recenti dati epidemiologici l’iperparatiroidismo primitivo è molto più frequente nell’età avanzata e nel sesso femminile; in particolare, nelle donne al di sopra dei 60 anni, l’incidenza della malattia è stata stimata nell’ordine di 2 nuovi casi/anno per 1000 soggetti. L’iperparatiroidismo primitivo è causato, nella grande maggioranza dei casi, da un tumore delle paratiroidi. Anatomia patologica L’iperparatiroidismo primitivo può essere sostenuto da un adenoma (solitamente unico), da iperplasia a cellule principali o a cellule chiare, o da un carcinoma. L’adenoma è solitamente confinato ad una sola ghiandola, è separato dal tessuto ghiandolare circostante da un setto fibroso e si associa ad atrofia o aspetto normale delle altre paratiroidi. In particolare, la presenza di una seconda ghiandola microscopicamente normale o atrofica garantisce che la lesione in esame è un adenoma. Microscopicamente l’adenoma può essere costituito da ciascuno dei vari tipi cellulari (cellule principali, cellule chiare, cellule ossifile). L’iperplasia a cellule principali si associa frequentemente ad adenomatosi multiple, in particolare a MEN di tipo I o IIa, ed è caratterizzata da aumento di volume di tutte le paratiroidi, che appaiono di colorito giallobrunastro. Il tipo cellulare presente è prevalentemente la cellula principale, ma possono esservi anche altri tipi; gli elementi cellulari si aggregano in isolotti tra i quali sono interposte aree di parenchima paratiroideo ricco di tessuto adiposo. La presenza di uno strato periferico di ghiandola normale e l’identificazione di almeno una paratiroide normale sono criteri distintivi per l’adenoma. L’iperplasia a cellule chiare è più rara: a differenza di quella a cellule principali, non è familiare e non si associa a neoplasie endocrine multiple. È caratterizzata dall’estremo aumento di peso delle ghiandole (che possono raggiungere anche 125 g, contro i 10 g dell’iperplasia a cellule principali), per la combinazione dell’iperplasia e dell’ipertrofia delle cellule chiare. Macroscopicamente le ghiandole appaiono molli e di colorito rosso cioccolato, con aree cistiche ed emorragiche. Microscopicamente gli elementi cellulari sono caratterizzati da ampio citoplasma chiaro, otticamente vuoto o con rare granulazioni eosinofile. Il carcinoma delle paratiroidi è raro ed è caratterizzato macroscopicamente da consistenza aumentata e da fissità ai tessuti adiacenti, che sono spesso infiltrati. Microscopicamente il carcinoma differisce dall’adenoma per la prevalente struttura trabecolare, per l’aspetto fusato degli elementi neoplastici e per l’elevato indice mitotico. La presenza di linfonodi latero-cervicali palpabili, di paralisi delle corde vocali e di ricomparsa precoce dell’iperparatiroidismo dopo intervento chirurgico sulle paratiroidi suggeriscono il carcinoma.
MALATTIE ENDOCRINE
Fisiopatologia La secrezione di PTH, eccessiva e non correlata alla concentrazione extracellulare di calcio, provoca una serie di alterazioni patologiche responsabili delle manifestazioni cliniche dell’iperparatiroidismo. L’intensa stimolazione dell’attività osteoclastica ed il conseguente incremento dei processi di riassorbimento osseo provocano demineralizzazione, con dismissione in circolo sia dei componenti minerali (calcio e fosforo) sia dei componenti della matrice proteica (idrossiprolina). Le modificazioni patologiche che ne conseguono a carico dell’apparato scheletrico, note come “osteite fibrocistica”, sono caratterizzate da riduzione del numero delle trabecole, sostituzione da parte di tessuto fibroso, formazione di cisti di vario volume, aumento del numero degli osteoclasti, raggruppati talora a formare masse tumorali (osteoclastomi o tumori bruni). I componenti minerali dell’osso, liberati in circolo dai processi di demineralizzazione, vengono eliminati con le urine. Per quanto concerne il calcio, il PTH ne stimola il riassorbimento tubulare, ma quando la concentrazione di calcio nel siero supera determinati livelli (12 mg/dl), la capacità di trasporto massimo tubulare è superata e si ha ipercalciuria. Il PTH favorisce l’eliminazione renale di fosforo, e si osserva quindi costantemente iperfosfaturia e conseguente ipofosforemia, nonostante l’aumentata liberazione di fosforo dal tessuto osseo. Si ha pertanto aumentata eliminazione urinaria di calcio e fosforo, con frequente precipitazione di questi elementi nelle vie urinarie e formazione di calcoli. Il PTH favorisce la conversione della 25OHD in 1,25(OH)2D, ed infatti nell’iperparatiroidismo si osserva un aumento dell’assorbimento intestinale di calcio. L’ipercalcemia rappresenta la conseguenza più importante di queste alterazioni, che interessano: l’apparato scheletrico, da cui il calcio viene mobilizzato; l’apparato urinario, in cui il calcio viene eliminato in modo inadeguato rispetto all’ipercalcemia; il tubo digerente, in cui il calcio viene assorbito in eccesso. L’ipercalcemia è responsabile di una serie di manifestazioni cliniche. L’eccesso di calcio circolante può provocare deposizione di sali di calcio nei tessuti molli quando il prodotto di solubilità Ca × P supera i limiti fisiologici (circa 40). Particolarmente colpiti da questo fenomeno sono la cornea (cheratite a banda), i tendini (tendiniti calcifiche), le cartilagini articolari (condrocalcinosi), il parenchima renale (nefrocalcinosi), il pancreas. Si ritiene comunemente che la deposizione di sali di calcio sia responsabile della pancreatite che frequentemente si associa all’iperparatiroidismo; mancano tuttavia sicuri dati a sostegno di questa possibilità. Inoltre l’ipercalcemia è responsabile di una serie di sintomi funzionali a carico del SNC, dell’apparato neuromuscolare, del tubo gastrointestinale e del sistema cardiovascolare, che si ritengono legati ad alterazioni della trasmissione nervosa. La gravità di questi sintomi è correlata con l’incremento dei livelli calcemici. La correzione della calcemia provoca completa remissione di questa sintomatologia. Livelli elevati di calcemia si associano abitualmente a poliuria, da ridotta responsività delle cellule tubulari all’ADH.
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Sintomatologia Attualmente l’iperparatiroidismo primitivo viene spesso diagnosticato in pazienti oligo- o asintomatici attraverso il rilievo casuale di ipercalcemia. Talvolta nei pazienti anziani la malattia può esordire bruscamente con una crisi ipercalcemica. Nei pazienti sintomatici, la sintomatologia clinica è fedele espressione delle alterazioni del metabolismo minerale causate dall’eccesso di PTH, ed in particolare dall’ipercalcemia (Fig. 60.5). L’ipercalcemia provoca sintomi di ordine generale e manifestazioni d’organo a livello dell’apparato uropoietico e del sistema scheletrico. A. Sintomi riferibili all’ipercalcemia. L’ipercalcemia causa alterazioni funzionali del sistema nervoso consistenti in disturbi dell’ideazione, perdita della memoria recente, labilità emotiva, sonnolenza. Questi sintomi sono in genere sfumati, e possono essere scambiati con disturbi psiconeurologici. Nei casi più gravi, si può avere stato confusionale, sopore e coma. Il coinvolgimento del sistema neuromuscolare provoca faticabilità e astenia intensa, che interessano soprattutto la muscolatura prossimale degli arti, con possibile atrofia muscolare. L’ipercalcemia si può manifestare con disturbi a carico del tubo digerente, quali vomito e dolori epigastrici. In alcuni pazienti è presente un’ulcera duodenale. B. Apparato urinario. L’interessamento renale può estrinsecarsi con il quadro della nefrocalcinosi e della calcolosi renale ricorrente. Quest’ultima rappresenta la complicanza più frequente dell’iperparatiroidismo. I calcoli renali sono composti generalmente da fosfato di calcio o più raramente da ossalato di calcio. Causano ripetuti episodi di colica renale e talora sovrapposizioni
infettive od ostruzione delle vie urinarie. La nefrocalcinosi si manifesta in modo più subdolo con segni di insufficienza renale. Talora viene rivelata occasionalmente da un esame radiologico praticato per altri scopi. C. Apparato scheletrico. L’osteite fibrocistica diffusa di von Recklinghausen, che rappresentava in passato l’elemento patologico più caratteristico dell’iperparatiroidismo primitivo, viene oggi raramente osservata, verosimilmente in rapporto alla più precoce diagnosi della malattia ed alla sua correzione. Le modificazioni ossee in corso di iperparatiroidismo variano in relazione all’introduzione di calcio, alla funzionalità renale e al livello di paratormone. Le lesioni iniziali mostrano riduzione minima della densità ossea alla Rx. Tardivamente si ha la formazione di cisti, spesso inizialmente localizzate alla mandibola e alla mascella. Microscopicamente la biopsia ossea mostra distruzione ossea, deposizione di tessuto osseo neoformato, formazioni cistiche e può evidenziare i cosiddetti tumori bruni, costituiti dalla proliferazione di cellule giganti e cellule fusate, con deposizione di osteoide, aree di emorragia e depositi di emosiderina che conferiscono il colorito brunastro alla neoplasia. Attualmente è più frequente osservare un’osteoporosi a carattere progressivo, mentre sono di raro riscontro le manifestazioni più tipiche dell’osteite fibrocistica: deformazioni del bacino e fratture patologiche. La deposizione di sali di calcio nei tessuti molli può provocare importanti manifestazioni cliniche. I tessuti più frequentemente interessati sono la cornea, con cheratite a banda, e le strutture articolari e periarticolari con condrocalcinosi, responsabile di artralgie. L’ipertensione arteriosa è presente in un cospicuo numero di pazienti (Tab. 60.5).
SINTOMI OSSEI
SINTOMI NERVOSI
Dolori-Tumefazioni-Fratture
Depressione-Esauribilità psichica
SINTOMI MUSCOLARI Astenia
SINTOMI DIGESTIVI
Figura 60.5 - Principali sintomi dell’iperparatiroidismo. A sinistra, le alterazioni legate alla mobilizzazione del calcio. A destra, sintomi clinici causati dall’azione dell’ipercalcemia a livello cellulare.
SINTOMI RENALI Calcolosi-nefrocalcinosi
Ulcera peptica Pancreatite
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MALATTIE ENDOCRINE
Tabella 60.5 - Incidenza dei principali sintomi rilevati in 57 pazienti affetti da iperparatiroidismo primitivo, studiati al National Institute of Health dal 1965 al 1972 (Da Mallette et al., 1974).
SINTOMO
Astenia Faticabilità Coliche renali Perdita di peso Disturbi psichici Stipsi Dolori epigastrici Ulcera peptica Nausea e vomito Poliuria Anoressia Artralgie Dolori ossei Ipertensione arteriosa Iperuricemia e gotta Pancreatite Endocrinopatie associate Rilievo casuale
N. PAZIENTI AFFETTI
N. CASI IN CUI IL SINTOMO HA PORTATO ALLA DIAGNOSI
24 24 22 19 19 18 18 9 13 11 10 10 9 30 5 2 4 –
5 2 17 2 1 0 5 0 3 1 0 0 1 0 0 2 2 13
In conclusione, i numerosi sintomi dell’iperparatiroidismo primitivo possono presentarsi con intensità assai variabile e nessuno di essi è sufficientemente specifico per la diagnosi. Esami di laboratorio e strumentali L’alterazione metabolica che caratterizza l’iperparatiroidismo primitivo è rappresentata dall’ipercalcemia associata a livelli di PTH immunoreattivo inappropriatamente elevati. Si ha anche un aumento della fosfaturia con frequente ipofosforemia. Sono descritte altre alterazioni ematochimiche: iperuricemia, anemia, aumento della VES, ipomagnesiemia, ipokaliemia ed acidosi ipercloremica. Tutte queste alterazioni sono strettamente legate all’iperparatiroidismo e regrediscono dopo paratiroidectomia. Rivestono scarsa importanza dal punto di vista diagnostico. L’esame radiologico dell’apparato urinario può rivelare la presenza di calcoli radiopachi o di fini calcificazioni a livello del parenchima renale. L’esame radiologico dello scheletro, eseguito preferibilmente con radiografie a grana sottile, dimostra una ridotta mineralizzazione, ed in particolare un riassorbimento subperiosteo con diminuzione di spessore della corticale ossea. Nei casi conclamati, la radiografia del cranio dimostra tipiche modificazioni delle ossa della volta, note con l’immaginifica definizione di alterazioni “a sale e pepe”, caratterizzate da aree di demineralizzazione alternate con altre di aumentata densità ossea. La lamina dura dei denti è ridotta o assente. La mineralometria ossea dimostra una (grave) riduzione del contenuto minerale. L’elettrocardiogramma, in rapporto all’ipercalcemia, dimostra accorciamento dell’intervallo Q-T. Cenni di terapia A. Diagnosi. La diagnosi di iperparatiroidismo primitivo viene attualmente posta in base al rilievo di iper-
calcemia associata a livelli di PTH immunoreattivo elevati. È buona norma ripetere la determinazione della calcemia almeno tre volte, eliminando gli errori dovuti ad alterazioni della protidemia. Il dosaggio del PTH che fornisce risultati più attendibili dal punto di vista clinico è quello effettuato con antisiero che permette la determinazione della molecola intera. Come appare dalla tabella 60.6, il dosaggio del paratormone permette di escludere la maggior parte delle forme di ipercalcemia non dovute ad iperparatiroidismo primitivo. Le altre alterazioni del metabolismo minerale – ipofosforemia, iperfosfaturia – sono elementi diagnostici di supporto utili per la diagnosi differenziale con altre forme di ipercalcemia (Tab. 60.6). Un’ulteriore conferma alla diagnosi è fornita dall’eventuale presenza di calcolosi renale, di calcificazioni renali parenchimali da nefrocalcinosi, di lesioni ossee: alterazioni, tutte, che vanno comunque ricercate. Una volta posta la diagnosi di iperparatiroidismo primitivo, è necessario evidenziare la presenza dell’adenoma e localizzarlo prima di avviare il paziente al chirurgo. A questo scopo si ricorre ad una serie di indagini invasive e non invasive. L’esofagografia e la scintigrafia tiroidea, impiegate da più lungo tempo, si sono dimostrate grossolane ed imprecise. Alcune metodiche di più recente introduzione sembrano invece fornire informazioni assai più valide. L’esperienza è tuttavia ancora troppo limitata perché si possa dare un giudizio definitivo sulla loro affidabilità e accuratezza diagnostica. Tra queste tecniche, l’ecografia è quella più diffusa; vengono utilizzate anche la TC e la scintigrafia con doppio tracciante (201Tl e 99mTc) e sottrazione d’immagine. In ultima istanza si può ricorrere ad accertamenti di tipo invasivo come quelli angiografici: arteriografia selettiva, cateterizzazione venosa selettiva con dosaggio del PTH dal sangue refluo dalle vene tiroidee. La mancata visualizzazione dell’adenoma pone problemi di diagnosi differenziale (molto ardui) con l’ipercalcemia da produzione ectopica di peptidi PTHsimili in corso di neoplasie (si veda Sindromi paraneoplastiche).
Tabella 60.6 - Cause di ipercalcemia. • Con paratormone elevato – Iperparatiroidismo primitivo e terziario – Sindrome da PTH ectopico • Con paratormone inibito – Intossicazione da vitamina D – Mieloma multiplo (1) – Sarcoidosi (1) – Intossicazione da vitamina A (1) – Sindrome di Burnett (milk-alkaly syndrome) – Immobilizzazione prolungata – Tireotossicosi (1) – Insufficienza corticosurrenale (1) – Morbo di Paget (1) (1) In tali condizioni morbose l’ipercalcemia si rileva solo in un numero limitato di pazienti e solo eccezionalmente ha importanza clinica.
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B. Cenni di terapia. La terapia d’elezione dell’iperparatiroidismo è chirurgica. È comunque buona regola evitare gli interventi esplorativi del collo ed effettuare preventivamente tutti gli accertamenti atti ad individuare l’adenoma. Per la terapia sintomatica dell’ipercalcemia si veda in seguito. Crisi ipercalcemica acuta La gravità del quadro clinico provocato dall’ipercalcemia è correlata all’entità e alla rapidità di ascesa della concentrazione degli ioni calcio nei liquidi extracellulari, indipendentemente dalla causa che l’ha determinata. Quando la calcemia supera i 15-18 mg/ml compaiono invariabilmente gravi manifestazioni cliniche provocate da compromissione del SNC e della funzionalità renale e cardiaca. Questa condizione, nota come crisi ipercalcemica, può verificarsi nell’iperparatiroidismo primitivo e in altre condizioni patologiche caratterizzate da ipercalcemia. Talora la situazione precipita bruscamente in seguito ad un episodio di vomito prolungato o di diarrea che inducono disidratazione. Quando la crisi ipercalcemica non venga riconosciuta e trattata adeguatamente, può assumere aspetti di grande pericolosità, con esito nel coma e nella morte. Le manifestazioni a carico del SNC sono piuttosto aspecifiche e consistono in uno stato di sonnolenza invincibile che passa progressivamente nello stupore ed infine nel coma. La compromissione renale è provocata dalla deposizione di sali di calcio all’interno delle cellule tubulari, con necrosi di queste ultime ed insufficienza renale acuta. Di conseguenza il paziente, fino ad allora poliurico per l’incapacità di concentrare adeguatamente le urine, diviene bruscamente oligurico ed eventualmente anurico. A livello delle fibre miocardiche, l’elevata concentrazione di ioni calcio nel liquido extracellulare può provocare bradicardia ed anche arresto cardiaco. A. Terapia dell’ipercalcemia. L’ipercalcemia elevata richiede, indipendentemente dalla causa che l’ha provocata, un trattamento medico sintomatico, che deve essere attuato con mezzi terapeutici di rapida e sicura efficacia: • somministrazione di liquidi; in particolare soluzione salina, che induce un aumento dell’escrezione di sodio e, parallelamente, degli ioni calcio; • diuretici, come la furosemide, che inibiscono il riassorbimento tubulare di calcio e contribuiscono a mantenere elevata la diuresi. Vengono impiegati numerosi altri farmaci per ridurre la calcemia. Alcuni di essi, come i glicocorticoidi, la mitramicina e i difosfonati trovano elettiva indicazione nelle sindromi ipercalcemiche da neoplasie. Altri hanno discreta efficacia per combattere l’ipercalcemia da iperparatiroidismo e sono un utile supporto in attesa di intervento chirurgico o nei casi in cui questo non sia stato risolutivo:
• estrogeni, il cui effetto terapeutico è basato sull’inibizione del riassorbimento osseo; • fosfati, ponendo attenzione ad evitare eccessivi incrementi della fosforemia, che possono indurre precipitazione di sali di calcio in sede extrascheletrica; • calcitonina, la cui efficacia è peraltro discussa. Sono stati riportati risultati soddisfacenti con la somministrazione di alte dosi (1000 U/die).
Iperparatiroidismo secondario L’iperparatiroidismo secondario è una condizione endocrino-metabolica provocata, in assenza di una malattia intrinseca delle paratiroidi, da ipocalcemia cronica. Le condizioni patologiche che causano un’ipocalcemia cronica tale da determinare aumento compensatorio della secrezione di PTH sono molteplici (Tab. 60.7), ma solo l’insufficienza renale cronica provoca un iperparatiroidismo secondario che ha rilevanza dal punto di vista clinico. In particolare, i pazienti in emodialisi cronica possono sviluppare alterazioni ossee, causate dall’iperparatiroidismo, che vengono descritte con il termine osteodistrofia renale. L’iperparatiroidismo si instaura gradualmente, in rapporto alla progressiva compromissione della funzione renale e alla riduzione del filtrato glomerulare. Quando il filtrato glomerulare scende al di sotto dei 40 ml/min, si riduce infatti l’eliminazione urinaria dei fosfati con conseguente iperfosfatemia, che provoca variazioni di senso opposto della calcemia. L’ipocalcemia induce un aumento compensatorio del PTH e l’ormone, tramite la sua azione di inibizione del riassorbimento tubulare dei fosfati e di stimolo del riassorbimento osseo, riporta alla norma i livelli circolanti di fosforo e calcio. Con questo meccanismo, la calcemia viene mantenuta entro i limiti normali a spese di un’iperplasia delle paratiroidi e di un’iperincrezione di PTH. La distruzione dei nefroni provoca diminuzione della calcemia, anche in rapporto al ridotto assorbimento di calcio a livello intestinale, per rallentata sintesi di vitamina 1,25(OH)2D3.
Tabella 60.7 - Cause di ipocalcemia cronica e iperparatiroidismo secondario. • Insufficienza renale cronica • Pseudoipoparatiroidismo • Insufficiente apporto dietetico di calcio • Avitaminosi D • Resistenza tissutale alla vitamina D • Perdita renale di calcio • Perdita intestinale di calcio o vitamina D (malassorbimento, fistole) • Eccessivo apporto di composti inorganici contenenti fosfati • Farmaci (difenilidantoina; fenobarbital; lassativi; chelanti) • Ipomagnesiemia grave
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Nell’iperparatiroidismo secondario ad insufficienza renale cronica, le alterazioni del tessuto osseo ascrivibili all’ipersecrezione di PTH (osteite fibrocistica) si sommano a quelle dovute alla carenza del metabolita attivo della vitamina D, 1,25(OH)2D3 (osteomalacia), all’osteosclerosi correlata all’iperfosforemia e all’osteoporosi legata all’acidosi metabolica uremica ed agli eventuali trattamenti con steroidi glicoattivi. Le alterazioni scheletriche che ne risultano, note come “osteodistrofia renale”, sono particolarmente complesse, in rapporto al fatto che i diversi momenti patogenetici sopra descritti possono incidere con maggiore o minore intensità nei singoli pazienti. In uno stadio più avanzato della malattia, la progressiva distruzione dei nefroni provoca un radicale sovvertimento dell’assetto metabolico. Calcio e fosforo liberati dal tessuto osseo per il riassorbimento indotto dall’ipersecrezione di PTH si accumulano in circolo. Infatti il fosforo non viene eliminato con le urine perché, per l’aggravarsi dell’insufficienza renale, viene a mancare l’effetto fosfaturico compensatorio del PTH; l’ipercalcemia non riesce a sopprimere la secrezione di PTH e quindi i processi di riassorbimento osseo che la provocano. In questo stadio l’ipersecrezione di PTH tende a divenire autonoma rispetto ai livelli di calcio (iperparatiroidismo terziario). In questa situazione, per l’aumentato riassorbimento osseo, l’anomalia metabolica (iperfosfatemia) inizialmente responsabile dell’iperpa-
MALATTIE ENDOCRINE
ratiroidismo è aggravata dal processo sviluppatosi per controllarla. Il sistema di controregolazione negativa esistente tra tessuto osseo e paratiroidi in presenza di una normale funzione renale è trasformato in un sistema di controregolazione positiva, in quanto ad un aumento del PTH corrisponde un aumento del riassorbimento osseo, e quindi della calcemia. In realtà, mentre nel soggetto normale e in presenza di insufficienza renale lieve è ben dimostrabile una correlazione negativa tra concentrazioni di PTH e di calcio circolanti, negli stadi di insufficienza renale avanzata compare una correlazione positiva tra queste due variabili. L’osteodistrofia domina il quadro clinico dell’iperparatiroidismo secondario ad insufficienza renale. Raramente, nelle fasi iniziali ipocalcemiche si possono avere sintomi di labilità neuromuscolare e tetania simili a quelli descritti nell’ipoparatiroidismo e/o calcificazioni dei tessuti molli. Il trattamento dell’iperparatiroidismo secondario è di tipo sintomatico e si integra con quello dell’insufficienza renale cronica (Cap. 34). Le misure terapeutiche variano in rapporto con la gravità della compromissione renale e con le alterazioni biochimiche che l’accompagnano. Nei primi stadi si somministrano una dieta povera di fosfati, supplementi di calcio, sostanze che riducono l’assorbimento intestinale di fosfati (idrossido di alluminio) e piccole dosi di vitamina D. Negli stadi avanzati può essere indicata la paratiroidectomia subtotale.
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SINDROMI PLURIGHIANDOLARI L. CANTALAMESSA, P. MOTTA
NEOPLASIE ENDOCRINE MULTIPLE Le neoplasie endocrine multiple (Multiple Endocrine Neoplasia, MEN), o adenomatosi endocrine multiple (Multiple Endocrine Adenomatosis, MEA) sono malattie familiari, caratterizzate dallo sviluppo nello stesso paziente di lesioni iperplastiche, adenomatose o adenocarcinomatose in due o più ghiandole endocrine. Si preferisce usare il termine MEN in quanto è comprensivo sia delle forme benigne che maligne. Nella maggior parte dei casi, la sindrome è ereditaria e implica un meccanismo autosomico dominante, con alto grado di penetranza ed espressività variabile con carattere pleiotropico. Le neoplasie endocrine multiple vengono raggruppate in tre sindromi (Tab. 61.1) in base alla costante associazione delle varie neoplasie in alcuni ceppi familiari (Fig. 61.1).
Patogenesi Per spiegare l’insorgenza di neoplasie in due o più sedi differenti sono state avanzate numerose ipotesi. Tra queste la più nota è quella della displasia del neuroectoderma, che presuppone l’esistenza di un sistema cellulare specifico, progenitore embrionario comune di tutte le cellule interessate dalla MEN. Il sistema cellulare sarebbe rappresentato dal sistema APUD che, secondo la descrizione originaria di Pearse, raggruppa un insieme di cellule di derivazione neuroectodermica che hanno la caratteristica di concentrare e di decarbossilare i precursori delle amine biogene (di qui il termine APUD, Amine Precursor Uptake and Decarboxilation). Queste cellule sono specializzate nella produzione di ormoni polipeptidici e di amine. Appartengono al sistema APUD le cellule corticotrope dell’adenoipofisi, le cellule C o parafollicolari della tiroide, le cellule , , 1 e 1 delle insule pancreatiche, le 40 cellule della midollare del surrene, le cellule del glomo carotideo, le cel-
Tabella 61.1 - Caratteristiche delle sindromi da neoplasie endocrine multiple. FREQUENZE (1) % MEN I • Iperparatiroidismo (adenoma o iperplasia) 80 • Neoplasie delle cellule insulari 75 – Gastrinomi (benigni e maligni) – Insulinomi (benigni e maligni) – Altri (VIPoma, glucagonoma, somatostatinoma) • Adenomi ipofisari 65 – Non funzionanti – A cellule somatrope – A cellule corticotrope (morbo di Cushing) – Misti o secernenti PRL • Altri tumori 10 – Adenomi corticosurrenali (2) – Lipomi e liposarcomi 5 – Carcinoidi e adenomi bronchiali <5 MEN II (o IIa) • Carcinoma midollare della tiroide • Feocromocitoma • Iperparatiroidismo (iperplasia o adenoma) MEN III (o IIb) • Neuromi mucosi multipli • Carcinoma midollare della tiroide • Habitus marfanoide • Feocromocitoma
50 25 <5 40 15 5 5
95 50 30 100 90 65 45
(1) Percentuale approssimata in base ai dati degli studi riportati nella bibliografia. (2) Di regola non secernenti.
lule enterocromaffini, le cellule produttrici di ormoni intestinali e le cellule chiare tracheobronchiali e polmonari. Il concetto di sistema APUD è stato recentemente esteso in quello di sistema neuroendocrino diffuso, che raggruppa tutte le cellule secernenti peptidi, biologicamente attivi, presenti nell’organismo anche al di fuori degli organi endocrini. È stata avanzata l’ipotesi che un difetto genetico della cellula staminale neuroectodermica
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MALATTIE ENDOCRINE
Adenoipofisi Paratiroidi MEN I
MEN II (o IIa)
Carcinoma midollare tiroide
Pancreas
Z-E sindrome
Feocromocitoma
MEN III (o IIb)
Habitus marfanoide
Neuromi mucosi
Ganglioneuromatosi intestinale
Figura 61.1 - Organi interessati dalle neoplasie e manifestazioni cliniche che caratterizzano le MEN.
provochi iperplasia o degenerazione neoplastica in tessuti, appartenenti a organi diversi, che hanno una comune derivazione neuroectodermica e che fanno parte del sistema APUD. Questa ipotesi permette di spiegare la produzione, da parte dei tumori che si sviluppano dal sistema APUD, oltreché di ormoni propri delle cellule interessate (sindromi ortoendocrine) anche di polipeptidi estranei alle cellule dell’organo in cui si sviluppano (sindromi paraendocrine). La cellula progenitrice neuroectodermica è infatti totipotente, e il processo tumorale può portare alla derepressione di capacità secretorie, perse durante il processo di differenziazione. Questa teoria non è oggi unanimemente accettata, in quanto alcune delle neoplasie poliendocrine originano da cellule di origine endodermica, come le paratiroidi e le cellule β delle isole pancreatiche. A questa critica si è obiettato che le cellule germinali totipotenti, da qualsiasi foglietto embrionale derivino, potrebbero differenziarsi in senso neuroectodermico. Alcuni dei geni associati alle neoplasie endocrine multiple sono stati recentemente identificati; in particolare è stato stabilito che la base genetica della MEN tipo II è una mutazione del protoncogene RET, localizzato nel braccio lungo del cromosoma 10. Questa mutazione genetica provoca la sostituzione di aminoacidi altamente specifici e anomalie nella produzione di tirosina-chinasi.
Clinica Da un punto di vista generale è bene sottolineare che le caratteristiche cliniche e biochimiche delle singole
componenti endocrine delle MEN non differiscono sostanzialmente da quelle rilevabili in ciascuna entità quando essa è presente isolatamente. Di conseguenza, gli esami ormonali e le indagini radiologiche necessarie alla diagnosi sono di regola gli stessi impiegati quando le singole componenti sono presenti isolatamente. A. Neoplasia endocrina multipla tipo I (sindrome di Wermer). Questa sindrome, descritta nel 1954 da Wermer, è caratterizzata da iperparatiroidismo, da tumori delle cellule insulari del pancreas e da adenomi ipofisari (Tab. 61.1). Le paratiroidi sono l’organo più frequentemente interessato, l’iperparatiroidismo è presente nell’80% dei pazienti e generalmente è dovuto ad iperplasia delle paratiroidi o ad adenomi multipli; il carcinoma delle paratiroidi è di raro riscontro. L’ipersecrezione di paratormone è spesso asintomatica e l’iperparatiroidismo viene diagnosticato casualmente per il rilievo di ipercalcemia nel corso di un esame ematologico di routine. Alternativamente il paziente può presentare sintomi di ordine generale causati dall’ipercalcemia: debolezza muscolare, stipsi, dolori epigastrici, disturbi psichici e/o sintomi legati alla precipitazione di sali di calcio nel parenchima renale o nelle vie urinarie. La deposizione di calcio a livello renale provoca nefrocalcinosi e conseguente progressiva insufficienza renale, la formazione di calcoli nelle vie urinarie causa coliche renali. L’interessamento scheletrico con osteite fibrocistica è raro.
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61 - SINDROMI PLURIGHIANDOLARI
Adenomi e adenocarcinomi insulari, in genere multipli, si riscontrano in circa l’80% dei pazienti affetti da MEN I. La maggior parte di questi tumori deriva dalle cellule non β e secerne gastrina o più raramente polipeptide intestinale vasoattivo (VIP), glucagone, polipeptide pancreatico (PP) e calcitonina. Circa il 20% dei tumori insulari deriva dalle cellule β e produce insulina. L’espressione clinica di questi tumori varia in rapporto alla loro attività secretoria. L’eccesso di gastrina causa una spiccata ipersecrezione di acido cloridrico, con ulcere intestinali multiple e spesso diarrea (sindrome di Zollinger-Ellison). L’iperproduzione di insulina provoca crisi ipoglicemiche a digiuno e/o durante esercizio fisico. L’ipersecrezione di VIP provoca la sindrome di Verner-Morrison o WDHA (Watery Diarrhea Hypokaliemia Achlorhydria Syndrome), caratterizzata da profusa diarrea acquosa e achilia (il VIP inibisce la secrezione acida mediata dalla gastrina). L’eccesso di glucagone provoca iperglicemia, perdita di peso e dermatite bollosa. Gli adenomi ipofisari sono presenti in circa il 65% dei casi. Si tratta in genere di adenomi non funzionanti oppure secernenti prolattina o più raramente GH, che causano amenorrea-galattorrea o acromegalia. Gli adenomi secernenti ACTH sono rari nella MEN I; l’iperproduzione di ACTH è in genere di origine ectopica. Sono anche frequenti i sintomi neurologici, cefalea e disturbi del campo visivo, da compressione locale del tumore. Alcuni pazienti con MEN I presentano malattie della tiroide; morbo di Basedow, tiroidite di Hashimoto, adenomi o adenocarcinomi tiroidei (il carcinoma midollare della tiroide non fa parte della sindrome). Data l’elevata incidenza di questa patologia nella popolazione generale, non si può escludere che questo riscontro sia casuale. Sporadicamente sono stati descritti altri tumori in associazione con la MEN I, come tumori carcinoidi del piccolo intestino e bronchiali, lipomi, schwannomi. B. Neoplasia endocrina multipla tipo II o IIa. Questa sindrome, descritta da Sipple nel 1961, è caratterizzata dalla presenza di un carcinoma midollare della tiroide associato a feocromocitoma e a iperparatiroidismo. Il carcinoma midollare, presente nel 95% dei pazienti con MEN II, è un tumore secernente calcitonina derivato dalle cellule parafollicolari della tiroide. A differenza di quanto si osserva nelle forme sporadiche, il carcinoma midollare associato alla MEN II si manifesta in giovane età, è frequentemente multifocale ed è preceduto da iperplasia delle cellule parafollicolari. Questi tumori, oltre alla calcitonina, possono produrre una quantità di sostanze, come ACTH, prolattina, VIP, serotonina, prostaglandine, che non sono normalmente secrete dalle cellule C da cui il tumore prende origine. L’ipersecrezione di calcitonina non provoca alterazioni del metabolismo minerale rilevabili clinicamente. Calcemia e fosforemia sono normali. La sola manifestazione clinica della neoplasia è rappresentata dai fe-
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nomeni di accrescimento locale e dalla frequente metastatizzazione. Il 30% dei pazienti presenta diarrea che regredisce dopo l’asportazione del carcinoma midollare. La patogenesi della diarrea non è chiara; non sembra legata all’ipersecrezione di calcitonina; si ritiene sia causata da produzione di prostaglandine o di serotonina da parte del carcinoma midollare. La misura dei livelli di calcitonina rappresenta un elemento essenziale per la diagnosi. La concentrazione di calcitonina nel plasma è nettamente aumentata sia in condizioni basali che dopo stimolo con pentagastrina o calcio gluconato. Tuttavia, mentre nelle forme sporadiche di carcinoma midollare l’ipercalcitoninemia è costantemente presente già in condizioni basali, in circa il 25% dei pazienti con carcinoma midollare associato a MEN II, i livelli basali di calcitonina non sono chiaramente elevati ed è necessario ricorrere alla stimolazione con pentagastrina o calcio gluconato, che dimostra un’iperresponsività a questi stimoli. Nella MEN II il carcinoma midollare ha spesso un decorso più benigno e una minor evolutività rispetto alle forme sporadiche. L’incidenza del feocromocitoma nella MEN II è del 50%; il tumore è generalmente bilaterale e multifocale. L’iperproduzione di catecolamine causa sintomi tipici della malattia: ipertensione, palpitazioni, sudorazione, vampate al volto, cefalea, ecc. (Cap. 1). L’iperparatiroidismo è dimostrabile solo nel 30% dei pazienti affetti da MEN II. È dovuto a iperplasia o più raramente ad adenoma delle paratiroidi. L’iperparatiroidismo è generalmente asintomatico e viene diagnosticato in base alle alterazioni del metabolismo minerale: ipercalcemia, ipofosforemia, fosfaturia aumentata, associata ad aumento del PTH immunoreattivo circolante (Cap. 60). Talora l’iperplasia delle paratiroidi viene rilevata casualmente durante l’intervento chirurgico per l’asportazione del carcinoma midollare. Nella MEN II sono stati descritti, in rari casi, tumori non endocrini: meningiomi, gliomi, e glioblastomi, tutti tumori derivati dalla cresta neurale. C. Neoplasia endocrina multipla tipo III o IIb. Questa sindrome è caratterizzata da carcinoma midollare della tiroide e da feocromocitoma, come la MEN II, dalla quale si differenzia per alcuni aspetti: • i pazienti hanno un habitus marfanoide (eccessiva lunghezza degli arti, cifoscoliosi, aracnodattilia, ectopia del cristallino) e presentano neurinomi mucosi multipli a livello delle labbra, della mucosa orale, del tratto gastrointestinale; • il carcinoma midollare è più aggressivo e tende a manifestarsi in età più giovanile (intorno ai 20 anni); • le paratiroidi sono interessate molto raramente (2% dei casi); • solo nella metà dei casi è possibile dimostrare una trasmissione autosomica dominante; i restanti casi sono sporadici.
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MALATTIE ENDOCRINE
Tabella 61.2 - Caratteristiche delle sindromi poliendocrine autoimmuni (da Eisenbarth e Gottlieb, 2004). POLIENDOCRINOPATIA X-LINKED CON DISFUNZIONE IMMUNE E DIARREA
SINDROME POLIENDOCRINA AUTOIMMUNE DI TIPO I
SINDROME POLIENDOCRINA AUTOIMMUNE DI TIPO II
Prevalenza Tempo di insorgenza
Rara Infanzia
Molto rara Periodo neonatale
Gene ed ereditarietà
AIRE (su cromosoma 21, recessivo) Rischio diminuito con HLA-DQ6 per il diabete Asplenismo, suscettibili a candidiasi
Comune Dall’infanzia all’età adulta Poligenica HLA-DQ2 e DQ-8 HLA-DRB1 * 0404 Nessuna
Nessuna associazione
CARATTERISTICHE
Genotipo HLA Immunodeficienza
Associazione con diabete Fenotipo comune
Sì (nel 18%)
Sì (nel 20%)
Candidiasi, ipoparatiroidismo, malattia di Addison
Malattia di Addison, diabete di tipo I, tiroidite cronica
Cenni di diagnosi e di terapia La diagnosi di neoplasia endocrina multipla viene posta in base al rilievo del contemporaneo interessamento di più ghiandole endocrine. La familiarità rappresenta un elemento di grande valore per indirizzare la diagnosi, specie in pazienti con feocromocitoma o iperparatiroidismo o carcinoma midollare della tiroide, che sono le forme più frequentemente rilevate. Non esistono indagini di laboratorio o strumentali specifiche per le MEN. La diagnosi viene posta dimostrando, mediante le indagini biochimiche e strumentali abituali, l’iperfunzione delle varie ghiandole e la presenza delle neoplasie. Attualmente un’alta percentuale di pazienti affetti da MEN tipo IIa può essere identificata mediante studi di genetica molecolare, evidenziando le mutazioni del protoncogene RET. Sotto il profilo anatomoistologico, l’iperplasia delle cellule circostanti il tumore (per es., cellule C della tiroide) indirizza verso una MEN piuttosto che verso una forma isolata di neoplasia (per es., carcinoma midollare della tiroide). L’asportazione chirurgica delle neoplasie rappresenta la terapia di scelta e può curare definitivamente alcuni pazienti. La terapia chirurgica può comunque presentare notevoli difficoltà perché spesso i tumori sono di piccole dimensioni o multipli.
SINDROMI POLIENDOCRINE AUTOIMMUNI (*) Le sindromi poliendocrine autoimmuni (Tab. 61.2) sono caratterizzate da ipofunzione di due o più ghiandole endocrine, associata alla presenza di anticorpi cir(*) C. Rugarli.
FOXP3, X-linked
Grave autoimmunità, perdita di cellule T regolatorie Sì (in maggioranza) Diabete neonatale, malassorbimento
colanti organospecifici e ad infiltrazione linfomonocitaria delle ghiandole interessate. L’insufficienza ghiandolare non si verifica nel morbo di Basedow, che al momento attuale è l’unica condizione endocrina a patogenesi autoimmune, caratterizzata da iperfunzione ghiandolare.
Eziopatogenesi Il problema dell’eziopatogenesi di queste sindromi è di grande interesse perché getta luce sul condizionamento genetico dell’autoimmunità. Per cominciare, il termine “poliendocrino” è fuorviante, perché non tutti i pazienti con l’assetto genetico che predispone a queste sindromi hanno anomalie endocrine multiple. Il disordine endocrino può essere singolo e molti pazienti possono avere malattie autoimmuni non endocrine. Si aggiunga che non è corretta l’opinione sostenuta in passato che spiegava l’interessamento di più ghiandole endocrine con l’esistenza di antigeni identici o simili in più strutture ghiandolari, così che una singola reazione autoimmune ne potesse coinvolge più di una. In realtà il problema riguarda un’insufficienza del sistema immunitario nel mantenere la tolleranza verso se stesso e una sua propensione generica all’autoimmunità. Perché, poi, questa si rivolga particolarmente (ma non esclusivamente) verso le ghiandole endocrine è un problema non chiarito. Esiste un’altra condizione con propensione all’autoimmunità ed è quella delle connettiviti e, in particolare, del lupus eritematoso sistemico, malattia nella quale esiste una pluralità di reazioni autoanticorpali contro una varietà di antigeni (ma con predilezione per alcuni, come gli antigeni nucleari, la regione Fc delle IgG e i fosfolipidi). Ma la sola endocrinopatia associata con la propensione all’autoimmunità propria del lupus è rappresentata dalle tiroiditi autoimmuni e non dalle sindromi poliendocrine. Può darsi che la differenza tra le due forme di propensione all’autoimmunità consista nella diversa tendenza a sviluppare immunità
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umorale o cellulare. Infatti, nel lupus si formano anticorpi direttamente implicati nella patogenesi della malattia, mentre nelle sindromi poliendocrine sono le cellule T ad essere impegnate nella distruzione delle ghiandole, e gli autoanticorpi possono dare un contributo secondario e sono più un marker della malattia che un fattore patogenetico esclusivo. Studi in modelli animali hanno chiarito alcuni meccanismi alla base di questa propensione per l’autoimmunità. L’attivazione delle cellule T è dovuta al fatto che queste riconoscono peptidi che fungono da bersaglio (in questo caso derivati da strutture endocrine) presentati in associazione con antigeni di istocompatibilità alla superficie di cellule specificamente deputate a questa funzione, tra le quali le cellule dendritiche, importanti per le risposte primarie. A seconda dello stato delle cellule dendritiche, come si vedrà meglio nel capitolo 68, vengono preferenzialmente stimolati linfociti T effettori o linfociti T regolatori. È la prevalenza di questi ultimi che previene l’autoimmunità. Ebbene, si è visto che un difetto di cellule regolatrici è alla base di molte sindromi poliendocrine. Topi sottoposti a timectomia neonatale hanno un’infiltrazione linfocitaria di vari organi con un’infiammazione che provoca varie alterazioni tra le quali una tiroidite. Si pensa che il timo abbia una funzione importante nella generazione di cellule regolatrici. Per esempio, il gene AIRE (sigla che sta per Autoimmune Regulator), le cui alterazioni sono alla base delle sindromi poliendocrine autoimmuni di tipo I, ha un ruolo nella generazione di cellule regolatrici nel timo e il venir meno di questa sua normale funzione favorisce l’autoimmunità. Un ruolo analogo avrebbe il gene FOXP3, che è mutato in un ceppo di topi che ha propensione all’autoimmunità e che è stato trovato mutato in un paziente con poliendocrinopatia X-linked, disfunzione immune e diarrea. Come avvenga la generazione di linfociti T regolatori nel timo dipende da vari fattori. I peptidi che possono essere riconosciuti nell’induzione delle reazioni autoimmuni possono essere presentati direttamente nel timo, sempre associati con antigeni di istocompatibilità, alla superficie di cellule epitelioidi, macrofagi o cellule dendritiche, e il gene AIRE fa sì che sia favorita l’e-
Ipotiroidismo idiopatico o gozzo atrofico
spressione di antigeni periferici di se stesso in questo organo, in modo che stimolino solo linfociti T regolatori e non linfociti T effettori. Quando sono rilasciati dal timo, le cellule del primo tipo assicurano la tolleranza immunologica a livello periferico. Il gene FOXP3, probabilmente, ha influenza sul numero delle cellule regolatrici che, nell’uomo, hanno fenotipo CD4+, CD25+. È anche possibile che un’influenza genetica, questa volta a livello periferico, agisca sulla sensibilità dei linfociti T effettori nel rispondere ai segnali che stimolano i loro recettori. Se la soglia di stimolazione è bassa sono facilitate le reazioni autoimmuni e questo sembra accadere nella poliendocrinopatia X-linked, disfunzione immune e diarrea. Queste regolazioni genetiche influenzano la predisposizione all’autoimmunità, ma altri fattori entrano nel determinismo di questa condizione. Per cominciare, dato che i peptidi che sono bersaglio delle reazioni autoimmuni sono associati con antigeni di istocompatibilità, anche questi hanno influenza sul manifestarsi o meno della malattia. Si aggiunga che condizioni infiammatorie innescate da segnali di “pericolo”, che attivano le reazioni dell’immunità innata, sono associate a una maggiore attivazione dei linfociti T effettori e perciò fattori ambientali che dispensano questi segnali possono facilitare l’autoimmunità. Infine, la penetranza dei geni che determinano queste malattie non è del 100% (di solito tra il 30 e il 70%), e perciò la concordanza, anche tra gemelli monozigoti, non è assoluta.
Clinica Nell’esposizione che segue parleremo prima delle forme più rare, ma nelle quali l’influenza genetica è più facilmente identificabile, e poi della più comune sindrome poliendocrina autoimmune di tipo II. A. Sindrome poliendocrina autoimmune di tipo I. Come si è anticipato, questa sindrome è determinata da mutazioni a carico del gene AIRE e quindi da un difetto di generazione nel timo di cellule regolatrici delle
Tiroidite di Hashimoto
Esoftalmo endocrino
Funzione tiroidea
T3, T4 circolanti limiti della normalità
Figura 61.2 - Espressioni cliniche delle malattie autoimmuni della tiroide.
Morbo di Basedow (gozzo tossico diffuso)
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reazioni immunitarie nei confronti degli autoantigeni. La sindrome è rara, ma un aumento della prevalenza è stato notato in certe popolazioni (finlandesi, ebrei iraniani e, in Italia, gli abitanti della Sardegna). La malattia insorge nell’infanzia e il quadro clinico è caratterizzato dalla seguente triade: persistente infezione da candida della cute e delle mucose, ipoparatiroidismo e malattia di Addison. Quando esistono due di queste alterazioni è quasi certo che una mutazione del gene AIRE è presente. La candidiasi suggerisce la presenza di un’immunodeficienza. Tuttavia non si ha mai l’infezione sistemica da parte di questo micete che è caratteristica delle gravi immunodeficienze e il perché di questa predisposizione alla candidiasi muco-cutanea resta poco chiaro. L’ipoparatiroidismo è suggerito dalla presenza di ipocalcemia, mentre la malattia di Addison è preceduta dalla comparsa di anticorpi anti-21-idrossilasi. Si possono sviluppare varie altre malattie autoimmuni: diabete di tipo 1, ipotiroidismo, anemia perniciosa, alopecia, vitiligine, epatite cronica, atrofia ovarica e cheratite. I bambini affetti da questa sindrome possono anche presentare diarrea o costipazione, dovute a distruzione delle cellule endocrine gastrointestinali (cellule enterocromaffini). B. Poliendocrinopatia X-linked con disfunzione immune e diarrea. Questa sindrome è probabilmente collegata con mutazioni del gene FOXP3, ma, come si è visto, anche un’anomala sensibilità dei linfociti T effettori alla stimolazione dei propri recettori ha in questo caso un ruolo patogenetico. È caratterizzata da autoimmunità “fulminante”, sviluppo di diabete neonatale e diarrea con malassorbimento, ed è spesso fatale. Il suo riconoscimento precoce è importante perché sembra che un trapianto di midollo con sviluppo di chimerismo possa correggere la situazione patologica. C. Sindrome poliendocrina autoimmune di tipo II (sindrome di Schmidt). Vi sono controversie nosologiche a proposito di questa sindrome. Alcuni, infatti, ritengono che le differenti combinazioni di varie endocrinopatie siano sindromi distinte. Perciò, considerano di tipo II in senso stretto la combinazione di malattia di Addison più tiroidite autoimmune o diabete di tipo 1; di tipo III l’autoimmunità tiroidea più un altro tipo di autoimmunità che non sia l’Addison o il diabete di tipo 1; di tipo IV la combinazione di autoimmunità a carico di due o più altri organi. Tuttavia, in singole famiglie esiste una notevole associazione di autoimmunità nei diversi componenti, ma con espressioni cliniche differenti, il che fa pensare che la malattia sia di origine multigenica e con quadri clinici che variano a seconda dell’assortimento genico che si ha nei singoli individui. Perciò, considerare questa sindrome unitariamente appare giustificato. Anche l’associazione con gli antigeni
MALATTIE ENDOCRINE
HLA appare variabile (Tab. 61.2) e questo è in accordo con la sua natura multigenica, anche se lo sviluppo simultaneo di malattia di Addison e diabete di tipo 1 è chiaramente associato con il genotipo eterozigote HLADR3-DQ2/HLA-DR4-DQ8. In genere, la malattia esordisce con una singola endocrinopatia e la probabilità di sviluppo di ulteriori alterazioni endocrine dipende dalla forma che si è manifestata per prima. Quando la prima manifestazione è la malattia di Addison, che è piuttosto rara, vi è un’elevata probabilità che un’altra endocrinopatia compaia successivamente. Quando invece si verifica per primo l’ipotiroidismo, che è piuttosto comune, la comparsa di altri disordini endocrini è molto meno facile. Malattie di prevalenza intermedia, come il diabete di tipo 1 e la malattia celiaca, sono associate frequentemente con altre malattie autoimmuni. Anche nel caso della sindrome poliendocrina di tipo II sono possibili alterazioni autoimmuni contro bersagli che non appartengono al sistema endocrino, come l’anemia perniciosa, la vitiligine, l’alopecia, la miastenia grave e la malattia celiaca. La prevalenza di queste alterazioni è però piuttosto rara: circa nell’1% dei casi di questa sindrome per tutte queste complicanze, con l’eccezione della vitiligine, che può arrivare al 5% dei casi.
Diagnosi e cenni di terapia La diagnosi di queste sindromi dipende fondamentalmente dal riconoscimento delle singole endocrinopatie. Il fatto che queste possano risultare multiple deve sollecitare l’attenzione verso le altre possibili alterazioni che potrebbero svilupparsi in questi pazienti. La presenza di autoanticorpi può anticipare la comparsa delle espressioni cliniche, come è il caso degli anticorpi anti-perossidasi tiroidea per le tiroiditi autoimmuni, degli anticorpi anti-21-idrossilasi per la malattia di Addison e per gli anticorpi anti-transglutaminasi per la malattia celiaca (che si trovano in un terzo dei pazienti con diabete di tipo 1). Con l’eccezione della poliendocrinopatia X-linked con disfunzione immune e diarrea, nella quale, come si è visto, può essere importantissimo il trapianto di midollo, la terapia è quella sostitutiva delle singole endocrinopatie. Solo quando occorre praticare una terapia sostitutiva per l’ipotiroidismo e l’ipocorticosurrenalismo bisogna ricordare che la seconda condizione deve essere corretta per prima, perché la sostituzione della secrezione tiroidea può precipitare una crisi surrenalica a causa dell’accelerato metabolismo epatico degli ormoni steroidei indotto dall’azione della tiroxina. Inoltre, in una minoranza di pazienti con malattia di Addison e moderati aumenti dei livelli ematici di ACTH, questi possono normalizzarsi dopo la terapia sostitutiva con glicocorticoidi.
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SINDROMI DA PRODUZIONE ORMONALE ECTOPICA (Sindromi endocrine paraneoplastiche) L. CANTALAMESSA, L. AIRAGHI
La secrezione ormonale viene considerata ectopica quando avviene a livello di tessuti che normalmente non sintetizzano e non secernono ormoni. Poiché la produzione ormonale ectopica avviene di regola a livello di tessuti neoplastici, le sindromi cliniche causate dall’azione delle sostanze prodotte in sede ectopica vengono anche definite sindromi endocrine paraneoplastiche. I tessuti neoplastici sintetizzano e secernono ormoni proteici e glicoproteici, che sono raggruppati in base alle loro principali caratteristiche nella tabella 62.1. Non vengono prodotti ormoni steroidei e iodotironine. Si ritiene che gli ormoni steroidei non vengano sintetizzati dalle cellule neoplastiche perché la loro sintesi richiede il passaggio attraverso un’intera sequenza enzimatica, mentre la sintesi di un peptide richiede esclusivamente l’espressione di un unico gene. L’eccezione è rappresentata dalla secrezione dell’ormone sterolo 1,25 (OH)2 D3 da parte di alcuni linfomi, che avviene poiché la sintesi dal precursore circolante, 25-OH-D3, richiede un solo passaggio enzimatico. Tabella 62.1 - Principali ormoni ectopici. • Neuroenterormoni (ACTH ed altri peptidi POMC-correlati; AVP; ossitocina e relative neurofisine; ormoni ipotalamici ipofisiotropi; calcitonina; gastrina; VIP; glucagone e altri). Prodotti principalmente da neoplasie polmonari, da carcinoidi bronchiali, timici e pancreatici, dal carcinoma midollare della tiroide. • Fattori ipercalcemizzanti. Peptidi PTH-simili (PTHrP), associati a carcinoma renale, polmonare, ovarico. Citochine (TGF- e ; IL-1; IL-6; TNF) associate a linfomi e mielomi. 1,25-diidrossi-colecalciferolo – 1,25 (OH)2 D3) – associato a linfomi. • Fattori di accrescimento (IGF-2; eritropoietina). Abitualmente prodotti da tumori del mesoderma; epatomi, tumori renali, carcinoidi gastrointestinali, sarcomi. • Ormoni fetoplacentari (gonadotropina corionica e lattogeno placentare), frequentemente associati a carcinomi polmonari ed epatomi.
Spesso le cellule neoplastiche sintetizzano precursori ormonali (proormoni, preproormoni), subunità degli ormoni glicoproteici e precursori delle subunità da soli o in combinazione con gli ormoni attivi. La produzione di precursori biologicamente inattivi può spiegare la discrepanza tra ricerche in vitro che dimostrano l’estrema frequenza di produzione ormonale da parte di alcune neoplasie e rarità delle sindromi cliniche da produzione ormonale ectopica. Per esempio, oltre il 90% delle neoplasie polmonari è sede di produzione ormonale ectopica, ma solo una percentuale limitata di pazienti (meno del 10%) sviluppa sintomi clinici attribuibili alla produzione di sostanze ormonali da parte del tessuto neoplastico. La secrezione ormonale ectopica è abitualmente autonoma, svincolata da meccanismi di controllo che caratterizzano l’attività delle ghiandole endocrine. Ne deriva la caratteristica, utilizzata ai fini diagnostici, della non sopprimibilità degli ormoni ectopici da parte dei meccanismi di controregolazione negativa. Le sindromi da produzione ormonale ectopica possono manifestarsi quando la malattia neoplastica di base è già clinicamente conclamata, oppure possono precedere ogni altro segno clinico della neoplasia anche di un tempo relativamente lungo. In questa seconda eventualità, l’individuazione della sindrome endocrina permette la diagnosi precoce della malattia neoplastica. Tutte le neoplasie possono teoricamente associarsi a sindrome da produzione ormonale ectopica, tuttavia nella pratica clinica le neoplasie più frequentemente in causa sono le neoplasie polmonari, ed in particolare le neoplasie broncogene. La diagnosi delle sindromi endocrine paraneoplastiche si basa su una serie di criteri biologici e clinici. Tra i primi, la dimostrazione della presenza dell’ormone nel tessuto neoplastico rappresenta la prova diretta della produzione ectopica dell’ormone. La sintesi di ormone da parte del tessuto neoplastico può essere dimostrata anche mediante colture di cellule tumorali e con il calcolo del gradiente arterovenoso ormonale proprio della sede del tumore. I criteri clinici sono nu-
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merosi: coesistenza di una neoplasia e di una sindrome da iperfunzione endocrina; elevata secrezione dell’ormone in causa con aumento dei livelli circolanti e dell’eliminazione urinaria; secrezione da parte del tessuto neoplastico, non sopprimibile dai meccanismi di controregolazione fisiologici (per es., ACTH non soppresso da desametasone ad alte dosi, ecc.); esclusione di una malattia endocrina primitiva responsabile della sintomatologia endocrina ed infine regressione clinica ed ormonale dell’endocrinopatia dopo asportazione del tumore.
SINDROME DA PRODUZIONE ECTOPICA DI ACTH La sindrome da produzione ectopica di ACTH è la sindrome paraneoplastica più nota, anche se non è la più frequente. Nella maggior parte dei casi (50%) è associata al microcitoma polmonare, meno frequentemente al carcinoide bronchiale e timico, ai tumori insulari del pancreas e al carcinoma midollare della tiroide. Anche se i polipeptidi ACTH-correlati sono in pratica sempre presenti nel tessuto delle neoplasie broncogene, solo il 2% circa dei pazienti sviluppa una sindrome da ACTH ectopico. In un’elevata percentuale di casi il tessuto tumorale produce il precursore dell’ACTH ad elevato peso molecolare, “big ACTH”, probabilmente identificabile con la proopiomelanocortina (POMC), che ha debole attività biologica. La proopiomelanocortina è contenuta in piccole quantità in tutti i tessuti normali, non appartenenti al sistema endocrino, e in quantità molto maggiore in estratti tumorali, indipendentemente dal tipo istologico. Solo alcuni carcinomi producono l’enzima che converte la proopiomelanocortina, biologicamente inattiva, in ACTH, biologicamente attivo. La molecola di POMC contiene, oltre alla sequenza aminoacidica dell’ACTH, anche la sequenza delle endorfine, della lipotropina e dell’ormone melanocitostimolante (-MSH). In alcuni tumori è stata dimostrata la produzione di -MSH e di lipotropine, derivanti dalla scissione della molecola di POMC. È stata descritta anche una sindrome di Cushing da iperproduzione ectopica di CRH in pazienti con microcitoma polmonare, carcinoide bronchiale e pancreatico, carcinoma midollare della tiroide e neoplasia prostatica metastatizzata. La clinica della sindrome di Cushing da produzione ectopica di ACTH presenta caratteristiche che la differenziano dalla sindrome di Cushing classica. Il caratteristico aspetto cushinghiano con obesità centrale e facies pletorica può mancare del tutto, avendo preminente evidenza la perdita di peso e l’anemizzazione. L’effetto cachettizzante della neoplasia condiziona anche l’evolutività della malattia, spesso drammaticamente ingravescente. Le manifestazioni cliniche dell’ipercortisolismo sono limitate all’atrofia muscolare, che può essere spiccatissima specie nei muscoli prossimali degli arti, alle alte-
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razioni del metabolismo glucidico con diabete insulinoresistente e all’ipertensione. L’iperproduzione di steroidi mineraloattivi assume quasi costantemente rilevanza clinica, provocando: grave alcalosi ipopotassiemica, astenia muscolare con pseudoparesi, edemi. In rapporto alla produzione da parte della neoplasia di grandi quantità di ACTH, la stimolazione massimale del surrene interessa infatti, oltre ai glicocorticoidi, anche il DOC e altri steroidi mineraloattivi. Sempre a causa degli elevati livelli circolanti di ACTH e di peptidi POMC-derivati, dotati di azione melanocito-stimolante, nei pazienti con sindrome da ACTH ectopico si può osservare un’iperpigmentazione di tipo addisoniano. La completa espressione clinica della sindrome da ACTH ectopico, riassunta nella tabella 62.2, si osserva in pazienti che presentano segni evidenti della neoplasia di base, di regola un microcitoma polmonare, già diagnosticato o facilmente evidenziabile con i comuni esami radiologici. Tuttavia è stata recentemente segnalata la possibilità di ipercortisolismo da produzione ectopica di ACTH da parte di tumori occulti relativamente benigni: carcinoidi bronchiali o timici, non evidenziabili clinicamente e con gli esami radiologici di routine. In questi pazienti il decorso della malattia è lento, la progressione graduale, le manifestazioni cliniche simili a quelle classiche del morbo di Cushing, pur essendo presenti, con vario grado di intensità, l’iperpigmentazione, l’ipopotassiemia, l’alcalosi e, incostantemente, l’anemia. La diagnosi di sindrome da ACTH ectopico viene posta in base agli esami ormonali già descritti nel capitolo 58. Ricordiamo, in breve, che nelle forme classiche la sindrome è caratterizzata da livelli di ACTH molto elevati. Inoltre, a differenza di quanto avviene nella malattia di Cushing ipofiso-dipendente, non si osserva, di solito, inibizione dopo desametasone ad alte dosi. Nelle forme di sindrome da ACTH ectopico da tumore occulto i livelli plasmatici di ACTH sono elevati, ma non raggiungono i valori abitualmente osservati nelle forme con evidenza di neoplasia, sovrapponendosi ai livelli rilevati nel morbo di Cushing ipofiso-dipendente. In questi pazienti la differenziazione tra le due forme è estremamente ardua e, in alcuni casi, può essere necessario dosare l’ACTH nel sangue refluo dell’ipofisi, mediante cateterismo selettivo dei seni petrosi.
Tabella 62.2 - Caratteristiche cliniche della sindrome di Cushing da ACTH ectopico. • • • • • • • • •
Infettiva Astenia muscolare progressiva – Pseudoparesi Miopatia da depauperamento delle masse muscolari Diabete mellito insulino-resistente Iperpigmentazione Ipopotassiemia Ipertensione arteriosa Edemi Anemizzazione
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62 - SINDROMI DA PRODUZIONE ORMONALE ECTOPICA (SINDROMI ENDOCRINE PARANEOPLASTICHE)
Nella diagnosi della sindrome da ACTH ectopico rivestono grande utilità le indagini radiologiche; in particolare la TC e la RM, sia per escludere la presenza di un tumore ipofisario sia per ricercare a livello di organi extraendocrini la neoplasia di base secernente ACTH. La terapia della sindrome di Cushing da secrezione ectopica di ACTH deve essere rivolta alla malattia di base e implica l’asportazione del tumore e/o un’efficace chemioterapia. Quando queste misure terapeutiche non sono attuabili, è indicato il trattamento sintomatico con farmaci che interferiscono con la sintesi steroidea surrenale, come aminoglutetimide o metopirone.
IPERCALCEMIA NEOPLASTICA L’ipercalcemia rappresenta la più comune manifestazione metabolica associata a neoplasia. Oltre il 10% dei pazienti con neoplasie in fase avanzata sviluppa un’ipercalcemia clinicamente importante. La frequenza dell’ipercalcemia è comunque molto diversa da un tumore all’altro. Si osserva più frequentemente nel carcinoma a cellule squamose del polmone e nei carcinomi squamosi del capo, del collo, dell’esofago e di altri tessuti, nel carcinoma renale, nei carcinomi della mammella e nel mieloma multiplo (Tab. 62.3). Solo in un numero limitato di pazienti, l’ipercalcemia si associa a metastasi ossee. Oltre cinquant’anni fa Albright intuì che l’aumento del calcio circolante non è necessariamente legato all’osteolisi provocata dalle metastasi ossee, ma può essere causato dalla produzione di sostanze ad azione PTH-simile da parte del tessuto tumorale. Tuttavia, solo in epoca più recente l’identificazione di peptidi con caratteristiche strutturali e attività biologica simili a quelle del PTH ha portato ad elaborare il concetto di ipercalcemia neoplastica umorale, rilevabile in assenza di metastasi ossee. Attualmente viene quindi distinta l’ipercalcemia neoplastica umorale da mediatori circolanti prodotti dalle cellule neoplastiche, che causano ipercalcemia provocando un eccessivo riassorbimento osseo, e l’ipercalce-
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mia da osteolisi localizzata, determinata da fattori paracrini secreti dalle cellule neoplastiche a livello osseo (Tab. 62.3). L’ipercalcemia neoplastica umorale è causata nella quasi totalità dei casi da un peptide PTH-simile (PTHlike peptide o PLP), noto anche come proteina correlata al PTH (PTHrP) (si veda il Cap. 60). Molto più raramente l’ipercalcemia è causata dalla produzione ectopica di PTH o di 1,25-diidrossi-colecalciferolo – 1,25 (OH)2 D3 – da parte del tumore. La PTHrP possiede una sequenza aminoacidica N-terminale che presenta strette analogie strutturali con quella del PTH, si lega al recettore del PTH a livello osseo e renale e produce effetti metabolici simili a quelli del PTH. La PTHrP viene prodotta con particolare frequenza dal carcinoma a cellule squamose del polmone e dal carcinoma renale, più raramente dal carcinoma della mammella. La produzione ectopica di PTH è stata dimostrata con sicurezza solo in pochi casi, in tumori neuroendocrini. Il 1,25 (OH)2 D3 rappresenta il mediatore biochimico dell’ipercalcemia in una rilevante quota, pari al 50%, di pazienti con linfoma e ipercalcemia. L’ipercalcemia da osteolisi localizzata è causata da un gruppo eterogeneo di mediatori, attivi nei processi di riassorbimento osseo, prodotti localmente dalle cellule neoplastiche. Transforming growth factor e (TGF- e ), IL-1, IL-6, prostaglandine, TNF- ed altre citochine possono avere un ruolo nell’ipercalcemia da osteolisi localizzata. Particolarmente importante l’azione di questi mediatori nel provocare l’ipercalcemia associata al mieloma multiplo. A. Clinica. Le manifestazioni cliniche dell’ipercalcemia neoplastica sono sovrapponibili a quelle descritte a proposito dell’iperparatiroidismo primitivo nel capitolo 60. I sintomi sono in genere sfumati, mascherati da quelli propri della malattia neoplastica. Tuttavia, in alcuni casi si possono osservare bruschi aumenti della calcemia, con comparsa di sintomi gastrointestinali (anoressia, nausea, vomito, dolori addominali cram-
Tabella 62.3 - Meccanismi patogenetici dell’ipercalcemia neoplastica. CLASSIFICAZIONE CLINICA Ipercalcemia neoplastica umorale
Ipercalcemia da osteolisi localizzata
PRINCIPALI TUMORI RESPONSABILI
AGENTI ATTIVI SUL RIASSORBIMENTO OSSEO
Tumori solidi senza metastasi
Carcinoma polmonare a cellule squamose; carcinoma renale; neoplasie pancreatiche, epatiche, del grosso intestino, dell’esofago, ovariche e cutanee
Peptidi ad azione PTH-simile (PTHrP); PTH
Neoplasie ematologiche
Linfoma
Peptidi ad azione PTH-simile (PTHrP) nel linfoma HTLV1-associato; 1,25 (OH)2 D3
Tumori solidi con metastasi
Neoplasie mammarie, polmonari, renali, ovariche, tiroidee e surrenali
Citochine (TGF- e , IL-1, IL-6, TNF); prostaglandine (PGE2)
Neoplasie ematologiche
Mieloma multiplo; linfoma
Citochine (TGF- e , IL-1, IL-6, TNF); prostaglandine (PGE2)
TIPO DI TUMORE
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piformi), poliuria, polidipsia e manifestazioni a carico del SNC, con letargia, sonnolenza e stato confusionale, che può giungere fino al coma. In generale, la comparsa di ipercalcemia, oltre al pericolo immediato legato all’alterazione metabolica, viene considerata un segno prognostico sfavorevole. Un’eccezione è rappresentata dai pazienti affetti da mieloma multiplo o da carcinoma mammario, poiché il decorso della loro malattia può essere contrassegnato da episodi di ipercalcemia che non pregiudicano la prognosi. B. Diagnosi. Si basa sulla determinazione del PTH (1-84) con metodiche che permettono il riconoscimento dell’intera molecola e non di sequenze aminoacidiche limitate, come avveniva fino a qualche anno fa. Utilizzando queste metodiche, la concentrazione plasmatica di PTH (1-84) è soppressa quando l’ipercalcemia è determinata dalla PTHrP. Rari sono i casi di ipercalcemia neoplastica con concentrazioni plasmatiche di PTH elevate per la presenza di un tumore che produce in sede ectopica il PTH o per la coesistenza di un adenoma delle paratiroidi. La recente introduzione di metodiche per il dosaggio di peptidi PTH-correlati è ancora limitata a pochi laboratori, ma permette la diagnosi diretta di ipercalcemia neoplastica legata alla produzione di questi peptidi. A differenza di quanto avviene nell’iperparatiroidismo, i livelli di 1,25 (OH)2 D3 sono normali o ridotti nell’ipercalcemia neoplastica da PTHrP, nonostante l’azione di stimolo che quest’ultimo esercita sulla sintesi di 1,25 (OH)2 D3. Non è chiaro perché ciò avvenga; forse le concentrazioni molto elevate di calcio circolante inibiscono la formazione di 1,25 (OH)2 D3. C. Terapia. Per correggere l’ipercalcemia vengono impiegati vari farmaci, che agiscono aumentando l’eliminazione urinaria di calcio oppure riducendo il riassorbimento osseo. La terapia calciuretica, impiegata preferibilmente nelle forme acute, viene attuata somministrando abbondanti quantità di soluzione fisiologica, che correggono la disidratazione provocata dalla poliuria e stimolano l’eliminazione urinaria di calcio, attraverso l’aumentata clearance renale del sodio. Quando l’ipercalcemia è grave (> 12 mg/dl), è necessario associare un diuretico dell’ansa come la furosemide. Non devono essere usati diuretici tiazidici, perché riducono l’escrezione urinaria di calcio. Altre sostanze agiscono inibendo la mobilizzazione di calcio dal tessuto osseo: il pamidronato (difosfonato, che riduce l’attività degli osteoclasti), i glicocorticoidi (inibitori della produzione di citochine, quindi attivi nel ridurre l’ipercalcemia nel mieloma multiplo e in alcuni linfomi), la calcitonina, la plicamicina e il gallio nitrato. Questi farmaci vengono usati preferibilmente nei trattamenti a medio e lungo termine; la scelta dipende dalla gravità dell’ipercalcemia e dalla malattia di base.
OSTEOMALACIA ONCOGENICA Sebbene rara, l’osteomalacia oncogenica è la causa più frequente di osteomalacia ipofosfatemica acquisita
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e, probabilmente, è determinata dal grado elevato di fosfaturia indotto da un fattore umorale secreto dal tumore. Infatti, è stato messo in evidenza un fattore solubile che blocca il trasporto di fosfato sodio-dipendente in colture di cellule di emangiopericitoma, isolate da un paziente affetto da osteomalacia oncogenica. I tumori responsabili di questo quadro clinico sono di origine mesenchimale, in particolare tumori ossei benigni localizzati prevalentemente alle estremità (emangiopericitomi, fibromi ossificanti e non, tumori a cellule giganti). La maggior parte dei pazienti lamenta dolore osseo e miopatia prossimale. Le concentrazioni plasmatiche di fosforo sono notevolmente ridotte, la fosfatasi alcalina sierica è aumentata, mentre calcemia e concentrazioni plasmatiche di PTH sono nella norma. Le concentrazioni di 1,25 (OH)2 D3 sono ridotte, mentre quelle di 25-OH-D3 sono nella norma. La biopsia ossea rivela le caratteristiche istologiche tipiche dell’osteomalacia, quali l’aumento del tessuto osteoide, la scarsità dei fronti di calcificazione e l’aumento del numero degli osteoblasti. La risoluzione del quadro clinico nei pazienti affetti da osteomalacia oncogenica si ottiene soltanto con l’exeresi completa del tumore.
Ipoglicemia da tumori non insulari Numerosi tumori non insulari possono associarsi ad ipoglicemia. In circa la metà dei casi si tratta di tumori mesenchimali di grosse dimensioni: fibrosarcomi, mesoteliomi, liposarcomi, leiomiosarcomi, spesso retroperitoneali. Altri tumori associati ad ipoglicemia sono: gli epatomi (responsabili di circa il 20% dei casi), i carcinomi del tratto gastroenterico, i carcinomi corticosurrenali e i carcinoidi. L’ipoglicemia è il risultato di un incremento dell’utilizzazione periferica del glucosio, soprattutto a livello della muscolatura scheletrica, associato a una riduzione della produzione epatica di glucosio. Inoltre, la lipolisi è inibita e sono ridotte le concentrazioni di acidi grassi liberi. Anche se inizialmente si sospettava che la massa tumorale in sé potesse metabolizzare glucosio in quantità tale da eccedere la capacità di produzione epatica di glucosio, questo fenomeno non è mai stato dimostrato. Nonostante gli effetti metabolici sopra descritti possano essere secondari all’insulina, le concentrazioni dell’ormone sono soppresse durante gli episodi di ipoglicemia. I sieri dei pazienti portatori di tumori non insulari contengono concentrazioni elevate di un’attività insulino-simile. Durante gli episodi di ipoglicemia, le concentrazioni di IGF-2 possono essere elevate e le concentrazioni di IGF-1 sono sempre soppresse. Probabilmente l’IGF-2 è responsabile dell’ipoglicemia a causa dell’incremento della sua biodisponibilità (il legame di IGF-2 ad un complesso eterotrimerico circolante ad elevato peso molecolare è ridotto, a favore di quello ad un complesso eterodimerico più piccolo, in grado di rilasciare IGF-2 a livello tissutale).
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62 - SINDROMI DA PRODUZIONE ORMONALE ECTOPICA (SINDROMI ENDOCRINE PARANEOPLASTICHE)
I sintomi sono quelli dell’ipoglicemia prolungata, con cefalea, stato confusionale, sonnolenza, convulsioni e coma. L’ipoglicemia spesso è scarsamente responsiva alla somministrazione di glucosio o di altri agenti come diazossido e glucagone, abitualmente impiegati negli stati ipoglicemici. L’ipoglicemia è corretta solo dall’asportazione del tumore.
SINDROME DA INAPPROPRIATA SECREZIONE DI ADH (SIADH) La sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico è caratterizzata da secrezione eccessiva di ADH, svincolata dai meccanismi di controllo fisiologico ed in particolare non correlata all’osmolarità plasmatica. In tale condizione la concentrazione di ADH in circolo è inappropriatamente elevata rispetto all’osmolarità. L’eccesso di ADH provoca una serie di modificazioni dell’equilibrio idroelettrolitico: incapacità di eliminare urine diluite, ritenzione di acqua, espansione dei liquidi extracellulari, iponatriemia da diluizione. L’iponatriemia rappresenta l’alterazione più grave e caratteristica della sindrome, in quanto, alla ridotta concentrazione di Na causata dalla diluizione dell’elettrolita in un più ampio volume extracellulare, si associa una elevata eliminazione di Na con le urine per ridotto riassorbimento a livello del tubulo prossimale, in conseguenza dell’espansione dei liquidi extracellulari. A. Eziologia. La SIADH può essere associata ad una numerosa serie di condizioni morbose, soprattutto di tipo neoplastico, e all’assunzione di svariati farmaci (Tab. 62.4). Il microcitoma polmonare è responsabile della SIADH in circa l’80% dei casi (sindrome di SchwartzBartter). Altre neoplasie extrapolmonari possono, più raramente, causare SIADH: carcinomi pancreatici e duodenali, linfomi. Anche il tessuto polmonare non neoplastico può acquisire la capacità di sintetizzare e secernere autonomamente ADH durante malattie infiammatorie come la tubercolosi polmonare ed altre infezioni. La produzione inappropriata di ADH può avvenire anche con altri meccanismi. • Alterazione dei meccanismi che controllano l’attività dei neuroni ADH-secernenti della neuroipofisi come conseguenza di lesioni di vicinanza del sistema nervoso: processi infiammatori, neoplastici, lesioni vascolari attivano gli osmorecettori con meccanismo indipendente da quello fisiologico. • Stimolazione della liberazione di ADH da parte della neuroipofisi e/o sensibilizzazione delle cellule bersaglio all’azione dell’ADH. È il meccanismo con cui molti farmaci (clorpropamide, vincristina, carbamazepina, ecc.; Tab. 62.4) provocano una sindrome da inappropriata secrezione di ADH.
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B. Patogenesi. Una situazione del tutto sovrapponibile a quella osservata nella SIADH può essere indotta sperimentalmente, in soggetti sani, somministrando un preparato di vasopressina ad azione ritardo (pitressina) per più giorni. La pitressina provoca inizialmente contrazione della diuresi con urine ipertoniche, ritenzione di acqua, aumento del peso corporeo, diluizione del plasma e dei liquidi extracellulari. In 2-3 giorni di trattamento si osserva aumento dell’eliminazione urinaria del sodio, mentre si attenuano l’oliguria e l’ipertonicità urinaria. Con questa “sfuggita” agli effetti dell’ADH a livello renale si stabilisce una “situazione di equilibrio” caratterizzata da una stabilizzazione dei livelli della sodiemia e dell’osmolarità, e soprattutto da una stabilizzazione del volume extracellulare e del peso corporeo, il cui incremento raramente supera i 3-4 kg. In questa fase di equilibrio il bilancio del sodio è normale: l’eliminazione urinaria riflette strettamente la quantità di sodio somministrata. Una situazione del tutto sovrapponibile a quella descritta, ottenuta sperimentalmente in soggetti normali, è stata osservata, alcuni anni dopo, in pazienti affetti da microcitoma polmonare, da Schwartz et al., che la attribuirono ad un’inappropriata secrezione di ADH da parte del tumore (sindrome di SchwartzBartter). Mentre la maggior parte dei fenomeni osservati nella SIADH, come la ritenzione idrica, l’iposmolarità plasmatica e l’incapacità di eliminare urine diluite sono Tabella 62.4 - Cause di inappropriata secrezione di ADH. • Tumori maligni – Carcinomi polmonari – Carcinoma del pancreas – Carcinoma vescicale – Carcinoma prostatico – Carcinoma del duodeno – Timoma – Linfomi, inclusa malattia di Hodgkin • Malattie polmonari non tumorali – Tubercolosi polmonare – Polmonite – Ascessi polmonari – Micosi polmonare • Malattie del sistema nervoso centrale – Traumi cranici – Ematomi subdurali – Malattie cerebrali vascolari ed emorragie subaracnoidee – Meningiti (tubercolare e batterica) – Ascessi cerebrali • Altre condizioni morbose – Porfiria acuta intermittente – Lupus eritematoso sistemico – Sindrome di Guillain-Barré – Respirazione positiva assistita • Farmaci – Antidiabetici orali: clorpropamide, tolbutamide – Antiblastici: vincristina, vinblastina, ciclofosfamide – Psicotropi: carbamazepina, barbiturici, antidepressivi triciclici • Endocrinopatie – Ipotiroidismo
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strettamente connesse con l’eccesso di ADH, più complessa appare la patogenesi dell’iposodiemia. L’iposodiemia può essere solo in parte attribuita alla diluizione dei liquidi extracellulari per ritenzione di acqua, infatti la spiccata iponatriemia è sproporzionata rispetto all’aumento di volume dei liquidi extracellulari e non si associa a diluizione di eguale entità degli altri soluti. All’iposodiemia contribuisce un ridotto riassorbimento di sodio a livello renale, causato dall’espansione dei volumi extracellulari. La concentrazione di sodio nelle urine è inappropriatamente elevata rispetto a quella del plasma. Certamente l’aumentata eliminazione di sodio con le urine non può essere dovuta all’ADH di per sé, in quanto, somministrando pitressina, la natriuria non compare se si riduce la somministrazione di liquidi in modo tale da mantenere costante il peso corporeo ed impedire l’espansione dei liquidi extracellulari. Al contrario, una delle caratteristiche costanti nei pazienti con inappropriata secrezione di ADH è la persistenza dell’iposodiemia anche se si somministrano elevate quantità di sodio (400-800 mEq/die), che vengono prontamente eliminate con le urine. C. Clinica. La ritenzione di acqua provoca un aumento ponderale che non supera in genere i 3-4 kg con edemi modesti o, più spesso, assenti. I sintomi clinici sono principalmente di ordine neurologico in rapporto all’edema cerebrale causato dal richiamo di acqua dai liquidi extracellulari ipotonici nelle cellule nervose. La gravità dei sintomi è correlata con l’entità dell’iposodiemia. Con sodiemia superiore a 120 mEq/l il paziente non lamenta sintomi particolari. Quando la sodiemia scende al di sotto di questi livelli compaiono invece inappetenza, nausea, vomito. Il paziente lamenta cefalea, è irritabile, non collaborante, confuso. Se la sodiemia si riduce ulteriormente, al di sotto dei 110 mEq/l, oltre ad intensa astenia si osservano diminuzione o perdita dei riflessi, paralisi di tipo bulbare o pseudobulbare, stato stuporoso e, nei casi più gravi, episodi convulsivi e coma. I sintomi della SIADH possono essere mascherati da quelli della malattia di base. Talora le manifestazioni della SIADH possono essere precipitate dall’impropria somministrazione di diuretici o di fleboclisi glucosate a pazienti prima asintomatici o paucisintomatici. D. Esami di laboratorio. La SIADH è caratterizzata sul piano ematochimico da iposodiemia (< 130 mEq/l) e ipoosmolarità plasmatica (< 270 mOsm/kg). Le urine sono più concentrate di quanto sarebbe appropriato in rapporto all’ipotonicità del plasma con incapacità di essere massimalmente diluite. La concentrazione di sodio nelle urine è, in genere, superiore a 20 mEq/l. Talora si può osservare diminuzione nel plasma dell’azoto ureico, della creatinina e dell’albumina. E. Diagnosi. Il rilievo di iponatriemia inferiore ai 130 mEq/l associata ad emodiluizione ed iposmolarità plasmatica, e la contemporanea eliminazione di urine relativamente ipertoniche rispetto al plasma, con con-
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centrazione del sodio superiore a 20 mEq/l, sono dati sufficienti a far porre diagnosi di SIADH. Il dosaggio di ADH nel plasma è oggi eseguibile solo in pochi laboratori specializzati. Comunque il rilievo di un’inappropriata concentrazione di ADH nel plasma, non soppressa dall’ipo-osmolarità plasmatica, rappresenta la prova diretta della sindrome. Per la diagnosi differenziale con le altre condizioni morbose che si associano ad iponatriemia si veda la tabella 62.5. F. Cenni di terapia. La terapia della SIADH si basa sulla restrizione dell’apporto idrico, che deve essere limitato a 800-1000 ml/die. La riduzione dell’apporto idrico provoca un rapido aumento del sodio e della osmolarità plasmatica ed una diminuzione di peso. In pazienti più gravi e scarsamente collaboranti, perché in stato confusionale, è necessario somministrare soluzione salina ipertonica al 3-5%; l’efficacia è però solo temporanea, perché il carico di sodio somministrato viene rapidamente eliminato con le urine (si veda Patogenesi); pertanto, una volta che la natriemia è tornata a livelli sufficienti a far regredire i sintomi neuropsichici, è necessario provvedere alla restrizione di liquidi. Per evitare il verificarsi della mielinolisi pontina, è importante che la correzione della natriemia sia graduale (non superiore a 2,5 mEq/l/h e non superiore a 20 mEq/l nelle 24 h). Utile anche l’impiego di farmaci, come la dimetilclortetraciclina, che riducono la responsività delle cellule renali all’azione dell’ADH.
Tabella 62.5 - Principali cause di iponatremia. Da perdita di sodio associata a perdita di acqua – Segni clinici di disidratazione • Extrarenali – Gastrointestinali: vomito, diarrea, aspirazione dal tubo digerente – Cute: sudorazione profusa – Raccolta di liquidi nella cavità addominale • Renali – Malattie renali: nefropatie con perdita di sali, alcune fasi dell’insufficienza renale cronica, nefriti interstiziali, pielonefriti – Diuresi osmotica: glicosuria diabetica – Insufficienza corticosurrenale, morbo di Addison – Sindrome di Bartter Da diluizione – Pazienti iperidratati • SIADH • Potomania • Insufficienza ipofisaria, mixedema • Ritenzione associata di acqua e sodio • Scompenso cardiaco congestizio, cirrosi epatica, tossiemia gravidica Pseudoiponatriemia • Iperlipidemia • Iperproteinemia
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62 - SINDROMI DA PRODUZIONE ORMONALE ECTOPICA (SINDROMI ENDOCRINE PARANEOPLASTICHE)
ALTRE SINDROMI PARANEOPLASTICHE Produzione ectopica di gonadotropina corionica (HCG) La produzione ectopica di gonadotropina corionica (HCG) è stata segnalata in presenza di alcuni tumori non derivati dal trofoblasto, in particolare neoplasie polmonari, intestinali, mammarie. L’HCG viene inoltre prodotta quasi costantemente (e in questi casi la produzione non può essere definita ectopica) da tumori derivati dal tessuto trofoblastico, come corioncarcinoma, mola idatidea, carcinoma embrionale del testicolo. Nell’adulto l’iperproduzione di HCG provoca raramente una sintomatologia clinica, che si manifesta solo nel maschio e consiste in ginecomastia. A volte la gineco-
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mastia è il primo sintomo di una neoplasia polmonare. In età prepubere l’iperproduzione di HCG causa segni di precoce maturazione sessuale, con i caratteri della pseudopubertà precoce. La produzione ectopica di HCG è documentata dalla presenza in circolo di elevati livelli di -HCG, che rappresentano un “marker” prezioso per la diagnosi precoce e per il monitoraggio dei tumori di derivazione trofoblastica.
Produzione ectopica di GH e di GHRH La produzione ectopica di GH o del suo Releasing Hormone (GHRH) è stata descritta in associazione con neoplasie del polmone, del pancreas, della mammella, del colon e dell’endometrio; in genere l’iperproduzione di GH non provoca manifestazioni cliniche; in un limitato numero di pazienti è stata comunque descritta acromegalia (Cap. 56).
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PARTE DECIMA
EQUILIBRIO ACIDO-BASE a cura di C. RUGARLI
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C A P I T O L O
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DISORDINI DELL’EQUILIBRIO ACIDO-BASE C. RUGARLI
PREMESSE La concentrazione degli idrogeno-ioni nei fluidi dell’organismo esercita un notevole effetto sullo svolgimento di molti processi biochimici di importanza vitale. Per questo motivo il pH dei fluidi corporei deve essere mantenuto rigorosamente costante e, nel liquido extracellulare (e perciò anche nel sangue arterioso), è normalmente compreso tra 7,35 e 7,45. Il pH del liquido intracellulare è più difficile da valutare, ma si stima che sia compreso tra 6,5 e 7,35.
Produzione ed eliminazione di acidi Per effetto del metabolismo si ha quotidianamente nell’organismo la produzione di una notevole quantità di acidi (nel discorso che segue per “acido” si intende una sostanza che ha la tendenza a liberare idrogeno-ioni, o, che è lo stesso, a liberare protoni, e per “base”, o “alcali” si intende una sostanza che ha la tendenza ad assumerli). Tra questi acidi il più importante è l’anidride carbonica, che ha la tendenza a liberare idrogeno-ioni in dipendenza della reazione CO2 + H2O → H+ + HCO3–. La produzione di anidride carbonica porterebbe alla liberazione quotidiana nell’organismo di quantità molto notevoli di idrogeno-ioni se questa sostanza non venisse eliminata dai polmoni. Altri acidi sono prodotti dal metabolismo in quantità molto minori rispetto all’anidride carbonica, ma sempre molto significative. Tra questi sono compresi l’acido lattico (circa 1200 mEq/die); i corpi chetonici, acido idrossibutirrico ed acetico (circa 500-600 mEq/die); i cosiddetti acidi fissi, acido solforico derivato dal metabolismo degli aminoacidi solforati e acido fosforico prodotto dal catabolismo di composti organici fosforati (circa 100 mEq/die). L’acido solforico e l’acido fosforico hanno una soglia renale molto bassa e sono elimina-
ti totalmente per via urinaria, con il rene che mette in atto dei meccanismi per contenere la riduzione di pH delle urine (produzione di ammoniaca e conversione di HPO42– in H2PO4–; Cap. 36). Gli acidi organici (il cui pK è sufficientemente basso da far sì che siano presenti nei fluidi corporei pressoché totalmente in forma dissociata) hanno soglia renale più alta e sono eliminati per via urinaria solamente quando la loro concentrazione nel sangue è elevata rispetto alla norma. Questo vale soprattutto per il lattato, che è normalmente contenuto nel sangue ad una concentrazione di circa 1 mmol/l e che ha soglia renale di 5-10 mmol/l. I corpi chetonici, invece, hanno soglia renale molto più bassa e possono essere eliminati con le urine anche quando la loro concentrazione nel sangue è aumentata moderatamente. Comunque, anche in assenza di escrezione urinaria, questi acidi organici sono consumati attraverso la loro metabolizzazione, la quale comporta, per ogni anione incorporato in molecole non dissociate (per es., glucosio), il consumo corrispondente di un idrogeno-ione. In conclusione, si ha normalmente nell’organismo la continua produzione di acidi che sono parallelamente eliminati o attraverso la respirazione, o con le urine, o con la loro conversione metabolica. Benché il bilancio tra produzione ed eliminazione di acidi sia normalmente in pareggio, sarebbe impossibile mantenere costante il pH dei fluidi corporei se non fossero operanti dei fini meccanismi di regolazione.
Meccanismi di regolazione Molti sistemi tampone provvedono al mantenimento del pH dei fluidi corporei: emoglobina, proteine, fosfati e bicarbonati. Tra questi, l’ultimo è della massima importanza ed è espresso quantitativamente dalla classica equazione di Henderson-Hasselbalch: pH = pK + log
[HCO3– ] . [H2CO3 ]
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EQUILIBRIO ACIDO-BASE
Tenendo conto che la concentrazione molare di acido carbonico, (H2CO3), è funzione della pressione parziale di anidride carbonica nel sangue arterioso (PCO2), e tenendo conto del valore del pK, ne consegue che il pH del sangue arterioso è uguale a: pHa = 6, 1 + log
[HCO3– ] PCO2
dove è uguale a 0,255 mmol/l se la PCO2 è espressa in kilopascal (kPa) e a 0,031 mmol/l se la PCO2 è espressa in mm di mercurio. Questa equazione è molto importante perché dimostra delle possibilità di regolazione del pH che vanno al di là di quelle di un semplice sistema tampone. Infatti, il pH del sangue arterioso è dipendente dal rapporto tra la concentrazione molare di HCO3– e la PCO2. Questo rapporto, e il pH, possono essere alterati da eventi che facciano variare o il numeratore o il denominatore della frazione. Ma l’organismo possiede meccanismi in grado di far subire delle variazioni consensuali al denominatore (se è alterato il numeratore) e al numeratore (se è cambiato il denominatore), in modo da mantenere il rapporto costante. Uno di questi meccanismi è rappresentato dalla ventilazione polmonare, che è in grado di far variare la PCO2, che aumenta se la ventilazione polmonare si riduce e diminuisce se la ventilazione polmonare si incrementa. L’altro meccanismo è rappresentato dalla capacità del rene di generare e indirizzare al sangue quantità maggiori o minori di bicarbonato. Come è spiegato in dettaglio nel capitolo 36, per ogni H+ che viene secreto dai tubuli renali un HCO3– viene riassorbito. Questo processo è molto importante perché genera continuamente bicarbonato-ioni e impedisce che possa essere totalmente consumata la base del sistema tampone dei bicarbonati (supponendo che nell’organismo si accumulino idrogeno-ioni, questi reagiranno con i bicarbonato-ioni per dare la seguente reazione: H+ + HCO3– → H2O + CO2; i bicarbonato-ioni sono perciò consumati dagli idrogeno-ioni). Si può facilmente vedere come questi meccanismi di regolazione siano essenziali per mantenere costante il pH del sangue arterioso. Se, per esempio, per una qualsiasi alterazione metabolica, la concentrazione nel sangue arterioso di HCO3– è ridotta, la diminuzione del pH che ne risulta sollecita i chemorecettori dell’arco aortico e del glomo carotideo (e, meno prontamente, il centro respiratorio nel midollo) ed incrementa la ventilazione. Conseguentemente diminuisce anche la PCO2, il rapporto nell’equazione di Henderson-Hasselbalch si riporta al suo valore normale (infatti, numeratore e denominatore della frazione sono parallelamente diminuiti) e il pH si ristabilisce ai valori di partenza. Un processo inverso (almeno in teoria) si verifica se aumenta la concentrazione di HCO3– nel sangue arterioso. Questo vale anche se l’alterazione primitiva riguarda la PCO2. Se questa aumenta, come può avvenire in corso di insufficienza respiratoria con ipoventilazione alveolare, il rene è indotto a secernere una maggiore quantità di idrogeno-ioni e perciò a generare e indirizzare al sangue più bicarbonato-ioni che di norma. An-
che in questo caso il rapporto nell’equazione di Henderson-Hasselbalch e il pH del sangue arterioso si riportano a valori normali. Il contrario avviene (sempre in teoria) se la PCO2 nel sangue arterioso è diminuita per l’esistenza di un’iperventilazione. Questi meccanismi di regolazione sono meno automatici di quanto appaia da questo discorso. Se il disordine è primitivamente metabolico il compenso respiratorio è relativamente pronto; tuttavia, l’iperventilazione in presenza di una diminuita concentrazione di bicarbonato-ioni nel sangue arterioso si verifica molto più efficacemente dell’ipoventilazione in presenza di una concentrazione di bicarbonato-ioni aumentata. Se il disordine è primitivamente respiratorio, il compenso metabolico richiede qualche giorno per essere pienamente operativo; conseguentemente, questo tipo di compenso è quasi totalmente mancante nei disordini acuti, mentre è molto importante quando il disturbo è cronico. Queste differenze, come si vedrà, sono rilevanti dal punto di vista clinico.
Acidosi, alcalosi e loro valutazione Con il termine acidosi si indica una situazione che determina una diminuzione di pH del sangue arterioso, o che sarebbe in grado di determinarla se non fossero in opera i meccanismi di regolazione che abbiamo sopra ricordato. Con il termine alcalosi si indica la situazione opposta, nella quale il pH del sangue arterioso è aumentato o lo sarebbe in assenza di meccanismi di regolazione. Come si vede, le alterazioni indicate con questi termini non comportano necessariamente l’esistenza di una variazione del pH del sangue arterioso ed alcuni Autori hanno ritenuto utile l’introduzione dei termini acidemia (diminuzione del pH) e alcalemia (aumento del pH). L’acidemia è inclusa nell’acidosi e l’alcalemia è inclusa nell’alcalosi. È chiaro, da quanto detto sopra, che l’acidemia e l’alcalemia possono verificarsi solo quando non sono pienamente efficaci quei meccanismi di regolazione e di compenso di cui abbiamo parlato prima. Due considerazioni debbono essere fatte. La prima è che, per quanto il pH del sangue arterioso possa variare, questo avviene sempre in un ambito molto ristretto. Così un pH di 7 corrisponde ad un’acidosi (e a un’acidemia) tanto grave da mettere in pericolo la vita e un pH di 7,6 si trova in un’alcalosi (e in un’alcalemia) di grado estremo. La seconda considerazione è che è molto importante e utile operare una distinzione fondamentale tra le cause che possono provocare acidosi o alcalosi. Da un lato, infatti, si considerano tutte quelle situazioni nelle quali il disordine primitivo consiste in un’alterazione della rimozione polmonare di anidride carbonica, o in difetto o in eccesso: queste si chiamano acidosi e alcalosi respiratoria. Da un altro lato vengono considerate, collettivamente, tutte le situazioni causate da disordini di altro tipo: queste si chiamano acidosi e alcalosi metabolica. Nell’acidosi e alcalosi respiratoria il disordine primitivo fa variare il denominatore della frazione presente nell’equazione di Hender-
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son-Hasselbalch, nell’acidosi e alcalosi metabolica il disordine primitivo influenza invece il numeratore della frazione. L’equilibrio acido-base è espresso dai tre valori rappresentati nella equazione di Henderson-Hasselbalch: pH, concentrazione di HCO3–, PCO2. La sua valutazione può essere eseguita facilmente sul sangue arterioso con apparati analitici che misurano direttamente il pH e la PCO2 (la concentrazione di HCO3– viene ricavata dalla equazione di Henderson-Hasselbalch). I valori normali sono, per il pH, 7,35-7,45 (come già si è anticipato); per la PCO2, circa 40 mmHg (5,33 kPa), corrispondenti a una concentrazione di acido carbonico di 1,2 mmol/l; per HCO3–, circa 25 mmol/l. In corso di acidosi respiratoria la PCO2 e i bicarbonati sono aumentati; il pH è diminuito (ossia la PCO2 è aumentata in proporzione più di quanto siano aumentati i bicarbonati) nel caso di acidemia respiratoria. In corso di acidosi metabolica la PCO2 e i bicarbonati sono diminuiti; il pH è diminuito (ossia i bicarbonati sono diminuiti in proporzione più della PCO2) nel caso di acidemia metabolica. In corso di alcalosi respiratoria la PCO2 e i bicarbonati sono diminuiti; il pH è aumentato (ossia la PCO2 è diminuita in proporzione più dei bicarbonati) nel caso di alcalemia respiratoria. In corso di alcalosi metabolica la PCO2 e i bicarbonati sono aumentati; il pH è pure aumentato (ossia i bicarbonati sono aumentati in proporzione più della PCO2) nel caso di alcalemia metabolica. In realtà la situazione è molto più complessa di quanto appaia da questa esposizione. Le variazioni consensuali della PCO2 e dei bicarbonati, dovute ai meccanismi di compenso, non sono altrettanto pronte ed efficaci (e di questo si è già fatto cenno) nelle diverse situazioni patologiche. Inoltre è comune che un disturbo dell’equilibrio acido-base abbia un’origine mista: per esempio, che in un paziente con una cronica ipoventilazione alveolare (e perciò in acidosi respiratoria) si abbia anche un’acidosi
metabolica per accumulo di acido lattico dovuto ad ipossia tissutale. Non è facile, sulla base di quanto abbiamo esposto prima, distinguere la componente respiratoria da quella metabolica dell’acidosi. Per questo motivo sono stati introdotti, nel passato, altri parametri di valutazione, due dei quali sono forniti dagli attuali dispositivi analitici di misurazione dell’equilibrio acido-base. Il primo è il valore dei bicarbonati standard, ossia della concentrazione molare di bicarbonati che verrebbe trovata se il sangue avesse una normale PCO2 (40 mmHg o 5,33 kPa). L’idea iniziale era che il valore dei bicarbonati standard fornisse una stima della componente metabolica del disordine dell’equilibrio acido-base. Un altro valore che viene fornito e che ha un significato analogo è quello del deficiteccesso di basi, che corrisponde alla quantità (in mmol) di alcali che occorre aggiungere o togliere a un litro di sangue del soggetto, in presenza di una PCO2 normale, per riportarne alla norma il pH. Quest’ultima valutazione è imprecisa perché stima l’effetto dell’aggiunta o della sottrazione di alcali in vitro, mentre in vivo le cose vanno differentemente, dato che il sangue arterioso è in equilibrio con il liquido extracellulare il cui potere tampone è diverso da quello del sangue. Il punto debole di queste stime della componente metabolica dei disturbi dell’equilibrio acido-base è che non aiutano a discriminare le alterazioni primarie, che sono quelle che contano, dalle alterazioni secondarie, che sono effetto dei meccanismi di regolazione e di compenso. Si supponga, per esempio, un paziente con un’acidosi respiratoria cronica (disordine primario) nel quale con il calcolo del deficit-eccesso di basi si trovi anche un’alcalosi metabolica: sarà difficile dire se questa è interamente dipendente dall’aumentata produzione di bicarbonati per compenso renale (disordine secondario) o dalla coesistenza di un altro disordine primario (per es., un iperaldosteronismo secondario per uso trop-
Tabella 63.1 - Principali alterazioni dell’equilibrio acido-base. GASANALISI NELLA FORMA ACUTA
TIPO DI ALTERAZIONE Acidosi respiratoria
(HCO3– ) (CO2 ) ↑
Alcalosi respiratoria (HCO3– ) (CO2 ) ↓ Acidosi metabolica
(HCO3– ) ↓ (CO2 )
Alcalosi metabolica
(HCO3– ) ↑ (CO2 )
PH PCO2 BS BE pH PCO2 B BE pH PCO2 BS BE pH PCO2 BS BE
–– ++ – – ++ –– + + –– + –– –– ++ n ++ +
COMPENSO FISIOLOGICO
GASANALISI NELLA FORMA COMPENSATA
Riassorbimento di basi, ipocloremia
pH PCO2BS BE
Ritenzione di sodio, escrezione renale di basi
pH Pco2 BS BE pH PCO2 BS BE pH PCO2 BS BE
Iperventilazione
Ipoventilazione
– + ++ ++ + – –– –– – – –– – + ++ + ++
I simboli + e – indicano un parametro aumentato o diminuito; i simboli + + e – – indicano molto aumentato o molto diminuito; n = normale. BS = bicarbonati standard; BE = eccesso di basi (deficit quando i valori sono negativi).
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po generoso di diuretici). Per questo motivo il parere degli esperti è che non esiste alcun metodo di calcolo utile per la soluzione di questi problemi ed alcuni ritengono addirittura che non valga più la pena di utilizzare i valori dei bicarbonati standard e del deficit-eccesso di basi. Tuttavia, quando questi parametri sono valutati giudiziosamente nel contesto clinico del paziente, essi possono risultare utili, come indicato nella tabella 63.1. Fortunatamente, le differenti modalità con le quali si mettono in opera i meccanismi di compenso nelle diverse situazioni aiutano ad analizzare i problemi concreti su base empirica. Vari Autori hanno infatti costruito dei diagrammi che valutano il pH in funzione della PCO2 (o, che è lo stesso, della concentrazione dei bicarbonati). I dati riguardanti l’acidosi e l’alcalosi respiratoria acute sono stati valutati in volontari sani che per brevi periodi respiravano miscele di aria arricchita in CO2 o iperventilavano. I dati riguardanti l’acidosi e l’alcalosi metabolica sono stati rilevati in pazienti che presentavano disturbi non complicati dell’equilibrio acido-base. Con i valori medi si sarebbero potute costruire delle curve. Più pratico è risultato disegnare delle bande comprese tra i valori ottenuti addizionando o sottraendo a quelli medi due deviazioni standard. Un esempio di un grafico di questo tipo è riportato nella figura 63.1. Come si vede, esiste un diverso andamento non solo delle bande dell’acidosi-alcalosi respiratoria cronica e dell’acidosi-alcalosi metabolica, ma anche tra la prima e quella dell’acidosi-alcalosi respiratoria acuta. Quando il punto corrispondente ai dati trovati in un determinato paziente è incluso in una delle bande, questo significa che, con una probabilità del 95%, il paziente è affetto dalla condizione individuata da quella particolare banda. Quando il punto non è incluso in alcuna delle bande, questo significa che il paziente è af-
6,9
120 110
7,0
100
pHa
80
60
7,3
50
7,4
40
7,5
30
7,6
x
70
ca oli tab Me
7,2
[H+]a nmol/l
90 7,1
A
D
a ut ac a i or at pir s Re nica toria cro Respira B
C 20 0
0
10
20
2
30
40 50 mmHg
60
4 6 8 PCO2 kPa arterioso
70
80
10
90
12
Figura 63.1 - (Da Oxford textbook of medicine, Zanichelli).
fetto da un disordine misto, nel quale coesistono l’una e l’altra delle situazioni individuate dalle bande che delimitano lo spazio entro il quale cade il punto.
ACIDOSI Fisiopatologia L’esistenza di un’acidosi comporta molte importanti conseguenze per l’organismo, che sono ben evidenti soprattutto quando l’acidosi è grave e si verifica acidemia. Sul sistema nervoso l’acidosi esercita notevoli effetti che riguardano soprattutto il livello della coscienza, che, nei casi di acidosi grave, può presentare vari gradi di alterazione che vanno dalla sonnolenza al coma. Sul cuore l’effetto diretto dell’acidosi è inotropo negativo, ma è difficile che questa alterazione assuma importanza clinica perché è bilanciata dalla secrezione di catecolamine che è incrementata in questo disordine dell’equilibrio acido-base e che può a sua volta essere causa di aritmie: può tuttavia essere rilevante in pazienti che assumono farmaci -bloccanti. Sulla circolazione arteriosa periferica l’acidosi induce una vasodilatazione che è particolarmente importante a livello cerebrale, dove è relativamente poco influenzata dalle catecolamine. Nelle venule, invece, si verifica una costrizione, il cui risultato è la cosiddetta centralizzazione della massa ematica (spostamento di sangue dalla periferia alle cavità cardiache e alle grosse vene intratoraciche). Questo fenomeno può essere di rilievo quando a pazienti in acidosi vengono infusi fluidi endovena. Sull’apparato respiratorio l’acidosi produce la già descritta stimolazione della ventilazione. Si pensa anche che l’acidosi sia molto importante nel determinare il quadro del polmone da shock. Sul rene l’acidosi ha effetti rilevanti che sono già stati in parte descritti. Si verifica, infatti, un aumento dell’escrezione di idrogeno-ioni e, parallelamente, il pH urinario tende ad essere mantenuto basso e la produzione di ammoniaca è aumentata. L’acidosi ha anche un effetto sulle ossa, in quanto può aver luogo uno scambio tra idrogeno-ioni circolanti e calcioioni nel tessuto osseo. Questo processo è utile perché contribuisce a limitare la riduzione del pH, ma comporta un bilancio del calcio negativo. Un’osteopatia è perciò possibile in certe particolari forme di acidosi. In corso di acidosi è frequente un’iperpotassiemia dovuta a scambio degli idrogeno-ioni del liquido extracellulare con potassio-ioni all’interno delle cellule. L’incremento dell’escrezione urinaria di potassio fa sì che il patrimonio totale di potassio nell’organismo sia diminuito nonostante che la sua concentrazione nel sangue risulti aumentata. L’acidosi inibisce la glicolisi per un effetto del pH intracellulare sull’enzima fosfofruttochinasi. Anche la gliconeogenesi epatica a partire dal lattato è inibita nell’acidosi, un effetto che può avere un ruolo nel perpetuare l’acidosi da accumulo di acido lattico. Infine, in corso di acidosi grave è possibile osservare una rilevante leucocitosi neutrofila.
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Acidosi respiratoria L’acidosi respiratoria si verifica quando si ha ipoventilazione alveolare (Cap. 14). Le cause possibili sono tre. • Alterazioni del centro respiratorio indotte da malattie organiche del sistema nervoso centrale o da farmaci (oppiacei, barbiturici, anestetici). L’arresto respiratorio può essere considerato un caso estremo tra le cause di questo tipo. • Alterazioni neuromuscolari e meccaniche che interferiscono con il processo della ventilazione: polineuropatie, sclerodermia, miopatie, cifoscoliosi, notevole obesità. Quest’ultima, quando è accompagnata da diminuita sensibilità dei recettori periferici alla “spinta ipossica” può determinare acidosi respiratoria nella cosiddetta sindrome di Pickwick. • Broncopneumopatie di vario tipo (ostruttive, restrittive) nelle quali viene meno per stanchezza muscolare l’iperventilazione necessaria per compensare difetti quali gli squilibri tra ventilazione e perfusione, gli effetti shunt e i difetti di trasferimento dell’ossigeno attraverso la membrana alveolo-capillare. Come si è anticipato, l’acidosi respiratoria acuta è mediocremente corretta dai meccanismi renali di regolazione e di compenso (i quali richiedono un certo tempo per divenire pienamente operativi) e passa rapidamente in acidemia. Al contrario, l’acidosi respiratoria cronica è ben compensata e rende possibile il raggiungimento di valori molto elevati di PCO2 anche con modeste variazioni del pH del sangue arterioso. L’acidosi respiratoria presenta un quadro clinico che è complicato dalla coesistenza di ipossiemia, la quale, a sua volta, può pure interferire con l’equilibrio acido-base, incrementando la produzione tissutale di acido lattico (si veda in seguito). Nell’acidosi respiratoria cronica vari sintomi e segni possono direttamente essere attribuiti alle elevate quantità di anidride carbonica che si accumula nell’organismo, le quali hanno un potere narcotico. Quando la PCO2 supera i 70 mmHg il paziente sviluppa progressivamente confusione e può passare al coma. La terapia dell’acidosi respiratoria è basata sull’eliminazione dell’eccesso di anidride carbonica nell’organismo grazie alla ventilazione meccanica o assistita.
Acidosi metabolica Prima di parlare dell’acidosi metabolica è bene soffermarsi su un criterio valutativo che è particolarmente utile in questa condizione: il calcolo del “gap degli anioni”. Nel sangue e nei liquidi biologici la somma dei cationi e quella degli anioni debbono essere uguali. Se si considerano gli ioni principali, sodio e potassio tra i cationi e bicarbonati e cloruri tra gli anioni, si vede che le rispettive somme non si pareggiano. La somma delle concentrazioni molari di sodio e potassio eccede infatti
nel sangue la somma delle concentrazioni molari di bicarbonati e di cloruri di una modesta quantità, che è di 10-18 mmol/l e che costituisce il gap degli anioni. Questa differenza è dovuta al fatto che il calcolo eseguito in questo modo non tiene conto di alcuni anioni, come acidi organici e proteine, che, se fossero stimati, riempirebbero il gap. Le acidosi metaboliche sono di due tipi: con il gap degli anioni aumentato e con il gap degli anioni invariato. Nel primo caso l’acidosi deriva dall’accumulo di acidi (acidi organici, acidi fissi) che non sono stimati quando si calcola il gap degli anioni: conseguentemente i bicarbonati sono diminuiti nel sangue arterioso (consumati dagli idrogeno-ioni forniti dagli acidi accumulati) e i cloruri restano a valori normali. Nel secondo caso l’acidosi è causata dalla perdita primitiva di bicarbonati (che vengono sostituiti da cloruri), o dall’apporto di sostanze, come il cloruro di ammonio o il cloridrato di arginina, nelle quali il catione è metabolizzabile e residua un eccesso di cloruri (che sostituiscono i bicarbonati); in tutte queste circostanze i bicarbonati sono sempre diminuiti nel sangue, ma i cloruri sono corrispondentemente aumentati (acidosi ipercloremica). Un elenco delle principali cause di acidosi metabolica, classificate in base al gap degli anioni, è presentato nella tabella 63.2. Come si vede, nella prima categoria (gap degli anioni aumentato) sono comprese condizioni caratterizzate Tabella 63.2 - Principali cause di acidosi metabolica. CON GAP DEGLI ANIONI AUMENTATO • Accumulo di corpi chetonici (chetoacidosi) – Nel diabete – Nel digiuno – Da alcool etilico – Nei bambini • Accumulo di acido lattico (acidosi lattica) – Da ipossia dei tessuti – Da etanolo – Da biguanidi – Da infusione di fruttosio – Da gravi epatopatie – Da glicogenosi di tipo I • Accumulo di acidi fissi – Uremia • Intossicazioni – Da salicilati – Da metanolo – Da glicole etilenico CON GAP DEGLI ANIONI NORMALE • Perdita gastrointestinale di bicarbonati – Diarrea – Fistole pancreatiche • Perdite urinarie di bicarbonati – Acidosi tubulare renale distale e prossimale – Ureteroenterostomia • Introduzione di agenti acidificanti – Cloruro di ammonio – Cloridrato di arginina – Aminoacidi cationici
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da un’eccessiva produzione di acidi non volatili: chetoacidi, acidosi lattica, intossicazione da salicilati (che attraverso blocchi metabolici incrementano la produzione di vari acidi organici), da metanolo (da cui deriva acido formico), da glicole etilenico (da cui derivano acido gliossilico e acido ossalico). Nella stessa categoria è compresa l’uremia, nella quale è diminuita l’escrezione di acidi fissi (acido solforico, acido fosforico). La chetoacidosi è descritta nel capitolo 62 a proposito del diabete mellito; dell’uremia si parla nel capitolo 37 dedicato all’insufficienza renale cronica. L’acidosi lattica è molto comune quando si determina un’ipossia dei tessuti, soprattutto in corso di shock, ma può essere provocata anche da altre cause: può essere una conseguenza dell’intossicazione etilica acuta e cronica (per eccessiva conversione del piruvato a lattato in conseguenza dei più alti livelli di NAD ridotto che si hanno in conseguenza del metabolismo dell’alcool etilico), può costituire un effetto collaterale di antidiabetici orali della classe delle biguanidi (per questo motivo uno di essi, la fenformina, è stato ritirato dal commercio), può dipendere dall’infusione parenterale di grandi quantità di zuccheri, come il fruttosio, rapidamente indirizzati alla via glicolitica, può verificarsi in corso di gravi epatopatie, come la necrosi epatica massiva (per difetto di gliconeogenesi epatica dall’acido lattico) e può essere osservata in corso di errori congeniti del metabolismo, tra i quali il più importante è la glicogenosi di tipo I (Cap. 65). Nella seconda categoria rientrano condizioni caratterizzate da perdita di bicarbonati per via gastrointestinale o renale. Tra queste ultime è particolarmente importante l’acidosi tubulare renale, per la quale rimandiamo al capitolo 39. L’acidosi dell’ureteroenterostomia (che non dovrebbe più verificarsi con le moderne tecniche chirurgiche) dipende da scambio di cloruri e bicarbonati attraverso la parete intestinale, ma anche da nefropatie sovrapposte (pielonefrite). Dell’effetto di sostanze come il cloruro d’ammonio e il cloridrato di arginina abbiamo già parlato. Aggiungiamo che anche durante l’alimentazione parenterale un’acidosi può essere indotta con lo stesso meccanismo degli aminoacidi cationici: arginina, lisina, istidina. Dal punto di vista clinico l’acidosi metabolica ha un quadro più grave se instaurata acutamente. I sintomi di presentazione sono più comunemente gastrointestinali, con anoressia, nausea e vomito (meno comunemente diarrea), cui seguono respiro frequente, profondo e rapido (respiro di Kussmaul) e successivamente stato soporoso che progredisce verso il coma. La terapia dell’acidosi metabolica è basata sulla somministrazione – orale nelle forme croniche, parenterale nelle forme acute – di bicarbonato di sodio o di altri anioni (citrato), che per essere facilmente metabolizzabili stimolano la generazione endogena di bicarbonato. Le modalità di somministrazione del bicarbonato e i dosaggi ottimali debbono essere attentamente valutati, perché pongono delicati problemi strategici per i quali rimandiamo ai testi di terapia.
EQUILIBRIO ACIDO-BASE
ALCALOSI Fisiopatologia Gli effetti dell’alcalosi sono nel complesso meno importanti di quelli dell’acidosi. Forse l’effetto più spettacolare dell’alcalosi (che si osserva soprattutto nell’alcalosi respiratoria) si manifesta a carico del sistema nervoso sotto forma di ipereccitabilità neuromuscolare che può condurre a tetania. Nei soggetti epilettici le crisi convulsive possono essere scatenate dall’alcalosi. Sull’apparato circolatorio l’alcalosi agisce in senso contrario all’acidosi: in realtà l’azione inotropa positiva sul cuore è trascurabile (anche se sono possibili aritmie), mentre sulle arterie periferiche l’effetto è vasocostrittore, particolarmente nella circolazione cerebrale. Per quanto riguarda l’apparato respiratorio si è già detto che l’alcalosi metabolica ha modesti effetti sull’entità della ventilazione (nell’alcalosi respiratoria è alterata primitivamente). Quando l’alcalosi è stabilita, il rene elimina meno idrogeno-ioni: corrispondentemente il pH urinario è prossimo alla neutralità e l’escrezione di ammoniaca è modesta. L’alcalosi ha un importante effetto sulla potassiemia, che tende ad essere diminuita. Questa modificazione può essere spiegata con il fatto che, essendo i sodio-ioni scambiati con una minore quantità di idrogeno-ioni nei tubuli renali, possono essere sottoposti in maggiore misura allo scambio alternativo con i potassio-ioni. L’escrezione renale di potassio è perciò aumentata. È stato dimostrato che l’alcalosi incrementa la glicolisi e può perciò stimolare la produzione di acido lattico. Infine, in corso di alcalosi si ha spostamento a sinistra della curva di dissociazione dell’O2 dall’emoglobina, con riduzione della cessione di O2 ai tessuti.
Alcalosi respiratoria Perché si abbia alcalosi respiratoria occorre che la ventilazione sia aumentata in modo tale da ridurre la PCO2 (ipocapnia). Questo si verifica, di fatto, in molte broncopneumopatie, nelle quali l’iperventilazione è messa in atto per impedire l’ipossiemia (Cap. 14). Generalmente in questi casi l’alcalosi non è di entità tale da contribuire in maniera importante al quadro morboso. Più interessante è la diretta iperstimolazione del centro respiratorio, come può avvenire in corso di febbre, malattie organiche cerebrali (tumori, encefaliti), intossicazione da salicilati (ma questa provoca anche acidosi metabolica). In modo particolare, un’iperventilazione tale da condurre ad un’importante alcalosi si può avere per cause psichiche in soggetti ansiosi. Nell’alcalosi respiratoria vari meccanismi di compenso possono contrastare l’aumento del pH del sangue arterioso: la mobilizzazione di idrogeno-ioni dal sistema tampone dei tessuti, la stimolazione della glicolisi e l’aumentata produzione di acido lattico, ma, soprattutto, la riduzione dei bicarbonati del sangue grazie a un loro minore riassorbimento nei tubuli renali. Quest’ultimo processo
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63 - DISORDINI DELL’EQUILIBRIO ACIDO-BASE
richiede un certo tempo per verificarsi e perciò l’alcalosi respiratoria acuta provoca alcalemia (con i corrispondenti sintomi e segni) più facilmente dell’alcalosi respiratoria cronica. I disturbi avvertiti sono di tipo neuromuscolare e consistono in formicolii e parestesie agli arti, una sensazione di leggerezza alla testa e, se l’alcalosi è sufficientemente grave, manifestazioni tetaniche che sono particolarmente evidenti alle mani, che assumono il caratteristico atteggiamento “a mano d’ostetrico”. La terapia è quella della malattia fondamentale. Nella forma su base psichica, che è spesso la più evidente clinicamente, possono bastare misure psicoterapeutiche o l’uso di tranquillanti. In alcuni casi può essere opportuno correggere l’alcalosi facendo respirare per un certo tempo il paziente in un sacchetto di plastica: in questo modo si può restituire all’organismo l’anidride carbonica che è stata eliminata in eccesso.
Alcalosi metabolica L’alcalosi metabolica si verifica per varie cause che sono elencate nella tabella 63.3. Al primo posto vediamo delle condizioni che sono caratterizzate da perdita di cloruri. Infatti, in questi casi, alla deplezione di cloruri nell’organismo corrisponde un aumento percentuale dei bicarbonati per unità di volume di fluido extracellulare, in modo da mantenere costante la somma degli anioni. In realtà, in tutti i casi, si ha una perdita di idrogeno-ioni. Nel caso del vomito, si ha una eliminazione all’esterno di acido cloridrico (è questo il motivo per cui il vomito ha un effetto sostanziale sull’equilibrio acido-base solamente in presenza di una notevole secrezione acida, come è il caso della sindrome di Zollinger-Ellison). Nel caso della somministrazione dei diuretici, la quantità di sodio-ioni che raggiunge il tubulo renale distale è aumentata: perciò questi ioni possono essere scambiati in misura maggiore che di norma con gli idrogeno-ioni (è questo il motivo per cui questo effetto non si ha con alcuni diuretici, come l’acetazolamide che inibisce l’anidrasi carbonica e sostanze quali lo spironolattone, il triamterene e l’amiloride che ostacolano lo scambio tra sodio-ioni da una parte e idrogeno-ioni e potassio-ioni dall’altra nei tubuli renali). In realtà tanto, nel vomito abbondante e ripetuto, quanto Tabella 63.3 - Principali cause di alcalosi metabolica. • Da perdita di cloruri – Vomito – Impiego di diuretici • Da ipersecrezione di steroidi surrenalici – Iperaldosteronismo secondario (ipovolemia) – Iperaldosteronismo primario – Sindrome di Cushing – Sindrome di Bartter • Da grave deplezione di potassio • Da eccesso di alcali – Endogeni: alcalosi postipercapnica – Esogeni: milk-alkali syndrome
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nell’impiego generoso di diuretici interviene anche una seconda e importante causa di alcalosi, ossia la deplezione di volume del liquido extracellulare, cui conseguono ipovolemia ed iperaldosteronismo secondario (Cap. 55). L’aldosterone, infatti, stimola nei tubuli renali gli scambi tra sodio-ioni e idrogeno-ioni-potassio-ioni che sono alla base dell’alcalosi in corso di terapia diuretica. Naturalmente lo stesso effetto si ha quando la secrezione di aldosterone è aumentata primitivamente, come nell’iperaldosteronismo primario, o si ha una iperproduzione di cortisolo (come nella sindrome di Cushing) o un’eccessiva somministrazione terapeutica di corticosteroidi. Un’alcalosi metabolica per incremento della produzione di aldosterone si verifica anche nella sindrome di Bartter. È questa una rara malattia caratterizzata da ipopotassiemia, iperplasia dell’apparato iuxtaglomerulare, aumentata produzione di renina, iperaldosteronismo con alcalosi metabolica, ma normotensione e resistenza all’azione ipertensiva dell’angiotensina II. La patogenesi di questa malattia è stata attribuita ad un primitivo difetto del rene, con tendenza a perdere potassio e a sviluppare ipopotassiemia. Questa può stimolare la produzione delle prostaglandine, e in particolare di PGE2 che induce la liberazione di renina, e quindi di angiotensina e di aldosterone. L’ipertensione manca per effetto dell’azione vasodilatatrice delle prostaglandine e della bradichinina, che pure viene prodotta in aumentata quantità in questa condizione. L’ipopotassiemia deve essere considerata una causa a sé stante di alcalosi metabolica, quali che siano le cause che l’hanno prodotta (per es., perdita di potassio dall’apparato gastroenterico con vomito e diarrea). Questo avviene non solo per l’effetto dell’ipopotassiemia sulle prostaglandine, già citato a proposito della sindrome di Bartter, ma anche perché, quando la concentrazione di questo catione è diminuita nel sangue e nel liquido extracellulare, esso viene scambiato di meno con i sodioioni nei tubuli renali. Viene perciò favorito lo scambio alternativo con gli idrogeno-ioni, che sono perciò perduti in misura maggiore. Restano da considerare condizioni più rare nelle quali all’organismo viene offerto un eccesso di alcali. Questo è, per esempio, il caso di un’acidosi respiratoria cronica caratterizzata da aumento della PCO2 e cioè da ipercapnia che sia stata trattata con successo. Nel periodo immediatamente seguente, il paziente avrà un’alcalosi metabolica perché gli occorrerà qualche giorno per eliminare l’eccesso di bicarbonati prodotti come meccanismo compensatorio durante l’ipercapnia. Molte sono le circostanze nelle quali degli alcali sono assunti dall’esterno, di solito allo scopo di neutralizzare l’acidità gastrica. Solitamente, anche quando questi alcali vengono assorbiti (è il caso del bicarbonato e del carbonato di sodio), difficilmente provocano alcalosi, perché la loro escrezione per via renale è pronta. Le cose vanno diversamente quando esiste un danno renale. Questo si è osservato in alcuni pazienti che assumevano cronicamente alcali assieme ad eccessive quantità di latte (milk-alkali syndrome): in questi soggetti il danno renale era provocato dalla nefrocalcinosi secondaria all’apporto esagerato di calcio presente nel latte.
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EQUILIBRIO ACIDO-BASE
Come si è detto, l’alcalosi metabolica è sottoposta solo a un moderato compenso respiratorio. Questo dipende dal fatto che, se la ventilazione venisse ridotta, si verificherebbe ipossiemia, e questa è uno stimolo ventilatorio molto importante. Conseguentemente, in corso di alcalosi metabolica, la PCO2 raramente sale oltre i 5055 mmHg. D’altro canto, l’alcalosi metabolica è per lo più modesta e raramente è sintomatica. La tetania è stata descritta solo in pazienti con ipocalcemia nei quali l’alcalosi era indotta acutamente (per es., con diuretici per via venosa). Più comuni sono disturbi dovuti alla ipopotassiemia (che, come si è visto, è non solo causa, ma anche conseguenza dell’alcalosi metabolica), tra i quali prevalgono le alterazioni elettrocardiografiche e i disturbi del ritmo cardiaco (Capp. 5 e 6).
La terapia dell’alcalosi metabolica dipende dalla causa fondamentale. La deplezione di cloruri può essere compensata dalla somministrazione di cloruro di ammonio o di cloridrato di arginina, ma più semplicemente l’infusione venosa di soluzione fisiologica ha un effetto acidificante ed è utile per compensare una possibile ipovolemia. Quando è aumentata la produzione di steroidi surrenalici sono vantaggiosi farmaci, come lo spironolattone, che antagonizzano l’effetto dell’aldosterone sui tubuli renali. La somministrazione orale o parenterale di sali di potassio è quasi sempre necessaria: non solo per compensare l’ipopotassiemia indotta dall’alcalosi, ma anche, in certi casi, per rimuovere la vera causa di questo disturbo dell’equilibrio acidobase.
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PARTE UNDICESIMA
MALATTIE DEL RICAMBIO a cura di O. MELOGLI, C. RUGARLI
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C A P I T O L O
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DIABETE MELLITO E IPOGLICEMIE O. MELOGLI, A.E. PONTIROLI, M. ALBERETTO
OMEOSTASI GLUCIDICA
minor misura dai globuli rossi, dall’intestino e dai tessuti insulino-sensibili (muscolo e tessuto adiposo). Il fegato in queste condizioni produce circa 100 mg/kg/ora di glucosio (circa 180 g/die per un uomo di 70 kg). Circa l’80% di questo glucosio è ossidato a CO2 e H2O dal cervello, il rimanente 20% è metabolizzato a lattato dagli altri tessuti. Il lattato, trasportato al fegato, è qui riutilizzato nella gliconeogenesi (Fig. 64.1). Il pancreas endocrino svolge un ruolo fondamentale nell’omeostasi glucidica. La produzione epatica di glucosio, infatti, è regolata da insulina e glucagone. In carenza di insulina si verifica dismissione epatica di glucosio che comporta iperglicemia. In carenza di glucagone si blocca la dismissione epatica di glucosio con conseguente ipoglicemia. L’utilizzazione periferica di glucosio, inoltre, si riflette in
Scopo del mantenimento dell’omeostasi glucidica è quello di fornire, in condizioni di mancato apporto alimentare, al tessuto nervoso la quantità di glucosio sufficiente per il suo funzionamento. Il tessuto nervoso infatti è strettamente glucosio-dipendente. Ulteriore scopo dell’omeostasi glucidica è quello di immagazzinare l’eccesso di substrati energetici, in particolare del glucosio, introdotti con gli alimenti, impedendo con un eccessivo aumento della glicemia la sua antieconomica dispersione nelle urine. Dopo una notte di digiuno, il glucosio presente nel sangue è utilizzato per la maggior parte dal cervello, in
Produzione di energia
Consumo di energia
Fegato
Muscolo
SNC Glicogeno
144 g Glucosio
Aminoacidi
Gliconeogenesi
180 g
CO2 + H2O
75 g 36 g
Glicerolo
Lattato e piruvato CO2 + H2O
Tessuto adiposo
Emazie Intestino Muscolo Altri tessuti
Chetogenesi 60 g Muscolo Cuore Rene
Acidi grassi 120 g
Figura 64.1 - Omeostasi glucidica a digiuno. Le quantità sono riferite a 24 ore per un uomo del peso di 70 kg.
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MALATTIE DEL RICAMBIO
una riduzione della glicemia; ne consegue una riduzione dell’insulinemia, un aumento della glucagonemia ed un riaggiustamento del sistema attraverso un’aumentata dismissione epatica di glucosio. Accanto ed in equilibrio con il sistema insulina-glucagone, esiste il sistema cosiddetto controregolatore o controinsulare, rappresentato da ipofisi e surrene. Attraverso la secrezione di GH, ACTH, cortisolo e catecolamine, questo sistema esercita un effetto iperglicemizzante; il GH aumenta nel digiuno e nell’ipoglicemia, ha effetto lipolitico e riduce il trasporto periferico del glucosio, trasporto che è stimolato invece dall’insulina. Il cortisolo promuove la neoglicogenesi e l’ACTH ha lo stesso effetto, mediato dalla secrezione di cortisolo. L’adrenalina aumenta la glicogenolisi epatica e muscolare attivando le rispettive fosforilasi. In seguito ad introito alimentare, il glucosio assorbito dal tratto intestinale provoca un aumento della glicemia. I carboidrati a livello intestinale sono idrolizzati a monosaccaridi (in media glucosio 80%, fruttosio 15%, galattosio 5%) che sono trasportati al sangue attraverso le cellule della mucosa intestinale. In genere, dopo un pasto misto (50% di carboidrati, 35% di grassi, 15% di proteine) la glicemia torna ai livelli preprandiali dopo 2-3 ore. Il passaggio e l’assorbimento energetico attraverso il tratto alimentare innescano una serie di segnali che permettono l’immagazzinamento delle sostanze nutrienti in vari organi. Contemporaneamente viene stimolata la secrezione di insulina, il principale ormone glicoregolatore. Il glucosio intracellulare è il primo stimolo insulino-secretorio e molti aminoacidi quali arginina, leucina, lisina agiscono sinergicamente con il glucosio come stimolo alla secrezione insulinica. Ulteriori stimolazioni alla secrezione insulinica sono forniti dagli ormoni polipeptidici gastrointestinali quali GIP (Gastric Inhibitory Polypeptide) colecistochinina, glicentina, VIP (Vaso Intestinal Peptide) e dal sistema colinergico attraverso l’innervazione vagale delle cellule delle isole di Langerhans. L’aumento dei livelli plasmatici di insulina, concomitanti a una diminuzione dei livelli di glucagone, provoca una diminuzione della dismissione epatica di glucosio attraverso l’inibizione della glicogenolisi e della gliconeogenesi. Il fegato, che è liberamente permeabile al glucosio, sequestra dal circolo splancnico circa il 50% di glucosio per convertirlo a glicogeno (azione controllata dall’insulina). Il glucosio non sequestrato dal fegato viene distribuito nello spazio extracellulare, nel muscolo e nel tessuto adiposo. Quando la glicemia tende a scendere, si verifica un graduale aumento della produzione epatica di glucosio, contemporaneamente alla diminuzione dei livelli plasmatici di insulina e ad un aumento degli ormoni controinsulari, in particolare del glucagone.
90 1995
2000
2025
80 70 60 50 40 30 20 10 0 Africa
USA
Mediterraneo orientale
Europa
Sud-Est asiatico
Pacifico occidentale
Figura 64.2 - Previsioni dell’OMS sulla futura prevalenza del diabete mellito nelle varie regioni del mondo (da Brunetti, II diabete mellito, Nov. 2000, modificata).
condaria o a ridotta disponibilità di questo ormone o ad un impedimento alla sua normale azione o a una combinazione di questi due fattori. Caratteristica distintiva del diabete mellito è l’iperglicemia, alla quale con il passare del tempo tendono ad associarsi alcune complicanze peculiari: la macroangiopatia (ossia un’aterosclerosi particolarmente grave e precoce; Cap. 3) che non è però specifica della malattia diabetica e la microangiopatia (ossia alterazioni della microcircolazione che si rendono particolarmente manifeste nella retina, nel rene e nel nervo) che è specifica della malattia. Il diabete mellito è una malattia comune. Negli USA vengono segnalati ogni anno circa 200.000 nuovi casi di diabete mellito e la percentuale della popolazione mondiale affetta dalla malattia viene stimata intorno al 5%, con una lieve maggiore prevalenza nel sesso femminile (circa il 25% in più rispetto ai maschi). La prevalenza del diabete mellito in Italia è del 3%. Essa aumenta con l’età oscillando dallo 0,5% nelle fasce di età inferiore a 30 anni sino al 10% ed oltre al di sopra dei 65 anni. Circa il 90% della popolazione diabetica è affetta da diabete tipo 2, mentre solo una minoranza è affetta da diabete tipo 1. Le previsioni dell’OMS sulla futura prevalenza del diabete mellito nelle varie regioni del mondo (Fig. 64.2) prevede incrementi consistenti nei paesi industrializzati ma soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove il più facile accesso alle fonti alimentari e la contemporanea riduzione del dispendio energetico favoriranno l’incremento della malattia.
Classificazione
DIABETE MELLITO Il diabete mellito è un’alterazione metabolica conseguente a una diminuzione dell’attività dell’insulina se-
A. Diabete e alterata tolleranza al glucosio. Per definizione il diabete è caratterizzato da iperglicemia ma la precisazione dei valori al di là dei quali è lecito porre diagnosi di diabete è fonte di discussione.
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64 - DIABETE MELLITO E IPOGLICEMIE
Secondo le indicazioni dell’American Diabetes Association (ADA) del 1997 si parla di diabete quando la glicemia a digiuno è pari o superiore a 126 mg/dl (7,0 mmol/l), o quando la glicemia è pari o superiore a 200 mg/dl (11,1 mmol/l) alla seconda ora dell’OGTT (Oral Glucose Tolerance Test) oppure, infine, quando sono presenti i sintomi clinici della malattia e una glicemia casuale in qualsiasi momento del giorno pari o superiore a 200 mg/dl (Tab. 64.1). Generalmente si considerano i valori effettuati sul plasma di sangue venoso (come utilizzato nella maggior parte dei laboratori). Se i valori vengono valutati su sangue venoso intero o capillare devono essere diminuiti del 15%. L’ADA e l’OMS utilizzano il termine di alterata tolleranza al glucosio (IGT, Impaired Glucose Tolerance) per indicare uno stato metabolico intermedio tra la normalità e il diabete in cui la glicemia viene determinata due ore dopo il carico di glucosio per os e deve essere compresa tra 140 e 200 mg/dl. Questa distinzione è stata suggerita da studi epidemiologici che hanno dimostrato che i soggetti con alterata tolleranza al glucosio hanno propensione a sviluppare con il tempo la macroangiopatia. I soggetti con alterata tolleranza al glucosio hanno una certa tendenza a passare allo stato diabetico anche se questa tendenza è comunque modesta (2-4% dei casi all’anno). È stata di recente introdotta una nuova categoria diagnostica, quella dei soggetti con alterata glicemia a digiuno (IFG, Impaired Fasting Glucose), dopo aver osTabella 64.1 - Nuovi criteri per la diagnosi di diabete mellito proposti dal comitato di esperti dell’ADA (1997). • Sintomi di diabete con rilievo casuale, in qualsiasi momento del giorno, di una glicemia su plasma venoso ≥ 200 mg/dl (11,1 mmol/l) • Glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dl (7,0 mmol/l) • Glicemia dopo 120 minuti dall’OGTT ≥ 200 mg/dl (11,1 mmol) Tabella 64.2 - Classificazione del diabete mellito secondo i criteri del NDDG (1979) modificati dall’OMS (1980). Classi cliniche • Diabete mellito – Diabete mellito insulino-dipendente (IDDM) – Diabete mellito non insulino-dipendente (NIDDM): a) non obeso; b) obeso – Diabete mellito da malnutrizione – Altri tipi di diabete secondari a: malattie pancreatiche, sindromi ormonali, farmaci o tossici, anomalie dell’insulina o del suo recettore, malattie genetiche, ecc. – Diabete mellito gestazionale • Intolleranza al glucosio Classi a rischio diabetico • Anomalia precedente della tolleranza al glucosio • Anomalia potenziale della tolleranza al glucosio
servato che anche i pazienti con livelli di glicemia a digiuno uguali o superiori a 110 ma inferiori a 126 mg/dl e che hanno perduto la prima fase della secrezione insulinica presentano un aumentato rischio di complicanze micro- e macrovascolari. B. Classificazione del diabete. La classificazione accettata dall’OMS nel 1980 prevedeva la suddivisione in cinque classi di diabete e due categorie a rischio (Tab. 64.2). Secondo questa classificazione si distinguevano due tipi fondamentali di diabete: diabete insulino-dipendente (IDDM) definito in precedenza anche diabete infanto-giovanile e diabete non insulino-dipendente (NIDDM) definito anche diabete dell’età adulta o della maturità. Il criterio adottato per questa classificazione faceva perciò riferimento al trattamento terapeutico. A questi due tipi fu aggiunto un diabete da malnutrizione, particolarmente comune nei paesi tropicali, e una quarta categoria comprendeva altri tipi di diabete secondari ad affezioni diverse (malattie pancreatiche, affezioni endocrine, farmaci o sostanze tossiche, anomalie dell’insulina o del suo recettore, anomalie genetiche, ecc.). Infine la quinta categoria era dedicata al diabete gestazionale (GDM). Il progresso compiuto negli ultimi anni nella comprensione delle cause dei vari tipi di diabete ha indotto lo stesso comitato di esperti dell’ADA a elaborare nuovi criteri diagnostici e a proporre una nuova classificazione fondata su criteri eziopatogenetici piuttosto che sul tipo di trattamento farmacologico (Tab. 64.3). Il diabete di tipo 1 è rappresentato per la quasi totalità dalla forma immunomediata. Il diabete di tipo 2 fa riferimento invece al ruolo patogenetico prevalente del deficit secretorio cellulare o alla condizione di resistenza insulinica. Gli altri tipi di diabete comprendono il diabete secondario a malattie pancreatiche (pancreatite cronica, pancreatite fibrocalcolosa, carcinoma pancreatico, pancreaTabella 64.3 - Classificazione eziologica del diabete mellito proposta dal Comitato di esperti dell’ADA (1997) e accettata dall’OMS (1999). • Diabete mellito di tipo 1 – Immunomediato – Idiopatico • Diabete mellito di tipo 2 – Con resistenza insulinica predominante e deficit insulinico relativo – Con difetto secretivo predominante e resistenza insulinica • Altri tipi specifici – Difetti genetici della cellula – Difetti genetici dell’azione insulinica – Malattie del pancreas esocrino – Malattie endocrine – Da farmaci o tossici – Infezioni virali – Forme rare di diabete immunomediato – Altre sindromi genetiche • Diabete gestazionale
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MALATTIE DEL RICAMBIO
sectomia, emocromatosi, fibrosi cistica, ecc.) o ad affezioni endocrine responsabili di eccessiva secrezione di ormoni controregolatori (sindrome di Cushing, acromegalia, feocromocitoma, ipertiroidismo, glucagonoma, somatostatinoma, aldosteronoma ecc) o all’impiego di farmaci iperglicemizzanti (glucocorticoidi, diazzossido, ormoni tiroidei, interferon, pentamidina, agonisti adrenergici, ecc). Altre forme possono essere associate a infezioni virali (rosolia congenita, citomegalovirus, ecc.) a forme non comuni di diabete immunomediato (sindrome di Stiffman: autoanticorpi antirecettore insulinico), a varie sindromi genetiche (sindrome di Down, sindrome di Klinefelter, sindrome di Turner, atassia di Friedreich, sindrome di Laurence Moon Biedle, distrofia miotonica, sindrome di Prader Willi, corea di Huntington) o a particolari condizioni di insulino-resistenza (resistenza insulinica di tipo A, leprecaunismo, diabete lipoatrofico ecc). Rientrano in questa categoria anche alcune rare forme di diabete riconducibili a ben individuati difetti genetici della cellula a carattere familiare ed eredità autosomica dominante, insorgenti abitualmente in età giovanile, caratterizzate da modesta iperglicemia e definite per la loro affinità clinica con il diabete di tipo 2 (Maturity Onset Diabetes of the Young, MODY). Gli studi genetici che hanno portato al riconoscimento dei vari tipi di MODY (Tab. 64.4) partirono agli inizi degli anni ottanta con il clonaggio di geni codificanti proteine rilevanti nel metabolismo glucidico. Nel 1992 si scoprì che in un certo numero di pazienti con MODY erano presenti mutazioni nel gene della glucochinasi, l’enzima che fosforila il glucosio dopo il suo ingresso nella cellula pancreatica, localizzato sul cromosoma 7 e responsabile della forma identificata come MODY 2. Nel 1996 si riconobbero nella mutazione del gene codificante il fattore epatocitario nucleare 4, situato sul cromosoma 20, e del gene codificante il fattore epatocitario nucleare 1, situato sul cromosoma 12 gli agenti responsabili del MODY 1 e MODY 3. Ancora più recentemente sono stati identificati nella mutazione del gene dell’Insulin Promoter Factor (IPF-1), situato sul cromosoma 13, l’agente responsabile del MODY 4 e nella mutazione del gene codificante il fattore epatocitario nucleare 1 (HNF-1), situato sul cromosoma 17, l’agente responsabile del MODY 5. Le proteine HNF e IPF appartengono alla categoria dei fattori di trascrizione, cioè di molecole che hanno la
funzione di legarsi a specifiche sequenze di DNA per contribuire alla regolazione della trascrizione di vari geni che regolano la secrezione insulinica. Clinicamente i pazienti con MODY presentano differenze nella gravità delle alterazioni metaboliche, nelle complicanze croniche e conseguentemente anche nel trattamento terapeutico. La forma clinicamente più lieve è quella dei pazienti con MODY 2 che possono presentare iperglicemia già dalla prima infanzia (1-2 anni) ma che richiedono semplice trattamento dietetico e sono tipicamente esenti da complicanze a lungo termine. I pazienti con MODY 3 presentano iperglicemia più tardivamente che nel MODY 2, di solito durante l’adolescenza e la pubertà. Il controllo metabolico richiede spesso l’impiego di antidiabetici orali o di insulina e la presenza di complicanze a lungo termine (oculari, renali, neuropatiche) è un evento relativamente frequente. Le altre forme di MODY sono sufficientemente rare tanto da rendere più difficile un esatto profilo clinico, anche se sappiamo che i pazienti con MODY 4 presentano un quadro clinico simile a quello dei pazienti con MODY 2 ma con insorgenza dell’iperglicemia più tardiva e i pazienti con MODY 5 presentano frequentemente alterazioni renali sia come anomalie di sviluppo (oligomegarene, rene ipoplasico) sia come presenza di formazioni cistiche tanto che è stata descritta una nuova sindrome causata da mutazioni del HNF-1: RCAD (Renal Cystis and Diabetes).
Eziopatogenesi A. Diabete primario di tipo 1. Esistono dati che indicano che il diabete di tipo 1 è condizionato da fattori genetici che implicano una predisposizione all’azione di qualche stimolo esogeno. Studi del passato, compiuti su soggetti giovani con diabete primario (e perciò prevalentemente di tipo 1), hanno dimostrato che la concordanza della malattia in coppie di gemelli identici è di circa il 50%. D’altro canto, studi nelle famiglie non hanno dimostrato una trasmissione ereditaria del diabete di tipo 1 riconducibile a un modello genetico definito. Il problema è stato notevolmente chiarito dagli studi sugli antigeni HLA di istocompatibilità (Cap. 68), nel corso dei quali vari di questi antigeni sono apparsi associati con un rischio aumentato di sviluppare diabete
Tabella 64.4 - MODY. Classificazione. MODY 1 (HNF-4) Cromosoma Inizio dell’iperglicemia (anni) Gravità dell’iperglicemia Complicanze microvascolari Fisiopatologia dell’iperglicemia
MODY 2 (GK)
MODY 3 (HNF-1)
MODY 4 (IPF-1)
MODY 5 (HNF-1)
20q
7p
12q
13q
17q
12-44
Nascita-12
6-77
17-67
10-50
Spesso severa
Modesta
Spesso severa
Modesta (?)
Spesso severa
Presenti
Rare
Frequenti
?
Presenti
Disfunzione della cellula
Disfunzione della cellula
Disfunzione della cellula
Disfunzione della cellula
Disfunzione della cellula
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di tipo 1. Gli antigeni importanti a questo riguardo sono alcuni della serie HLA cosiddetti di classe II (DR, DP, DQ). Si tratta di antigeni individuabili sierologicamente, ma presenti solo su cellule particolari, quali per esempio i macrofagi, i linfociti B e i linfociti T attivati (a differenza degli antigeni delle serie HLA-A, B e C, che sono presenti su tutte le cellule nucleate). Per questo motivo la tipizzazione degli antigeni HLA di classe II avviene sui linfociti B separati con adatti accorgimenti. Con questo sistema si è visto che i soggetti positivi per l’antigene HLA-DR3 o HLA-DR4 presentano un rischio che è 4-5 volte maggiore rispetto alla popolazione generale di ammalare di diabete di tipo 1. I soggetti eterozigoti, e positivi tanto per HLA-DR3 che per HLA-DR4, presentano un rischio più che additivo, cioè circa di 10 volte superiore rispetto alla popolazione generale e circa 30 volte maggiore rispetto ai soggetti negativi per entrambi questi antigeni di istocompatibilità. In realtà, la tipizzazione DR è un meccanismo piuttosto grossolano di definizione immunogenetica di un individuo. Esistono, nell’ambito di una stessa specificità DR, differenze più sottili che possono essere individuate con tecniche di biologia molecolare. Con questi metodi si è dimostrato che una grande importanza hanno anche altri antigeni di istocompatibilità di classe II e precisamente quelli detti DQ (Cap. 68), alcuni dei quali sono in “linkage disequilibrium” con il DR4 (esiste “linkage disequilibrium” tra due geni quando sono associati su uno stesso cromosoma – ossia sono inclusi in uno stesso aplotipo – con frequenza superiore a quanto dovrebbe essere dovuta al caso; i geni in “linkage disequilibrium” tendono perciò ad essere ereditati insieme). I due più importanti alleli associati al DR4 sono chiamati DQ3.1 e DQ3.2. Solo l’aplotipo DR4, DQ3.2 + è correlato con la predisposizione a sviluppare il diabete di tipo 1. Gli antigeni DQ, come tutti quelli di istocompatibilità di classe II, sono eterodimeri, ossia formati da due catene peptidiche, denominate e . Una osservazione interessante è stata che gli antigeni DQ che incrementano la suscettibilità al diabete sono per la maggiore parte sprovvisti dell’aminoacido acido aspartico nella posizione 57 della catena . Lo stesso si è osservato nella catena dell’antigene I-A (equivalente murino del DQ umano) dei topi inbred del ceppo NOD, che presentano una suscettibilità geneticamente determinata a sviluppare il diabete (si veda in seguito). Queste osservazioni a livello molecolare sono molto interessanti, anche se è risultato semplicistico il dogma che assume che l’acido aspartico in posizione 57 della catena degli antigeni DQ significhi invariabilmente protezione dal diabete e la sua assenza significhi altrettanto invariabilmente suscettibilità. In realtà è tutta la struttura molecolare della catena degli antigeni DQ che ha importanza (e la presenza o assenza dell’acido aspartico in posizione 57 ne è il segno più manifesto), oltre alla struttura della catena . Accanto a queste associazioni positive tra il diabete di tipo 1 e gli antigeni di istocompatibilità, ne esiste an-
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che una negativa con l’antigene HLA-DR2. Questo, infatti, si trova solo nel 4% dei diabetici di tipo 1 e nel 28% dei non diabetici. Resta da analizzare il significato di questa relazione tra antigeni HLA e diabete di tipo 1, relazione importante, ma non tanto da assumere un chiaro significato eziologico: infatti la maggioranza dei soggetti positivi per HLA-DR3 e/o HLA-DR4 non sviluppa mai diabete, mentre esistono sia pure pochi diabetici di tipo 1 (3%) che sono negativi per questi antigeni. Inoltre, da quanto detto prima è chiaro che i geni possono al massimo conferire una predisposizione a sviluppare la malattia, ma non sono in grado di determinarla ineluttabilmente. Prendiamo allora in considerazione i fattori esogeni che possono innestarsi su un terreno genetico predisposto a determinare il diabete di tipo 1. È rilevante in proposito ricordare che gli studi anatomopatologici eseguiti su soggetti venuti a morte poco dopo lo sviluppo di questo tipo di diabete hanno dimostrato un’infiltrazione linfocitaria nelle isole di Langerhans, con un quadro che è stato definito di “insulite”. Appare perciò evidente che nel diabete di tipo 1 le cellule nelle isole di Langerhans sono distrutte in questo processo infiammatorio. È stata perciò avanzata l’ipotesi che l’insulite che provoca il diabete di tipo 1 sia indotta da un’infezione virale in soggetti geneticamente suscettibili. Esiste un modello sperimentale per questa ipotesi: infatti, in particolari ceppi di topi, è possibile indurre diabete mediante infezione con il virus della encefalomiocardite. Studi epidemiologici e sierologici nell’uomo hanno avanzato sospetti su un ruolo eziologico di vari virus: parotite epidemica, epatite, virus di Epstein-Barr e soprattutto il virus Coxsackie B4 (quest’ultimo è stato anche isolato dal pancreas in un giovane deceduto per chetoacidosi poco dopo aver sviluppato un diabete di tipo 1). In realtà il solo sospetto che sembra confermato riguarda la rosolia congenita che, a distanza di anni, comporta un aumentato rischio di diabete di tipo 1 in individui predisposti (ossia positivi per HLA-DR3 e/o HLA-DR4). Considerando la rarità della rosolia congenita non sembra che questa infezione possa essere un fattore eziologico importante. Studi epidemiologici recenti sembrano confermare il ruolo di fattori esogeni nella genesi del diabete di tipo 1. Si è detto che in alcuni paesi l’incidenza di questa malattia è in aumento nell’ultimo ventennio. Un’ipotesi possibile è che il miglioramento delle terapie abbia consentito la sopravvivenza fino all’età fertile di un maggior numero di pazienti con questo tipo di diabete ed una maggiore diffusione dei geni responsabili della sua origine. Tuttavia, alcuni calcoli teorici hanno dimostrato che l’aumento di incidenza verificatosi avrebbe potuto manifestarsi, come conseguenza di alterata selezione genetica, in 400 anni, nel caso di un’ereditarietà dominante, e in 2000 anni, nel caso di un’ereditarietà recessiva. È chiaro perciò che debbono essere implicati fattori ambientali. Un modello interessante è quello dell’aumentata incidenza di poliomielite che si verificò nei paesi più evoluti all’inizio del secolo scorso. Questo fatto fu attribuito al miglioramento delle condizioni
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igieniche e all’acquisizione dell’infezione, da parte di una significativa proporzione della popolazione, a un’età più tardiva rispetto a quanto avveniva in precedenza. L’infezione meno precoce era più propizia alla espressione clinica della malattia. Si suppone che lo stesso possa verificarsi attualmente nei riguardi di un ipotetico fattore ambientale capace di indurre il diabete di tipo 1. Il quadro complessivo è complicato da un altro reperto. Infatti, in circa il 90% dei diabetici di tipo 1, all’esordio della malattia, possono essere dimostrati nel siero sanguigno autoanticorpi verso le cellule insulari. Alcuni di questi sono diretti contro antigeni citoplasmatici e verosimilmente non sono patogenetici. Altri, diretti contro antigeni superficiali delle cellule che producono insulina, potrebbero però essere in grado di distruggerle. Esiste inoltre qualche dimostrazione dell’implicazione anche di reazioni di immunità cellulare, mediate direttamente da linfociti e non da anticorpi, nella distruzione delle cellule insulari. Questi reperti suggeriscono che il diabete di tipo 1 possa essere una malattia autoimmunitaria che comporta la distruzione delle cellule come conseguenza dell’autoaggressione. Anche nello sviluppo di autoimmunità il condizionamento genetico sembra importante, come dimostrato da altri modelli sperimentali. Si è riusciti infatti a selezionare ceppi di animali, i quali sviluppano spontaneamente diabete per distruzione delle cellule a seguito di un processo autoimmune: tali sono i ratti BB (Bio Breeding) e i topi NOD (Non Obese Diabetic). Altri argomenti appoggiano la possibilità che il diabete di tipo 1 sia una malattia autoimmune. Si è visto (Cap. 61) che può presentarsi in associazione con altre endocrinopatie, tutte determinate da un meccanismo autoimmune. In questo caso, il condizionamento genetico riguarda la propensione all’autoimmunità attraverso una riduzione dell’efficacia di meccanismi regolatori dovuti a cellule T CD4+, CD25+, la cui specificità viene generata nel timo. Tuttavia, sarebbe eccessivo concludere che il diabete di tipo 1 è solamente e sempre una malattia autoimmune. Studi in topi transgenici ai quali era trasferito un gene soppressore della produzione di interferon- e interferon- hanno dimostrato che le cellule del pancreas erano danneggiate dopo infezione da virus Coxsackie B4 e questo avveniva largamente grazie all’azione di cellule NK (Natural Killer) e ad altri meccanismi della risposta immunitaria innata. Perciò si suppone che, se la risposta locale all’infezione virale attraverso la produzione di interferon non è sufficiente, le cellule possano essere rapidamente distrutte con questi meccanismi. Questo sarebbe il caso del diabete che insorge a breve distanza dopo un’infezione virale, come può accadere nella parotite epidemica. Se invece la produzione di interferon è sufficiente, come probabilmente avviene nella maggior parte dei casi, la secrezione di queste citochine attiva i processi dell’immunità adattativa e avvia un processo autoimmune che alla fine porta alla distruzione delle cellule e al diabete. In passato si riteneva che questa reazione autoimmune dipendesse da
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mimesi molecolare, ossia da somiglianza strutturale tra antigeni del se stesso e antigeni esogeni scatenanti una reazione immunitaria. Ma oggi la mimesi molecolare non sembra in grado di spiegare la patogenesi autoimmune del diabete di tipo 1 e si pensa che abbia importanza il rilasciamento di antigeni naturalmente segregati da parte di un fattore scatenante, come può essere un’infezione virale. La patogenesi autoimmunitaria del diabete di tipo 1 permette anche di comprendere il ruolo predisponente o protettivo degli antigeni di istocompatibilità. Infatti, quale che sia l’autoaggressione nei riguardi delle cellule del pancreas, mediata da anticorpi o da linfociti T citotossici, occorrono comunque dei linfociti T helper che mettono in moto il processo. Queste cellule non riconoscono antigeni solubili, ma peptidi alloggiati in un anfratto della struttura molecolare degli antigeni di istocompatibilità di classe II (che, combinati con questi peptidi, alterano la loro geometria e sono percepiti non più come se stesso, ma come qualcosa di estraneo da parte del sistema immunitario). Solitamente questo processo avviene alla superficie dei macrofagi e i peptidi sono di derivazione esogena (per es., proteine di un virus fagocitato e digerito da queste cellule). Per spiegare l’autoimmunità occorre supporre che il processo possa verificarsi allo stesso modo con peptidi di derivazione endogena. Siccome la geometria molecolare degli antigeni di istocompatibilità di classe II (cui appartengono quelli DR e DQ di cui si è parlato) è importante nel determinare il tipo di segnale che viene presentato al sistema immunitario, si comprende perché alcune di queste molecole siano più adatte di altre a dare il via a un processo autoaggressivo. L’effetto protettivo di altri antigeni DQ potrebbe essere spiegato con l’attivazione di circuiti soppressivi, particolarmente efficaci nel tenere a bada gli errori che possono indurre autoimmunità. Un’interessante linea di ricerca che si sta sviluppando attualmente è volta all’identificazione delle proteine endogene che possono essere il bersaglio della reazione autoimmunitaria diretta verso le cellule . Un ruolo importante sembra avere, a questo riguardo, l’enzima “decarbossilasi dell’acido glutamico”. Gli studi sugli autoanticorpi antinsulari hanno chiarito anche un altro aspetto interessante del diabete di tipo 1. Infatti, questi autoanticorpi (e autoanticorpi antinsulina) possono essere trovati in familiari metabolicamente sani di pazienti diabetici. Studi prospettici eseguiti in coppie di gemelli identici, discordanti per il diabete, hanno dimostrato che la positività per gli anticorpi antinsulari può essere presente alcuni anni prima che si manifesti la malattia. Tutte queste osservazioni sembrano indicare che il processo patologico che può determinare il diabete di tipo 1 non si verifichi criticamente al momento di esordio della malattia, ma inizi molto tempo prima e possa aver luogo, verosimilmente in forma parziale o attenuata, anche in casi che non arrivano a sviluppare questa forma di diabete. B. Diabete primario di tipo 2. I fattori genetici svolgono nel diabete di tipo 2 un ruolo ancora più importante che nel diabete di tipo 1. Infatti, la concordan-
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za per diabete di tipo 2 nei gemelli identici si approssima, con il passare del tempo, al 100%. Inoltre, negli studi eseguiti nelle famiglie, circa il 40% dei probandi ha un familiare di primo grado con lo stesso tipo di diabete. Non esiste alcuna relazione tra diabete di tipo 2 e antigeni di istocompatibilità. Nonostante questo chiaro condizionamento genetico, non è facile individuare con precisione il suo meccanismo. È probabile che esistano diverse modalità di trasmissione genetica del diabete di tipo 2. Nei casi giovanili (MODY) la trasmissione sembra del tipo autosomico dominante. Negli altri casi la trasmissione può essere o autosomica recessiva o poligenica. In passato alcuni punti importanti erano stati riconosciuti a proposito della patogenesi del diabete di tipo 2. Si era visto, infatti, che in questa malattia la prima alterazione riconoscibile è una resistenza del tessuto muscolare all’azione dell’insulina, che comporterebbe un’iperglicemia e, di conseguenza, uno stimolo a un’aumentata produzione di insulina, che contrasta l’aumento dei livelli glicemici. Tuttavia, in questo tipo di diabete la funzione delle cellule non è normale e declina con il tempo. Questo declino inizia circa 10 anni prima che venga diagnosticato il diabete, il che avviene quando la funzione delle cellule è ridotta intorno al 30% del normale. A questo punto la secrezione insulinica non può più compensare la resistenza a tale ormone e la malattia metabolica diviene evidente. Perciò, nella patogenesi del diabete di tipo 2 entrano due ingredienti: la resistenza del tessuto muscolare all’insulina e il declino con il tempo della funzione delle cellule che si trova a essere iperstimolata. Esiste un altro fatto importante che è stato osservato nel diabete di tipo 2 e cioè un notevole accumulo di trigliceridi intracellulari, tanto nei muscoli che nel fegato. In alcuni modelli animali di diabete si è anche visto che un improvviso e massiccio aumento dei trigliceridi nelle cellule insulari del pancreas si verifica subito prima dell’instaurazione dell’iperglicemia. Come si connette questo aumento intracellulare di trigliceridi con la resistenza all’insulina e con il declino della funzione delle cellule ? Le conoscenze disponibili a proposito della competizione metabolica tra substrati, in questo caso trigliceridi e glucosio, possono spiegare la resistenza all’insulina. In effetti, l’accumulo di lipidi nei muscoli precede di molti anni l’insorgenza del diabete. Ma perché avviene tutto questo? A metà degli anni Novanta del secolo scorso è stata fatta un’importante osservazione. Si è visto, infatti, che il farmaco troglidazone (e allo stesso modo agiscono i suoi derivati pioglitazone e rosiglitazone) non solo migliora la sensibilità all’insulina di pazienti con diabete di tipo 2, ma ritarda anche il declino della funzione delle loro cellule e previene l’insorgenza di diabete in una popolazione ad alto rischio. Perciò il meccanismo di azione di questo farmaco è stato studiato con particolare interesse. Il troglitazone interagisce con un recettore nucleare indicato con la sigla PPAR- (Peroxisome Proliferator Activated-Receptor-) sul quale possono agire anche sostanze normalmente prodotte nell’organismo. In questo senso è apparso di particolare interes-
se un coattivatore del recettore, indicato con la sigla PGC-1, per il quale esiste un polimorfismo geneticamente determinato. Si è visto che persone sovrappeso, con una storia familiare di diabete di tipo 2, hanno una ridotta espressione del PGC-1 anche quando la tolleranza al glucosio è ancora normale. Quindi è il polimorfismo di questo coattivatore di un recettore nucleare il fattore genetico che può spiegare la patogenesi del diabete di tipo 2. Ma che cosa fa il PGC-1 oltre ad attivare il recettore PPAR-? In realtà, il PGC-1 è un coattivatore trascrizionale che è essenziale per la sintesi degli enzimi mitocondriali che servono per la -ossidazione degli acidi grassi. Quindi, se esiste un difetto dell’attività del PGC-1 l’ossidazione degli acidi grassi intracellulari è difettosa, i trigliceridi tendono ad accumularsi nelle cellule e viene spiegata non solo la resistenza del tessuto muscolare all’insulina, ma anche la tendenza all’associazione tra diabete di tipo 2 e aumento del grasso corporeo fino all’obesità (Fig. 64-3). Che le cose stiano così è provato dal fatto che, con biopsie eseguite su tessuti di pazienti con questo tipo di diabete, si è dimostrato che i mitocondri hanno una diminuita capacità ossidativa e il loro volume è ridotto al 55% del normale. Inoltre, è anche risultato che la sintesi mitiocondriale di ATP è diminuita del 30% rispetto ai controlli in un gruppo di soggetti giovani, magri, che erano figli di soggetti con diabete di tipo 2 e che erano già resistenti all’insulina. Questa menomazione geneticamente condizionata della fosforilazione ossidativa mitocondriale può anche spiegare il progressivo decremento della funzione delle cellule . Infatti, i mitocondri hanno un ruolo chiave nel condizionare la secrezione di insulina stimolata dal glucosio e si è visto, con studi in vitro, che isole pancreatiche esposte ad aumentati livelli di lipidi hanno un’inibizione dell’espressione del gene dell’insulina.
PGC-1(*)
Sintesi di enzimi mitocondriali -ossidazione di ac. grassi
Alimentazione
Difettosa attività per polimorfismo genetico
Obesità Accumulo di trigliceridi
In muscolo Resistenza a insulina
In cellule Declino della produzione di insulina
(*) Coattivatore di un recettore nucleare (PPAR)
Figura 64.3 - Patogenesi del diabete di tipo II. Per i dettagli si veda il testo.
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Questa visione patogenetica può spiegare il rilievo di vari fattori esogeni nella genesi del diabete di tipo 2. L’aumento ponderale comporta un’aumentata sintesi di trigliceridi ed è comprensibile che, in presenza di un difetto del’ossidazione degli acidi grassi, il loro accumulo intracellulare sia particolarmente importante, il che comporta tanto una resistenza all’insulina quanto una diminuita funzione delle cellule . Al contrario, la perdita di peso corporeo ostacola questo processo. Così pure l’esercizio fisico ostacola l’insorgenza del diabete di tipo 2, in quanto è provato che questo esercizio aumenta l’espressione genica nei mitocondri e la loro capacità ossidativa, possibilmente attraverso un aumento dei livelli di PGC-1. Infine, è dimostrato che normalmente l’invecchiamento comporta un declino delle funzioni mitocondriali e diminuisce la velocità di sintesi di ATP nei muscoli. Nulla di strano allora nel fatto che l’invecchiamento contribuisca a rendere manifesto il difetto genetico che è alla base del diabete di tipo 2. Restano, tuttavia, alcuni punti interrogativi relativi al fatto che non esiste un parallelismo perfetto tra incremento ponderale e propensione a sviluppare il diabete di tipo 2. Per esempio, ci si può chiedere se soggetti obesi, ma con normale tolleranza al glucosio, manchino del polimorfismo di PGC-1 che determina la suscettibilità al diabete. Oppure perché la suscettibilità al diabete sia prevalente su quella all’obesità in soggetti moderatamente sovrappeso che sviluppano la malattia in età relativamente giovanile. Ma le acquisizioni finora conseguite sulla patogenesi del diabete di tipo 2 rappresentano già un importante avanzamento. C. Diabete secondario. La patogenesi del diabete secondario è spiegata facilmente dal meccanismo della malattia fondamentale. In particolare, nelle forme con alterazioni endocrine l’iperglicemia è dipendente dalla eccessiva produzione di ormoni ad attività controinsulare: cortisolo (o corticosteroidi di altro tipo somministrati a fini terapeutici), GH, ormoni tiroidei, adrenalina. Una patogenesi molto interessante hanno alcune forme di diabete secondario con anomalie dei recettori insulinici, quali il diabete in corso di acanthosis di tipo B e il diabete in corso di atassia-teleangectasia. L’acanthosis nigricans è un’alterazione cutanea pigmentaria che, in certi pazienti, è associata con diabete dovuto a insensibilità dei recettori insulinici all’azione dell’ormone. In alcuni casi (tipo B) questo è dovuto alla formazione di autoanticorpi contro i recettori insulinici. In altri casi (tipo A) sembra che il difetto sia postrecettoriale. In alcuni pazienti con atassia-teleangectasia (un’immunodeficienza primitiva; Cap. 69) si ha pure formazione di autoanticorpi contro i recettori insulinici.
Fisiopatologia Nel diabete di tipo 1 si ha una riduzione assoluta della produzione di insulina che può giungere alla sua completa abolizione. In genere una certa quantità di insulina endogena continua ad essere prodotta in fase iniziale. Questo può essere messo in evidenza mediante il
dosaggio nel sangue del cosiddetto peptide C, una frazione della proinsulina, precursore dell’insulina, che viene escisso dalla molecola di partenza per arrivare alla forma definitiva dell’ormone. La presenza nel sangue del peptide C è significativa di secrezione endogena di insulina e, come si è anticipato, può essere dimostrata, sia pure a livelli ridotti, in soggetti con diabete di tipo 1 la cui malattia non sia troppo avanzata (raramente lo si trova a 10 anni dalla diagnosi). I diabetici di tipo 1 con persistenza di una qualche secrezione endogena di insulina hanno una malattia più facilmente controllabile e producono meno glucagone rispetto a quelli con secrezione endogena di insulina realmente assente o minima. Nel diabete di tipo 2 la produzione di insulina è in assoluto normale o addirittura aumentata, ma è comunque ridotta relativamente alle necessità. La secrezione dell’ormone può perciò facilmente essere dimostrata mediante il dosaggio del peptide C o la valutazione della concentrazione della cosiddetta insulina immunoreattiva nel sangue (insulina determinabile con metodo immunologico). È da ricordare che il prolungato deficit di insulina comporta uno stato di diminuita sensibilità dei tessuti all’azione dell’ormone. Questo è importante soprattutto nel diabete di tipo 1, nel quale il deficit di secrezione insulinica è assoluto e può comportare qualche problema all’inizio della terapia. Ma anche in una significativa proporzione di pazienti con diabete di tipo 2 (si stima circa un terzo) nei quali il deficit di insulina è relativo, si ha una resistenza all’azione dell’ormone che è in parte dovuta alla sua insufficiente secrezione (naturalmente solo in parte, dato che, come si è visto, in questa forma di diabete esistono altri fattori che pure determinano una relativa resistenza all’azione dell’insulina). In questi pazienti la sensibilità all’insulina può essere migliorata con la somministrazione dell’ormone, indipendentemente dalla modificazione di altri fattori (per es., anche in assenza di una riduzione dell’obesità). In entrambe le forme di diabete primario i livelli plasmatici di glucagone sono aumentati. Nel diabete di tipo 1 questo può essere messo in relazione con la ridotta o abolita produzione di insulina, e infatti la somministrazione di insulina esogena riduce prontamente la concentrazione ematica di glucagone. Nel diabete di tipo 2 i livelli di glucagone plasmatico possono essere elevati nonostante che la produzione di insulina endogena persista e che, in assoluto, possa essere anche aumentata. Si deve perciò concludere che in questi pazienti debba esistere un cattivo funzionamento del meccanismo di soppressione della secrezione di glucagone, come dimostrato anche dal fatto che l’iperglucagonemia non viene facilmente ridotta dalla somministrazione di insulina esogena. In tutti i tipi di diabete la glicemia è elevata tanto a digiuno quanto, più ancora, dopo i pasti. Quando i livelli glicemici superano la soglia renale al glucosio (180 mg/dl) compare glicosuria. Se questa è di entità modesta non ha effetti significativi, ma se è di entità notevole provoca una diuresi osmotica con perdita di acqua. In genere l’accrescimento dell’introduzione di acqua (polidipsia) bilancia la poliuria ed è difficile che
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si abbia un aumento importante dell’osmolalità plasmatica. Tuttavia, in pazienti con diabete di tipo 2 (perciò non inclini alla chetoacidosi) e anziani (perciò con un meccanismo della sete meno efficiente del normale) è possibile che vengano raggiunti livelli glicemici e aumenti dell’osmolalità plasmatica tali da determinare una grave sindrome neurologica denominata coma iperosmolare non chetosico (che verrà descritta in seguito). La stessa sindrome non si osserva nei diabetici di tipo 1 i quali, avendo tendenza a sviluppare chetoacidosi, vanno incontro al coma secondario a questo processo (chetosico) quando il controllo metabolico è cattivo. Quando la concentrazione ematica del glucosio è elevata questo zucchero può reagire senza mediazioni enzimatiche con le proteine. Questo processo viene chiamato “glicazione” per distinguerlo dalla “glicosilazione” che è la reazione enzimaticamente regolata. La glicazione comporta un primo processo rapido e reversibile, che consiste nella reazione del gruppo aldeidico del glucosio con quello aminico dell’aminoacido aminoterminale di una catena peptidica (o con quello libero della lisina, anche se non è in posizione aminoterminale). Si forma un composto chiamato aldimina (o base di Schiff) che lentamente si converte in un complesso più stabile, detto chetoamina (o prodotto di Amadori). Quest’ultimo è particolarmente nocivo perché possiede un gruppo carbonilico (C = O) altamente reattivo e perciò in grado di stabilire irreversibilmente ponti (crosslinking) tra catene peptidiche diverse, il che altera in maniera importante le funzioni biologiche di molte proteine (Fig. 64.4). La glicazione delle proteine corporee è un processo che si verifica indipendentemente dal diabete, in dipendenza di episodici rapidi incrementi della glicemia, sia pure nell’ambito fisiologico, ed è stata considerata una importante componente del processo di invecchiamento (per questo motivo viene considerato dieteticamente inopportuno il consumo eccessivo di zucchero, o di alimenti dolci). Ma nei diabetici questo processo è notevolmente incrementato in dipendenza degli aumenti di glicemia che la malattia comporta. Il fenomeno è ben evidente a livello dell’emoglobina dove il glucosio stabilisce un legame covalente con il residuo aminoterminale rappresentato dalla valina a formare quella che viene chiamata la HbA1C o, più semplicemente, la
HC
O
HC
OH
NH2
emoglobina glicata. Di questa esiste una certa percentuale anche nei soggetti normali, ma nei diabetici la percentuale è tanto più elevata quanto peggiore è, nella media dei giorni precedenti, il controllo metabolico. La glicazione delle proteine può svolgere vari ruoli patogenetici, come si vedrà in seguito, tanto nella genesi della microangiopatia che in quella della macroangiopatia. Si è ipotizzato che anche la cataratta e la neuropatia dei diabetici siano dovute a glicazione di proteine endogene. Tuttavia per queste lesioni è stato considerato possibile anche un altro meccanismo legato all’iperglicemia. Questa, infatti, potrebbe favorire la conversione intracellulare del glucosio nell’esaalcol sorbitolo; essendo quest’ultimo incapace di oltrepassare le membrane cellulari, si avrebbe rigonfiamento osmotico delle cellule quando la concentrazione extracellulare di glucosio si riduce. Nel diabete di tipo 1, caratterizzato da carenza di insulina, si hanno anche altri importanti effetti metabolici oltre a quelli riguardanti i carboidrati. L’incrementata gliconeogenesi, che avviene prevalentemente a partire dagli aminoacidi, determina un notevole aumento del catabolismo proteico. Inoltre, si verifica una maggiore mobilizzazione di acidi grassi non esterificati dai depositi adiposi periferici. Questo fa sì che, con modalità che saranno esposte in dettaglio in seguito, si abbia nel fegato un incremento della formazione di corpi chetonici, acido -idrossibutirrico e acido acetacetico. Questi sono degli acidi fissi e inducono acidosi metabolica che, in casi gravi, può condurre a quella particolare forma di coma che, indicato tradizionalmente come coma diabetico, viene più correttamente chiamato al giorno d’oggi coma chetoacidosico (o chetosico). Nel diabete di tipo 2 non si ha tendenza ad aumentare la formazione di corpi chetonici, nonostante l’aumentata produzione di glucagone che, come si vedrà, ha un ruolo importante a questo riguardo. Le cause della scarsa propensione alla chetosi dei diabetici di tipo 2 non sono perfettamente chiarite, ma è verosimile che a questo riguardo abbia importanza il fatto che, in questa particolare forma di diabete, l’insulina continua ad essere prodotta e talora in quantità che, in assoluto, è aumentata. Comunque è certo che i diabetici di tipo 2 non hanno tendenza a presentare coma chetoacidosico nem-
HC HC
N– H
Glucosio
Proteina
C
OH
Ore
N– H
CH2 O*
Giorni
Base di Schiff
Prodotto di Amadori
Figura 64.4 - Tappe del processo di glicazione delle proteine. L’asterisco nella formula a destra indica il gruppo carbossilico in grado di stabilire ponti tra catene peptidiche diverse. È questo un processo irreversibile che si svolge lentamente (nell’arco di settimane) e che altera le funzioni biologiche di molte proteine.
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meno quando l’alterazione metabolica è molto elevata (semmai, come si è visto, in questo caso possono sviluppare coma iperosmolare).
Clinica A. Diabete di tipo 1. Il diabete di tipo 1 esordisce nel 50% dei casi ad un’età inferiore ai 20 anni e più frequentemente all’epoca della pubertà. Non è tuttavia raro un esordio nell’infanzia e persino è possibile che questo si verifichi nel primo anno di vita. I suoi sintomi di presentazione consistono nell’aumento della quantità di urine emesse nelle 24 ore (poliuria), in un incremento della sete e dell’introduzione di liquidi (polidipsia, che è secondaria alla poliuria), in un’esaltazione dell’appetito e dell’assunzione di alimenti (polifagia), che però non si accompagna a un accrescimento di peso, ma al contrario, a un dimagramento. In alcuni casi, i primi sintomi riconosciuti di un diabete di tipo 1 sono quelli della chetoacidosi (si veda in seguito), magari in occasione di un’infezione o di un intervento chirurgico. Un curioso fenomeno che spesso viene osservato è una regressione apparentemente spontanea dello stato diabetico, dopo il periodo iniziale di squilibrio metabolico, regressione che perdura per alcuni mesi (cosiddetta “luna di miele”) per poi dar luogo nuovamente, e definitivamente, allo stato diabetico. La spiegazione correntemente data di questo fenomeno è che l’esordio della malattia si verifica quando, a seguito del processo patogenetico in atto da molto tempo, le capacità secretorie delle cellule sono molto ridotte, tanto che un evento intercorrente acuto, che stimoli la produzione degli ormoni controinsulari, è in grado di renderne insufficiente la funzione. Regredito l’evento sovrapposto, la funzione delle cellule può nuovamente risultare adeguata, salvo a deteriorarsi ulteriormente con il tempo e divenire insufficiente di per sé, indipendentemente da eventi intercorrenti scatenanti. Le alterazioni rilevate con gli esami di laboratorio in questa forma di diabete sono già state descritte in precedenza: iperglicemia a digiuno e soprattutto dopo i pasti, glicosuria che è spesso molto rilevante. Altre alterazioni delle indagini di laboratorio possono essere indotte dal deficit di insulina e dalla chetosi e saranno descritte in seguito. B. Diabete di tipo 2. Il diabete mellito di tipo 2 viene più spesso diagnosticato casualmente nel corso di esami di laboratorio eseguiti per altri motivi in soggetti che sono, a questo riguardo, completamente asintomatici. Questo dipende dal fatto che la malattia di solito si instaura molto lentamente e che occorre molto tempo prima che i sintomi legati all’iperglicemia e glicosuria si rendano manifesti. D’altro canto, in molti pazienti il diabete resta lieve (o addirittura l’anomalia metabolica si arresta allo stato di alterata tolleranza al glucosio) e i sintomi da iperglicemia e glicosuria non si verificano mai. Tra le condizioni che più spesso spingono questi pazienti ai controlli clinici e alla scoperta dell’anomalia del ricambio dei carboidrati, frequentemente si trovano
disturbi circolatori legati all’aterosclerosi, che in questi pazienti è più intensa e più precoce che nella media, e che può essere catalogata come una complicanza (la macroangiopatia) del diabete o dell’alterata tolleranza al glucosio. Tra gli esami di laboratorio oltre all’iperglicemia (ed eventualmente alla glicosuria) sono facilmente rilevate un’ipertrigliceridemia (aumento delle lipoproteine plasmatiche VLDL) e un’iperuricemia. Si noti che l’ipertrigliceridemia è piuttosto comune nel diabete (se ne parlerà nelle complicanze); tuttavia qui si fa riferimento a una iperlipoproteinemia di tipo 4 (Cap. 65) che può essere rilevata in pazienti con diabete di tipo 2, specialmente se obesi, anche in condizioni di equilibrio metabolico. Questo fatto deriva, evidentemente, da un’associazione più che casuale dei geni che condizionano la iperlipoproteinemia con quelli responsabili del diabete di tipo 2. Lo stesso vale per l’iperuricemia. La concomitante presenza, in alcuni pazienti con diabete di tipo 2, di alterata tolleranza al glucosio, di resistenza insulinica, di ipertrigliceridemia, di iperuricemia e di obesità ha spinto alcuni Autori a parlare di sindrome metabolica come entità nosologia a sé stante di cui l’iperglicemia sarebbe uno degli elementi costitutivi. C. Diabete gestazionale. Come tale si definisce un’iperglicemia che per la prima volta viene rilevata durante la gravidanza e che è dovuta all’incapacità di aumentare adeguatamente la secrezione di insulina. Il difetto delle cellule può essere dovuto ad autoimmunità verso il pancreas in una minoranza di casi, ma spesso è reso evidente da una resistenza tissutale all’insulina, del tipo connesso con la patogenesi del diabete di tipo 2 e che, in assenza di gravidanza, precede di molti anni lo sviluppo della malattia metabolica. È dimostrato che anche una modesta iperglicemia materna rappresenta un fattore di rischio per la morbilità fetale, anche se questa si sviluppa solo in una minoranza dei casi. Per questo motivo l’identificazione di tale malattia metabolica nelle donne gravide è di particolare importanza e la determinazione di una glicemia a digiuno è largamente raccomandata in tutte le donne gravide tra le 22 e le 28 settimane di gestazione. Tuttavia, in donne che appaiono ad alto rischio per lo sviluppo della malattia (obese, con familiari di primo grado diabetici, che hanno avuto in precedenza parti con macrosomia del neonato) questo controllo deve essere effettuato il prima possibile e ripetuto tra le 24 e 28 settimane di gestazione. In questo caso è meglio effettuare un test da carico valutando la glicemia un’ora dopo la somministrazione orale di 50 g di glucosio: valori di 140 mg/dl o più individuano un diabete gestazionale con una sensibilità dell’80%, valori di 130 mg/dl o più con una sensibilità del 90%. I rischi clinici precedenti il parto per il diabete gestazionale riguardano il feto. Nelle donne con grave iperglicemia è stato infatti dimostrato un aumentato rischio di malformazioni congenite gravi. Un altro rischio è il parto di feto morto. La macrosomia del feto (che però può osservarsi anche in donne già diabetiche prima di iniziare la gravidanza), con le complicanze associate durante il parto, è la più comune forma di morbilità
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fetale nel diabete gestazionale, ma, sia pure più raramente, ipoglicemia, ittero neonatale, sindrome del distress respiratorio, policitemia e ipocalcemia sono state descritte nei bambini nati da donne con questa condizione. Di solito la situazione metabolica si normalizza dopo il parto, ma le donne che hanno sofferto di diabete gestazionale hanno una probabilità stimata dal 17 al 63% di sviluppare un diabete non gestazionale negli anni seguenti. Anche il futuro delle persone esposte al diabete materno nella vita intrauterina è gravato da una particolare morbilità, in quanto è per loro aumentato il rischio di obesità e di alterata tolleranza al glucosio già nell’infanzia e nella giovinezza.
Complicanze acute metaboliche A. Chetoacidosi diabetica. La chetoacidosi diabetica dipende dalla coesistenza della carenza di insulina in presenza di un eccesso di glucagone, come avviene nel diabete di tipo 1. I passaggi metabolici implicati sono indicati schematicamente nella figura 64.5, che riassume parte della figura 64.1. Quando si ha carenza di insulina, come già si è anticipato, viene esaltata la lipolisi nel tessuto adiposo e vengono liberati nel sangue acidi grassi liberi che sono trasportati al fegato. Nel fegato gli acidi grassi possono essere indirizzati verso due vie metaboliche. La prima è quella dell’esterificazione in trigliceridi che, a loro volta, sono incorporati nelle lipoproteine VLDL e mobilizzati verso il sangue. La seconda è quella dell’ossidazione degli acidi grassi nei mitocondri grazie alla cosiddetta “navetta” della carnitina (cosiddetta perché la carnitina si lega agli acidi
grassi per azione dell’enzima carnitina-aciltrasferasi I; il complesso acil-carnitina passa la membrana interna dei mitocondri e qui, ad opera dell’enzima carnitinaaciltrasferasi II, il residuo di acido grasso viene staccato dalla carnitina e legato al coenzima A: la carnitina, rimasta libera, ritorna all’esterno della membrana dove è nuovamente disponibile a legarsi con acidi grassi e a svolgere il suo compito di “navetta”). Questa seconda via metabolica è fisiologicamente attiva solo a digiuno (dopo il pasto infatti l’attività dell’enzima carnitinaaciltrasferasi I è inibita) ed è attiva pure quando esiste un eccesso di glucagone in carenza di insulina. Quindi, riassumendo, nel diabete di tipo 1 gravemente scompensato esistono due motivi perché venga incrementata l’ossidazione degli acidi grassi nel fegato: a) l’esaltata lipolisi nel tessuto adiposo dovuta alla carenza di insulina, che fornisce al fegato un eccesso di materia prima; b) l’attivazione, accanto alla via dell’esterificazione, della via metabolica dell’ossidazione degli acidi grassi nei mitocondri, dovuta all’eccesso di glucagone. Il risultato è un’esaltata produzione di acetil-coenzima A, da cui derivano i corpi chetonici acido -idrossibutirrico e acido acetacetico. Il passaggio di questi nel sangue costituisce la base della chetoacidosi. Infatti, si tratta di acidi fissi che sono in grado di indurre acidosi metabolica. Quando si verifica uno scompenso metabolico tanto grave da condurre a chetoacidosi, la gliconeogenesi nel fegato è esaltata al massimo, mentre l’utilizzazione periferica del glucosio è inibita. Ne consegue che si sviluppano livelli molto elevati di iperglicemia e glicosuria con intensa diuresi osmotica e notevole disidratazione. D’altro canto, l’eliminazione dei corpi chetonici, il cui pK è più basso del pH che può essere raggiunto dalle
Sangue
Muscolo
Fegato
Corpi chetonici
Formazione di corpi chetonici
Ossidazione di acidi grassi
Tessuto adiposo
2)
Acidi grassi liberi Sintesi di trigliceridi
Lipolisi Trigliceridi in VLDL
1) 3)
Figura 64.5 - 1) Favorita dalla mancanza di insulina. 2) Favorita dall’eccesso di glucagone (in carenza di insulina). 3) Processo ostacolato dal difetto di attività della lipasi delle lipoproteine in carenza di insulina.
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urine, e che perciò sono largamente eliminati come anioni, comporta l’eliminazione di accompagnamento di una certa quota di cationi, principalmente sodio, ma anche potassio. Quest’ultimo tende a lasciare l’ambiente intracellulare (dove la sua concentrazione è di gran lunga più elevata) in quanto si scambia con gli idrogenioni presenti in eccesso nel liquido extracellulare; inoltre, quando esiste un difetto di insulina il potassio tende a trasferirsi all’esterno delle cellule. Ne consegue che si ha un passaggio netto di potassio dall’interno delle cellule alle urine (dove questo elemento è eliminato insieme ai corpi chetonici) e che, nonostante il depauperamento generale di potassio nell’organismo, la concentrazione di questo catione nel sangue può essere elevata (in conseguenza della sua fuoriuscita dall’interno delle cellule). La chetoacidosi diabetica può essere scatenata da varie forme di stress (infezioni, traumi, interventi chirurgici) caratterizzate dalla possibilità di un incremento transitorio di ormoni controinsulari, che aggravano criticamente la carenza di insulina. I suoi primi sintomi sono gastrointestinali sotto forma di anoressia, nausea, vomito, talora dolori addominali che possono simulare un’emergenza chirurgica. È molto importante che la chetoacidosi venga riconosciuta a questo stadio, altrimenti possono essere commessi degli errori fatali. Il più comune, in diabetici in trattamento insulinico (ovviamente insufficiente), è la sospensione della somministrazione dell’ormone dato che i disturbi gastrici impediscono l’assunzione di un pasto normale (i diabetici apprendono presto che l’iniezione di insulina non seguita da assunzione di alimenti può condurre a ipoglicemia: si veda in seguito). La mancata somministrazione di insulina proprio nel momento in cui sarebbe necessario incrementarne la dose può essere determinante per l’ulteriore evoluzione della chetoacidosi. Comunque, se non adeguatamente trattata, la chetoacidosi diabetica progredisce fino allo stadio di coma. Il paziente in coma chetoacidosico ha un caratteristico respiro profondo e rapido (respiro di Kussmaul) e alito cosiddetto “acetonico”, ossia che sa intensamente di frutta marcia (l’alito acetonico può essere avvertito anche prima che il paziente vada in coma). Il suo aspetto è profondamente disidratato, con bulbi oculari infossati, labbra secche e screpolate. Gli esami di laboratorio consentono facilmente la diagnosi di coma chetoacidosico. Nelle urine viene dimostrata un’intensa glicosuria e una decisa positività delle reazioni dei corpi chetonici (quest’ultima può essere eseguita al letto dell’ammalato impiegando strisce di Ketostix o compresse di Acetest) (1).
(1) Questi metodi sono poco affidabili perché dosano solo l’acetone e l’acido acetacetico, ma non l’acido -idrossibutirrico. Nel coma chetoacidosico il rapporto tra acido -idrossibutirrico e acido acetacetico nel sangue e nelle urine, normalmente di 3:1, può aumentare fino a 8:1, specialmente se esiste ipossia tissutale. Questo spiega alcuni effetti paradossali, come l’apparente aumento della chetosi dopo l’inizio della terapia del coma chetoacidosico. In realtà si tratta di un’aumentata ossidazione dell’acido -idrossibutirrico (che sfugge al dosaggio) in acido acetacetico (che viene dosato).
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Nel sangue si nota elevata iperglicemia (per lo più tra i 500 e i 700 mg/dl), presenza di corpi chetonici (che possono essere dosati direttamente, oppure facendo reagire il siero sanguigno, a varie diluizioni, con le compresse di Acetest), lieve diminuzione della concentrazione di sodio (valori di solito intorno alle 130 mmol/l, in luogo delle normali 140 mmol/l), aumento della concentrazione di potassio (valori intorno a 5-6 mmol/l in luogo delle normali 4 mmol/l), aumento dell’osmolalità (valori superiori a 300 mOsm/l). I livelli di acidi grassi liberi e di trigliceridi del plasma sono aumentati. Lo studio dell’equilibrio acido base (Cap. 63) dimostra nel sangue arterioso una riduzione del pH (al di sotto del valore di 7,35 e talora fino a valori prossimi a 7,0), una diminuzione della pressione parziale di CO2 (PCO2 di sangue arterioso decisamente inferiore ai valori normali di 40 mmHg, e spesso ridotta tra i 10 e i 20 mmHg) e della concentrazione di bicarbonati (normalmente intorno a 24 mmol/l, in questo caso valori di solito inferiori a 10). Il gap degli anioni (concentrazioni molari nel sangue di Na+ più K+, meno concentrazioni molari di Cl– più HCO3–) è aumentato rispetto ai valori normali di 10-18 mmol/l, ossia alla diminuzione di concentrazione dei bicarbonati non corrisponde un aumento della concentrazione dei cloruri. Questo dipende dall’accumulo nel sangue dei corpi chetonici, che si comportano essi stessi da anioni, ma non vengono considerati nel calcolo del gap. Nell’esame emocromocitometrico possono essere rilevati valori tendenzialmente elevati di emoglobina e di ematocrito (per emoconcentrazione) e una leucocitosi neutrofila che non è significativa di infezioni. Se non adeguatamente trattato (si veda in seguito) il coma chetoacidosico è mortale. B. Coma iperosmolare non chetosico. Come si è visto il coma iperosmolare non chetosico è caratteristico del diabete di tipo 2 e si osserva di solito in pazienti anziani nei quali lo stato metabolico è aggravato da eventi intercorrenti (per es., un’infezione o un ictus cerebrale) e la capacità di assumere liquidi è menomata, tanto da rendere impossibile il compenso delle perdite idriche dovute alla diuresi osmotica. Ne consegue una grave sindrome neurologica dovuta alla disidratazione intracellulare. Solitamente il paziente che va incontro al coma iperosmolare è anziano, per lo più vivente da solo o ricoverato in un’istituzione. Nei giorni precedenti l’episodio di coma il paziente è poliurico, ma all’esordio dei sintomi neurologici la diuresi è ridotta a causa dell’ipovolemia conseguente alla disidratazione. I primi sintomi consistono in uno stato confusionale, cui consegue abbastanza rapidamente il coma. Possono aversi anche altri sintomi neurologici come convulsioni o deficit motori a focolaio. Sono comuni le complicanze: infezioni (per lo più respiratorie), incidenti trombotici (secondari all’iperviscosità ematica) o emorragici (conseguenti a coagulazione intravascolare disseminata), pancreatite. Gli esami di laboratorio dimostrano marcata glicosuria in assenza di corpi chetonici nelle urine e glicemia
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estremamente elevata (di solito sopra i 1000 mg/dl, circa il doppio dei valori relativi comunemente nel coma chetoacidosico). La sodiemia è all’incirca normale (infatti si deve all’iperglicemia se l’osmolalità plasmatica è elevata), la potassiemia è moderatamente elevata (a causa della tendenza del potassio a fuoriuscire dalle cellule in presenza di un importante difetto di attività dell’insulina), la creatininemia è decisamente aumentata (infatti, il filtrato glomerulare è ridotto in conseguenza dell’ipovolemia). L’osmolalità plasmatica è molto elevata, toccando valori intorno alle 370-380 mOsm/l. L’osmolalità plasmatica può essere valutata direttamente o stimata dalla seguente formula: mOsm/l in plasma = 2 ([Na+] + [K+]) + +
glucosio (mg/dl) urea (mg/dl) + 18 2,8
dove [Na+] e [K+] sono rispettivamente le concentrazioni molari di sodio e di potassio. I livelli di acidi grassi liberi e di trigliceridi nel plasma possono essere aumentati, ma meno che nel coma chetoacidosico. Questi pazienti hanno spesso una lieve acidosi metabolica, con moderata riduzione nel sangue arterioso della pressione parziale di CO2 e della concentrazione dei bicarbonati (solitamente intorno alle 20 mmol/l). L’acidosi dipende da una modesta chetosi dovuta al digiuno e dal difetto della funzione renale. Non trattato, il coma iperosmolare è invariabilmente mortale. Anche dopo adeguato trattamento (si veda in seguito) la mortalità è elevata (intorno al 50%).
Complicanze a lungo termine I diabetici, sia del tipo 1 sia del tipo 2, hanno una notevole tendenza a presentare complicanze a lungo termine che, per la loro frequenza, fanno parte della storia naturale della malattia. In genere, dopo 10-15 anni di malattia la maggioranza dei diabetici presenta qualcuna di queste complicanze, anche se in alcuni pazienti esse possono presentarsi molto in anticipo ed in altri non avere mai occasione di manifestarsi. A. Macroangiopatia diabetica. La macroangiopatia diabetica non è altro che una tendenza a sviluppare aterosclerosi più precocemente e più intensamente di quanto non si verifichi nella media della popolazione. Una possibile spiegazione di questo fatto può essere trovata nel processo di glicazione delle lipoproteine. Le LDL glicate, infatti, perdono la normale affinità con il loro recettore e interagiscono più facilmente con il cosiddetto recettore “scavenger” alla superficie dei macrofagi. Nel capitolo 3 viene spiegato perché questo tipo di interazione sia importante per la patogenesi dell’aterosclerosi. A causa della macroangiopatia i diabetici ammalano, con particolare frequenza, di coronaropatie, disturbi ischemici cerebrali, insufficienza arteriosa agli arti e di altre anomalie attribuibili ad aterosclerosi.
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B. Microangiopatia diabetica. Con il termine di microangiopatia diabetica si intende un’alterazione dei capillari che produce le sue più importanti conseguenze a carico del rene (glomerulopatia diabetica), a carico della retina (retinopatia diabetica) e a carico del sistema nervoso periferico (neuropatia diabetica) e autonormo. L’alterazione dei capillari consiste, nella sua forma più semplice, in un ispessimento della membrana basale, in un’aumentata permeabilità ed in una diminuita resistenza meccanica delle pareti di questi piccoli vasi. Alterazioni più complesse dipendono dalla peculiare disposizione anatomica della microcircolazione nei vari organi. La causa della microangiopatia diabetica non è completamente nota. Una possibile spiegazione è che essa, al pari di altre alterazioni proprie del diabete, dipenda da glicosilazione non enzimatica di costituenti proteici essenziali per l’integrità dei capillari. Se questo fosse il caso sarebbe da attendersi che la microangiopatia fosse più grave e più precoce quanto meno perfetto fosse il controllo metabolico del diabete. Per quanto esistano fondati sospetti in questo senso, un ruolo eziologico esclusivo della prolungata o ripetuta iperglicemia nei confronti della microangiopatia non è stato ancora accertato al di là di ogni possibile dubbio. Un’altra possibilità è che la microangiopatia sia favorita da qualche altro fattore coesistente con il diabete e che potrebbe essere pure di natura ereditaria. A favore di questo punto di vista sta la constatazione che un ispessimento della membrana basale dei capillari osservati in una biopsia muscolare (un reperto comune nei diabetici e che è considerato un segno minore di microangiopatia) viene rilevato con una certa frequenza in parenti di primo grado, normoglicemici, di soggetti affetti da diabete. Nel caso dei genitori di bambini affetti da diabete di tipo 1 è stato visto che l’ispessimento della membrana basale dei capillari muscolari è associato con l’antigene di istocompatibilità HLA-DR4. Perciò, è possibile che la propensione a sviluppare più o meno precocemente la microangiopatia sia condizionata geneticamente e non dipenda solo dall’iperglicemia. Della glomerulopatia diabetica si è parlato nel capitolo 36. Qui perciò esporremo brevemente solo qualche nozione sulla retinopatia diabetica e sulla neuropatia diabetica. Retinopatia diabetica. Si verifica, con il tempo, in circa l’85% dei pazienti e, pur limitandosi per lo più a provocare difetti parziali della visione, può condurre in una percentuale significativa dei casi a perdita completa del visus, costituendo una delle più comuni cause di cecità nei paesi sviluppati tra i soggetti tra i 45 e i 65 anni di età. Le varie tappe della retinopatia diabetica possono essere seguite molto bene con l’esame oftalmoscopico. Da questo punto di vista essa è stata distinta in due varianti: semplice e proliferativa. La retinopatia semplice, nei suoi stadi iniziali, è caratterizzata da aumentata permeabilità capillare che può essere messa in evidenza dalla fuoriuscita del colorante dai capillari, all’esame fluoroangiografico, anche prima
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che possano essere osservate lesioni anatomiche. Il passaggio di plasma dà luogo a caratteristici essudati definiti dagli oculisti “essudati duri”. Le alterazioni anatomiche dei piccoli vasi consistono in aneurismi sacculari, proliferazione endoteliale e diminuzione del numero dei periciti posti all’esterno della membrana vascolare. Si possono creare dei piccoli shunt arterovenosi. In conseguenza di queste lesioni anatomiche e alle rotture di piccoli vasi si possono verificare numerose piccole emorragie retiniche, che negli strati più profondi della retina hanno un aspetto puntiforme e, negli strati più superficiali, assumono, disponendosi lungo le fibre nervose, il cosiddetto aspetto “a fiamma”. Si possono formare aree di microinfarti che assumono un aspetto che le ha fatte definire, piuttosto impropriamente, “essudati cotonosi”. La retinopatia proliferativa è caratterizzata essenzialmente da neoformazioni di vasi, che facilmente si rompono residuando cicatrici. Lo stimolo alla neoformazione di vasi sembra provenire dalle zone ischemiche. La retinopatia proliferativa può comportare gravi complicanze, come le emorragie nel vitreo e il distacco di retina. Il trattamento della retinopatia diabetica ha conseguito notevoli progressi grazie alla fotocoagulazione laser dei vasi neoformati. Neuropatia diabetica. Le cause della neuropatia diabetica non sono perfettamente conosciute. Come già si è anticipato, si è pensato che un ruolo patogenetico abbiano la glicosilazione non enzimatica di proteine dei nervi o l’accumulo intracellulare di sorbitolo. In ratti resi diabetici con streptozotocina è stata dimostrata una neuropatia caratterizzata da marcata riduzione del contenuto di inositolo dei nervi. Si suppone perciò che un fattore dello stesso tipo possa avere importanza anche nella neuropatia del diabete umano. La neuropatia diabetica può interessare il sistema nervoso periferico con distribuzione radicolare, a un solo nervo (mononeuropatia), o più spesso a molti nervi (polineuropatia). I disturbi sono più spesso sensitivi e si manifestano clinicamente con alterazioni della sensibilità soggettiva (parestesie, dolori crampiformi notturni) e oggettiva (particolarmente della sensibilità propiocettiva con disordini della postura e dell’andatura). In conseguenza di questi ultimi disturbi si possono avere lesioni articolari (dello stesso tipo di quelle osservate nella tabe e nella siringomielia), caratterizzate da grossolane alterazioni dei capi articolari e definite “articolazioni di Charcot”. La neuropatia diabetica colpisce facilmente anche il sistema nervoso vegetativo e si manifesta principalmente a carico del sistema cardiovascolare (tachicardia, ipotensione ortostatica), gastrointestinale (atonia gastrica, difetti di motilità intestinale che favoriscono la colonizzazione batterica e il malassorbimento), genito-urinario (eiaculazione retrograda, impotenza, vescica neurologica). C. Ulcera diabetica. Un problema particolare, che deriva dalla coesistenza della neuropatia e della macroangiopatia, è la facilità con la quale i diabetici sviluppano agli arti inferiori ulcere che cicatrizzano con difficoltà. L’evento iniziale è dovuto a un traumatismo
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(spesso provocato dallo sfregamento di una scarpa non completamente adatta) che non è percepito a causa delle lesioni sensitive. La coesistenza di ischemia tissutale, a causa della macroangiopatia, e la facilità a presentare infezioni sovrapposte favorisce l’ulcerazione e rende problematica la sua cicatrizzazione. Per questo motivo le calzature dei diabetici vanno curate in modo particolare, gli eventuali calli debbono essere attentamente controllati (spesso il callo è il primo segno del traumatismo) e va raccomandata l’igiene più scrupolosa. D. Altre complicanze. Alterazioni cutanee possono verificarsi nel diabete. Le più comuni sono la dermopatia diabetica, la necrobiosi lipoidea, la xantomatosi e la carotenemia. La dermopatia diabetica è caratterizzata da piccole placche arrotondate localizzate alla faccia anteriore delle gambe. Le placche possono sviluppare croste alla periferia ed ulcerarsi al centro: le cicatrici che residuano possono essere iperpigmentate. La necrobiosi lipoidea è una lesione a forma di placca, localizzata pure sulla superficie anteriore delle gambe, con un’area centrale giallastra circondata da un bordo bruno. La xantomatosi dei diabetici è del tipo cosiddetto “eruttivo” ed è rappresentata da papule giallastre, frequentemente circondate da una base eritematosa, che si osservano più spesso sulle natiche e su altre aree di pressione. È dovuta alla formazione di ammassi di istiociti cutanei stipati di trigliceridi, in conseguenza di un difetto di attività della lipasi delle lipoproteine in carenza di insulina (si veda in seguito). La carotenemia si manifesta sotto forma di una pigmentazione giallastra, più evidente alle palme delle mani e alle piante dei piedi, dovuta a deposizione di carotene. Le complicanze oculari nei diabetici non si limitano alla retinopatia, ma comprendono anche la cataratta. Oggi è divenuta rara la cataratta precoce dei giovani diabetici di tipo 1 con insufficiente controllo metabolico, mentre l’evenienza più comune è una più frequente e più precoce comparsa della cataratta senile. Si stima che circa la metà dei diabetici ha qualche opacità del cristallino dopo 20 anni di malattia. Nei diabetici è particolarmente frequente l’ipertrigliceridemia. Questa può essere dovuta a condizionamento genetico per l’iperlipoproteinemia di tipo 4, coesistente con il diabete di tipo 2 più spesso che per associazione casuale, o ad aumentata esterificazione epatica degli acidi grassi mobilizzati dalla lipolisi, come avviene nella chetoacidosi diabetica. In diabetici in imperfetto controllo metabolico per insufficienza della terapia, la relativa carenza insulinica può determinare una difettosa attività della lipasi delle lipoproteine. Di solito questi soggetti si alimentano in misura all’incirca normale perciò sviluppano livelli particolarmente elevati di trigliceridi nel plasma, con aumento tanto delle VLDL che dei chilomicron. È in questi pazienti che si possono osservare gli xantomi eruttivi di cui si è già detto sopra. Le infezioni nei diabetici non sembrano particolarmente frequenti, ma sono certo più gravi che nei non
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diabetici, a causa di una ridotta efficienza delle funzioni dei granulociti. Sono localizzate per lo più alla cute, alle vie urinarie e all’apparato respiratorio. Infezioni gravi e peculiari dei diabetici sono l’otite esterna maligna (provocata da Pseudomonas aeruginosa) e la colecistite enfisematosa.
Basi razionali della terapia A. Diabete non complicato. 1. Dieta. Le linee guida segnalate dall’American Diabetes Association sottolineano l’importanza dell’adeguamento delle proprie abitudini alimentari agli scopi della dietoterapia che devono essere: 1) raggiungere gli obiettivi glicemici 2) ottenere livelli lipoproteici ottimali 3) fornire un numero di calorie appropriato per peso ottimale, crescita, sviluppo, gravidanza e allattamento 4) prevenire o ritardare le complicanze correlate alla nutrizione 5) migliorare il proprio stato di salute attraverso una nutrizione ottimale. È chiaro che le linee guida nutrizionali per bambini e/o adolescenti con diabete mellito di tipo 1 (Tab. 64.5) sono chiaramente diverse da quelle del giovane adulto e
ancor più da quelle dell’uomo adulto con diabete tipo 2 specialmente se obeso. Non va poi dimenticato che l’apporto calorico va modificato anche in considerazione dell’attività fisica, che rappresenta accanto al presidio farmacologico e dietetico l’altro cardine della terapia del diabete sia di tipo 1 che di tipo 2. È comunque oramai noto che, contrariamente a quanto avveniva in passato, non si prescrivono più regimi nutrizionali ipoglucidici, ma si ritiene utile che l’apporto di carboidrati costituisca il 50-55% del totale giornaliero di calorie, l’apporto di grassi circa il 30% cercando di ridurre i grassi saturi a meno del 10% e l’apporto proteico intorno al 10-20% delle calorie totali e calcolato in una misura non superiore a 0,8-1 gr/kg/die. Nei pazienti con nefropatia diabetica è stato però dimostrato che la restrizione delle proteine della dieta nelle fasi iniziali rallenta la progressione verso l’insufficienza renale. Non sembra invece che nei pazienti con microalbuminuria una dieta ipoproteica possa rallentare la progressione della nefropatia. Quando poi si sviluppano la sindrome nefrosica e l’ipoalbuminemia l’assunzione proteica viene di nuovo riportata a 0,8-1 gr/kg/die. L’alcool può essere consumato dai pazienti diabetici in quantità moderata con l’eccezione però di quelli con
Tabella 64.5 - Sommario delle linee guida nutrizionali per bambini e/o adolescenti con diabete mellito di tipo 1. Piano di trattamento nutrizionale • Favorisce una compliance ottimale. • Comprende gli obiettivi del trattamento: crescita e sviluppo normali, controllo glicemico, mantenimento dello stato nutrizionale ottimale e prevenzione delle complicanze. Fa uso di un approccio per stadi. RACCOMANDAZIONI RISPETTO ALLE SOSTANZE NUTRIENTI E LORO DISTRIBUZIONE Sostanze nutrienti % di calorie Assunzione giornaliera raccomandata Carboidrati Fibra
Variabili > 20 g/die
Proteine Lipidi Saturi Polinsaturi Monoinsaturi Colesterolo Sodio
12-20 < 30 < 10 6-8 Lipidi restanti
Elevato contenuto di fibra, specialmente solubile; quantità ottimale sconosciuta
< 300 mg Evitare l’eccesso; limitarsi a 3000-4000 mg in caso di ipertensione
Raccomandazioni ulteriori • Energia: se si segue una dieta misurata, rivalutare i livelli energetici almeno ogni 3 mesi. • Proteine: un’eccessiva assunzione di proteine può contribuire alla nefropatia diabetica. Una ridotta assunzione può invertire una nefropatia preclinica. Pertanto è consigliabile una percentuale del 12-20%; sono peferibili le percentuali più basse. Per scendere alla percentuale più bassa è preferibile un approccio per gradi. • Alcool: il consumo moderato di alcol deve essere insegnato tempestivamente già durante i primi anni di scuola superiore. • Spuntini: gli spuntini possono variare in base alle necessità individuali (generalmente tre spuntini al giorno per i bambini; spuntini a metà pomeriggio e al momento di dormire per i preadolescenti e gli adolescenti). • Dolcificanti alternativi: viene suggerito l’uso di vari dolcificanti. • Tecniche educative: nessuna tecnica è superiore. La scelta del metodo educativo usato deve basarsi sulle necessità del paziente. È importante conoscere diverse tecniche. Sono necessari sostegno ed educazione continuativi. • Disturbi del comportamento alimentare: il migliore trattamento è la prevenzione. Uno scarso controllo glicemico o una grave ipoglicemia non spiegabile possono indicare un potenziale disturbo del comportamento alimentare. • Esercizio fisico: l’educazione è vitale per prevenire l’ipoglicemia immediata o ritardata e un peggioramento di iperglicemia e chetosi. Da Connell JE, Thomas-Doberson D, Nutritional management of children and adolescents with insulin-dependent diabetes mellitus: A review by the Diabetes Care and Education Practice Group. J Am Diet Assoc 1991; 91:1556-1564, per gentile concessione.
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zione 30 della catena . Oggi si usano insuline umane ricavate per sostituzione aminoacidica dell’insulina suina o prodotte da ceppi di Escherichia coli nei quali sono stati inseriti i geni che codificano le due catene peptidiche dell’insulina umana. Le prime preparazioni di insulina erano contaminate da varie impurità: proinsulina, VIP, peptide pancreatico, glucagone, tutte sostanze potenzialmente antigeniche. Un progresso sostanziale è stato nei tempi successivi la realizzazione di preparazioni altamente purificate cosiddette monocomponenti. L’insulina può essere preparata in forma cristallina o in forme alternative meno solubili che assicurano perciò, dopo l’iniezione sottocutanea, una più lunga durata d’azione. Attualmente le preparazioni farmacologiche di insulina sono numerose (Tab. 64.6), ma una terapia insulinica efficace può essere impostata con l’uso esclusivo di insulina regolare ad azione pronta e di insulina ritardata opportunamente combinate. Fra le preparazioni di insulina ad azione ritardata oggi disponibili è da preferire un’insulina ad azione intermedia, meglio se NPH (Neutral Protamine Hagedorn). Attualmente è disponibile, perché entrato da poco in commercio in Italia, un analogo dell’insulina ad azione prolungata (insulina glargine, si veda oltre). Nell’ambito degli schemi di terapia quello più vantaggioso prevede tre iniezioni di insulina regolare da somministrare prima dei pasti, cui è utile associare prima di cena o prima di coricarsi un’insulina ad azione intermedia per coprire il fabbisogno notturno. Lo schema con le sole tre iniezioni di insulina regolare prima dei pasti può essere utilizzato in tutti quei pazienti che presentano ancora una quota residua di funzione cellulare. La somministrazione di un’unica dose di insulina ad azione ritardata o di due dosi (mattino e sera) di una miscela di insulina regolare e intermedia non è adatta per una terapia ottimale per il frequente rischio di ipoglicemia e iperglicemia. L’insulina deve essere iniettata preferibilmente nel tessuto sottocutaneo dell’addome per la miglior uniformità di assorbimento. L’iniezione negli arti prevede un assorbimento attraverso il muscolo e pertanto molto più rapido soprattutto se il muscolo viene sollecitato dal movi-
compenso non ottimale, dei pazienti in sovrappeso e di quelli con ipertrigliceridemia. Le attuali linee guida suggeriscono anche l’utilità dell’inserimento nella dieta delle fibre (20-30 gr/die) che sembrano avere effetti metabolici favorevoli sul controllo glicemico, sulla riduzione dei livelli di lipidi aterogeni e sulla riduzione del peso corporeo verosimilmente attraverso un aumento del senso di sazietà. L’incremento può essere ottenuto aumentando l’assunzione di frutta, verdura e cereali, soprattutto cereali integrali. La terapia dietetica resta quindi un sussidio importante sia nella cura del diabete tipo 1 che nel diabete tipo 2 dove però, soprattutto se il paziente è obeso, può anche rappresentare l’unico sussidio terapeutico. 2. Esercizio fisico. Nel trattamento del paziente diabetico deve essere incluso un programma di esercizio fisico a meno che non sia controindicato dalla coesistenza di particolari patologie. L’esercizio non solo riduce l’intolleranza al glucosio, migliorando la sensibilità all’insulina, e diminuisce i fattori di rischio cardiaco, ma in più aumenta il dispendio energetico che aiuta lo sforzo dietetico per ridurre e mantenere il peso corporeo. Inoltre l’esercizio fisico, se ben progettato, può avere anche favorevoli effetti psicologici e fisiologici facilitando un cambiamento dello stile di vita. È chiaro che deve essere eseguito con cautela a causa dei potenziali effetti negativi che possono essere rappresentati oltre che dai traumi fisici di natura muscoloscheletrica anche dalla possibilità di ischemia miocardica silente che può essere aggravata da un programma di esercizio troppo aggressivo. 3. Insulina. Nel diabete tipo 1 nel quale esiste carenza assoluta di insulina e nel diabete tipo 2 resistente alla terapia dietetica e agli antidiabetici orali questo ormone deve essere somministrato come terapia sostitutiva. Le insuline usate nel passato erano di origine bovina, che si differenziavano da quella umana per tre residui aminoacidici, e di origine suina che differiva da quella umana solo per il residuo aminoacidico in posi-
Tabella 64.6 - Caratteristiche farmacocinetiche delle varie forme insuliniche. TIPO • Ad azione rapida – Insulina umana regolare o solubile • Analoghi ad azione rapida – Insulina lispro – Insulina aspart* • Ad azione intermedia – Insulina umana NPH – Insulina umana lenta • A lunga durata d’azione – Insulina umana ultralenta • Analoghi ad azione ritardata – Insulina glargine
AGENTE RITARDANTE
Inizio
AZIONE (ORE) Picco
Durata
–
0,5
1,5
6-7
– –
0,1 0,1
0,75 0,75
4-5 4-5
Protamina Zinco
1-2 2-3
4-6 5-7
10-14 14-16
Zinco
4,5
8-10
16-20
Pi = 7,4
1,5
–
> 24
* Mancano ancora i dati comparativi certi di farmacodinamica fra insulina lispro e insulina aspart. Pi = punto isoelettrico
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mento. La dose di insulina necessaria per ottenere un compenso ottimale è strettamente dipendente dalla sensibilità individuale, dalla quantità di carboidrati del pasto e dal tipo di vita del paziente nelle ore successive all’iniezione (sedentaria o attiva). L’insulina umana regolare iniettata nel sottocute è presente in forma esamerica. Questa deve essere scissa in dimeri e in seguito in monomeri attivi prima dell’assorbimento in circolo. Il ritardo con cui l’insulina umana viene assorbita dal tessuto sottocutaneo fa si che il picco insulinemico che ne deriva sia inferiore rispetto a quello fisiologico e perciò inadeguato a ottenere, nella fase postprandiale, un controllo ottimale della glicemia. L’anticipo di trenta minuti dell’iniezione di insulina rispetto al pasto migliora, ma solo parzialmente, il controllo glicemico postprandiale. Per questo motivo sono stati messi in commercio negli ultimi anni gli analoghi ad azione rapida dell’insulina che sono l’insulina lispro e l’insulina aspart. La prima, ottenuta attraverso l’inversione dei due aminoacidi prolina e lisina rispettivamente in posizione 28 e 29 della catena è il prototipo dei questa nuova classe di insuline ad azione rapida. La modificazione strutturale apportata in questa porzione della molecola comporta una netta riduzione delle forze di attrazione intermolecolare che permette all’insulina lispro, una volta iniettata nel sottocute, di passare rapidamente dalla forma esamerica a quella monomerica. Ne derivano un più rapido assorbimento, una più rapida elevazione dell’insulinemia e di conseguenza un miglior controllo della glicemia postprandiale oltre che un minor rischio di ipoglicemie tardive. Caratteristiche del tutto simili ha anche l’altro analogo ad azione rapida, l’insulina aspart, ottenuto sostituendo al residuo di prolina in posizione 28 un residuo di acido aspartico. Alla maggior rapidità di azione dell’insulina lispro e dell’insulina aspart che consente di praticare l’iniezione immediatamente prima del pasto, fa riscontro una riduzione della durata d’azione calcolabile in 3-4 ore con conseguente possibile iperglicemia tardiva. Per questo è spesso utile l’associazione con un’insulina ad azione intermedia. Le insuline ad azione intermedia di cui disponiamo hanno caratteristiche farmacocinetiche non interamente soddisfacenti. Esse infatti presentano una durata d’azione relativamente breve (generalmente non superiore alle 8 ore) e un profilo di attività ben diverso dal profilo lineare della fisiologica insulinemia basale. Questo comporta il frequente rischio di ipoglicemie nelle prime ore della notte e di iperglicemie al risveglio. Attualmente è stato introdotto in commercio un analogo dell’insulina che, utilizzando un diverso meccanismo di ritardo, consente un rilascio più graduale e uniforme (insulina glargine). L’insulina glargine, così chiamata perché caratterizzata dalla sostituzione del residuo di asparagina in posizione A21 con uno di glicina e dall’aggiunta di un doppio residuo di arginina all’estremità carbossilica della catena , si differenzia dall’insulina umana per la variabilità del punto isoelettrico (da 5,4 a 7,4). Lo spostamento del punto isoelettrico verso la neutralità fa sì che l’analogo presente nel flacone in soluzione acida sia poco solubile nel tessuto sottocutaneo, dove forma un microprecipitato da cui
l’insulina viene liberata con estrema gradualità con una durata d’azione di circa 24 ore. Questo consente di ristabilire il livello fisiologico di insulinemia. 4. Microinfusori. L’infusione continua di insulina mediante infusori esterni contenenti insulina ad azione rapida offre il grande vantaggio di riprodurre mediante pompa il modello fisiologico di erogazione insulinica. L’insulina viene anche somministrata come bolo al momento del pasto su comando del paziente. Questa modalità può anche essere impiegata per correggere un’iperglicemia intercorrente. L’infusione basale può essere programmata in base alle variazioni circadiane del fabbisogno insulinico che si verificano durante la giornata con una riduzione nelle ore notturne e un aumento nelle prime ore del mattino per fronteggiare il fenomeno dell’iperglicemia mattutina. Viene ridotta anche durante l’esercizio fisico e nelle ore successive in cui ancora può verificarsi un abbassamento della glicemia. Accanto a questi indiscutibili vantaggi ci sono anche degli inconvenienti che ne limitano l’impiego: innanzitutto il costo elevato, poi l’impatto psicologico sul paziente e infine anche la possibile complicanza cutanea indotta dall’inserimento prolungato di un catetere o di un ago sottocute. Per questo motivo oggi il microinfusore viene riservato a quei casi particolari in cui l’instabilità dell’equilibrio metabolico non viene controllata dalla terapia convenzionale multi-iniettiva. Esiste anche la possibilità di infondere insulina mediante pompe impiantabili che in genere vengono posizionate in una tasca sottocutanea nella parete addominale con un catetere che può essere inserito in una vena o nella cavità peritoneale. Tuttavia l’occlusione del catetere con conseguente iperglicemia è un’evenienza molto frequente e la necessità di ricorrere a un intervento chirurgico per risolvere problemi legati al catetere o alla pompa costituisce un importante fattore frenante il loro impiego. È inoltre allo studio la possibilità di arricchire tali apparecchi con sensori che regolino la erogazione di insulina in base al valore della glicemia (in tal caso si realizzerebbe un vero e proprio pancreas artificiale portatile). 5. Antidiabetici orali. Tre classi di farmaci rientrano nella categoria degli antidiabetici orali: i farmaci insulino-stimolanti, i farmaci insulino-sensibilizzanti e gli inibitori dell’-glucosidasi intestinali (Tab. 64.7). Tabella 64.7 - Farmaci ipoglemicizzanti orali. • Insulino-stimolanti – Sulfoniluree – Composti non sulfonilureici: repaglinide, nateglinide • Insulino-sensibilizzanti – Biguanidi: metformina – Tiazolidinedioni: rosiglitazone, pioglitazone (in commercio) • Inibitori delle -glicosidasi intestinali – Acarbose, miglitolo
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I farmaci insulino-stimolanti comprendono le sulfoniluree di prima, seconda e terza generazione alle quali recentemente si è aggiunto un composto non sulfonilureico derivato dall’acido benzoico, la repaglinide. Pur non possedendo una struttura sulfonilureica la repaglinide condivide, almeno in parte, il meccanismo d’azione delle sulfoniluree. Infatti, come queste, provoca la chiusura dei canali del potassio ATP-dipendenti, legandosi però ad una subunità del recettore diversa da quella delle sulfoniluree. Inoltre, a differenza delle sulfoniluree la repaglinide non subisce un’internalizzazione nella cellula e quindi non provoca una stimolazione protratta della secrezione insulinica. Per questo è in grado di provocare, in risposta al pasto, una liberazione di insulina rapida ed intensa ricostituendo il picco precoce di secrezione insulinica tipicamente perduto nel diabete tipo 2. Attualmente è in sperimentazione un farmaco con caratteristiche simili derivato dalla fenilalanina, la nateglinide. Un’altra molecola ad azione secretagoga è il Glucagon Like Peptide-1 (GLP-1) ancora in sperimentazione e comunque attivo solo se introdotto per via parenterale. I farmaci ad azione insulino-sensibilizzante comprendono le biguanidi (e fra queste la metformina) e i tiazolidinedioni. La metformina è l’unica biguanide oggi disponibile per la terapia del diabete tipo 2. Essa agisce riducendo l’assorbimento intestinale di glucosio, aumentando la glicolisi anaerobia, inibendo la produzione epatica di glucosio e aumentando l’affinità dei recettori per l’insulina. Pertanto la metformina da sola non causa ipoglicemia. Come gli inibitori dell’-glucosidasi così anche le biguanidi più che farmaci ipoglicemizzanti potrebbero essere definiti farmaci antiperglicemizzanti. La metformina rimane il farmaco di prima scelta per il paziente affetto da diabete tipo 2 obeso o in soprappeso che non riesce a rimanere in buon equilibrio metabolico con il semplice regime dietetico, ma può anche essere utilizzata in associazione alle sulfoniluree e all’insulina. Di solito è ben tollerata, ma talora può dare disturbi gastrointestinali (nausea, diarrea, meteorismo) che ne impongono la sospensione. L’altra nuova classe di farmaci insulino sensibilizzanti è rappresentata dai tiazolidinedioni (troglitazone, rosiglitazone e pioglitazone). Essi agiscono legandosi ad una famiglia di recettori nucleari identificati nel Peroxisome Proliferator Activated Receptors o PPAR. Si conoscono tre membri principali di questa famiglia di recettori: i PPAR-, - e -. Gli acidi grassi liberi (FFA) sono i legandi fisiologici dei PPAR- e regolano attraverso questa via il metabolismo lipoproteico. I fibrati impiegati nella terapia dell’ipertrigliceridemia svolgono la loro attività legandosi in modo competitivo ai PPAR-. I PPAR- sono espressi prevalentemente nel tessuto adiposo, ma anche nel muscolo striato e nel fegato. Essi, stimolati dai glitazoni, interagiscono con specifiche sequenze di DNA attivando o reprimendo la trascrizione dei relativi messaggi. Non sono ancora noti i geni che prepongono a questi meccanismi. Ciò che comunque ne deriva è un incremento della sensibilità all’insulina con conseguente diminuzione
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della glicemia. Nel tessuto adiposo i glitazoni favoriscono la differenziazione da preadipociti a piccoli adipociti, più sensibili per le minori dimensioni all’azione dell’insulina. Riducono anche l’espressione da parte degli adipociti di Tumor Necrosis Factor- o (TNF-) (che si ritiene abbia un ruolo nella genesi della resistenza all’insulina) e di leptina e aumentano l’attività delle lipoproteinlipasi. Si riduce così la concentrazione plasmatica dei trigliceridi e dei FFA riducendo l’antagonismo muscolare nei confronti del glucosio con conseguente miglioramento della sua utilizzazione. Un importante effetto trascrizionale dei glitazoni è rappresentato infine dalla maggior espressione dei trasportatori del glucosio (Glut 4) sia a livello del muscolo che del tessuto adiposo con conseguente stimolo all’utilizzazione periferica del glucosio. Tutti questi meccanismi contribuiscono ad una riduzione della glicemia che si accompagna ad una parallela riduzione dell’insulinemia. Viene attribuito ai glitazoni anche un effetto antipertensivo forse mediato dalla captazione del calcio da parte delle cellule muscolari lisce vasali con conseguente riduzione del tono arteriolare. Di questa categoria di farmaci quelli attualmente in commercio in Italia sono il rosiglitazone e il pioglitazone. L’ultima classe di ipoglicemizzanti orali è rappresentata dagli inbitori delle -glucosidasi di cui il prototipo è l’acarbose. Le -glucosidasi sono enzimi localizzati sulla superficie dei microvilli del tenue e hanno il compito di idrolizzare polisaccaridi e oligosaccaridi in monosaccaridi consentendone l’assorbimento. Quindi l’inibizione di questa funzione enzimatica comporta un rallentamento dell’assorbimento intestinale del glucosio con riduzione dell’iperglicemia postprandiale. Anche questi farmaci possono essere usati in associazione agli altri ipoglicemizzanti (sulfoniluree e biguanidi) e anche all’insulina. B. Terapia delle complicanze acute metaboliche. La terapia della chetoacidosi diabetica deve essere instaurata prontamente ed è basata su due cardini: la somministrazione di acqua ed elettroliti, la somministrazione di insulina. Inizialmente vengono infuse rapidamente quantità significative di soluzione isotonica di cloruro di sodio. In questa fase non viene somministrato potassio (nonostante che questo catione sia pure perduto nella chetoacidosi diabetica) perché, per le ragioni già spiegate, la potassiemia è normale o aumentata. Solo successivamente, quando la terapia insulinica favorisce il passaggio di potassio dallo spazio extracellulare all’interno delle cellule l’aggiunta di sali di potassio alle infusioni può iniziare. La somministrazione di bicarbonati può essere utile nei pazienti con pH ematico molto ridotto (7 o meno). Tuttavia, la correzione molto rapida dell’acidosi puo provocare un inconveniente. Infatti, questa alterazione dell’equilibrio acido-base, di per sé, comporta una diminuita affinità dell’emoglobina per l’ossigeno che viene così a compensare l’effetto opposto della riduzione della concentrazione del 2,3-difosfoglicerato nelle emazie. Se l’acidosi è improvvisamente rimossa l’incremento di affinità dell’emoglobina per
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l’ossigeno non è più controbilanciato e il rilasciamento dell’ossigeno dal sangue verso i tessuti risulta compromesso. Perciò, se il bicarbonato viene infuso, è bene che la sua somministrazione venga interrotta quando il pH ematico raggiunge il valore di 7,2. L’insulina può essere somministrata con varie modalità. Un tempo si adoperavano alte dosi (50-100 U) endovena ogni ora, ma questa tecnica comporta alcuni inconvenienti, quali la sovrapposizione di ipoglicemia o ipopotassiemia. Inoltre, la troppo rapida discesa della glicemia può comportare l’insorgenza di edema cerebrale perché in questa sede può avvenire con ritardo il conseguimento dell’equilibrio osmotico nei riguardi del plasma. Perciò attualmente è stato consigliato di somministrare l’insulina a piccole dosi ripetute ogni ora endovena o intramuscolo (non sottocute, dato che da questa sede l’assorbimento può essere difettoso). Questo metodo di somministrazione non è costantemente efficace perché esistono soggetti che hanno una relativa resistenza all’insulina. Per questo, alcune autorità suggeriscono un approccio intermedio con la somministrazione di 25-50 U endovena dell’ormone ogni ora, o in bolo o come infusione continua. Quando la glicemia è sufficientemente discesa (300 mg/dl) è conveniente aggiungere anche l’infusione di soluzione isotonica di glucosio, allo scopo di apportare acqua in assenza di sali e di ridurre la velocità di discesa della glicemia. Un buon sistema per monitorare la terapia del coma chetoacidosico è quello di valutare periodicamente il pH ematico e il gap degli anioni. La valutazione dei corpi chetonici nel sangue non è affidabile per le ragioni spiegate nella nota a pag. 1294. La terapia del coma iperosmolare è basata sulla infusione di liquidi (soluzione salina prima isotonica e poi ipotonica) e sulla somministrazione di insulina. C. Nuove prospettive terapeutiche. Il trapianto di pancreas iniziato, sia pure in maniera sporadica, negli anni Settanta e consolidato negli anni Ottanta ha rappresentato un importante sviluppo nella terapia del diabete tipo 1 con tecniche che si sono sempre più perfezionate negli ultimi anni. L’esigenza però di un trattamento immunosoppressivo che, nonostante la messa a punto di nuovi farmaci, rimane gravato da molti seri effetti collaterali ne ha limitato l’uso a quei pazienti che necessitano di trapianto di rene per nefropatia diabetica o sono stati già sottoposti ad altro trapianto d’organo e si trovano pertanto già nella necessità di assumere un trattamento immunosoppressivo. Anche il trapianto di isole, entrato in uso negli ultimi dieci anni, che offre il vantaggio di una metodica di esecuzione molto semplice e quindi poco traumatica per il paziente e di risultati estremamente positivi sul controllo metabolico, richiede un trattamento immunosoppressivo che, come per il trapianto di pancreas, nel limita l’impiego. L’approccio immunologico per il trattamento delle fasi iniziali del diabete tipo 1 (quelle che precedono la cosiddetta luna di miele) volto a frenare la componente autoimmune dell’aggressione alle cellule era stato provato utilizzando un farmaco, la ciclospo-
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rina A, la cui tossicità renale ne ha però limitato l’impiego a studi sperimentali. Un nuovo approccio per ricreare la secrezione insulinica perduta è quello che utilizza la terapia genica, cioè quella procedura terapeutica basata sul trasferimento di materiale genetico (DNA o RNA) nelle cellule somatiche di un paziente, rivolta alla correzione di un difetto genetico congenito o acquisito, o indirizzata a conferire una nuova funzione a cellule o tessuti non deputati a questo scopo. È proprio questa seconda finalità che potrebbe trovare un’applicazione nella cura del diabete di tipo 1, ovvero quella di generare cellule capaci di secernere insulina umana in modo regolato in risposta alle esigenze metaboliche. Esistono oggi due possibili strategie di terapia genica per generare questo tipo di -cellule surrogate o sostitutive. Una prima strategia si propone la trasformazione di linee -cellulari di origine animale, principalmente murina, in cellule con caratteristiche adatte alle esigenze terapeutiche umane. L’alternativa all’utilizzo di cellule di provenienza murina umanizzate consiste nell’ingegnerizzazione di cellule o tessuti autologhi, provenienti cioè dallo stesso paziente diabetico, per svilupparvi la capacità di sintetizzare insulina e rilasciarla in modo regolato. In tal modo non sarebbe necessario né immuno-isolare le cellule, né trattare i pazienti con farmaci antirigetto. È inoltre possibile che queste cellule possano sfuggire alla recidiva della reazione autoimmune, perché di origine diversa dalle -cellule. Si tratta però di percorsi che richiedono ancora molti anni prima di poterne vedere un’applicazione sull’uomo. D. Controllo della terapia. Classicamente si effettua con una serie di dosaggi del livello glicemico durante la giornata e la notte per osservare che la somministrazione dell’insulina o degli ipoglicemizzanti orali sia corretta e copra in modo equilibrato tutta la giornata. In questi ultimi anni sono stati messi a punto due nuovi dosaggi che permettono di avere un’informazione affidabile sul livello glicemico medio dell’ultimo mese o dell’ultima settimana: la determinazione dell’emoglobina glicosilata e della fruttosamina. Questi dosaggi sono basati sul fatto che, in presenza di glucosio, le proteine vanno incontro a una reazione chimica, di tipo enzimatico, in cui il glucosio reagisce con un gruppo basico della proteina stessa, legandovisi in maniera irreversibile. Il livello di glicosilazione dipenderà quindi dal livello glicemico medio. L’emoglobina glicosilata e le proteine plasmatiche glicosilate (riunite sotto il termine generico di “fruttosamina”) hanno caratteristiche chimico-fisiche tali da permetterne il dosaggio. L’emoglobina ha una lunga emivita (circa 120 giorni) e si è visto che il suo livello di glicosilazione rispecchia l’andamento glicemico delle ultime 6-8 settimane. Percentuali di emoglobina glicosilata stabilmente (HbA1c) superiori al 6% dell’emoglobina totale non si ritrovano nel soggetto sano; un’adeguata terapia, in genere, fa sì che nel diabetico si riescano a mantenere valori intorno al 7%.
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Discorso analogo vale per la fruttosamina che però, in quanto espressione delle proteine plasmatiche e quindi principalmente dell’albumina glicosilata, riflette l’andamento del compenso metabolico su un intervallo temporale assai inferiore, compreso fra 1 e 2 settimane. Per questa analisi i valori dei soggetti non diabetici sono compresi fra 1,9 e 2,8 mmol/l. Da quanto detto risulta evidente che i due dosaggi non sono alternativi ma complementari e sembrano particolarmente adatti al monitoraggio della terapia, ma possono essere anche assai utili nella conferma della diagnosi.
Complicanze della terapia A. Reazioni all’insulina. La lipoatrofia è la perdita di tessuto adiposo nella sede di ripetute iniezioni sottocutanee di insulina. Si verifica più facilmente con preparazioni poco purificate dell’ormone e si pensa che sia dovuta a reazioni immunologiche locali che facilitano la lipolisi. La lipoipertrofia è, al contrario, la produzione eccessiva di tessuto adiposo nella sede di iniezioni sottocutanee ripetute di insulina. Si verifica più facilmente quando sono impiegate preparazioni purificate dell’ormone e si pensa che sia dovuta ad un effetto favorente dell’insulina sulla sintesi locale dei trigliceridi. Le reazioni allergiche all’insulina consistono in eritema, edema e prurito talora solo in sede di iniezione, ma spesso generalizzati. Possono essere dovute a due meccanismi immunopatologici (Cap. 68), quello di tipo 1, mediato da immunoglobuline della classe IgE, e quello di tipo 3 e in questo caso la reazione locale si rifà al modello del fenomeno di Arthus. Nel complesso sono rare e si verificavano più frequentemente nel passato quando erano in commercio preparazioni poco purificate di insulina. Alcune forme di resistenza sono dovute alla formazione di anticorpi contro questo ormone. B. Ipoglicemia. L’ipoglicemia si verifica più facilmente in pazienti in terapia insulinica, anche se può essere osservata anche in alcuni pazienti in trattamento con forme ad azione prolungata di sulfoniluree (per effetto di accumulo). Transitorie ipoglicemie, soprattutto se si verificano di notte, possono non essere notate dal paziente, ma avere un cattivo effetto sul controllo metabolico della malattia. Infatti, l’ipoglicemia provoca un’aumentata secrezione di ormoni controinsulari che determinano un’iperglicemia di rimbalzo. È questo il cosiddetto “effetto Somogyi”, che può avere una parte importante nelle difficoltà terapeutiche di molti pazienti (in questi casi può capitare che riducendo le dosi di insulina si migliori il controllo metabolico del diabete). Quando l’ipoglicemia è sintomatica è caratterizzata da astenia, sensazione di fame, confusione, cefalea. A questi sintomi, causati da diminuito apporto di glucosio alle cellule cerebrali, se ne aggiungono altri dovuti alla secrezione di catecolamine e alla stimolazione simpatica: sudorazione, tremori, pal-
lore, tachicardia. Il paziente non trattato può andare incontro a coma che è facilmente distinguibile da quello chetoacidosico per l’assenza dell’alito acetonico, del respiro di Kussmaul e dei segni della disidratazione e per la presenza di pallore, sudorazione e midriasi. La determinazione della glicemia con un metodo istantaneo (cartine di Destrostix) rende la diagnosi sicura. L’ipoglicemia risponde molto prontamente alla somministrazione di glucosio o saccarosio per os quando il paziente è ancora cosciente, o di soluzioni ipertoniche di glucosio per via venosa se il paziente è in coma.
IPOGLICEMIE Si definisce ipoglicemia il riscontro di valori glicemici inferiori a 55 mg/dl. A tale rilievo biochimico, generalmente si accompagna una sintomatologia caratteristica, che può venire confusa con patologie neurologiche e che può portare il paziente al ricovero in reparto neuropsichiatrico.
Classificazione Si distinguono essenzialmente due forme di ipoglicemia: • ipoglicemie di origine esogena (generalmente dovute all’introduzione di una sostanza che determina l’ipoglicemia); • ipoglicemie di origine endogena distinte in organiche e funzionali. A. Ipoglicemie esogene. 1. Da insulina. Nel soggetto diabetico sono dovute a errore di dosaggio, a iniezioni ripetute per errore, ad alterato comportamento alimentare, a esercizio fisico intenso, al potenziamento dell’azione insulinica per contemporaneo uso di farmaci (inibitori delle monoaminoossidasi, salicilati, sulfamidici, tetracicline, acido etilendiamino-tetracetico, ecc.). Un’altra possibilità è la ipoglicemia factitia (autosomministrazione di insulina in soggetti neurolabili). 2. Ipoglicemizzanti orali. Sulfaniluree ad azione protratta in sovradosaggio (soprattuto in caso di insufficienza renale o epatopatie) o per autosomministrazione errata. 3. Alcool. È una causa molto frequente, la cui azione si esplica a livello epatico con inibizione della gliconeogenesi. Le crisi ipoglicemiche in questi casi sono favorite dalla denutrizione e dal digiuno. B. Ipoglicemie endogene organiche. 1. Insulinomi. Sono tumori delle -cellule pancreatiche, che secernono insulina senza il meccanismo di controllo fisiologico. Le ipoglicemie da insulinomi si
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manifestano a digiuno e si aggravano con il digiuno prolungato, poiché i livelli insulinemici si mantengono abnormemente elevati rispetto alle glicemie. Possono insorgere come patologia isolata o nel contesto di una sindrome da neoplasie endocrine multiple (MEN). Solo il 10% degli insulinomi è maligno. 2. Tumori extrapancreatici. La patogenesi delle ipoglicemie dovute a questi tumori rimane discussa; sono di volta in volta imputabili: a) secrezione di insulina o sostanze insulino-simili da parte del tumore; b) eccessivo consumo di glucosio da parte del tumore; c) inibizione della gliconeogenesi epatica da parte di una sostanza non conosciuta di origine tumorale. 3. Malattie congenite del metabolismo dei carboidrati. a) Galattosemia, in cui l’ipoglicemia risulta da un blocco della dismissione epatica di glucosio (si veda Galattosemia). b) Glicogenosi nella quale l’ipoglicemia è legata alla ridotta dismissione epatica di glucosio per mancanza della glucosio-6-fosfato-fosfatasi nel tipo 1, per mancanza dell’amilo-1,6-glucosidasi (enzima deramificante) nel tipo 3, per marcata riduzione della fosforilasi epatica nel tipo 4 (si veda Glicogenosi, Cap. 65). C. Ipoglicemie endogene funzionali. 1. Ipoglicemie reattive. Non si osservano a digiuno, ma nel periodo postprandiale. Si possono manifestare in diabetici di tipo 2, in obesi, nei gastroresecati per accelerato transito intestinale, in caso di glicosuria renale. In alcuni di questi casi si può riscontrare un’eccessiva risposta insulinemica agli stimoli alimentari (iperinsulinismo funzionale). 2. Insufficienza ipofisaria. Mancanza di GH e ACTH che sono ormoni iperglicemizzanti. 3. Insufficienza corticosurrenale. Carenza di cortisolo (ormone controinsulare). 4. Insufficienza del sistema adrenergico. Deficit di catecolamine, anch’esse ormoni controinsulari (sindrome di Zetterström). 5. Insufficienza di glucagone. Sindrome di McQuarrie nel bambino.
Clinica Le manifestazioni cliniche dell’ipoglicemia sono dovute a due meccanismi: a) sofferenza cellulare; b) manifestazioni dovute alla reazione adrenergica. 1. Sofferenza cellulare. Si manifesta essenzialmente con una sintomatologia neurologica, per il fatto che i neuroni sono strettamente glucosio-dipendenti per i loro processi metabolici vitali. Si potranno riscontrare quindi cefalea, astenia, disturbi comportamentali, disturbi visivi (diplopia), convulsioni ed eventualmente coma. La sofferenza cellulare può esplicarsi anche attraverso sintomatologia di tipo anginoso. 2. Manifestazioni adrenergiche. Conseguenti all’ipoglicemia sono predominanti quando la caduta glicemica è rapida: sudorazione, tremore, tachicardia, senso di fame, irritabilità, palpitazioni. Tali manifestazioni sono dovute alla liberazione degli ormoni controinsulari, in particolare delle catecolamine, che agiscono in senso iperglicemizzante nel tentativo di ricomporre l’omeostasi glucidica.
Diagnosi Prima tappa per una corretta diagnosi è la conferma di livelli glicemici inferiori alla norma, attraverso la determinazione biochimica della glicemia che deve risultare inferiore a 55 mg% a digiuno e intorno a 45 mg% nella fase tardiva di un’ipoglicemia provocata (carico orale di glucosio seguito per 5 ore). Seconda tappa molto importante è la raccolta di una anamnesi accurata riguardo all’insorgenza della sintomatologia ipoglicemica ed alla sua risoluzione (importante l’orario in cui vengono riferite le ipoglicemie) con accurato rilievo alle sostanze ingerite o ad eventuali terapie farmacologiche. Dovranno quindi essere analizzati i dati clinici obiettivi relativi a patologie concomitanti o scatenanti (tumori, endocrinopatie, ecc.). Le indagini strumentali dovranno procedere quindi secondo lo schema seguente.
6. Epatopatie. Cirrosi, intossicazione da tetracloruro di carbonio, cloroformio, Amanita falloides, trombosi delle vene epatiche, neoplasie del fegato. In questi casi l’ipoglicemia è dovuta al blocco della dismissione epatica di glucosio.
1. Determinazione contemporanea di insulinemia e glicemia in condizioni basali per più volte. In caso di tumori insulino-secernenti, che sfuggono ai meccanismi fisiologici di controllo, si otterranno livelli insulinemici abnormemente elevati in rapporto a una glicemia normale o bassa (rapporto insulina/glucosio alto).
7. Denutrizione. In questo caso si manifesta ipoglicemia per carenza di substrati energetici. Ne possono conseguire fenomeni di steatosi epatica e disendocrinie (si veda, per esempio, l’anoressia nervosa).
Insulinemia (µU/ml)/glicemia (mg/dl). In persone normali il rapporto è inferiore a 0,4 mentre nella maggior parte dei casi di insulinoma, il rapporto insulina/glucosio è superiore a 0,4, spesso oltre 1,0.
8. Esercizio fisico protratto. In questo caso l’ipoglicemia si manifesta per accelerato turn-over di glucosio e acidi grassi liberi.
2. Determinazione di insulinemia e glicemia durante digiuno di 24-48-72 ore. Nei soggetti normali i livelli insulinemici tendono ad abbassarsi, mentre negli insulinomi i livelli rimangono quelli di partenza non in accordo con i valori glicemici che si abbassano in misura patologica (glicemia < 30 mg/dL).
9. Intolleranza alla leucina. Per esagerata risposta insulinica.
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Esistono poi molti test di stimolo alla secrezione insulinica, quali il test alla tolbutamide, al glucagone, il carico orale di glucosio, il test alla leucina, all’arginina, che sono d’ausilio per una corretta diagnosi, ma non sono specifici per la diagnosi di ipoglicemia. In caso di sospetto insulinoma sono indicati l’ecotomografia della loggia pancreatica, la TC addominale la RM del pancreas, l’arteriografia selettiva del tripode celiaco, la cateterizzazione percutanea transepatica della vena porta con prelievi seriati per il dosaggio dell’insulinemia.
MALATTIE DEL RICAMBIO
Terapia Intervento chirurgico in caso di insulinoma. Trattamento farmacologico (diazossido octreotide, difenilidantoina, -bloccanti) e dietetico (dieta povera di carboidrati) nelle ipoglicemie reattive. Trattamento causale nelle altre situazioni. Nella crisi ipoglicemica somministrazione di glucosio ev o per os, oppure glucagone im o ev.
C A P I T O L O
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65
PRINCIPALI DIFETTI CONGENITI DEL METABOLISMO A.E. PONTIROLI, M. ALBERETTO
DISORDINI DEL METABOLISMO DEI CARBOIDRATI Glicogenosi Con il termine glicogenosi si indicano errori congeniti del metabolismo dovuti a difetto di uno degli enzimi implicati nelle vie metaboliche che portano alla sintesi o alla degradazione del glicogeno. Si tratta di un gruppo molto eterogeneo di malattie che comprendono tanto forme gravi, evidenti alla nascita o nel primo anno di vita, incompatibili con un normale sviluppo, quanto forme più lievi che possono consentire una normale sopravvivenza e dare disturbi solo episodicamente anche nell’età adulta. Le glicogenosi sono nel complesso malattie rare, anche se per alcune varianti la frequenza è probabilmente sottostimata. La glicogenosi di tipo I ha un’incidenza di 1 ogni 100.000-400.000 nascite, la glicogenosi di tipo III è sensibilmente più comune, particolarmente tra gli ebrei dell’Africa settentrionale. È possibile che il deficit di fosforilasi-chinasi sia relativamente frequente e resti, in molti casi, non diagnosticato. Alcune glicogenosi sono però state descritte solo in un numero limitato di casi. Tutte le glicogenosi sono trasmesse come carattere autosomico recessivo, con l’eccezione del deficit di fosforilasi-chinasi, che può essere trasmesso con il cromosoma X. A. Metabolismo del glicogeno. Il glicogeno è un polimero del glucosio, del peso molecolare di alcuni milioni, presente nel fegato fino alla concentrazione di 70 mg/g di tessuto, e nel muscolo fino alla concentrazione di 15 mg/g. Il glicogeno si forma nel periodo che segue l’assorbimento alimentare e costituisce una forma di riserva energetica utilizzabile a digiuno e sotto sforzo. Il glicogeno muscolare viene utilizzato localmente, ma il glicogeno epatico può essere degradato a glucosio che viene immesso nel sangue e reso disponibile per gli altri tessuti.
La figura 65.1 riporta schematicamente le principali tappe metaboliche che portano alla sintesi e alla degradazione del glicogeno. Il punto di partenza è in ogni caso rappresentato dal glucosio-6-fosfato, che si forma dal glucosio ad opera della glucochinasi o della esochinasi. La tappa successiva è la conversione in glucosio-1-fosfato, cui seguono la reazione con l’uridin-trifosfato (UTP) e la formazione di uridin-difosfoglucosio (UDP-glucosio), che è pronto per il processo di polimerizzazione. Questo è catalizzato da due enzimi: la glicogeno-sintetasi, che polimerizza il glucosio linearmente con legame 1,4, e l’enzima ramificante che trasferisce degli oligosaccaridi dal legame 1,4, a quello 1,6. La struttura finale del glicogeno è perciò ramificata, con sequenza lineare di circa 12 residui di glucosio tra ogni punto di ramificazione. La degradazione del glicogeno avviene in maniera diversa nei lisosomi e nel citosol. I lisosomi assumono modeste quantità di glicogeno e sono in grado di degradarle direttamente a glucosio grazie all’azione di una -glucosidasi. Nel citosol la degradazione del glicogeno implica l’attività di una fosforilasi (diversa nel fegato e nel muscolo) che necessita, per essere convertita in forma attiva, dell’azione di una chinasi (fosforilasi-chinasi). Inoltre occorre l’attività di un enzima, detto deramificante, in grado di traslocare degli oligosaccaridi dalle ramificazioni e scindere i legami 1,6. Il prodotto finale è il glucosio-1-fosfato, che è convertito a glucosio-6-fosfato e indirizzato alla via glicolitica. Nel fegato, dal glucosio-6-fosfato è possibile che si formi glucosio ad opera della glucosio-6-fosfato-fosfatasi. Il glucosio così formato è indirizzato, attraverso il sangue, agli altri tessuti. B. Classificazione e patogenesi. Le glicogenosi sono solitamente classificate con un numero d’ordine che rispecchia soltanto la sequenza temporale dell’individuazione delle varie forme. Molto più interessante è la loro classificazione fisiopatologica, riportata nella tabella 65.1. Un primo gruppo di queste forme morbose è rappresentato da quelle forme nelle quali il quadro clinico è
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MALATTIE DEL RICAMBIO
GLICOGENO
-glucosidasi (II)
Enzima ramificante (IV)
lisosomiale Fosforilasi-chinasi (VIII, IX, X)
Glicogeno-sintetasi (0) Fosforilasi epatica (VI) muscolare (V)
G-6-P-fosfatasi (I)
Enzima deramificante (III) Glucosio 1-P Glucosio
Glucosio 6-P Fruttosio 6-P
Fosfofrutto-chinasi
Glucosio + P
(VII) Fruttosio 1,6-DP Piruvato Lattato
Figura 65.1 - Schema semplificato delle vie metaboliche che portano alla sintesi e alla degenerazione del glicogeno. Sono indicati solamente gli enzimi il cui difetto di attività determina le varie forme di glicogenosi (indicate con il loro numero d’ordine tra parentesi accanto ad ogni enzima).
Tabella 65.1 - Classificazione fisiopatologica delle principali glicogenosi. Ipoglicemia di origine epatica • Con aumentata glicolisi e acidosi lattica – Tipo I, malattia di von Gierke: deficit di glucosio-6fosfatasi (Ia) o difetto di trasporto del glucosio-6-P nei microsomi (Ib) • Senza acidosi lattica – Tipo III, malattia di Forbes: deficit di enzima deramificante in fegato e muscolo – Tipo IV, malattia di Hers: deficit di fosforilasi epatica Deficit di fosforilasi-chinasi (VIII, IX, X) Difetto energetico a livello muscolare – Tipo V, malattia di McArdle: deficit di fosforilasi muscolare – Tipo VII, malattia di Tauri: deficit di fosfofruttochinasi Accumulo di glicogeno nei lisosomi – Tipo II, malattia di Pompe: deficit di -glucosidasi lisosomiale Grave epatopatia – Tipo IV, malattia di Andersen: deficit di enzima ramificante
dominato dall’ipoglicemia a causa di un difetto della produzione di glucosio dal glicogeno in sede epatica. Questo gruppo può essere distinto in due sottogruppi. Nel primo, che comprende solo la glicogenosi di tipo I, il deficit riguarda l’attività della glucosio-6-fosfato-fosfatasi e cioè dell’enzima grazie al quale il glucosio-6fosfato derivato dalla glicogenolisi viene trasformato in glucosio più fosfato inorganico. In questo caso manca la produzione di glucosio dal glicogeno in sede epatica, ma si ha, in cambio, un eccesso di glucosio-6-fosfato che viene indirizzato alla glicolisi e alla produzione di acido lattico. Quest’ultima può essere, in casi particolari, di tale entità da comportare acidosi metabolica (acidosi lattica). Questo si verifica particolarmente quando è incrementata la secrezione di adrenalina o di glucagone, che stimolano la glicogenolisi promuovendo l’attività della fosforilasi. L’incapacità di ricavare glucosio dal glucosio-6-fosfato spiega anche perché, in questa glicogenosi, l’ipoglicemia non può essere corretta dalla gliconeogenesi o dall’assunzione di galattosio o di fruttosio. È invece incrementata la sintesi dei trigliceridi, del colesterolo e dell’acido urico. La glicogenosi di tipo I è distinta in due varianti, a seconda che vi sia un reale difetto enzimatico (tipo Ia) o che questo risulti da una menomazione del trasporto di glucosio-6-fosfato nei microsomi (tipo Ib).
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65 - PRINCIPALI DIFETTI CONGENITI DEL METABOLISMO
Il secondo sottogruppo delle glicogenosi che comportano ipoglicemia è rappresentato da forme morbose nelle quali il difetto riguarda la glicogenolisi e, essendo a monte della formazione di glucosio-6-fosfato, non è accompagnato da eccessiva glicolisi e produzione di acido lattico. Inoltre, il glucosio può essere prodotto nel fegato per effetto della gliconeogenesi o della conversione di galattosio o fruttosio. La sintesi di trigliceridi e di colesterolo è aumentata, ma non quella di acido urico. Fanno parte di questo secondo sottogruppo la glicogenosi di tipo III, dovuta a deficit di enzima deramificante, la glicogenosi di tipo VI, nella quale esiste un difetto dell’attività della fosforilasi epatica, e un gruppo comprendente le forme designate da alcuni con i numeri d’ordine VIII, IX e X, che sono accomunate dall’inattività della fosforilasi in conseguenza di un deficit della fosforilasi-chinasi. Nella glicogenosi di tipo III, nella quale il difetto riguarda non solo il fegato, ma anche il muscolo, è presente anche una miopatia. Un secondo gruppo di glicogenosi è caratterizzato dalla difficoltà di utilizzazione energetica del glicogeno a livello muscolare. In questo gruppo sono classificate la glicogenosi di tipo V, nella quale esiste un deficit di fosforilasi muscolare, e la glicogenosi di tipo VII, nella quale il difetto è a valle della glicogenolisi e riguarda l’attività dell’enzima fosfofrutto-chinasi (e quindi si ha un ostacolo a livello della glicolisi). In queste glicogenosi manca l’ipoglicemia, ma si hanno importanti disturbi muscolari, particolarmente sotto sforzo. Al di fuori di questi primi due gruppi esistono due casi particolari che sono quelli della glicogenosi di tipo II e di tipo IV. Nella glicogenosi di tipo II il difetto riguarda l’-glucosidasi lisosomiale e la degradazione del glucosio nei lisosomi. Si ha perciò accumulo di glicogeno nei lisosomi con gravi sofferenze a livello epatico, muscolare (compreso il muscolo cardiaco) e nervoso (per localizzazione del glicogeno alle corna anteriori del midollo spinale). Nella glicogenosi di tipo IV il glicogeno può essere sintetizzato, ma solamente con una struttura anormale a causa del difetto dell’enzima ramificante. Questo fatto determina qualche sofferenza muscolare, ma soprattutto un grave danneggiamento epatico che domina il quadro morboso. Tutte le glicogenosi del primo gruppo (I, III, VI e deficit di fosforilasi-chinasi) comportano accumulo di glicogeno nel fegato; le glicogenosi del secondo gruppo (V e VII) sono caratterizzate da accumulo di glicogeno nei muscoli; la glicogenosi di tipo II determina accumulo di glicogeno sia nel fegato sia nei muscoli (ma in quest’ultimo caso l’accumulo avviene nei lisosomi, mentre in tutte le altre forme il glicogeno si deposita nel citosol). Nella glicogenosi di tipo IV la quantità di glicogeno presente nel fegato è normale, ma con una struttura anomala, sotto forma di lunghe molecole lineari (per questo motivo questa glicogenosi è stata denominata anche amilopectinosi). È stata descritta in alcune famiglie anche una glicogenosi cosiddetta di tipo 0 (non riportata nella tabella
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65.1) dovuta a carenza di glicogeno-sintetasi, caratterizzata dall’impossibilità di sintetizzare il glicogeno a causa di un difetto della glicogeno-sintetasi. Questa glicogenosi è caratterizzata perciò da iperglicemia postprandiale e ipoglicemia a digiuno, oltre che da un difetto energetico a livello muscolare. A differenza di tutte le altre forme, nella glicogenosi di tipo 0 non si ha accumulo, ma al contrario carenza di glicogeno tanto nel fegato che nei muscoli. Esistono, infine, altre forme più rare di glicogenosi che qui non prenderemo in considerazione e per le quali rinviamo ai testi specialistici. C. Clinica. In questa esposizione faremo riferimento solamente alle glicogenosi menzionate nella tabella 65.1. 1. Glicogenosi di tipo I, o malattia di von Gierke. È una condizione patologica grave che si rende palese solitamente nel primo anno di vita a causa del manifestarsi di sintomi ipoglicemici (Cap. 64). Questi bambini sono solitamente obesi, con faccia rotonda con un caratteristico aspetto “da bambola”. L’addome è globoso per la notevole epatomegalia (manca invece la splenomegalia). Xantomi cutanei possono essere presenti sulla superficie estensoria degli arti. Le indagini di laboratorio mettono in evidenza ipoglicemia (spesso ben tollerata), ipertrigliceridemia, ipercolesterolemia, iperuricemia e acidosi metabolica (dovuta ad accumulo di acido lattico e di corpi chetonici). Con il passare del tempo si mettono in evidenza anche disturbi di origine renale dovuti all’accumulo di glicogeno in questo organo e all’azione tossica esercitata sui tubuli dal glucosio-6-fosfato. Può infatti verificarsi una sindrome di Fanconi (Cap. 37), ma più comunemente si determina un ingrandimento dei reni (svelabile, per es., con le indagini ecografiche). Il quadro clinico qui descritto è comune per le glicogenosi di tipo Ia e Ib. La glicogenosi di tipo Ib (meno comune) si distingue da quella di tipo Ia per l’esistenza di infezioni piogeniche ricorrenti. Queste sono dovute a una neutropenia e a una diminuita chemiotassi dei granulociti neutrofili che non sono bene spiegate. La diagnosi è suggerita dalla constatazione di ipoglicemia coesistente con acidosi lattica in un bambino con epatomegalia: l’ipoglicemia non è influenzata dall’epinefrina, dal glucagone o dalla somministrazione di un carico orale di galattosio (che invece peggiora l’acidosi). La biopsia epatica permette la rilevazione dell’accumulo di glicogeno e consente la diretta dimostrazione del deficit enzimatico. Questi pazienti presentano un ritardo di crescita, ma possono raggiungere l’età adulta. In questo caso, tuttavia, esiste un aumentato rischio di insufficienza renale cronica (dovuta all’iperuricemia), di aterosclerosi (dovuta all’iperlipidemia) e dello sviluppo di adenomi o di carcinomi in sede epatica. La terapia è basata sulla somministrazione enterale continua o a brevi intervalli di tempo di quantità di glucosio sufficienti a impedire l’ipoglicemia. 2. Glicogenosi di tipo III (malattia di Forbes), di tipo IV (malattia di Hers) e deficit di fosforilasi-chinasi. Queste forme di glicogenosi sono meno gravi della pre-
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cedente e vengono solitamente diagnosticate dopo il primo anno di vita. Il quadro clinico è nel complesso simile a quello della glicogenosi di tipo I, ma più attenuato, risultando più manifesto nella glicogenosi di tipo III (nella quale si osservano anche astenia muscolare e splenomegalia) e particolarmente lieve nel deficit di fosforilasi-chinasi (che per questo motivo spesso è indiagnosticato). L’ipoglicemia è meno grave che nella glicogenosi di tipo I, sono dimostrabili ipertrigliceridemia e ipercolesterolemia, mentre mancano l’iperuricemia e l’accumulo di acido lattico. Non si hanno importanti alterazioni renali. La diagnosi è suggerita dall’esistenza di ipoglicemia senza accumulo di acido lattico in un bambino con epatomegalia: l’ipoglicemia non è influenzata dall’epinefrina e dal glucagone, ma è corretta dalla somministrazione orale di galattosio. Il deficit enzimatico può essere dimostrato direttamente sul tessuto epatico prelevato con una biopsia ed anche (nella glicogenosi di tipo III e nel deficit di fosforilasi-chinasi) nei leucociti e nei fibroblasti. Il glicogeno è aumentato nel fegato e, nella glicogenosi di tipo III, può essere dimostrato che la sua struttura è alterata con metodi spettrofotometrici. Un ritardo di crescita si verifica solo nei pazienti con glicogenosi di tipo III nei quali, con il passare del tempo, l’ipoglicemia tende ad attenuarsi e a divenire episodica, mentre i disturbi muscolari possono peggiorare. Anche nella glicogenosi di tipo VI e nel deficit di fosforilasi-chinasi l’ipoglicemia tende ad attenuarsi dopo l’adolescenza, così che nella vita adulta alcuni di questi pazienti possono apparire normali tranne che per la persistenza di epatomegalia. La terapia è basata sulla frequente assunzione di alimenti. A differenza che nella glicogenosi di tipo I (nella quale è efficace solo la somministrazione di glucosio), in questo caso tanto le proteine, quanto il galattosio e il fruttosio possono essere utili. 3. Glicogenosi di tipo V (malattia di McArdle) e di tipo VII (malattia di Tauri). Si tratta di malattie molto rare, che si manifestano solitamente nell’età adulta sotto forma di crampi muscolari dolorosi dopo sforzo. Non esiste ipoglicemia, mentre, dopo sforzo, si può verificare un incremento della concentrazione nel sangue degli enzimi muscolari (particolarmente della creatinfosfochinasi) e può comparire mioglobinuria. Nella glicogenosi di tipo VII coesiste una lieve anemia normocitica. La diagnosi è basata sul mancato incremento nel sangue della concentrazione di acido lattico dopo attività muscolare di un arto ischemico (l’arto superiore reso temporaneamente ischemico con il manicotto di uno sfigmomanometro). La biopsia muscolare consente la dimostrazione dell’accumulo di glicogeno e del deficit dell’enzima implicato. Queste glicogenosi sono compatibili con una normale durata di vita. La terapia è basata sull’astensione dall’esercizio fisico strenuo e sull’assunzione di glucosio o di fruttosio prima di ogni sforzo. 4. Glicogenosi di tipo II (malattia di Pompe). Nella sua forma più grave questa malattia viene diagnosticata
MALATTIE DEL RICAMBIO
alla nascita o nei primi 6 mesi di vita per l’esistenza di una grave ipotonia muscolare, ingrandimento della lingua, cardiomegalia con alterazioni elettrocardiografiche ed epatomegalia. Manca l’ipoglicemia, mentre sono aumentati nel sangue gli enzimi di derivazione muscolare, particolarmente la creatinfosfo-chinasi. Con il passare del tempo possono comparire anche disturbi neurologici, sotto forma di deficit motori, la compromissione cardiaca si aggrava e la morte si verifica entro i primi 2-3 anni di vita per scompenso cardiaco. Esistono anche varianti più lievi di questa malattia che si rendono evidenti nell’adolescenza o nell’età adulta. In questi casi manca la compromissione cardiaca e il quadro clinico è quello di una miopatia. La diagnosi è possibile grazie alla biopsia muscolare che consente la rilevazione del deficit enzimatico e dimostra alla microscopia elettronica vacuoli circondati da una membrana e contenenti glicogeno. 5. Glicogenosi di tipo IV (malattia di Andersen). Si tratta di una condizione rarissima che si presenta in età neonatale e che comprende ipotonia muscolare e cardiomegalia, ma che soprattutto si manifesta sotto forma di una grave cirrosi epatica che di solito causa la morte entro il secondo o il terzo anno di vita. La diagnosi viene effettuata dimostrando il deficit enzimatico in un prelievo bioptico del fegato, nei leucociti e nei fibroblasti. La biopsia epatica rende anche possibile la rilevazione dell’anomala struttura del glicogeno.
Difetti congeniti del metabolismo del galattosio Il lattosio, principale carboidrato del latte, è un disaccaride idrolizzato nell’intestino a galattosio e glucosio. Normalmente il galattosio assorbito è convertito a glucosio nel fegato secondo le reazioni biochimiche indicate nella figura 65.2. Il più importante difetto congenito del metabolismo del galattosio è rappresentato dalla galattosemia, nella quale è difettosa o assente l’attività della galattosio-1fosfato uridil-transferasi. La galattosemia esiste in tre varianti: classica, Duarte e della razza nera. Altri possibili difetti del metabolismo del galattosio sono il deficit di galattosio-chinasi e il deficit di uridin-difosfato galattosio-epimerasi. A. Eziopatogenesi. La galattosemia classica è trasmessa come carattere autosomico recessivo. Gli eterozigoti hanno circa la metà del patrimonio enzimatico rispetto ai normali e sono asintomatici; gli omozigoti (1:60.000 nascite circa) hanno un grave deficit cellulare di galattosio-1-fosfato uridil-transferasi. Le manifestazioni cliniche in questi pazienti sono determinate dall’accumulo di galattosio-1-fosfato nelle cellule, dove interferisce con il consumo e il trasporto di ossigeno riducendo i processi di fosforilazione. In particolare, la cataratta è dovuta alla formazione di galattitolo, che deriva da una via metabolica alternativa che diviene operativa in presenza di alte concentrazioni di galattosio.
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65 - PRINCIPALI DIFETTI CONGENITI DEL METABOLISMO
➀
Galattosio
➁
Galattosio-1-fosfato
➂
UDP galattosio UDP glucosio
+
ATP
Galattosio-1-fosfato +
UDP glucosio
UDP galattosio
+
+
ADP
glucosio-1-fosfato
UDP glucosio +
pirofosfato
UTP
+
glucosio-1-fosfato
Figura 65.2 - Vie di conversione metabolica del galattosio. (ATP = adenosin-trifosfato; ADP = adenosin-difosfato; UDP = uridin-difosfato; UTP = uridin-trifosfato). Sono numerate le tappe metaboliche che corrispondono a deficit congeniti del metabolismo e che sono catalizzate: ➀ dalla galattosio-chinasi; ➁ dalla galattosio-1-fosfato uridil-transferasi; ➂ dalla uridin-difosfato galattosio-epimerasi.
Nella galattosemia tipo Duarte la galattosio-1-fosfato uridil-transferasi è qualitativamente anomala. Gli omozigoti per questa condizione sono dotati di un’attività dell’enzima nelle cellule che è circa la metà del normale. La loro situazione è perciò analoga a quella degli eterozigoti per la galattosemia classica e questi soggetti sono perciò asintomatici. La galattosemia della razza nera è pure trasmessa come carattere autosomico recessivo. Tuttavia gli omozigoti, pur presentando un deficit assoluto della galattosio-1-fosfato uridil-transferasi negli eritrociti, conservano circa il 10% di attività dell’enzima nel fegato e nell’intestino tenue. Tanto il deficit di galatto-chinasi quanto quello di uridin-difosfato galattosio-epimerasi sono trasmessi anche come caratteri autosomici recessivi. La sola conseguenza del deficit di galatto-chinasi è la cataratta, mentre il deficit di uridin-difosfato galattosio-epimerasi è asintomatico. B. Clinica. Nella galattosemia classica, nei primi giorni di vita, si manifestano diarrea, vomito, diminuzione di peso, ittero progressivo, epatomegalia fino a cirrosi, ascite, anasarca, morte. Se il decorso si prolunga compaiono generalmente cataratta bilaterale, a volte nucleare, e cecità. Gravemente compromesso è lo sviluppo psichico. La variante Duarte è asintomatica anche nello stato omozigote; si riscontrano solamente alti livelli plasmatici di galattosio-1-fosfato. Nella forma con deficit di galatto-chinasi si hanno solo lesioni del cristallino, per accumulo di galattitolo. Il difetto dell’epimerasi è limitato agli eritrociti con aumento di galattosio-1-fosfato eritrocitario ed è asintomatico. La diagnosi è basata sulla presenza di galattosio nelle urine del lattante, aumento della galattosemia, ipoglicemia, ipokaliemia, proteinuria ed aminoaciduria di origine tubulare. La diagnosi certa si basa sull’identificazione del difetto enzimatico direttamente nel sangue del cordone ombelicale o prenatale mediante amniocentesi. La terapia è basata sull’impiego di una dieta priva di galattosio.
Glicosuria renale È una malattia a trasmissione ereditaria autosomica, caratterizzata dal reperto urinario di glucosio pur con glicemie normali e carico orale di glucosio normale.
Negli omozigoti la glicosuria è molto evidente e, in casi estremi, può provocare poliuria e disidratazione. Alcuni eterozigoti presentano una glicosuria modesta, talora solamente in relazione con gli aumenti fisiologici della glicemia. Normalmente il glucosio passa liberamente nel filtrato glomerulare ed è generalmente riassorbito completamente attraverso il tubulo prossimale. Nella glicosuria renale è alterato il riassorbimento di glucosio per cause non del tutto chiare. La glicosuria dipende da un’anomalia funzionale del nefrone prossimale per alterazioni anatomiche ed istologiche (ectasia dei tubuli prossimali con epitelio appiattito, alterazioni mitocondriali, ispessimento della membrana basale, comparsa di corpi densi e di aggregati di membrane lisce nel citoplasma cellulare), ed è tanto più elevata quanto più sono diffuse le alterazioni strutturali. Esistono due varianti della malattia, un tipo A nel quale è ridotto il Tm di assorbimento del glucosio, e un tipo B nel quale, pur essendo normale il Tm del glucosio, è ridotta la soglia renale di questa sostanza. L’alterazione del trasporto tubulare sembra essere limitata al glucosio; normali sono la velocità di filtrazione glomerulare ed il riassorbimento di fosfati ed aminoacidi. La malattia compare generalmente in giovane età ed anche in numerosi individui della stessa famiglia, e spesso è scoperta per caso.
DISORDINI DEL METABOLISMO DEI LIPIDI Delle iperlipoproteinemie abbiamo già parlato nel capitolo 3 in relazione al problema dell’aterosclerosi. Qui consideriamo un gruppo di alterazioni del metabolismo lipidico che fa parte del più vasto gruppo delle malattie da accumulo lisosomiale. A causa del difetto congenito di uno degli enzimi lisosomiali si può avere accumulo in questi organuli cellulari di macromolecole di origine endogena o esogena il cui processo digestivo è alterato o rallentato. Si tratta di un gruppo di malattie molto eterogenee non solo per la varietà delle sostanze che possono essere accumulate, ma anche per la diversa entità di uno stesso deficit enzimatico da un individuo all’altro, che si riflette in variazioni notevoli della gravità. Un esempio di malattia da accumulo lisosomiale è la glicogenosi di tipo II di cui abbiamo parlato in questo
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MALATTIE DEL RICAMBIO
stesso capitolo. Altre malattie dello stesso gruppo comportano l’accumulo di lipidi (lipidosi), di mucopolisaccaridi, di mucolipidi, di glicoproteine e di altre sostanze. Caratteristiche comuni delle malattie da accumulo lisosomiale sono alterazioni neurologiche a decorso progressivo, epatosplenomegalia e lesioni scheletriche.
Lipidosi Con il termine lipidosi si indica un gruppo di malattie caratterizzate da accumulo di lipidi nei tessuti, per difetti enzimatici a livello lisosomiale trasmessi geneti-
camente con carattere autosomico recessivo. I tessuti più frequentemente colpiti sono quelli a cellule più ricche di lipidi, come il sistema nervoso centrale e il sistema reticolo-endoteliale (SRE), con conseguente sintomatologia neurologica, epatosplenomegalia, e presenza di cellule schiumose nel midollo. Uno stesso difetto enzimatico, che può essere completo o parziale, può manifestare un diverso quadro clinico, in termini di gravità, poiché l’accumulo di lipidi sarà tanto maggiore quanto più lungo è il ciclo vitale della cellula e quanto più elevata la quantità del lipide sintetizzato. Caratteristiche cliniche comuni delle lipidosi sono: a) insorgenza precoce (dai primi mesi di vita a 6 anni, raramente
Tabella 65.2 - Classificazione delle lipidosi. NOME Sfingolipidosi • Galattosilceramidosi – M. di Krabbe – M. di Fabry – Leucodistrofia metacromatica (3 tipi) • Glicosilceramidosi – M. di Gaucher (3 tipi)
Gangliosidosi • GM2 – Tipo I (m. di Tay-Sachs) – Tipo II (m. di Sandhoff) – Tipo III (m. di BerheimmerSietelberger) • GM1 – Tipo I (m. di Norman-Landing) – Tipo II (m. di Derry) Sfingomielinosi • M. di Niemann-Pick Ceramidosi • M. di Faber Lipidosi miste • Fucosidosi • Mannosidosi • Solfatidasi multiple (m. di Austin) • Mucolipidosi I • Mucolipidosi II-III-IV Tesaurismosi colesteroliche • M. di Wolmann • CESD (m. di Fredrikson) • Xantomatosi cerebrotendinee Tesaurismosi da acidi grassi • M. di Rebsum
ACCUMULO
DIFETTI ENZIMATICI
ZONA INTERESSATA
Galattocerebroside Ceramidotriesoside
-galattosidasi -galattosidasi
Solfatide
Arisulfatasi A
Glicocerebroside
-glicosidasi
Fegato, milza, midollo osseo (forma cronica) SNC (forma acuta) SNC (forma giovanile)
Ganglioside GM2 Globoside + ganglioside GM2 Ganglioside GM2
-esosaminidasi A -esosaminidasi A e B
Gangli del SNC e SNV, retina Gangli del SNC e SNV, retina
-esosaminidasi A
Gangli del SNC e SNV, retina
Ganglioside GM1
-galattosidasi
Gangli del SNC e SNV, retina Gangli del SNC e SNV, retina
Sfingomielina
Sfingomielinasi
Generalizzata
Ceramide
Ceramidasi acida
Sottocutaneo, polmoni, SNC
Mucopeptidi, fucolipidi, oligosaccaridi Glicoproteine + mannoso Solfatide + mucopolisaccaridi Mucopolisaccaridi Glicolipidi
-L-fucosidasi
Cuore, muscoli scheletrici
-L-mannosidasi Arilsolfatasi A-B-C
Cuore, muscoli scheletrici Cuore, muscoli scheletrici
Neuraminidasi ?
Cuore, muscoli scheletrici Cuore, muscoli scheletrici
Esterasi acida
Cuore, muscoli scheletrici
Idrolasi degli esteri colesterinici ?
Fegato, milza, intestino, linfonodi Cervelletto, SNC, SNV
Idrolasi dell’acido fitanico
SNP, retina, muscoli, ossa, cute (ittiosi)
Esteri del colesterolotrigliceridi Esteri del colesterolo Colestenolo e colesterolo Acido fitanico
Sostanza bianca del SNC, muscoli lisci, endoteli, rene, cornea Gangli del SNV, mielina, rene
SNC = sistema nervoso centrale; SNP = sistema nervoso periferico; SNV = sistema nervoso vegetativo; CESD = Colesteroid Esters Storage Disease.
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65 - PRINCIPALI DIFETTI CONGENITI DEL METABOLISMO
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nell’età adulta); b) la sintomatologia è dominante a carico dell’organo o tessuto in cui è maggiore il turn-over del lipide su cui agirebbe l’enzima carente; c) evoluzione progressiva, sempre totale; d) diversità di esordio ed evoluzione per uno stesso deficit enzimatico. La diagnosi si pone mediante il dosaggio in laboratori specializzati delle idrolasi lisomiali nel plasma, nei leucociti e nei fibroblasti, e mediante biopsia degli organi interessati. La prevenzione di queste malattie è basata sull’identificazione degli eterozigoti. Non esiste terapia per queste malattie. Presentiamo qui alcuni cenni sulle lipidosi più frequenti (Tab. 65.2).
strinopenia. Radiologicamente si evidenziano infiltrazioni miliariformi polmonari e demineralizzazione ossea. La diagnosi si pone mediante il riscontro di cellule schiumose a livello midollare e con biopsia rettale (lesioni delle cellule gangliari del plesso mioenterico). Inoltre, a livello dei tessuti colpiti, sempre tramite biopsia, si evidenziano le alterazioni lipidiche caratteristiche (accumulo di sfingomielina).
A. Malattia di Gaucher. Questa malattia è caratterizzata da accumulo di cerebrosidi nelle cellule del SRE, per deficit di un enzima idrossilasico che scinde i glicocerebrosidi (glicosil-ceramidasi). Nei bambini le lesioni neurologiche portano rapidamente a morte. La malattia può manifestarsi a qualsiasi età ed in ambo i sessi. È alta la percentuale nelle famiglie ebree. È sconosciuta la modalità di trasmissione ereditaria. Caratteristica istologica è la presenza delle cellule di Gaucher, che si trovano nella milza, nel midollo osseo, nel fegato, nei linfonodi, e possono anche interessare polmoni, reni, tonsille, timo, tiroide, surreni, tessuto linfoide intestinale. Nel midollo osseo possono provocare aree di osteolisi, visibili radiologicamente. La semeiotica è caratterizzata da splenomegalia e deficit neurologici (paralisi extraoculari, retroflessione della testa). La morte sopravviene entro i primi 2-3 anni. La progressione è più lenta quando il morbo insorge dopo i primi 6 mesi di vita. Non vi è allora sintomatologia neurologica, ma si riscontrano epatosplenomegalia, dolori ossei per interessamento midollare, fratture patologiche e lesioni radiologiche tipiche (area radiotrasparente nell’estremità inferiore del femore a forma di fiasco), tendenza all’emorragia per tombocitopenia, pinguecole giallo-brune sulle congiuntive e sulla pelle. Anemia, leucopenia, aumento della fosfatasi acida sono i comuni dati di laboratorio. La diagnosi si pone sul puntato sternale o sulla biopsia splenica (cellule di Gaucher ed accumulo di lipidi). La terapia è basata sull’impiego di splenectomia, steroidi, radioterapia.
Una piccola quantità di aminoacidi liberi è presente nelle cellule e nei liquidi biologici. Queste sostanze sono importanti non solo come elementi costitutivi delle proteine, ma anche come precursori di neurotrasmettitori e di ormoni (per es., catecolamine da fenilalanina e tirosina). Normalmente l’escrezione urinaria di aminoacidi è molto scarsa: quando l’escrezione avviene a livelli decisamente più elevati si parla di aminoacidurie patologiche. Le aminoacidurie patologiche possono essere dovute a due possibili cause:
B. Malattia di Niemann-Pick. Consiste in un accumulo generalizzato di sfingomielina e colesterolo nel SRE, per alterato metabolismo della sfingomielina. Più frequente negli ebrei, si trasmette come carattere autosomico recessivo. Caratteristica istologica sono le cellule schiumose nei tessuti interessati. Il quadro clinico si manifesta nei neonati con denutrizione, epatosplenomegalia, linfoadenopatia generalizzata, infiltrazione polmonare, xantomatosi e pigmentazioni cutanee. Ritardato è lo sviluppo somatopsichico. La compromissione neurologica giunge fino al completo stato vegetativo prima dell’exitus. Si possono avere alterazioni del visus per interessamento retinico (caratteristica è la macchia rosso ciliegia a livello della macula all’esame oftalmoscopico). Si possono avere anemia e lieve pia-
DISORDINI DEL METABOLISMO DEGLI AMINOACIDI
• difetto dell’attività di un enzima che agisce nella conversione metabolica di un aminoacido: queste sono dette aminoacidurie metaboliche; • difettoso trasporto degli aminoacidi attraverso le membrane cellulari, e quindi anche attraverso quelle dei tubuli renali: in questo caso l’aminoaciduria avviene per mancato riassorbimento a livello dei tubuli prossimali: queste forme sono definite aminoacidurie renali. Un caso particolare è rappresentato dalla cistinosi, nella quale si ha un deposito di cistina in varie cellule, comprese quelle dei tubuli renali; l’aminoaciduria, interessante vari aminoacidi, è secondaria all’alterata funzione tubulare. Le aminoacidurie comportano importanti conseguenze patologiche che derivano da tre fattori: • accumulo del substrato dell’enzima carente e/o di alcuni dei suoi sottoprodotti nell’organismo (questo vale solo per le aminoacidurie metaboliche); • assenza o ridotta disponibilità di costituenti metabolici essenziali, o perché questi sono il prodotto della reazione dell’enzima carente, o perché è alterato il loro trasporto attraverso le membrane cellulari; • precipitazione nelle urine di aminoacidi poco solubili e calcolosi urinaria. È da rilevare che l’accumulo di aminoacidi nell’organismo può avere conseguenze diverse a seconda che prevalga la deposizione in vari tessuti della sostanza in questione (è il caso dell’alcaptonuria e della cistinosi), o che, pur mancando una deposizione evidente, si mettano in atto interferenze complesse con processi metabolici essenziali (è il caso delle iperfenilalaninemie). Nel testo che segue faremo un breve riferimento ad alcune forme più importanti di aminoacidurie patologi-
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MALATTIE DEL RICAMBIO
Tabella 65.3 - Aminoacidurie metaboliche. MALATTIA
CLINICA
ANOMALIE BIOCHIMICHE
Fenilchetonuria
Ritardo mentale, convulsioni, eczema, pigmentazione cutanea difettosa
Dieta carente di fenilalanina
Fenilalanina-idrossilasi
Dello sciroppo d’acero 1 - grave
Ipertono, convulsioni, vomito, ritardo mentale, odore dolce delle urine
Dieta carente di acidi a catena ramificata, a partire dalla nascita
Decarbossilasi di acidi a catena ramificata
2 - intermedia
Simile a 1, meno grave in concomitanza di infezioni o traumi Ritardo mentale
> fenilalaninemia > nelle urine di fenilalanina, ac. fenilpiruvico, fenillattico, fenilacetico, OH-fenilacetico > valina, leucina, isoleucina, alloisoleucina plasmatici; acidosi metabolica. Chetoaciduria elevata Chetoaciduria durante la crisi
Ipervalinemia e ipervalinuria
Dieta priva di valina
ac. isovalerico plasmatico, chetosi, leucinuria Ipertirosinemia, aa uria generalizzata > triptofanemia
Dieta
Ipervalinemia Isovalericoacidemia Tirosinosi Ipertriptofanemia Iperlisinemia
Intolleranza congenita alla leucina Citrullinemia Argininsuccinuria
Iperornitinemia
Istidinemia
Iperprolinemia tipo 1
Ritardo mentale Cirrosi epatica, nefropatia, debilità mentale Ritardo mentale, atassia, bassa statura, fotosensibilità Ritardo mentale, convulsioni, ipotonia muscolare e dei legamenti Ritardo mentale
Ritardo mentale, epatopatia Ritardo mentale, atassia, tricoressi nodosa (fragilità dei capelli) Ritardo mentale, atassia intermittente, spasmi muscolari Ritardo mentale modesto, difficoltà di linguaggio
Carnosinemia
Ritardo mentale, convulsioni, possibili sordità e nefropatia Ritardo mentale, convulsioni Ritardo mentale, mioclonie
Sarcosinemia
Ritardo mentale
Cistationuria
Ritardo mentale, acidosi, trombocitopenia Ritardo mentale, lussazione del cristallino, sindrome tipo Marfan, vasculopatia, trombocitopenia, convulsioni, osteoporosi, steatosi epatica Ritardo mentale, vomito, neutropenia, osteoporosi Ritardo mentale
tipo 2
Omocistinuria
Iperglicinemia 1 - grave 2 - lieve
Iper--alaninemia Sonnolenza, torpore
Cistinosi
Nefropatia, acidosi cronica, rachitismo, poliuria, diabete renale, proteinuria
TERAPIA
ENZIMA CARENTE
Idem, ma difetto parziale
> lisinemia, lisinuria, ornitinuria, ac. paraminobutirrico, etanolamina > lisinemia, lisinuria > argininemia, argininuria > ammoniemia > citrullinemia, citrullinuria, > ammoniemia > ac. argininsuccinico plasma e urine, > ammoniemia
Dieta ipoproteica
-chetoisovalerico transaminasi Isovaleril-CoA-deidrogenasi p-OH-fenilpiruvicoossidasi Triptofan-pirrolidasi (?) Sconosciuto
Dieta
Lisina-deidrogenasi
Dieta Dieta ipoproteica
Arginin-succinicosintetasi Arginin-succinasi
> ornitinemia, > omocitrullinuria
Dieta
Sconosciuto
> istidinemia; nelle urine: istidina, alanina, acido imidazolpiruvico, imidazolacetico, imidazollattico. Deficit escretorio di ac. urocanico dopo carico di istidina > prolinemia e prolinuria, OH-prolinuria e glicinuria
?
Istidasi
?
Prolin-ossidasi
Come sopra + -prolin-5-carbossilaturia > carnosinemia e carnosinuria > sarcosinemia e fosfoetanolaminemia
?
-prolin-5-carbossico-deidrogenasi Carnosinasi (?)
> cistationemia e cistationuria > omocistinemia e omocistinuria
Vitamina B6 ad alte dosi Dieta priva di metionina
> glicinemia e glicinuria
Dieta
?
Come sopra + chetonuria e iperossaluria > nel sangue -alanina e GABA; nelle urine GABA, -alanina, taurina, acido -aminoisobutirrico > cistina generalizzata
? ?
Glicinossidasi (?)
Nicotinamide (?)
? ?
?
Sarcosin-deidrogenasi Cistationinasi Cistation-sintetasi
-alanin-transaminasi (?) ?
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65 - PRINCIPALI DIFETTI CONGENITI DEL METABOLISMO
Tabella 65.4 - Aminoacidurie renali. MALATTIA Hartnup
Cistinuria (tipo I-II-III)
Glicinuria Sindrome di Lowe (oculo-cerebro-renale), nanismi renali Poliuria grave (sindrome di Joseph)
CLINICA
LABORATORIO
Ritardo mentale, psicosi, > eliminazione urinaria atassia cerebellare, le- di acidi monoaminocarsioni pellagriformi bossilici. Alterato riassorbimento enterico di triptofano e acidi neutri Calcolosi renale, nefro- > nelle urine cistina, lisipatia tubulare na, arginina, ornitina. Tipo I: malassorbimento di cistina, lisina, arginina, ornitina; tipo II: malassorbimento di acidi dibasici; tipo III: normale assorbimento intestinale Asintomatica o calcolosi > glicinuria renale Ritardo mentale, ipoto- a-aciduria generalizzania, glaucoma, catarat- ta, proteinuria, acidosi ta, insufficienza renale metabolica, deficit del trasporto intestinale di lisina e arginina Crisi convulsive, cerebro- > prolinuria, glicinuria, patia > idrossiprolinuria
che, rimandando per una trattazione meno sommaria ai testi specialistici. Un elenco di alcune di queste forme morbose è riportato nelle tabelle 65.3 e 65.4.
Alcaptonuria È una malattia trasmessa con carattere autosomico recessivo, a carico del metabolismo della fenilalanina e tirosina che porta all’accumulo di acido omogentisinico. La caratteristica clinica è rappresentata da ocronosi (pigmentazione giallastra delle cartilagini), artrite, urine scure. Il blocco metabolico che porta all’accumulo di acido omogentisinico, metabolita di fenilalanina e tirosina, è dovuto alla carenza dell’enzima acido omogentisinico-ossidasi, che trasforma l’acido omogentisinico in acido maleilacetico, che a sua volta si trasforma in acido fumarico e acido acetoacetico. Il difetto enzimatico è a livello epatico e renale. A. Clinica. La malattia è caratterizzata da urine scure dopo alcune ore dall’emissione, per l’aumentata escrezione di acido omogentisinico; si verifica inoltre ocronosi, accumulo di pigmenti a livello di numerosi tessuti, di colore grigio o bluastro all’osservazione diretta, giallo ocra al microscopio. I tessuti più colpiti sono le sclere, i padiglioni auricolari e i tendini della mano. Depositi di pigmenti si ritrovano nelle cartilagini della trachea, laringe, bronchi, intima delle arterie ed endocardio. Con il passare del tempo si manifesta una artrite: frequente nei soggetti anziani, colpisce le grandi articolazioni e la colonna. È più frequente negli uomini che nelle donne. Si possono avere complicanze cardiovascolari, rotture di dischi intervertebrali, prostatiti, calcolosi renale.
EREDITÀ
TERAPIA
Autosomica recessiva
Acido nicotinico (scarsamente efficace)
Autosomica recessiva
Indurre poliuria e alcalinizzazione delle urine. Dieta priva di metionina, penicillamina
?
?
Recessiva legata al sesso
?
?
?
Cistinosi È una malattia ereditaria a trasmissione autosomica recessiva, a patogenesi sconosciuta, caratterizzata da depositi generalizzati di cistina. In un terzo dei casi la malattia colpisce più di un bambino in una stessa famiglia; in un sesto dei casi esiste consanguineità dei genitori. La frequenza è di 1:400.000. Cristalli di cistina si depositano principalmente a livello del tubo digerente, occhi, fegato, milza, linfonodi, rene. Clinicamente già nel primo anno di vita si manifesta nefropatia con predominante insufficienza tubulare: si manifestano poliuria, polidipsia, ipo e ipertermia, vomito, accrescimento ritardato, fotofobia (per depositi di cistina a livello corneale), epatomegalia, rachitismo e deformazioni ossee con fratture patologiche. A carico del rene è palese un danno tubulare evidenziato da iperaminoaciduria (glicina, isoleucina, alanina, lisina, arginina, prolina), acidosi ipercloremica, ipokaliemia con iperkaliuria, ipofosfatemia. La patogenesi sembra dovuta al deficit di attività della cistino-reduttasi (cistina-cisteina) sommato ad un difetto di eliminazione della cistina da parte delle membrane lisosomiali. La diagnosi si pone con il dosaggio della cistina nei leucociti e nei fibroblasti in coltura. Strettamente collegata alla cistinosi (alcuni Autori ritengono che sia la stessa malattia) è la sindrome di Fanconi-De Toni-Debré, il cui quadro clinico, anatomopatologico e biochimico è molto simile a quello della cistinosi. La forma infantile è caratterizzata da anoressia, poliuria e blocco dell’accrescimento. Possono manifestarsi gravi crisi di acidosi, con febbre e disidratazione, epatomegalia, ipotonia e ipotrofia muscolare, rachitismo, fratture patologiche e osteomalacia. Nella forma dell’adulto la sintomatologia è silente fino a 20-30 anni. Inizialmente si manifestano gravi dolori al rachide ed alle spalle. Talora si hanno fratture patologiche multiple. Il quadro
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MALATTIE DEL RICAMBIO
urinario ed ematochimico è sovrapponibile nelle due forme: iperfosfaturia, ipofosforemia, ipercalciuria, acidosi ipercloremica, aumentata escrezione di bicarbonati, iperkaliuria, ipokaliemia, glicosuria, aminoaciduria generalizzata che interessa oltre 10 aminoacidi probabilmente per un abbassamento della soglia renale.
Fenilchetonuria È una malattia congenita trasmessa con modalità autosomica recessiva, caratterizzata da aumentata escrezione urinaria di fenilchetoni (acido fenilpiruvico, fenillattico, fenilacetico) e diminuzione della tirosinemia. A. Classificazione. La fenilchetonuria è classificata nelle seguenti varianti. • Classica, dovuta a deficit di fenilalanina-idrossilasi cui conseguono aumentata fenilalaninemia e diminuita tirosinemia. • Lieve, da deficit enzimatico sconosciuto. • Transitoria, dovuta a deficit parziale di fenilalaninaidrossilasi. • Nuova variante, dovuta a deficit di diidropteridinoreduttasi, con blocco della sintesi della serotonina. • Iperfenilalaninemia, dovuta a difetto parziale di fenilalanina-idrossilasi. • Iperfenilalaninemia neonatale, dovuta a carenza di paraidrossifenilpiruvato-chinasi. B. Clinica. I primi sintomi si manifestano verso il 10°-12° mese di vita: si osserva ritardo nel parlare e nell’assumere l’ortostatismo. Si può avere microcefalia. Generalmente i soggetti colpiti sono biondi, hanno occhi azzurri, cute chiara, spesso eczematosa. Molto frequenti sono le anomalie elettroencefalografiche e nel 25% dei casi è presente epilessia. Se non trattati i pazienti sono agitati, violenti, ipercinetici. Il QI non supera 40 e l’età media di sopravvivenza è intorno a 25 anni. C. Patogenesi. È sconosciuta ed ancora allo studio è la spiegazione del danno neurologico. Recentemente è stato posto l’accento sull’esistenza di un disturbo della sintesi della serotonina, per deficit della diidropteridino-reduttasi con conseguente blocco della sintesi dell’ormone. Le alterazioni cutanee e degli annessi vengono più chiaramente spiegate dall’inibizione competitiva della fenilalanina sulla reazione tirosina → DOPA → melanina. La diagnosi si basa sulla dimostrazione di un’aumentata escrezione urinaria di fenilalanina. La fenilalaninemia supera 100 mmol/l, la tirosinemia è normale o bassa. È aumentato il rapporto fenilalanina/tirosina.
Omocistinuria È un errore congenito nel metabolismo della metionina dovuto a: • deficit di cistationina-sintetasi; • deficit di 5-metil-tetraidrofolato-metil-transferasi; • deficit di 5-10-metil-entetraidrofolato-reduttasi.
Nell’omocistinuria da deficit di cistationina-sintetasi il quadro clinico è simile alla sindrome di Marfan: lussazione del cristallino, degenerazione e distacco di retina, uveite, glaucoma, ginocchio valgo, petto carenato ed escavato, cifoscoliosi, osteoporosi. Lo sviluppo psicosomatico è ritardato, frequenti sono gli episodi tromboembolici arteriosi e venosi. Nelle urine si riscontra aumentata escrezione di omocisteina e nel plasma aumentata metioninemia. La trasmissione ereditaria è autosomica recessiva. Nella forma da difetto di 5-metil-tetraidrofolatometil-transferasi – più rara – si hanno vomito, chetoacidosi, ritardato sviluppo somatopsichico, letargia, convulsioni, porpora per trombocitopenia. Nella forma da deficit di 5-10-metil-entetraidrofolato-reduttasi prevalgono l’ipotonia muscolare, le alterazioni dell’EEG e il ritardo mentale.
Malattia dello sciroppo d’acero In questa malattia le urine e il sudore dei soggetti colpiti presentano odore caramelloso caratteristico. È un disordine genetico del metabolismo degli aminoacidi ramificati e dei loro corrispondenti chetoacidi. È assente o notevolmente ridotta a livello cerebrale e dei leucociti l’attività di tre chetoacido-ossidasi, enzimi che intervengono nel metabolismo di leucina, isoleucina, valina. La trasmissione ereditaria è autosomica recessiva. Il blocco metabolico di leucina, isoleucina e valina comporta l’accumulo nel sangue e l’aumentata escrezione urinaria dei loro chetoacidi (-cheto-isocaproico, -cheto--metilvalerico, -cheto-isovalerico). La patogenesi del danno neurologico è sconosciuta. Clinica: a pochi giorni dalla nascita si verificano un progressivo deterioramento mentale, letargia, anoressia, ipertonia e flaccidità muscolare, convulsioni, exitus in poche settimane. La terapia è difficoltosa, basata su una dieta priva di leucina, isoleucina, valina.
Cistinuria È una malattia dovuta al difettoso trasporto della cistina ed altri aminoacidi nel rene ed intestino, con conseguente eliminazione urinaria abnorme di cistina, lisina, arginina, ornitina, 1-cisteina, 1-omocisteina. L’eliminazione urinaria eccessiva di cistina comporta la formazione di cristalli e quindi di calcoli. Geneticamente si distinguono tre forme di cistinuria: • pazienti omozigoti per un gene completamente recessivo; è assente il trasporto intestinale di cistina, ornitina, lisina, arginina; gli eterozigoti sono normali; • il gene è incompletamente recessivo; gli omozigoti presentano alterazioni renali come nella prima forma, il trasporto intestinale di membrana è normale; gli eterozigoti eliminano con le urine cistina, lisina, non arginina e ornitina; • il gene è incompletamente recessivo: negli omozigoti il quadro clinico è simile alle prime due forme; gli eterozigoti presentano modeste escrezioni urinarie di cistina e lisina, raramente si formano calcoli.
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65 - PRINCIPALI DIFETTI CONGENITI DEL METABOLISMO
Già nei primi anni di vita si riscontrano calcoli renali di cistina. La diagnosi si pone sul reperto urinario. La dieta senza gli aminoacidi interessati è di difficile attuazione.
PORFIRIE Con il termine porfirie si indica un gruppo di condizioni morbose derivanti da un difetto della sintesi della struttura porfirinica dell’eme. Nella quasi totalità dei casi le porfirie sono difetti congeniti del metabolismo, per insufficiente attività, geneticamente determinata, di uno degli enzimi che agiscono nella via biosintetica delle porfirine. Esistono, tuttavia, rari casi (intossicazioni, neoplasie epatiche) nei quali una particolare forma di porfiria (porfiria cutanea tarda) può essere acquisita. La prevalenza delle porfirie è molto variabile da una forma all’altra e da una zona geografica all’altra. Nel complesso si tratta di malattie poco frequenti (alcune, come la porfiria eritropoietica, addirittura rarissime) che però, in zone particolari, possono raggiungere una frequenza importante. È il caso, per esempio, della porfiria variegata, che è diffusa tra la popolazione bianca dell’Africa meridionale.
Classificazione e patogenesi La patogenesi delle porfirie è collegata all’accumulo di prodotti intermedi della biosintesi delle porfirine o di loro derivati. Le porfirine, come è noto, sono composti tetrapirrolici che svolgono funzioni biologiche fondamentali quando sono legati con particolari metalli. L’eme, composto ferroso della protoporfirina IX, serve come gruppo prostetico di proteine come l’emoglobina, i citocromi mitocondriali e microsomiali, le catalasi, la triptofano-ossigenasi ed altri. Le porfirine sono indicate con numeri d’ordine che differiscono a seconda delle catene laterali attaccate alla struttura tetrapirrolica. Nell’uomo, le tappe biosintetiche che portano alla sintesi della protoporfirina IX coinvolgono le porfirine della serie I e III. In realtà, i veri precursori sono le forme ridotte delle porfirine, o porfirinogeni, sostanze queste che sono incolori e non fluorescenti. Ciascun porfirinogeno ha però una notevole tendenza ad ossidarsi nella corrispondente porfirina, che invece è colorata e fluorescente. Uno schema della biosintesi dell’eme è riportato nella figura 65.3. Come si vede, il materiale di partenza è rappresentato dal succinil-coenzima A, derivato dal ciclo dell’acido citrico, e dalla glicina. La sintesi inizia dal composto intermedio acido -aminolevulinico (ALA) e dal derivato monopirrolico porfobilinogeno (PGB) e procede attraverso l’idrossimetilbilano, l’uroporfirinogeno III, il coproporfirinogeno III, il protoporfirinogeno IX e la protoporfirina IX. Quest’ultima, grazie all’aggiunta di
un atomo di ferro bivalente, viene convertita in eme. Questa sequenza metabolica ha luogo in tutti i tessuti, ma principalmente nei precursori eritropoietici (e nei globuli rossi pienamente maturi che hanno perduto i mitocondri) e nel fegato, dove notevoli quantità di eme sono richieste per i citocromi microsomiali, che hanno un rapido ricambio. Tra gli enzimi, nella figura 65.3, che hanno un ruolo essenziale nella biosintesi dell’eme, un’importanza particolare ha l’ALA-sintetasi. Questo enzima, infatti, rappresenta il fattore limitante la quantità di eme che viene sintetizzata: quando l’ALA-sintetasi è più attiva viene prodotto più eme, quando è meno attiva ne viene prodotto di meno. L’attività dell’ALA-sintetasi è sottoposta a varie regolazioni: è inibita dall’eme, e questo processo di feed-back è fisiologicamente utile per regolare la quantità di eme che viene sintetizzata sulle necessità dell’organismo. L’attività dell’ALA-sintetasi viene invece indotta (e perciò incrementata) da vari farmaci liposolubili, ormoni steroidei e alcool, che hanno la proprietà di indurre gli enzimi microsomiali epatici. Questa induzione è priva di importanza in condizioni normali, ma, come si vedrà, può precipitare l’espressione clinica di varie forme di porfiria. La più diffusa classificazione delle porfirie le distingue in due gruppi, a seconda della sede nella quale si verifica l’errore della sintesi dell’eme: porfirie eritropoietiche e porfirie epatiche (oltre a una porfiria eritroepatica). Un’altra classificazione è basata sulle caratteristiche cliniche delle singole forme. (M) Inibizione
ALA-sintetasi ALA ALA-deidrasi PBG
Urop. I
Urop.geno I-sintetasi (*) Idrossi-metilbilano
Urop.geno I
Urop.geno-cosintetasi Urop.geno III
Urop. III
Urop.geno-decarbossilasi Coprop.geno III Coprop.geno-ossidasi
Coprop. III
(M) Protop.geno IX
Protop.geno-ossidasi
(M) Protop. IX
Ferro-chelatasi
(M) Eme
Figura 65.3 - Schema semplificato della biosintesi dell’eme. L’abbreviazione p. sta per porfirina (per es., Urop. I: uroporfirina 1), quella p.geno sta per porfirinogeno (per es., Urop.geno I: uroporfirinogeno I), la sigla ALA corrisponde all’acido -aminolevulinico, quella PBG al porfobilinogeno. Le tappe metaboliche indicate con la lettera (M) hanno luogo nei mitocondri, le altre nel citosol. (*) Detto anche idrossi-metilbilano-sintetasi o PB-deaminasi.
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I sintomi e i segni delle porfirie sono di due tipi. Nelle forme nelle quali si ha accumulo nell’organismo di ALA e di porfobilinogeno si hanno, con un meccanismo ancora imperfettamente noto, disturbi neurologici di vario tipo, interessanti il sistema nervoso centrale e i nervi periferici, compreso il sistema nervoso vegetativo. È probabilmente attribuibile a una neuropatia vegetativa ed al suo effetto sull’apparato gastroenterico la comparsa di una caratteristica sintomatologia dolorosa addominale che sarà descritta in seguito. Nelle forme nelle quali si ha un accumulo di composti intermedi che hanno già raggiunto la struttura tetrapirrolica si verificano caratteristiche alterazioni cutanee nelle zone esposte alla luce del sole (fotosensibilizzazione). Queste dipendono dal fatto che i vari tipi di porfirinogeno si ossidano a porfirine e queste ultime esercitano azioni fotodinamiche che danneggiano i tessuti in vario modo, per esempio determinando la perossidazione dei lipidi nelle membrane dei lisosomi. La classificazione clinica di questo gruppo di malattie distingue tra porfirie acute e porfirie croniche. Un elenco dei vari tipi di porfirie secondo questo criterio clinico è presentato nella tabella 65.5, dove sono anche riportati i deficit enzimatici implicati. Le porfirie acute sono dette così perché i loro sintomi e segni si verificano episodicamente a crisi (che però possono durare anche alcuni mesi) spesso indotte da fattori esogeni quali l’assunzione di alcool, di farmaci o di certi ormoni steroidei. Questo dipende dal fatto che l’espressione clinica delle porfirie acute dipende dalla attività dell’ALA-sintetasi. L’attività di questo enzima è aumentata in tutte le porfirie, a causa della ridotta formazione di eme e della minore inibizione a feed-back. Aumenti ulteriori possono però verificarsi episodicamente per fattori incidentali sovrapposti, tra i quali, come abbiamo visto, tutte le sostanze in grado di esercitare induzione sugli enzimi microsomiali epatici. È in corrispondenza di questi aumenti episodici di attività dell’ALA-sintetasi che si verificano i sintomi e i segni delle porfirie acute. Questi comprendono, in tutti i casi, i sintomi neurologici che Tabella 65.5 - Classificazione clinica delle porfirie. Porfirie acute • Porfiria acuta intermittente (epatica): – Deficit di uroporfirinogeno I-sintetasi • Coproporfiria ereditaria (epatica): – Deficit di coproporfirinogeno-ossidasi • Porfiria variegata (epatica): – Deficit di protoporfirinogeno-ossidasi o ferro-chelatasi – Deficit di ALA-deidrasi Porfirie croniche • Porfiria cutanea tarda (epatica): – Deficit di uroporfirinogeno-decarbossilasi • Porfiria eritropoietica congenita (eritropoietica): – Deficit di uroporfirinogeno-cosintetasi • Protoporfiria (eritroepatica): – Deficit di ferro-chelatasi – Anemia sideroblastica legata al cromosoma X (entropoietica)
MALATTIE DEL RICAMBIO
abbiamo descritto più sopra. E comprensibile che questi si verifichino nella porfiria acuta intermittente, nella quale il difetto riguarda l’uroporfirinogeno I-sintetasi. Il blocco metabolico comporta quindi un accumulo dei substrati che sono a monte di questo enzima: ALA e porfobilinogeno, che verranno formati in quantità tanto più abbondante quanto più elevata è l’attività della ALA-sintetasi. Meno chiaro è perché gli stessi sintomi neurologici si abbiano nella coproporfiria ereditaria e nella porfiria variegata, nelle quali il deficit enzimatico è a valle di composti che hanno già assunto la struttura tetrapirrolica. Una spiegazione che è stata data è che, in queste due porfirie, accanto al già menzionato aumento di attività dell’ALA-sintetasi, non si verifica nessun aumento di attività dell’enzima uroporfirinogeno I-sintetasi: le maggiori quantità di ALA e porfobilinogeno che vengono formate non verrebbero perciò smaltite con la velocità necessaria. Comunque, nella coproporfiria ereditaria e nella porfiria variegata si accumulano nell’organismo, come è da attendersi sulla base del difetto metabolico, anche molecole porfiriniche. Perciò in queste due malattie, a differenza che nella porfiria acuta intermittente, si manifestano anche fenomeni di fotosensibilizzazione. Le porfirie croniche non sono dipendenti dall’attività dell’ALA-sintetasi e perciò non sono influenzate dai fattori che stimolano questo enzima. Per questo motivo, quando si verificano, il loro decorso è cronico. Una spiegazione che è stata data a questo fatto è che, nelle porfirie croniche, oltre a quella dell’ALA-sintetasi, è incrementata (per motivi che non sono chiaramente spiegati) anche l’attività dell’uroporfirinogeno I-sintetasi. Le maggiori quantità di ALA e porfobilinogeno che vengono formate non possono perciò accumularsi, in quanto sono adeguatamente convertite in strutture tetrapirroliche. Si ha invece un accumulo di molecole porfiriniche nell’organismo e per questo motivo mancano le alterazioni neurologiche, mentre il quadro clinico è dominato dalle manifestazioni cutanee dovute a fotosensibilizzazione.
Porfirie acute A. Porfiria acuta intermittente. È una malattia trasmessa come carattere autosomico dominante, con una frequenza del gene compresa tra 1:10.000 e 1:50.000 (ma in zone particolari la frequenza può essere maggiore). Il deficit enzimatico riguarda l’enzima uroporfirinogeno I-sintetasi, chiamato anche idrossi-metilbilano-sintetasi o PBG deaminasi. La porfiria acuta intermittente inizia a manifestarsi in giovani adulti ed è più frequente nelle donne che negli uomini (rapporto 3:2). Le donne sono colpite dalle crisi più facilmente durante le mestruazioni o la gravidanza e la parte iniziale del puerperio. Questo dipende dalla capacità di alcuni ormoni steroidei di indurre l’enzima ALA-sintetasi, e gli steroidi sessuali sono prodotti in quantità più elevata nella vita adulta e in corrispondenza con particolari stati fisiologici nella donna. In più della metà dei casi di porfiria acuta intermittente la crisi è indotta da qualche fattore precipi-
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tante, quali un’infezione, il digiuno prolungato, l’introduzione di elevate quantità di alcool etilico e, soprattutto, l’assunzione di farmaci. Le liste dei farmaci in grado di scatenare le crisi di porfiria acuta intermittente comprendono varie decine di sostanze e qualsiasi composto liposolubile può essere considerato un possibile responsabile (Tab. 65.6). I farmaci più comunemente implicati sono però i barbiturici e la pillola antifecondativa. L’attacco solitamente esordisce con forti dolori al centro dell’addome, febbre, vomito ripetuto e grave, stipsi, più raramente diarrea. La palpazione dell’addome provoca dolore, ma non mette in evidenza difesa muscolare. Coesistono disturbi neurologici, sotto forma di parestesie e ipoestesia (quest’ultima più evidente alle spalle e alle anche), dolori crampiformi ai muscoli degli arti, accompagnati da rigidità e seguiti da compromissione motoria: questi disturbi sono simmetrici. La neuropatia vegetativa può manifestarsi anche con tachicardia, ipertensione arteriosa (più raramente ipotensione ortostatica), ritenzione urinaria. La compromissione del sistema nervoso centrale comporta spesso alterazioni psichiche di vario grado, che vanno dalla semplice depressione a veri e propri stati psicotici. Sono possibili anche crisi convulsive di tipo epilettico. Nel sangue è frequente una iponatriemia che viene attribuita ad inappropriata secrezione di ormone antidiuretico. Le urine sono per lo più di colore normale al momento dell’emissione, ma vanno ad assumere un colore bruno o rosso con il passare del tempo. Questo dipende dal fatto che l’ALA e il porfobilinogeno sono incolori, ma tendono a polimerizzarsi spontaneamente, nelle urine conservate, a composti tetrapirrolici colorati. Solo eccezionalmente il disordine metabolico è di entità tale da consentire la formazione in vivo di questi composti: in questi casi le urine vengono emesse già colorate. Le crisi acute della porfiria acuta intermittente durano da alcune settimane ad alcuni mesi e quindi si risolvono, anche se le paresi possono persistere molto più a lungo degli altri sintomi. Negli intervalli tra le crisi può esistere qualche disturbo psichico, sotto forma di irritabilità e instabilità emotiva. La diagnosi della porfiria acuta intermittente è un problema delicato perché sono molte altre le condizioni morbose che provocano dolori addominali. La malattia deve però essere sospettata quando la sintomatologia Tabella 65.6 - Principali farmaci pericolosi o sicuri nello scatenare le crisi delle porfirie acute. PERICOLOSI
SICURI
Barbiturici Sulfamidici Meprobamato Carbamazepina Acido valproico Pirazolonici Griseofulvina Derivati dell’ergotamina Estrogeni e progestinici sintetici Danazolo Alcool
Analgesici narcotici Acido acetilsalicilico Acetaminofene Fenotiazine Penicillina e derivati Streptomicina Glicocorticoidi Bromuri Insulina Atropina
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addominale si accompagna a disordini neurologici, soprattutto se questo si è verificato acutamente dopo assunzione di qualche farmaco. La diagnosi viene posta con precisione dimostrando un incremento dell’ALA e del porfobilinogeno nelle urine. Queste sostanze sono sempre in concentrazione elevata, ma raggiungono valori particolarmente alti durante gli attacchi. La concentrazione delle porfirine negli eritrociti risulta normale, dato che nei precursori eritropoietici la sintesi delle porfirine non è apparentemente menomata (in realtà, studi in vitro hanno dimostrato che l’attività della uroporfirinogeno I-sintetasi è diminuita anche negli eritrociti, nei fibroblasti e in altre cellule, ma in vivo questo difetto non è metabolicamente espresso). B. Coproporfiria ereditaria. È una malattia trasmessa come carattere autosomico dominante. Il deficit enzimatico riguarda l’enzima coproporfirinogeno-ossidasi. In realtà è molto rara, essendone stati descritti solo 100 casi circa. Il suo quadro clinico è molto simile a quello della porfiria acuta intermittente, implicando crisi di dolori addominali e disturbi neurologici. Tuttavia, in questa malattia si verificano anche lesioni cutanee di tipo bolloso sulle parti scoperte del corpo, simili a quelle della porfiria cutanea tarda (si veda in seguito). Le lesioni cutanee possono durare più a lungo dei disturbi addominali e neurologici e, in alcuni casi, possono anche manifestarsi isolatamente. L’escrezione urinaria di ALA, di porfobilinogeno e di coproporfirina è aumentata solo durante la crisi (a differenza della porfiria acuta intermittente, nella quale l’aumento si ha anche nell’intervallo tra le crisi). L’escrezione di coproporfirina (ma non di protoporfirina) è aumentata nelle urine e nelle feci (le porfirine nelle feci rispecchiano la quantità di queste sostanze che sono eliminate dal fegato attraverso la bile). Il contenuto di porfirine nei globuli rossi è normale. C. Porfiria variegata. È una malattia particolarmente comune nella popolazione bianca dell’Africa meridionale, dove la frequenza del gene (molto più elevata della frequenza della malattia) è stata stimata intorno a 1:400. Numerosi pazienti affetti da porfiria variegata sono stati riconosciuti discendenti di una donna emigrata a Città del Capo nel 1688. La malattia è trasmessa come carattere autosomico dominante. Il quadro clinico della porfiria variegata è molto simile a quello della coproporfiria ereditaria, tranne che per il fatto che le alterazioni cutanee non possono manifestarsi isolatamente e si verificano sempre assieme ai disturbi addominali e neurologici. L’escrezione urinaria di ALA, di porfobilinogeno e di coproporfirina è aumentata solo durante le crisi. Nelle feci si osserva un incremento della concentrazione di protoporfirina (e talora anche di coproporfirina). Il contenuto di porfirine nei globuli rossi è normale. D. Deficit di ALA-deidrasi. È una rara malattia trasmessa come carattere autosomico recessivo e dipendente dal deficit enzimatico indicato nel suo nome. È caratterizzato dall’escrezione urinaria di ALA e copro-
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porfirina, mentre, a differenza della porfiria acuta intermittente, manca l’escrezione di porfibilinogeno. E. Terapia delle porfirie acute. La terapia delle porfirie acute è basata su misure in grado di deprimere l’attività dell’ALA-sintetasi. Ciò può essere ottenuto con la somministrazione di elevate quantità di carboidrati per via orale, o, se impossibile a causa del vomito, per via parenterale attraverso un catetere inserito in una grossa vena. La quantità di carboidrati somministrata deve fornire circa 1500-2000 kcal ogni 24 ore. Un’altra sostanza in grado di deprimere l’attività della ALA-sintetasi è l’ematina, che può essere somministrata endovena. Sul piano biochimico gli effetti di questo trattamento sono significativi, ma sul piano clinico esso riesce efficace in circa la metà dei casi. Per quanto riguarda le manifestazioni cutanee della coproporfiria ereditaria e della porfiria variegata si veda quanto scritto a proposito delle porfirie croniche.
Porfirie croniche A. Porfiria cutanea tarda. È la più comune forma di porfiria ed è la sola che può essere sicuramente acquisita. Nel 1956, in Turchia, numerosi casi di questa malattia furono osservati in soggetti intossicati con grano contaminato da esaclorofene. Lo stesso effetto può essere provocato anche da altri idrocarburi polisostituiti con atomi di cloro (compresa la diossina) e da tumori epatici benigni e maligni. Nel passato esisteva l’idea che le forme acquisite fossero molto più numerose e si distingueva tra una porfiria cutanea tarda sintomatica (acquisita in corso di epatopatie) ed una porfiria cutanea tarda ereditaria. Oggi si pensa che tutte queste forme siano geneticamente determinate e trasmesse come carattere autosomico dominante con espressione variabile. Il difetto enzimatico riguarda l’urobilinogeno-decarbossilasi e può essere perfettamente tollerato, in quanto le elevate quantità di porfirine che si formano nel fegato sono escrete attraverso la bile e non passano nel sangue. Tuttavia, in presenza di un’alterazione funzionale del fegato, l’escrezione biliare di porfirine diminuisce ed aumenta la loro concentrazione nel sangue e nei tessuti, compresa la cute. Può così verificarsi la fotosensibilizzazione. Non tutte le epatopatie inducono l’espressione della porfiria cutanea tarda. Questo effetto è ottenuto particolarmente nell’epatopatia cronica etilica e in tutte le epatopatie croniche che si accompagnano ad aumento del ferro nell’organismo. Anche in presenza di alterazioni epatiche minime, l’incremento di ferro nell’organismo (per es., in pazienti con malattie ematologiche che richiedono ripetute emotrasfusioni) può indurre l’espressione della porfiria cutanea tarda. Per questa ragione la porfiria cutanea tarda esordisce di solito in soggetti di età matura (onde il nome della malattia). Le manifestazioni della malattia sono rappresentate, oltre che da quelle dell’epatopatia concomitante, da manifestazioni cutanee localizzate allo scalpo, alla faccia, al collo e alle superfici estensorie degli avambracci e delle mani. Queste lesioni, che sono intensamente pruriginose, consistono in chiazze eritematose cui si so-
vrappongono vescicole che si riuniscono a formare bolle. Il contenuto di queste può essere emorragico e si possono determinare escare cui residuano cicatrici. Si può avere ipertricosi sulle parti affette, con crescita di peli anche in zone che normalmente ne sono sprovviste, come la fronte e le regioni zigomatiche. Le urine possono essere rosa o brune. In questa malattia l’escrezione urinaria di ALA e di porfobilinogeno non è aumentata, mentre è molto notevole l’escrezione urinaria di uroporfirina. Le porfirine fecali non sono più concentrate del normale, per il motivo che è proprio la riduzione della loro escrezione biliare a determinare l’espressione clinica della malattia (ma le porfirine fecali possono aumentare dopo remissione indotta con una terapia efficace). Il contenuto di porfirine nei globuli rossi è normale. B. Porfiria eritropoietica congenita (malattia di Gunther). È una malattia rara (un centinaio i casi descritti) ereditata come carattere autosomico recessivo e presente perciò solo negli omozigoti; gli eterozigoti sono normali. Come si è anticipato, il difetto è a carico dell’uroporfirinogeno-cosintetasi e per questo motivo si ha la formazione di notevoli quantità di uroporfirinogeno I, che si trasforma in uroporfirina I e successivamente in coproporfirina I. In realtà, la formazione di uroporfirinogeno III, il prodotto di reazione dipendente dall’attività della uroporfirinogeno-cosintetasi, non è affatto diminuita, ma può essere addirittura un poco aumentata. Per questo motivo il difetto può essere considerato piuttosto come uno sbilanciamento dell’attività dei due enzimi, solitamente coordinati, uroporfirinogeno I-sintetasi (la cui attività si è visto che è aumentata in questa condizione) e uroporfirinogeno-cosintetasi. La malattia si rende palese solitamente nei primi anni di vita con manifestazioni cutanee nelle zone esposte al sole che sono dello stesso tipo di quelle descritte nella porfiria cutanea tarda, ma estremamente più gravi. Le lesioni comprendono eritema, edema, bolle confluenti, anche emorragiche, escare che divengono facilmente infettate e residuano estese cicatrici. Le deformazioni cicatriziali sono particolarmente importanti alle dita delle mani (dove le unghie sono spesso deformate), alla punta del naso e ai padiglioni auricolari. Si verifica anche una certa ipertricosi e le ciglia divengono spesse e lunghe. I denti appaiono colorati di rosso (eritrodonzia), una colorazione presente anche nelle ossa. Le urine sono di colore rosso. In alcuni pazienti esiste anche un’anemia normocitica con iperplasia eritroblastica midollare, che è dovuta ad eritropoiesi inefficace secondaria al disordine della sintesi delle porfirine nei precursori eritropoietici. L’escrezione urinaria di ALA e di porfobilinogeno è normale, mentre sono notevolmente aumentati i valori di uroporfirina (e, sia pure in misura minore, anche di coproporfirina) nei globuli rossi e nelle urine. Anche le porfirine fecali sono modestamente aumentate. C. Protoporfiria. È una malattia rara, autosomica dominante dovuta a difetto dell’attività della ferro-chelatasi tanto nei globuli rossi che nel fegato, cui consegue il cronico accumulo di protoporfirina IX nell’organismo.
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La malattia può esordire in qualsiasi età, ma più spesso nell’infanzia e in età giovanile, con manifestazioni cutanee nelle zone esposte al sole sensibilmente più lievi di quelle della porfiria eritropoietica congenita. Solitamente si hanno eritema ed edema, accompagnati da una sensazione di bruciore che talora è insopportabile, senza che si arrivi alla formazione di bolle e cicatrici. Con il tempo le lesioni cutanee assumono un aspetto eczematoso (eczema solare). In alcuni pazienti si sviluppa anche un’epatopatia cronica. Si pensa che questo dipenda dal cronico accumulo epatico di protoporfirina, che è epatotossica. Anche frequente è la calcolosi biliare e si è dimostrato che, in questi casi, i calcoli contengono protoporfirina. L’escrezione urinaria di ALA e porfobilinogeno è normale, mentre è notevolmente aumentata la concentrazione di protoporfirina nelle urine e nelle feci. D. Anemia sideroblastica legata al cromosoma X. È una malattia geneticamente determinata legata al cromosoma X ed è dipendente da un deficit dell’enzima ALA-sintetasi. Le sue caratteristiche cliniche sono descritte nel capitolo 44. E. Terapia delle porfirie croniche. La porfiria cutanea tarda può trarre notevole vantaggio dalla riduzione della quantità di ferro presente nell’organismo, grazie all’esecuzione di salassi. In questo modo si possono determinare un incremento dell’escrezione biliare di porfirine (la cui concentrazione aumenta nelle feci) e una remissione clinica che può durare molto a lungo. Le manifestazioni cutanee di tutte le porfirie croniche possono trarre vantaggio dalla somministrazione di piccole dosi di clorochina, che sembrano ridurre la formazione di uroporfirina (ma, nella porfiria cutanea tarda, sono stati descritti casi di necrosi epatica dopo questo trattamento). Anche la somministrazione orale di -carotene si è rivelata di qualche utilità. Per il resto, sembra essenziale l’applicazione sulle parti scoperte di creme per la protezione solare. APPENDICE Alterazioni del metabolismo delle porfirine concomitanti con altre malattie A. Intossicazione da piombo. Il piombo esercita effetti dannosi sulla biosintesi dell’eme, menomando in modo particolare l’attività di tre enzimi: l’ALA-deidrasi, la coproporfirinogeno-ossidasi e la ferro-chelatasi. Essendo diminuita la formazione dell’eme si ha un incremento della attività dell’ALA-sintetasi. L’alterazione si
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verifica tanto nei precursori eritroidi che nel fegato. Molte manifestazioni cliniche dell’intossicazione da piombo possono essere connesse con questo disordine della biosintesi dell’eme. I dolori addominali, la stipsi e la neuropatia periferica, che, come si è visto, si verificano anche nella porfiria acuta intermittente, possono essere almeno in parte dipendenti dall’accumulo di ALA. L’anemia può essere connessa con le alterazioni del metabolismo porfirinico che hanno luogo nei precursori eritroidi. Nell’intossicazione da piombo aumenta l’escrezione urinaria di ALA (ma non di porfobilinogeno) e di coproporfirina, ed è elevata la concentrazione di protoporfirina negli eritrociti. Quest’ultima determinazione, assieme alla valutazione dell’attività dell’ALA-deidrasi negli eritrociti (valutazione possibile perché questo non è un enzima mitocondriale), è il mezzo più sensibile per accertare un’intossicazione da piombo. B. Intossicazione da alcool. L’intossicazione da alcool etilico, sia acuta che cronica, deprime l’attività di vari enzimi impegnati nella biosintesi dell’eme e, in modo particolare, l’ALA-deidrasi e la ferro-chelatasi. L’attività della ALA-sintetasi è invece aumentata per riduzione dell’inibizione da feed-back. L’interferenza dell’intossicazione da alcool nel metabolismo delle porfirine provoca disturbi soprattutto in individui geneticamente predisposti. Così l’incremento dell’attività dell’ALA-sintetasi può essere importante nello scatenare gli attacchi della porfiria acuta intermittente. Allo stesso modo, la riduzione di attività dell’uroporfirinogeno-decarbossilasi può essere importante nell’espressione clinica della porfiria cutanea tarda. Tuttavia, l’intossicazione da alcool può avere importanza di per sé nel determinismo dell’anemia sideroclastica che può accompagnare questa malattia, una condizione dipendente dall’alterata sintesi dell’eme. C. Malatte ematologiche. L’alterazione della sintesi dell’eme è importante nelle anemie sideroblastiche (Cap. 44). Un accumulo di protoporfirina IX si verifica negli eritrociti di soggetti con anemia sideropenica. Questo dato può avere significato diagnostico in pazienti nei quali la sideremia sia stata normalizzata da una iniziale terapia con ferro. Nell’altro importante gruppo di anemie microcitiche, le talassemie, il contenuto di protoporfirina IX degli eritrociti è normale.
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ALTERAZIONI DEL METABOLISMO DELL’ACIDO URICO G.F. CIBODDO
IPERURICEMIA L’iperuricemia è un aumento dell’acido urico circolante che può essere determinato o da una maggiore produzione o da una ridotta eliminazione renale, o da entrambi i fattori. L’acido urico è una molecola relativamente poco solubile in soluzione acquosa e rappresenta il prodotto terminale del catabolismo delle purine nell’uomo, nei primati e nel cane dalmata. Le altre specie, infatti, posseggono un enzima, l’uricasi, capace di trasformare l’acido urico in allantoina, molecola enormemente più solubile. Il fatto che nell’uomo il catabolismo delle purine si arresti all’acido urico può essere considerato come un errore dell’evoluzione biologica che lo rende più predisposto all’iperuricemia ed alle sue complicanze (gotta, nefropatia uratica). Il limite di solubilità del sodio urato è di circa 6,4 mg/dl, una quota di 0,3-0,4 mg/dl può essere legata alle proteine plasmatiche, di modo che si può raggiungere un valore di circa 6,8 mg/dl. Dal punto di vista statistico i limiti superiori della norma sono compresi per l’uomo tra i 6,9 e i 7,5 mg/dl e per la donna tra i 5,7 e i 6,6 mg/dl. È comunque preferibile far riferimento ai valori fisico-chimici di solubilità a 37 °C e considerare anormale ogni uricemia al di sopra dei 7,0 mg/dl. A. Classificazione. Le iperuricemie possono essere classificate in diversi modi; più spesso differenziando le forme metaboliche da quelle renali (Tab. 66.1). Le prime sono dovute ad un aumento della sintesi dell’acido urico, le seconde ad un deficit della sua eliminazione. Un altro criterio di classificazione distingue le iperuricemie in primitive, secondarie e idiopatiche. Le forme primitive sono quelle in cui l’iperuricemia è il reperto principale della malattia: il difetto congenito alla base di tali forme è noto in alcuni casi, mentre in altri non lo è.
Tabella 66.1 - Classificazione delle iperuricemie. Da alterazione metabolica • Primitiva – Difetto non noto (forme idiopatiche) – Deficit enzimatici specifici – Aumento dell’attività di fosforibosilpirofosfato-sintetasi – Deficit parziale di ipoxantina-guanina fosforibosiltransferasi • Secondaria – Associata ad aumentata sintesi ex novo di purine – Deficit o assenza di glucosio-fosfatasi (glicogenosi tipo I) – Deficit completo di ipoxantina-guanina-fosforibosil-transferasi (sindrome di Lesch-Nyhan) – Aumentato ricambio degli acidi nucleici – Malattie mielo e linfoproliferative – Policitemie secondarie, anemia perniciosa – Emoglobinopatie ed altre malattie emolitiche – Mononucleosi infettiva – Carcinomi e altri tumori solidi, sarcoidosi, psoriasi – Chemio e radioterapie Da deficit di escrezione renale • Primitivo • Secondario – Insufficienza renale cronica – Rene policistico – Nefropatia da piombo – Terapia diuretica – Altri farmaci (acido acetilsalicilico a basse dosi, pirazinamide, acido nicotinico, etambutolo, etanolo) – Eccessiva escrezione di altri acidi organici (denutrizione, acidosi diabetica, alcolica, lattica, ecc.) – Endocrinopatie (ipotiroidismo, iper e ipoparatiroidismo, ecc.)
Le iperuricemie secondarie si sviluppano nel corso di altre malattie o come conseguenza dell’uso di farmaci. Infine le forme idiopatiche rappresentano casi in cui una più precisa classificazione non può essere effettuata.
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MALATTIE DEL RICAMBIO
Glucosio 1 Glucosio 6-P
6-P gluconato
NADP
2GSH
NADPH
GSSG
2
-chetoglutarato 4
Ribosio 5-P + ATP
Acido glutamico
NH3
NH3
3
Glutamina
P-ribosio-PP (PRPP)
5
6 5-P-ribosilamina Glicina Formiato Acido adenilico (AMP)
Acido inosinico (MP)
Acido guanilico (GMP)
Adenosina
Inosina
Guanosina
11
7
10
10 PRPP
8 Ipoxantina
Guanina
2,8 diossiadenina
9 Xantina 9 Acido urico Inibizione a feed-back Possibili sedi di alterazioni enzimatiche
Enzima Glucosio-6-fosfatasi
Alterazione in grado di determinare iperuricemia
*
Glutatione-reduttasi P-ribosio-PP-sintetasi
*
Glutammato-deidrogenasi Glutaminasi Amidofosforibosil-transferasi 5-nucleotidasi Purina nucleoside-fosforilasi Xantina-ossidasi Ipoxantina-guanina-fosforibosil-transferasi Adenina-fosforibosil-transferasi
Figura 66.1 - Biosintesi e catabolismo delle purine.
+PRPP
Adenina
* * Con ruolo clinico accertato.
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66 - ALTERAZIONI DEL METABOLISMO DELL’ACIDO URICO
B. Fisiopatologia. L’acido urico presente in circolo deriva in parte dall’assunzione di purine con la dieta ed in parte dalla biosintesi endogena. Si è visto che nei soggetti gottosi una dieta priva di purine può determinare una riduzione del livello di uricemia di 1-2 mg/dl, ma non può correggere del tutto l’iperuricemia. Appare invece preponderante il ruolo della sintesi endogena. L’eliminazione avviene per due vie: gastroenterica e renale. La quota eliminata a livello del tubo digerente rappresenta il 25-35% del totale ed è dovuta all’azione della flora batterica intestinale. Alcuni germi, infatti, possiedono l’enzima uricasi e sono quindi in grado di trasformare in allantoina l’acido urico presente nelle secrezioni gastrica, biliare, pancreatica e intestinale (circa 200-300 mg/die). Tale via di eliminazione non appare ridotta nell’iperuricemia, ma anzi può rappresentare la principale via di escrezione nei soggetti con un deficit dell’eliminazione renale. Quest’ultima è più importante e rappresenta il 6575% del totale nel soggetto sano. In valore assoluto è di circa 300-600 mg/die con una dieta priva di purine. Può arrivare a 800-1000 mg a dieta libera. Nei soggetti iperuricemici possiamo trovare valori più bassi se vi è un deficit di escrezione renale (soggetti iposecretori) o più alti quando la funzione renale è buona (ipersecretori). Per valutare il turn-over dell’acido urico sono state impiegate metodiche di tipo radioisotopico (acido urico marcato). Si è così calcolato che nell’individuo normale il cosiddetto “pool miscibile” dell’acido urico è di circa 1200 mg e il turn-over giornaliero è circa del 60%. Nei soggetti iperuricemici senza tofi sale a 2000-4000 mg e può arrivare a 20.000-30.000 mg nei gottosi con tofi. Bisogna però tener presente che in questi ultimi la maggior parte dell’acido urico è presente nei tofi e quindi non facilmente miscibile: può arrivare ad essere una quantità anche 300 volte superiore a quella miscibile (0,5-3,0 kg). 1. Sintesi e catabolismo delle purine. Le purine (adenina e guanina) vengono sintetizzate secondo una via che ha come primi precursori due molecole: il fosforibosilpirofosfato (P-ribosio-PP) e la glutamina (Fig. 66.1). Mediante l’azione di un enzima, l’amidofosforibosiltransferasi, si ha la formazione della 5-P-ribosilamina, che è il primo elemento che servirà per la sintesi com-
CO2
Glicina C6
Acido aspartico
N1
PRPP N7
Enzima inattivo
C5 Formile C8
Formile
pleta dell’anello purinico (Fig. 66.2). Questa è piuttosto complessa e richiede l’intervento di aminoacidi (glicina e acido aspartico), di una seconda molecola di glutamina, di due radicali formilici ed infine di CO2 e ATP. Si formerà quindi un intermediario il cui nome è acido inosinico (IMP), che può essere convertito in adenosinmonofosfato (AMP) e guanosinmonofosfato (GMP). Questi sono costituenti fondamentali per la sintesi degli acidi nucleici e per la formazione di molecole energetiche come l’ATP e trasduttori di segnali intracellulari come l’AMP ciclico e il GMP ciclico. Gli acidi nucleici sono strutture precarie la sintesi e il catabolismo dei quali sono continui: vi sono quindi dei sistemi mediante i quali si cerca di riutilizzare almeno in parte le basi puriniche provenienti dalla loro distruzione. La quota in eccesso, attraverso una serie di passaggi catalizzati da enzimi specifici, viene eliminata come acido urico. Esistono vari meccanismi che permettono una fine regolazione della sintesi di purine e del loro catabolismo ad acido urico. Il punto chiave della reazione è quello rappresentato dall’unione del P-ribosio-PP con la glutamina a formare fosforibosilamina ad opera dell’enzima amidofosforibosil-transferasi. Un eccessivo livello di GMP, AMP, IMP comporta un’inibizione di tale enzima (Fig. 66.3). Esso, infatti, ha una eterogeneità molecolare e può presentarsi in due forme strutturali: una più piccola di p.m. 133.000 (attiva) ed una più grande di p.m. 270.000 (inattiva). La forma piccola può essere convertita in quella grande in presenza di alte concentrazioni di nucleotidi purinici, mentre quella grande può essere convertita in quella piccola in presenza di concentrazioni elevate di P-ribosioPP. Così la quantità di enzima in forma attiva è sotto il controllo a feed-back negativo da parte delle basi puriniche e positivo da parte del P-ribosio-PP. Un’eccessiva disponibilità di P-ribosio-PP e dell’altro substrato necessario, cioè la glutamina, tende quindi a favorire la reazione. Alla luce di tale dato sono stati studiati i diversi sistemi enzimatici che potrebbero essere implicati nel rendere disponibile una maggiore quantità di tali molecole. Mentre in alcuni casi sono state evidenziate significative alterazioni enzimatiche, in altri casi tali alterazioni restano ipotetiche.
C2
C4 N3
p. m. 270. 000
Enzima attivo p.m.
p.m.
133.000
133.000
N9 Nucleotidi purinici Glutamina
Figura 66.2 - Provenienza degli atomi dell’anello purinico. (Da Hollander, modificata).
Figura 66.3 - Controllo dell’attività dell’enzima amidofosforibosil-transferasi da parte del fosforibosilpirofosfato (PRPP) e dei nucleotidi purinici.
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MALATTIE DEL RICAMBIO
Ben documentato è il deficit dell’enzima glucosio 6fosfatasi che è caratteristico della glicogenosi di tipo I (Fig. 66.1, enzima 1) e comporta, oltre agli altri disturbi presenti nella sindrome di von Gierke (Cap. 58), anche una grave iperuricemia presente fin dall’infanzia con attacchi di gotta anche nei primi 10 anni di vita e un’importante nefropatia uratica. L’iperattività dell’enzima P-ribosio-PP-sintetasi è anch’essa in grado di determinare una grave forma di gotta ad insorgenza precoce: si tratta di una rara forma ereditaria legata al cromosoma X. Nella figura 66.1 sono poi riportate tutte le diverse possibili alterazioni enzimatiche capaci di portare ad un aumento del P-ribosio-PP o della glutamina, benché per esse manchino dati di supporto sperimentali. Un altro processo importante nell’evitare all’individuo sano l’eccessivo accumulo di basi puriniche e la conseguente iperuricemia è il cosiddetto “meccanismo di salvataggio delle basi azotate” derivate dalla degradazione degli acidi nucleici (guanina, adenina, ipoxantina). Grazie a tale sistema esse possono essere ritrasformate in AMP, GMP, IMP. L’adenina è metabolizzata autonomamente ad acido adenilico (AMP) grazie all’enzima adenina-fosforibosil-transferasi (Fig. 66.1, enzima 11). La guanina e l’ipoxantina sono metabolizzate in acido guanilico e acido inosinico grazie ad un enzima in comune: l’ipoxantina-guanina-fosforibosil-transferasi (Fig. 66.1, enzima 10). In bambini affetti dalla sindrome di Lesch-Nyhan è stata dimostrata l’assenza pressoché completa di tale enzima; si tratta di una malattia caratterizzata da movimenti coreoatetosici, ritardi di crescita e deficit mentale, spasticità, automutilazioni e marcata iperuricemia. In tale rara malattia ereditaria legata al cromosoma X, le basi guanina e ipoxantina non possono essere riutilizzate e devono perciò essere di necessità catabolizzate ad acido urico; inoltre, poiché l’enzima utilizza come secondo substrato il P-ribosio-PP si avrà un accumulo di tale sostanza che faciliterà la biosintesi ex novo di purine.
Riassorbimento presecretivo
Più recentemente sono stati dimostrati deficit parziali di tale enzima, in grado di determinare forme patologiche caratterizzate solo dall’iperuricemia e dalle sue complicanze in assenza di danno neurologico. 2. Escrezione renale dell’acido urico. Una riduzione della clearance dell’acido urico può contribuire all’iperuricemia nel 75-85% dei pazienti affetti da gotta. Studi sperimentali hanno infatti mostrato che i soggetti gottosi necessitano di valori di uricemia superiori di 1-3 mg/dl per ottenere un’escrezione di acido urico equivalente a quella dei controlli sani. Esistono comunque ampie variazioni da soggetto a soggetto. Il meccanismo di eliminazione dell’acido urico non è a tutt’oggi perfettamente conosciuto: comunque, dalle osservazioni nell’animale da esperimento e nell’uomo è stato ipotizzato un modello (Fig. 66.4) secondo il quale sarebbero presenti due sedi di riassorbimento dell’acido urico, una prossimale e l’altra distale al sito secretivo. L’acido urico verrebbe filtrato completamente a livello glomerulare, quindi riassorbito a livello del tubulo prossimale (riassorbimento presecretivo). Sempre a livello del tubulo prossimale, ma in una sede successiva, si avrebbe la secrezione. Il riassorbimento postsecretivo, ovviamente incompleto, avverrebbe in tre sedi: la porzione distale del tubulo prossimale, la branca ascendente dell’ansa di Henle ed il tubulo collettore. Tra queste sedi, la prima sarebbe quella di gran lunga più importante. Il deficit renale di eliminazione dell’acido urico può quindi essere dovuto a diversi meccanismi: • ridotta filtrazione; • aumentato riassorbimento; • ridotta secrezione. Sembra probabile che nei soggetti con iperuricemia primitiva ciascuno di questi meccanismi possa avere un ruolo.
Riassorbimento postsecretivo
Filtrazione glomerulare
Secrezione
Riassorbimento
Figura 66.4 - Escrezione renale dell’acido urico.
Riassorbimento
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66 - ALTERAZIONI DEL METABOLISMO DELL’ACIDO URICO
Iperuricemie secondarie Si possono distinguere in due grandi gruppi: quelle in cui l’alterazione metabolica principale coinvolge la sintesi dell’acido urico e quelle in cui è correlata ad un’alterazione della sua escrezione renale. A. Forme correlate ad un aumento della sintesi e del turn-over delle purine. Mentre l’aumento della sintesi delle purine è raro ed è caratteristico della glicogenosi di tipo I e della sindrome di Lesch-Nyhan, di cui si è già parlato in precedenza, l’aumento del turn-over delle purine è più comune ed è presente in diverse patologie. Le forme più comunemente caratterizzate da tale fenomeno sono le malattie mielo e linfoproliferative (leucemie, linfomi, mieloma multiplo, policitemia rubra vera, ecc.), oltre a tutte le patologie in cui si abbia uno stimolo notevole dell’attività midollare (policitemie secondarie, emoglobinopatie, altre anemie emolitiche, ecc). Meno frequentemente l’iperuricemia può essere presente anche in corso di tumori solidi, mononucleosi infettiva, sarcoidosi, psoriasi. Particolarmente notevoli possono essere la necrosi cellulare ed il conseguente aumento dell’uricemia nel corso di chemio e radioterapie effettuate per patologie neoplastiche di diversi tipi. B. Forme correlate ad alterazioni dell’eliminazione renale dell’acido urico. Sono assai numerose e non è sempre possibile capire a che livello sia localizzata l’alterazione responsabile del deficit di escrezione. Una riduzione del filtrato glomerulare porta ad una riduzione del contenuto di acido urico nell’ultrafiltrato,
determinando così iperuricemia. Tale meccanismo è importante nell’insufficienza renale cronica. In altre patologie renali come il rene policistico e la nefropatia da piombo sembra anche deficitaria la capacità di secrezione tubulare. La deplezione di volume può essere anch’essa assai importante, in quanto determina sia una riduzione del filtrato glomerulare che un aumento del riassorbimento tubulare: tale meccanismo è importante nell’insufficienza corticosurrenale, nel diabete insipido e nella terapia diuretica cronica. In quest’ultimo caso è stato anche ipotizzato un deficit di secrezione. Tale deficit è molto importante nelle iperuricemie correlate ad eccessiva eliminazione renale di acidi. In questo caso si avrebbe un’inibizione competitiva dell’escrezione di acido urico a livello tubulare. Si tratta di tutta una serie di alterazioni metaboliche che vanno dalla malnutrizione alla chetoacidosi diabetica, dall’acidosi etilica a quella lattica. Esistono infine altre forme per le quali si suppone un’origine renale dell’iperuricemia, ma delle quali non è chiara la patogenesi: tra queste si può ricordare l’iperparatiroidismo, l’ipoparatiroidismo, l’ipotiroidismo.
Conseguenze patologiche dell’iperuricemia L’iperuricemia può determinare conseguenze patologiche a carico dell’interstizio renale (Cap. 39), delle vie urinarie, in seguito alla formazione di calcoli (Cap. 40), e, infine, può provocare l’insorgenza di gotta. La gotta è trattata nel capitolo 70, a proposito delle malattie delle articolazioni.
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C A P I T O L O
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OBESITÀ E SINDROME METABOLICA C. RUGARLI
Il peso corporeo ideale (o desiderabile) è quello che è associato con la più bassa morbilità e mortalità per una data popolazione. Si definisce in sovrappeso un individuo il cui peso supera un limite empirico stabilito dagli studi epidemiologici per la popolazione cui appartiene. Viene considerato obeso chi è decisamente sovrappeso, e lo è per un aumentato accumulo di tessuto adiposo. Non tutti gli individui sovrappeso sono obesi: per esempio, gli atleti possono esserlo per un aumento della massa muscolare. Nel linguaggio medico corrente vengono definiti obesi i soggetti che, sulla base di criteri di rilevazione che illustreremo in seguito, hanno sicuramente un eccesso di tessuto adiposo. Coloro che, pur superando il peso ideale, non soddisfano i criteri per la definizione di obesità, sono definiti sovrappeso, senza ulteriori specificazioni.
OBESITÀ La massa del grasso corporeo rappresenta un deposito di energia essenziale per la sopravvivenza in periodo di scarsità di cibo ed anche importante per la normale fertilità. Infatti, il menarca non si instaura fino a quando non si è raggiunto un certo peso corporeo e le mestruazioni si arrestano negli stati di estrema magrezza (per es., nell’anoressia psichica) o, anche in presenza di un soddisfacente peso corporeo, quando questo è rappresentato pressoché esclusivamente da masse muscolari e non da grasso, come avviene in certe atlete che praticano sport particolarmente gravosi. È perciò importante che intervenga il meccanismo omeostatico, sviluppato nell’evoluzione biologica, in modo che, al difetto di apporto energetico (sotto forma di cibo), corrisponda un’aumentata richiesta di energia (aumento dell’appetito) e diminuzione della sua dissipazione nel metabolismo. A. Consumo di cibo. È dipendente da vari fattori che determinano il volume di ogni pasto e la frequenza
tra i pasti. Nell’animale lasciato libero di accedere al cibo quando vuole, il pasto inizia quando viene raggiunta una certa soglia di appetito e cessa quando sopravviene una sensazione di sazietà. Secondo un modello largamente accettato nel passato, l’inizio del pasto è indotto dal declino di certi parametri di energia immediatamente disponibile (per es., piccole diminuzioni della glicemia o dell’utilizzazione del glucosio: modello “glicostatico”). La sazietà, invece, è indotta, oltre che dalla sensazione di ripienezza gastrica, dalla produzione di ormoni di derivazione intestinale, principalmente dalla colecistochinina, ma anche da peptidi della famiglia della bombesina, e dal glucagone. Tuttavia, questo modello non è soddisfacente per spiegare il mantenimento della massa dei depositi adiposi corporei. In realtà, l’inizio dei pasti non è necessariamente legato all’immediata necessità di energia, né il loro termine è connesso con la restaurazione dei substrati depleti. Nell’uomo, in particolare, l’inizio dei pasti si può verificare per varie ragioni, che includono le abitudini, le opportunità, fattori sociali e l’ora del giorno. Così pure la loro fine non è necessariamente legata allo sviluppo di una sensazione di sazietà. Esistono altri fattori che segnalano quanta è l’energia che deve essere acquisita con il cibo e questi sono collegati con la quantità di grasso presente nei depositi corporei. In condizioni normali, se il grasso è scarso, la sollecitazione a mangiare è esaltata; se il grasso è abbondante, è inibita. Questo modello è stato chiamato “lipostatico” ed è importante per mantenere costante la massa del grasso corporeo e la stabilità del peso. B. Dissipazione di energia. L’energia è dissipata quando la combustione dei prodotti del metabolismo non è interamente utilizzata per la sintesi di ATP. La dissipazione comporta la generazione di calore e il processo viene chiamato “disaccoppiamento”. La combustione (fosforilazione ossidativa) avviene fondamentalmente nei mitocondri, la cui struttura interna è particolarmente adatta al passaggio di elettroni dai substrati
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C. Meccanismi regolatori. 1. Effettori centrali. Nel sistema nervoso centrale esistono varie sostanze che hanno un effetto positivo o negativo (anabolico o catabolico) sull’appetito e sulla tendenza a conservare o dissipare l’apporto energetico (Fig. 67.1). Ha un effetto anabolico una serie di peptidi, dei quali il più importante è il neuropeptide Y (NPY). Il NPY è un neurotrasmettitore largamente espresso in varie parti del cervello, ma che esercita la
Effetto catabolico
-MSH
Effetto anabolico NPY Diencefalo
Leptina Stomaco
to vuo o pien
Adiponectina
Grelina
Res. a insulina
Sens. a insulina
C
metabolici all’ossigeno. Questo richiede che si formi un gradiente di idrogeno-ioni tra i due lati della membrana interna dei mitocondri. Negli animali che vanno in ibernazione, per esempio gli orsi, è presente un particolare tipo di grasso, detto bruno proprio per l’aspetto conferitogli dall’abbondanza di mitocondri negli adipociti. Questo grasso utilizza le scorte energetiche immagazzinate nelle sue cellule per produrre calore, indispensabile a questi animali nel periodo di letargo per mantenere adeguata la temperatura corporea. La generazione di calore avviene attraverso il disaccoppiamento della fosforilazione ossidativa. Nei mitocondri delle cellule del grasso bruno esistono infatti delle proteine, collettivamente chiamate UCP (“Uncoupling Proteins”, proteine disaccoppianti), capaci di lasciar passare gli idrogeno-ioni attraverso la membrana interna di questi organuli, abolendo così il gradiente di idrogeno-ioni necessario per la sintesi di ATP. In questo modo, parte dell’energia spesa è dissipata come calore. L’attivazione delle UCP è dipendente dalla liberazione locale di acidi grassi, a sua volta prodotta dalla stimolazione simpatica determinata dal freddo. Nei mammiferi non ibernanti, e in particolare nell’uomo, il grasso bruno è presente in piccola quantità solo per un breve periodo dopo la nascita, e perciò si è a lungo pensato che questo meccanismo di dissipazione energetica non fosse rilevante nella specie umana. Tuttavia, nel 1997 è stato dimostrato che, nell’uomo, tessuti diversi dal grasso bruno, come il grasso ordinario e il tessuto muscolare, sintetizzano proteine molto simili alle UCP animali. Non vi è ancora alcuna prova che queste UCP umane funzionino come quelle degli animali ibernanti, ma esistono molti indizi che fanno pensare che questo sia proprio il caso. Negli uomini sono stati dimostrati tre geni codificanti proteine UCP. Il primo, chiamato UCP1, è espresso solo nel grasso bruno e perciò non può avere importanza pratica. Gli altri due, UCP2 e UCP3 sono invece espressi nel grasso ordinario e nel tessuto muscolare ed hanno con UCP1 una omologia di circa il 56%. Modelli sperimentali indicano che le proteine codificate da questi geni possono effettivamente esercitare un’azione disaccoppiante. D’altro canto, misurazioni della quantità di ossigeno che le cellule umane e di altri animali consumano quando metabolizzano il cibo indicano che in qualche posto dal 25 al 35% di questo ossigeno è usato per compensare la sfuggita di idrogeno-ioni attraverso la membrana interna dei mitocondri. Perciò, le proteine UCP potrebbero avere un ruolo nel condizionare l’energia che deve essere dissipata o conservata anche nell’uomo.
MALATTIE DEL RICAMBIO
Tessuto adiposo
C
Resistina
Figura 67.1 - Meccanismi rilevanti per lo sviluppo di obesità. A sinistra i meccanismi che contrastano e a destra quelli che favoriscono lo sviluppo di questa condizione. La figura presenta qualche semplificazione e perciò per i dettagli si veda il testo.
sua azione nell’ipotalamo, e particolarmente nel nucleo paraventricolare, dove giunge veicolato da assoni che provengono dal nucleo arcuato. L’iniezione di NPY nel nucleo paraventricolare di animali da esperimento aumenta la quantità di cibo ingerito e riduce il flusso di stimoli dal sistema nervoso simpatico al grasso bruno (e presumibilmente anche ad altre strutture corporee provviste di proteine UCP). Gli animali così trattati divengono obesi in pochi giorni. Hanno invece un effetto catabolico le melanocortine, peptidi che derivano dalla degradazione della proopiomelanocortina e che includono la -MSH (ormone stimolante i melanociti). Si è visto che questo ormone si lega nell’ipotalamo a un recettore specifico, denominato MC4R, e determina una sopraregolazione dell’attività di sostanze endogene anoressizzanti, come il releasing hormone della corticotropina (CRH) e il releasing hormone della tireotropina (TRH), e una sottoregolazione di sostanze, sempre di produzione ipotalamica, che stimolano l’appetito. 2. Effettori periferici. Da vari organi e tessuti emergono segnali che contrastano o promuovono l’accumulo di materiale energetico sotto forma di scorte di tessuto adiposo (Fig. 67.1). Si è già parlato di ormoni di derivazione intestinale che hanno un ruolo nel determinare la sensazione di sazietà. Nel 2000 si è scoperto che una sostanza che stimola la produzione dell’ormone della crescita è prodotta da cellule endocrine poste nella parete gastrica. Questa sostanza, chiamata grelina, ha un ruolo importante nella regolazione dell’appetito e nella determinazione del peso corporeo. La produzione di grelina aumenta, infatti, subito prima dei pasti e diminuisce dopo l’assunzione di cibo, e perciò questa sostanza è implicata in un meccanismo omeostatico che collega il bilancio energetico che influenza il peso corporeo con la sensazione di fame. Si è visto, infatti, che l’infusione di grelina in soggetti umani produce un au-
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67 - OBESITÀ E SINDROME METABOLICA
mento a breve termine di questa sensazione. Si è anche visto che soggetti obesi hanno ridotti livelli di grelina nel sangue, il che esclude che l’obesità sia prodotta da un eccesso di produzione di grelina; semmai si può supporre che la riduzione della sua secrezione non sia in questi casi di misura tale da contrastare la tendenza all’ingrassamento. La diminuzione di peso ottenuta con la riduzione calorica comporta un aumento della produzione di grelina, il che spiega perché il successo a lungo termine della terapia dell’obesità con misure dietetiche sia così raro. Sorprendente è il fatto che in soggetti obesi sottoposti a interventi chirurgici di bypass gastrico si osservi una riduzione della produzione di grelina, mentre ci si aspetterebbe il contrario, dato che l’assunzione di cibo sopprime la secrezione di questa sostanza. Va però ricordato che un’iperproduzione di grelina si ha subito prima dei pasti; evidentemente, questo fenomeno viene abolito quando lo stomaco è escluso dai suoi normali meccanismi periodici di riempimento. Questa è la ragione per la quale il bypass gastrico riduce l’assunzione di cibo non solo per il minore spazio che è a disposizione degli alimenti ingeriti, ma anche per una sostanziale diminuzione dell’appetito. Il tessuto periferico che esercita la più notevole attività sul bilancio energetico corporeo è però il tessuto adiposo stesso. È ben noto, oggi, che questo tessuto non è semplicemente un passivo deposito di materiale energetico, ma un importante organo secretivo che produce varie citochine, tra le quali il TNF-, varie interleuchine, l’inibitore dell’attivatore del plasminogeno di tipo 1 e alcuni ormoni che hanno importanza per l’equilibrio energetico. Tra questi è interessante una proteina che è la più abbondante tra quelle contenute negli adipociti e che è stata chiamata adiponectina. Questa sostanza è normalmente secreta dagli adipociti e agisce su recettori posti nel tessuto muscolare e nel fegato, dove incrementa la sensibilità all’insulina. Può essere perciò considerato un meccanismo di “sicurezza” per bilanciare la tendenza alla resistenza all’insulina che si osserva quando si verifica un accumulo di trigliceridi in queste strutture e che si è visto essere importante nella patogenesi del diabete di tipo II (si veda il Cap. 64). Una sostanza che agisce in senso esattamente opposto rispetto all’adiponectina, e cioè determina insulinoresistenza nei muscoli e nel fegato, è pure prodotta dal tessuto adiposo e rilasciata nella circolazione sanguigna, ed è stata chiamata resistina. Sembrerebbe piuttosto contraddittorio che uno stesso tessuto produca ormoni con attività esattamente contrastanti, ma in realtà la resistina è secreta durante la differenziazione degli adipociti, mentre l’adiponectina lo è da parte degli adipociti maturi. Per di più, la resistina sembra essere prodotta in quantità maggiori sotto la stimolazione dell’insulina che, verosimilmente, modula la sua attività attraverso la produzione di questo ormone. Studi compiuti circa trent’anni fa avevano dimostrato che deve esistere un ormone che regola l’assunzione di cibo in misura inversamente proporzionale alla massa del grasso corporeo. Nel 1994 fu identificato un ceppo di topi obesi. Questi topi non hanno nel sangue una sostanza chiamata leptina che limita l’assunzione di cibo
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attraverso una diminuzione dell’appetito e promuove la dissipazione di energia. La leptina è prodotta dagli adipociti ed è tanto più abbondante nel sangue quanto maggiore è la massa del tessuto adiposo, realizzando così un perfetto sistema omeostatico. Se il grasso si accumula è prodotta più leptina e partono stimoli catabolici che tendono a ridurre il grasso accumulato. Il sistema, integrato con molte altre variabili, è perciò finalizzato al mantenimento della costanza della massa del grasso corporeo. È dimostrato che la leptina agisce a livello centrale inibendo la produzione di NPY e stimolando quella delle melanocortine. Perché ciò avvenga la leptina deve interagire con il suo recettore. Questo esiste in due varianti, una priva di una coda intracellulare, presente nei plessi corioidei e necessaria per il passaggio della barriera ematoencefalica, ed una in forma completa, e perciò capace di trasdurre alle cellule il segnale derivato dal suo impegno, presente nell’ipotalamo. I topi obesi che hanno portato alla scoperta della leptina sono omozigoti per una mutazione del gene che codifica questa sostanza, tale da annullarne la produzione. Il gene mutato è chiamato ob e il genotipo dei topi è ob/ob. Se a questi topi viene somministrata leptina si determina un rapido dimagramento. È interessante rilevare che la perdita di peso indotta dalla leptina riguarda interamente la riduzione della massa del tessuto adiposo, mentre gli altri tessuti non sono influenzati. Esiste anche un ceppo di topi obesi nei quali la mutazione riguarda il recettore della leptina, che è modificato in modo da essere insensibile all’azione di questa sostanza. In questi topi, dal genotipo definito db/db, i livelli ematici di leptina sono elevati e la somministrazione di leptina esogena è priva di qualsiasi effetto. D. Distribuzione del grasso. È noto che esistono due tipi di distribuzione del grasso, prevalentemente a cosce e natiche, oppure prevalentemente sul tronco e in particolare sull’addome (si veda in seguito). È la seconda forma di obesità quella più strettamente correlata con la patologia cardiovascolare, perciò è rilevante considerare quali fattori la determinano. È stato dimostrato che gli adipociti addominali contengono più recettori per il cortisolo e che quelli presenti nell’omento contengono un’isoforma dell’enzima 11--idrossisteroide-deidrogenasi particolarmente efficiente nella conversione del cortisone in cortisolo. Perciò queste cellule sono più sensibili all’azione dei corticosteroidi. Attraverso lo studio di migliaia di persone è stato stabilito che la deposizione del grasso addominale è più facile nelle persone che hanno oscillazioni dei livelli di cortisolemia nell’arco della giornata, a causa di croniche condizioni di stress. Uno studio in vitro su tessuto adiposo umano eseguito nel 2002 ha dimostrato che il grasso addominale secerne quantità maggiori di resistina rispetto al grasso in altre sedi. Considerata l’attività di questo ormone nell’influenzare la sensibilità all’insulina del tessuto muscolare e del fegato, questa potrebbe essere la ragione dell’aumentato rischio di diabete di tipo II e dell’associata morbilità cardiovascolare che è connessa con questo tipo di obesità.
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Eziopatogenesi Non è certamente possibile indicare un’eziologia precisa dell’obesità. Tuttavia, vari fattori sono sicuramente importanti e meritano di essere ricordati. A. Fattori genetici. Studi eseguiti su gemelli, su soggetti adottati e nelle famiglie hanno indicato che fino all’80% della varianza dell’indice di massa corporea (si veda in seguito) è attribuibile a fattori genetici. L’ereditabilità dell’obesità ad insorgenza precoce può essere considerevolmente più alta di quella dell’obesità insorgente in età adulta. Si è visto che nel topo sono stati riconosciuti due difetti di singoli geni (ob e db) che inducono l’obesità. Sono stati individuati anche altri tre difetti che non implicano la produzione di leptina o il suo recettore. Nella stragrande maggioranza degli esseri umani obesi il condizionamento genetico non può essere ricondotto a modelli così semplici e sembra implicare una pluralità di geni (circa una decina). Tuttavia, alcuni geni sembrano più importanti di altri e un’intensa attività di studio è in corso per individuare quelli che favoriscono l’obesità nell’uomo. La comprensione del loro meccanismo d’azione potrebbe essere molto utile per suggerire nuove forme di intervento terapeutico. In genere, negli esseri umani obesi i livelli di leptina nel sangue sono alti. Quindi ci si trova di fronte al paradosso che l’obesità persiste nonostante l’elevata produzione di una sostanza che dovrebbe correggerla attraverso le sue sollecitazioni cataboliche. La situazione è perciò simile a quella dei topi db/db, che hanno un difetto a carico del recettore della leptina. Tuttavia, non sembra che questo recettore sia difettoso nell’uomo. Infatti, anche se alcune variazioni di sequenza sono state descritte in alcuni esoni del gene codificante il recettore della leptina nell’uomo, nessuna di queste variazioni è risultata finora correlata con la massa di grasso corporeo. Così come il diabete non insulino-dipendente, anche l’obesità sembra influenzata da geni collocati in una regione (cromosoma 1p22-p31) che contiene anche il gene codificante il recettore della leptina. Perciò è possibile che l’obesità sia dipendente da geni contigui a quello del recettore della leptina, o da geni che esercitano su questo un’influenza regolatrice. Un altro polimorfismo che potrebbe spiegare la propensione all’obesità è quello delle proteine disaccoppianti. Esistono dati non confermati che connettono variazioni degli UCP2 e UCP3 con l’accumulo di grasso corporeo. L’argomento è lontano dall’essere definito ed è attualmente oggetto di intenso studio. In realtà gli elementi che influenzano la tendenza all’accumulo di grasso corporeo sono tali e tanti che occorrerà del tempo perché tutti i fattori genetici che li influenzano siano chiarificati. Tuttavia, almeno una forma di condizionamento monogenetico dell’obesità negli esseri umani è stata individuata da Farooqui et al. nel 2003, che, in uno studio su una coorte di 500 pazienti con grave obesità insorta sin dall’infanzia, hanno rilevato nel 5,8% dei casi mutazioni funzionalmente importanti del gene MC4R, che codifica la struttura del recettore ipotalamico dell’-MSH. Questa sostanza, si
ricorderà, ha un effetto catabolico e deprimente l’appetito. Il gene MC4R mutato è trasmesso come carattere autosomico co-dominante (effetto più grave negli omozigoti e più lieve, ma non assente, negli eterozigoti) e provoca disturbi dell’alimentazione caratteristici, definiti nella classificazione delle malattie mentali, come binge-eating, termine che in italiano poterebbe essere tradotto come mangiare con “abbuffate” (binge in inglese significa eccesso di qualsiasi genere voluttuario). In effetti, la caratteristica di questo disordine dell’alimentazione consiste nell’esistenza di ricorrenti episodi (2 o più alla settimana) di ingestione di grandi quantità di cibo e nella percezione di non essere in grado di controllare questo comportamento. B. Fattori ambientali. Il più ovvio fattore ambientale nello sviluppo di obesità è un’eccessiva introduzione di cibo in relazione all’energia spesa. Questo eccesso può dipendere da motivazioni psicologiche o socioculturali. Dal punto di vista psicologico è importante ricordare che il cibo rappresenta una forma di gratificazione orale (che può costituire una componente anche di certe pratiche voluttuarie, per esempio del fumo di tabacco) che può compensare disturbi emozionali latenti (insicurezza, ansietà, paura). Anche lo stato psicologico dei genitori ha un’influenza nel determinare il peso di un bambino. Un atteggiamento iperprotettivo si accompagna con un eccesso di somministrazione di cibo ai figli, determinando non solo un aumento di peso corporeo durante l’infanzia, ma anche un anormale rapporto con i problemi del cibo e dell’alimentazione che può persistere nella vita adulta. Le motivazioni socioculturali sono rilevanti nel determinare l’obesità di molte persone. Non sono lontani i tempi nei quali, anche in Paesi attualmente di buon livello economico, non erano molti coloro che potevano consentirsi un’alimentazione abbondante. In queste circostanze essere sovrappeso, o addirittura obeso, era un contrassegno di rango sociale superiore. È perciò possibile che l’alimentazione abbondante abbia mantenuto una connotazione culturale positiva per le popolazioni il cui livello sociale si è elevato nelle ultime generazioni. In accordo con questa opinione, si è visto, negli USA, che l’eccesso di peso è, nelle donne delle classi sociali inferiori, 12 volte più frequente che nelle donne delle classi sociali superiori. Altri fattori culturali più sottili possono intervenire nel favorire la diffusione dell’obesità. L’arte primitiva associa la figura femminile, simbolo di fertilità, con un aspetto decisamente sovrappeso. È possibile che un reliquato di questa visione abbia influenzato i criteri estetici di certe popolazioni che hanno individuato, fino a non molto tempo fa, nell’obesità uno degli elementi della bellezza femminile. Esistono relazioni molto importanti tra i fattori ambientali e quelli genetici che determinano l’obesità. Da un lato gli studi familiari sono complicati dal fatto che, così come si ereditano i geni, vengono anche ereditati i modelli culturali, compresi quelli che riguardano il cibo e l’alimentazione. Dall’altro lato i modelli culturali
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possono essere stati storicamente un fattore di selezione genetica. Per esempio, se in una popolazione il modello di bellezza femminile fosse stato quello della donna obesa, è chiaro che sarebbe esistita in quella popolazione una pressione di selezione in favore degli eventuali geni che favoriscono l’obesità.
2. Indice di massa corporea. (BMI, secondo la dizione inglese: Body Mass Index). Si calcola dividendo il peso (in kg) per l’altezza (in metri) elevata al quadrato. La International Obesity Task Force ha proposto la seguente classificazione tenendo conto dell’indice di massa corporea:
C. Influenza sulla patologia associata. È noto (si veda in seguito) che l’obesità è associata a un incremento dell’incidenza di patologia cardiovascolare e di alterazioni metaboliche. Si pensa che questo dipenda fondamentalmente dal flusso di acidi grassi che sono liberati dagli adipociti. Questi acidi grassi favoriscono non solo la sintesi di trigliceridi e di colesterolo (con corrispondente aumento del rischio di complicanze aterosclerotiche), ma anche offrono ai muscoli substrati metabolici alternativi rispetto al glucosio. La diminuita utilizzazione di glucosio tende ad aumentare la glicemia e a sollecitare la produzione di insulina, due caratteristiche proprie del diabete non insulino-dipendente. Un quesito particolare è perché proprio l’obesità addominale sia più correlata con queste complicanze. È stato sostenuto che, in realtà, tanto l’obesità addominale quanto le complicanze metaboliche si sviluppano in parallelo per la stessa causa, che è rappresentata dalle frequenti oscillazioni della cortisolemia. Tuttavia è evidente che, a causa della loro particolare sensibilità ai corticosteroidi, gli adipociti addominali sono particolarmente suscettibili all’induzione di lipolisi e alla liberazione di acidi grassi. Per di più gli acidi grassi derivanti dagli adipociti dell’omento e del mesentere vengono indirizzati, attraverso la vena porta, direttamente al fegato, dove sopprimono la normale degradazione dell’insulina. L’iperinsulinismo che ne deriva riduce la sensibilità dei tessuti a questo ormone ed è una causa ulteriore di quello stato metabolico che è proprio del diabete non insulino-dipendente.
• • • • • •
Clinica A. Valutazione dell’obesità. In genere, una persona obesa è facilmente riconoscibile a colpo d’occhio. Esistono, tuttavia, delle tecniche di valutazione che aiutano a riconoscere i casi meno evidenti e, comunque, ad esprimere in termini quantitativi l’entità della deposizione di grasso corporeo. Le valutazioni comunemente impiegate sono le seguenti. 1. Peso relativo. È il rapporto tra il peso effettivo e quello ideale tenendo conto dell’età e del sesso. Il peso ideale per gli individui di una data popolazione (o meglio un ambito di valori per il peso ideale) è solitamente ricavabile da tavole pubblicate dagli enti assicurativi (che tengono conto della morbilità e mortalità associate con il peso corporeo). Un individuo è definito semplicemente sovrappeso se il rapporto tra il peso effettivo e il limite superiore di quello ideale è compreso tra i valori di 1 e 1,20; è definito obeso se questo rapporto supera il valore di 1,20.
sottopeso: < 18,5 normali: 18,5-24,9 sovrappeso: 25,0-29,9 obesi di classe I: 30,0-34,9 obesi di classe II: 35,0-39,9 obesi di classe III: ≥ 40,0.
3. Spessore delle pieghe cutanee, che viene misurato con un calibro in almeno due posti differenti (sul tricipite e nella regione sottoscapolare). Un individuo è definito obeso se lo spessore della piega cutanea sul tricipite più quello della piega sottoscapolare supera i 45 mm nei maschi e i 69 mm nelle femmine. In realtà, mediante misure densitometriche, è possibile stimare la quota di grassi presente nel corpo e un individuo è considerato obeso se il grasso è più del 25% nei maschi e più del 30% nelle femmine. Queste misure sono, tuttavia, complicate e solitamente non vengono effettuate. Tra le valutazioni sopra riportate, l’indice di massa corporea è quella che meglio si correla con la quota di grasso nel corpo. Oltre all’entità dell’obesità, anche il tipo dell’obesità è importante. È noto che esistono individui obesi soprattutto sul torace e sull’addome e poco sugli arti (obesità androide o a mela, nel linguaggio comune) ed altri che lo sono più sul bacino e sulle cosce (obesità ginoide o a pera). I primi hanno una maggiore tendenza a sviluppare complicanze cardiovascolari e metaboliche. È perciò opportuno misurare il rapporto tra la circonferenza del torace e quella a livello delle anche. In una persona obesa un rapporto superiore a 0,90 nelle donne e a 1 negli uomini è associato con un più alto rischio di morbilità e mortalità rispetto alle persone con un rapporto inferiore a 0,75 nelle donne e a 0,85 negli uomini. Per misure intermedie la valutazione del rischio è più difficilmente valutabile. B. Malattie particolarmente associate con l’obesità. Le condizioni morbose associate con l’obesità sono molte e serie, tanto che viene da chiedersi come sia possibile, se esistono dei geni che la favoriscono, che questi siano stati preservati nell’evoluzione biologica. La risposta è che le malattie tipicamente associate alla obesità si verificano solitamente nella seconda metà della vita e quindi per lo più non influenzano le capacità riproduttive. Inoltre, nelle epoche passate, quando la vita media era ben più corta che adesso, non avevano probabilmente nemmeno il tempo di manifestarsi. Il seguente è un elenco delle condizioni morbose particolarmente associate con l’obesità. 1. Ipertensione arteriosa, che dipende dall’aumento della massa circolante che, a parità di condizioni, tende a spostare verso l’alto i valori della pressione (Cap. 1).
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2. Aterosclerosi accelerata e cardiopatia ischemica. È probabile che questa dipenda dagli stessi fattori dietetici che hanno provocato l’obesità. Infatti, è più facile che gli obesi consumino una maggiore quantità di grassi saturi. Gli obesi, infatti, più facilmente presentano iperlipoproteinemie che costituiscono un fattore di rischio per l’aterosclerosi. I loro livelli di lipoproteine protettive, HDL, sono più bassi che nei non obesi (forse per il ridotto esercizio fisico). Anche l’ipertensione può contribuire ad accrescere il rischio complessivo. Gli obesi hanno un aumentato rischio di eventuali incidenti tromboembolici. Questo dipende da una diminuita concentrazione ematica dell’antitrombina III, il maggiore anticoagulante endogeno. Non è chiaro perché questa diminuzione avvenga, ma si è dimostrato che l’antitrombina III ritorna a valori normali con la riduzione di peso. 3. Sindrome di Pickwick. Il ruolo dell’obesità nella sindrome di Pickwick è già stato ricordato nel capitolo 13, Cuore polmonare cronico. 4. Sindrome dell’apnea da sonno (detta anche SAS, da Sleep Apnea Syndrome). Gli obesi russano facilmente quando dormono e più comunemente presentano nel sonno periodi di apnea che durano più di 10 sec e sono accompagnati da caduta della saturazione di ossigeno nel sangue arterioso. In studi eseguiti su soggetti con obesità particolarmente grave si sono contate anche alcune centinaia di questi episodi di apnea in una singola notte. Durante l’ipossiemia determinata dall’apnea si possono verificare aritmie, che sono in grado anche di condurre a morte improvvisa. 5. Epatopatia cronica. Questa è determinata da steatosi, come ricordato nel capitolo 30. 6. Alterazioni endocrine. È piuttosto comune che negli obesi venga sospettato un difetto della funzione tiroidea, ma questo generalmente non esiste. Invece, nelle donne obese, sono comuni alterazioni della funzione mestruale, con oligomenorrea, amenorrea ed emorragie funzionali uterine. È anche comune un certo grado di irsutismo associato con un’aumentata produzione di androgeni surrenali e gonadici. Tuttavia, anche gli estrogeni sono prodotti in quantità maggiore nelle donne obese, a causa dell’aumentata conversione nel tessuto adiposo dell’androstenedione e del testosterone rispettivamente in estrone ed estradiolo. L’aumentata produzione di androgeni ed estrogeni può agire sull’asse ipotalamo-ipofisi e sopprimere l’ovulazione. Negli uomini obesi sono possibili una diminuzione della libido e l’impotenza. 7. Diabete mellito. Si è visto che negli obesi la sensibilità del tessuto adiposo all’insulina è diminuita e si verifica iperinsulinemia. In un soggetto geneticamente predisposto al diabete di tipo II (ossia non insulino-dipendente) il disordine metabolico si verifica con particolare facilità, come spiegato nel capitolo 64.
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8. Osteoartrosi. L’aumentato carico sulle articolazioni favorisce l’osteoartrosi specialmente a livello della porzione lombare del rachide. 9. Neoplasie. Nelle donne obese è aumentato il rischio di neoplasie che possono essere influenzate dagli estrogeni: carcinoma mammario con positività per i recettori degli estrogeni, carcinoma endometriale. Negli uomini obesi è incrementato il rischio di carcinoma prostatico, forse in dipendenza di fattori dietetici (per es., aumentato consumo di acidi grassi saturi). C. Terapia dell’obesità. La più semplice terapia dell’obesità è la restrizione dietetica, con una riduzione dell’apporto alimentare di 500-1000 kcal al di sotto di quello che è richiesto per mantenere il peso costante. Si è discusso sull’importanza della qualità della dieta e, mentre l’opinione più comune è che questa debba essere particolarmente povera di grassi, si è anche sostenuta l’utilità di una dieta povera di carboidrati. Nel breve periodo questa è sembrata più efficace della dieta con diminuito apporto di grassi, ma, nei soggetti che furono valutati fino a 12 mesi di dieta, questa differenza non è più risultata significativa. Della massima importanza è associare alla dieta l’esercizio fisico che, in forma moderata, deve essere condotto per 30 minuti 3-4 volte alla settimana inizialmente e poi tutti i giorni. Un intervento dietetico ed eventualmente farmacologico deve essere raccomandato dal medico per tutti i soggetti con un indice di massa corporea uguale o superiore a 30, oppure tra 25 e 29,9 (soggetti solo sovrappeso), ma con almeno due fattori di rischio per aterosclerosi. Un altro criterio utile è la valutazione della circonferenza alla vita, che non deve superare gli 89 cm per le donne e i 102 cm per gli uomini quando hanno almeno due fattori di rischio. Come si è visto, la prima cosa da fare è ridurre l’alimentazione e praticare esercizio fisico, ma, se entro 6 mesi il paziente non ha perso il 10% del suo peso di partenza, si può considerare una terapia farmacologica. I farmaci impiegati per la terapia dell’obesità sono di due tipi: quelli che riducono l’appetito e quelli che riducono l’assorbimento intestinale degli alimenti. Tra i primi, la fenfluramina, che fu il primo farmaco rivelatosi efficace, è stata tolta dal commercio perché può provocare vizi valvolari e ipertensione polmonare. Le anfetamine sono fortemente sconsigliate per il loro potenziale abuso. I farmaci noradrenergici, come la fentermina, sono consigliati solo per brevi periodi considerando i loro effetti collaterali. Alcuni farmaci serotoninergici (che inibiscono solo la riassunzione della serotonina e non ne aumentano anche il rilasciamento, come invece è il caso della fenfluramina e dei suoi derivati) sono approvati per l’impiego come antidepressivi e potrebbero essere usati per ridurre l’appetito nella terapia dell’obesità. È questo il caso della fluoxetina e della sertralina che, però, non si sono rivelate efficaci a lungo termine. Finora, il farmaco migliore nella terapia dell’obesità è risultato la sibutramina, che è un inibitore della riassunzione sia di norepinefrina sia di serotonina e che, non inducendo rilasciamento di serotonina,
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non provoca né vizi valvolari né ipertensione polmonare. Alla dose tra 5 e 15 mg somministrati una volta al giorno la sibutramina, in uno studio controllato, ha determinato entro 6 mesi la perdita del 5-8% del peso pretrattamento contro l’1-4% dei soggetti che erano solo a dieta. È stato anche sostenuto che l’uso intermittente della sibutramina (12 settimane di trattamento alternate a 12 settimane senza questo farmaco) dia risultati sovrapponibili a quelli della sua somministrazione continua. Gli effetti collaterali della sibutramina includono un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, di solito lievi, ma anche secchezza della bocca, cefalea, insonnia e costipazione. Oltre alla sua efficacia nella riduzione di peso, la sibutramina è apparsa utile inducendo una diminuzione dell’iperlipidemia e dell’iperuricemia e migliorando il controllo glicemico nel diabete di tipo II. Il trattamento in via sperimentale con leptina si è rivelato efficace solo in rari casi di obesità umana dipendenti da mutazioni del gene della leptina. Altri trattamenti sperimentali con farmaci che sopprimono l’appetito sono allo studio. La seconda classe di farmaci per il trattamento dell’obesità, e cioè medicamenti che interferiscono con l’assorbimento di nutrienti, include un composto interessante e di provata efficacia, l’orlistat, che si lega alle lipasi gastrointestinali e ne inibisce l’azione. Conseguentemente, i grassi dietetici non possono essere digeriti e assorbiti. Effetti collaterali dell’orlistat, che deve essere assunto alla dose di 120 mg durante i pasti o poco dopo, sono la flatulenza e l’aumentata frequenza della defecazione che, in alcuni casi, può arrivare all’urgenza della defecazione e all’incontinenza fecale. Il farmaco provoca anche una riduzione dell’assorbimento di vitamine liposolubili e questo è particolarmente importante per la vitamina D. Perciò si raccomanda di associare a questo trattamento la somministrazione quotidiana di un preparato polivitaminico almeno 2 ore prima o 2 ore dopo una dose di orlistat. Uno studio nel quale l’orlistat fu aggiunto alla sibutramina dopo un anno nel quale quest’ultimo farmaco era stato somministrato da solo non dimostrò ulteriore perdita di peso nei soggetti così trattati. In genere, gli esperti consigliano di non impiegare più farmaci in combinazione per il trattamento dell’obesità, se non in studi sperimentali.
SINDROME METABOLICA Nel 1998 fu per la prima volta notato che vari fattori di rischio per malattie cardiovascolari (obesità, dislipidemia, ipertensione, iperglicemia) tendono a presentarsi associati e fu coniato il nome di sindrome X per questa situazione clinica. Parallelamente, fu riconosciuto che un’importante caratteristica di questa sindrome era la resistenza all’insulina e fu usata anche la denominazione sindrome di resistenza all’insulina. Attualmente questa condizione è chiamata sindrome metabolica ed è considerata con attenzione perché predi-
spone in maniera importante alla patologia cardiovascolare e al diabete di tipo II. Nel 2002 il National Cholesterol Education Program’s Adult Treatment Panel III ha riconosciuto le seguenti componenti per la sindrome metabolica: • • • •
obesità addominale; dislipidemia aterogenetica; ipertensione; resistenza all’insulina con eventuale intolleranza al glucosio; • stato proinfiammatorio; • stato protrombotico. Qualche commento è appropriato a proposito di queste caratteristiche cliniche. In primo luogo, nella definizione della sindrome metabolica si dà particolare importanza all’obesità addominale, cioè alla circonferenza corporea alla vita piuttosto che all’indice di massa corporea. Si è già spiegato che il grasso addominale predispone in modo particolare al diabete di tipo II e alla patologia cardiovascolare e questo è forse dipendente dalla sua tendenza a produrre quantità elevate di resistina. Per quanto riguarda la dislipidemia, questa è più comunemente consistente in un aumento dei trigliceridi e una riduzione delle lipoproteine HDL del siero, ma altre anomalie sono frequentemente presenti a carico delle lipoproteine LDL e dei remnant. Sull’ipertensione e sulla resistenza all’insulina si dirà di più a proposito delle patogenesi. Lo stato proinfiammatorio è reso evidente da un aumento dei livelli ematici di proteina C reattiva e quello protrombotico da un aumento nel plasma dell’inibitore dell’attivatore del plasminogeno. A. Patogenesi. Si può considerare che la sindrome metabolica si verifica quando si ha una combinazione di più fattori, di origine genetica o esogena, condizionanti tutti un aumentato rischio di patologia cardiovascolare e di diabete di tipo II. Tuttavia, questi possono essere ridotti essenzialmente a due: l’obesità e la resistenza all’insulina. L’obesità favorisce l’ipertensione aumentando la massa circolante e determina lo stato proinfiammatorio e protrombotico attraverso la secrezione, da parte degli adipociti, di citochine infiammatorie e dell’inibitore dell’attivatore del plasminogeno. Si è visto che la semplice obesità condiziona una resistenza all’insulina, ma questa non è strettamente parallela alla massa del tessuto adiposo. Debbono perciò esistere altri condizionamenti ereditari che determinano una resistenza primaria all’insulina e indipendente dalla quantità del grasso corporeo. I geni che determinano questa resistenza primaria sembrano soprattutto diffusi in alcune popolazioni (per es., nel Sud Est asiatico) nelle quali la resistenza all’insulina è presente anche con un indice di massa corporea inferiore a 25. È la coesistenza dell’obesità con la resistenza primaria all’insulina che è il più importante fattore patogenetico nella sindrome metabolica. Atri condizionamenti genetici, in associazione con particolari stili di vita (alimentazione, vita sedentaria), influenzano le caratteristiche individuali di questa condizione clinica.
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B. Clinica e terapia. Come si è detto, la rilevanza clinica della sindrome metabolica consiste nell’elevata predisposizione alla patologia cardiovascolare e al diabete di tipo II. Si è anche sostenuto che i soggetti con questa sindrome sono predisposti ad altre condizioni patologiche, come la sindrome dell’ovaio policistico, la steatosi epatica, la calcolosi biliare di colesterolo, l’asma, i disturbi del sonno e alcune neoplasie. La terapia è ovviamente importante e deve essere in primo luogo diretta alla riduzione del peso corporeo con le misure che abbiamo già indicato a questo proposito, ma principalmente con la dieta e l’attività fisica. La sensibilità all’insulina può essere migliorata con va-
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ri mezzi. La biguanide metformina è sembrata interessante in quanto apparentemente riduce l’insorgenza di coronaropatia in pazienti obesi e con diabete di tipo II. Tuttavia, non esistono studi che provino che questo avvenga nei soggetti con sindrome metabolica. Molto più promettente sembra l’impiego di farmaci appartenenti alla classe dei tiazolidinedioni, quali il troglitazone e i suoi derivati che, in pazienti con diabete di tipo II, hanno dimostrato di aumentare la sensibilità all’insulina. Per quanto riguarda le altre condizioni associate, i farmaci eventualmente da adoperare sono le statine e i fibrati, gli antipertensivi e gli antiaggreganti piastrinici come l’acido acetilsalicilico.
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PARTE DODICESIMA
IMMUNOPATOLOGIA a cura di C. RUGARLI, C. BESANA, M.G. SABBADINI
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C A P I T O L O
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GENERALITÀ SULL’IMMUNOPATOLOGIA C. RUGARLI, G.F. CIBODDO, M.G. SABBADINI, R. SCORZA
ORGANIZZAZIONE DELLA RISPOSTA IMMUNE (*) I processi immunitari vengono assicurati dalle cellule immunocompetenti, i macrofagi, i linfociti e le plasmacellule che derivano da alcuni di essi. Non è nostra intenzione sostituire queste premesse alle nozioni più complete che debbono essere apprese sui testi di immunologia. Riteniamo, però, che alcuni brevi cenni a problemi di immunologia generale siano indispensabili per i richiami alle forme patologiche delle quali parleremo.
Immunità innata e immunità adattativa Il sistema immunitario è essenziale per la vita degli organismi complessi che devono cimentarsi con un ambiente nel quale informazioni estranee, come quelle veicolate da microrganismi potenzialmente patogeni, tendono a interferire con la complessa geometria molecolare che assicura la normalità delle funzioni organiche. Occorre perciò un apparato che elimini queste informazioni estranee o ne limiti il campo di espansione. Il sistema immunitario, che svolge questo compito, è in realtà un sistema ricognitivo, simile in questo al sistema nervoso, che ha la funzione di percepire segnali specifici e di fornire risposte nei loro riguardi, in una specie di arco riflesso. I segnali rilevanti per il sistema immunitario sono geometrie molecolari e vengono chiamati antigeni quando sono impegnati nelle reazioni dell’immunità adattativa Esistono, infatti, due tipi di immunità, l’immunità innata e quella adattativa. La prima è presente alla nascita e non ha memoria, ossia non è modificata permanentemente dai contatti molecolari che l’organismo ha nel corso della sua vita. È messa in atto da cellule dotate del-
(*) M.G. Sabbadini, C. Rugarli
la capacità di interiorizzare (fagocitosi, pinocitosi) sostanze estranee dannose, come quelle della linea monociti-macrofagi e come i granulociti neutrofili, ma anche della capacità, che è propria della linea monociti-macrofagi, di secernere e riversare nell’ambiente circostante sostanze solubili (citochine) capaci di attrarre localmente altre cellule con le stesse caratteristiche, che vengono concentrate nel processo dell’infiammazione. L’immunità adattativa ha come protagonisti i linfociti ed è invece un processo acquisito e dipendente dai contatti con molecole che possono fungere da antigeni, ed è specifica, nel senso che, a parte reazioni crociate che possono dipendere da somiglianze molecolari, è rivolta solamente verso i segnali che l’hanno indotta. Ha perciò una capacità discriminativa molto fine ed enormemente superiore a quella dell’immunità innata, che percepisce soltanto la distinzione pericoloso-non pericoloso. Esistono altre differenze importanti tra l’immunità innata e quella adattativa. Nella prima le risposte sono immediate, in quanto le cellule che debbono dare la risposta sono già pronte per effettuare le loro funzioni. Nella seconda le risposte primarie, quelle che si hanno al primo contatto con l’antigene, richiedono alcuni giorni, necessari a mettere in moto le complesse dinamiche cellulari indispensabili perché questo tipo di immunità si sviluppi. Una seconda differenza consiste nel fatto che l’immunità innata non è sottoposta a restrizione clonale, mentre l’immunità adattativa lo è. Occorre spiegare meglio questo concetto. Un clone è una progenie di cellule, derivate tutte da un singolo precursore, che hanno caratteristiche identiche. Nel caso dell’immunità innata, tutte le cellule responsive possono essere considerate uguali e si impegnano nella reazione che è loro propria indipendentemente dalla loro genealogia. Nel caso dell’immunità adattativa, invece, i linfociti potenzialmente responsivi sono diversi l’uno dall’altro in dipendenza dell’eterogeneità delle strutture molecolari che costituiscono i recettori per gli antigeni (che debbono corrispondere alla geometria dei recettori come una chiave corrisponde alla sua serratura). Perciò, solamente i cloni derivati dai linfociti che effettuano il rico-
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noscimento sono impegnati nella risposta. Ciò è collegato con una terza importante differenza tra immunità innata e immunità adattativa, e cioè il fatto che la prima non ha memoria mentre la seconda la ha. Ossia, per la prima la ripetizione a distanza di tempo dello stesso segnale che ha generato un risposta avviene sempre allo stesso modo (a parte le influenze che possono dipendere dall’immunità adattativa), mentre per la seconda non è così, e una risposta secondaria avviene più prontamente e con maggiore intensità di quella primaria. Questo dipende dal fatto che, nel primo contatto con l’antigene, si sono espansi e modificati i cloni linfocitari specificamente responsivi e il sistema immunitario si trova particolarmente pronto a una nuova reazione nei riguardi degli stessi segnali specifici (ma non nei riguardi di altri). Un progresso importante è stato il riconoscimento che anche le cellule dell’immunità innata hanno bisogno di essere attivate per svolgere le loro attività. Si è visto che alla superficie dei monociti-macrofagi, delle cellule dendritiche e dei loro precursori esistono recettori per segnali molecolari che sono in grado di favorire la loro differenziazione e attivazione. Questo avvicinerebbe le cellule dell’immunità innata ai linfociti dell’immunità adattativa, ma esistono importanti differenze. Prima di tutto questi recettori non sono ristretti clonalmente, ossia sono uguali su tutte le cellule, mentre quelli dell’immunità adattativa sono diversi da un clone linfocitario all’altro. In secondo luogo questi recettori sono diretti al riconoscimento di strutture molecolari ripetitive in grosse molecole (pattern), mentre quelli linfocitari sono specifici per fini geometrie molecolari presentate come peptidi legati ad antigeni di istocompatibilità o come regioni circoscritte di molecole più grosse (epitopi). Tra i recettori delle cellule dell’attività innata sono particolarmente importanti alcuni, definiti “Toll-like Receptors” (TLR), che riconoscono prodotti batterici come lipopolisaccaridi e altri. Anche varie citochine infiammatorie sono importanti nell’attivazione delle cellule dell’immunità innata. È importante il fatto che l’attivazione delle cellule dell’attività innata favorisce anche lo sviluppo della immunità adattativa, in quanto le cellule dendritiche principalmente, ma anche i macrofagi nelle risposte secondarie, fungono da cellule presentanti gli antigeni ai linfociti T. In realtà nello svolgere la funzione di fagocitosi i macrofagi non solo ottengono la distruzione dell’estraneo potenzialmente pericoloso, ma elaborano il materiale ingerito in modo da renderlo riconoscibile ai linfociti T helper e di permettere l’avvio della risposta linfocitaria (si veda altre). Anche le citochine prodotte in questa fase svolgono la duplice funzione di sistema effettore e di fattore costimolatorio per i linfociti T. L’azione combinata tra immunità specifica e naturale, per altro, è a doppia via: infatti, una volta innescata la risposta specifica, le linfochine prodotte dai linfociti T helper, o le frazioni del complemento attivate dalla reazione degli anticorpi e gli stessi anticorpi, potenziano e rendono molto più efficienti tutte le funzioni macrofagiche, dalla chemiotassi all’immunoade-
IMMUNOPATOLOGIA
renza, alla fagocitosi e alla capacità di “killing” batterico. È necessario fare un breve cenno anche alle cellule dell’immunità innata. Queste, come si è anticipato, sono rappresentate principalmente dai fagociti mononucleati, monociti e macrofagi. I monociti originano a livello del midollo osseo, appartengono al cosiddetto “sistema reticolo-endoteliale” e costituiscono una prima linea di difesa sia grazie alla capacità di fagocitare particelle estranee o alterate (come microbi, macromolecole, detriti cellulari) sia attraverso la secrezione di citochine (IL-1, IL-6, TNF, ecc.) che attivano i meccanismi dell’infiammazione. I granulociti polimorfonucleati sono il secondo tipo cellulare implicato nella difesa naturale e costituiscono la popolazione numericamente più rilevante. Essi vengono rapidamente reclutati nelle sedi di infiammazione attraverso una serie di segnali quali la comparsa di nuove molecole di adesione sugli endoteli infiammati e la produzione di IL-8 che determinano la loro adesione all’endotelio e la trasmigrazione nei tessuti. I polimorfonucleati sono essenzialmente cellule terminali, in grado di fagocitare attivamente particelle opsonizzate ma che muoiono nel compiere questa funzione. Del tutto recentemente è stato proposto un ruolo dei polimorfonucleati anche nella fase afferente della risposta immune specifica, mediato dalla produzione di citochine (IL-1, TNF-, IL-6, IL-8). I polimorfonucleati, però non possiedono antigeni MHC di II classe e non sono in grado di fungere da cellule presentanti l’antigene. Dei linfociti, protagonisti dell’immunità adattativa, si parlerà nei paragrafi seguenti.
Presentazione dell’antigene e ricognizione immune Il primo momento di questo processo è rappresentato dall’incontro con l’antigene. Gli antigeni, per esempio un microrganismo batterico, non diffondono nel corpo come un gas nel vuoto, ma devono venire focalizzati in sedi che rendano più facile il loro incontro con le cellule immunocompetenti. Di questa funzione si fanno carico le cellule accessorie della risposta immune. Queste cellule, chiamate una volta “sistema reticolo-endoteliale”, costituiscono un gruppo eterogeneo che comprende i monociti, i macrofagi e gli istiociti tissutali, le cellule dendritiche e le cellule di Langerhans cutanee. Si tratta, in realtà, di cellule appartenenti sempre allo stipite monocitico-macrofagico che assumono aspetto e caratteristiche funzionali diverse a seconda che siano circolanti (monociti), che siano migrate nei tessuti o nelle cavità (macrofagi) o che abbiano una localizzazione tissutale fissa (istiociti). A livello cutaneo vengono denominate cellule di Langerhans, mentre nei linfonodi e negli organi linfatici assumono l’aspetto di cellule dendritiche. Molte cellule accessorie hanno capacità di fagocitosi e costituiscono una prima linea di difesa, capace di eliminare diversi agenti patogeni (batteri, funghi, protozoi, ecc.). Le cellule accessorie sono presenti in tutti i tessuti ma sono particolarmente concentrate negli organi linfa-
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tici (milza e linfonodi) dove i linfociti hanno le maggiori probabilità di interagire con esse. Le cellule accessorie svolgono due funzioni: a) catturano l’antigene e lo smontano in frammenti di piccole dimensioni, adatti ad interagire con il recettore dei linfociti T; b) espongono i frammenti antigenici sulla loro superficie in associazione con particolari glicoproteine di membrana, costituite dagli antigeni di istocompatibilità (antigeni MHC) di II classe. L’associazione tra frammenti antigenici e molecole MHC avviene all’interno delle cellule fagocitiche, nelle vescicole endoplasmiche del trans-Golgi, ed è una associazione a bassa affinità ma molto stabile, così che l’antigene, una volta esposto sulla membrana della cellula accessoria, vi permane a lungo e può essere riconosciuto dai linfociti T helper. La processazione e presentazione dell’antigene è resa più efficiente dall’interferon- (IFN-), una linfochina prodotta dai linfociti T helper. La seconda tappa della risposta immune è costituita dal riconoscimento dell’antigene da parte delle cellule dotate del recettore specifico. Come si è già detto, la ontogenesi linfocitaria sia delle cellule T che delle cellule B porta alla formazione di un ampio repertorio recettoriale, capace potenzialmente di interagire con qualunque antigene. I linfociti B e T, però, riconoscono gli antigeni in modo differente: mentre le cellule B e gli anticorpi legano l’antigene, per esempio una proteina, sia in soluzione che su una superfice cellulare e distinguono efficientemente la geometria molecolare di essa (per es., la forma nativa da una forma denaturata e degradata), i linfociti T non legano gli antigeni liberi in soluzione, ma possono riconoscerli solo quando vengano loro presentati complessati agli antigeni MHC. L’antigene riconosciuto dalle cellule T, inoltre, è un frammento della proteina nativa costituito da non più di 10-12 aminoacidi, prodotto dalla processazione da parte delle cellule accessorie. I peptidi originati dalla degradazione di proteine esogene sono esposti associati a molecole MHC di II classe, quelli prodotti per sintesi endogena a molecole MHC di I classe. Il recettore delle cellule T interagisce sia con il frammento peptidico che con la parte di molecola MHC dove è allocato il peptide, formando perciò un complesso trimolecolare. L’interazione è resa criticamente efficiente dalle molecole accessorie CD4 e CD8, che legano rispettivamente la parte invariante degli antigeni MHC di II e di I classe.
Attivazione linfocitaria e interazioni cellulari L’interazione del recettore linfocitario con il complesso MHC-antigene innesca una cascata di eventi che determina l’attivazione cellulare. Questi eventi comprendono l’attivazione di una fosfodiesterasi di membrana che idrolizza il fosfatidilinositolodifosfato a diacilglicerolo e a inositoltrifosfato; quest’ultimo induce la mobilizzazione del Ca intracitoplasmatico, mentre il diacilglicerolo attiva la protein-chinasi C che, a sua volta, ca-
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talizza la fosforilazione su residui di serina della catena del CD3. I due eventi associati determinano la trascrizione dei geni per le interleuchine e per il recettore dell’interleuchina-2. Si ritiene che, normalmente, l’innesco della cascata attivatoria abbia bisogno dell’intervento contemporaneo di due segnali: uno è costituito dall’interazione (e probabilmente dall’aggregazione) del recettore con l’antigene, l’altro è fornito dall’interazione di particolari recettori, CD28 e CTLA-4, presenti sui linfociti, con molecole particolari, dette costimolatorie e chiamate B7-1 e B7-2. L’interazione con CD28, che ha luogo all’inizio delle reazioni immunitarie, stimola l’attivazione linfocitaria, quella con CTLA-4, che è tardiva, la inibisce ed ha manifestamente il ruolo di arrestare la risposta immunitaria una volta che abbia raggiunto il suo scopo. Anche la produzione di citochine (Tab. 68.1), ormoni a breve raggio di azione prodotti dalle cellule impegnate nelle reazioni immunitarie e dotati di azione autocrina (agiscono sulle stesse cellule che le producono) o paracrina (agiscono su cellule contigue), è molto importante. Una volta attivata, la cellula si blastizza e si replica formando un clone. Nello stesso tempo inizia a secernere una serie di citochine attraverso le quali è in grado di automantenere la propria crescita (IL-2) e di attivare o attrarre nella sede della reazione altre cellule che devono cooperare nella risposta immune. I linfociti T, a differenza di quelli B, non sono in grado di riconoscere le molecole antigeniche nella loro configurazione nativa, ma solo peptidi montati su un “anfratto” delle molecole del sistema maggiore di istocompatibilità (HLA nell’uomo) di particolari cellule, definite cellule professionali presentanti antigeni. Queste cellule appartengono in primo luogo alla linea monociti-macrofagi e sono rappresentate principalmente da cellule specializzate, molto importanti nell’induzione delle risposte primarie, dette cellule dendritiche per il loro aspetto molto ramificato, così che la loro superficie è notevolmente espansa. Le cellule dendritiche sono particolarmente ricche di antigeni di istocompatibilità di classe II e di molecole capaci di fornire segnali costimolatori ai linfociti T. Anche i macrofagi, nella loro forma classica, possono svolgere il ruolo di cellule presentanti gli antigeni ai linfociti T, anche se, alle volte, questo non avviene e i macrofagi fungono piuttosto da “cellule spazzine” che sequestrano e degradano gli antigeni senza presentarli al sistema immunitario. Una terza classe di cellule presentanti gli antigeni ai linfociti T è rappresentata dai linfociti B; anch’essi posseggono costitutivamente alla loro superficie gli antigeni di istocompatibilità di II classe. La differenza con le cellule dendritiche e i macrofagi è che, mentre queste cellule possono assumere qualsiasi materiale antigenico, i linfociti B interiorizzano solo le molecole che interagiscono con i loro recettori immunoglobulinici. Sono perciò molto importanti per amplificare le risposte immunitarie che li coinvolgono, una volta avviate. Come si è visto, i linfociti T helper hanno fenotipo CD4+. I linfociti CD4+ sono in realtà eterogenei e si è visto che, a partire da un atteggiamento funzionale co-
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IMMUNOPATOLOGIA
Tabella 68.1 - Le principali citochine. NOME • 1° gruppo – Interferon- e Tumor Necrosis Factor- Interleuchina-1 Interleuchina-6 • 2° gruppo – Interleuchina-2 – Interleuchina-4 – Interleuchina-10 – Interleuchina-12 – Fattore di crescita e di trasformazione • 3° gruppo – Interferon- – Linfotossina – Interleuchina-5 – Interleuchina-8 • 4° gruppo – Interleuchina-3 – Fattore di stimolazione colonie granulocitiche e macrofagiche – Fattore di stimolazione colonie macrofagiche – Fattore di stimolazione colonie granulocitiche – Interleuchina-7 – Interleuchina-9 – Interleuchina-11
ACRONIMO
PRINCIPALI EFFETTI SULLE CELLULE BERSAGLIO
IFN-,
Antivirale, antiproliferativo, ↑ espressione MHC I (tutte), attivazione (NK) Febbre (SNC), infiammazione (PMN, E), cachessia (tono muscolare e adiposo), attivazione (T, B) Stimolazione (T, B), infiammazione (E), febbre (SNC) Stimolazione (T, B), crescita (B), proteine di fase acuta (F)
TNF- IL-1 IL-6 IL-2 IL-4 IL-10 IL-12 TGF-
Crescita e attivazione (T, B), attivazione (NK) Crescita (T), sintesi Ig (B) Inibizione Th1
IFN- LT (TNF-) IL-5 IL-8
Attivazione (NK, E, fagociti), ↑ espressione MHC II (tutte) Attivazione (PMN, E) Crescita e attivazione (B, eosinofili) Chemiotassi e adesione (PMN)
IL-3 GM CSF
Crescita e differenziazione precursori (tutte) Crescita e differenziazione precursori (PMN, macrofagi)
M-CSF G-CSF IL-7 IL-9 IL-11
Differenziazione macrofagi (precursori “committed”) Differenziazione granulociti (precursori “committed”) Crescita e differenziazione precursori (B) Crescita e differenziazione precursori (T?, basofili?) Crescita e differenziazione precursori (megacariociti)
Inibizione (T, fagociti), regolazione e crescita (fibroblasti)
T = linfociti T; B = linfociti B; NK = cellule natural killer; E = cellule endoteliali; F = fegato; SNC = sistema nervoso centrale; PMN = polimorfonucleati.
mune, chiamato Th0, possono prendere due vie principali, quella dei linfociti Th1 e quella dei linfociti Th2, distinte per le citochine che vengono prodotte (Tab. 68.2). I linfociti Th1 e Th2 vengono spinti alla propria differenziazione funzionale dalle stesse citochine che producono. L’interferon- induce la differenziazione dei Th0 in Th1, mentre l’IL-4 induce la differenziazione in Th2. Esistono anche influenze inibitorie: per esempio, l’interferon- inibisce l’evoluzione verso i Th2, mentre l’IL-4 e l’IL-10 (prodotta da linfociti T attivati, linfociti B, monociti e cheratinociti) inibiscono l’orientamento funzionale verso i Th1. L’IL-2 stimola invece alla proliferazione i linfociti Th1 e lo stesso fa l’IL-4 con i linfociti Th2. Nel complesso, le risposte del tipo Th1 sono responsabili delle reazioni proprie dell’immunità cellulare, di tipo infiammatorio (come la reazione all’iniezione intradermica di tubercolina) o citotossico (o con meccanismo diretto, o cooperanti con i linfociti CD8+) su cellule infettate da virus e cellule tumorali. Le risposte del tipo Th2 sono adatte a cooperare con i linfociti B destinati a secernere anticorpi della classe IgE e causare le reazioni allergiche. Le risposte combinate, Th1 e Th2, determinano le reazioni immunitarie più comuni, con cooperazione di cellule T con i linfociti B indirizzati a secernere anticorpi delle classi IgG e IgA. È noto, infatti, che la maggioranza degli antigeni,
soprattutto quelli proteici, non sono in grado di determinare l’attivazione dei linfociti B senza l’intervento dei linfociti T helper. Questi ultimi riconoscono, sullo stesso antigene, un epitopo (1) che non è necessariamente lo stesso che ha ingaggiato il recettore immunoTabella 68.2 - Citochine prodotte preferenzialmente dai linfociti Th1, Th2 e Th0. CITOCHINE Interferon- Linfotossina IL-2 IL-3 GM-CSF Tumor Necrosis Factor- IL-4 IL-5 IL-6 IL-9 IL-10 IL-13
TH1
TH2
TH0
+ + + + + + – – – – – –
– – – + + + + + + + + +
+ + + + + +
(1) Il termine “epitopo” designa l’unità, all’interno di un antigene, che viene legata da una cellula immunologicamente competente. Nel caso dei linfociti T l’epitopo ha una sua individualità molecolare e si identifica con il peptide inserito in una molecola di istocompatibilità. Nel caso dei linfociti B ha un’individualità virtuale e rappresenta una regione nell’ambito di una molecola antigenica integra.
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68 - GENERALITÀ SULL’IMMUNOPATOLOGIA
Plasmacellule Blasti B Cellule B memoria
apicale chiara
Centrociti Morte per apoptosi
Zone: del mantello
basale chiara scura
Centroblasti
Figura 68.1 - Follicolo germinativo secondario.
globulinico dei linfociti B e cooperano con i linfociti B non solo favorendo la loro espansione clonale, ma anche determinando lo “switch” della produzione anticorpale da IgM a IgG, IgA o IgE. In particolare, la capacità di un dato antigene di determinare preferenzialmente una risposta di tipo ipersensibilità ritardata piuttosto che di tipo anticorpale sembra dovuta alla sua tendenza ad attivare ed espandere soprattutto cloni linfocitari T helper di tipo 1 (Th1) o di tipo 2 (Th2). Queste due popolazioni sarebbero capaci di inibirsi vicendevolmente attraverso la produzione di IFN- (Th1) o di IL-10 (Th2). Con il perdurare o il ripetersi della stimolazione antigenica, sempre dopo l’innesco da parte delle cellule T, i linfociti B producono anticorpi a sempre maggiore affinità per l’antigene. La base anatomica di questo processo sono i centri germinativi dei follicoli linfatici secondari (Fig. 68.1), dove l’antigene si concentra, fissato alla superficie delle cellule dendritiche follicolari sotto forma di immunocomplesso. I linfociti B specifici per quell’antigene e già attivati dai T helper si concentrano nella zona profonda (zona scura), si blastizzano ed entrano in rapida proliferazione (centroblasti). Nei centroblasti in replicazione avvengono frequenti mutazioni nella regione V del gene delle immunoglobuline, così che le cellule figlie generate dai centroblasti producono immunoglobuline con la parte variabile leggermente diversa da quella dei linfociti B iniziali. Molte di queste mutazioni casuali ridurranno la affinità dell’anticorpo per l’antigene, mentre alcune la aumenteranno. Nella zona basale chiara del follicolo le cellule B in cui è avvenuta una mutazione favorevole possono interagire più efficientemente con l’antigene, ne ricevono un segnale positivo e vengono selezionate per espandersi (centrociti), mentre quelle non più reattive muoiono per apoptosi (2). Procedendo verso la zona follicolare apicale i centrociti vengono stimolati a differenziarsi in plasmacellule o a ritornare allo stato di piccolo linfocita quiescente ed eventualmente rientrare in circolo (cellule B della memoria). Anche per l’attivazione dei linfociti citotossici (T CD8+) è necessaria una collaborazione dei linfociti (2) Con il termine “apoptosi” si indica la morte cellulare programmata.
T helper mediata dalla produzione di citochine (essenzialmente l’IL-2). I linfociti citotossici riconoscono anch’essi l’antigene sotto forma di peptide inserito nella tasca di una molecola MHC, ma in questo caso si tratta di MHC di I classe (nell’uomo: HLA-A, B, C, presenti su tutte le cellule nucleate) e il peptide non deriva dal catabolismo di proteine esogene ma di quelle sintetizzate all’interno della cellula (per es., proteine virali in cellule infettate). Per questo motivo i T citotossici sono gli effettori più importanti nelle infezioni virali o da patogeni endocellulari.
Meccanismi effettori e regolazione negativa Attraverso la produzione di linfochine, i linfociti T helper attivati arruolano tutta una serie di effettori che potenziano la risposta infiammatoria e difensiva. I fattori stimolatori delle colonie ematopoietiche (IL-3, M-CSF, GM-CSF, G-CSF), per esempio, mobilizzano i precursori midollari dei granulociti, dei macrofagi, degli eosinofili e dei mastociti; il -IFN incrementa l’espressione degli antigeni MHC di II classe sui macrofagi e sui linfociti B e attiva le cellule NK. Un elenco delle principali citochine è fornito nella tabella 68.1. In questo modo, perciò, la ricognizione e l’attivazione linfocitaria detta la specificità di una cascata di eventi non specifici, essenziali per la funzione effettrice. Quando la stimolazione antigenica cessa, una parte dei linfociti prodotti durante l’espansione clonale ritorna gradualmente allo stato di piccolo linfocita, smettendo di replicarsi (fase G0 del ciclo cellulare). Queste cellule rientrano nella circolazione linfatica (Cap. 49) e costituiscono le cellule memoria specifiche, capaci di venire rapidamente re-innescate da un secondo incontro con l’antigene. L’attivazione immunitaria prevede anche una regolazione negativa che ne moduli l’estensione e l’intensità. La stessa biodisponibilità dell’antigene a livello delle cellule che possono essere attivate funge da elemento regolatore. Man mano, infatti, che l’antigene viene catabolizzato o legato dagli anticorpi e la sua disponibilità diminuisce, solo le cellule dotate di recettori ad affinità maggiore potranno ancora essere attivate, mentre la formazione di immunocomplessi circolanti interviene nel feed-back mediando un effetto inibitorio sulle cellule della risposta immune. Esistono poi alcuni meccanismi di regolazione più specifici, capaci di prevenire attivazioni “improprie”, che vengono complessivamente denominati “soppressivi”. Essi comprendono sia interazioni dirette tra cellule sia la produzione di fattori solubili. Esistono altri linfociti T CD4+ con funzioni regolatrici. Alcuni sono chiamati Tr1 e secernono IL-10 che, come si è visto, inibisce l’evoluzione funzionale dei linfociti Th0 verso i Th1. Si tratta perciò di una citochina immunoregolatrice e antinfiammatoria. Altri linfociti T CD4+ sono stati chiamati Th3 e secernono un’altra citochina antinfiammatoria, chiamata TGF- (Transforming Growth Factor-).
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IMMUNOPATOLOGIA
Un’altra ipotesi si rifà all’interazione antidiotipica. Il concetto di idiotipo è stato introdotto negli anni Sessanta da Kunkel, il quale osservò come la regione variabile di un anticorpo, quella cioè che forma il sito combinatorio per l’antigene, potesse fungere essa stessa da immunogeno. In effetti ogni singolo anticorpo (e ogni recettore delle cellule T) origina dal riarrangiamento casuale, diverso per ciascuna cellula, dei geni che codificano per la parte variabile delle sue catene. Ogni sito combinatorio è perciò dotato di una sua particolare sequenza aminoacidica e configurazione spaziale; in altre parole, è dotato di una sua specificità antigenica. Essa viene chiamata idiotipo. Gli anticorpi o le cellule T capaci di riconoscere specificamente la configurazione idiotipica di un recettore vengono chiamati antidiotipi. Naturalmente anche il sito combinatorio dell’anticorpo o del recettore antidiotipico è dotato a sua volta di una sua particolare configurazione antigenica, ed è perciò potenzialmente immunogeno e capace di stimolare una risposta antidiotipica (che in questo caso verrà chiamata antiantidiotipica). L’idiotipo di questo terzo recettore, essendo complementare al secondo, dovrà però in qualche modo assomigliare al primo idiotipo, così che il cerchio si chiude. Nel 1974 Niels Jerne formulò una teoria secondo la quale il sistema immunitario sarebbe in realtà costituito dalla continua interazione di idiotipi e antidiotipi (teoria della rete idiotipica). La regolazione della risposta immune sarebbe governata dagli effetti di volta in volta stimolatori o inibitori di queste interazioni. Esistono alcuni dati sperimentali a favore di questa teoria: la risposta anticorpale ad una stimolazione antigenica, per esempio: si accompagna spesso alla produzione di anticorpi antidiotipo e anticorpi antidiotipo spontanei sono evidenziabili in diverse malattie autoimmuni. Secondo alcuni Autori, anche l’azione delle cellule soppressive potrebbe essere dovuta a un’interazione antidiotipica verso il recettore dei linfociti T helper o T citotossici, o direttamente verso i linfociti B.
Citochine Le citochine sono ormoni proteici a basso peso molecolare e a breve raggio di azione. Esse vengono prodotte soprattutto dai linfociti stimolati dall’antigene rilevante (linfochine) e dalle cellule fagocitiche mononucleate durante la fase effettrice della risposta immune naturale (monochine). Le citochine sono un gruppo molto vario di molecole, accomunate dalla proprietà di regolare la risposta immune e infiammatoria, ma dotate di effetti molto diversi. Malgrado questo, è possibile identificare alcune caratteristiche comuni: • la loro produzione avviene per neosintesi (le citochine non sono contenute come granuli preformati) in modo critico e autolimitantesi nel tempo; • la stessa citochina può essere prodotta da tipi cellulari diversi;
• la stessa citochina può agire su stipiti cellulari diversi e citochine diverse possono condividere le stesse proprietà funzionali; • la loro azione è spesso “a cascata” (una citochina induce la produzione di un’altra citochina e così via) e modulata dalla presenza delle altre; • l’attività sulle cellule bersaglio si esplica attraverso i recettori specifici: i recettori possono essere presenti in modo costitutivo o venire espressi solo dopo particolari segnali, e la cellula bersaglio può essere la stessa che produce la citochina (azione autocrina) o meno (azione paracrina); • molte citochine funzionano come fattori di crescita per le cellule ematopoietiche e per cellule di origine mesenchimale. L’estremo pleiotropismo di queste molecole spiega perché il termine “interleuchine” (da cui gli acronimi in uso) impiegato inizialmente, sia stato sostituito con quello più generale di “citochine”, dal momento che la loro influenza non si esercita solo sulle cellule della risposta immune né la loro produzione avviene solo da parte delle cellule immunocompetenti. Quanto detto finora spiega altresì la difficoltà a raggruppare queste molecole in classi funzionali o di origine. Tentativamente si possono però riconoscere quattro categorie principali, in base all’effetto preponderante che esse determinano: • fattori che mediano l’immunità naturale (IFN-, IFN-, TNF-, IL-1, IL-6); • fattori che regolano l’attivazione, la crescita e la differenziazione linfocitaria (IL-2, IL-4, IL-10, IL-12, TGF-); • fattori che determinano il richiamo e l’attivazione di cellule infiammatorie (IFN-, IFN-, IL-5, IL-8); • fattori di crescita e differenziazione cellulare (IL-3, GM-CSF, M-CSF, G-CSF, IL-7, IL-9, IL-11). Nella tabella 68.1 sono presentate le più importanti citochine. La recente possibilità di produrre in vitro molte di queste citochine grazie alle tecniche di biologia molecolare ha permesso di utilizzarle in clinica in diversi campi terapeutici, dalla terapia antivirale a quella antineoplastica.
COMPLEMENTO(*) Il sistema del complemento è costituito da una ventina di proteine plasmatiche che sono in grado di interagire tra loro, con gli anticorpi e con le membrane cellulari. Queste interazioni conducono all’attività biologica di tale sistema. Le azioni del complemento sono numerose e comprendono: la lisi di cellule, batteri e virus, l’attivazione della chemiotassi e la fagocitosi da parte di macrofagi e granulociti neutrofili, il rilascio di istamina dai mastociti e dai basofili. (*) G.F. Ciboddo
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68 - GENERALITÀ SULL’IMMUNOPATOLOGIA
Esistono strette connessioni con altri sistemi proteici plasmatici: la coagulazione, la fibrinolisi e il sistema delle chinine. In condizioni normali le componenti del complemento sono presenti nel siero in forma inattiva e un’attivazione sequenziale a cascata comporta la comparsa dell’attività biologica. In circolo sono presenti numerose proteine di controllo che inibiscono l’attivazione incontrollata di tale sistema: le principali sono il C1 inibitore (C1 INH), il C3b inattivatore (C3b INA), il C6 inattivatore (C6 INA). L’attivazione del complemento può avvenire attraverso due sistemi indipendenti: la via classica e la via alterna (Fig. 68.2).
IL COMPLEMENTO
VIA CLASSICA Complessi Ag-Ab [IgM-IgG1-2-3]
VIA ALTERNA Endotossine IgA-IgG4-IgE ecc.
C1 C4 C2
P C3 B D
C3
C1 INH
*
Via classica Comprende tre componenti: C1, C4, C2. Può essere attivata dai complessi antigene-anticorpo o dalle Ig aggregate. C1 è composto da tre subunità: C1q, C1r, C1s, che costituiscono un unico complesso in presenza di ioni calcio. Soltanto i complessi Ag-Ab contenenti IgM o IgG1-2-3 permettono il legame del C1q con la frazione Fc dell’anticorpo. Il legame determina l’attivazione di C1r che enzimaticamente attiva C1s, che è un’esterasi. Tale molecola agisce sui suoi substrati C4 e C2 a formare un complesso bimolecolare C4b-C2a. Tale complesso, la classica C3 convertasi, è in grado di attivare il C3 ad iniziare la sequenza effettrice. Durante tale processo si liberano un piccolo frammento di C3, il C3a, che ha proprietà anafilotossinica, e una grossa molecola, il C3b, importante per la prosecuzione della reazione.
Branca di amplificazione
P
BD
C3a
C3b
C3b + C3d C3b INA + B1H Branca effettrice
C5
C5a C6
*
C5-6 C7
Via alterna Capacità di legarsi alle membrane
C5-6-7
Può essere attivata in assenza di una reazione Ag-Ab specifica. Tale attivazione aspecifica è vantaggiosa poiché genera un meccanismo di difesa ancor prima dell’induzione di una risposta immune umorale. Tale via può essere attivata da lipopolisaccaridi (per es., endotossine batteriche), batteri, funghi (Candida, ecc.), immunocomplessi contenenti IgG4, IgA, IgD, IgE. I fattori implicati in tale via sono: la properdina, il fattore D, il fattore B, il C3b. La loro interazione conduce alla formazione della C3 convertasi della via alterna. In condizioni normali sono presenti in circolo piccole quantità di C3b, derivato dal catabolismo del C3. Normalmente il C3b è rapidamente inattivato dal legame con il C3b inattivatore e distrutto da una sostanza denominata 1-H che lo rompe in piccoli frammenti. Quando però sono presenti sostanze attivanti (per es., lipopolisaccaridi) il C3b si deposita alla loro superficie, si lega al fattore B e viene protetto dalla degradazione ad opera della properdina. Il fattore B modificato strutturalmente all’interno del complesso può essere attivato dal fattore D, formando l’enzima che rompe il C3, dando origine al C3a (anafilotossina) e ad ulteriore quantità di C3b. Si determina così un meccanismo di feed-back positivo che amplifica la reazione.
C8
Iniziale danno di membrana
C5-6-7-8 C9
C5-6-7-8-9
Lisi osmotica
Figura 68.2 - Rappresentazione della via classica e della via alterna del complemento. Entrambe convergono a livello di C3 per dare origine alla via terminale effettrice comune. L’attivazione di tale sistema dà origine a vari composti biologicamente attivi. → = attivazione; — — → = sistemi inibitori; * = molecole con azione anafilotossinica; O = chemiotassi nei confronti dei granulociti neutrofili.
Via comune L’attivazione delle componenti terminali ha inizio con la formazione della C5 convertasi (C3b + C3 convertasi), che rompe il C5 in due parti: un piccolo frammento C5a (anafilotossina), e C5b che lega C6 e C7 dando origine a un complesso trimolecolare che ha un’attività chemio-
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IMMUNOPATOLOGIA
tattica positiva sui granulociti neutrofili e interagisce con le membrane biologiche, formando un canale nella membrana tale da permettere il flusso di ioni e macromolecole che portano alla lisi osmotica delle cellule. C8 e C9 accelerano il processo e stabilizzano il complesso. È questa la fase della citotossicità indotta da attivazione del complemento.
Meccanismi di controllo I fenomeni descritti sopra trovano un’autoregolazione nel rapido decadimento dei siti di combinazione generati durante la reazione e nella presenza di alcune proteine sieriche inibenti. Il C1 INH blocca il C1s o il C1r attivati legandosi ad essi in modo irreversibile. Tale inibitore blocca non solo il C1 ma anche l’enzima fibrinolitico plasmina, la callicreina e il fattore di Hageman (fattore XII). L’attivazione di tali sistemi, comportando un maggiore consumo di C1 INH, determina una facilitazione all’innesco della cascata complementare. Un’altra proteina importante è il C3b inattivatore, che, con la cooperazione della 1-H globulina, limita il feed-back di amplificazione a livello del C3b. Esistono poi un enzima, la carbossipeptidasi B, che inattiva le anafilotossine C3a e C5a, e la proteina S che si lega al sistema C5-6-7 riducendone la capacità citolitica.
MECCANISMI IMMUNOPATOLOGICI Benché la funzione del sistema immunitario sia la protezione dell’individuo dagli antigeni estranei, reazioni immunitarie abnormi possono condurre a danni tissutali o a malattie. Ciò può accadere quando le reazioni sono eccessive o prolungate o quando sono erroneamente dirette contro propri autoantigeni. La classificazione di tali meccanismi immunopatologici più comunemente accettata è quella proposta da Gell e Coombs, i quali hanno riconosciuto quattro tipi di reazioni: anafilattica (tipo I), citotossica (tipo II), mediata da immunocomplessi (tipo III), da ipersensibilità ritardata (tipo IV). Un ulteriore tipo di reazione è stato aggiunto successivamente ed è caratterizzato dall’interferenza con sostanze biologicamente attive (tipo V).
Reazioni di tipo I (anafilattiche o da ipersensibilità immediata) Sono reazioni mediate dalle IgE (reagine). Tali anticorpi prodotti nell’organismo in piccolissima quantità hanno la caratteristica di attaccarsi tramite il loro frammento Fc a strutture recettoriali specifiche poste sulla superficie dei granulociti basofili circolanti e dei mastociti tissutali: per questo motivo sono detti omocitotropi. Quando un antigene reagisce con due molecole vicine di IgE si ha una deformazione della struttura di membrana
e ne origina un segnale che porta alla degranulazione dei basofili e alla liberazione di mediatori dell’infiammazione. Il meccanismo di tali processi è riportato per esteso nel paragrafo sull’allergia (pag. 1354). È importante comprendere che in tale tipo di reazione le sostanze dannose realmente effettrici sono i mediatori prodotti e rilasciati dal basofilo e dalle cellule accessorie (istamina, leucotrieni, fattore chemiotattico per gli eosinofili, ecc.) mentre l’anticorpo dà solo l’informazione che innesca la reazione. Dal punto di vista clinico le reazioni anafilattiche comprendono: orticaria, angioedema allergico, rinite allergica, asma bronchiale, shock anafilattico, dermatite atopica, allergie alimentari.
Reazioni di tipo II (citotossiche) In tale tipo di reazioni l’effettore è rappresentato generalmente dal complemento e più precisamente dalle sue ultime frazioni. Il sistema complementare è attivato quando anticorpi di classe IgG o IgM si legano ad antigeni strutturali delle membrane cellulari o che sono ad esse adesi (per es., la penicillina sulle membrane eritrocitarie). La reazione degli anticorpi permette l’attivazione della cascata complementare fino alla lisi della membrana cellulare e alla morte della cellula. Esempi di tale meccanismo immunopatologico sono dati da anemie emolitiche e piastrinopenie autoimmuni, reazioni trasfusionali (per errori di compatibilizzazione nell’ambito del sistema AB0), malattia emolitica del neonato. Più recentemente il campo di tale tipo di reazione è stato allargato e vengono compresi in esso anche casi in cui l’effettore della lisi cellulare non è il complemento ma sono cellule (macrofagi, granulociti neutrofili, linfociti K). Tali cellule hanno alla loro superficie recettori per il Fc delle IgG e quindi tramite questi possono riconoscere l’anticorpo legato all’antigene cellulare esplicando l’attività citotossica cellulo-mediata (ADCC). Tale tipo di meccanismo può essere implicato in alcuni casi di anemie emolitiche, per esempio da anticorpi caldi IgG, nella sindrome di Goodpasture ed in altre malattie autoimmunitarie soprattutto di tipo endocrino (tiroiditi, morbo di Addison idiopatico, diabete di tipo I, ecc.).
Reazioni di tipo III (da immunocomplessi) In condizioni normali gli anticorpi reagendo con l’antigene tendono a formare una specie di reticolo (immunocomplesso). Quando tali complessi sono grandi vengono facilmente captati dalle cellule del sistema reticolo-endoteliale e digeriti con un meccanismo detto di eliminazione immune. Quando invece i complessi si formano in eccesso di antigene essi sono più piccoli, circolano più facilmente e possono localizzarsi a livello delle pareti vasali, dei glomeruli renali, ecc. È infine possibile che gli immunocomplessi
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si formino nella stessa sede ove provocheranno l’infiammazione. Il meccanismo tramite il quale agiscono è l’attivazione del complemento, che determina la liberazione di sostanze proinfiammatorie (C3, C5a) e chemiotattiche (C5, C6, C7). La successiva interazione degli immunocomplessi con le cellule fagocitiche richiamate in sede provoca il rilascio di enzimi lisosomiali, che danneggiano i tessuti circostanti. Un modello di tale patologia è la malattia da siero sperimentale. Sono poi numerose le malattie in cui gli immunocomplessi hanno un importante ruolo patogenetico. In alcune di queste sono stati evidenziati immunocomplessi in circolo, come per esempio il LES, le glomerulonefriti poststreptococciche, l’endocardite infettiva e alcuni tumori. In altri casi gli immunocomplessi sono stati evidenziati localmente, come per esempio nell’articolazione dell’artrite reumatoide o a livello polmonare nelle pneumopatie da ipersensibilità.
Reazioni di tipo IV (cellulo-mediate) Sono mediate dai linfociti T effettori citotossici i quali, in presenza dell’antigene verso cui sono specificamente sensibilizzati, liberano linfochine che provocano infiammazione locale e sono in grado di distruggere cellule, batteri, ecc. Le linfochine, inoltre, stimolano diverse popolazioni cellulari (macrofagi, granulociti neutrofili, linfociti di altri tipi) amplificando i fenomeni infiammatori. Le reazioni cellulo-mediate sono importanti nella patogenesi della tubercolosi, della lebbra e di molte infezioni virali (epatite B, ecc.), nella dermatite da contatto. Un certo ruolo è dimostrato nella tiroidite di Hashimoto e nella sinovite reumatoide. Anche il rigetto dei trapianti è in molti casi una reazione di tipo IV.
Reazioni di tipo V (interferenza con sostanze biologicamente attive) Sono dovute all’azione di anticorpi che: • inattivano ormoni o altre sostanze biologicamente attive; • agiscono a livello recettoriale in senso stimolatorio o inibitorio. Del primo tipo di reazione fanno parte la resistenza all’insulina dovuta alla presenza di anticorpi antinsulina, i disturbi della coagulazione da anticorpi bloccanti fattori della coagulazione (per es., il fattore VIII), il ridotto assorbimento di vitamina B12 per la presenza di anticorpi antifattore intrinseco nell’anemia perniciosa. Per quanto riguarda il secondo tipo sono importanti gli anticorpi rivolti contro i recettori acetilcolinici presenti caratteristicamente nella miastenia grave, i quali
inibiscono la trasmissione dell’impulso nervoso a livello della giunzione neuromuscolare e quelli contro il recettore per il TSH presente sui tireociti, caratteristici della malattia di Basedow-Graves. In questo caso però gli anticorpi anziché bloccare i recettori li stimolano provocando ipertiroidismo.
SISTEMA HLA (*) Tra tutti gli interventi chirurgici, il trapianto d’organo non è certo quello che presenta le maggiori difficoltà tecniche. È però uno degli interventi che nel periodo postoperatorio causano i problemi più ardui da risolvere, anche quando il trapianto non è che un semplice innesto cutaneo. La causa di tali problemi è la violenta reazione che il sistema immunitario del ricevente mette in opera contro il tessuto o l’organo estraneo, subito dopo aver riconosciuto che le sue cellule hanno un mantello anche di poco diverso dalle cellule autologhe. Il risultato finale è il rigetto del trapianto, cioè la sua distruzione da parte del sistema immunitario del ricevente, la cui violenta reazione viene a stento e non sempre dominata dalla terapia immunosoppressiva. A questa regola sfugge un solo tipo di trapianto, quello eseguito tra gemelli monovulari, i quali, identici da un punto di vista genetico, sono anche identici per quel che riguarda il mosaico antigenico della membrana cellulare. Le proteine che inducono nell’ospite la reazione di rigetto vengono chiamate, con una terminologia che ne sottolinea il ruolo, antigeni del trapianto o antigeni di istocompatibilità; i geni che ne codificano la sintesi sono detti geni dell’istocompatibilità. Nell’uomo, come pure nelle altre specie animali, vi è un numero molto grande di tali geni e conseguentemente un numero molto grande di antigeni del trapianto. Questi non sono tutti ugualmente importanti nel determinare il rigetto, ma hanno nei confronti del sistema immunitario dell’ospite una forza antigenica diversa. Sul piano operativo vengono perciò distinti antigeni di istocompatibilità maggiori e minori, a seconda della loro antigenicità, e si è introdotto il concetto di complesso maggiore di istocompatibilità (o MHC, Major Histocompatibility Complex) per definire gli antigeni che da soli sono in grado di indurre il rigetto dell’allotrapianto, il sistema genetico che li controlla e la corrispondente regione cromosomica. Il primo antigene di istocompatibilità umano fu scoperto sui leucociti dal francese Jean Dausset, premio Nobel per la medicina nel 1980. Agli inizi degli anni Sessanta, sotto la spinta degli sviluppi tecnologici conseguiti nel campo dei trapianti, furono individuati molti altri antigeni o gruppi di antigeni leucocitari. Ci vollero però alcuni anni prima di capire che le specificità, identificate con tecniche differenti in laboratori sparsi in nazioni diverse, appartenevano in realtà ad uno stesso sistema e che questo era analogo al maggiore complesso (*) R. Scorza
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IMMUNOPATOLOGIA
di istocompatibilità del topo, il complesso H-2. Il sistema antigenico, denominato Hu-1 dallo stesso Dausset, alla fine degli anni Sessanta venne ribattezzato HL-A (Human Leucocyte-A), proprio a sottolineare la natura di “sistema di antigeni leucocitari” posseduta da tali antigeni. La distribuzione ubiquitaria di tali specificità sulle cellule dell’organismo non era ancora nota. Una serie di “workshop” tra i ricercatori dei diversi centri permise di stabilire alcune identità tra gli antigeni identificati; questi, abbandonata la codifica locale, vennero denominati con un numero progressivo HL-A1, A2, A3, che ne rispecchiava l’ordine di identificazione. Col progredire degli studi, fu chiaro che la maggior parte delle specificità fino ad allora identificate erano raggruppabili in due diverse serie segreganti, controllate da loci in stretto linkage. Questa osservazione portò a successivi rimaneggiamenti della terminologia corrispondente, fino all’attuale HLA (senza il trattino), per indicare il sistema genetico e la corrispondente regione cromosomica. I loci via via identificati all’interno della regione vennero denominati con le lettere dell’alfabeto e le rispettive serie alleliche furono identificate con una numerazione progressiva, rispecchiando così più o meno lo svolgersi temporale della loro storia. La sequenza degli eventi nella storia dell’HLA spiega tra l’altro l’apparente illogicità nella nomenclatura; gli antigeni A e B erano stati numerati in ordine di individuazione e mantennero il loro numero al momento della collocazione nella serie di appartenenza. Questo spiega i “salti” di numerazione nell’ambito di queste due serie: perché, per esempio, vi siano un A1, ma non un A5, e un B5, ma non un B1.
Struttura e organizzazione del sistema HLA La regione HLA è situata nel braccio corto del cromosoma 6, dove occupa una zona corrispondente a circa 3000 chilobasi di DNA. Essa comprende oltre 30 geni in stretto linkage (più di 40 contando anche geni non espressi e pseudogeni) che, sulla base delle caratteristiche strutturali dei prodotti, sono indicati come geni di classe I (raggruppati nella zona più distante dal centromero), geni di classe II (localizzati in quella più vicina al centromero) e geni di classe III (situati in una zona compresa tra le altre due). Alcuni geni di classe I (i loci A, B e C) e di classe II (corrispondenti alle sottoregioni D, DR, DP e DQ) controllano la sintesi degli antigeni di istocompatibilità maggiori e svolgono un ruolo fondamentale nel riconoscimento dell’antigene da parte dei linfociti T e nell’attivazione dei circuiti immunitari. I geni di classe III non sono direttamente coinvolti nell’istocompatibilità, ma controllano la sintesi di alcune frazioni complementari, di citochine immunologicamente attive o di proteine dotate di attività enzimatica, non coinvolte nella risposta immune. L’organizzazione della regione e i suoi rapporti con altri geni mappati sul braccio corto del cromosoma 6 sono illustrati nella figura 68.3. I geni dell’istocompatibilità sono altamente polimorfici; per ogni gene esiste cioè un grande numero di varianti possibili (alleli) e quindi un gran numero di possibili “prodotti genici”. Il riconoscimento delle diverse molecole del sistema HLA può avvenire con meccanismi sierologici o con l’a-
1cM
SCA?
1mbp PGK2
AGB6
GLO1 PIM1
HLA
[D6S8] 2C5
[D6S7] 7H4
17 100 kb
Classe III
Classe II DP
DN
DO DQ
DR C4B 21-0HB
BA BA A
BBA B A BBB A
221 1
122 11 12 3 0 4
Figura 68.3 - Il complesso HLA.
Classe I
BF C2 B C
21-OHA
C4A
TNF +
A
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Sangue eparinato centrifugato
68 - GENERALITÀ SULL’IMMUNOPATOLOGIA
Cellule mononucleate
Linfocita B27-positivo
Siero antiHLA B27
Reazione antigeneanticorpo
Fissazione del complemento
Linfocita
Antisiero
Reazione
Complemento
Linfocita B27-positivo
Siero antiHLA B8
Reazione assente
Mancata fissazione del complemento
Danno cellulare e penetrazione del colorante
Piastra con antisieri anti-HLA
Eosina
Cellula indenne non colorata
Figura 68.4 - Test di microcitotossicità per tipizzazione colorata.
nalisi della struttura del DNA delle cellule. Oggi esistono eccellenti anticorpi monoclonali che possono essere impiegati in test di citofluorimetria, ma in passato si è stati largamente dipendenti dall’impiego di anticorpi presenti nel siero di soggetti “immunizzati” nei confronti di questi antigeni: poligravide, politrasfusi, trapiantati, volontari sottoposti a immunizzazione pianificata. Nel test di tipizzazione, detto di microtossicità, i linfociti da tipizzare, isolati per gradiente di sedimentazione da sangue eparinato, vengono incubati con antisieri specifici per diversi antigeni HLA nei pozzetti di una piastra per microtitolazione. Nel pozzetto, contenente anticorpi specifici per un antigene HLA posseduto dai linfociti in esame, si verifica la reazione antigene-anticorpo sulla membrana cellulare, che viene danneggiata dall’attivazione del complemento permettendo l’ingresso di un colorante nel citoplasma (Fig. 68.4). In passato, i metodi sierologici sono stati molto efficaci nello studio delle molecole di istocompatibilità di classe I, che sono presenti in tutte le cellule nucleate. Quelli di classe II sono stati individuati solo dopo che si è riconosciuto che solo i linfociti B (e non i linfociti T non attivati) li presentano costitutivamente alla loro superficie. La recente introduzione, nello studio del polimorfismo antigenico degli anticorpi monoclonali, dell’elettroforesi proteica e degli studi del polimorfismo del DNA ha ampliato il numero degli alleli esistenti ed ha chiarito che alle singole specificità “sierologiche” corrispondono in realtà più alleli. Con metodi di biologia molecolare si sono individuati numerosi alleli, indicati con la lettera dell’alfabeto corrispondente alla serie e un numero di quattro cifre preceduto da un asterisco. Per alcuni alleli così dimostrati mancano le specificità sierologicamente corrispondenti, come è il caso della serie HLA-E e HLA-G.
Funzione e struttura molecolare degli antigeni HLA A. Antigeni di classe I. Gli antigeni HLA di classe I (HLA-A, B, C) sono presenti sulla membrana di tutte
le cellule nucleate dell’organismo e sulle piastrine. Sono anche presenti, allo stato solubile, nel sangue e nel latte. La molecola è costituita da un dimero proteico formato da una catena pesante (catena , PM 44.000) e da una catena leggera (catena , 2-microglobulina, PM 12.000), unite tra loro da legami non covalenti. Delle due, solo la catena , nella quale risiede l’allotipia, è codificata da geni HLA. La 2-microglobulina è invece controllata da geni posti sul cromosoma 12. Lo studio chimico di questi antigeni ha permesso di ottenere informazioni precise sulla loro struttura e per molti di essi è stata anche determinata l’intera sequenza aminoacidica della catena . Questa è costituita da tre porzioni distinte: la prima, intracitoplasmatica, di 32 aminoacidi; la seconda, sempre di 32 aminoacidi, legata alla membrana cellulare; la terza, extramembranosa, di 247 aminoacidi. In questa porzione periferica sono inoltre riconoscibili tre diversi “domini” (regioni) di uguale lunghezza, che mostrano (soprattutto il terzo) importanti omologie strutturali con i domini delle catene pesanti delle immunoglobuline. Un’altra analogia con la molecola delle immunoglobuline è data dalla presenza in ciascun dominio di una porzione costante, sovrapponibile in tutti gli antigeni della classe I, e di una porzione variabile, alla quale è generalmente limitata la differenza tra i diversi antigeni (Fig. 68.5). All’interno dei circuiti immunitari, gli antigeni codificati dai loci A, B e C svolgono un ruolo molto importante soprattutto nella fase efferente della risposta immunitaria, in particolare nell’immunità antivirale. Sicuramente sono in gioco due meccanismi. a) Gli antigeni di classe I rappresentano i recettori per i virus o per gli antigeni virali alla superficie cellulare: questo meccanismo ha avuto una brillante conferma dai risultati degli studi cristallografici della struttura terziaria di queste molecole, che presentano al loro centro una “nicchia” nella quale possono incastrarsi gli antigeni. L’affinità di legame per i diversi antigeni sembra poter essere grandemente influenzata da variazioni anche minime della struttura primaria della molecola, per
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IMMUNOPATOLOGIA
NH2
NH2
Regioni variabili
NH2
NH2
NH2
1
COOH COOH NH2
Catena
NH2 Catena
2 Regioni costanti
2-microglobulina NH2
3 COOH
Membrana cellulare COOH Antigene di classe I
COOH
COOH COOH COOH Immunoglobulina
Antigene di classe II
esempio dalla sostituzione di un aminoacido in una posizione chiave, a causa di una mutazione puntiforme del gene; per comprendere come ciò possa accadere, basta pensare a come la sostituzione di un solo aminoacido in posizione “critica” possa modificare le proprietà funzionali di una molecola specializzata nel trasporto, come l’emoglobina. b) Gli antigeni di classe I sono gli elementi della restrizione nell’immunità antivirus: in altre parole, i linfociti T effettori specifici (citotossici) sono in grado di riconoscere l’antigene virale presente alla superficie della cellula infetta solo se presentato in associazione agli antigeni di classe I autologhi. Nella regione HLA, esternamente al locus A, sono presenti altri geni di classe I (almeno 14), che potrebbero rappresentare l’equivalente dei loci Qa e Tl presenti nel complesso H-2 del topo. La funzione di questi geni non è ancora ben conosciuta. B. Antigeni HLA di classe II. Sono gli antigeni codificati dalla regione D (sottoregioni D/DR, DQ e DP). Non hanno una distribuzione ubiquitaria, ma sono presenti in quantità dimostrabile solo su alcuni tipi cellulari: linfociti B, macrofagi (non su tutti), cellule di Langerhans, alcune cellule endoteliali, e compaiono su altri tipi cellulari in condizioni di attivazione (per es., sui linfociti T). Sono presenti allo stato solubile nel sangue circolante. Da un punto di vista molecolare, questi antigeni sono dimeri costituiti da due catene polipeptidiche (PM 33.000) e (PM 28.000). Entrambe le catene sono codificate all’interno della regione HLA e la differenza di PM è dovuta ad un maggior numero di residui carboidratici presenti nella catena . Come nel caso della catena degli antigeni di classe I, le catene sono proteine integrali della membrana nella cui porzione extracellulare sono identificabili due di-
Figura 68.5 - Rappresentazione delle tre più importanti molecole della superficie cellulare dei linfociti B: antigeni di classe I e II ed immunoglobuline.
stinti domini, nei quali sono state individuate porzioni costanti e porzioni variabili, con una forte analogia strutturale con le immunoglobuline (soprattutto il dominio più esterno) (Fig. 68.5). L’analisi strutturale delle catene e ha messo in luce un notevole polimorfismo antigenico, che è in parte conseguente alla complessità dell’organizzazione genica della regione D e ha chiarito che, anche in questo caso, l’analisi sierologica è riduttiva rispetto al polimorfismo genetico direttamente individuabile a livello del DNA. Nella sottoregione DR sono stati localizzati un gene, che codifica per la catena (gene A), che non è polimorfica, e quattro geni che codificano per la catena altamente polimorfica (geni B). Le sottoregioni DP e DQ contengono entrambe un gene A e un gene B, che codificano rispettivamente una catena e una catena , entrambe polimorfiche. In ciascuna delle due regioni sono presenti un gene e un gene che non sono espressi a livello fenotipico. Tra la regione DP e quella DQ sono stati localizzati, mediante studi a livello genomico, due altri loci DZA e DOB, la cui funzione e i cui prodotti non sono stati ancora individuati (Fig. 68.3). Nell’ambito della risposta immunitaria, gli antigeni di seconda classe possono funzionare come recettori per gli antigeni estranei a livello della membrana cellulare e mediare la cooperazione immunitaria tra le diverse sottopopolazioni dei circuiti cellulari. Come nel caso degli antigeni HLA di classe I, la funzione di recettore non deve essere intesa nel senso del recettore specifico, bensì come sito di ancoraggio necessario nella presentazione di un antigene estraneo alle cellule immunocompetenti. Il ruolo svolto dagli antigeni di seconda classe nella fase afferente della risposta è documentato dal fatto che solo macrofagi che hanno questi antigeni di istocompatibilità, non quelli negativi, sono in grado
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di presentare gli antigeni estranei ai linfociti T. È stato documentato che variazioni minime della struttura primaria delle catene polipeptidiche possono influenzare l’affinità della molecola per un determinato antigene e, di conseguenza, la capacità di presentarlo al linfocita T specifico. Gli antigeni di classe II sono considerati i prodotti dei geni della risposta immune collegati con il sistema HLA. Questa attribuzione va in realtà per molti aspetti ancora chiarita e deriva in larga misura dalla valorizzazione delle analogie strutturali e funzionali che gli antigeni HLA di classe II hanno con gli antigeni Ia del topo, cioè con i prodotti dei geni situati nel MHC di questo animale influenzanti la risposta immune (geni Ir).
Genetica del sistema HLA Si è detto che i geni dell’istocompatibilità HLA sono preposti alla sintesi di molecole che sono presenti a livello della membrana cellulare. Si è anche detto che sono geni altamente polimorfici che esistono sotto forma di più alleli che sono tra loro codominanti. Pertanto, alla presenza di un determinato allele nel genotipo corrisponde sempre l’espressione del prodotto corrispondente a livello fenotipico. Ovviamente in ogni locus di un singolo cromosoma non vi può essere più di un allele di uno stesso gene, e l’individuo sarà quindi omozigote o eterozigote per quel carattere (o allele) a seconda che abbia nei loci corrispondenti dei due cromosomi omologhi lo stesso allele o alleli diversi. Dal momento che ogni individuo riceve un cromosoma 6 dal padre ed uno dalla madre, egli esprimerà a livello cellulare sia gli antigeni ereditati dal padre che quelli ereditati dalla madre. L’elevato polimorfismo dei geni HLA e l’enorme numero di combinazioni possibili tra gli alleli dei diversi loci spiegano perfettamente l’impossibilità pratica di trovare in una popolazione due individui non imparentati talmente simili da poter essere impiegati come coppia donatore-ricevente per un trapianto senza che vi sia una reazione di rigetto. Le prospettive sono decisamente migliori se, invece di prendere a caso due individui qualsiasi di una stessa popolazione, si prendono due fratelli che non sono gemelli monovulari. In questo caso, infatti, la probabilità che i due soggetti siano HLA identici è molto elevata (25%). Vi è una precisa spiegazione di questo fatto, ed è rappresentata dalla grande vicinanza (linkage) dei diversi loci HLA sul cromosoma. Questa fa sì che l’intero “aplotipo” HLA (cioè l’intera informazione genetica contenuta nella corrispondente regione del singolo cromosoma) passi generalmente immodificata dal genitore al figlio senza subire alcuna ricombinazione (crossing-over) durante la fase di unione e successiva separazione dei cromatidi omologhi al momento della meiosi. La probabilità che tra due loci di uno stesso cromosoma si verifichi un crossing-over è infatti inversamente proporzionale alla loro distanza sul cromosoma, e la frequenza di crossing-over tra due loci viene impiegata operativamente per stabilire la loro posizione e le distanze reci-
proche (distanze di mappa) sul cromosoma. Nel caso dei loci HLA la frequenza di crossing-over è molto bassa, intorno all’1%. Se chiamiamo “a” e “b” gli aplotipi paterni e “c” e “d” quelli materni possiamo avere nei figli quattro diverse combinazioni equifrequenti (25%): “ac”, “ad”, “bc”, “bd”. Se un figlio è, per esempio, “ac” la probabilità di avere un fratello identico, salvo il caso, raro, di crossing-over, sarà 1 (frequenza reale dell’aplotipo “ac” a nascita avvenuta) × 0,25 (frequenza possibile dello stesso). Lo studio della distribuzione degli antigeni HLA in popolazioni etnicamente differenti ha evidenziato che vi è una significativa diversità di distribuzione dei diversi antigeni e quindi degli alleli tanto da costituire nel loro insieme un quadro molto caratteristico della popolazione studiata. Si è anche potuto documentare che queste differenze sono dovute, almeno in parte, a pressioni selettive ambientali positive o negative. Dallo studio della distribuzione degli antigeni HLA nelle diverse popolazioni è emerso un altro dato molto importante: delle numerosissime combinazioni alleliche possibili ve ne sono alcune che si presentano in una determinata popolazione in maniera significativamente diversa rispetto a quella attesa sulla base delle frequenze dei rispettivi alleli nella popolazione. Questo fenomeno viene definito “linkage disequilibrium” e può essere, come si è detto, positivo o negativo. Per chiarire il concetto facciamo un semplice esempio: nella popolazione italiana la frequenza dell’allele A1 è del 27%; quella di B8 è del 12,1%; quella di DR3 è del 16,5%. La frequenza attesa dell’aplotipo A1, B8, DR3 sarà data dal prodotto delle frequenze dei singoli alleli; cioè 0,54%. In realtà, il valore della frequenza misurata sperimentalmente è significativamente maggiore: 4,07%. La differenza tra le due frequenze o rappresenta la misura del linkage disequilibrium tra questi alleli. Questo fenomeno non si limita però solo agli alleli dei loci HLA, ma coinvolge anche altri loci, al di fuori della regione, i cui geni non sono geni dell’istocompatibilità. Diversi meccanismi possono concorrere a determinare il fenomeno del linkage disequilibrium tra i diversi alleli HLA. Molti genetisti sono comunque concordi nell’ammettere che uno di questi meccanismi è sicuramente rappresentato da forze selettive, positive o negative a seconda che quel particolare assetto genico sia vantaggioso o meno per la sopravvivenza della specie. Un vantaggio selettivo, per esempio, potrebbe essere rappresentato dalla tendenza a mantenere “intatte” quelle associazioni che rappresentano combinazioni ottimali di alleli che intervengono nella risposta immune. La ricombinazione di questi alleli ad opera dei crossing-over avrebbe come conseguenza uno svantaggio sul piano selettivo, rappresentato da una risposta immunitaria (e quindi da “difese”) meno efficiente.
HLA e malattie Uno degli sviluppi più interessanti in campo clinico degli studi sul sistema HLA a livello di popolazione è nato dalla dimostrazione che molte malattie hanno una
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associazione preferenziale con un determinato antigene o aplotipo. Dalla prima osservazione, che risale al 1967 e che riguarda il morbo di Hodgkin, la lista delle associazioni si è notevolmente allungata e comprende patologie molto diverse che hanno però alcuni aspetti comuni. In primo luogo si tratta di malattie che pur non avendo una chiara modalità di trasmissione genetica mostrano una certa concentrazione familiare; sono per lo più malattie ad eziologia sconosciuta, spesso associate ad alterazioni immunopatologiche, sono infine generalmente irrilevanti ai fini della sopravvivenza della specie dal momento che non influiscono in maniera significativa sulle capacità riproduttive dell’individuo. Le informazioni sulle relazioni esistenti tra regione HLA e malattie sono state raccolte attraverso due tipi di studi: • studi di popolazione, nei quali viene paragonata la distribuzione degli antigeni HLA in gruppi di pazienti e di soggetti controllo, omogenei da un punto di vista etnico (ricordiamo che la frequenza degli antigeni HLA varia notevolmente nelle diverse razze); • studi familiari, nei quali viene valutata la trasmissione della malattia rispetto a quella dell’aplotipo HLA. È importante sottolineare che queste due tecniche di indagine danno informazioni di significato diverso. Gli studi di popolazione dicono che la malattia tende ad esprimersi più facilmente se è presente il gene che codifica un particolare antigene di istocompatibilità, quale che sia il motivo di questa associazione. Nel caso particolare di una malattia che è condizionata da un gene, questo può significare che il “gene malattia” è in linkage disequilibrium con un particolare gene HLA. Gli studi sulle famiglie dimostrano invece che il gene che determina la malattia viene ereditato con alta probabilità assieme a un gene che occupa un particolare locus nella regione HLA (gene che può essere diverso da una famiglia all’altra). Gli studi di questo tipo servono a identificare la posizione cromosomica del “gene malattia”, che viene detto in linkage (cioè strettamente prossimo) con un particolare locus HLA, indipendentemente dall’esistenza di un’associazione (che può esserci se esiste non solo linkage, ma anche linkage disequilibrium). Torniamo ora al problema delle associazioni tra HLA e malattie, le principali delle quali sono riportate nella tabella 68.3. Come si può vedere dalla tabella, alcune malattie mostrano un’associazione preferenziale con un antigene codificato dal locus A, altre con quelli del locus B, altre ancora con gli antigeni DR o con un particolare complotipo (fenotipo dei geni del complemento). In alcuni casi, infine, sembra dimostrata un’associazione preferenziale con un intero aplotipo HLA più che non con un singolo allele. In altri casi, come per il B27 e la spondilite anchilopoietica, l’associazione è costante in tutte le popolazioni studiate; altrove, come per esempio per la sclerosi multipla e l’antigene DR2, è osservata solo in alcuni gruppi etnici, per esempio i caucasici nord-europei, mentre manca in altri, per
IMMUNOPATOLOGIA
esempio gli indiani dell’India. È evidente che, mentre nel primo caso si può ipotizzare un ruolo patogenetico diretto dell’antigene, nel secondo (ed è praticamente la quasi totalità delle situazioni) è necessario ammettere l’intervento di un gene in linkage disequilibrium con quel particolare antigene HLA in quella determinata popolazione e con specificità diverse in gruppi etnici diversi. Un risultato comune emerso da questi studi è che la presenza di un determinato antigene (o aplotipo) non conferisce automaticamente la malattia a tutti gli individui che hanno quel particolare fenotipo, ma solo una suscettibilità sulla quale agiscono altri fattori ereditari o ambientali. In altre parole l’individuo che ha un certo antigene incorre, rispetto a chi non l’ha, in un rischio maggiore di sviluppare la malattia ad esso associata. La misura di questo “rischio relativo” è un buon indice della forza di associazione e può essere calcolata dalla formula: rr =
p+c – p–c+
dove p+ e p– sono rispettivamente il numero dei pazienti con o senza l’antigene, c+ e c– sono rispettivamente il numero di controlli con o senza l’antigene. Come si può osservare dai valori di rr riportati nella tabella si tratta generalmente di associazioni significative ma relativamente deboli, con poche eccezioni, prima fra tutte quella della spondilite anchilopoietica, malattia per la quale la presenza del B27 conferisce un rischio relativo di ammalare che oscilla tra il 90 e il 95%. Sottolineiamo però che non tutti gli individui che hanno il B27 hanno la spondilite e che la frequenza di tale malattia nei soggetti B27+ è solo del 4%. Prendiamo ora in esame il possibile significato delle associazioni trovate. In alcuni casi, come si è detto, esse sono la conseguenza di un linkage, dimostrato dagli studi familiari, tra il gene della malattia e l’allele HLA associato (è l’evenienza già considerata dell’esistenza di un linkage disequilibrium). È questo il caso, per esempio, dell’associazione tra deficit di 21-idrossilasi e un particolare aplotipo. Il linkage è stato dimostrato però solo in una parte delle malattie menzionate. Per spiegare il significato delle associazioni sono state avanzate numerose ipotesi, in parte trasferite dalle conoscenze ottenute nell’animale da esperimento, in parte ricavate da considerazioni sul ruolo biologico degli antigeni HLA e sulla natura delle malattie per le quali è stata trovata l’associazione. Una tra le ipotesi più accreditate è quella che invoca l’intervento dei geni della risposta immune, ed è basata sull’osservazione che molte delle malattie associate agli antigeni DR (che si è detto sono paragonati per struttura e funzione agli antigeni Ia murini) hanno una patogenesi immunitaria. Prendendo per buona tale ipotesi, dalle associazioni riportate nella tabella possiamo trarre alcune indicazioni su come potrebbe svolgersi nell’uomo il controllo genetico della suscettibilità a molte di queste malattie. Un esempio molto esplicativo è costituito dalle malattie associate al fenoti-
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Tabella 68.3 - Elenco di malattie correlate con HLA. MALATTIA Morbo di Hodgkin Emocromatosi idiopatica Malattia di Behçet Iperplasia corticosurrenale congenita Spondilite anchilosante Morbo di Reiter Uveite anteriore acuta Tiroidite subacuta Psoriasi Dermatite erpetiforme Morbo celiaco Sindrome di Sjögren Morbo di Addison idiopatico Morbo di Graves Diabete insulino-dipendente Miastenia grave Lupus eritematoso sistemico Glomerulonefrite membranosa Difetto di IgA in donatori di sangue Sclerosi multipla Neurite ottica Deficit di C2 Sindrome di Goodpasture Artrite reumatoide Pemfigo (ebrei) Nefropatia da IgA Lupus da idralazina Tiroidite di Hashimoto Anemia perniciosa Artrite reumatoide giovanile: pauciarticolare tutte le varianti
HLA A1 A3 B14 B51 B47 B27 B27 B27 B35 Cw6 D/DR3 DQ2 DQ8 D/DR3 D/DR3 D/DR3 D/DR3 D/DR4 D/DR2 D/DR3 B8 D/DR3 D/DR3 B8 DR3 D/DR2 D/DR2 D/DR2 B18 D/DR2 D/DR4 D/DR4 D/DR4 D/DR4 D/DR5 D/DR5 D/DR5 D/DRw8
po HLA-DR3 (il cui gene è in linkage disequilibrium con HLA-B8). Come si può osservare si tratta di una serie di malattie d’organo caratterizzate dalla produzione di autoanticorpi importanti nella patogenesi della malattia: il diabete insulino-dipendente, l’Addison idiopatico, ecc. È evidente perciò che l’intervento del gene non consiste nel controllo della produzione di un autoanticorpo particolare, ma che molto probabilmente il suo intervento si attua a livello dei circuiti di controllo della produzione anticorpale, influenzando la cooperazione tra linfociti T e linfociti B. Al contrario, il ruolo degli antigeni di classe I nella risposta immune fa spiegare alcune delle associazioni trovate come dovute all’intervento di geni la cui azione si esplicherebbe attraverso i T citotossici. Un’altra possibile spiegazione delle associazioni che vedono coinvolti gli antigeni codificati dal locus HLA-B è l’associazione con alcuni alleli mutanti del complemento che hanno un linkage disequilibrium più forte con gli antigeni HLA-B che non con i DR. Al di là dell’intervento dei geni della risposta immune vi sono altre ipotesi che, più o meno indirettamente, prendono in considerazione il ruolo della regione HLA nella risposta
PAZIENTI (%)
CONTROLLI (%)
RISCHIO RELATIVO
40 76 16 41 9 90 79 52 70 87 85 79
32,0 28,2 3,8 10,1 0,6 9,4 9,4 9,4 14,6 33,1 26,3 26,3
1,4 8,2 4,7 6,3 15,4 87,4 37,0 10,4 13,7 13,3 15,4 10,8
78 69 56 56 75 10 50 47 70 75 49 81 59 46
26,3 26,3 26,3 28,2 32,2 30,5 28,2 24,6 28,2 20,0 24,3 24,6 25,8 25,8
9,7 6,3 3,7 3,3 6,4 0,2 2,5 2,7 5,8 12,0 3,0 13,0 4,1 2,4
88 50 87 49 73 19 25 50 23
32,0 19,4 32,1 19,5 32,7 6,9 5,8 16,2 7,5
15,9 4,2 14,4 4,0 5,6 3,2 5,4 5,2 3,6
immune. Una di queste è la teoria della mimesi (mimicry) che ipotizza una possibile somiglianza e quindi cross-reazione immunologica tra antigeni di istocompatibilità e l’agente eziologico della malattia. Questa a sua volta aprirebbe due possibilità: una mancata risposta immune e quindi una maggiore suscettibilità ad un agente esogeno in alcuni casi; una risposta cross-reagente e quindi un’autoreattività in altri casi, per esempio nella cardiopatia reumatica. Una variante di questa teoria è la teoria del “se stesso” modificato, che prende in considerazione il ruolo degli antigeni HLA come molecole di presentazione dell’antigene virale, o batterico o parassitario al sistema immunitario. In questo caso, però, l’autoaggressione sarebbe la conseguenza diretta di una reazione verso strutture autologhe non più riconosciute come self. Pur ammettendo che una grossa quota delle associazioni trovate può essere spiegata attraverso la modulazione della risposta immune, vi sono alcune associazioni per le quali una simile spiegazione non può essere chiamata in causa. Si pensa in questi casi che l’azione sia mediata attraverso l’interferenza degli antigeni
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HLA, in quanto antigeni di membrana, con l’azione di altri recettori e sistemi della membrana cellulare. In effetti in alcuni casi è stata documentata tale interferenza: basta ricordare, tra tutti, quella esercitata dall’antigene B35 sul trasporto di magnesio intracellulare. Vediamo ora brevemente quali utili indicazioni in campo clinico può avere la determinazione degli antigeni HLA in un soggetto. È indubbio che la più vasta indicazione è stata l’applicazione della tipizzazione HLA per la selezione della coppia donatore-ricevente nel trapianto d’organo. L’introduzione di questa tecnica ha sensibilmente migliorato la sopravvivenza dei trapianti tra fratelli, mentre ha dato risultati più discutibili nel trapianto da cadaveri. Questa differenza non deve peraltro stupire, è infatti molto probabile che due fratelli identici per gli antigeni HLA tipizzati siano anche identici per gli altri alleli di istocompatibilità in linkage con la regione HLA, che ancora non siamo in grado di individuare. L’elevato polimorfismo che caratterizza i loci dell’istocompatibilità rende invece molto improbabile tale possibilità quando il trapianto venga fatto tra individui non imparentati, anche se identici per i loci HLA finora tipizzabili. Un’altra applicazione clinica, ormai molto diffusa e che si basa proprio sull’elevato polimorfismo del sistema, è quella dell’attribuzione di paternità, campo nel quale permette di raggiungere una certezza pressoché assoluta. Contrariamente a quella che sembra essere un’opinione molto diffusa tra la classe medica, la tipizzazione HLA è di scarso aiuto a scopo diagnostico. Questo perché le associazioni trovate sono caratterizzate da una forza di associazione relativamente bassa. Vi è un’unica eccezione, ed è rappresentata come si è già detto dalla spondilite anchilopoietica, che dimostra una associazione con il B27 che si avvicina al valore del 100%. In altri termini, mentre la presenza dell’antigene non comporta una diagnosi di spondilite, la forza dell’associazione è tale da far mettere in discussione la diagnosi in un soggetto che è B27-negativo. La tipizzazione HLA è comunque un utile supporto, in casistiche selezionate, per l’individuazione di sottogruppi omogenei di pazienti probabilmente caratterizzati da un background genetico e patogenetico diverso. La tipizzazione HLA può risultare utile in questi casi non solo dal punto di vista della conferma diagnostica ma, e forse soprattutto, per predire il tipo di evoluzione della malattia e la possibilità di reazioni abnormi alle terapie impiegate. Se è ancora discussa l’utilità reale della tipizzazione HLA in pazienti occasionali, è ormai accettata l’indiscussa utilità della tipizzazione nel caso di malattie per le quali esiste non solo l’associazione con l’HLA ma ne è stato dimostrato il linkage. La tipizzazione HLA serve in questi casi per individuare in quella determinata famiglia i soggetti a rischio attraverso lo studio della segregazione dell’aplotipo HLA in linkage con il gene della suscettibilità, che vi sia o no tra i due caratteri una particolare associazione a livello fenotipico. È evidente che questo tipo di studi fornisce importanti indicazioni sulle modalità di trasmissione genetica della malattia. Un esempio abbastanza chiaro è ancora quello del diabete mellito insulino-dipendente.
IMMUNOPATOLOGIA
Si è visto, infatti, che la malattia presenta una doppia associazione, con l’antigene HLA-DR3 (rr 3.3) e con l’antigene HLA-DR4 (rr 6.4). I soggetti omozigoti per l’uno o l’altro di questi antigeni hanno un rischio di malattia aumentato che è rispettivamente di 10 e 16. I soggetti eterozigoti, che sono cioè DR3, DR4, hanno sorprendentemente un rischio che è ancor più elevato (rr 3.3) e che va quindi oltre un semplice effetto additivo dei geni. Proprio in base a questa osservazione si è potuto affermare che i sistemi genetici coinvolti nella suscettibilità alla malattia sono più d’uno e che rappresentano fattori di rischio indipendenti.
ALLERGIA (*) L’allergia (dal greco: alterata reattività) è un tipo di reazione immunitaria messa in atto contro sostanze normalmente presenti nell’ambiente (allergeni), che non sono nocive per la maggior parte della popolazione, ma sono in grado di provocare eventi morbosi in alcuni soggetti predisposti. Si intende per allergia una reazione immunologica le cui caratteristiche sono: • la specificità nei confronti di una o più sostanze; • la necessità di una precedente sensibilizzazione. Le reazioni allergiche possono essere mediate da una varietà di meccanismi immunopatologici. Tuttavia, in senso stretto, il termine allergia è più comunemente riservato a processi mediati da immunoglobuline di una classe specifica: le IgE. Si tratta di una reazione di ipersensibilità immediata che appartiene al tipo I della classificazione di Gell e Coombs. Con la definizione “malattie allergiche” ci riferiamo ad un gruppo di malattie ad estrinsecazione clinica differente ma con meccanismi patogenetici simili. Tali malattie sono anche dette atopiche (dal greco: di difficile collocazione) e comprendono: • • • • • •
la rinite allergica; l’asma; l’orticaria; la dermatite atopica; l’anafilassi; manifestazioni gastroenteriche dovute ad allergia alimentare.
Meccanismo delle reazioni allergiche A. Allergeni. Molti allergeni naturali sono proteine solubili che funzionano come enzimi. In molti casi sono stati purificati e vengono indicati con una sigla che sintetizza il nome, secondo la classificazione ufficiale, del materiale di provenienza, con un numero d’ordine che indica il particolare allergene identificato. Così, per
(*) G.F. Ciboddo
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68 - GENERALITÀ SULL’IMMUNOPATOLOGIA
Tabella 68.4 - Principali allergeni identificati. SIGLA
DERIVAZIONE
TIPO DI ALLERGIA
Der p 1, 2 Fel d 1
Dermatophagoides pteronissymus Felis domesticus
Bet v 1
Betula verrucosa
A polveri domestiche, non stagionale Al gatto, non stagionale Alla betulla, inizio primavera All’erba, primavera Autunnale, prevalente in Nord America Alle arachidi
Phl p 1, 2 Amb a 1, 2
Phleum pratense Ambrosia artemisiifolia Ara h 1, 2, 3 Arachis hypogaea
esempio, Der p 1 e Der p 2 sono allergeni isolati dal comune acaro che si trova nelle polveri domestiche. Le denominazioni di altri allergeni purificati sono indicate nella tabella 68.4. B. IgE. La reazione allergica in senso stretto è mediata quasi esclusivamente dalla classe immunoglobulinica delle IgE (reagine). Questi anticorpi hanno alcune caratteristiche peculiari: • sono presenti nel siero in una concentrazione estremamente bassa (meno di 250 ng/ml), di parecchi ordini di grandezza inferiore a quella delle immunoglobuline di altre classi; • vengono dette omocitotrope per la loro capacità di legarsi, mediante la regione corrispondente al frammento cristallizzabile (Fc), ad uno specifico recettore presente sui granulociti basofili circolanti o tissutali (mastociti). Tale legame è stato dimostrato con metodiche autoradiografiche, con la microscopia elettronica e con l’immunofluorescenza. La massima concentrazione è stata trovata nei tessuti interessati dalle reazioni allergiche (mucose e polipi nasali, parenchima polmonare, cute). Una risposta immunitaria con importante produzione di IgE dipende dall’impegno prevalente di linfociti Th2 rispetto a quello di linfociti Th1. Tutti sono esposti alle sostanze che più spesso provocano allergia (pollini, derivati degli acari, forfora di pelo di gatto, ecc.), ma in genere si hanno solo deboli risposte con anticorpi delle sottoclassi IgG1 e IgG4 e in vitro le loro cellule T rispondono a questi antigeni con una moderata proliferazione e con la produzione di interferon-, che è propria dei linfociti Th1. Al contrario, in soggetti allergici si ha un’intensa produzione non solo di anticorpi della classe IgG, ma anche della classe IgE e le loro cellule T rispondono in vitro con la produzione di citochine, quali le interleuchine 4 e 13 che sono caratteristiche delle cellule Th2. Perché questo avvenga non è chiaro e se ne parlerà in seguito. Tuttavia, non deve sfuggire che gli atopici producono non solo IgE, ma anche IgG e cioè che hanno una reazione immunitaria non frenata. Inoltre, in soggetti normali (nei soggetti allergici l’esperimento non è stato fatto per ovvie ragioni) la ristimolazione con l’allergene studiato non incrementa le IgG specifiche prodotte nei suoi confronti.
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Questo è un forte argomento in favore del fatto che normalmente siano messi in atto meccanismi regolatori per limitare le reazioni immunitarie contro antigeni di per sé non nocivi e comunemente incontrati nell’ambiente e che questi meccanismi siano difettosi nei soggetti atopici. C. Mastociti. La presenza di mastociti è il secondo fattore indispensabile perché si possa verificare una reazione allergica. I mastociti sono distribuiti ubiquitariamente nell’organismo, ma prevalgono nelle sedi dove esiste la possibilità dell’ingresso di sostanze nocive esogene, come per esempio nel connettivo perivenulare e presso le superfici mucose, sierose e cutanee. Dopo stimolazione queste cellule sono in grado di liberare nell’ambiente circostante numerose sostanze attive contenute preformate nei granuli di cui sono ricche, nonché di produrre ex novo mediatori derivati dall’acido arachidonico. Esistono diversi stimoli in grado di provocare la degranulazione dei basofili. Tra questi si segnala l’azione delle anafilotossine (C3a e C5a) derivate dal complemento, una proteina cationica presente nei lisosomi dei granulociti neutrofili, alcuni farmaci e agenti chimici (come il tensioattivo 48/80). Dal punto di vista clinico il meccanismo più importante è il legame di due IgE di membrana con un antigene specifico. Perché la reazione allergica possa aver luogo appare sufficiente un numero limitato di tali interazioni (meno di 100). I recettori a cui le IgE sono adese sono collegati attraverso la membrana cellulare ad un’adenilciclasi. L’interazione delle IgE con l’antigene determina una modificazione sterica in grado di attivare tale enzima a produrre adenosinmonofosfato ciclico (cAMP). Il cAMP agisce da secondo messaggero attraverso l’attivazione di una chinasi proteica, indispensabile perché si abbia il rilascio dei granuli. Agenti che provocano un aumento notevole e protratto dei livelli di cAMP possono avere un ruolo negativo sul fenomeno del rilascio, provocando una deplezione delle chinasi proteiche cAMP-dipendenti e rendendole indisponibili al momento in cui avviene lo stimolo mediato dalle IgE. La tappa successiva è l’attivazione di un meccanismo contrattile a livello del citoscheletro, che porterà alla liberazione dei granuli con il loro contenuto nell’ambiente extracellulare. Contemporaneamente la perturbazione sterica indotta dalla reazione dell’allergene con le IgE determina la formazione di canali per gli ioni calcio con aumento di entrata di tali ioni all’interno della cellula e attivazione delle fosfochinasi. Tali enzimi hanno un’azione importante, favorendo la generazione di acido arachidonico alle spese dei fosfolipidi di membrana. Quindi si ha la formazione di lisofosfolipidi e diacilglicerolo i quali, essendo instabili, rendono più facile la fusione dei granuli secretori con la membrana cellulare e quindi il processo di esocitosi. L’acido arachidonico darà origine a mediatori della classe delle prostaglandine e dei leucotrieni. La tabella 68.5 riporta un elenco dei mediatori rilasciati dai mastociti nell’uomo.
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IMMUNOPATOLOGIA
molazione della produzione di HCL da parte delle cellule parietali gastriche. Tra le altre azioni si segnalano un aumento della permeabilità venulare, una dilatazione dei vasi più piccoli responsabile, quando si verifica a livello cutaneo, del prurito (H1 e H2) e un feed-back di controllo sulla funzione delle cellule interessate ai fenomeni infiammatori (H2).
Tabella 68.5 - Mediatori dei mastociti. • – – – – – –
Mediatori preformati nei granuli secretori Istamina Eparina Condroitin solfato E Triptasi Chimotriptasi Carbossipeptidasi
• – – – –
Citochine Interleuchina-4 (IL-4) Interleuchina-5 (IL-5) Interleuchina-6 (IL-6) Tumour Necrosis Factor- (TNF-)
• – – – –
Mediatori lipidici Leucotriene B4 Leucotriene C4 Prostaglandina D2 Platelet Activating Factor (PAF)
2. Eparina e condroitinsolfato E: la funzione di queste sostanze è quella di stabilizzare le proteasi che sono mantenute in forma attiva quando sono legate ai proteoglicani. 3. Proteasi: sono contenute nei granuli e rilasciate dopo l’attivazione immunologica; sono attive a pH neutro. La più importante è la triptasi, che ha un comportamento simile alla tripsina pancreatica, un’altra è la chimasi (simile alla chimotripsina). Il loro ruolo non è chiaro, forse la digestione di membrane basali vascolari o di componenti connettivali, per permettere l’arrivo di cellule infiammatorie secondarie. Si è anche dimostrato che almeno alcune proteasi inducono la secrezione di muco nei polmoni e aumentano la reattività della muscolatura liscia bronchiale.
D. Mediatori chimici. La degranulazione dei mastociti dà luogo a un processo bifasico. La liberazione dei mediatori preformati o sintetizzati al momento della degranulazione provoca una reazione locale (generale nel corso dell’anafilassi) entro pochi minuti. L’effetto proinfiammatorio di alcuni tra questi mediatori provoca un afflusso di altre cellule (granulociti eosinofili, neutrofili, macrofagi) che induce una reazione più tardiva, entro 4-8 ore. Ricordiamo le caratteristiche dei principali mediatori.
4. Citochine: la IL-4 promuove le risposte immunitarie di tipo allergico indirizzando i linfociti T CD4+ verso la funzione Th2. La IL-5 ha un effetto sulla produzione e attivazione dei granulociti eosinofili. La IL-6 e il TNF- promuovono l’infiammazione e sono responsabili della fase tardiva della reazione dovuta a degranulazione dei mastociti.
1. Istamina: i mastociti e i basofili circolanti sono le principali fonti di istamina dell’organismo ed essa rappresenta circa il 10% del loro peso. L’istamina esercita il suo effetto mediante specifici recettori cellulari: H1 e H2. Un classico esempio di azione dovuta al recettore del primo tipo è la contrazione della muscolatura liscia ed in particolare di quella delle vie aeree e del tratto gastroenterico, mentre un’azione del secondo tipo è la sti-
5. Leucotrieni: la loro sintesi avviene mediante la via lipo-ossigenasica (Fig. 68.6). I composti più importanti sono i leucotrieni C4, D4, E4. Essi sono da trenta volte (LTE4) a mille volte (LTC4 e LTD4) più potenti dell’istamina come broncocostrittori ed inoltre il leucotriene C4 e il D4 sono potenti stimolatori della secrezione di muco nelle vie aeree. Oltre a determinare costrizione delle vie aeree sono in grado di aumentare la permeabilità venulare.
Fosfolipidi di membrana Fosfolipasi A2 Acido arachidonico Lipo-ossigenasi Ciclo-ossigenasi
Endoperossidi ciclici [PGG2 PGH2]
Acido 5-OH perossi eicosatetraenoico [5 HPETE]
Figura 68.6 - Metabolismo dell’acido arachidonico. Da esso partono due diverse vie metaboliche: quella della lipo-ossigenasi, che conduce a idrossiacidi e loro derivati (leucotrieni); quella della ciclo-ossigenasi, che conduce a endoperossidi e poi a prostaglandine, trombossani e prostaciclina.
Leucotrieni LTA4 Epossidoidrolasi LTA4 LTB4
LTC4 LTD4
Glutatione S.transferasi
-glutaminatranspeptidasi Dipeptidasi
LTE4
Trombossano A2 Prostaglandine PGA2 PGD2 PGE2 Prostacicline PGI2 PGF2 Acido OH-eicosatetraenoico [HETE]
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68 - GENERALITÀ SULL’IMMUNOPATOLOGIA
In passato si credeva che la miscela dei leucotrieni liberati dai mastociti fosse una sola sostanza, indicata con la sigla SRS-A (Slow Reacting Substance of Anaphylaxis, sostanza a reazione lenta dell’anafilassi). A questa sostanza veniva attribuito l’effetto dei leucotrieni, e cioè, dopo degranulazione dei mastociti, una contrazione della muscolatura liscia più lenta, ma più prolungata di quella provocata dall’istamina o dalla acetilcolina, e non inibibile dagli antistaminici. 6. Prostaglandine: sono anch’esse derivate dall’acido arachidonico, tuttavia vengono generate attraverso una diversa via enzimatica: la ciclo-ossigenasi (Fig. 68.6). Si tratta di una famiglia di composti con azioni in parte antagoniste. In particolare la PGE e la PGF2 causano vasodilatazione ed eritema, la PGE1, la PGE2, la PGA2 determinano aumento della permeabilità capillare, prurito e dolore. Per quanto riguarda la muscolatura liscia bronchiale, l’azione di alcune PG è broncocostrittrice (PGD2, PGF2, ecc.), quella di altre è broncodilatatrice (PGE1, PGE2). La loro efficacia appare comunque assai inferiore a quella dei leucotrieni. 7. PAF (Platelet Activating Factor, fattore attivante le piastrine): è in grado di determinare la degranulazione delle piastrine in modo non citotossico, provocando il rilascio di istamina e serotonina; si hanno così un aumento della permeabilità capillare e un’attivazione dell’aggregazione piastrinica. E. Granulociti eosinofili. Gli eosinofili sono prodotti mediante l’azione della IL-3, della IL-5 e del GMCSF e, una volta attivati, secernono varie sostanze. Alcune di queste sono preformate nei loro granuli: la proteina principale basica (MPB, Main Basic Protein), la proteina cationica degli eosinofili (ECP, Eosinophil Cationic Protein), la perossidasi degli eosinofili (EPO, Eosinophil Peroxidase) e la neurotossina derivata dagli eosinofili (EDN, Eosinophil-derived Neurotoxin). Queste sono responsabili del danneggiamento tissutale nella sede del loro accumulo, per esempio lesioni dell’epitelio bronchiale in corso d’asma. Altre sostanze sono generate a seguito del processo di attivazione: tra queste sono importanti il leucotriene C4 (LTC4) e il PAF per la loro azione promuovente la contrattilità della muscolatura liscia, e il TNF- per l’attività proinfiammatoria. È interessante segnalare che i cristalli di CharcotLeyden, spesso ritrovati nell’escreato di soggetti asmatici, sono formati da una proteina di membrana degli eosinofili (la lisofosfolipasi).
Controllo della risposta immunitaria nell’allergia Esistono tre tipi di fattori che condizionano la risposta immunitaria IgE mediata: • l’ereditarietà; • la via di presentazione dell’antigene; • il contatto con microrganismi nell’infanzia.
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A. Ereditarietà. È stato osservato che all’interno di una popolazione esistono individui con elevati livelli di IgE, e generalmente i soggetti allergici rientrano in questa categoria. Grazie a studi su famiglie di soggetti atopici si è visto che esistono due fenotipi: uno dominante (bassa produzione di IgE) e uno recessivo (alta produzione di IgE). Altre ricerche hanno dimostrato nell’uomo l’esistenza di linfociti T soppressori “classe-specifici” nei confronti delle IgE. La presenza di tali cellule soppressive è utile per l’organismo, in quanto alti livelli di IgE possono essere dannosi. Gli individui con alti livelli di IgE sembrano avere un difetto specifico di questo meccanismo di controllo. Esistono però individui i quali hanno valori di IgE normali e tuttavia presentano qualche forma di allergia. Costoro non hanno la generica tendenza a produrre IgE in eccesso, ma sono in grado di produrle contro un determinato antigene. Per quanto riguarda la propensione a rispondere con la produzione di IgE nei riguardi di certi particolari allergeni e non di altri, il solo condizionamento genetico che è teoricamente possibile è quello relativo alle molecole del sistema di istocompatibilità che, come è noto, presentano peptidi antigenici ai linfociti T. Tuttavia, il collegamento tra le specificità HLA e l’allergia a determinate sostanze è troppo tenue da poter essere di utilità pratica. B. Vie di presentazione dell’antigene. Perché si abbia una risposta IgE, devono essere stimolati dei linfociti B, precursori delle plasmacellule che produrranno tali immunoglobuline. Questi linfociti sono più abbondanti in alcune sedi: cute, linfonodi satelliti della mucosa dell’apparato respiratorio e digerente. Ciò spiega la maggiore frequenza di fenomeni allergici a carico di tali sistemi. La cute e le mucose dovrebbero essere una barriera sufficiente ad impedire il passaggio degli allergeni. Tuttavia è stato evidenziato che, soprattutto a livello della mucosa intestinale, ma anche di quella respiratoria, piccolissime quantità di macromolecole sono in grado di oltrepassare tale barriera. Tale processo prende il nome di “perassorbimento” e consiste in una endocitosi. L’antigene, all’interno di una vescicola, penetra nella cellula (pinocitosi); qui in parte viene digerito, ma in parte viene espulso al polo opposto con un processo di esocitosi. A questo punto, tramite la linfa, può raggiungere i linfonodi satelliti ove sono presenti i linfociti necessari per dare la sensibilizzazione. Tale processo è notevole alla nascita, ma entro 1-2 settimane si riduce marcatamente. Il controllo di tale fenomeno avviene grazie alla presenza di IgA nelle secrezioni intestinali e bronchiali. Tali immunoglobuline sono utili non solo contro le aggressioni microbiche, ma anche nel limitare l’assorbimento degli antigeni nei confronti dei quali sono specificamente dirette. Alcuni soggetti allergici (soprattutto con allergie alimentari) presentano un difetto nella maturazione del sistema IgA. Un altro meccanismo che limita la produzione di IgE nei riguardi delle sostanze che vengono a contatto con le strutture, quali sono le mucose respiratorie e
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IMMUNOPATOLOGIA
intestinali, quotidianamente a contatto con potenziali antigeni provenienti dall’ambiente esterno consiste nel fatto che queste sono attrezzate per produrre particolari cellule regolatrici. Nei roditori si è visto che la somministrazione orale di piccole dosi di autoantigeni previene lo sviluppo delle malattie autoimmuni che possono essere indotte sperimentalmente dall’iniezione, in forme adatte, degli stessi autoantigeni. Questo meccanismo di protezione è stato considerato possibile anche per la mucosa respiratoria. Si pensa che questa protezione sia dovuta alla stimolazione di particolari cellule regolatorie che sarebbero linfociti T capaci di produrre TGF- (Transforming Growth Factor-), una citochina che frena le reazioni immunitarie, e che sono stati chiamati Th3. È possibile che questi meccanismi di controllo valgano non solo per gli autoantigeni, ma anche per gli antigeni esogeni che vengono a contatto con le mucose. Perciò, l’allergia deve essere considerata una sfuggita a meccanismi di controllo delle reazioni immunitarie che ha luogo fisiologicamente nelle sedi più facilmente esposte agli allergeni. C. Contatto con microrganismi nell’infanzia. Nella vita intrauterina le cellule T del feto ricevono le prime stimolazioni da parte dei comuni allergeni ambientali che attraversano la placenta. Questa risposta è di regola prevalentemente di tipo Th2. Dopo la nascita, tuttavia, la maggioranza dei bambini va incontro a quella che viene chiamata la deviazione immune, e cioè sposta la risposta ai comuni allergeni verso i linfociti Th1, un processo che non avviene negli atopici, che, al contrario, incrementano la risposta del tipo Th2. Si è visto che le malattie allergiche sono più comuni nei Paesi ad alto livello di sviluppo piuttosto che in quelli meno sviluppati e si pensa che questo derivi dalle elevate condizioni igieniche e dal largo impiego di antibiotici che si hanno nei primi. Questo limita il contatto dei bambini con microrganismi che potrebbero orientare le risposte immunitarie verso l’impegno dei linfociti Th1 e facilitare la deviazione immune. Da questa e altre osservazioni è nata la cosiddetta “ipotesi dell’igiene”, e cioè l’idea che un certo contatto con i microbi nell’età infantile sia utile per deviare le risposte immunitarie verso il tipo Th1 e rendere più difficile l’insorgenza dell’allergia. Questa ipotesi non è molto conciliabile con l’aumento della prevalenza di asma associato con ipersensibilità ad antigeni di scarafaggi e di acari che si è osservato nei neri poveri negli USA. Ma in questo caso l’intensità dell’esposizione potrebbe prevalere sull’effetto benefico del contatto con microbi nell’età infantile.
Semeiotica funzionale allergologica In tutti i pazienti atopici è indispensabile raccogliere un’accurata anamnesi allergologica che possa essere di
indirizzo negli esami successivi. Questi sono rivolti all’identificazione degli allergeni responsabili del quadro clinico. I mezzi diagnostici a nostra disposizione sono diversi e si possono distinguere in due grandi categorie: test in vivo e test in vitro. Tra i primi sono particolarmente importanti i diversi tipi di test cutanei e i test di provocazione. Tra i secondi, il dosaggio delle IgE totali o specifiche. A. Test cutanei. Vengono divisi in due categorie: • test epicutanei (prick e scratch); • test intradermici. Di solito i primi sono i preferiti in quanto con essi è minimo il rischio di reazioni sistemiche. I due tipi di test epicutanei hanno indicazioni simili e si differenziano solo per piccoli particolari di esecuzione. 1. Prick test. Attualmente è il test più utilizzato. Prende il suo nome dall’inglese (to prick, pungere) in rapporto alla modalità della sua esecuzione. Usualmente si utilizza la superficie volare degli avambracci o la schiena. Vengono poi poste le gocce di soluzione contenenti l’allergene o gli allergeni da testare a distanze note e segnate. Una punta ben acuminata viene fatta penetrare attraverso la goccia di estratto allergenico nello strato più superficiale della cute, stando attenti a non far fuoriuscire sangue. Dopo 15-30 min si valuta la presenza di eritema o/e edema localizzato (pomfo). È molto importante eseguire contemporaneamente agli altri test anche due controlli: uno con soluzione fisiologica (controllo negativo), l’altro con istamina in soluzione 0,1% (controllo positivo). La lettura e l’interpretazione dei test necessita di notevole esperienza e competenza, in quanto i risultati ottenuti devono essere rapportati alla sintomatologia e all’anamnesi del paziente ed in alcuni casi sono indispensabili ulteriori test di conferma: test di provocazione e RAST. È importante ricordare che durante l’esecuzione di tali esami è necessario tenere a portata di mano l’occorrente per un trattamento d’emergenza; infatti, per quanto raramente, si possono manifestare gravi reazioni, fino allo shock anafilattico. 2. Scratch test. Si basa sugli stessi principi del prick test ma è meno sensibile e di più lunga esecuzione, perciò attualmente viene raramente usato. Dopo la pulizia della cute si pratica con uno strumento acuminato un leggero graffio (in inglese, scratch) di 2 mm di lunghezza evitando il sanguinamento, dopo di che una goccia della soluzione contenente l’allergene viene posta al di sopra della lesione provocata e delicatamente si effettua uno sfregamento sull’area graffiata per farla penetrare nella lesione: la lettura viene eseguita dopo 10-30 min. 3. Test intradermici. Si possono usare per valutare gli allergeni che abbiano dato risposta dubbia con i test epicutanei. Viene utilizzata generalmente una dose assai maggiore di allergene rispetto ai test precedenti
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(100-1000 volte di più), quindi i rischi di reazioni sistemiche sono assai più elevati. Anti-IgE
B. Test di provocazione. Si distinguono usualmente in test di stimolazione specifica e aspecifica. Quelli specifici si basano sulla somministrazione diretta dell’allergene alla mucosa respiratoria (nasale, congiuntivale, bronchiale) o gastroenterica con una successiva valutazione della risposta dell’organo bersaglio. In pazienti selezionati possono essere assai utili: il vantaggio di tale metodica è quello di far capire quali dei test cutanei positivi siano realmente significativi dal punto di vista clinico. Gli svantaggi sono diversi: la possibilità di poter eseguire un solo esame per seduta, l’imprecisa quantificazione della risposta soprattutto a livello congiuntivale e nasale, le difficoltà di standardizzazione e la possibilità che si manifestino quadri clinici gravi: soprattutto broncospasmo importante a seguito di un test di provocazione bronchiale. Per tale motivo attualmente è di gran lunga preferibile utilizzare i test di provocazione aspecifica, per esempio mediante l’esposizione a metacolina, che consentono di individuare i soggetti predisposti a sviluppare episodi di broncospasmo. Con questa metodica è altresì possibile valutare la risposta terapeutica a broncodilatatori somministrati per via inalatoria. 1. Test in vitro. Mentre alcuni sono di semplice esecuzione, altri sono piuttosto complessi e richiedono l’uso di metodiche radioimmunologiche. C. Conta degli eosinofili. Benché il numero degli eosinofili si possa ottenere come conta differenziale rispetto al numero dei leucociti totali, un conteggio più accurato si può ottenere utilizzando liquidi particolari che lisano le emazie e colorano gli eosinofili in modo specifico (soluzioni di Pilot o Tannen). Il numero totale degli eosinofili per mm3 va da 0 a 450 nell’adulto, da 50 a 700 nel bambino e da 20 a 850 nel neonato. D. Dosaggio totale delle IgE. Un elevato livello di IgE sieriche può avvalorare il sospetto diagnostico di una malattia allergica. Poiché, però, esiste un certo grado di sovrapposizione tra i valori di IgE nei soggetti normali e negli allergici, una quantità normale di IgE non esclude una diagnosi di allergopatia. Attualmente le IgE vengono valutate con una metodica radioimmunologica: il cosiddetto PRIST (Paper Radio Immuno Sorbent Test, test di radioimmunoassorbimento su carta). Tale test (Fig. 68.7) utilizza dei dischetti di carta come substrato solido; ad essi sono attaccati in modo covalente degli anticorpi anti-IgE. Si pone quindi a contatto con tali dischetti il siero in esame e successivamente si effettuano dei lavaggi. Se sono presenti IgE nel siero in esame, queste vengono legate dagli anticorpi attaccati al dischetto. Come sistema rivelatore si usano anticorpi anti-IgE liberi marcati con 125I. Questi si fissano alle IgE legate al dischetto e quindi, dopo un ulteriore lavaggio, si effettua la lettura del dischetto in un contatore per -emittenti. La radioattività del complesso sarà diretta-
IgE
Anti-IgE marcati
Figura 68.7 - PRIST: denominazione delle IgE totali.
Antigene
IgE specifiche
Anti-IgE marcati
Figura 68.8 - RAST: denominazione delle IgE specifiche.
mente proporzionale alla concentrazione delle IgE nel siero in esame. Nell’adulto i valori normali di IgE sieriche sono inferiori a 0,025 mg/dl. E. Dosaggio delle IgE specifiche. Ha più importanza del dosaggio delle IgE totali; è utile per confermare reperti dubbi nei test cutanei e soprattutto per la valutazione in bambini piccoli o soggetti con gravi dermopatie. Si utilizza un test detto RAST (Radio Allergo Sorbent Test, test di radioallergoassorbimento) che ha qualche analogia con il PRIST (Fig. 68.8). L’allergene è legato covalentemente ad un dischetto di carta e reagisce con l’anticorpo IgE specifico eventualmente presente nel siero in esame. Dopo che le IgE non specifiche sono state eliminate con lavaggi, si aggiungono anticorpi anti-IgE marcati con 125I, i quali si legano al complesso disco-allergene-IgE. Si legge a questo punto la radioattività in un contatore per -emittenti. Questa sarà proporzionale alla quantità di IgE specifiche presenti.
Clinica delle malattie allergiche Per la trattazione della rinite allergica e dell’asma bronchiale si rimanda al capitolo 16 relativo all’apparato respiratorio. L’orticaria è trattata nel capitolo 69.
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Anafilassi La reazione anafilattica è una grave risposta acuta, talora fatale, che si verifica entro pochi secondi o minuti dall’esposizione ad un antigene specifico in un individuo già sensibilizzato. Può manifestarsi con lesioni cutanee (prurito, orticaria), disturbi respiratori a carico delle alte vie (edema della glottide, laringospasmo) o delle basse vie (broncospasmo), collasso circolatorio. Non esiste correlazione con fattori razziali o geografici, sesso, età, attività lavorativa. Gli individui atopici sono probabilmente predisposti. Attualmente la penicillina e i suoi derivati sono la causa più comune di reazioni anafilattiche gravi: si calcola per tale farmaco una frequenza di anafilassi tra lo 0,4 e il 3,0 per 1000 iniezioni, con mortalità in 1-2 casi per 100.000 iniezioni. 1. Eziopatogenesi. La maggior parte delle reazioni anafilattiche è causata dalla somministrazione di farmaci o agenti diagnostici per via parenterale; una minore percentuale di casi dipende dall’assunzione di farmaci per via orale, da cibi o additivi alimentari, dalla puntura di insetti. Un elenco delle cause più comuni è riportato nella tabella 68.6. Mentre in alcuni casi l’agente responsabile è direttamente causa della risposta immunitaria da parte dell’organismo (siero eterologo), in altri casi tale sostanza, essendo di basso peso molecolare, funge da aptene e si lega alle proteine dell’organismo (farmaci, mezzi di contrasto iodati). È infine importante ricordare che l’agente responsabile dell’anafilassi può non essere la sostanza iniettata ma un suo metabolita. Esistono numerose prove sulla mediazione da parte delle IgE di questo tipo di reazione. Appare comunque possibile, in alcuni casi, un ruolo da parte delle IgG. (Tale ruolo appare predominante nelle reazioni trasfusionali in soggetti IgA deficienti; tale reazione sembra mediata da un’attivazione del complemento con una successiva degranulazione dei basofili da parte di anafilotossine.) La reazione antigene-anticorpo tra le sostanze anafilattogene e le IgE adese alla membrana dei basofili (circolanti) e delle mastocellule (tissutali) conduce alla degranulazione di tali cellule secondo i meccanismi descritti nella parte generale sull’allergia (pag. 1354). Il prurito, l’orticaria, le manifestazioni angioedematose dell’anafilassi sono da attribuire al rilascio di istamina; i fenomeni broncospastici sono probabilmente correlati all’azione di leucotrieni (LTB4, LTC4), mentre più complessa appare la patogenesi del collasso circolatorio, in cui ha comunque sicuramente un ruolo il leucotriene D4. Oltre all’azione diretta dell’istamina, appare importante il ruolo dell’aggregazione piastrinica (indotta dal PAF) e il conseguente rilascio di chinine. 2. Clinica e fisiopatologia. Tipicamente le manifestazioni iniziano pochi secondi o minuti dopo l’introduzione della sostanza antifilattogena nell’organismo (più spesso per via iniettiva, più raramente per ingestione). Il paziente inizia ad avvertire un prurito generalizzato, più spesso al volto, parte superiore del torace, mani, ascelle, inguine. Segue un eritema diffuso con orticaria generalizzata (spesso con aspetto figurato) e talora angioedema.
IMMUNOPATOLOGIA
Tabella 68.6 - Agenti eziologici più comunemente responsabili di anafilassi. • Antibiotici – Penicillina (1) – Ampicillina – Cefalosporine – Bacitracina – Neomicina – Polimixina B – Tetracicline – Cloramfenicolo – Kanamicina – Streptomicina – Vancomicina – Amfotericina B – Sulfamidici • Allergeni per desensibilizzazioni (1) – Siero di cavallo (1) – Antitossina tetanica – Antitossina difterica – Globulina antilinfocitaria – Antitossina rabbica – Sieri antiofidici • Ormoni – Insulina – Estratti ipofisari – ACTH – ACTH sintetico – Paratormone – Estradiolo • Agenti diagnostici – Mezzi di contrasto (1) – Bromosulfonftaleina – Benzoilpenicilloilpolilisina • Veleni di animali – Api e vespe (1) – Serpenti
• Enzimi – Tripsina – Chimotripsina – Penicillinasi – Asparaginasi • Derivati ematici (1) – Sangue nero – -globuline – Crioprecipitato • Anestetici locali – Lidocaina – Procaina • Alimenti – Albume d’uovo – Latte – Crostacei (1) – Soia – Noci – Nocciole – Arachidi (1) – Patate – Salmone – Merluzzo – Cioccolato – Arancia – Mandarino – Mango – Senape – Camomilla • Farmaci vari – Penthotal – D-tubocurarina – Vitamine – Eparina – Probenecid – Difenidramina • Altre cause – Liquido di cisti idatidee – Liquido seminale
(1) Agenti che determinano anafilassi più frequentemente.
Compaiono quindi i disturbi respiratori riferibili sia alle alte che alle basse vie respiratorie: dispnea, senso di soffocamento, raucedine, stridore dovuto all’edema della laringe, senso di costrizione toracica, sibili e gemiti dovuti al broncospasmo. Talora insorgono vomito, dolori addominali crampiformi, diarrea per spasmo della muscolatura gastroenterica. I casi fatali sono dovuti: a) all’insufficienza respiratoria acuta conseguente all’edema della glottide o all’ostruzione bronchiale; b) ad un collasso cardiovascolare anche in assenza di eccessivo interessamento respiratorio. In tali casi l’intervallo tra l’introduzione dell’agente causale e la morte varia tra i 15 e i 120 minuti. I casi non fatali tendono a migliorare nell’arco di 24-48 ore. La sintomatologia clinica più grave, in corso di adeguata terapia, può iniziare a migliorare nell’arco di alcuni minuti.
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3. Diagnosi. Si basa essenzialmente sui dati clinici. Con l’anamnesi deve essere valutata la stretta correlazione tra l’assunzione della sostanza sospettata e l’insorgenza della sintomatologia caratteristica. Non esistono esami di laboratorio assolutamente affidabili. L’esecuzione di test cutanei è sconsigliata perché pericolosa. Il dosaggio delle IgE totali (PRIST) dà solo informazioni indicative sulla capacità del soggetto di produrre IgE. Anche i dosaggi delle IgE specifiche (RAST) nei confronti delle sostanze che più comunemente provocano anafilassi possono dare risposte falsamente negative: infatti la reazione anafilattica può essere determinata non dalla sostanza originariamente introdotta nell’organismo ma da un suo metabolita (che può non essere riconosciuto in tale esame). 4. Profilassi e cenni di terapia. La profilassi si basa innanzitutto sulla raccolta di un’adeguata anamnesi allergologica, sulla somministrazione dei farmaci per via orale (quando possibile), sull’uso preferenziale di antisieri umani, sull’adeguata informazione dei pazienti che abbiano mostrato reazioni anafilattiche affinché non assumano più il farmaco responsabile. L’utilizzo dei test cutanei prima dell’uso di farmaci sospetti è controverso per la scarsa specificità e sensibilità, e in quanto lo stesso test può talora provocare una reazione anafilattica. La terapia si basa sulla somministrazione di farmaci capaci di antagonizzare gli effetti dei mediatori rilasciati nel corso della reazione anafilattica: il più importante è l’adrenalina, di una certa utilità nel controllo delle manifestazioni cutanee sono gli antistaminici. Per il broncospasmo trovano impiego anche l’aminofillina e gli steroidi. Allergia alimentare L’allergia alimentare è un’alterata reattività nei confronti di un cibo ingerito, alla cui base sia dimostrato un meccanismo allergico. È importante che la reazione sia controllata e riproducibile, in quanto proprio in questo campo esiste la più grande confusione di terminologia e nosografia e spesso vengono considerate allergiche forme la cui patogenesi è completamente diversa. È più comune nei bambini che negli adulti. La prevalenza delle diverse forme varia notevolmente, ma globalmente appare compresa tra lo 0,1 e il 7% della popolazione con un rapporto tra maschi e femmine di 2 a 1. 1. Eziopatogenesi. Allergeni alimentari. Quasi ogni cibo può determinare reazioni allergiche. Negli ultimi anni si è anche dimostrato un ruolo importante da parte di coloranti e additivi alimentari. Vengono chiamati in causa in particolare la tartrazina, il metabisolfito di sodio e i composti ad esso correlati, i nitrati e i nitriti oltre ai derivati dell’acido benzoico, benché il loro meccanismo di azione non appaia ancora del tutto chiaro. Non va dimenticato poi che molti alimenti, ed in particolare i latticini, possono contenere antibiotici tra cui penicillina a scopo conservante. I cibi più comunemente implicati comprendono il latte vaccino e i suoi derivati, le uova, i cereali, il cioccolato, gli agrumi, la frutta secca e i frutti di mare. Come regola generale i cibi cotti sono meno antigenici di
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quelli crudi. Inoltre cibi della stessa famiglia possono determinare reazioni allergiche crociate: ciò si manifesta con particolare frequenza in alcuni casi (per es., per i crostacei). I principi di base riguardanti la patogenesi della allergia alimentare sono stati trattati nella parte generale sull’allergia a pag. 1354. 2. Fisiopatologia. L’espressione clinica dell’allergia può essere messa in rapporto: a) con il trasporto dell’antigene nella lamina propria intestinale, il che determina la presenza di reazioni allergiche esclusivamente locali che si possono manifestare soprattutto come diarrea, sanguinamento gastroenterico e sindrome da malassorbimento (allergia alimentare localizzata); b) con il trasporto degli antigeni non solo alla lamina propria ma anche a livello della circolazione sistemica, il che può portare alle manifestazioni più svariate con particolare predominanza delle manifestazioni cutanee (allergia alimentare generalizzata). I fattori che determinano la natura della risposta allergica non sono ancora ben conosciuti, ma probabilmente sono correlati sia al grado di sensibilità del singolo paziente che alla concentrazione e alle caratteristiche fisico-chimiche dell’allergene ingerito. A tale proposito è bene ricordare che esistono due tipi diversi di reazione, l’una immediata, che avviene cioè entro pochi minuti dall’assunzione del cibo, causata dall’allergene non modificato dalla digestione, l’altra ritardata di ore o giorni, determinata dalla reazione nei confronti di prodotti della scomposizione della molecola primitiva. 3. Clinica. Il quadro clinico può essere polimorfo, in rapporto all’esistenza di forme sistemiche e localizzate tra le più varie. I disturbi gastrointestinali sono piuttosto generici e possono essere riferiti ai diversi distretti dell’apparato digerente. Comunemente si distinguono le forme caratterizzate da pirosi, senso di oppressione e dolore epigastrico, nausea, vomito, dovute ad un interessamento delle prime vie digestive, da quelle in cui i sintomi sono localizzati alla parte distale dell’apparato gastroenterico: dolori diffusi, flatulenza, stipsi, diarrea, melena, prurito anale. Si può notare che si tratta di disturbi assolutamente aspecifici; per questo motivo la diagnosi di allergia alimentare può essere posta solo in presenza di un ben preciso rapporto di causa ed effetto tra l’assunzione dell’alimento e l’insorgenza dei disturbi. Tra le manifestazioni sistemiche dovute all’allergia alimentare quelle cutanee sono al primo posto, assumendo particolare rilievo l’orticaria (pag. 1390), l’angioedema, l’eczema atopico. Meno frequenti ma sicuramente dimostrate sono le forme di allergia respiratoria (rinite, asma bronchiale). Ancora controverso è il ruolo dell’allergia alimentare nella possibile genesi di svariati disturbi tra cui alcune fome di cefalea ed artrite. 4. Allergia alimentare in età pediatrica. Particolarmente importante è il corretto riconoscimento di tale forma nei bambini, nei quali essa è assai comune e grave.
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Anche in questo caso si possono evidenziare manifestazioni sistemiche e gastroenteriche. Il modello più tipico di tale patologia nel bambino è quello rappresentato dall’allergia nei confronti delle proteine del latte vaccino. Essa presenta massima incidenza entro i 6 mesi di vita ed è rara dopo i 3 anni. I bambini in cui predominano le manifestazioni gastrointestinali possono presentarsi con una sintomatologia acuta e con una sindrome cronica caratterizzata spesso da segni di malassorbimento che determina un quadro clinico simile alla malattia celiaca (Cap. 24) con grave ritardo di crescita. È importante indagare la familiarità per atopia anche se essa non è sempre presente. La sindrome acuta invece è caratterizzata dall’insorgenza improvvisa di vomito, spesso seguito da pallore e prostrazione. Lo shock vero e proprio è raro, ma quando si manifesta può essere fatale. 5. Esami di laboratorio. È spesso presente eosinofilia. Il valore dei test epicutanei è controverso. È comunque opportuno utilizzare a questo scopo alimenti freschi e non conservati, in quanto i preparati commerciali forniscono un elevato numero sia di falsi positivi che di falsi negativi. La diagnosi di allergia alimentare non può essere comunque che il risultato di una accurata anamnesi (utilità del diario alimentare) associata al corretto impiego di diete di eliminazione e scatenamento. Il dosaggio delle IgE totali (PRIST) può aiutare a identificare il paziente atopico. Può essere utile anche il dosaggio delle IgE specifiche (RAST) nei confronti dei principali allergeni alimentari. 6. Diagnosi. La diagnosi pone spesso grosse difficoltà, specialmente nel bambino. Sono molto significative la positività familiare per atopia e la stretta correlazione tra l’assunzione di un cibo e la comparsa delle manifestazioni allergiche. In molti casi, purtroppo, tale reazione non è facilmente evocabile. È importante la diagnosi differenziale con le altre affezioni che possono determinare quadri di malassorbimento nel bambino: in particolare la celiachia, l’intolleranza ai disaccaridi e al fruttosio. Talora può essere confusa con una forma allergica quella che è in realtà una tossinfezione alimentare o una reazione idiosincrasica: basti ricordare le reazioni nei confronti di alimenti che determinano il rilascio di istamina (come le fragole) o che sono molto ricchi di acido glutammico (sindrome del ristorante cinese) e ancora l’ingestione di fave crude o farmaci riducenti in soggetti con carenza dell’enzima glucosio-6-fosfatodeidrogenasi. Esistono, infine, forme di difficile interpretazione la cui patogenesi è verosimilmente psicosomatica. 7. Decorso e prognosi. La gravità delle allergie alimentari può essere varia: mentre in taluni casi i disturbi sono lievi, in altri il paziente corre il rischio di morire per uno shock anafilattico. Particolarmente gravi, se non adeguatamente curate, sono le forme pediatriche in cui è presente malnutrizione.
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8. Terapia. Il principale metodo di trattamento è l’eliminazione del cibo responsabile e degli altri alimenti contenenti allergeni cross-reagenti. Per fare ciò è necessaria una adeguata consulenza dietetica, specie quando il paziente è allergico nei confronti di molte importanti famiglie di cibi. Nei casi in cui siano presenti sensibilità multiple e non si abbia risposta alla dieta di eliminazione, o quando non sia stato possibile identificare con sicurezza l’agente responsabile dell’allergia, si può tentare una terapia farmacologica con agenti in grado di stabilizzare la membrana dei basofili inibendo la loro degranulazione in modo aspecifico: tra essi hanno particolare rilevanza il disodiocromoglicato e il chetotifene. Nei pazienti con malnutrizione è opportuna un’adeguata terapia dietetica al fine di riportare in equilibrio il bilancio calorico e proteico. Poiché ciò accade soprattutto nei bambini con intolleranza al latte vaccino, di solito è sufficiente sostituire tale alimento con altri di formulazione diversa. Talora, però, in caso di intolleranza grave e persistenza dei disturbi gastroenterici può essere necessario un periodo di nutrizione parenterale totale. Contrariamente alle allergie respiratorie non è provata l’efficacia dell’immunoterapia desensibilizzante né per via parenterale né per via orale.
AUTOIMMUNITÀ (*) Per autoimmunità si intende lo sviluppo di una risposta immunitaria nei confronti dei propri antigeni. Tale fenomeno riflette la perdita della cosiddetta “tolleranza immunitaria” nei confronti di antigeni cellulari e tissutali del “se stesso” (“self ”). Tuttavia si deve osservare che lo sviluppo di reazioni autoimmuni non comporta necessariamente manifestazioni morbose. Un modesto grado di autoreattività è fisiologico e utile per lo sviluppo delle normali funzioni immunitarie. Autoanticorpi chiaramente dimostrabili possono essere trovati nel corso di malattie a patogenesi non autoimmune, e anche in soggetti clinicamente sani nei quali, però, esiste un aumentato rischio che una malattia autoimmune si sviluppi in seguito, anche a distanza di anni. In senso stretto, una malattia può essere definita autoimmune se si dimostra che dipende dal danneggiamento diretto o indiretto di strutture corporee in conseguenza di reazioni immunitarie dirette contro antigeni del se stesso. Una definizione più ampia di malattia autoimmune è stata proposta da Davidson e Diamond (2001) ed è la seguente: “una sindrome clinica derivata da attivazione di cellule T, o B o entrambe, in assenza di un’infezione in corso o di altre cause rilevabili”. Questa definizione è meno rigorosa della precedente, ma è operativamente utile perché ha il merito di includere nel campo delle malattie autoimmuni anche condizioni, come la malattia di Still dell’adulto o le arteriti gigantocellulari, nelle quali non si dimostrano di regola autoanticorpi nel siero, ma esistono forti argomenti clinici per sospettare l’autoimmunità. (*) M.G. Sabbadini, C. Rugarli
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Tolleranza immunitaria La modalità con cui il sistema immunitario è capace di discriminare gli antigeni estranei dagli antigeni del self non è ancora stata completamente chiarita. Una volta si pensava che il sistema immunitario fosse programmato solo per proteggere l’organismo dalle sostanze antigeniche estranee. La mancata risposta anticorpale nei confronti dei propri antigeni si riteneva fosse sotto il controllo diretto di meccanismi genetici. Tale teoria tuttavia già da molti anni è stata confutata da numerose evidenze sperimentali. In particolare la prima osservazione significativa è stata la seguente: gemelli dizigoti bovini i quali condividevano la stessa circolazione placentare si sviluppavano con un considerevole numero di eritrociti appartenenti all’altro gemello nel loro sangue senza che questi o altri dello stesso gruppo, eventualmente iniettati, determinassero la comparsa di una risposta immunitaria evidente. Quelli che invece non avevano condiviso tale situazione immunitaria intrauterina erano perfettamente in grado di rispondere con una produzione anticorpale alla somministrazione di emazie del gruppo sanguigno del gemello. Da questa e da altre osservazioni è stata ricavata la teoria della selezione clonale di Burnet (1957): ad ogni antigene corrisponderebbe un clone di linfociti in grado di reagire specificamente contro di esso; i potenziali antigeni presentati al sistema immunitario della sua fase di immaturità (vita intrauterina e perinatale) sarebbero in grado di determinare l’inattivazione o la distruzione dei cloni reattivi contro di loro. L’autoimmunità, secondo Burnet, poteva derivare solamente da un errore casuale (forse dovuto a mutazione somatica) che portasse all’emergenza di un clone proibito, cioè allo sviluppo di una genealogia di cellule competenti a reagire contro qualche antigene del se stesso. Questa teoria è semplice ed elegante, ma non spiega vari fenomeni. In primo luogo, se il clone proibito deriva da una singola cellula che ha commesso un errore, gli anticorpi contro un determinato autoantigene dovrebbero essere monoclonali, ossia tutti dello stesso tipo (ossia, con la stessa catena leggera nella loro molecola) ed idiotipo (ossia, con la stessa conformazione di quella porzione della molecola che si lega con l’antigene). In realtà la monoclonalità degli autoanticorpi può essere presente in certi casi (per es., nella crioagglutininemia idiopatica), ma è più spesso mancante. In secondo luogo, esistono modelli sperimentali nei quali l’autoimmunità può essere indotta appositamente, per esempio iniettando un autoantigene assieme a un cosiddetto “adiuvante” (sostanze che incrementano le risposte immunitarie; per es., una sospensione di microbatteri in oli vegetali), oppure iniettando una sostanza molto simile a un autoantigene (per es., una proteina omologa). Questo fatto appare difficilmente conciliabile con un evento casuale e dimostra che cellule potenzialmente autoreattive sono normalmente presenti nell’individuo adulto. In realtà la risposta immune verso i costituenti propri del self non è un evento “proibito” in modo assoluto e la formazione di anticorpi verso costituenti del self è un
evento piuttosto frequente che accompagna molte situazioni parafisiologiche (per es., infezioni virali). Malgrado queste obiezioni, il concetto centrale della teoria di Burnet è ancora sostanzialmente valido: la tolleranza verso il self non è programmata nella linea germinale ma è acquisita somaticamente e, almeno per la linea T, questa acquisizione comporta parziale delezione cellulare. La selezione negativa avviene nel timo, durante l’ontogenesi dei linfociti T, e si realizza contemporaneamente a una selezione positiva che porta all’acquisizione della restrizione MHC. Questi fenomeni nel loro complesso vengono chiamati “educazione timica”. Deve perciò essere rilevato che la selezione negativa nel timo non può spiegare completamente la tolleranza immunitaria verso i costituenti del se stesso. Per conseguire completamente questo scopo l’organismo dovrebbe eliminare troppi cloni linfocitari e il sistema immunitario ne risulterebbe eccessivamente impoverito. Perciò, meccanismi periferici di induzione di tolleranza e di regolazione delle risposte immunitarie sono stati riconosciuti come importanti e il loro studio ha portato all’acquisizione di nuove conoscenze di un certo interesse per la patogenesi dell’autoimmunità.
Educazione timica e tolleranza periferica Non è ancora stato del tutto chiarito come avvenga l’educazione timica dei linfociti. Essa si esercita sul repertorio recettoriale primitivo, che risulta dal riarrangiamento casuale di geni delle catene e del TCR e fa sì che meno del 5% delle cellule generate nel timo possa proseguire la differenziazione fino a linfociti T maturi. L’ipotesi più accreditata è che i timociti precoci siano cellule incapaci di ulteriore differenziazione e destinate a morire se non ricevono un “segnale” attivatorio. I timociti il cui recettore non ha alcuna affinità per gli antigeni espressi sulle cellule corticali timiche (antigeni MHC di I e II classe) non subiscono questo salvataggio, non possono ulteriormente espandersi e muoiono nell’organo. Le cellule il cui recettore interagisce anche a bassa affinità con gli antigeni timici vengono stimolate a proliferare e a maturare ulteriormente. Questa selezione positiva sarebbe appunto alla base del fenomeno della restrizione MHC. Il termine “restrizione” vuol dire che le cellule così maturate potranno riconoscere un antigene solo quando lo vedranno presentato sulle stesse molecole MHC che hanno incontrato nel timo (quelle cioè del se stesso). La selezione negativa verrebbe operata successivamente dalle cellule dendritiche-macrofagiche della midollare timica o della giunzione corticomidollare e riguarderebbe i timociti con un recettore che riconosce gli antigeni del se stesso con alta affinità; a questo stadio di maturazione (timocita “doppio positivo”, CD4+ CD8+) l’incontro con l’antigene sarebbe fatale alla cellula, che viene soppressa.
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L’ipotesi non spiega adeguatamente come si instauri la tolleranza verso gli antigeni del self non espressi a livello timico e che verranno incontrati dalla cellula T matura solo dopo aver lasciato l’organo. È possibile che alcuni di essi siano presenti in fase solubile, raggiungano il timo e determinino la delezione dei timociti reattivi, ma è improbabile che questa modalità di tolleranza possa riguardare tutti gli antigeni del self. Per una larga parte degli autoantigeni, pertanto, la tolleranza si deve stabilire a livello periferico, con un meccanismo che non implica la delezione clonale ma una non responsività (“anergia clonale”) potenzialmente reversibile. In effetti è noto da tempo che la tolleranza verso vari antigeni può essere indotta anche dopo la nascita se si impiegano particolari accorgimenti nella modalità di somministrazione dell’antigene. In realtà i meccanismi di questa tolleranza periferica sono più d’uno. In primo luogo esiste quella che si chiama l’ignoranza immunologica. Questa deriva dal fatto che i linfociti T che non hanno ancora avuto contatto con i rispettivi antigeni (e cioè sono “naïve”, e cioè “ingenui”) circolano solo nel sistema linfatico e non hanno rapporti con gli antigeni di altri tessuti, che perciò ignorano. L’ignoranza immunologica è facilitata dal fatto che, con l’eccezione delle cellule professionali presentanti gli antigeni (cellule dendritiche, macrofagi, linfociti B), tutte le altre cellule dell’organismo sono sprovviste del segnale costimolatorio. Si è già detto che, perché un linfocito T possa essere indotto ad impegnarsi in una reazione immunitaria, occorre che riceva due segnali: il primo dall’antigene (peptide montato su molecola MHC) che interagisce con il recettore specifico, e il secondo rappresentato da molecole, denominate B7-1 e B7-2 (dette anche CD80 e CD86). Questo segnale costimolatorio non è fornito dalle cellule che non hanno la funzione di presentare gli antigeni e questo facilita l’ignoranza immunologica. Tuttavia, questo meccanismo di tolleranza periferica non è molto efficiente. Per fare solo un esempio, basta che i linfociti T “naïve” vengano a contatto con un antigene estraneo abbastanza simile a un antigene del se stesso (cosiddetto fenomeno della “mimesi molecolare”) e che sia adeguatamente presentato da una cellula professionale, perché si scateni una reazione autoimmune. L’ignoranza, infatti, riguarda solo la branca afferente della risposta immunitaria e non quella efferente, una volta che la reazione sia stata messa in movimento. Esistono però altri meccanismi di tolleranza periferica che sono più efficienti. Lo è sicuramente la delezione periferica delle cellule T. Un tempo si pensava che questo avvenisse sempre a seguito dell’impegno del recettore specifico dei linfociti T in assenza del segnale costimolatorio. In realtà si è visto che per arrivare alla delezione occorre che le cellule T si impegnino prima in una reazione specifica (e si vedrà nel paragrafo seguente come ciò possa verificarsi nei riguardi degli autoantigeni) e che questa si spinga tanto avanti da portare ad una forma di autodistruzione delle cellule impegnate. Le cellule professionali presentanti gli antigeni possono, infatti, fornire non solo segnali attivatori, ma
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anche segnali che inducono alla morte programmata (apoptosi) i linfociti T con i quali interagiscono. La risposta immunitaria è, infatti, programmata per avere uno svolgimento e una fine. Se la fine è troppo precoce (“reazione esaustiva”) la risposta immunitaria manca del tutto. Le molecole costimolatorie B7-1 e B7-2 agiscono, infatti, inizialmente interagendo con un recettore presente alla superficie dei linfociti T denominato CD28. Ma, procedendo nella stimolazione, il CD28 è sostituito da un’altra molecola, chiamata CTLA-4, che reagisce sempre con B7-1 e B7-2, ma che limita l’espansione clonale delle cellule stimolate. È stato dimostrato che l’induzione di tolleranza periferica richiede un corretto funzionamento della molecola CTLA-4. Non è però chiaro che cosa determini una prevalenza del meccanismo negativo dovuto a CTLA-4 rispetto a quello positivo esercitato da CD28. Un’altra possibilità è che siano le stesse cellule presentanti gli antigeni a mettere in moto un segnale tolerogenico. Questo è rappresentato da una molecola, espressa in superficie, che interagisce con un’altra molecola presente sui linfociti T, denominata Fas, che è un induttore di apoptosi. Quando il Fas dei linfociti T incontra il suo ligando, scatta un segnale che determina l’apoptosi di queste cellule. Ancora una volta non è noto che cosa induca questo tipo di interazione negativa, anche se forse la durata della presentazione dell’antigene ha importanza. Un terzo meccanismo di tolleranza periferica, che comincia ad essere sfruttato a fini terapeutici, è quello dell’immunodeviazione. Questo consiste nel fatto che, in luogo di una risposta immunitaria verso gli autoantigeni, direttamente o indirettamente dannosa, se ne sviluppa un’altra che contrasta la prima. La risposta dannosa è dovuta ai linfociti Th1 e quella che la limita è esercitata dai linfociti Th2. Questi secernono una serie di citochine, IL-4, IL-5, IL-6, IL-10, IL-13, che sopprimono l’attività dei linfociti Th1. Si è visto che i linfociti Th2 sono importanti nelle reazioni allergiche, ma deve far riflettere che queste sono una risposta eccezionale (onde lo stesso nome di allergia) ad antigeni largamente diffusi nell’ambiente, ai quali la maggioranza degli individui è indifferente. L’allergia potrebbe perciò essere considerata una deviazione patologica di un meccanismo immunoregolatore che potrebbe essere operante anche nei riguardi degli autoantigeni. Sono state individuate cellule meglio specializzate nella regolazione dell’attività dei linfociti Th1. Con il nome di Tr1 sono stati indicati dei linfociti T CD4– positivi che secernono in modo elettivo una tra le citochine prodotte dai linfociti Th2, e precisamente la IL-10. Questi linfociti sono dei potenti moderatori della risposta Th1. Altri linfociti, detti Th3, secernono invece TGF- (Transforming Growth Factor-), una citochina che fisiologicamente pone termine all’infiammazione e favorisce la formazione di tessuto fibroso e quindi la cicatrizzazione. Anche il TGF- è un efficace soppressore delle risposte Th1.
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Un’azione regolatrice importante viene attualmente attribuita a linfociti T CD4+ e CD25+, che nel timo vengono a contatto con antigeni espressi in tessuti periferici e da qui sono rilasciati per regolare le possibili reazioni contro gli autoantigeni. È probabile che l’immunodeviazione più che a impedire l’autoimmunità sia destinata a prevenire risposte immunitarie inutili verso antigeni innocenti. Non è un caso che le cellule capaci di produrre le citochine soppressive abbondino soprattutto negli organi che hanno contatto con l’ambiente esterno: polmoni, intestino, cute (che sono anche le strutture dove più facilmente si verificano le reazioni allergiche). Topi knockout per il gene della IL-10 (e cioè geneticamente ingegnerizzati in modo da essere incapaci di produrre questa proteina) sviluppano spontaneamente un’enterocolite cronica con caratteristiche simili alla colite ulcerosa e alla malattia di Crohn degli esseri umani. Evidentemente questo è dovuto a risposte immunitarie improprie contro gli antigeni presenti nell’intestino, siano essi di derivazione batterica o alimentare. Un aspetto interessante dell’immunodeviazione è il cosiddetto effetto “bystander” (parola traducibile imperfettamente in italiano: alcuni la traducono come “astante”, ma questo termine indica che si è presenti, mentre bystander significa che si è vicini). Non è necessario, infatti, che le cellule regolatrici siano specificamente dirette contro gli stessi epitopi (nel caso delle cellule T peptidi) che possono essere riconosciuti dalle cellule Th1: basta che gli epitopi per le cellule regolatrici e quelli per i Th1 siano presenti su una stessa molecola proteica. Quando questa viene interiorizzata in una cellula presentante gli antigeni, alla superficie di quest’ultima verranno espressi epitopi destinati ad entrambi i tipi di cellule, e così i linfociti regolatori, trovandosi vicini ai Th1, potranno sopprimerli con le citochine che producono. Questo effetto è stato messo a profitto sperimentando il trattamento di alcune malattie autoimmuni con la somministrazione orale di proteine che si sanno coinvolte nella reazione immunopatologica: per esempio, collageno nell’artrite reumatoide e proteina basica della mielina nella sclerosi multipla. La logica di questo trattamento è che nell’apparato digerente possono più facilmente essere trovati i linfociti regolatori e questi possono essere mobilizzati nelle sedi ove avvengono le reazioni indesiderate. La situazione è abbastanza diversa per quanto riguarda la tolleranza dei linfociti B. Da quanto è stato detto si può capire come possa esistere uno stato di tolleranza grazie all’eliminazione della sola attività delle cellule T, pur persistendo nell’organismo cellule B potenzialmente autoreattive. Infatti, mancando a queste ultime la cooperazione dei linfociti T la risposta agli autoantigeni non potrebbe comunque verificarsi. Secondo una teoria che fu sostenuta principalmente da Allison e Weigle, una tolleranza interessante solo i linfociti T e non i B sarebbe possibile nei riguardi di autoantigeni che non sono presenti in circolo se non in bassissima concentrazione (un esempio di tale tipo di tolleranza è quello nei confronti della tireoglobulina, che normalmente è contenuta nei follicoli ti-
roidei ad alta concentrazione, mentre in circolo se ne trovano delle tracce). In questo caso si avrebbe l’inattivazione solo dei linfociti T helper specifici, mentre i cloni dei linfociti B resterebbero potenzialmente reattivi. Non si avrebbe comunque la risposta anticorpale, perché il difetto di cooperazione impedisce l’inattivazione di tali cellule. Per gli antigeni presenti ad alta concentrazione, invece, deve potersi instaurare una vera tolleranza B. Che questo sia il caso era già stato sostenuto negli anni Settanta dal ricercatore australiano G. Nossal. Secondo questo Autore i linfociti B, durante la loro differenziazione da cellule staminali a cellule B mature, attraversano uno stadio durante il quale il contatto con l’antigene, pur senza causare la morte cellulare, fornisce un segnale negativo invece che attivatorio. Nossal chiamò questo stato di paralisi funzionante “anergia clonale” o “aborto clonale”. Questa particolare fase di sensibilità non sarebbe presente nel solo periodo neonatale ma sarebbe propria di tutti i linfociti B per tutta la vita, di un individuo. L’induzione della tolleranza da parte degli autoantigeni sarebbe perciò un fenomeno che avviene continuamente nella vita adulta. Esperimenti recenti hanno effettivamente confermato la teoria di Nossal, dimostrando inoltre come questa “paralisi funzionale” si accompagni alla regolazione negativa dei recettori immunoglobulinici di tipo IgM sulla membrana cellulare, ma non di quelli di tipo IgD; i linfociti B in questo stadio non sono più attivabili dall’antigene nemmeno in presenza di linfociti T helper specifici. Un punto ancora molto discusso per quanto riguarda la tolleranza è l’esistenza e il ruolo eventualmente giocato da cellule T ad attività soppressiva. In diversi modelli sperimentali sono effettivamente stati evidenziati linfociti T CD8 + capaci di antagonizzare sia la funzione dei linfociti T helper che quella dei linfociti B. L’induzione di linfociti soppressori sembra avvenire soprattutto quando l’antigene viene iniettato endovena in assenza di adiuvanti; questa è effettivamente la modalità con cui molti antigeni autologhi entrano in contatto con il sistema immunitario.
MECCANISMI DI GENERAZIONE DELL’AUTOIMMUNITÀ Condizionamento genetico Solo in rare condizioni l’autoimmunità è dipendente dall’alterazione di un singolo gene. Abbiamo già visto (Cap. 61) che la sindrome poliendocrina autoimmune di tipo I è dipendente da alterazioni del gene AIRE, il cui ruolo consisterebbe nel favorire l’espressione intratimica degli antigeni periferici e la generazione di cellule regolatrici T CD4+ e CD25+. Lo stesso vale per la più grave poliendocrinopatia X-linked con disfunzione immune e diarrea, nella quale il difetto è complesso, ma si
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pensa che includa il gene FOXP3, che influenza il numero delle cellule T CD4+ e CD25+. Esiste un’altra rarissima malattia, che è la sindrome linfoproliferativa autoimmune e che è dipendente da mutazioni di geni che comportano un difetto o della proteina Fas o del suo recettore. La proteina Fas è presente alla superficie di cellule impegnate in reazioni immunitarie e, a contatto con il suo recettore, induce l’apoptosi (morte programmata) di queste cellule, limitando così l’intensità di queste reazioni. I pazienti affetti da questa sindrome soffrono di una pluralità di malattie autoimmuni e reazioni allergiche, e vanno incontro a notevoli ingrandimenti degli organi linfatici nei quali, a differenza di quanto avviene normalmente, la proliferazione linfocitaria non è frenata. Nulla di tutto questo è però rintracciabile nelle forme comuni di autoimmunità. Per quanto una certa familiarità dell’autoimmunità sia ben evidente, non esiste a questo riguardo un’ereditarietà con caratteri mendeliani perché si tratta evidentemente di un condizionamento poligenico e perché quella che viene ereditata non è l’autoimmunità, ma la propensione a reazioni di questo tipo. Tra i fattori ereditari va in primo luogo ricordato il ruolo degli antigeni di istocompatibilità. Si è visto che questi presentano ai linfociti T dei peptidi inseriti in un anfratto presente nella loro molecola. È perciò comprensibile che possedere o meno certi particolari antigeni di istocompatibilità sia importante per poter montare al loro interno peptidi derivati da proteine autologhe, in grado di indurre o di essere bersaglio di reazioni autoimmuni quando si creino le condizioni permissive perché queste abbiano luogo. Inoltre, gli antigeni di istocompatibilità di seconda classe hanno un ruolo importante nelle selezioni positiva e negativa che si verificano nella maturazione intratimica dei linfociti T. Certi antigeni di istocompatibilità possono più facilmente selezionare positivamente i linfociti T corrispondenti, e questi, se si creano le condizioni adatte, possono occasionare in seguito una reazione autoimmune nei riguardi degli stessi antigeni di istocompatibilità quando veicolano peptidi di origine autologa. Al contrario, altri antigeni di istocompatibilità possono essere molto efficienti nell’eliminare all’interno del timo i linfociti T corrispondenti e rendere certe reazioni autoimmuni più difficili. Ne sono un esempio quelle molecole appartenenti alla specificità DQ che posseggono nella loro catena un residuo di acido aspartico in posizione 57. Queste, che sono considerate associate con una ridotta propensione a sviluppare diabete di tipo I insulino-dipendente, potrebbero essere molto efficienti nell’eliminare, durante la maturazione intratimica, cloni di linfociti T capaci di dare una reazione autoimmune contro le cellule delle isole di Langerhans. Delle associazioni particolari tra autoimmunità e molecole HLA si è parlato e si parlerà nella trattazione delle singole malattie. Un altro condizionamento genetico possibile dipende dal polimorfismo del gene che codifica la proteina CTLA-4, una molecola di superficie che riduce l’attività dei linfociti T dopo che sono stati stimolati. Nell’ambito di questo polimorfismo esistono alleli che
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comportano una lieve riduzione dei segnali inibitori di CTLA-4 e che perciò predispongono al diabete di tipo I, alle tiroiditi e alla cirrosi biliare primitiva. Un altro fattore che può essere, almeno in parte, geneticamente determinato è la struttura del recettore di quei cloni di linfociti T che possono essere impegnati in reazioni autoimmuni. Per quanto il riarrangiamento dei geni che conducono alla codificazione finale del recettore dei linfociti T sia un evento somatico, la materia prima è rappresentata dai geni presenti nelle regioni V D e J (Cap. 49) ed è trasmessa nella linea germinale. Perciò, nonostante si sappia poco su questo punto, è indispensabile che alcuni individui siano ereditariamente dotati di geni che li abilitano a produrre linfociti T con recettore capace di reagire con autoantigeni. Un concetto importante, però, è che sono molti i geni implicati nel condizionamento dell’autoimmunità e che ciascuno di essi può esercitare un’azione significativa se la sua alterazione si pone sullo sfondo di particolari combinazioni di altri geni. Inoltre, alcuni difetti genetici possono predisporre i pazienti a più di una malattia autoimmune.
Fattori esogeni A. Mimesi molecolare. La mimesi molecolare si verifica quando un antigene esogeno, abbastanza simile ad un antigene del se stesso ignorato dal sistema immunitario, induce una reazione specifica in cellule potenzialmente autoreattive. Il passaggio dallo stato “naïve” a quello di attivazione cambia il comportamento di queste cellule, che hanno perciò accesso alle strutture del se stesso che prima ignoravano e vi scatenano una reazione autoimmune. Indizi clinici in favore della mimesi molecolare sono rappresentati dalle miniepidemie di malattia di Reiter osservate dopo diffusione di dissenteria da Shigella flexneri, e ancora di più dall’associazione di questa stessa malattia e della spondilite anchilosante con l’antigene di istocompatibilità HLA-B27. È stato dimostrato che la sequenza aminoacidica della molecola dell’HLA-B27 condivide una regione di 5-6 aminoacidi con una proteina di Klebsiella pneumoniae, altro microrganismo associato con queste malattie. Un altro esempio importante di mimesi molecolare nell’uomo è la malattia reumatica indotta da streptococchi, che posseggono costituenti con somiglianze molecolari con la miosina. B. Infezioni e segnali di pericolo. Si è visto che la mimesi molecolare è largamente dipendente da agenti di infezioni. Tuttavia, esiste un altro meccanismo con il quale le infezioni possono indurre autoimmunità. Si è visto che le cellule dell’immunità innata, i monocitimacrofagi, debbono essere attivate da particolari stimoli per svolgere le loro funzioni, e questo vale anche per le cellule dendritiche che presentano gli antigeni ai linfociti T nelle risposte primarie. Perciò, se gli autoantigeni sono resi disponibili in assenza di cellule dendritiche attivate, non si può avere induzione di una rispo-
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sta immunitaria da parte di linfociti T effettori. Per fare un esempio, ogni giorno muore un gran numero di granulociti neutrofili (la cui vita media è di circa 24 ore), ma questo avviene per apoptosi e cioè senza liberazione degli enzimi litici lisosomiali. Si è visto che il corpi apoptotici sono interiorizzati da macrofagi e altre cellule, per esempio anche cellule endoteliali e fibroblasti, senza che si abbia infiammazione. Se cellule dendritiche interiorizzassero corpi apoptotici, esse non sarebbero mature e in condizione di essere attivate e mancherebbe la risposta immunitaria. Ma se esiste un’infezione, molecole batteriche potrebbero stimolare i recettori Toll (TLR) sulle cellule che presentano gli antigeni ai linfociti T e, se queste cellule interiorizzassero i corpi apoptotici derivati dai granulociti neutrofili (lo stesso vale per altri autoantigeni), una risposta autoimmune potrebbe avere luogo. È forse questa la ragione per la quale gli anticorpi antinucleo sono gli autoanticorpi più comuni, dato che i corpi apoptotici espongono gli antigeni nucleari. Questa spiegazione è in linea con una teoria generale della tolleranza immunologica presentata nel 2002 dalla immunologa americana Polly Matzinger. Questa ricercatrice ha criticato il principio generale della tolleranza immunologica, come espresso originariamente da McFarlane Burnet, che vede la logica fondamentale del sistema immunitario nella discriminazione tra il se stesso (“self ”) e il non se stesso (“not self ”). Secondo la Matzinger, invece, la discriminazione è tra ciò che è pericoloso (“danger”) e cio che non lo è (“not danger”). I recettori Toll avvertono un segnale di pericolo e, se stimolati, fanno in modo che le cellule che presentano gli antigeni ai linfociti T riconoscano ciò che è pericoloso e consentano le reazioni immunitarie. Al contrario, se non sono stimolati, non avviano queste reazioni. Allo stesso modo funzionano altri segnali di pericolo, come le cosiddette “heath-shock proteins” (che vengono sintetizzate in cellule stressate non solo dalle temperature elevate, ma anche da altri stimoli, tra i quali l’interferon- che viene liberato dai linfociti Th1), o l’interferon- (che può essere prodotto in seguito a infezioni virali) o una proteina della cromatina cellulare chiamata HMGB-1, che è rilasciata dalle cellule necrotiche, ma non da quelle che muoiono per apoptosi. Un’obiezione possibile a questa interpretazione è che i segnali di pericolo sono così comuni che l’autoimmunità, nella forma clinicamente significativa, dovrebbe essere comunissima, mentre è relativamente rara. Ma l’obiezione potrebbe essere superata se si amettesse che, in assenza di segnali di pericolo, vengono reclutate cellule regolatrici specifiche per gli antigeni presentati in queste condizioni. Gli autoantigeni sono presentati correntemente al sistema immunitario e questo avviene più spesso in assenza di segnali di pericolo. È perciò possibile che un organismo normale sviluppi una buona dotazione di cellule regolatrici nei riguardi degli autoantigeni e perciò, quando si presentano segnali di pericolo, le cellule autoreattive che vengono generate siano pienamente controllate. Solo quando esiste una predisposizione genetica e/o i segnali di pericolo sono molto ripetuti nel tempo, si può avere una prevalenza
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delle cellule effettrici rispetto a quelle regolatrici e può svilupparsi l’autoimmunità. Per i fattori esogeni, come le infezioni, che di per sé costituiscono un segnale di pericolo, non è possibile che vengano reclutate cellule regolatrici e le risposte immunitarie sono pienamente efficienti. C. Attivazione policlonale. Per quanto riguarda i linfociti B potenzialmente autoreattivi, la spiegazione più ovvia per la loro uscita dallo stato di quiescenza è che, preliminarmente, siano stati attivati dei linfociti T capaci di fornire loro la cooperazione richiesta, ossia che abbiano trovato gli appropriati linfociti T helper. Così la rottura della tolleranza per i linfociti T potrebbe anche comportare la fuoriuscita dalla quiescenza di un certo numero di cloni di linfociti B. Ci sono, però, alcuni altri aspetti del problema che debbono essere considerati. Esistono anche condizioni caratterizzate dalla comparsa di una pluralità di autoanticorpi, nelle quali si può supporre una generica iperattività dei linfociti B. La grande varietà di autoanticorpi presenti nelle malattie autoimmuni sistemiche (un buon esempio è il lupus eritematoso sistemico) ha fatto ipotizzare che la loro produzione non sia stimolata specificamente dall’antigene ma sia piuttosto l’espressione di una attivazione aspecifica e policlonale dei linfociti B (Tab. 68.7). Anche negli individui normali, infatti, esiste una sottopopolazione di linfociti B (B CD5+) capace di produrre i cosiddetti “autoanticorpi naturali”. Si era quindi pensato che la produzione autoanticorpale fosse una esagerazione patologica di questo fenomeno. In realtà gli autoanticorpi naturali sono semplicemente degli anticorpi a bassa affinità (e perciò cross-reattivi o polispecifici: reagiscono verso costituenti nucleari ma anche verso diversi componenti batterici) che non hanno ancora subito il fenomeno della maturazione anticorpale per affinità e che sembrano funzionare come una prima difesa di pronto dispiegamento verso vari patogeni. Gli autoanticorpi naturali, inoltre, sono di classe IgM mentre quelli delle malattie autoimmuni sono quasi sempre IgG, presenti anche ad alti titoli e dotati di elevata specificità per l’antigene bersaglio. Gli autoanticorpi naturali sono perciò formati dalle cellule B CD5+ senza l’azione di linfociti T helper, i quali, come è noto, determinano il cosiddetto “switch isotipico” e cioè il passaggio per le cellule B dalla produzione di IgM a quelle di IgG (e altre classi immunoglobuliniche). È però interessante notare che gli autoantigeni più frequentemente riconosciuti dalle cellule B CD5+ sono gli stessi che sono più comunemente bersaglio di autoanticorpi nelle malattie autoimmuni: antigeni nucleari, Fc di IgG (attività di fattore reumatoide), fosfolipidi, antigeni tiroidei. Occorre a questo punto ricordare che le cellule B possono funzionare anche da cellule presentanti gli antigeni. Nel loro caso l’interiorizzazione, preliminare alla digestione ed esposizione di peptidi su molecole MHC di classe II, non è indiscriminata (come per le cellule dendritiche e i macrofagi), ma riguarda solo le molecole vincolate al loro recettore immunoglo-
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Tabella 68.7 - Principali anticorpi antinucleo autoimmuni. ANTIGENE
PATTERN (LF)(1) PREVALENZA (%)
• Lupus eritematoso sistemico (LES) – (2) DNA nativo (ds-DNA) Periferico – DNA denaturato (ss-DNA) Omogeneo – ISTONI Omogeneo – (2) Sm (U-RNA + proteine) Speckled – RNP (U-RNA + proteine) – SS-A/Ro(3) – SS-B/La(5)
Speckled – Speckled
– PCNA/cyclin • LES da farmaci (procainamide) – DNA denaturato (ss-DNA) – Istoni
Omogeneo Omogeneo
– Speckled
• Sclerosi sistemica progressiva (SSP)/CREST Speckled – (2) Scl-70 – – (2) anti-centromero – RNA-polimerasi I Nucleolare – PM-Scl Nucleolare – Fibrillarina Nucleolare • Dermato/polimiosite – (2) Jo-1 – PL-7 – PM-Scl
DNA doppio filamento DNA singolo filamento Proteine associate al DNA (H1, H2A, H2B, H3, H4) (3) Proteine 28, 29, 16 e 13 kDA + U1, U2, U4, U5 e U6-RNA nucleare (4) Proteine 33 e 22 kDa + U1-RNA nucleare (4) Proteina 60 kDa + Y1-Y5 RNA citoplasmatico (6) Fosfoproteina 48 kDa + transfer-RNA trascritto da RNApolimerasi III Proteina 36 kDa-coadiuvante DNA-polimerasi
32 35 15 3
• MCTD (Mixed Connective Tissue Disease) – RNP (U-RNA + proteine) Speckled – Proteina 70 kDa Speckled • Sindrome di Sjögren – SS-A/Ro (4) – SS-B/La (7)
40 70 70 30
– – Nucleolare
CARATTERISTICHE MOLECOLARI
80 > 95
DNA singolo filamento Proteine associate al DNA (H1, H2A, H2B, H3, H5) (3) IgG anti-H2A, H2B(6)
> 95 > 90
Proteine 33 e 22 kDa + U1-RNA nucleare (4) Proteina associata alla matrice nucleare Proteina 60 kDa + Y1-Y5 RNA citoplasmatico (6) Fosfoproteina 48 kDA + transfer-RNA trascritto da RNApolimerasi III
60 40
70 (SSP diffusa) 80 (CREST) 4 3 8 25 4 8
Prodotto di degradazione di DNA topo-isomerasi I Proteine del kinetocore Subunità RNA-polimerasi I Proteine 110-20 kDa Proteina 34 kDa + U3-RNA Istidil-transfer-RNA-sintetasi Treonil-transfer-RNA-sintetasi Proteine 110-20 kDA
(1) Tipo di colorazione in immunofluorescenza; il trattino indica assenza di fluorescenza nucleare: gli antigeni non sono presenti nel nucleo dei substrati tissutali normalmente impiegati per la ricerca degli autoanticorpi. (2) Autoanticorpi patognomonici. 3 ( ) Classi delle proteine istoniche. (4) Spiegazione nel testo. (5) Identificato contemporaneamente come antigene A della sindrome di Sjögren (SS) e come antigene Ro nel LES; da ciò la doppia denominazione. (6) Frammenti di RNA citoplasmatico (cytoplasmic). 7 ( ) Identificato contemporaneamente come antigene B della sindrome di Sjögren e come antigene La nel LES; da ciò la doppia denominazione.
bulinico. In questo senso, il ruolo delle cellule B sembra più di mantenimento ed amplificazione della risposta immunitaria, che della sua iniziazione. Si può perciò ipotizzare che, se con uno dei meccanismi sopra descritti viene rotta la tolleranza dei linfociti T nei riguardi di uno degli antigeni riconosciuti dalle cellule B CD5+, queste possano svolgere una funzione incrementante questo tipo di risposta. Gli autoanticorpi di classe IgG ad alta affinità potrebbero derivare o dallo switch isotipico delle stesse cellule B CD5+ che hanno fruito dell’azione helper dei linfociti T, o da altre cellule B con specificità correlate a quelle delle cellule B CD5+. D. Evoluzione delle malattie autoimmuni. Quando l’autoimmunità genera malattia, si sviluppano processi infiammatori, vari tipi di stress e danneggiamento cellu-
lare che costituiscono, di per sé, un segnale di pericolo. Le condizioni restano perciò propizie perché la generazione di linfociti T effettori contro gli autoantigeni si mantenga e addirittura si amplifichi. Per questa ragione le malattie autoimmuni sono in genere croniche. In corso di autoimmunità si verifica anche un altro processo importante, che è chiamato “spreading” (diffusione) degli epitopi. Se, infatti, si sono generate cellule B reattive verso un determinato epitopo presente su una molecola complessa, queste cellule assumono la capacità di presentare tutti gli epitopi di quella molecola ai linfociti T. Infatti, legando con i loro recettori immunoglobulinici l’epitopo per il quale esiste una reattività specifica, le cellule B vincolano l’intera molecola che lo contiene, la interiorizzano e la smontano in peptidi che sono poi presentati alla superficie in collega-
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mento con le molecole di istocompatibilità di classe II. Si comportano cioè da cellule presentanti gli antigeni ai linfociti T, e la presentazione riguarda le molecole che hanno interiorizzato grazie al legame con il solo epitopo al quale sono sensibili. Anche se le cose non vanno automaticamente così, si comprende che l’autoimmunità tende a estendersi a più bersagli presenti su una stessa struttura molecolare e questo è importante nell’evoluzione delle malattie autoimmuni. Un esempio a questo riguardo è costituito dall’eterogeneità degli anticorpi antinucleo che possono essere presenti simultaneamente nel siero di un singolo paziente.
GENERALITÀ SULLE MALATTIE AUTOIMMUNI Cellule e molecole Prima di analizzare i meccanismi che conducono alla comparsa di una malattia autoimmune conviene soffermarsi su alcuni concetti generali. Il primo riguarda i meccanismi cellulari implicati nell’autoimmunità e il bersaglio delle reazioni autoimmuni a livello molecolare. A questo proposito bisogna tenere presente che le nostre idee attuali sono fortemente influenzate dai metodi di studio a nostra disposizione. Una reazione autoimmune mediata da anticorpi solubili è facilmente studiabile perché gli anticorpi sono presenti nel siero del paziente e la loro attività può essere dimostrata agevolmente con vari procedimenti (per es., con l’immunofluorescenza indiretta o con reazioni sierologiche nei riguardi dell’autoantigene). Una reazione autoimmune mediata da linfociti citotossici (CD8+, ma possibilmente anche CD4+) è invece molto più difficile da studiare. Occorre, infatti, isolare con adatte tecniche di colture in vitro, o dai linfociti del sangue periferico o da quelli infiltranti l’organo oggetto della reazione autoimmune, delle linee (prevalenza dei linfociti con una data specificità) o dei cloni (tutti i linfociti hanno la stessa specificità) capaci di lisare in vitro le cellule bersaglio. È comprensibile che le conoscenze sull’autoimmunità dipendente da autoanticorpi siano molto più avanzate di quelle riguardanti l’immunità cellulare. Questa situazione si riflette sulle conoscenze che abbiamo a livello molecolare relativamente agli autoantigeni. È noto che gli anticorpi solubili (così come i linfociti B che hanno alla loro superficie recettori immunoglobulinici) sono capaci di interagire con molecole nel loro stato nativo, solubili oppure presenti all’esterno delle membrane cellulari. In questo caso la struttura terziaria dell’antigene ha una grande importanza nel determinare la specificità del segnale. I linfociti T, al contrario, riconoscono peptidi inseriti in un anfratto delle molecole di istocompatibilità delle cellule con le quali reagiscono. Nel caso di linfociti T citotossici (CD8+), si tratta di frammenti derivati da catene polipeptidiche sintetizzate all’interno della cellula e presentati da molecole di istocompatibilità di classe I (nell’uomo: HLA-A, B e C).
Questa è una difficoltà aggiuntiva ai fini dello studio dell’autoimmunità che rende chiaro perché siano note molte molecole che sono oggetto dell’interazione con autoanticorpi, mentre le conoscenze sui peptidi che costituiscono il vero bersaglio dei linfociti T citotossici sono molto primitive. Linfociti T CD4+ reagiscono anche con peptidi inseriti in molecole di istocompatibilità alla superficie delle cellule che li stimolano, ma in questo caso i peptidi sono di derivazione esogena, da proteine interiorizzate nel compartimento endosomico e digerite dalle cellule, e le molecole di istocompatibilità implicate sono quelle di classe II (nell’uomo HLA-DR, DP e DQ). Nel caso degli autoantigeni si può pensare che strutture del self siano captate dalle cellule professionali presentanti gli antigeni e peptidi derivati dalla loro digestione siano esposti alla superficie cellulare montati su antigeni di istocompatibilità di classe II. Gli studi relativi alla natura di questi peptidi sono però stati affrontati solo da poco e, nel complesso, le conoscenze che si hanno in proposito sono scarse nonostante l’importanza dell’argomento. È infatti ipotizzabile che piuttosto spesso siano presenti nell’organismo linfociti B o T citotossici in grado di reagire con il self, e che non lo facciano semplicemente perché manca l’attivazione parallela di linfociti T helper. Questa attivazione sembra perciò di vitale importanza nell’iniziare la catena di eventi che conduce all’autoimmunità. Eppure le nostre conoscenze sono sviluppate soprattutto nell’analisi degli eventi terminali di questa catena, mentre si sa pochissimo su quelli iniziali. Da quanto qui esposto risulta chiaro che occorre ancora molto lavoro perché l’autoimmunità venga veramente conosciuta. I recenti progressi della biologia molecolare fanno sperare che sostanziali passi avanti possano essere conseguiti in un prossimo futuro, e già si delineano nuove prospettive terapeutiche. È, infatti, allo studio la possibilità di “accecare” con peptidi sintetici il recettore dei linfociti T autoreattivi.
Significato clinico dell’autoimmunità Un’opinione largamente condivisa è che basti la presenza nell’organismo di autoanticorpi, o di linfociti T autoreattivi, perché si verifichino eventi patologici. Questo non è affatto vero e lo spiegheremo con riferimento agli autoanticorpi (parleremo solo di questi non perché le reazioni dei linfociti T sono poco importanti, ma perché sono meno conosciute). Esistono molti casi nei quali vengono dimostrati autoanticorpi nel siero in persone clinicamente sane o che, se malate (per es., in corso di mononucleosi infettiva), non hanno la patologia d’organo o sistemica che ne dovrebbe conseguire. Autoanticorpi (soprattutto fattore reumatoide, anticorpi antitiroide e anticellule parietali gastriche) vengono dimostrati nel siero di una significativa proporzione di soggetti anziani per altri versi sani e normali. Questo paradosso potrebbe essere spiegato in termini quantitativi. Perché gli autoanticorpi siano patogeni oc-
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corre che siano presenti in elevata concentrazione e perciò le persone che li posseggono a basso titolo potrebbero ancora essere sane. Questo punto di vista contiene molta verità, perché, in media, gli autoanticorpi presenti nel siero sono a titolo più elevato in coloro che sviluppano conseguenze patologiche che in quelli che rimangono sani. Ma non contiene tutta la verità: per esempio, sono noti casi di lupus eritematoso sistemico nei quali gli anticorpi antinucleo sono a titolo più basso che in altri soggetti che clinicamente non soddisfano i criteri per la diagnosi di questa malattia e che tuttavia hanno questi particolari autoanticorpi nel loro siero. Il concetto importante da considerare è quello della qualità degli autoanticorpi, intendendo per tale la specificità che viene riconosciuta dal loro sito reattivo. Questa specificità non è rappresentata da una intera molecola, ma da un ristretto segmento di questa chiamato epitopo. Ebbene, si possono avere autoanticorpi diretti contro una stessa molecola complessa (per es., del DNA o una ribonucleoproteina) e cioè apparentemente identici, ma di fatto qualitativamente differenti, perché capaci di riconoscere epitopi diversi (un ulteriore fattore di variabilità è l’affinità di ciascun anticorpo per il corrispondente epitopo, ossia la forza che mantiene legato l’anticorpo e l’antigene). Quando noi valutiamo la presenza di un autoanticorpo in realtà ci serviamo di un substrato che è costituito da una pluralità di epitopi, e determiniamo il titolo al quale il siero in esame provoca un certo effetto. Ma il siero non contiene pressoché mai un solo autoanticorpo (che in tal caso sarebbe monoclonale), ma una miscela di autoanticorpi, senza che la reazione che impieghiamo ci dica nulla sugli epitopi con i quali reagiscono. Così è possibile che due sieri, appartenenti ad individui differenti, diano il medesimo risultato ad un’analisi clinica di questo tipo e siano tuttavia completamente differenti per quanto riguarda gli epitopi riconosciuti dagli autoanticorpi che vi sono contenuti. La fine specificità degli autoanticorpi è della massima importanza per quanto riguarda la loro azione immunopatologica. Si è visto, per esempio, che l’attivazione della via classica della cascata complementare richiede che coppie di molecole di IgG siano fissate al relativo bersaglio in stretta contiguità alla superficie cellulare. È evidente che, nell’ambito di uno stesso antigene, possono esistere epitopi più o meno adatti a questa disposizione spaziale degli autoanticorpi corrispondenti. Inoltre, le reazioni immunopatologiche da complessi antigene-anticorpo circolanti possono dare conseguenze molto diverse a seconda delle dimensioni e dei caratteri fisici dei complessi. Per fare un esempio, i complessi contenenti DNA nativo, importanti, come si vedrà, nella patogenesi del lupus eritematoso sistemico, hanno tendenza a depositarsi nella membrana basale dei glomeruli renali per ragioni fisiche, dato che l’elettronegatività dei frammenti della molecola del DNA trova cariche complementari in questa sede. Ma, se gli autoanticorpi anti-DNA mascherano in tutto o in parte questa elettronegatività, è chiaro che i complessi antigene-anticorpo avranno perso questa peculiare tendenza. Da quanto detto, si deve concludere che è certamente vero che a un dato autoanticorpo, dimostrabile con test
IMMUNOPATOLOGIA
clinici, può corrispondere un certo effetto immunopatologico, ma questa corrispondenza deve essere intesa in senso probabilistico, pur essendo vero che quanto più alto appare il titolo anticorpale tanto più questa probabilità si avvicina alla certezza.
Classificazione delle malattie autoimmuni Una distinzione classica nell’ambito delle malattie autoimmuni è quella tra forme nelle quali è implicato un singolo organo (autoimmunità d’organo) e forme nelle quali esiste compromissione di più organi o apparati (autoimmunità sistemica). In questa parte del testo parleremo soprattutto delle seconde, mentre le prime sono esposte nei capitoli relativi alla patologia d’organo che li include. Una distinzione immunopatologica più sottile dovrebbe considerare separatamente i casi nei quali la reazione autoimmune è singola e quelli nei quali si hanno più reazioni contemporaneamente. È presumibile che nel primo caso siano prevalenti fattori scatenanti esogeni e nel secondo sia più importante una disposizione costituzionale all’autoimmunità. È chiaro che questa distinzione corrisponde solo in parte a quella più strettamente clinica, perché qui per reazione autoimmune si intende la sua evidenza di laboratorio che non ha sempre, come abbiamo visto, un corrispettivo clinico. Perciò esiste qualche differenza tra una tiroidite autoimmune nella quale si dimostrano solo autoanticorpi contro antigeni tiroidei, ed un’altra clinicamente simile, ma nella quale si evidenzia anche la presenza di vari altri autoanticorpi nel siero. Eppure entrambi i casi sono classificabili come autoimmunità d’organo. Perciò il concetto di “diatesi autoimmune” sembra operativamente utile. In riferimento alle reazioni autoimmuni multiple si possono indicare due modelli. Il primo è rappresentato dalle sindromi poliendocrine di cui si è già parlato nel capitolo 61, nelle quali più ghiandole endocrine possono essere compromesse in varie combinazioni e possibilmente in associazione con vitiligine (una reazione autoimmune contro i melanociti). Il secondo è rappresentato da condizioni nelle quali una pluralità di autoanticorpi provoca varie reazioni immunopatologiche ad espressione sistemica. I pazienti con queste caratteristiche sono stati inclusi in un singolo gruppo di malattie chiamate inizialmente “malattie del collageno”, oppure “collagenopatie” e, più recentemente, con il termine di “connettiviti sistemiche”. Quest’ultimo termine è meno infelice dei precedenti dato che il collageno è implicato solo secondariamente in queste malattie, la cui caratteristica è un’infiammazione che si verifica in vari distretti (e l’infiammazione ha sempre sede nel connettivo). Le connettiviti sistemiche includono il lupus eritematoso sistemico, l’artrite reumatoide, la polimiosite-dermatomiosite, la sclerosi sistemica progressiva (o sclerodermia), la sindrome di Sjögren e la connettivite mista. Ciascuna di queste entità costituisce perciò una categoria nosologica nell’ambito delle connettiviti sistemiche.
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A proposito di questo gruppo di malattie è molto importante una precisazione. Infatti esistono notevoli differenze tra diversi individui per quanto riguarda il tipo di autoanticorpi prodotti e il numero delle reazioni autoimmuni messe in atto. In teoria sarebbe possibile una varietà infinita di combinazioni, ma le reazioni autoimmuni contro certi autoantigeni sono più comuni, in modo particolare contro quelli di derivazione nucleare, regioni della regione Fc delle IgG (e i corrispondenti autoanticorpi sono i fattori reumatoidi), fosfolipidi delle membrane cellulari. Comunque la varietà da un caso all’altro resta molto notevole. Questo rende molto difficile stabilire classificazioni nosologiche. Il problema è stato risolto individuando criteri minimi, clinici ed immunologici, che consentono di raggruppare in singole categorie ammalati con caratteristiche abbastanza simili. Ma restano tre elementi di confusione: a) l’ambito di variabilità all’interno delle singole categorie nosologiche è molto ampio, in genere più di quanto avvenga in altri settori della patologia; b) non sono infrequenti forme cliniche di classificazione difficile, che si pongono a metà strada tra due categorie nosologiche diverse; c) esistono pazienti che non soddisfano i criteri minimi per l’inclusione in nessuna categoria nosologica e che, tuttavia, hanno qualche anomalia immunologica e clinica del tipo che si osserva nelle connettiviti sistemiche. Non stupisce perciò che il concetto operativo di “connettivite indifferenziata” o “connettivite di transizione” sia impiegato non raramente. Nella classificazione originale delle connettiviti sistemiche veniva inclusa anche la panarterite nodosa. Attualmente questa forma è inserita in una categoria nosologica distinta da quella delle connettiviti sistemiche, che è quella delle vasculiti. Esiste una certa sovrapposizione tra le connettiviti sistemiche e le vasculiti, ma è solo parziale in quanto esistono connettiviti che non comportano lesioni vasculitiche e vasculiti che non potrebbero essere classificate tra le connettiviti sistemiche. Tra l’altro, esistono vasculiti che, pur essendo a patogenesi immunopatologica, non sono di natura autoimmune. Perciò è più pratico tenere distinti i due gruppi di malattie.
Modelli animali di malattie autoimmuni Per poter studiare animali con caratteristiche genetiche costanti i biologi hanno selezionato dei ceppi di to-
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pi cosiddetti “inbred” (si tratta di un metodo per cui mediante incroci tra fratelli e sorelle ripetuti per diverse generazioni si riesce ad ottenere una popolazione di individui tutti uguali). Tra i tanti ceppi realizzati si è visto che uno, indicato con la sigla NZB (New Zealand Black) ha la tendenza a sviluppare spontaneamente un’anemia emolitica autoimmune. Quando un topo di tale ceppo viene incrociato con uno di un altro ceppo denominato NZW (New Zealand White) si ha un ibrido di prima generazione (F1) il quale tende anch’esso ad ammalarsi di una malattia sistemica caratterizzata, oltre che da anemia emolitica autoimmune (meno grave che nel ceppo parentale), soprattutto da una grave glomerulonefrite da immunocomplessi: lo studio di tali animali ha permesso di evidenziare come essi producono anticorpi contro antigeni nucleari (tra cui il DNA e il RNA). Il quadro di tale malattia è comparabile a quello di una malattia umana autoimmune, il LES. Successivamente sono stati identificati altri due ceppi di topi che sviluppano alterazioni immunopatologiche simili, il ceppo BSXSB e il ceppo MRL-Ipr. In tutti e tre questi ceppi la malattia lupica può comparire in due forme: una forma acuta che insorge entro poche settimane dalla nascita e una tardiva che si manifesta nel secondo anno di vita. La tendenza a sviluppare l’una o l’altra forma della malattia è determinata sia da fattori a segregazione genetica, sia dal sesso dell’animale. Nella forma a insorgenza tardiva probabilmente un fattore potrebbe essere ambientale, forse di tipo infettivo virale. Queste osservazioni suggeriscono che la predisposizione genetica all’autoimmunità non sia legata ad un unico gene, ma sia multifattoriale. Dal punto di vista della risposta immune i tre ceppi di topini hanno tipi di comportamento diversi. Nei ceppi BSXSB e NZ esiste un’iperresponsività dei linfociti B a segnali attivatori prodotti dai linfociti T e dai macrofagi, segnali normali come quantità e come qualità. Nei topi MRL/Ipr-Ipr i linfociti B sono normalmente responsivi agli stimoli, ma sono sottoposti a un’eccessiva secrezione di linfochine attivatorie da parte di linfociti T. Questi topi, infatti, sono omozigoti per il gene Ipr (linfoproliferazione) che comporta una precoce e massiva proliferazione e attivazione di cellule T a fenotipo helper. Il risultato, in ogni caso, in tutti e tre i ceppi è la produzione di una serie di autoanticorpi diretti verso antigeni nucleari e tissutali simile a quella che accompagna il lupus umano.
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MALATTIE IMMUNOPATOLOGICHE (*) C. RUGARLI, C. BESANA, G.F. CIBODDO
IMMUNODEFICIENZE PRIMITIVE (**) Con il termine generico di deficienze immunologiche si indica un gruppo eterogeneo di condizioni morbose determinate da difetti di sviluppo o di funzionamento del sistema immunitario, che comportano importanti menomazioni nella capacità dell’organismo di cimentarsi con l’ambiente mantenendo la propria omeostasi. Le immunodeficienze sono fondamentalmente caratterizzate da un’aumentata suscettibilità ad infezioni, oltre che, in certi casi, da un’anomala propensione a sviluppare reazioni allergiche, manifestazioni autoimmuni o malattie neoplastiche e immunoproliferative. Le deficienze immunologiche possono essere congenite; in tal caso sono usualmente primarie, cioè isolate o associate a malformazioni o difetti congeniti dei quali non sono la conseguenza diretta. Le immunodeficienze acquisite nel corso della vita sono invece frequentemente secondarie a immaturità o senescenza o a condizioni morbose quali infezioni virali, neoplasie epiteliali o malattie linfoproliferative, malnutrizione, enteropatie protidodisperdenti o sindrome nefrosica, splenectomia, terapie immunodepressive. Le deficienze immunologiche possono essere classificate come specifiche se interessano le risposte cellulari o anticorpali che presuppongono unità ricognitive specifiche e sono mediate dall’arco riflesso immunitario, oppure aspecifiche se costituite da disfunzione di meccanismi che, pur utili ai fini difensivi e mobilitati spesso in coincidenza con reazioni specifiche, non impegnano di per sé le unità ricognitive del sistema immunitario come è il caso per le funzioni complementari o per l’attività delle cellule fagocitiche. Noi qui tratteremo solo delle immunodeficienze primarie (specifiche e aspecifiche) essendo trattate quelle secondarie in riferimento alle malattie associate.
(*) Con la collaborazione, per l’anatomia patologica, di M. Freschi. (**) C. Besana
Precisiamo che ci riferiremo solo alle più importanti immunodeficienze primitive, dato che, a tutto il 2000, ne sono state descritte 95 forme, alcune delle quali riguardanti solo pochi casi. Queste, tuttavia, si sono rivelate importanti per la comprensione dei meccanismi genetici che governano il funzionamento del sistema immunitario.
Immunodeficienze primitive specifiche Le deficienze immunologiche primitive specifiche derivano da anomalie di sviluppo o funzionamento dei linfociti B, dei linfociti T o di entrambe queste due popolazioni linfocitarie, talora associate a difetti congeniti di altro genere, come anomalie ematopoietiche, malformazioni o alterazioni vascolari e neurologiche. Si può ipotizzare che il deficit combinato interessi un elemento staminale che è a monte della differenziazione tra cellule T e cellule B, mentre i deficit relativi a una sola tra le due popolazioni riguardino, a vari stadi di sviluppo, precursori che hanno già preso l’uno o l’altro indirizzo negli organi linfatici centrali (Fig. 69.1). In realtà per talune sindromi da immunodeficienza la sede del difetto è ancora controversa e le combinazioni possibili sono molteplici, per cui il comitato di esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha preferito, per la classificazione delle immunodeficienze primarie pubblicata nel 1986, raggruppare tali condizioni a seconda del difetto funzionale piuttosto che in relazione alla sede cellulare di esso; nella tabella 69.1 abbiamo indicato, per ogni sindrome da immunodeficienza per la quale essa sia nota, la sede del difetto nella maturazione linfocitaria, rimandando mediante un numero di riferimento alla figura 69.1.
Immunodeficienze con prevalente carenza anticorpale I linfociti B sono normalmente destinati a differenziarsi in plasmacellule, cui compete la secrezione di an-
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IMMUNOPATOLOGIA
Autoanticorpi Tassa faringea
4 T effettore
11
Linfochine
NK Timo Linea eritroide
12
17
16
T suppressor
megacariocitica
5 Timocita
mieloide
T helper
pre-T
6 slgM + IgD Macrofago
15 CSM Cellula staminale midollare
CSL
7
Cellula staminale linfoide
pre-B
1
IgM slgM
9
10 IgG1,
slgG
slgM + IgD + IgG
2,3,4
slgM 2 B immaturo
slgM + IgD + IgA
8
slgA
IgA1,2
3
S -IgA slgM + IgD + IgE 4
Autoanticorpi
B maturo
IgE
slgE
B attivato
Plasmacellula
Figura 69.1 - Maturazione funzionale dei linfociti T e B. Si veda in tabella 69.1 la sindrome corrispondente ai blocchi indicati in figura. Tabella 69.1 - Classificazione delle immunodeficienze primarie (OMS, 1986). • Immunodeficienze con prevalente carenza anticorpale – A--globulinemia legata al sesso 1 – A--globulinemia legata al sesso con carenza di GH 1 – A--globulinemia autosomica recessiva 1 – Ipo--globulinemia con aumento di IgM (e IgD) 2 – Ipo--globulinemia comune variabile 2, 3, 4, 5, 6 – Ipo--globulinemia transitoria dell’infanzia 5 – A--globulinemia con timoma 7 – Carenza selettiva di IgA 8 – Carenza selettiva di IgM 9 – Carenze selettive di sottoclassi IgG2 e IgG4 10 – Carenza anticorpale con normo o iper--globulinemia 3, 6, 10 • Immunodeficienze con prevalente carenza dell’immunità cellulo-mediata e carenze combinate – Immunodeficienza combinata con immunoglobuline (s. di Nezelof) 12 – Carenza di purin-nucleotide fosforilasi (PNP) 13 – Candidiasi cronica mucocutanea 8, 14 – Sindrome linfoproliferativa X-recessiva – Gravi deficienze combinate dei linfociti T e B (SCID) – Disgenesia reticolare 15 – Carenza di adenosina deaminasi (ADA) 16 – Grave deficienza combinata legata al sesso (tipo svizzero) 7, 12 – Sindrome del linfocita nudo 17 • Immunodeficienze primarie associate ad altri difetti – Deficit congenito di transcobalamina II 3 – Immunodeficienza con nanismo ad arti corti – Sindrome di Wiskott-Aldrich – Atassia-telangiectasia (sindrome di Louis-Bar) – Ipoplasia timica e delle paratiroidi (sindrome di Di George) 11 Si veda in figura 69.1, ai numeri indicati, il deficit corrispondente alle singole sindromi.
ticorpi. Le cellule staminali multipotenti danno origine a cellule della linea linfocitaria B nei tessuti emopoietici, dapprima nel fegato fetale, indi nel midollo osseo. Ivi i precursori dei linfociti B (grandi cellule pre-B) vanno incontro a diversificazione clonale per rimaneggiamento di geni per le immunoglobuline, con emergenza di cloni cellulari B dotati di specificità per l’antigene. In ciascuno dei cloni cellulari le cellule B che hanno acquisito la capacità di sintetizzare catene pesanti specifiche (piccole cellule pre-B) si differenziano verso piccole cellule B immature, che sintetizzano catene leggere ed esprimono alla superficie cellulare l’immunoglobulina IgM, ed entro pochi giorni IgM + IgD. Alcuni membri del clone cellulare esprimono quindi immunoglobuline di membrana di altra classe o sottoclasse (cellule B mature), entrando in circolo e migrando a formare follicoli linfoidi nei linfonodi, nella milza e nei tessuti linfatici secondari. Durante le tappe di questa maturazione le cellule B acquisiscono la capacità di esprimere alla superficie cellulare, oltre alle immunoglobuline, altre molecole specializzate, quali i recettori per la porzione Fc delle IgG, per i mitogeni, per il virus di Epstein-Barr, per le frazioni del complemento e determinanti di istocompatibilità HLA-DR. Per contatto con l’antigene e grazie all’interazione di cellule T helper con determinati HLA-DR i linfociti B aumentano di volume ed esprimono recettori per i fattori aspecifici di crescita e differenziazione in plasmacellule prodotti dai linfociti T. Mentre le plasmacellule secernono attivamente centinaia di milioni di molecole di anticorpi al giorno, estinguendosi tuttavia rapidamente, altre cellule B attivate circolano a lungo rimanendo disponibili per le vivaci e immediate risposte anticorpali secondarie (cellule memoria).
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Nell’ontogenesi del sistema immunitario la capacità di sintetizzare anticorpi verso antigeni polisaccaridici è acquisita nella tarda infanzia e preceduta dall’attitudine a rispondere ad antigeni proteici; i livelli ematici propri dell’età adulta sono raggiunti dagli anticorpi di classe IgM a 1 anno di età, dalle IgG a 5-7 anni, dalle IgA a 10-14 anni. Le deficienze anticorpali quantitative (o più raramente qualitative o funzionali) rappresentano i deficit immunologici più frequenti, comprendendo il 50-70% di tutte le immunodeficienze primarie. Esistono forme incomplete (cosiddette dis--globulinemie) caratterizzate da una carenza selettiva solo di una o di alcune classi o sottoclassi di immunoglobuline, e forme complete nelle quali tutte le classi anticorpali sono carenti. Nonostante si possa con maggiore proprietà parlare di ipo--globulinemie, essendo eccezionale l’assoluta mancanza di anticorpi, la nomenclatura dell’Organizzazione Mondiale della Sanità adotta il termine di a--globulinemia quando la concentrazione plasmatica delle immunoglobuline totali è inferiore a 100 mg/dl. A. Forme complete di carenza anticorpale. 1. La --globulinemia legata al sesso (malattia di Bruton) rappresenta il paradigma dei deficit anticorpali. È una panipo--globulinemia congenita recessiva associata al cromosoma X, trasmessa dalle femmine portatrici ai soli pazienti di sesso maschile (prevalenza 1:65.000 nati, pari al 4% delle immunodeficienze primitive nell’apposito registro italiano). Il difetto risiede nelle cellule pre-B, normalmente rappresentate nel midollo emopoietico ma incapaci di differenziarsi in linfociti B; esse presentano un’anomalia delle catene pesanti delle immunoglobuline citoplasmatiche, difettose nella regione variabile. Mentre i linfociti T sono normalmente rappresentati, si trovano pochissimi linfociti B circolanti e pochissime plasmacellule nei tessuti linfoidi, con atrofia dei centri germinativi nei follicoli linfonodali. Il gene implicato in questa forma di immunodeficienza è stato mappato sul braccio lungo del cromosoma X, in posizione Xq21.2-22, e codifica una tirosina-chinasi che funziona da molecola transduttrice di segnale. Il gene è stato chiamato BTK (da Bruton, o cellule B, tirosina-chinasi) ed è espresso precocemente nello sviluppo delle cellule B, ma non nelle cellule T o nelle plasmacellule. È espresso anche nelle cellule della linea mieloide, ma qui le sue alterazioni sembrano avere poche conseguenze. Invece, la a--globulinemia legata al sesso dipende da mutazioni di questo gene, varie delle quali sono state identificate. Nelle donne eterozigoti per il gene BTK alterato, l’anomalia riguarda metà dei linfociti B che vengono generati (in conseguenza della teoria di Lyon, che stabilisce che i geni presenti sul cromosoma X allo stato eterozigote non siano coespressi, ma espressi singolarmente, a caso, nelle cellule). Tuttavia, dato che le cellule B anomale non sopravvivono, i linfociti B sono tutti normali. Nei bambini affetti da a--globulinemia di Bruton vi è carenza della sintesi anticorpale e inefficiente allontanamento dell’antigene. Nei primi 6-9 mesi di vita questi
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bambini non hanno usualmente disturbi, presumibilmente grazie alla dotazione anticorpale proveniente per via transplacentare dalla madre; in seguito sono preda di infezioni ricorrenti da germi piogeni (prevalentemente stafilococci, pneumococci, streptococci, Haemophilus): in primo luogo polmoniti, sinusiti e otiti medie, piodermiti, meno frequentemente sepsi, osteomieliti, artriti batteriche, meningiti, con frequente esito letale nei primi anni di vita. Anche le difese nei confronti di virus e parassiti sono compromesse: sono possibili infatti encefaliti croniche da echovirus, talora accompagnate da una particolare forma di dermatomiosite, e infezioni virali persistenti da contagio con virus dell’epatite B o da vaccinazione antipoliomielite con virus vivi secondo Sabin; alcuni bambini sviluppano un progressivo deficit cerebrale presumibilmente da infezioni virali occulte. Una diarrea cronica con malassorbimento può essere indotta da infezioni gastroenteriche da rotavirus o Giardia lamblia; talora può insorgere una polmonite da Pneumocystis carinii. Nel 20% dei casi compare un’artrite simile all’artrite reumatoide giovanile, a genesi verosimilmente infettiva (Ureaplasma urealyticum). La diagnosi è suggerita dall’insorgenza di infezioni batteriche recidivanti nel primo anno di vita in bambini di sesso maschile con ipoplasia adenoidea e tonsillare. Gli esami di laboratorio mostrano concentrazioni plasmatiche molto basse di immunoglobuline (inferiori a 100 mg/dl), solitamente con IgA e IgM non dosabili o assenza di IgA secretorie. Numero e funzioni dei linfociti T sono normali; i linfociti B risultano invece quasi completamente assenti dal sangue circolante, e assenti le plasmacellule nella mucosa rettale ottenuta con biopsia. Sono anche assenti gli anticorpi naturali come le isoemoagglutinine A e B. Le vaccinazioni antidifterica e antitetanica non suscitano risposta anticorpale. In questa come nelle altre carenze anticorpali complete il ripristino di livelli ematici normali o parafisiologici di IgG, mediante periodiche infusioni endovenose di immunoglobuline, impedisce efficacemente il ripetersi di infezioni batteriche modificando radicalmente la prognosi della malattia, altrimenti letale entro i primi anni di vita; il loro impiego scatena tuttavia, occasionalmente, temibili reazioni anafilattiche. Inoltre, non essendo corretta la deficienza di IgA secretorie, vi è pur sempre l’indicazione a fisiochinesiterapia respiratoria e uso tempestivo di antibiotici antipiogeni in caso di febbre. Varianti assai rare sono l’ipo--globulinemia legata al sesso con carenza di ormone somatotropo, a patogenesi non chiarita, descritta nel 1980 in membri maschi di una sola famiglia con nanismo armonico e ritardo puberale; e la a--globulinemia autosomica recessiva, di possibile comparsa anche nel sesso femminile con normalità dei linfonodi e deficit anticorpale usualmente meno marcato che della a--globulinemia di Bruton. 2. L’ipo--globulinemia con aumento di IgM (o IgM e IgD) è una rara immunodeficienza a trasmissione ereditaria legata al sesso, oppure autosomica recessiva o talora acquisita, dovuta a un difetto intrinseco, d’eziolo-
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gia sconosciuta, della maturazione dei linfociti B con IgM di membrana, che sono incapaci di deviare verso la sintesi e l’espressione in superficie di immunoglobuline di altra classe (switch isotipico). Recentemente è stato identificato il difetto genetico che è alla base di questa malattia nella sua forma legata al sesso, e che consiste in un difetto dei linfociti T nella sintesi del ligando di CD40 (CD154). Il CD40 è espresso alla superficie di varie cellule che debbono interagire con i linfociti T, e tra queste ci sono le cellule B. Il legame tra il CD40 delle cellule B e il suo ligando sulle cellule T assicura la vicinanza spaziale che serve per l’azione helper. In difetto di questa, non può verificarsi lo switch isotipico. La concentrazione ematica di anticorpi IgG e IgA risulta quindi fortemente depressa, con conseguenze cliniche simili a quelle dell’a--globulinemia di Bruton, consistenti in infezioni batteriche recidivanti delle vie aeree ad esordio nella prima infanzia, cui si aggiungono talora manifestazioni autoimmuni (anemia emolitica, trombocitopenia, neutropenia con ulcerazioni al cavo orale, artriti, nefriti). Nel secondo decennio di vita vi può essere una proliferazione incontrollata di plasmacellule producenti IgM, che estensivamente invade il tratto gastrointestinale, il fegato e la colecisti. Sebbene la proliferazione sia sempre policlonale (cioè non abbia le caratteristiche dei linfomi) può essere così estensiva da rivelarsi fatale. Questi pazienti hanno anche un aumentato rischio di neoplasie addominali. La diagnosi è basata sul riscontro di ipo--globulinemia con aumentata concentrazione di IgM policlonali, talora non polimeriche, sulla presenza nel sangue periferico di numerosissimi elementi linfoplasmocitoidi attivamente secernenti IgM, con numero assoluto normale di linfociti T, e sul riscontro di splenomegalia e modeste linfoadenomegalie simmetriche. 3. Con la denominazione di immunodeficienza comune variabile a insorgenza tardiva si indica un gruppo eterogeneo di non rari deficit anticorpali (13% delle immunodeficienze primitive nel registro italiano), a carattere sporadico o familiare ma senza chiara modalità di trasmissione ereditaria, che possono insorgere in pazienti di ambo i sessi, solitamente in età scolare o adulta. Nell’immunodeficienza comune variabile le cellule B sono immature, ma non sembra che vi sia alcun loro difetto intrinseco, dato che in adatte circostanze possono essere fatte maturare in vitro. Il difetto, invece, riguarda le cellule T. Quando queste sono stimolate si ha una diminuita trascrizione dei geni codificanti citochine come IL-2, IL-4, IL-5 e INF-. La diminuita produzione di IL-2 determina, a sua volta, una ridotta espressione del ligando di CD40 alla superficie dei linfociti T. Si è già visto, a proposito dell’ipo--globulinemia con aumento di IgM, quanto sia importante questa molecola nella cooperazione T-B. Non è infrequente che familiari di pazienti con immunodeficienza comune variabile si presentino con un deficit selettivo di IgA. Questi casi sono associati a certi particolari antigeni del sistema HLA. Il quadro clinico è caratterizzato da infezioni batteriche delle alte e basse vie aeree, specialmente da Hae-
IMMUNOPATOLOGIA
mophilus influenzae e pneumococci, con bronchiectasie progressive che insorgono generalmente nella seconda infanzia, talora più tardivamente, frequentemente accompagnate da granulomi non caseosi polmonari e di altri visceri o da diarrea e malassorbimento per parassitosi intestinale da Giardia lamblia. Nei pazienti e nei familiari vi è abnorme prevalenza di manifestazioni autoimmuni quali lupus eritematoso sistemico, anemia emolitica, trombocitopenia e neutropenia autoimmuni, gastrite atrofica e anemia perniciosa, e talora si sviluppa un’artrite cronica da micoplasmi simile all’artrite reumatoide. Inoltre è aumentato nei confronti della popolazione generale il rischio di insorgenza di carcinoma gastrico e di linfoma di Hodgkin (50 e 20 volte rispettivamente). La diagnosi si basa sul riscontro di ipo-dis--globulinemia variabile nel tempo (IgG meno ridotte che nella malattia di Bruton, IgM e IgA basse o raramente normali, IgA secretorie assenti o presenti), su un numero normale o diminuito di linfociti B circolanti capaci di risposte anticorpali IgM, sulla possibile linfosplenomegalia e sul riscontro di Giardia nella biopsia digiunale (solo nel 20% dei casi nelle feci). La terapia antibiotica e sostitutiva è analoga a quella della malattia di Bruton; sono tuttavia più temibili le reazioni anafilattiche da anticorpi anti-IgA, ed è necessario il trattamento con metronidazolo per l’eventuale giardiasi. 4. Un deficit funzionale dei linfociti T helper sembra responsabile dell’ipo--globulinemia transitoria dell’infanzia, evenienza fenotipicamente frequente ma assai raramente sintomatica (11/100.000 nati); essa è caratterizzata da ipo--globulinemia IgG con normale numero di linfociti B circolanti e diminuite risposte in vitro a mitogeni richiedenti la cooperazione T (fitolacca), con normali risposte anticorpali in vivo e guarigione spontanea al 1°-2° anno di vita. 5. L’a--globulinemia con timoma è una forma di immunodeficienza acquisita per neoplasia timica benigna o maligna tra i 40 e i 60 anni di età, a patogenesi non ben chiarita. Si presenta con aplasia midollare e carenza di cellule pre-B e B associata a grave carenza anticorpale e manifestazioni autoimmuni; un’iperattività dei linfociti T soppressori è riconoscibile nel 10% dei casi. 6. Difetti dei recettori delle cellule B. Questi sono dovuti a mutazioni nei geni che codificano le catene leggere o pesanti delle immunoglobuline o le molecole segnalatorie associate con il recettore dei linfociti B. Ne è un esempio la già citata a--globulinemia legata al sesso, dato che il prodotto del gene BTK è precisamente una molecola segnalatoria, ma ne esistono anche altre che conducono ugualmente ad assenza di linfociti B circolanti. Accanto a queste forme complete di carenza anticorpale ve ne sono molte parziali quando il difetto riguarda geni che codificano catene pesanti di particolari classi o sottoclassi immunoglobuliniche (si veda in seguito). Sono anche state descritte forme derivanti da mutazioni del gene che codifica le catene leggere e in
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questo caso le immunoglobuline, sia circolanti che sotto forma di recettori dei linfociti B, posseggono solo le catene , invece della consueta miscela dei tipi e . B. Forme incomplete o selettive di deficit anticorpale (dis--globulinemie). 1. La carenza selettiva di IgA è la più comune immunodeficienza primitiva (48% di quelle del registro italiano), con prevalenza pari a circa 1:800 nati. L’eziologia è sconosciuta: la malattia è per lo più sporadica, raramente indotta da farmaci, come la difenilidantoina; in altri casi è stata dimostrata un’ereditarietà autosomica recessiva o dominante. Altre immunodeficienze possono esservi associate o essere riscontrate nei familiari. La causa è stata riconosciuta in singoli casi in alterazioni del cromosoma 18, a volte invece in una delezione dei geni in posizione q14 che codificano per le catene pesanti delle IgA; più frequentemente il difetto fondamentale consiste in un blocco maturativo delle cellule B allo stadio caratterizzato dalla compresenza di immunoglobuline di membrana IgM + IgD + IgA, incapaci a differenziarsi in linfociti B maturi con sole IgA di membrana. Le sottopopolazioni T sono numericamente normali, ma in alcuni casi si riscontra un’elevata funzione T soppressoria isotipo-specifica, che inibisce l’evoluzione a plasmacellule secernenti IgA. Nel 40% dei casi sono presenti anticorpi specifici anti-IgA il cui ruolo patogenetico è incerto e che possono determinare gravi reazioni di ipersensibilità potenzialmente letali in seguito a emotrasfusioni o somministrazione parenterale di immunoglobuline a scopo sostitutivo. Di solito vi è carente produzione di ambedue le sottoclassi IgA, raramente solo di IgA, che rappresenta di norma il 90% delle IgA sieriche; occasionalmente il difetto riguarda solo la componente secretoria delle IgA; talora coesiste carenza di anticorpi di classe IgE o delle sottoclassi IgG2 o IgG4 o presenza di IgM anomale a basso peso molecolare. Il deficit selettivo di IgA comporta un’inefficienza della cosiddetta “vernice immunologica” rappresentata dalle IgA secretorie sulle mucose respiratorie e digestive, quindi la possibilità di infezioni recidivanti (particolarmente se coesiste deficit di sottoclassi IgG, si veda più avanti) e di assorbimento di antigeni eterologhi allergizzanti o cross-reagenti con antigeni del se stesso. La carenza selettiva di IgA è assai frequentemente asintomatica. Essa può tuttavia favorire, in circa la metà dei casi, infezioni batteriche delle vie respiratorie, parassitosi intestinali da Giardia lamblia con malassorbimento, morbo celiaco, riniti allergiche, asma o urticaria, e in un quarto dei casi comparsa di autoanticorpi, talora con manifestazioni cliniche di autoimmunità (34% dei pazienti con artrite reumatoide o LES). La diagnosi, sospettata in età pediatrica o adulta in base alla concomitanza di alcune delle manifestazioni cliniche suddette, si basa sul riscontro di concentrazioni ematiche basse (≤ 5 mg/dl) o più raramente indosabili di IgA ed eventualmente di IgG2 e IgG4, talora accompagnate da aumento delle IgE totali nel siero e/o
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autoanticorpi, e sulla dimostrazione della carenza di linfociti B con IgA di membrana; importante la ricerca di anticorpi anti-IgA prima di eventuali emotrasfusioni. La prognosi è generalmente buona; la terapia è sintomatica, astenendosi dalla somministrazione di immunoglobuline. 2. Tra gli altri deficit anticorpali incompleti vanno menzionati: la rarissima carenza selettiva di IgM congenita o secondaria a enteropatia da glutine, dovuta a un difetto di maturazione dei linfociti B con IgM di membrana a plasmacellule secernenti IgM; è caratterizzata da IgM sieriche inferiori a 20 mg/dl e assenza di isoemoagglutinine ed espone ad elevato rischio di meningococcemie e altre infezioni batteriche, la cui prevenzione richiede la somministrazione periodica ogni 20 giorni di benzatinpenicillina 1.200.000 U.; le carenze selettive di sottoclassi IgG2 e IgG4 con normale concentrazione delle -globuline ematiche totali, frequentemente associate alla carenza di IgA di cui favoriscono le complicanze settiche, talvolta nel quadro dell’atassia-teleangectasia (pag. 1381). 3. La carenza anticorpale con normo-iper--globulinemia è un’immunodeficienza rara e di difficile diagnosi, mancando l’ipo--globulinemia tipica degli altri deficit dei linfociti B. Solo con test funzionali della risposta anticorpale (isoemoagglutinine, anticorpi antidifterici, antitetanici e antipneumococco dopo vaccinazioni specifiche) si è in grado di porre la diagnosi. L’eziopatogenesi è varia e non sempre individuabile, trattandosi solo raramente di anormalità delle funzioni regolatorie delle sottopopolazioni T, nella maggior parte dei casi, invece, di difetti intrinseci dei linfociti B; alcuni casi, riconducibili a carenze delle sottoclassi IgG, risentono favorevolmente di terapia sostitutiva con immunoglobuline.
Immunodeficienze con prevalente difetto dell’immunità cellulo-mediata e carenze combinate Le risposte immunitarie cosiddette cellulo-mediate risultano elettivamente depresse quando vi sia un difetto maturativo o funzionale dei linfociti T o timo-dipendenti (Cap. 49, per l’ontogenesi, le caratteristiche fenotipiche e le funzioni dei linfociti T). I difetti delle risposte di immunità cellulare comportano anergia alle intradermoreazioni ritardate, una particolare vulnerabilità alle infezioni virali, micotiche e protozoarie, rischio di reazioni di incompatibilità antiospite (GVH) da emotrasfusioni e rischio di neoplasie. Considerando il ruolo cooperativo dei linfociti T nei riguardi delle risposte dell’immunità umorale è possibile che si possa verificare qualche difetto anche a carico delle funzioni dei linfociti B, che è tuttavia spesso di scarso rilievo clinico, salvo in alcune particolari sindromi da immunodeficienza, tra cui quelle dovute a blocchi maturativi molto precoci che interessino contemporaneamente le linee cellulari T e B.
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1. Il paradigma delle immunodeficienze da carenza dei linfociti T è rappresentato dall’ipoplasia timica e delle paratiroidi (sindrome di Di George). La malattia, congenita ma non ereditaria, deriva verosimilmente da un insulto intrauterino prima della 12ª settimana di gestazione, cui consegue un’alterata morfogenesi delle strutture anatomiche derivanti dalla terza e quarta (sino alla sesta) tasca branchiale. Trattandosi di un’immunodeficienza strettamente T-linfocitaria essa viene descritta qui per ragioni didattiche, anche se viene classificata dall’OMS tra le immunodeficienze con difetti associati (Tab. 69.1). Ad essa possono accompagnarsi malformazioni del volto (micrognazia, palatoschisi, bassa inserzione dei padiglioni auricolari, ipertelorismo e orientamento antimongoloide degli occhi) e cardiopatie congenite con destroposizione dell’arco aortico che costituiscono la più comune causa di morte. La mancata o incompleta migrazione di cellule endodermiche della cresta neurale a far parte, insieme ad epiteli faringei, della componente epiteliale del timo comporta una carente increzione di ormone timico, ed è seguita da ipoplasia timica e deplezione linfocitaria delle cosiddette aree timodipendenti degli organi linfatici periferici e da deficit di grado molto variabile dell’immunità cellulo-mediata. Le manifestazioni cliniche nei casi più gravi sono dominate da infezioni da germi opportunisti, funghi, virus, Pneumocystis carinii; nei bambini che sopravvivono può esservi progressiva parziale ripresa del numero o delle funzioni dei linfociti T, specialmente dei T helper. La diagnosi, sospettabile in base alle caratteristiche cliniche suddette e a crisi ipocalcemiche neonatali da ipoparatiroidismo, è confermata dal riscontro di assenza o riduzione dei linfociti T circolanti con assente risposta in vitro ai mitogeni e anergia cutanea ad antigeni ubiquitari, normale numero di linfociti B circolanti e normali risposte anticorpali primarie. La terapia è diretta al controllo metabolico dell’ipoparatiroidismo, alla correzione chirurgica della cardiopatia congenita e alla antibioticoterapia specifica delle infezioni opportunistiche; il difetto immunologico può essere corretto da impianti di timo o epitelio timico fetale o somministrazione di ormoni timici. 2. L’immunodeficienza combinata con normoimmunoglobulinemia (sindrome di Nezelof) è un deficit congenito dell’immunità cellulo-mediata con concentrazioni normali o elevate di immunoglobuline, salvo alcuni casi con deficit selettivo di IgA e netto aumento di IgE. La malattia, che rappresenta il 6% delle immunodeficienze primitive nel registro italiano, può essere trasmessa come carattere autosomico recessivo o legato al sesso, o presentarsi sporadicamente in bambini affetti da infezioni virali congenite, per esempio da cytomegalovirus. La patogenesi non è chiara anche se sembra trattarsi di un difetto metabolico interessante il pretimocita. Ne deriva marcata carenza dei linfociti T, ipoplasia timica con presenza di epitelio timico, deplezione linfocitaria paracorticale nei linfonodi, con normale numero di linfociti B circolanti e di plasmacellule nella lamina propria e nei linfonodi.
IMMUNOPATOLOGIA
Le manifestazioni cliniche sono simili a quelle della sindrome da immunodeficienza acquisita in età infantile (AIDS, Cap. 81); infezioni croniche o ricorrenti delle vie aeree e urinarie e della cute, sepsi da Gram–, candidiasi mucocutanea, gravi manifestazioni da varicella, infezioni croniche da cytomegalovirus o postvaccinali, crescita ridotta. La diagnosi si basa sulle manifestazioni infettive in assenza di malformazioni congenite e sulla dimostrazione di linfopenia con marcata riduzione dei linfociti T ma normale rapporto T4/T8, anergia cutanea ad antigeni ubiquitari e mancate risposte in vitro ai mitogeni, con immunoglobuline plasmatiche normali o deficit di IgA. La prognosi è grave per la vita, essendo noto un solo caso di correzione efficace mediante trapianto di midollo identico. 3. Sono stati descritti una dozzina di casi di carenza genetica di purin-nucleotide fosforilasi (PNP) a trasmissione autosomica recessiva, con carenza completa o anomalia molecolare dell’enzima che catalizza la conversione dell’inosina a xantina e della guanosina a guanina nel catabolismo delle purine. La carenza enzimatica dà luogo all’accumulo di deossiguanosintrifosfato, che inibisce la ribonucleotide-reduttasi con conseguente inibizione della sintesi di DNA e della divisione cellulare. I linfociti T, particolarmente i T soppressori, sono in special modo sensibili a questa carenza; la differenziazione delle cellule pre-T è normale così come la funzione dei linfociti B. Le manifestazioni cliniche sono indistinguibili da quelle della sindrome di Nezelof; sono tuttavia possibili disturbi neurologici progressivi sino alla tetraplegia e in alcuni bambini manifestazioni autoimmuni. Importante elemento di diagnosi differenziale è l’assenza o marcata riduzione dell’acido urico nel siero e nelle urine, attribuibile al blocco nel catabolismo delle purine indotto dal deficit enzimatico. L’entità dell’immunodeficienza e la gravità delle infezioni progrediscono con l’età; la malattia è usualmente mortale, nonostante miglioramenti transitori ottenuti con exsanguinotrasfusioni con eritrociti ricchi di PNP. 4. Oltre alle suddette forme complete di immunodeficienze cellulo-mediate esiste un deficit selettivo, la candidiasi cronica mucocutanea, caratterizzato da un’infezione cronica da Candida albicans interessante le mucose, la cute e gli annessi, frequentemente associata ad endocrinopatie autoimmuni e sideropenia. Questa condizione morbosa differisce dalle altre immunodeficienze cellulari in quanto il difetto è limitato alle risposte alla Candida e a pochi miceti antigenicamente correlati. L’eziologia è sconosciuta, il meccanismo patogenetico verosimilmente molteplice. In alcuni individui le risposte proliferative linfocitarie in vitro ad antigeni di Candida sono ridotte, ma nella maggior parte dei pazienti, che pure presentano anergia cutanea ad estratti di Candida, esse sono normali; in tali pazienti si evidenzia solitamente un deficit nella produzione di linfochine da contatto con l’antigene oppure un difetto specifico della funzione fagocitica dei monociti. Tali difet-
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ti sono talora dimostrabili solo in presenza di siero autologo; il siero di alcuni pazienti è in grado di inibire le risposte in vitro di linfociti normali ad antigeni di Candida. È probabile che la sideropenia, verosimilmente secondaria all’infezione cronica, contribuisca ad aggravare la compromissione delle difese immunologiche e di barriera mucosa. Si è supposto che un deficit di IgA secretorie specifiche favorisca l’esordio della micosi, mentre gli anticorpi IgG anticandida sono presenti in concentrazione elevata nel siero. È talora presente un deficit selettivo di IgA e nel 50% dei casi sono presenti manifestazioni autoimmunitarie a carico degli organi endocrini. La malattia esordisce nell’infanzia e la sintomatologia può essere dominata da una grave candidiasi granulomatosa a carico della cute, delle unghie, dei capelli e delle superfici mucose, talora complicata da gravi infezioni stafilococciche cutanee, ossee e linfonodali, cui possono coesistere endocrinopatie; è la forma più grave di malattia, con anemia e seria compromissione dello stato generale. Un’altra forma può presentarsi come poliendocrinopatia familiare con varia associazione di ipocorticosurrenalismo, ipoparatiroidismo e diabete, e talvolta epatite cronica attiva e anemia perniciosa, con candidiasi più moderata e anemia delle malattie croniche. La diagnosi differenziale va posta con le infezioni da Candida insorgenti nel corso di altre immunodeficienze primarie e secondarie. La malattia non impedisce il raggiungimento dell’età adulta, ma è persistente e gravata dal rischio di infezioni sovrapposte. Non potendosi correggere il difetto immunologico, il trattamento fa ricorso a chemioterapici (ketoconazolo e amfotericina). 5. La sindrome linfoproliferativa recessiva legata al sesso (o sindrome dei Duncan, dal nome della prima famiglia descritta) è un altro esempio di deficit selettivo antigene-specifico dell’immunità. Essa insorge in giovani maschi, sino a quel momento sani, in seguito a contagio con virus della mononucleosi infettiva. Normalmente i linfociti B, infettati dal virus di EpsteinBarr dopo il contatto specifico con il recettore per il C3d, proliferano, incrementano la sintesi di immunoglobuline ed esprimono in superficie l’antigene nucleare virale (EBNA). I T-linfociti e le cellule NK dei portatori del difetto genetico della sindrome dei Duncan non sono in grado di esercitare una citotossicità anticorpodipendente nei confronti di linfociti B sEBNA+. L’infezione scatena quindi una gravissima mononucleosi infettiva con incontrollata proliferazione B-linfocitaria, risultata letale nei 2/3 dei 100 casi descritti; la maggioranza dei sopravvissuti ha sviluppato grave ipo--globulinemia, aplasia midollare o linfomi B. 6. Gravi deficienze combinate dei linfociti T e B (SCID). Con la sigla SCID, derivata dalla denominazione anglosassone “Severe Combined Immuno Deficiency”, si indica un gruppo di gravi immunodeficienze combinate primarie a patogenesi e caratteristiche immunologiche diverse ma accomunate da una grave compromissione dell’immunità cellulo-mediata ed umorale, che nella sua forma completa condiziona la precoce insorgenza di gravi infezioni opportunistiche
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ad esito letale nei primi giorni o nelle prime settimane di vita. L’eziologia è riconoscibile nella trasmissione genetica, per lo più legata al sesso, ma in molti casi autosomica recessiva (un caso ogni 20-100.000 nati vivi, con rapporto m:f = 3:1). Diverse varianti della sindrome hanno patogenesi differente. In alcuni pazienti sono state identificate delle mutazioni di geni, chiamati RAG 1 e RAG 2, che sono essenziali per l’assemblaggio, attraverso ricombinazione, dei recettori dei linfociti T e B. Una comune causa tra le forme a eredità autosomica recessiva sono difetti dei geni codificanti gli enzimi di degradazione delle purine, adenosin-deaminasi (ADA) e purin-nucleotide fosforilasi (PNP). La SCID ereditata con il cromosoma X (che è in causa nel 50-60% dei casi) è dovuta ad alterazione di un gene che è stato mappato nella regione Xq13 e che codifica una catena peptidica () che fa parte del recettore della IL-2. A prima vista sembra sorprendente che una mutazione di questo gene abbia conseguenze così profonde sul funzionamento del sistema immunitario. Si è però scoperto che la stessa catena peptidica è un componente dei recettori di molte citochine: IL-4, IL-7, IL-11 e IL-15. Perciò il progenitore linfoide primitivo, in presenza di questo difetto, si trova ad essere insensibile alla sollecitazione di una serie di fattori vitali per la sua differenziazione. La disgenesia reticolare è un difetto della cellula staminale midollare in iniziale differenziazione mieloide e linfoide che condiziona una carenza pressoché completa di granulociti e linfociti con grave aplasia linfoide del timo, caratteristicamente costituito da sole cellule endodermiche senza corpi di Hassall. Le immunoglobuline sieriche sono indosabili e le risposte immunitarie ritardate e umorali totalmente assenti. I pochi pazienti descritti sono morti nelle prime settimane di vita per infezioni infrenabili batteriche e virali, salvo uno guarito da trapianto di midollo (da fratello istocompatibile). La carenza omozigote di adenosina-deaminasi, enzima che catalizza la trasformazione di adenosina in inosina, rappresenta il difetto patogenetico fondamentale nel 50% dei pazienti affetti da SCID a trasmissione autosomica recessiva (Fig. 69.2). Il gene che codifica la sintesi dell’enzima è situato sul cromosoma 20. Il deficit enzimatico comporta l’accumulo (facilitato nei pretimociti e nei timociti corticali giovani da una chinasi attiva propria di queste cellule) di quantità tossiche di deossiadenosintrifosfato, che inibiscono la ribonucleotide-reduttasi e la sintesi di DNA. Si è parlato del difetto che sta alla base della grave deficienza combinata (SCID) legata al sesso e della sua variante con normale numero di linfociti (un tempo chiamata a--globulinemia di tipo svizzero). Queste due forme di SCID, a prevalenza inferiore solo al deficit selettivo di IgA, sono caratterizzate da un grave difetto primitivo dell’immunità cellulare e da un difetto anticorpale primitivo o conseguente a mancata cooperazione T-B. Il quadro anatomopatologico delle SCID è caratterizzato da ipoplasia del timo, della milza e dei linfonodi. Il timo appare privo di elementi linfoidi, tranne nel de-
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IMMUNOPATOLOGIA
Deossi-ATP
Deossi-GTP
Deossi-AMP e AMP
GMP e deossi-GMP
Deossi-adenosina e adenosina
IMP
ADA
Guanosina
Inosina PNP Ipoxantina
Guanina Xantina
Acido urico
Figura 69.2 - Ruolo dell’adenosina-deaminasi e della purinnucleotide fosforilasi nel metabolismo delle purine.
ficit di ADA nel quale l’ipoplasia timica è meno spiccata ed esistono alcuni corpuscoli di Hassall. Milza e linfonodi sono spesso privi totalmente di elementi linfoidi, o talora elettivamente depleti nelle cosiddette aree timo-dipendenti. Il quadro clinico delle SCID, assai grave, esordisce molto precocemente. Molti neonati presentano un’eruzione cutanea morbilliforme nei primi giorni di vita, per reazione di tipo “graft versus host” da linfociti materni trasmessi per via transplacentare. Una candidiasi persistente del cavo orale è un altro tipico segno d’allarme. Le condizioni generali del bambino sono presto compromesse da una grave sintomatologia diarroica e dall’insorgenza di gravi infezioni intrattabili causate da batteri, miceti, virus o protozoi (specialmente polmoniti da cytomegalovirus e Pneumocystis carinii, e infezioni fulminanti da virus a DNA e da vaccinazioni con BCG o virus attenuati). Linfociti T sono assenti nel sangue periferico, ove i B possono essere quasi assenti o pressoché in numero normale; le reazioni cutanee ritardate sono assenti e le concentrazioni delle immunoglobuline plasmatiche estremamente basse, con isoemoagglutinine assenti e mancanti risposte anticorpali a vaccini uccisi. La diagnosi differenziale, basata sulla precocità delle manifestazioni cliniche e sulla compromissione della funzione sia B che T linfocitaria, è indispensabile per un tempestivo intervento terapeutico; in assenza di questo la prognosi è infausta entro pochi mesi. La correzione del difetto immunologico richiede il trapianto di midollo identico; infatti i linfociti T incompatibili darebbero origine a una reazione “graft versus host” letale. Recentemente è stata introdotta una tecnica di pretrattamento di midollo aploidentico che per-
mette l’utilizzazione del midollo da genitore, che viene depleto dei linfociti post timici. Nel deficit di ADA il difetto è stato corretto con successo mediante il trapianto genico. 7. Difetto nell’espressione delle molecole MHC. Il difetto nell’espressione delle molecole del sistema maggiore di istocompatibilità (MHC) era chiamata una volta “sindrome del linfocita nudo”. Questo termine non è più consigliato perché non distingue tra la mancata espressione delle molecole di classe II e quelle di classe I. Le molecole MHC di classe II sono normalmente presenti sulle cellule della linea monociti-macrofagi (e sulle cellule dendritiche) e sui linfociti B. Possono anche comparire sui linfociti T attivati e su altre cellule per effetto dell’INF-. Quello che è importante è il ruolo delle molecole MHC di classe II nella presentazione degli antigeni (si veda Cap. 68) e perciò si comprende perché, in loro assenza, i processi immunitari siano profondamente menomati. Questa condizione è ereditata come carattere autosomico recessivo. Sono state individuate quattro forme di questo tipo di deficit, tutte dipendenti da geni non localizzati nel locus dove sono codificate le molecole del sistema MHC. La prima forma, indicata con la lettera dell’alfabeto A, è causata da mutazioni del gene codificante una proteina chiamata CIITA, che è un transattivatore, ossia regola l’espressione costitutiva dei geni delle molecole MHC di classe II. Questa proteina non agisce direttamente, ma indirettamente, attraverso un’influenza esercitata su un fattore di trascrizione multimerico, chiamato RFX (Regulatory Factor X). Nei deficit di espressione delle molecole MHC di classe II indicati con le lettere dell’alfabeto B, C e D è difettoso uno dei componenti del RFX. Come atteso, i bambini affetti da questa immunodeficienza, hanno un basso numero di linfociti T CD4+ (che interagiscono con le molecole MHC di classe II) e un normale numero di linfociti T CD8+. I linfociti B sono in numero normale, ma esiste una grave ipo-globulinemia, essendo mancante l’azione helper dei linfociti T CD4+. Dal punto di vista clinico, il deficit di espressione delle molecole MHC di classe II è simile alla SCID, ma meno grave. Per esempio, la vaccinazione di bambini con questo deficit con il bacillo Calmette-Guerin (BCG) è compatibile con la loro sopravvivenza, mentre nella SCID i vaccinati invariabilmente muoiono a causa di una progressiva diffusione dell’infezione da BCG. Così pure, dopo trasfusione con sangue intero, nei bambini con questo difetto non si verifica una reazione “graft versus host”, mentre questa è inevitabile nei bambini affetti da SCID. Tuttavia, anche questa immunodeficienza è fatale nel 1° o 2° decennio di vita. Il trapianto di midollo ha però consentito lunghe sopravvivenze. Nel deficit di espressione delle molecole MHC di classe I il difetto genetico è presente nel locus che codifica queste molecole. Normalmente, la catena peptidica polimorfa delle molecole MHC di classe I è legata con la 2-microglobulina e con un peptide endogeno. Il complesso trimolecolare è assemblato a livello del reti-
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colo endoplasmico e portato alla superficie delle cellule attraverso l’apparato di Golgi. In difetto del peptide endogeno, il complesso è instabile e le molecole MHC di classe I non possono essere presentate alla superficie cellulare. I peptidi endogeni derivano da proteine del citosol, digerite da un apparato chiamato “protoasoma”, e sono trasferiti attraverso la membrana del reticolo endoplasmico da un sistema trasportatore chiamato TAP. I due geni che codificano questo trasportatore, detti TAP 1 e TAP 2, sono stati mappati nello stesso locus ove sono i geni che codificano le molecole del sistema MHC. In una famiglia marocchina con deficit di espressione delle molecole MHC di classe I si è dimostrata una mutazione a carico del gene TAP 2. Come atteso, i bambini con questa immunodeficienza hanno un ridotto numero di linfociti T CD8+. Sono queste cellule, infatti, che interagiscono con le molecole MHC di classe I. Dal punto di vista clinico soffrono di gravi infezioni batteriche polmonari a partire dall’infanzia avanzata.
Immunodeficienze primarie combinate associate ad altri difetti Si tratta di un gruppo eterogeneo di condizioni morbose accomunato da un deficit delle funzioni immunitarie dei T o dei B linfociti, coesistenti con un difetto malformativo o funzionale di altri sistemi. 1. Nel rarissimo deficit di transcobalamina II la carenza della proteina di trasporto si traduce in una ridotta disponibilità di vitamina B12 indispensabile sia per la emopoiesi che per la differenziazione terminale dei linfociti B. Alla grave anemia megaloblastica si associa un importante deficit delle risposte anticorpali, essendo i linfociti B maturi normalmente rappresentati nel sangue circolante e nei tessuti linfoidi ma incapaci di maturare a plasmacellule. 2. L’immunodeficienza con nanismo ad arti corti è una rara sindrome autosomica recessiva della popolazione amish dell’America settentrionale, la cui patogenesi sembra legata a un difetto intrinseco nella fase G della proliferazione cellulare. I pazienti presentano un deficit immunologico variabile, sclerosi delle metafisi delle ossa lunghe e talora capelli radi e fini (ipoplasia tricocartilaginea). 3. La sindrome di Wiskott-Aldrich è un’immunodeficienza ereditaria legata al sesso, caratterizzata dalla triade: infezioni opportunistiche, grave eczema e porpora trombocitopenica. Il gene responsabile della malattia di Wiskott-Aldrich è stato mappato nella regione Xp11-27 sul braccio corto del cromosoma X. Esistono casi di isolata trombocitopenia, geneticamente condizionati, dovuti a un difetto genico con la stessa localizzazione. Si tratta, evidentemente, di forme fruste di sindrome di Wiskott-Aldrich. Questo gene codifica una proteina le cui funzioni sono ancora ignote, ma che verosimilmente agisce su delle tirosina-chinasi. La patogenesi risiede in un difetto di glicosilazione di natura
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non ancora precisata, che determina la carenza di una particolare glicoproteina nella membrana dei T linfociti e delle piastrine, cui probabilmente è da ricondursi sia l’alterata morfologia e la ridotta sopravvivenza piastrinica che l’impotenza funzionale dei linfociti T. Esiste inoltre un’aumentata sintesi ed un accelerato catabolismo delle immunoglobuline IgG, IgA e IgM, cui conseguono incostante riduzione della concentrazione sierica di IgM ed aumento delle IgA (ed IgE), con ridotta risposta anticorpale ad antigeni polisaccaridici (più tardivamente anche proteici) e scarse isoemoagglutinine. Al grave eczema delle regioni flessorie si aggiungono infezioni delle vie aeree e sepsi. La diagnosi non presenta difficoltà. La terapia palliativa si avvale di trasfusioni piastriniche e splenectomia, infusioni di -globuline, chemioterapici antibiotici; la correzione definitiva richiede il trapianto di midollo compatibile, dopo indotta aplasia midollare con citostatici o radioterapia. 4. L’atassia-teleangectasia (A-T, sindrome di LouisBar) è una sindrome autosomica recessiva ad esordio infantile caratterizzata da atassia cerebellare, teleangectasie oculocutanee e infezioni batteriche croniche paranasali e polmonari, nella quale è dimostrabile un’associazione di immunodeficienza umorale e cellulo-mediata. La patogenesi sembra risiedere in due difetti fondamentali, di cui non è chiarita la relazione: da un lato un difetto nella differenziazione tissutale che conduce a ipoplasia timica, ad agenesia ovarica e a persistenza di -fetoproteina ematica, associato frequentemente a fragilità dei cromosomi, che vanno facilmente incontro a fratture casuali; dall’altro una carenza di ADP-ribosio, responsabile di un’alterata riparazione dei DNA dopo insulti mutageni sul cromosoma 14 contenente i geni deputati alla codificazione della sintesi delle catene pesanti delle immunoglobuline e della catena del recettore delle cellule T. Il deficit immunologico è comunemente rappresentato da carenza selettiva di IgA e IgE con normale numero di linfociti B a IgA di membrana, frequente deficit della sottoclasse IgG2 determinante più alto rischio di infezioni e presenza di IgM monomeriche a basso peso molecolare. La capacità di sintetizzare anticorpi specifici dopo stimolo antigenico è frequentemente conservata, ma le risposte cellulo-mediate, il numero di linfociti T circolanti e le funzioni T helper sono ridotti, mentre il timo è ipoplastico, privo di corpuscoli di Hassall. La malattia esordisce verso l’anno di età con atassia cerebellare che peggiora progressivamente sin verso l’adolescenza, accompagnata da ritardo mentale. Fra il 3° e il 6° anno di vita compaiono le caratteristiche fini teleangectasie congiuntivali e cutanee, e infezioni da batteri virulenti delle alte e basse vie aeree. Nella metà dei casi è presente ipogonadismo, intolleranza al glucosio, epatopatia infiammatoria di moderata entità, evidenza di progeria. Talora sono presenti autoanticorpi e nel 30% dei casi si sviluppano malattie linfoproliferative e altre neoplasie potenzialmente letali. La prognosi, assai variabile, è condizionata dal rischio di neoplasie e dalle infezioni favorite dall’immunodeficienza e dal deficit neurologico.
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Non si conosce terapia specifica efficace. Il trattamento palliativo fa ricorso ad antibiotici e a terapia sostitutiva con immunoglobuline in caso di grave carenza di IgG2 (rischio di reazioni da ipersensibilità da anticorpi anti-IgA). È importante limitare esami radiografici ed evitare per quanto possibile l’uso di radioterapia e di alchilanti per la terapia delle neoplasie eventualmente presenti, per non aggravare ulteriormente i danni cromosomici. La sindrome di Di George caratterizzata da ipolasia timica e delle paratiroidi è già stata trattata a proposito dei difetti dell’immunità cellulo-mediata (pag. 1377).
Immunodeficienze primarie aspecifiche Le deficienze di questo tipo si verificano in pazienti con normali capacità di risposte specifiche, sia anticorpali che cellulo-mediate, allo stimolo antigenico, ma sprovvisti di qualche costituente aspecifico dei meccanismi di difesa messi in moto nel corso della reazione immunitaria. Queste immunodeficienze riguardano le funzioni complementari e l’attività delle cellule fagocitiche (macrofagi, monociti e granulociti). Immunodeficienze per difetto delle funzioni complementari Carenze geneticamente determinate sono state descritte per ciascuno dei componenti del complemento (Tab. 69.2), anche se si tratta di eventi assai rari tranne – i deficit di Cl -INH, C2, C6. Esse sono trasmesse per lo più come caratteri autosomici recessivi; negli individui eterozigoti possono esservi basse concentrazioni ma normale attività del fattore complementare deficitario. L’eredità del difetto di inibitore di C1 attivato è autosomica dominante. I loci che codificano la sintesi di C2, C4 e del fattore B della via alternativa del complemento si trovano sul cromosoma 6 in stretta prossimità al locus maggiore di istocompatibilità, nella stessa regioTabella 69.2 - Classificazione dei deficit congeniti di componenti del complemento. FATTORE CARENTE
DISTURBI ASSOCIATI
• Via classica – C1q – C1r – C4 – C2 – C3 (omozigote) – C3b-INH
SCID, a--globulinemia, LES LES, glomerulonefriti LES, sindrome di Sjögren LES, porpora, dermatomiosite Gravi infezioni da piogeni Gravi infezioni da piogeni
• Via alternativa – C3 P-A
Infezioni pneumococciche
• Catena terminale – C5 (carenza) – C5 (disfunzione) – C6 – C7 – C8 – C9
LES, infezioni da Neisseria Sindrome di Leiner Rare infezioni LES, SSP, AR, Neisseria Infezioni da Neisseria Infezioni da Neisseria
ne che contiene i geni della risposta immune. Patogenesi e manifestazioni cliniche sono assai varie, potendosi sviluppare infezioni o sindromi autoimmuni o da immunocomplessi. A. Nei deficit delle frazioni della via classica del complemento (C1q, C1r, C1s, C4 e C2) viene a mancare l’azione opsonizzante del C3 attivato indispensabile alla solubilizzazione degli immunocomplessi e al loro fisiologico allontanamento; la deposizione di complessi sulle pareti vascolari e nei glomeruli renali, attivando il C3 per la via alternativa, dà luogo a reazioni infiammatorie e alle manifestazioni cliniche di glomerulonefriti, sindromi simili al lupus eritematoso sistemico e cosiddette connettiviti. Usualmente non vi sono complicanze infettive, perché i microrganismi sono in grado di attivare la via alternativa del complemento. Diverso è il caso del deficit di C1q che si verifica di solito in corso di grave immunodeficienza combinata, cui va attribuita la responsabilità delle gravi infezioni insorgenti. Data la posizione cruciale di C3 all’incrocio fra la via classica e la via alternativa della cascata complementare, nel deficit omozigote di C3 e nella carenza dell’inattivatore del C3b, che condiziona un anomalo consumo di C3, si realizza il più grave dei difetti complementari, con blocco delle due vie e inadeguata attività emolitica, opsonizzante, chemiotattica e battericida del complemento. Mancano perciò i quadri clinici tipo lupus eritematoso sistemico, ma si verificano gravi e ricorrenti infezioni da germi piogeni e Gram–, caratterizzate da assenza di leucocitosi per mancata chemiotassi. B. Rare carenze del fattore B della via alternativa del complemento (C3 proattivatore), che possono verificarsi nel neonato, nella drepanocitosi e dopo splenectomia, possono impedire l’opsonizzazione aspecifica di batteri capsulati e favorire gravi infezioni pneumococciche. C. Nel caso di deficit dei componenti terminali della catena complementare (da C5 a C9) i disturbi sono minori; sono possibili sindromi da deficiente smaltimento di immunocomplessi, ma la conseguenza più tipica è la carente funzione del sistema combinato di batteriolisi anticorpo-complementare, che facilita nei portatori di questi difetti infezioni ricorrenti da Neisseria gonorrhoeae e meningitidis. Un deficit funzionale di C5, quantitativamente normale, può dare origine alla sindrome di Leiner, che oltre alle infezioni recidivanti da germi Gram– presenta grave diarrea cronica, deperimento e dermatite seborroica generalizzata. D. Il deficit dell’inibitore di C1 attivato (C1-INH) è causa dell’edema angioneurotico ereditario, caratterizzato da crisi acute di angioedema da attività anafilotossinica di C3a e C5a attivati per la via classica del complemento. Di esso, che non si accompagna a particolari deficit dell’immunità, si è parlato a proposito dell’orticaria allergica (Cap. 69).
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La diagnosi dei difetti complementari può essere posta mediante il dosaggio dei singoli componenti in laboratori specializzati, oppure con il dosaggio quantitativo delle frazioni C3 e C4 e la valutazione funzionale dell’attività emolitica CH-50. Riconosciuto il difetto è necessario escludere che esso sia secondario ad altre malattie con consumo di complemento. Non esistono terapie specifiche. Immunodeficienze per difetto delle funzioni fagocitiche I fagociti, rappresentati dai granulociti neutrofili e dai macrofagi e monociti, sono un’importante arma aspecifica di difesa antinfettiva, che si realizza mediante le fasi di mobilizzazione delle riserve midollari di cellule mature, aderenza agli endoteli vasali e locomozione verso gli spazi interstiziali, chemiotassi, fagocitosi e battericidia. Numerose condizioni morbose possono accompagnarsi a difetti secondari delle difese fagocitarie per alterazioni cellulari intrinseche o azione di fattori umorali, mentre rare sono le forme di deficit congeniti intracellulari dei fagociti, che favoriscono infezioni in età infantile. Accenniamo ai più importanti tra loro, i quali hanno facilitato la comprensione della fisiologia fagocitaria. Suddividiamo quindi questi difetti secondo la funzione prevalentemente compromessa, nonostante essi non siano di solito rigorosamente selettivi. A difettosa mobilizzazione possono essere attribuite alcune neutropenie geneticamente determinate talora associate ad alterata motilità nella cosiddetta sindrome del leucocita pigro a patogenesi incerta. Rari deficit delle “proteine di adesione”, necessarie ai preliminari della fagocitosi, inducono una sindrome neonatale con ritardata caduta del funicolo, sepsi e ascessi freddi. Carente aderenza fagocitaria può essere acquisita anche per diabete o terapia steroidea. Una disfunzione dei filamenti di actina può indurre un difetto isolato del sistema contrattile necessario alla locomozione del granulocita. Il difetto di locomozione nella sindrome di Giobbe (così chiamata per l’aspetto piagato per ascessi freddi cutanei e viscerali) e nella sua variante di Buckley con iper-IgE deriva invece dall’aumento delle concentrazioni intracellulari di AMP ciclico, indotto dall’istamina liberata da mastociti e basofili al contatto con IgE in soggetti atopici con eczema generalizzato; se analoghe variazioni dei nucleotidi ciclici intracellulari si verificano nei linfociti si possono avere in questi malati difetti dell’immunità cellulare. Nella sindrome di Chediak-Higashi sembra invece essere presente un difetto nella costituzione dei microtubuli, che conduce a rigidità della membrana cellulare e fusione dei granuli citoplasmatici azzurrofili e specifici, con alterate concentrazioni intracellulari di enzimi lisosomiali, di proteasi e di cAMP; ne risultano gravemente alterate sia la motilità e la chemiotassi che la battericidia. Un difetto specifico della fagocitosi si accompagna all’alterata chemiotassi nel caso delle variazioni dei costituenti fosfolipidici della membrana cellulare
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causate da carenza di ATP nelle gravi ipofosfatemie congenite. Mentre i granulociti della sindrome di Chediak-Higashi presentano granuli citoplasmatici morfologicamente alterati, i granuli appaiono normali nel deficit di mieloperossidasi (MPO), trasmesso per via autosomica recessiva con prevalenza pari a 1:500-2000. La fagocitosi e la degranulazione avvengono normalmente, ma il critico incremento dei processi ossidativi cellulari connesso con la battericidia è rallentato per prolungata sopravvivenza delle ossidasi producenti H2O2 e ossigeno attivato, che usualmente vengono distrutte da un processo MPO-dipendente nel corso della cosiddetta “esplosione respiratoria”. La battericidia in assenza del contributo della MPO è rallentata, ma giunge a compimento grazie ai sistemi ossidanti MPO-indipendenti. I portatori del difetto non sono solitamente preda di infezioni, anche se soffrono di candidiasi prolungate in caso di diabete mellito o altre condizioni di immunodepressione secondaria. La malattia cronica granulomatosa dell’infanzia (CGD, Chronic Granulomatous Disease), trasmessa salvo eccezioni per via recessiva legata al sesso, è causata da un’alterazione genica sul braccio corto del cromosoma 21, che induce una grossolana carenza di produzione dei radicali ossidanti indispensabili alla battericidia (ossigeno attivato come perossido, superossido, ossigeno singoletto) in seguito alla carenza di una citocromoNADH (o NADPH)-ossidasi. Motilità e fagocitosi si compiono normalmente, come la battericidia nei confronti di alcuni microrganismi (streptococchi, pneumococchi, lattobacilli) capaci di formare essi stessi acqua ossigenata che il fagocita utilizza per ucciderli; i granulociti di questi pazienti non sono invece capaci di battericidia nei confronti di batteri e miceti non producenti perossido di idrogeno (stafilococchi, klebsielle, coliformi, Serratia, Proteus, Pseudomonas, Candida e Aspergillus), che causano linfoadeniti suppurative, ascessi, osteomieliti, broncopolmoniti. La diagnosi dei difetti fagocitari si basa su test in vitro di locomozione, chemiotassi, fagocitosi e battericidia, colorazioni citochimiche per i deficit di MPO e di altri enzimi (glucosio-6-fosfato-deidrogenasi, glutationperossidasi), sull’incapacità dei granulociti affetti da CGD di ossidare a composti colorati una soluzione incolore di NBT (nitro blu di tetrazolio) ed infine sullo studio del metabolismo ossidativo del granulocita mediante chemiluminescenza. La prognosi dei difetti più completi della funzione fagocitaria è grave, con decesso precoce o in età infantile per complicanze settiche. Non esistendo terapia specifica, il trattamento si basa su misure preventive e profilattiche vaccinali e antibiotiche. È risultata molto utile la chemoprofilassi antibatterica con cotrimoxazolo; infatti uno dei suoi costituenti, il sulfisoxazolo, stimola il metabolismo ossidativo dei granulociti nella CGD. Infezioni batteriche vengono trattate con antibiotici mirati, infezioni fungine mediante ketoconazolo + fluorocitosina (o con itroconazolo di più recente sintesi), associando amphotericin B e rifampicina nei casi più gravi.
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IMMUNOPATOLOGIA
REAZIONI DA IPERSENSIBILITÀ A FARMACI(*)
Generalità sulle reazioni immunologiche a farmaci
Qualsiasi sostanza farmacologica usata a scopo terapeutico può avere effetti sfavorevoli al paziente. In realtà reazioni indesiderate da farmaci si verificano frequentemente e secondo alcuni studi costituiscono il motivo del 15% dei ricoveri ospedalieri. Si calcola che solamente il 5% circa di esse sia attribuibile a meccanismi immunitari di ipersensibilità.
Si definiscono reazioni da ipersensibilità a farmaci le manifestazioni morbose insorgenti per reazioni antigene-specifiche in individui sensibilizzati, in occasione di nuova somministrazione di (o nuovo contatto con) una sostanza usata a fini terapeutici, che possegga capacità immunogena o che dia origine a metaboliti dotati di tali capacità. L’espressione “allergia a farmaci”, talvolta usata come sinonimo di ipersensibilità a farmaci, dovrebbe essere riservata alle reazioni mediate da IgE. Le reazioni di ipersensibilità a farmaci possono essere classificate con criterio patogenetico secondo i quattro tipi di reazioni immunopatologiche di Gell e Coombs. Tuttavia non sempre è possibile nella pratica clinica riconoscere il meccanismo patogenetico di una reazione indesiderata a farmaci; inoltre un singolo farmaco o suoi metaboliti possono originare reazioni di ipersensibilità di tipo diverso, come avviene per la penicillina (di tipo I, orticaria o anafilassi; di tipo II, anemia emolitica; di tipo III, malattia da siero; di tipo IV, dermatite da contatto). Nonostante le reazioni da ipersensibilità ad ogni singolo farmaco tendano a manifestarsi preferenzialmente con un particolare quadro clinico (ad esempio anemia emolitica da metildopa, infiltrato polmonare da nitrofurantoina, eritema fisso da fenilbutazone), una classificazione basata sugli agenti eziologici delle reazioni medicamentose sarebbe di scarsa utilità clinica. Meccanismi immunologici analoghi possono essere d’altronde alla base di manifestazioni cliniche assai diverse e con differente localizzazione; per la pratica medica si è quindi rivelata molto utile una classificazione delle reazioni di ipersensibilità a farmaci secondo le manifestazioni cliniche da essi provocate (Tab. 69.3). La pratica terapeutica moderna fa uso di farmaci potenti, dotati quindi di più rilevanti effetti collaterali, e sempre più purificati; ciò ha provocato negli ultimi decenni un incremento di reazioni dose-dipendenti e idiosincrasiche da farmaci e una riduzione percentuale delle reazioni di ipersensibilità (attualmente meno del 5% delle reazioni da farmaci, per lo più sotto forma di manifestazioni cutanee). Le reazioni anafilattoidi (da mezzi di contrasto radiologici, da aspirina e antiprostaglandinici) hanno un’incidenza 3-4 volte superiore alle reazioni immunologiche propriamente dette. Tra i fattori predisponenti delle reazioni di ipersensibilità a farmaci rivestono importanza modesta l’età (specialmente adulta) e il sesso (femminile); più importanti risultano il dato anamnestico di pregresse reazioni allo stesso farmaco, la presenza di malattie modificanti la farmacocinetica o l’equilibrio immunitario (sarcoidosi, AIDS, mononucleosi infettiva, ipo--globulinemia, atopia favorente le sole reazioni IgE-mediate), alcuni condizionamenti immunogenetici (dimostrati per esempio dalle correlazioni tra aplotipo HLA e sviluppo di proteinuria da sali d’oro, di acplasia midollare da levamisolo, di anticorpi antinsulina, ecc.) e caratteristiche metaboliche congenite (lupus da idralazina in soggetti con ridotta attività acetiltransferasica).
Generalità sulle reazioni indesiderate da farmaci Le reazioni indesiderate da farmaci possono essere suddivise in due gruppi. A. Reazioni di tipo A. Sono usualmente prevedibili e dose-dipendenti, connesse con l’azione farmacodinamica della sostanza; costituiscono oltre l’80% delle reazioni da farmaci; possono verificarsi per: • iperdosaggio (errore posologico in assoluto o relativo a condizioni genetiche, fisiologiche o patologiche del paziente che modificano la farmacocinetica o l’effetto del farmaco sulle cellule bersaglio, o per interazione tra farmaci); • effetti collaterali (per azioni farmacodinamiche proprie del farmaco, ma svantaggiose e inutili ai fini terapeutici, come l’effetto ipnotico di un farmaco antistaminico); • effetti secondari (conseguenze indirette dell’azione del farmaco, quali lo sviluppo di una moniliasi durante un trattamento cortisonico o la reazione di Jarisch Herxheimer da endotossinemia e liberazione di antigeni treponemici all’inizio della terapia penicillinica di una lue). B. Reazioni di tipo B. Sono reazioni bizzarre e non necessariamente connesse con l’usuale azione farmacodinamica della sostanza medicamentosa, infrequenti e poco prevedibili, possibili per piccole dosi del farmaco, a evoluzione talora temibilmente grave, favorite da particolare suscettibilità del paziente; distinguiamo tra esse: • idiosincrasia (risposta qualitativamente abnorme verificantesi in pazienti geneticamente predisposti; per es., l’ipertermia maligna da anestetici, l’anemia emolitica da antimalarici e altri agenti ossidanti in soggetti carenti di glucosio-6-fosfato-deidrogenasi, le crisi dolorose addominali da barbiturici in individui affetti da porfiria); • reazioni immunologiche da ipersensibilità (sensibilizzazione e reazione allergica mediata da IgE oppure altre reazioni antigene-specifiche in occasione di nuovo contatto con il farmaco); a queste ultime è dedicato il presente capitolo. (*) C. Besana
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Tabella 69.3 - Reazioni di ipersensibilità a farmaci.
Tabella 69.4 - Farmaci più comunemente responsabili di reazioni di ipersensibilità.
Classificazione clinica • Sistemiche – Anafilassi (+ reazioni anafilattoidi da antiprostaglandinici, oppiacei, mezzi di contrasto iodati) – Malattia da siero – Febbre da farmaci – Vasculiti – Lupus iatrogeno • Cutanee – Eruzioni esantematiche – Orticaria e angioedema – Dermatite da contatto – Eritema fisso – Eritema multiforme essudativo – Dermatite esfoliativa – Epidermolisi tossica necrotica • Respiratorie – Asma bronchiale (≠ asma pseudoallergico da aspirina) – Polmonite eosinofila – Fibrosi polmonare • Ematologiche – Eosinofilia – Anemia immunoemolitica – Agranulocitosi – Trombocitopenia – Aplasia midollare – Linfoadenopatie da ipersensibilità – Psuedolinfoma da difenilidantoina • Epatiche – Colestasi intraepatica – Ittero epatocellulare • Renali – Glomerulonefriti – Sindrome di Goodpasture – Nefrite interstiziale • Neurologiche – Polineuropatia di Guillain-Barré – Neuriti periferiche – Encefalomielite
Eziopatogenesi A. Eziologia. I farmaci che più comunemente danno origine a reazioni da ipersensibilità sono elencati nella tabella 69.4. L’80% dei casi è determinato da penicilline, sulfamidici e derivati (diuretici, antidiabetici orali), aspirina e altri antinfiammatori non steroidei. Solamente grosse molecole proteiche possono fungere da antigene completo (ormoni, enzimi, immunoglobuline, sostanze presenti in estratti allergenici, sieri, vaccini); nella maggioranza dei casi il farmaco funziona come aptene, divenendo immunogeno solo dopo legame covalente a una macromolecola. Talora insorgono reazioni immunologiche rivolte non verso il farmaco, bensì verso macromolecole la cui struttura terziaria viene alterata dall’interazione con il farmaco. A volte il medicamento scatenante non è di per sé chimicamente reattivo e la reazione è indotta da metaboliti o contaminanti (anafilassi da penicilloilpolilisina e da determinanti minori della penicil-
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Allopurinolo Analgesici antipiretici (1) (ASA e antiprostaglandinici) Anestetici locali e generali Antiaritmici (chinidina, procainamide) Antibiotici (penicilline e cefalosporine) Anticomiziali (fenitoina, barbiturici) Antipertensivi (idralazina, metildopa) Antimalarici (primachina) Antipsicotici Antisieri e vaccini Antitiroidei (metimazolo, tiouracile) Antitubercolari Derivati sulfamidici (antibatterici, diuretici, antidiabetici, sulfoni) Estratti d’organo (insulina, ACTH, estratti ipofisari) Fenolftaleina Griseofulvina Ipnotici e tranquillanti Metalli pesanti (oro) Mezzi di contrasto iodati (1) Nitrofurani Penicillamina
(1) Questi farmaci provocano frequentemente reazioni pseudoanafilattiche.
lina; trombocitopenia da N-acetil-p-aminofenolo, metabolita del paracetamolo; reazioni da aspirin-anidride, contaminante dell’acido acetilsalicilico). Reazioni crociate sono possibili tra sostanze aventi parentela chimica (penicilline e cefalosporine; derivati fenotiazinici ad azione neurolettica e rispettivamente antistaminica; anestetici locali e sulfamidici con gruppo aminico libero in posizione para). Oltre la costituzione chimica della sostanza immunogena, risultano importanti nel favorire la sensibilizzazione e nel modulare le conseguenze dello scatenamento la via di somministrazione (dermatiti e mucositi per applicazione topica, anafilassi e gravi reazioni sistemiche per somministrazione parenterale), le dosi e la posologia (particolarmente la terapia intermittente). B. Patogenesi. La patogenesi di una reazione da farmaci è talvolta difficile da chiarire nel singolo caso clinico, talaltra facilmente riconducibile a una sola delle quattro reazioni immunopatologiche descritte da Gell e Coombs. L’anafilassi, l’urticaria e l’angioedema e numerosi casi iatrogeni di asma bronchiale e di rinite sono dovuti a reazioni allergiche di I tipo, associate ad anticorpi IgE. La concentrazione sierica delle immunoglobuline E totali è in tali casi frequentemente elevata e talora si ritrovano nel siero IgE specifiche (antiACTH, insulina, derivati della penicillina). Un eccesso di apteni monovalenti o la presenza di anticorpi bloccanti IgG possono inibire le manifestazioni cliniche di allergia. Manifestazioni ematologiche quali anemie emolitiche, leucopenie e trombocitopenie immunologiche da farmaci sono frequentemente espressione di reazioni di tipo II mediate da anticorpi citotossici IgG, IgM e com-
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IMMUNOPATOLOGIA
plemento. In realtà le anemie immunoemolitiche da farmaci possono riconoscere diversi meccanismi patogenetici: • danno alla membrana eritrocitaria da parte di anticorpi IgG specifici per il farmaco (aptene) in essa incorporato, senza intervento del complemento (anemia emolitica da penicillina); • attivazione del complemento da parte di immunocomplessi farmaco-anticorpi, con legame della frazione C3b al recettore eritrocitario CRI (spettatore innocente) e accelerata emocateresi epatosplenica, o emolisi intravascolare per attivazione della cascata C5-C9 (anemia emolitica da sulfamidici, fenotiazine, chinino); • positività del test di Coombs diretto, con o senza anemia emolitica autoimmune da anticorpi IgG antimembrana eritrocitaria (da metildopa, levodopa, acido mefenamico); • positività del test di Coombs diretto per adsorbimento aspecifico di immunoglobuline sulla membrana eritrocitaria modificata dal farmaco, anemia usualmente assente (cefalosporine). Reazioni di tipo III con deposizione di immunocomplessi si verificano non di rado in caso di ipersensibilità a farmaci, concretandosi nel quadro clinico di una malattia da siero (macromolecole xenobiotiche, penicillina e altri antibiotici), di una febbre da farmaci o di una vasculite. Alcuni farmaci (procainamide, idralazina e altri) favoriscono l’insorgenza di autoimmunità con comparsa di autoanticorpi antinucleo, immunocomplessi circolanti e sindrome clinica simile al lupus eritematoso sistemico. Infine, numerose manifestazioni di ipersensibilità a farmaci dipendono da reazioni cellulo-mediate di tipo IV; tale è il caso delle dermatiti da contatto e da fotosensibilità e della maggioranza delle reazioni maculopapulari generalizzate, ma anche di reazioni sistemiche quali alcuni casi di febbre da farmaci, o di reazioni d’organo quali le polmoniti interstiziali da nitrofurantoina o da inalazione di estratti ipofisari. Oltre alle reazioni strettamente immunologiche sopra dette, i farmaci possono dar luogo a reazioni indesiderate per attivazione non specifica di meccanismi effettori dell’immunità. Esempi classici di queste reazioni anafilattoidi o pseudoallergiche sono l’asma da aspirina (per alterata sintesi delle prostaglandine), l’orticaria da oppiacei o da polimixina B (da liberazione aspecifica di istamina), lo shock da mezzi di contrasto iodato (da attivazione aspecifica del complemento o liberazione di istamina).
Clinica Le manifestazioni cliniche delle reazioni da ipersensibilità a farmaci sono multiformi e talora difficilmente distinguibili da reazioni allergiche ad altre sostanze, da danni tossici da farmaci e da manifestazioni della malattia stessa per la quale il farmaco è stato prescritto. I quadri clinici principali sono i seguenti.
A. Anafilassi. Rara reazione sistemica acuta potenzialmente letale, per lo più dovuta a macromolecole proteiche o a penicillina (0,002% dei pazienti trattati, con mortalità nel 10% dei casi). Entro secondi o minuti dalla somministrazione (usualmente parenterale) del farmaco possono verificarsi lo shock e la morte. Reazioni a evoluzione più lenta presentano prurito, orticaria, angioedema, temibile ostruzione delle vie aeree per edema laringeo, asma, nausea, vomito, dolore addominale o diarrea, variamente associati. La reazione deve essere distinta dalle reazioni anafilattoidi aspecifiche e da sincopi o shock d’altra natura. B. Malattia da siero. È il prototipo delle malattie da immunocomplessi. Osservata un tempo in oltre il 50% dei pazienti trattati con alte dosi di siero eterologo, si osserva oggi occasionalmente dopo somministrazione di anatossina antirabbica, antitetanica, antidifterica, antiofidica, di globuline antilinfocitarie nei trattamenti antirigetto o di altri farmaci non proteici quali penicilline e sulfamidici. Come è ben dimostrato nell’animale da esperimento, nella malattia da siero primaria la dose iniziale può servire sia a sensibilizzare che a scatenare i sintomi. Il periodo di latenza, corrispondente alla fase di grande eccedenza di antigene all’inizio della sintesi di anticorpi specifici, dura 7-15 giorni o poco più (1-4 giorni nella malattia da siero accelerata da riesposizione all’antigene). La formazione di immunocomplessi solubili in lieve eccesso di antigene, capaci di diffondere attivando il complemento e liberando amine vasoattive piastriniche ed enzimi lisosomiali leucocitari, determina clinicamente dapprima prurito ed eritema in sede di iniezione, indi sviluppo di urticaria generalizzata e angioedema, febbre, poliartrite, adenomegalie. La malattia regredisce dopo alcune settimane (grazie alla clearance macrofagica degli immunocomplessi divenuti insolubili per equivalenza antigene-anticorpo), ma è talora gravata da temibili complicanze neurologiche, glomerulonefrite o vasculite generalizzata. C. Febbre da farmaci. Talvolta conseguente ad azione tossica (amphotericin B) o ad effetti indiretti del farmaco (reazione di Jarisch-Herxheimer da penicillina nella lue e nella borreliosi di Lyme), una febbre da farmaci può insorgere come manifestazione isolata di una reazione di ipersensibilità di tipo III o IV con liberazione di pirogeni leucocitari, oppure preludere ad una reazione più complessa, con modesta eruzione cutanea, eosinofilia o epatite e vasculite gravi. La febbre è continua o remittente, generalmente elevata, difficile da distinguere da una febbre infettiva ma singolarmente ben tollerata, e regredisce in uno o due giorni dalla sospensione del trattamento; la prosecuzione o la ripresa della terapia con l’agente responsabile possono avere conseguenze gravissime per vasculite. D. Vasculite da farmaci. Tra le vasculiti, la forma più frequentemente provocata da farmaci, oltre alla malattia da siero già detta, è la vasculite da ipersensibilità (pag. 1424), principalmente indotta da penicilline, sulfamidici, tiouracile, ioduri, difenilidantoina, allopurino-
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lo. La forma da medicamenti non ha caratteristiche particolari, salvo la migliore prognosi dopo la sospensione del trattamento incriminato. E. Lupus iatrogeno. Trattamenti con procainamide, idralazina, difenilidantoina, isoniazide, clorpromazina possono modificare nucleoproteine rendendole autoimmunogene e indurre una sindrome clinica simile al lupus eritematoso sistemico; nei confronti di questo il lupus iatrogeno è di più lieve entità, non è gravato da lesioni renali, presenta raramente interessamento cutaneo e del sistema nervoso centrale, è reversibile in poche settimane dopo la sospensione del trattamento responsabile. Autoanticorpi antinucleo sono evidenziabili nel siero del 65% dei pazienti trattati con procainamide e nel 10% di quelli trattati con idralazina, specialmente se “slow acetylators” (lenta metabolizzazione del farmaco geneticamente determinata); la sindrome clinica si sviluppa in una minoranza esigua dei portatori di anticorpi. Dal punto di vista sierologico il lupus iatrogeno si distingue per l’assenza di anticorpi anti-DNA nativo e di anticorpi rivolti verso l’antigene nucleoproteico Sm, e per la quasi costante presenza di anticorpi antistone (pag. 1404). F. Manifestazioni dermatologiche. Le più frequenti manifestazioni di ipersensibilità a farmaci, in particolare penicilline, cotrimoxazolo e sulfamidici, chinidina, nitrofurantoina, sono costituite da disturbi cutanei. Nella metà dei casi si tratta di eruzioni esantematiche similvirali per reazioni cellulo-mediate o da immunocomplessi contenenti IgM, eritematose, maculopapulari, morbilliformi o scarlattiniformi; esse insorgono acutamente, di solito entro 1-2 settimane dall’esposizione al farmaco, con distribuzione simmetrica prevalente al tronco e risparmio delle palme delle mani e piante dei piedi, a tinta brillante eritrocianotica, con prurito e talora febbre o eosinofilia. 1. Nel 25% dei casi la reazione cutanea consiste in urticaria e angioedema, non sempre mediate da IgE, senza particolarità cliniche salvo in caso di urticaria gigante generalizzata o di eosinofilia; occasionalmente l’urticaria è associata ad anafilassi o a malattia da siero. L’urticaria può essere scatenata da contaminanti, come l’aspirinanidride già menzionata, o essere espressione di reazioni pseudoallergiche a farmaci istaminoliberatori. 2. La dermatite da contatto da antistaminici, anestetici locali, neomicina, parabeni, etilendiamina è oggi più rara che un tempo, ma tuttora al terzo posto tra le reazioni cutanee da farmaci. Pazienti con dermatite da contatto da etilendiamina contenuta in alcuni preparati antimicotici possono avere riacutizzazioni da crossreattività per somministrazione sistemica di aminofillina (teofillina-etilendiamina). Le dermatiti da contatto con parabeni possono essere scatenate e sostenute da preparati corticosteroidei per uso topico, contenenti la sostanza responsabile. 3. L’eritema fisso da medicamenti rappresenta il 10% delle reazioni cutanee da ipersensibilità a farma-
ci, di cui è patognomonico. Si tratta di una o due lesioni cutanee tondeggianti del diametro da pochi mm a molti cm, dapprima edematose, poi nodulari rossastre, talvolta a componente eczematosa, vescicolobollosa, o emorragica, insorgenti ad ogni esposizione al farmaco (penicilline, tetracicline, sulfamidici, fenilbutazone e altri antinfiammatori, barbiturici, meprobamato) sempre nella stessa sede, verosimilmente per reazione cellulomediata locale; le lesioni regrediscono con desquamazione e pigmentazione residua entro 2-3 settimane dalla sospensione del farmaco responsabile. Meritano infine menzione le seguenti reazioni potenzialmente letali. 4. L’eritema multiforme essudativo o sindrome di Stevens-Johnson di ipersensibilità a sulfamidici, barbiturici e pirazolonici, verosimilmente con formazione di immunocomplessi; consiste in un’eruzione eritematosa, maculopapulare e vescicolobollosa cutanea e mucosa con febbre elevata, cefalea, grave congiuntivite e danno bronchiale, renale e gastroenterico, esitante in cecità o morte nel 25% dei casi non tempestivamente trattati con corticosteroidi ad alta dose. 5. La dermatite esfoliativa, eritema generalizzato con esfoliazione cutanea superficiale di tutto il corpo e perdita degli annessi cutanei, con disidratazione e infezioni batteriche; rappresenta generalmente una complicanza di linfomi, psoriasi o altre malattie cutanee, ma nel 10% dei casi l’origine è iatrogena (numerosi farmaci implicati). È frequente, specialmente in pazienti anziani o debilitati, il decesso per squilibri metabolici o per sepsi; la guarigione, nei casi trattati con steroidi ad alte dosi, antibiotici e ricostituzione idroelettrolitica, richiede settimane o mesi. 6. L’epidermolisi tossica necrotica o sindrome di Lyell è un’improvvisa perdita del rivestimento cutaneo su grandi zone corporee, a non chiara patogenesi, usualmente causata nella prima infanzia da infezioni da stafilococchi di gruppo fagico II, nel giovane e nell’adulto invece da esposizione a farmaci (penicilline, sulfamidici, pirazolonici, anticomiziali, ecc.); clinicamente simile a un’ustione di 2° grado, essa presenta talora alcune caratteristiche dell’eritema multiforme essudativo ed è complicata da disidratazione e shock, sepsi, coagulazione disseminata intravascolare, con mortalità nel 50% dei casi, nonostante il trattamento aggressivo simile a quello della dermatite esfoliativa. G. Manifestazioni respiratorie. 1. L’asma bronchiale è la più comune manifestazione respiratoria di allergia o ipersensibilità a farmaci, introdotti per via parenterale o inalatoria a scopo terapeutico o per esposizione professionale (personale sanitario o dell’industria farmaceutica). L’acetilcisteina e il disodiocromoglicato possono indurre asma irritativo, i farmaci betabloccanti asma da blocco dei recettori -adrenergici della parete bronchiale. La reazione anafilattoi-
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de da aspirina (PSAAR, Pseudo-Allergic Aspirin Reaction) e da altri farmaci antiprostaglandinici è la causa più frequente di asma iatrogeno. La patogenesi sembra connessa con un’eccessiva produzione di leucotrieni e di prostaglandina F2 ad azione broncocostrittrice in seguito all’inibizione farmacologica della ciclo-ossigenasi e della sintesi di PGE2 (Cap. 16). Essa si verifica nel 10% dei soggetti asmatici e nel 35% dei pazienti portatori di rinite ipereosinofila non allergica con polipi nasali e asma, manifestandosi circa un’ora dopo la somministrazione di dosi terapeutiche di aspirina o altri antinfiammatori non steroidei, con rinorrea acuta, congestione congiuntivale, reazione vasomotoria e grave attacco asmatico. Oltre all’astensione dei farmaci responsabili (tollerato il paracetamolo in alternativa), i pazienti richiedono un trattamento della crisi asmatica e, frequentemente, una terapia protratta con basse dosi di steroidi. 2. Infiltrati interstiziali polmonari con eosinofilia periferica possono verificarsi per reazione acuta di ipersensibilità a farmaci, tra cui sulfamidici, penicilline, idrocloratiazide, cromoglicato, nitrofurantoina. Questo antisettico urinario è la causa più comune della sindrome, che può in tal caso accompagnarsi a pleurite; esso è inoltre responsabile di una meno comune polmonite interstiziale cronica con fibrosi polmonare, che può essere causata anche da reazioni di ipersensibilità a sali d’oro o metisergide, o dall’azione diretta di farmaci citostatici quali busulfan, ciclofosfamide, adriamicina, bleomicina. H. Manifestazioni ematologiche. 1. Numerosi farmaci possono causare eosinofilia, che può riscontrarsi isolata oppure accompagnare altre manifestazioni di ipersensibilità, talora gravi, di cui può essere il segno premonitore (per es., per le reazioni da sali d’oro). 2. Diversi meccanismi immunopatologici sono stati invocati e documentati nella patogenesi dell’anemia emolitica da ipersensibilità a numerosi farmaci (si veda Eziopatogenesi). L’insorgenza è frequentemente acuta, anche dopo mesi di terapia; la guarigione si verifica con crisi reticolocitaria entro poche settimane dalla sospensione del trattamento responsabile. 3. Derivati sulfamidici, sali d’oro, chinidina e numerosi altri farmaci possono causare agranulocitosi o trombocitopenia mediante reazioni immunopatologiche di tipo II o di tipo III (attivazione del complemento da parte di complessi farmaco-anticorpo specifico sulla superficie rispettivamente di granulociti o di piastrine, coinvolti come “testimoni innocenti”). L’agranulocitosi si manifesta con brivido e febbre elevata, artralgie e grave prostrazione, la trombocitopenia con petecchie, ecchimosi, emorragie gastroenteriche o genitourinarie, emottisi; ambedue insorgono improvvisamente e regrediscono entro 5-15 giorni dalla sospensione del farmaco. 4. Alcuni farmaci, come il cloramfenicolo, il fenilbutazone, la mefenitoina possono causare, indipenden-
IMMUNOPATOLOGIA
temente dalla dose somministrata, aplasia midollare, la cui patogenesi immunologica non è stata tuttavia incontrovertibilmente dimostrata. 5. La difenilidantoina induce frequentemente alterazioni delle funzioni immunitarie, con riduzione delle immunoglobuline IgA e depressione dell’immunità cellulo-mediata; essa è causa non comune di una linfoadenopatia, a patogenesi verosimilmente connessa con l’immunodepressione più che con meccanismi di ipersensibilità. La linfoadenopatia è caratterizzata da adenomegalie laterocervicali frequentemente associate a febbre, eruzioni cutanee, eosinofilia ed è talora difficilmente distinguibile da un linfoma anche istologicamente (pseudolinfoma). La sospensione del trattamento permette usualmente la regressione della linfoadenopatia entro settimane o mesi, mentre la prosecuzione della terapia con difenilidantoina espone al rischio di complicazioni come vasculite o nefrite interstiziale o di sviluppo di un vero e proprio linfoma. 6. Linfoadenopatie da ipersensibilità a farmaci si riscontrano talora nel quadro del lupus iatrogeno e della malattia da siero e in una sindrome simile alla mononucleosi infettiva indotta da difenilidantoina o da acido paraminosalicilico. I. Manifestazioni epatiche. La maggior parte delle reazioni epatiche da farmaci è verosimilmente dovuta a danno tossico (da 6-mercaptopurina, ametopterina, preparati endovenosi di tetracicline, acetilidrazide quale metabolita dell’isoniazide). Nonostante non esistano prove certe di una patogenesi immunologica, la colestasi intraepatica da clorpromazina (o più raramente da eritromicina estolato, triacetiloleandomicina, acido nalidixico, nitrofurantoina) sembrerebbe tuttavia dovuta a ipersensibilità, come suggerito dalla ricomparsa in seguito a risomministrazione di piccole dosi del farmaco e dalla frequente associazione dell’ittero a febbre, eruzione cutanea ed eosinofilia, talora con anticorpi antimitocondri. Analogamente, è verosimile la patogenesi immunologica del danno epatocellulare da alotano, indistinguibile da un’epatite virale ma più grave e non eccezionalmente mortale, caratterizzato talvolta da febbre postoperatoria, eosinofilia, riscontro di granulomi intraepatici. L. Manifestazioni renali. È verosimile la patogenesi immunologica della glomerulonefrite membranosa con sindrome nefrosica e della sindrome di Goodpasture (glomerulonefrite ed emorragie polmonari) associate a terapia con penicillamina. La meticillina e numerosi altri farmaci (penicillina, ampicillina, rifampicina, sulfamidici, difenilidantoina) possono causare una nefrite interstiziale acuta, mediata da immunocomplessi o da anticorpi anti-membrana basale, caratterizzata da esordio acuto, febbre, eruzione maculopapulare, eosinofilia, microematuria, proteinuria, eosinofiluria e insufficienza renale acuta che usualmente regredisce entro poche settimane dalla sospensione del farmaco.
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M. Manifestazioni neurologiche. Vaccini virali vivi possono provocare polineuropatia di Guillain-Barré o encefalopatie da ipersensibilità cellulo-mediata. Una patogenesi immunologica è sospettata anche per le neuriti periferiche occasionalmente osservate in corso di trattamento con sali d’oro, colchicina, nitrofurantoina, sulfamidici.
Diagnosi Il riconoscimento di una reazione di ipersensibilità a un farmaco può risultare difficile per la varietà delle manifestazioni cliniche possibili, che possono accompagnare o mimare segni clinici della malattia di base, per la quale del resto possono essere stati prescritti più farmaci potenzialmente immunogeni. L’iter diagnostico prevede: la raccolta dei dati clinici e il riconoscimento di una sindrome di verosimile natura iatrogena; l’individuazione del farmaco responsabile e la dimostrazione di una reazione specifica verso di esso; la correlazione di quest’ultima con il quadro clinico osservato. L’anamnesi deve identificare ogni farmaco assunto dal paziente, la via di somministrazione, la durata del trattamento, la pregressa esposizione sensibilizzante; dovrà inoltre chiarire le manifestazioni cliniche della sospetta reazione, la loro relazione temporale con l’esposizione al farmaco (usualmente dell’ordine di minuti per le reazioni anafilattiche, di ore per la febbre da farmaci, di pochi giorni per le dermatiti da contatto, di molti giorni per l’ittero colestatico, ecc.) e l’eventuale regressione di esse alla sospensione del trattamento. L’esame obiettivo permette talora di riconoscere una sindrome correlata con un ristretto numero di farmaci (eritema fisso, sindrome lupica, ecc.). Importante pure è il riscontro di alterazioni immunologiche di laboratorio che suggeriscono un processo immunopatologico in corso, prescindendo dall’agente causale: per esempio, eosinofilia periferica, elevate concentrazioni ematiche di IgE, ridotta attività emolitica complementare o ridotta concentrazione ematica delle frazioni complementari della via classica (C1q, C4, C2), presenza di immunocomplessi circolanti o di autoanticorpi. Il passo diagnostico successivo consiste nell’evidenziare una reazione specifica al farmaco sospettato, mediante prove in vivo e in vitro. Tra le prime, le prove cutanee di ipersensibilità immediata sono utilizzabili solo per macromolecole (tossoidi, vaccini, ACTH, insulina) e non per la maggior parte dei farmaci a basso peso molecolare funzionanti come apteni; esse espongono al grave rischio di reazioni anafilattiche se non correttamente eseguite e a false positività che possono verificarsi per farmaci istaminoliberatori, o usati a troppo elevata concentrazione o a pH non fisiologico. Le prove cutanee alle penicilline comportano una serie di prick-test seguiti da intradermoreazioni utilizzando diluizioni decrescenti di penicilloilpolilisina (il determinante antigenico maggiore, responsabile della maggior parte delle reazioni di ipersensibilità meno temibili), dei cosiddetti determinanti antigenici minori
(benzilpenicolloato e benzilpenicilloilpropilamina, quantitativamente meno rappresentati ma responsabili della maggior parte delle gravi reazioni anafilattiche) e di preparati farmaceutici di penicillina o di altri antibiotici betalattamici. Il test è dotato di elevata sensibilità: l’uso del farmaco in soggetti cutinegativi non ha mai dato origine a reazioni anafilattiche temibili. Le epidermoreazioni (patch-test) con singoli componenti di preparati farmaceutici per uso topico o responsabili di esposizione professionale, diluiti in adatto eccipiente, sono utili per indagare la causa in dermatiti da contatto. Tra le reazioni in vitro importanza particolare ha la determinazione nel siero delle IgE specifiche verso determinanti antigenici della penicillina mediante RAST o ELISA. Gli altri test di laboratorio sono di difficile esecuzione e la loro utilità clinica è limitata per obiezioni teoriche; i più usati tra essi sono i test di degranulazione dei basofli e di liberazione dell’istamina da parte di mastociti e basofili in presenza del farmaco per studiare le reazioni di primo tipo, e i test di stimolazione linfocitaria e di inibizione della migrazione macrofagica per indagare le reazioni cellulo-mediate. Un ultimo punto riguarda la correlazione tra queste reazioni specifiche e i disturbi accusati dal paziente. Essa può essere chiarita, qualora anticorpi specifici antifarmaco siano stati evidenziati, dalla consensuale riduzione dei titoli anticorpali e delle manifestazioni cliniche dopo la sospensione del medicamento. Viceversa, la riesposizione al farmaco (rechallenge) è rischiosa e inutile, salvo il caso di diagnosi dubbia per farmaci assolutamente indispensabili e insostituibili; in tal caso si deve ricorrere a dosi minime, somministrate dapprima per os, oppure a test di particolare sensibilità, come le prove spirometriche di sensibilità bronchiale.
Decorso e prognosi Il decorso e la prognosi delle reazioni di ipersensibilità a farmaci sono ovviamente assai variabili: le emergenze più temibili sono rappresentate dallo shock anafilattico, le gravi vasculiti, le dermatiti desquamative estese, l’edema della glottide e lo stato di male asmatico, le gravi citopenie, l’insufficienza renale acuta da nefrite interstiziale. La prognosi può essere ulteriormente aggravata dalle condizioni del paziente per la malattia di base o dal tardivo riconoscimento e allontanamento dell’agente causale.
Terapia Il trattamento delle reazioni di ipersensibilità a farmaci richiede talvolta una terapia sintomatica (dello shock anafilattico, dell’insufficienza renale, ecc.), sempre la tempestiva sospensione del farmaco incriminato. Un farmaco ad azione terapeutica simile, ma a diversa struttura chimica, può essere somministrato quando necessario; reazioni da ipersensibilità a cefalosporine so-
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no segnalate in meno del 5% dei pazienti allergici alla penicillina. Nel caso veramente eccezionale di indispensabile necessità di quest’ultima, può essere eseguita una desensibilizzazione orale alla penicillina. Nel caso di reazioni anafilattoidi, i farmaci antiprostaglandinici responsabili possono essere sostituiti da paracetamolo, i mezzi di contrasto radiologico da metrizoato, evitando la somministrazione in bolo e premedicando il paziente con antistaminici e corticosteroidi prima dell’esame radiografico.
colo la vita. Dal punto di vista anatomopatologico, la differenza tra le due forme consiste nel fatto che l’orticaria interessa solo il derma superficiale, mentre l’edema angioneurotico coinvolge il connettivo lasso sottocutaneo. In assenza di terapia i singoli elementi dell’orticaria durano meno di 24 ore (più spesso intorno alle 12 ore) e quindi svaniscono per essere sostituiti da altri in sedi differenti. La durata degli elementi dell’edema angioneurotico è maggiore.
ORTICARIA
Orticaria acuta, edema angioneurotico
L’orticaria (Tab. 69.5) è un’affezione raramente pericolosa, ma altamente disturbante, caratterizzata dalla comparsa, diffusamente sulla cute, di lesioni leggermente rilevate, a margini sfumati, di colore che va dal rosa al rosso vivo, intensamente pruriginose. Queste lesioni hanno solitamente il diametro di qualche centimetro, ma, se confluenti, possono assumere dimensioni notevoli. Spesso tendono a sbiancare al centro e ad assumere un aspetto anulare. La cute che le circonda può essere pure intensamente arrossata. In molti casi l’orticaria può essere associata a edema angioneurotico (o angioedema), una tumefazione pallida, circoscritta, del diametro di vari centimetri, più spesso localizzata in sede palpebrale o labiale, ma possibilmente anche su mucose e, in particolare, sulla glottide dove può determinare un’ostruzione respiratoria che può mettere in peri-
Tabella 69.5 - Classificazione delle orticarie. Immunologiche • Mediate dal complemento – Angioedema ereditario (deficit di C1 INH) – Angioedema acquisito in corso di malattie linfoproliferative – Vasculiti necrotizzanti – Malattia da siero – Reazioni trasfusionali Non immunologiche • Fisiche – Dermografismo – Caldo – Freddo – Colinergiche – Vibratorie – Luce solare, ecc. • Agenti che favoriscono la degranulazione dei basofili – Oppiacei – Antibiotici – Curaro, ecc. • Agenti che agiscono sul metabolismo dell’acido arachidonico: – ASA – Aantinfiammatori non steroidei – Benzoati – Coloranti, ecc. • Mastocitosi sistemica • Forme idiopatiche
Manifestazioni di orticaria-edema angioneurotico possono verificarsi occasionalmente e durare pochi giorni. Sono di solito dipendenti da reazioni allergiche (immunopatologiche di tipo I) ad allergeni alimentari o a farmaci (si veda paragrafo precedente) facilmente riconosciuti ed eliminati. L’azione di allergeni inalati non è frequente, ma non è impossibile e deve essere sospettata quando l’orticaria si verifica in coincidenza con l’esposizione stagionale a questi antigeni. Il rilasciamento di istamina dalle mast-cellule può avvenire anche con meccanismi non allergici: diretti, come nel caso di farmaci quali gli oppiacei, alcuni antibiotici, il curaro, la D-tubocurarina e i mezzi di contrasto; indiretti, per azione di farmaci che intervengono nel metabolismo dei derivati dell’acido arachidonico e nella sintesi delle prostaglandine, come l’aspirina e altri farmaci antinfiammatori non steroidei, i coloranti azotati e i derivati dell’acido benzoico. L’edema angioneurotico può dipendere non solo da reazioni allergiche, ma esistere anche in una variante ereditaria. Questa deve essere sospettata ogni volta che l’affezione si ripete nel tempo ed è importante perché è la forma che più comunemente provoca l’edema della glottide. L’edema angioneurotico ereditario non è accompagnato da orticaria L’edema angioneurotico ereditario dipende da alterazioni del gene che codifica un inibitore fisiologico del componente C1 del complemento attivato. L’attivazione di C1 avviene non solo con meccanismi immunologici, ma anche a seguito di sollecitazioni aspecifiche, come minimi traumatismi dei tessuti. La presenza di un inibitore del C1 attivato è perciò un meccanismo di sicura. Esistono due varianti geniche di questo processo, una che comporta inattività del gene e una seconda con gene codificante una proteina qualitativamente alterata e perciò inattiva. Il carattere è trasmesso come autosomico dominante. Esistono casi nei quali il deficit della produzione di inibitore di C1 attivato è acquisito. Il riconoscimento dell’edema angioneurotico ereditario può avvenire dosando il componente C4 del complemento nel sangue durante una crisi. Se questo è diminuito (il che avviene per il suo consumo) occorre procedere alla valutazione diretta dell’inibitore del C1 attivato, che è più complicata e viene eseguita solo in centri specialistici.
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Orticaria cronica Si definisce cronica un’orticaria che si verifica giornalmente, o quasi, per più di 6 settimane. Colpisce prevalentemente gli adulti ed è due volte più comune nelle donne che negli uomini. Circa il 40% delle persone che hanno un’orticaria cronica per più di 6 mesi ne è ancora affetta dopo 10 anni. A. Eziopatogenesi. In passato si è considerata l’orticaria cronica come una reazione a stati di ansietà o come una manifestazione allergica o idiosincrasia a cibi o additivi o coloranti degli alimenti. Non vi sono buoni elementi per considerare fondate queste supposizioni. Si è visto che l’aderenza stretta a una dieta di riso, agnello e acqua per cinque giorni non ha effetto sull’orticaria cronica. Si è anche cercata una connessione tra questa malattia e l’infezione da Helicobacter pilori, ma una sua origine infettiva viene considerata improbabile. In realtà, in una larga proporzione dei casi la sua causa resta sconosciuta e l’orticaria è definita con il termine poco incoraggiante di “idiopatica”. Recentemente, è stato sostenuto che una parte non trascurabile di queste orticarie idiopatiche è di origine autoimmune. Per capire la patogenesi di questa forma occorre ricordare come avviene la degranulazione delle mast-cellule. Questa richiede due passaggi. Il primo è la fissazione di molecole di IgE alla loro superficie, attraverso l’interazione della regione Fc di queste immunoglobuline con un recettore cellulare chiamato Fc RI. Il secondo è l’unione a ponte di due molecole di IgE così fissate da parte di una singola molecola di allergene. Questa unione fa scattare il segnale che, in ultima analisi, determina la degranulazione delle mast-cellule e la liberazione di vari mediatori, tra i quali l’istamina. È stato dimostrato che un autoanticorpo della classe IgG, perciò bivalente, se diretto contro il Fc RI e legato a due recettori contigui può scatenare lo stesso segnale di degranulazione. Secondo Greaves, che assieme ad altri ha descritto questo autoanticorpo, esso sarebbe causa di quasi il 50% delle orticarie idiopatiche (ma la percentuale è risultata più bassa ad altri investigatori). La formazione di questo autoanticorpo sarebbe relativamente facile in soggetti con propensione costituzionale all’autoimmunità, come sarebbe dimostrato dall’elevata frequenza di disordini tiroidei (di solito di natura autoimmune) in soggetti con orticaria idiopatica. B. Clinica. Le alterazioni cutanee proprie dell’orticaria sono già state descritte nella definizione della malattia. Qui descriviamo alcune sue forme caratteristiche. Con il termine di orticaria cronica idiopatica si indica la forma di questa malattia che non è connessa con particolari sollecitazioni fisiche. Il dermografismo sintomatico è caratterizzato da lesioni lineari allungate, su uno sfondo rosso vivo, che si verificano nei luoghi dove avviene uno sfregamento o grattamento. Può essere riprodotto sfregando dolcemente una punta smussa su zone cutanee apparentemente integre.
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L’orticaria da freddo è caratterizzata da lesioni che si verificano nei punti di contatto con superfici o fluidi freddi. L’applicazione sulla cute per 10 minuti di un involucro contenente ghiaccio riproduce, entro 5 minuti dalla rimozione del ghiaccio, una lesione sulla stessa zona. In casi estremi si possono avere manifestazioni sistemiche del tipo dello shock anafilattico a seguito di bagni in acqua fredda. L’orticaria da pressione (che frequentemente coesiste con l’orticaria cronica idiopatica) è caratterizzata da grandi lesioni pruriginose o dolorose sulle sedi cutanee di pressione: piante dei piedi, palmi delle mani, o la vita, lesioni che durano 24 ore o più. Se su cute apparentemente sana si applica una pressione perpendicolare, un arrossamento e rigonfiamento persistente si verifica entro 1-4 ore. L’orticaria solare è quella che si manifesta nelle zone di esposizione alla luce solare o all’radiazioni ultraviolette. Può essere riprodotta con la irradiazione per 30120 secondi per mezzo di un simulatore solare della potenza di 2,5 kW. Dopo questa sollecitazione, la lesione caratteristica si verifica dopo 30 minuti. L’orticaria colinergica è caratterizzata da lesioni piccole (pochi millimetri di diametro), monomorfiche, diffuse su tronco, collo e arti. L’eruzione è scatenata dall’esercizio o da una doccia calda. In alcuni casi l’orticaria è provocata dall’acqua a qualsiasi temperatura (orticaria acquagenica). In rari pazienti la forma può essere tanto grave da osservarsi sintomi sistemici, del tipo dello shock anafilattico, dopo esercizio fisico intenso. Tutte queste forme di orticaria, con l’eccezione del dermografismo sintomatico e dell’orticaria da pressione (in forma pura) possono essere accompagnate da edema angioneurotico. C. Diagnosi. Di fronte a un’orticaria cronica, principalmente nella sua forma idiopatica, una prima importante distinzione è quella tra un’orticaria vera e propria e un’orticaria vasculitica. Quest’ultima (si veda in seguito) è una manifestazione particolare di una vasculite da ipersensibilità e può accompagnare altre malattie immunopatologiche, come il lupus eritematoso sistemico. Una lista di criteri diagnostici differenziali è riportata nella tabella 69.6. In pratica, il criterio più semplice è la durata delle lesioni elementari cutanee. Se la durata è superiore alle 24 ore, il sospetto di un’orticaria vasculitica è fondato e una biopsia cutanea è raccomandata, soprattutto se coesistono altri elementi diagnostici elencati nella tabella 69.6. In pazienti nei quali un’orticaria vasculitica è esclusa non sembra, secondo il giudizio di alcune autorità in materia, che valga la pena di eseguire test per accertare l’esistenza di allergia ad alimenti o a loro additivi, evenienza considerata rara, a meno che non esistano sospetti in base a dati anamnestici. Per l’orticaria cronica autoimmune è stata proposta un’intradermoreazione con il siero dello stesso paziente. Se in questo è presente l’autoanticorpo anti-Fc RI, nella sede di inoculazione si sviluppa una reazione caratteristica.
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IMMUNOPATOLOGIA
Tabella 69.6 - Criteri diagnostici differenziali tra orticaria cronica idiopatica e orticaria vasculitica. QUADRO CLINICO
ORTICARIA IDIOPATICA
ORTICARIA VASCULITICA
24 No No Sì No
24 Sì Sì Possibile Sì
• – – – – –
Caratteristiche della lesione Durata (ore) Porpora Dolore Prurito Iperpigmentazione
• – – – – –
Sintomi e segni sistemici Artralgie Febbre Dolori addominali Nefrite Ostruzione respiratoria
Possibili No Possibili No No
Sì Sì Sì Sì Sì
• – – – –
Reperti di laboratorio Aumento della VES Aumento di proteine di fase acuta Riduzione di C3 nel siero Immunocomplessi nel siero
Possibile Possibile No No
Sì Sì Possibile Possibile
• – – – – –
Alterazioni istologiche della pelle Rigonfiamento delle cellule endoteliali delle venule Invasione leucocitaria dell’endotelio venulare Extravasazione di eritrociti Leucocitoclasia (1) Deposizione di fibrina
Possibile Possibile No No Possibile
Sì Sì Sì Sì Sì
• – – –
Reperti alla fluorescenza indiretta C3 Immunoglobuline Fibrina
No Possibile Possibile
Sì Sì Sì
Sì
Possibile
• Risposta terapeutica agli antistaminici
(1) Per leucocitoclasia si intende un danneggiamento della parete delle venule coincidente con un accumulo di granulociti neutrofili. (Da Greaves, 1995.)
D. Terapia. Tutti i pazienti con orticaria cronica idiopatica dovrebbero essere avvisati di non assumere inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina (che aumentano la produzione di bradichinina e kallidina che sono vasodilatatrici), né aspirina o altri antiinfiammatori non steroidei. La prima misura terapeutica da attuare è la somministrazione di farmaci antagonisti dei recettori H1 dell’istamina. Antistaminici non sedativi, come la loratadina (10 mg/die) o la cetirizina (10 mg/die) o la fexofenadina (120-180 mg/die) sono efficaci in un buon numero di casi. Si ritiene che gli antistaminici tradizionali, come l’idrossizina, la difenilidramina e la ciproeptadina, sono più efficaci dei loro equivalenti non sedativi, ma i loro effetti collaterali non sono compatibili con l’attenzione e la lucidità di una vita attiva, perciò noi non li consigliamo. Qualora gli antistaminici non sedativi risultassero non efficaci, vale la pena di aggiungere al trattamento un antagonista dei recettori H2 dell’istamina, come la ranitidina (150 mg 2 volte al giorno). Infatti, anche se è vero che l’85% dei recettori dell’istamina nella cute sono del sottotipo H1, è anche vero che i rimanenti 15% sono del sottotipo H2. Se anche questa combinazione terapeutica fosse inefficace, si può provare un antagonista dei leucotrieni (zafirlukast o montelukast). Non esistono prove che l’aggiunta di questi farmaci agli antagonisti dei recettori dell’istamina H1 e
H2 dia risultati superiori al loro impiego da soli. I corticosteroidi glicoattivi sono sicuramente molto efficaci, ma nell’orticaria cronica debbono essere somministrati molto a lungo, con tutti i probemi degli effetti collaterali di una terapia di questo tipo prolungata nel tempo. È perciò opportuno che vi si faccia ricorso solo dopo fallimento degli altri trattamenti. Sono in corso di sperimentazione vari altri trattamenti. Tra questi il più interessante è quello con l’immunodepressore ciclosporina a dosi basse (2,5-3 mg/kg/die, con controllo periodico della pressione arteriosa e della creatininemia) che non è gravata da effetti collaterali troppo importanti. Altri farmaci per i quali esistono segnalazioni di possibile efficacia sono l’idrossiclorochina, la sulfasalazina e il dapsone.
MALATTIA REUMATICA (REUMATISMO ARTICOLARE ACUTO) (*) La malattia reumatica (o febbre reumatica) è una malattia generalizzata a carattere infiammatorio non sup(*) C. Besana
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purativo interessante il cuore, i vasi arteriosi, le articolazioni, il sottocute e il sistema nervoso centrale, che si presenta come sequela tardiva in una piccola percentuale dei pazienti affetti da infezione acuta delle alte vie aeree da streptococco -emolitico di gruppo A. Le manifestazioni cliniche sono variabili, con usuale febbre e poliartrite migrante (reumatismo articolare acuto RAA), ma la localizzazione più temibile è quella cardiaca, potenzialmente letale nella fase acuta e fonte di possibile valvulopatia reumatica cronica (Cap. 10).
ialuronico della capsula batterica e in cosiddetta proteina M dei filamenti (fimbrie) alla superficie batterica. La proteina M è fortemente antigenica e la sua variabilità distingue gli Str. pyogenes in circa 70 sierotipi diversi, tra i quali come già detto solo il 5, e più raramente pochi altri come il 14, 19, 24, sono responsabili della malattia reumatica. Streptococchi di sierotipo 3 e 18, fortemente incapsulati e ricchi di proteina M, erano stati responsabili di epidemie di malattia reumatica fra le reclute della seconda guerra mondiale; essi sono ricomparsi nell’epidemia di Salt Lake City (USA) del 1985-86.
Eziologia Nonostante il meccanismo patogenetico non sia del tutto chiarito, l’importanza eziologica dello Streptococcus pyogenes -emolitico di gruppo A (particolarmente dei sierotipi 5, 14, 19, 24) come causa della malattia reumatica è indicata da numerose prove indirette: la correlazione clinica ed epidemiologica con faringiti streptococciche, l’incremento delle concentrazioni ematiche di antistreptolisine e di altri anticorpi specifici antistreptococcici, l’efficacia preventiva della terapia antibiotica con penicillina. Gli streptococchi sono cocchi (Gram+ anaerobi facoltativi, agenti eziologici di infezioni delle alte e delle basse vie aeree, della cute, delle vie urinarie, di endocarditi batteriche, di infezioni puerperali, perinatali e neonatali. Le complicanze piogeniche per disseminazione batterica comprendono ascessi peritonsillari, sinusiti, otiti medie e raramente meningiti, ascessi cerebrali, sepsi. Le complicanze non suppurative comprendono la scarlattina indotta dall’esotossina eritrogenica in soggetti non immuni, la glomerulonefrite poststreptococcica e la malattia reumatica. Gli streptococchi possono liberare, oltre alla tossina eritrogenica, sostanze enzimatiche ad azione emolizzante (come le streptolisine O e S, rispettivamente antigenica e non), fibrinolitica e degradante l’acido deossiribonucleico (come la streptochinasi e la streptodornasi, ambedue antigeniche). La diversa azione emolitica in vitro su piastre di agar permette di suddividere gli streptococchi in -emolitici (Str. viridans, alcuni ceppi di Str. pneumoniae e numerosi saprofiti delle alte vie aeree e del tratto gastroenterico, inducenti aree di emolisi parziale di colorito verdastro per riduzione dell’emoglobina), -emolitici (Str. pyogenes e la maggior parte degli streptococchi patogeni nell’uomo, determinanti aree nette di franca emolisi) e -emolitici o non emolitici (come lo Str. faecalis). Gli streptococchi possono essere inoltre suddivisi in numerosi sottogruppi sierologici (sottogruppi di Lancefield) mediante reazioni di precipitazione specifica verso antigeni carboidratici della parete batterica: lo Str. pyogenes, implicato nell’eziologia della malattia reumatica, appartiene al sottogruppo A, caratterizzato dalla presenza di ramnosio-N-acetil-glucosamina nella parete batterica. La virulenza degli streptococchi è condizionata dalla presenza nella parete batterica di acido lipoteicoico, responsabile dell’affinità del germe per le membrane delle cellule epiteliali, e dalla resistenza alla fagocitosi grazie alla dotazione in acido
Patogenesi Il meccanismo patogenetico responsabile della malattia reumatica è tuttora imperfettamente noto e verosimilmente molteplice. L’ipotesi inizialmente avanzata, di una diretta invasione tissutale da parte di streptococchi o di loro forme L prive di parete batterica, non è stata confermata. È stato anche suggerito che tossine batteriche, in particolare streptolisine S e O, potessero avere un certo ruolo nell’iniziare la lesione tissutale, ma neppure di ciò vi sono prove convincenti. L’ipotesi patogenetica oggi più accreditata sostiene che la malattia reumatica è dovuta ad autoimmunità favorita da somiglianza strutturale fra antigeni streptococcici e antigeni dei tessuti dell’ospite (mimetismo biologico); potrebbero esservi implicati sia autoanticorpi citotossici che immunocomplessi circolanti o formati in loco o meccanismi di immunità cellulo-mediata. A. Autoanticorpi. La sensibilizzazione di animali di laboratorio con streptococchi o materiale antigenico da essi derivato ha determinato la comparsa di anticorpi, generalmente non specie-specifici, reagenti con strutture tissutali (cardiache o articolari) di mammiferi. Autoanticorpi a reazione crociata sia con strutture tissutali autologhe (cardiache, articolari, cerebrali), sia con antigeni streptococcici sono evidenziati nel siero di molti pazienti affetti da malattia reumatica; manca in verità la prova che questi autoanticorpi possano essere citotossici, anzi essi sono talora presenti in pazienti affetti da scarlattina o glomerulonefrite o malattia reumatica senza cardite, o persino dopo interventi cardiochirurgici o in corso di cardiomiopatie. Sono state individuate le strutture chimiche responsabili di questa cross-reattività (Fig. 69.3): • l’acido ialuronico della capsula streptococcica presenta cross-reattività con l’unità di legame fra l’acido glicuronico e la N-acetil-glucosamina della cartilagine articolare umana; • antigeni associati alla proteina M della parete batterica streptococcica sono cross-reagenti con il rivestimento sarcolemmico di muscolo scheletrico o miocardico di mammifero e con la tropomiosina muscolare. Diversamente da autoanticorpi anticuore dimostrabili in pazienti affetti da scarlattina o glomerulonefrite e dopo pericardiotomia, gli anticorpi cardiospecifici della malattia reumatica possono essere assorbiti da antigeni streptococcici;
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IMMUNOPATOLOGIA
Cartilagine articolare Acido ialuronico
Connettivo di sostegno miocardico
Proteina M
Sarcolemma miocardico
Ramnosio-N-acetil-glucosamina (carboidrato gruppo-specifico)
Tessuto valvolare cardiaco
Antigeni mucopeptidici
Nuclei caudato e ipotalamici
Membrana protoplasmatica
Parete cellulare
Capsula batterica
Figura 69.3 - Determinanti antigenici comuni a strutture streptococciche e tessuti umani.
• pazienti affetti da malattia reumatica con endocardite posseggono anticorpi sierici reagenti sia con l’antigene carboidratico della parete batterica dello streptococco (ramnosio-N-acetil-glucosamina), sia con tessuto delle valvole aortiche. L’autoanticorpo persiste nel siero per molti anni in caso di valvulopatia reumatica attiva e scompare dopo sostituzione protesica della valvola ma non dopo commissurotomia; il suo ruolo patogenetico è molto dubbio, apparendo esso la conseguenza di una reazione autoimmunitaria da lesione valvolare piuttosto che la sua causa; • cross-reattività organo-specifica esiste pure fra antigeni mucopeptidici della membrana protoplasmatica streptococcica e cellule neuronali del nucleo caudato e dell’ipotalamo. Gli anticorpi specifici presenti in alcuni pazienti con corea reumatica (si veda in seguito) sono assorbiti con antigeni streptococcici e con membrane sarcolemmiche cardiache.
matica ma non di ceppi nefritogenici. Tali linfociti svolgono azione citotossica in vitro su cellule miocardiche umane, ma non su fibroblasti cutanei; la citotossicità è inibita da siero autologo contenente anticorpi anticuore, cui si attribuisce potere bloccante. La faringite da Str. pyogenes di gruppo A è evenienza predisponente indispensabile anche se non sufficiente per lo sviluppo della malattia reumatica, che non segue mai un pioderma streptococcico; ciò può essere spiegato con la maggiore frequenza di sierotipi “reumatogeni” tra gli agenti causali di infezioni faringee, ma notevole importanza viene data alla presenza delle stazioni linfatiche dell’anello di Waldeyer e, secondo alcune isolate opinioni, a connessioni linfatiche fra rinofaringe e cuore. Ripetuti contagi da streptococchi reumatogeni sono probabilmente necessari per lo sviluppo della malattia: a ciò si attribuisce l’eccezionalità di essa prima dell’età scolare.
B. Immunocomplessi. Antigeni streptococcici sono stati evidenziati in immunocomplessi circolanti in pazienti con malattia reumatica. Nel liquido sinoviale di artriti reumatiche si riscontra diminuzione della concentrazione di frazioni complementari (C1q, C3, C4); ciò è stato interpretato come evidenza di una reazione locale da immunocomplessi, nonostante la latenza costante tra la faringite e le manifestazioni artritiche in occasione tanto del primo attacco reumatico quanto delle recidive sembri contraddire un’ipotesi immunologica.
D. Predisposizione. È certo che la malattia reumatica è favorita da una predisposizione individuale. Nonostante non vi sia predilezione razziale e nonostante l’aggregazione familiare sia spiegabile con il contagio streptococcico tra conviventi e la concordanza della malattia fra gemelli unicoriali sia relativamente bassa (18,7%), tuttavia quest’ultima comporta identità di localizzazione della malattia (cardite, corea), è sette volte superiore che fra gemelli eterozigoti (2,5%) ed è stata segnalata una correlazione entro famiglie tra aplotipi HLA e febbre reumatica (rischio relativo per portatori di HLA-A5 pari a 12,9). Inoltre un particolare alloantigene (Ag 883) è stato riscontrato sui linfociti B di oltre il 75% dei pazienti affetti da malattia reumatica e in meno del 20% della restante popolazione. È evidente inoltre il ruolo di fattori endocrini nello sviluppo delle complicanze della malattia reumatica: la corea, rara dopo l’adolescenza, è eccezionale nel maschio adulto e nella donna più frequente in gravidanza; nel sesso fem-
C. Reazioni cellulo-mediate. Sperimentalmente è stato dimostrato che linfociti di cavia immunizzata con antigeni streptococcici di gruppo A sono citotossici in vitro su cellule miocardiche omologhe. Studi sull’uomo con la tecnica dell’inibizione della migrazione macrofagica hanno evidenziato ipersensibilità di linfociti periferici di pazienti affetti da cardite reumatica ad antigeni di streptococchi di ceppi associati a malattia reu-
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69 - MALATTIE IMMUNOPATOLOGICHE
minile è più frequente l’evoluzione della valvulopatia in stenosi mitralica serrata, nel sesso maschile la localizzazione aortica.
Epidemiologia La malattia reumatica ha diffusione ubiquitaria parallela a quella della faringite streptococcica che sempre la precede anche se asintomatica nel 25-30% dei casi. Essa colpisce prevalentemente le classi sociali più disagiate, l’età scolare, le reclute militari e altri gruppi in cui sia favorito il contagio per via aerea da pazienti affetti da faringite o da portatori sani di streptococco. L’incidenza, massima nei mesi invernali, è sensibilmente diminuita nell’ultimo cinquantennio, più per il miglioramento delle condizioni sociosanitarie e per l’estinzione di ceppi “reumatogeni” che per l’introduzione di antibiotici; essa è valutata oggi, in ambiente urbano nei paesi industrializzati, attorno a 2/100.000 scolari all’anno (meno dell’1% dei soggetti affetti da faringite streptococcica da gruppo A, specialmente se essudativa e accompagnata da concentrazione ematica di antistreptolisine sensibilmente e persistentemente elevata). Recidive di malattia reumatica sono assai più frequenti entro un anno dal primo episodio (20% dei casi e sino al 50% in occasione di cardite reumatica) e diminuiscono rapidamente negli anni successivi a meno del 5-10% dei casi all’anno.
Anatomia patologica La malattia reumatica è caratterizzata da lesioni infiammatorie proliferative ed essudative dei tessuti connettivi del cuore, delle articolazioni e del sottocute, accompagnate da edema mucoide basofilo della sostanza fondamentale, ispessimento, frammentazione ed eosinofilia delle fibre collagene, degenerazione fibrinoide del connettivo e necrosi miocardica disseminata. Entro i successivi 15 giorni compaiono i noduli di Aschoff patognomonici e destinati usualmente a persistere per anni anche in assenza di segni clinici o di laboratorio di attività della malattia. Essi originano, secondo la maggioranza degli Autori, da elementi del tessuto connettivo e sono connessi con la tendenza alla fibrosi; sono aree infiammatorie perivascolari costituite da un’area centrale di necrosi fibrinoide attorniata da linfociti, plasmacellule, grandi cellule basofile talora multinucleate di origine verosimilmente mesenchimale. Le lesioni cardiache (pancardite) comprendono: una pericardite fibrinosa, talvolta con scarso essudato sieroematico; una miocardite con noduli di Aschoff e infiltrati cellulari interstiziali diffusi, miocitolisi e dilatazione delle camere ventricolari; un’endocardite con lesioni verrucose ai bordi liberi delle cuspidi valvolari e flogosi ad evoluzione fibrosante alle cuspidi e all’anello valvolare e alle corde tendinee, con cicatrizzazione subendocardica talora calcifica. Le deformazioni dei lembi valvolari e delle corde tendinee, la dilatazione dell’ostio valvolare secondaria alla dilatazione ventricolare e la fusione
della commissura valvolare conducono precocemente, o come complicanza tardiva, a insufficienza o stenosi valvolare della mitrale e/o più raramente della valvola aortica e solo nel 10% delle carditi reumatiche anche della valvola tricuspide. L’artrite reumatica presenta essudato fibrinoso e versamento sterile ricco di granulociti neutrofili, senza sviluppo di panno sinoviale né erosioni articolari, con infiltrato cellulare ed edema dei tessuti periarticolari. Lesioni simili ai nodi di Aschoff si localizzano frequentemente in sede sottocutanea. Non sono state chiarite le connessioni anatomopatologiche della corea reumatica; in pazienti deceduti per altra causa e sottoposti ad autopsia si sono occasionalmente evidenziate lesioni infiammatorie dei gangli della base, ma in nessun caso nodi di Aschoff.
Clinica Le manifestazioni cliniche della malattia reumatica sono assai variabili, potendo interessare, isolatamente o insieme, il sistema articolare (75% dei primi episodi), il cuore (50%), il sistema nervoso centrale (15%), cute e sottocute (10%). Le manifestazioni cutanee e cardiache sono più frequenti nei bambini, la cardite specialmente nei giovanissimi; la corea compare solo nell’età scolare e prepubere; nell’età adulta prevale l’artrite, che tuttavia è frequentemente la manifestazione unica o principale anche nei bambini. La cardite reumatica compare usualmente con febbre moderata e può essere del tutto o quasi asintomatica; in tal caso la malattia viene frequentemente misconosciuta, salvo in corso di epidemie. La malattia reumatica ha però usualmente esordio brusco con febbre e/o artrite acuta, con manifestazioni solitamente più evidenti nei bambini, precedute nei due terzi dei casi da una faringite streptococcica sintomatica, con un intervallo di 2-3 settimane, destinato a rimanere di egual durata anche in caso di eventuali recidive. A. La febbre non è caratteristica: può essere intermittente o continua, di basso grado o elevata, e durare settimane o mesi con malessere generale, astenia, anoressia e calo ponderale. B. L’interessamento articolare (reumatismo articolare acuto) raramente limitato a poliartralgie senza segni obiettivi, si manifesta classicamente con una monoartrite acuta migrante febbrile con franchi segni di flogosi (dolore vivo al minimo contatto o movimento, impotenza funzionale, tumefazione, arrossamento e calore periarticolari, versamento sinoviale). L’artrite regredisce solitamente entro pochi giorni nella prima sede colpita (nell’ordine di frequenza ginocchia, caviglie, gomiti, polsi), per ricomparire immediatamente o poco dopo in rapida successione in altre articolazioni per una durata totale di 2-4 settimane, o talora mesi specialmente nell’infanzia. C. La cardite reumatica consiste usualmente in una endocardite acuta a esordio precoce nel corso dell’epi-
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sodio acuto, associata o non a pericardite e miocardite. Frequentemente asintomatica e riscontrata casualmente per la presenza di un soffio valvolare o uno sfregamento pericardico, di tachicardia, aritmie o alterazioni elettrocardiografiche, può talora manifestarsi con dolore precordiale o con i sintomi e segni dello scompenso cardiocircolatorio per miocardite, sola o associata a insufficienza valvolare. I segni della cardite, frequentemente sfumati e fugaci o rapidamente mutevoli, vanno attentamente e ripetutamente ricercati per la loro importanza diagnostica e prognostica. 1. L’endocardite si presenta alla diagnosi come insufficienza mitralica isolata (70% dei casi) o associata a insufficienza aortica (22%) o raramente tricuspidale, oppure come insufficienza aortica (7%). I reperti auscultatori delle valvulopatie sono più estesamente descritti nei rispettivi capitoli. Il soffio olosistolico apicale ad alta frequenza dell’insufficienza mitralica (Cap. 10), irradiato alla regione ascellare, è meglio percepito in decubito laterale sinistro; un soffio mesodiastolico a bassa frequenza in sede apicale può originare da rapido riempimento ventricolare per insufficienza mitralica rilevante, oppure da edema dei lembi valvolari, come segno fugace di valvulite attiva anche in assenza di insufficienza mitralica (soffio di CareyCoombs). Il soffio protodiastolico ad alta frequenza dell’insufficienza aortica (Cap. 10) è udibile in sede marginosternale sinistra alta, più agevolmente al termine dell’espirazione nel paziente seduto o piegato in avanti; è rara la presenza già nel primo episodio di cardite reumatica di segni di più grave insufficienza aortica, come l’elevata pressione differenziale e il soffio di Austin-Flint. Le stenosi valvolari sono sempre esiti tardivi, mai riscontrati nel primo episodio acuto. Le endocarditi reumatiche destinate a dare valvulopatia cronica sono caratterizzate da soffi valvolari ingravescenti dalle prime settimane di malattia o persistenti nel tempo; a ciò fanno eccezione i casi di corea reumatica, cui può seguire valvulopatia tardiva anche in assenza di segni di endocardite acuta. 2. Sfregamenti pericardici o segni clinici di versamento pericardico indicano nel 10% dei casi di malattia reumatica, sempre in concomitanza con endocardite, la presenza di una pericardite, asintomatica o accompagnata da dolore precordiale o epigastrico (più raramente dolori addominali possono essere ascritti a peritonite o pleurite basilare reumatiche o a fegato da stasi per scompenso cardiaco); il tamponamento pericardico e l’evoluzione tardiva in pericardite costrittiva sono assolutamente eccezionali. 3. La miocardite reumatica, sempre associata a endocardite, è più difficile da evidenziare clinicamente. Sono possibili rumori di galoppo, una tachicardia persistente a riposo e nel sonno e il riscontro ECG di disturbi di conduzione e del ritmo: un blocco atrioventricolare di 1° grado è segno diagnostico importante presente nel 40% dei pazienti affetti da malattia reumatica, anche in assenza di altri segni di cardite, senza alcun significato pro-
IMMUNOPATOLOGIA
gnostico. Lo spostamento dell’itto della punta e segni strumentali di ingrandimento cardiaco sono la prova più certa di miocardite reumatica; la conseguenza più grave di essa è lo scompenso cardiaco, presente nel 5-10% degli episodi iniziali di malattia reumatica, più frequente nelle recidive anche per la possibile associazione di valvulopatia funzionalmente significativa. In caso di grave cardite reumatica con scompenso cardiocircolatorio possono insorgere complicanze polmonari, la cui origine è talora difficile da stabilire clinicamente, per congestione polmonare ed edema polmonare acuto, embolie, sindrome da distress respiratorio acuto, infezioni batteriche o per vera polmonite reumatica, la cui reale esistenza è tuttavia assai discussa. D. Le manifestazioni cutanee della malattia reumatica sono costituite da noduli sottocutanei e dall’eritema marginato. 1. I noduli sottocutanei compaiono a gruppi di 3-4 o più, quasi sempre in associazione a cardite a prognosi grave quoad functionem, ad almeno 3 settimane dell’esordio dell’attacco reumatico, e persistono per 2-3 settimane, con possibilità di recidiva nelle carditi protratte. Si tratta di noduli palpabili duri, non dolenti, da alcuni millimetri sino a 2 cm di diametro, ricoperti da cute mobile non infiammata, sovrastanti tendini o prominenze ossee specialmente alla superficie estensoria dei gomiti, alle ginocchia, polsi, caviglie, spina dorsale, occipite. Noduli simili, ma in numero minore, di maggiori dimensioni e più a lungo persistenti, possono comparire in corso di lupus eritematoso sistemico o di artrite reumatoide. 2. L’eritema marginato è costituito da macule o papule eritematose asintomatiche rapidamente evanescenti o migranti nel corso di ore o persino minuti, che sin dalla prima settimana di malattia ricompaiono intermittentemente per mesi, favorite da bagni caldi e altre cause di vasodilatazione. Il nome deriva dalla progressione centrifuga dell’eritema con risoluzione centrale (eritema anulare, a fumo di sigaretta), con coalescenza di più elementi in configurazioni circinate o serpiginose. Verosimilmente dovuto a immunocomplessi, l’eritema marginato non si accompagna a particolari lesioni istologiche, non è patognomonico (compare occasionalmente in corso di sepsi, glomerulonefriti, reazioni da farmaci) e, pur accompagnandosi solitamente a noduli sottocutanei e/o a cardite, non ha alcun significato prognostico. E. La chorea minor o corea di Sydenham (cosiddetto ballo di San Vito) è una sindrome neurologica che si manifesta dopo un periodo di latenza variabile dalla faringite streptococcica, in forma pura isolata o associata a cardite oppure, più frequentemente, mesi dopo la regressione delle altre manifestazioni cliniche e di laboratorio della malattia reumatica. Assai variabile è pure la durata della corea, solitamente di 8-15 settimane, ma non eccezionalmente superiore a un anno. Essa è condizione pressoché esclusiva dell’età prepubere e della donna adulta, e compariva un tempo nel 50% dei
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casi di malattia reumatica, ora per ragioni inspiegate con frequenza assai minore. La corea consiste di movimenti involontari non finalizzati, rapidi e incessanti ma non ritmici, più evidenti al volto e alle estremità, soppressi parzialmente dal controllo volontario e dal riposo, totalmente dal sonno: gli arti “sfarfallano” in modo incoordinato e imprevedibile, talora unilaterale (emicorea), il volto è alterato da tic, spasmi e “boccacce”, la lingua si contrae in modo asimmetrico e vermiforme, l’eloquio è rallentato e esplosivo, la scrittura assai irregolare o illeggibile. Sono caratteristici i movimenti di pronazione delle mani all’elevazione degli arti superiori e movimenti di flessione del polso con iperestensione delle dita e abduzione del pollice (dorso della mano a piatto o a cucchiaio). I pazienti presentano ipotonia muscolare generalizzata e incapacità a mantenere una contrazione muscolare prolungata: l’invito a stringere strettamente un dito dell’esaminatore dà luogo a contrazioni intermittenti (cosiddetto segno della mungitura) e il riflesso patellare può manifestarsi con moto irregolarmente pendolare della gamba. Non vi sono disturbi sensoriali né delle vie piramidali e dei nervi cranici; è invece frequente una labilità emotiva che spesso precede lo sviluppo della corea.
Esami di laboratorio e strumentali Non esistono esami patognomonici di malattia reumatica; esami di laboratorio e strumentali sono tuttavia utili per comprovare una recente infezione streptococcica anche asintomatica, l’esistenza e l’evoluzione del processo infiammatorio, la presenza di lesioni tissutali e d’organo. A. La ricerca di Streptococcus pyogenes -emolitico di gruppo A da tampone faringeo è utile in una minoranza di casi, perché solitamente negativa allorché è comparsa la febbre reumatica e potenzialmente positiva in condizioni di saprofitosi o infezione streptococcica da sottogruppi non reumatogeni. Assai più utile la ricerca di anticorpi antistreptococcici: pur non essendo la loro presenza segno di malattia reumatica né la loro concentrazione indice della sua gravità o persistenza, tuttavia il titolo ematico raggiunge il picco massimo nelle prime settimane delle manifestazioni reumatiche, a 4-5 settimane dalla faringite, ed è sempre riscontrato elevato se ricercato in modo seriato mediante più antigeni, essendo prova in tal caso di vera infezione streptococcica e non di inquinamento saprofitico del rinofaringe. La determinazione mediante emoagglutinazione condizionata del titolo di antistreptolisine O (TAS) è l’esame più comunemente impiegato; il titolo varia con l’età e l’esposizione a infezioni streptococciche, essendo usuali valori attorno a 200-300 U/ml in età scolare, con incrementi di 2-4 volte dopo infezioni streptococciche e calo rapido nei primi due mesi, più lento sino ad oltre il sesto mese.
La positività a titoli significativi si ha nell’80% dei casi di febbre reumatica e nel 90-95% se vengono ricercati anche gli anticorpi anti-DNAsi B (che persistono elevati più a lungo) e antialuronidasi. Lo streptozyme è un concentrato di antigeni streptococcici extracellulari utilizzato per screening in una semplice e rapida reazione di emoagglutinazione su vetrino assai sensibile, dovuta ad anticorpi a specificità non nota presenti a titolo superiore a 1:200 nel 100% dei casi. B. Segni di fase acuta come elevati valori di VES e concentrazioni plasmatiche di proteina C reattiva sono sempre presenti nella malattia reumatica, salvo in caso di corea ed eritema marginato isolati, e utili al monitoraggio del processo infiammatorio dopo sospensione della terapia; la leucocitosi neutrofila è frequente nella fase di acuzie, l’anemia normocitica normocromica è indice di gravità e di cronicità. C. I danni d’organo sono evidenziati per il cuore da segni ECG di disturbi di conduzione o del ritmo (aspecifici e mai sufficienti alla diagnosi di miocardite) e dai reperti radiografici ed ecocardiografici di versamento pericardico, dilatazione ventricolare, disfunzione valvolare; le alterazioni articolari danno luogo ai segni radiografici di tumefazione dei tessuti periarticolari e a modificazioni del liquido sinoviale ottenibile mediante artrocentesi (sterile, senza cristalli, con normale concentrazione di glucosio e ridotte frazioni complementari, contenente da 500 a 80.000 leucociti neutrofili/mm3).
Diagnosi e diagnosi differenziale La malattia reumatica ha espressione clinica proteiforme, di diagnosi facile nelle forme classiche o in epidemie, ma di riconoscimento frequentemente difficile in forme subdole o con una sola manifestazione clinica maggiore. La diagnosi è tuttavia di estrema importanza ai fini della necessaria profilassi antibiotica (si veda più avanti). L’utilizzazione dei criteri diagnostici di Jones (Tab. 69.7) evita errori diagnostici per eccesso, anche se essi non sono completamente affidabili in caso la poliartrite sia la sola manifestazione maggiore presente. In tal caso la diagnosi differenziale si pone con varie forme di artriti, che vanno escluse mediante le opportune indagini: artrite reumatoide e reumatoide giovanile, lupus eritematoso sistemico, artriti virali (rosolia ed epatite B), gonococcica e settiche, malattia di siero, porpora di HenochSchönlein iniziale, drepanocitosi e leucemia acuta. La cardite reumatica deve essere differenziata da pericarditi e miocarditi virali, endocardite batterica, malattie febbrili o articolari diverse in portatori di prolasso della valvola mitrale o di cardiopatie congenite. La corea isolata può talora evocare il sospetto di un tumore cerebrale.
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IMMUNOPATOLOGIA
Tabella 69.7 - Criteri diagnostici di Jones per malattia reumatica*. • Criteri maggiori – Cardite – Poliartrite – Corea – Eritema marginato – Noduli sottocutanei • Criteri minori – Cardiopatia reumatica o febbre r. pregressa – Artralgia – Febbre – Incremento di VES o PCR, leucocitosi – Incremento dell’intervallo P-R (ECG) + Indizi di infezione streptococcica recente – TAS 250 U (adulti) o 333 U (età scolare) o titoli significativi di altri anticorpi antistreptococcici – Str. di gruppo A in coltura da tampone faringeo – Recente scarlattina La presenza di 2 criteri maggiori, o di 1 maggiore + 2 minori, indica la probabile presenza di febbre reumatica se associata a indizi di recente infezione streptococcica. L’assenza di quest’ultima rende la diagnosi sospetta, salvo in caso di malattia reumatica scoperta dopo lungo intervallo dalla precedente infezione, come nella chorea minor e nella cardite a scarsa attività. * Revisione Am. Rheumatism Ass. 1984.
Decorso e prognosi La fase acuta della malattia reumatica dura in media 3 mesi nel bambino, sino a 6 mesi specialmente in caso di cardite grave, solo alcune settimane nell’adulto. Nel 5% dei casi, specialmente in recidive, la malattia dura oltre 6 mesi (febbre reumatica cronica), talora benigna e limitata alla corea, più spesso con artrite, noduli sottocutanei e interessamento cardiaco e segni persistenti di attività. Recidive compaiono nel 20% dei casi all’anno nei primi 5 anni, raramente dopo 5 anni di benessere e dopo i 21 anni di età. L’esito più grave, la valvulopatia cronica, si verifica nel 20% dei pazienti con corea isolata, nel 30% dei soggetti senza cardite reumatica acuta o con soffio sistolico apicale da endocardite lieve senza pericardite né miocardite, nel 40% dei pazienti con soffi diastolici, nel 70% delle carditi con scompenso cardiaco o pericardite, ma solo nel 20% dei pazienti adulti e nel 6% dei pazienti senza cardite non sottoposti a prevenzione antibiotica protratta. La mortalità precoce da scompenso refrattario per miocardite è ora inferiore all’1% dei casi, ma il 30% dei valvulopatici con attività anticorpale persistente muore entro 10 anni. Il reumatismo articolare acuto guarisce senza sequele articolari, salvo la rara evenienza di esiti fibrotici con deformità metacarpofalangee e deviazioni ulnari delle dita in pazienti con grave artrite e cardite protratte (artropatia di Jaccoud).
Prevenzione e terapia L’infezione streptococcica guarisce spontaneamente ed è usualmente già guarita all’esordio della febbre reu-
matica; la terapia antibiotica dell’attacco reumatico non ne modifica il decorso né riduce la probabilità delle complicanze. Un’unica somministrazione di benzatinpenicillina (o un trattamento di 10 giorni con eritromicina in soggetti allergici alla penicillina) è indicata per la prevenzione primaria della malattia reumatica in ogni caso di faringite streptococcica accertata o presunta, ed è consigliata dai più zelanti per l’eradicazione dello streptococco anche al momento della diagnosi di attacco reumatico. Il trattamento di quest’ultimo fa ricorso al riposo assoluto per 3 settimane, o sino al miglioramento della cardite e dei segni di fase acuta, e a terapia con acido acetilsalicilico ad alte dosi con controllo della salicilemia per 9-12 settimane (capace di ridurre la febbre e la flogosi articolare), nel reumatismo articolare acuto con cardite lieve o assente; si ricorre a corticosteroidi in caso di cardite più rilevante o di febbre refrattaria ad acido acetilsalicilico. Non vi è alcuna prova che tali trattamenti, al cui termine può aversi riacutizzazione della malattia, riducano i rischi di complicanze. La prevenzione secondaria è indispensabile per evitare il rischio dello sviluppo di valvulopatia cronica; essa va condotta con iniezioni mensili di benzatin-penicillina per il resto della vita in ogni paziente affetto da cardite reumatica acuta, mentre nei pazienti affetti da malattia reumatica senza cardite può essere verosimilmente sospesa al raggiungimento dell’età adulta, dopo almeno 5 anni di benessere e in assenza di rischi epidemiologici particolari. Va infine ricordato che ogni paziente affetto da valvulopatia reumatica dovrà essere sottoposto a profilassi dell’endocardite batterica (Cap. 9) in occasione di ogni intervento terapeutico o diagnostico capace di indurre batteriemia.
CONNETTIVITI SISTEMICHE Questo gruppo di malattie fu originariamente definito “malattie del collageno” in base a considerazioni anatomopatologiche. Esse erano, infatti, unificate dalla esistenza in varie sedi di necrosi fibrinoide, un’alterazione che vede interessate le fibre collagene al pari della sostanza fondamentale del connettivo nelle lesioni istologiche elementari. Il termine, coniato dall’anatomopatologo Klemperer negli anni Quaranta, ebbe successo e fu addirittura modificato in quello di collagenopatie e, peggio ancora, di collagenosi. Oggi queste denominazioni non possono essere più correttamente impiegate perché fuorvianti. Esistono, infatti, varie anomalie su base ereditaria della struttura delle fibre collagene che a miglior diritto potrebbero essere chiamate malattie del collageno. Il termine di collagenosi è poi da condannare perché il suffisso in “osi” suggerisce l’idea di una malattia degenerativa, mentre le malattie alle quali si riferiva Klemperer sono tipicamente infiammatorie. Perciò, in tempi più recenti, questo gruppo di malattie è stato raccolto sotto la denominazione di connettiviti sistemiche (Inflammatory Connective Tissue Diseases, nella letteratura anglosas-
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sone). Anche questo termine non è del tutto felice, ma è migliore dei precedenti e verrà adottato nel presente testo. Noi definiamo queste malattie come delle malattie infiammatorie croniche, a distribuzione sistemica, di origine immunopatologica e caratterizzate dalla tendenza alla formazione di autoanticorpi. Abbiamo già sottolineato nel precedente capitolo, come le entità nosologiche incluse nel gruppo delle connettiviti sistemiche abbiano confini sfumati, come spesso esistano forme non inquadrabili in nessuna entità nosologica ben definita (connettiviti indeterminate) o forme che presentano elementi clinici pertinenti a più di una entità nosologica (sindromi da “overlap”). Per questo motivo sarebbe preferibile che all’inquadramento nosologico descrittivo, che è quello attuale, se ne sostituisse uno patogenetico (malattie dovute prevalentemente a reazioni di tipo IV, cioè all’immunità cellulare; malattie dovute prevalentemente a reazioni di tipo II o III, cioè all’azione patogena di autoanticorpi; malattie dovute a una combinazione di questi meccanismi) forse si sarebbe facilitati nell’analisi dei singoli pazienti. Per ora, d’altra parte, questo approccio non può essere adottato, sia perché le categorie nosologiche oggi affermate hanno alle spalle una tradizione storica che non può essere trascurata, sia perché le nostre conoscenze sulla patogenesi di queste malattie sono ancora troppo imperfette. È necessario, però, aggiungere qualcosa a proposito degli autoanticorpi che i pazienti affetti da connettiviti sistemiche hanno tendenza a produrre. Questi anticorpi sono diretti principalmente contro antigeni più facilmente riconosciuti dalle cellule B CD5+ (Cap. 68), ma sono di classe IgG e ad alta affinità. Pur nell’ambito di un’ampia variabilità nella produzione di questi autoanticorpi da paziente a paziente, ve ne sono alcuni che sono caratteristici (per specificità, non sempre per sensibilità) di alcune malattie. Per esempio, gli anticorpi anti-DNA nativo o anti-Sm nel lupus eritematoso sistemico, o anti-istidil-transfer RNA-sintetasi in alcune forme di polimiosite-dermatomiosite, o anticentromero nella sindrome CREST, o anti-Scl70 nella forma diffusa della sclerosi sistemica, o antiribonucleoproteine nella connettivite mista. Altri, pur poco specifici, sono però più frequenti in una di queste malattie piuttosto che in altre, come il fattore reumatoide nell’artrite reumatoide. Bisogna guardarsi dal concludere precipitosamente che questi autoanticorpi inducono le malattie attraverso un’azione sulle strutture cellulari verso le quali è stata dimostrata diretta la loro attività. Prendiamo il caso degli anticorpi anticentromero. Non esiste alcuna ragionevole possibilità che quella forma limitata alla sclerosi sistemica che è la sindrome CREST sia provocata da interferenze, dovute agli autoanticorpi, con l’attività di questo organulo cellulare. Anzi, è praticamente sicuro che questi anticorpi non possono nemmeno entrare nelle cellule integre. Si può, però, ipotizzare che altre strutture corporee posseggano dei motivi molecolari analoghi a quelli presenti nel centromero, e che sia a livello di queste strutture che gli autoanticorpi svolgano un’azione patogene-
tica. Il fatto che noi li dimostriamo reagire con il centromero di cellule morte e fissate è legato ai limiti delle nostre tecniche analitiche, che non riescono ancora a spingersi, a livello molecolare, a quella profondità che sarebbe necessaria per dimostrare l’azione che questi autoanticorpi esercitano in vivo su altri substrati. In molti casi, poi, gli autoanticorpi prodotti sono totalmente innocui e rappresentano solo un epifenomeno di un’attitudine dell’organismo a generare autoimmunità. Solo così si spiega il fatto che alcuni autoanticorpi, e in modo particolare gli anticorpi antinucleo e il fattore reumatoide, siano talvolta dimostrabili in soggetti indenni da qualsiasi manifestazione morbosa.
Lupus eritematoso sistemico (*) Il termine lupus fu storicamente impiegato per la prima volta per indicare una lesione al volto che, con una certa immaginazione, veniva considerata simile a quella provocata dal morso di un lupo. Per molto tempo tale termine fu applicato a tutta una serie di malattie dermatologiche tra le quali importante è la localizzazione tubercolare al volto (lupus volgare). Tra le altre forme una è abbastanza caratteristica: il lupus discoide. Alla fine del XIX secolo Kopes vide che in una certa percentuale dei casi tale forma di lupus cutaneo poteva accompagnarsi a un interessamento viscerale, riconoscendo così per la prima volta il lupus eritematoso sistemico (LES) così come è inteso oggi. Il LES è una malattia infiammatoria sistemica a estrinsecazione clinica polimorfa. È caratterizzato dalla presenza di autoanticorpi nei confronti di un gran numero di componenti tissutali, in particolare costituenti del nucleo cellulare. L’autoanticorpo più caratteristico è rivolto contro il DNA nativo. Il LES colpisce individui di tutte le razze, ha una netta predominanza femminile (8-9:1), insorgendo in età assai varia (da 0 a 76 anni) con un massimo di frequenza tra i 10 e i 40 anni. In diversi studi (non condotti in Italia) l’incidenza annua va da 1 a 10 nuovi casi per 100.000 abitanti e la prevalenza da 15 a 51 casi per 100.000. A. Eziologia. L’eziologia del LES non è nota, ma esistono indicazioni su un’eziologia polifattoriale in cui sono implicati fattori genetici, immunologici e probabilmente microbiologici (si veda Autoimmunità). 1. Fattori genetici. È ben nota una certa incidenza familiare e la presenza di anormalità immunologiche in parenti di pazienti affetti da LES (anticorpi antinucleo e false positività di reazioni per la lue, iper--globulinemia, ecc.). È stata evidenziata una notevole concordanza nell’insorgenza della malattia in gemelli monocoriali e l’associazione con deficit congeniti di frazioni complementari (soprattutto di C2). Dubbie sono le correlazioni con antigeni del sistema maggiore di istocompatibilità (DR2-DR3). (*) G.F. Ciboddo
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La deficienza del fattore C1q del complemento rappresenta il fattore geneticamente determinato che comporta il maggiore rischio di sviluppo di LES. È dubbio, invece, se nel LES esista un difetto, pure geneticamente determinato, della funzione di cellule regolatrici. Come si è visto, questo è importante nello sviluppo di sindromi poliendocrine nelle quali l’autoimmunità è mediata principalmente da linfociti e non da anticorpi, che sembrano invece i principali attori nella patogenesi del LES. 2. Fattori ambientali. Appare interessante il reperto di anticorpi antinucleo e di anticorpi leucocitotossici in una discreta percentuale di conviventi anche non consanguinei di soggetti affetti da LES. Tale dato avvalora la possibile importanza di fattori non genetici di trasmissione della malattia. In un terzo circa dei pazienti la comparsa del LES o una sua esacerbazione sono precedute da una prolungata esposizione al sole o ai raggi UV. È stato osservato che i raggi ultravioletti sono in grado di denaturare il DNA attraverso una dimerizzazione della timina dando origine a un derivato che a differenza del DNA nativo è antigenico. Infine appare interessante la possibile insorgenza di manifestazioni simillupiche a seguito dell’assunzione di alcuni farmaci tra cui i più importanti sono: idralazina, procainamide, -metildopa, PAS, anticonvulsivanti e D-penicillamina. Il quadro clinico di tali forme è assai simile a quello del lupus classico ma meno grave. Raro l’interessamento renale. La sierologia di tali pazienti è simile a quella del LES classico ma mancano gli anticorpi contro il DNA nativo. L’eziopatogenesi di tali forme non è chiara, si è tuttavia evidenziato che la maggioranza di tali soggetti è portatrice di un deficit dei sistemi di acetilazione a livello epatico (acetilatori lenti); ciò fa ipotizzare che l’azione lesiva del farmaco si esplichi su di un terreno geneticamente predisposto. 3. Azione dei virus. Non soltanto nei modelli animali, quali gli ibridi F1 di topi NZB/NZW e nelle forme spontanee del cane (Cap. 68), ma anche nell’uomo viene ipotizzato un ruolo importante da parte dei virus nell’eziologia del LES. Esistono evidenze epidemiologiche come la già descritta presenza di anticorpi antinucleo in familiari non consanguinei di pazienti affetti da LES e in personale di laboratorio che maneggia sieri di LES. Interessante è la presenza di anticorpi anti-RNA a doppia elica (presente in virus ma assente nell’uomo), l’elevazione dei titoli anticorpali nei confronti di alcuni virus (rosolia, paramixovirus, ecc.), il reperto di inclusi cellulari di tipo virale e la presenza di retrovirus di tipo C e RNA in estratti tissutali di pazienti con LES. 4. Ruolo degli ormoni sessuali. Il fatto che il LES sia nove volte più comune nelle donne che negli uomini appare in relazione con la capacità degli ormoni sessuali di modulare la risposta immunitaria, con effetti stimolatori da parte degli ormoni sessuali femminili e inibitori da parte di quelli maschili. Il meccanismo di
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azione non è chiaro, ma da studi effettuati nell’animale da esperimento e nell’uomo sembra che gli ormoni sessuali maschili favoriscano l’eliminazione degli immunocomplessi, al contrario di quelli femminili che la inibiscono. Inoltre nell’animale si è osservato che il testosterone aumenta la popolazione T soppressiva (Lyt 2+) a livello splenico e linfonodale, mentre gli estrogeni la riducono. Negli uomini e nelle donne affetti da LES si è osservata un’aumentata idrossilazione dell’estrogeno e dell’estrone a 16--idrossiestrone, che provoca una più prolungata stimolazione estrogena. B. Patogenesi e fisiopatologia. Si è visto che il deficit del fattore del complemento C1q rappresenta un importante fattore di rischio per lo sviluppo di LES. In topi nei quali è indotta una delezione del gene che codifica C1q si verifica una glomerulonefrite con depositi di complessi immuni e di corpi apoptotici nei glomeruli. Questa osservazione suggerisce che il disordine autoimmune in queste condizioni sia dovuto a una menomata capacità di eliminare i corpi apoptotici che fisiologicamente si vanno formando (si veda il Cap 68, Generalità sull’autoimmunità). Altre osservazioni confermano che questa menomazione è il meccanismo fondamentale alla base della patogenesi del LES. Il componente P dell’amiloide (SAP) ha un ruolo fisiologico nel legare e solubilizzare la cromatina esposta nella morte cellulare programmata e si lega ai corpi apoptotici. Topi nei quali è indotta una delezione del gene che codifica la SAP sviluppano spontaneamente anticorpi antinucleo e una grave glomerulonefrite. La conclusione è che, se per una o più tra varie possibili ragioni tra le quali il deficit di C1q o di SAP sono casi estremi, i corpi apototici derivanti dalla fisiologica morte di cellule che si rinnovano non sono smaltiti adeguatamente, ve ne sarà un numero aumentato a disposizione per l’interiorizzazione da parte delle cellule dendritiche e per l’avvio di una reazione autoimmune. Si è visto che questo non basta e che occorrono pure segnali di “pericolo”. Ma questi sono facili nella vita di tutti i giorni e, d’altro canto, è stato dimostrato che le cellule dendritiche possono maturare ed esporre adeguatamente gli autoantigeni, anche in assenza di segnali di “pericolo” esogeni, quando sono caricate con un numero elevato di corpi apoptotici. Questo modo di vedere la patogenesi del lupus è in accordo con vari dati sperimentali e clinici. Si è visto che macrofagi di un sottogruppo di pazienti affetti da LES, differenziati in vitro, dimostrano un notevole difetto nella fagocitosi dei corpi apoptotici. L’esposizione solare provoca apoptosi dei cheratinociti e quindi genera un numero maggiore di corpi apoptotici presentati per la fagocitosi da parte delle cellule di Langerhans, e questo è in accordo con il ruolo negativo che essa esercita nello sviluppo e nell’evoluzione del LES. Si aggiunga che le stesse reazioni immunopatologiche che hanno luogo nel LES generano segnali di “pericolo” che favoriscono la maturazione delle cellule dendritiche e la loro capacità di produrre reazioni autoimmuni in conseguenza dell’interiorizzazione di corpi apoptotici.
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Ne sono un esempio gli anticorpi antifosfolipidi che si legano ai corpi apoptotici opsonizzandoli. La fagocitosi di corpi apoptotici opsonizzati induce una massiva produzione di TNF- che aumenta l’immunogenicità degli autoantigeni che contengono. Un problema interessante nella patogenesi del LES è il ruolo dei linfociti T, le cellule primitivamente indotte dalle cellule dendritiche che presentano gli autoantigeni. Che la produzione di autoanticorpi in questa malattia sia dipendente da un ruolo “helper” delle cellule T nei riguardi di quelle B è non solo coerente con la spiegazione patogenetica qui sopra presentata, ma anche con il fatto che gli autoanticorpi trovati nel LES, per esempio quelli contro il DNA a doppio filamento, sono della classe IgG e ad alta affinità, caratteristiche che richiedono la cooperazione dei linfociti T con quelli B che li producono. D’altro canto, le cellule T riconoscono peptidi vincolati ad antigeni di istocompatibilità sulle cellule che presentano gli antigeni e non si vede perciò come possano riconoscere il DNA. La spiegazione è che le cellule T riconoscono in realtà peptidi derivati da proteine fisiologicamente collegate con il DNA. Cellule B dotate del recettore immunoglobulinico complementare al DNA nativo interiorizzano in realtà non solo questo, ma anche le proteine che vi sono collegate: possono perciò ricevere l’aiuto di linfociti T che riconoscono peptidi derivati da queste proteine. Infatti, si è visto che nella risposta antinucleosomi (particelle che contengono aggregati di antigeni nucleari) gli epitopi specifici per le cellule B sono collocati sul DNA, mentre quelli specifici per le cellule T appartengono agli istoni. La presenza di diversi tipi di autoanticorpi è la caratteristica principale del LES. Tra questi sono molto importanti quelli diretti contro antigeni nucleari (ANA o ANF). Tali autoanticorpi sono di diverso tipo e reagiscono contro antigeni presenti nel nucleo. Caratteristici sono quelli rivolti contro il DNA nativo (double strandeddsDNA). Son pure presenti anticorpi rivolti contro il DNA denaturato (single stranded-ssDNA), le nucleoproteine, gli istoni, ecc. (per i dettagli, si veda in seguito). Esistono poi altri autoanticorpi diretti contro antigeni citoplasmatici (RNA, ribosomi, altri antigeni proteici e lipidici), fattori della coagulazione (lupus anticoagulants), emazie, linfociti, piastrine, specifici antigeni tissutali (tiroidei, epatici, surrenali, gastrici, muscolari, ecc.). Grazie allo studio della reattività di anticorpi monoclonali, ottenuti da ibridomi derivati da linfociti di pazienti con LES, recentemente è stato dimostrato che un singolo autoanticorpo è in grado di reagire con diversi antigeni. È stato così osservato che alcuni autoanticorpi si legano sia ad acidi nucleici che a fosfolipidi (come la cardiolipina della reazione di Wasserman) e a fattori della coagulazione interagendo con strutture lipoproteiche simili. Tali studi spiegano almeno in parte il polimorfismo delle reazioni autoanticorpali. Una volta si pensava che gli autoanticorpi, in particolare quelli rivolti contro i fattori nucleari, potessero avere un effetto citolesivo diretto, oggi si sa che gli autoanticorpi non sono in grado di penetrare nelle cellule viventi in quanto bloccati dalla membrana esterna. Tut-
tavia tali autoanticorpi sono molto importanti nella patogenesi del LES in quanto si legano al DNA delle cellule in disfacimento formando complessi antigene-anticorpo. Tali complessi possono depositarsi in varie sedi, quali le membrane basali glomerulari e i capillari, determinando l’attivazione del complemento e i danni caratteristici di una malattia da immunocomplessi (si veda Reazioni immunologiche di III tipo, Cap. 68). Mentre la maggior parte degli eventi lesivi provocati dal LES sono dovuti agli immunocomplessi, alcuni autoanticorpi agiscono direttamente, quali quelli rivolti contro determinanti antigenici del sistema Rh presenti sugli eritrociti, che provocano anemia emolitica autoimmune (si veda Reazione di II tipo, Cap. 68) e quelli rivolti contro fattori della coagulazione, che determinano un’interferenza con la loro funzione biologica (si veda Reazione di V tipo, Cap. 68). C. Clinica. Il LES di solito si manifesta tra il 2° e il 4° decennio di vita ma è stato descritto ad ogni età. Il soggetto più frequentemente colpito è una donna in età fertile. I sintomi costituzionali sono comuni e comprendono: febbre, astenia, perdita di peso, anoressia, malessere generalizzato. La febbre può essere di diverso tipo: più spesso è assai elevata, intermittente o remittente, talora però è moderata o addirittura una febbricola. Il quadro clinico riflette comunque l’interessamento di uno o più dei seguenti sistemi: apparato muscolo-scheletrico, rene, cute, sangue, sistema nervoso. Di solito gli apparati colpiti per primi tendono a rimanere quelli più interessati durante tutto il decorso della malattia. La frequenza delle più comuni manifestazioni cliniche nel LES è mostrata nella tabella 69.8. 1. Manifestazioni osteoarticolari. L’interessamento articolare è una delle più comuni manifestazioni del LES (92%). All’esordio il quadro clinico è quello di un’artralgia più che di una vera e propria artrite, la quale può comparire durante il decorso della malattia. Tabella 69.8 - Principali manifestazioni cliniche presenti durante il decorso clinico del LES (520 casi). % Artrite e artralgie Febbre Cellule LE positive Manifestazioni dermatologiche Linfadenopatia Anemia (< 11,0 g/dl) Anoressia, nausea, vomito Disprotidemia Mialgie Interessamento renale Pleurite Leucopenia Pericardite Interessamento del SNC Fenomeno di Raynaud
91,6 83,6 75,7 71,5 58,6 56,5 53,2 53,0 48,2 46,1 45,0 42,6 30,5 25,5 18,0
(Da Dubois, Lupus Erythematosus, 3ª ed., Lea & Febiger, 1987.)
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Di solito l’interessamento è simmetrico. In ordine di frequenza le articolazioni più colpite sono le interfalangee prossimali (82%) e le metacarpofalangee (76%) seguite da polsi e ginocchia. Meno spesso colpiti gomiti, caviglie e spalle. Il liquido sinoviale mostra un reperto scarsamente infiammatorio: colore limpido, conta leucocitaria con meno di 3.000 cellule/mm3 (prevalentemente linfociti), riduzione delle frazioni del complemento. Tra le altre manifestazioni a carico del sistema muscolo-scheletrico importanti sono le mialgie presenti circa nella metà dei pazienti; hanno un reperto anatomopatologico aspecifico e regrediscono prontamente sotto terapia steroidea. Va infine segnalata una notevole incidenza di necrosi asettica della testa del femore soprattutto nei pazienti sottoposti a terapia steroidea. 2. Manifestazioni dermatologiche. La lesione più caratteristica (52%) è un eritema detto “a farfalla” in quanto colpisce gli zigomi e la porzione superiore delle guance passando a ponte sul dorso del naso. Altre lesioni comuni sono: un’alopecia a chiazze (70%), un rash maculopapuloso che compare soprattutto dopo esposizione al sole nelle aree esposte: volto, collo, mani. Talora è presente una vasculite dermica e mucosa con ulcerazioni (20%) e piccoli infarti specie alle estremità distali delle dita. Tra le alterazioni meno frequenti vi sono distrofie ungueali accompagnate da teleangectasie (15%), lesioni bollose, livedo reticularis e porpora. Importante è il fenomeno di Raynaud che colpisce circa il 20% dei pazienti. È caratterizzato da un’importante vasocostrizione delle dita (soprattutto delle mani) dopo esposizione al freddo (fase di pallore) seguita da paralisi capillare con ristagno di sangue (fase di cianosi) e successiva risoluzione con ritorno alla normalità. Quando però tale fenomeno si ripete frequentemente si possono verificare danni irreversibili. Comuni sono le lesioni delle membrane mucose (afte) che si manifestano come piccole ulcere superficiali non dolenti site a livello del cavo orale (specie sul palato) e della mucosa nasale. Infine è necessario ricordare che il lupus discoide cronico eccezionalmente può evolvere nella forma sistemica. Tale malattia è caratterizzata da lesioni tondeggianti con un’area eritematosa alla periferia ed al centro ipercheratosi, teleangectasie ed atrofia. Tipicamente si localizza al capo, collo e arti superiori. 3. Interessamento renale. È presente in modo evidente dal punto di vista clinico nel 50% circa dei pazienti. Spesso è una delle manifestazioni più gravi della malattia. I quadri di interessamento renale sono i più svariati. Talora sono presenti solo anomalie isolate (lievi proteinuria e cilindruria), talora ematuria massiva, proteinuria importante fino alla sindrome nefrosica e all’insufficienza renale. I pazienti con esame delle urine persistentemente alterato, ipo-complementemia e alti titoli di anticorpi anti-DNA nativo sono esposti ad alto rischio di grave glomerulonefrite e devono essere perciò seguiti con grande attenzione.
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Dal punto di vista anatomo-patologico le lesioni renali in corso di LES sono state classificate in: glomerulonefrite focale (mesangiale), glomerulonefrite diffusa, nefropatia lupica membranosa. Non si deve poi trascurare l’elevata incidenza di infezioni delle vie urinarie nei pazienti portatori di LES. (Per i singoli quadri clinici, si veda Nefrologia.) 4. Interessamento del sistema nervoso. I danni a carico del sistema nervoso centrale sono più comuni e più gravi di quelli a carico del sistema nervoso periferico. Le manifestazioni più frequenti sono: psicosi organiche e convulsioni presenti nel 15% circa dei pazienti. A carico del periferico sono possibili interessamenti di nervi differenti con disturbi sensori-motori nel quadro di una mononeurite multipla. Tali disturbi sono dovuti a una vasculite dei vasa nervorum. Meno spesso può essere presente una sindrome di Guillain-Barré. 5. Manifestazioni cardiache e polmonari. Assai comuni sono pericardite e pleurite (tra il 20 e il 40% dei pazienti). Importanti, seppure non molto comuni, sono miocarditi e infarti miocardici da vasculite coronarica. Assai comune, anche se per lo più asintomatica, l’endocardite verrucosa detta di Libman-Sacks che si caratterizza per la presenza di piccole vegetazioni verrucose, piuttosto piatte, site non solo nelle valvole ma anche nell’endocardio parietale, spesso anche nel cuore destro. Raro l’interessamento polmonare caratterizzato da infiltrati interstiziali (polmonite lupica) e talora fibrosi polmonare. Recentemente è stato dimostrato che figli di pazienti affette da LES o altre connettivopatie con presenza in circolo di anticorpi detti anti-Ro (corrispondenti a SSA, pag. 1404) possono presentare un blocco atrioventricolare congenito. 6. Altre manifestazioni. Comuni le tumefazioni linfonodali (60%) usualmente generalizzate, di solito non dolenti. Rara la splenomegalia (10%). Epatomegalia è presente in un quarto circa dei pazienti ma una vera epatite lupica è rara. Non comuni le manifestazioni gastroenteriche per lo più causate da arterite mesenterica con quadri che mimano un addome acuto chirurgico. Possibili congiuntivi, episcleriti, tumefazioni parotidee. Nel LES, un’accelerata aterosclerosi è stata dimostrata con vari mezzi anche in donne giovani. Con uno studio ultrasonografico sulle carotidi si è visto che, indipendentemente dall’età, le donne affette da LES avevano un rischio relativo di aterosclerosi cinque volte superiore rispetto alle donne sane e che, per quelle di età inferiore ai 45 anni, questo rischio saliva a un valore di 50. D. Esami di laboratorio. È generalmente presente una modesta anemia normocitica normocromica (da malattia cronica), più raramente un’anemia emolitica autoimmune da anticorpi incompleti caldi la cui specificità è rivolta nel 70-80% dei casi contro antigeni del sistema Rh (generalmente anti-E, raramente anti-D). Assai frequente è una leucopenia (60% dei casi) spesso con linfopenia relativa. È possibile una trombocitopenia per la presenza di anticorpi antipiastrine, riduzione dell’attività protrombinica e prolungamento del tempo di trom-
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boplastina parziale per la presenza di anticoagulanti circolanti. Comune (un quarto dei casi) la falsa positività sierologica per la sifilide. Tale positività si evidenzia con i test più aspecifici (VDRL, Wasserman) e non con quelli più specifici (Nelson, FTA, TPHA). Questo fenomeno è correlato alla presenza di anticorpi antifosfolipidi. Pressoché costante l’aumento della VES. All’elettroforesi si evidenzia un aumento delle 2 e delle -globuline con inversione del rapporto albumine/globuline. Talora può essere presente una positività per il fattore reumatoide che è un particolare autoanticorpo diretto contro la regione Fc delle IgG: esso è più caratteristico di un’altra malattia a patogenesi immunitaria, l’artrite reumatoide, trattata a fondo nel capitolo 70. Non rara è la presenza di crioglobuline del tipo misto IgG-IgM (11%) (si veda anche pag. 1425-1426). Nelle fasi di esacerbazione della malattia è caratteristica una riduzione dell’attività emolitica del complemento (CH50) e delle frazioni C3 e C4. Ciò indica un’attivazione di tale sistema per la via classica dovuto alla presenza in circolo di immunocomplessi e in effetti nelle fasi acute è possibile trovare immunocomplessi in circolo seppure con metodiche non di routine. Secondo alcuni Autori il dosaggio di fattori del complemento è un metodo utile per valutare la risposta alla terapia o per riconoscere precocemente le esacerbazioni. Nella metà circa dei pazienti esistono alterazioni dell’esame delle urine e delle prove di funzionalità renale. Quando il danno renale è lieve si evidenzia solo una modesta proteinuria e un’ematuria microscopica. Nelle forme più gravi si può riscontrare una proteinuria significativamente elevata, nel sedimento si possono trovare molte emazie, leucociti e cilindri (soprattutto eritrocitari): si parla in questo caso di sedimento telescopico. Generalmente, in presenza di tali reperti si avrà un’alterazione della clearance della creatinina e degli altri parametri di funzionalità renale. 1. Anticorpi antinucleo. Consideriamo per ultimo ma in modo più approfondito l’esame di maggiore importanza per porre diagnosi di LES: il riscontro di anticorpi o fattori antinucleari (ANF o ANA). Esistono diversi metodi per evidenziare tali fattori.
• Fenomeno LE. Si tratta della metodica usata da più tempo per mettere in evidenza un tipo di anticorpi antinucleo. Tale fenomeno si verifica quando cellule fagocitanti (granulociti neutrofili o monociti) inglobano residui nucleari di altri leucociti precedentemente opsonizzati da anticorpi antidesossi-ribonucleoproteine. Ciò può avvenire spontaneamente (raramente) o essere ottenuto artificialmente in laboratorio (mediante danneggiamento delle cellule o incubazione). Tale test è oggi poco usato in quanto scarsamente sensibile e di non semplice esecuzione. La ricerca degli anticorpi antidesossi-ribonucleoproteine può oggi essere effettuata in modo più preciso grazie alla disponibilità di un metodo radioimmunologico. • ANA in immunofluorescenza. La ricerca degli ANA mediante una metodica di immunofluorescenza indiretta è oggi il test più usato per la maggiore semplicità e sensibilità (Fig. 69.4). Come substrato si utilizza una sezione di un tessuto ricco di nuclei (fegato di ratto, esofago di scimmia, ecc.) o colture di popolazioni cellulari umane (WIL-2, HEP-2). Si pone poi a contatto il siero del paziente e, dopo un periodo di incubazione, lo si lava via. Si incuba poi il tessuto con un antisiero anti-immunoglobuline umane marcato con fluoresceina. Dopo un nuovo lavaggio verrà effettuata la lettura al microscopio a fluorescenza. Si coloreranno solo i nuclei dei preparati trattati con siero di pazienti che hanno in circolo anticorpi antinucleo. Il tipo di colorazione evidenziato al microscopio (“pattern”) può essere vario. Gli aspetti più comuni sono: • omogeneo, di solito dovuto alla presenza di anticorpi antidesossi-ribonucleoproteine; • periferico, indica una predominanza di anticorpi anti-DNA; • granulare (“speckled”), è associato ad anticorpi rivolti contro nucleoproteine estraibili in acqua; • nucleolare, è dovuto alla presenza di anticorpi antiribonucleoproteine nucleari. • Anticorpi anti-DNA. Esiste la possibilità di ricercare la presenza di anticorpi rivolti sia contro il DNA nativo
Siero contenente ANA
Antisiero fluorescente
Nucleo Tessuto fissato
Lettura in fluorescenza
Pattern di colorazione
Omogeneo
Periferico
Figura 69.4 - Esecuzione del test degli anticorpi in fluorescenza.
Nucleolare
Speckled
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che il DNA denaturato con immunoprecipitazione in agar o con un radioimmunoassay (quest’ultima metodica permette una valutazione anche quantitativa). Recentemente è stata messa a punto una metodica che permette di evidenziare tali anticorpi in fluorescenza utilizzando come substrato un flagellato: la Crithi ia luciliae che contiene in un cinetoplasto distinto dal nucleo un anello di DNA puro. La colorazione di tale anello indica la presenza di anticorpi anti-DNA. L’evidenziazione di tali anticorpi è importante in quanto sono presenti quasi esclusivamente nel LES: un aumento del loro titolo può precedere un’esacerbazione della malattia. • Anticorpi antistoni. Gli istoni sono proteine basiche componenti integrali del nucleo cellulare. Nel LES tali autoanticorpi si accompagnano agli anti-DNA. Nel lupus da farmaci possono comparire isolatamente ed essere evidenziati con metodiche di immunofluorescenza o meglio radioimmunologiche. • Anticorpi anti-ENA (1). Sono gli stessi che in fluorescenza danno un quadro di tipo “speckled”, possono essere caratterizzati mediante immunodiffusione in agar e controimmunoelettroforesi. I più importanti sono: • anti-Sm (una macroproteina acida), caratteristici del LES; • anti-RNP (ribonucleoproteina nucleare), sono presenti in alto titolo nella collagenopatia mista, a basso titolo nel LES; • anti-SSA e anti-SSB (2) presenti nel 50% dei pazienti portatori di sindrome di Sjögren. La presenza di anticorpi antinucleo, pur essendo assai indicativa di LES non è tuttavia assolutamente specifica in quanto tale reperto può essere presente anche in altre malattie (Tab. 69.9). E. Diagnosi. Di solito si basa sulla presenza di un insieme di sintomi e segni caratteristici accompagnati da una sierologia adeguata (ANF+). Talora può essere difficile in quanto il LES è una malattia assai polimorfa. Perciò l’associazione dei reumatologi americani (ARA) ha proposto una serie di criteri atti a facilitare l’inquadramento diagnostico. Tali criteri sono riportati nella tabella 69.10. La diagnosi di LES sarebbe sicura in presenza di quattro o più criteri anche non contemporaneamente. La diagnosi differenziale si pone soprattutto nei confronti delle altre malattie reumatiche: artrite reumatoide, sclerodermia, sindrome di Sjögren, vasculiti, connettivopatia mista. Tale ultima malattia si differenzia per la presenza di segni cutanei di sclerodermia, miosite attiva, assenza di gravi danni a carico dei reni e del sistema nervoso.
(1) Anticorpi anti-ENA: sono rivolti contro antigeni nucleari estraibili in tamponi acquosi. (Prendono il loro nome dall’inglese Extractable Nuclear Antigens = ENA). (2) Anti-SSA e SSB prendono il nome dalla sindrome di Sjögren (pag. 1416) in cui vengono trovati con una notevole frequenza. Talora si possono riscontrare nel LES, specie se associato a tale sindrome.
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Tabella 69.9 - Malattie in cui è possibile il riscontro di ANA positivi. • Malattie immunopatologiche – Lupus eritematoso sistemico – Artrite reumatoide – Sclerodermia – Polimiosite – Sindrome di Sjögren – Epatite cronica attiva • Malattie linfoproliferative e altre neoplasie • Malattie polmonari – Alveolite fibrosante – Bronchite cronica – Tubercolosi – Istoplasmosi • Condizioni varie – Tiroidite di Hashimoto – Anemia perniciosa – Colite ulcerosa – Glomerulonefrite cronica – Lebbra lepromatosa – Myasthenia gravis – Tromboflebite ricorrente – Mononucleosi infettiva – Anemia emolitica autoimmune idiopatica – Uso di alcuni farmaci – Invecchiamento Tabella 69.10 - Criteri ARA per la diagnosi del LES. Per la diagnosi sono necessari quattro o più criteri presenti anche non contemporaneamente 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.
Rash malare Lupus discoide Fotosensibilità Ulcere orali (osservate da un medico) Artrite non erosiva (di 2 o più articolazioni periferiche) Sierosite (pleurite o pericardite) Interessamento renale (proteinuria > 0,5 g/die o cilindruria) Interessamento neurologico (convulsioni o psicosi) Interessamento ematologico (anemia emolitica o leucopenia < 4000/mm3 o linfopenia < 1500/mm3 o piastrinopenia < 100.000/mm3) Disturbi immunologici (fenomeno LE positivo o antidsDNA positivo o anti-Sm positivo o falsa positività per la lue per almeno 6 mesi) Anticorpi antinucleo positivi (in assenza dell’uso di farmaci che possano positivizzare tale fenomeno)
Importante riconoscere il LES da farmaci in cui la cessazione dell’uso del farmaco può portare ad una graduale remissione della malattia. F. Decorso e prognosi. Con l’uso di un’appropriata terapia la prognosi è assai migliorata e attualmente la sopravvivenza media è attorno agli 8-10 anni dalla diagnosi. In alcuni casi il decorso è benigno, soprattutto quando sono risparmiati gli organi vitali, in altri casi è rapidamente ingravescente. Spesso è caratterizzato da esacerbazioni e remissioni. È perciò importante nei pazienti affetti da LES un attento monitoraggio di alcuni
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parametri (VES, complementemia, ANF e anti-DNA, esame urine) per poter prevenire o almeno trattare precocemente le recidive. Grave è l’interessamento renale e del SNC. Le cause più comuni di morte sono: uremia, scompenso cardiaco, emorragie, infezioni, lesione al SNC. G. Terapia. La terapia del LES, dal momento che non è nota la causa di tale malattia, è di tipo patogenetico e sintomatico: è determinata in parte dagli organi interessati, in parte della gravità del loro interessamento. Non ha infatti senso curare una nefropatia minima o lieve nello stesso modo di una grave, o una lieve anemia come una grave anemia emolitica. In molti pazienti la malattia viene diagnosticata in una fase precoce quando gli unici segni di malattia sono un’artrite ed un rash a farfalla. Il laboratorio può aiutare a capire se tale forma rischia di evolvere rapidamente verso una fase più avanzata. Un basso livello di C3 e alti titoli di anticorpi anti-DNA nativo sono in genere considerati fattori prognostici negativi ed implicano un trattamento aggressivo. 1. Terapia delle forme lievi. Nei pazienti in cui la malattia non appaia aggressiva e in cui l’interessamento sia limitato alle articolazioni, alla cute e alle sierose, si può iniziare un trattamento con antinfiammatori non steroidei (acido acetilsalicilico, indometacina o altri) e antimalarici di sintesi: clorochina 125-250 mg/die o a giorni alterni oppure idrossiclorochina 200-400 mg/die. Benché tale terapia sia in genere ben tollerata, è bene ricordare il rischo di tossicità retinica per il quale è necessario effettuare periodici esami oculistici con i test di acuità visiva, visione dei colori e campimetria. Al segno anche minimo di alterazione della funzione visiva è necessario sospendere immediatamente la terapia. Nei casi che non rispondono a tale regime terapeutico è necessario utilizzare gli steroidi. Si può iniziare con una dose di 0,5 mg/kg/die di prednisone o con una dose equivalente di un altro steroide. Essa andrà poi ridotta lentamente fino ad arrivare alla dose minima che permetta il controllo della sintomatologia e la normalizzazione dei parametri di laboratorio; quando possibile si cercherà di sospendere la terapia. 2. Terapia delle forme gravi. Nei pazienti con interessamento acuto di organi o sistemi importanti è necessaria una terapia steroidea immediata e aggressiva: 1-2 mg/kg/die di prednisone che si cercherà comunque di ridurre appena la fase critica sia superata. Se possibile, si può ricorrere alla terapia a giorni alterni, che è in grado di ridurre alcuni dei numerosi effetti collaterali della terapia steroidea a lungo termine: cataratta, glaucoma, ipertensione, ulcera peptica, aspetto cushingoide, acne, ritenzione di sodio, bilancio negativo per il calcio, il potassio e le sostanze azotate, osteoporosi, necrosi asettica della testa del femore, miopatia, convulsioni, psicosi, aumentata suscettibilità alle infezioni, ecc. Talora si ha una buona risposta terapeutica con le più alte dosi di corticosteroidi antinfiammatori, ma la situazione peggiora quando si cala la dose, cercando di passa-
re a un dosaggio di mantenimento. La prosecuzione per periodi molto prolungati di un trattamento steroideo a dosi elevate non è raccomandabile perché induce invariabilmente una sindrome di Cushing iatrogenica. In questi casi vale la pena di associare al trattamento cortisonico un citostatico, come l’azatioprina (100 mg/die), che è poco tossica (rare reazioni idiosincrasiche a carico del fegato indicate da un aumento delle transaminasi) e ha spesso un effetto di risparmio sulle dosi di corticosteroidi. Nel caso che questo non bastasse, e comunque fin dall’inizio nelle forme con grave e rapido danno renale, occorre associare al trattamento cortisonico il più potente immunodepressore ciclofosfamide. Non entriamo nei dettagli delle dosi e delle modalità di somministrazione di questo farmaco per le quali rimandiamo ai testi specialistici, ma ricordiamo che si tratta di un alchilante, dotato quindi di azione mutagena che può provocare neoplasie vescicali (contro le quali esistono però misure protettive) e, se impiegato a lungo, facilitare l’insorgenza di linfomi e leucemie. Inoltre, può provocare sterilità in donne giovani (rischio ridotto fermando l’ovulazione con estro-progestinici). Perciò, si è cercato di impiegare la ciclofosfamide solamente come terapia di induzione e non come mantenimento. Tuttavia, in uno studio della Clinica Mayo, si è visto che i vantaggi dell’induzione con ciclofosfamide svaniscono con il tempo se il mantenimento viene proseguito solo con corticosteroidi. Perciò sono stati studiati protocolli nei quali, all’induzione con steroide e ciclofosfamide, segue un mantenimento sempre con steroide e con questo stesso farmaco somministrato in boli ogni 3 mesi. Alternativamente si è provato a sostituire la ciclofosfamide nella terapia di mantenimento con altri citostatici meno pericolosi, come l’azatioprina e il micofenolato mofetile. Studi comparativi di questi tre tipi di trattamento avrebbero dimostrato che essi sono equivalenti per quanto riguarda l’evoluzione della funzione renale, ma che la sopravvivenza libera da eventi morbosi sovrapposti è significativamente migliore nei pazienti trattati con azatioprina o micofenolato mofetile piuttosto che con ciclofosfamide. Altre terapie che trovano una sicura indicazione in alcuni particolari casi di LES sono i boli di steroidi (di solito 1 g di 6-metilprednisolone da ripetere per 3 giorni consecutivi) e la plasmaferesi che è in genere associata alla terapia steroidea e con ciclofosfamide.
Sindrome da anticorpi antifosfolipidi Gli anticorpi antifosfolipidi sono una famiglia eterogenea di autoanticorpi, con un ampio ambito di specificità e affinità, accomunati dal fatto di riconoscere fosfolipidi, proteine legate a fosfolipidi o entrambi questi tipi di molecole. Si parla di sindrome da anticorpi antifosfolipidi quando questi provocano sintomi e segni dovuti a uno stato di ipercoagulabilità. Gli anticorpi antifosfolipidi sono in realtà conosciuti dal 1906 quando si dimostrò che nel siero sanguigno di soggetti affetti da sifilide esistevano anticorpi diretti contro la cardiolipina, un fosfolipide mitocondriale pre-
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sente in estratti di cuore bovino. Questa fu la base della reazione Wassermann e poi della VDRL (Venereal Disease Research Laboratory), tradizionalmente impiegate per la diagnosi di sifilide. Il diffuso impiego di queste reazioni dimostrò la possibile presenza di false positività e si notò che queste erano più comuni in malattie autoimmuni sistemiche, come il LES. Nel 1983 fu sviluppato un immunoassay su base solida per la dimostrazione degli anticorpi anticardiolipina, un test varie centinaia di volte più sensibile della VDRL, e si vide che esistevano molti più casi di positività in pazienti non affetti da sifilide di quanto si pensasse e che questi si trovavano particolarmente in soggetti inclini a fenomeni trombotici. Nel frattempo era stato scoperto l’anticoagulante circolante tipo lupus, ossia un fattore presente nel siero sanguigno, più comune in pazienti affetti da LES, che allungava in vitro il tempo di tromboplastina parziale di soggetti normali. Si osservò l’esistenza di una forte associazione, anche se non una perfetta coincidenza, tra la presenza di anticorpi anticardiolipina e dell’anticoagulante circolante tipo lupus, che evidentemente deve la sua azione ad anticorpi lievemente diversi. Nel 1990 si vide che alcuni anticorpi anticardiolipina possono reagire con questo bersaglio solo se nel plasma è presente la 2-glicoproteina I, una molecola legata ai fosfolipidi. Questo non vale per gli anticorpi anticardiolipina presenti nella sifilide che reagiscono indipendentemente dalla presenza di questa molecola (anzi, la loro reattività viene inibita). Perciò, a differenza che nella sifilide, gli anticorpi anticardiolipina di significato autoimmune sono in realtà diretti contro il complesso fosfolipidi-2-glicoproteina I o, addirittura, contro questa molecola proteica, anche in assenza di fosfolipidi. Come si è accennato, la sindrome da anticorpi antifosfolipidi si può verificare nel corso di una malattia autoimmune sistemica, e allora è definita secondaria, o isolatamente, e allora è chiamata primaria. Si può parlare di questa sindrome quando esiste almeno uno tra i due seguenti problemi clinici, trombosi vascolari e complicanze della gravidanza, e simultaneamente almeno una tra le seguenti positività di indagini di laboratorio, anticorpi anticardiolipina e anticoagulante circolante tipo lupus. A. Patogenesi. Non è ancora del tutto chiaro perché gli anticorpi che in vitro presentano un’attività anticoagulante, abbiano invece in vivo un effetto favorente le trombosi. Sono state formulate in proposito diverse ipotesi e tra queste prenderemo in considerazione le più accreditate. Alcuni Autori hanno proposto che gli anticorpi antifosfolipidi si leghino alle membrane delle cellule endoteliali: in tal modo bloccherebbero il rilascio dell’acido arachidonico con conseguente calo nella produzione di prostacicline, facilitazione all’aggregazione piastrinica e successiva trombosi. Altri Autori hanno suggerito che gli anticoagulanti tipo lupus possano ridurre la fibrinolisi inibendo l’attività precallicreinica. Un’altra possibilità è rappresentata dal possibile legame con i fosfolipidi presenti sulle membrane delle pia-
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strine con conseguente attivazione e aggregazione piastrinica. Tale processo potrebbe portare a un’aumentata distruzione piastrinica da parte del sistema reticolo-endoteliale con conseguente piastrinopenia. Più convincente delle altre ipotesi è la possibilità che gli anticorpi antifosfolipidi interferiscano con la funzione della proteina C nella degradazione dei fattori della coagulazione. La proteina C è convertita a serina proteinasi dalla trombina, per la quale la trombomodulina, derivata dalle membrane delle cellule endoteliali, è un cofattore. In presenza di proteina S e fosfolipidi, questa proteasi degrada i fattori della coagulazione Va e VIIIa: poiché gli anticorpi antisfolipidi si legano sia alla trombomodulina che ai fosfolipidi, appare evidente come possano interferire con questa via e così promuovere la coagulazione. Avvalora questa ipotesi il reperto che la cardiolipina può facilitare l’attivazione della proteina C, effetto che può essere neutralizzato da un anticorpo ad attività anticoagulante lupica. B. Clinica. La patologia più classica è quella trombotica, che può essere sia arteriosa che venosa. A livello venoso le localizzazioni più importanti sono: le vene profonde delle gambe, le vene retiniche, la vena cava superiore e inferiore, la vena sovraepatica (con la possibilità di sviluppo della sindrome di BuddChiari). A seguito di interessamento arterioso sono stati descritti ictus o attacchi ischemici transitori, trombosi dell’aorta, delle arterie retiniche, brachiali, femorali o di altri distretti. Trombosi delle arterie coronarie possono determinare quadri di infarto miocardico, mentre l’ipertensione polmonare può essere dovuta a fatti trombotici intrapolmonari oppure a ripetute piccole embolie polmonari. Possibile l’interessamento del sistema nervoso centrale: sono segnalati casi di corea, epilessia, neurite ottica, sindrome di Guillain-Barré. A livello cutaneo si può osservare un quadro particolare detto livedo reticularis caratterizzato da una marezzatura reticolare di colorito cianotico. Spesso si ha un interessamento di piccoli vasi con un quadro clinico indistinguibile da quello della sindrome emolitico-uremica o della porpora trombotica trombocitopenica e altre forme di microangiopatia trombotica (sclerodermia, ipertensione maligna). L’occlusione dei piccoli vasi, se avviene lentamente nel tempo, può determinare un processo cronico con progressiva perdita della funzione di vari organi. È piuttosto comune la presenza di anomalie valvolari cardiache (fino al 60% circa dei pazienti con sindrome da anticorpi antifosfolipidi), che per lo più sono di modesto significato clinico, ma che, in alcuni casi (4%), portano alla formazione di vegetazioni sulle valvole mitrale o aortica che possono dare origine a embolie cerebrali. Altre manifestazioni possibili sono la piastrinopenia, l’anemia emolitica (che è microangiopatica e che, combinata con la piastrinopenia, simula la microangiopatia trombotica) e l’ipertensione reno-vascolare. Una particolare considerazione meritano i problemi ostetrici. Questi sono rappresentati più spesso da aborti
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ricorrenti per morte di feti morfologicamente normali dopo la decima settimana di gestazione, ma anche da aborti che avvengono nel periodo pre-embrionale (meno di 6 settimane) o embrionale (da 6 a 9 settimane). La gravidanza in donne con sindrome da anticorpi antifosfolipidi può essere anche complicata da parti prematuri, dovuti a ipertensione materna o a insufficienza uteroplacentare. Una forma particolarmente grave di questa malattia è rappresentata dalla sindrome catastrofica da anticorpi antifosfolipidi. Di solito le trombosi caratteristiche di questa malattia si verificano episodicamente e una alla volta. Esistono però casi nei quali molte trombosi avvengono simultaneamente e determinano quadri clinici gravi che possono anche minacciare la vita. Si chiama catastrofica la sindrome quando almeno tre organi sono colpiti da trombosi simultaneamente in un periodo di giorni o poche settimane. L’organo più comunemente colpito è il rene (in uno studio il 78% dei pazienti dei quali circa un quarto richiede la dialisi), seguito dai polmoni (66%), dal sistema nervoso centrale (56%), dal cuore (50%) e dalla pelle (50%). È anche possibile un interessamento microvascolare che porta rapidamente a insufficienza di vari organi. La mortalità è di circa il 50%. C. Esami di laboratorio. In genere si evidenziano alterazioni degli esami della coagulazione: PT e PTT, che, come si è detto precedentemente, non sono correggibili con l’aggiunta di plasma fresco. Spesso è presente piastrinopenia e test di Coombs positivo a basso titolo. L’esame più importante dal punto di vista diagnostico è la ricerca diretta degli anticorpi antifosfolipidi che può essere effettuata con metodica radioimmunologica o, più recentemente, immunoenzimatica. È importante che vengano dosati gli anticorpi anticardiolipina sia della classe IgM che della classe IgG. I secondi sono collegati più dei primi a trombosi non solo venose, ma anche arteriose e, se ad alto titolo e associati alla presenza di anticoagulante circolante tipo lupus, sono considerati un indice di pericolo particolare di episodi trombotici. D. Terapia. È discutibile se in soggetti con positività degli anticorpi anticardiolipina, ma che non hanno mai avuto episodi trombotici, sia necessario attuare una profilassi con aspirina. Viene consigliato, però, di farlo in donne che hanno avuto aborti. Qualora vi siano stati episodi trombotici, una terapia con anticoagulante orale è indicata, anche se non è ben chiaro se deve essere effettuata con intensità intermedia (INR tra 2,0 e 2,9) o con alta intensità (INR 3 o più). La seconda dà maggiori garanzie di prevenzione di trombosi, ma espone a un rischio maggiore di emorragie, tenendo conto che questo è un trattamento che deve essere proseguito per tutta la vita e che esistono difficoltà di monitoraggio per la potenziale interferenza degli anticorpi antifosfolipidi nei test di laboratorio relativi alla coagulazione È possibile prevenire gli aborti in un’elevata percentuale di casi trattandole donne gravide con aspirina associata a eparina, efficace anche se a basso peso mole-
colare. Infine, nella sindrome catastrofica da anticorpi antifosfolipidi si è dimostrato efficace, nel 70% dei casi, un trattamento combinato con anticoagulanti e cortisonici in associazione o con la plasmaferesi o con immunoglobuline endovena.
Polimiosite-dermatomiosite (*) La polimiosite (PM) è una sindrome a eziologia ignota caratterizzata da infiammazione cronica diffusa non suppurativa dei muscoli striati con ipostenia muscolare prossimale, talora accompagnata da interessamento cutaneo con eritema (dermatomiosite, DM). Esistono diverse forme di malattia così classificate. • • • • •
Gruppo I Gruppo II Gruppo III Gruppo IV Gruppo V
PM idiopatica dell’adulto. DM idiopatica dell’adulto. DM o PM associata a neoplasia. DM o PM infantile. PM o DM con altre malattie del connettivo. Secondo una classificazione più semplice, le miopatie infiammatorie sono divise in tre gruppi ben distinti: la dermatomiosite, la polimiosite e la miosite sporadica da corpi inclusi. Quest’ultima non è inclusa tradizionalmente nelle connettiviti sistemiche e perciò è trattata in Appendice (pag. 1410). Tuttavia, presenta elementi patogenetici e clinici in comune con la polimiosite di tale rilievo da dovere essere considerata nella trattazione di questo argomento. La dermatomiosite colpisce sia bambini che adulti e tra questi più le donne che gli uomini, la polimiosite si verifica di solito dopo il secondo decennio di vita e la miosite a corpi inclusi è più comune negli uomini di età superiore ai 50 anni. L’incidenza annuale della dermatomiosite e polimiosite non può essere valutata con certezza perché basata su vecchie statistiche cliniche che confondevano la polimiosite con la miosite a corpi inclusi. Era comunque stata stimata tra 0,6 e 1 per 100.000. In tutti i gruppi di età la forma più comune è la dermatomiosite e la meno comune la polimiosite, ma oltre i 50 anni è la miosite a corpi inclusi la più frequente in questo gruppo di malattie. Esiste un’associazione con certi antigeni HLA che sono il DRB1*0301 per la polimiosite e la miosite a corpi inclusi e il DQA1*0501 per la dermatomiosite giovanile. I casi familiari sono eccezionali. Una particolare dermatomiosite cronica da echovirus è frequente in bambini affetti da agammaglobulinemia legata al sesso.
A. Eziopatogenesi. L’eziologia di queste miopatie resta sconosciuta. Per quanto vari virus siano stati associati con la loro eziologia, non si è mai raccolta un’evidenza persuasiva su un loro ruolo. È invece ben chiara la patogenesi di queste malattie che è di natura immunopatologica. Particolari autoanticorpi, a parte quelli caratteristici di altre connettiviti sistemiche (Gruppo V), sono (*) C. Besana
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stati descritti in circa il 20% dei casi di polimiosite e dermatomiosite e solo eccezionalmente nella miosite a corpi inclusi. Questi sono per lo più diretti contro transferRNA-sintetasi, tra le quali la più comunemente implicata è l’istidil transfer-RNA-sintetasi. Gli anticorpi contro questa specificità erano noti da tempo e definiti anti Jo-1. Altri autoanticorpi caratteristici, ma presenti solo in meno del 3% dei pazienti, sono diretti contro particelle di ricognizione di segnale (complesso SRP). L’importanza di questi anticorpi nella patogenesi della polimiositedermatomiosite rimane incerta perché sono diretti contro antigeni presenti non solo nel tessuto muscolare e, come si è visto, non vengono trovati nella maggioranza dei casi. Per di più possono essere presenti anche in malattie interstiziali polmonari senza miosite. Anticorpi il cui antigene non è ancora identificato a livello molecolare giocano, invece, un ruolo patogenetico nella dermatomiosite e in questo caso sono diretti contro le cellule endoteliali dei capillari dell’endomisio, dove attivano il complemento. Questo è stato dimostrato con l’evidenziazione di fattori del complemento attivati sull’endotelio di tali vasi, che va incontro a rigonfiamento cellulare, vacuolizzazione, necrosi e infiammazione perivascolare. Conseguentemente, si ha un’ipoperfusione dei fasci muscolari con loro atrofia. Completamente diversa è la patogenesi della polimiosite e della miosite a corpi inclusi. In queste due forme le alterazioni patologiche dipendono da processi di immunità cellulare dovuti a linfociti citotossici CD8+, che esercitano la loro attività lesiva direttamente sulle cellule muscolari. In questo caso la lisi cellulare è conseguente al contatto tra le fibre e i linfociti T citotossici, che forano le membrane cellulari con la perforina e introducono nelle cellule bersaglio gli enzimi litici contenuti nei granuli di granzima. È noto che i linfociti TCD8+ riconoscono peptidi montati su molecole del sistema maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe I. Normalmente le cellule muscolari non posseggono alla superficie queste molecole (e nemmeno quelle di classe II), ma nella polimiosite e nella miosite a corpi inclusi le esprimono, così che possono presentare ai linfociti T citotossici peptidi di derivazione intracellulare associati a queste strutture. Non si conoscono quali siano i peptidi oggetto della reazione autoimmune, tuttavia, dato che l’associazione tra queste malattie e gli antigeni HLA è blanda e, per di più, è con una specificità di classe II, bisogna concludere che i peptidi che fungono da segnale antigenico per questo tipo di reazione autoimmune sono molti ed eterogenei (così che possano adattarsi a molecole HLA diverse). Queste conoscenze patogenetiche sono importanti perché mentre nel passato si erano considerate affini la dermatomiosite e la polimiosite, distinguendole dalla miosite a corpi inclusi, oggi risulta chiaro che la prima malattia ha una patogenesi differente dalle altre due, che sono perciò molto più simili di quanto si pensasse. D’altro canto, la dermatomiosite e la polimiosite restano unificate dalla possibile presenza di anticorpi non sicuramente patogenetici, come quelli antitransferRNA-sintetasi, o dalla tendenza ad associarsi con altre connettiviti sistemiche.
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B. Anatomia patologica. Nella dermatomiosite l’infiammazione all’interno dei muscoli è prevalentemente perivascolare o nei setti che separano i fascicoli. I vasi sanguigni dimostrano alterazioni endoteliali con formazione di trombi e obliterazione di capillari. Conseguentemente, si ha un’ischemia di gruppi di fibre muscolari che vanno incontro a necrosi, dando luogo a un’atrofia che interessa di solito le fibre alla periferia dei fascicoli, che sono circondati da alcuni strati di fibre atrofiche. Le lesioni cutanee sono caratterizzate da un’infiammazione perivascolare con presenza di numerose cellule CD4+ nel derma. Queste alterazioni sono simili a quelle che si osservano nel lupus cutaneo. Nella polimiosite, al contrario, infiltrati linfocitari multifocali si verificano dentro le fibre muscolari. In modo particolare, in questo caso si dimostra che i linfociti sono CD8+ e invadono fibre muscolari che esprimono alla superficie antigeni del sistema maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe I (complessi CD8/MHC-I). C. Clinica. Le manifestazioni cliniche della polimiosite iniziano in modo insidioso con una debolezza muscolare, che progredisce usualmente per alcuni mesi prima che il paziente sia indotto a consultare il medico. L’ipostenia muscolare è tipicamente prossimale e interessa dapprima la muscolatura della coscia in modo simmetrico, rendendo difficile la corsa, il passaggio dalla posizione seduta o accoccolata alla stazione eretta, il salire le scale. Il dolore muscolare è assente o modesto; l’esame obiettivo non mostra ipotrofia muscolare, né contratture, né iperreflessia. In un secondo tempo compare ipostenia anche al cingolo scapolo-omerale e alla muscolatura prossimale degli arti superiori, a quella del collo e talora ai muscoli posteriori del faringe; sono sempre risparmiati i muscoli oculari. Qualsiasi lavoro a braccia sollevate, come il pettinarsi, diviene gravoso o impossibile e nei casi più gravi il malato supino non è in grado di sollevare il capo o gli arti dal letto, e possono comparire disfagia e disfonia sino al quadro di una paralisi pseudobulbare. La muscolatura distale è risparmiata nell’80% dei casi cosicché il paziente è in grado, per esempio, di sollevarsi ripetutamente sulla punta dei piedi. L’interessamento della muscolatura del tronco e del volto può contribuire all’aspetto generale del malato, che diviene ipomimico e assume una tipica andatura a gambe larghe e con accentuazione della lordosi lombare. I segni cutanei che caratterizzano la dermatomiosite sono predominanti nelle forme a esordio acuto. L’elemento principale è l’eritema, di colorito tipicamente lilla o rosa violaceo, disposto in regione orbitaria e periorbitaria, ma talora anche al collo e alla faccia estensoria di gomiti e ginocchia e tipicamente delle articolazioni interfalangee, ove le zone eritematose con edema prendono il nome di placche di Gottron. Nel 40% dei pazienti con DM compare poichiloderma sotto forma di aree di cute screziata eritematosa con atrofia e teleangectasie in zone del corpo esposte alla luce. Fini teleangectasie possono trovarsi nelle zone eritematose e particolarmente in regione periungueale; nel 20% dei casi compare il fenomeno di Raynaud. Nel 25% dei ca-
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si, specialmente se ad esordio acuto, può esservi edema duro per accumulo di mucina, che evolve a scleroedema e ad atrofia poichilodermica. Si possono avere anche calcificazioni cutanee. Alle volte, in corso di dermatomiosite la forza muscolare appare normale: si parla allora di dematomiosite sine miosite o di dermatomiosite amiopatica. Al contrario, le alterazioni cutanee possono essere transitorie o limitate, tanto da sfuggire all’osservazione: in questo caso è appropriato il termine di dermatomiosite sine dermatite. È facile che, sul piano clinico, queste ultime forme possano essere confuse con una polimiosite, anche se la biopsia muscolare indirizza alla corretta diagnosi. Le forme infantili (gruppo IV) sono più frequentemente dermatomiositi, con eguale prevalenza nei due sessi. Di solito gravi e ad esordio acuto, associano alle caratteristiche usuali della DM la presenza di febbre, calo ponderale, calcinosi della cute con ulcerazioni, contratture muscolari. Alcune associazioni morbose sono importanti nella dermatomiosite e polimiosite. L’associazione con neoplasie maligne si osserva in circa il 15% dei casi di dermatomiosite e, è stato sostenuto, nel 2-3% dei casi di polimiosite. Deve essere però aggiunto che, recentemente, alcuni studiosi dell’argomento hanno avanzato dubbi sull’associazione della polimiosite con le neoplasie, per il sospetto che questa, che in ogni caso sarebbe tenue, sia dovuta a valutazioni falsate da criteri diagnostici da rivedere. L’associazione con la dermatomiosite resta, invece, indiscutibile e importante. I tumori più comunemente implicati sono quelli delle ovaie, del tratto gastroenterico, dei polmoni, delle mammelle e i linfomi non Hodgkin. Queste neoplasie sono clinicamente evidenti già alla presentazione della miopatia infiammatoria o possono svilupparsi successivamente, entro uno o due anni. È interessante il fatto che solitamente le forme di dermatomiosite associate a neoplasie non presentano positività degli anticorpi antitransfer-RNA-sintetasi. Altra associazione importante è quella con una fibrosi polmonare idiopatica. In questo caso, la presenza di anticorpi antitransfer-RNA-sintetasi è comune. Tra le connettiviti sistemiche che possono essere associate con queste miopatie va ricordato che la polimiosite tende a farlo con tutte queste entità morbose, mentre la dermatomiosite coesiste preferibilmente con la sclerodermia e con la connettivite mista, al punto che queste malattie possono sfumare l’una nell’altra a formare sindromi da sovrapposizione (“overlap”). Complicanze particolari sono rappresentate da disfagia per disfunzione cricofaringea o esofagea, da lesioni carditiche con segni elettrocardiografici di disturbi della conduzione e più rara cardiomegalia e scompenso, da fibrosi polmonare presente in una minoranza di casi. D. Esami di laboratorio e strumentali. Frequentemente è aumentata la velocità di eritrosedimentazione e vi è iper--globulinemia, talora con fattori reumatoidi o anticorpi antinucleari. La concentrazione ematica degli enzimi di origine muscolare creatin-chinasi (CK), aldolasi, aspartato-
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transferasi (AST), lattato-deidrogenasi (LDH) è aumentata nel 90% dei casi, riflettendo la gravità del danno muscolare. Sempre elevata è la concentrazione urinaria della creatina, di origine epatica, che per il danno ai recettori di superficie della fibrocellula muscolare non viene da questa assunta e metabolizzata a creatinina; solo in caso di danno muscolare grave (rabdomiolisi) può aversi mioglobinemia e mioglobinuria. La scintigrafia con 99mTc polifosfato può evidenziare ipercaptazione in aree di miosite attiva. L’esame elettromiografico di muscoli lesi dimostra danni miopatici suggestivi ma non patognomonici, consistenti in irritabilità e fibrillazione spontanea, potenziali brevi polifasici complessi, scariche iterative ad alta frequenza. Esami bioptici muscolari e cutanei mostrano nel 50-80% dei casi le alterazioni anatomopatologiche già descritte. E. Diagnosi. Sul piano clinico la diagnosi di dermatomiosite è facile, mentre quella di polimiosite è più complicata perché l’ipostenia, che in questo caso è simmetrica e prossimale, con interessamento dei muscoli del collo, non sempre ha una presentazione tanto tipica da consentire una differenziazione da altre miopatie. Quelle non infiammatorie sono escluse dalla normalità degli indici di fase acuta che, come si è visto, sono alterati nella polimiosite, ma esistono molte altre miopatie infiammatorie, come le polimiositi infettive (parassitarie e batteriche), quelle di malattie granulomatose e quelle eosinofile (per esempio, fascite eosinofila). Tre elementi sono essenziali per la diagnosi: l’alterata concentrazione ematica degli enzimi di derivazione muscolare (principalmente la CPK, la LDH, l’aldolasi e la AST), l’elettromiografia e la biopsia muscolare. Gli enzimi muscolari possono essere aumentati anche notevolmente nelle fasi attive della malattia, fino a 50 volte i valori normali, anche se possono essere trovati non alterati in alcuni casi di dermatomiosite. L’elettromiografia dimostra un aumento dell’attività spontanea muscolare che aiuta a distinguere la polimiosite dalla miopatia da cortisonici, possibile in pazienti in terapia per altre connettiviti sistemiche. Infine, la biopsia muscolare mostra le alterazioni caratteristiche che abbiamo già descritto a proposito dell’anatomia patologica. Purtroppo, mentre queste chiaramente distinguono la dermatomiosite dalla polimiosite, distinzione che può essere facile già sul piano clinico, non lo fanno in maniera ugualmente netta tra la polimiosite e la miosite da corpi inclusi, nella quale pure si osservano i complessi CD8/MHC-I. F. Decorso e terapia. Il decorso della PM-DM è cronico, con esito letale nel 20% dei casi entro 5 anni per polmonite da aspirazione o altre infezioni, neoplasie, complicanze cardiache; metà dei sopravvissuti resta portatore di lesioni muscolari irreversibili. La terapia si avvale di corticosteroidi (non fluorurati perché più miotossici) ad alte dosi refratte quotidiane (prednisone 1 mg/kg/die), ridotte gradualmente (se possibile con posologia a giorni alterni per limitare gli effetti collaterali) dopo oltre 6 settimane e dopo
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miglioramento dell’ipostenia muscolare e delle alterazioni enzimatiche. Altri farmaci usati nella terapia della polimiosite-dermatomiosite sono l’azatioprina (23 mg/kg/die, che però impiega da 4 a 6 mesi per funzionare), il methotrexate (fino a 25 mg alla settimana, con un’azione più rapida di quella dell’azatioprina), la ciclosporina (3-4 mg/kg/die). Il micofenolato mofetile (2 g/die) sta emergendo come un farmaco efficace e ben tollerato. La ciclofosfamide in boli endovenosi ha dato risultati contrastanti. Promettente, invece, sembra l’impiego di alte dosi di -globuline endovena. Il trattamento deve essere proseguito indefinitamente, o comunque per anni, alle dosi minime efficaci; l’asportazione del tumore porta a guarigione le forme del gruppo III associate a neoplasia. APPENDICE Miosite da corpi inclusi Questa malattia, che non è compresa nelle connettiviti sistemiche, è la più comune miopatia infiammatoria dopo i 50 anni di età. Come la polimiosite, è caratterizzata da un’infiltrazione linfocitaria delle fibre muscolari, con presenza di complessi CD8/MHC-I, ma anche con l’esistenza di fibre contenenti vacuoli “orlati”, che si colorano con il rosso Congo come la sostanza amiloide. È interessante che le fibre vacuolate non siano circondate da linfociti T, il che suggerisce che in questa malattia, oltre al processo infiammatorio, è presente anche un’alterazione degenerativa. In realtà, nelle fibre muscolari si ha un accumulo di varie proteine, tra le quali la più importante è un precursore della sostanza -amiloide (-APP: -Amyloid Precursor Protein). La sostanza -amiloide è quella che si accumula nel cervello nella malattia di Alzheimer. È interessante che una citochina infiammatoria, come l’Interleuchina-1- (IL-1-) derivata dai macrofagi, regoli in eccesso il funzionamente del gene che codifica la produzione di -APP, ma anche che la -APP stimoli la produzione di IL-1- e che perciò questo potrebbe costituire un circolo vizioso che spiega la patogenesi di tale malattia. Ma quale sarebbe l’evento iniziale che mette in moto questo circolo vizioso? Alcune osservazioni eseguite in persone anziane hanno messo in evidenza l’esistenza di linfociti T stimolati da peptidi derivati dalla -APP e montati su molecole HLA. Perciò è possibile che, nella miosite da corpi inclusi, la reazione immunopatologica effettrice nei complessi CD8/MHC-I sia rivolta contro questi peptidi. Se, nell’induzione di questa particolare reazione autoimmune, le cellule muscolari possano comportarsi come cellule che presentano gli antigeni, resta un problema non definito. Dal punto di vista clinico la miosite da corpi inclusi differisce dalla polimiosite in quanto si presenta con un’ipostenia muscolare asimmetrica e interessante i muscoli distali degli arti, come i flessori dei polsi e delle dita e gli estensori del ginocchio. Dal punto di vista terapeutico questa malattia risponde poco ai cortisonici e agli immunodepressori, ma alcuni pazienti possano migliorare se trattati con -globuline endovena. La pro-
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gnosi è quella di una malattia cronica invalidante, con perdita della deambulazione entro 5-10 anni dalla presentazione.
Sclerosi sistemica e malattia di Raynaud (*) La sclerosi sistemica (SclS) è una malattia generalizzata del connettivo, caratterizzata da ispessimento e fibrosi della cute e del sottocute (scleroderma) e da alterazioni delle piccole arterie e dei capillari, con variabile interessamento viscerale renale, cardiaco, intestinale e polmonare. Nel 90% dei casi la SclS è preceduta o accompagnata da una sindrome di Raynaud (SR), caratterizzata da fugace insorgenza di pallore delle estremità (in particolare delle dita delle mani), seguito da cianosi e iperemia reattiva, per esposizione al freddo o a stimoli emotivi; nel 70% dei casi la sindrome è isolata (malattia di Raynaud), nei restanti è associata a vasculopatie obliteranti o connettiviti, prima fra le quali la SclS (fenomeno di Raynaud). Sono descritte diverse varianti di scleroderma e sindromi similsclerodermiche a eziologia nota (Tab. 69.11). La SclS è una malattia rara, insorgente nell’80% dei casi nel sesso femminile nel 4°-5° decennio, con prevalenza stimata di 5-10 casi per milione di abitanti; la SR, assai più frequente, ha esordio usuale nel 3°-4° decennio ed uguale predilezione per il sesso femminile. La SclS presenta occasionale aggregazione familiare, o compresenza di sindromi autoimmuni nella stessa famiglia, e scarsa correlazione con aplotipi HLA. Tabella 69.11 - Varianti sclerodermiche e sindromi similsclerodermiche. • Scleroderma generalizzato – Sclerosi sistemica progressiva (SclS) – Sindrome CREST • Scleroderma localizzato – Morphea – Scleroderma lineare • Sindromi similsclerodermiche – Fascite eosinofila di Shulman – Scleredema postinfettivo di Buschke – Immunologiche (rigetto cronico di trapianti, graft versus host disease, amiloidosi) – Professionali (da cloruro di vinile, resine epossidiche, martello pneumatico, silice, minatori d’oro e di carbone) – Da sostanze chimiche e farmaci (sindrome tossica da olio spagnolo, da bleomicina, pentazocina, triptofano, carbidopa) – Metaboliche (porfiria) – Da lesioni spinali • Sindromi associate – Connettivopatie (LES, dermatomiosite, connettivopatia mista, sindrome di Sjögren, artrite reumatoide, cirrosi biliare) – Malattie congenite (sindrome di Werner, progeria, fenilchetonuria)
(*) C. Besana, C. Rugarli
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A. Eziopatogenesi. La patogenesi della SclS è tuttora poco chiara. La lesione iniziale sembra interessare l’endotelio vasale e facilitare dapprima episodi di vasospasmo, poi alterazioni ischemiche permanenti e fibrosi connettivale. Il fenomeno di Raynaud può essere secondario a molteplici cause oltre alla SclS (Tab. 69.12). Le manifestazioni vasospastiche nella sindrome di Raynaud sembrano condizionate da un difetto primitivo della parete arteriolare con ipereattività al freddo, alla serotonina e all’angiotensina; esse si verificano anche a livello viscerale e sembrano avere un ruolo importante nello sviluppo della sclerosi sistemica. La correlazione clinica della SclS con sindromi autoimmuni (artrite reumatoide, sindrome di Sjögren, connettivite mista, polimiosite, tiroidite di Hashimoto, cirrosi biliare) ha fatto sospettare una patogenesi immunitaria. Sono frequentemente presenti iper--globulinemia, fattori reumatoidi, crioglobuline. Nel 70% dei pazienti si trovano immunocomplessi circolanti, che non sembrano tuttavia svolgere un ruolo patogeno rilevante. Nel 60-90% dei casi sono rivelabili anticorpi antinucleari (immunofluorescenza punteggiata) non fissanti il complemento; essi non sono rivolti verso il DNA nativo, bensì verso la DNA topo-isomerasi 1 (o Scl70), la RNA polimerasi 1 e i nucleoli nella SclS, verso il centromero nucleare nella sindrome CREST (si veda in seguito). Sono inoltre presenti anticorpi specifici per il collageno di tipo IV, del quale è ricca la membrana basale endoteliale, verosimilmente secondari al danno vascolare. Un’ipotesi comprensiva sulla patogenesi della SclS può essere avanzata tenendo conto della successione fenomeno di Raynaud-sclerodermia, anche se non sempre al primo segue la seconda. Il passo iniziale perciò potrebbe essere un insulto endoteliale, probabilmente immunologicamente mediato, come suggerito dalla presenza di autoanticorTabella 69.12 - Cause della sindrome di Raynaud. • Vasospastiche – Malattia di Raynaud isolata con emicrania o angina variabili da farmaci (-bloccanti, ergotamina, metisergide) – Feocromocitoma – Sindrome carcinoide • Strutturali – Compressione di arterie di grosso e medio calibro – Sindrome dello sbocco toracico, compressione da stampelle, arterite di Takayasu – Arteriosclerosi dei tronchi brachiocefalici – Stenosi di arterie di piccolo calibro – Sclerosi sistemica – Sindromi similsclerodermiche – Arteriosclerosi e morbo di Buerger – Danno da freddo: geloni, lupus pernio • Emoreologiche – Crioglobulinemia, criofibrinogenemia – Crioagglutininemia – Malattia di Waldenström, mieloma multiplo – Policitemia e trombocitemia essenziali
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pi. In realtà anticorpi antiendotelio sono stati dimostrati nella SclS. Recentemente, si è avanzata la supposizione che almeno alcuni casi della SclS siano dovuti a un chimerismo linfocitario. Questo si verificherebbe in donne dopo gravidanze e parto di neonati con un aplotipo di antigeni HLA di derivazione paterna non troppo diversi da quelli ereditati dalla madre. In questo caso, se i linfociti fetali passano nella circolazione materna, non vengono rigettati come dovrebbe essere di norma, ma vi permangono in condizioni di chimerismo. Perciò, le cellule fetali potrebbero riconoscere come estranei gli antigeni HLA materni dell’aplotipo non ereditato e determinare una specie di reazione graft versus host. Questa teoria, che è ancora oggetto di discussione, non può valere per tutti i casi di questa malattia, che si verifica anche in donne che non hanno avuto gravidanze. Tuttavia, se confermata, potrebbe avvalorare l’idea che il punto di partenza della patogenesi della SclS sia una reazione di immunità cellulare contro le cellule endoteliali. Quando il chimerismo non può essere invocato, potrebbero essere microrganismi capaci di introdursi nelle cellule endoteliali (per es. Chlamydia pneumoniae o cytomegalovirus) i responsabili dell’iniziale riposta immunitaria. Vi sono anche convincenti prove di meccanismi cellulo-mediati. Le lesioni vascolari della SclS sono simili a quelle del rigetto cronico di trapianto e una sindrome sclerodermica può svilupparsi nella reazione GVH e nei sopravvissuti a trapianto di midollo. Ci si deve, a questo punto, chiedere perché questi meccanismi immunopatologici operano solo a livello dei piccoli vasi della circolazione periferica e non a tutti i livelli, comprese le arterie di grosso e medio calibro, dove potrebbero indurre un’aterosclerosi accelerata. La spiegazione sta probabilmente nella lentezza della circolazione periferica, tale da consentire una migliore interazione tra anticorpi, e più ancora linfociti T circolanti, e cellule endoteliali. Il fenomeno di Raynaud è certamente dovuto a sollecitazioni simpatiche, generalizzate, come negli stati emotivi, o localizzate, come per esposizione al freddo in conseguenza di riflessi assonali. Tuttavia, nei soggetti con fenomeno di Raynaud mancano i segni di una iperattività simpatica sistemica. È perciò possibile supporre che il danno endoteliale dei piccoli vasi periferici abolisca un meccanismo di freno che normalmente limita gli eccessi delle sollecitazioni vasocostrittrici. Un candidato possibile per questo meccanismo di freno potrebbe essere l’ossido di azoto, sostanza di derivazione endoteliale che esercita un’attività vasodilatatrice (Cap. 1), e che potrebbe essere prodotta in quantità inferiori al normale per effetto del danno endoteliale. Un’intensa vasocostrizione arteriolare (e venulare nei più rari casi di acrocianosi) rallenta molto il flusso sanguigno nella circolazione periferica e potrebbe ulteriormente facilitare l’interazione tra anticorpi e T-linfociti da una parte e cellule endoteliali dall’altra. Si instaurerebbe così un circolo vizioso destinato a peggiorare progressivamente la situazione. Se il disordine si arresta qui si ha solo il fenomeno e poi la malattia di Raynaud. Tuttavia, in una significati-
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va proporzione di casi la malattia progredisce verso la sclerosi tissutale. Deve quindi svilupparsi un ulteriore processo di autoimmunizzazione, del quale la comparsa degli autoanticorpi rappresenta una testimonianza. Recentemente è stato suggerito un interessante meccanismo per lo sviluppo di questo tipo di autoimmunità. Si è dimostrato, infatti, che ripetuti fenomeni di ischemiariperfusione possono determinare la comparsa nei tessuti di specie reattive di ossigeno (ROS, Reactive Oxigen Species). Queste, in presenza di metalli come il ferro e il rame, possono degradare gli autoantigeni in maniera diversa rispetto a quanto avviene normalmente. Quando i frammenti derivati da questa degradazione sono interiorizzati dalle cellule presentanti gli antigeni, sono esposti sulle molecole MHC di classe II dei peptidi diversi da quelli derivati dalle molecole non precedentemente frammentate. Pur facendo parte del se stesso, questi peptidi sono dei cosiddetti “epitopi criptici”, in quanto normalmente non sono generati e non sono perciò esposti ai linfociti T. Di fronte agli epitopi criptici il sistema immunitario reagisce perciò come se si trovasse di fronte ad antigeni non del se stesso, e dà luogo a una reazione autoimmune. Si è visto così che esistono le condizioni perché, all’esterno dei vasi interessati al fenomeno di Raynaud, si scateni un processo immunopatologico. Ma perché questo non è caratterizzato da un’evidente infiammazione, e le lesioni hanno un’evoluzione fibrosante? È possibile che questo dipenda dal TGF-. Si è detto, nel capitolo precedente, che questa citochina ha un effetto moderatore sulle risposte immunitarie e tende a favorire la fibrosi. L’interessamento endoteliale potrebbe consentire l’adesione e l’aggregazione piastrinica e le piastrine contengono e liberano importanti quantità di TGF-. L’incremento della sintesi di collageno, a differenza che in ogni altra malattia fibrosante tranne i cheloidi, rispetta la normale proporzione tra procollageno di tipo I e III, ma comporta un’eccessiva produzione di collageno di tipo IV proprio delle membrane basali endoteliali, oltre che di fibronectina e glicosaminoglicani. Si determinano quindi gravi alterazioni vascolari con proliferazione e abnorme migrazione di cellule miointimali, accumulo di collageno, ispessimento dell’intima e fibrosi periavventiziale, occlusione del lume arteriolare, ischemia e atrofia della media. I capillari, deprivati di cellule miointimali, vanno incontro ad atrofia e dilatazione teleangectasica. La liberazione di linfochine e di fattori derivanti dalle piastrine attivanti i fibroblasti porta alla selezione di cellule attivamente sintetizzanti collageno, con accumulo perivascolare di connettivo, che per compressione e stiramento sui vasi può contribuire all’ischemia tissutale; l’accumulo di connettivo nel derma, nelle pareti dei visceri e negli spazi interstiziali determina l’aspetto sclerodermico e la compromissione multisistemica che caratterizzano la malattia. B. Anatomia patologica. Nelle fasi iniziali della sindrome di Raynaud il quadro istologico è normale, mentre successivamente si sviluppano dilatazioni e tortuosità capillari, alternate a zone di devascolarizzazio-
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ne, e alterazioni arteriolari con ipertrofia concentrica dell’intima e dell’avventizia; inoltre fibrosi con infiltrati perivascolari di linfociti e un certo numero di plasmacellule e ispessimento del derma per accumulo di connettivo; esso nelle fasi evolutive della malattia è costituito prevalentemente da collageno di tipo III e I disposto in fibre di aspetto ultrastrutturale giovane, con elevato contenuto di idrossiprolina, di fibronectina e di protocollagenoprolina-idrossilasi. Nelle fasi tardive l’ispessimento del derma regredisce sino all’atrofia, con presenza esclusiva di collageno di tipo I, e possono svilupparsi calcificazioni sottocutanee e alle inserzioni tendinee oltre ad ulcerazioni gangrenose delle estremità. La SclS determina alterazioni anatomopatologiche particolari secondo l’organo colpito; fibrosi tendinea e muscolare, sinovite ed erosioni articolari, riassorbimento periodontale; sclerosi sottomucosa e della lamina propria esofagea e intestinale con atrofia della muscolaris mucosae e diverticoli del tenue e del colon, fibrosi peritoneale; nefrosclerosi con spiccata fibrosi avventiziale e piccoli infarti corticali; fibrosi pericardica e miocardica, necrosi miocardica con bande di condensazione sarcoplasmica; fibrosi polmonare interstiziale e alveolite fibrosante. C. Clinica. La SclS classica ha esordio subdolo con edema e quindi fibrosi simmetrica della cute alle dita e agli avambracci e possibile lenta estensione al tronco e al volto, preceduti o accompagnati nel 70% dei casi da fenomeno di Raynaud, e usualmente seguiti entro mesi o anni da manifestazioni viscerali. La sindrome CREST (calcinosi, Raynaud, disfunzione esofagea, sclerodattilia, telangectasia) è una variante sierologicamente distinta, in cui il fenomeno di Raynaud precede di anni le manifestazioni cutanee alle dita e al volto con edema iniziale o telangectasie, e manifestazioni viscerali limitate al tratto gastroenterico, salvo rare complicanze. La cute sclerodermica diviene dura e adesa ai piani profondi, lucente e alterata da telangectasie e discromie prevalentemente iperpigmentate, calcificazioni sottocutanee ai polpastrelli e alle inserzioni tendinee, ulcerazioni e gangrena secca sulle prominenze ossee. Il fenomeno di Raynaud scatenato dal freddo consiste in un improvviso pallore e/o cianosi dei due terzi distali delle dita, fredde e ipoestesiche, seguiti da eritrocianosi e dolore per iperemia reattiva. La metà dei pazienti presenta poliartralgie e poliartriti simmetriche periferiche con mano ad artiglio per contratture in flessione, crepitii articolari per fibrosi tendinea, ipomiotrofia, talora vera dermatomiosite; raramente sindrome del tunnel carpale o neuropatia trigeminale. Sono frequenti l’osteopenia e il riassorbimento osseo alle falangi distali (acrosteolisi). Il 90% dei pazienti affetti da SclS o da CREST presenta disfunzione esofagea, talora evidenziabile solo con studi radiologici o manometrici, più frequentemente con dolore retrosternale, disfagia per cibi solidi, esofagite da reflusso. Specialmente nella sindrome CREST possono svilupparsi stenosi esofagea, emorragie gastroenteriche da teleangectasie mucose, sindromi di malassorbimento
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per ipoperistalsi ileale con proliferazione batterica, o cirrosi biliare primitiva con colestasi, epatomegalia, autoanticorpi antimitocondri. Seria malnutrizione può derivare da tali disturbi e da edentulia per parodontite. La cosiddetta crisi renale sclerodermica, importante causa di morte, si manifesta nei primi anni di sviluppo di SclS rapidamente progressiva con subitanea comparsa di ipertensione maligna e insufficienza renale. Di grave significato prognostico è pure l’interessamento cardiaco, con pericarditi (segni ecografici nel 40% dei pazienti), aritmie (segni ECG nel 15-20%), rare crisi anginose per “Raynaud intramiocardico”, scompenso congestizio per fibrosi miocardica o cardiopatia ipertensiva (nel 10% dei pazienti). Dispnea da sforzo compare nella metà dei pazienti per fibrosi alveolo-interstiziale; complicanze tardive sono la polmonite ab ingestis, il cuore polmonare cronico (5% dei casi di CREST) e il carcinoma bronchiolo-alveolare. Xerostomia, xeroftalmia ed ipotiroidismo usualmente misconosciuto dipendono più da fibrosi sclerodermica che da associazione, pure possibile, con tiroidite di Hashimoto o con esocrinopatia autoimmune di Sjögren. Forme localizzate di sclerodermia colpiscono preferenzialmente l’infanzia: la morphea, guttata o generalizzata, è costituita da alcune o innumerevoli placche eritematose edematose, sino a qualche centimetro di diametro, a evoluzione scleroatrofica con colore eburneo lucido e perdita degli annessi, attorniate da alone infiammatorio di colore lilla; lo scleroderma lineare si manifesta come una banda scleroatrofica al volto (a colpo di sciabola) o lungo un arto, interessante la cute e i tessuti profondi sino all’osso, con possibile iperostosi fibrotica (meloreostosi) o emiatrofia facciale; la responsabilità di alcune lesioni sclerodermiche circoscritte è stata attribuita alla Borrelia burgdorferi, agente della malattia di Lyme. D. Esami di laboratorio e strumentali. Possono riscontrarsi ipersedimetria, iper--globulinemia moderata, anemia delle malattie croniche e segni di laboratorio di malassorbimento o di danno renale. Nel 25% dei casi sono presenti in circolo fattori reumatoidi e nell’80% dei casi anticorpi antinucleo, solitamente a disposizione granulare in immunofluorescenza, rivolti verso antigeni nucleari estraibili (anti-nRNP, anti-Scl70, specifici e presenti nel 20% dei casi di SclS), verso il centromero dei cromosomi (specifici e presenti nel 50% dei casi di CREST), verso antigeni nucleolari (altamente suggestivi e presenti nel 10-55% dei casi di SclS secondo le casistiche, specialmente se con sindrome di Sjögren). La biopsia cutanea, l’elettrocardiografia e l’ecocardiografia mostrano i quadri già detti. Le indagini radiografiche mostrano atrofia e calcinosi dei tessuti molli, riassorbimento dell’estremo distale delle falangi, esofago atonico e dilatato, presenza di aria nel contesto della parete intestinale (pneumatosis cistica), atonia e dilatazioni sacciformi duodenodigiunali, diverticoli colici a larga base d’impianto, cardiomegalia, quadri reticolari di fibrosi polmonare. Esami spirometrici presentano un quadro restrittivo. La manometria esofagea evidenzia le alterazioni discinetiche del viscere.
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E. Diagnosi e diagnosi differenziale. La diagnosi, clinicamente facile nelle forme classiche evolute, può presentare difficoltà nelle forme incomplete e nelle fasi precoci. Il fenomeno di Raynaud si evidenzia ponendo le mani del paziente in acqua a 10-15 °C e osservando clinicamente o registrando con metodo fotopletismografico la reazione vasomotoria nei minuti seguenti; le alterazioni sono dimostrate mediante capillaroscopia del letto ungueale. La presenza del fenomeno di Raynaud associata a scleroderma precoce o a diffusione centripeta, evidenza capillaroscopica di aree avascolari, interessamento viscerale in un paziente con anticorpi antinucleo antiScl70 o antinucleolari permette la diagnosi di SclS. Un fenomeno di Raynaud a lungo isolato, con tortuosità capillare senza zone devascolarizzate, con presenza di anticorpi anticentromero, indica una sindrome CREST iniziale. L’associazione con quadri clinici e sierologici di artrite reumatoide, sindrome di Sjögren, LES, PM-DM caratterizza le cosiddette sindromi embricate (“overlap”) o di transizione, mentre la connettivopatia mista (Mixed Connective Tissue Disease o MCTD; si veda in seguito) evolve frequentemente in classica SclS. Un caso particolare è rappresentato dalla fascite eosinofila di Shulman con infiltrati eosinofili e parvicellulari, ipereosinofilia periferica, iper--globulinemia e immunocomplessi circolanti, considerata da alcuni una variante della SclS, ma di patogenesi incerta e occasionale associazione con trombocitopenia autoimmune o sindromi mielodisplastiche; essa esordisce con edema doloroso simmetrico a mani, avambracci, piedi e gambe, con rapida evoluzione fibrotica della cute, sottocute e fasce muscolari, e possibile guarigione spontanea entro pochi anni. Numerose condizioni acquisite e congenite che possono presentare componente sclerodermica sono riportate nella tabella 69.11. F. Decorso e prognosi. È segnalata in diverse casistiche una mortalità dal 27 al 66% entro 5 anni dalla diagnosi di SclS, prevalentemente ascrivibile a crisi renali, aritmie e scompenso cardiaco, insufficienza respiratoria e complicanze infettive, carcinoma bronchiolare. Elementi prognostici sfavorevoli sono: il sesso maschile, l’età avanzata, lo scleroderma precoce, rapidamente evolutivo o esteso al tronco, l’interessamento renale, cardiaco, polmonare. Le cause di morte nella sindrome CREST, a prognosi migliore, sono specialmente le complicanze della stenosi esofagea. G. Terapia. Il trattamento del fenomeno di Raynaud è basato sulla somministrazione di vasodilatatori, tra i quali di documentata efficacia i calcio-antagonisti, per esempio nifedipina a lento rilascio 30-60 mg/die. Efficaci si sono dimostrati anche gli inibitori del recettore di tipo I dell’angiotensina II come il losartan (25-100 mg/die) e un inibitore selettivo della riassunzione della serotonina come la fluoxetina (20-40 mg/die). Largamente adoperata, ma di non dimostrata efficacia, è la pentossifillina. Interessanti appaiono nuovi farmaci, co-
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me gli inibitori della fofodiesterasi (per esempio, il sindenafil) e gli inibitori del recettore dell’endotelina (per esempio, il bosental). Per la sclerosi sistemica vera e propria la terapia è largamente insoddisfacente. Trattandosi di un’infiammazione naturalmente frenata, la terapia corticosteroidea è di scarsa utilità ed è stato dimostrato che oltre certe dosi (15 mg di prednisone al giorno) può facilitare le crisi renali. Piccole dosi possono però essere di qualche utilità in casi particolari con caratteristiche cliniche infiammatorie. Nella maggior parte dei casi può essere sufficiente aggiungere un antiaggregante piastrinico alla terapia vasodilatatrice. Terapie impiegate nel passato, come la D-penicillamina e la colchicina, non appaiono di particolare utilità. Alcuni centri praticano terapie immunosoppressive sulle quali è prematuro esprimere un giudizio. Interessanti risultati si sono ottenuti in alcuni pazienti con la periodica infusione endovenosa di iloprost, un derivato dell’acido arachidonico analogo alla prostaciclina. Questa sostanza ha un’attività vasodilatatrice e antiaggregante piastrinica. Questo trattamento è probabilmente migliore della più pratica somministrazione orale combinata di un vasodilatatore calcio-antagonista e di un aggregante piastrinico.
Connettiviti indifferenziate e di transizione (*) L’esperienza clinica ha mostrato che talora le prime manifestazioni cliniche di una connettivite rimangono a lungo talmente vaghe e sfumate da non permettere una diagnosi precisa; inoltre, in un certo numero di pazienti affetti da sclerosi sistemica progressiva o altre connettiviti sono contemporaneamente presenti caratteristiche tipiche di più di una connettivopatia, che impediscono di classificare il quadro morboso in una rigida casella nosografica. L’inquadramento di queste sindromi, denominate rispettivamente connettiviti indifferenziate e sindromi di transizione (“overlap syndromes”) è incerto, perché molti casi sono stati segnalati isolatamente senza approfonditi studi sierologici, immunogenetici e anatomopatologici, e senza descrizione adeguata del decorso clinico. Frequentemente nel corso degli anni si fanno più evidenti le caratteristiche cliniche di una delle classiche connettiviti. Non è quindi del tutto chiaro il significato prognostico delle non rare associazioni di sclerosi sistemica con lupus eritematoso sistemico, con polimiosite, lupus eritematoso con polimiosite. La prognosi dell’artrite reumatoide sembra essere peggiore nei rari casi in cui essa è accompagnata da manifestazioni tipiche del lupus eritematoso sistemico. Un caso particolare è quello della frequente associazione di un’esocrinopatia infiammatoria autoimmune con xerostomia e xeroftalmia a una artrite reumatoide o ad altra connettivite, nel quadro della sindrome di Sjögren secondaria (pag. 1416).
Connettivite mista (*) Nell’ambito delle sindromi di transizione è stata descritta da Sharp e collaboratori nel 1972 una sindrome con caratteristiche cliniche e sierologiche ed evoluzioni cliniche sufficientemente distinte da meritarle, secondo la maggior parte degli Autori, una collocazione nosografica propria, sotto il nome di sindrome di Sharp o connettivite mista. La connettivite mista (MCTD: Mixed Connective Tissue Disease) è una sindrome di transizione comprendente elementi clinici simili a quelli del lupus eritematoso sistemico, della sclerosi sistemica, della polimiosite e dell’artrite reumatoide in variabile sequenza, caratterizzata dalla presenza nel siero, a concentrazioni elevate, di un anticorpo antinucleo specifico per un antigene nucleare ribonucleoproteico (anti-RNP). La connettivite mista è diffusa in tutto il mondo senza predilezione razziale, con prevalenza verosimilmente assai superiore a quella della sclerosi sistemica e un poco inferiore a quella del lupus eritematoso sistemico. Essa colpisce nell’80% dei casi il sesso femminile, con esordio ad ogni età, anche se usualmente tra il 2° e il 4° decennio di vita. Nei rari casi ad esordio in età infantile la malattia ha decorso grave per la maggior frequenza di trombocitopenia, miocardite, glomerulonefrite, meningite asettica, associate a iridociclite e ad eruzioni cutanee simili a quelle del lupus e della dermatomiosite. A. Eziopatogenesi. Le alterazioni immunologiche identificate nella connettivite mista suggeriscono una patogenesi immunitaria della sindrome. I persistenti titoli elevati di anticorpi antiribonucleoproteine e la notevole iper--globulinemia sembrano espressione di un’attivazione policlonale dei linfociti B; essa è verosimilmente correlata ad un deficit dei linfociti T soppressori, evidenziato pochi anni fa e attribuito all’azione che gli anticorpi anti-RNP sono capaci di svolgere su tali cellule. Recenti studi hanno chiarito molti particolari sui determinanti antigenici delle ribonucleoproteine e sulle funzioni degli anticorpi anti-RNP nei pazienti affetti da connettivite mista. Si sa che il DNA eucariotico dei mammiferi e dell’uomo possiede alcune sequenze di base, chiamate introni, che codificherebbero informazioni senza alcuna utilità pratica riconosciuta; la trascrizione del DNA dà quindi origine nei mammiferi ad un RNA che contiene tutte le sequenze complementari a tali regioni, chiamato RNA eteronucleare (hnRNA, anche detto pre-mRNA). Tuttavia il RNA messaggero (mRNA) non contiene introni ed è evidente che le cellule debbono possedere complessi sistemi per smontare ed elidere queste sequenze inutili e indesiderate durante la sintesi del mRNA; tali sistemi sono stati localizzati all’estremo della giunzione intragenica del RNA. Si è visto che esiste un gruppo di complessi ribonucleoproteici di piccole dimensioni (“small nuclear, snRNP”) legato a una sequenza specifica di RNA (denominata U1)
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che è complementare alla sequenza corrispondente alla giunzione tra introni e gene sul hnRNA: è stato dimostrato che gli anticorpi anti-RNP della connettivite mista sono specificamente reagenti con tale complesso U1-snRNP e sono quindi in grado di interferire con la sintesi e la funzione del mRNA. La ragione della presenza degli anticorpi anti-RNP nei pazienti affetti da connettivite mista non è nota, ma si sospetta una cross-reattività antigenica tra le ribonucleoproteine autologhe e il RNA codificato da virus infettanti la specie umana. Perché tali anticorpi possano influenzare il materiale genetico dei linfociti è tuttavia necessario che essi penetrino nella cellula. In effetti gli anticorpi anti-RNP di classe IgG hanno mostrato in vitro la capacità di penetrare entro linfociti T dotati di recettore per il frammento Fc delle IgG (T-), provocando l’arresto del loro ciclo cellulare tra la fase S e la fase G2 e la perdita della funzione soppressiva. Nonostante non vi sia prova certa della correlazione tra questi fenomeni in vitro e la situazione in vivo, tuttavia si suppone che alla depressione funzionale della sottopopolazione linfocitaria T soppressoria (non corrispondente a una diminuzione numerica delle cellule e non correggibile con ormoni timici, a differenza di quanto avviene nel lupus) siano attribuibili sia l’iper-globulinemia, sia la presenza di multiformi fenomeni biologici e clinici di autoimmunità nei pazienti affetti da connettivite mista. Nel 25% dei pazienti sono inoltre svelabili immunocomplessi circolanti. Essi possono legare gli anticorpi anti-RNP circolanti e dissociarli, dando ragione dell’occasionale transitoria negatività delle ricerche di anticorpi antinucleo; essi sono in grado di determinare grave glomerulonefrite solo raramente, probabilmente perché, contrariamente a quanto avviene nel lupus, non vi è nella connettivite mista ridotta clearance reticolo-endoteliale di immunocomplessi. B. Anatomia patologica. La particolarità anatomopatologica principale della connettivite mista è la presenza costante di un’arteriopatia obliterante non necrotizzante delle arterie di medio e piccolo calibro, diffusa anche in organi clinicamente silenti, con proliferazione intimale e meno rilevante ispessimento della media. All’arteriopatia obliterante polmonare, e meno frequentemente a fibrosi interstiziale, va ascritta l’ipertensione polmonare comunemente osservata. Le lesioni renali consistono in glomerulopatia membranosa con depositi granulari di immunocomplessi o proliferazione intimale scarsamente cellulare, in un quadro simile al rene sclerodermico. Occasionalmente, biopsie cutanee possono evidenziare deposizione di immunoglobuline alla giunzione dermoepidermica come nel lupus. Frequenti sono inoltre una miopatia infiammatoria diffusa a tipo polimiositico e un infiltrato linfoplasmocitario epatico, della sottomucosa gastroenterica e delle ghiandole salivari, con ialinosi esofagea. In un terzo dei casi si riscontra infine iperplasia linfonodale diffusa. C. Clinica. I più comuni disturbi sistemici presenti nella connettivite mista sono malessere generale e fati-
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cabilità, calo ponderale, febbre irregolare talvolta connessa con polimiosite, polisierosite, linfoadenopatia o infezioni intercorrenti. Le manifestazioni cutanee, sempre presenti, sono rappresentate usualmente da fenomeno di Raynaud e da edema delle mani con dita a salsicciotto e sclerodattilia, più raramente da teleangectasie periungueali e al volto, lupus discoide, eritema malare, alopecia, discromie violacee palpebrali o placche eritematose di Gottron sulla superficie estensoria delle articolazioni; nel 10% dei pazienti l’associazione con una sindrome di Sjögren è causa di xerostomia e xeroftalmia, più raramente sono presenti afte orali. Poliartralgie con impotenza funzionale mattutina sono la regola, ma è pure frequente una franca poliartrite usualmente non deformante, a volte invece indistinguibile da quella dell’artrite reumatoide o dell’artrite mutilante psoriasica. Tutti i pazienti lamentano polimialgie prossimali ed è comune un classico quadro di polimiosite ad andamento cronico o a pousseés recidivanti febbrili, con ipostenia prossimale e alterazioni elettromiografiche e degli enzimi muscolari. Una pericardite transitoria ad evoluzione benigna è documentata in un terzo dei casi, più frequentemente in età infantile, mentre una miocardite, non rara quanto inizialmente era sembrato, può essere responsabile di insufficienza ventricolare e di disturbi di conduzione. In quasi tutti i pazienti si evidenzia nel corso della malattia una pleurite bibasilare con scarso versamento pleurico ed è quasi costante un interessamento polmonare per arteriopatia proliferativa diffusa, a lungo asintomatico anche quando evidenziabile spirometricamente per l’alterata diffusione alveolo-capillare del monossido di carbonio, poi responsabile di insufficienza respiratoria e cuore polmonare; l’ipertensione polmonare è frequente specialmente nei casi con caratteristiche cliniche simili alla sclerosi sistemica progressiva e con evidenza capillaroscopica di franche alterazioni arteriolari periungueali; essa può insorgere subdolamente nel corso di anni o avere evoluzione tumultuosa letale entro poche settimane, scarsamente influenzata dalla terapia. Alterazioni della motilità esofagea rilevabili manometricamente sono molto frequenti e correlabili con la durata della malattia, ma solo in un terzo dei casi inducono disturbi per disfagia o esofagite da reflusso. Più raramente insorgono dolori addominali per alterata peristalsi o minima reazione peritoneale, episodi di addome acuto per vasculite mesenterica, malassorbimento per dilatazione del tenue e proliferazione batterica. Una epatomegalia è possibile, ma raramente si accompagna a disturbi funzionali epatici. La splenomegalia è non comune. In un terzo dei pazienti compaiono, nel corso della malattia, linfoadenomegalie diffuse con febbre o febbricola, che talvolta fanno sorgere il sospetto di un linfoma. L’interessamento renale, un tempo ritenuto raro ma presente in un quarto dei pazienti, si manifesta con glomerulonefrite membranosa raramente complicata da sindrome nefrosica o con crisi ipertensive renovascolari. Dei disturbi neurologici, osservati in una minoranza di casi, il più frequente è la neuropatia trigeminale; so-
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no sporadicamente segnalate manifestazioni diverse, fra cui cefalee vascolari e una meningite asettica usualmente febbrile. La trombocitopenia, in un caso segnalata come causa di morte per emorragia cerebrale, è rara nell’adulto. Nel 75% dei pazienti vi è anemia delle malattie croniche o leucopenia con linfocitopenia assoluta. Il test di Coombs diretto è positivo nel 60% dei casi, ma l’anemia emolitica si verifica piuttosto raramente.
transizione, ma può essere confermata solo se un quadro clinico suggestivo si accompagna alle alterazioni sierologiche caratteristiche. La presenza di anticorpi antinucleo ad alto titolo con quadro granulare all’immunofluorescenza rappresenta la conferma preliminare; sieri con alto titolo di anticorpi anti-RNP e assenza di anticorpi anti-Sm sono rari nel lupus e nella SclS, eccezionali in altre condizioni morbose.
D. Esami di laboratorio e strumentali. In pazienti affetti da connettivite mista è usuale il riscontro di alterati indici di fase acuta: elevazione della VES, proteina C reattiva, sieromucoide, 2-globulina; l’elettroforesi evidenzia usualmente franca iper--globulinemia policlonale. È comune un’anemia delle malattie croniche, mentre segni di emolisi sono rari nonostante la positività del test di Coombs diretto nel 60% dei casi. Tre pazienti su quattro presentano una moderata leucopenia con linfopenia, occasionalmente una trombocitopenia. La connettivite mista è costantemente caratterizzata da alterazioni autoimmunitarie quasi patognomoniche, solitamente presenti sin dalle prime fasi della malattia:
F. Decorso e prognosi. L’esordio della connettivite mista è usualmente subdolo, con sintomi sfumati di connettivite indifferenziata consistenti in artralgie, mialgie, faticabilità, fenomeni vasospastici, cui entro mesi o anni si affiancano disturbi più evocatori, come un classico Raynaud, artrite deformante, pleurite o eruzioni cutanee. Più raramente la malattia esordisce con il quadro apparente di un’artrite reumatoide o di un’altra ben definita connettivite. Nel corso degli anni successivi, tuttavia, una parte dei malati soffre di disturbi più tipici della sclerosi sistemica progressiva e tutti infine presentano il quadro assai ricco precedentemente descritto. L’evoluzione clinica è molto variabile; nei confronti del LES i pazienti con le stigmate sierologiche della connettivite mista incorrono in minori rischi di grave nefropatia o neuropatia. Contrariamente a quanto sembrava allorché la sindrome fu descritta, tuttavia, la prognosi può essere assai grave, in relazione ai danni d’organo. La mortalità (30% entro i primi 8 anni dalla diagnosi nella casistica di Sharp; ma ora vengono diagnosticati casi meno compromessi) è dovuta soprattutto a ipertensione polmonare, miocardite, crisi renovascolari.
• autoanticorpi antinucleo con quadro granulare in immunofluorescenza (ANA punteggiato o speckled), con titolo sino a oltre 1:1000; • autoanticorpi rivolti verso un antigene nucleare estraibile da cellule timiche in tamponi isotonici (ENA, Extractable Nuclear Antigen) dimostrabili a elevatissimo titolo (sino a oltre 1:1.000.000) con emoagglutinazione condizionata, con reazione abolibile mediante pretrattamento dell’antigene con ribonucleasi (anti-ENA RNasi-sensibili); • autoanticorpi antiribonucleoproteine, dimostrabili con immunodiffusione (anti-RNP), con titolo usualmente superiore a 1:1000. Inoltre nel 60% dei pazienti si riscontrano fattori reumatoidi, nel 30% ipocomplementemia, occasionalmente immunocomplessi circolanti o falsa positività delle prove sierologiche per la lue. Anticorpi anti-dsDNA e anticorpi anti-Sm sono assai raramente presenti, solitamente in occasione di riacutizzazione di sintomi propri del lupus. Come intuibile, i danni d’organo sono documentati da esami radiografici ed ecografici, dall’elettrocardiografia ed elettromiografia, da esofagomanometria, indagini spirometriche e valutazione della diffusione gassosa alveolare, esami di urine e prove di funzionalità renale. E. Diagnosi e diagnosi differenziale. La connettivite mista può esordire subdolamente con manifestazioni che orientano verso una malattia non immunopatologica (febbre criptogenetica, addome acuto, ecc.). Usualmente però la sindrome va differenziata, nelle sue fasi iniziali, dalle altre connettiviti, in particolare SclS, LES, artrite reumatoide. Non esistono segni o sintomi patognomonici di connettivite mista. La diagnosi deve essere sospettata in ogni caso di connettivite indifferenziata o sindrome di
G. Terapia. Non vi sono studi controllati sull’efficacia a lungo termine di diversi regimi terapeutici nella connettivite mista. La buona risposta a basse dosi di corticosteroidi, segnalata nelle prime osservazioni, si riferisce alla febbre con linfoadenopatia, alla leucopenia, all’anemia, alle sierositi e alle eruzioni cutanee simili al lupus. Per le restanti manifestazioni della sindrome la terapia viene prescelta empiricamente, in analogia a quanto risulta utile nella connettivite cui più assomiglia la manifestazione clinica più temibile in ciascun caso di connettivite mista: si usano quindi per l’artrite i sali d’oro e la penicillamina, quest’ultima per le alterazioni sclerodermiche, i corticosteroidi ad alto dosaggio con eventuale associazione ai citostatici per la compromissione renale e per l’ipertensione polmonare, che tuttavia risulta frequentemente refrattaria alla terapia.
Sindrome di Sjögren (*) La sindrome di Sjögren è una malattia autoimmune lentamente progressiva, caratterizzata da manifestazioni organo-specifiche e sistemiche a largo raggio, le più importanti delle quali sono rappresentate da diminuita secrezione lacrimale e salivare, xerostomia (bocca secca), cheratocongiuntivite secca (xeroftalmia) e ingran(*) C. Besana
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dimento delle parotidi. In realtà, le ghiandole lacrimali e salivari sono le più colpite (spesso apparentemente le sole a esserlo) tra le ghiandole a secrezione esocrina, ma pure molte altre possono venire coinvolte e perciò questa sindrome è anche definita una “esocrinopatia autoimmune”. La sindrome di Sjögren può esistere isolatamente (forme primarie) o in associazione con altre malattie immunopatologiche (forme secondarie che costituiscono circa il 60% dei casi), prevalentemente in associazione con l’artrite reumatoide, il lupus eritematoso sistemico e la sclerosi sistemica. Si stima che circa il 25% dei pazienti affetti da artrite reumatoide o lupus eritematoso hanno contemporaneamente una sindrome di Sjögren. Questa sindrome è piuttosto comune, anche se spesso non è riconosciuta e appare, erroneamente, relativamente rara. Negli USA si è stimato che colpisca circa il 2% della popolazione, prevalentemente donne dal quarto al sesto decennio di vita. Il rapporto donne:uomini nella prevalenza della malattia è di 9:1. A. Eziopatogenesi. Il punto fondamentale nella patogenesi della sindrome di Sjögren è una cronica stimolazione del sistema immunitario. Non è noto perché questo avvenga, ma è certo che il processo riguarda tanto le cellule T che quelle B. Nelle strutture anatomiche interessate si osserva un’infiltrazione rappresentata da linfociti di entrambe queste linee, ma con i linfociti T principalmente del tipo CD4+ attivati, cioè cellule helper. Non è noto che cosa metta in moto questo processo, anche se si suppone che le cellule epiteliali delle ghiandole salivari abbiano un ruolo centrale, ma è suggestivo pensare che a questa attivazione delle cellule T helper consegua l’attivazione policlonale anche delle cellule B, testimoniata dalla frequente iper--globulinemia e dalla formazione di vari autoanticorpi. Tra questi ve ne sono di organo-specifici, come quelli contro antigeni cellulari dei dotti salivari, contro la mucosa gastrica, la tiroide, il pancreas, la prostata e le cellule del sistema nervoso. Anticorpi non organo-specifici vengono trovati in circa il 60% dei pazienti con sindrome di Sjögren e sono rappresentati dal fattore reumatoide, dagli anticorpi antinucleo e, caratteristicamente, da anticorpi contro piccoli complessi RNA-proteine, chiamati SSA/Ro e SS-B/La. La loro prevalenza percentuale in tale malattia è infatti assai elevata; per gli anti-SS-A si va dal 75% nella sindrome di Sjögren (SS) isolata al 30% nella SS in corso di LES, al 10% nella SS in corso AR; per gli anti-SS-B si va dal 50% nella SS isolata a riscontri sporadici nella SS in corso di AR o LES. Il significato di tali autoanticorpi rimane attualmente oscuro, ma la loro elevata positività fa supporre un possibile ruolo patogenetico. B. Anatomia patologica. La lesione più caratteristica della SS è un infiltrato linfoplasmacellulare delle ghiandole lacrimali e salivari, talora con localizzazione anche ad altre ghiandole esocrine (quali quelle dell’apparato gastroenterico, respiratorio, ginecologico). Dapprima si ha un’infiltrazione linfocitica periduttale che col passare del tempo determina un’atrofia degli aci-
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ni; si possono poi formare veri e propri follicoli linfatici, talora con centri germinativi, mentre contemporaneamente le cellule dei dotti subiscono modificazioni di tipo iperplastico dando origine alle caratteristiche “isole mioepiteliali”. Nelle fasi più avanzate il parenchima atrofizzato può essere sostituito da tessuto adiposo. In alcuni casi si formano infiltrati più invasivi e pleiomorfi, si parla allora di forme “pseudolinfomatose” e può essere difficile la diagnosi differenziale nei confronti dei veri e propri linfomi (si veda in seguito). Il danno al parenchima ghiandolare determina la riduzione più o meno marcata della secrezione causa principale delle manifestazioni cliniche. C. Clinica. Esistono diverse modalità di presentazione a seconda che la SS accompagni o meno un’altra malattia del connettivo. Nella maggior parte dei casi si ha comparsa insidiosa e progressiva di cheratocongiuntivite secca e xeroftalmia in paziente già affetto da artrite reumatoide da molti anni. Talora però la SS può comparire in una persona per altro sana e in tal caso il decorso è più rapidamente ingravescente. Meno spesso la SS si manifesta durante il decorso di altre malattie del connettivo come il lupus eritematoso sistemico, la polimiosite, la sclerodermia e la panarterite nodosa, o di epatopatie a patogenesi immunitaria (cirrosi biliare primitiva, epatite cronica attiva idiopatica). 1. Cheratocongiuntivite secca. I disturbi oculari sono importanti e i pazienti lamentano soprattutto una sensazione di corpo estraneo (come sabbia) negli occhi. Altri sintomi riferiti all’occhio comprendono: ridotta lacrimazione, iperemia congiuntivale, prurito e visione offuscata. La diagnosi si basa in prima istanza sul test di Schirmer, che si effettua ponendo una strisciolina di carta da filtro con una estremità nel sacco congiuntivale inferiore e l’altra pendente fuori di esso: in presenza di xeroftalmia dopo 5 min sono inumiditi meno di 5 mm di carta anziché 15 o più come nel soggetto normale. La positività di tale test non è però sufficiente a permettere con assoluta sicurezza la diagnosi: è infatti fondamentale evidenziare con la lampada a fessura la presenza di una cheratite filamentosa o punctata dopo aver instillato nel sacco congiuntivale una goccia di rosa Bengala fluorescente. La tumefazione delle ghiandole lacrimali si riscontra piuttosto raramente. Sono frequenti le complicanze, tra cui prevalgono quelle settiche, in relazione alla ridotta protezione esercitata dalle lacrime sulle congiuntive e sulla cornea. 2. Interessamento delle ghiandole salivari. Comporta la secchezza delle fauci, la cosiddetta xerostomia. I pazienti possono lamentare vari sintomi: difficoltà alla masticazione e alla deglutizione dei cibi solidi, alterazioni del gusto e dell’olfatto, comparsa di carie dentarie a rapida evoluzione. Obiettivamente si possono evidenziare fissurazioni agli angoli della bocca, mentre la lingua e le mucose appaiono eritematose e asciutte. Nel 30-40% dei casi insorgono ricorrenti tumefazioni asimmetriche, talvolta dolorose, delle parotidi o altre ghian-
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dole salivari. È caratteristicamente assente la normale raccolta di saliva del pavimento del cavo orale. Si può ottenere una conferma diagnostica con biopsie multiple delle ghiandole salivari minori del labbro inferiore o del palato; è anche utile la scialografia che può dimostrare dilatazioni (scialectasie) o altre modificazioni (soprattutto atrofiche) del sistema dei dotti salivari. La scintigrafia quantitativa delle ghiandole salivari con 99mTc pertecnetato è attualmente il metodo diagnostico più sensibile e meno disturbante per il malato. D. Altre manifestazioni cliniche. È possibile l’interessamento di altre ghiandole esocrine soprattutto dell’apparato respiratorio (secchezza della mucosa nasale, otite media, bronchite cronica, polmoniti ricorrenti) o gastroenterico (disfagia, acloridria, pancreatite acuta e cronica, epatopatie autoimmuni). Talora sono presenti alterazioni della funzione renale (acidosi tubulare, glomerulonefrite acuta). Frequenti i disturbi cutanei e a livello dell’apparato genitale femminile (secchezza della cute, alterazioni atrofiche vaginali). Esistono poi sintomi e segni che riflettono l’eventuale patologia associata; ciò vale soprattutto per i disturbi articolari o vasculitici. Le manifestazioni articolari nella sindrome di Sjögren sono rappresentate essenzialmente da una poliartrite intermittente che colpisce primitivamente le piccole articolazioni, a volte asimmetrica. Le deformazioni articolari e le erosioni sono rare e questo aiuta a distinguere la forma primaria di questa sindrome da quella secondaria associata all’artrite reumatoide. Le semplici artralgie sono comuni e sono state descritte nel 53% dei pazienti; le mialgie nel 22%. Anche alcuni casi di sindrome fibromialgica (caratterizzata da algie muscolari diffuse e da dolorabilità elettiva alla pressione su alcuni punti sulla superficie corporea, senza che una base organica venga documentata) sono risultati in realtà essere delle sindromi di Sjögren. La vasculite, non frequente, è rappresentata da un processo infiammatorio con interessamento di vasi di piccolo e medio calibro, con un prevalente interessamento cutaneo caratterizzato da un rash eritematoso, ma anche, in alcuni casi, da lesioni ulcerative o da discolorazione violacea delle dita. Il fenomeno di Raynaud, di solito lieve, è stato descritto in circa il 30% dei casi di sindrome di Sjögren primaria. Altre manifestazioni di questa sindrome sono quelle neurologiche, rappresentate da una neuropatia periferica, primitivamente di tipo sensoriale, dovuta ad alterazione dei piccoli vasi endoneurali. Il solo sintomo costituzionale che merita di essere ricordato è l’astenia, che può essere profonda ed è presente in circa il 50% dei casi nella forma primaria. Questa talora è dovuta a ipotiroidismo subclinico, ma spesso la sua causa è indeterminata. 1. Complicanze linfoproliferative. I pazienti con la sindrome di Sjögren hanno un rischio di sviluppare un linfoma che è stato stimato 40-50 volte superiore rispetto a controlli sani bilanciati per età, sesso e razza. Un linfoma clinicamente identificabile si verifica, ap-
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prossimativamente, nel 5% dei pazienti affetti da questa sindrome. Si tratta di linfomi a cellule B che possono manifestarsi inizialmente sotto forma di macroglobulinemia di Waldenstrom e, in seguito, possono evolvere in linfomi di basso o intermedio grado di malignità. I pazienti particolarmente a rischio di linfoma sono quelli che hanno un persistente ingrandimento della parotide, splenomegalia, linfoadenomegalie, vasculite cutanea con ulcere agli arti inferiori, bassi livelli di C4 e crioglobulinemia di tipo II. Più comunemente questi linfomi sono localizzati in aree extralinfonodali, come le ghiandole salivari, il tratto gastrointestinale, la tiroide, i polmoni, il rene o le orbite oculari. E. Esami di laboratorio. È generalmente presente una lieve anemia normocitica, normocromica; talora leucopenia. È caratteristica un’iper--globulinemia che può essere assai marcata, talora con sindrome da iperviscosità per la presenza di crioglobuline o altri immunocomplessi. Il fattore reumatoide è evidenziabile nel 90% dei casi. Caratteristica è pure la presenza di autoanticorpi, i più importanti dei quali sono rivolti contro fattori nucleari tra cui i complessi DNA-istone e il nucleolo (aspecifici) e le proteine nucleo-estraibili SSA e SSB (caratteristici). Importanti anche gli anticorpi contro le cellule dei dotti salivari. Occasionalmente presenti anticorpi mitocondrio, anticellule parietali gastriche e antitiroide. F. Diagnosi. A livello internazionale si è stabilito che la sindrome di Sjögren può essere diagnosticata se sono presenti 4 di questi 6 criteri. 1. Sintomi di secchezza oculare. 2. Segni di secchezza oculare (risultati anomali del test di Schirmer o di quello al rosa Bengala). 3. Sintomi di bocca secca. 4. Difettosi test di funzionalità delle ghiandole salivari (alterazioni del flusso salivare o della scialografia o della scintigrafia). 5. Biopsia di ghiandole salivari minori difettosa. 6. Autoanticorpi anti SS-A e/o SS-B positivi. Tra questi 4 criteri debbono però essere inclusi anche il 5 o il 6. G. Terapia. In linea di massima, per la sindrome di Sjögren viene consigliata una terapia sintomatica, con l’impiego di preparati di lacrime artificiali per la xeroftalmia e di gel di sostituzione salivare per la xerostomia. Una terapia che può essere efficace è la stimolazione parasimpatica con pilocarpina (5 mg tre volte al giorno). Questo trattamento, però, è controindicato nell’asma, nel glaucoma ad angolo stretto, nelle iriti acute, nelle gravi malattie cardiovascolari, nelle malattie biliari, negli stati diarroici, nella nefrolitiasi e nell’ulcera peptica. Per di più, può dare importanti effetti collaterali, quali eccessiva sudorazione, nausea, rinite, diarrea. Comunque, è un trattamento in grado di aumentare la secrezione lacrimale e salivare. La terapia con idrossiclorochina e con cortisonici è raccomandata solo nelle forme sistemiche di questa sin-
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drome. A giudizio di chi scrive, queste terapie possono pure migliorare la funzionalità delle ghiandole esocrine. Gli immunosoppressori, come la ciclosporina e il methotrexate, sono risultati di dubbia utilità. Nei casi di cirrosi biliare primitiva, un’epatopatia che fa parte delle manifestazioni cliniche della sindrome di Sjögren, è sufficiente l’impiego di acido ursodesossicolico.
VASCULITI (*) Si tratta di un gruppo di sindromi cliniche caratterizzate da infiammazione e necrosi dei vasi sanguigni. Tale processo è di solito associato a compromissione del lume vasale e modificazioni ischemiche dei tessuti irrorati dai vasi interessati. Esistono forme in cui i danni sono pressoché esclusivamente localizzati ai vasi e forme che accompagnano altre malattie sistemiche. Poiché i vasi interessati possono essere localizzati in diversi distretti, i quadri clinici sono assai vari. A. Eziopatogenesi. Mentre l’eziologia delle vasculiti è spesso sconosciuta, maggiori dati sono in nostro possesso per quanto rigarda la patogenesi. Si ritiene oggi che un meccanismo immunopatologico sia responsabile della quasi totalità di tali forme. In particolare appare essere di fondamentale importanza la formazione e la deposizione di immunocomplessi. Esistono due modelli sperimentali che ci hanno aiutato a capire come tali immunocomplessi possano determinare i loro effetti dannosi: il fenomeno di Arthus e la malattia da siero. Il fenomeno di Arthus è utile per evidenziare un danno vascolare localizzato determinato da immunocomplessi. Nella reazione classica si immunizza un animale da esperimento con un antigene (per es., albumina eterologa) e successivamente, lasciate trascorrere circa 2 settimane, lo si sottopone a una somministrazione intradermica dello stesso antigene. Durante il tempo intercorso tra la prima e la seconda somministrazione l’animale avrà iniziato a produrre anticorpi specifici contro tale antigene e dopo la seconda somministrazione si manifesterà una lesione localizzata caratterizzata da aumento della permeabilità, edema, infiltrazione da parte di granulociti neutrofili soprattutto a livello delle venule postcapillari, cui fa seguito un quadro di necrosi emorragica. Tale fenomeno dimostra che la formazione in situ di immunocomplessi può determinare un danno vascolare. La malattia da siero è stata già trattata precedentemente (pag. 1386). Consideriamo in questo capitolo i possibili meccanismi con cui può determinare danno vascolare. Gli immunocomplessi in leggero eccesso di antigene sono solubili; mentre sono in circolo tendono a depositarsi nelle zone ove è presente un aumento della permeabilità vascolare. Diversi sono i fattori che favoriscono tale fenomeno. Importante è il ruolo delle sostanze vasoattive rilasciate (*) G.F. Ciboddo
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dalle piastrine (istamina, serotonina, ecc.). I meccanismi che sono in grado di attivare tale rilascio sono svariati: l’adesione aspecifica di immunocomplessi alle piastrine può causare la loro aggregazione con conseguente attivazione del complemento e successiva lisi, alternativamente tale lisi può essere determinata da una reazione di tipo I: degranulazione di un basofilo a seguito dell’interazione delle IgE di membrana con un antigene specifico e conseguente rilascio di PAF. Tuttavia anche i fattori meccanici sono importanti. Tra questi si segnala l’elevata incidenza di lesioni a livello delle biforcazioni dei vasi (sedi di aumentata turbolenza del flusso ematico), il ruolo favorente dell’ipertensione arteriosa e la maggiore incidenza di danni a livello dei vasi sottoposti a stress (arco aortico). Infine, le lesioni di alcuni tipi di vasculiti sono più comuni agli arti inferiori o in altre aree declivi (regione presacrale nei pazienti supini) probabilmente per l’aumento della pressione venosa in tali sedi. Una volta penetrati nella parete vasale gli immunocomplessi determinano l’attivazione del complemento con la conseguente liberazione di sostanze proinfiammatorie (C3a e C5a) che hanno la capacità di degranulare i basofili e aumentare ulteriormente la permeabilità capillare, nonché il complesso C5,6,7 con attività chemiotattica nei confronti dei granulociti neutrofili. Tali cellule giunte nella parete vasale hanno un ruolo della massima importanza nella genesi della lesione vascolare. Mentre da una parte fagocitano e degradano gli immunocomplessi ad opera di enzimi proteolitici, dall’altra rilasciano enzimi lisosomiali nell’ambiente circostante. Tali enzimi (idrolasi acide) hanno attività lesiva sulle pareti del vaso determinando la digestione di strutture quali le membrane basali, le fibre collagene di sostegno, ecc. Il vaso può così alterarsi notevolmente con una riduzione del lume e nei casi più gravi si può arrivare alla completa obliterazione. Esistono tuttavia altri meccanismi di danno immunopatologico oltre a quello da immunocomplessi. Importante è la possibile formazione di lesioni granulomatose. Si ritiene generalmente che tali lesioni si determinino secondo una reazione di tipo IV. Linfociti T sensibilizzati nei confronti di un antigene rilasciano linfochine. Tali sostanze sono in grado di trattenere nella sede della lesione i monociti ivi casualmente giunti e con l’aiuto di altre linfochine si arriva alla loro attivazione e trasformazione in macrofagi attivati. Tali cellule sono capaci come i granulociti di fagocitare gli immunocomplessi e di rilasciare enzimi lisosomiali che possono danneggiare i vasi. Inoltre possono ulteriormente trasformarsi in cellule epitelioidi le quali, se numerose, determinano la formazione di granulomi. Quando tale processo avviene a livello dei vasi o nelle regioni perivasali, si determina il quadro di una vasculite granulomatosa. Il problema di quale sia l’antigene riconosciuto in questi casi dai linfociti T non è risolto, anche se la cronicità di certe vasculiti fa pensare ad un autoantigene. Per due vasculiti, la malattia di Takayasu e la malattia di Behçet, si sono raccolti dati sperimentali che suggeriscono che l’autoantigene sia rappresentato da una
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“heath shock protein”. Le heath shock protein, o proteine da stress, si formano nelle cellule quando sono sottoposte a stress fisici, per esempio l’esposizione a temperature elevate, ma anche a seguito dell’azione dell’INF-. Sono omologhe a proteine simili presenti nei micobatteri e altri microrganismi e sono riconosciute da una linea di difesa primitiva, rappresentata dai linfociti T con recettore - (una minoranza, rispetto ai più maturi linfociti T con recettore -). Lo scopo di questo sistema potrebbe essere quello di presentare una prima barriera di difesa contro i micobatteri e altri microrganismi, nonché di eliminare cellule del se stesso stressate. Si potrebbe perciò supporre che, almeno in parte, certe vasculiti siano mantenute dalla espressione di proteine da stress nelle cellule della loro parete. Un’interessante problema a proposito della patogenesi delle vasculiti è il ruolo degli anticorpi anticitoplasma dei neutrofili (ANCA: Anti Neutrophil Cytoplasmic Antibodies). Questo è un gruppo eterogeneo di autoanticorpi diretti contro antigeni per la maggior parte presenti nei granuli azzurrofili dei granulociti neutrofili e dei monociti. I più importanti di questi antigeni sono enzimi e, in particolare, uno definito proteinasi 3 e la mieloperossidasi, ma possono fungere da bersaglio anche altre proteine, per la maggior parte dotate di un ruolo fisiologico nell’attività antimicrobica dei fagociti. È possibile identificare le due più importanti specificità degli ANCA mediante immunofluorescenza indiretta su granulociti fissati con etanolo. In questo caso, la fluorescenza può diffondersi a tutto il citoplasma (c-ANCA) quando l’antigene riconosciuto è principalmente la proteinasi 3, mentre è solo perinucleare (p-ANCA) soprattutto quando l’antigene è la mieloperossidasi. Valutazioni più precise si hanno ricercando gli anticorpi diretti contro questi due antigeni con tecnica ELISA o Western Blot. Sul possibile meccanismo patogenetico degli ANCA si è discusso a lungo, ma attualmente prevale l’idea che potrebbe dipendere da una penetrazione di questi anticorpi all’interno dei neutrofili con la conseguente induzione di un incremento critico (“burst”) dei processi ossidativi e di una degranulazione di queste cellule, con liberazione di enzimi lisosomiali che danneggiano i tessuti. Questa ipotesi è rafforzata da osservazioni in vitro, ottenute cimentando il siero che contiene gli ANCA con granulociti neutrofili e dalla constatazione che, nelle malattie nelle quali questi anticorpi sono positivi, il loro titolo si correla con l’attività del processo morboso. D’altro canto, non si è riusciti, in animali da esperimento, a indurre vasculite con la somministrazione passiva di siero sanguigno contenente ANCA o con l’immunizzazione attiva con mieloperossidasi umana. Per di più, donne gravide affette da vasculiti con ANCA positivi non trasmettono al feto la malattia, nonostante il fatto che questi anticorpi attraversano sicuramente la barriera placentare. Perciò, il ruolo patogenetico degli ANCA resta ancora da chiarire completamente, anche perché delle positività per la loro presenza possono essere trovate a volte nel siero sanguigno di pazienti che non sono affetti da vasculiti, ma da infezioni croniche
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(come l’endocardite infettiva o le infezioni respiratorie della fibrosi cistica) o da altre malattie immunopatologiche (come l’artrite giovanile idiopatica, la sclerosi sistemica o le malattie infiammatorie intestinali) o da infezione da HIV. Inoltre i p-ANCA sono caratteristicamente presenti nella glomerulonefrite idiopatica rapidamente progressiva (proliferativa extracapillare). B. Classificazione. A causa del polimorfismo di tali sindromi e delle scarse conoscenze sull’eziologia di tali forme, sono state proposte varie classificazioni per lo più di tipo descrittivo. Per tali classificazioni sono stati presi in considerazione diversi criteri: ampiezza dei vasi (grande, medio e piccolo calibro), loro sede (arco aortico, arti, cute, ecc.), tipo di vasi interessati (arterie, arteriole, capillari, venule, vene o una loro combinazione), quadro istologico (tipo di infiltrato, presenza o assenza di cellule giganti o granulomi), tipo di alterazione immunologica, aspetti angiografici. La classificazione oggi più comunemente accettata è quella proposta da Cupps e Fauci nel 1981 che si basa su alcuni dei criteri sopra esposti (Tab. 69.13). Il primo gruppo detto delle vasculiti necrotizzanti sistemiche comprende la poliarterite nodosa, la granulomatosi allergica (malattia di Churg e Strauss) e una forma intermedia tra le due cosiddetta “overlap syndrome”. Tali forme sono caratterizzate dall’interessamento di arterie di medio e piccolo calibro, talora con coinvolgimento anche delle vene vicine. La granulomatosi allergica può interessare più facilmente anche arteriole e capillari. Entrambe le forme sono caratterizzate da vasculite necrotizzante con lesioni in diversi stadi. Assenti i granulomi nella poliarterite nodosa, sono caratte-
Tabella 69.13 - Classificazione delle vasculiti. I
Vasculiti necrotizzanti sistemiche del gruppo della poliarterite nodosa: A. Poliarterite nodosa classica B. Granulomatosi allergica (malattia di Churg e Strauss) C. Overlap syndrome II Vasculiti da ipersensibilità III Granulomatosi di Wegener IV Granulomatosi linfomatoide V Arteriti gigantocellulari: A. Arterite temporale di Horton B. Malattia di Takayasu VI Malattia di Kawasaki (sindrome linfomucocutanea) VII Tromboangioite obliterante (malattia di Buerger) VIII Malattia di Behçet IX Vasculite del sistema nervoso centrale X Vasculiti associate con tumori maligni XI Varie: A. Sindrome di Cogan B. Vasculite ipocomplementemica C. Malattia di Eales D. Altre
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ristici nella granulomatosi allergica. Infine, mentre la poliarterite nodosa risparmia i polmoni, questi sono elettivamente colpiti dalla granulomatosi allergica, nella quale è inoltre generalmente presente un’anamnesi positiva per allergia e un’eosinofilia. Un secondo gruppo comprende diverse forme note come vasculiti da ipersensibilità. In questo gruppo si ha un interessamento predominante di vasi di piccolo calibro (arteriole, venule, capillari). Dal punto di vista anatomopatologico si ha un’infiammazione necrotizzante con lesioni generalmente tutte allo stesso stadio. Predomina l’interessamento cutaneo, sieroso, renale. Tra queste si riconoscono forme primitive o secondarie. Importante la correlazione eziologica con la somministrazione di farmaci, le infezioni virali (HB virus) o batteriche (streptococchi, ecc.). Talora accompagnano connettiviti. La risposta immunitaria può essere mediata da IgG o IgM (come nella malattia da siero e nelle forme simili o nella crioglobulinemia mista) o da IgA (porpora di Schönlein-Henoch). Un posto a parte occupa la granulomatosi di Wegener caratterizzata da vasculite necrotizzante con importante impronta granulomatosa a carico dei vasi di piccolo calibro. Dominante l’interessamento dell’apparato respiratorio spesso coinvolto il rene. Qualche somiglianza con tale forma presenta la granulomatosi linfomatoide che interessa solo le basse vie respiratorie con un infiltrato formato da cellule atipiche e possibile evoluzione in una malattia linfoproliferativa. L’arterite temporale di Horton e la malattia di Takayasu costituiscono il gruppo delle arteriti gigantocellulari. Colpiscono arterie di grosso e medio calibro. Il quadro anatomopatologico è quello di una panarterite con formazione di cellule giganti. La prima forma predilige l’anziano, la seconda (assai rara in Italia) colpisce giovani donne. Seguono alcune forme classificate in modo autonomo.
Poliarterite nodosa La poliarterite nodosa (PAN) è stata anche denominata periarterite nodosa o panarterite nodosa. È una vasculite necrotizzante delle arterie di medio e piccolo calibro. Le lesioni sono segmentarie e hanno una predilezione per i punti di ramificazione dei vasi. Importante l’interessamento renale e viscerale, generalmente risparmiata la circolazione polmonare. Il vaso è interessato a tutto spessore con una facile evoluzione aneurismatica. Ne esiste anche una variante interessante solo i vasi più piccoli, la “poliangite microscopica”, nella quale i fenomeni infartuali e gli aneurismi sono mancanti, mentre prevalgono i sintomi sistemici. Questa, infatti, è una tra le possibili cause di febbre di natura da determinare. Nella poliangite microscopica l’interessamento polmonare può esistere sotto forma di una pneumopatia interstiziale diffusa. Questa forma presenta molte somiglianze patologiche e cliniche con la granulomatosi di Wegener (si veda in seguito), compresa la frequente positività degli ANCA nel sangue, e per questo è stata da alcuni considerata,
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assieme a quest’ultima, malattia in un solo gruppo, definito “vasculiti ANCA-associate”. Noi non condividiamo questo punto di vista perché, accanto alle somiglianze, esistono anche considerevoli differenze delle quali parleremo a proposito della granulomatosi di Wegener. Tra le altre, va menzionato anche il fatto che nella poliangite microscopica la positività riguarda i p-ANCA, mentre nella granulomatosi di Wegener ad essere positivi sono caratteristicamente i c-ANCA. A. Epidemiologia. L’incidenza non è nota a causa della variabilità degli schemi di classificazione. L’età media di insorgenza è di 45 anni, pur essendo stata descritta a tutte le età. Colpisce prevalentemente i maschi con un rapporto di 2,5 a 1. B. Eziopatogenesi. Si tratta di una malattia in cui il danno appare chiaramente mediato dalla deposizione di immunocomplessi con successiva attivazione del complemento e richiamo di granulociti neutrofili. Dal punto di vista eziologico si riconoscono forme di PAN primitive e secondarie. Tra queste ultime ha massima importanza l’associazione col virus dell’epatite B dimostrato circa in un terzo dei pazienti affetti da PAN. Si ritiene che in tali casi gli immunocomplessi siano costituiti da antigeni virali e relativi anticorpi. Altri agenti infettivi sono stati associati alla PAN (streptococco, stafilococco, micobatteri, ecc.). Talora la PAN può manifestarsi durante il decorso di una connettivite (lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide, ecc.) o di un’altra malattia immunopatologica (morbo di Crohn). Per analogia si può ipotizzare che anche nelle forme primitive il meccanismo patogenetico sia simile, con la differenza che in tale caso non è noto l’agente eziologico (virus?). Tra i fattori favorenti è importante l’ipertensione arteriosa che determina una maggiore sollecitazione della parete vasale. C. Fisiopatologia. Il danno vasculitico nella PAN è segmentario, con una predilezione per la biforcazione dei vasi. Tale danno appare interessante il vaso “a tutto spessore”. È presente un infiltrato cellulare rappresentato da granulociti neutrofili e macrofagi e caratteristicamente sono presenti zone di necrosi fibrinoide. Si tratta di un quadro istologico così definito perché si riferisce a una disorganizzazione della struttura tissutale (aspetto necrotico) che si colora con i metodi di solito sono impiegati per la fibrina. La parete vasale colpita può restringersi e il lume può occludersi per la formazione di un trombo. In tale caso tutto il distretto che è irrorato a valle della lesione diviene ischemico. Ricorrenti episodi ischemici sono in effetti comuni in tale malattia. Alternativamente, la parete vasale può indebolirsi e dare luogo alla formazione di piccoli aneurismi (dilatazioni arteriose che in tale malattia hanno un diametro da un millimetro ad un centimetro o poco più). Tali aneurismi, quando interessano arterie superficiali, possono essere palpati ed è proprio la loro presenza che ha dato il nome alla malattia.
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D. Clinica. Talora la PAN è preceduta da un’infezione delle vie aeree superiori o da una reazione a farmaci, spesso è positiva l’anamnesi per un’epatite virale B. I sintomi e i segni all’esordio possono essere assai aspecifici: febbre, dimagramento, malessere, artromialgie, anoressia, dolori addominali. Altre volte invece prevalgono i segni dell’interessamento di un organo o apparato. 1. Rene. Il rene è l’organo più comunemente interessato anche se spesso non in modo clinicamente evidente. La frequenza di tale interessamento è circa del 70%. Comune è il riscontro di ipertensione arteriosa che può instaurarsi, nel caso di interessamento delle arterie renali, con un meccanismo di tipo nefrovascolare. Sono pure frequenti gli infarti renali per trombosi di arterie renali di medio calibro. La deposizione di immunocomplessi può determinare un danno di tipo glomerulonefritico nel 30% dei casi. 2. Apparato muscolo-scheletrico. Artralgie e mialgie sono comuni (oltre il 50% dei casi). Una vera e propria artrite è rara. Le artralgie sono probabilmente correlate alla deposizione di immunocomplessi a livello sinoviale mentre le mialgie sono dovute ad una vasculite a carico del muscolo. 3. Apparato gastroenterico. Le lesioni più comuni sono di tipo ischemico, talora con un quadro di insufficienza arteriosa transitoria (tipo angina abdominis), talora con un vero e proprio infarto. Tale evenienza è molto grave in quanto in tal caso tutto l’intestino a valle del vaso occluso va in necrosi e si può arrivare ad una peritonite acuta per la perforazione del viscere. Comune anche l’interessamento di fegato, colecisti e pancreas. 4. Lesioni cutanee. Possono essere varie. Il quadro più classico è quello di un’eruzione maculopapulare o urticarioide non specifica (40%). Le caratteristiche lesioni nodulari compaiono nel 15% dei casi. Comune anche se di scarsa importanza la livedo reticularis: reticolo rossobluastro della cute, più spesso agli arti inferiori. Talora episodi di gangrena della parte distale delle dita. 5. Cuore. È colpito in un terzo circa dei casi. Le manifestazioni più comuni sono scompenso cardiaco ed episodi ischemici per lesioni vasculitiche a livello delle coronarie. All’autopsia si riscontrano spesso infarti miocardici, pur in assenza di una storia suggestiva. L’interessamento cardiaco è particolarmente frequente nei bambini. 6. Sistema nervoso centrale e periferico. Massima frequenza ha una mononeurite multipla dello stesso tipo di quella che compare nel lupus eritematoso sistemico (50%). A carico del sistema nervoso centrale sono relativamente comuni episodi ischemici, convulsioni, psicosi. A livello oculare possono essere presenti lesioni conseguenti all’ipertensione arteriosa o a un danno vasculitico delle arterie retiniche o corioidee. Talora diploplia per danno della muscolatura oculare estrinseca. E. Esami di laboratorio. Di solito sono alterati gli indici di fase acuta con un aumento della VES, iper--2 e iper-, aumento delle mucoproteine. Spesso presente
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anemia (o da malattia cronica o da perdita), piastrinosi, leucocitosi neutrofila talora assai spiccata. Tra gli esami immunologici spesso si evidenzia la presenza di immunocomplessi circolanti, la riduzione di frazioni del complemento (C3, C4), talora RA-test positivo e presenza di crioglobuline circolanti. In caso di danno renale si trovano alterazioni del reperto urinario (proteinuria, ematuria, ecc.) e degli indici di funzionalità renale. F. Esami strumentali. In caso di coronaropatia all’elettrocardiogramma saranno presenti le alterazioni caratteristiche. Tra gli esami radiografici grande utilità diagnostica ha l’angiografia. Quasi patognomonica è la presenza di aneurismi nei punti di biforcazione dei vasi arteriosi (soprattutto a livello renale e gastroenterico). L’esame che tuttavia ci dà le maggiori informazioni ai fini diagnostici è quello istopatologico che può essere eseguito su una biopsia (si veda in seguito). Gli aspetti evidenziati sono vari e vanno dalla proliferazione endoteliale alla degenerazione della parte vasale con necrosi fibrinoide, a quadri di trombosi, ischemia, infarto. Tutti gli stadi delle lesioni possono essere presenti contemporaneamente. Ciò suggerisce che lo stimolo infiammatorio sulla parete vasale sia persistente. G. Diagnosi. Si basa sulla dimostrazione di una vasculite necrotizzante delle arterie di medio e piccolo calibro in un paziente con manifestazioni cliniche compatibili con quelle della PAN. L’esame istologico può essere effettuato su un campione bioptico prelevato da una delle sedi interessate o da un reperto chirurgico (colecisti, anse intestinali ischemiche, ecc.). In caso di difficoltà di prelievo nelle sedi più colpite è stata suggerita la biopsia in sede muscolare, testicolare, rettale. Tuttavia anche in presenza di negatività di tali reperti istologici non si può escludere del tutto la diagnosi. Gli esami angiografici sono diagnostici nell’80% dei casi. Ai fini terapeutici e prognostici è infine importante determinare se la malattia sia o meno correlata con il virus dell’epatite B o con altre malattie immunopatologiche (LES, AR, ecc.). H. Decorso e prognosi. Il decorso, prima dell’introduzione della terapia steroidea, era assai sfavorevole. La sopravvivenza era del 50% nel primo anno e soltanto del 13% nel quinto anno. Le cause più comuni di morte sono: insufficienza renale, cardiopatia ipertensiva, episodi ischemici cerebrali o intestinali. L’uso degli steroidi ha fatto salire la sopravvivenza al 50% dopo 5 anni. Un ulteriore miglioramento della prognosi si è avuto con l’introduzione in terapia dei farmaci immunosoppressori (80% a 5 anni). I. Terapia. Attualmente si basa sulla somministrazione di steroidi a dosaggio elevato: prednisone 1 mg/kg/die associato ad immunosoppressori. Tra questi massima efficacia ha la ciclofosfamide (2 mg/kg/die). Dopo una
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terapia di attacco di circa quattro settimane si riduce la dose dello steroide e si aggiusta quella della ciclofosfamide in modo da mantenere una conta dei globuli bianchi tra 3000 e 3500. Importante, infine, un’adeguata terapia per l’eventuale ipertensione arteriosa.
Granulomatosi allergica (malattia di Churg e Strauss) È una vasculite granulomatosa multisistemica. Benché possa avere caratteri simili alla PAN, la si distingue per le seguenti caratteristiche: alta frequenza di interessamento dei vasi polmonari (raro nella PAN), formazione di granulomi intra ed extravascolari, eosinofilia sia in circolo che a livello tissutale, associazione con l’asma bronchiale ed altre manifestazioni atopiche. Generalmente sono interessati vasi di vario tipo e dimensioni (arterie di medio e piccolo calibro, arteriole, venule e vene). Negli USA l’incidenza di questa malattia nella popolazione generale è stata stimata tra 2,4 e 6,8 per 1.000.000 di soggetti all’anno. Non c’è ragione di pensare che in Italia essa sia sostanzialmente diversa. A. Eziopatogenesi e fisiopatologia. La causa della malattia di Churg e Strauss è sconosciuta. Si pensa che sia una malattia autoimmune che implica l’azione dei linfociti Th2, cui consegue la produzione di citochine, tra le quali l’interleuchina-5 (IL-5) che recluta e attiva i granulociti eosinofili e ha come bersaglio l’endotelio vascolare. È difficile dire se la reazione autoimmune sia indirizzata direttamente all’endotelio o se questo sia danneggiato indirettamente. Considerando che in circa la metà dei casi di questa malattia si dimostrano nel sangue anticorpi anticitoplasma dei neutrofili del tipo perinucleare (p-ANCA), è stata presa in considerazione la possibilità che questi svolgano un ruolo patogenetico. Tuttavia, è poco probabile che questa sia una spiegazione sufficiente, perché altrimenti resterebbe oscura la patogenesi dei casi nei quali tali anticorpi sono assenti. È importante tenere presente che la malattia di Churg e Strauss si sviluppa al seguito di manifestazioni allergiche a carico dell’apparato respiratorio, cioè di condizioni che di per sé tendono a provocare eosinofilia. L’evoluzione in vasculite può verificarsi anche a distanza di molti anni e può essere precipitata da eventi quali infezioni polmonari, iposensibilizzazione per allergia, vaccinazione, sospensione di trattamenti corticosteroidei e, secondo alcuni, somministrazione di certi farmaci. Tra questi, alla fine degli anni Novanta, sono stati incolpati di favorire l’insorgenza di questa vasculite gli antagonisti del recettore dei cisteinil-leucotrieni, come lo zafirlukast, il montelukast e il pranlukast, ma uno studio commissionato dai National Institutes of Health degli USA non ha confermato tali sospetti. Dal punto di vista patologico la malattia di Churg e Strauss è caratterizzata da un infiltrato tissutale ricco di eosinofili, con formazione di granulomi nei tessuti connettivi e nelle pareti vascolari. Nei vasi di piccolo-medio calibro si sviluppa una vasculite necrotizzante. Per-
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ciò, dal punto di vista patologico, esistono somiglianze con la granulomatosi di Wegener (per i granulomi: si veda in seguito) e con la poliangite microscopica (della vasculite necrotizzante dei vasi di piccolo calibro se ne è parlato a proposito della poliarterite nodosa). Tuttavia, entrambe queste vasculiti differiscono dalla malattia di Churg e Strauss per l’assenza di asma e di eosinofilia. B. Clinica. È una malattia rara che colpisce pressoché in egual misura maschi e femmine (M:F = 1,3:1). L’età media di insorgenza è 44 anni. È spesso preceduta da una storia di asma e infezioni respiratorie. Tra i sintomi costituzionali sono comuni astenia, anoressia, dimagramento, febbre. L’interessamento dell’apparato respiratorio è pressocché costante. Quasi tutti i pazienti soffrono di asma, per lo più insorta poco tempo prima di questa vasculite, ma in rari casi anche da molti anni, o, al contrario, dopo che la malattia si è presentata. La rinite allergica è presente in circa il 75% degli ammalati e spesso è il sintomo iniziale. Si osservano anche sinusite e, a carico del naso, polipi, ostruzione e secrezione purulenta. Infiltrati polmonari si osservano alla radiografia del torace nella maggioranza dei pazienti, anche se spesso questi sono fugaci, come pure possono essere osservati noduli, che però, a differenza che nella granulomatosi di Wegener, non vanno mai incontro a cavitazione. La dimostrazione radiografica di infiltrati alveolari diffusi suggerisce la possibilità di emorragie alveolari. Una neuropatia periferica, di solito una mononeurite multipla, è comune nella malattia di Churg e Strauss (65-75% dei casi) ed è dovuta a vasculite dei vasa nervorum. Rare, ma non impossibili, sono invece le lesioni del sistema nervoso centrale, dovute a emorragie o a infarti. L’interessamento gastrointestinale è frequente e si manifesta più spesso sotto forma di dolori addominali. È stata descritta pure una gastroenterite eosinofila, con diarrea, talora ematica, e, più raramente, perforazione intestinale. Comuni sono anche le manifestazioni cutanee, di solito sotto forma di porpora palpabile, ma anche di lesioni eritematose, maculopapulari o pustolose. La compromissione cardiaca è pure possibile e include l’endomiocardite eosinofila, la vasculite delle coronarie, lo scompenso cardiaco e la pericardite. Questa è la manifestazione più grave della malattia di Churg e Strauss e può essere causa di morte. Infine, il coinvolgimento renale è abbastanza tipico ed è testimoniato da ematuria microscopica e proteinuria, descritte in una serie rispettivamente nel 68% e nel 63% dei casi. Tuttavia, a differenza della granulomatosi di Wegener e della poliangite microscopica, nella malattia di Churg e Strauss l’insufficienza renale è rara. In questi casi la biopsia renale dimostra una glomerulonefrite focale e segmentaria. Dal punto di vista degli esami di laboratorio la malattia di Churg e Strauss è caratterizzata da positività dei segni di fase acuta (aumento di VES e di PCR) e, quasi costantemente, da ipereosinofilia. In alcuni casi l’eosinofilia periferica non è evidente, ma l’aumento nel sie-
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ro sanguigno della concentrazione della proteina cationica degli eosinofili dimostra che queste cellule sono attivate nei tessuti. I p-ANCA sono presenti nel sangue in circa la metà dei casi. C. Diagnosi. La diagnosi della malattia di Churg e Strauss è clinica ed è facile in ogni paziente che ha una storia di asma, un’eosinofilia periferica (> 1500 eosinofili/l) e una vasculite sistemica che coinvolge due o più organi. Si deve pensare a questa malattia anche in pazienti asmatici che sviluppano una rinite allergica in età adulta o una polineuropatia. La diagnosi differenziale più importante è con le sindromi ipereosinofile, l’aspergillosi broncopolmonare allergica o le polmoniti da ipersensibilità. D. Prognosi e terapia. La prognosi della malattia di Churg e Strauss è generalmente buona. I pazienti con una compromissione di organi limitata rispondono bene al semplice trattamento corticosteroideo. Quelli con un interessamento più ampio o resistenti ai corticosteroidi possono ancora rispondere con l’aggiunta di farmaci immunosoppressori. Tra questi, al primo posto è la ciclofosfamide (seguita eventualmente dall’azatioprina o dal micofenolato mofetile) con le stesse modalità di cui si è parlato a proposito della poliarterite nodosa.
Vasculiti da ipersensibilità Si tratta di un gruppo eterogeneo di sindromi cliniche che hanno in comune l’interessamento dei vasi di piccolo calibro (arteriole, venule, capillari). Generalmente le lesioni tendono ad essere tutte della stessa epoca. Qualsiasi organo può essere colpito ma l’interessamento cutaneo domina il quadro. La denominazione di vasculiti da ipersensibilità deriva dall’osservazione che in molti casi può essere identificato l’agente responsabile della reazione infiammatoria abnorme (batteri, virus, proteine eterologhe, farmaci). A. Classificazione. All’interno dell’ampio spettro delle vasculiti da ipersensibilità si riconoscono diverse forme delle quali alcune assai caratteristiche. La classificazione è riportata nella tabella 69.14. Saranno qui trattate in generale le vasculiti da ipersensibilità, in particolare la porpora di Schönlein-HeTabella 69.14 - Vasculiti da ipersensibilità. • • • •
Malattia da siero e forme assimilabili Porpora di Schönlein-Henoch Crioglobulinemia mista Forme associate a malattie sistemiche – Connettiviti (LES, AR, sindrome di Sjögren, sclerdermia, polimiosite, malattia reumatica) – Tumori (Linfomi HG e non HG, LLC, mieloma, ecc.) – Altre malattie (endocardite infettiva, epatite cronica attiva, colite ulcerosa, cirrosi biliare primitiva, sindrome di Goodpasture)
noch e le crioglobulinemie miste. Per la malattia da siero, si veda pag. 1386. B. Fisiopatologia. Sono forme chiaramente causate dalla deposizione di immunocomplessi a livello dei piccoli vasi. Non è noto il perché in questo caso la deposizione avvenga a livello dei piccoli vasi mentre nella PAN avvenga a livelli di vasi più grossi. È importante segnalare che in molti casi è stata dimostrata a livello vascolare la presenza di materiale antigenico estraneo (HB5AG, antigeni strepto o stafilococcici, ecc.). Mediante studi in immunofluorescenza si è riscontrata anche la presenza di immunoglobuline e complemento nelle sedi di flogosi. Tali immunoglobuline possono essere di classe IgG o IgM o anche IgA come nella porpora di Schönlein-Henoch. L’aspetto istologico è caratterizzato da necrosi, edema, essudazione. Caratteristico l’accumulo di granulociti neutrofili a livello delle pareti vasali e nelle aree perivascolari. Molti appaiono danneggiati o frammentati: di qui la denominazione di vasculiti leucocitoclastiche data da alcuni Autori a queste forme. C. Clinica. Il quadro clinico può essere molto vario. Talora predomina l’interessamento di qualche distretto, talora il danno è sistemico e caratterizzato da febbre, malessere, mialgie, anoressia. Può essere utile considerare in dettaglio le lesioni principali. 1. Cute. Le manifestazioni dermatologiche sono caratteristiche: una porpora palpabile è presente nel 99% dei casi. Le lesioni possono avere un diametro variabile da un millimetro a parecchi centimetri (da petecchie a ecchimosi), hanno tendenza a comparire in gettate successive con distribuzione simmetrica e prevalenza nelle aree declivi (soprattutto agli arti inferiori e nella regione presacrale dei pazienti allettati). Usualmente è presente una tendenza all’evoluzione da petecchia a vescicola emorragica fino ad una lesione nodulare o a placca. Talora compaiono ulcerazioni. La guarigione di solito avviene entro 2-4 settimane. Spesso persiste una discromia maculare nella zona colpita. Meno spesso si hanno altre manifestazioni cutanee: vescicole, bolle, orticaria, eritema multiforme, noduli, livedo reticularis. 2. Articolazioni. Nel 40% dei pazienti si ha un’artralgia o un’artrite soprattutto a carico delle grosse articolazioni. 3. Rene. L’interessamento renale è presente nel 37% dei casi: il quadro più comune è un’ematuria asintomatica. Nel 10% dei casi si può arrivare all’insufficienza renale. 4. Altri organi. L’interessamento polmonare (versamenti pleurici, infiltrati aspecifici) e quello gastroenterico (melena, ematemesi) compaiono tra il 15 e il 20% dei casi. Nel 12% dei casi si ha una neuropatia periferica. D. Esami di laboratorio. Sono presenti alterazioni degli indici di fase acuta con leucocitosi neutrofila e
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aumento della VES. Talora abbassamento dei livelli del complemento. In un certo numero di casi positività per il fattore reumatoide e le crioglobuline. In caso di danno renale alterazioni urinarie. E. Diagnosi. Si basa sulla biopsia cutanea, muscolare o renale. F. Prognosi e terapia. La prognosi varia a seconda della forma. Generalmente è favorevole con l’eccezione dei rari casi che progrediscono verso l’insufficienza renale. La terapia si basa sull’uso degli steroidi: prednisone a un dosaggio da 20 a 60 mg/die. Nei casi resistenti si può ricorrere agli immunosoppressori.
Porpora di Schönlein-Henoch È caratterizzata da una classica triade: porpora palpabile, artrite, dolori addominali. Le lesioni cutanee hanno la tendenza a localizzarsi sulle natiche e gli arti inferiori. In tali sedi può essere presente edema. L’artrite colpisce soprattutto le caviglie e le ginocchia: la flogosi articolare appare limitata nel tempo. Le lesioni gastroenteriche possono causare dolori crampiformi, intussuscezione, emorragie, enteropatia protidodisperdente o più raramente perforazione. L’interessamento renale è presente in circa metà dei casi e, benché in genere sia lieve, può in alcuni casi portare all’insufficienza renale cronica. È più comune nei bambini che negli adulti (età media 4-7 anni): negli adulti si manifesta in modo un po’ atipico in quanto predominano i disturbi articolari e il danno renale. È una forma la cui patogenesi è chiaramente dovuta ad immunocomplessi. Nei 2/3 dei casi è preceduta da un’infezione delle vie aree superiori (spesso da streptococco). Talora esiste una correlazione con l’uso di farmaci (penicilline, tetracicline, sulfamidici, aspirina, diuretici tiazidici). Sono di solito presenti in circolo elevati livelli di IgA e la deposizione di tali anticorpi è costantemente dimostrata a livello cutaneo e renale. Ciò determina una peculiarità di tale malattia in quanto il complemento viene attivato per la via alterna anziché per la via classica. Poiché tale forma si risolve per lo più spontaneamente, la prognosi è buona anche nei pazienti non trattati. Nelle forme più gravi, specialmente negli adulti, può essere necessario ricorrere agli steroidi. Raramente persiste alterazione della funzionalità renale.
Crioglobulinemie Le crioglobuline sono proteine presenti nel siero di pazienti affetti da patologie di diversa origine, in particolare malattie infettive, autoimmunitarie o linfoproliferative (Tab. 69.15). Sono dotate di una particolarità fisicochimica, quella di precipitare quando il siero sia posto a incubare a freddo (+ 4 °C). La caratterizzazione del crio-
Tabella 69.15 - Patologie in cui è stata evidenziata la presenza di crioglobuline. Infezioni • Virali – Mononucleosi infettiva (29-95%) – Cytomegalovirus (34%) – Epatite virale B ai prodromi (77%) – Epatite cronica B (46%) – Epatite virale C acuta e cronica – AIDS – Infezioni di adenovirus • Batteriche – Endocardite batterica subacuta (fino al 90%) – Lebbra lepromatosa (fino al 90%) – Linfogranuloma venereo – Sifilide (15-38%) • Fungine – Coccidioidomicosi • Parassitosi – Kala azar – Toxoplasmosi – Echinococcosi – Malaria – Schistosomiasi Malattie autoimmuni • LES (16-89%) – Artrite reumatoide (20-25%) – Poliarterite nodosa – Sindrome di Sjögren – Sclerosi sistemica (fino al 50%) – Sarcoidosi – Tiroidite autoimmune – Porpora di Schönlein-Henoch – Malattia di Behçet – Dermato-polimiosite – Celiachia – Fibrosi polmonare – Pemfigo volgare Malattie linfoproliferative – – – – –
Mieloma multiplo Macroglobulinemia di Waldenström Linfomi non-Hodgkin Leucemia linfatica cronica Linfoadenopatia angioimmunoblastica
• Altre – Glomerulonefrite proliferativa – Glomerulonefrite poststreptococcica – Cirrosi epatica classica e biliare primitiva – Epatite cronica – Forme familiari
precipitato dimostra la costante presenza di immunoglobuline che possono essere monoclonali o policlonali e spesso hanno un’attività reumatoide (ossia reagiscono con la regione Fc delle IgG: si veda Cap. 70). La classificazione più seguita delle crioglobuline è quella di Brouet, che ne riconosce tre tipi principali (Tab. 69.16). Il primo tipo è costituito da crioglobuline puramente monoclonali, la cui precipitazione è correlata a fenomeni di polimerizzazione che aumentano con la concentra-
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Tabella 69.16 - Classificazione immunochimica delle crioglobulinemie. (*) • Tipo I
Crio monoclonale (24,5%)
IgM (13%) IgG (8%) IgA (2,5%) Bence-Jones (1%)
• Tipo II Crio mista con componente IgM-IgG (22%) monoclonale (25,5%) IgG-IgG (2,5%) IgA-IgG (1%) • Tipo III Crio mista policlonale (50%) IgM-IgG (43%) IgM-IgG-IgA (7%) (*) Secondo la classificazione di Brouet et al. 1974.
zione e con l’abbassamento della temperatura. Tali immunoglobuline non hanno attività reumatoide e si trovano prevalentemente in malattie linfoproliferative e discrasie plasmacellulari. Il secondo tipo è costituito da due componenti immunoglobuliniche, una delle quali è monoclonale e presenta un’attività reumatoide nei confronti di altre immunoglobuline non monoclonali: la varietà più frequente è di tipo IgM-IgG, in cui la componente monoclonale è rappresentata dall’IgM. Anche questo tipo di crioglobuline può essere associato a malattie linfoproliferative o discrasie plasmacellulari, ma può evidenziarsi anche in malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide, la sindrome di Sjögren o comparire autonomamente nelle cosiddette forme essenziali. Il terzo tipo, che è il più frequente, è costituito da componenti immunoglobuliniche policlonali, una delle quali ha attività reumatoide nei confronti della o delle altre immunoglobuline. Si riscontra frequentemente in corso di malattie autoimmuni o infettive ma spesso ha un decorso autonomo. Quando la crioglobulinemia mista si presenta come manifestazione isolata, non associata con altre malattie, viene definita “essenziale”. Tra le forme essenziali la variante più comune è quella di tipo II. A. Eziopatogenesi. Le crioglobuline del tipo II e III sono un tipo particolare di immunocomplessi, che, depositandosi a livello della microcircolazione, sono in grado di determinare quei fenomeni di infiammazione che conducono alla vasculite. Mentre il meccanismo di formazione delle crioglobuline in corso di patologie linfoproliferative o di malattie autoimmuni è abbastanza evidente, resta da chiarire quale sia la genesi delle crioglobulinemie miste essenziali. Poiché piccole quantità di crioglobuline si formano in molte malattie infettive durante la fase di risposta anticorpale, si è cercato a lungo un agente batterico o virale che potesse essere responsabile della genesi di tale forma morbosa. In passato l’attenzione è stata focalizzata sul virus dell’epatite B, in quanto un discreto numero di pazienti
crioglobulinemici presentava una sierologia positiva per tale virus e materiale virale è stato riscontrato analizzando le crioglobuline. Più recentemente l’attenzione si è spostata sul virus dell’epatite C, la cui patogenicità in questa malattia sembra molto importante: la percentuale di pazienti affetti da crioglobulinemia mista, in cui si abbia una positività per i marcatori dell’epatite C è in un ambito compreso tra l’80% e il 90%. Quale sia il meccanismo che evoca la comparsa delle crioglobuline in concentrazione elevata non è ancora chiaro, così come la relazione con l’epatite cronica C. Sul ruolo del virus dell’epatite C (HCV) nell’induzione della crioglobulinemia mista essenziale esistono due ipotesi principali. La prima valorizza il linfotropismo dell’HCV e considera la crioglobulinemia mista di tipo II come un disordine linfoproliferativo a basso grado di malignità. Essendo le crioglobuline dotate di attività di fattore reumatoide, si combinerebbero (e precipiterebbero a freddo) con IgG vincolate ad antigeni in complessi antigene-anticorpo circolanti. E in corso di infezione cronica da HCV, esistono complessi circolanti contenenti il virus, il che spiegherebbe la sua presenza nel crioprecipitato. Questa ipotesi è in accordo con alcuni dati. Per esempio, nell’epatite cronica da HCV sono comuni nel fegato infiltrati linfoidi di cellule B CD5 positive, ossia di cellule che producono anticorpi largamente cross-reagenti e a bassa affinità per il corrispettivo antigene (Cap. 68). Queste cellule funzionano senza la cooperazione di linfociti T helper e perciò producono solo anticorpi della classe IgM. Tra le loro specificità c’è quella contro la regione Fc delle IgG e perciò sono produttrici di “fattore reumatoide”. Un altro argomento è che la cronica infezione con HCV è significativamente associata con l’emergenza di linfomi non-Hodgkin, derivati da cellule B CD5 positive. Un’obiezione a questa ipotesi è che raramente una crioglobulinemia mista essenziale di tipo II evolve in un linfoma. La maggioranza degli Autori propende perciò per una seconda ipotesi, cioè che l’HCV stimoli la produzione di crioglobuline da parte di cellule non infettate. È noto che complessi antigene-anticorpo possono stimolare la formazione di fattore reumatoide e così potrebbero fare complessi tra l’HCV e IgG formate contro il virus in una normale risposta immunitaria, se restassero abbastanza a lungo circolanti. Tuttavia, in questo modo è inspiegato perché il fattore reumatoide così prodotto possa essere monoclonale e sia crioprecipitabile. Perciò, una variante più complessa di questa ipotesi è stata presentata da Agnello nel 1995. Essa è basata su alcuni presupposti che qui riportiamo sommariamente. • La frequenza della crioglobulinemia mista essenziale di tipo II è tanto maggiore quanto più lunga è l’infezione da HCV. Questo fa pensare che il tipo III sia il primo a manifestarsi e poi si converta nel tipo II con il passare del tempo per un errore nella proliferazione clonale. D’altro canto sono descritte forme oligoclonali, di passaggio tra i due tipi. • Le crioglobuline implicate nel tipo II hanno più spesso un idiotipo cross-reagente denominato WA (l’idiotipo
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è quella parte della molecola immunoglobulinica che ne caratterizza l’individualità e che è collegata con la regione che si combina con l’antigene). Le cellule B che producono queste crioglobuline secernono inizialmente IgM prive di attività di fattore reumatoide. Questa osservazione suggerisce che le IgM con idiotipo WA hanno specificità per un antigene non identificato, diverso dalle IgG, e che solo successivamente acquisiscono una cross-reattività per la regione Fc di queste molecole, a seguito di mutazioni somatiche. • L’HCV penetra nelle cellule con un meccanismo indiretto. Prima si lega con le lipoproteine VLDL e poi utilizza il recettore cellulare per le LDL (che è la forma di conversione delle VLDL: si veda Cap. 3) per penetrare nelle cellule. Le VLDL sono state dimostrate nei crioprecipitati. L’ipotesi di Agnello si basa sulla possibilità che la produzione di IgM con idiotipo WA sia inizialmente diretta contro i complessi tra HCV e VLDL. Successivamente, per mutazioni somatiche, queste IgM acquisirebbero attività di fattore reumatoide e, per errori nel corso della proliferazione, passerebbero dalla policlonalità all’oligoclonalità e infine alla monoclonalità. È interessante rilevare che i pazienti con infezione cronica da HCV e crioglobulinemia mista essenziale sviluppano cirrosi meno facilmente di quelli senza crioglobulinemia. Questo è spiegabile se si pensa che il legame tra HCV complessato con VLDL da una parte e crioglobulina dall’altra impedisce la penetrazione del virus nelle cellule. Ossia, la crioglobulina sembra avere un effetto di protezione sull’infezione da HCV. Questa ipotesi è indebolita dal fatto che, recentemente, è stato identificato il recettore cellulare per l’HCV e questo non coincide con il recettore delle LDL. B. Clinica. I sintomi di presentazione sono per lo più cutanei. La manifestazione più frequente è la porpora vascolare che di solito inizia agli arti inferiori. Spesso si associa il fenomeno di Raynaud, meno frequentemente sono presenti orticaria, necrosi cutanee e livedo reticularis. Tra gli altri sintomi più frequenti particolarmente rilevanti sono l’astenia e le artralgie, che insieme con la porpora formano la classica triade di presentazione. Importante è pure la polineuropatia periferica che all’inizio è sensitiva e successivamente anche motoria: classicamente simmetrica, interessa per prime le zone più distali degli arti inferiori (piedi e gambe), successivamente le cosce e gli arti superiori. L’interessamento renale non è comune ma, se presente, è prognosticamente sfavorevole. Spesso si può osservare solo un reperto laboratoristico di proteinuria con ematuria microscopica, talora associato a segni di insufficienza renale cronica moderata. Una sindrome nefritica acuta è presente nel 25% dei casi, una sindrome nefrosica nel 20% circa dei casi. Dal punto di vista anatomopatologico si può evidenziare un quadro istologico particolare di glomerulonefrite membranoproliferativa caratterizzata da proliferazione endocapillare con importante infiltrazione leucocita-
ria. In un terzo dei pazienti si possono osservare depositi amorfi dal lato interno della parete capillare glomerulare, i cosiddetti “trombi intraluminali”. L’ispessimento della membrana basale glomerulare è più importante che nella nefrite lupica e nella glomerulonefrite membranoproliferativa idiopatica. Spesso si può osservare vasculite delle arterie di medio e piccolo calibro. In immunofluorescenza si evidenziano prevalentemente depositi di IgM, IgG, frazioni del complemento e fibrinogeno. C. Esami di laboratorio. La quantità di crioglobuline può essere molto diversa da paziente a paziente e può modificarsi nel corso del tempo: è quindi utile la valutazione del criocrito che permette di esprimere la quantità di crioglobuline in percentuale sul siero. Importante la caratterizzazione in immunofissazione della crioglobulina per poter definire a quale tipo appartenga. Nelle forme di II e III tipo sono positivi il Ratest e la reazione di Waaler-Rose. Il quadro complementare è piuttosto importante e caratteristico. Le prime componenti (C1q e C4) sono in genere molto ridotte. Il C3 è leggermente ma significativamente ridotto. Le componenti tardive (C5 e C9), il C3PA e il C1INH tendono ad essere più elevati che nei soggetti normali. Utile lo studio dei marcatori dell’epatite B e C. D. Terapia. Si basa sull’uso di antinfiammatori non steroidei e cortisonici a basso dosaggio nelle forme più leggere, mentre nei casi più impegnativi si può ricorrere agli steroidi a dosaggio medio-alto e agli immunosoppressori. Nelle forme rapidamente evolutive si è dimostrata utile la plasmaferesi associata a una terapia immunosoppressiva. Recentemente, in rapporto al probabile ruolo patogenetico dei virus dell’epatite, è stata proposta e utilizzata con vantaggio una terapia con -interferone da somministrare con le stesse modalità con cui si utilizza nelle epatiti croniche attive B e C.
Granulomatosi di Wegener È una vasculite necrotizzante a carattere granulomatoso che colpisce i piccoli vasi arteriosi e venosi: è caratterizzata soprattutto da interessamento delle alte e basse vie aeree e da glomerulonefrite. Come si è già detto, esistono somiglianze tra questa malattia e la poliangite microscopica, in quanto entrambe possono provocare capillarite polmonare, glomerulonefrite pauci-immune con semilune (si veda in seguito) e presentare positività degli ANCA nel sangue. Tuttavia, nella poliangite microscopica non si verificano fenomeni necrotici e gli anticorpi caratteristici sono i p-ANCA, mentre quelli più specifici della granulomatosi di Wegener sono i c-ANCA. A. Epidemiologia. È una malattia rara. Colpisce con una lieve prevalenza gli uomini (1,5:1). L’età media di insorgenza è di circa 40 anni.
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B. Eziologia. È sconosciuta ma poiché l’interessamento principale è a livello dell’apparato respiratorio si ritiene probabile il ruolo di qualche antigene inalato. C. Patogenesi e fisiopatologia. Dal punto di vista patologico, la granulomatosi di Wegener è caratterizzata da una vasculite necrotizzante o granulomatosa. I granulomi sono costituiti da istiociti epitelioidi a palizzata intorno a un centro necrotico. Nei reni il quadro è quello di una glomerulonefrite segmentale, necrotizzante, nella quale con l’immunofluorescenza non si dimostrano complessi immuni. L’infiammazione dei vasi sanguigni, in questa malattia, tende a provocare l’occlusione del loro lume e la necrosi ischemica dei tessuti irrorati. Ciò si verifica principalmente a livello polmonare e questa è la ragione per cui è così facile osservare la cavitazione delle lesioni nell’albero respiratorio. Sul meccanismo patogenetico implicato non sono state acquisite certezze e il ruolo degli ANCA è discusso, nel senso che non è chiaro se questi anticorpi esercitino un’azione lesiva diretta o se siano solo un epifenomeno di un processo patologico di altro tipo. Nel primo caso sarebbe difficile spiegare l’esistenza di casi di questa malattia con ANCA negativi. È tuttavia dimostrato che un titolo alto di c-ANCA si accompagna ad un’elevata attività del processo morboso. D. Clinica. L’esordio può essere aspecifico: febbre, artralgie, anoressia, ma più spesso i sintomi sono a carico dell’apparato respiratorio superiore (cefalea, sinusite, rinorrea, otite media) o inferiore (tosse, emoftoe, dolore toracico). L’interessamento delle vie aeree superiori è la più comune manifestazione della malattia e si osserva nel 90% dei pazienti. La sensazione di naso chiuso e la rinorrea sono frequenti, ma si possono avere anche manifestazioni più gravi, come ulcerazione della mucosa e perforazione della cartilagine del setto nasale o sua distruzione, che comporta un affossamento del dorso del naso, il quale assume una deformazione detta “naso a sella”. Si può
A.
B.
C.
avere, secondo alcuni nel 20% dei pazienti, anche un’infiammazione e un restringimento della trachea al di sotto della glottide. Quest’ultimo può risultare permanente se si verifica una stenosi cicatriziale. L’interessamento delle basse vie respiratorie può interessare il parenchima polmonare, i bronchi e, raramente, anche la pleura. I più comuni sintomi di presentazione sono la tosse, la dispnea, le emottisi o i dolori toracici. Tuttavia, spesso l’interessamento polmonare non è sintomatico ed è rilevato solo con la radiografia del torace. In questo caso la più comune presentazione è di multipli (ma talora anche singoli) infiltrati nodulari che spesso presentano al loro interno segni di cavitazione (Fig. 69.5). Una rara, ma molto grave, manifestazione polmonare nella granulomatosi di Wegener è una diffusa emorragia alveolare, che provoca importanti emottisi e insufficienza respiratoria e, dal punto di vista radiologico, determina un quadro di sfumata infiltrazione interstiziale. Le diramazioni bronchiali possono essere stenosate dalla localizzazione di granulomi nella loro parete e, come per le lesioni tracheali, la stenosi può divenire permanente per l’evoluzione cicatriziale. La seconda più comune localizzazione della granulomatosi di Wegener è quella renale, consistente in una glomerulonefrite, che si osserva nel 20% dei casi alla presentazione della malattia, ma che è dimostrata nell’80% dei casi durante il decorso della forma morbosa. Spesso si tratta di semplici alterazioni urinarie, proteinuria, ematuria microscopica, cilindruria, ma non raramente il quadro evolve rapidamente in una grave insufficienza renale. Oltre a queste localizzazioni tipiche, la granulomatosi di Wegener può coinvolgere altri organi o tessuti. Il 67% dei pazienti può lamentare sintomi muscolo-scheletrici, più comunemente artralgie e mialgie, ma si può verificare anche un’artrite migrante siero-negativa non erosiva. L’interessamento oculare è stato osservato nel 52% dei pazienti e può essere di vario tipo: congiuntivite, episclerite, alterazioni corneali, uveite, vasculite retinica, neurite ottica e occlusione dell’arteria entrale della retina. Si possono anche avere localizzazioni re-
Figura 69.5 - Aspetti TC della granulomatosi di Wegener: A. Diffuse opacità nodulari confluenti. B. e C. Noduli scavati. (Da Prokop M., Galanski M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme StuttgardNew York, 2003.)
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troorbitali che possono determinare proptosi, paralisi di muscoli oculomotori con strabismo, compressione del nervo ottico. Le lesioni cutanee sono state descritte nel 46% dei casi e includono lesioni multiformi come porpora palpabile, ulcere, vescicole, noduli e, curiosamente, papule verrucose che frequentemente sono osservate ai gomiti. Un interessamento dei nervi periferici, mononeurite multipla, è stato osservato nel 15% dei pazienti e localizzazioni al sistema nervoso centrale sono state descritte nell’8% dei casi. Questa è una percentuale bassa, ma le manifestazioni cliniche possono essere gravi: episodi di ictus, convulsioni, diabete insipido e anomalie a carico dei nervi cranici. Le indagini di laboratorio dimostrano alterazioni aspecifiche tipiche di un processo infiammatorio, come l’aumento della velocità di eritrosedimentazione (VES), della concentrazione nel sangue della Proteina C Reattiva (PCR) o delle -2 globuline all’elettroforesi delle proteine del siero. Così pure può essere alterato l’esame delle urine. Quello che è caratteristico è la positività dei c-ANCA nel siero sanguigno e, corrispondentemente, degli anticorpi antiproteinasi-3. Queste alterazioni sono rilevate in circa il 90% dei pazienti. Anche i p-ANCA possono essere trovati positivi nel siero di pazienti con granulomatosi di Wegener in una percentuale tra il 5 e il 10%. E. Diagnosi. Si basa sull’associazione del quadro clinico caratteristico con una biopsia che dimostri la specifica vasculite necrotizzante granulomatosa. La diagnosi differenziale si pone nei confronti delle altre vasculiti e delle malattie granulomatose non vasculitiche (sarcoidosi, berilliosi, ecc.). Importante quella verso la granulomatosi allergica, in cui però è caratteristica la storia di atopia e l’eosinofilia. Un punto delicato è se la diagnosi con la biopsia renale o di qualche lesione delle alte vie respiratorie o, addirittura, polmonare sia sempre indispensabile per la diagnosi (la biopsia cutanea, nel caso di lesioni in questa sede è spesso poco diagnostica). La domanda è se un quadro clinico tipico con positività dei c-ANCA renda una biopsia inutile. Varie autorità sostengono che questa deve essere sempre fatta, ma è nostra opinione che occorra pesare il costo di una biopsia, soprattutto in termini clinici, e che in casi individuali possa esser prudente evitarla se la diagnosi è clinicamente pressocché sicura e la biopsia possibile non sia esente da pericoli. F. Prognosi e terapia. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso i pazienti con granulomatosi di Wegener non trattata avevano una sopravvivenza mediana di 5 mesi. Se erano trattati con glicocorticoidi, la sopravvivenza mediana si allungava a 12,5 mesi. Nei primi anni Settanta, Fauci e Wolff rivoluzionarono il trattamento di questa malattia aggiungendo ai glicocorticoidi la ciclofosfamide (2 mg/kg) somministrata per os quotidianamente. Nella casistica studiata dai National Institutes of Health degli USA, dal 1967 al 1991, il 91% dei pazienti ebbe un notevole miglioramento e il 75% andò incontro a una remissione completa. Sfortunatamente,
il 50% delle remissioni complete fu seguito da una o più recidive della malattia e per questo motivo era stato consigliato di proseguire il trattamento con ciclofosfamide per un anno. Inoltre, gli effetti collaterali della ciclofosfamide non sono trascurabili e, nella serie di pazienti sottoposti allo studio sopra ricordato, il 42% presentò importanti problemi legati alla tossicità di questo farmaco. Questi consistevano in neutropenia, cistiti recidivanti, neoplasie vescicali e perfino linfomi e leucemie. Anche le infezioni erano più frequenti, soprattutto temibili quelle da Pneumocystis carinii. Per questo motivo, alcuni accompagnano la terapia con glicocorticoidi e ciclofosfamide con un trattamento profilattico nei confronti di questo microrganismo, impiegando l’associazione trimetopri-sulfametossazolo somministrata 3 volte alla settimana. Per le ragioni sopra dette, si è anche studiato se la sostituzione della ciclofosfamide con un altro immunosoppressore possa essere efficace per indurre la remissione nelle forme lievi della granulomatosi di Wegener e alcuni studi eseguiti impiegando il methotrexate a basse dosi sembrano indicare che questa è un’alternativa accettabile. Infine, una strategia consigliabile in tutti i casi è di indurre una remissione con la ciclofosfamide e mantenerla con un altro farmaco. In questo modo, in media, il trattamento con ciclofosfamide dura per 3 mesi invece che per un anno. Gli studi clinici eseguiti per valutare questa opzione terapeutica hanno dato risultati incoraggianti. L’azatioprina non sembra ugualmente efficace, mentre è ancora in corso di valutazione il ruolo del micofenolato-mofetile.
Malattia di Behçet La malattia di Behçet è un’affezione infiammatoria la cui causa è sconosciuta ed è caratterizzata da ulcere orali aftose ricorrenti, ulcere genitali, uveite, lesioni cutanee e altre possibili manifestazioni infiammatorie a carico di diversi organi e tessuti. L’epidemiologia di questa malattia è particolarmente interessante in quanto essa tende a distribuirsi lungo l’antica via della seta e cioè, procedendo da oriente verso occidente, dal Giappone verso la Corea, la Cina, l’Asia Centrale, l’Iran, la Turchia e il bacino del Mediterraneo. La Turchia ha la più alta prevalenza: da 80 a 370 casi per 100.000 abitanti. Seguono il Giappone, la Cina, l’Iran e l’Arabia Saudita con 13,5-20 casi per 100.000 abitanti. La prevalenza è molto più bassa nei paesi occidentali: 0,64 per 100.000 abitanti nel Regno Unito e 0,33 per 100.000 abitanti negli USA. In Italia è un poco più alta e può essere stimata intorno a qualche unità per 100.000 abitanti, soprattutto nelle regioni meridionali, mentre in Germania è decisamente più alta, ma questo è dovuto alla massiccia immigrazione dalla Turchia. A. Eziopatogenesi. Come si è anticipato l’eziologia di questa malattia è sconosciuta, ma l’idea prevalente è che vari microrganismi possano provocarla, interagendo con una particolare predisposizione genetica. Questa è testimoniata da un’aumentata frequenza dell’antigene
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di istocompatibilità HLA-B51 tra i pazienti affetti da malattia di Behçet, anche se questa è molto evidente tra i pazienti asiatici che vivono lungo la via della seta, ma non altrettanto tra gli abitanti dei paesi occidentali. Per fare un esempio, in Giappone la frequenza di HLA-B51 tra i pazienti con malattia di Behçet è del 55%, mentre tra i soggetti che non hanno questa malattia è tra il 10 e il 15%. Il rischio relativo in presenza di HLA-B51 è stato stimato intorno a 6,7 in Giappone, ma solo di 1,3 negli USA. Esiste anche un’associazione tra la presenza di questo antigene di istocompatibilità e la gravità della malattia, dato che i pazienti che lo posseggono hanno più facilmente uveite posteriore o un interessamento progressivo del sistema nervoso centrale. Una spiegazione unitaria, che però è probabilmente incompleta, è che antigeni ubiquitari, tra i quali sono importanti le proteine da shock termico (HSP: Heat Shock Protein) di vari microrganismi, provochino una reazione immunitaria che coinvolge per reattività crociata anche antigeni del sé stesso, inducendo una malattia infiammatoria a patogenesi autoimmune. Studi in vitro hanno dimostrato che linfociti di pazienti con malattia di Behçet vanno incontro a espansione clonale in presenza di peptidi derivati dalla HSP 60 umana che presenta strette omologie con la HSP 65 batterica. I meccanismi effettori debbono implicare l’attività dell’immunità cellulare, cioè i linfociti T, sia i CD4+ per la produzione diretta e indiretta di citochine infiammatorie, che i CD8+ per dirette azioni citotossiche, ma non l’immunità cosiddetta umorale, dato che in questa malattia non si dimostrano autoanticorpi caratteristici. La pluralità dei bersagli riflette verosimilmente la presenza condivisa di strutture molecolari simili anche tra tessuti molto diversi dal punto di vista morfologico. Si è visto, infatti, che la HSP 60 è espressa in maniera anomala nella mucosa orale, nei leucociti circolanti e nella pelle dei pazienti con malattia di Behçet, rispetto a quanto avviene nei soggetti normali. B. Fisiopatologia. La malattia di Behçet è, prima di tutto, una vasculite dei piccoli vasi, quindi l’interessamento di questi in diverse strutture corporee che determina le varie localizzazioni della malattia. Il coinvolgimento dei vasa vasorum provoca alterazioni patologiche anche a livello dei grossi vasi: aneurismi a carico delle arterie, tromboflebiti a livello delle vene. La frequenza di queste ultime manifestazioni ha portato anche a postulare un’alterazione emocoagulativa favorente le trombosi, ma è probabile che tutto dipenda dall’alterazione della parete vasale. Aggravante la vasculite e le lesioni conseguenti alle sue localizzazioni è un’iperfunzione dei granulociti neutrofili, che hanno un’aumentata generazione di superossido, un’incrementata capacità di seguire gli stimoli chemiotattici e un’eccessiva produzione di enzimi lisosomiali. Questo sembra conseguente all’azione di citochine infiammatorie, come il TNF- , l’interleuchina-1 e l’interleuchina-8. Queste stesse citochine possono agire anche sulle cellule endoteliali, favorendo l’espressione di molecole di adesione e l’interazione con i granulociti attivati.
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C. Clinica. Il decorso della malattia di Behçet più che da un andamento cronico progressivo è caratterizzato da attacchi ricorrenti di episodi infiammatori acuti. La stomatite aftosa ricorrente (almeno tre volte all’anno) è un comune segno di presentazione e si osserva praticamente in tutti i pazienti con malattia di Behçet. Talora, questa manifestazione può precedere di anni la comparsa dell’interessamento di altri organi o apparati. Le tipiche lesioni sono ulcere orali superficiali e dolorose sulle gengive, la lingua e la mucosa buccale o labiale, con un bordo netto e arrossato e un fondo coperto da una pseudomembrana giallognola. Le singole lesioni guariscono in una decina di giorni senza residuare cicatrici. Le ulcere genitali sono molto meno frequenti, ma utilissime per la diagnosi perché, a differenza delle afte orali che si verificano facilmente, anche indipendentemente dalla malattia di Behçet, sono un segno molto più specifico. Sono simili alle ulcere orali, ma più profonde e con bordi irregolari e si localizzano sullo scroto e sul pene negli uomini e sulla vulva nelle donne, sono dolorose e lasciano cicatrici. Negli uomini è possibile l’epididimite. Importanti sono le lesioni oculari che si verificano nell’uvea e nella retina. Esse sono la prima manifestazione della malattia di Behçet in circa il 10% dei pazienti, ma più spesso compaiono dopo le lesioni orali. Consistono frequentemente in un’uveite anteriore, che provoca un offuscamento della visione, dolori oculari, fotofobia, lacrimazione, iperemia peribulbare (probabilmente come risultato di un’episclerite) e ipopion (uno strato di pus visibile sul fondo della camera anteriore). Per lo più l’uveite anteriore si risolve senza conseguenze, ma gli attacchi ripetuti possono condurre ad alterazioni strutturali irreversibili, come deformità dell’iride e glaucoma. Più gravi sono l’uveite posteriore e la compromissione retinica che sono dovute a episodi di occlusione venosa e che possono condurre a perdita della vista. Le lesioni cutanee sono rappresentate da episodi di eritema nodoso e da lesioni follicolitiche o noduli acneici. La comparsa di acne in una persona che abbia superato da tempo l’adolescenza e che non assuma glicocorticoidi antinfiammatori dovrebbe sempre far sospettare la malattia di Behçet. Degli episodi di tromboflebite si è già parlato; questi possono assumere l’andamento di una tromboflebite migrante agli arti, più comunemente nei soggetti di sesso maschile. Sia pure raramente, le lesioni vascolari possono interessare i polmoni, con ricorrenti episodi di dispnea, tosse, dolore toracico ed emottisi. Aneurismi possono verificarsi tanto nelle arterie periferiche che in quelle polmonari. Una mono- o poliartrite si osserva in circa la metà dei pazienti ed è dovuta a infiltrazione con neutrofili e con cellule mononucleate (macrofagi e linfociti) e a lesioni vasculitiche nella sinovia. Le sedi più comuni sono le ginocchia, seguite da polsi caviglie e gomiti. Raramente queste lesioni sono distruttive. Le manifestazioni intestinali, consistenti in dolori addominali, diarrea e presenza di sangue nelle feci, sono
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simili a quelle della malattia di Crohn, con le quali non debbono essere confuse. Tuttavia, le localizzazioni sono praticamente le stesse, e cioè all’ileo terminale, al colon traverso e al colon ascendente. Nella malattia di Behçet manca la componente granulomatosa delle lesioni, ma questo non è molto utile dal punto di vista clinico. L’interessamento del sistema nervoso si verifica nel 10-20% dei pazienti. Consiste in episodi di meningite o meningoencefalite o in lesioni focali che comportano una compromissione motoria. Anche sintomi psichiatrici, con alterazioni della personalità tendono a verificarsi nell’evoluzione tardiva della malattia di Behçet. D. Diagnosi. La diagnosi della malattia di Behçet è clinica, dato che non esistono esami di laboratorio la cui positività sia specifica per questa entità morbosa, anche se spesso i pazienti con la malattia in forma attiva possono presentare un aumento delle immunoglobuline IgD nel sangue. Un test che può essere molto significativo è quello detto della patergia, che consiste nel fatto che un nodulo eritematoso di almeno 2 mm di diametro o una pustola asettica si formano sulla cute 24-48 ore dopo la puntura con un ago sterile. L’International Study Group for Behçet Disease, nel 1990, ha stabilito il seguente criterio per la diagnosi di questa malattia: stomatite afosa ricorrente, accompagnata da almeno due tra ulcerazioni genitali ricorrenti, lesioni oculari, lesioni cutanee e positività del test di patergia, in assenza di altre spiegazioni. E. Prognosi e terapia. Le singole manifestazioni morbose possono essere autolimitantisi nel tempo, ma la loro ricorrenza può portare a danni permanenti, soprattutto per le lesioni oculari e neurologiche. La terapia di fondo è con l’impiego di glicocorticoidi antiinfiammatori, che, nelle lesioni oculari isolate, possono anche essere impiegati per via topica. Tra i farmaci che possono sostituire i glicocorticoidi (nelle forme più lievi) o accompagnarli (nelle forme più gravi) va ricordata la colchicina, utile per la stomatite aftosa, per l’uveite anteriore e posteriore e per l’artrite. Nelle localizzazioni intestinali si può impiegare la sulfasalazina. È possibile mantenere bassa la dose di glicocorticoidi nei trattamenti prolungati o migliorarne l’efficacia, soprattutto nei casi gravi di interessamento oculare, associandoli ad altri immunodepressori, come la ciclofosfamide, l’azatioprina o il clorambucil. La ciclosporina è utile nel 70-80% dei pazienti con lesioni oculari refrattarie alla colchicina, ai glicocorticoidi, all’azatioprina o alla ciclofosfamide. Tuttavia, può peggiorare le manifestazioni neurologiche ed è controindicata nei soggetti che presentano alterazioni di questo tipo e anche solo lesioni neurologiche subcliniche alla risonanza magnetica. Le trombosi venose vanno trattate con terapia anticoagulante, ma con cautela nei pazienti con compromissione polmonare per il rischio di emottisi potenzialmente fatali. L’impiego dell’interferon- nelle manifestazioni oculari della malattia di Behçet ha dato risultati incoraggianti.
Arterite giganto-cellulare e polimialgia reumatica Questa malattia è un’infiammazione a carico di arterie di grosso e medio calibro, con una predilezione per quelle del distretto craniale. Per questa ragione, nel passato tale forma morbosa è stata chiamata “arterite temporale” (in riferimento alla sede dove l’infiammazione arteriosa è più facilmente visibile), o “arterite craniale”. Oggi, tenendo conto del fatto che la malattia può essere presente pur risparmiando l’arteria temporale, si preferisce chiamarla arterite giganto-cellulare, o arterite di Horton, dal nome dell’autore che ne descrisse le caratteristiche istopatologiche negli anni Trenta del secolo scorso. Associata strettamente a questa arterite è una malattia “reumatica” denominata polimialgia reumatica. Sintomi di polimialgia reumatica sono stati osservati nel 40-60% dei pazienti con arterite giganto-cellulare e una diagnosi di arterite gigantocellulare è stata documentata nel 16-21% dei pazienti affetti da polimialgia reumatica. In studi eseguiti negli USA si è visto che queste due forme morbose, associate o indipendenti l’una dall’altra, non sono rare. In uno studio eseguito nel Minnesota si è stimato che l’arterite giganto-cellulare ha un’incidenza annuale di 17,8 casi per 100.000 persone di 50 o più anni di età e che la polimialgia reumatica ha una prevalenza di 1 caso ogni 133 persone, sempre di 50 anni o più di età. Pur tenendo conto della differenza delle due stime (in un caso l’incidenza, nell’altro la prevalenza), risulta chiaro che la polimialgia reumatica è più frequente dell’arterite giganto-cellulare. Non abbiamo dati corrispondenti per l’Italia, ma siamo convinti che anche da noi queste due malattie siano tutt’altro che rare e spesso non diagnosticate, per ragioni che spiegheremo in seguito. A. Eziopatogenesi. L’eziologia dell’arterite gigantocellulare e della polimialgia reumatica non è nota. Come spesso succede in questi casi, si è ipotizzato che vari agenti microbici possano avere un ruolo scatenante interagendo con fattori individuali predisponenti. Si è visto che si verificano picchi di queste malattie in associazione temporale con i picchi di infezioni da parvovirus B19, Mycoplasma pneumoniae e Chlamidia pneumoniae. Perciò, questi microrganismi potrebbero avere un ruolo nello scatenare queste forme morbose. Tra i fattori predisponenti, uno è rappresentato sicuramente dall’età, dato che queste malattie si verificano quasi invariabilmente dai 50 anni in su. Un altro è costituito dal possedere o meno certi antigeni di istocompatibilità, dato che sia l’arterite giganto-cellulare che la polimialgia reumatica sono associate con gli antigeni HLADRB1*04 e DRB1*01. Dal punto di vista patogenetico, l’arterite giganto-cellulare è considerata una malattia immunopatologica nella quale sono in atto meccanismi di immunità cellulare. Si pensa che linfociti T riconoscano degli antigeni nella avventizia delle arterie e, in quella sede, vadano incontro a espansione clonale e alla secrezione di interferon-, ri-
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chiamando localmente dei macrofagi e inducendoli alla secrezione di citochine infiammatorie (interleuchina-1 e interleuchina-6). Questo risulta nella formazione di granulomi con cellule giganti, collocati prevalentemente alla giunzione tra l’intima e la media, e da ciò viene il nome della malattia. Conseguentemente, la parete arteriosa va incontro a processi distruttivi e riparativi che comportano la degradazione della lamina elastica interna e l’iperplasia occlusiva del lume vascolare. Nella polimialgia reumatica si è dimostrato che il processo patologico fondamentale è rappresentato da una sinovite, prevalente nelle articolazioni prossimali, e da un’infiammazione delle strutture periarticolari. Istologicamente si vede che in queste sedi c’è una infiltrazione di linfociti T CD4+ e di macrofagi, con un aspetto complessivo che è molto simile a quello osservato nelle lesioni arteriose dell’arterite giganto-cellulare. Perciò, la patogenesi della polimialgia reumatica sembra la stessa di quella dell’arterite giganto-cellulare, con la sola differenza della sede colpita. È interessante il fatto che la produzione di citochine infiammatorie è stata dimostrata nelle arterie temporali di pazienti con polimialgia reumatica, anche in assenza di un’evidenza istologica di arterite. B. Clinica. 1. Arterite giganto-cellulare. Come si è detto, la malattia colpisce quasi esclusivamente soggetti dai 50 anni in su ed è caratterizzata spesso da sintomi costituzionali, tra i quali prevale la febbre. Siccome non raramente altri sintomi o segni possono essere mancanti, questa malattia è la più comune causa di febbre di origine sconosciuta nelle persone anziane. Gli altri sintomi, se presenti, sono rappresentati da cefalea, per lo più temporale od occipitale, ipersensibilità dolorosa nelle stesse sedi, ma talora a tutto il cuoio capelluto e claudicazione intermittente della masticazione (ossia un dolore mascellare che insorge con la masticazione e che regredisce arrestando i movimenti della bocca). L’interessamento delle arterie oftalmiche è comune, e questo può comportare disturbi visivi, consistenti in un oscuramento della visione, in episodi fugaci di amaurosi, ma anche in una completa perdita del visus. In tal caso, la vista non viene più recuperata, perciò è importante diagnosticare precocemente la natura di questi disturbi (che possono essere i soli sintomi della malattia) e instaurare prontamente una terapia. All’esame obiettivo è possibile palpare, o addirittura alle volte vedere, una tumefazione delle branche frontali o parietali della arterie temporali superficiali, da un solo lato o da entrambi, o più raramente delle arterie occipitali, o postauricolari o faciali. La cute su queste arterie è talora arrossata e le pulsazioni su questi vasi possono essere assenti. Raccomandiamo di non fare troppo assegnamento sulla cefalea e su questi segni di localizzazione arteriosa per la diagnosi, dato che sono spesso assenti e che il quadro clinico, come si è detto, può essere rappresentato solamente dalla febbre. Un dato di laboratorio caratteristico è un forte aumento della velocità di eritrosedimentazione (VES),
IMMUNOPATOLOGIA
che di solito supera i 50 mm alla prima ora e che può, alle volte, superare i 100 mm. Qualche studio ha però suggerito che la VES può anche essere normale nella arterite giganto-callulare, e questo è teoricamente possibile se i segmenti arteriosi interessati sono molto limitati. La Proteina C reattiva (PCR) sembra un indicatore più fedele dell’attività della malattia. L’indagine diagnostica decisiva è la biopsia dell’arteria temporale, che può essere unilaterale e limitata a un piccolo campione, se sono state rilevate sue alterazioni all’esame obiettivo. Nel caso frequente di una obiettività negativa, è conveniente che la biopsia riguardi un tratto arterioso di 3-5 cm e venga ripetuta controlateralmente se il primo reperto è negativo. Con questi accorgimenti solo il 10% dei pazienti risulta negativo alla biopsia dell’arteria temporale. 2. Polimialgia reumatica. Anche questa malattia colpisce soggetti di 50 anni o più e può essere accompagnata da febbre. I sintomi sono rappresentati da dolori e rigidità al risveglio, quest’ultima della durata di almeno 30 minuti, a carico dei cingoli toracico e pelvico. I dolori, perciò, sono lamentati soprattutto al collo, alle spalle e alle anche. L’esame fisico, tuttavia, in genere non dimostra tumefazione o arrossamento delle articolazioni colpite. Queste alterazioni sono di regola bilaterali. In circa la metà dei pazienti si possono avere manifestazioni distali che possono includere un’artrite periferica non erosiva, autolimitantesi e asimmetrica (prevalentemente alle ginocchia e ai polsi), una sindrome del tunnel carpale e un edema molle (con impronta del dito alla pressione) sul dorso delle mani, sui polsi, sulle caviglie e sul dorso dei piedi. Anche nella polimialgia reumatica la VES è molto elevata. La scintigrafia, la risonanza magnetica e l’ultrasonografia dimostrano una sinovite prossimale. C. Prognosi e terapia. L’arterite giganto-cellulare e la polimialgia reumatica sono malattie di lunga durata, ma regrediscono con il tempo. Tuttavia, i costi di una mancata terapia possono essere alti e, in modo particolare, il rischio di cecità è significativo. La terapia è basata sull’impiego di glicocorticoidi antinfiammatori: prednisone (o altri steroidi a dosi equivalenti) in una dose singola o divisa, 40-60 mg/die nell’arterite giganto-cellulare e 10-20 mg/die nella polimialgia reumatica, che è molto sensibile a questo trattamento. Dopo remissione clinica e riduzione a livelli normali, o poco sopra la norma, della VES e della PCR, la dose può essere gradualmente ridotta e portata a un mantenimento di 5-10 mg/die, da proseguirsi per 1-2 anni, a seconda dell’andamento clinico. Trattandosi sempre di persone non giovani e, spesso, francamente anziane, è conveniente premunirsi contro l’osteoporosi indotta dai glicocorticoidi somministrando calcio e vitamina D. Nel caso che un’osteoporosi sia già in atto all’inizio del trattamento, è bene somministrare bifosfonati. Si è anche provato ad associare ai glicocorticoidi un farmaco immunosoppressivo. I tentativi fatti con il methotrexate hanno dato risultati controversi.
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Malattia di Buerger Si tratta di una malattia con prevalente interessamento della parete dei vasi delle estremità (ma anche i vasi viscerali possono essere coinvolti) e conseguente formazione di occlusioni trombotiche, che si verifica nei fumatori. I vasi interessati sono principalmente le arterie di piccolo e medio calibro e le vene poste distalmente negli arti, ma non sono impossibili interessamenti in molti altri letti vascolari: arterie cerebrali, coronarie, renali, mesenteriche, polmonari, iliache, aorta. Descritta all’inizio del Novecento, questa malattia fu messa in discussione come entità nosologica autonoma e nel 1960 fu sostenuta addirittura la sua non esistenza, attribuendone le manifestazioni cliniche ad aterosclerosi periferica. Oggi, grazie al più diffuso impiego di tecniche angiografiche e all’esame istologico di frammenti arteriosi prelevati nel corso di interventi chirurgici, si è di diverso parere. Le lesioni trombotiche della malattia di Buerger si verificano in arterie prossimalmente indenni, il che non capita nelle occlusioni dovute ad aterosclerosi. Sono documentate lesioni infiammatorie della parete delle arterie interessate, che però, a differenza di altre vasculiti, coinvolgono solo gli strati intimali endoluminali, risparmiando la tunica elastica interna. In corrispondenza di queste lesioni si formano trombi, nel contesto dei quali si sviluppano dei granulomi. Per di più, le alterazioni non riguardano solo le arterie, ma anche le vene e si verificano tromboflebiti recidivanti. Il tabacco svolge un ruolo eziologico importante, tanto che l’essere fumatori viene considerato un elemento indispensabile per la diagnosi. Questo vale non solo per il tabacco fumato, ma anche per quello masticato o fiutato. La malattia ha una patogenesi immunopatologica, ma non è chiaro quali siano gli autoantigeni implicati. In pazienti con malattia di Buerger è stata dimostrata una reazione dei linfociti T al collageno di tipo I e di tipo II. Nel siero sanguigno sono stati trovati anticorpi contro cellule endoteliali. È possibile che una sofferenza endoteliale sia importante per la patogenesi della malattia, dato che in pazienti con malattia di Buerger è stato dimostrato un difetto dei meccanismi di vasodilatazione dipendenti dall’endotelio. La malattia è più diffusa in certi gruppi etnici, specialmente di origine asiatica, e negli individui con gli antigeni di istocompatibilità HLA-A9 e B5. Insorge di regola prima dei 40 anni e colpisce i fumatori. Dal punto di vista clinico è caratterizzata da claudicazione intermittente, freddezza della cute, pallore e sensazione di intorpidimento nei segmenti distali degli arti, soprattutto inferiori. Si distingue dalla claudicazione intermittente di origine aterosclerotica perché questa provoca dolore soprattutto ai polpacci, mentre la malattia di Buerger lo induce prevalentemente ai piedi. Si distingue da altre vasculiti per la moderata (se pur esistente) alterazione degli indici di laboratorio di fase acuta. La coesistenza di tromboflebiti recidivanti è pure un forte elemento a favore della diagnosi di malattia di Buerger. Purtroppo l’evoluzione è spesso sfavorevole e non è rara la gangrena (con successive mutilazioni) a carico delle estremità. I corticosteroidi e gli immunosoppressori sono di dubbia efficacia e la sola misura di qualche possibile,
ma incostante, utilità è la soppressione del fumo. Si sottolinea l’importanza della totale cessazione del fumo, perché anche una o due sigarette al giorno, o l’assunzione di forme di rimpiazzamento della nicotina, possono mantenere la malattia attiva. Nessun’altra forma di terapia è sicuramente efficace, anche se risultati incoraggianti sono stati ottenuti con l’impiego di ilopoprost (un analogo delle prostaglandine) per infusione endovenosa giornaliera, con la terapia trombolitica intra-arteriosa impiegando streptochinasi e con la rivascolarizzazione chirurgica. Il ruolo della simpaticectomia per prevenire le amputazioni e trattare il dolore resta poco chiaro.
Altre vasculiti La malattia di Takayasu colpisce giovani donne soprattutto in Estremo Oriente, interessando grossi vasi (rami dell’arco aortico). Poiché sono colpite le succlavie in una notevole percentuale dei casi, viene impedita la percezione dei polsi radiali: perciò tale malattia è anche detta “sindrome delle donne senza polso”. La malattia di Kawasaki è una forma acuta febbrile che colpisce soprattutto bambini ed è caratterizzata da: congiuntivite, edema ed eritema della mucosa orale, esantema al tronco, eritema e desquamazione delle estremità, linfadenopatia cervicale. Anche un’uretrite con piuria sterile e un’infiammazione delle piccole e grandi articolazioni sono osservate in circa un terzo dei pazienti. Di solito ha prognosi favorevole, raramente fatale per vasculite coronarica. Comunque, anche in bambini che vanno incontro a guarigione clinica possono residuare aneurismi delle coronarie. Il trattamento con acido acetilsalicilico a un dosaggio di 30 mg/kg può ridurre l’incidenza di complicanze cardiache, mentre il trattamento con steroidi può aumentare tale incidenza. Tuttavia, il caposaldo delle terapia è rappresentato dalle -globuline endovena. Questo trattamento è tanto più efficace quanto più è precoce e perciò dovrebbe essere somministrato entro il decimo giorno dall’inizio dei sintomi. La sindrome di Cogan è caratterizzata da cheratite interstiziale non sifilitica e da danno del sistema otovestibolare. Talora interessamento sistemico.
ALTRE MALATTIE IMMUNOPATOLOGICHE (*) Policondrite ricorrente Questa è una rara malattia, che colpisce molti organi e che può essere invalidante, minacciosa per la vita e difficile da diagnosticare. È caratterizzata da ricorrenti episodi di infiammazione del tessuto cartilagineo e di alcune altre strutture connettivali ricche di proteoglicani. Le sedi (*) C. Rugarli
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di massima compromissione sono le cartilagini elastiche di orecchi e naso, quelle ialine delle articolazioni periferiche, le fibrocartilagini a collocazione assiale e le cartilagini dell’albero tracheobronchiale. Sono colpiti anche l’occhio, il cuore, i vasi sanguigni e l’orecchio interno. La malattia è più frequente nelle donne che negli uomini (rapporto tra i sessi 3:1) e insorge di solito nella mezza età. A. Eziopatogenesi. La policondrite ricorrente è caratterizzata, dal punto di vista anatomopatologico, da una perdita della colorazione basofila della matrice cartilaginea con alterazioni degenerative o necrosi dei condrociti, accompagnate da un accumulo di cellule infiammatorie alla giunzione tra le cartilagini e i tessuti molli contigui. Si tratta perciò di una malattia infiammatoria per la quale, in assenza di agenti esogeni, è ragionevole ipotizzare un meccanismo autoimmune. Altri argomenti a favore di questa possibilità sono l’associazione tra policondrite ricorrente e l’antigene di istocompatibilità HLA-DR4, nonché l’occasionale coesistenza con altre malattie autoimmuni. In assenza di autoanticorpi caratteristici, la più verosimile ipotesi sulla patogenesi della policondrite ricorrente è che essa sia determinata dall’azione di linfociti T CD4+ che inducono la produzione locale di citochine infiammatorie. B. Clinica. La malattia si verifica sotto forma di attacchi con insorgenza repentina, talora accompagnati da sintomi costituzionali (astenia, febbre). Le manifestazioni dovute alla localizzazione delle lesioni patologiche sono, come si è visto, molteplici, ma raramente sono presenti tutte contemporaneamente. Qui di seguito le descriviamo in ordine di frequenza, precisando che le percentuali indicate si riferiscono alle più note casistiche pubblicate sull’argomento. 1. Condrite auricolare. Descritta tra il 27 e il 92% dei casi. Consiste in un arrossamento e rigonfiamento dolente dei padiglioni auricolari, che risparmia il lobo (dove non esiste cartilagine). Talora il bordo del padiglione può collassare e ripiegarsi. 2. Artrite. È descritta tra il 24 e il 48% dei casi e può essere il sintomo di presentazione. Ha i caratteri di un’artrite non erosiva e può interessare più articolazioni con caratteri migratori e transitori, o essere una monoartrite ad una singola grossa articolazione. Sono possibili dolori al rachide e alle giunzioni condro-costali. Una più intensa compromissione delle cartilagini assiali può portare a deformazione toracica e compromissione della meccanica ventilatoria. 3. Sintomi laringotracheali. Sono descritti con una frequenza tra il 15 e il 39%. Il sintomo più comune è la raucedine che può progredire fino a una completa afonia. Altri sintomi possibili sono tosse, dispnea e sensazione di soffocamento. Ricorrenti infezioni delle basse vie respiratorie sono possibili. 4. Condrite nasale. È descritta tra il 14 e il 33% dei casi ed è caratterizzata da dolore e sensazione di chiu-
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sura nasale. Raramente, il collasso della cartilagine nasale provoca la deformazione del naso detta “a sella”. 5. Infiammazione oculare. Descritta tra il 15 e il 25% dei casi, può essere precoce ed è caratterizzata da episclerite e sclerite. 6. Riduzione dell’udito. Questa si osserva tra il 6 e il 9% dei casi. La sordità può essere di conduzione o neurosensoriale. Nel primo caso si ha una chiusura delle trombe di Eustachio per infiammazione della parete cartilaginea. Si pensa che la base della sordità neurosensoriale stia in una vasculite che interessa la branca cocleare dell’arteria uditiva interna. 7. Insufficienza aortica. Questa manifestazione è rara (meno dell’1% dei casi) e dipende da una dilatazione dell’ostio aortico con valvole semilunari indenni. 8. Altre manifestazioni. Queste sono complessivamente rare e consistono in vertigini (vasculite della branca vestibolare dell’arteria uditiva interna), lesioni cutanee (vasculite leucocitoclastica) e manifestazioni neurologiche (cefalea, paralisi dei nervi cranici, convulsioni, ecc.). C. Diagnosi. Non esiste un test diagnostico specifico e le biopsie cartilaginee sono sconsigliate perché possono peggiorare il quadro clinico. La diagnosi deve perciò essere clinica e presenta varie difficoltà. La condrite auricolare isolata è di solito attribuita a pericondrite infettiva. Il fatto che il lobo auricolare sia risparmiato deve far pensare alla policondrite ricorrente. L’artrite può indurre a sospettare un’artrite reumatoide sieronegativa o, se accompagnata da manifestazioni oculari, a un’artrite reattiva. Così pure, l’interessamento nasale, laringeo e tracheale può far sospettare una granulomatosi di Wegener. Tuttavia, in quest’ultima malattia è comune l’interessamento delle basse vie respiratorie ed è comune la positività degli anticorpi anticitoplasma dei neutrofili a distribuzione citoplasmatica (cANCA). In conclusione, è solo la combinazione dell’interessamento di più sedi che può condurre con certezza alla diagnosi di policondrite ricorrente. D. Decorso, prognosi e terapia. Come si è detto, questa malattia è caratterizzata da attacchi recidivanti. Questi, senza terapia, tendono ad essere ravvicinati e di gravità crescente. Le singole localizzazioni conducono a danni permanenti. Le complicanze respiratorie possono essere mortali. La terapia con corticosteroidi antinfiammatori ed immunodepressori è però molto efficace.
Malattia di Still dell’adulto Della malattia di Still, come variante dell’artrite reumatoide giovanile, si parla nel capitolo 70. Qui si considera l’entità definita malattia di Still dell’adulto che, pur sfumando in alcuni casi verso il quadro clinico proprio della variante con lo stesso eponimo dell’artrite reumatoide giovanile, si presenta per lo più sotto forma di febbre prolungata di natura da determinare.
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La malattia colpisce di solito persone giovani ed è caratterizzata talora solamente da febbre di natura sconosciuta (febbre oltre 38 °C che resta indiagnosticata dopo 1-2 settimane di intense indagini cliniche) e, più raramente, anche da altri sintomi e segni, quali artralgie, piccole lesioni eritematose cutanee (non pruriginose), multiple piccole tumefazioni linfonodali superficiali simmetriche e modesta splenomegalia. Possono anche verificarsi versamenti nelle sierose, principalmente pleurici. Le indagini di laboratorio sono caratterizzate da segni di fase acuta alterati (aumento di velocità di sedimentazione, proteina C reattiva e 2-globuline), leucocitosi neutrofila, sideremia bassa con ferritinemia talora molto elevata (un aumento particolarmente elevato della ferritinemia viene considerato diagnostico per questa malattia). Alle volte è anche osservato un aumento delle transaminasi. Non si mettono in evidenza autoanticorpi, ma la natura immunopatologica di questa malattia è suggerita dalla sua sensibilità alla terapia con corticosteroidi antinfiammatori. La diagnosi è difficile perché deve basarsi sulla esclusione di altre forme morbose che possono causare febbri di natura sconosciuta. Anche il marcato aumento della ferritinemia non è molto frequente ed è poco specifico. Esistono tre decorsi possibili della malattia di Still dell’adulto: può essere cronica e durare vari anni, si può esaurire in alcune settimane e può essere ricorrente e cioè recidivare per periodi più o meno lunghi anche a distanza di anni. Nonostante la possibilità di un decorso cronico la prognosi è, nel complesso, buona, dato che la malattia tende ad attenuarsi con il tempo. Come si è detto, la terapia è basata sull’impiego di corticosteroidi antinfiammatori, che sono sempre attivi, ma verso i quali la sensibilità dei singoli pazienti è molto variabile.
Linfoistiocitosi emofagocitica e sindrome da attivazione macrofagica Queste due rare entità morbose sono da noi ricordate in quanto pedagogicamente esemplari, dato che possono essere considerate disturbi dell’immunità innata. La linfoistiocitosi emofagocitica (HLH: Haemophagocytic Limphohistiocytosis) è una grave forma morbosa, caratterizzata principalmente da febbre persistente ed epatosplenomegalia, che si può osservare nella prima infanzia e che è, perlopiù, a carattere familiare con ereditarietà autosomica recessiva, anche se ne esistono casi sporadici. In Italia l’incidenza della HLH è stata stimata intorno a 0,006 per 100.000 bambini per anno. La malattia è determinata da mutazioni del gene PRF1, che codifica la sintesi della perforina, una proteina prodotta dai linfociti citotossici e che determina la formazione di buchi nelle membrane delle cellule che fungono da loro bersaglio, buchi attraverso i quali viene introdotto il granzima, enzima che in ultima analisi determina la lisi cellulare. Perciò, l’inefficienza della perforina menoma in maniera importante le difese immunitarie contro i virus e tutti i microrganismi intracellulari, che normalmente operano attraverso la lisi delle
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cellule infettate. Questo riguarda i linfociti T citotossici, ma anche le cellule natural killer (NK), la cui attività è completamente assente nel sangue dei soggetti affetti da questa malattia. Per di più, la perforina ha un ruolo anche nel terminare l’induzione delle reazioni dell’immunità adattativa, agendo sulle cellule che presentano gli antigeni ai linfociti T. In presenza di questo difetto nel controllo delle infezioni, si ha in via compensatoria un’iperattivazione di cellule T e macrofagi, con una persistente e incontrollata reazione infiammatoria. Dal punto di vista clinico, oltre alla febbre e all’epatosplenomegalia, si possono avere altre importanti manifestazioni, quali linfoadenomegalie, rash cutaneo e interessamento del sistema nervoso che va da semplice irritabilità a franca meningoencefalite. L’esame del midollo osseo, della milza (nel caso fosse stata asportata), dei linfonodi (se biopsiati) dimostra un’infiltrazione linfocitica e il fenomeno dell’emofagocitosi, ossia la presenza di elementi macrofagici che hanno fagocitato elementi ematopoietici. Cellule con queste caratteristiche si possono osservare anche nel liquido cefalorachidiano. Questo reperto, nonostante il nome dato alla malattia, non è però costante, perciò, alle volte, la diagnosi non è facile. La prognosi della malattia è cattiva e la sopravvivenza mediana è di 6 mesi, con una probabilità non superiore al 10% di sopravvivenza dopo i 3 anni. La terapia con desametsasone e citostatici, come l’etoposide e la ciclosporina, sembra in grado di controllare la malattia. Anche il trapianto di midollo è stato applicato con successo. La sindrome da attivazione macrofagica (MAS: Macrophage Activation Sindrome) è una malattia simile alla precedente, che si verifica come un’importante complicazione di malattie sistemiche infiammatorie dell’infanzia, principalmente l’artrite sistemica giovanile idiopatica e il lupus eritematoso sistemico. La sua patogenesi è simile a quella della lifoistiocitosi emofagocitica, ossia un’iperattivazione di cellule T e di macrofagi, ma la sua causa non è conosciuta. Tuttavia, anche in questa malattia è stato dimostrato un difetto della funzione della perforina. Si tratta comunque di una malattia molto rara dato che, nel 2002, solo circa 100 casi erano stati descritti in letteratura. La presentazione clinica della MAS è di solito acuta ed è caratterizzata da febbre elevata, epatosplenomegalia, linfoadenomegalie e profonda depressione di tutte e tre le linee cellulari ematiche, con anemia, leucopenia e trombocitopenia. Costantemente sono stati osservati aumenti dei livelli ematici dei trigliceridi e della lattico deidrogenasi e iponatremia. È caratteristica anche una sindrome da coagulazione intravascolare disseminata. Anche in questa malattia si può osservare l’emofagocitosi nel midollo osseo e in altri organi. È interessante che nella MAS si osservi iperferritinemia, un’alterazione di laboratorio che è comune nella malattia di Still dell’adulto. La prognosi della MAS è seria, ma non invariabilmente fatale come quella della HLH. Alte dosi di corticosteroidi glicoattivi sono dotate di una certa efficacia e meglio ancora sembra funzionare la ciclosporina, un inibitore della prime tappe dell’attivazione dei linfociti T. L’impiego dell’etanercept, un inibitore dell’attività del TNF-, si è rivelato molto utile.
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PARTE TREDICESIMA
MALATTIE DELLE ARTICOLAZIONI a cura di C. BESANA
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C A P I T O L O
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ARTRITE REUMATOIDE G.F. CIBODDO
L’artrite reumatoide (AR) è una malattia infiammatoria cronica di eziologia sconosciuta. Colpisce in modo prevalente le articolazioni ma è possibile un interessamento sistemico, caratterizzato soprattutto da manifestazioni ematologiche, neurologiche, respiratorie e cardiocircolatorie. È presente in individui di tutte le razze ed in ogni regione geografica. Pur essendo descritta in ogni età, l’incidenza massima è tra i 30 e i 70 anni con un picco tra i 40 e i 60. La prevalenza totale nell’adulto, secondo studi condotti negli USA, sarebbe tra lo 0,5 e il 3,2% nelle donne e lo 0,15 e l’1,3% negli uomini. Il numero dei casi cresce progressivamente con l’età. Il rapporto globale tra maschi e femmine è di circa 1 a 3. Tale differenza tende ad annullarsi con l’età.
Eziopatogenesi L’eziologia dell’AR è largamente sconosciuta e la patogenesi, anche se nota in molti dettagli, è ancora oggetto di discussione. Un modello adeguato può però essere ipotizzato ammettendo che un agente esogeno provochi, in soggetti geneticamente predisposti, delle reazioni autoimmuni che perpetuano una reazione infiammatoria nelle articolazioni. A. Possibili fattori esogeni. Molti agenti infettanti sono stati considerati nel passato come possibili agenti eziologici dell’AR. Solo tre sembrano degni di particolare considerazione: i parvovirus, il virus di EpsteinBarr e i micobatteri. 1. I parvovirus sono piccoli virus a DNA che provocano malattie in molte specie. Il parvovirus B19 è, nei bambini, l’agente eziologico della quinta malattia (o eritema infettivo) ed è responsabile delle crisi aplastiche nei pazienti con sferocitosi ereditaria (Cap. 44). Negli adulti il parvovirus B19 può provocare un’artropatia che di solito è autolimitata e non somiglia clinicamente all’AR. Tuttavia, una recente infezione con par-
vovirus è stata documentata in due pazienti con artrite reumatoide iniziale, mentre altri due pazienti con sicura infezione da parvovirus B19 svilupparono transitoriamente delle alterazioni sierologiche simili a quelle che si osservano nell’artrite reumatoide. Anni fa, un virus denominato AR-I fu isolato dal tessuto sinoviale di un paziente affetto da artrite reumatoide e, quando fu iniettato nel topo, risultò in grado di provocare una malattia trasmissibile a carico del sistema nervoso centrale. Questo virus aveva le caratteristiche di un parvovirus. 2. Il virus di Epstein-Barr è l’agente eziologico della mononucleosi infettiva (Cap. 81) ed è particolarmente interessante perché stimola alla proliferazione tutti i linfociti B. Può perciò incrementare la produzione di vari anticorpi evocati da precedenti stimoli antigenici. Può così essere causa di una magnificazione delle risposte immunitarie che bene si accorderebbe con l’eccessiva risposta infiammatoria che probabilmente è alla base dell’AR. In effetti, i pazienti con questa malattia hanno con alta frequenza un anticorpo circolante diretto contro un antigene specifico del virus di EpsteinBarr e un maggior numero di cellule B circolanti infettate con questo virus. Nel loro liquido di lavaggio orofaringeo il virus di Epstein-Barr viene isolato più frequentemente che nei controlli. Questo non significa che sono più facilmente esposti al virus di Epstein-Barr che è ubiquitario, tanto che sono rari gli adulti che non hanno sviluppato immunità nei suoi confronti, ma piuttosto che questi soggetti sono meno efficienti nel neutralizzare l’infezione. 3. I micobatteri vengono considerati con interesse perché possono indurre nei ratti un’artrite sperimentale chiamata “artrite da adiuvante” (i micobatteri, iniettati in animali da esperimento insieme ad un antigene, magnificano la risposta specifica a quest’ultimo e perciò sono definiti “adiuvanti”). In realtà è oggi noto che i micobatteri esprimono le cosiddette “proteine da shock termico” (HSP, Heat-Shock Proteins), molecole che vengono anche sintetizzate nelle cellule umane sottopo-
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ste a vari stress, tra i quali lo shock termico è il più evidente, ma che includono anche l’azione dell’interferon, liberato dai linfociti T helper nel corso delle reazioni immunitarie. Perciò i micobatteri potrebbero indurre una reazione immunitaria crociata nei riguardi di cellule sinoviali esprimenti pure proteine da shock termico. È interessante che pazienti con AR hanno elevati livelli di anticorpi contro le proteine da shock termico di micobatteri ricombinanti. B. Fattori genetici. È stata trovata un’associazione tra l’AR e alcuni antigeni di istocompatibilità di classe II (Cap. 68), nel senso che coloro che hanno questi antigeni presentato un rischio aumentato di contrarre la malattia. Gli antigeni in questione sono l’HLA-DR4 e l’HLA-DR1. In realtà l’analisi molecolare ha permesso di chiarire meglio questa associazione. Gli antigeni HLA di classe II sono costituiti da due catene peptidiche, denominate e , la seconda delle quali è polimorfica, cioè esistente in differenti versioni ripartite tra diversi individui. La specificità HLA-DR4 può, con metodi particolarmente fini, essere distinta in cinque sottotipi: DW4, DW10, DW13, DW14 e DW15. Questo dipende dal fatto che nella catena della specificità DR4 esistono delle regioni ipervariabili, vale a dire regioni nelle quali le sequenze aminoacidiche variano da persona a persona, ma sono identiche in tutte le cellule di una stessa persona. I sottotipi di DR4 sono indicativi di queste differenze. Di particolare importanza, ai fini del presente discorso, è la terza regione ipervariabile, quella che include gli aminoacidi in posizione 70-74. Qui si trova il segmento della catena peptidica (epitopo) che influenza la suscettibilità all’AR. In realtà, le sequenze aminoacidiche che predispongono all’AR sono due: glutaminaleucina-arginina-alanina-alanina oppure glutamina-arginina-arginina-alanina-alanina. Queste sequenze sono presenti nella catena dei sottotipi DW4 e DW14 e non in DW10 e DW15 ed è interessante notare che solo i primi sottotipi, nell’ambito della specificità DR4, predispongono all’AR. Sono inoltre presenti anche nella specificità DR1 che conferisce pure predisposizione a questa malattia. Esistono due spiegazioni possibili per questa relazione molecolare. La prima è che gli antigeni di istocompatibilità di classe II presentano dei segnali antigenici ai linfociti T helper e quindi una particolare struttura molecolare delle specificità DW4, DW14 e DR1 può essere adatta all’avvio di reazioni immunitarie importanti per la patogenesi dell’AR. La seconda spiegazione è che queste sequenze aminoacidiche presenti in diversi sottotipi di molecole HLA-DR4 e DR1 non svolgano una funzione recettoriale, ma rappresentino, al contrario, un segnale antigenico (“epitopo condiviso”, perché presente in diverse specificità HLA-DR). Infatti, le cellule che sintetizzano i sottotipi delle molecole HLA-DR che contengono l’epitopo condiviso possono interiorizzare le molecole presenti alla loro superficie e digerirle. Come conseguenza di questa digestione, l’epitopo condiviso può essere montato su altre molecole MHC di classe II ed esposto ai linfociti T CD4+ per una possibile azione autoimmune.
MALATTIE DELLE ARTICOLAZIONI
In questo caso, la molecola MHC di classe II che presenta l’epitopo condiviso non apparterrebbe alla serie DR, ma a quella DQ. È interessante il fatto che l’epitopo condiviso non è solo presente in alcune molecole HLA-DR, ma anche in alcune proteine da shock termico di E. coli, C. lactis e B. ovis, così come nella glicoproteina gp 110 del virus di Epstein-Barr. È perciò possibile che rappresenti il bersaglio di una reazione autoimmune scatenata da agenti infettanti esogeni con il meccanismo della mimesi molecolare. Va infine ricordato che anche la specificità HLADR3 ha importanza nell’artrite reumatoide, non come fattore di suscettibilità alla malattia, ma in quanto la sua presenza comporta un maggiore rischio di effetti collaterali con la terapia con sali d’oro (proteinuria, trombocitopenia e, forse, eruzioni cutanee). C. Reazioni autoimmuni. Molte reazioni autoimmuni possono avere luogo nell’artrite reumatoide (Tab. 70.1), ma particolarmente importanti sembrano quelle contro tre bersagli: gli anticorpi della classe IgG, il collageno della cartilagine articolare (tipo II) e le proteine da shock termico. Anticorpi diretti contro la regione Fc delle IgG vengono sintetizzati piuttosto comunemente e vengono denominati “fattori reumatoidi”. Più che da IgG native il bersaglio è rappresentato da IgG vincolate in complessi antigene-anticorpo e da IgG scarsamente glicosilate (si è trovato che nell’AR esiste una diminuzione della attività degli enzimi che glicosilano le immunoglobuline). Quando si parla di “fattore reumatoide” (FR) senza specificazioni ci si riferisce a quello della classe IgM, ma ne esistono anche di altre classi immunoglobuliniche. Il FR è prodotto con una certa facilità, tanto che si può supporre che sia utile al fine della rimozione dei complessi antigene-anticorpo (può aggregarli in unità di maggiori dimensioni che più facilmente sono eliminate dalle cellule fagocitiche). Il tessuto sinoviale, ricco di linfociti, si comporta come un organo linfoide e può essere particolarmente adatto alla produzione di FR. La presenza nel siero sanguigno di titoli significativi di FR si verifica non solo nell’AR, ma è possibile anche in altre malattie nelle quali si ha una prolungata stimolazione del sistema immunitario (in un certo numero di casi di endocardite infettiva, pneumoconiosi, tubercolosi cronica, lupus, sindrome di Sjögren ecc.). Può anche essere osservata in alcuni soggetti normali, soprattutto anziani. Nell’AR il FR è determinabile nel siero in Tabella 70.1 - Principali autoanticorpi presenti nell’artrite reumatoide. • • • • • • •
Fattore reumatoide (di tipo IgM, IgG o IgA) Fattore reumatoide crioprecipitabile (talora) Anticorpi antinucleo Anticorpi anticollageno Anticorpi anticartilagine Anticorpi antifattori di degradazione del fibrinogeno Anticorpi anti-lg digerite con pepsina
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un’elevata percentuale di soggetti. Nella minoranza “siero negativa” è comunque presente nel liquido sinoviale delle articolazioni colpite. Non vi è dubbio che la produzione eccessiva di FR è un importante elemento di amplificazione dell’infiammazione articolare dell’AR. Il secondo autoantigene importante in questa malattia è il collageno. In roditori ed altre specie superiori di animali (incluse le scimmie) è possibile indurre sperimentalmente, iniettando collageno assieme ad adiuvanti, un’artrite che assomiglia all’AR. In pazienti con AR è facile trovare titoli elevati di anticorpi contro il collageno II, tanto in forma nativa che denaturata. Tuttavia, esistono dati che dimostrano che questi anticorpi sono prodotti in un secondo momento rispetto all’esordio clinico dell’artrite reumatoide. Sono perciò probabilmente la conseguenza di un danneggiamento, dovuta ad altre cause, della cartilagine articolare, piuttosto che la causa prima di questo processo. Tuttavia possono avere importanza nell’amplificare e perpetuare il processo patologico. Il terzo autoantigene da ricordare è rappresentato dalle proteine da shock termico (o Heat-Shock Proteins), che potrebbero essere bene rappresentate nel tessuto articolare in preda a un’infiammazione immunologicamente mediata. In effetti, nel liquido sinoviale di pazienti con AR viene trovato un numero relativamente elevato di linfociti T cosiddetti - (queste lettere dell’alfabeto greco indicano le catene peptidiche che formano il recettore per gli antigeni di queste cellule che si distinguono dalla maggioranza dei linfociti T, nei quali le catene peptidiche del recettore sono diverse e denominate e ). Si sa che i linfociti T con recettore - hanno attitudine a riconoscere le proteine da shock termico. Come si è anticipato a proposito degli agenti esogeni, i micobatteri posseggono proteine simili a quelle da shock termico dell’uomo e potrebbero indurre questo tipo di reazione autoimmune. La patogenesi delle manifestazioni extrarticolari dell’AR non è del tutto nota. Il riscontro nelle lesioni vasculitiche dell’AR di immunoglobuline e fattori complementari fa però ritenere verosimile il ruolo patogenetico degli immunocomplessi circolanti (si veda Vasculiti nel Cap. 69). D. Meccanismi immunopatologici. Il riconoscimento dell’importanza del fattore reumatoide aveva, inizialmente, concentrato su questo particolare autoanticorpo la maggiore attenzione per spiegare la patogenesi dell’artrite reumatoide. Era stato dimostrato che in questa malattia si forma anche fattore reumatoide della classe IgG (oltre a quello di classe IgM che viene dimostrato con le reazioni sierologiche) così che, reagendo con la regione Fc di altre IgG, questo può generare complessi antigene-anticorpo, attivare il complemento e provocare localmente infiammazione. Recentemente, tuttavia, si sono raccolti elementi importanti per concludere che il ruolo patogenetico fondamentale nell’artrite reumatoide è esercitato dai linfociti T CD4+ e, in particolare, da quelli che svolgono la funzione Th1. Questi possono essere cronicamente stimolati o da un antigene esogeno persistente o da un autoantigene con induzione di infiammazione. A questo
riguardo un ruolo importante gioca l’INF-. Questa sostanza agisce sui macrofagi sollecitando la produzione di citochine infiammatorie, quali il TNF- e, subordinatamente, altre quali la IL-1 e la IL-6. Il ruolo centrale del TNF- sembra provato da esperimenti terapeutici con il recettore solubile di questa citochina, che blocca la sua interazione con i recettori presenti sulle cellule. Questi esperimenti si sono rivelati di una certa efficacia. Oltre che con l’INF-, i linfociti T CD4+ stimolati possono agire attraverso la molecola CD154 espressa alla loro superficie. Questa, interagendo con la molecola CD40 presente sui macrofagi, rappresenta per queste cellule un segnale di attivazione. È da sottolineare che le stesse cellule sinoviali possono dare un contributo importante alla produzione di citochine infiammatorie, contribuendo ad effetti quali la proliferazione sinoviale (formazione del panno), il danneggiamento dell’osso (erosioni) e delle articolazioni, la infiammazione sinoviale e le manifestazioni sistemiche. In conclusione, il meccanismo immunopatologico prevalente nell’artrite reumatoide sembra essere di tipo IV, cioè cellulo-mediato. Questo non toglie che autoanticorpi, non solo fattore reumatoide, ma anche gli altri riportati nella tabella 70.1, possano pure contribuire alla patogenesi della malattia. E. Fasi nello sviluppo dell’artrite reumatoide. Nello sviluppo dell’artrite reumatoide sono state considerate tre fasi. La prima, di iniziazione, è rappresentata da un’infiammazione non specifica, che potrebbe essere provocata da fattori banali, quali traumi, o da agenti infettivi. L’infiammazione può, di per sé, attivare, attraverso il cosiddetto effetto “bystander” (Cap. 68), delle cellule T autoreattive che si trovano nello stato di ignoranza immunologica, mentre gli agenti infettanti possono agire con il meccanismo della mimesi molecolare. La seconda fase, detta di perpetuazione, è caratterizzata dall’instaurazione di reazioni autoimmuni. L’epitopo condiviso può essere uno degli autoantigeni riconosciuti, ma anche altri, smascherati nel corso del processo infiammatorio, possono costituire il bersaglio di autoaggressione. La terza fase, detta di cronicizzazione, è caratterizzata dall’allargamento delle reazioni immunopatologiche, non solo per l’interessamento di un numero progressivamente maggiore di autoantigeni, ma anche per il coinvolgimento delle cellule B e di quelle sinoviali. Le cellule T CD4+ con funzione Th1 mantengono l’infiammazione, generando un circolo vizioso. Per di più, le cellule T CD4+ esaltano le loro funzioni helper e promuovono la formazione di autoanticorpi da parte delle cellule B. Del ruolo delle cellule sinoviali si è già detto.
Anatomia patologica L’evoluzione dell’AR comporta un danno progressivo dell’articolazione e delle strutture periarticolari di sostegno. Nelle prime fasi la malattia è caratterizzata da un rigonfiamento delle parti molli determinato dall’ini-
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ziale ipertrofia sinoviale dovuta all’infiltrazione di linfociti, plasmacellule e altre cellule infiammatorie. È presente edema interstiziale e può comparire versamento articolare. Successivamente la sinoviale si inspessisce e modifica la sua struttura anatomica: le cellule di rivestimento assumono un aspetto a palizzata, la sinovia forma pieghe e villi, si arricchisce di linfociti che arrivano a formare piccoli noduli; all’interno della sinovia ipertrofica sono presenti aree di necrosi. Tali modificazioni comportano la formazione di quello che è definito il “panno sinoviale”. Il panno è in grado di distruggere la cartilagine e l’osso subcondrale ad opera degli enzimi lisosomiali e delle prostaglandine in esso prodotte. Lo studio immunoistologico, effettuato soprattutto grazie all’uso di anticorpi monoclonali marcati con fluoresceina, ha mostrato che il tessuto sinoviale reumatoide contiene numerosi linfociti T, molti dei quali esprimono marker di attivazione. Anche i macrofagi e le cellule dendritiche di derivazione macrofagica sono ben rappresentate e si possono osservare sia isolate che in stretta contiguità con i linfociti T. Benché i linfociti B e le plasmacellule sembrino scarsamente rappresentati, il tessuto sinoviale reumatoide produce e contiene grandi quantità di immunoglobuline, dato che suggerisce che anche tali cellule siano presenti in gran numero. L’analisi in fluorescenza delle plasmacellule sinoviali mostra che le IgG sono le immunoglobuline più rappresentate a livello citoplasmatico e che la maggior parte di IgM ha attività reumatoide. La lesione in sede articolare ha inizio a livello del punto di passaggio tra osso e cartilagine: vale a dire nel punto in cui la sinovia che ricopre la superficie interna della capsula articolare si riflette sull’osso. Col progredire dell’infiammazione si può avere la completa distruzione della cartilagine e l’esito in fibrosi o addirittura in anchilosi ossea. Tuttavia, non solo la cartilagine, ma anche le strutture ossee e i tessuti di sostegno circostanti possono essere interessati dal progredire del processo flogistico. L’osso può essere eroso dal panno sinoviale con cospicua deformazione dei capi articolari, che possono arrivare a non essere più congrui. Si può avere il passaggio di liquido sinoviale all’interno dell’osso spugnoso. Tale liquido, attraverso un’azione compressiva, determina un’ischemia, con conseguente necrosi e formazione di una lacuna che assume le caratteristiche di una pseudocisti (detta geode). Nell’osso prospiciente le articolazioni colpite è poi presente un’osteoporosi talora marcata: la ridotta mobilità determinata dal dolore ai movimenti articolari, infatti, causa una minore attività osteoblastica. Con meccanismi analoghi (azione degli enzimi proteolitici e degli altri mediatori dell’infiammazione) possono essere danneggiate durante il decorso della malattia le altre strutture di sostegno (capsule articolari, tendini, legamenti). Le fibre collagene divengono meno resistenti. Le capsule fibrose e i legamenti si indeboliscono. Si può quindi avere sublussazione dei capi ossei non più rigidamente tenuti nella loro sede, e ciò determina alcune delle caratteristiche deformazioni presenti nell’AR (mano con deviazione a colpo di vento, dita a collo di cigno, eccetera). La sublussazione può essere
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facilitata dall’azione dei muscoli circostanti, i quali hanno la tendenza alla contrattura antalgica e così esercitano una continua trazione sull’articolazione. Le lesioni di tipo vasculitico possono assumere i caratteri della poliarterite nodosa o di una vasculite da ipersensibilità o una combinazione delle due forme (Cap. 69). I noduli reumatoidi sottocutanei meritano un cenno a parte; sono probabilmente di origine vasculitica e si manifestano soprattutto a livello delle superfici estensorie nei tessuti periarticolari. Hanno un diametro generalmente tra uno e due centimetri e sono caratterizzati da un’area centrale di necrosi fibrinoide circondata da un vallo di cellule epitelioidi disposte a raggiera con un aspetto di tipo granulomatoso. Le forme vasculitiche e quelle in cui sono presenti i noduli tendono ad avere una prognosi sfavorevole.
Clinica A. Sintomi d’esordio. L’esordio può essere acuto o più spesso insidioso. Talora compaiono sintomi prodromici quali: astenia, dimagramento, rigidità articolare, artralgie, mialgie, febbricola. Le forme tipiche si manifestano con la comparsa graduale di una poliartrite simmetrica che colpisce le piccole articolazioni delle mani e dei piedi e i polsi. In un certo numero di casi, però, si ha una presentazione atipica con interessamento di una o poche articolazioni in modo asimmetrico (spesso il ginocchio). B. Manifestazioni cliniche. 1. Manifestazioni osteoarticolari. L’interessamento articolare è caratteristicamente additivo: vengono cioè interessate sempre nuove articolazioni mentre quelle precedentemente colpite non guariscono. Il paziente lamenta a livello articolare dolore e rigidità particolarmente intensa al risveglio al mattino. Tale rigidità si riduce con il movimento dopo un tempo abbastanza lungo (1-2 ore). Obiettivamente le articolazioni presentano i caratteri di una vera artrite: tumefazione, arrossamento, calore, impotenza funzionale. Parallelamente alla gravità della malattia si evidenziano: atrofia dei muscoli e dei tessuti circostanti, riduzione della motilità articolare, contratture, anchilosi. Le articolazioni più colpite sono le metacarpofalangee, i polsi, le interfalangee prossimali, le ginocchia, le caviglie, le metatarsofalangee, le spalle e i gomiti. Generalmente risparmiata è la colonna tranne che nella sua regione cervicale: una possibile grave complicazione di tale interessamento è la sublussazione dell’articolazione tra atlante ed epistrofeo che può portare a compressione del midollo spinale. Raramente sono colpite le articolazioni temporomandibolari (difficoltà alla masticazione) e cricoaritenoidee (raucedine). L’interessamento multiplo di articolazioni e tessuti di sostegno conduce alle caratteristiche deformazioni presenti nelle forme più avanzate. Tra queste si può ricor-
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dare la sublussazione e deviazione ulnare delle articolazioni metacarpofalangee (mano a colpo di vento) e l’iperestensione delle interfalangee prossimali (dita a collo di cigno), la flessione delle articolazioni interfalangee prossimali e l’estensione delle interfalangee distali (deformità a boutonnière), l’iperestensione della prima interfalange e la flessione della prima falange determinante la riduzione della motilità del pollice e della capacità di prensione. A livello del piede si può avere eversione e allargamento dell’avampiede, alluce valgo, sublussazione plantare della testa dei metatarsi. L’atrofia muscolare è spesso notevole e può interessare i muscoli interossei delle mani determinando un tipico aspetto a solchi del metacarpo. Spesso sono anche colpite le grosse masse muscolari degli arti (spalle, braccia, cosce, polpacci). Tra le altre manifestazioni a carico dell’apparato osteoarticolare è importante la tenosinovite del polso, che comprimendo il nervo mediano può produrre la cosiddetta “sindrome del tunnel carpale”, e la possibile formazione di una cisti sinoviale (detta di Baker) a livello del cavo popliteo. I noduli reumatoidi si trovano circa nel 20% dei casi. La loro sede più comune è a livello del gomito lungo la cresta oleocranica, ma possono avere anche altre localizzazioni (superficie estensoria delle dita, nuca, regione presacrale). 2. Manifestazioni cutanee. Sono rappresentate generalmente da quadri di atrofia e iperpigmentazione. Spesso presente eritema palmare. Piccoli infarti delle estremità delle dita, ulcerazioni cutanee spesso localizzate alle gambe sono caratteristiche della vasculite in corso di AR. 3. Manifestazioni oculari. La cheratocongiuntivite secca (sindrome di Sjögren) è la forma più comune (Cap. 69). Talora è presente uveite anteriore o episclerite. 4. Altre manifestazioni sistemiche. Relativamente comune anche se clinicamente poco evidente è una sierosite (pleurite, pericardite). L’interessamento cardiaco in sé è raro ed è caratterizzato da insufficienza aortica o disturbi di conduzione, dovuti alla presenza di noduli reumatoidi sulle valvole o a livello del tessuto di conduzione. Il polmone può essere interessato da una fibrosi interstiziale diffusa o da noduli parenchimali. La presenza di una AR con un quadro polmonare nodulare in pazienti con pneumoconiosi forma una caratteristica associazione detta sindrome di Caplan. Il rene è colpito raramente nell’AR, tuttavia nelle forme vasculitiche può essere presente una glomerulonefrite e nelle forme di lunga durata un’amiloidosi. Una proteinuria o una sindrome nefrosica vera e propria sono possibili complicanze di un trattamento con sali d’oro o D-penicillamina. Nella vasculite reumatoide può essere presente polineurite o mononeurite multipla, raramente ulcere cutanee con necrosi dermica e vasculite dei vasi viscerali. Talora sono presenti spleno o linfadenomegalie. La associazione di splenomegalia e neutropenia in corso di
AR è detta sindrome di Felty. La causa di tale sindrome non è nota, ma essa potrebbe essere dovuta alla presenza di anticorpi antineutrofili o all’adesione di immunocomplessi a tali cellule, con conseguente aumento della loro distruzione da parte della milza. Con una certa frequenza ne conseguono gravi infezioni.
Esami di laboratorio Gli indici di fase acuta sono alterati e riflettono l’attività della malattia. Tra questi è importante l’aumento della VES, delle 2-globuline all’elettroforesi e della proteina C reattiva. Spesso è presente un’anemia delle malattie croniche di tipo normocitico, normocromico, con sideremia e transferrina bassa. A. Fattore reumatoide. Caratteristica della malattia è la frequenza elevata con la quale viene trovato nel siero il fattore reumatoide (FR). Tale fattore, però, può essere riscontrato anche in altre malattie infiammatorie croniche (Tab. 70.2). Il FR che si evidenzia con i metodi di laboratorio è di classe IgM (il dosaggio dei fattori IgG o IgA è molto difficile e non viene effettuato se non in laboratori specialistici). I metodi normalmente impiegati sono due: il RA test (Rheumatoid Arthritis test) e la reazione di Waaler-Rose (Fig. 70.1). La metodica per effettuare il RA test è la seguente. Microsfere di lattice vengono ricoperte con IgG umane aggregate al calore. Quando poi sono poste a contatto Tabella 70.2 - Malattie associate ad alti titoli di fattore reumatoide in circolo. • Connettivopatie – Lupus eritematoso sistemico – Sindrome di Sjögren – Dermato-polimiosite – Sclerodermia – Artropatie reattive (spondilite anchilosante, artrite psoriasica, artriti enteropatiche) • Malattie infettive – Endocardite infettiva subacuta – Tubercolosi – Lebbra – Sifilide – Epatite virale – Mononucleosi infettiva – Influenza – Infestazioni parassitarie • Malattie varie – Fibrosi polmonare idiopatica – Pneumoconiosi – Sarcoidosi – Epatite cronica attiva e cirrosi epatica – Crioglobulinemia essenziale – Linfomi e malattia di Waldenström – Soggetti che abbiano subito un trapianto renale • Altri casi – Giovani sani (5%) – Anziani sani (30%) – Poligravide
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Lattice IgG umane aggregate
GR di montone IgG di coniglio
Siero del paziente (FR IgM)
contenenti inclusi citoplasmatici di forma sferica. Tali cellule sono chiamate ragociti (per la somiglianza che gli inclusi hanno con gli acini d’uva, dal greco ragòs) e sono caratteristiche dell’artrite reumatoide pur non essendo patognomoniche. La viscosità è ridotta e così pure le frazioni complementari C3 e C4.
Esami strumentali
RAtest 1:80
R. Waaler-Rose 1:32
Figura 70.1 - RA test e reazione di Waaler-Rose.
con un siero contenente FR IgM, tale fattore si lega alle IgG formando dei ponti e dando una reazione di agglutinazione. La reazione sarà effettuata con diverse diluizioni del siero e la diluizione massima positiva darà il titolo. L’esame è considerato significativo quando il titolo è di 1:80 o superiore. La seconda metodica in uso è quella di Waaler-Rose che è meno sensibile, ma più specifica della precedente. In questo test come substrato sono usati globuli rossi di montone che vengono fatti reagire con siero di coniglio precedentemente immunizzato contro tali emazie. Il siero contenente gli specifici anticorpi è usato a dose subagglutinante, in modo tale cioè che gli anticorpi ricoprano i globuli rossi ma non agglutinino. Tali globuli rossi sensibilizzati saranno cimentati con il siero in esame. Se questo contiene FR di tipo IgM si avrà l’agglutinazione. Il titolo significativo di tale test è di 1:32. Alla luce dei dati precedentemente esposti è opportuno ribadire che la positività dei test per la ricerca del FR non ci autorizza da sola a porre diagnosi di AR ma tale positività deve essere correlata al quadro clinico. D’altra parte è bene ricordare che il 20-25% delle AR sono sieronegative; in tali casi è possibile che siano presenti in circolo o in sede articolare fattori reumatoidi non IgM che quindi non possono essere svelati con le usuali metodiche. Più recentemente si è osservato che nel siero di pazienti con artrite reumatoide si trovano anticorpi diretti contro peptidi sintetici, alcuni dei quali ciclici, contenenti l’aminoacido citrullina. È stato perciò sviluppato un test che appare molto più specifico della dimostrazione del fattore reumatoide, ma la cui sensibilità deve essere ancora accuratamente valutata. B. Altri esami. Gli anticorpi antinucleo sono presenti nel 25-50% dei casi, generalmente a basso titolo. Recentemente sono stati dimostrati anticorpi rivolti contro un antigene specifico (Rheumatoid Arthritis Nuclear Antigen, RANA); il loro significato rimane oscuro. I livelli dei fattori complementari nel siero sono normali o elevati. Nelle articolazioni colpite il liquido sinoviale è torbido per la presenza di un elevato numero di leucociti (10.000-50.000/mm3). Tra questi sono numerosissime le cellule (per lo più granulociti neutrofili)
A. Esami radiografici. Precocemente si evidenziano solo l’edema delle parti molli e una lieve osteoporosi periarticolare. Poi si possono notare erosioni marginali e una riduzione dello spazio articolare dovuta alla distruzione della cartilagine. Nelle forme più avanzate è presente distruzione dell’osso subcondrale, osteoporosi diffusa. Si possono notare sublussazioni e anchilosi (Figg. 70.2-70.5). B. Altri esami. Talora possono essere utili biopsie a livello sinoviale o dei noduli.
Diagnosi La diagnosi è facile nelle forme più classiche ma può essere più complessa nei casi in cui la sintomatologia sia più sfumata. Per questo motivo l’associazione dei reumatologi americani (ARA) ha proposto dei criteri per la diagnosi (Tab. 70.3). Le malattie con cui più spesso si deve porre la diagnosi differenziale sono soprattutto le artriti infiamma-
Tumefazione delle parti molli Erosioni articolari
Figura 70.2 Mano reumatoide.
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Grande deviazione ulnare delle articolazioni metacarpo-falangee, deformità “a occhiello” del pollice e sinovite del polso.
Stadio 1 Stadio 1
Stadio 2 S tadio 2
Gravi lesioni di tipo deformante delle articolazioni metacarpo-falangee ed interfalangee prossimali, bilateralmente; molte dita presentano deformità “a collo di cigno”; deformità a occhiello” del pollice; numerosi noduli sottocutanei.
Stadio 3 Stadio 3
Figura 70.3 Deformazione delle mani nell’artrite reumatoide avanzata.
Stadio 4 S tadio 4
Figura 70.4 Evoluzione della patologia articolare nell’artrite reumatoide.
torie: LES, artrite psoriasica, artrite enteropatica, artriti reattive, spondilite anchilosante, sclerodermia, malattia di Lyme. La malattia reumatica segue un’infezione streptococcica, ha un decorso autolimitante caratterizzato da poliartrite migrante asimmetrica. Talora le fasi di esordio di malattie infettive (epatite B, malattie esantematiche) possono generare qualche confusione diagnostica. L’osteoartrosi è nella maggior parte dei casi ben distinguibile: qualche problema può porre l’artrosi erosiva delle mani che però predilige le articolazioni interfalangee distali a differenza dell’AR che colpisce soprattutto le interfalangee prossimali.
Decorso e prognosi
Figura 70.5 Aspetto all’apertura dell’articolazione del ginocchio nell’artrite reumatoide (la rotula è in posizione ventrale). Si osservano multiple villosità (panno) che ricoprono le cartilagini del femore e della rotula.
Il decorso è assai vario e caratterizzato generalmente da fasi di esacerbazione e remissione. Esistono forme più lievi che rispondono bene alla terapia e forme gravi che decorrono senza fasi di remissione, portando a quadri gravi di anchilosi e impotenza funzionale; in molti casi la malattia è grave non perché metta in pe-
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MALATTIE DELLE ARTICOLAZIONI
Tabella 70.3 - Criteri ARA per la diagnosi di artrite reumatoide (Revisione 1997). • Rigidità mattutina di almeno un‘ora per almeno 6 settimane • Artrite di tre o più aree articolari* per almeno 6 settimane (presenza di edema o versamento) • Tumefazione dei polsi, delle metacarpofalangee, o delle interfalangee prossimali per almeno 6 settimane • Tumefazione articolare simmetrica • Presenza di erosioni o decalcificazione iuxta-articolare alle mani • Presenza di noduli sottocutanei • Presenza di fattore reumatoide con un test che dia la positività in < 5% dei controlli La diagnosi di artrite reumatoide è definita se sono positivi tre o più criteri * Articolazioni interfalangee prossimali, metacarpofalangee, polsi, gomiti, ginocchia, caviglie, metatarsofalangee destre o sinistre.
ricolo la vita ma perché, impedendo il corretto uso degli arti e soprattutto delle mani, è assai invalidante. Chi ne è colpito può trovare difficoltà non soltanto nell’attività lavorativa ma anche nella cura della propria persona. Tra i fattori prognostici più sfavorevoli vi sono: gli alti titoli di FR, la presenza di noduli o danni vasculitici nonché la scarsa risposta alla terapia.
Terapia Fino a qualche anno fa si riteneva opportuno iniziare la terapia con antinfiammatori non steroidei, rinviando la terapia di fondo di qualche mese e iniziando con i farmaci più leggeri; attualmente l’approccio è più impegnativo: si inizia con farmaci più attivi, spesso in associazione, soprattutto nei pazienti che mostrano di avere una malattia aggressiva fin dall’esordio. Infatti si è visto che la malattia compie danni maggiori durante le sue prime fasi ed è in questo periodo che è opportuno usare farmaci efficaci. Gli obiettivi principali che ci si deve porre sono: il blocco dei danni erosivi, il controllo del dolore, il mantenimento il più possibile normale della motilità e della funzione articolare, una vita di relazione e lavorativa adeguata, un buon supporto psicologico. Oltre a ciò un attento monitoraggio della tossicità a breve e a lungo termine dei farmaci al fine di evitarne gli effetti collaterali. Farmaci in uso I farmaci in uso per l’AR sono tradizionalmente divisi in due categorie: da una parte gli antinfiammatori non steroidei, che sono utilizzati sia nelle fasi precoci della malattia che in quelle più avanzate come completamento della terapia di fondo, dall’altra i cosiddetti farmaci ad azione lenta i quali, secondo studi sperimentali adeguati, sarebbero in grado di modificare il
decorso della malattia, ma hanno un’azione che comincia a farsi sentire in un arco di tempo che può variare tra le sei settimane per il methotrexate e la salazopirina e i tre, quattro mesi per gli antimalarici di sintesi o i sali d’oro. Gli steroidi a basso dosaggio occupano una posizione intermedia tra le due categorie e possono essere usati in ogni fase della malattia. A. Antinfiammatori non steroidei. Sono fondamentali soprattutto nelle fasi iniziali, quando la diagnosi di certezza di AR ancora manca ed è quindi importante un trattamento sintomatico, ma si possono utilizzare anche successivamente. In passato è stato usato molto l’acido acetilsalicilico, il cui impiego attualmente è ridotto a causa dell’elevata incidenza di disturbi gastroenterici: oggi si preferisce iniziare con uno dei numerosi altri FANS a disposizione. I più comunemente usati sono il diclofenac a un dosaggio di 50 mg 2 volte al dì e il naprossene a un dosaggio di 500 mg per 2 volte al dì. Il medico deve ricordare il notevole rischio di effetti collaterali, soprattutto i disturbi gastroenterici e renali. Nei pazienti con elevato rischio di sanguinamento gastroenterico è opportuno associare delle prostaglandine (misoprostol: 200 g 2-3 volte al dì) o un inbitore di pompa protonica (omeprazolo, lansoprazolo, pantoprazolo o rabeprazolo) che hanno dimostrato azione protettiva a livello gastroduodenale. I pazienti particolarmente a rischio sono quelli di età superiore a 60 anni, quelli con storia pregressa di ulcera peptica e quelli che assumono contemporaneamente FANS e corticosteroidi. Per quanto riguarda il rischio di nefrotossicità è opportuno un attento monitoraggio della funzionalità renale e un periodico controllo della pressione arteriosa. Più recentemente sono stati utilizzati i farmaci inibitori selettivi della ciclossigenasi di tipo 2 (COX2). Attualmente sono approvati per l’uso nell’AR il celecoxib (200 mg 1 o 2 volte al dì), il valdecoxib (10 o 20 g al dì in monosomministrazione) e l’etoricoxib (60 o 90 mg al dì). Un farmaco di questa classe è già stato ritirato dal commercio perché associato ad aumentata mortalità per cause cardio-vascolari e gli altri sono sotto osservazione. B. Corticosteroidi antinfiammatori. Attualmente si ritiene che una piccola dose di steroidi possa essere utile nel controllo della sintomatologia reumatoide soprattutto nelle prime fasi di malattia. Consigliamo il prednisone a un dosaggio di 5 mg al dì al mattino per os (ma partendo da una dose di 15 mg, da ridurre gradualmente fino a quella indicata come mantenimento), da incrementare in caso di insuccesso fino a 10 mg al dì. Dosi superiori aumentano notevolmente il rischio di osteoporosi, soprattutto quando la terapia steroidea è molto protratta nel tempo. Particolarmente a rischio sono le donne in età postmenopausale per le quali è utile un supporto con sali di calcio, vitamina D e eventualmente difosfonati. Gli steroidi spesso sono poi usati per via intrarticolare. Più raramente sono usati come boli ev.
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C. Farmaci in grado di modificare il decorso della malattia. Si tratta di una serie di farmaci molto diversi tra loro dal punto di vista chimico che tuttavia presentano alcune caratteristiche simili. La loro azione è piuttosto lenta e perciò durante il loro uso, almeno nelle prime fasi, non si possono sospendere eventuali terapie con FANS o steroidi concomitanti: in effetti la maggior parte non ha alcuna attività antiflogistica o analgesica. Durante il trattamento con questi farmaci la maggior parte dei pazienti presenta un certo miglioramento clinico e spesso si può osservare un calo degli indici di fase acuta (VES, PCR ecc.) e del titolo del fattore reumatoide. Meno spesso si può osservare un arresto della progressione delle erosioni ossee, mentre è eccezionale la loro guarigione. Talora, dopo una risposta iniziale brillante si ha una ripresa dell’attività della malattia ed è necessario passare a un altro farmaco e purtroppo non esistono criteri per poter prevedere l’efficacia dei diversi agenti farmacologici in un singolo paziente. Tutti questi farmaci sono potenzialmente tossici, sia pure in modi diversi, ed è necessario un attento monitoraggio dei pazienti. È bene avvertire le pazienti fertili del rischio teratogeno, che per molti di questi farmaci è elevato, affinché utilizzino validi mezzi anticoncezionali. 1. Antimalarici di sintesi. Attualmente sono in uso per la cura dell’AR la clorochina e l’idrossiclorochina. Si tratta di farmaci la cui efficacia è dimostrata da numerosi studi clinici (60-80% di risposte almeno parziali entro 4-6 mesi dall’inizio della terapia) e la cui tossicità è in genere limitata. Purtroppo non esistono studi che dimostrino la loro capacità di rallentare la formazione di erosioni. Il dosaggio consigliato per la clorochina è di 4 mg/kg al dì (corrispondenti circa a una cp da 250 mg al dì), per l’idrossiclorochina è di 6 mg/kg al dì (corrispondenti circa a 2 cp da 200 mg al dì o 2 cp e 1 cp a giorni alterni nelle pazienti con peso intorno ai 50 Kg). In genere l’idrossiclorochina è ben più tollerata della clorochina, soprattutto per quanto riguarda la tossicità gastroenterica. L’effetto collaterale più temibile è sicuramente una possibile grave retinopatia irreversibile che si correla soprattutto con gli alti dosaggi in uso fino a qualche anno fa e con il tempo di somministrazione: è comunque consigliabile un attento esame oftalmologico prima dell’inizio della terapia e ogni 6-12 mesi. Infatti il danno retinico è del tutto reversibile se viene identificato precocemente. 2. Sali d’oro. I sali d’oro per via parenterale sono in uso come terapia di fondo per l’AR da alcuni decenni, più recentemente sono stati introdotti nell’uso dei sali d’oro per via orale, la cui efficacia tuttavia è molto più limitata. Sono sicuramente attivi nel breve periodo e non appaiono in grado di ritardare la progressione delle lesioni ossee; la presenza di importanti effetti collaterali ha reso il loro uso piuttosto raro. In Italia sono registrati il tiosolfato di sodio e oro (Fosfocrisolo, fiale da 10 e 50 mg) e l’oro solfuro (Aurosulfo, fiale multidose da 5 ml al 2%), mentre non è
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disponibile l’aurotiomalato di sodio (Tauredon, fiale da 10 e 50 mg) farmaco per il quale sono maggiori le dimostrazioni di efficacia. È molto importante un attento controllo del paziente per riconoscere precocemente gli effetti collaterali che sono piuttosto comuni. I più frequenti sono a livello cutaneo e mucoso (ulcere orali, rash eritemato maculare), tuttavia i più importanti sono a livello renale (proteinuria, glomerulonefrite membranoproliferativa, talora sindrome nefrosica) e a livello ematico (eosinofilia, granulocitopenia o piastrinopenia, raramente anemia aplastica che può anche essere fatale). Per questo motivo è fondamentale un controllo regolare dell’esame emocromocitometrico e dell’esame delle urine: settimanalmente per il primo mese, ogni quindici giorni il mese successivo, mensilmente poi. 3. Sulfasalazina. Si tratta di un farmaco sicuramente efficace e con relativamente pochi effetti collaterali, che ha il pregio di agire piuttosto rapidamente rispetto agli altri farmaci di fondo (quattro-sei settimane). È inoltre sicuramente in grado di ridurre la progressione dei danni ossei della malattia. Consigliamo di iniziare la terapia con un dosaggio di una cp da 500 mg 2 volte al dì per una settimana, con successivi incrementi settimanali di 500 mg al dì, fino a un dosaggio giornaliero di 2-3 g. Gli effetti collaterali non sono comuni e si manifestano soprattutto nei primi mesi di trattamento, spesso rispondono ad una transitoria riduzione del dosaggio. Epigastralgia, nausea, talora associate a cefalea e vertigini sono i disturbi più frequenti. Rari ma gravi sono i problemi epatici (epatite acuta) ed ematologici (leucopenia, piastrinopenia, anemia aplastica). Importante il controllo dell’esame emocromocitrometrico, degli enzimi epatici e della funzionalità renale dopo 15 giorni e un mese dall’inizio della terapia, poi mensilmente per altri tre mesi, infine ogni due, tre mesi successivamente. 4. D-penicillamina. È sicuramente in grado di agire sia dal punto di vista clinico che sugli indici di fase acuta, ma non vi sono dimostrazioni che possa arrestare la progressione delle lesioni ossee. È poco usata per i gravi e frequenti effetti collaterali. Lievi eruzioni che spesso si verificano a livello cutaneo, accompagnate da prurito, non necessitano di interruzione del trattamento, cosa che invece è necessaria per le occasionali orticarie gravi e per la comparsa di pemfigo. A livello ematico sono possibili granulocitopenia, piastrinopenia e anemia aplastica. A livello renale è comune la proteinuria, quando si associa a ematuria è possibile la comparsa di una glomerulonefrite rapidamente progressiva, talora glomerulonefrite. membranosa o proliferativa, raramente la sindrome nefrosica. Sono possibili anche altre malattie autoimmuni: miastenia grave, sindrome di Goodpasture, dermato-polimiosite, LES da farmaci. È necessario controllare l’esame emocromocitometrico e l’esame completo delle urine dopo una e due settimane dall’inizio della terapia e poi mensilmente.
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D. Immunosoppressori. 1. Methotrexate. È oggi il farmaco più usato per la cura dell’AR; è sicuramente molto efficace nel controllare la flogosi riducendo i segni di fase acuta ed è in grado di arrestare la progressione del danno osseo. Il dosaggio consigliato è di 7,5-20 mg per os, o intramuscolare una volta alla settimana; in genere 24-48 ore dopo la somministrazione si associa una piccola dose di acido folico o folinico che riduce notevolmente il rischio di effetti collaterali. I disturbi più frequenti sono a livello dell’apparato digerente: nausea, dispepsia e stomatite. La tossicità principale è a livello epatico: lievi elevazioni delle transaminasi sono comuni, fibrosi ed eventualmente cirrosi sono invece relativamente rare. Anche a livello polmonare è possibile, seppure raramente, una polmonite da ipersensibilità che può evolvere in fibrosi. Possibile anche leucopenia. Si consiglia, prima dell’inizio della terapia, il controllo della funzionalità epatica e dei marker dell’epatite B e C, nonché un’attenta anamnesi sul consumo di alcolici da parte del paziente: in caso di epatite cronica in fase attiva o di eccessivo consumo di alcool, è sconsigliabile il trattamento. Sono fondamentali controlli regolari di: emocromo, AST, ALT, azotemia e creatinina ogni due settimane per due mesi, poi mensilmente per sei mesi, infine ogni due mesi. Utile la radiografia del torace ogni due anni. È un farmaco teratogeno, perciò le donne in età fertile devono usare mezzi anticoncezionali validi. 2. Leflunomide. È una nuova molecola ad azione antipirimidinica che appare molto efficace: è ben documentata la sua capacità di ridurre la progressione delle erosioni ossee. La dose è di 20 mg al dì per os. L’effetto collaterale più comune è la diarrea, ma la tossicità più grave è epatica (perciò è controindicata in tutte le epatopatie già note). Più rare sono alopecia, neutropenia, ipertensione arteriosa, interstiziopatia polmonare e neuropatia periferica. È opportuno il controllo regolare degli enzimi epatici e dell’esame emocromocitometrico. È un farmaco teratogeno, perciò le donne in età fertile devono usare mezzi anticoncezionali validi. 3. Ciclosporina. È un farmaco sicuramente efficace e gli effetti collaterali ai dosaggi utilizzati nell’AR sono in genere lievi e reversibili. È in grado di modificare segni e sintomi dei pazienti trattati in un arco di tempo da uno a tre mesi e vi sono evidenze significative sulla sua capacità di rallentare la progressione delle lesioni ossee. Il dosaggio consigliato è di 2,5-5,0 mg/kg al dì. È opportuno iniziare con le dosi più basse e salire gradualmente fino al dosaggio massimo. Gli effetti collaterali più importanti sono a livello renale: in particolare è possibile un incremento dei livelli sierici della creatinina. Nella maggior parte dei pazienti trattati, l’interruzione del trattamento ha permesso il ritorno alla norma dei parametri di funzionalità renali. Per questo motivo è fondamentale un attento e regolare controllo della creatininemia e la sospensione della terapia se i valori di creatinina aumentano oltre il 25% su quelli basali.
MALATTIE DELLE ARTICOLAZIONI
Un altro comune problema è l’ipertensione, che può necessitare di trattamento (attenzione all’uso degli antialdosteronici, perché la ciclosporina di per sé tende a favorire l’iperpotassiemia e ai calcio-antagonisti perché possono elevare i livelli della ciclosporina). Gli altri effetti collaterali più significativi sono: intolleranza gastrica (nausea, anoressia, vomito), epatotossicità, iperplasia gengivale e irsutismo. Consigliamo un controllo della creatinina e dell’esame delle urine quindicinale per i primi tre mesi e poi mensile. Sono utili anche periodici controlli degli enzimi epatici e dell’esame emocromocitometrico. 4. Azatioprina. È efficace nell’AR ed è in grado di modificare in senso favorevole gli indici di fase acuta. Il dosaggio consigliato è di 2 mg/kg al dì (circa 100-150 mg al dì). Una volta raggiunta l’efficacia si può calare fino ad arrivare al minimo dosaggio attivo. Gli effetti collaterali più comuni sono: leuco o piatrinopenia, epatotossicità, aumentato rischio di infezioni e nel lungo periodo un incremento lieve nel rischio oncogeno. Occorre fare attenzione alle interazioni con l’allopurinolo, la ciclofosfamide e la succinilcolina che determinano la necessità di ridurre il dosaggio dell’azatioprina. Nei primi mesi bisogna controllare l’emocromo completo ogni due settimane e gli enzimi epatici ogni quattro settimane, successivamente ogni sei-otto settimane. 5. Ciclofosfamide. È notevolmente efficace nel controllare la sintomatologia dell’AR, nel ridurre i livelli degli indici di fase acuta e nel ritardare la distruzione ossea. Raggiunge il massimo dell’efficacia nell’arco di tre o quattro mesi. Il dosaggio consigliato è di 2 mg/kg al dì (100-150 mg al dì). Il suo uso è purtroppo gravato da importanti effetti collaterali. I principali sono: l’importante rischio oncogeno, la mielotossicità, la possibile comparsa di cistite emorragica e il rischio di sterilità. È fondamentale un rigoroso controllo degli esami di laboratorio durante il trattamento: in particolare all’inizio l’emocromo completo e l’esame delle urine devono essere eseguiti settimanalmente, nei mesi successivi si può passare a un controllo quindicinale e, dopo alcuni mesi, mensile. La conta dei globuli bianchi non dovrebbe scendere sotto i 3000/mm3. In considerazione degli importanti rischi nella sua somministrazione il suo uso nell’AR dovrebbe essere riservato ai pazienti affetti da forme a impronta vasculitica o a pazienti affetti da AR molto aggressiva, in fase sicuramente attiva, già trattati con tutti gli altri farmaci di fondo senza successo. È un farmaco teratogeno, perciò le donne in età fertile devono usare mezzi anticoncezionali validi. Terapie combinate Oggi quasi tutti gli Autori ritengono che nelle forme aggressive sia opportuno iniziare il più presto possibile la terapia con i farmaci più efficaci come il methotrexate per limitare la progressione della malattia e la comparsa di lesioni ossee.
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Diversi studi promettenti sono in corso sull’associazione di vari farmaci di fondo al fine di combattere la malattia su più fronti. Il nostro schema comporta un trattamento iniziale con idrossiclorochina associata a methotrexate; in caso di necessità per ottenere una risposta clinica più rapida si può associare metilprednisolone (4-8 mg al dì). In caso di mancata risposta dopo 4 mesi (comparsa di nuovi interessamenti articolari e/o extra-articolari, una VES superiore a 30 mm/ora o una PCR superiore a 30 mg/dl, in presenza di una valutazione globale del medico e/o del paziente di miglioramento inferiore al 50%), si può associare ciclosporina a un dosaggio di 3 mg/kg (aumentabile gradualmente fino a 5 mg/kg in caso di risposta parziale). Quando si raggiunge e si mantiene la remissione per almeno un anno si può sospendere gradualmente la ciclosporina e poi il methotrexate e proseguire con la sola idrossiclorochina. In presenza di segni clinici di notevole gravità clinica, a giudizio del curante, si può iniziare subito con un trattamento aggressivo con l’associazione di idrossiclorochina + methotrexate + ciclosporina secondo le modalità precedenti. Altre terapie di associazione comprendono: methotrexate, sulfasalazina e idrossiclorochina, methotrexate e leflunomide.
Chirurgia È molto importante per migliorare la qualità della vita in pazienti con articolazioni gravemente danneggiate: la maggior parte degli interventi di artroplastica e di sostituzione articolare viene effettuata sull’anca e sul ginocchio, benché possa essere eseguita anche su altre articolazioni. Scopo di tale trattamento è il controllo del dolore e la correzione delle deformità, oltre a un certo miglioramento funzionale. Rilevante è anche la possibilità di intervenire sulle articolazioni della mano con ricostruzioni articolari che diano vantaggi estetici e funzionali.
Farmaci biologici. Si tratta di nuove molecole prodotte mediante ingegneria genetica che devono essere somministrate per via parenterale, il cui costo elevato consiglia l’uso nelle forme resistenti ai comuni farmaci di fondo. È in corso di valutazione il loro ruolo nella stessa dose alle settimane 2 e 6, e infine ogni 8 settimane. È approvato per l’uso solo in associazione con il methotrexate.
A. Forma sistemica. Rappresenta il 20% dei casi ed è più comune nei maschi. L’età mediana di insorgenza è di 5 anni. Sono importanti le manifestazioni extrarticolari: febbre alta con carattere generalmente intermittente, rash maculare o maculopapulare (nel 90% dei casi), interessamento cardiaco e polmonare (endocardite, polmonite), polisierosite (pericardite, pleurite), linfoadenopatia, epatosplenomegalia. A livello articolare si può avere un’artralgia o una vera e propria artrite. Nel 25-30% dei casi la prognosi è grave. Tra gli esami si segnala: anemia e leucocitosi, negatività sia per FR che per anticorpi antinucleo.
1. Etanercept. È una molecola di combinazione formata da un recettore per il TNF- ad alta affinità legato alla frazione Fc di un’immunoglobulina umana IgG. Si lega al TNF solubile impedendogli di interagire con i propri recettori. La dose usata è di 25 mg sottocute 2 volte alla settimana. 2. Infliximab e adalimumab. Sono anticorpi monoclonali ricombinanti umani che si legano al TNF- con alta avidità. Il dosaggio è dipendente dall’anticorpo usato e la somministrazione è per via sottocutanea. 3. Inibitore dell’interleuchina-1 – Anakinra. È la forma ricombinante dell’antagonista del recettore per l’interleuchina-1 di tipo I. Nei pazienti con l’AR i livelli di questo antagonista recettoriale nell’articolazione infiammata sono ridotti rispetto alla quantità di interleuchina-1 presente e ciò può contribuire alla persistenza dell’infiammazione articolare. Si somministra a un dosaggio di 100 mg sottocute al dì. Gli effetti collaterali più comuni sono reazioni eritematose nella sede di iniezione e un aumento del rischio di infezioni. Il suo uso è utile in pazienti che non hanno risposto o non tollerano methotrexate, leflunomide o antiTNF.
Artrite reumatoide giovanile (malattia di Still) È una malattia eterogenea: si distingue infatti in una serie di sindromi che esordiscono generalmente prima dei 16 anni; ciononostante alcune sindromi del tutto sovrapponibili ad essa sono osservabili nell’adulto (si veda Cap. 69). Si possono riconoscere tre forme principali: una a carattere sistemico (malattia di Still), una poliarticolare e una pauciarticolare.
B. Forma poliarticolare. Comprende il 40-50% dei casi. Ha prevalenza femminile ed età mediana di insorgenza di 2 anni. Possono essere colpite articolazioni sia piccole che grandi (almeno in numero di quattro). Talora è presente febbre, noduli sottocutanei, ritardo di crescita. Tra gli esami si segnala: generalmente negativo il FR IgM, positivi nel 50% dei casi i FR IgG o IgA. Gli anticorpi antinucleo sono positivi in un quarto dei casi. La prognosi è generalmente abbastanza buona. C. Forma pauciarticolare. Interessa il 30-40% dei casi, soprattutto di sesso femminile. Età mediana di insorgenza: 3 anni. Sono colpite una o poche articolazioni: in particolar modo il ginocchio e la caviglia. In metà dei casi si ha iridociclite che può complicarsi con un glaucoma, cheratopatia, cataratta e condurre a cecità. Dal punto di vista del laboratorio si segnala la negatività del FR e la presenza degli anticorpi antinucleo nel 30-45% dei casi con una predilezione per quelli che tenderanno a manifestare iridociclite. La prognosi è buona quando non c’è interessamento oculare.
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C A P I T O L O
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SPONDILOARTROPATIE SIERONEGATIVE C. BESANA
Le spondiloartropatie sieronegative costituiscono un gruppo di condizioni infiammatorie fra loro correlate con caratteristico interessamento sia delle articolazioni periferiche che della colonna, comprendente la spondilite anchilosante, la spondilite giovanile (variante dell’artrite reumatoide giovanile), la spondilite psoriasica, la sindrome di Reiter, le artriti reattive, l’artropatia enteropatica. La spondilite si accompagna a sacroileite, interessamento tendineo-legamentoso della colonna, tendinite d’Achille, fascite plantare, e talvolta uveite anteriore o aortite evolvente in insufficienza aortica. L’eziologia delle artriti sieronegative (così chiamate per l’assenza di fattori reumatoidi di classe IgM nel siero) non è nota, ma la predisposizione genetica vi gioca un ruolo importante. Le spondiloartropatie sono accomunate da un’associazione statisticamente significativa con l’antigene HLA B27, variabile secondo la specifica malattia e la razza, giungente sino ad oltre il 95% dei pazienti bianchi affetti da spondilite anchilosante. L’antigene HLA B27 sembra in qualche modo correlato con la predisposizione a sviluppare spondilite e complicanze ad essa connesse anche in altre condizioni morbose, quali la gonorrea, le infezioni enteriche da Klebsiella, Yersinia, Shigella e Salmonella e le infezioni genitourinarie da Chlamydia, le resezioni chirurgiche di tratti del tenue, il morbo di Whipple e la malattia di Behçet.
SPONDILITE ANCHILOSANTE La spondilite anchilosante è una malattia infiammatoria cronica ad eziologia sconosciuta, prevalente in forma conclamata nel sesso maschile, esordio in età giovanile, con localizzazione preferenziale alle articolazioni non diartrosiche e alle strutture legamentose dello scheletro assiale, caratterizzata da dolore e progressiva rigidità della colonna con evoluzione verso l’anchilosi, e possibili manifestazioni extrascheletriche. La malattia, di cui si ha documentazione dall’epoca preistorica, è diffusa in tutto il mondo, con notevoli dif-
ferenze geografiche e predilezione per la razza bianca. La prevalenza è simile a quella dell’artrite reumatoide e pari, in Europa, a 1-1,5%, con notevole preferenza per il sesso maschile della forma classica di spondilite, senza differenze tra i sessi se si considerano le frequenti forme paucisintomatiche o a localizzazione articolare periferica. A. Eziopatogenesi. La spondilite anchilosante è statisticamente correlata (oltre il 95% dei casi) con l’antigene di istocompatibilità HLA B27, trasmesso come carattere autosomico codominante e presente nel 6-14% della popolazione europea. Studi su donatori di sangue HLA B27+ apparentemente sani hanno dimostrato che il 20% di essi presentava qualche segno o sintomo della malattia. La SA è assai più frequente di quanto si pensasse negli scorsi decenni; ha penetranza variabile, 7 volte maggiore nel sesso maschile. L’omozigosi non è associata a maggior gravità della malattia, che risulta più frequente in portatori di antigene HLA A2 o A28 associati a B27. L’eziopatogenesi della malattia è ancora per molti versi oscura, ma si pensa che l’antigene HLA B27, in maniera non ancora chiarita, predisponga alle conseguenze di un’infezione microbica: esso potrebbe essere un marker di un gene Ir che determini suscettibilità oppure agire esso stesso come recettore per un agente infettante o indurre tolleranza ad antigeni microbici cross-reagenti con antigeni di tessuti autologhi. L’agente infettante non è noto, e potrebbe trattarsi di specie diverse; si è notato che pazienti affetti da spondilite anchilosante sono frequentemente portatori di prostatite cronica e presentano iper--globulinemia o concentrazioni ematiche elevate di anticorpi antiChlamydia o rivolti verso antigeni della flora fecale. È stato osservato che una sequenza aminoacida dell’antigene HLA B27 è omologa alla sequenza 188-193 di un antigene batterico di Klebsiella pneumoniae. Enterobatteri con determinati antigenici cross-reagenti con l’antigene HLA B27 sono presenti nella flora fecale di pazienti HLA B27+ affetti da SA ma non in HLA B27+ sani. Klebsielle o plasmidi presenti nel loro mezzo di
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coltura lisano in vitro linfociti periferici di soggetti HLA B27+ spondilitici ma non di quelli sani. Le ragioni della localizzazione della malattia a certi tessuti non è nota: l’antigene HLA B27 non è organo-specifico. B. Anatomia patologica. Le alterazioni anatomopatologiche sinoviali non sono dissimili da quelle dell’artrite reumatoide, assai più caratteristici gli infiltrati infiammatori cronici alle inserzioni tendinee (entesiti), con fibrosi, reazione periostale e neoformazione ossea. Le sedi più importanti sono le sincrondrosi intervertebrali, le articolazioni apofisarie costovertebrali, le sacroiliache, la sinfisi pubica e il manubrio sternale, oltre alle articolazioni diartrodiali delle anche, spalle e ginocchia; talvolta vi è interessamento dei tessuti connettivi extrarticolari, come nell’iridociclite acuta ricorrente e negli infiltrati infiammatori aortici e cardiaci che conducono ad insufficienza valvolare o a difetti di conduzione. C. Clinica. Il quadro clinico della spondilite anchilosante è caratterizzato dall’esordio insidioso, in un uomo di 20-30 anni di età, di dolore in regione sacroiliaca e al rachide lombare, con rigidità mattutina e sollievo dopo movimento. La diagnosi clinica è considerata certa se i disturbi datano da oltre tre mesi e coesistono i segni radiografici della sacroileite (si veda in seguito). La malattia evolve negli anni successivi con graduale perdita della mobilità antero-posteriore e laterale della colonna vertebrale, dapprima con scomparsa della lordosi lombare, poi con accentuazione della cifosi dorsale e riduzione della espansibilità toracica, o rigidità in flessione del rachide cervicale. La ridotta mobilità è evidenziabile sia valutando la flessione e la deviazione laterale del rachide lombare, sia misurando le variazioni del perimetro toracico nella inspirazione profonda. Frequente è la coxartrite o l’artrite della spalla; più rare sono poliartriti delle grosse articolazioni degli arti o addirittura delle piccole articolazioni periferiche. La spondilite anchilosante è gravata da complicanze locali ed extrarticolari: tra le prime vanno annoverate la precoce comparsa di osteoporosi, la radicolonevrite, le fratture patologiche della colonna e la sublussazione atlantoassiale con mielite trasversa e tetraparesi o plegia; le complicanze extrarticolari consistono in iridocicliti ricorrenti (25% dei pazienti), insufficienza aortica, disturbi di conduzione cardiaca o cardiomegalia nel 3-10% dei pazienti, insufficienza respiratoria per ipoespansibilità toracica o fibrosi polmonare, nefrolitiasi per osteoporosi ed ipercalciuria, disturbi sistemici per amiloidosi secondaria renale, cardiaca, intestinale, possibile causa di morte nel 10% dei pazienti. La malattia può essere gravemente invalidante, ma usualmente la sopravvivenza è buona; la prognosi, molto variabile e assai difficile da porre per il singolo caso, è molto influenzata dal trattamento. D. Esami di laboratorio e strumentali. Gli esami di laboratorio mostrano con rare eccezioni ipersedimetria nelle fasi di acuzie della malattia, e antigene HLA
Figura 71.1 - Radiografia del rachide lombosacrale nella spondilite anchilosante in stadio avanzato.
B27, la cui ricerca non è tuttavia ritenuta necessaria per la diagnosi. Caratteristico è l’aspetto radiologico delle articolazioni sacroiliache, i cui margini divengono progressivamente più sfumati e irregolari, con interlinea articolare erosa e dapprima apparentemente allargata per rarefazione ossea pararticolare, poi ridotta ed invasa da sclerosi ossea sino a completa e simmetrica anchilosi. Al rachide si verificano lesioni destruenti allo spigolo superiore e inferiore dei corpi vertebrali, di cui scompare la normale concavità del contorno anteriore del corpo vertebrale (vertebre squadrate), indi si formano spicule ossificate all’inserzione dei legamenti intervertebrali (sindesmofiti), i quali al termine della loro calcificazione fissano totalmente il segmento rachideo interessato (colonna a canna di bambù) (Fig. 71.1). La sinfisi pubica tende a saldarsi e irregolari calcificazioni compaiono alle protuberanze ischiatiche e all’inserzione calcaneare della fascia plantare e del tendine di Achille. La scintigrafia ossea con tecnezio difosfonato, molto sensibile anche se di significato non specifico, è talora preziosa per evidenziare i fenomeni infiammatori molto precoci. E. Diagnosi e diagnosi differenziale. La diagnosi si impone in base ai caratteri clinici e all’aspetto radiologico. Essa può essere difficile nelle forme sfumate giovanili o nel sesso femminile. La diagnosi differenziale della spondilite anchilosante si pone soprattutto nei confronti delle forme secondarie (si veda in seguito). F. Terapia. 1. Scopo del trattamento. Il primo compito è quello di ridurre il dolore e la rigidità articolare: se vi è già una riduzione della motilità, è importante cercare di recuperarla per quanto possibile. Nel lungo periodo bisogna cercare di alleviare i sintomi, far mantenere una
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corretta postura e capacità di movimento, evitando che le alterazioni osteoarticolari possano progredire fino all’anchilosi. 2. Trattamento farmacologico. I farmaci di primo impiego nella spondilite anchilosante sono i FANS, il cui uso è fondamentale per ridurre l’infiammazione e conseguentemente il dolore e l’alterata funzionalità articolare: solo un buon controllo del dolore permette di intraprendere un programma di fisioterapia riabilitativa, indispensabile in tale malattia. Studi controllati hanno mostrato che il trattamento a lungo termine con dosi fisse è più efficace di trattamenti in cui i FANS era usati al bisogno. Il farmaco la cui efficacia è più documentata è l’indometacina. Il dosaggio iniziale è di 25 mg per os 3 volte al dì. In caso di risposta parziale si può elevare tale dosaggio a 50 mg 3 volte al dì. Un altro farmaco usato con molta efficacia è il naprossene a un dosaggio di 500 mg per os 2 volte al dì. In caso di riacutizzazione della malattia si può arrivare per tempi limitati a un dosaggio di 500 mg 3 volte al dì. Sicuramente vantaggiosi sono anche il diclofenac (50 mg per os 2 volte al dì), il ketoprofene (50 mg per os 2 volte al dì) e piroxicam (20 mg per os 1 volta al dì). È bene ricordare che tutti questi farmaci non modificano il decorso della malattia ma hanno esclusivamente un effetto sintomatico sulla rigidità e sul dolore articolare: resta fondamentale il ruolo terapeutico della fisioterapia. Per quanto riguarda gli effetti collaterali, questi sono meno frequenti che nella popolazione affetta da osteoartrosi, soprattutto in rapporto alla minore età dei pazienti affetti da spondilite. Sono prevalenti a livello dell’apparato gastroenterico e si deve sempre tenere a mente il rischio di ulcera peptica a livello gastroduodenale, ma anche la possibilità che si formino ulcerazioni a livello del piccolo intestino. È opportuno un periodico controllo della crasi ematica e della funzionalità epatica e renale. È in corso di valutazione l’efficacia dei farmaci COX2 selettivi. 3. Terapia di fondo. Si veda il capitolo 70 sull’AR per maggiori dettagli. Molti dei farmaci di fondo usati nell’artrite reumatoide si sono dimostrati del tutto inefficaci e tra questi i sali d’oro, gli antimalarici di sintesi e la penicillamina, i corticosteroidi e molti immunosoppressori. Più promettente appare il trattamento con la sulfasalazina che è efficace soprattutto nelle forme periferiche: numerosi lavori sperimentali evidenziano una certa utilità clinica accompagnata da calo degli indici di fase acuta. Esistono poche evidenze sull’utilità del trattamento con methotrexate a dosaggi settimanali analoghi a quelli dell’AR (7,5 - 15 mg alla settimana per os o intramuscolare) come per la sulfasalazina soprattutto per le artriti periferiche. Le terapie di fondo possono avere un ruolo nella spondilite anchilosante quando gli antinfiammatori non
steroidei non riescano a controllare bene la sintomatologia dolorosa e i segni di flogosi, e il loro ruolo appare più significativo nelle forme iniziali con notevole componente flogistica. 4. Farmaci biologici. Un passo importante nella cura della spondilite anchilosante è stata l’introduzione nell’uso degli anti-TNF-. Gli studi controllati eseguiti finora hanno mostrato una notevole efficacia antalgica e sugli indici di disabilità nel breve e medio periodo. Si attende l’esito di studi a lungo termine. Attualmente sono approvati per l’uso in questa malattia l’infliximab e l’etanercept. 5. Terapie sperimentali. In corso di valutazione è l’uso di un bifosfonato, il pamidronato, che in studi preliminari ha mostrato un miglioramento degli indici di disabilità della malattia, e della talidomide, che appare esercitare il suo effetto inibendo il TNF-. 6. Fisioterapia. È importante che il medico curante, già al momento della diagnosi, prenda contatto con un fisiatra per impostare un programma atto a migliorare la postura e a riportare la motilità verso la norma: più presto si inizia, migliori sono i risultati. La fisioterapia deve combinare trattamenti in palestra e piscina con l’educazione alla ginnastica a domicilio. Importante anche la ginnastica respiratoria in quanto la malattia può provocare una grave sindrome restrittiva; poiché la situazione respiratoria di tali pazienti è a rischio, il medico deve convincere i pazienti affetti da spondilite a non fumare.
SINDROME DI REITER Si definisce sindrome di Reiter una triade composta da artrite subacuta ricorrente o cronica, uretrite e uveite. Essa segue solitamente un’infezione venerea o una diarrea epidemica, talvolta un’infezione asintomatica. Può essere accompagnata da manifestazioni cutaneomucose, ma è spesso paucisintomatica e incompleta. A. Eziopatogenesi. L’eziologia può essere difficile da determinare nel singolo caso. Esistono tuttavia prove che si tratti di una reazione ad agenti infettivi in soggetti geneticamente predisposti. Esistono due forme, una delle quali segue ad episodi epidemici di dissenteria causati da ceppi di Shigella flexneri. Solo in casi molto rari le artriti reattive, usualmente delle grosse articolazioni e ad andamento acuto e fugace, che possono seguire ad infezioni intestinali da Shigella dysenteriae, Salmonella, Yersinia enterocolitica e probabilmente Campylobacter, sfociano in una vera e propria sindrome di Reiter. La forma endemica postvenerea è invece determinata da infezioni sessuali da Chlamydia, Mycoplasma, Ureaplasma e da uretriti cosiddette non specifiche ad eziologia incerta. Studi epidemiologici hanno mostrato che in epidemie dissenteriche solo il 5% dei pazienti sviluppa una sindrome di Reiter; questi pazien-
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ti sono usualmente HLA B27+ (80% dei casi), o altrimenti portatori degli antigeni di istocompatibilità HLA B7, Bw22, Bw42. La prevalenza della sindrome è assai difficile da stabilire, non essendovi test diagnostici patognomonici e potendo essere modesti i segni clinici sia dell’episodio infettivo scatenante, sia della sindrome stessa. Mentre la forma postdissenterica è ugualmente frequente nei due sessi (20% dei soggetti HLA B27+), la forma postvenerea sembra prediligere i maschi, forse perché più facilmente affetti da uretrite. B. Clinica. Il quadro clinico consiste in un’artrite o poliartrite, particolarmente di ginocchia e caviglie, con versamento sinoviale, o di una dattilite del piede con evidente flogosi dei tessuti molli (dito a salsiccia), frequentemente associata a entesopatia (infiammazione delle inserzioni tendinee) calcaneare, achillea, della caviglia o talora intercostale. Nel 20% dei casi vi è interessamento del rachide simile alla spondilite anchilosante. L’artrite e l’entesopatia insorgono 2-3 settimane dopo l’episodio infettivo e hanno andamento cronico o recidivante. È frequente una congiuntivite o un’uveite anteriore. Le manifestazioni cutanee e mucose possono essere rappresentate da una stomatite aftosa fugace, una balanite circinata che può precedere i segni dell’artrite, o da lesioni ipercheratosiche simili alla psoriasi ma prevalentemente localizzate agli arti inferiori e particolarmente alla pianta dei piedi (keratoderma blenorrhagicum). Le complicanze tardive della sindrome di Reiter consistono nell’evoluzione della spondilite verso l’anchilosi, specialmente in soggetti HLA B27+; nell’insufficienza aortica e nei disturbi di conduzione e di ritmo cardiaco, nell’ambliopia da iridociclite progressiva, e assai raramente in complicanze neurologiche periferiche o centrali o in infiltrati interstiziali polmonari. C. Esami di laboratorio e strumentali. Tra gli esami di laboratorio vi è variabile ipersedimetria e leucocitosi neutrofila; l’antigene HLA B27 è presente nell’80% dei casi, frequentemente si riscontrano immunocomplessi circolanti e talora anticorpi antiChlamydia o Neisseria; il secreto uretrale contiene numerosi leucociti neutrofili ed è possibile piuria sterile. Il liquido sinoviale può contenere da 5 a 50.000 neutrofili/mm3. Gli esami radiografici mostrano osteoporosi iuxtarticolare, più tardi erosioni e riduzione della rima articolare, e segni di spondilite o sacroileite frequentemente asimmetriche; caratteristica la proliferazione periostea all’inserzione dei tendini, specialmente in sede calcaneare. D. Diagnosi e diagnosi differenziale. La diagnosi è posta per criteri clinici nei casi tipici insorti dopo uretrite non gonococcica o dissenteria bacillare, con localizzazione pauciarticolare asimmetrica ed entesopatia. La diagnosi differenziale va posta all’esordio nei confronti dell’artrite gonococcica, usualmente a insorgenza acuta in articolazioni degli arti superiori in donne HLA B27–, con coltura uretrale positiva e buona risposta clinica ad
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antibiotico appropriato. Più raramente un esordio acuto febbrile può evocare il sospetto di un reumatismo articolare acuto. Frequentemente può risultare difficile la differenziazione da una spondilite anchilosante, dalla localizzazione spondilitica dell’artrite reumatoide giovanile o da un’artrite psoriasica o enteropatica. E. Decorso e prognosi. Il decorso clinico è molto variabile, il giudizio prognostico assai difficile. La maggior parte dei pazienti gode di una remissione entro 2-3 mesi, ma nell’80% dei casi la malattia recidiva a distanza di settimane o molti mesi, con manifestazioni articolari o cutanee e oculari talvolta precedute da nuovi episodi di uretrite o diarrea; oltre la metà dei pazienti presenta, generalmente dopo alcuni episodi di acuzie, un’artrite cronica, che diviene invalidante in circa il 15% dei casi, pur evolvendo raramente in anchilosi. F. Terapia. Il trattamento si avvale di FANS, particolarmente indometacina, e di citostatici in casi eccezionalmente tenaci. Midriatici e corticosteroidi locali evitano danni visivi irreversibili da sinechie iridee in caso di iridociclite. Non è stata dimostrata alcuna efficacia degli antibiotici nella prevenzione delle recidive, ma vengono consigliati mezzi preservativi locali e regole di igiene sessuale per evitare reinfezioni con il supposto agente eziologico.
ARTRITE PSORIASICA L’artropatia psoriasica insorge nel 20% dei pazienti affetti da psoriasi cutanea, occasionalmente precedendola di mesi. A. Eziopatogenesi. L’eziopatogenesi è complessa e non perfettamente nota, ma sono importanti condizionamenti genetici (correlazione con HLA B27 nella spondilite, con HLA Bw38, DR4, DR7 nell’artropatia periferica) e acquisiti (infezioni, traumi, alterazioni capillari, effetti neurotropi). B. Anatomia patologica. L’aspetto istopatologico non si differenzia nettamente dall’artrite reumatoide, nonostante l’assenza di veri granulomi reumatoidi e nonostante gli aspetti caratteristici dell’entesopatia e del riassorbimento osseo preferenziale della porzione diafisaria della falange terminale, che si incastra nell’estremità della falange stessa dando origine alla figura di “matita in coppa”. C. Clinica. L’artrite ha un decorso cronico, talvolta complicato da uveite. Si presenta in diverse forme cliniche: • oligoartropatia asimmetrica delle piccole articolazioni, talvolta con “dito a salsiccia”, discretamente tollerata, assai comune e non correlata all’andamento della psoriasi; • poliartrite simmetrica nel 7% delle artropatie psoriasiche, forse per concomitanza con artrite reumatoide;
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• artrite mutilante delle mani, nel 5% dei casi; • spondilite psoriasica nel 20% dei pazienti, una metà dei quali portatori di HLA B27; • artropatia interfalangea distale con psoriasi ungueale, che si manifesta con picchiettature e depressioni (“pitting”) trasversali e ipercheratosi subungueale. D. Esami di laboratorio. Gli esami di laboratorio mostrano segni di fase acuta e frequente iperuricemia; gli esami radiografici grossolane alterazioni destruenti di piccole articolazioni isolate, osteolisi e anchilosi nell’artrite mutilante con aspetto a “matita in coppa” delle dita, spondilite con sindesmofitosi asimmetrica laterale e anteriore. E. Prognosi e terapia. La terapia farmacologia dell’artrite psoriasica è simile a quella che già abbiamo descritto per la spondilite anchilosante.
ARTRITI ENTEROPATICHE Le artriti enteropatiche sono complicanze extraintestinali di diverse enteropatie infiammatorie, con localizzazione spondilitica non obbligata, che comprendono l’artropatia da colite ulcerosa e morbo di Crohn, le artriti reattive da infezioni intestinali, la sindrome artrite-dermatite da bypass intestinale, il morbo di Whipple (Cap. 24), l’artrite associata a malattie pancreatiche (Cap. 24).
Artrite associata a enteropatie infiammatorie croniche In corso di colite ulcerosa e di enterite segmentaria possono comparire una poliartrite periferica o una sacroileite, la cui patogenesi non è completamente chiara: si pensa ad un’origine autoimmune con reazione crociata a determinanti antigenici comuni enterici e articolari, o ad un’artrite da immunocomplessi per antigeni batterici assorbiti attraverso la parete intestinale lesa. A. La poliartrite periferica migrante oligoarticolare compare entro i primi anni di malattia nel 12% e nel 20% dei giovani adulti affetti rispettivamente da colite ulcerosa e da morbo di Crohn, specialmente se grave, del colon. È caratterizzata da uno o pochi episodi recidivanti (in media 2 in 5 anni) ad esordio brusco, con franca flogosi di un ginocchio o di una caviglia entro breve tempo da esacerbazioni dell’enterite, con guarigione senza esiti dopo un decorso di settimane o pochi mesi. Gli esami di laboratorio mostrano ipersedimetria e leucocitosi neutrofila, talora immunocomplessi circolanti, liquido sinoviale torbido con 5-10.000 PMN/mm3 e normale concentrazione di frazioni complementari. Radiograficamente si osserva tumefazione dei tessuti periarticolari, osteoporosi, piccole erosioni, modica periostite. Le forme monoarticolari vanno differenziate dalla gotta, la condrocalcinosi e l’artrite settica; quella poliarticolare dalla sindrome di Reiter, dall’artrite reu-
matoide, dalle localizzazioni periferiche della spondilite anchilosante e dal morbo di Whipple. La prognosi è buona, il trattamento è sintomatico e diretto all’enterite. B. Una sacroileite asintomatica accompagna e occasionalmente precede di molti mesi, indipendentemente dalla sua gravità e decorso, la colite ulcerosa o l’enterite di Crohn nel 4-15% dei pazienti, ed evolve in un terzo di essi verso una spondilite anchilosante simmetrica, caratterizzata da particolare osteoporosi e osteomalacia per malassorbimento e da frequenti localizzazioni a spalle, anche, ginocchia. La frequenza di HLA B27 e la prevalenza del sesso maschile (2,4:1) sono minori che nella spondilite anchilopoietica classica. Sia nella poliartrite che nella sacroileite associate ad enteropatia infiammatoria è possibile la presenza di granulomi sinoviali, muscolari, ossei, di necrosi avascolare del femore e coxartrite settica, di periostite e ippocratismo digitale, pyoderma gangrenosum e uveite.
Artriti reattive a infezioni intestinali In una piccola percentuale dei soggetti, frequentemente HLA B27+, colpiti da infezione intestinale da Yersinia enterocolitica sierotipo 09, Campylobacter jejuni, salmonelle, shigelle e brucelle di varia specie, un’artrite asettica reattiva di breve durata può insorgere entro 2-3 settimane dall’esordio della diarrea. Si tratta usualmente di oligoartriti delle grosse articolazioni che si associano talora ad altre manifestazioni tipiche della sindrome di Reiter e che possono evolvere occasionalmente in spondilite. È particolarmente frequente l’eritema nodoso pretibiale, specialmente per artrite da Yersinia o Salmonella in soggetti HLA B27–. La diagnosi differenziale può risultare difficile nei confronti delle altre enteropatie e del gruppo HLA B27– associato. La terapia farmacologia delle artriti reattive è simile a quella che abbiamo già descritto per la spondilite anchilosante e per l’artrite psoriasica.
Sindrome artrite-dermatite da bypass intestinale Nel 15% dei soggetti sottoposti a trattamento chirurgico dell’obesità refrattaria mediante bypass digiuno-ileale o particolarmente digiuno-colico, insorge, dopo settimane o molti mesi, una poliartrite pauciarticolare simmetrica, associata nell’80% dei casi a una dermatite eritematopapulosa a evoluzione pustulovescicolare. Si tratta di una manifestazione autoimmune per reazione crociata a peptidoglicani della parete di batteri a sviluppo incontrollato di un’ansa cieca o per reflusso di materiale colico, con deposizione diffusa di immunocomplessi crioprecipitabili formati da immunoglobuline contenenti anticorpi specifici per batteri anaerobi fecali e da frazioni del complemento. Trattamenti antibiotici e antinfiammatori hanno variabile efficacia; la guarigione si ottiene con interventi di ricanalizzazione intestinale.
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OSTEOARTROSI C. BESANA
L’osteoartrosi è un’artropatia cronica prevalentemente degenerativa a eziopatogenesi e limiti nosografici maldefiniti, interessante il rachide e le articolazioni degli arti, caratterizzata da perdita primitiva di cartilagine articolare e da apposizione di osso neoformato in sede pararticolare, con conseguente sintomatologia dolorosa e limitazione funzionale. Alterazioni osteoartrosiche sono state riconosciute in tutti i vertebrati e nell’uomo preistorico. La prevalenza dell’osteoartrosi è direttamente correlata all’età: evidenza radiologica o anatomopatologica della malattia è presente nella maggioranza degli esseri umani al quarantesimo anno di età e nella quasi totalità dei settantenni. Nonostante solo una minoranza dei portatori di tali alterazioni lamenti disturbi, l’osteoartrosi è di gran lunga la causa più importante di dolore e invalidità per malattie articolari. Non vi è differenza di prevalenza tra i sessi, anche se prima dei 45 anni è più colpito il sesso maschile, dopo tale età il sesso femminile.
Eziologia La causa dell’osteoartrosi è ignota; la malattia sembra insorgere in taluni casi senza causa apparente, in taluni altri essere favorita da fattori predisponenti infiammatori e traumatici locali (Tab. 72.1). Non sembrano esservi significative differenze razziali né climatiche nella prevalenza della malattia, la cui insorgenza sembra invece favorita da attività lavorative o abitudini di vita che conducano ad abuso di alcune articolazioni. Il ruolo di fattori ereditari poligenici sembra essere poco importante, salvo per una forma di artrosi periferica (osteoartrosi di Heberden) favorita da fattori esogeni ma trasmessa per via autosomica dominante nella femmina, recessiva nei maschi.
Patogenesi e anatomia patologica La cartilagine articolare, di 2-4 mm di spessore, è costituita da un tessuto ricco di acqua, le cui caratteristi-
Tabella 69.1 - Classificazione delle osteoartrosi. Osteoartrosi primitiva • Osteoartrosi generalizzata primaria – Periferica – Spondiloartrosi • Osteoartrosi generalizzata primaria con nodi di Heberden • Osteoartrosi erosiva Osteoartrosi secondarie • Da fattori meccanici – Post-traumatica Da frattura o trauma acuto Postchirurgica (meniscectomia) Da abuso (professionale, sportivo) Artropatia di Charcot (danno nervoso nocicettivo) – Da incongruenza articolare Da sublussazione dell’anca Da displasie epifisarie Da malattie di Perthes e necrosi avascolare Da lassità legamentosa (sindrome di Marfan) • Postinfiammatoria – Da artrite reumatoide – Da artrite sieronegativa – Da artrite settica – Da osteoartrite tubercolare – Da artropatia uratica – Da condrocalcinosi – Da riassorbimento di emartro emofilico • Metabolica – Gotta – Condrocalcinosi – Ocronosi – Latirismo – Malattia di Wilson – Malattia di Paget • Endocrina – Acromegalia – Cushing iatrogeno, steroidi intrarticolari – Ipotiroidismo – Diabete mellito
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che di eccezionale resistenza ed elasticità sono assicurate da una rete di collageno fibrillare, mantenuta in costante tensione osmotica da grosse molecole idrofile di proteoglicani contenenti cheratansolfato e condroitinsolfato; i componenti della sostanza fondamentale della cartilagine sono soggetti a un lento ricambio per attività di pochi condrociti sparsi nelle zone medie e inferiori. Non è chiaro se la lesione primitiva dell’osteoartrosi interessi la cartilagine articolare o l’osso subcondrale; ambedue i meccanismi sono verosimili e suffragati da prove sperimentali, e possono in varia guisa concomitare. L’evento scatenante iniziale rimane talvolta sconosciuto, in altri casi può essere rappresentato da un trauma o da usura per abuso funzionale o incongruità dei capi articolari secondaria ad artropatie di svariata origine, talvolta, infine, da danni ischemici o alterata innervazione autonoma (artropatia di Charcot); il ruolo di alterazioni metaboliche o ormonali non è ben chiarito. La prima lesione consiste in un rammollimento e appiattimento focale nella sede di massimo appoggio delle opposte cartilagini, che assumono aspetto vellutato e giallastro e mostrano istologicamente enorme aumento dell’attività metabolica dei condrociti, che si aggregano in ammassi entro lacune della cartilagine, pur riducendosi sensibilmente di numero. L’attivazione dei condrociti si traduce in accelerata sintesi di proteoglicani e formazione di nuove fibrille di collagene, più sottili e disorganizzate che di norma; inoltre i condrociti liberano nella matrice cartilaginea e nel liquido sinoviale enzimi, tra cui ialuronidasi, catepsina D, fosfatasi acida, proteasi neutre, ed infine anche collagenasi. I condrociti in tali condizioni producono interleuchina-1, che agisce con meccanismo autocrino sugli stessi condrociti, sia inibendo e moderando la produzione di proteoglicani e di collageno, sia incrementando fortemente la liberazione di enzimi degradativi: viene così favorito l’automantenimento di un processo cronico di moderate flogosi e di degradazione della struttura cartilaginea. La degradazione della sostanza fondamentale della cartilagine dà luogo a perdita di metacromasia per diminuita concentrazione di proteoglicani e a “smascheramento” e scompaginamento delle fibrille di collagene, che provocano la formazione di fissurazioni e crepe della cartilagine, dapprima parallele alla superficie articolare, poi anche ortogonali e penetranti sino all’osso subcondrale. L’unione di più fissurazioni in zone più ampie di frattura della cartilagine e la loro penetrazione nell’osso subcondrale portano alla formazione di cisti cartilaginee ed ossee, le quali, favorite forse dalla penetrazione forzata di liquido sinoviale durante i movimenti articolari, aumentano di volume causando crolli della cartilagine articolare sovrastante. Tali crolli, e la desquamazione di frammenti di cartilagine sempre più povera di condrociti e sofferente entro il liquido sinoviale, espongono a nudo l’osso subcondrale, che si addensa con un processo di cosiddetta eburneizzazione. Zone irregolari di calcificazione della cartilagine articolare si formano per deposizione di minerali in sede pericondrocitica. Compare una sinovite cronica a moderata attività con ispessimento della capsula articolare, aggregati di linfociti, plasmacellule, cellule giganti, ac-
MALATTIE DELLE ARTICOLAZIONI
cumulo di liquido sinoviale viscoso contenente poche cellule mononucleate, frammenti di cartilagine e talora cristalli di idrossiapatite o pirofosfato di calcio che vengono fagocitati dai sinoviociti. Possono quindi formarsi borse sinoviali a contenuto mucoide (per es., la cisti poplitea di Baker) o invaginazioni cartilaginee nei corpi vertebrali (noduli di Schmorl). Sin dal primo periodo di sofferenza articolare si verifica, nelle zone meno sottoposte a carico ai margini dell’articolazione o presso le inserzioni tendinee, una neoformazione di osso poroso, rivestito di cartilagine: questi cosiddetti osteofiti, che si sviluppano tanto maggiormente quanto più lento è il decorso dell’osteoartrosi, sono considerati teleologicamente un tentativo inadeguato di riparazione ossea. Gradualmente le microfratture subcondrali, la sinovite, gli osteofiti e l’incongruenza articolare si sommano quali cause di dolore. Quando il processo degenerativo è così avanzato che la morte condrocitaria e la distruzione della cartilagine non possono più essere bilanciate dalle capacità riparative delle cellule residue, sopravviene lo stadio ultimo di instabilità e distruzione articolare con impotenza funzionale irreversibile.
Clinica L’osteoartrosi è caratterizzata da segni e sintomi articolari, senza manifestazioni sistemiche, che insorgono subdolamente, usualmente dopo i 40 anni nel maschio e dopo i 55 anni nella femmina. Sono preferibilmente colpite una o alcune tra le seguenti articolazioni: interfalangee distali e, meno frequentemente, prossimali, prima carpo-metacarpale e metatarsofalangea, scafotrapezoidale; ginocchia (particolarmente nel sesso femminile), articolazione coxofemorale, rachide cervicale e lombare (particolarmente nel sesso maschile). Vi può essere notevole discrepanza tra i segni radiologici e l’entità della sintomatologia, che può talora a lungo mancare o essere intermittente. Sintomo cardinale è il dolore articolare per stimolazione meccanica delle strutture algosensibili (osso subcondrale, capsula articolare, legamenti, tendini e muscoli), amplificato dalla liberazione locale di prostaglandine. Esso insorge dapprima solo durante il movimento articolare, specialmente dopo immobilità, al risveglio mattutino o per movimenti nel sonno, con carattere lancinante; in fasi più tardive compare anche a riposo, profondo e mal localizzato, favorito da precedente abuso articolare o da cambiamenti meteorologici. La rigidità mattutina, diversamente che nelle forme artritiche, interessa una sola o poche articolazioni e dura per pochi minuti, comunque meno di mezz’ora. Impotenza funzionale può comparire in fasi di riacutizzazione della malattia e negli stadi avanzati, per spasmo muscolare antalgico e contrattura in flessione, fibrosi della capsula articolare, osteofiti e corpi liberi articolari, distruzione articolare. L’esame obiettivo delle articolazioni periferiche evidenzia una tumefazione articolare di forma irregolare e di consistenza lignea per osteofitosi marginale, talora parzialmente fibrosa o tesoelastica per ispessimento
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della capsula articolare. Può essere presente dolorabilità alla palpazione e al movimento passivo dell’articolazione, durante il quale può essere percepibile un crepitio, uno scroscio o uno scatto articolare, per fine o grossolana incongruenza dei capi osteocartilaginei o per presenza di corpi liberi nella cavità articolare. Versamento sinoviale è raramente presente, ma può essere favorito da deposizione di cristalli per condrocalcinosi. L’articolazione può essere calda, ma arrossamento e tumefazione delle parti molli contigue sono rari, salvo nelle poussées infiammatorie dell’artrosi erosiva e in caso di coesistenza di artropatia da cristalli. I segni obiettivi delle localizzazioni articolari profonde si limitano alla dolorabilità di palpazione, all’impotenza funzionale e alle deviazioni dei segmenti ossei. Negli stadi tardivi deformità e lussazioni articolari dominano il quadro, con deviazione ulnare o radiale delle falangi, ginocchio varo o più raramente valgo, alluce valgo, ecc.; usualmente non si giunge, tuttavia, ad anchilosi e perdita totale della funzione, salvo che all’articolazione dell’anca e alla prima carpo-metacarpale. Localizzazioni particolari (Figg. 72.1, 72.2). A. Osteoartrosi della mano. È caratterizzata da una tumefazione osteocartilaginea dorso-laterale e dorso-mediale dell’articolazione interfalangea distale, spesso con flessione e deviazione laterale dell’ultima falange, dapprima al II e V dito, indi multipla e bilaterale (nodi di Heberden); in un terzo dei casi sono interessate anche le interfalangee prossimali (nodi di Bou-
chard), assai raramente le carpo-metacarpali. Talora un’artrosi della prima articolazione metacarpofalangea origina impotenza funzionale e “squadramento” della mano per adduzione del pollice e sublussazione della base metacarpale, oppure una localizzazione trapezioscafoidale provoca dolore e rigonfiamento della faccia volare del polso.
Cervicoartrosi
Coxartrosi
Gonartrosi
Figura 72.1 - Mano artrosica.
Figura 72.2 - Alterazioni radiologiche tipiche in alcune forme di artrosi (punteggiate le zone di maggiore ipodiafania per addensamento osseo).
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MALATTIE DELLE ARTICOLAZIONI
B. Osteoartrosi della spalla e del gomito. L’artrosi delle articolazioni acromioclaveari è comune fonte di dolore, usualmente senza impotenza funzionale se non concomita danno alle strutture extrarticolari (cosiddetta periartrite scapolomerale con calcificazione del tendine sopraspinato); l’osteoartrosi è invece assai rara all’articolazione sternoclaveare, gleno-omerale e del gomito. C. Osteoartrosi dell’anca. Può comparire nell’età media o anche più precocemente quando secondaria (60-80% dei casi) a malformazioni congenite o acquisite, traumi, necrosi asettica della testa femorale, coxartrite. Il dolore acuto nell’assumere la stazione eretta, o profondo dopo carico prolungato, può essere avvertito lungo la faccia laterale della coscia sotto al grande trocantere, all’inguine, alla faccia mediale della coscia o al ginocchio, ingenerando in tal caso possibili errori diagnostici. Concomita ipotrofia e ipotonia dei muscoli gluteo e quadricipite con andatura zoppicante e un’abnorme obliquità del bacino (segno di Trendelenburg). Più tardi compare sublussazione della testa femorale nell’acetabolo e rotazione esterna, flessione e abduzione del femore, con riduzione di lunghezza dell’arto, grave impotenza funzionale e lordosi compensatoria del rachide lombare. D. Artrosi del ginocchio. Frequente nel sesso femminile e in artrosi professionali, dà luogo a dolore nell’atto di inginocchiarsi, di salire le scale, di alzarsi o sedersi, con possibile blocco funzionale acuto da corpi liberi articolari. L’esame obiettivo mostra irregolarità del profilo articolare per osteofitosi, dolorabilità e crepitii al movimento passivo, possibile tumefazione tesoelastica del cavo popliteo (cisti sinoviale di Baker), varismo o più raramente valgismo secondario, ridotta flesso-estensione o perdita della spostabilità laterale della rotula (condromalacia patellare) (Figg. 72.3, 72.4).
Alterazioni precoci con irregolarità di superficie della cartilagine articolare
Progressione dei fenomeni erosivi, con ulcerazioni e fissurazioni. Alterazioni di tipo ipertrofico dell’osso marginale
Distruzione cartilaginea pressoché completa; rima articolare assottigliata. Osso sottocondrale irregolare ed eburneo; osteofitosi marginale; fibrosi capsulare.
Figura 72.3 - Stadi progressivi di interessamento articolare.
E. Osteoartrosi del piede. Assai comune sotto forma di borsite dapprima, poi di degenerazione articolare alla prima metatarsofalangea, particolarmente sottoposta a carico e microtraumatismi da marcia, con evoluzione verso alluce rigido o alluce valgo. F. Osteoartrosi della colonna. Può interessare sia le articolazioni non sinoviali tra i corpi vertebrali, alle quali elasticità e movimento sono assicurati dal nucleo polposo attorniato dall’anulus fibrosus (spondilosi), sia le articolazioni diartrodiali delle apofisi posteriori. I segmenti più colpiti sono i tratti inferiori del rachide lombare e cervicale, per la maggiore mobilità della colonna e per la naturale ristrettezza dello speco vertebrale e dei forami radicolari a livello cervicale. A livello cervicale l’artrosi apofisaria posteriore provoca dolore, rigidità e crepitii ai movimenti; l’esuberante osteofitosi e la spondilosi con protrusione postero-laterale del margine dell’anulus fibrosus o del nucleo polposo erniato attraverso di esso determina compressione radicolare C5-C6 con dolore irradiato alla scapo-
Figura 72.4 - Il ginocchio, aperto anteriormente, mostra estese erosioni delle cartilagini articolari del femore e della rotula, con neoformazioni cartilaginee a livello dell’eminenza intercondiloidea.
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la e all’estremità dell’arto superiore accompagnato da parestesie e ipoestesia, oppure compressione posteriore del midollo spinale con conseguente sindrome del neurone motore superiore agli arti inferiori. La compressione di un’arteria vertebrobasilare è causa possibile di fugaci perdite di coscienza o disturbi sensoriali, talora scatenati da spostamenti del capo. Raramente, fugaci disturbi spinali possono essere precipitati da compressione di un’arteria spinale anteriore, oppure l’osteofitosi anteriore, usualmente asintomatica, può provocare disfagia o tosse stizzosa. Sintomi da spondiloartrosi toracica sono rari in assenza di cause predisponenti quali marcata scoliosi o osteocondrite (malattia di Scheuermann). La spondiloartrosi lombare invece, favorita dal peso corporeo e dalla presenza della fisiologica lordosi lombare, è la più comune causa di dolore lombosacrale con radicolalgia L4 o L5 (cosiddetta sciatica), con dolore e parestesie irradiati rispettivamente alla faccia anteriore e laterale della coscia e della gamba; la stessa sindrome può essere conseguente ad ernia del nucleo polposo da trauma in soggetti giovani sani. L’ernia discale posteriore, possibile in caso di rottura del legamento posteriore, può provocare sciatica bilaterale. Non si verifica mai compressione midollare, poiché il midollo spinale termina a livello di L1, ma il disco erniato può comprimere le fibre della cauda equina decorrenti verticalmente entro lo speco vertebrale, determinando disturbi degli sfinteri.
Diagnosi e diagnosi differenziale La diagnosi di osteoartrosi è essenzialmente basata su criteri clinici e radiologici. Diversamente dalle artri-
ti infiammatorie, non si riscontrano aumento della VES né altre alterazioni di laboratorio. Il liquido sinoviale ottenuto da artrocentesi è limpido, ad alta viscosità, contenente meno di 3000 cellule/l, prevalentemente linfociti. I reperti radiologici caratteristici sono: • • • •
restringimento della rima articolare; sclerosi dell’osso subcondrale (eburneizzazione); osteofiti marginali o alle inserzioni legamentose; cisti ossee subcondrali di alcuni mm o cm di diametro, con margini sclerotici (noduli di Schmorl nel corpo vertebrale); • deformità articolari e sublussazioni tardive; • assenza di anchilosi (salvo anca e articolazione carpo-metacarpale). La diagnosi differenziale va posta in primo luogo tra le forme primarie e quelle secondarie a malattie locali e generali, i cui segni vanno sempre attivamente ricercati. L’osteoartrosi periferica deve essere distinta dall’artrite reumatoide in fase iniziale (Tab. 72.2), e dalla condrocalcinosi, con cui può coesistere. La spondilartrosi deve essere differenziata dalle spondiloartropatie sieronegative anchilosanti (spondilite anchilosante, sindrome di Reiter, artropatia psoriasica ed enteropatica) e dalla spondilopatia toracica iperostosante con calcificazione dei legamenti anteriori tipica di maschi diabetici in età medio-avanzata. Infine, va sempre sospettato che un’artrosi diagnosticata radiograficamente possa essere asintomatica e coesistere casualmente con un’altra condizione morbosa caratterizzata da dolori osteoarticolari (neoplasie, ecc.).
Tabella 72.2 - Diagnosi differenziale tra osteoartrosi e artrite reumatoide. OSTEOARTROSI • Caratteri clinici – Sedi colpite
– Tumefazioni – Segni di flogosi – Rigidità mattutina • Esami di laboratorio – VES, PCR – Fattori reumatoidi – Liquido sinoviale • Aspetto radiografico – Osso pararticolare – Erosioni articolari – Cisti subcondrali – Osteofiti – Restringimento articolare – Deformità tardive
ARTRITE REUMATOIDE
Falangee distali I carpo-metacarpale Cervicali inferiori Lombari inferiori Grosse articolazioni Osteofiti irregolari Assenti Modesta, breve
Polso, falangee prossimali Metacarpo-falangee Cervicali superiori Gomiti, spalle
Normali Assenti Non infiammatorio (GB ≤ 3000/l)
Alterate Usualmente presenti Infiammatorio (GB 10-50.000/l)
Sclerotico Assenti Presenti Presenti Presente Presenti
Porotico Presenti Assenti Assenti Presente Presenti
Parti molli fusiformi Presenti Evidente, prolungata
N.B. Le articolazioni lese da artrite reumatoide possono presentare alterazioni da osteoartrosi primaria o secondaria.
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MALATTIE DELLE ARTICOLAZIONI
Decorso naturale e prognosi delle diverse forme cliniche L’osteoartrosi primaria generalizzata è una malattia cronica a esordio subdolo e decorso lentamente progressivo e invalidante, che non progredisce in anchilosi salvo all’anca. Le lesioni ossee sono irreversibili, ma la sintomatologia dolorosa può avere carattere intermittente e talora diminuire con il progredire della malattia. La forma con nodi di Heberden, prevalente nel sesso femminile in età postclimaterica, può avere carattere discretamente infiammatorio e andamento a poussées. La forma di osteoartrosi erosiva è limitata alle articolazioni interfalangee e caratterizzata da gravi episodi dolorosi infiammatori intermittenti, con franca sinovite, vistosi nodi di Heberden ed erosioni ossee evolventi in anchilosi. Le osteoartrosi secondarie possono insorgere precocemente ed evolvere con rapidità, specialmente quando coesistono danni neurologici (artropatia di Charcot); il decorso e la prognosi molto dipendono dall’articolazione colpita, dall’abuso funzionale di essa e dalla possibilità di correggere la causa predisponente.
Terapia Un’efficace cura dell’osteoartrosi presuppone la correzione delle cause favorenti: riduzione ponderale nell’obeso, correzione ortopedica di varismo o valgismo, scoliosi, sublussazione dell’anca, modificazione di attività lavorative potenzialmente patogene, ecc. Esercizi chinesiterapici ed ergoterapia possono ovviare a posizioni viziate, rinforzare la muscolatura di supporto, recuperare la motilità articolare o facilitare l’accettazione di un handicap parziale. L’applicazione di calore (diatermia, ultrasuoni, termofori, bagni di paraffina, esercizi in piscina riscaldata) può temporaneamente alleviare il dolore ed attenuare lo spasmo muscolare. FANS sono utili a scopo analgesico e per facilitare la mobilizzazione in brevi cicli di terapia. Il loro uso protratto è sconsigliabile per i possibili effetti collaterali, come sono da evitare gli oppiacei per il rischio di assuefazione ed i corticosteroidi per l’osteoporosi da essi favorita. Interventi chirurgici, specialmente all’anca, possono ripristinare la funzione articolare mediante modificazione dei rapporti tra i due capi articolari o grazie ad una sostituzione protesica fissa.
C A P I T O L O
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ARTROPATIE MICROCRISTALLINE G.F. CIBODDO
GOTTA La gotta è una malattia metabolica correlata ad un aumento della concentrazione sierica di acido urico. Nella sua presentazione più classica è una malattia reumatica che si manifesta con attacchi ricorrenti e caratteristici di artrite, durante i quali si possono dimostrare cristalli di urato monosodico nei leucociti del liquido sinoviale. Nelle forme di più lunga durata si possono evidenziare dei depositi imponenti di urati (tofi) a livello dei tessuti molli, in particolare attorno alle articolazioni delle estremità. Spesso è presente una nefropatia che può assumere la forma di un danno globale dell’organo o di una urolitiasi. Patogenesi, classificazione, si veda il capitolo sul metabolismo dell’acido urico (Cap. 66). Epidemiologia. L’incidenza della gotta nella popolazione occidentale varia tra lo 0,2 e lo 0,35% con una prevalenza globale dai 2 ai 2,6 casi per 1000 abitanti. La prevalenza aumenta progressivamente con l’età e con gli incrementi dell’uricemia. Gli esseri umani sono i soli mammiferi che sviluppano spontaneamente la gotta. Questo dipende dal fatto che nell’uomo e in altri animali manca l’enzima uricasi che degrada l’acido urico in allantoina. Tuttavia, l’uomo è il solo che in condizioni naturali ha un’alimentazione tale da condurre a livelli ematici di uricemia che possono indurre gotta. L’uricasi manca anche nelle grandi scimmie, negli uccelli e in alcuni rettili, ma questi animali, solitamente, si cibano di vegetali e comunque non di carne, e non presentano iperuricemia. Perciò è solo l’uomo, con livelli ematici di acido urico che possono facilmente superare i livelli di 6,5-7 mg/dl, cioè prossimi al limite di solubilità degli urati, contro quelli animali che si aggirano tra 0,5 e 1 mg/dl, che può sviluppare la gotta. Gli ingredienti nella dieta che favoriscono la gotta sono la carne (specialmente le carni rosse, ricche di purine) e gli
alimenti di origine marina, mentre quelli che la ostacolano sono il latte e i latticini. Né l’apporto proteico totale, né i vegetali ricchi di purine sono stati considerati fattori dietetici correlati con l’iperuricemia e la gotta. Naturalmente, le influenze dietetiche debbono interagire con quei fattori, geneticamente determinati o acquisiti, che sono già stati ricordati nel capitolo 66. Dal punto di vista epidemiologico occorre sottolineare che la gotta è rara nelle donne in età premenopausale perché gli estrogeni stimolano l’escrezione urinaria di urati. Tra i fattori ambientali ha un rilievo storico il fatto che l’intossicazione cronica da piombo ne riduce invece l’escrezione. Questo può spiegare l’epidemia di gotta che afflisse tanto l’impero romano quanto l’Inghilterra vittoriana. In passato, la gotta è stata considerata una malattia propria dei ceti sociali dominanti e questo non è strano considerando che non molti erano tanto benestanti da potersi concedere un abbondante consumo di carne e alcool. Si deve aggiungere che l’iperuricemia è essenziale perché si sviluppi gotta, ma anche che questa sindrome clinica si sviluppa, in realtà, in una minoranza degli iperuricemici e che è facilitata da altri fattori quali l’ipertensione arteriosa, l’uso di diuretici tiazidici o diuretici dell’ansa, l’obesità e un elevato consumo di alcool. Con la diffusione del benessere e di costumi di stile occidentale, alcune differenze legati allo stato sociale o all’appartenenza a diverse popolazioni si sono annulllate. È quanto il caso dei Maori della Nuova Zelanda e dei neri negli USA, per i quali in passato l’iperuricemia era sconosciuta o rara e che ora, oltre che da obesità, diabete e ipertensione, sono affetti da gotta come le popolazioni che lo erano tradizionalmente. Anzi, la gotta è oggi più comune tra gli americani neri che tra i bianchi.
Fisiopatologia dell’attacco acuto di gotta A. L’attacco acuto di gotta si localizza in un’articolazione nella quale sia precedentemente avvenuta una
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deposizione di cristalli di urato monosodico tale da formare nel corso del tempo dei “microtofi”. Tale deposizione è direttamente proporzionale alla durata dello stato iperuricemico e alla concentrazione dell’acido urico nel siero. Al giorno d’oggi, tuttavia, non sono ancora conosciuti fino in fondo i meccanismi che conducono a tale deposizione: non tutti i soggetti iperuricemici subiscono infatti la deposizione di cristalli di urato a livello articolare o in altre sedi. La maggior parte dei soggetti gottosi sono iperuricemici da anni prima che compaia un attacco acuto, inoltre in alcuni di loro l’artrite gottosa acuta può manifestarsi in un momento in cui la concentrazione degli urati nel siero è ben al di sotto del livello di saturazione. Un certo ruolo nel facilitare la deposizione a livello delle diverse strutture connettivali sembra essere svolto da un’alterazione del metabolismo di alcuni polisaccaridi: i proteoglicani. Essi appaiono in grado di aumentare la solubilità dell’acido urico; una loro alterazione come conseguenza di un accelerato ricambio connettivale potrebbe determinare una sovrasaturazione nella concentrazione dell’acido urico con conseguente tendenza alla precipitazione. Altri fattori che potrebbero avere un ruolo nella precipitazione dell’acido urico sono: la temperatura (le articolazioni periferiche sono usualmente più fredde rispetto ai 37 °C centrali), i traumi articolari e l’invecchiamento (attraverso alterazioni del connettivo e della microcircolazione). Se sono presenti nel liquido sinoviale quantità sufficienti di cristalli di urato monosodico si ha l’attivazione di una serie di meccanismi che conducono alla comparsa dell’attacco acuto di gotta. Tali fattori sono strettamente interagenti tra loro e si potenziano a vicenda. • I cristalli di urato possono attivare il fattore di Hageman determinando l’innesco di una serie di reazioni che conduce all’attivazione del sistema callicreinico con conseguente aumento della permeabilità vascolare e richiamo di leucociti. • È stata pure dimostrata l’attivazione del sistema del complemento attraverso la via classica col conseguente rilascio in loco di altri fattori proinfiammatori. • Recentemente i leucotrieni, in particolare il leucotriene B4, sono stati chiamati in causa come mediatori nella sinovite microcristallina. È stato osservato che i cristalli di urato non solo stimolano la formazione dei leucotrieni ma ne inibiscono l’inattivazione biologica. • Un ruolo della massima importanza è svolto dai leucociti i quali, nel fagocitare i cristalli di urato monosodico, rilasciano fattori chemiotattici, amplificando così la risposta infiammatoria. I cristalli, all’interno dei fagosomi leucocitari, vengono a contatto con i lisosomi, i quali però non sono in grado di distruggerli se non in minima parte, anzi si ha la rottura degli stessi lisosomi con conseguente danno cellulare e rilascio all’esterno degli enzimi in essi contenuti. Tali enzimi hanno un ruolo primario nella genesi dei fenomeni flogistici caratteristici dell’attacco acuto di
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gotta. Tra essi sono particolarmente importanti le proteinasi acide capaci di danneggiare i proteoglicani, una collagenasi in grado di attaccare la cartilagine articolare, una proteina cationica favorente la degranulazione dei basofili. Un possibile ruolo hanno anche le prostaglandine prodotte ex novo durante tali fasi di attivazione cellulare, nonché la generazione di radicali superossidi. B. Cessazione dell’attacco. A tutt’oggi non è ancora chiarito il meccanismo per cui l’attacco di gotta si autolimita. Sono state formulate alcune ipotesi le quali però necessitano di ulteriori conferme sperimentali. • L’aumento della temperatura nell’infiammazione può migliorare la solubilità dei cristalli di urato favorendone la dissoluzione. • L’aumento del flusso ematico può anch’esso aiutare a rimuovere l’eccesso di acido urico dall’articolazione. • Una certa quota di cristalli di urato può essere distrutta dalle mieloperossidasi leucocitarie riducendo la quantità di cristalli articolari. • L’aumentata secrezione di ormoni steroidei durante l’attacco acuto può avere un ruolo nel sopprimere la reazione infiammatoria.
Clinica Il quadro clinico viene generalmente distinto in diverse fasi: • • • •
iperuricemia asintomatica; artrite gottosa acuta; gotta intercritica; gotta tofacea cronica.
A. Iperuricemia asintomatica. È la fase in cui l’uricemia è elevata ma non si è ancora manifestato alcun disturbo clinico. Nel maschio tale fase cosiddetta “di rischio” si fa iniziare in genere nella pubertà mentre nella femmina appare ritardata fino a dopo la menopausa. In alcune gravi forme ereditarie l’iperuricemia può iniziare fin dalla nascita. Non si può definire una vera e propria fase della malattia, perché la stragrande maggioranza dei soggetti iperuricemici non avrà mai un attacco di gotta per tutta la vita. Dal punto di vista prognostico si può dire che il rischio della comparsa di una gotta conclamata è correlato in modo positivo al livello e alla durata dell’iperuricemia, quello della nefrolitiasi è determinato dal livello dell’uricemia e dell’uricuria. B. Artrite gottosa acuta. È caratterizzata da attacchi ricorrenti di artrite assai dolorosi, generalmente con localizzazione all’esordio a una sola articolazione (8590%); col passare del tempo possono essere tuttavia colpite anche più articolazioni contemporaneamente. Sono in genere assenti sintomi prodromici. La sede più classica del primo episodio acuto è l’articolazione metatarso-
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falangea del I dito (oltre il 50% dei casi): l’artrite in tale localizzazione viene definita “podagra” (Fig. 73.1). Il paziente è generalmente svegliato durante la notte da un dolore la cui intensità progressivamente cresce fino a diventare assolutamente intollerabile, cui può accompagnarsi febbre moderata con brivido. La cute sovrastante l’articolazione è notevolmente iperestesica tanto da non tollerare il peso delle coperte e delle lenzuola. Sono presenti tutti i segni della flogosi articolare: tumefazione, calore, arrossamento, impedimento funzionale. L’attacco acuto ha durata assai variabile: nelle forme più lievi solo 1 giorno o 2, in quelle più impegnative anche parecchi giorni. Tra un attacco e l’altro il periodo intercritico può essere di durata assai varia e in genere si ha completa restitutio ad integrum. Seppure meno spesso, il primo attacco può colpire altre articolazioni tra cui soprattutto: articolazioni del carpo, caviglie, ginocchia, polsi, interfalangee e gomiti. Negli attacchi successivi sono spesso colpite più articolazioni contemporaneamente, anche diverse da quelle precedentemente descritte. Esistono eventi che il medico e il paziente sono chiaramente in grado di riconoscere quali scatenanti l’attacco acuto, anche se le correlazioni precise con la patogenesi dell’attacco non sono del tutto chiare. Tra questi è bene ricordare l’importanza dei traumi articolari, il consumo di alcolici o di cibo in eccesso, il periodo postoperatorio e l’uso di particolari farmaci. Per quanto riguarda quest’ultima categoria esistono diverse modalità di azione: in alcuni casi si ha un effetto idiosincrasico (tiamina, insulina, penicillina, diuretici mercuriali); in altri casi può esistere una correlazione con una transitoria iperuricemia (vitamina B12 nell’anemia perniciosa, antiblastici, diuretici tiazidici); infine esiste un’ultima categoria di farmaci il cui effetto appare mediato da una brusca ipouricemia (probenecid, sulfinpirazone, allopurinolo). C. Gotta intercritica. È la fase di intervallo tra i diversi attacchi di gotta acuta. Mentre alcuni pazienti non hanno mai un secondo attacco dopo quello iniziale se non dopo 5-10 anni, la maggior parte dei pazienti lo presenta entro un periodo compreso tra i 6 mesi e i 2 anni. Se il paziente non è posto in trattamento la frequenza degli attacchi cresce progressivamente col tempo. Di solito gli episodi tendono a diventare più gravi, poliarticolari e durano di più. Si passa così ad uno stato di artrite cronica in cui il paziente non è praticamente mai esente da disturbi. D. Gotta tofacea cronica. Il tempo che trascorre tra l’inizio degli attacchi e la comparsa di un’artrite cronica o di un interessamento tofaceo visibile è assai variabile potendo andare dai 3 ai 40 anni. Per capire bene tale fase della malattia è opportuno descrivere brevemente il cosiddetto “tofo”: si tratta di un nodulo formato da un deposito multicentrico di cristalli di urato e da una matrice intercristallina circondato da una reazione infiammatoria analoga a quella del corpo estraneo con proliferazione di connettivo fibroso.
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Figura 73.1 - Alterazione metatarsofalangea (I dito) nella gotta.
Le sedi di deposizione più comuni sono: la cartilagine, l’osso epifisario, le strutture periarticolari ed i reni. Le altre localizzazioni extrarticolari riscontrate più spesso sono: l’elice e l’antelice dell’orecchio, l’olecrano, la borsa patellare ed i tendini. Più rare sono le localizzazioni a livello cutaneo (dita, palmo della mano, pianta dei piedi), cardiaco, aortico. Quando è presente un interessamento articolare si ha una progressiva degenerazione della cartilagine con distruzione dell’osso subcondrale, proliferazione dell’osso marginale, possibile formazione di panno sinoviale e talora esito in anchilosi fibrosa o ossea. La gotta tofacea è proporzionalmente più frequente nei soggetti con livelli elevati di uricemia da molto tempo, specie se è presente una ridotta capacità di escrezione renale degli urati. Il decorso di tale forma è insidioso e si accompagna ad un’artrite cronica progressivamente invalidante. Al giorno d’oggi, tuttavia, l’introduzione in terapia di farmaci efficaci quali gli uricosurici e l’allopurinolo ha notevolmente ridotto l’incidenza di tale forma. E. Condizioni patologiche associate. Molto interessanti sono la nefropatia uratica e la nefrolitiasi, la cui trattazione viene svolta nei capitoli 37 e 38. Spesso, poi, i soggetti gottosi presentano altre condizioni morbose associate quali: obesità, ipertrigliceridemia, ipertensione arteriosa, aterosclerosi, diabete mellito. Un attento studio statistico di tali variabili suggerisce che tra tutte queste forme associate alla gotta l’obesità sia quella più importante: infatti il soggetto obeso produce una maggiore quantità ed ha una minore escrezione di acido urico. L’ipertrigliceridemia sembra essere una conseguenza secondaria dell’obesità e dell’eventuale consumo di alcool; così pure aterosclerosi e diabete appaiono correlati in modo significativo più all’obesità che all’iperuricemia.
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MALATTIE DELLE ARTICOLAZIONI
Esami di laboratorio È usualmente presente iperuricemia (oltre 7 mg/dl nell’uomo e 6,6 mg/dl nella donna) ed è importante valutare anche l’uricuria per comprendere se vi sia un’alterazione dell’escrezione da parte del rene. Durante l’attacco acuto di gotta si ha una positivizzazione dei segni di fase acuta con leucocitosi, ipersedimetria, iper-2-globulinemia all’elettroforesi e aumento delle mucoproteine. L’esame più significativo per la diagnosi di attacco acuto di gotta è lo studio del liquido sinoviale. Se infatti lo si esamina al microscopio a luce polarizzata si può dimostrare in esso la presenza di cristalli di acido urico liberi o all’interno dei leucociti. Tali cristalli appaiono come sottili aghi con birifrangenza negativa. Il liquido sinoviale presenta inoltre caratteri francamente infiammatori con una leucocitosi neutrofila (fino a 70.000 leucociti/mm3) e una riduzione della viscosità.
senza di una sindrome mieloproliferativa per la gotta secondaria. Quando la gotta con caratteri primitivi si presenta in soggetti giovani, nel secondo o nel terzo decennio di vita, occorre ricercare l’esistenza di disordini ereditari del metabolismo delle purine.
Prognosi È assai cambiata da quando sono stati introdotti in terapia validi farmaci, i quali hanno permesso la drastica riduzione dei pazienti che giungono allo stadio di gotta tofacea cronica. Tale forma infatti, anche se non associata ad un’elevata mortalità, è notevolmente invalidante. È pure importante il riconoscimento delle malattie associate (obesità, diabete, aterosclerosi, ecc.) che possono essere di per sé causa di aumentata morbilità e mortalità.
Quadro radiologico
Terapia
Nei casi iniziali si evidenzia spesso soltanto un edema delle parti molli, poi possono comparire erosioni a stampo ben demarcate, con un diametro di 5 mm o più, localizzate soprattutto a livello dell’osso subcondrale delle falangi. Nei casi più gravi possono progredire fino alla lisi dell’intera falange. Nelle forme tofacee croniche si possono osservare manifestazioni gravissime di lisi ossea con perdita di continuità dei segmenti scheletrici: tali quadri vengono definiti “a scoppio di granata”.
Può essere distinta nella terapia volta alla risoluzione dell’attacco acuto ed in quella atta a prevenire le recidive di artrite acuta gottosa e ad impedire le complicazioni.
Diagnosi Si basa sull’aspetto clinico caratteristico in un paziente iperuricemico. Può essere utile come criterio ex adiuvantibus la risposta immediata al trattamento con colchicina. L’attacco acuto di gotta deve poi essere differenziato da altre affezioni reumatiche tra cui in particolare le lesioni traumatiche, l’artrosi, la pseudogotta, le artropatie reattive e le artriti settiche oltre alle tendiniti di inserzione e all’artrite reumatoide. A questo proposito le maggiori difficoltà diagnostiche sono poste dalle localizzazioni iniziali in sedi atipiche. Infine bisogna ricordare l’importanza di differenziare le forme di gotta primitiva da quelle secondarie ad altre condizioni. Una diagnosi sicura richiede la diretta identificazione di cristalli di urati nelle articolazioni e l’esclusione di infezioni. Non ci si può basare, invece, sui livelli di uricemia, dato che questa può essere presente in soggetti che hanno problemi articolari diversi dalla gotta e che l’uricemia è normale frequentemente durante gli attacchi della gotta acuta. Comunque, è importante valutare ai fini diagnostici l’esistenza di fattori predisponenti come l’eccessivo consumo di alcool, l’ipertensione arteriosa e varie nefropatie per la gotta primitiva, la pre-
A. Terapia dell’attacco acuto. Bisogna tenere a riposo l’articolazione interessata, mentre viene instaurata una terapia con farmaci antinfiammatori. È importante non modificare o iniziare in questa fase eventuali terapie con farmaci che agiscono sui livelli dell’acido urico in quanto fluttuazioni nell’uricemia possono peggiorare l’episodio acuto. Nella maggior parte dei casi è sufficiente trattare l’attacco acuto di gotta con antinfiammatori non steroidei, che in genere risolvono il dolore e l’impotenza funzionale in 24 ore. Un effetto analogo svolgono i corticosteroidi glicoattivi e la corticotropina. Quest’ultima sarebbe utile non solo perché sollecita la produzione endogena di cortisolo, ma anche perché dotata di un effetto antinfiammatorio periferico diretto, attivando i recettori di tipo 3 della melanocortina. In realtà, perché i corticosteroidi siano efficaci occorre impiegarli a dosi non troppo piccole e la corticotropina sembra dotata di efficacia non superiore a quella dei corticosteroidi. Un farmaco che può dare risultati molto rapidi (ore) nell’attacco gottoso, e che è di impiego tradizionale, è la colchicina, ma la sua tollerabilità è limitata, in quanto provoca facilmente nausea, vomito e diarrea. È anche difficile raccomandare le dosi di questo farmaco da impiegare, in quanto la maggior parte degli studi disponibili si riferisce a dosi singole di 0,6 mg (disponibile sul mercato nordamericano), mentre in Italia il prodotto è disponibile in compresse da 1 mg. Comunque, una sintesi delle raccomandazioni terapeutiche per l’attacco gottoso è presentato nella tabella 73.1 B. Profilassi delle recidive. Si può effettuare con la somministrazione di colchicina a basso dosaggio (1 mg al dì) o di indometacina (75 mg al dì) ma tale trattamen-
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73 - ARTROPATIE MICROCRISTALLINE
Tabella 73.1 - Farmaci raccomandati nella terapia dell’attacco gottoso (da Terkeltaub, 2003, modificata). FARMACI
REGIME TERAPEUTICO
Indometacina
50 mg per os 3-4 volte al dì per 3 giorni, poi 2 volte al dì per i giorni 4-7
Etoricoxib
120 mg per os in una sola somministrazione il primo giorno, poi 60 mg al giorno per 6-10 giorni
Prednisone
40-60 mg al giorno per 3 giorni, quindi diminuire di 10-15 mg al giorno ogni 3 giorni fino a sospensione
Colchicina
0,6 mg per os ogni ora fino a 3 ore (dose massima 3 cp), in Italia 1 mg come prima dose e 0,5 mg nelle 2 ore successive (dose massima 2 cp). Nei giorni seguenti, come profilassi di nuovi attacchi gottosi, specialmente se è iniziata una terapia antiuricemica, 0,6 (0,5) mg 2 volte al dì se clearance di creatinina > 50 ml/min, 0,6 (0,5) mg 1 volta al dì se clearance di creatinina tra 35-49 ml/min, 0,6 (0,5) mg ogni 2-3 giorni se clearance di creatinina tra 10-34 ml/min, evitare se clearance di creatinina < 10 ml/min
I farmaci citati sono esemplificativi per la classe; altri della stessa classe possono essere adoperati a dosi corrispondenti. La scelta del farmaco deve tenere conto delle cautele e delle controindicazioni che valgono per la classe alla quale appartiene. Gli effetti tossici acuti della colchicina sono rappresentati da nausea, vomito e diarrea, quelli che possono essere osservati, sia pure raramente, nei trattamenti prolungati includono miopatia e depressione midollare.
to da solo non protegge dai danni della perdurante iperuricemia. È perciò opportuno ricorrere ai farmaci capaci di ridurre proprio l’uricemia: uricosurici e allopurinolo. Gli uricosurici attualmente in uso sono il probenecid e il sulfinpirazone. Tali farmaci devono essere riservati ai soggetti al di sotto dei 60 anni con funzione renale buona, un’escrezione urinaria di acido urico inferiore a 700 mg al dì e un’anamnesi negativa per calcolosi renale. Oggi è più usato l’allopurinolo, farmaco che riduce la sintesi dell’acido urico inibendo la xantina ossidasi. Il dosaggio usuale è di 300 mg al dì. È possibile che si verifichino (2% dei pazienti trattati) modeste reazioni di ipersensibilità all’allopurinolo, rappresentate da prurito e dermatite. Molto più gravi sono dei quadri clinici dose-dipendenti che includono febbre, eosinofilia, dermatite, insufficienza epatica e renale e vasculite. Queste reazioni, che hanno una mortalità che arriva al 20%, si possono verificare con le dosi più elevate in pazienti con una ridotta funzionalità renale. Perciò valgono le seguenti raccomandazioni: una dose quotidiana di 300 mg di allopurinolo può essere somministrata a pazienti con clearance della creatinina > 90 ml/min; una dose di 200 mg a pazienti con clearance della creatinina tra 60 e 90 ml/min; una dose di 100 mg a pazienti con clearance della creatinina tra 30 e 60 ml/min e, infine, una dose di 50 mg a pazienti con clearance della creatinina < 30 ml/min. Un altro importante effetto negativo possibile con l’uso dell’allopurinolo è il potenziamento dell’azione citostatica della 6-mercaptopurina e dell’azatioprina. La somministrazione dell’allopurinolo insieme a uno di questi farmaci può indurre gravi problemi ematologici. Sia per l’allopurinolo che per gli uricosurici è importante iniziare la terapia con basse dosi ed aumentare gradualmente, al fine di evitare di precipitare un episodio di gotta acuta.
Benché la disponibilità di farmaci efficaci abbia ridotto l’importanza di una dieta estremamente rigorosa, è comunque prudente evitare un’eccessiva introduzione di purine. Può essere pure utile incrementare l’apporto idrico e alcalinizzare leggermente le urine per aumentare la solubilità dell’acido urico e, conseguentemente, la sua escrezione renale. In caso di diabete, obesità o dislipidemie devono essere istituiti trattamenti terapeutici e dietetici.
MALATTIA DA DEPOSIZIONE DI CRISTALLI DI PIROFOSFATO DI CALCIO (PSEUDOGOTTA) È una malattia causata dalla deposizione di cristalli di pirofosfato di calcio (Ca2P2O7·2H2O) a livello articolare (con un quadro clinico acuto o cronico che talora può essere confuso con quello della gotta, per cui viene anche definita pseudogotta) o a livello delle cartilagini ialine o fibrose articolari (e per questo prende anche il nome di condrocalcinosi). Nella sua forma artritica conclamata ha una frequenza di circa un terzo rispetto alla gotta. Può essere classificata in tre diversi gruppi: • forma idiopatica, la più comune, rappresenta circa il 90% dei casi e si può estrinsecare in diverse varianti cliniche manifestandosi usualmente ad un’età compresa tra i 50 e i 70 anni; • forme ereditarie (rare) rappresentano meno dell’1% dei casi e possono essere clinicamente evidenti anche ad un’età più precoce (40 anni); • forme associate a malattie endocrine o metaboliche (circa il 10% dei casi) tra cui: emocromatosi, iperpa-
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MALATTIE DELLE ARTICOLAZIONI
ratiroidismo, diabete mellito, acromegalia, ipofosfatasia, malattia di Wilson, ocronosi, gotta, ipotiroidismo, ipomagnesiemia.
Eziopatogenesi e anatomia patologica Non sono state evidenziate alterazioni significative del metabolismo del calcio o del pirofosfato a livello sistemico. La deposizione di cristalli di pirofosfato di calcio a livello articolare appare comunque cruciale perché la malattia si possa manifestare, benché le cause di tale deposizione non siano ancora note. Dal punto di vista anatomopatologico depositi di cristalli si possono riscontrare all’interno di: capsula articolare, sinoviale, tendini, legamenti, cartilagini ialine e fibrose. La deposizione può presentarsi con diversi aspetti, da forme microcristalline ad aggregati macroscopici.
Fisiopatologia L’evento scatenante l’attacco acuto di artrite sembra essere il passaggio dei cristalli di pirofosfato di calcio dalla cartilagine al liquido sinoviale. Ciò può avvenire a seguito di alcuni fatti tra cui appaiono particolarmente rilevanti : • l’abbassamento della concentrazione di calcio ionizzato o di pirofosfato nel liquido sinoviale (in effetti gli attacchi acuti si verificano spesso nel corso di condizioni associate ad ipocalcemia); • un danno alla cartilagine articolare sia a causa di un trauma che per fenomeni degenerativi/involutivi (distruzione meccanica conseguente a microfratture dell’osso subcondrale o degradazione enzimatica della matrice cartilaginea). Una volta giunti nel liquido sinoviale i cristalli di pirofosfato di calcio esercitano la loro azione proinfiammatoria con un meccanismo analogo a quello dei cristalli di acido urico nella gotta. Cruciale appare il ruolo dei granulociti neutrofili che fagocitando i cristalli vengono da essi danneggiati e rilasciano enzimi lisosomiali e fattori chemiotattici.
Clinica Il quadro clinico può essere assai vario come gravità passando da forme del tutto asintomatiche ad altre piuttosto impegnative. Anche le manifestazioni cliniche sono polimorfe in quanto tale malattia può “mimare” diverse malattie reumatologiche: si distinguono perciò diverse forme cliniche. A. Pseudogotta. Rappresenta circa il 25% dei casi totali e mostra una lieve predominanza maschile. È caratterizzata da attacchi artritici acuti o subacuti che possono durare da 1 giorno a 4 settimane: colpiscono di
solito una o poche articolazioni e sono autolimitanti. È comune che i disturbi compaiano dopo un intervento chirurgico o un’altra malattia. La localizzazione elettiva è al ginocchio, che viene interessato in oltre la metà dei casi. Il quadro clinico può essere talora di difficile interpretazione per la contemporanea presenza nello stesso individuo di gotta o pseudogotta. L’esame del liquido sinoviale e la corretta identificazione delle caratteristiche dei cristalli è quindi fondamentale per la corretta diagnosi differenziale. B. Pseudoartrite reumatoide. Rappresenta circa il 5% dei casi e si manifesta con un interessamento articolare multiplo caratterizzato da attacchi subacuti che durano da uno a parecchi mesi. Sono comuni i sintomi aspecifici dell’infiammazione: astenia, rigidità mattutina, e si possono trovare anche i relativi segni obiettivi: limitazione del movimento articolare, contratture muscolari, sinovite, aumento della VES. Le articolazioni più colpite sono: i polsi, i gomiti, le metacarpofalangee, le ginocchia e le spalle. La diagnosi è complicata dal fatto che nel 10-15% dei casi si ha una positività aspecifica per il fattore reumatoide. C. Pseudoartrosi. È la forma più comune (50% dei casi). In essa si ha una predominanza femminile. Il processo degenerativo colpisce parecchie articolazioni per lo più in modo simmetrico con una predilezione per le ginocchia; seguono poi i polsi, le articolazioni metacarpofalangee, le anche, le spalle, i gomiti e le caviglie. Sono comuni le contratture in flessione. Tale forma dovrebbe essere sospettata per l’interessamento preponderante del ginocchio che tende a deformarsi in varismo ed in flessione, particolarmente se vi è un contemporaneo coinvolgimento di altre articolazioni che raramente sono colpite dall’artrosi primaria: polsi, gomiti, metacarpofalangee e spalle. Il decorso di tale forma della malattia da deposizione di cristalli di pirofosfato di calcio può assumere due andamenti: nel primo caso si ha una storia di episodi acuti artritici sovrapposti alla forma cronica, nel secondo caso ciò non avviene. D. Forma asintomatica. Rappresenta circa il 20% dei casi ma la sua reale incidenza può essere assai maggiore. È evidenziata in persone che per caso hanno eseguito una radiografia nella quale compare un quadro di condrocalcinosi articolare tipica del tutto asintomatica.
Esami di laboratorio Talora si riscontrano alterazioni aspecifiche degli indici di fase acuta. L’esame più importante è comunque lo studio al microscopio del liquido sinoviale. In esso si osserva un’importante leucocitosi neutrofila e la presenza di cristalli di pirofosfato di calcio liberi o fagocitati dai granulociti neutrofili. Tali cristalli sono più difficili da osservare rispetto a quelli di acido urico e mostrano una debole birifrangenza positiva al microscopio a luce polarizzata rispetto alla forte birifran-
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73 - ARTROPATIE MICROCRISTALLINE
genza negativa dei cristalli di acido urico. Anche dal punto di vista morfologico sono diversi in quanto i cristalli di pirofosfato di calcio sono piuttosto grossolani, romboidi o cuboidi, mentre quelli di acido urico sono aghiformi.
Quadro radiologico Il deposito di cristalli di pirofosfato di calcio a livello di strutture cartilaginee fibrose o ialine, legamenti e capsule articolari presenta aspetti caratteristici. Si tratta di depositi fini, punteggiati o lineari (Fig. 73.2). Le sedi di deposito più comuni sono i menischi fibrocartilaginei del ginocchio, il legamento triangolare a livello dell’articolazione radioulnare distale, la sinfisi pubica, l’anulus fibrosus del disco invertebrale, l’articolazione sternoclaveare. Spesso sono presenti anche calcificazioni a livello delle cartilagini ialine e delle capsule delle grosse articolazioni.
Figura 73.2 - Condrocalcinosi.
Diagnosi
Terapia
Può essere difficile a causa dei differenti aspetti clinici della malattia. Nelle varianti acute le principali forme da escludere sono la gotta e l’artrite settica. In ogni caso bisogna ricordare che l’elemento più importante per una corretta diagnosi è la presenza dei cristalli caratteristici in sede articolare, mentre non è sufficiente la sola evidenza radiologica di depositi calcifici.
È sintomatica e si basa sull’uso di antinfiammatori non steroidei, che possono migliorare la sintomatologia, ma non arrestano la progressione della malattia. In alcuni casi, nelle forme acute, la colchicina può essere efficace e così pure l’aspirazione del liquido sinoviale seguita dall’iniezione intrarticolare di corticosteroidi ad azione di ritardo.
Documento1 28-07-2005 11:56 Pagina 1
C A P I T O L O
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ARTRITI INFETTIVE C. BESANA
Le artriti infettive sono artropatie infiammatorie determinate da insediamento o proliferazione di microrganismi patogeni entro la cavità sinoviale e nei tessuti articolari. Le artriti infettive, prevalentemente di natura batterica e favorite da fattori predisponenti locali e generali, sono usualmente monoarticolari, acute e rapidamente destruenti.
Eziologia A. Agenti patogeni. Nonostante qualsiasi microrganismo possa essere causa di artrite infettiva, nella maggior parte dei casi si tratta di artrite settica di origine batterica (prevalentemente stafilococchi; nel bambino streptococchi, Haemophilus e bacilli Gram–; nell’adulto gonococchi; inoltre micobatteri e treponemi). In Europa le artriti micotiche sono rare, tranne che in corso di trattamenti immunodepressivi. In corso di infezioni virali l’artrite è più comunemente dovuta a immunocomplessi, e solo raramente a infezione articolare. Talora, specialmente nelle artriti croniche piogene, altri batteri, micobatteri o miceti possono aggiungersi o sostituirsi all’agente patogeno iniziale. B. Vie di ingresso. La via di ingresso usuale è ematogena, da batteriemia con o senza evidente quadro clinico setticemico, in seguito a contagio venereo o per via aerea o intestinale, o per via ascendente urinaria, oppure per interruzione traumatica dei tessuti di rivestimento cutaneo o mucoso, da interventi chirurgici, ostetrici o odontoiatrici, manovre diagnostiche strumentali, infusioni parenterali o iniezioni endovenose in tossicodipendenti. L’accesso all’articolazione è facilitato dalla ricca vascolarizzazione della sinoviale, che è priva di membrana basilare limitante. È frequentemente riconoscibile una localizzazione infettiva primaria (endocardite batterica, broncopolmonite, infezione delle vie urinarie o biliari, osteomielite, foruncolo, granuloma apicale dentario). È possibile una
via di accesso diretta di St. epidermidis o altri germi tramite ferite penetranti, artrocentesi o iniezione intrarticolare di farmaci corticosteroidei, interventi ortopedici, specialmente se comportanti l’inserzione di materiale protesico. Infine può verificarsi propagazione per contiguità da un’osteomielite, una cellulite o una linfangite profonda, una borsite. C. Condizioni predisponenti. La relativa rarità delle artriti settiche nonostante la frequenza di episodi batteriemici viene attribuita all’efficienza delle difese fagocitarie locali ad opera dei sinoviociti. Non sorprende quindi l’importanza, nella genesi delle artriti infettive, di condizioni favorenti locali e generali che diminuiscono i poteri di difesa antibatterica. 1. Malattie sistemiche e condizioni predisponenti generali. Coxartriti da germi coliformi sono relativamente frequenti nei prematuri per l’inadeguato sviluppo del sistema di difesa immunitario. Il diabete mellito, che all’elevata incidenza di batteriemia da infezioni del tratto urinario associa un rilevante deficit di fagocitosi e battericidia, è causa importante di artriti settiche. Queste si verificano con frequenza significativamente aumentata anche in corso di uremia, alcolismo con o senza cirrosi epatica, cachessia da neoplasie o da altre cause, lupus eritematoso sistemico e altre connettiviti: particolarmente importante l’incidenza di artriti stafilococciche, sternoclaveari o in altra sede, in pazienti affetti da artrite reumatoide. Neutropenia e azione immunodepressiva della terapia citostatica favoriscono le infezioni articolari da germi Gram– nella leucemia acuta mieloide. Un difetto di opsonizzazione nella drepanocitosi, e la carente anticorpopoiesi nei mielomi e linfomi B-cellulari, favoriscono l’insorgenza di artriti da pneumococco e altri Gram+. Condizioni di immunodeficienza acquisita possono facilitare nei tossicodipendenti la localizzazione articolare dei germi introdotti per via venosa. 2. Fattori locali. L’insorgenza di artrite settica può essere favorita da traumi contusivi, alterazioni osteoar-
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MALATTIE DELLE ARTICOLAZIONI
trosiche, artropatia neurogena di Charcot e altre condizioni patologiche articolari, mediante meccanismi non ben chiariti. La più importante associazione si verifica tra artrite settica e artrite reumatoide, la quale comporta un deficit di fagocitosi e battericidia, di concentrazione complementare e di attività batteriolitica nel liquido sinoviale, con netta riduzione dei poteri di difesa antibatterica locale. Nella gotta e nella condrocalcinosi l’infezione è invece facilitata verosimilmente dall’impegno del sistema fagocitario nell’allontanamento dei cristalli dall’articolazione. 3. Caratteristiche del germe. Alcuni microrganismi sembrano dotati di un tropismo per i tessuti articolari (N. gonorrhoeae, N. meningitidis, H. influenzae, Streptobacillus moniliformis), mentre brucelle, Salmonella choleraesuis e micobatteri hanno particolare predisposizione a provocare osteomieliti con artriti e spondiliti. Nei tossicodipendenti l’entità dell’inoculo batterico può essere un fattore patogeno importante. Infezioni nosocomiali da germi multiresistenti possono dare origine ad artriti infettive di difficile trattamento e ad evoluzione cronica. Numerosi fattori hanno notevolmente modificato l’epidemiologia delle artriti infettive nei decenni scorsi. L’utilizzazione di farmaci antitubercolari efficaci e le migliorate condizioni igieniche della popolazione hanno ridotto la frequenza delle artriti tubercolari e micobatteriche, da salmonella e da brucella. È pure sensibilmente diminuita l’incidenza delle artriti gonococciche, nonostante una certa ripresa negli ultimi anni per la maggiore promiscuità sessuale in età giovanile e per l’emergenza di ceppi resistenti. D’altro canto la migliorata sopravvivenza dei nati prematuri, l’aumento dell’età media dei pazienti ricoverati in ospedale per malattie croniche o gravi, talora trattati con terapie ad azione immunodepressiva ed esposti a rischio di contagio da germi multiresistenti, ha grandemente aumentato i casi di artrite settica da Gram– e stafilococchi penicillinasi-produttori. La frequenza delle diverse forme eziologiche di artrite settica in relazione all’età è riportata in tabella 74.1.
Patogenesi Il tipo e la gravità dei fenomeni infiammatori articolari dipendono dal numero, dalla specie e dalla virulenza dei microrganismi infettanti. Giunti negli spazi interstiziali del tessuto sinoviale, essi esercitano azione lesiva diretta mediante eso ed endotossine e tramite la liberazione di enzimi (chinasi stafilococciche e streptococciche) attivanti la plasmina, la quale provoca condrolisi scindendo i proteoglicani della matrice cartilaginea. Essi liberano inoltre fattori solubili e frammenti batterici polisaccaridici, che insieme a immunocomplessi esercitano azione flogogena e chemiotattica, attirando grande numero di granulociti entro il copioso versamento essudatizio accumulantesi in cavità articolare per la congestione della microcircolazione sinoviale. Ulteriore condrolisi per degradazione della sostanza fondamentale si
Tabella 74.1 - Agenti eziologici delle artriti infettive.
ADULTI (%) • Cocchi Gram+ – Staphylococcus aureus 35 altri stafilococchi – Streptococcus pneumoniae, 10 pyogenes, viridans • Cocchi Gram– – Neisseria gonorrhoeae, 50 meningitidis – Haemophilus influenzae 1 • Bacilli Gram– – Escherichia coli – Proteus mirabilis – Klebsiella pneumoniae – Serratia marcescens – Aeromonas hydrophila – Salmonella choleraesuis 5 – Brucella spp. – Yersinia enterocolitica – Vibrio fetus – Pseudomonas aeruginosa – Bacteroides fragilis – Fusobacterium • Micobatteri – Mycobacterium tubercolosis – Micobatteri atipici • Spirochete – Treponema pallidum < 1 – Borrelia burgdorferi • Miceti – Candida albicans – Aspergillus fumigatus – Miceti tropicali • Virus – (Epatite B, non A-non B) – (Rosolia) – (Parotite) – (Varicella) – (Adenovirus 7)
BAMBINI (%) ETÀ (anni) > 0,5 < 0,5 45
27
25
16
5
8
10
40
15
9
<1
<1
realizza per l’azione di enzimi (elastasi, collagenasi, catepsine) di origine lisosomiale granulocitaria e sinoviocitica. La persistenza dell’essudato è di grave danno sia perché riduce l’attività metabolica dei batteri favorendone la sfuggita all’azione degli antibiotici, sia perché a una concentrazione granulocitaria superiore a 50.000/mm3 vengono saturati i naturali inibitori delle proteinasi e viene quindi nettamente incrementata l’azione degli enzimi liberati sui proteoglicani e la sostanza fondamentale del collageno.
Anatomia patologica Nella prima fase dell’infezione la sinoviale è edematosa e infiltrata da numerosi granulociti, con conseguente perdita di proteoglicani della cartilagine e formazione di essudato articolare (50.000-300.000 PMN/mm3). La lesione a questo stadio è ancora rapida-
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74 - ARTRITI INFETTIVE
mente regredibile, sino a che, entro pochi giorni, si verifica necrosi dei condrociti, sofferenti per alterata diffusione delle sostanze nutritizie entro la cartilagine e non più protetti dalla rete dei proteoglicani nei confronti degli insulti meccanici. Segue quindi proliferazione sinoviale e un terzo stadio con progressiva distruzione cartilaginea e dell’osso subcondrale, inarrestabile anche nel caso l’infezione sia superata, con grave deformazione articolare, fibrosi riparativa e possibile anchilosi.
Clinica L’artrite settica batterica è tipicamente una monoartrite acuta, preferibilmente di una grossa articolazione portante di un arto inferiore: in ordine decrescente di frequenze il ginocchio (50%), l’anca (specialmente nella prima infanzia), la caviglia, l’articolazione sacroiliaca, la spalla, il gomito, il polso; può talora essere poliarticolare (alcuni batteri, miceti, micobatteri) o migrante (Neisseria), o infine cronica e subdola (anziani, immunodepressi, portatori di protesi articolari). L’esordio è usualmente brusco, talora preceduto da una fase batteriemica con febbre anche elevata, possibile malessere generale, artralgie migranti e lesioni piodermiche o petecchiali prima che compaiano i segni evidenti della flogosi all’articolazione infettata: tumefazione delle parti molli, versamento articolare, calore e arrossamento, dolore vivissimo con impotenza funzionale e contrattura muscolare antalgica. Le localizzazioni profonde (articolazione dell’anca e sacroiliaca) sono di più difficile diagnosi, ma si riconoscono per l’irradiazione tipica del dolore (rispettivamente coscia anteriore e ginocchio, e proiezione glutea o sciatica), la contrattura muscolare, la dolorabilità alla pressione. Frequentemente sono riferiti o presenti i sintomi o segni di un’infezione primaria. L’infezione è più frequente nel sesso maschile e in articolazioni già precedentemente lese. L’artrite settica è considerata un’emergenza medica. Se non tempestivamente curata, progredisce entro giorni verso la distruzione articolare irreversibile. Forme cliniche particolari A. Artrite gonococcica. È l’artrite più frequente nei giovani sessualmente attivi ed esenti da patologia predisponente locale o sistemica. Insorge nell’1-3% delle infezioni da Neisseria gonorrhoeae, spesso da lesioni inapparenti genitali (colture uretrali positive 80%), rettali (13%) o faringee (17%). Nella metà dei casi si tratta di una poliartrite migrante da immunocomplessi circolanti insorgente nella fase batteriemica precoce con brivido, febbre, esantema eritemato-papulo-pustoloso (40% dei casi) talora con escara necrotica centrale, emocolture positive, liquido sinoviale scarso poco infiammatorio e usualmente sterile. Nell’altra metà è invece una tipica monoartrite essudativa purulenta, più frequentemente localizzata al ginocchio o al polso, con coltura sinoviale positiva nel 25%. B. Osteoartrite tubercolare. Spondilodiscite toraco-lombare postprimaria nel 50% dei casi, altrimenti ar-
trite dell’anca, ginocchio o caviglia, monoarticolare nel 70% dei casi, con osteomielite cronica precedente o secondaria con periostite e sequestri ossei (dattilite metatarsica o “spina ventosa” nei bambini). Granulomi sinoviali con o senza caseosi (si veda Tbc), liquido sinoviale torbido variamente cellulare, “corpi di riso” di cartilagine libera articolare, cutireazione tubercolinica positiva, radiografia polmonare normale nel 50% dei casi. C. Artriti fungine. In Italia rare infezioni da Candida, per lo più poliarticolari, in cachettici immunodepressi, ad andamento subdolo con scarsi segni di flogosi. D. Artriti virali. Salvo rare eccezioni, poliartriti sterili migranti da immunocomplessi in corso di infezioni da virus epatitico B, rosolia, parotite, varicella, parvovirus, adenovirus 7. E. Artrite di Lyme (si veda anche Malattia di Lyme). È una malattia multisistemica da Borrelia (B. burgdorferi) trasmessa dal morso di zecche: in Italia l’acaro Ixodes ricinus che infesta piccoli roditori selvatici. Il morso, inavvertito nella metà dei pazienti, è seguito entro giorni o settimane da un caratteristico eritema migrante ad andamento cronico accompagnato da malessere generale. Le manifestazioni tardive della malattia comprendono disturbi neurologici, cardiaci, artritici, oculari e cutanei. L’artrite compare entro settimane o molti mesi nell’80% dei pazienti (più negli USA che in Europa) sotto diverse forme. La più tipica è caratterizzata da fugaci artralgie e artriti migranti della durata di ore o giorni, che interessano una o poche articolazioni per volta. L’artrite migrante si esaurisce entro molti mesi ma talora recidiva per anni. In altri pazienti molti mesi dopo l’inizio della malattia compare una monoartrite o oligoartrite, particolarmente alle grosse articolazioni e specialmente al ginocchio, ma talora diffusa alle piccole articolazioni e raramente simmetrica: episodi della durata di settimane o mesi si susseguono, intervallati da periodi di remissione completa o da episodi minori di artralgie o entesite, per alcuni o talvolta per molti anni, sino a deformazioni erosive irreversibili simili a quelle dell’artrite reumatoide.
Esami di laboratorio e strumentali Una velocità di eritrosedimentazione molto elevata, e franco aumento delle concentrazioni sieriche di proteina C reattiva, sieromucoide e 2-globuline sono segni costanti ma aspecifici: è frequente leucocitosi neutrofila superiore a 10.000/mm3. Sono indispensabili immediate colture per germi aerobi e anaerobi da ogni possibile sede di infezione primaria, oltre che di sangue e di liquido sinoviale. Quest’ultimo è abbondante, usualmente torbido o purulento, poco viscoso e con scarsa tendenza a formare coagulo, contenente 50.000-300.000 cellule/mm3, prevalentemente neutrofili polimorfonucleati; vanno eseguite ricerche batterioscopiche con colorazione di
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MALATTIE DELLE ARTICOLAZIONI
Gram e di Ziehl-Nielsen e colture su terreni adeguati per germi aerobi e anaerobi, salmonelle, neisserie, micobatteri e miceti, con test di sensibilità in vitro agli antibiotici, conservando in coltura il ceppo batterico per successive determinazioni del potere battericida del siero in corso di terapia antibiotica. Sono utili per il rilevamento rapido della specie batterica sia la ricerca gascromatografica di acido lattico e altri prodotti del metabolismo batterico, sia il riconoscimento in controimmunoelettroforesi di antigeni specifici di N. meningitidis, H. influenzae e pneumococco nel sangue e nel liquido sinoviale. Esami radiografici evidenziano eventuali artropatie predisponenti e i segni tipici dell’infezione articolare: rarefazione ossea subcondrale, poi compaiono erosioni dell’osso iuxtarticolare, restringimento e irregolarità della rima articolare, infine distruzione dell’articolazione e collasso della struttura ossea. La tomografia computerizzata e la risonanza magnetica sono utili per informazioni precoci e di dettaglio. La scintigrafia con 67Ga o con 99mTc mostra quadri aspecifici, ma molto utili per la loro precocità.
Diagnosi e diagnosi differenziale Dato il decorso rapidamente destruente e la disponibilità di mezzi terapeutici efficaci si impone la necessità di una diagnosi precoce, comprendente il riconoscimento dell’agente eziologico. Cardini del procedimento
diagnostico sono un elevato indice di sospetto di fronte ad ogni condizione predisponente, l’anamnesi meticolosa ed un accurato esame obiettivo più volte ripetuto alla ricerca di foci infettivi e di modificazioni rapide dell’articolazione colpita, l’uso tempestivo e quotidiano di artrocentesi diagnostiche comprendenti batterioscopia (individuazione precoce dell’agente infettante) ed esami colturali (sua caratterizzazione). La diagnosi differenziale va posta per le forme acute monoarticolari soprattutto nei confronti delle artropatie da cristalli (gotta, condrocalcinosi) mediante ricerca dei cristalli sinoviali in luce polarizzata. Artriti monoarticolari reumatoidi e artriti sieronegative hanno esordio solitamente meno brusco. Le forme poliarticolari acute vanno differenziate specialmente dalla malattia reumatica e dalla malattia da siero. Notevoli difficoltà possono incontrarsi nel riconoscimento di artriti settiche in pazienti immunocompromessi con preesistenti artropatie.
Terapia Si richiede terapia antibiotica battericida a dosi elevate per via parenterale, scelta in base a considerazioni cliniche e alla colorazione di Gram del microrganismo isolato dal liquido sinoviale, in attesa della sua caratterizzazione microbiologica e dell’antibiogramma. Indispensabile, inoltre, quotidiana artrocentesi evacuativa, o talora drenaggio chirurgico dell’articolazione (Tab. 74.2).
Tabella 74.2 - Terapia antibiotica empirica delle artriti settiche in attesa dei dati colturali. COLORAZIONE DI GRAM
ETÀ (ANNI)
PROBABILE PATOGENO
ANTIBIOTICI CONSIGLIATI
Cocchi Gram+
< 0,5 > 0,5
Stafilococchi Streptococchi
Penicillina G + oxacillina (+ vancomicina)
Cocchi Gram–
< 0,5 > 0,5
Neisseria gonorrhoeae
Penicillina G
Bacilli Gram–
< 0,5
Enterobacteriacee Ps. aeruginosa
Gentamicina + azlocillina (+ ceftazidime, imipenem, aztreonam)
0,5-2
H. influenzae
Ampicillina
Enterobacteriacee Ps. aeruginosa
Gentamicina + azlocillina (+ ceftazidime, imipenem, aztreonam)
< 0,5
Stafilococchi
Oxacillina (vancomicina)
0,5-2
H. influenzae o streptococchi
Ampicillina, cefuroxime
2-14
Streptococchi, stafilococchi
Oxacillina (cefazolina, vancomicina) + aminoglicoside
> 14
Neisseria gonorrhoeae
Penicillina G
>2 Nessun organismo
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PARTE QUATTORDICESIMA
MALATTIE INFETTIVE a cura di A. LAZZARIN
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ELENCO DELLE SIGLE CONTENUTE NEL TESTO
AABB Ab ACD ACE ACI ACN ADC AEAI Ag AGE AHG AIDS ALT ANRC APC ARDS ATP AZT AMP BKV CDC CID CPDA CSE CSESP CT CVC DAF DEC DDC DDI DMSO DPG D4T EBV EGDS EHEC EIEC EPEC EPN EsoT-asi ETEC ExTF FDA FuT-asi GalT-asi G-CSF Glu-T-asi GPA GPB GPC GPI GRC GS FUO G6-PDH GM-CSF GVHD
American Association of Blood Banks anticorpo acido citrico destrosio acetilcolinesterasi anticorpi irregolari anticorpi naturali AIDS Dementia Complex anemia emolitica autoimmune antigene antigene eritrocitario Anti Human Globulin Acquired Immunodeficiency Syndrome alanina aminotranspeptidasi American National Red Cross Antigen Presenting Cell Acute Respiratory Distress Syndrome adenosintrifosfato zidovudina adenosinmonofosfato B.K. Virus Centers for Diseases Control coagulazione intravascolare disseminata citrato fosfato destrosio adenina cellule staminali emopoietiche CSE da sangue periferico centro trasfusionale catetere venoso centrale Decay Accelerating Factor dietilcarbamazina zalcitabina didanosina dimetil sulfossido difosfoglicerato stavudina Epstein-Barr Virus esofagogastroduodenoscopia Enterohemorragic Escherichia coli Enteroinvasive Escherichia coli Enteropathogenic Escherichia coli emoglobinuria parossistica notturna esosil transferasi Enterotoxigenic Escherichia coli exanguinotrasfusione Food and Drug Administration fuscosil-transferasi galattosil-transferasi Granulocyte-Colony Stimulating Factor glucosil-transferasi glicoforina A glicoforina B glicoforina C glicosil-fosfatidil-inositolo globuli rossi concentrati gruppo sanguigno Fever of Unknown Origin glucosio 6-fosfato-deidrogenasi Granulocyte Macrophage-Colony Stimulating Factor Graft Versus Host Disease
HBsAg HBV HCV HHV6 HHV7 HHV8 Hpt HPV Hpx HSV HIV-1 HIV-2 HTLV-I HTLV-II HTLV-III IFN Ig IL-1 IL-2 IPT ISBT JCV KS LAV LDH LMC LMV MAC MEN Metalb MSBOS NHL PAF PCR PFC PGD2 PPT PTLD RT RTE RTEI RTER RTFNE SAG-M SI SMM SRE 3TC T&S TCD TCI Th1 Th2 TNF TORCH TP VES VZV
Hepatitis B Surface Antigen Hepatitis B Virus Hepatitis C Virus Human Herpes Virus 6 Human Herpes Virus 7 Human Herpes Virus 8 aptoglobine Human Papilloma Virus emopessina Herpes Simplex Virus Human Immunodeficiency Virus-1 Human Immunodeficiency Virus-2 Human T Lymphotropic Virus-I Human T Lymphotropic Virus-II Human T Lymphotropic Virus-III interferon immunoglobuline interleuchina-1 interleuchina-2 infezione post-trasfusionale International Society of Blood Transfusion J.C. Virus Kaposi Sarcoma Lymphadenopathy Virus lattico-deidrogenasi larva migrans cutanea larva migrans viscerale Mycobacterium Avium Complex malattia emolitica del neonato metemalbumina Maximum Surgical Blood Order Schedule Non Hodgkin Lymphoma Platelet Activating Factor proteina C reattiva plasma fresco concentrato prostaglandina D2 porpora post-trasfusionale Post-Transplant Lymphoproliferative Disorders reazioni trasfusionali reazioni trasfusionali emolitiche RTE immediate RTE ritardate RT febbrili non emolitiche salina adenina glucosio-mannitolo sangue intero sistema monocitico-macrofagico sistema reticolo-endoteliale lamivudina Type & Screen test di Coombs diretto test di Coombs indiretto T helper 1 T helper 2 Tumor Necrosis Factor Toxoplasma, rosolia, cytomegalovirus, herpes tromboplastina velocità di eritrosedimentazione Varicella-Zoster Virus
C A P I T O L O
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75
GENERALITÀ R. NOVATI
Nella prima parte del capitolo si riassume schematicamente l’insieme di eventi che si verificano invariabilmente in occasione di una malattia infettiva e che ne costituiscono di regola il presupposto; il principio generale è che la malattia infettiva deriva dalla risultante del complesso insieme di interazioni tra un microrganismo patogeno ed un ospite suscettibile, in presenza o meno di determinate condizioni ambientali. Data l’ovvia vastità, l’argomento sarà prevalentemente presentato per punti, rimandando i dovuti o eventuali approfondimenti allo studio delle singole materie. La seconda parte sarà invece dedicata al ruolo della medicina di laboratorio nella diagnostica delle malattie infettive.
• Microrganismo simbionte: è quello che stabilisce con l’organismo superiore una relazione biologica di reciproco vantaggio (per es., la flora biologica endogena intestinale e delle prime vie aeree, utile all’uomo in quanto competitrice con flora esogena potenzialmente patogena). • Microrganismo commensale: colonizza l’organismo superiore senza apparente vantaggio per quest’ultimo. • Microrganismo parassita: colonizza l’organismo superiore a proprio vantaggio ma a svantaggio di quest’ultimo; sono le classiche specie microbiche patogene.
Per comprendere meglio l’argomento trattato è importante conoscere le seguenti definizioni:
AGENTI EZIOLOGICI
• Contaminazione: transitoria e occasionale presenza di un microrganismo sulla cute o sulle mucose dell’uomo o dell’animale. Il contaminante non si moltiplica o si moltiplica insufficientemente, non riuscendo ad impiantarsi persistentemente nella sede contaminata. • Infezione: insediamento del microrganismo con attiva moltiplicazione e impianto nella sede contaminata. • Colonizzazione: infezione senza danno apparente. • Malattia infettiva: infezione con danno per l’organismo colonizzato. • Patogenicità: capacità del microrganismo di indurre malattia in una determinata specie; deriva dall’esistenza o meno nella specie infettata di condizioni necessarie e sufficienti allo sviluppo dell’infezione: non è pertanto un attributo “a priori” del microrganismo. • Virulenza: all’interno di una specie patogena o potenzialmente patogena, la capacità di un ceppo della stessa (per es., un isolato virale o batterico) di indurre malattia. • Invasività: attitudine di un microrganismo a superare la barriera anatomofunzionale dell’organismo. • Carica infettante: quantità minima di microrganismo necessaria per lo sviluppo di infezione.
Virus Sono agenti infettivi a struttura subcellulare e dimensione submicroscopica (< 0,2 micron), costituiti da un core di acido nucleico avvolto da un involucro proteico (capside), talora circondato da una membrana lipoproteica (envelope). Le proteine del core virale e del capside sono sovente complessate in unità morfofunzionali (capsomeri), a loro volta disposti simmetricamente a dare il cosiddetto nucleocapside; l’unità infettante del virus è definita virione e presenta simmetria specifica e conservata per ogni specie virale. Il genoma dei virus codifica di regola per proteine enzimatiche (per es., DNA o RNA polimerasi) e strutturali, tuttavia tutti i virus sono sprovvisti dei meccanismi energetici e biosintetici e necessitano pertanto delle funzioni biochimiche della cellula ospite per la loro replicazione. I virus sono invisibili al microscopio ottico; l’isolamento virale è metodica di solito lunga e complessa e non priva di rischio di contagio: la diagnosi di infezione virale avviene nella maggior parte dei casi sulla scorta di criteri clinico-epidemiologici (malattie esantematiche) o mediante la ricerca nel siero di antigeni, anticorpi o acidi nucleici specifici (per es., le epatiti virali).
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MALATTIE INFETTIVE
Tabella 75.1 - Classificazione dei principali virus umani e dei virusi animali patogeni anche per l’uomo. FAMIGLIA
GENOMA(1)
SPECIE PIÙ RAPPRESENTATIVE
Picornaviridae
S + RNA
Poliovirus Coxsackie virus Echovirus
Caliciviridae
SS RNA
Astroviridae Togaviridae
SS RNA SS RNA
Flaviviridae
SS RNA
Coronaviridae Rhabdoviridae Filoviridae Paramixoviridae
SS SS SS SS
RNA RNA RNA RNA
Orthomixoviridae SS RNA Bunyaviridae SS RNA Arenaviridae Reoviridae Retroviridae
SS RNA DS RNA SS RNA
Hepadnaviridae Parvoviridae Papovaviridae
DS DNA SS DNA DS DNA
Adenoviridae Herpesviridae
DS DNA DS DNA
Poxviridae
DS-DNA
(1) (2) (3) (4)
Virus dell’epatite A (HAV) Rhinovirus Norwalk virus Hepevirus (HEV) Astrovirus Rubella virus Alphavirus Virus della febbre gialla Dengue virus HCV Coronavirus Virus rabico Virus Ebola e Marburg Rubulavirus Morbillivirus VRS(2) Influenzavirus A,B,C Bunyavirus Hantanvirus Phlebovirus Arenavirus Rotavirus HIV-1 e 2 HTLV-1 HTLV-2 HBV Parvovirus B19 JC virus Papillomavirus Adenovirus Herpes simplex virus 1 e 2 Varicella-zoster virus Epstein-Barr virus Cytomegalovirus HHV-6(4) HHV-7(4) HHV-8(4) Vaccinia virus Variolavirus MCV
MALATTIE ASSOCIATE Poliomielite Sindromi respiratorie, cutaneo-mucose, oculari, cardiache, neurologiche Sindromi respiratorie, enterocolite, esantema, meningoencefalite Epatite A Raffreddore comune Gastroenterite Epatite E Gastroenterite Rosolia Arbovirosi Febbre gialla Dengue Epatite C Infezioni respiratorie Rabbia Febbri emorragiche Parotite Morbillo Bronchiolite Influenza Encefalite californiana HFRS(3), polmonite Febbre della valle del Rift Febbre di Lassa, coriomeningite linfocitaria Gastroenterite infantile Infezione da HIV, AIDS Paraparesi spastica tropicale, leucemia acuta a cellule T Leucemia a cellule capellute, micosi fungoide (?) Epatite B Megaloeritema infettivo Leucoencefalite multifocale Verruca volgare Infezioni respiratorie Malattia erpetica Varicella, herpes zoster Mononucleosi infettiva Infezione da CMV Esantema critico Ruolo indefinito Sarcoma di Kaposi (?) Malattia vaccinica Vaiolo Mollusco contagioso
DS/SS: doppia elica / singola elica (double strand, single strand). Virus respiratorio sinciziale. HFRS; Hemorragic Fever with Renal Syndrome Human Herpes Virus, tipo 6, 7 e 8.
Sono state fino ad oggi identificate più di trentamila specie di virus animali o vegetali; la tassonomia di questi microrganismi è oltremodo complessa ed è oggetto di studio ed aggiornamento continuo da parte di un apposito organismo internazionale; la tabella 75.1 raffigura una classificazione schematica dei principali virus di interesse medico e delle principali malattie ad essi associate. Batteri o schizomiceti Sono organismi procarioti del diametro compreso tra 0,4 e 1,5 micron; la cellula batterica presenta i seguenti costituenti.
1. Parete cellulare o capsula: struttura rigida ed elastica, composta da particolari glicopeptidi detti peptidoglicani, presente in tutte le specie batteriche tranne che nei micoplasmi. In alcune specie batteriche il peptidoglicano è rivestito da uno spesso strato di fosfolipidi, proteine e lipopolisaccaridi; per tale motivo questi microbi non assumono il colorante di Gram e vengono pertanto detti germi Gram–. La parete cellulare ha importanti funzioni antigeniche ed in generale è essenziale per l’identificazione e la classificazione dei batteri; è inoltre un determinante per la patogenicità della specie. Infine, il lipopolisaccaride dei batteri Gram–, definito altresì endotossina, possiede una miriade di effetti sul determinismo della risposta infiammatoria locale e sistemica.
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2. Membrana citoplasmatica: è una struttura composta prevalentemente da lipidi (circa il 60%) e proteine che avvolge completamente il citoplasma della cellula batterica, regola il traffico molecolare dei prodotti del metabolismo batterico, interviene nel meccanismo di divisione del cromosoma batterico e realizza un equivalente dell’apparato mitocondriale per la cellula batterica, contenendo alla sua superficie interna gli enzimi respiratori della stessa. 3. Citoplasma: è un insieme colloidale costituito in gran parte da acqua, contenente proteine, lipidi, carboidrati e sali minerali, oltre che gli acidi nucleici (RNA ribosomiale e DNA); il cromosoma batterico contiene da 3000 a 6000 geni, secondo le specie. Occasionalmente il citoplasma contiene frazioni di DNA extracromosomiale (episomi o plasmidi), che possono essere trasferiti ad una cellula recettrice (coniugazione batterica). 4. Alcune specie batteriche posseggono strutture esterne mobili (ciglia o flagelli) in grado di imprimere un movimento attivo al microrganismo. Le formazioni filamentose non deputate al movimento sono invece dette pili o fimbrie. Alcune famiglie di batteri possiedono caratteristiche morfostrutturali peculiari. 1. Le spirochete hanno l’aspetto di filamenti flessibili a simmetria spirale o spiraloide. 2. I micoplasmi sono privi di parete cellulare, hanno dimensioni molto piccole e sono spesso parassiti intracellulari; posseggono inoltre caratteristiche peculiari di crescita in vitro ed anche di sensibilità agli antibatterici. 3. Le rickettsie sono piccoli coccobacilli pleiomorfi; sono parassiti intracellulari obbligati che richiedono ampi serbatoi animali (di solito artropodi) per il mantenimento in natura e la trasmissione all’uomo. 4. Le clamidie sono anch’esse parassiti intracellulari obbligati, essendo tra l’altro sprovviste di meccanismi energetici propri; possono indurre la formazione di inclusi intracellulari, utili per la diagnosi, e posseggono caratteristiche antigeniche specie-specifiche. La diagnosi di infezione batterica si basa principalmente sull’esame microscopico e colturale del materiale biologico; l’esame microscopico, la cui importanza è spesso sottovalutata, è un prezioso strumento di orientamento diagnostico precoce, talora imprescindibile (per es., nelle meningiti a liquor torbido e nella tubercolosi polmonare). L’esame colturale consente l’identificazione della specie e, se associato ad antibiogramma, permette di introdurre la terapia antibiotica mirata. Nelle infezioni batteriche in cui per svariati motivi risultino complesse o poco efficaci le metodiche tradizionali sono state sviluppate con successo metodiche diagnostiche alternative, quali la ricerca di anticorpi specifici (per es., nelle rickettsiosi), non specifici o reaginici (per es., nella sifilide), di antigeni del microrganismo (malattia dei legionari), del DNA batterico (borreliosi di Lyme). La tassonomia delle principali specie batteriche di interesse medico è raffigurata in tabella 75.2.
Tabella 75.2 - Classificazione schematica dei principali batteri di interesse medico. Cocchi Gram+ • Aerobi: Micrococcus • Aerobi-anaerobi facoltativi: Enterococcus, Staphylococcus, Streptococcus • Anaerobi: Peptococcus, Peptostreptococcus Bacilli Gram+ • Aerobi o aerobi-anaerobi facoltativi: Bacillus, Corynebacterium, Gardnerella, Erysipelotrix, Listeria • Anaerobi: Clostridium, Propionibacterium, Bifidobacterium Cocchi Gram– • Aerobi: Neisseria • Anaerobi: Veillonella Bacilli Gram– • Aerobi: Citrobacter, Enterobacter, Escherichia, Klebsiella, Morganella, Proteus, Providencia, Salmonella, Serratia, Shigella, Yersinia, Haemophilus, Pasteurella • Anaerobi: Bacteroides, Fusobacterium Batteri Gram– di forma bacillare o coccoide (coccobacilli) Acinetobacter, Bordetella, Brucella, Francisella, Kingella, Legionella, Moraxella, Pseudomonas Batteri Gram– di forma elicoidale Campylobacter, Helycobacter Bacilli alcool-acido resistenti Mycobacterium Batteri Gram+, forme ramificate con produzione di micelio Streptomyces, Nocardia, Actinomyces Batteri Gram-, parassiti intracellulari obbligati Coxiella, Erhlichia, Rickettsia, Bartonella, Chlamydia, Mycoplasma, Ureaplasma Spirochete (batteri Gram– di forma elicoidale) Borrelia, Treponema, Leptospira
Miceti o funghi I funghi sono microrganismi eucarioti, privi di clorofilla, a riproduzione sia sessuata che asessuata, aerobi obbligati o facoltativi, di dimensione superiore ai batteri. In base all’organizzazione del corpo fungino (tallo), i miceti si dividono in miceti superiori, muffe e lieviti. I miceti superiori producono grandi strutture fruttificanti per la disseminazione aerea delle spore e sono per lo più privi di interesse medico. Le muffe si sviluppano come filamenti ramificati, dette ife, che tendono a interconnettersi fino a formare un micelio. I lieviti infine sono cellule ovoidali o sferiche; si riproducono per gemmazione, più raramente attraverso la formazione di spore sessuate. Talora si aggregano a costituire pseudoife. Numerosi miceti hanno aspetto dimorfo (ife o lieviti), in relazione alle condizioni ambientali. In generale le micosi superficiali sono facilmente riconoscibili in base alla presentazione clinica; per la diagnosi delle micosi profonde, specie quelle di importazione, è sempre utile ricercare con attenzione gli ele-
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MALATTIE INFETTIVE
Tabella 75.3 - Classificazione dei principali miceti patogeni per l’uomo. ORDINE Zygomicotina
Entomorales Mucorales
GENERE Basidiobolus Conidiobolus Absidia, Mucor, Rhizopus
Ascomycotina
Endomycetales Onygenales
Saccharomyces Arthroderma Ajellomyces
Basidiomycotina
Agaricales Ustilagenales
Amanita, Agaricus Filobasidiella
Deuteromycotina Cryptococcales
Moniliales
Sphaeropsidales
Candida, Cryptococcus Trichosporon Malassezia Torulopsis Phialophora, Exophiala Wangiella Epidermophyton Coccidioides, Sporotrix Aspergillus Phoma
menti epidemiologici ed i fattori di rischio favorenti lo sviluppo della malattia. In tutte le micosi ha grande importanza l’esame citologico e/o istologico delle lesioni sospette, in grado di solito di confermare la diagnosi; l’esame colturale, tecnicamente non particolarmente complesso, richiede comunque un certo acume interpretativo per la possibilità di risultati falsamente positivi (per es., in seguito a crescita di flora commensale o di contaminazione in laboratorio). Le principali specie fungine patogene per l’uomo sono elencate in tabella 75.3. Protozoi Sono microrganismi eucarioti unicellulari, delle dimensioni comprese tra i 2 e i 100 micron; esternamente sono rivestiti da una membrana cellulare relativamente rigida, in grado per alcune specie (per es., le amebe) di modificare la propria morfologia fino all’e-
missione di pseudopodi, utili per la mobilità e per l’ingestione di sostanze nutritive: il protoplasma intracellulare è nettamente suddiviso in nucleo e citoplasma. I protozoi si riproducono prevalentemente per scissione, binaria o multipla; esiste tuttavia una certa varietà di strategie riproduttive: alcune specie, per esempio, seguono cicli vitali con fasi sessuate ed asessuate mentre altre sono in grado di dare origine a forme di sopravvivenza (cisti) quando le condizioni ambientali divengono sfavorevoli. La metodica più spesso impiegata per la diagnosi delle infezioni da protozoi è l’esame microscopico del materiale biologico verosimilmente infetto (per es., il sangue periferico nella malaria, il sangue midollare nella leishmaniosi, le feci nella colite amebica); la ricerca nel siero degli anticorpi specifici, quando disponibile, è un utile complemento diagnostico all’esame microscopico ed in alcuni casi, in primis la toxoplasmosi, costituisce il principale mezzo di accertamento diagnostico. Per contro, l’isolamento del parassita (esame colturale) viene assai raramente impiegato in quanto richiede specifiche tecniche e gestionali difficilmente compatibili con la normale attività del laboratorio di microbiologia. In tutti i casi l’epidemiologia costituisce un complemento indispensabile per la diagnosi delle infezioni sostenute dai protozoi. La tassonomia attuale dei protozoi si basa per lo più sulle loro caratteristiche morfologiche ed è riassunta in tabella 75.4. Elminti Sono organismi pluricellulari, le cui dimensioni variano da poche decine di micron ad alcuni metri. Provocano una grande varietà di forme cliniche, da quadri subclinici a gravi infezioni disseminate, in relazione alla specie, alle difese dell’ospite ed alla carica infestante; analogamente è ampia la varietà dei meccanismi patogenetici: per esempio, le specie dotate di uncini alle estremità aderiscono alla parete intestinale provocando anemia e ipoproteinemia; le larve migranti di alcune specie di trematodi possono raggiungere il circolo polmonare e il
Tabella 75.4 - Classificazione dei principali protozoi patogeni per l’uomo. CLASSE E PRINCIPALI CARATTERISTICHE
GENERE
VIE DI TRASMISSIONE
• Zoomastigophora: flagellati, riproduzione asessuata binaria
Trypanosoma Leishmania Giardia Trichomonas
Artropodi Artropodi Acqua o cibi contaminati Sessuale
• Rhizopodea: riproduzione asessuata binaria, locomozione tramite pesudopodi
Entamoeba Naegleria
Acqua o cibi contaminati Contatto mucoso con acque contaminate Come sopra
Acanthamoeba • Sporozoea: riproduzione sessuata e asessuata, gameti maschili flagellati, parassiti intracellulari obbligati per buona parte del ciclo vitale
Isospora Sarcocystis Cryptosporidium Plasmodium Toxoplasma
• Piroplasmea: riproduzione asessuata
Babesia
Acqua o cibi contaminati Trasmissione diretta o tramite la catena alimentare Acqua o cibi contaminati Artropodi Trasmissione verticale Trasmissione diretta o tramite la catena alimentare Artropodi
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Tabella 75.5 - Classificazione dei principali elminti patogeni per l’uomo. CLASSE E PRINCIPALI CARATTERISTICHE • Trematodi: vermi non segmentati, piatti, posseggono un apparato digerente a fondo cieco, hanno tutti un mollusco quale ospite intermedio • Cestodi: vermi piatti, nastriformi, sprovvisti di apparato digerente. Quali ospiti intermedi riconoscono artropodi o vertebrati, a seconda delle specie. Trasmessi prevalentemente per via alimentare, talora per contaminazione diretta • Nematodi: vermi cilindrici, provvisti di apparato digerente con apertura orale ed anale. Presentano sessi separati, la trasmissione avviene per contaminazione con acqua o alimenti o indirettamente tramite vettori (artropodi)
GENERE Schistosoma Clonorchis Paragonimus Taenia Hymenolepis Echinococcus Diphillobotrium
Trichinella, Capillaria, Trichuris, Strongyloides, Ancylostoma, Necator, Enterobius, Ascaris, Wuchereria, Brugia, Onchocerca, Loa
polmone; le stesse larve o le uova di alcune specie (Schistosoma) inducono reazione granulomatosa e danno d’organo. Per la diagnosi delle elmintiasi sono imprescindibili le notizie epidemiologiche e la ricerca di alcune peculiarità cliniche; i parassiti comunque sono non di rado evidenziabili ad occhio nudo (diagnosi macroscopica) e tramite l’esame microscopico mirato negli altri casi; l’indagine sierologica (ricerca degli anticorpi specifici) risulta talvolta utile quale conforto diagnostico nei casi dubbi piuttosto che per motivi epidemiologici. Alcune elmintiasi rappresentano un grave problema sanitario in vaste aree dei paesi in via di sviluppo, con alti indici di morbosità ed anche di letalità; è tuttavia da attendersi un significativo aumento di incidenza di queste patologie anche alle nostre latitudini, a seguito dei flussi migratori. La tassonomia delle principali elmintiasi di interesse medico è riassunta in tabella 75.5.
RELAZIONI TRA GLI AGENTI INFETTANTI E I SISTEMI DI DIFESA DEGLI ORGANISMI INFETTATI (*) Gli organismi superiori hanno sviluppato, nell’evoluzione biologica, dei meccanismi di difesa contro le infezioni che rientrano nei due campi dell’immunità aspecifica (o innata) e specifica (o adattativa). La prima ha il vantaggio di potere agire molto rapidamente contro una vasta pluralità di organismi infettanti, ma con minore efficacia della seconda, che è molto selettiva, ma più lenta a mettersi in azione, tranne quando lo sti(*) C. Rugarli
molo che l’ha sollecitata sia già stato sperimentato (memoria immunologica), o sotto forma di una pregressa infezione o di una vaccinazione. Un punto importante che viene spesso trascurato a proposito dell’immunità è che, per quanto sia fondamentale per fronteggiare le infezioni, i suoi successi non sono ottenuti senza pagare dei prezzi, che si riflettono sul quadro clinico delle malattie infettive. Si può anzi aggiungere che, se a livello della specie le reazioni immunitarie sono sempre vantaggiose, non è così a livello degli individui, che possono soffrire di gravi disturbi o addirittura morire per reazioni immunitarie troppo intense o inappropriate. Per fare solo un esempio, in era preantibiotica la polmonite da pneumococco aveva un’alta mortalità, e questa si verificava per lo più intorno alla 7a giornata di malattia. Sette giorni era infatti il tempo necessario per una buona risposta anticorpale, ma la lisi simultanea di un grande numero di microrganismi infettanti poteva portare alla liberazione massiva di prodotti microbici dannosi per l’organismo (si veda il Cap. 17). L’organismo infettato si trova perciò esposto, da un lato, all’interferenza metabolica e all’eventuale azione citopatica diretta dei microrganismi infettanti che si moltiplicano, e, dall’altro, alle reazioni sgradevoli inseparabili da una pur utile reazione immunitaria. Il quadro clinico della malattia infettiva deriva dalla sovrapposizione di questi due fattori. È certamente più facile soccombere al primo (da ciò la gravità delle infezioni nell’ospite immunologicamente compromesso), ma non è impossibile che anche il secondo risulti importante e addirittura letale. Immunità aspecifica Quando si verifica un’infezione, dopo che per un certo tempo gli organismi infettanti si sono replicati senza causare, per via del loro esiguo numero iniziale, né azioni dannose dirette né reazioni evidenti (periodo di incubazione), il primo evento che si verifica è la messa in moto dell’immunità aspecifica. Questo avviene attraverso la fagocitosi degli organismi infettanti da parte di granulociti neutrofili e cellule della linea monociti-macrofagi. Queste ultime secernono anche delle citochine (si veda in proposito il Cap. 68) che amplificano la reazione, a livello locale e generale. A livello locale provocano un’infiammazione, che può essere definita una concentrazione spaziale di cellule aggressive (intendendo per tali quelle capaci di fagocitare e distruggere i microrganismi infettanti). A livello generale le citochine provocano vari effetti. Le citochine comunemente definite “infiammatorie”, interleuchina-1 (IL-1), interleuchina-6 (IL-6), Tumour Necrosis Factor- (TNF-) agiscono a vari livelli: nel fegato inducendo la sintesi di proteine di fase acuta, come la proteina C reattiva ed altre ad attività simile (utili per favorire la fagocitosi dei microrganismi ai quali si attaccano, oltre che per attivare il complemento); nel midollo osseo determinando una mobilizzazione di granulociti neutrofili; sull’ipotalamo facendo salire la temperatura corporea (un processo che viene ritenuto utile per ridurre la replicazione virale o batterica); sul tessuto adiposo e su quello muscolare, con effetti catabolici che forniscono all’organi-
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smo un surplus di substrati energetici; sui linfociti T e B, che vengono attivati favorendo l’induzione dell’immunità specifica. Un altro meccanismo importante per fronteggiare le infezioni virali è la produzione di interferoni e (IFN- e IFN-). Queste sostanze sono prodotte da cellule infettate da virus ed hanno una diretta attività antivirale, interferendo con la replicazione dei virus nelle cellule non ancora infettate. Gli interferoni hanno alcune azioni generali simili a quelle delle citochine infiammatorie (per es., nell’induzione di febbre), ma agiscono in senso opposto sul midollo osseo, tendendo ad inibire la mielopoiesi. È probabilmente per questa ragione che la leucocitosi con neutrofilia, che è comune in molte malattie batteriche, non è di solito osservata in quelle virali. Esiste, infine, un’importante cooperazione tra le risposte delle cellule fagocitiche e la produzione di interferoni. Le prime, oltre a produrre citochine infiammatorie, secernono anche l’interleuchina-12 (IL-12). Quest’ultima collabora con IFN- e IFN- nell’attivare le cellule cosiddette “natural killer” (NK). Queste sono capaci di uccidere cellule infettate da alcuni virus ed anche da batteri intracellulari, come la Lysteria monocytogenes. La lisi di una cellula infettata è una misura piuttosto radicale per combattere un’infezione, ma è vantaggiosa in quanto sottrae al microrganismo infettante l’apparato indispensabile per la sua replicazione. Un punto importante è che cosa determini, in una cellula della linea monociti-macrofagi, lo stimolo a produrre le citochine infiammatorie. È adesso ben noto che su queste cellule esistono recettori particolari che sono sollecitati da sostanze presenti alla superficie di numerosi microrganismi infettanti (tra queste la più nota è il lipopolisaccaride batterico) che, conseguentemente, attivano la cascata citochinica che conduce all’infiammazione e agli effetti generali di cui si è parlato. Da quanto detto risulta ben evidente come, in cambio di una risposta immunitaria aspecifica di indubbia utilità, l’organismo debba accettare il prezzo della febbre, dell’astenia (legata agli effetti catabolici) e di altri sintomi sgradevoli. Alle volte, come nel caso dello shock settico, la liberazione massiccia di citochine infiammatorie e la cascata di eventi che ne deriva può mettere seriamente in pericolo la vita della persona infettata. Immunità specifica Perché si abbia l’induzione di una risposta immunitaria specifica primaria contro un microrganismo occorrono i seguenti eventi: • un precursore di una cellula professionale presentante gli antigeni, o cellula dendritica, deve fagocitare il microrganismo infettante; • questa cellula, se già non vi si trova, deve migrare in un organo linfatico secondario (linfonodi, milza, tessuto linfoide dell’apparato respiratorio e dell’intestino); • la cellula deve aver digerito il microrganismo infettante, scomponendo le sue proteine in peptidi;
MALATTIE INFETTIVE
• la cellula deve avere esposto in superficie questi peptidi montati su molecole MHC (Major Hystocompatibility Complex) di classe II (HLA-DR, DP, DQ nell’uomo); • linfociti T CD4+ con un recettore specifico complementare debbono legare il complesso formato tra le molecole MHC di classe II e peptidi, ed essere così attivati; • i linfociti T CD4+ così attivati possono collaborare con linfociti B e consentire la produzione di anticorpi specifici. Per i virus esiste un altro possibile meccanismo. I virus, infatti, possono inserire la loro informazione genetica nelle cellule infettate e proteine virali possono essere prodotte e riversate direttamente nel citosol. Si sa che le proteine del citosol delle cellule possono essere digerite alla giunzione del reticolo endoplasmico e degradate in peptidi che sono montati sulle molecole MHC di classe I (HLA-A, B e C nell’uomo) man mano che vengono generate e portate alla superficie cellulare. Qui linfociti T CD8+ con un recettore specifico complementare legano il complesso formato tra le molecole MHC di classe I e i peptidi e vengono attivati. È dubbio se questa induzione di una risposta immunitaria specifica possa avvenire ad opera di qualsiasi cellula parassitata da un virus, dato che, perlopiù, queste non sono cellule professionali presentanti gli antigeni. Ma il processo si può verificare per una via indiretta se le cellule parassitate dai virus vanno incontro a morte programmata, o apoptosi, e i frammenti cellulari che ne risultano, o corpi apoptotici, sono interiorizzati in precursori di cellule dendritiche. È stato dimostrato che gli antigeni veicolati dai corpi apoptotici nelle cellule dendritiche danno origine a peptidi montati su molecole MHC di classe I alla superficie di queste ultime. Comunque avvenga la presentazione di questi antigeni virali, il risultato ultimo è la generazione di linfociti T CD8+ capaci di lisare le cellule parassitate dai virus. Esistono collegamenti tra l’immunità aspecifica, o innata, e quella specifica, o adattativa. Abbiamo visto che un ruolo importante nell’induzione delle risposte immunitarie specifiche è svolto dalle cellule professionali presentanti gli antigeni o cellule dendritiche. Ma la produzione di citochine infiammatorie oltre, come si è visto, ad attivare i linfociti T e B, facilita anche la differenziazione delle cellule dendritiche, per esempio incrementando alla loro superficie le molecole MHC di classe II. In conclusione, l’instaurarsi di un’infiammazione crea condizioni propizie anche perché si avvii una risposta immunitaria specifica. Se passiamo dall’induzione delle risposte immunitarie specifiche al ruolo che svolgono, una volta instaurate, nella protezione contro le infezioni, vediamo che vari meccanismi sono in funzione. Gli anticorpi solubili, IgM e IgG (e, in qualche caso, anche IgA), possono legarsi alla superficie dei microrganismi e ucciderli attivando il complemento o opsonizzandoli, ossia rendendoli più sensibili alla fagocitosi da parte dei macrofagi. Gli anticorpi non hanno accesso all’interno delle cellule vive e perciò non possono eradicare i microrganismi a localizzazione intracellulare, come i virus e
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alcuni batteri. Per questo occorre l’attività delle cellule T CD4+ e CD8+. A questo punto occorre ricordare un importante fatto del quale si è parlato nei capitoli 49 e 68, cioè che i linfociti T CD4+, quando vengono attivati, possono prendere due orientamenti funzionali diversi e differenziarsi in linfociti TH1 e TH2. I linfociti TH1 sono più facilmente indotti in presenza di citochine come la IL-12 e l’interferone (IFN-). Entrambe queste citochine possono derivare dai processi di immunità aspecifica: la IL-12 è prodotta, come si è già visto, dai macrofagi che fagocitano i microrganismi, l’IFN- viene secreto dalle cellule NK quando sono attivate dalla IL-12 e dagli IFN- e . I linfociti TH1 a loro volta secernono la citochina interleuchina-2 (IL-2) (che agisce in senso autocrino per la loro replicazione e in senso paracrino favorendo la moltiplicazione di altri linfociti, compresi i CD8+) e vari altri fattori che favoriscono un’infiammazione aspecifica. Tra questi sono lo stesso IFN-, che attiva i macrofagi perché distruggano i batteri fagocitati (oltre a impartire l’orientamento TH1 ad altri linfociti), l’interleuchina-3 (IL-3) e il GranulocyteMonocyte Colony Stimulating Factor (GM-CSF) che inducono la differenziazione di macrofagi nel midollo osseo, il TNF- e (quest’ultimo chiamato anche linfotossina) che attivano le cellule endoteliali in modo che siano in grado di legare i macrofagi e favorire la loro fuoriuscita dall’interno dei vasi nella sede di infezione, e una chemochina con attività chemotattica positiva sui macrofagi. Perciò, quando una cellula TH1 “vede” alla superficie dei macrofagi lo stesso segnale che l’ha attivata, cioè un complesso formato da una molecola MHC di classe II sulla quale è montato un particolare peptide derivato da microrganismi infettanti, attira localmente altri macrofagi e li rende più efficienti, in modo che siano in grado di fagocitare e distruggere altri microrganismi che si trovano nei paraggi. Cioè si trasforma un rozzo strumento dell’immunità aspecifica in una potentissima arma dell’immunità specifica. Questo tipo di reazione dei linfociti TH1 è importante soprattutto per la difesa contro i micobatteri che provocano tubercolosi e lebbra. Nel caso della lebbra, se la risposta immunitaria è di tipo TH1, la malattia si presenta nella variante cosiddetta tubercoloide, con lesioni più circoscritte; se invece la risposta è di tipo TH2 la malattia si presenta sotto forma di lebbra lepromatosa, clinicamente ben più grave in quanto il sistema immunitario non fronteggia efficacemente l’infezione. Altre malattie nelle quali l’attività diretta dei linfociti TH1 è importante sono le infezioni da legionella, da rickettsie, da Chlamydia, da miceti, da protozoi e da schistosomi (in quest’ultimo caso, però, la reazione può avere un ruolo nella formazione dei granulomi). Come si è detto, i linfociti TH1 secernono IL-2 e perciò favoriscono la replicazione dei linfociti T CD8+. Questi sono importanti perché se “vedono” alla superficie di cellule infettate da organismi intracellulari, in particolare da virus, gli stessi segnali che li hanno attivati, ossia molecole MHC di classe I sulle quali sono montati particolari peptidi derivati dei microrganismi, uccidono le cellule che presentano questo segnale. Si è
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già visto come questo processo di citolisi sia utile per dominare le infezioni da organismi intracellulari. Questo tipo di reazione immunitaria è perciò importante nelle infezioni indotte da una pluralità di virus. I linfociti TH2 sono più facilmente indotti in presenza di citochine particolari, tra le quali l’interleuchina-4 (IL-4) è la più importante. Questa citochina può essere prodotta da una particolare variante delle cellule NK (NK 1-1+), oltre che dalle stesse cellule TH2 attivate. Queste ultime producono anche interleuchina-5 (IL-5), che aumenta la produzione di granulociti eosinofili e li attiva. Il ruolo dei linfociti T CD4+ con orientamento TH2 nelle infezioni è discusso. Questi linfociti esercitano un’azione helper su cellule B capaci di sintetizzare anticorpi della classe IgE. Sono, perciò, implicati nello sviluppo di allergia anche se, probabilmente, il ruolo fisiologico delle IgE è quello di difendere l’organismo contro le infestazioni di elminti. In questo caso, la liberazione di istamina e altre sostanze farmacologicamente attive da parte dei mastociti della parete intestinale influenza la motilità del viscere e potrebbe facilitare la espulsione dei vermi. Inoltre, l’accumulo locale di eosinofili può danneggiare gli elminti, in quanto i granuli di queste cellule contengono sostanze in grado di esercitare azioni lesive sui tessuti. Il problema più importante però è il ruolo dei linfociti TH2 nelle risposte anticorpali ordinarie, della classe IgG e IgA. È probabile che, perché questo avvenga, occorra un impegno simultaneo di linfociti TH1 e TH2. Comunque, i linfociti TH2 possono svolgere funzioni utili nell’immunità contro le infezioni, almeno per quegli effetti che possono essere mediati dall’azione di anticorpi. Si è visto che, in alcune infezioni, come per esempio nella lebbra, una reazione di tipo TH2 non riesce ad essere protettiva, e modelli sperimentali fanno supporre che questo sia il caso anche in altre infezioni (per es., nella leishmaniosi). Evasione dalle reazioni immunitarie da parte di virus Il sistema immunitario si è evoluto negli organismi superiori per attrezzarli a fronteggiare le infezioni. Ma anche, nello stesso tempo, i microrganismi sono andati incontro a cambiamenti evolutivi volti a renderli resistenti all’attacco delle reazioni immunitarie. Questo vale soprattutto per alcuni virus che hanno elaborato varie strategie per sopravvivere. Quando questo avviene a livello del singolo individuo si verifica il fenomeno della persistenza virale, ossia della permanenza indefinita del virus nell’organismo infettato, spesso senza effetti negativi per l’ospite. Anche nel caso di virus che non sono in grado di manifestare il fenomeno della persistenza, la loro sopravvivenza può essere assicurata a livello di popolazione, grazie alla capacità di alterare le proprie caratteristiche antigeniche, così da sfuggire alle reazioni immunitarie specifiche che si sono instaurate e diffuse in una pluralità di individui. Qui di seguito esporremo brevemente i meccanismi con i quali i virus riescono ad eludere il sistema immunitario dell’ospite.
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1. Tolleranza immunologica. Come è noto questo meccanismo consiste nella delezione o inattivazione dei cloni linfocitari capaci di rispondere specificamente a un determinato segnale antigenico, ed è molto importante durante la vita fetale per prevenire la reattività contro i costituenti del sé stesso. Nell’uomo sembra che questo possa avvenire nei riguardi del virus dell’epatite B (HBV). Più del 90% dei bambini nati da madri affette da epatite cronica da HBV diventano portatori sani di questo virus. Anche quando l’infezione da HBV si instaura nell’età adulta è possibile che un certo grado di tolleranza al virus possa stabilirsi. In questo caso le cellule che divengono tolleranti sono i linfociti T CD8+, potenzialmente dotati di attività citotossica sulle cellule infettate dal virus. 2. Ristretta espressione dei geni virali. Se un virus non esprime i propri geni diviene praticamente invisibile al sistema immunitario. Questo è il caso del virus dell’herpes simplex (HSV) che infetta latentemente i neuroni. In queste condizioni l’espressione dei geni del virus è completamente arrestata, eccetto che per la trascrizione di una singola regione del genoma. Naturalmente, un certo tipo di espressione genica è indispensabile quando i virus si debbono replicare. Per esempio, il virus di Epstein-Barr (EBV) può infettare allo stato latente i linfociti B, dove il suo patrimonio genetico può essere contenuto a livello episomico. Tuttavia, se il virus deve seguire le replicazioni dei linfociti B, deve replicarsi esso stesso e per fare questo è necessaria l’espressione di una delle proteine che sono codificate dal suo genoma, in particolare la proteina chiamata EBNA-1. Come questa sfugga alla sorveglianza immunologica si vedrà in seguito. 3. Infezione di siti immunologicamente privilegiati. Un sito di difficile accesso per il sistema immunitario è il sistema nervoso centrale. Questo dipende dal fatto che la barriera emato-encefalica limita il traffico di linfociti attorno ai neuroni, ma anche alla caratteristica di queste cellule di esprimere alla superficie poche molecole MHC (nessuna di classe II e pochissime di classe I). Dato che i segnali riconosciuti dai linfociti T sono rappresentati da peptidi virali montati su molecole MHC, ne consegue che i virus che infettano le cellule non sono riconoscibili. Perciò nel sistema nervoso centrale si può avere persistenza di HSV, del virus varicella-zoster e dei virus del morbillo e della rosolia. Per ragioni meno chiare sono siti immunologicamente privilegiati le cellule dei tubuli renali (nelle quali può persistere il cytomegalovirus, CMV), quelle delle ghiandole salivari (persistenza di CMV ed EBV) e quelle dell’epidermide (persistenza del papillomavirus). 4. Soppressione alla superficie cellulare di molecole necessarie per il riconoscimento da parte delle cellule T. Ci sono virus che sono in grado di sopprimere la espressione alla superficie delle cellule infettate di molecole quali quelle MHC o molecole di adesione, importanti per la presentazione dei segnali antigenici. Tra questi ci sono gli adenovirus, il CMV, l’HSV e il virus HIV che sopprimono l’espressione di molecole MHC di classe I, il CMV, il virus HIV e quello del morbillo
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che sopprimono l’espressione di molecole MHC di classe II, e l’EBV che deprime l’espressione di alcune molecole di adesione. 5. Interferenza con la presentazione antigenica. Questo avviene quando i virus producono proteine che sono resistenti alla digestione da parte dell’apparato a questo destinato che si trova nel citosol delle cellule (e che si chiama proteasoma). Una proteina con queste caratteristiche è l’EBNA-1 del virus EBV. Altri virus bloccano il sistema di trasporto dei peptidi generati nel citosol delle cellule infettate e quindi il loro montaggio sulle molecole MHC di classe I. Questo è il caso di HSV e CMV. 6. Interferenza con la funzione di citochine e chemochine. Gli adenovirus producono proteine che inibiscono la funzione degli interferoni, una proteina dell’EBV blocca la sintesi di citochine come la IL-2 e l’IFN-. 7. Elusione dei virus dal riconoscimento da parte degli anticorpi e delle cellule T. Questo avviene per effetto di mutazioni che alterano le proteine virali in siti di vitale importanza per il loro riconoscimento da parte del sistema immunitario. Il classico esempio è la “deriva antigenica” del virus influenzale. Questo virus non è capace di sviluppare il fenomeno della persistenza, ma, grazie alla deriva antigenica, si assicura la sopravvivenza a livello di popolazione. Anche se il meccanismo è meno chiaro, è probabile che mutazioni a carico di proteine virali siano importanti per la persistenza dell’HIV. Meno comuni sono mutazioni che rendono i peptidi virali, dopo che sono stati montati sulle molecole MHC, non più riconoscibili da parte del recettore dei linfociti T. Il fenomeno si può verificare per l’HIV, il virus EBV e l’HBV.
EPIDEMIOLOGIA L’epidemiologia è la scienza che studia gli eventi; in medicina questa disciplina studia prevalentemente gli stati di salute e di malattia delle popolazioni, costituendo in tal modo uno degli strumenti fondamentali della sanità pubblica e della politica sanitaria a qualunque livello. L’approccio epidemiologico è sperimentale quando prevede la modificazione di un parametro e lo studio di una variabile ad essa dipendente (per es., l’effetto di una campagna vaccinale in una certa regione); l’approccio osservazionale indaga invece una realtà precostituita. Comunemente le conoscenze epidemiologiche si acquisiscono attraverso due modalità. 1. Studi trasversali o di prevalenza: descrivono la presenza o assenza di un evento in un ambito temporale ristretto o istantaneo all’interno di un ambito spaziale variabile in relazione al quesito dell’indagine; questo tipo di studio fornisce dunque una “istantanea” di un evento in una popolazione, per es. quante persone risultano affette da diabete nella città di Aosta nel mese di dicembre del 2004.
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2. Gli studi di incidenza o longitudinali descrivono gli eventi in un ambito spaziale definito (di solito la popolazione in esame) in un certo arco temporale; per esempio il numero di casi di influenza verificatisi nel corso dell’inverno 2003-2004 (arco temporale) nella popolazione della città di Aosta (ambito spaziale definito). Oggi l’epidemiologia applicata costituisce uno degli strumenti più importanti per la sorveglianza della salute delle popolazioni; le strutture che un sistema sanitario progredito dedica specificamente alla sorveglianza delle malattie infettive sono essenzialmente gli osservatori epidemiologici e gli uffici di igiene e profilassi presso il dipartimento di Prevenzione, cui spettano le funzioni di sorveglianza e prevenzione oltre alle misure eventualmente necessarie in situazioni particolari al fine di tutelare la salute pubblica (per es., in occasione di un caso di meningite meningococcica in una comunità chiusa). Lo strumento principale di comunicazione tra la sanità territoriale e/o ospedaliera ed i succitati presidi è la notifica di malattia infettiva, di cui si dirà nel prossimo paragrafo. Per alcune malattie o circostanze di particolare importanza vi possono essere strutture di monitoraggio epidemiologico espressamente dedicate; è il caso del Centro Operativo AIDS (COA) presso l’Istituto Superiore di Sanità di Roma. Nell’approccio ad un caso sospetto di malattia infettiva è inoltre di assoluta rilevanza l’anamnesi epidemiologica sul singolo paziente, tesa a rilevare i fattori di rischio e gli elementi favorenti lo sviluppo dell’infezione (Tab. 75.6), presenti in ogni paziente spesso sovrapposti e variamente associati. Quel che segue, infine, è uno schema della principale terminologia d’uso in epidemiologia clinica. Tasso di mortalità: numero di morti/popolazione a rischio. Tabella 75.6 - Principali elementi di anamnesi epidemiologica nel sospetto di una malattia infettiva. • Età del paziente, condizione socioeconomica, contesto familiare, eventuale residenza in comunità (caserme, scuole, carceri) • Abitudini di vita (alcolismo, tossicodipendenza, abitudini sessuali) • Attività lavorativa • Esposizione ad animali, esposizione a vettori • Viaggi, specie se in aree endemiche per l’infezione sospettata e/o in paesi in via di sviluppo • Esposizione a veicoli di infezione, in particolar modo ingestione di liquidi o cibi potenzialmente contaminati
Tasso di letalità: numero di morti per una data malattia/numero di casi della stessa. Serbatoio: la specie o le specie che offrono il migliore habitat per la replicazione di un microrganismo, garantendone la perpetuazione. Sorgente di infezione: il punto di partenza, all’interno del serbatoio dell’infezione, da cui si propaga il microrganismo patogeno, di solito attraverso una via di eliminazione (intestinale, respiratoria, urinaria, ecc.). La sorgente di infezione più comune è costituita dall’individuo ammalato o dal portatore. Il portatore è un soggetto contagioso senza segni attuali di malattia; è detto convalescente quando alla guarigione clinica non è ancora seguita quella microbiologica; precoce quando l’inizio della contagiosità precede l’insorgere della malattia; asintomatico quando la contagiosità si ha in assenza di malattia, anche per periodi prolungati di tempo. Una malattia infettiva si definisce endemica quando presente in una certa popolazione o area geografica con casi apparentemente non collegati tra loro secondo tassi di incidenza e prevalenza tendenzialmente stabili. L’andamento epidemico si ha invece quando l’incidenza di una malattia infettiva supera quella attesa nel lasso di tempo considerato. Quando l’evento epidemico si manifesta contemporaneamente in più aree geografiche si parla invece di pandemia. La trasmissione di un microrganismo si definisce diretta quando avviene dalla sorgente all’individuo ricevente, per esempio dopo contatto cutaneo o salivare (microparticelle di Flugge). Nella trasmissione indiretta il microrganismo raggiunge l’individuo ricevente mediante entità terze, divise in veicoli e vettori. I veicoli di infezione rappresentano il tramite inanimato per la trasmissione del microrganismo; i più frequenti sono l’acqua, l’aria, gli alimenti, i cosiddetti fomiti, oggetti contaminati e, veicolo sui generis ma assai importante, la mano umana. I vettori di infezione sono essenzialmente gli artropodi, che possono trasmettere il microrganismo passivamente oppure essere parte del ciclo vitale dello stesso. Da qualche anno, infine, il medico dispone di numerosi importanti siti nazionali ed esteri, per lo più istituzionali, di divulgazione epidemiologica, tra i quali meritano una citazione almeno i seguenti: • www.cdc.gov • www.who.int • www.euro.who.int/eprise/main • www.eurosurveillance.org • www.levaccinazioni.it • www.simi.iss.it • www.epicentro.iss.it
• Ricovero in ambiente ospedaliero • Trasfusione di sangue o emoderivati • Alterazioni dei meccanismi di difesa dell’ospite: oltre a quelle già citate (alcolismo), malnutrizione, neoplasie, terapie immunosoppressive, broncopneumopatia cronica ostruttiva, tutte le immunodeficienze primitive e secondarie
PROFILASSI Si intende per profilassi aspecifica l’insieme di norme di igiene individuale e collettiva tese a controllare la diffusione delle malattie infettive fino a favorirne in qualche
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caso l’eradicazione; le misure di profilassi aspecifica sono numerose e non di rado estremamente complesse, sconfinando per la loro stessa natura nelle abitudini culturali delle popolazioni oltreché in ambiti di politica sanitaria e politico/economici tout-court; si pensi, per esempio, che la migliore misura di profilassi aspecifica in vaste aree del pianeta consisterebbe senz’altro nella correzione della denutrizione/malnutrizione, motivo determinante di gravi e articolate immunodeficienze secondarie, a loro volta responsabili degli elevati tassi di letalità per malattie infettive di solito ad andamento clinico benigno nell’ospite immunocompetente (morbillo, influenza e tante altre). Tra le principali misure di profilassi aspecifica delle malatie infettive occorre almeno ricordare: • l’informazione/educazione permanente delle popolazioni (educazione igienico/sanitaria, educazione sessuale), da iniziare nelle scuole e da proseguire nelle comunità e nei luoghi di lavoro; • la politica ambientale ed il risanamento ecologico; • il corretto sistema di raccolta e smaltimento dei liquami; • il controllo del bestiame e l’integrazione con i servizi e le strutture di sorveglianza veterinaria; • l’uso razionale degli ospedali e degli antibiotici. Le misure di profilassi specifica sono invece indirizzate contro una determinata malattia infettiva; le principali sono l’immunizzazione attiva (vaccinazioni) e passiva, tramite l’inoculazione di sieri iperimmuni o, più frequentemente, di immunoglobuline. I vaccini possono essere preparati con microrganismi vivi e attenuati; tale approccio presenta alcuni importanti vantaggi: • la replicazione in vivo del microrganismo (aumento della carica antigenica e dunque maggiore efficacia teorica); • la presenza di numerosi siti immunogenici; • lo stimolo immunitario specifico nella sede anatomica dell’infezione naturale. I vaccini vivi attenuati sono da impiegare con prudenza e sono talora del tutto controindicati nelle principali immunodeficienze primitive e secondarie. I vaccini uccisi o inattivati offrono una protezione di minor durata e spesso anche ad insorgenza più tardiva rispetto ai precedenti, per contro sono meglio tollerati. Alcuni vaccini (antitetanico, antidifterico) sono preparati con tossine inattivate (tossoidi); anche in questo caso l’immunità è di durata relativamente breve, richiedendo somministrazioni multiple. L’attuale normativa italiana prevede un calendario di vaccinazioni obbligatorie in età infantile, alcune vaccinazioni obbligatorie per alcune categorie di cittadini, alcune vaccinazioni facoltative. L’insieme delle vaccinazioni disponibili oggi in Italia e delle vaccinazioni in avanzato stato di sperimentazione è riassunto in tabella 75.7. Le immunoglobuline nella profilassi specifica possono essere specifiche o non-specifiche. Nel primo caso sono ottenute da siero di soggetti convalescenti e trovano indicazioni piuttosto limitate: esposizione al virus dell’epatite B nel neonato da madre HBsAg positiva o dopo esposizione professionale, nelle
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Tabella 75.7 - Le vaccinazioni. ETÀ
VACCINAZIONE CONTRO
Vaccinazioni obbligatorie estensive 3° mese Poliomielite/Tetano/Difterite/Epatite B 5° mese Le stesse 11° mese Le stesse 3° anno Poliomielite Per i non vaccinati in precedenza 12° anno Epatite B Dopo 1 mese La stessa Dopo 6 mesi La stessa Vaccinazioni facoltative e raccomandate 3°, 5° e 11° mese Pertosse 15° mese Morbillo, rosolia, parotite epidemica 5°-6° anno Le stesse Entro il 5° anno Infezioni invasive da Haemophilus influenzae di tipo b Vaccinazioni obbligatorie per alcune categorie • Tubercolosi: solo in soggetti cutinegativi alla reazione tubercolinica. Militari di leva, studenti di medicina, figli di personale in servizio presso ospedali sanatoriali, personale in servizio presso strutture di assistenza psichiatrica • Febbre tifoide: addetti alla pulizia e alla disinfezione degli ospedali, al trasporto dei malati, all’approvvigionamento idrico, alla lavorazione del latte, militari di leva • Tetano (rivaccinazione): numerose categorie professionali (agricoltori, spazzini, stradini, operai e manovali edili, lavoratori del legno) • Meningite meningococcica (sierogruppi A e C): reclute Altre vaccinazioni facoltative • In Italia Antinfluenzale, antipneumococcica, antiepatite A, antivaricella, anticolerica, antiamarillica • Comunità Europea Antipeste, anticarbonchio, antifebbre Q, antibrucellosi, antileptospirosi, antitularemia, antiencefalite centroeuropea
ferite potenzialmente tetanigene in soggetti non vaccinati, nella profilassi della rabbia (contemporaneamente alla vaccinazione), nelle infezioni da varicella-zoster virus in neonati o adulti immunodepressi. Le immunoglobuline standard trovano indicazione principale nelle ipo-globulinemie congenite o transitorie, nella profilassi dei contatti esposti di pazienti con epatite acuta A, nella piastrinopenia correlata ad infezione da HIV, nella rosolia in gravidanza se la donna non desidera effettuare l’aborto terapeutico. Infine, l’uso di antisieri di origine animale è stato quasi del tutto abbandonato per l’elevata incidenza di reazioni avverse, talora gravi (malattia da siero, anafilassi), con l’eccezione dei preparati contro il morso di serpenti e di alcuni artropodi e per la terapia del botulismo. Qualunque medico venga a conoscenza di una malattia infettiva e contagiosa è tenuto alla messa in opera tempestiva di alcune semplici ma indifferibili misure tese a circoscrivere il contagio ed allo stesso tempo ad aggiornare le autorità sanitarie sull’andamento epidemiologico delle malattie contagiose; lo strumento prin-
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Tabella 75.8 - Malattie infettive soggette a denuncia obbligatoria. • Classe 1a, segnalazione entro 12 ore
Colera, febbre gialla, febbre ricorrente epidemica, febbri emorragiche virali, peste, poliomielite, tifo esantematico, botulismo, difterite, influenza con isolamento virale, rabbia, tetano, trichinosi
• Classe 2a, segnalazione entro 48 ore
Blenorragia, brucellosi, diarree infettive non da salmonella, epatite A, epatite B, epatite C, febbre tifoide, legionellosi, leishmaniosi cutanea e viscerale, leptospirosi, listeriosi, meningoencefalite acuta virale, meningite meningococcica, morbillo, parotite, pertosse, rickettsiosi, rosolia, salmonellosi minori, scarlattina, sifilide, tularemia, varicella
• Classe 3a, segnalazioni secondo flussi informativi specifici
AIDS, lebbra, malaria, tubercolosi, micobatteriosi non tubercolari
• Classe 4a, entro 24 ore
Dermatofitosi, infezioni, tossinfezioni e infestazioni di origine alimentare, pediculosi, scabbia
• Classe 5a
Malattie infettive e diffusive non comprese nelle classi precedenti, zoonosi indicate nel regolamento di polizia veterinaria
cipale a tal fine dedicato è la notifica di malattia infettiva. L’obbligo di notifica di malattia infettiva ha acquisito ulteriore rilievo giuridico in anni recenti in seguito alla definizione formale del medico ospedaliero quale pubblico ufficiale, ciò che fa dell’omessa denuncia una fattispecie penale. La denuncia di malattia infettiva, da redigere su apposito modulo, va inoltrata ai settori di Igiene e Medicina Preventiva della ASL territoriale competente; le infezioni soggette a denuncia obbligatoria sono suddivise in cinque classi di appartenenza, secondo caratteristiche comuni, e sono riassunte nella tabella 75.8. È da sottolineare che la denuncia: • deve essere tempestiva (da 12 a 48 ore a seconda delle malattie) e deve essere anticipata telefonicamente in casi di particolare rischio per la popolazione; • non esime il medico che segnala il caso dalla messa in opera immediata delle misure urgenti atte a contenere il diffondersi dell’infezione, quali per esempio la chemioprofilassi dei contatti (meningite meningococcica) e l’isolamento del malato (tubercolosi polmonare); il compito delle ASL sarà comunque quello di avviare l’indagine epidemiologica, di perfezionare le misure non urgenti di profilassi e di comunicare le informazioni alle autorità sanitarie centrali.
Per alcune malattie vanno segnalati anche i casi sospetti, per le altre vengono richiesti dei criteri diagnostici, suddivisi in clinici, microscopici, sierologici e colturali. Infine, alcune malattie infettive richiedono particolari misure di profilassi, quali l’isolamento, che deve essere obbligatoriamente ospedaliero per i malati di colera, febbri emorragiche virali, febbre gialla, peste, tifo esantematico; per altre malattie può essere invece disposto l’isolamento fiduciario domiciliare.
ESAMI DI LABORATORIO (*) La diagnosi eziologica di malattia infettiva si basa sulla dimostrazione del microrganismo nei campioni biologici dell’ospite. Le indagini di laboratorio, guidate dai dati clinici ed epidemiologici, includono esami aspecifici volti ad evidenziare l’esistenza di un processo flogistico ed esami specifici, volti alla dimostrazione diretta o indiretta (attraverso lo studio della risposta immunologica specifica o delle lesioni istologiche associate) dell’agente eziologico. In questo ambito, una stretta collaborazione tra microbiologo e clinico si rivela fondamentale nell’identificare il percorso più idoneo per raggiungere la diagnosi nel più breve tempo possibile, al minor costo possibile e nel modo meno invasivo per il paziente. A. Esami aspecifici. È buona regola nel sospetto di malattia infettiva effettuare esami di laboratorio semplici, quali l’esame emocromocitometrico, la determinazione della VES, della PCR, delle proteine infiammatorie della fase acuta e della funzionalità epatica e renale, utili nell’orientare e nel circoscrivere il sospetto diagnostico ad un determinato gruppo di patogeni. Modificazioni dei leucociti sono frequenti nel corso di numerose malattie infettive: le infezioni da batteri Gram+, soprattutto in corso di infezioni acute e localizzate (ascessi, suppurazioni), sono accompagnate da una spiccata leucocitosi neutrofila, mentre le infezioni da batteri Gram– (ad eccezione dei cocchi) da una leucocitosi neutrofila più modesta. L’infezione tubercolare, le micosi, le infezioni da clamidie e alcune virosi in genere non inducono modificazioni sostanziali dei neutrofili circolanti, mentre il tifo addominale e molte altre salmonellosi, la brucellosi, la maggior parte delle infezioni virali e molte forme da rickettsie, protozoi ed elminti si accompagnano abbastanza tipicamente a neutropenia; infezioni quali la mononucleosi infettiva, l’epatite virale, la pertosse, la tubercolosi sono caratteristicamente accompagnate da una linfocitosi relativa, mentre un aumento significativo degli eosinofili è frequentemente riscontrabile in corso di infestazione elmintica. Modificazioni della serie eritroide, in particolare l’anemia delle malattie imfiammatorie croniche (Cap. 44), accompagnano frequentemente le infezioni croniche; episodi emolitici clinicamente rilevanti possono invece (*) R. Vaiani, A. Castagna
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aver luogo nelle infezioni da Clostridium perfringens (tossina), malaria e bartonellosi (parassitismo intraeritrocitario), nelle infezioni da Mycoplasma pneumoniae (agglutinine a frigore), nella mononucleosi infettiva (autoanticorpi emolitici). Svariate condizioni infettive sono a volte responsabili di una piastrinopenia con meccanismi patogenetici differenti: danno endoteliale (endocarditi, leptospirosi, rickettsiosi), fenomeni autoimmuni, incrementato sequestro splenico (epatiti croniche, leishmaniosi viscerale, malaria), riduzione della mielopoiesi. Una grave complicanza emocoagulativa è costituita dalla coagulazione intravascolare disseminata e dalle successive emorragie di consumo: la sepsi meningococcica è la condizione più nota in cui tale sindrome può verificarsi. L’aumento della velocità di eritrosedimentazione (VES) risulta causato dall’incremento nel plasma di fibrinogeno, -globuline, C3, 1-antitripsina, orosomucoide e aptoglobina. Nell’ambito delle malattie infettive, le più consistenti modificazioni della VES si osservano nel corso di infezioni da batteri Gram+ (cocchi e bacilli, aerobi, anaerobi), da cocchi Gram– e da bacilli tubercolari. La proteina C reattiva (PCR) riveste un significato analogo alla VES. È una proteina sierica, abitualmente assente in soggetti sani, precipitabile con il polisaccaride C dello pneumococco, aspecificamente presente in occasione di situazioni morbose che evocano risposte infiammatorie. La determinazione della PCR, la cui quantità appare correlabile all’entità della flogosi in atto, si è rivelata particolarmente utile nella valutazione dell’andamento dell’infezione e nel monitoraggio della risposta terapeutica. B. Esami specifici. La dimostrazione diretta o indiretta dell’agente eziologico nei materiali biologici si avvale di metodologie diversificate in relazione al tipo di microrganismo in causa (batteri, virus, miceti, protozoi, elminti). 1. Tecniche microbiologiche. Il laboratorio di microbiologia dispone di indagini principalmente volte a identificare il microrganismo causa di malattia e determinarne la sensibilità al trattamento antibiotico. Il campione biologico da esaminare deve essere scelto in base alle conoscenze della via di eliminazione e della localizzazione del microrganismo nelle varie fasi dell’infezione. Il materiale da analizzare deve essere prelevato possibilmente prima dell’inizio della terapia antibiotica, in modo idoneo, onde evitare un’eccessiva contaminazione con microrganismi commensali presenti comunemente sulla cute e sulle mucose, e in quantità sufficiente a consentire l’isolamento del patogeno; una volta prelevato deve essere rapidamente inviato in laboratorio. I materiali biologici possono essere suddivisi in primitivamente sterili o contaminati. Nei primi (sangue, liquor, liquido pleurico, pericardico, peritoneale, sinoviale, frammenti bioptici) qualsiasi specie batterica isolata riveste per definizione significato clinico, con l’unica eccezione per i contaminanti i terreni di coltura che possono intervenire nei vari procedimenti biologi-
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ci. I materiali primitivamente contaminati (urine, feci, espettorato, secrezioni uretrali e vaginali) richiedono invece procedure laboratoristiche più complesse volte ad evidenziare nel contesto della numerosa flora contaminante la specie patogena sospetta. L’esame microscopico è l’indagine microbiologica più semplice e di indubbia utilità diagnostica poiché i risultati disponibili in tempo breve consentono in molte situazioni di guidare l’impostazione della terapia antibiotica empirica. L’esame a fresco o con colorazioni specifiche consente di evidenziare la presenza di batteri, miceti, protozoi, elminti; l’indagine non può essere applicata ai virus a causa delle loro dimensioni submicroscopiche. L’esame a fresco delle feci in sospensioni saline o trattate con iodio consente di evidenziare un’infezione da protozoi (amebe, giardie) o da elminti (ascaridiasi, strongiloidiasi, anchilostomiasi), l’esame in contrasto di fase consente l’osservazione di microrganismi dotati di motilità (per es., le spirochete nelle lesioni genitali), l’utilizzo dell’inchiostro di china consente di evidenziare criptococchi nel liquor, la colorazione di Gram consente di differenziare tra microrganismi con una spessa parete cellulare (Gram+) e microrganismi la cui membrana esterna viene dissolta da alcool o acetone (Gram–). L’isolamento in coltura del microrganismo (batteri, miceti) è l’indagine fondamentale ai fini di una diagnosi eziologica in quanto offre il vantaggio di poter giungere alla completa identificazione di genere, specie, biotipo, sierotipo e fagotipo nonché alla determinazione della sensibilità agli antibiotici. I batteri sono generalmente coltivabili in terreni acellulari con relativa facilità: sussistono tuttavia difficoltà per alcuni gruppi, quali gli anaerobi obbligati, Haemophilus spp, i micoplasmi, le leptospire e i batteri a comportamento similvirale come clamidie e rickettsie. Alcune specie non sono per nulla coltivabili (Bartonella spp). Nel corso degli ultimi anni, per ovviare alle scarse capacità di rilevamento della crescita microbica nel sangue, sono stati sviluppati sistemi che consentono, attraverso il monitoraggio automatico ripetuto delle emocolture, di ottenere informazioni preliminari più rapide sulla crescita microbica tramite la rilevazione della CO2 prodotta dal microrganismo in crescita. Una volta isolato in coltura il microrganismo può essere identificato attraverso diverse procedure quali l’osservazione macroscopica delle caratteristiche delle colonie, l’osservazione al microscopio ottico dopo colorazione di Gram, l’osservazione degli effetti della crescita batterica su terreni differenziali o la dimostrazione mediante prove biochimiche della presenza di alcuni sistemi enzimatici, caratteristici di ogni specie. La determinazione della sensibilità agli antimicrobici del microrganismo isolato può essere effettuata con un approccio di tipo qualitativo, mediante l’utilizzo di alcune definizioni (sensibile, intermedio, resistente) o di tipo quantitativo attraverso il calcolo della MIC (Minimum Inhibitory Concentration), vale a dire la più bassa concentrazione di antibiotico in grado di inibire la crescita microbica, e la MBC (Minimum Bactericidal Concentration), vale a dire la minima concentrazione di antibiotico necessaria ad uccidere il microrganismo isolato.
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Essendo i virus parassiti obbligati endocellulari, l’isolamento virale consiste nella semina del materiale patologico opportunamente scelto su un substrato biologico (colture cellulari, animali da esperimento) permissivo nei confronti del virus che si vuole isolare. L’identificazione del virus cresciuto in coltura può quindi avvenire attraverso l’osservazione di particolari effetti sulle colture cellulari o nell’animale inoculato. La tecnica più semplice consiste nell’osservazione dell’eventuale effetto citopatico nel mezzo di coltura, in alcuni casi così caratteristico (herpes simplex) da consentirne l’identificazione definitiva; altri metodi sfruttano il fenomeno dell’emoagglutinazione comune ai virus che posseggono in superficie recettori in grado di agglutinare le emazie (virus dell’influenza, del morbillo, della parotite, enterovirus, adenovirus); altri virus, non citopatici né emoagglutinanti, vengono identificati in base al fenomeno dell’interferenza virale (virus della rosolia). In alternativa, il monitoraggio della crescita virale può essere ottenuto con la metodica dell’immunofluorescenza. L’isolamento virale richiede generalmente laboratori specializzati e tempi lunghi, spesso incompatibili con i tempi clinici; in molte situazioni questa difficoltà viene superata col ricorso alle tecniche sierologiche e di biologia molecolare che consentono di evidenziare e quantizzare esattamente nel mezzo di coltura o nel campione biologico del paziente le molecole (antigeni e acidi nucleici) prodotti dal virus. 2. Tecniche sierologiche. Nel corso di un’infezione, l’organismo produce anticorpi specifici contro l’agente infettante. L’interazione tra antigene e corrispettivo anticorpo produce una reazione evidenziabile in un opportuno sistema in vitro definita reazione sierologica, caratterizzata, in virtù della selettività del riconoscimento antigene-anticorpo, da un’elevata specificità. Gli anticorpi possono persistere per anni o addirittura per tutta la durata della vita del soggetto; pertanto la semplice individuazione, nel siero di un paziente, di un anticorpo, anche a titolo elevato, non è, con alcune eccezioni, diagnostica di infezione in atto. Nella maggioranza dei casi essa consente di conoscere solo lo stato di immunità di un soggetto nei confronti di un microrganismo; la diagnosi sierologica di infezione in atto si basa sul confronto del risultato ottenuto a partire da due campioni di siero prelevati in due momenti diversi nel corso dell’infezione (comparsa nel secondo campione di anticorpi assenti nel primo campione o sieroconversione) o di un aumento significativo (almeno 4 volte) del precedente titolo anticorpale. Strategia alternativa per la diagnosi sierologica di infezione in atto è la ricerca di anticorpi di classe IgM, che, salvo alcune eccezioni, compaiono molto precocemente nel corso dell’infezione e tendono a scomparire rapidamente.
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La ricerca di un antigene circolante o intracellulare mediante opportuno antisiero e la sua quantizzazione mediante tecniche dirette (ELISA, RIA) rappresenta uno dei mezzi diagnostici più importanti in virologia, poiché il rilevamento di un antigene costituisce un sicuro segno di infezione. Tale ricerca risulta di particolare importanza soprattutto per l’identificazione di microrganismi non isolabili in coltura (HBV). Molti metodi consentono il rilevamento della reazione antigene-anticorpo in modo diretto (ELISA, RIA, RIPA, immunofluorescenza, immunoblotting) o indiretto mediante l’evidenziazione di anticorpi con una particolare attività biologica (reazioni di precipitazione, di agglutinazione, di fissazione del complemento, di neutralizzazione, di inibizione dell’emoagglutinazione). 3. Tecniche di biologia molecolare. La possibilità di identificare nei campioni clinici sequenze specifiche dell’acido nucleico (DNA o RNA) del microrganismo in causa ha notevolmente ampliato gli orizzonti diagnostici in campo microbiologico. Le tecniche di biologia molecolare consentono infatti di identificare il patogeno anche nel caso di microrganismi che crescono molto lentamente o non crescono in coltura (micobatteri, virus dell’epatite B e C, rotavirus), di individuare microrganismi coltivabili con una sensibilità pari o superiore all’isolamento, in tempi più rapidi e in presenza di terapia antibiotica, di precisare la localizzazione del microrganismo nelle cellule o nei tessuti del paziente e di valutarne lo stato di attività determinando il livello di espressione di mRNA specifici. La reazione di ibridazione molecolare può essere utilizzata per individuare l’acido nucleico o mutazioni genomiche anche puntiformi di un microrganismo nel materiale in esame; la reazione di ibridazione in situ consente di ricercare direttamente l’acido nucleico nelle celllule o nei tessuti, opportunamente fissati su vetrino. La reazione a catena della polimerasi (Polymerase Chain Reaction, PCR) consiste in un’amplificazione in vitro di specifiche sequenze di regioni “costanti” del DNA del microrganismo, che permette l’individuazione con i comuni metodi di ibridazione di minime quantità di acido nucleico, di per sé non sufficienti a determinare un segnale rilevabile. Pur con alcuni limiti legati alla possibile presenza di inibitori nei campioni biologici, alla possibilità di contaminazione del campione in esame nonché alle difficoltà interpretative del risultato, l’utilizzo della PCR nella routine microbiologica, in particolare per l’identificazione di virus (HIV, HCV) e batteri di difficile isolamento (micobatteri e clamidie), si è ormai consolidata. Nell’ambito dell’infezione da HIV, le tecniche di biologia molecolare vengono oggi utilizzate anche per l’individuazione di mutazioni genomiche puntiformi associate allo sviluppo di resistenze nei confronti dei farmaci antiretrovirali.
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C A P I T O L O
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MALATTIE ESANTEMATICHE R. NOVATI
CARATTERISTICHE GENERALI DEGLI ESANTEMI Si definisce esantema un’eruzione cutanea caratterizzata da lesioni elementari del derma e dell’epidermide, variamente associate tra di loro; quando la lesione esantematica interessa le mucose visibili (tipicamente quelle del cavo orale) viene definita enantema. Non tutti gli esantemi sono di origine infettiva, potendosi avere anche in corso di altri processi patologici, più spesso di natura allergica (esantemi allergici). Gli esantemi infettivi riconoscono in generale due meccanismi patogenetici principali; il più frequente è dovuto all’attiva moltiplicazione del microrganismo responsabile nella cute e nei vasi dermici, di solito, ma non sempre, in seguito a diffusione ematogena. Alternativamente l’esantema è provocato dalla liberazione di un’esotossina, come nel caso della scarlattina. Dal punto di vista anatomopatologico la lesione elementare negli esantemi infettivi è costituita da un’alterazione vascolare con infiltrazione cellulare del derma, necrosi cellulare ed edema. Le caratteristiche semeiologiche degli esantemi infettivi costituiscono storicamente un importante aspetto di diagnostica differenziale nell’adulto e, soprattutto, in ambito pediatrico; gli elementi diagnostici fondamentali si possono riassumere come segue. • Tipo di lesione elementare, che consente di distinguere tra esantemi maculopapulosi, vescicolari, petecchiali, ecc. • Caratteristiche epidemiologiche e cliniche, per esempio periodo di insorgenza, durata dei sintomi prodromici, evolutività delle lesioni. • Distribuzione delle lesioni, spesso assai tipica. • La durata dell’esantema, la modalità di risoluzione dello stesso, l’eventuale compresenza di un enantema. Delle principali lesioni elementari e delle loro modalità di formazione viene qui riportata una breve descrizione.
• Eritema: arrossamento diffuso della cute, non rilevato, conseguente a vasodilatazione, che scompare con la pressione. • Macula: piccola alterazione del colorito cutaneo; consegue a lesione vascolare del derma, che non scompare con la pressione. • Papula: rilevatezza cutanea circoscritta; è di solito l’evoluzione della macula in seguito ad infiltrazione cellulare. • Petecchia: piccolo punto rosso, segno di emorragia sottoepidermica; consegue a lesione dei capillari dermici. • Vescicola: è una piccola raccolta di liquido chiaro; consegue a necrosi cellulare, acantolisi ed edema intra e intercellulare. • Bolla: è una vescicola di maggiori dimensioni. • Pustola: è l’evoluzione della vescicola dopo essudazione ed accumulo intralesionale di leucociti. • Crosta: è un’escara secca, costituita da residui essiccati, germi e cellule epiteliali. • Squama: esfoliazione dell’epidermide da paracheratosi o discheratosi. L’insieme di questi elementi consente di inquadrare agevolmente l’eziologia della maggior parte degli esantemi; gli esantemi allergici (in particolare quelli da farmaci) vanno sempre posti in diagnosi differenziale. Morfologicamente sono forme cliniche spesso assai simili; gli esantemi allergici, comunque, decorrono acutamente, non risparmiano le regioni palmoplantari, non si accompagnano necessariamente a febbre, sono spesso pruriginosi e tendono a risolvere con desquamazione. Le caratteristiche principali degli esantemi sono riassunte in tabella 76.1.
Morbillo Il morbillo è un’infezione virale acuta altamente contagiosa che colpisce prevalentemente l’infanzia; è una malattia a decorso clinico di regola favorevole, tuttavia
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MALATTIE INFETTIVE
Tabella 76.1 - Caratteristiche generali degli esantemi.
MALATTIA
PERIODO DI INCUBAZIONE (GIORNI)
Morbillo Rosolia Varicella Herpes zoster
9-12 12-23 10-23 –
Herpes simplex Vaiolo
2-12 12-14
Esantema critico Megaloeritema infettivo Scarlattina Erisipela Rickettsiosi esantematiche
9-12 5-14 2-5 6-10 8-15
CARATTERE ESANTEMA Maculopapuloso, confluente Maculopapuloso, non confluente Macule, papule, vescicole, pustole, croste Eritema, vescicole, croste Vescicole, croste, ulcere mucose Macule, papule, vescicole, pustole, croste Maculopapuloso Eritematoso, maculopapuloso Maculopapuloso Eritema, talora vescicole Maculopapuloso, petecchiale
si possono talvolta avere gravi complicanze polmonari e neurologiche. L’incidenza del morbillo è in netta diminuzione nei paesi ove è stata introdotta la vaccinazione con virus vivo attenuato. A. Eziologia. L’agente eziologico del morbillo è un virus a RNA a singola elica (morbillivirus) appartenente alla famiglia delle Paramixoviridae; dall’involucro virale protrudono i cosiddetti peplomeri, costituiti almeno in parte da emoagglutinine e dalle proteine di fusione. Il virus è composto inoltre da sei proteine strutturali, tra cui le glicoproteine H e F, implicate rispettivamente nell’adesione e nella penetrazione nella cellula ospite. Il morbillivirus è coltivabile in vitro in cellule renali di scimmia ove produce un caratteristico effetto citopatico (formazione di cellule stellate oppure di sincizi multinucleati). B. Epidemiologia. L’ospite naturale dell’infezione è l’uomo; è anche possibile l’infezione nelle scimmie. L’infezione è ubiquitaria, ma, come già accennato, l’incidenza del morbillo risulta drasticamente ridotta laddove è stata introdotta la vaccinazione obbligatoria estensiva in età infantile; la relativa recrudescenza nell’incidenza annuale del morbillo osservata in alcuni di questi paesi è probabilmente legata ai flussi migratori di popolazioni non vaccinate e non alla perdita di attività del vaccino dopo alcuni anni. I casi autoctoni osservati nei paesi ove la vaccinazione è obbligatoria riguardano prevalentemente bambini in età prevaccinale. In Italia si ha una copertura vaccinale molto disomogenea sul territorio, come per tutte le vaccinazioni facoltative, donde il verificarsi di episodi epidemici recenti anche di grandi dimensioni. Il virus del morbillo è molto labile nell’ambiente, riesce tuttavia a sopravvivere alcune ore nelle microparticelle salivari; il contagio, di regola diretto, avviene pertanto per inalazione e l’in-
DISTRIBUZIONE
DURATA (GIORNI)
Generalizzata Generalizzata Generalizzata centripeta
3-10 2-5 7-14
Lungo il decorso di un nervo cranico o spinale Plurime sedi possibili Generalizzata centrifuga
14-28 5-28 15-30
Generalizzata o solo al tronco 1-2 Generalizzata o localizzata al volto 6-7 Generalizzata 2-5 Localizzata 3-10 Generalizzata 14-20
fezione è probabilmente una delle più contagiose che si conoscano. Il picco della contagiosità si ha al termine del periodo prodromico, ma l’infezione può essere trasmessa con facilità anche qualche giorno dopo l’insorgenza dell’esantema. Il morbillo è stato associato in anni non lontani all’eziopatogenesi del lupus eritematoso sistemico, della sclerosi multipla e della panencefalite subacuta sclerosante (PESS); per le prime due malattie il nesso eziologico non è a tutt’oggi stato dimostrato mentre nella PESS sembra esservi infezione del sistema nervoso centrale da parte di una variante del morbillivirus, difettiva per alcune proteine, necessarie per il ciclo replicativo completo del virus. Si verrebbe a verificare, pertanto, infezione encefalica persistente (non litica), come suggerito anche dai titoli anticorpali specifici insolitamente elevati osservati di solito nel liquido cerebrospinale dei pazienti affetti da PESS. L’osservazione sporadica di qualche caso di sospetta PESS in soggetti vaccinati ha, in anni passati, posto il dubbio che tale complicanza potesse essere causata anche dal virus vaccinico, contribuendo a rallentare l’introduzione della vaccinazione estensiva in molti paesi; tuttavia, nessuno dei casi sospetti è stato in seguito confermato e va aggiunto che l’incidenza della PESS è al contrario drasticamente ridotta nei paesi dove è stata introdotta la vaccinazione, con riduzione conseguente dei casi di malattia. C. Immunopatogenesi. Qualunque tratto di mucosa dell’apparato respiratorio può costituire il punto di ingresso del virus; successivamente all’infezione mucosa si ha una prima fase viremica con disseminazione al sistema reticolo-endoteliale (soprattutto linfonodi e milza), attiva replicazione virale e seconda fase di viremia, ad elevato titolo, con invasione in toto della mucosa respiratoria. Le gittate viremiche sono facilitate dal fatto che morbillivirus infetta le linee mononucleate del san-
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gue (linfociti T e B e monociti). La mucosa respiratoria infettata si presenta all’esame istologico infiltrata da numerosi elementi giganti multinucleati, espressione di citolisi virale; vi è inoltre un importante deficit morfofunzionale dell’epitelio ciliato, sicuramente corresponsabile dell’aumentato rischio di complicanze broncopneumoniche associate alla malattia. Le macchie mucose di Koplik, seguite a breve dalla comparsa dell’esantema, coincidono tipicamente con l’attenuazione della mucosite e dei sintomi sistemici. In questa fase di malattia è difficile isolare il virus, mentre è comune il riscontro di una robusta immunità specifica, elementi che nell’insieme fanno ritenere che la patogenesi dell’esantema sia legata a un meccanismo di ipersensibilità del paziente, probabilmente dovuta a meccanismi cellulo-mediati. L’immunità specifica che si sviluppa dopo l’infezione è sia cellulare che umorale. La sintesi di anticorpi specifici conferisce protezione permanente, a causa forse della persistenza dell’infezione in forma latente in qualche stipite cellulare suscettibile oppure, molto più probabilmente, in seguito a reinfezioni successive con effetto di “boosting” sulla risposta anticorpale specifica. Uno degli aspetti più caratteristici del morbillo è la profonda immunosoppressione cellulare che si verifica in seguito all’infezione. In particolare, l’infezione da morbillivirus provoca: • arresto in G0 della proliferazione dei linfociti T, almeno in parte dovuto a diminuita espressione delle cicline cellulari D3 ed E; • produzione di un fattore solubile di provenienza cellulare in grado di inibire intensamente la proliferazione T-linfocitaria specifica; • alterazione delle interazioni tra macrofagi tissutali e linfociti T (conseguente all’attiva replicazione del virus nei macrofagi) con minore produzione di interleuchina-12. D. Clinica. La malattia, che ha una durata media di 7-10 giorni, è preceduta da un periodo di incubazione che va da 10 a 14 giorni ed è tendenzialmente più lungo nell’adulto che nel bambino. Ad esso fa seguito una fase prodromica, non specifica, della durata di alcuni giorni, corrispondente alla viremia secondaria con invasione della mucosa respiratoria. Il quadro clinico nel suo insieme è quello di un’infezione acuta e piuttosto severa delle vie aeree superiori: si ha quindi febbre anche elevata, astenia e malessere, anoressia, tosse non produttiva, congiuntivite bilaterale e rinite. Al termine della sindrome prodromica, poco prima dell’insorgenza dell’esantema compaiono le chiazze di Koplik, considerate patognomoniche del morbillo; si tratta di un enantema del cavo orale, costituito da piccole lesioni grigiastre, scarsamente rilevate e non dolorose: le chiazze di Koplik sono di solito poche e vanno ricercate con attenzione, soprattutto nella mucosa prospiciente i secondi molari, dove si manifestano più spesso, per motivi per altro ignoti. Nei casi più gravi, comunque, l’intera mucosa del cavo orale può essere interessata. L’esantema si manifesta di solito al volto e al collo (regioni retroauricolari), estendendosi rapidamente a tutta la cute
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in direzione cranio-caudale, incluse palme delle mani e piante dei piedi. L’esantema è di tipo eritematoso e maculopapuloso e le lesioni tendono a confluire dopo pochi giorni, specie al volto e sul collo: l’esantema dura di solito circa 5 giorni e si risolve secondo l’ordine di comparsa delle lesioni, che possono andare incontro a fine desquamazione furfuracea, ad eccezione di quelle palmo-plantari. Nel morbillo non complicato il massimo impegno clinico si ha di solito nelle prime 48 ore dalla comparsa dell’esantema; nei giorni successivi la febbre scende e i sintomi sistemici si attenuano: la tosse è spesso l’ultimo sintomo della malattia che regredisce. Le complicanze più comuni del morbillo sono la polmonite e la meningoencefalite. La polmonite può essere causata o direttamente dal virus oppure, e forse più frequentemente, da sovrainfezione batterica, favorita dal danno alla clearance mucociliare e dal deficit dell’immunità cellulare che caratterizza la malattia; la polmonite è responsabile dei due terzi circa dei decessi in corso di morbillo nella prima infanzia. La meningoencefalite al contrario colpisce più spesso la seconda infanzia e gli adolescenti; si tratta di un evento fortunatamente raro (0,01-0,005% dei casi di morbillo), caratterizzato clinicamente dalla ripresa della febbre in corso di convalescenza e dalla comparsa di cefalea, convulsioni, alterazioni del comportamento e dello stato di coscienza; sono comuni le alterazioni dell’elettroencefalogramma, possibile espressione di invasione virale del sistema nervoso centrale: i quadri clinici sono di gravità variabile, e nei casi più severi sono frequenti i reliquati neurologici. La complicanza tardiva neurologica del morbillo è la PESS, già descritta, caratterizzata clinicamente da deterioramento cognitivo di tipo simildemenziale e da segni neurologici focali di gravità variabile. Per entrambe le forme di encefalite è ipotizzato anche un meccanismo di tipo autoimmunitario; ad oggi, tuttavia, la loro patogenesi rimane da chiarire. E. Forme cliniche particolari. Forme attenuate di morbillo, prive di una o più delle caratteristiche salienti della malattia, si possono osservare nel neonato (per effetto del parziale effetto protettivo delle immunoglobuline materne) e nei soggetti suscettibili sottoposti a profilassi con immunoglobuline. Al contrario, il morbillo è di solito particolarmente grave nei bambini con deficit immunitari, specie cellulo-mediati. La causa globalmente più frequente di immunodeficienza cellulare infantile è notoriamente la malnutrizione, ciò spiega l’elevata incidenza di complicanze polmonari del morbillo nel Terzo mondo, dove la letalità della malattia è di gran lunga superiore che nei paesi occidentali. Altre cause importanti di deficit immunitari infantili, i tumori e l’infezione da HIV, si associano a una letalità in corso di morbillo che varia dal 40 al 70%; in questi pazienti il quadro clinico è atipico anche se spesso dominato dall’interessamento polmonare, e la diagnosi eziologica è talora ardua. Per tale motivo, nei pazienti immunodepressi probabilmente esposti al contagio andrebbe effettuata la profilassi con immunoglobuline, anche se in precedenza vaccinati. Il morbillo contratto in gravidanza non induce fortunatamente danno fetale;
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il neonato può comunque presentare la malattia alla nascita o nei primi giorni di vita, in forma clinica non di rado severa; si raccomanda pertanto l’immunoprofilassi passiva nei neonati da madre affetta da morbillo. Infine, il morbillo si può manifestare anche nell’adulto, con quadri clinici di solito più impegnativi che nel bambino, caratterizzati dalla maggiore frequenza (almeno il 30% dei pazienti) di complicanze infettive da sovrainfezione batterica a carico del parenchima polmonare, dell’orecchio medio e dei seni paranasali. F. Diagnosi. La diagnosi di morbillo è facile nella maggior parte dei casi in base alla tipica presentazione clinica (sintomi prodromici, chiazze di Koplik, caratteristiche dell’esantema). Eventuali indagini ematochimiche dimostrano non di rado un discreto grado di leucopenia. In casi particolari o atipici (pazienti immunodepressi) la diagnosi può essere circostanziata mediante la ricerca nel siero degli anticorpi specifici che può essere effettuata con svariate metodiche, tra le quali la più adatta all’impiego clinico è quella immunoenzimatica (ELISA). Un aumento del titolo degli anticorpi specifici tra siero acuto e siero convalescente di almeno quattro volte viene considerato diagnostico di morbillo; in alternativa, alla stessa conclusione si può arrivare mediante il riscontro nel siero delle IgM specifiche, espressione di infezione primaria. Infine, le metodiche si isolamento virale da campione biologico, complicate e dispendiose, sono a disposizione di pochi laboratori di riferimento, per situazioni cliniche del tutto particolari. G. Terapia e profilassi. La terapia del morbillo è sintomatica nella stragrande maggioranza dei casi; le complicanze vanno affrontate quindi in relazione al quadro clinico dominante (per es., assistenza respiratoria in corso di polmonite). Tra i farmaci antivirali è stata sperimentata la ribavirina nella polmonite da morbillivirus, ma l’efficacia del farmaco non è stata per ora definita; da uno studio recente sono inoltre emersi risultati incoraggianti nell’uso di interferon- per via orale nel morbillo infantile non complicato. Per quanto riguarda la terapia della PESS si è osservato un aumento della sopravvivenza nell’animale da esperimento dopo terapia intrarachidea con elevate dosi di interferone e ribavirina in associazione. Studi molto recenti hanno dimostrato un certo grado di sinergia tra i farmaci citati e il metisoprinolo, con parziale recupero neurologico in qualche caso. L’immunoprofilassi passiva si effettua mediante immunoglobuline, nei casi citati in precedenza. Il vaccino contro il morbillo è stato introdotto negli USA nel 1963; dapprima il vaccino conteneva virus ucciso, successivamente si preferì virus vivo attenuato, per la migliore efficacia e tollerabilità. La schedula vaccinale prevede una somministrazione al 15° mese di vita circa, seguita da un richiamo al 5º-6º anno e sembra garantire tassi di sieroconversione superiori al 95% dei bambini vaccinati; la vaccinazione è sconsigliata prima del 12° mese di vita per la possibile interferenza da parte di anticorpi materni specifici residui. Il vaccino vivo attenuato è teoricamente controindicato nei bambini immunodepressi, dove l’opportunità della
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vaccinazione va considerata in ogni singolo caso, ma è comunque raccomandato nei bambini HIV positivi asintomatici, secondo la normale schedula vaccinale.
Rosolia La rosolia è una malattia esantematica acuta dell’infanzia e dell’età adulta; spesso asintomatica, nei casi clinicamente evidenti si manifesta con un tenue esantema morbilliforme, febbre e linfoadenopatia. Occasionalmente nell’adulto può provocare un’artrite polimorfa ma l’importanza della rosolia resta soprattutto legata all’infezione fetale, per l’elevato rischio di malformazioni neonatali. A. Eziologia. L’agente eziologico della rosolia è un virus a RNA, rubella virus, appartenente al genere Rubivirus, famiglia Togaviridae; appare sferoidale al microscopio elettronico, il genoma è rivestito da un nucleocapside del diametro di circa 30 nanometri, ricoperto da un envelope del diametro di circa 60 nanometri. Si conoscono tre proteine strutturali (E1, E2 e C) ed è supposta l’esistenza di proteine non strutturali implicate nella trascrizione del genoma e nella replicazione virale. Il virus è coltivabile in vitro in linee cellulari suscettibili ma non produce effetti citopatici; la sua presenza in coltura può essere dimostrata mediante tecniche di interferenza virale. È instabile nell’ambiente, essendo tra l’altro rapidamente inattivato dagli estremi di temperatura e di pH. B. Epidemiologia. L’infezione viene trasmessa per inalazione diretta di microparticelle salivari contenenti il virus; il virus viene trasmesso dai pazienti da 10 giorni prima a 15 giorni circa dopo la comparsa dell’esantema: data anche la labilità ambientale del virus l’infezione è scarsamente contagiosa. Al contrario, i neonati affetti da rosolia congenita eliminano elevate quantità di virus da numerose secrezioni organiche e per lunghi periodi di tempo, spesso anche in presenza di anticorpi neutralizzanti. L’incidenza della rosolia è maggiore in primavera e tra i bambini in età scolare (5-10 anni). Da qualche anno, per la diffusione della vaccinazione estensiva, sono divenuti relativamente più frequenti i casi adulti; la sieroprevalenza per anticorpi specifici nella popolazione generale è peraltro inferiore a quella del morbillo (80-90% contro almeno il 95%). In Italia la vaccinazione antirosolia viene raccomandata dal 1972 alle ragazze pre-pubere e dai primi anni ’90 a tutti i bambini nel secondo anno di vita. Ciononostante la copertura vaccinale dai 12 ai 24 mesi non risulta ottimale (56% nel 1998 e 78% nel 2003) con ampie variazioni tra le diverse regioni. Di conseguenza il virus della rosolia continua a circolare in Italia e nel 1996 più del 5% delle donne tra 15 e 39 anni è risultato suscettibile all’infezione. In era prevaccinale la rosolia si manifestava con epidemie minori ogni 7-8 anni e con epidemie maggiori ogni 30 anni circa, l’ultima delle quali, nel 1969, colpì almeno 12 milioni di persone solo negli USA.
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C. Immunopatogenesi. La patogenesi della rosolia è simile a quella del morbillo; vi sono due fasi viremiche, favorite probabilmente dall’infezione dei leucociti, separate tra loro dal tempo necessario per la disseminazione negli organi linfoidi. Come nel morbillo la comparsa dell’esantema coincide con la risoluzione della fase viremica; benché il virus sia stato isolato dalle lesioni cutanee è verosimile che l’esantema derivi da un meccanismo immunomediato, come nel morbillo, forse attraverso la formazione di immunocomplessi. All’infezione segue lo sviluppo di immunità specifica sia umorale sia, molto probabilmente, anche cellulo-mediata, sufficientemente protettiva ma che tuttavia non sembra in grado di conferire sempre protezione permanente. È stato dimostrato in anni recenti che non sono rare le reinfezioni, anche in gravidanza, in soggetti con anticorpi specifici contro il virus della rosolia: si tratta tuttavia di eventi quasi sempre asintomatici, messi in luce in corso di studi epidemiologici dall’aumento improvviso dei titoli anticorpali specifici accompagnati, occasionalmente, da sintomi aspecifici a carico delle vie aeree superiori. D. Clinica. 1. Rosolia acquisita. La rosolia acquisita postnatale è di regola una forma clinica lieve nell’infanzia, talvolta più impegnativa nell’adulto, nel quale non sono rari i sintomi prodromici (febbre, malessere, anoressia), che precedono l’esantema di alcuni giorni. Anche nel bambino risulta molto suggestiva, benché non patognomonica, la linfoadenopatia superficiale, che interessa caratteristicamente i linfonodi auricolari posteriori e retronucali; frequente ma non costante è la febbre, che regredisce di solito alla comparsa dell’esantema. Specie nel bambino si può osservare un enantema petecchiale del palato molle (chiazze di Forscheimer), caratteristico ma non patognomonico. L’esantema, non sempre presente, esordisce al volto per diffondere successivamente in direzione caudale; dura da 3 a 5 giorni ed è costituito da lesioni maculopapulose tenuamente pigmentate, non confluenti (utile elemento di diagnosi differenziale con il morbillo) che tendono a desquamare durante la convalescenza. Il decorso clinico della rosolia postnatale è quasi sempre benigno, la malattia guarisce in pochi giorni e le complicanze descritte sono molto meno frequenti che nel morbillo. Merita una citazione l’artrite delle piccole articolazioni, che si manifesta in forma da lieve a moderata in un terzo quasi delle donne colpite da rosolia, con un decorso clinico che può essere prolungato senza tuttavia tendenza alla cronicizzazione; la trombocitopenia in corso di rosolia è forse più comune di quanto si creda, anche se quasi sempre di lieve entità; sono tuttavia apparse alcune segnalazioni di incidenti emorragici gravi (a danno, per esempio, dell’encefalo, del rene o della retina) in seguito a trombocitopenia acuta grave. Una complicanza infrequente della rosolia è l’epatite acuta di modesta gravità, mentre fortunatamente molto rara (un paziente su 5000 circa) è l’encefalite da rubella virus, più frequente nell’adulto che nel bambino, gravata da un tasso di letalità tra il 20 e il 50%.
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2. Rosolia congenita. La rosolia può avere effetti disastrosi se contratta nella prima fase della gravidanza potendo portare a morte fetale, parto prematuro o a una pletora di difetti congeniti. L’incidenza annua dei casi di rosolia congenita dipende dalla sieroprevalenza e quindi dalla circolazione del virus nella popolazione adulta ed è fortemente diminuita dopo l’introduzione della vaccinazione. Gli effetti della rosolia sul feto dipendono dal momento del contagio; in generale quanto più precoce è l’infezione tanto più gravi sono i danni al feto. Nei primi due mesi di gestazione la percentuale di contagio dell’embrione è del 40-60%, con elevato rischio di aborto spontaneo o di difetti multipli; già al 3° mese si hanno prevalentemente difetti singoli (sordità o malformazioni cardiache) con una probabilità di contagio fetale del 30-35%, che scende al 10% circa al 4° mese ed è solo occasionale dopo la 20a settimana di gestazione. Gli effetti della rosolia congenita sono di tipo transitorio, come il basso peso alla nascita, permanente, come la sordità, oppure legati allo sviluppo, come la miopia. L’elenco delle conseguenze della rosolia sul feto è molto ampio; oltre a quelli già citati sono comunque relativamente comuni la porpora trombocitopenica, la meningoencefalite, la cataratta e il glaucoma, la pervietà del dotto di Botallo, la stenosi dell’arteria polmonare, i disturbi del linguaggio, la microcefalia e il ritardo mentale. E. Diagnosi. Dato lo scarso rilevo dei sintomi, la diagnosi clinica di rosolia risulta non di rado disagevole, potendo la malattia essere confusa con una forma lieve di morbillo, con la toxoplasmosi linfoghiandolare acuta, con la mononucleosi infettiva e con la scarlattina. La diagnosi di certezza si può avvalere dell’isolamento virale, complicato e dispendioso, oppure dello studio della cinetica anticorpale, effettuato di solito con tecnica ELISA. L’aumento di almeno quattro volte del titolo delle IgG specifiche o la comparsa di IgM sono diagnostici di rosolia. La comparsa di IgM in un soggetto già positivo per IgG indica probabilmente una reinfezione. L’infezione congenita va diagnosticata ricercando nel siero del neonato le IgM specifiche, che non passano la barriera placentare; le metodiche di ibridazione molecolare (in situ hybridization oppure PCR per rubella virus RNA) sono state impiegate in alcuni studi per la diagnosi di rosolia fetale, dopo funicolocentesi o biopsia placentare, ma l’interesse clinico di tale approccio diagnostico è ancora oggetto di discussione. F. Terapia e profilassi. La terapia della rosolia è solo sintomatica, quando necessario (per es., in caso di artralgie); il trattamento della rosolia in gravidanza con immunoglobuline non sembra in grado di prevenire la viremia fetale e non è attualmente raccomandato dalla maggior parte degli Autori. Il virus della rosolia, isolato per la prima volta nel 1962, fu attenuato nel 1966; il programma di vaccinazione estensiva presenta alcune variazioni a seconda dei paesi, ma ha ovunque l’obiettivo primario di immunizzare le bambine prima della pubertà e dunque di prevenire la malattia fetale: ciò ha
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portato negli USA ad una diminuzione di incidenza annuale della rosolia congenita del 98% negli ultimi trent’anni. Il vaccino attualmente in uso (RA 27/3) stimola inoltre la secrezione di IgA secretorie ed umorali specifiche, ciò che contribuisce ad aumentarne l’efficacia; il tasso di sieroconversione postvaccinale è del 95% circa e non vi sono per ora dati sull’estinzione nel tempo dell’immunità acquisita. Il vaccino è ben tollerato anche se non sono rari modesti effetti collaterali (febbre, linfoadenopatia superficiale e, soprattutto, artralgie) correlati alla viremia da virus attenuato. Per il rischio, peraltro molto basso, di trasmissione al feto, il vaccino non va eseguito in gravidanza e la donna dovrebbe astenersi dall’intraprendere una gestazione nei tre mesi successivi alla vaccinazione.
Herpes simplex virus (Malattia erpetica) A. Eziologia. L’herpes simplex virus (HSV) appartiene all’importante famiglia delle Herpesviridae, comprendente anche varicella-zoster virus (VZV), il virus di Epstein-Barr (EBV), il cytomegalovirus (CMV) e lo Human Herpes Virus-6 (HHV-6), responsabile dell’esantema critico. In anni recenti sono state scoperte altre due Herpesviridae; HHV-7 è un virus linfotropo, ad alta sieroprevalenza nella popolazione generale, responsabile di alcuni casi di esantema critico ma tuttora non associato a patologie particolari. HHV-8 è linfotropo, viene isolato anche dal plasma seminale e dalla saliva e presenta elevati tassi di sieroprevalenza nella popolazione sessualmente attiva; tale virus è certamente implicato nell’eziopatogenesi del sarcoma di Kaposi, tanto da essere da taluni autori denominato Kaposi-sarcoma-herpes virus (KSHV), ed anche dei linfomi delle cavità sierose (Body-Cavity Lymphomas). Tutte le Herpesviridae hanno un genoma costituito da DNA a doppia elica e possiedono la caratteristica comune di indurre dopo l’infezione primaria un’infezione latente nell’ospite con la possibilità di recidivare a distanza variabile di tempo. I meccanismi che determinano la latenza virale non sono per ora completamente chiariti. Herpes simplex virus comprende due sierotipi classici, HSV-1 e 2, distinguibili per i differenti pattern di espressione antigenica, per alcune caratteristiche in coltura e, soprattutto, per i peculiari aspetti clinici ed epidemiologici correlati; il genoma virale è rivestito da un capside icosaedrico costituito da 162 capsomeri e da una membrana esterna lipoproteica (envelope). Il diametro del virione maturo è di 150-200 nanometri; la replicazione virale avviene nel nucleo della cellula ospite, che va incontro a lisi in seguito alla produzione di nuova progenie virale. In vitro, HSV cresce in cellule renali di coniglio ed in altre linee cellulari. B. Epidemiologia. Le infezioni da herpes simplex virus (HSV), note dall’antichità, rappresentano una delle malattie più diffuse e più frequenti del genere umano; benché alcune specie animali siano suscettibili all’infezione, l’uomo è quasi sicuramente l’unico serbatoio na-
turale del virus. HSV-1 provoca nell’80-90% dei casi infezione della mucosa labiale o del cavo orale ed occasionalmente infezione genitale; HSV-2, al contrario, provoca infezione urogenitale nel 70-90% dei casi ed infezione labiale nella restante minoranza dei pazienti. L’infezione viene trasmessa di regola per contatto diretto con secrezioni infette, del cavo orale nel caso di HSV-1 e genitali nel caso di HSV-2; sono ovviamente più contagiosi i pazienti con lesioni attive (visibili) ma l’infezione può essere trasmessa anche dai portatori asintomatici. L’infezione da HSV-1 presenta elevati tassi di sieroprevalenza già dalla seconda infanzia ed è maggiormente diffusa nelle fasce di popolazione di basso livello socioeconomico; una categoria particolare di soggetti a rischio è data da alcuni operatori sanitari come dentisti e addetti alla divisione di terapia intensiva. L’infezione da HSV-2 riflette invece le abitudini sessuali della popolazione; è pertanto presente a partire dal secondo decennio di vita, con i tassi di sieroprevalenza caratteristici delle infezioni sessualmente trasmesse. Sia l’herpes labiale che genitale tendono a recidivare almeno una volta nel 60-90% dei pazienti, di solito in seguito ad eventi scatenanti, tra i quali sono ben noti l’esposizione prolungata ai raggi solari, gli stress emotivi e i traumi; nella metà circa dei pazienti l’incidenza delle recidive è bassa (una ogni 6-12 mesi). Le recidive sono imputabili a riattivazione di infezione latente, anche se sono state descritte reinfezioni. C. Patogenesi. Il virus infetta inizialmente le cellule parabasali ed intermedie dell’epitelio; in seguito a replicazione virale si ha degenerazione balloniforme delle cellule infettate, formazione di elementi multinucleati e lisi cellulare; sono caratteristici i cosiddetti inclusi intranucleari di Cowdry. L’infezione si propaga per contatto cellulare diretto ed il corrispettivo anatomico di tali eventi è la vescicola erpetica su base infiammatoria, indistinguibile da quella provocata dal virus della varicella. L’infezione primaria induce presto una risposta infiammatoria specifica, sia umorale che cellulare, con accumulo intralesionale di linfociti attivati e citotossici, di macrofagi e produzione locale di citochine e di chemochine. La risposta infiammatoria, specie quella cellulo-mediata, circoscrive l’infezione impedendone la disseminazione per via ematica, ciò che si verifica invece nei pazienti immunodepressi, nei quali è invece frequente la disseminazione a numerosi organi e apparati. Al termine dell’infezione primaria inizia il periodo di latenza, caratterizzato dalla localizzazione del virus nei gangli sensitivi afferenti la lesione cutanea, probabilmente dopo diffusione centripeta lungo il nervo sensitivo. Come già accennato i meccanismi che inducono la latenza non sono ancora chiari; sembra comunque che il virus infetti il neurone sensitivo periferico con produzione solo di proteine precoci non strutturali in assenza di ciclo litico. D. Clinica. 1. Infezione primaria. L’infezione primaria da HSV è spesso asintomatica; nei casi sintomatici l’infezione
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presenta numerose forme cliniche possibili, anche se alcuni quadri sono più frequenti e più caratteristici. La gengivo-stomatite erpetica è la forma più comune di infezione primaria da HSV-1, ed è comune in età pediatrica (2-5 anni di età). Dopo un periodo di incubazione di circa 10 giorni, l’infezione si presenta dapprima con febbre ed una faringite eritematosa, cui segue a breve un’importante eruzione vescicolare con interessamento più o meno esteso della mucosa del cavo orale e labiale; si associa linfoadenopatia dolente sottomandibolare, febbre ed astenia importante: il dolore locale è spesso molto importante e tale da limitare l’introduzione di alimenti solidi e liquidi, con rischio di disidratazione. Le vescicole vanno incontro rapidamente ad ulcerazione e sanguinano con facilità. La guarigione si ha in 1015 giorni e la diagnosi differenziale si pone con le forme più gravi di faringite, compresa la difterite ed alcune forme di stomatite aftosa di probabile origine autoimmune. L’infezione primaria genitale è di solito causata da HSV-2 e si verifica nella popolazione sessualmente attiva; il periodo di incubazione è di 5 giorni circa ed è seguito da un’eruzione vescicolare su base eritematosa, cui segue la rottura delle vescicole il cui fondo viene ricoperto da un essudato grigiastro. Nella donna si accompagna spesso una vaginite essudativa; sono comuni i sintomi sistemici (febbre e malessere) e la linfoadenopatia dolente inguinale. Se le lesioni interessano l’uretra compare disuria e talvolta ritenzione urinaria. Una complicanza caratteristica è la neurite sensitivo-motoria dei plessi pudendi e dell’innervazione del pavimento perineale, tale da comportare disturbi sfinterici. L’herpes primario genitale guarisce di solito in 15-20 giorni, la diagnosi differenziale si pone con altre malattie a trasmissione sessuale, compresa la sifilide primaria. La prima infezione erpetica si può verificare in altri siti cutanei e mucosi, spesso in relazione ad esposizione professionale (personale sanitario), ciò che pone talvolta problemi di diagnosi differenziale; è il caso, per esempio, della localizzazione alle dita delle mani, che può essere erroneamente interpretata di origine batterica. Infine, l’infezione primaria a livello oculare provoca di solito blefaro-congiuntivite monolaterale, a prognosi favorevole, che può tuttavia complicarsi con una cheratite, da seguire e curare con particolare attenzione per le possibili sequele. 2. Infezione ricorrente. È preceduta da sintomi prodromici (dolore locale e sensazione di bruciore) della durata variabile da poche ore a 2-3 giorni. L’herpes labiale si presenta come lesione vescicolare che evolve alla fase ulcerativa e crostosa in 3-4 giorni; la sede più comune di presentazione è il labbro inferiore, ma non sono rare le localizzazioni alla mucosa nasale o al cavo orale. È caratteristica la tendenza, peraltro inspiegata, a recidivare sempre nella stessa sede nel singolo paziente. Il diametro della lesione raramente supera il centimetro e la guarigione avviene sempre entro 10 giorni. L’herpes genitale ha tempi di guarigione lievemente superiori e la lesione può essere più voluminosa, specie nel sesso femminile, dove interessa più spesso la muco-
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sa delle piccole e grandi labbra. La cheratite erpetica ricorrente è di solito monolaterale; si associa a fotofobia e dolore e nei casi più gravi (frequenza e gravità delle recidive, specie nei pazienti impropriamente trattati con corticosteroidi per uso topico) si può complicare con ulcerazioni corneali, neovascolarizzazione della cornea ed uveite, tutti eventi in grado di compromettere la visione, fino alla cecità. 3. Forme cliniche particolari. La manifestazione clinica più grave è l’encefalite erpetica, complicanza rara ma importante dell’infezione da HSV-1, descritta nel capitolo 84. L’infezione neonatale colpisce un neonato su 5000 circa con un quadro clinico che può variare da un esantema lieve localizzato a un’infezione disseminata ad alto tasso di letalità, che si presenta con ittero, epatosplenomegalia, diatesi emorragica, convulsioni e vescicole cutanee. La diagnosi differenziale si pone con altre gravi infezioni congenite (rosolia e toxoplasmosi) e la mortalità supera l’85% dei pazienti; quasi tutti i piccoli pazienti hanno evidenza di interessamento neurologico, evidente dal quadro clinico e facile da circostanziare dall’analisi del liquido cefalorachidiano (pleiocitosi linfocitaria e iperproteinorrachia). Nei casi lievi la malattia erpetica neonatale si manifesta solo con le lesioni tipiche, variamente diffuse a cute e mucose. Infine, l’infezione congenita da HSV può provocare aborto e parto prematuro. Nei pazienti affetti da immunodeficienza, malnutriti, defedati o con gravi alterazioni dell’integrità cutanea, l’infezione da HSV si presenta sovente con forme cliniche di particolare gravità, con interessamento viscerale a carico soprattutto dell’apparato respiratorio (polmoniti interstiziali) e dell’apparato digerente (esofagite, enterocolite ed epatite), che sono descritte approfonditamente nel capitolo 87. E. Diagnosi. La diagnosi di infezione primaria da HSV e di herpes ricorrente è agevole sulla scorta del quadro clinico; il dubbio diagnostico può insorgere per alcuni pazienti con infezione primaria, nella malattia neonatale e in alcune forme di interessamento viscerale dell’ospite compromesso. In questi casi va effettuato l’isolamento virale dal materiale biologico, più spesso e preferibilmente dal liquido vescicolare o dall’essudato raccolto dal fondo di un’ulcera. I preparati istologici mostrano la degenerazione balloniforme delle cellule epiteliali e la presenza delle cellule giganti multinucleate, reperti tipici ma non patognomonici, mentre le tecniche di immunoistochimica con anticorpi monoclonali possono circostanziare la diagnosi ed il sierotipo responsabile dell’infezione. Infine, le tecniche sierologiche (in immunofluorescenza o immunoenzimatiche) consentono la ricerca nel siero di anticorpi specifici di classe IgG e IgM, e sono utili soprattutto dal punto di vista epidemiologico, ad esclusione dell’infezione primaria, nella quale sono dimostrabili le IgM specifiche. F. Terapia e profilassi. La terapia antierpetica si avvale di farmaci attivi per via topica e/o sistemica; tra questi il più impiegato è probabilmente l’acyclovir, un farmaco che inibisce selettivamente la DNA polimerasi
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degli herpes virus. Analoghi dell’acyclovir di recente sviluppo sono il valaciclovir, il famcyclovir e il pencyclovir, caratterizzati da un profilo farmacocinetico più semplice e da attività antivirale probabilmente sovrapponibile. Nell’infezione primaria, soprattutto genitale, e nelle forme gravi e/o complicate è indicato il trattamento antivirale; i trattamenti consigliati sono acyclovir in prima linea, valacyclovir o famcyclovir in alternativa per il trattamento ambulatoriale (minor numero di compresse). L’herpes ricorrente è invece scarsamente influenzato dalla terapia, specie la forma genitale, mentre nell’herpes labiale, peraltro meno studiato, la terapia antivirale è forse di una qualche efficacia se iniziata molto precocemente (periodo prodromico). Sembra per contro che il valacyclovir sia di una qualche efficacia anche nella terapia dell’herpes genitale ricorrente. Per entrambi i farmaci è stato dimostrato un effetto solo minimo contro l’infezione latente a livello dei gangli sensitivi dorsali nell’animale da esperimento. Sia l’acyclovir che il valacyclovir presentano un ottimo indice di tollerabilità; in anni recenti sono stati segnalati numerosi casi di resistenza virale all’acyclovir, soprattutto in pazienti immunocompromessi in trattamento prolungato; per questi ultimi la terapia con fosfonoformato (foscarnet) o con cidofovir topico può costituire un’alternativa efficace. Altri farmaci attivi contro HSV sono la vidarabina e la trifluorotimidina, utilizzate per lo più nella terapia topica della cheratite erpetica. È importante sottolineare che nessuno dei farmaci succitati è minimamente efficace nell’infezione latente da HSV. Alcuni vaccini antierpetici sono in fase di studio, sia per la prevenzione primaria dell’infezione, specie da HSV-2, che per la prevenzione delle recidive; i risultati ottenuti finora non sono tuttavia particolarmente incoraggianti. Un vaccino contro HSV è attualmente in fase di studio ma i primi dati di efficacia disponibili nell’uomo non sono incoraggianti. La profilassi dell’infezione da HSV differisce in relazione alle diverse forme cliniche dell’infezione; si raccomanda quindi l’uso dei guanti nei lavoratori della sanità (gabinetti odontoiatrici!) e del profilattico per evitare il contagio sessuale. I pazienti con forme estese cutaneo-mucose andrebbero posti in isolamento cutaneo, mentre nella gravida affetta da herpes genitale si dovrà valutare l’indicazione al parto cesareo.
A. Eziologia. VZV appartiene al genere Varicellovirus, sottofamiglia Alphaherpesviridae, famiglia delle Herpesviridae; è un virus a simmetria icosaedrica, del diametro di circa 150-200 nanometri. Il virione è costituito da DNA a doppia elica, rivestito da un nucleocapside e da un involucro glicolipidico. Il genoma codifica per circa 75 proteine; sono state identificate in particolare 5 famiglie di glicoproteine, cruciali per la risposta immunitaria specifica sia umorale che cellulare. Il virus è labile nell’ambiente e viene inattivato dai comuni detergenti, dall’etere e dall’essiccamento; si propaga sia in vivo che in vitro prevalentemente per contatto cellulare diretto ed è coltivabile in linee cellulari suscettibili. B. Epidemiologia. 1. Varicella. L’infezione colpisce soggetti suscettibili, sieronegativi, interessando prevalentemente la prima e la seconda infanzia; la diffusione è ubiquitaria ed i casi di varicella si manifestano durante tutto l’anno, con un’incidenza tuttavia lievemente superiore nel primo trimestre dell’anno. Il virus si replica nel nasofaringe e nelle vie aeree superiori e viene eliminato con le secrezioni respiratorie; il contagio è diretto per inalazione e richiede contatto abbastanza ravvicinato. L’infezione è molto contagiosa, si stima che il 70-90% dei contatti domestici di un paziente, suscettibili all’infezione, siano destinati a contrarre la varicella. Si sottolinea ancora l’importanza della malattia; negli USA vi sono circa 250 decessi annui direttamente dovuti alla varicella. La letalità per varicella è di circa 2 casi per centomila nell’infanzia ma aumenta di almeno quindici volte negli adulti.
Varicella ed herpes zoster
2. Herpes zoster. L’herpes zoster si manifesta in soggetti positivi per anticorpi anti-VZV, di solito con una storia pregressa di varicella; l’incidenza della malattia è massima dopo i 50 anni e nei soggetti immunocompromessi. In seguito all’infezione primaria da VZV il virus persiste in forma latente nell’organismo, annidandosi preferenzialmente nelle radici dorsali midollari. L’herpes zoster si presenta quindi con casi sporadici, di solito unici nel singolo paziente, anche se non sono rare le recidive, specie nel paziente immunocompromesso. L’incidenza globale della malattia è elevata, approssimando il 20% della popolazione generale secondo alcuni studi epidemiologici.
Il virus varicella-zoster (VZV) causa prevalentemente due distinte forme cliniche; la varicella è l’espressione dell’infezione primaria: si tratta di una malattia esantematica altamente contagiosa, dal decorso clinico tipicamente benigno, a diffusione ubiquitaria ed andamento epidemico. L’herpes zoster colpisce di solito l’anziano o l’ospite immunocompromesso e rappresenta la recidiva, di solito localizzata, dell’infezione. Le due forme cliniche rivestono entrambe un’importanza sanitaria e sociale non trascurabile, data l’elevata diffusione ed il conseguente notevole assorbimento di risorse sanitarie.
C. Patogenesi. In seguito al contagio si ha una prima fase replicativa, in una sede dell’organismo non ancora ben definita, seguita da viremia e diffusione a cute e mucose. L’immagine istologica delle lesioni è la stessa per entrambe le forme cliniche dell’infezione e rispecchia fedelmente la storia naturale della malattia; le vescicole interessano l’epidermide e il derma e sono sede di attiva replicazione virale, in seguito alla quale le cellule epiteliali acquisiscono aspetto rigonfio, presentano inclusi intranucleari eosinofili e vanno infine incontro a fusione con formazione di cellule giganti multinucleate. Compaiono occasionalmente necrosi ed emorragia nel
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derma. L’essudato vescicolare diventa presto torbido per l’accumulo di polimorfonucleati di detriti cellulari e di fibrina; infine, la vescicola si rompe e l’essudato fuoriesce o viene riassorbito. L’infezione induce l’insorgenza di una robusta immunità cellulare specifica (linfociti T attivati) oltre che di citochine quali interferon- ed interleuchina-10 e 12. I meccanismi che inducono la latenza virale sono per ora ignoti, mentre la riattivazione dell’infezione dipende dall’alterazione del rapporto tra il virus e le difese immunitarie dell’ospite; recentemente sono state dimostrate con tecniche di immunoistochimica alcune proteine regolatorie virali nel citoplasma dei neuroni sensitivi. La latenza sembra inoltre associata all’abbondante espressione di una proteina virale precoce (Immediate-Early Protein, IE63), tale da indurre una forte immunità cellulare specifica, probabilmente sufficiente ad arrestare il ciclo litico replicativo del virus. D. Clinica. 1. Varicella. Il periodo di incubazione della varicella va da 10 a 20 giorni (14-15 giorni in media); in una minoranza di pazienti vi sono sintomi prodromici non specifici e di breve durata (uno o due giorni), come febbre non elevata, astenia e malessere; nella maggior parte dei casi, tuttavia, il tipico esantema è già presente all’esordio della malattia. La febbre di regola dura da 3 a 5 giorni e i sintomi di accompagnamento possono occasionalmente persistere per qualche giorno dopo l’insorgenza delle manifestazioni cutanee. L’esantema esordisce al tronco e al volto e diffonde rapidamente al resto della cute, incluso il capillizio; le lesioni sono dapprima maculopapulose, ed evolvono in breve a vescicolari o crostose. L’esantema è caratteristicamente asincrono, sono cioè visibili lesioni in tutte le fasi evolutive (maculopapule, vescicole e croste; aspetto a cielo stellato). Le lesioni sono di forma tondeggiante od ovalare, del diametro da 5 a 15 millimetri circa, a volte confluenti. Il contenuto delle vescicole è sieroso all’esordio per assumere presto un aspetto purulento; le croste si distaccano tutte in 10-15 giorni, residuando piccole aree di assottigliamento della cute sottostante. È comune il prurito, perlopiù dovuto alle lesioni crostose prossime al distacco. Talvolta si ha interessamento della mucosa del cavo orale (più raramente della mucosa vaginale), con dolore locale e difficoltà alla deglutizione. • Complicanze della varicella. Le lesioni cutanee possono andare incontro a sovrainfezione batterica, di solito da cocchi Gram+ di provenienza cutanea, dopo autoinoculo in seguito a grattamento. La varicella in gravidanza è associata ad un rischio di passaggio transplacentare dell’infezione non trascurabile (circa il 9% nelle prime 24 settimane), con un’incidenza di varicella congenita intorno al 3% dei neonati. Le complicanze extracutanee più frequenti della varicella interessano il sistema nervoso centrale e l’apparato respiratorio. L’atassia cerebellare acuta colpisce circa un paziente su 4000 di età inferiore ai quindici anni e si presenta di solito dopo una settimana circa dall’esordio dell’esantema; il paziente presenta atassia, vomito, disturbi del linguaggio e
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ripresa della febbre. L’esame del liquido cefalorachidiano dimostra pleiocitosi linfocitaria e iperproteinorrachia; la prognosi è di solito favorevole, con restitutio ad integrum in 2-4 settimane. Più frequente (0,1-0,2% dei casi) ed anche più grave, specie nell’adulto, è l’encefalite da VZV, associata ad una letalità del 5-20% ed a reliquati neurologici nel 15% circa nei pazienti sopravvissuti; l’encefalite si presenta con rapido decadimento psicomotorio, alterazioni dello stato di coscienza, cefalea, vomito e crisi comiziali spesso subentranti. La polmonite da VZV complica precocemente la varicella ed è più frequente nell’adulto, dove colpisce circa un paziente su 400, anche se modeste alterazioni radiologiche in assenza di un quadro clinico di polmonite sono probabilmente abbastanza frequenti (circa il 10% dei pazienti adulti secondo alcuni studi); nei casi clinicamente manifesti si ha tosse non produttiva, tachipnea e/o dispnea e riscontro radiologico di polmonite micronodulare o interstiziale. Più raramente la varicella si complica con miocardite, nefrite, epatite e con complicanze emorragiche. 2. Varicella nell’ospite immunocompromesso. Nel bambino e nell’adulto immunocompromesso la varicella costituisce un evento grave, associata ad un tasso di letalità complessiva di poco inferiore al 20% dei casi; sono particolarmente a rischio i soggetti giovani (2° e 3° decennio di vita), affetti da neoplasie linfoproliferative, sottoposti a trapianto di midollo osseo e/o a cicli di chemioterapia. In questi pazienti l’esantema è più grave che nel soggetto immunocompetente, il contenuto delle vescicole è spesso emorragico e la guarigione delle lesioni avviene in un periodo molto più prolungato (anche 45-60 giorni). Sono comuni i segni di disseminazione viscerale dell’infezione, con complicanze polmonari, neurologiche, epatiche, di regola severe. 3. Herpes zoster. La malattia è caratterizzata da una eruzione vescicolare a distribuzione dermatomerica, di solito monolaterale. I dermatomeri più spesso colpiti sono quelli toraco-lombari, ma non sono rare le altre localizzazioni, ivi comprese quelle interessanti le aree di innervazione sensitiva dei nervi cranici, più spesso il quinto, il settimo e l’ottavo. La complicanza più temibile dello zoster cutaneo è senza dubbio data dalla localizzazione oculare (zoster oftalmico), per l’elevato rischio di cheratite acuta e di grave iridociclite, tale da costituire pericolo per la vista del paziente; per tale motivo tutti i pazienti con herpes zoster al volto dovrebbero essere sottoposti tempestivamente a controllo oculistico e l’atteggiamento terapeutico nei casi di sospetto zoster oftalmico deve essere aggressivo. Nei casi tipici la malattia esordisce con dolore a carico del dermatomero affetto, della durata di 2-3 giorni, cui segue l’eruzione cutanea, costituita dapprima da elementi maculopapulosi, indi vescicolosi, infine crostosi. L’esantema completa il suo sviluppo in 5 giorni circa, anche se la scomparsa delle lesioni richiede di solito almeno 2-3 settimane. Durante l’eruzione persiste il dolore, espressione della concomitante neurite acuta, che non di rado (circa nel 50% dei pazienti ultracinquantenni) persiste anche per qualche settimana dopo la guarigione delle lesioni cutanee, dan-
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do luogo alla cosiddetta nevralgia o nevrite posterpetica; la sindrome dolorosa è di entità variabile ma spesso assai importante e talora invalidante. • Complicanze dell’herpes zoster. Un certo grado di interessamento del sistema nervoso centrale in corso di herpes zoster è probabilmente più comune di quanto comunemente ritenuto, e può essere sospettato solo dalla presenza di cefalea; l’interessamento massivo cerebrale dà luogo alla meningoencefalite, rara dopo lo zoster, con aspetti clinici sovrapponibili a quanto si osserva dopo la varicella. Sono rare complicanze dello zoster la vasculite granulomatosa cerebrale e la mielite anteriore, dovuta a localizzazione del VZV nelle corna midollari anteriori, con andamento clinico simile a quello della poliomielite. L’herpes zoster nel paziente immunocompromesso risulta più grave e di maggiore durata, le complicanze viscerali (polmonite, epatite ed altre) e neurologiche sono gravi ed abbastanza frequenti; lo zoster è infine una complicanza frequente dell’infezione da HIV, manifestandosi nel 10% circa dei pazienti, con una presentazione clinica tipicamente severa e che non di rado interessa più dermatomeri. E. Diagnosi. La diagnosi sia di varicella che di herpes zoster è agevole nella maggior parte dei casi già sulla scorta del quadro clinico e dei dati epidemiologici. Fino a pochi anni or sono la varicella poteva essere confusa con il vaiolo o con l’esantema postvaccinale; tale diagnosi differenziale non si pone più in seguito all’eradicazione del vaiolo. Resta la diagnosi differenziale con l’impetigine, che riconosce tuttavia dei fattori favorenti a livello cutaneo (eczema o ferite) ed è di solito un processo localizzato. Possono occasionalmente presentarsi con lesioni vescicolari diffuse l’infezione da herpes simplex virus (HSV) ed alcune infezioni da enterovirus, in particolar modo da virus coxsackie. L’herpes zoster può raramente essere confuso con lesioni da HSV mentre nei casi frusti, quando l’esantema sia poco o punto visibile, la diagnosi differenziale si pone con le neuriti acute di varia eziologia. In tutti i casi dubbi l’esame microscopico e colturale del liquido vescicolare può dipanare il dilemma diagnostico. Esiste la possibilità di misurare nel siero le IgM ed IgG specifiche, di solito con tecnica immunoenzimatica (ELISA); data l’elevata diffusione dell’infezione la ricerca degli anticorpi specifici ha tuttavia un significato prevalentemente epidemiologico. Infine, la ricerca del DNA virale mediante amplificazione genica è utile per la diagnosi di encefalite da VZV e, se eseguito nel liquido amniotico, di infezione fetale. F. Terapia e profilassi. L’esantema della varicella va innanzitutto curato con appropriate misure igieniche tese a diminuire il rischio di sovrainfezione batterica delle vescicole; il prurito, spesso fastidioso, specie nel bambino, diminuisce con l’uso di preparati topici (talco mentolato) ed eventualmente di antistaminici. L’acyclovir per os è utile nell’abbreviare la durata delle lesioni, i sintomi associati in un terzo almeno dei casi e diminuisce del 25% circa l’insorgenza di nuove lesioni.
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Nell’herpes zoster e nella varicella grave o complicata, specie dell’ospite immunocompromesso, è raccomandata la terapia con acyclovir (possibilmente per via venosa nei casi gravi), oppure con il valacyclovir o con il foscarnet in caso di sospetta resistenza agli altri farmaci. In tutti i casi la terapia va iniziata molto precocemente. La profilassi postesposizione andrebbe effettuata mediante immunoglobuline specifiche ad alte dosi o plasma iperimmune nei pazienti appartenenti alle categorie a rischio, già descritte, ivi compresi i neonati da madri che hanno contratto la varicella nel peripartum; particolare attenzione va prestata nei pazienti ricoverati in ospedale, potendosi l’infezione trasmettere facilmente al personale sanitario e ad altri pazienti. L’acyclovir è anche probabilmente efficace nella profilassi postesposizione, ma non vi sono ancora protocolli definiti in tal senso. In anni molto recenti è stato sviluppato un vaccino costituito da virus vivo attenuato (ceppo di Oka), che sembra indurre tassi di sieroconversione superiori al 90%, con sintesi di anticorpi protettivi, di citochine ad attività T-helper e con sviluppo di immunità cellulare specifica. L’effetto collaterale possibile dopo la vaccinazione, non raro nei bambini leucemici, è la comparsa dell’esantema, di solito di lieve entità. Il vaccino è stato dapprima approvato per l’uso in Giappone, negli USA dal 1997, ed è da poco disponibile anche in Italia. Il vaccino antivaricella risulta essere efficace, tuttavia l’efficacia diminuisce significativamente dopo un anno. La maggior parte dei casi di malattia in bambini vaccinati (“breakthrough disease”) ha un decorso lieve; recentemente è stata valutata anche la possibilità di vaccinare pazienti di età superiore ai 55 anni, al fine di restimolare l’immunità cellulare specifica, tipicamente depressa in relazione all’età, con l’obiettivo di ridurre l’incidenza dello zoster nella terza età.
Esantema critico A. Eziologia. L’esantema critico è una malattia infettiva della prima infanzia, a decorso clinico benigno, precedentemente nota come sesta malattia. La natura infettiva della malattia è nota da anni, tuttavia solo nel 1988 si è stabilita l’associazione eziologica tra l’esantema critico e un virus appartenente al genere Roseolovirus, famiglia delle Herpesviridae, scoperto nel 1986 e denominato Human Herpes Virus-6 (HHV-6). Si tratta di un virus a DNA a doppia elica del diametro di 200 nanometri circa, indistinguibile al microscopio elettronico da altre Herpesviridae, caratterizzato comunque da specificità antigeniche e biologiche proprie. In particolare, HHV-6 infetta numerose cellule del sangue, vale a dire linfociti T e B, monociti (e macrofagi tissutali), oltre che le cellule epiteliali. In comune agli altri virus della stessa famiglia HHV-6 induce infezione latente con possibilità di recidive a distanza di tempo; pertanto, oltre all’esantema critico, HHV-6 può dare malattia disseminata, spesso grave, nell’adulto, specie se immunocompromesso. Le caratteristiche colturali sono affini a quelle di altre Herpesviridae, in particolare cytomegalovirus; attualmente HHV-6 comprende due siero-
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tipi principali e distinti, A e B, forse correlati alla tendenza a dare malattia nel bambino e nell’adulto, rispettivamente. B. Epidemiologia. Le conoscenze attuali sull’epidemiologia dell’infezione non sono probabilmente ancora consolidate; è comunque noto che l’infezione è molto diffusa nella popolazione generale già dall’età infantile, e che anzi viene contratta di solito nei primi 18 mesi di vita con tassi di sieroprevalenza nel giovane adulto compresi tra l’85 e il 95% a seconda degli studi. Il virus viene escreto con la saliva e con le feci in modo intermittente durante la fase acuta della malattia, raramente con le urine. L’infezione, pertanto, viene molto probabilmente trasmessa per via aerea; la prevalenza dei portatori asintomatici del virus nelle vie aeree superiori sembra essere del 95% circa già dai due anni di età. C. Clinica. Come detto la malattia colpisce prevalentemente bambini piuttosto piccoli; l’esordio è costituito dall’insorgenza improvvisa di febbre piuttosto elevata, della durata di 3-5 giorni, talvolta, ma non sempre, accompagnata da segni di flogosi delle vie aeree superiori e/o da linfoadenopatia cervicale. Caratteristica della malattia, da cui anche il nome, è l’insorgenza, entro 48 ore dalla scomparsa della febbre, di un esantema maculopapuloso al tronco e al collo, che consente con facilità la diagnosi e che si risolve poi nell’arco di qualche giorno. Talvolta l’infezione decorre solo con la sintomatologia febbrile oppure l’esantema non viene identificato; in tali casi la diagnosi eziologica è quasi impossibile e può essere fatta solo retrospettivamente nell’ambito di studi sieroepidemiologici prospettici. L’infezione primaria da HHV-6 resta comunque una causa abbastanza comune di ricovero ospedaliero in bambini con iperpiressia di natura da diagnosticare. Assai raramente l’infezione infantile da HHV-6 può dare l’epatite acuta e gravi complicanze neurologiche (convulsioni e meningoencefalite), espressione di infezione del sistema nervoso centrale; nell’adulto l’infezione primaria da HHV-6 è stata associata a sindrome similmononucleosica (importante la diagnosi differenziale con l’infezione acuta da HIV), polmonite interstiziale grave ed alcuni casi di epatite fulminante. La riattivazione dell’infezione nell’ospite immunocompromesso può provocare quadri clinici in parte sovrapponibili a quelli dovuti a CMV, ovvero sindromi febbrili, encefalite, mielosoppressione secondaria. La diagnosi di infezione da HHV-6 in presenza di esantema critico nel bambino è semplice; l’infezione primaria o la riattivazione da HHV-6 può essere inoltre diagnosticata, se ciò è indicato, mediante la PCR per HHV-6 DNA nel siero oppure ricercando nel siero le IgM specifiche piuttosto che l’aumento di almeno quattro volte del titolo delle IgG; in studi recenti la PCR ha dimostrato una sensibilità e specificità del 90% e del 100%, rispettivamente. L’esantema critico non richiede ovviamente alcuna terapia. In vitro l’HHV-6 è inibito efficacemente da due farmaci antivirali, ganciclovir e foscarnet, che sono stati impiegati con relativo successo in alcuni casi di infezione complicata.
Megaloeritema infettivo Il megaloeritema infettivo, noto in passato come quinta malattia, è una malattia esantematica acuta benigna dell’infanzia; in anni molto recenti ne è stato identificato l’agente eziologico, denominato parvovirus B19, responsabile di svariati quadri clinici, dei quali il megaloeritema infettivo rappresenta un epifenomeno dell’infezione primaria. Per l’interesse e l’attualità dell’argomento si dà anche una descrizione sommaria della patologia oggigiorno sicuramente associata al parvovirus B19. A. Eziologia. Il Parvovirus B19 appartiene alla famiglia delle Parvoviridae, che comprende i generi Densovirus (che infetta gli insetti), Dependovirus e Parvovirus, che infettano numerose specie animali. I parvovirus sono piccoli virus (donde il nome) a DNA a singola elica, a polarità negativa; il genoma è rivestito da un capside di 32 capsomeri che conferisce al virus la simmetria icosaedrica: non vi è envelope. Sono note due proteine strutturali e una non strutturale, associata forse a lisi della cellula ospite; i parvovirus sono specie-specifici, da cui la mancanza di modelli animali sperimentali dell’infezione. Il ceppo B19 cresce con qualche difficoltà in alcune linee cellulari umane (cellule staminali midollari, cellule eritroidi fetali). Infine, una peculiarità delle Parvoviridae è la notevole resistenza ambientale ai solventi (etere e cloroformio) ed alle temperature elevate (più di 60 minuti a 56 °C). B. Epidemiologia. L’infezione ha diffusione ubiquitaria, è più frequente nell’infanzia ma non è rara nell’adulto; i tassi di sieroprevalenza aumentano con l’età della popolazione per attestarsi intorno al 50-60% negli adulti. Il virus viene trasmesso per contagio diretto tramite le secrezioni delle vie aeree superiori, è richiesto un contatto abbastanza stretto: l’infezione provoca tipicamente focolai epidemici, anche estesi, nelle comunità chiuse, specie le scuole, e in ambiente familiare. L’infezione può anche essere trasmessa mediante trasfusione di sangue e soprattutto di emoderivati, data la capacità del virus di resistere ai trattamenti inattivanti; la prevalenza con cui viene riscontrato il DNA virale mediante PCR nel siero dei donatori supera lo 0,5% secondo alcuni studi; ciò spiega l’elevata sieroprevalenza negli emofilici: è inoltre ben documentata la trasmissione materno-fetale, anche se il rischio relativo non è ancora ben noto. C. Patogenesi. L’infezione ha un andamento bifasico, che è stato ben studiato in volontari sani. Una settimana dopo il contagio si ha una prima fase viremica della durata di una settimana circa, talvolta accompagnata da sintomi non specifici, seguita dall’invasione midollare. Il parvovirus ha infatti un considerevole tropismo per i progenitori eritroidi midollari legandosi all’antigene gruppo-specifico P e provocando infezione litica; l’effetto è l’interruzione improvvisa dell’eritropoiesi con la scomparsa dal circolo dei reticolociti: il blocco dell’eritropoiesi dura circa una settimana, essendo limitato dal-
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la sintesi di anticorpi specifici, pertanto l’evento è di solito privo di conseguenze nell’ospite altrimenti sano, data la lunga emivita dei globuli rossi. Parvovirus possiede anche un discreto tropismo per i precursori dei leucociti e per i megacariociti, il che può risultare in gradi variabili di leucopiastrinopenia. La sintesi di anticorpi specifici, 14-20 giorni dopo il contagio, coincide con l’insorgenza del tipico esantema e delle eventuali complicanze articolari; entrambi i fenomeni sembrano dovuti alla formazione di complessi antigene-anticorpo. D. Clinica. 1. Megaloeritema infettivo. L’infezione primaria può essere asintomatica e come tale non viene identificata; negli altri casi vi può essere un periodo prodromico (viremia primaria) con febbre, astenia, cefalea, mialgie e prurito. L’esantema compare dopo circa 10 giorni; si tratta di un’eruzione eritematosa o maculopapulosa, diffusa dapprima al volto con risparmio della zona circumorale (aspetto del “bambino schiaffeggiato”), successivamente alle estremità e, più di rado, al tronco. L’esantema si risolve di regola entro una settimana, parallelamente alla scomparsa dei sintomi prodromici di accompagnamento; occasionalmente le manifestazioni cutanee possono essere molto diverse, sì da rendere ardua la diagnosi differenziale con le altre malattie esantematiche: in tutti i casi è per altro possibile confonderlo con la rosolia. In corso di malattia l’esecuzione dell’esame emocromocitometrico evidenzia una modesta anemia iporigenerativa di breve durata, eventualmente accompagnata da piastrinopenia di grado lieve. Sono state descritte varie complicanze da coinvolgimento viscerale dell’infezione (per es., meningoencefalite), tutte comunque assai rare. • Artrite. Le artralgie e l’artrite accompagnano il megaloeritema infettivo nel 60% circa dei casi adulti, più frequentemente nelle donne, mentre sono più rare in età infantile. Le articolazioni più spesso coinvolte sono, nell’ordine, quelle delle mani, le ginocchia e i polsi. L’artrite da parvovirus regredisce spontaneamente entro poche settimane dall’esordio clinico e sembra non essere causa di artrite cronica; è tuttavia una causa ancora oggi piuttosto sottostimata di artrite acuta di natura indeterminata. • Manifestazioni ematologiche. Si è detto che l’infezione acuta dei progenitori eritroidi è di solito priva di conseguenze nel soggetto sano; nel paziente affetto da alcune malattie ematologiche l’infezione primaria da parvovirus B19 può invece indurre gravi crisi aplastiche transitorie, della durata di 7-10 giorni, con importante anemizzazione; le concause più frequentemente correlate sono l’anemia falciforme ed altre emoglobinopatie, la sferocitosi ereditaria, le anemie emolitiche autoimmuni, la talassemia, le anemie sideropeniche gravi, i deficit di glucosio-6-fosfato-deidrogenasi. • Infezione nell’ospite immunocompromesso. Nell’ospite immunocompromesso è stata descritta l’infezione cronica da parvovirus, con anemia persistente e leucopiastrinopenia; le forme cliniche più frequentemente as-
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sociate risultano essere ad oggi la leucemia linfoblastica acuta infantile (durante chemioterapia di induzione o di mantenimento), le malattie linfoproliferative, l’infezione da HIV e i trapianti d’organo. Infine, l’infezione contratta in gravidanza viene trasmessa al feto nel 25% circa dei casi; l’infezione fetale decorre per lo più in maniera asintomatica, può tuttavia esitare in idrope e morte fetale (1,5-2,5% circa dei casi). E. Diagnosi. La diagnosi di megaloeritema infettivo è abbastanza agevole in presenza dell’esantema tipico tenuto conto delle peculiarità epidemiologiche dell’infezione; nei casi dubbi e nelle complicanze ci si può avvalere dello studio della cinetica anticorpale mediante la ricerca nel siero di IgM e IgG specifiche, di solito mediante tecnica ELISA o radioimmunometrica (RIA): le IgM specifiche scompaiono dal siero entro 2-3 mesi dall’infezione, mentre le IgG persistono probabilmente per tutta la vita, conferendo immunità protettiva. Infine, la PCR per il DNA nel virus è stata studiata con successo nel liquido amniotico per facilitare la diagnosi di malattia fetale e la storia naturale dell’infezione gravidica da parvovirus. F. Terapia e profilassi. Il megaloeritema infettivo non richiede alcuna terapia; le crisi aplastiche nel paziente predisposto o immunocompromesso richiedono spesso terapia trasfusionale di supporto; esistono dati preliminari a sostegno dell’utilità della terapia con immunoglobuline ad alte dosi in questi pazienti. Le epidemie nelle comunità sono difficili da prevenire, poiché i pazienti sono viremici e contagiosi nel periodo prodromico, quando l’infezione non è identificabile; i pazienti ricoverati in ospedale per crisi aplastiche da parvovirus andrebbero senz’altro sottoposti ad isolamento cutaneo e respiratorio, al fine di prevenire la diffusione nosocomiale dell’infezione. Non esistono inoltre a tutt’oggi delle linee-guida univoche di comportamento per le donne che contraggono l’infezione in gravidanza. Recentemente, infine, sono state sviluppate linee cellulari in grado di produrre virioni incompleti; di qui la possibilità di ottenere un vaccino efficace, ancora oggi non disponibile.
Vaiolo L’ultimo caso certo di vaiolo si è registrato in Somalia nell’ottobre del 1977; nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato eradicata la malattia e negli anni successivi è stata interrotta la vaccinazione obbligatoria estensiva. L’eradicazione del vaiolo è stata senza dubbio uno dei successi più clamorosi e per certi versi inaspettati della medicina del XX secolo in generale e della medicina preventiva in particolare. Il virus del vaiolo è attualmente conservato in forma congelata in due laboratori di virologia in tutto il mondo, ed è possibile che questi stock residui vengano distrutti nel prossimo futuro; è ancora tuttavia presto per relegare il vaiolo ai trattati di storia della medicina, specie per il fatto che enormi quantità di virus sono quasi sicura-
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mente stipate negli arsenali militari delle nazioni detentrici delle cosiddette armi biologiche. Prova ne è il fatto che, stante l’attuale contesto geopolitico, è stata ripresa la vaccinazione di fasce selezionate di popolazione (militari) e numerosi studi sono oggi disponibili sulla tossicità ed efficacia del vaccino, per esempio in formulazioni a bassa carica (vaccino diluito 1:50). Le conoscenze sul virus del vaiolo, Variola virus, risalgono dunque agli anni precedenti l’avvento della moderna virologia molecolare; si tratta di un voluminoso virus a DNA a doppia elica, del genere degli Orthopoxvirus, facilmente distinguibile al microscopio elettronico. Le caratteristiche colturali del virus non sono più state approfondite per evitare il rischio di contaminazione in laboratorio. L’infezione viene comunque ritenuta non particolarmente contagiosa; il virus viene trasmesso per inalazione o per contatto diretto con le lesioni cutanee. Il periodo di incubazione è di 10-12 giorni, seguito da una fase prodromica di 2-3 giorni caratterizzata da viremia ad alto titolo. L’esantema vaioloso si presenta dapprima maculopapuloso, poi vescicoloso, indi pustoloso e infine crostoso; i quadri clinici cutanei variavano molto da paziente a paziente, da quadri sfumati e localizzati a lesioni diffuse con ampia componente emorragica all’interno delle vescicole: le cicatrici residue sono tipicamente deturpanti. Esistevano due forme cliniche principali di malattia; la prima, più lieve, era denominata anche variola minor o Alastrim ed era caratterizzata dalla predominanza dell’esantema in assenza di segni sistemici: la mortalità era dell’1% circa. La forma grave di malattia, variola maior, era caratterizzata dall’estensione e dalla gravità dell’esantema e dal coinvolgimento sistemico (stato settico) e viscerale (specie polmonare); la mortalità era del 20-50% dei casi. In anni recenti sono stati riscontrati nello Zaire circa 300 casi di una malattia esantematica vescicolare, simile al vaiolo ma di minore gravità, dovuta ad un Orthopoxvirus delle scimmie, tra le quali l’infezione è endemica. Sono tuttora in corso studi epidemiologici estensivi nelle regioni subsahariane, patrocinati dall’OMS, al fine di valutare l’importanza di questa patologia emergente, già descritta anche in area non tropicale dove il virus sembra disporre di un vasto serbatoio animale (roditori).
Esantemi da enterovirus Gli enterovirus costituiscono una causa frequente di malattie esantematiche febbrili, prive tuttavia di caratteristiche cliniche peculiari tali da consentire la diagnosi differenziale con le analoghe forme cliniche. Gli enterovirus, dopo un’iniziale replicazione intestinale, disseminano per via ematogena ad altri organi ed apparati e vengono eliminati con la saliva e le urine per circa una settimana. I virus responsabili sono soprattutto gli Echovirus (sierotipi 2, 4, 9, 11, 16, 18, 25) e i Coxsackie virus di tipo A e B. Il periodo di incubazione è abbastanza breve (4-7 giorni) e ad esso seguono le manifestazioni esantematiche, variabili e non specifiche; si può quindi avere un’eruzione maculopapulosa, erite-
matosa, vescicolare, petecchiale o mista: sono comunque forme cliniche autolimitantesi, che si possono tuttavia saltuariamente complicare con enantema, linfoadenopatie diffuse e, soprattutto, meningite a liquor limpido. Due forme cliniche caratteristiche sono l’herpangina e la malattia mano-piede-bocca. La prima (dovuta di solito al virus Coxsackie B), altrimenti detta stomatite vescicolare, colpisce bambini tra i 3 e i 5 anni, ed è caratterizzata da faringite e stomatite vescicolare, accompagnate da febbre elevata, faringodinia e disfagia; guarisce di solito senza complicanze e la diagnosi differenziale si pone con la gengivostomatite erpetica. La malattia mano-piede-bocca, provocata per lo più da Coxsackie virus di tipo A, è caratterizzata da enantema vescicolare, meno grave che nell’herpangina, e da vescicole cutanee; queste ultime sono localizzate al dorso delle dita, delle mani e dei piedi: occasionalmente si può avere esantema maculopapuloso o vescicolare diffuso. La prognosi è favorevole e le complicanze neurologiche (meningoencefalite) estremamente rare.
Scarlattina L’infezione da streptococchi- emolitici di gruppo A produttori di tossina eritrogenica può provocare (in soggetti non immuni) la scarlattina, una malattia esantematica acuta caratterizzata da febbre, esantema maculopapuloso puntiforme, enantema e dalla compresenza dell’infezione streptococcica, di solito (ma non necessariamente) a carico delle tonsille palatine e del faringe. A. Epidemiologia e patogenesi. La malattia è endemica con esacerbazioni epidemiche nella stagione fredda, sono colpiti soprattutto i bambini in età scolare (3-10 anni); l’infezione streptococcica viene trasmessa per via aerea ed è comunque scarsamente diffusiva. Dopo alcuni decenni di progressivo declino, l’incidenza della scarlattina in Italia risulta in relativo aumento negli ultimi anni, probabilmente quale effetto della diminuita sorveglianza clinica ed epidemiologica della faringo-tonsillite streptococcica infantile. Si è detto che il focolaio infettivo streptococcico che provoca la scarlattina consiste per lo più in una faringotonsillite; non di rado, tuttavia, vi può essere infezione streptococcica cutanea (per es., ferite sovrainfettate), o a livello urogenitale. In tutti i casi la patogenesi dell’esantema è dovuta alla produzione ed immissione in circolo dell’esotossina specifica (tossina eritrogenica), in grado di produrre vasodilatazione capillare e le tipiche lesioni cutanee; la tossina ha potere antigenico, con induzione della sintesi di anticorpi neutralizzanti, che conferiscono immunità permanente contro la scarlattina (non contro le infezioni da streptococco). B. Clinica. Al contagio segue un breve periodo di incubazione (2-5 giorni); l’esordio clinico è brusco, con febbre elevata, faringodinia, cefalea, talora nausea e vomito. L’esantema può essere preceduto dalla comparsa del tipico enantema; insieme all’iperemia tonsillare si può avere un eritema puntiforme diffuso a tutta la mu-
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cosa del cavo orale, più evidente a livello del palato. La lingua risulta ricoperta da una patina biancastra dalla quale emergono le papille arrossate (lingua a fragola); dopo pochi giorni la lingua va incontro a disepitelizzazione ed assume un colorito rossastro (lingua a fragola rossa o a lampone). L’esantema compare dopo 2-3 giorni, dapprima alla parte superiore del tronco ed al collo, quindi agli arti e al volto, con risparmio della zona circumorale, del mento e del naso (maschera scarlattinosa). Sono anche risparmiate le piante dei piedi e le palme delle mani. L’esantema è di tipo maculopapuloso; le lesioni sono minute, puntiformi, ravvicinate tanto da dare l’apparenza di un eritema uniforme e tipicamente scompaiono alla vitropressione. Sono caratteristiche le petecchie confluenti alle pieghe ascellari e antecubitali (segno di Pastia), la positività delle prove di fragilità capillare (segno di Rumpell-Leede) e il dermografismo bianco (segno di Borsieri). La cute assume un aspetto ruvido, a carta vetrata, reperto utile per la diagnosi nei pazienti di pelle scura; la prognosi della scarlattina è favorevole; nei casi tipici l’esantema regredisce in 4-5 giorni provocando una fine desquamazione cutanea diffusa mentre la febbre si attenua per lisi. Le complicanze possibili della malattia, infrequenti ma non rare, sono di tipo settico (otiti medie, ascessi tonsillari, linfoadeniti acuta, ascessi cerebrali), di tipo tossico, dovute alla tossina (miocardite, nefrite interstiziale), o di tipo immunologico (malattia reumatica, glomerulonefrite acuta diffusa), discusse in altri capitoli. C. Diagnosi e terapia. La diagnosi di scarlattina è agevole nella maggior parte dei casi data la peculiarità dell’esantema in presenza di un focolaio di infezione streptococcica in atto; quest’ultima è facilmente diagnosticabile dall’indagine microscopica e soprattutto colturale del tampone faringeo o dei campioni biologici ottenuti da altri siti di sospetta infezione. Il titolo antistreptolisinico aumenta in corso di infezione ma non è necessariamente correlato ad infezione streptococcica in atto. Sono inoltre costantemente aumentati gli indicatori di flogosi acuta (proteina C reattiva, VES, leucocitosi neutrofila). La penicillina per via parenterale resta il farmaco di prima scelta e la terapia andrebbe protratta per almeno 10 giorni; nell’infanzia si ricorre di regola a terapie più praticabili, per esempio alla penicillina V, ai macrolidi o alle cefalosporine per via orale. In tutti i casi, l’antibiogramma sul ceppo isolato, possibilmente quantitativo, consente di effettuare trattamenti mirati con antibiotici efficaci; a tale proposito si sottolinea che un tampone faringeo correttamente eseguito e processato se ripetutamente negativo consente di escludere un’eziologia da streptococco nella maggior parte dei pazienti. Un’ulteriore possibilità terapeutica consiste nell’uso della penicillina a lento rilascio per via intramuscolare (una sola iniezione, ma è assai dolorosa), utilizzabile anche nella terapia soppressiva delle faringotonsilliti cronico-recidivanti, mentre i portatori asintomatici tonsillari dello streptococco non andrebbero di norma trattati. Infine, giova rammentare l’elevato rischio di esan-
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tema allergico, anche grave, nei pazienti affetti da faringodinia in corso di mononucleosi acuta impropriamente trattati con ampicillina o suoi derivati nel sospetto di una malattia da streptococco.
Erisipela È un’infezione della cute e dei tessuti molli provocata di solito da streptococchi- emolitici di gruppo A. A. Epidemiologia e patogenesi. L’incidenza della malattia, un tempo abbastanza alta, è diminuita in era antibiotica. Esistono alcuni fattori favorenti all’insorgenza dell’erisipela, abbastanza ben identificati, quali il diabete, l’obesità, l’insufficienza venosa cronica (di solito a carico degli arti inferiori), ai quali si è aggiunto in tempi recenti la tossicodipendenza per via iniettiva. Oggi la malattia è comunque presente soprattutto nella prima infanzia e negli anziani. Il germe responsabile è quasi sempre lo streptococco- emolitico di gruppo A, ma sono descritte forme cliniche causate da stafilococchi o da pneumococchi. La malattia consegue alla penetrazione nella cute del germe e disseminazione al derma circostante con conseguente, intensa risposta flogistica (accumulo di cellule infiammatorie, rilascio di mediatori infiammatori). B. Clinica. Dopo un periodo di incubazione di circa una settimana la malattia esordisce bruscamente, con il quadro clinico di una sindrome settica; si ha quindi febbre elevata, malessere e astenia, cefalea, talvolta nausea e vomito. A breve compare l’esantema; si tratta di una lesione rossastra, rilevata, a margini dolenti, lucida, dolente ed edematosa. È più spesso presente al volto o, meno frequentemente, agli arti inferiori; la lesione si estende rapidamente (al volto è tipico l’aspetto “ad ali di farfalla”) e talora sulla superficie della stessa possono comparire numerose piccole bolle, che vanno poi incontro a rottura ed evoluzione in escara. La prognosi dell’erisipela è di regola favorevole, con guarigione spontanea della lesione in 7-10 giorni; le complicanze possibili si verificano nel neonato e nel paziente immunodepresso. Quali complicanze locali si può avere la formazione di flemmoni, eventualmente ad evoluzione gangrenosa, mentre le complicanze sistemiche sono legate all’estensione e all’aggravamento del processo settico ed infettivo, con rischio di infezione polmonare, meningea o endocardica, conseguenti alla disseminazione ematogena dell’agente causale. La diagnosi di erisipela è piuttosto facile già sulla scorta della presentazione clinica; si ha sempre aumento degli indici di fase acuta nel sangue mentre l’isolamento del germe dalla lesione cutanea è abbastanza difficile. La diagnosi differenziale in qualche caso si può porre con l’herpes zoster. C. Terapia. Il farmaco di prima scelta è la penicillina G per via endovenosa o i suoi derivati semisintetici (ampicillina o amoxicillina); nei pazienti allergici alle penicilline un’alternativa terapeutica possibile è data
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dai macrolidi (eritromicina o derivati più recenti) o dalle cefalosporine. Le infezioni streptococciche acquisite in comunità sono di solito sensibili alla penicillina; in tutti i casi l’isolamento del germe permetterà di guidare la terapia sulla scorta dell’antibiogramma.
Rickettsiosi esantematiche Si tratta di un vasto gruppo di infezioni trasmesse da artropodi, causate da piccoli bacilli Gram–, le rickettsie; oggi resta abbastanza diffusa la febbre purpurea delle Montagne Rocciose (FPMR), la più importante tra le rickettsiosi esantematiche, delle quali rappresenta anche la forma clinica più severa, con tassi di letalità che superano il 25% nei pazienti non trattati. A. Eziologia. La famiglia delle Rickettsiaceae comprende numerose specie, strettamente correlate dal punto di vista antigenico; sono piccoli bacilli intracellulari obbligati, Gram–, a localizzazione di solito intracitoplasmatica. Le rickettsie crescono in coltura in un ristretto numero di linee cellulari suscettibili, mai nei comuni medium acellulari. Sono state identificate due famiglie di proteine della superficie batterica, contenenti epitopi termolabili, in parte specie-specifici. Il lipopolisaccaride batterico contiene antigeni fortemente immunogeni ed induce la sintesi di anticorpi specifici ampiamente cross-reattivi tra le diverse specie ed anche con altre specie batteriche (Legionella e Proteus). B. Epidemiologia. La zecca è sia il vettore sia il principale serbatoio dell’infezione; l’insetto si infetta di regola durante il pasto ematico da un animale infetto ed allo stesso modo trasmette l’infezione all’uomo. Tra gli altri possibili serbatoi (animali domestici e selvatici, conigli e piccoli roditori) è particolarmente importante il cane. Per trasmettere le rickettsie è necessaria l’adesione della zecca alla cute per almeno 6-10 ore; i bacilli vengono iniettati in circolo attraverso le ghiandole salivari oppure vengono trasmessi in seguito alla rimozione cruenta della zecca dopo contatto con parti dell’insetto. La malattia ha andamento stagionale, con la massima incidenza dei casi da aprile a settembre, periodo di più alta circolazione delle zecche all’aperto, ed è chiaramente più frequente nelle zone rurali e boschive. La FPMR è diffusa soprattutto nelle regioni centrali ed atlantiche degli USA, ove i casi diagnosticati sono circa 1000 all’anno. L’incidenza della malattia è superiore nel sesso maschile e nella seconda infanzia. C. Patogenesi. Le rickettsie penetrano nell’organismo attraverso la cute e successivamente disseminano attraverso i linfatici e la circolazione ematica. I germi penetrano nelle cellule endoteliali e le cellule della muscolatura liscia vascolare grazie ad apposite proteine di superficie e a una fosfolipasi specie-specifica. Nelle cellule bersaglio le rickettsie si moltiplicano rapidamente inducendo effetto citopatico diretto. Ne deriva un danno vascolare generalizzato, più evidente a danno del microcircolo, con conseguente attivazione dei fattori
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della coagulazione, stravaso extravasale di plasma per alterazione della permeabilità vasale ed ipoperfusione tissutale. L’alterazione della permeabilità vasale provoca inoltre edema, ipovolemia, ipotensione e ipoalbuminemia. I meccanismi di risposta immunitaria comprendono (nell’animale da esperimento) la lisi dei batteri da parte delle cellule endoteliali con un meccanismo mediato dall’ossido nitrico dopo stimolo da parte di interferone- e di TNF; nel controllo delle rickettsiosi è stato anche recentemente evidenziato il ruolo dei linfociti CD8+. D. Clinica. Il periodo di incubazione va da 2 a 14 giorni ma è in media di 7 giorni. La classica triade clinica di febbre, esantema e storia clinica recente di esposizione alle zecche si riscontra, in realtà, in non più del 18% dei pazienti. La maggior parte dei pazienti presenta all’inizio perlopiù febbre, talvolta accompagnata da cefalea; una storia clinica di recente morso di zecca si ha nell’80% dei pazienti in cui tale dato anamnestico viene ricercato, ciò che spesso purtroppo non avviene. L’esantema si verifica dopo 2 o 3 giorni dall’insorgenza della febbre (anche prima nei pazienti più giovani), dapprima come piccole (1-4 millimetri) macule confluenti che diventano rapidamente petecchie; l’esantema si manifesta dapprima alla cute delle caviglie e dei polsi e successivamente si estende al tronco ed in regione palmo-plantare. Nei casi gravi le lesioni tendono a divenire confluenti e si formano vaste aree di cute ecchimotica che può andare incontro a necrosi, specie nei distretti cutanei irrorati da arterie terminali (dita, falangi, naso, orecchie). La nausea e il vomito sono sintomi di accompagnamento frequenti. La gran parte delle complicanze della rickettsiosi esantematica dipende direttamente dalla vasculite sottostante; si può avere quindi una pletora di forme cliniche possibili, tra le quali ricordiamo la meningoencefalite, la sindrome da distress respiratorio dell’adulto e l’edema polmonare acuto, i disturbi del ritmo cardiaco, le emorragie dell’apparato digerente e le necrosi cutanee, già citate. Vi possono essere sequele a lungo termine della malattia, perlopiù di natura neurologica e sempre riferibili al danno microvascolare; tra le più comuni si ricorda la neuropatia periferica mista, i disturbi sfinterici, le anomalie del linguaggio e della funzione cerebellare. Nei pazienti adulti vi è una percentuale relativamente elevata di quadri clinici anomali e/o severi, l’esantema compare più tardi, non di rado è assente e l’anamnesi è più spesso negativa per morso di zecca; ne consegue spesso un certo ritardo nella diagnosi e nell’inizio della terapia, purtroppo a volte sufficiente per oscurare la prognosi dell’ammalato; occorre infatti sottolineare che nella FPMR vi è un chiaro legame tra la mortalità della malattia ed il ritardo della diagnosi. La prognosi della malattia è infatti favorevole se la diagnosi è precoce e la terapia idonea; negli altri casi la prognosi è severa, ed il decesso si verifica dopo 8-15 giorni dall’esordio clinico. Una variante clinica è la forma fulminante della FPMR, talvolta presente nei pazienti di origine africa-
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na affetti da deficit congenito della glucosio-6-fosfatodeidrogenasi, nella quale si ha emolisi intravascolare massiva e decesso entro 5 giorni dall’esordio dei sintomi. E. Diagnosi. Per la diagnosi di rickettsiosi esantematica è importante la raccolta dell’anamnesi e dei rilievi clinici; l’assenza dell’esantema in una percentuale non trascurabile di casi rende la diagnosi eziologica spesso difficile se non ardua. Per favorire la diagnosi eziologica sono stati studiati numerosi approcci diagnostici alternativi all’indagine colturale; l’immunofluorescenza indiretta su campioni di biopsia cutanea possiede elevata sensibilità (dal 70 al 90%) ma è per l’appunto applicabile ai soli pazienti con un esantema in corso. L’amplificazione genica (PCR) per il DNA di Rickettsia rickettsii nel sangue possiede un’insufficiente sensibilità, specie nei primi giorni di malattia. Analogamente, la cinetica anticorpale ricerca gli anticorpi specifici che iniziano a divenire positivi nel siero da 7 a 10 giorni dall’esordio clinico; la diagnosi sierologica richiede un aumento del titolo degli anticorpi specifici di almeno quattro volte tra siero della fase acuta e siero convalescente (l’immunofluorescenza sembra essere la tecnica con la migliore sensibilità: 94%). Anni addietro veniva utilizzata la reazione di Weil-Felix, che sfrutta la crossreazione degli anticorpi specifici contro antigeni di Proteus (OX-2 e OX-19), attualmente quasi del tutto abbandonata per il valore predittivo diagnostico insoddisfacente. Il laboratorio di analisi offre alcuni elementi peculiari ma non patognomonici, tra i quali si ricorda la piastrinopenia, l’assenza di un’elevata leucocitosi, l’anemia, l’iponatriemia, l’aumento delle transaminasi e della bilirubina. Infine, la diagnosi differenziale della febbre purpurea delle Montagne Rocciose è abbastanza ampia e comprende la meningococcemia, il tifo, la leptospirosi e la mononucleosi infettiva, la porpora trombotica trombocitopenica e la vasculite da immunocomplessi. F. Terapia e profilassi. I soli farmaci di comprovata efficacia nella cura delle rickettsiosi esantematiche sono le tetracicline ed il cloramfenicolo (CAF) e con entrambi i farmaci la terapia andrebbe protratta per almeno una settimana. Si ricorda che le tetracicline possono dare alterazioni della pigmentazione dentaria se somministrate ai bambini (eccetto forse la doxiciclina) e che il CAF è associato a svariate forme di tossicità midollare, anche potenzialmente gravi ed irreversibili; anche i fluorochinoloni sono attivi, ma l’efficacia clinica di questa categoria di antibiotici nella terapia delle rickettsiosi esantematiche non è ancora stata adeguatamente studiata. Non esiste, ad oggi, un vaccino efficace contro tali infezioni, pertanto la prevenzione si basa sulla protezione della cute quando si soggiorna in aree endemi-
MALATTIE INFETTIVE
Tabella 76.2 - Caratteristiche epidemiologiche delle principali rickettsiosi esantematiche. FORMA MORBOSA
EZIOLOGIA
SERBATOIO ARTROPODI NATURALE(1) VETTORI
Tifo esantematico R. prowazeki
Uomo
Pidocchi
Tifo murino
R. typhi
Ratti
Pulci
Febbre purpurea delle Montagne Rocciose
R. rickettsii
Zecche
Zecche
Febbre bottonosa R. conorii Tsu-tsugamushi
Zecche, cani, Zecche roditori
R. tsu-tsugamushi Acari, roditori
Acari
(1) Il serbatoio naturale più importante è comunque costituito dalla zecca stessa.
che (abiti coprenti), sull’uso di repellenti cutanei (permetrina) e sulla ricerca sulla cute delle zecche; queste ultime, se identificate, andranno rimosse con cautela e per intero, evitandone la frantumazione. G. Altre rickettsiosi esantematiche. Le altre più comuni rickettsiosi esantematiche e le loro caratteristiche cliniche sono riassunte in tabella 76.2. In generale si tratta di infezioni poco diffuse, la cui incidenza è in evidente diminuzione negli ultimi decenni, causa il progredire dei livelli igienici delle popolazioni; non sono comunque rare occasionali riaccensioni epidemiche, anche nel nostro paese. Fanno eccezione la febbre bottonosa, tuttora abbastanza diffusa nel bacino del Mediterraneo, in Africa e in Asia, e la febbre purpurea delle Montagne Rocciose, già trattata. In tutte le rickettsiosi sono peculiari sia i serbatoi naturali che i vettori dell’infezione, che sono sempre insetti e talvolta ectoparassiti (oltre alle zecche, pulci, pidocchi e acari). Il tifo murino, o tifo petecchiale, ha come ospite naturale il ratto e come ospite occasionale l’uomo; l’infezione fu responsabile di estese e gravi epidemie tra i militari nei due conflitti mondiali. La patogenesi e gli aspetti clinici di tutte le rickettsiosi sono sovrapponibili; la febbre bottonosa è caratterizzata dalla frequente formazione di un’escara nerastra in corrispondenza del morso della zecca (tâche noire), utile per la diagnosi. Per la diagnosi di un sospetto caso di rickettsiosi esantematica sono imprescindibili le notizie anamnestiche e l’indagine epidemiologica; se il quadro clinico risulta compatibile, la diagnosi può essere confermata mediante la ricerca di anticorpi specifici nel siero, documentando la sieroconversione o l’aumento del titolo anticorpale nel siero convalescente. Tutte le rickettsiosi esantematiche, infine, sono sensibili alle tetracicline ed al cloramfenicolo.
C A P I T O L O
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77
PATOLOGIA INFETTIVA DELL’APPARATO RESPIRATORIO C. UBERTI-FOPPA
Le infezioni respiratorie rappresentano le più comuni malattie dell’uomo. Esse conseguono all’impianto e alla moltiplicazione di vari agenti eziologici nelle vie aeree, nel parenchima polmonare, nelle sierose pleuriche e determinano un quadro clinico prevalentemente respiratorio. Non vanno perciò considerate in questo ambito le malattie infettive che riconoscono le prime vie aeree come porta d’ingresso del microrganismo responsabile, ma che evolvono con quadro clinico caratterizzato da un interessamento sistemico (malattie esantematiche, mononucleosi, ecc.). Le malattie delle vie respiratorie sono la causa principale di assenze in ambiente lavorativo e scolastico; esse sono anche la causa più frequente di uso scorretto degli antibiotici, in quanto le forme virali delle alte vie respiratorie vengono spesso trattate con antibiotici. L’esordio e il decorso delle patologie infettive respiratorie sono generalmente acuti. Per la descrizione dei singoli quadri clinici si rimanda al capitolo 16. In questa sede verranno presi in considerazione i fattori che concorrono a determinare l’elevata frequenza delle infezioni delle vie respiratorie e cioè la grande diffusibilità e varietà degli agenti eziologici, la breve durata dell’immunità che ne consegue e i quadri clinici di alcune infezioni che, acquisite attraverso le prime vie respiratorie, presentano manifestazioni cliniche prevalentemente a carico di questo distretto anatomico (difterite, nocardiosi, actinomicosi).
EPIDEMIOLOGIA La trasmissione delle infezioni respiratorie avviene essenzialmente per via aerea (per inalazione di agenti patogeni dall’aria ambiente), più raramente il parenchima polmonare può essere aggredito per via ematogena, come conseguenza della disseminazione di emboli settici da focolai periferici (tromboflebiti), inoltre l’aspirazione del contenuto gastrico o l’inalazione di vapori tossici possono provocare modificazioni infiammatorie con successiva invasione di germi che si aggiungono al
danno primitivo. L’eliminazione dei microrganismi dalla fonte di contagio avviene mediante le particelle di Flügge, disperse nell’aria con la tosse e gli starnuti; la porta d’ingresso è rappresentata dalla mucosa dell’orofaringe, della trachea e dei bronchi. Il contagio è per lo più interumano. In alcuni casi si riconoscono serbatoi animali, per esempio gli uccelli per i microrganismi del genere Chlamydia, responsabili delle ornitosi o psittacosi. Le infezioni respiratorie si manifestano frequentemente con un andamento epidemico e maggiore incidenza nelle stagioni freddo-umide. Le infezioni virali abitualmente prediligono i bambini e i giovani adulti e sono responsabili del 20% della mortalità infantile per malattie respiratorie. Nell’adulto esse sono frequentemente causa di esacerbazioni di malattie respiratorie croniche. Nonostante l’elevato numero di patogeni respiratori virali e di sindromi da loro causate, nei vari quadri clinici di infezione delle vie aeree si possono riconoscere caratteristiche comuni. Ogni sindrome è causata da più di un agente patogeno, ma ciascuna sindrome è sostenuta da un limitato numero di patogeni a seconda della stagione, area geografica, età e stato immunitario dell’ospite. L’influenza, per esempio, si diffonde ciclicamente con carattere pandemico, in conseguenza di una modificazione antigenica virale interessante un determinante maggiore. Molti microrganismi patogeni respiratori possono causare più di una sindrome, ma ognuno di essi è responsabile di una particolare sindrome in base alla sua propensione per una certa fascia di età, per una particolare stagione e/o popolazione: per esempio il virus respiratorio sinciziale può causare una bronchiolite nella prima infanzia e un’infezione clinicamente inapparente nell’adulto.
EZIOLOGIA Le infezioni delle vie respiratorie sono prevalentemente causate da virus e batteri, talvolta anche da mi-
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MALATTIE INFETTIVE
Tabella 77.1 - Virus e sindromi respiratorie nell’adulto. VIRUS
CORIZA
Adenovirus Virus influenzale A Virus influenzale B Virus parainfluenzali 1, 2 e 3 Virus respiratorio sinciziale Rhinovirus Enterovirus Coronavirus Hantanvirus
FARINGITE TRACHEOPOLMONITE E TONSILLITE BRONCHITE
+ + +
+ (1) ++ ++
+ +++ ++
+ (1) ++ +
+
++
+
?
+ ++++ + + ?
? ++ + + ?
? + + + ?
? + + + +
+ casi sporadici ed occasionali ++ frequenza modesta ma costante +++ notevole frequenza ++++ maggioranza dei casi (1) Alcuni sierotipi (4, 7) possono causare endemie tra le reclute
ceti, raramente da protozoi ed elminti; l’eziologia delle sindromi respiratorie nell’adulto rimane tuttavia sconosciuta in circa il 40% dei casi. I virus sono responsabili della metà circa delle infezioni respiratorie acute: sono noti attualmente più di 200 sierotipi virali, antigenicamente differenti, associati alla patologia infettiva dell’apparato respiratorio (Tabb. 77.1, 77.2): essi appartengono alle famiglie Adenoviridae, Orthomyxoviridae, Paramyxoviridae, Picornaviridae, Coronaviridae, Reoviridae, Herpetoviridae. I patogeni respiratori noti più frequenti sono gli adenovirus, i virus influenzali, rhinovirus, virus parainfluenzali, virus respiratorio sinciziale e tra i batteri gli streptococchi e M. pneumoniae. A. Gli adenovirus patogeni per l’uomo appartengono al genere Mastadenovirus. Hanno struttura icosaedrica e contengono DNA, sono resistenti a pH notevolmente basso. Determinano la formazione di anticorpi fissanti il complemento e anticorpi neutralizzanti. Essi sono responsabili di varie forme morbose, più comunemente
infezioni lievi e aspecifiche delle prime vie aeree, in particolare faringiti e tonsilliti, talora cheratocongiuntiviti, più raramente broncopolmoniti. Alcuni sierotipi provocano nel bambino quadri simili alla pertosse; altri sono associati a sindromi gastroenteriche, altri ancora sono responsabili di cistiti emorragiche nei bambini. Nei soggetti immunocompromessi sono state descritte polmoniti interstiziali, infezioni del sistema nervoso centrale e delle vie urinarie. B. I virus influenzali (Orthomyxoviridae) hanno tutti simmetria elicoidale; l’acido nucleico (RNA) è frammentato in otto segmenti, cosa che facilita i fenomeni di ricombinazione, ed è circondato da un involucro lipoproteico. Sono stati identificati tre sierotipi denominati A, B e C; essi esprimono in modo differente tre antigeni virali: la nucleoproteina (antigene S) tipo specifica, la emoagglutinina (antigene H) e la neuroaminidasi (antigene N) sottotipo specifica. L’antigene S permette dunque di distinguere i virus influenzali di tipo A, B e C fra loro, mentre le varianti antigeniche H e N definiscono i vari sottotipi e ceppi virali. Le variazioni del patrimonio antigenico che si verificano ogni 11 anni circa sono responsabili delle pandemie periodiche: infatti il corredo anticorpale precedentemente acquisito è inefficace su ogni nuovo sottotipo. La coincidenza di pandemie umane ed epidemie animali (la spagnola del 1918-19 si associò ad un’influenza suina) induce a ritenere che le modificazioni genetiche del virus A abbiano luogo in serbatoi animali. Attualmente i virus influenzali sono definiti in base al tipo/sede o fonte del ceppo/anno di isolamento/variante degli antigeni H ed N (per es., influenza A/Hong Kong/68/H3N2). Il virus A è responsabile dell’influenza epidemica, il virus B di forme sporadiche, il virus C di infezioni inapparenti o sindromi minori. C. I virus parainfluenzali (Paramyxoviridae) sono distinti in cinque sierotipi di cui quattro patogeni per l’uomo; non vanno incontro a variazioni antigeniche. Hanno simmetria icosaedrica e contengono RNA. Assai
Tabella 77.2 - Virus e sindromi respiratorie nel bambino. VIRUS
Adenovirus Virus influenzale A Virus influenzale B Virus parainfluenzale 1 Virus parainfluenzale 2 Virus parainfluenzale 3 Virus respiratorio sinciziale Rhinovirus Enterovirus Coronavirus Reovirus + ++ +++ ++++
CORIZA
++ + + +++ +++ +++ ++++ ++ + ++ +
casi sporadici ed occasionali frequenza modesta ma costante notevole frequenza maggioranza dei casi
FARINGITE E TONSILLITE LARINGITE EPIGLOTTITE
++ ++ ++ ++ ++ ++ ++ ++ + + +
+ ++ + ++++ + ++ ++ + + + ?
BRONCHITE
+ ++ ++ ++ ? +++ +++ + + + ?
BRONCHIOLITE
+ + + + + ++ ++++ + ? + ?
POLMONITE
+ + ++ +++ + ++ ++++ + + + ?
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77 - PATOLOGIA INFETTIVA DELL’APPARATO RESPIRATORIO
diffusi, sono responsabili del comune raffreddore e di rinolaringiti nell’adulto, di “croup”, otite media e bronchiti nel bambino. Nel soggetto immunocompromesso, in particolare con deplezione dei linfociti T, i virus parainfluenzali possono causare gravi polmoniti interstiziali. D. Il virus respiratorio sinciziale (o pneumovirus), appartenente alla famiglia Paramyxoviridae, deriva il suo nome dalla peculiare aggregazione delle cellule in sincizi che esso provoca in colture cellulari. Ha simmetria elicoidale e contiene RNA. Ne esistono tre diversi sierotipi. Lo pneumovirus è il più importante agente eziologico delle infezioni respiratorie nel bambino: esso può essere responsabile di gravi bronchioliti o polmoniti. Non conferisce immunità definitiva e sono quindi frequenti le reinfezioni che nel bambino grande e nell’adulto sono causa di tracheobronchiti e di patologie delle alte vie respiratorie. E. I rhinovirus (Picornaviridae), diffusissimi e responsabili della maggior parte dei casi di raffreddore comune, possono anche determinare faringiti acute aspecifiche, riacutizzazioni di bronchiti croniche e, più raramente, episodi broncopneumonici. Hanno simmetria cubica e contengono RNA; si moltiplicano elettivamente nell’epitelio ciliato dell’albero respiratorio. Esistono più di 200 sierotipi di rhinovirus e conferiscono immunità di breve durata, le reinfezioni sono quindi frequenti. Oltre alla trasmissione diretta per via aerea un importante meccanismo di trasmissione è rappresentato dal trasferimento del virus dalle mani di una persona infetta ad una superficie intermedia, o direttamente alle mani di una persona ricettiva. Per ridurre la contagiosità di questi virus è quindi importante, oltre ad evitare il contagio per via aerea, anche un corretto lavaggio delle mani. F. I coronavirus (Coronaviridae) sono virus a RNA, elica singola, polarità positiva; le particelle virali hanno forma irregolare e sono dotate di un involucro con proiezioni esterne che formano un caratteristico alone o corona (da cui il nome). Il genere Coronavirus comprende tre gruppi: gruppo 1, del quale fanno parte virus umani, felini, canini, suini; gruppo 2, del quale fanno parte virus umani, bovini, suini, dei roditori; e gruppo 3, del quale fanno parte virus aviari. Il coronavirus responsabile della sindrome respiratoria acuta grave (SARS: Severe Acute Respiratory Syndrome) sembra appartenere a un nuovo gruppo per le diverse caratteristiche antigeniche (Cap. 17). Dopo essere stati isolati per la prima volta nei polli nel 1937, i coronavirus sono considerati, insieme ai rhinovirus, la causa più frequente del comune raffreddore umano. In generale l’infezione delle cellule epiteliali provocata dai coronavirus rimane localizzata, perché la temperatura ottimale di replicazione delle particelle virali è tra 33-35 °C. Particelle virali di coronavirus sono state riscontrate anche nelle feci di adulti e bambini affetti da gastroen-
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terite e diarrea. Le modalità di trasmissione delle infezioni da coronavirus comprendono la via respiratoria e fecale-orale. Le infezioni da coronavirus, sia umane che veterinarie, sono comuni e ubiquitarie. Poco ancora si conosce sui reovirus (Reoviridae) isolati in alcuni casi dall’escreto di bambini con sindrome respiratoria indifferenziata (e da tamponi rettali in corso di diarrea); sono stati descritti alcuni casi di infezione delle basse vie respiratorie. G. Gli hantanvirus sono stati recentemente riconosciuti agenti eziologici di una grave epidemia di sindrome da distress respiratorio dell’adulto (ARDS) avvenuta in soggetti residenti in alcune aree rurali degli USA (Arizona, Utah, Colorado, New Mexico). Il serbatoio principale di questo virus, chiamato virus Sin Nombre, è un roditore (topo dai piedi bianchi) e l’epidemia descritta era correlata ad un’epidemia avvenuta in anni precedenti nei topi dai piedi bianchi della stessa zona. Quasi tutti i casi di sindrome polmonare da hantanvirus si sono verificati in aree rurali o dopo una visita in tali ambienti, le modalità di trasmissione non sono state identificate. Le manifestazioni cliniche comprendono febbre, brividi e mialgie; dopo un breve periodo segue l’ARDS. La diagnosi è ovviamente legata al sospetto clinico; un possibile caso è rappresentato dalla comparsa di ARDS inspiegabile in un giovane adulto per altro sano. La mortalità durante la prima epidemia è stata del 60%; per la sopravvivenza è utile la terapia di supporto in unità di terapia intensiva. H. Gli schizomiceti, altre cause comuni di infezioni delle vie respiratorie, in genere superinfettano tratti di mucose lese da una precedente infezione virale che provoca alterazioni delle ciglia dell’epitelio con compromissione della funzione e della clearance mucociliare. Per esempio, nei bambini un’otite media acuta o una sinusite, che insorgono dal 4° al 7° giorno di malattia, possono essere una complicanza del raffreddore. Negli adulti l’otite media è poco frequente, mentre è più comune una sinusite che nei casi più lievi consiste in una persistente secrezione nasale, ma può manifestarsi anche con una sinusite purulenta con febbre, brividi e leucocitosi. Nei bambini la tracheobronchite e la polmonite, che possono complicare i raffreddori comuni, sono generalmente causate da virus o da Mycoplasma pneumoniae, mentre negli adulti è più frequente una superinfezione da streptococchi o altri batteri. Una secrezione nasale purulenta che compare 10-14 giorni dopo un’infezione virale è indicativa di sinusite batterica. Le specie batteriche in grado di provocare infezioni respiratorie nel soggetto sano sono relativamente poche (pneumococchi, streptococchi, stafilococchi, Mycoplasma pneumoniae, Haemophilus influenzae, Moraxella catarrhalis); al contrario, nel caso di soggetti a rischio, quali i pazienti in età senile, immunodepressi o affetti da malattie defedanti o broncopneumopatie croniche, entrano in causa agenti eziologici che solo occasionalmente colpiscono il soggetto normale (Klebsiella pneumoniae, Proteus, Pseudomonas, alcuni miceti e protozoi) (Tab. 77.3).
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MALATTIE INFETTIVE
Tabella 77.3 - Microrganismi più frequentemente responsabili di infezioni respiratorie. Virus Adenovirus Virus influenzali Paramyxovirus Virus del morbillo Virus respiratorio sinciziale Hantanvirus Rhinovirus Enterovirus Coronavirus Reovirus Herpesvirus Schizomiceti Streptococcus pneumoniae Streptococcus pyogenes Altri streptococchi Staphylococcus aureus Haemophilus influenzae Bordetella pertussis Klebsiella pneumoniae Altri enterobatteri Corynebacterium diphteriae Pseudomonas aeruginosa Burkholderia pseudomallei Mycoplasma pneumoniae Clamydia psittaci Mycobacterium tuberculosis Micobatteri non tubercolari Francisella tularensis Moraxella catarrhalis Yersinia pestis
Bacillus anthracis Legionella pneumophila Actinomyces spp Nocardia spp Anaerobi obbligati della flora endogena oro-faringea Coxiella burnetii Clamydia pneumoniae Miceti Candida albicans Aspergillus fumigatus Mucorales Cryptococcus neoformans Pneumocystis jiroveci Histoplasma capsulatum Blastomyces dermatitidis Coccidiodes immitis Paracoccidioides brasiliensis Sporothrix schenckii Protozoi Toxoplasma gondii Elminti Larva migrans viscerale Paragonimus westermani Echinococcus granulosus Ascaridiasi e altre parassitosi Strongyloides stercoralis Dirofilaria tenuis
I. Mycoplasma pneumoniae appartiene ad un gruppo di microrganismi particolari la cui peculiarità consiste essenzialmente nell’assenza di parete cellulare rigida: essi sono quindi spiccatamente pleiomorfi e del tutto insensibili agli antibiotici che agiscono sulla parete cellulare (penicilline, cefalosporine, ecc.). Sono a maggior rischio di questa infezione i soggetti di età compresa fra 5 e 20 anni, ma può manifestarsi in tutte le età; la malattia tende a diffondersi in ambito familiare. Ogni 4-7 anni generalmente si verificano delle epidemie. L’immunità che segue l’infezione è parziale e quindi possono presentarsi recidive di malattia nello stesso soggetto; i soggetti ipo--globulinemici sono particolarmente suscettibili a questa infezione. M. pneumoniae è l’agente eziologico della polmonite atipica primaria: esso è inoltre riconosciuto responsabile di circa la metà delle polmoniti interstiziali nell’adulto, sebbene sia in grado di provocare anche sindromi minori (rinofaringiti, bronchiti) ed affezioni non respiratorie (epatiti, pericarditi, miocarditi, meningoencefaliti, mieliti trasverse, paralisi ascendente e lesioni cutanee). Dopo 2-3 settimane di incubazione la malattia si manifesta in modo subacuto con febbre, malessere, cefalea e tosse secca non produttiva (la tosse è il sintomo più debilitante ed è ingravescente), l’insorgenza graduale della sintomatologia differenzia questa infezione dall’insorgenza acuta delle infezioni respiratorie causate da adenovirus e virus in-
fluenzali. La polmonite e la tracheobronchite si manifestano nel 5-10% dei pazienti con la persistenza della sintomatologia ed il peggioramento della tosse non produttiva. Al contrario dell’influenza, che può presentarsi con una sindrome simile a quella osservata in corso di infezioni da M. pneumoniae, in quest’ultima sono generalmente assenti le mialgie e la sintomatologia gastrointestinale come il vomito e la nausea. La miringite bollosa può essere utile ai fini diagnostici, ma è presente solo in una piccola percentuale di casi. Nel 5-20% dei pazienti è presente anche un versamento pleurico in assenza di dolore pleurico. L. Coxiella burnetii è in grado di infettare l’uomo solo occasionalmente, di solito per esposizione occupazionale ad aerosol infetti provenienti da materiale contaminato (prodotti del concepimento, lana, latte) di origine animale. In recenti focolai epidemici nel Nord America nella maggior parte dei casi i soggetti erano stati in contatto con gatte partorienti e/o gattini appena nati. Essa causa la febbre Q, una malattia a carattere sistemico con elettivo interessamento respiratorio quasi sempre autolimitantesi in alcune settimane, anche senza terapia, che in alcuni rari casi può essere causa di endocardite come manifestazione predominante di un’infezione cronica. M. Anche Chlamydia pneumoniae e psittaci possono occasionalmente causare un’infezione acuta asintomatica o una grave infezione sistemica a localizzazione prevalentemente polmonare, talora fatale (ornitosi, psittacosi; Cap. 17). Si tratta di un parassita intracellulare obbligato, di cui sono apprezzabili due aspetti morfologici denominati corpi elementari e corpi reticolari. In ordine di frequenza C. pneumoniae sembra essere la seconda causa di polmonite atipica; si manifesta in tutti i periodi dell’anno e può essere causa di epidemie. La trasmissione è prevalentemente interumana, ma è possibile anche la contaminazione ambientale. L’infezione da C. psittaci è invece acquisita per contatto con uccelli infetti (pappagalli, tacchini, altri). Il contagio avviene quindi in ambienti di lavoro o familiari. L’esordio è brusco e la malattia può essere fatale. N. Streptococcus pneumoniae (pneumococco) è un cocco Gram+ dotato di capsula polisaccaridica sede di antigeni tipo-specifici (sostanza solubile specifica o SSS) che definiscono oltre 80 sierotipi. Lo pneumococco esprime inoltre gli antigeni streptococcici tipici quali l’antigene C somatico polisaccaridico, specie-specifico, e l’antigene M proteico tipo-specifico. È un microrganismo poco resistente e notevolmente sensibile agli antibiotici. Può provocare otiti, mastoiditi, sinusiti, polmoniti, meningiti e dare origine a sepsi. Studi recenti indicano che il microrganismo è la causa del 16-60% delle polmoniti acute dell’adulto acquisite in comunità, mentre una batteriemia transitoria si verifica nel 20-30% dei pazienti. La nicchia ecologica di S. pneumoniae è rappresentata dal nasofaringe, dove può essere evidenziato, mediante esame colturale, nel 5-10% di giovani adulti e 20-40% dei bambini. Il grado di colonizzazione dipende da fattori climatici ed ambientali con un aumento nel pe-
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riodo invernale. L’incidenza della batteriemia streptococcica è alta nei neonati e nei bambini fino a 2 anni di età, si riduce negli adolescenti e giovani adulti per riaumentare negli anziani. Gli pneumococchi penicillino-resistenti sono in aumento negli USA e sono diventati un problema di rilevanza mondiale; un livello intermedio di resistenza è stato riscontrato nel 10-18% dei casi. O. Gli streptococchi, molto diffusi nell’ambiente e sulle mucose umane, presentano differenti gradi di patogenicità per l’uomo ed è pertanto importante la loro caratterizzazione tassonomica. Delle oltre 30 specie identificate, le più patogene per l’uomo sono S. pyogenes (streptococchi di gruppo A), S. agalactiae (streptococchi di gruppo B) e S. pneumoniae (pneumococchi). La classificazione degli streptococchi è stata definita in base al grado di emolisi delle emazie (-emolisi = le colonie in agar-sangue si circondano di un alone trasparente, -emolisi = emolisi parziale con comparsa di alone verdastro, -emolisi = anemolitici), agli antigeni (antigene polisaccaridico C gruppo-specifico, proteina M tipo-specifica), alle caratteristiche della crescita, alle reazioni biochimiche e, più recentemente, all’analisi genetica. La classificazione di Lancefield identifica gli streptococchi -emolitici in sierogruppi definiti in base alle differenze antigeniche nei carboidrati della parete cellulare; gli antigeni gruppo-specifici vengono estratti dalla parete cellulare e identificati mediante antisieri specifici; i sierogruppi sono indicati con lettere maiuscole dalla A alla H e da K a V. In patologia umana hanno rilievo alcune specie dei gruppi A, B, C, D e G (Tab. 77.4). Sebbene la classificazione di Lancefield fosse stata inizialmente concepita solo per gli streptococchi -emolitici, alcuni ceppi -emolitici ed anemolitici hanno antigeni gruppo-specifici. Fra questi molti ceppi degli streptococchi di gruppo D, che includono gli enterococchi, non causano -emolisi. Alcuni membri degli streptococchi di gruppo D sono stati recentemente classificati nel genere Enterococcus. In patologia umana è particolarmente importante lo streptococco -emolitico di gruppo A o Streptococcus pyogenes. Questo microrganismo possiede un ricco patrimonio antigenico ed è in grado di elaborare numerose sostanze extracellulari. La capsula di acido ialuronico è priva di potere antigenico, ma è verosimilmente importante nell’ostacolare la fagocitosi. Nella parete cellulare risiedono i principali antigeni: di questi la proteina M è strettamente correlata alla virulenza ed infatti gli anticorpi anti-M hanno carattere protettivo. Tra le sostanze extracellulari prodotte da questo streptococco hanno particolare importanza la streptolisina 0, fortemente immunogena e dotata di attività litica su eritrociti, leucociti, macrofagi e cellule miocardiche; la streptolisina S non immunogena e con attività litica superiore alla streptolisina; la streptochinasi (fibrinolisina immunogena che colliqua la fibrina umana), la ialuronidasi (fattore di depolimerizzazione dell’acido ialuronico dei connettivi). Di altre sostanze isolate (ribonucleasi, desossi-ribonucleasi, proteinasi, glicuronidasi, amilasi, esterasi, fosfatasi, leucino-aminopeptidasi) va ancora precisato il ruolo patogenetico. La tossina eritroge-
Tabella 77.4 - Classificazione semplificata degli streptococchi e patogenicità nell’uomo. Streptococchi -emolitici – Gruppo A (S. pyogenes)
– Gruppo B (S. agalactiae) – Gruppo C (S. equisimilis + altri) – Gruppo G
Streptococchi -emolitici – Streptococcus pneumoniae – Streptococchi “viridanti” (S. mutans + altri) Streptococchi -emolitici – Streptococchi anaerobi e microaerofili (Peptostreptococchi) – Streptococchi di gruppo D* Enterococchi (Enterococcus faecalis, E. faecium, E. durans)
– Non-enterococchi (S. bovis, S. equinus)
Faringite, tonsillite, otite, sinusite, mastoidite, focolai suppurativi (impetigine, ascesso, cellulite, flemmone), erisipela, sepsi, meningite, endocardite, scarlattina Infezioni in neonati e nelle puerpere Faringite, cellulite, batteriemia, endocardite, sistema nervoso centrale Processi suppurativi in varie sedi (faringe, tessuti molli, ossa, sistema nervoso centrale, endocardio) Polmoniti, meningiti, setticemia, otiti, stoidite, sinusite Ascesso dentario, sepsi, endocardite, ascessi viscerali, ascessi cerebrali Ascessi epatici e cerebrali
Batteriemie, endocardite, infezioni delle vie urinarie, infezioni addominali e pelviche, infezioni dei tessuti molli, polmonite, meningite, sepsi neonatale Endocarditi, batteriemie
* Alcuni ceppi di enterococchi occasionalmente possono essere o anche -emolitici ed alcuni microrganismi di gruppo D non-enterococcici possono essere -emolitici.
nica, prodotta solo da alcuni ceppi, è responsabile dell’esantema della scarlattina. P. Ospite del rinofaringe è pure Haemophilus influenzae, un piccolo bacillo Gram–, polimorfo, dotato di una capsula sede di antigeni polisaccaridici e correlata alla virulenza. È spesso responsabile di infezioni acute delle vie respiratorie: otite media, sinusite, congiuntivite, broncopolmonite. Meno frequenti, ma più gravi, sono le infezioni invasive quali la meningite, l’artrite settica, l’epiglottite e la cellulite; queste complicanze sono generalmente causate da ceppi di tipo b. Le polmoniti primarie da H. influenzae sembrano più frequenti nei soggetti anziani, nei pazienti con broncopneumopatie croniche e con infezione da HIV. Sono state descritte polmoniti nosocomiali rapidamente fatali in soggetti con sistema
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immunitario normale e in pazienti sottoposti a ventilazione meccanica; esse sono causate sia dal tipo b sia da ceppi non tipizzabili o non-b. Nei bambini di età inferiore a 5 anni l’uso della vaccinazione ha ridotto la frequenza della malattia invasiva. Q. Altro abituale commensale delle vie aeree è la Klebsiella pneumoniae che causa infezioni delle vie respiratorie solo in alcune categorie a rischio: etilisti, diabetici, soggetti con pneumopatia cronica ostruttiva. È un bacillo Gram–, dotato di antigeni capsulari (K) e somatici (O) che definiscono i diversi sottotipi. La mortalità è elevata a causa sia delle condizioni predisponenti del soggetto sia delle caratteristiche della malattia che tende a causare ascessi con cavitazione ed empiema pleurico.
PATOGENESI L’apparato respiratorio è particolarmente suscettibile alle infezioni in quanto in continua e diretta comunicazione con l’esterno: d’altronde esso è ampiamente dotato di validi meccanismi di difesa, la cui compromissione, tuttavia, espone all’impianto dei microrganismi favorendo la genesi dell’infezione. La principale barriera per le infezioni delle vie respiratorie sono le difese di tipo meccanico che consistono nella filtrazione dell’aria, nel riflesso epiglottideo, nella turbolenza del flusso aereo delle vie respiratorie superiori, nella tosse, nella clearance mucociliare e nella pervietà delle vie aeree. Le IgA secretorie delle vie aeree possono contribuire ad impedire l’adesione dei germi alle mucose ed a neutralizzare l’attività virale. La struttura dei turbinati nasali ed il controllo autonomico dei sinusoidi sottomucosi determinano la turbolenza del flusso d’aria inspirata e ne garantiscono il riscaldamento e la depurazione da contaminanti particolati ad opera dell’epitelio mucociliato di rivestimento. La velocità di flusso dell’aria inspirata e le dimensioni delle particelle in essa sospese rivestono una notevole importanza: virus e batteri, per le loro piccole dimensioni, vengono spesso veicolati da altre particelle in aggregati che ne favoriscono il trasporto e la diffusione. La rimozione dei contaminanti più grossi dell’atmosfera è comunque abbastanza rapida e la sopravvivenza nell’ambiente dei microrganismi non sporigeni è piuttosto effimera, cosicché la trasmissione delle infezioni respiratorie avviene di preferenza in luoghi chiusi o in ambienti circoscritti. Le particelle con grandezza superiore a 10 m, dopo essere state inalate attraverso le cavità nasali, si depositano sulla mucosa della parete posteriore faringea dove vengono inghiottite o rimosse con la tosse o la clearance mucociliare. La deposizione, ovvero la clearance, delle particelle nei vari compartimenti respiratori (nasofaringe, albero tracheobronchiale, parenchima polmonare) è regolata da diversi fattori: oltre alle caratteristiche del contaminante, sono fondamentali la durata dell’esposizione, le condizioni anatomiche e funzionali del tratto respiratorio, lo stato immunologico del soggetto. Il sito di deposizione dei contaminanti determina di conseguenza il tipo di ri-
sposta biologica (Fig. 77.1). Le particelle più piccole (1-5 m) sfuggono infatti al compartimento naso-faringeo e tendono a penetrare lungo tutto l’albero respiratorio. In realtà meno del 10% della polvere inspirata si deposita nelle vie aeree: l’effetto della turbolenza del flusso d’aria si ripete in più distretti dell’albero respiratorio, prevalentemente alle biforcazioni. Le multiple biforcazioni dell’albero bronchiale rallentano la velocità dell’aria inalata, le particelle con diametro fra 3 e10 m vengono inglobate nello strato mucoso e trasportate tramite la clearance mucociliare nella parete posteriore faringea da dove vengono inghiottite o rimosse con la tosse. Il meccanismo di clearance mucociliare è un efficace impedimento all’ingresso di materiale estraneo ed all’impianto di microrganismi nelle vie aeree. Tale sistema, presente lungo tutto l’albero respiratorio, realizza la rimozione dei contaminanti di dimensioni minori: la tosse ne favorisce poi l’eliminazione. La viscosità delle secrezioni mucose, particolarmente cospicue nel tratto superiore, è critica per il mantenimento dei movimenti ciliari: sostanze o agenti irritanti che alterino la produzione di muco interferiscono sulla velocità di clearance mucociliare. Le particelle che più facilmente possono raggiungere gli spazi alveolari hanno dimensioni inferiori a 5 m: il principale meccanismo di difesa contro le particelle di 1-5 m è rappresentato dalla fagocitosi dei macrofagi alveolari. Anche il pH molto acido dello strato mucoso, lisozima, interferone e frazioni anticorpali contribuiscono a impedire l’impianto dei microrganismi nelle vie aeree
Dimensione delle Difese particelle dell’ospite (diametro) Barriere anatomiche > 10 m Clearance mucociliare Tosse IgA secretorie Polvere Microrganismi Aria ambiente
3-10 m
0,5-3 m
< 0,5 m
Complemento Macrofagi alveolari Polimorfonucleati Componenti del plasma IgG
Figura 77.1 - Sito di deposizione dei contaminanti dell’aria ambiente e tipo di risposta biologica.
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superiori. L’attivazione del complemento favorisce la formazione di opsonine e dei fattori chemiotattici e litici. La loro assenza funzionale, come nei deficit ereditari del complemento, è correlata con un aumento delle infezioni respiratorie. Nel parenchima polmonare la risposta iniziale alla deposizione di contaminanti è attivata ad opera dei macrofagi alveolari: essi possono distruggere direttamente l’agente estraneo e convogliarlo al sistema di clearance mucociliare, ovvero al drenaggio linfatico. L’efficienza di tale meccanismo è strettamente dipendente dalla disponibilità di macrofagi, il cui numero può aumentare in risposta all’ingresso nell’albero respiratorio di materiale estraneo. Un difetto quantitativo o qualitativo dei fagociti può contribuire a favorire lo sviluppo di infezioni polmonari; nei pazienti neutropenici la polmonite è frequente e spesso fatale. Un deficit di chemiotassi nel sito di invasione può favorire l’insorgenza della polmonite, per esempio elevate concentrazioni di alcool inibiscono la chemiotassi dei neutrofili e ciò spiega l’elevata frequenza delle polmoniti negli etilisti. Microrganismi quali Legionella e Mycobacterium spp possono sopravvivere all’interno dei macrofagi alveolari; la difesa ottimale verso questi germi richiede l’attivazione macrofagica da parte di specifici linfociti T. La virulenza della maggior parte dei microrganismi che causano polmonite è principalmente mediata dalla loro capacità di resistere alla fagocitosi, infatti la capacità dello pneumococco di resistere alla fagocitosi permette al germe di replicarsi attivamente nell’alveolo anche se l’inoculo aspirato è costituito da pochi batteri. Gli insulti irritativi condurrebbero al determinarsi di loci minoris resistentiae nelle vie aeree, l’alterazione della composizione o del pH del muco e l’inibizione dell’epitelio ciliato ad opera di agenti fisici e/o chimici, dell’aria fredda, del fumo di tabacco o del pulviscolo atmosferico conducono a riduzione o rallentamento della clearance. Nelle normali secrezioni bronchiali le proteine sieriche rappresentano circa la metà del contenuto proteico: esse sono rappresentate essenzialmente da albumina, enzimi di basso peso molecolare, immunoglobuline prevalentemente IgA. È stato dimostrato che in alcune condizioni patologiche (quali l’asma bronchiale) aumenta la concentrazione di proteine plasmatiche, in particolare di IgA, nelle secrezioni bronchiali. Esse sono presenti in abbondanza nelle vie aeree e nell’apparato digerente, dove rappresentano la prima linea di difesa contro le infezioni, impedendo il contatto degli agenti patogeni con la superficie mucosa. Le IgA sembrano svolgere un ruolo fondamentale soprattutto nella protezione dalle infezioni virali, sebbene i deficit selettivi di IgA non siano abitualmente accompagnati da un aumento nella frequenza o nella severità delle infezioni respiratorie virali. Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, Neisseria meningitidis ed alcuni bacilli Gram–, fra cui Pseudomonas aeruginosa, sono produttori di proteasi anti IgA e ciò ne aumenta la patogenicità. Gli anticorpi della classe IgG diffondono con facilità nelle secrezioni mucose e nello spazio alveolare, deficit
di IgG2 e di IgG4 predispongono ad infezioni sinusali e bronchiali ricorrenti. Da non sottovalutare, nella genesi delle infezioni respiratorie, l’abbondanza e la variabilità della flora microbica abitualmente presente nel cavo orale, nelle mucose nasali, nel faringe e nella laringe, nell’ambito della quale sono prevalentemente isolabili specie potenzialmente patogene quali S. pneumoniae, H. influenzae, M. pneumoniae, stafilo- e streptococchi. Inoltre variazioni di temperatura e pH, che si verificano nei vari settori delle vie aeree, sono condizioni favorenti l’impianto preferenziale di alcuni virus o batteri.
CLINICA Proprio per l’eziologia non univoca e l’aspecificità dei sintomi, la classificazione delle infezioni respiratorie non sempre trova riscontro nella pratica clinica: è noto infatti che un solo microrganismo può sostenere sindromi diverse, talora variabili a seconda dell’età del soggetto e, d’altronde, vari agenti patogeni possono essere responsabili di quadri clinici analoghi. Secondo un criterio topografico le infezioni respiratorie possono essere distinte in rinite, faringite, epiglottite, laringite, tracheite, bronchite, bronchiolite (Cap. 16), polmonite (Cap. 17). È frequente il contemporaneo interessamento di più distretti con la comparsa di quadri misti (rinofaringite, tracheobronchite). Le polmoniti e le broncopolmoniti possono essere classificate in base a criteri epidemiologici, istopatologici ed eziologici. Secondo il primo criterio si distinguono polmoniti del neonato e del lattante, polmoniti del bambino, polmoniti del giovane adulto, dell’anziano, dell’ospite immunocompromesso, polmoniti nosocomiali, polmoniti da particolari condizioni epidemiologiche e polmoniti da aspirazione. In base al criterio istopatologico si distinguono polmoniti prevalentemente alveolari, interstiziali e necrotizzanti e secondo il criterio eziologico polmoniti virali, batteriche, micotiche, protozoarie ed elmintiche. Il distretto anatomico dell’infezione è l’elemento tipico da cui derivano gli aspetti clinici, semeiologici e radiologici che permettono di differenziare una polmonite prevalentemente interstiziale da quelle alveolari. I comuni esami di laboratorio non sono abitualmente indicativi per una diagnosi eziologica, un’ipersedimetria e una leucocitosi neutrofila depongono generalmente per un’eziologia batterica da cocchi Gram+, mentre uno scarso movimento degli indici infiammatori è più suggestivo per un’eziologia virale. Non sempre le indagini radiologiche evidenziano quadri sufficientemente tipici da indicare l’eziologia. Agli esami microbiologici e colturali sfuggono gli agenti patogeni più difficilmente isolabili (virus); inoltre i microrganismi responsabili di molte infezioni respiratorie sono frequentemente presenti nell’oro-faringe di soggetti sani e ciò rende difficile la correlazione con un’eventuale infezione in atto. In alcuni casi sono utili le attuali metodiche di biologia molecolare (PCR: Polymerase Chain Reaction) che sono applicabili solo per particolari germi di difficile isolamento co-
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me Chlamydia pneumoniae e disponibili in pochi laboratori specializzati. In molti casi si rivelano di maggiore utilità le indagini sierologiche: l’evidenziazione di un movimento anticorpale specifico e lo studio della cinetica anticorpale possono essere indicativi di un’infezione ancora in atto o pregressa (recente o lontana nel tempo). La risposta anticorpale mostra una diversa dinamica a seconda dell’agente eziologico, pur rispettando abitualmente la successione IgM-IgG; in genere un aumento del titolo anticorpale di quattro o più volte è indicativo di infezione recente. Va ricordato, infine, che l’immunità acquisita dopo un’infezione respiratoria è di breve durata per lo scarso potere immunogeno dei microrganismi più comunemente implicati. Alcuni virus, inoltre, vanno incontro a variazioni antigeniche frequenti che vanificano il patrimonio anticorpale eventualmente acquisito in precedenti infezioni (tipicamente il virus influenzale di tipo A).
TERAPIA Una corretta terapia antibiotica delle infezioni dell’apparato respiratorio si basa sull’antibiogramma, unitamente alla storia clinica del singolo paziente. Nella tabella 77.5 vengono indicati alcuni principi di terapia antibiotica da applicare esclusivamente in assenza di isolamento colturale.
DIFTERITE La difterite è una malattia infettiva acuta e contagiosa determinata da Corynebacterium diphtheriae: l’infezione è localizzata prevalentemente al tratto superiore delle prime vie respiratorie (faringe, laringe, mucosa nasale), dove la reazione focale è caratterizzata dalla formazione di un tipico essudato pseudomembranoso, ma gli effetti della tossina prodotta dal microrganismo si manifestano anche a distanza coinvolgendo in particolar modo il miocardio, la mielina ed il parenchima renale. A. Epidemiologia. La malattia è attualmente eccezionale e, grazie alla vaccinazione obbligatoria, anche l’infezione e la diffusione dei ceppi tossigeni sono divenute assai infrequenti. I rari casi che ancora oggi giungono all’osservazione sono i soggetti non vaccinati (con incidenza massima tra i 2 ed i 5 anni di età) ma, contrariamente a quanto avveniva in epoca prevaccinale, non viene risparmiata l’età adulta, verosimilmente per la diminuita stimolazione antigenica e relativa non permanente protezione immunitaria. La malattia è ancora endemica in alcune aree geografiche (Nigeria, Brasile, Indonesia, India). È stata descritta una grave epidemia con oltre 157.000 casi e più di 5.000 morti, conseguente all’interruzione della vaccinazione obbligatoria, nei Paesi costituenti
l’ex Unione Sovietica sia in adulti sia in bambini (1.436 casi nel 1990 con un picco di 50.425 casi nel 1995). L’immunizzazione contro la tossina, nei rari casi di malattia, ne attenua la gravità; la difterite ha infatti un andamento grave nel 25% dei soggetti immunizzati contro il 6,3% di quelli vaccinati ed una mortalità del 19% nei pazienti non immunizzati contro l’1,3% nei soggetti vaccinati. Unica fonte di infezione è l’uomo: l’infezione viene trasmessa per contagio diretto attraverso l’inalazione di goccioline di saliva contaminata (particelle di Flügge) disperse da ammalati o da portatori asintomatici o convalescenti, ma anche per contatto indiretto favorito dalla notevole resistenza del microrganismo nell’ambiente. Gli oggetti possono avere un ruolo indiretto nella trasmissione dell’infezione; alcune epidemie sono state causate da latte contaminato. La porta d’ingresso abituale è rappresentata dalla mucosa rinofaringea e laringea, più raramente dalla mucosa genitale, dalla congiuntiva e da ulcere cutanee preesistenti. B. Eziologia. L’agente eziologico della difterite è Corynebacterium diphtheriae, bacillo Gram+, immobile, asporigeno, acapsulato. In base al comportamento biochimico in coltura si distinguono tre differenti ceppi definiti mitis, intermedius e gravis: questa distinzione non è correlabile alla virulenza poiché tutti i ceppi possono diventare tossigeni. Il microrganismo è infatti in grado di produrre un’esotossina quando infettato da un fago temperato portatore del corredo genetico della tossina: la tossina si compone di un’unica catena polipeptidica ed è eccezionalmente attiva (la dose letale per la cavia corrisponde a 25 g/kg e per l’uomo a 130 g/kg). C. Patogenesi. Il germe è dotato di modesta invasività e resta per lo più confinato alla primitiva sede di impianto: la crescita è superficiale e solo raramente esso invade i linfatici o il torrente circolatorio, come nelle fasi terminali della malattia. La patogenesi si correla quindi essenzialmente alla produzione della tossina difterica, che viene elaborata nella sede di lesione (faringe, laringe, mucosa nasale; eccezionalmente mucosa oculare e genitale, ulcere cutanee o ustioni) e quindi veicolata dal sangue a tutto l’organismo. L’assorbimento della tossina è minimo per le localizzazioni laringea o rinitica, massivo per la faringea: a questa forma di faringite conseguono quindi, con maggiore frequenza, le complicanze più gravi. La tossina si compone di due frammenti: il frammento A, che comprende l’intera attività enzimatica responsabile della tossicità, e il frammento B necessario per il riconoscimento del recettore specifico alla superficie cellulare. Quest’ultimo frammento consente l’adesione della tossina alle cellule e la successiva penetrazione per endocitosi nel citosol dove il frammento A esplica la sua azione determinando un rallentamento generale nella sintesi proteica per azione sul RNA-transfer ed una compromissione dell’assemblaggio degli aminoacidi in catene polipeptidiche catalizzando specificamente la sintesi tra il “fattore di allungamento” (EF-2) e il ribosio adenosin-difosfato (ADPR), con formazione di un composto
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Tabella 77.5 - Terapia antibiotica empirica della patologia infettiva dell’apparato respiratorio. TIPO DI PAZIENTE E SITUAZIONE CLINICA • Neonati – (nascita → 1° mese) • Bambini – (1 mese → 3 mesi) • Bambini – (4 mesi → 5 anni) • Bambini e giovani – (5 anni → 15 anni) – Non ospedalizzati – Immunocompetenti – Ospedalizzati – Immunocompetenti
• Adulto – (> 18 anni) – Immunocompetente – Non ospedalizzato – Polmonite acquisita in comunità
• Anziani – (> 60 anni) e pazienti di qualsiasi età con condizioni favorenti – Ospedalizzato/evoluzione non grave • Qualsiasi età – con forma acquisita in comunità – ospedalizzati in UTI – ad evoluzione grave • Polmonite acquisita in ambiente ospedaliero, – Pazienti non neutropenici
– Pazienti neutropenici (< 500 neutrofili/mm3) • Microrganismi particolari – Legionella species – Staphylococcus aureus – Streptococcus pneumoniae
EZIOLOGIE (PIÙ FREQUENTI)
FARMACI DI PRIMA SCELTA
Batteri: E. coli, streptococchi di gruppo A, B, G, S. aureus, Pseudomonas spp Chlamydia, Listeria Virus: rosolia, CMV, herpes simplex Chlamydia trachomatis, RSV, virus parainfluenzale 3, Bordetella, S. pneumoniae, S. aureus (raro) S. pneumoniae, Haemophilus influenzae, S. aureus, virus respiratorio sinciziale
Ampicillina + gentamicina ± cefotaxima. Aggiungere glicopeptidi nel sospetto di stafilococchi meticillino-resistenti
Mycoplasma pneumoniae, S. pneumoniae, Haemophilus influenzae, Chlamydia pneumoniae
Macrolidi + amoxicillina
S. pneumoniae, virus, Mycoplasma, S. aureus (se forma necrotizzante o ascessuale)
Ceftriaxone + un macrolide
• No co-morbidità – M. pneumoniae, S. pneumoniae, virus
• No co-morbidità Amoxicillina-acido clavulanico o ampicillina-sulbactam + macrolidi
• Co-morbidità – Alcoolismo: S. pneumoniae e anaerobi, coliformi – Bronchiectasie: S. aureus, H. influenzae in fase iniziale, P. aeuruginosa in fase avanzata, virus – BPCO(1): H. Influenzae, M. catarrhalis, S. pneumoniae
• Co-morbidità – Fluorochinoloni; macrolide + amoxicillina-acido clavulanico o ampicillina-sulbactam; una cefalosporina di II o III generazione – P. areuginosa: aminoglicosidi + piperacillina o ticarcillina o ceftazidima – S. aureus: meticillino-sensibile: oxacillina, nafcillina; meticillino-resistente: vancomicina Cefalosporine III generazione + macrolidi
S. pneumoniae, H. influenzae, bacilli aerobi Gram–, Legionella spp, M. catarrhalis
Macrolidi ± cefotaxima
Ceftriaxone; cefotaxima
S. pneumoniae, Legionella spp., bacilli aerobi Gram–, Chlamydia pneumoniae, Mycoplasma pneumoniae
Cefalosporine III generazione + macrolidi, piperacillina/tazobactam + tobramicina, ciprofloxacina + azitromicina, imipenem o meropenem o cefepime, ceftazidime + azitromicina
– Da aspirazione: S.pneumoniae, anaerobi – Acqua: Legionella – Ventilazione meccanica: coliformi, P. aeruginosa, S. aureus, Stenotrophomonas – Ostruzione vie aeree: anaerobi – Steroidi: lieviti, Pneumocystis jiroveci Tutti i microrganismi ospedalieri e acquisiti in comunità + miceti (aspergillus, candida)
Carbapenemici + fluorochinoloni nel sospetto di Legionella
Ospedalizzato/immunocompromesso Meticillino-sensibile Meticillino-resistente Penicillino-sensibile (CMI < 0.1 mg/ml) Penicillino-resistente (CMI > 1 mg/ml)
(1) Broncopneumopatia cronica ostruttiva
Carbapenemici + fluorochinoloni (nel sospetto di Legionella) + vancomicina nel sospetto di farmacoresistenza. Aggiungere amfotericina se persiste febbre dopo 3 giorni di terapia antibiotica Azitromicina o fluorochinolone + rifampicina Oxacillina, nafcillina Vancomicina, linezolid, cotrimoxazolo Ampicillina, amoxicillina, macrolide, penicillina G o cefalosporine II e III generazione Fluorochinoloni, cefalosporine III generazione, vancomicina + rifampicina
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mRNA
MALATTIE INFETTIVE
patia satellite. Le pseudomembrane compaiono nelle prime 24-48 ore; esse sono formate da chiazze di essudato confluenti ed hanno colorito grigiastro, sono maleodoranti e fortemente aderenti. Il paziente in questa fase manifesta faringodinia e vomito. L’adenopatia satellite, talora accompagnata da edema delle parti molli, fa assumere al collo il cosiddetto aspetto proconsolare o taurino.
Ribosoma
Catena polipeptidica
EF-2
A
Subunità A
EF-2 p
tRNA
Fattore di allungamento
Membrana cellulare ADPR-EF2
A
B
Tossina difterica
Citoplasma
A B
A B
Figura 77.2 - Meccanismo d’azione della tossina difterica. Dopo adesione del frammento B alla membrana cellulare, l’intera tossina penetra nella cellula dove si divide in due frammenti. Il fattore A catalizza la sintesi fra EF-2 (fattore di allungamento 2) ed il ribosio adenosin-difosfato con formazione di un composto inattivo definito ADPR-EF2. EF-2 è essenziale per la traslocazione del RNA-transfer, quindi ne deriva una compromissione dell’assemblaggio dei singoli aminoacidi in catene polipeptidiche a livello ribosomiale.
inattivo (ADPR-EF2). Poiché il fattore EF-2 interviene nella traslocazione del RNA transfer, ne deriva una compromissione dell’assemblaggio dei singoli aminoacidi in catene polipeptidiche a livello ribosomiale (Fig. 77.2). I primi effetti della tossina si manifestano nella sede di impianto del germe per l’elevata concentrazione raggiunta; solo dopo vari giorni compaiono le lesioni a distanza con interessamento prevalentemente del miocardio (miocardite), del parenchima renale (necrosi tubulare) e del tessuto nervoso (degenerazione mielinica). L’antitossina è efficace nel neutralizzare la tossina circolante, ma è inattiva sulla tossina già adesa alla membrana cellulare. La lesione primaria della difterite è la pseudomembrana, localizzata nella sede di impianto e costituita da batteri, materiale necrotico, fagociti e fibrina: essa è circondata da un alone infiammatorio ed è tenacemente adesa ai tessuti sottostanti. La rimozione provoca un sanguinamento; è frequente una linfoadenite regionale. D. Clinica. Dopo un periodo di incubazione breve (24 giorni) compaiono i sintomi dell’infezione focale cui possono seguire a distanza di qualche tempo le complicanze. La febbre è in genere modesta (38 °C) ed accompagnata talora da tachicardia, pallore, astenia, cefalea e nausea. 1. La faringite difterica nel paziente non vaccinato si manifesta con un quadro clinico impegnativo caratterizzato dalla formazione di pseudomembrane e da adeno-
2. La laringite difterica si manifesta con il caratteristico quadro clinico definito croup, determinato dalla formazione delle pseudomembrane e dall’edema delle parti molli e dominato da dispnea prevalentemente inspiratoria, disfonia, stridore laringeo. L’ostruzione delle prime vie aeree, evenienza frequente soprattutto nei bambini più piccoli, può condurre a cianosi intensa ed asfissia con reclutamento della muscolatura respiratoria accessoria fino ad esaurimento funzionale e morte. 3. La rinite difterica è una forma rara limitata al neonato ed al lattante. Interessa prevalentemente il setto ed i turbinati anteriori determinando lesioni ulcerative e crostose. Si complica solo eccezionalmente per il modesto assorbimento della tossina. 4. La difterite cutanea si manifesta per invasione di ferite o ulcere che appaiono poi ricoperte da una membrana grigia o brunastra, facilmente asportabile e successivamente dalla caratteristica membrana tenace. Viene osservata sia nei paesi tropicali sia nei paesi a clima temperato, ma tra le classi sociali più povere. Mancano in genere i segni di interessamento sistemico. Queste manifestazioni cliniche possono indurre la formazione di elevati livelli di antitossina consentendo il conseguimento di una immunità naturale. Il tratto di cute infetta sviluppa anestesia nell’arco di breve tempo; possono comparire eruzioni purpuriche. E. Diagnosi. I caratteri clinici della faringite pseudomembranosa e della laringite difterica sono patognomonici ed in genere sufficienti per porre la diagnosi. Per la diagnosi di certezza è comunque necessario l’isolamento colturale del microrganismo da tampone faringeo o da frammento di pseudomembrana: l’indagine diagnostica con antisieri antitossina su tali materiali mediante immunofluorescenza consente in genere una rapida identificazione. Il laboratorio deve essere avvisato del sospetto diagnostico perché vengano utilizzati appropriati terreni di coltura ed eseguite prove rapide di identificazione. Queste indagini, inoltre, permettono di eseguire una diagnosi differenziale con altre angine (streptococcica, mononucleosica) e le laringiti stenosanti. F. Decorso e prognosi. Il decorso dell’infezione focale è in genere favorevole con risoluzione anche spontanea in 8-10 giorni, residua però per lungo tempo astenia e tachicardia. Le forme che si manifestano con il caratteristico “croup” hanno invece evoluzione acuta e prognosi severa e conducono frequentemente a morte per asfissia. • Le complicanze della difterite si possono dividere in due tipi fondamentali: quelle risultanti dall’estensione
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delle pseudomembrane nel tratto respiratorio superiore, di cui si è già parlato, e quelle secondarie agli effetti della tossina. L’azione della tossina sul tessuto miocardico, dovuta verosimilmente ad un’interferenza sul metabolismo della carnitina e degli acidi grassi, conduce a degenerazione del miocardio. In due terzi circa dei pazienti affetti da difterite ciò determina l’insorgenza di una miocardite, che si manifesta clinicamente solo nel 10-25% dei casi. Essa è caratterizzata dalla comparsa di aritmie atriali e ventricolari (blocchi completi e incompleti, fibrillazione atriale, extrasistolia ventricolare). Meno frequente lo scompenso cardiaco, sia sinistro che destro. La presentazione clinica può essere acuta con insufficienza cardiaca e collasso cardiocircolatorio o più insidiosa con dispnea ed astenia ingravescente, cardiomegalia e ritmo di galoppo. Il monitoraggio della funzionalità cardiaca deve sempre essere eseguito, poiché i pazienti con miocardite asintomatica possono presentare gravi anomalie. Non sono rare le neuropatie periferiche in corso di difterite: più comunemente si tratta di una neurite dei nervi cranici (III, VI, VII, IX, X paio) che insorge nell’arco di 3-6 settimane dall’esordio della malattia di base. In altri casi si verifica una paralisi della muscolatura scheletrica e respiratoria, talora mortale. Raro l’interessamento delle vie sensitive. Il quadro clinico è dissociato da quello elettrofisiologico, salvo nei casi più gravi, caratterizzati da paralisi ascendente progressiva tipo Landry, in cui si osservano alterazioni della conduzione nervosa. La gravità della neuropatia è in genere proporzionale alla gravità dell’infezione: la difterite non grave è solo occasionalmente causa di neuropatia, mentre nei casi gravi la neuropatia è presente nei tre quarti dei pazienti. Tra le altre complicanze vanno rammentate le superinfezioni polmonari ed una porpora trombocitopenica (di rara insorgenza). Prima dell’introduzione in terapia dell’antitossina specifica la difterite era una malattia ad esito fatale nel 90% dei casi: attualmente i casi mortali sono ridotti ad una modesta percentuale (5%) e sono prevalentemente dovuti ad asfissia o miocardite che avviene nei primi 3-4 giorni di malattia; nei pazienti immunizzati la morte è rara. La frequenza delle complicanze, così come quella delle recidive e la suscettibilità all’infezione primaria dipendono largamente dalla comparsa di un’immunità specifica nei confronti della tossina difterica. Sono considerati protettivi livelli sierici di antitossina di 0,1-0,01 UI/ml, le concentrazioni di antitossina possono essere valutate con emoagglutinazione o test di neutralizzazione in animali di laboratorio. G. Terapia. Il solo trattamento specifico della difterite consiste nella somministrazione dell’antitossina, sia per via intramuscolare sia, nei casi gravi, per via endovenosa; l’utilizzo dell’antitossina ha ridotto la mortalità dal 7 al 2,5%. L’antitossina è in grado di neutralizzare solo la quota di tossina circolante nel torrente ematico e nei liquidi extracellulari: una volta penetrata nelle cellule la tossina ha azione irreversibile; la sua efficacia è
inversamente correlata alla durata della malattia che precede la sua somministrazione, la tempestività della diagnosi e dell’intervento terapeutico sono quindi fondamentali. Le dosi consigliate vanno da 20.000 UI (infezioni del lattante o rinite difterica nel bambino insorte da 48 ore) a 100-120.000 UI per la malattia grave della durata di 3 o più giorni. L’ostruzione delle vie aeree superiori deve essere trattata con l’intubazione o, se necessario, la tracheostomia. Il trattamento antibiotico può essere eseguito allo scopo di interrompere la produzione di tossina, migliorare la lesione locale, prevenire il contagio: gli antibiotici di scelta sono la penicillina e l’eritromicina o, in alternativa, la clindamicina e la rifampicina. L’exitus è stato descritto esclusivamente in pazienti non vaccinati, poiché l’immunizzazione attiva o protegge completamente oppure migliora l’andamento della malattia. La profilassi consiste nella somministrazione, all’età di 3 mesi, del tossoide difterico, solitamente associato al tossoide tetanico, con successivi richiami ad 1 anno ed in età scolare. La vaccinazione antidifterica-antitetanica è obbligatoria per legge. Un’adeguata immunizzazione protegge probabilmente per circa 10 anni. La diffusione dei ceppi tossigeni è notevolmente ridotta grazie alla vaccinazione di massa e quindi l’esposizione occasionale a richiami antigenici anamnestici è scarsa; ne consegue che la popolazione adulta dell’Europa e degli USA non è adeguatamente protetta nei confronti di C. diphtheriae. Negli USA viene consigliato il richiamo della vaccinazione antidifterica in associazione all’antitetanica ogni 10 anni. Le norme di prevenzione prevedono l’obbligo di denuncia e l’isolamento dei casi sospetti, degli ammalati e dei portatori.
ACTINOMICOSI L’actinomicosi è un’infezione suppurativa causata da actinomiceti anaerobi obbligati o facoltativi comuni saprofiti della cavità orale, della faringe e dell’intestino. Essa si manifesta con tre principali sindromi cliniche: cervico-facciale, toracica e addominale. A. Epidemiologia. I microrganismi crescono formando ife Gram+ e sono in genere commensali del cavo orale (soprattutto in individui con estese lesioni dentali e paradentali) e del tratto gastroenterico. La porta d’ingresso può essere una lesione mucosa, ma l’infezione avviene anche per inalazione. Dotati di scarsissima invasività possono diventare patogeni solo in aree di relativa anaerobiosi (per es., zone di atelettasia, infiltrati neoplastici o infiammatori). Ne consegue un’infiammazione cronica suppurativa. B. Eziologia. Actinomyces israelii è il più comune patogeno, ma occasionalmente altre specie di actinomiceti vengono riconosciuti responsabili dell’infezione umana (naeslundii, odontolyticus, viscosus, meyeri).
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C. Anatomia patologica. La lesione tipica è un infiltrato infiammatorio di tipo granulomatoso ad andamento cronico seguito da necrosi e fibrosi. I singoli granulomi comprendono la colonia dell’actinomicete al centro circondata da necrosi e granulociti neutrofili; se è presente una carica infettante sufficiente i microrganismi producono una proteina che cementa i filamenti formando particelle gialle macroscopicamente con l’aspetto di “granuli di zolfo”. Le formazioni tendono a confluire ed a sterilizzarsi con retrazioni cicatriziali delle parti molli. L’infezione può propagarsi per via ematica con invasione di ossa, fegato, encefalo o per contiguità con formazione di tramiti fistolosi. D. Clinica. I quadri clinici di actinomicosi umana sono prevalentemente rappresentati dalla malattia cervico-facciale, toracica e addominale. 1. L’actinomicosi cervico-facciale si verifica comunemente una o più settimane dopo un’estrazione dentaria o un piccolo trauma orale, oppure si sviluppa in soggetti con scarsa igiene orale. Essa esordisce con la comparsa di masse prevalentemente localizzate nella regione sottomandibolare; la cute sovrastante è frequentemente rosso-violacea oppure può presentare una fistola visibile. Le infezioni dei tessuti molli della testa e del collo con temporaneo miglioramento dopo terapia antibiotica, seguito da una recidiva, devono sempre far sospettare la presenza di actinomicosi. L’infezione può diffondersi, se non trattata, all’osso mandibolare. 2. L’actinomicosi toracica si manifesta con calo ponderale, letargia, febbricola, anemia e leucocitosi, tosse produttiva con escreato purulento ed occasionalmente emottisi e dolore toracico di tipo pleurico. La fonte di infezione è prevalentemente rappresentata dall’aspirazione di microrganismi dall’oro-faringe. È comune la contemporanea presenza di una grave paradontosi. Le lesioni polmonari possono estendersi al torace e determinare la formazione di ascessi sottocutanei, talora con evoluzione fibrotica ed empiema. L’invasione del mediastino può causare disfagia; l’infezione può diffondersi al pericardio, al cuore, alle vertebre toraciche od oltre il diaframma causando ascessi subfrenici. La manifestazione toracica è responsabile di circa il 15% delle actinomicosi. 3. L’actinomicosi addominale si verifica in seguito ad appendicectomia, ascessi appendicolari o perforazioni traumatiche dell’intestino. L’infezione si verifica soprattutto nell’area della valvola ileocecale e determina dolore addominale e la presenza di una massa palpabile; il processo tende a diffondersi alla cavità addominale, alla parete addominale oppure alla pelvi. È anche descritta un’actinomicosi pelvica osservabile in donne portatrici di spirale endouterina; i microrganismi penetrano per via ascendente dall’utero. Localizzazioni più rare vengono descritte in sede cerebrale, ossea, epatica e renale. E. Diagnosi. La diagnosi si basa sull’isolamento del microrganismo da prelievi bioptici che necessita di la-
MALATTIE INFETTIVE
boratori attrezzati e personale esperto. Il pus dovrebbe essere raccolto dalle lesioni chiuse e rapidamente trasferito in ambiente anaerobico; nel pus si dovrebbe anche ricercare la presenza di granuli sulfurei. F. Prognosi. È buona qualora l’infezione sia rapidamente trattata; se non viene riconosciuta il rischio di diffusione è elevato. G. Terapia. Penicillina, eritromicina e tetracicline sono i farmaci di scelta. La penicillina rimane il farmaco di prima scelta; per assicurare una corretta penetrazione nelle sedi di fibrosi infette è necessaria una terapia prolungata ad alte dosi (10-12 milioni di unità al giorno per 4-6 settimane, seguite da un ciclo di terapia con penicillina per os per 6-12 mesi). È molto importante anche il drenaggio chirurgico degli ascessi e l’escissione delle fistole.
NOCARDIOSI La nocardiosi è un’infezione localizzata o disseminata ad andamento subacuto o cronico causata prevalentemente da Nocardia asteroides; più raramente da N. brasiliensis e N. caviae, N. nova, N. farcinica. Essa è più frequentemente responsabile di infezioni opportunistiche prevalentemente localizzate all’apparato respiratorio, ma può causare malattia anche nel soggetto sano. A. Eziologia e patogenesi. Le nocardie, ritenute a lungo di natura fungina (analogamente agli actinomiceti), sono batteri polimorfi Gram+ aerobi. I microrganismi penetrano per via polmonare e diffondono per via ematica determinando suppurazione, necrosi e formazione di ascessi nei tessuti invasi, infiltrati prevalentemente da neutrofili. L’uomo si infetta per via inalatoria; non è descritto il contagio interumano. L’infezione, generalmente di tipo subacuto o cronico, è più frequente nei maschi soprattutto immunocompromessi in cui può disseminarsi con un decorso acuto. L’infezione sistemica è prevalentemente causata da Nocardia asteroides. B. Epidemiologia. Le Nocardie spp. sono ubiquitarie come saprofiti del suolo e ospiti abituali di mammiferi diffusi in tutto il mondo. N. brasiliensis causa frequentemente infezioni cutanee nelle regioni meridionali degli USA. L’infezione da N. asteroides si verifica in seguito all’inalazione del microrganismo da parte di individui predisposti, prevalentemente con deficit dell’immunità cellulo-mediata (linfomi, leucemia, AIDS, malattie del collagene), ma anche in soggetti sani ed in quelli con broncopneumopatie croniche. A causa del contagio per via aerea, la localizzazione polmonare è la più frequente. L’evoluzione clinica abituale consiste in uno o più focolai di polmonite che tendono lentamente ad escavarsi ed a confluire formando una cavità ascessuale.
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77 - PATOLOGIA INFETTIVA DELL’APPARATO RESPIRATORIO
C. Clinica. La polmonite da Nocardia si manifesta con febbre che può prolungarsi per alcune settimane o anche parecchi mesi. La tosse può essere secca, ma generalmente è presente un essudato muco-purulento, possono comparire emottisi e dolore pleurico. L’esame radiologico è aspecifico, sono frequenti infiltrati localizzati ai lobi superiori. Le altre manifestazioni radiologiche sono rappresentate da noduli singoli o multipli, cavità, infiltrati diffusi, addensamenti, ascessi, versamento pleurico. In circa il 10% dei pazienti sono presenti ascessi cutanei e sottocutanei. Frequentemente la malattia progredisce nonostante la terapia antibiotica ed in questo caso il quadro radiologico evidenzia la comparsa di lesioni cavitarie con aree centrali radiopache. In molti casi non trattati si verifica disseminazione per via ematica con localizzazioni sottocutanee, formazione di ascessi multipli cerebrali e meningite purulenta conseguente a rottura degli ascessi. D. Diagnosi. L’isolamento di Nocardia è spesso difficoltoso, sia da campioni di escreato o broncolavaggio, sia dalle sezioni istologiche. Nel sospetto clinico della malattia è bene informare il laboratorio in modo che il tempo di osservazione delle colture sia più lungo.
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La diagnosi è quindi prevalentemente clinica e si basa sul riscontro di una polmonite purulenta ad andamento progressivo, con febbricola che non risponde alla terapia antibiotica convenzionale, per lo più in soggetti immunocompromessi o con broncopneumopatie croniche. La diagnosi differenziale va posta con la tubercolosi, le micosi polmonari, le infezioni da micobatteri non tubercolari. E. Prognosi. La mortalità varia con la sede dell’infezione e la gravità della malattia di base. La sopravvivenza è migliore se si interviene con la terapia prima della diffusione ematogena. F. Terapia. Il farmaco di scelta è la sulfadiazina (4-8 g/die per os a seconda dei tassi sierici ottenuti che non devono essere inferiori a 12-15 mg/dl) che va somministrata per almeno 6 settimane. In alternativa si utilizza il cotrimossazolo e, nei pazienti allergici ai sulfamidici, come farmaci di seconda scelta (anche in associazione fra loro) l’imipenem, il meropenem, l’amikacina, la doxiciclina. Nei casi di ascessi o empiema è indicato il drenaggio chirurgico.
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C A P I T O L O
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INFEZIONI DELL’APPARATO DIGERENTE G. GAIERA
Numerosi microrganismi (virus, batteri, protozoi, elminti e miceti) possono determinare una sintomatologia a livello del tratto gastroenterico, nella maggior parte dei casi dominata dalla diarrea e da dolori addominali. La diarrea di origine infettiva è un’importante causa di morbosità e mortalità, soprattutto tra i bambini e nelle aree del Sud del mondo, dove sussistono condizioni più favorevoli allo sviluppo ed alla diffusione degli agenti infettivi a localizzazione gastrointestinale (problemi di approvvigionamento idrico, assenza di servizi igienici e reti fognarie, frequente malnutrizione). Anche nei paesi con tenore di vita più elevato, tuttavia, alcuni fenomeni strettamente legati al progresso economico, quali la produzione, preparazione e distribuzione su larga scala degli alimenti, permettono di mantenere presente il rischio di epidemie causate da patogeni a sviluppo o partenza gastroenterica. Nell’approccio alle infezioni dell’apparato digerente, è utile anzitutto distinguere tra intossicazioni alimentari, determinate dall’ingestione di tossine batteriche elaborate al di fuori dell’organismo e già contenute negli alimenti (intossicazione stafilococcica, botulismo), e infezioni intestinali vere e proprie, causate dall’azione diretta o mediata del patogeno a livello gastrointestinale. In secondo luogo, ai fini dell’approccio diagnostico e terapeutico è importante riuscire ad operare una distinzione tra diarrea e dissenteria. La prima, infatti, è causata solo da alterazioni del transito intestinale e da fenomeni di malassorbimento e/o ipersecretivi, senza lesioni della parete intestinale; è quindi caratterizzata solitamente dall’assenza di febbre e dalla presenza di plurime scariche di feci più o meno acquose, eventualmente accompagnate da muco ma senza pus né sangue. La seconda, invece, è la conseguenza di ulcerazioni della mucosa intestinale ed è quindi caratterizzata da iperpiressia frequente e dalla presenza di muco, pus e/o sangue nelle feci, cui si associa frequentemente tenesmo. Nei casi di dissenteria la preoccupazione principale sarà quella di curare con una terapia eziologica mirata la causa della sindrome, senza trascurare ovviamente la terapia reidratante e sintomatica. Nei casi di diarrea,
solitamente gravati dall’eliminazione di un maggior quantitativo di liquidi per via intestinale e ad evoluzione spesso spontaneamente favorevole, un’attenzione particolare e prioritaria dovrà essere posta invece alla terapia reidratante e integratrice, spesso sufficiente da sola o addirittura più efficace dell’antibioticoterapia nel contribuire a risolvere il quadro patologico.
INTOSSICAZIONI ALIMENTARI Intossicazione stafilococcica Per intossicazione stafilococcica (avvelenamento alimentare o “food poisoning”) si intende la sindrome gastroenterica acuta che compare in seguito all’ingestione di alimenti contaminati dalle enterotossine di Staphylococcus aureus. A. Epidemiologia. L’intossicazione alimentare stafilococcica è ubiquitaria e si può presentare con casi isolati o epidemie più o meno estese. Il principale serbatoio è l’uomo, tanto ammalato (piodermiti o lesioni cutanee minime) quanto asintomatico (portatori nasali). L’inquinamento degli alimenti (più frequentemente interessati sono latte, formaggi, creme, gelati, insaccati, scatolame, surgelati) avviene durante la loro manipolazione, per contatto diretto o per via aerea dai portatori nasali; i caratteri organolettici degli alimenti contaminati non risultano modificati. Favoriscono l’inquinamento degli alimenti e la successiva intossicazione: le caratteristiche dell’alimento stesso, che deve costituire un pabulum idoneo per lo sviluppo del batterio (per esempio le carni particolarmente salate, in cui è ostacolato lo sviluppo della maggior parte dei microrganismi, ad eccezione di S. aureus); la conservazione dell’alimento almeno per un certo periodo a temperatura ambiente, necessaria per la crescita del batterio e la liberazione delle tossine; il tempo trascorso tra l’inquinamento ed il consumo dell’alimento, che deve permettere
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l’accumulo di una quantità di tossine sufficiente a determinare la comparsa dei sintomi. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. Circa la metà dei ceppi di S. aureus è in grado di produrre enterotossine; attualmente si conoscono almeno 5 tipi antigenicamente distinti di esotossine ad attività enterotossica, la cui proprietà principale è la termoresistenza. La quantità di enterotossina capace di determinare la sintomatologia sembra essere minima. Alla luce delle osservazioni compiute negli animali da esperimento, si ritiene che anche nell’uomo la tossina non sia direttamente attiva a livello del tubo intestinale, ma venga in tale sede assorbita e giunga attraverso la circolazione sistemica al sistema nervoso centrale, dove esplicherebbe la sua azione, determinando disturbi tanto a carico dell’apparato digerente quanto, non raramente, delle generali condizioni di salute. I precisi meccanismi di azione a livello del sistema nervoso centrale non sono ancora completamente conosciuti. C. Clinica. Il periodo di incubazione è caratteristicamente molto breve (1-10 ore). L’esordio è solitamente brusco, con la comparsa inizialmente di nausea, vomito, dolori addominali crampiformi, e successivamente di diarrea con l’emissione più o meno abbondante di feci liquide. Si associano frequentemente segni di malessere generale, quali astenia profonda, cefalea e sudorazione fredda; l’ipertermia è invece assente. Rari i segni di disidratazione, se non nei casi più gravi. Il decorso è di solito favorevole, con risoluzione spontanea della sintomatologia nel giro di 24 ore. D. Diagnosi. L’intossicazione stafilococcica deve essere sospettata nei casi caratterizzati da un periodo di incubazione breve dall’assunzione di alimenti sospetti, assenza di febbre e comparsa della sintomatologia in tutti, o quasi, i soggetti che hanno consumato lo stesso alimento. Nella diagnosi differenziale sono da prendere in considerazione: le cosiddette tossinfezioni alimentari, vale a dire le gastroenteriti provocate da tossine in parte preformate nell’alimento e in parte prodotte dal microrganismo (clostridi, Bacillus cereus) nel lume intestinale, che di solito hanno un periodo di incubazione più lungo; le intossicazioni da funghi e da contaminazione degli alimenti da parte di varie sostanze (mercurio, glutammato monosodico – “sindrome del ristorante cinese” – tossine presenti in alcuni pesci e molluschi quali la ciguatossina), che al contrario hanno un’incubazione più breve. Anche il mancato interessamento epato-renale permette di distinguere l’intossicazione stafilococcica dall’avvelenamento da funghi, mentre l’assenza o la sfumata sintomatologia a carico del sistema nervoso centrale la differenzia dall’intossicazione da mercurio, da prodotti ittici e dalla “sindrome del ristorante cinese”. La diagnosi di certezza si basa sull’esame microbiologico, microscopico e colturale dell’alimento sospetto e soprattutto sulla ricerca dell’enterotossina, con metodiche, tuttavia, per ora disponibili solo nei laboratori specializzati (immunodiffusione, immunofluorescenza, emoagglutinazione).
MALATTIE INFETTIVE
E. Terapia. Nella maggior parte dei casi è sufficiente una terapia sintomatica (antiemetici, antidiarroici); solo nelle forme più gravi è opportuno somministrare liquidi ed elettroliti, in particolare potassio, a compensazione delle perdite. F. Profilassi. Si basa sulla conservazione degli alimenti cucinati non a temperatura ambiente, ma in frigorifero a temperature di almeno 4° C (la produzione di enterotossine è infatti trascurabile a temperature inferiori ai 6-7 °C) e sull’esclusione dalla preparazione dei cibi dei soggetti con infezioni stafilococciche in atto.
INFEZIONI INTESTINALI DA VIRUS Per alcuni dei quadri clinici che venivano un tempo denominati “gastroenteriti abatteriche”, in quanto le normali indagini microbiologiche non permettevano di rivelare in essi una ben definita eziologia, è stato possibile dimostrare negli ultimi vent’anni un’associazione con particolari agenti virali. A. Epidemiologia. Sotto il profilo epidemiologico le gastroenteriti virali possono essere distinte in due gruppi: l’uno, esemplificato dal virus di Norwalk, non presenta andamento stagionale, colpisce indifferentemente bambini e adulti e si manifesta solitamente in epidemie più o meno estese all’interno di comunità chiuse o di gruppi di soggetti che hanno consumato lo stesso alimento; l’altro, esemplificato dai rotavirus, è più frequente nella stagione invernale nei soggetti di 6-24 mesi ed ha solitamente decorso sporadico e non epidemico. In tutte le forme note la trasmissione avviene per via fecale-orale; per alcuni virus, quali il virus di Norwalk, è stata ipotizzata anche una trasmissione per via aerea, che renderebbe ragione della notevole brevità del periodo di incubazione. Oltre che dal contagio diretto interumano, le epidemie possono essere sostenute anche da modalità di infezione indiretta attraverso veicoli vari, primi fra tutti gli alimenti e le acque contaminate. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. Oltre che sulla base delle caratteristiche epidemiologiche, i virus responsabili di gastroenteriti possono essere suddivisi secondo la morfologia e le particolarità colturali: i rotavirus e gli adenovirus hanno dimensioni maggiori (diametro di 50-80 nm) e sono coltivabili in vitro; il virus di Norwalk, i virus Norwalk-simili, i calicivirus e gli astrovirus sono invece più piccoli (diametro inferiore ai 40 nm) e non coltivabili in vitro. 1. I rotavirus sono virus a RNA a doppia elica, appartenenti alla famiglia Reoviridae; posseggono un doppio capside, a cui la disposizione dei capsomeri a raggiera conferisce il tipico aspetto “a ruota” nelle immagini ultrastrutturali (donde il nome di questi agenti virali). In base alla presenza di un antigene proteico specifico, vengono distinti in gruppi (da A a G), di cui il gruppo A (dotato dell’antigene VP6) è il più comune
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ed il più studiato. Crescono con difficoltà nelle colture tissutali e possono essere messi in evidenza nelle feci, oltre che con il microscopio elettronico, anche con differenti metodiche di ricerca antigenica (fissazione del complemento, immunofluorescenza, tecniche radioimmunologiche ed immunoenzimatiche). Nei bambini di età compresa tra i 6 e i 24 mesi, e più frequentemente nei mesi da novembre ad aprile, rappresentano una delle cause principali di gastroenterite acuta; spesso determinano infezioni nosocomiali. Pur essendo stati isolati da molti animali (tra cui cani, gatti, bovini, volatili da cortile, roditori, scimmie), non è stata ancora dimostrata una loro possibile trasmissione dagli animali all’uomo e viceversa. 2. Tra gli adenovirus, sono i sierotipi 40 e 41 (i cosiddetti “adenovirus intestinali”) appartenenti al gruppo F quelli in grado di determinare una gastroenterite acuta; si differenziano dagli altri adenovirus per la loro incapacità di svilupparsi nelle linee cellulari convenzionali per gli adenovirus. 3. Il virus di Norwalk, che deriva il nome dalla sua prima descrizione avvenuta nel 1968 durante un’epidemia in una scuola di Norwalk (Ohio, USA), è stato caratterizzato, pur non essendo coltivabile in vitro, ed assimilato ai calicivirus per le sue caratteristiche genetiche e morfologiche (virus a RNA a singola elica, con simmetria cubica e senza involucro esterno). Una serie di altri virus, chiamati ciascuno con il nome della località in cui è stata per la prima volta osservata un’epidemia, sono stati riuniti sotto la denominazione generica di virus Norwalk-simili, in quanto paragonabili per dimensioni e morfologia al virus di Norwalk. Sono stati dimostrati in grado di provocare epidemie di gastroenterite acuta all’interno di nuclei familiari o piccole comunità. 4. I calicivirus sono virus a RNA, analoghi agli agenti Norwalk-simili, privi di involucro e a simmetria icosaedrica; raggruppati in 4-5 sierotipi differenti, sono stati isolati dalle feci di soggetti con gastroenterite acuta e più frequentemente in casi sporadici acquisiti in comunità. 5. Gli astrovirus e i coronavirus, virus a RNA, sono stati identificati tanto in soggetti sani quanto nelle feci di pazienti con gastroenterite. Nelle infezioni da rotavirus sono state dimostrate alterazioni della mucosa dell’intestino tenue, quali un accorciamento dei villi e un’ipertrofia delle cripte, ed una infiltrazione della lamina propria ad opera di cellule mononucleate; è stato possibile riscontrare la presenza dell’agente virale nel citoplasma dell’epitelio dei villi a livello duodeno-digiunale, ma non nella mucosa gastrica e colica. Nelle gastroenteriti da virus di Norwalk analoghe alterazioni anatomiche (accorciamento dei villi per distruzione dell’apice, ipertrofia delle cripte, infiltrazione di cellule mono e plurinucleate nell’interstizio villare) sono particolarmente evidenti alla giunzione duodeno-digiunale. La patogenesi delle gastroenteriti virali è tuttora poco conosciuta: pare comunque che il meccanismo patoge-
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netico principale sia un diminuito assorbimento di acqua e sali per compromissione selettiva delle cellule dell’epitelio intestinale deputate all’assorbimento, cui consegue una disidratazione isotonica ed un’acidosi metabolica compensata. Il ruolo patogenetico di eventuali enterotossine (come la NSP4 dei rotavirus di gruppo A, l’unica fino ad oggi identificata) deve essere ancora chiarito. C. Clinica. Le caratteristiche cliniche principali delle infezioni intestinali da virus sono il breve periodo di incubazione (24-72 ore) e l’esordio solitamente acuto con vomito e diarrea; le feci si presentano nella maggior parte dei casi di colorito giallastro e sono prive di muco e sangue. In oltre la metà dei pazienti può associarsi una febbre moderata, mentre il vomito può essere in qualche caso assente. Nelle forme da adenovirus, che interessano soprattutto i bambini più piccoli, all’abituale sintomatologia gastrointestinale si possono associare sintomi respiratori. Il decorso è generalmente favorevole con risoluzione spontanea del quadro clinico in pochi giorni. D. Diagnosi. Orientano verso un’eziologia virale la predilezione per l’età infantile, la frequente comparsa in epidemie più o meno estese, la presenza abituale di vomito, l’assenza nelle feci di muco, sangue, fibrina e cellule infiammatorie, oltre che la negatività delle coprocolture per i batteri normalmente responsabili di infezioni intestinali. La conferma diagnostica richiede l’identificazione nelle feci dell’agente virale responsabile. Le indagini al microscopio elettronico ed immunoultramicroscopiche sono laboriose e costose, per cui si utilizzano più frequentemente metodi più semplici ma sufficientemente specifici, basati sulla dimostrazione nelle feci di antigeni attraverso metodiche immunoenzimatiche (le sole disponibili in commercio limitatamente ai rotavirus), di agglutinazione al lattice, ibridazione in situ ed elettroforesi su gel di poliacrilamide. Per i rotavirus sono disponibili anche metodi sierologici (immunoenzimatici, di neutralizzazione e fissazione del complemento) per la ricerca degli anticorpi specifici. E. Terapia. Il trattamento è puramente sintomatico e si fonda sulla reidratazione e sulla compensazione degli squilibri elettrolitici (in particolare la perdita di potassio) determinati dalla diarrea più o meno profusa. Nella maggior parte dei casi la somministrazione delle soluzioni reidratanti e reintegratrici può avvenire per via orale al domicilio del paziente; nei soggetti che presentano però un’importante sintomatologia emetica ed hanno subito una significativa perdita di liquidi, evidenziabile nei bambini con una corrispondente diminuzione di peso corporeo, si rivela necessaria la somministrazione della terapia in ambiente ospedaliero per via parenterale. F. Profilassi. Si basa in generale sulle normali misure igieniche personali e alimentari. Nel caso dei rotavirus sono stati sperimentati alcuni vaccini viventi atte-
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nuati (monovalente e tetravalente) a somministrazione orale: pur con un’efficacia modesta (monovalente: copertura nel 40% dei casi; tetravalente: 57%), si sono rivelati in grado di ridurre in maniera significativa la frequenza delle forme gravi (monovalente: 73% dei casi; tetravalente: 82%).
INFEZIONI INTESTINALI DA BATTERI Le infezioni intestinali da batteri possono determinare una sintomatologia gastroenterica, ed in particolare una diarrea, alterando il riassorbimento e/o la secrezione di liquidi a livello intestinale attraverso differenti meccanismi patogenetici: la produzione di tossine in grado di aumentare la secrezione intestinale, senza causare alterazioni anatomiche dell’epitelio (“enterotossine” pure); la produzione di tossine capaci di determinare lesioni di entità variabile della parete intestinale (“citotossine”); l’adesione dei batteri all’epitelio intestinale e la sua successiva lesione con la scomparsa dell’orletto “a spazzola”; la compromissione della motilità intestinale; l’invasione da parte dei batteri dell’epitelio intestinale e la conseguente comparsa di una risposta infiammatoria locale. Sulla scorta di questi diversi meccanismi d’azione, le enteriti batteriche sono state classificate come diarree secretorie (non infiammatorie), causate da batteri enterotossigeni, e diarree infiammatorie, provocate da batteri enteroinvasivi. Le prime sono caratterizzate da abbondante diarrea acquosa, dovuta all’accumulo endoluminale di liquidi secondario all’azione di un’enterotossina che il batterio produce dopo aver colonizzato l’intestino: ne sono un esempio le infezioni da Vibrio cholerae e da Escherichia coli enterotossigena. Nelle seconde, invece, si ha solitamente l’emissione frequente di piccole quantità di feci, contenenti muco, eritrociti e leucociti, associata a segni di danno della mucosa intestinale, quali il tenesmo: ne sono un prototipo le salmonellosi, le shigellosi, le infezioni da E. coli enteroinvasiva. Nella febbre tifoide si osserva un tipo particolare di diarrea infiammatoria, in cui la penetrazione del microrganismo avviene attraverso una mucosa intestinale intatta e le lesioni sono secondarie alla moltiplicazione del batterio nel sistema linfatico e monocito-macrofagico: in questo caso predominano i sintomi generali (febbre, prostrazione, alterazioni del sensorio), mentre la diarrea compare solo in un secondo tempo o è del tutto assente. Occorre comunque notare che all’interno di una stessa specie batterica alcuni ceppi possono risultare enterotossigeni ed altri enteropatogeni: oltre alla già citata E. coli, ne è un esempio anche Staphylococcus aureus, che può essere responsabile tanto di un quadro di intossicazione alimentare quanto di un’enterocolite invasiva. Oltre al quadro clinico, anche l’esame macro e microscopico delle feci può permettere di differenziare una diarrea secretoria da una infiammatoria: solo nel secondo caso, infatti, sono presenti nelle feci elementi
infiammatori, vale a dire eritrociti e leucociti. In presenza di leucociti nelle feci, può permettere un ulteriore approfondimento diagnostico la differenziazione tra polimorfonucleati e mononucleati, predominanti rispettivamente nelle shigellosi e nella febbre tifoide.
Infezioni intestinali da batteri enterotossigeni Colera Il colera è una malattia infettiva acuta ad elevata contagiosità, causata dall’enterotossina prodotta da Vibrio cholerae, una volta che questo batterio ha colonizzato l’intestino. Si manifesta nei casi tipici con una diarrea acquosa profusa, che può portare a situazioni di particolari gravità fino all’exitus a causa dell’imponente disidratazione che consegue a tale diarrea. A. Epidemiologia. Malattia legata alla contaminazione fecale dell’ambiente, il colera è endemico nella maggior parte dei paesi dell’Asia e dell’Africa. La pandemia attualmente in corso è la settima: iniziata nel 1961 a Sulawesi, si è estesa fino all’Europa nel 1970 e nel 1991 ha raggiunto per la prima volta anche l’America Latina, penetrandovi attraverso il Perú. Il subcontinente indiano, in particolare il delta del Gange, fungerebbe da riserva interepidemica: a causa della breve incubazione, fino agli inizi dell’Ottocento l’infezione restò confinata in queste zone di origine e nelle aree limitrofe. A partire dalla metà dell’Ottocento, invece, le comunicazioni si sono fatte più rapide ed il colera ha potuto interessare anche altri continenti: fino al 1923 l’Europa è stata interessata da sei pandemie, rimanendone poi esente fino alla settima pandemia in corso. In Italia tra il 1973 e il 1998 si sono avute diverse centinaia di casi con alcune decine di morti; microepidemie si sono verificate nelle regioni meridionali (Napoli, Bari, Sardegna) nel 1973, 1976 e 1994. Nei primi anni Novanta si è ipotizzato che fosse iniziata l’ottava pandemia dell’infezione, vista la diffusione in Asia del ceppo V. cholerae O139 Bengala: in realtà, dopo alcune centinaia di migliaia di casi, l’epidemia si è circoscritta, per cui V. cholerae O139 Bengala rimane endemico nel solo subcontinente indiano. Sono le acque marine costiere e le acque salmastre degli estuari l’habitat naturale del vibrione colerico; in esse il batterio vive in forma infettante in stretto rapporto con il plancton. L’infezione si trasmette per via fecale-orale attraverso l’ingestione di acqua o cibi (pesci, crostacei e molluschi crudi, verdura cruda) contaminati da feci umane; nelle microepidemie italiane hanno giocato un ruolo fondamentale i molluschi coltivati in acque inquinate da reflui fognari. Il contagio diretto interumano è invece più raro. Solo l’uomo può ospitare il vibrione nel proprio tratto gastrointestinale: il serbatoio dell’infezione risulta così costituito solo dai pazienti e dai portatori (soggetti che si trovano nel breve periodo di incubazione oppure hanno infezioni subcliniche, o sono convalescenti ed eliminano ancora vibrioni per un certo periodo di tempo oppure sono, for-
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se, dei veri e propri portatori sani, che mantengono il vibrione colerico a livello colecistico). Per mantenere un inquinamento ambientale favorevole alla trasmissione dell’infezione è comunque molto più importante l’elevatissima carica batterica riscontrabile nei malati che non quella contenuta osservabile nei portatori. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. V. cholerae è un bacillo Gram– asporigeno, dalla forma leggermente ricurva, “a virgola”, e dotato di notevole mobilità grazie alla presenza di un unico ciglio polare. Possiede antigeni flagellari H, aspecifici, ed antigeni somatici O, specifici, posti sulla superficie della parete cellulare: in base alle differenze osservate nei determinanti antigenici O, sono stati finora identificati 139 sierogruppi diversi, di cui il più importante ai fini della patologia è il sierogruppo O1 (così detto in quanto agglutinato da un antisiero diretto contro l’antigene specifico del gruppo O1). Fino ad alcuni anni fa, si riteneva infatti che solo questo sierogruppo O1 fosse il responsabile del colera epidemico, anche se si era a conoscenza che alcuni ceppi dei sierogruppi non O1 (non agglutinati, cioè, dall’antisiero descritto sopra) erano in grado di causare casi sporadici di diarrea; nel 1992 durate un’epidemia di colera iniziata in India meridionale e in Bangladesh e successivamente estesasi ad altri stati dell’Asia, fu isolato un ceppo di V. cholerae che non apparteneva né al sierogruppo O1 né ai 137 sierogruppi non O1 fino allora conosciuti: in questo ceppo, cui fu dato il nome di V. cholerae O139 Bengala, fu dimostrata la presenza di una tossina del tutto simile a quella elaborata dal sierotipo O1. V. cholerae O1 esiste in due biotipi, l’uno detto classico e l’altro El Tor (dal nome della stazione di frontiera nella penisola del Sinai in cui fu per la prima volta isolato); del tutto simili per quanto riguarda il potere patogeno e la struttura antigenica, sono stati responsabili il primo delle prime sei pandemie ed il secondo della settima pandemia in corso: il biotipo El Tor, dotato di un’attenuata letalità, è stato favorito nella sua diffusione, fino a soppiantare il tipo classico, dalla maggiore sopravvivenza nell’ambiente e dalla più lunga durata dello stato di portatore dell’infezione. L’ingestione di V. cholerae determina la malattia solo nei casi in cui la quantità di batteri ingeriti sia elevata e/o la barriera gastrica presenti una funzionalità ridotta per acloridria o ipocloridria, quale si osserva nei soggetti malnutriti o gastroresecati oppure in corso di terapia antiacida o con H2-antagonisti. Una volta giunto nel tratto prossimale dell’intestino tenue, il vibrione supera lo strato di muco che ricopre la parete intestinale, aderisce a quest’ultima senza invaderla ed inizia a produrre un’esotossina detta enterotossina, responsabile della patogenicità del vibrione. L’enterotossina, penetrata con la sua subunità A all’interno dell’enterocita, determina un accumulo intracellulare di AMP ciclico, che a sua volta inibisce il sistema di riassorbimento cellulare del sodio ed attiva il sistema di escrezione dei cloruri, determinando l’accumulo nel lume intestinale di elevate quantità di sodio e cloro e la successiva fuoriuscita di liquidi dalla parete intestinale per un fenomeno di compensazione osmotica. Quando il volume di questo liqui-
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do isotonico accumulato nel lume intestinale supera la capacità di riassorbimento del resto dell’intestino, si sviluppa la diarrea acquosa; se la perdita di liquidi ed elettroliti non è compensata, seguono lo shock ipovolemico e l’acidosi (secondaria alla perdita di bicarbonati). Oltre che sull’AMP ciclico, l’enterotossina colerica agisce anche sui neuroni secretomotori del plesso mioenterico, determinando la liberazione di polipeptidi intestinali vasoattivi (VIP) responsabili della vasodilatazione della mucosa e dell’ulteriore secrezione di acqua ed elettroliti. L’infezione naturale da V. cholerae sviluppa un’immunità tanto sistemica quanto locale a livello intestinale, per cui si riscontrano raramente reinfezioni. C. Clinica. Asintomatico o caratterizzato da una sintomatologia modesta in molti casi, nei soggetti in cui compaiono le forme di colera più gravi l’incubazione è breve (6-48 ore) e l’esordio solitamente brutale, tanto da essere chiamato “attacco colerico”. Il sintomo dominante è la diarrea acquosa, caratterizzata da plurime evacuazioni (fino a 50/100 scariche al dì) di piccola entità: le feci sono praticamente costituite da ammassi fioccosi di vibrioni e muco (donde il nome di feci “ad acqua di riso”), senza pus né sangue. Alla diarrea si associano spesso dolori addominali crampiformi e vomito; la febbre è invece solitamente assente. Conseguenza della diarrea profusa è una disidratazione più o meno importante, che può portare alla perdita di 2-5 litri in pochi giorni nei casi di infezione da biotipo El Tor e fino a 10-20 litri al giorno nei casi da biotipo classico: ne deriva oligoanuria e un quadro di shock ipovolemico con grave ipotensione, tachicardia con polso filiforme. Segni caratteristici di questa massiva disidratazione sono la cute estremamente secca (le cosiddette “mani da lavandaia”), l’infossamento dell’addome “a barca”, la “facies da mummia” (globi oculari infossati, guance incavate e naso affilato) e la voce afona; il sensorio si mantiene invece solitamente integro. In alcuni casi, noti come “colera secco”, la morte per massiva e rapida disidratazione precede la comparsa della diarrea. D. Esami di laboratorio. Nelle forme più gravi si evidenziano emoconcentrazione (aumento dell’ematocrito e del numero degli eritrociti/mmc), iponatriemia e soprattutto ipokaliemia, acidosi ed eventualmente iperazotemia. E. Diagnosi. La diagnosi presuntiva è basata sull’anamnesi clinica e sul contesto epidemiologico: il solo sospetto deve orientare per un inizio immediato della reidratazione. La conferma diagnostica avviene attraverso il più rapido esame microscopico delle feci, diretto o previo arricchimento in acqua peptonata, realizzato con la tecnica in “campo oscuro” (i vibrioni, estremamente mobili, attraversano il campo con un movimento simile a quello delle “stelle filanti”), o la più tradizionale coprocoltura in acqua peptonata e successivi terreni solidi selettivi. La diagnosi differenziale deve tenere in considerazione non tanto le altre enteriti da batteri invasivi (cau-
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sa di dissenteria e non di diarrea) quanto le infezioni da altri batteri enterotossigeni, quali Escherichia coli, e alcuni avvelenamenti (arsenico, acido fosforico). F. Decorso e prognosi. Nelle infezioni da biotipo El Tor l’evoluzione è fatale nel 30-50% dei casi non trattati e solitamente l’exitus avviene nel giro di ore/giorni per le conseguenze della massiva disidratazione e ipotensione, cioè per acidosi metabolica, shock ipovolemico, insufficienza renale da necrosi tubulare acuta secondaria alla prolungata ipotensione. Il biotipo classico presenta una più elevata letalità (oltre l’80% dei casi). Nei casi in cui l’evoluzione è naturalmente favorevole o in cui viene prontamente messa in atto una terapia reidratante, la diarrea si risolve in 3-4 giorni. G. Terapia. Si basa anzitutto sulla reidratazione e risalificazione per via endovenosa e orale, da mettere in atto il più velocemente possibile, pena la rapida evoluzione del paziente verso l’exitus. Comprende una fase iniziale, in cui con estrema rapidità (entro circa 6 ore) si deve giungere alla compensazione con soluzioni isotoniche (contenenti sodio) del volume di liquidi persi ed alla correzione dell’acidosi, ed una fase di mantenimento in cui, almeno per tutta la durata della diarrea, si devono compensare con soluzioni ipotoniche (supplementate di potassio) i liquidi eliminati giornalmente con urine, feci e perspiratio. Essenziale è uno stretto monitoraggio del bilancio idrico e, ove possibile, degli elettroliti serici e della riserva alcalina. Se nella reidratazione per via endovenosa sono da privilegiare le soluzioni saline, in quella per via orale è meglio utilizzare invece soluzioni a base di glucosio o saccarosio, poiché gli zuccheri accelerano l’assorbimento intestinale del sodio e di conseguenza dell’acqua. Poiché la diarrea del coleroso è causata da un processo secretivo e non da alterazioni della peristalsi, i farmaci antiperistaltici non sono assolutamente indicati. Accanto alla terapia reidratante, è comunque utile introdurre un’antibioticoterapia mirata: se infatti essa è di per sé insufficiente a contrastare l’evolvere dell’infezione (nelle 24-48 ore necessarie perché cominci ad essere efficace, viene già prodotta una dose letale di enterotossina, nei confronti della quale la terapia antibiotica è praticamente inefficace) è comunque in grado di abbreviare la durata della diarrea, diminuire la quantità di liquidi persi con le feci e il periodo di escrezione dei vibrioni. Negli adulti è consigliato un trattamento con tetraciclina, controindicata nei bambini di età inferiore agli 8 anni; in alcune aree endemiche (soprattutto in Asia) sono peraltro comparsi da alcuni anni e stanno diventando prevalenti ceppi di V. cholerae O1 resistenti alle tetracicline: in queste zone i farmaci più efficaci sono i fluorochinolonici (principalmente ciprofloxacina) e l’eritromicina (utilizzabile anche in età pediatrica). Anche il cotrimoxazolo, usato in passato come farmaco di prima scelta nei bambini, si sta rivelando sempre meno efficace per gli ormai estesi fenomeni di resistenza. H. Profilassi. La profilassi aspecifica si basa sull’igiene delle acque e delle derrate alimentari, difficil-
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mente realizzabile in molte aree endemiche. È perciò utile consigliare ai viaggiatori diretti in tali zone di bere solo acqua bollita o confezionata in bottiglie sigillate, di astenersi dal mangiare verdure crude e altri generi di alimenti facilmente contaminabili e di osservare una stretta igiene personale. Per quanto riguarda la profilassi specifica, la vaccinazione anticolerica “classica”, eseguita con iniezione im di una sospensione di vibrioni inattivati, non è più richiesta dal regolamento sanitario internazionale, in quanto, pur potendo influenzare l’evoluzione della malattia, non può impedire né di contrarla né di trasmetterla. I nuovi vaccini orali, ottenuti con vibrioni vivi geneticamente alterati o con una combinazione di vibrioni uccisi e subunità dell’enterotossina, presentano invece una maggior efficacia protettiva (almeno del 60%, se non del 90%), anche se per un periodo non prolungato (6 mesi-2 anni). Numerosi dubbi esistono infine anche sulla chemioprofilassi con tetracicline, oppure con fluorochinolonici o eritromicina, nelle aree in cui la resistenza alla tetraciclina è ampiamente diffusa: poiché potrebbe facilitare il diffondersi della farmacoresistenza, se ne consiglia solo un uso limitato ai contatti stretti, generalmente familiari, del caso di colera. Enterite da E. coli enterotossigena, enteropatogena, enteroaggregativa e diffusamente adesiva - Diarrea del viaggiatore Si tratta di sindromi diarroiche di tipo secretorio, di gravità variabile, sostenute da ceppi di Escherichia coli non invasivi, ma capaci di determinare alterazioni del transito intestinale attraverso la produzione di enterotossine o altri meccanismi patogenetici (come per es. quelli di tipo adesivo) che non dipendono dall’invasione della mucosa enterica. A. Epidemiologia. I ceppi enterotossigeni di E. coli hanno una diffusione ubiquitaria, anche se la loro frequenza è variabile nelle differenti aree geografiche: sono particolarmente diffusi nei paesi del Sud del mondo, probabilmente anche a causa del livello igienico più basso osservabile nelle popolazioni lì residenti. Costituiscono la più frequente causa di diarrea batterica a livello mondiale, tanto nella forma della cosiddetta “diarrea del viaggiatore” (“traveller’s diarrhoea”) quanto come agenti eziologici di diarrea nelle popolazioni locali. La “diarrea del viaggiatore” costituisce il più frequente problema clinico in corso di viaggi, con un rischio molto più elevato per i viaggi che avvengono nell’area tropicale in cui l’igiene degli alimenti e delle bevande non è sempre perfetta ed altre problematiche, quali la mancanza di infrastrutture igienico-sanitarie, rendono più facile la contaminazione di acqua e cibi. Possono esserne fattori favorenti le età estreme della vita, l’ipocloridria, un deficit di IgA e l’adozione di stili di vita delle popolazioni locali. In oltre l’80% dei casi presenta un’eziologia infettiva: nell’80% di questi può essere ritrovata un’origine batterica legata a meccanismi di enteroinvasività e soprattutto enterotossigenicità (in particolare ceppi enterotossigeni di E. coli e meno frequentemente salmonelle, campylobacter, stafilococ-
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chi enterotossici ecc.) e nel rimanente 20% una causa virale (rotavirus) o parassitaria. La trasmissione è per lo più fecale-orale ed è legata soprattutto alla qualità dell’acqua e delle bevande assunte. Tra le cause non infettive hanno un ruolo importante la modifica delle abitudini alimentari e lo stress correlato al viaggio, che possono esacerbare una diarrea infettiva preesistente o far emergere una patologia intestinale quiescente. I ceppi enterotossigeni di E. coli sono comunque diffusi anche nei paesi industrializzati, dove possono sostenere tanto epidemie più o meno estese quanto casi sporadici in adulti e bambini. I ceppi non invasivi di E. coli non enterotossigeni sono responsabili in tutto il mondo, ma in particolare nei paesi dell’area intertropicale, di epidemie di diarrea nei bambini ed in particolare nei lattanti, osservabili sia nella popolazione generale sia nelle comunità chiuse (istituti, reparti di maternità e di pediatria), nonché di casi sporadici di diarrea infantile. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. E. coli è un bacillo Gram–, asporigeno, aerobio facoltativo, provvisto di flagelli e di capsula, scarsamente mobile, appartenente alla famiglia delle enterobacteriaceae. Assai diffuso in natura e normale saprofita dell’intestino umano, così come delle vie urinarie, della cute e della vagina, è sierologicamente differenziabile per la presenza di tre antigeni: l’antigene O (somatico), lipopolisaccaridico e termostabile, in cui si riconosce l’attività endotossinica del microrganismo e che consente la distinzione di almeno 170 sierogruppi differenti; l’antigene H (flagellare), incostante, termolabile e tipo-specifico (permette di riconoscere 56 sierotipi diversi); l’antigene K (capsulare), pure incostante, che consente l’identificazione di oltre 100 tipi antigenici ed è differenziato in tre varianti (A, L e B), di cui la più importante dal punto di vista clinico sarebbe la B, poiché sempre presente nei ceppi enterotossigeni. 1. I ceppi enterotossigeni di E. coli (cosiddetti ETEC o Enterotoxigenic E. coli) sono capaci di produrre una o due distinte esotossine di natura proteica: la tossina termolabile (LT), immunologicamente e funzionalmente simile all’enterotossina colerica, in grado di attivare l’adenilato-ciclasi delle cellule ghiandolari con conseguente accumulo di AMP ciclico intracellulare e secrezione di cloruri e acqua nel lume intestinale; la tossina termostabile (ST), incostante, il cui meccanismo di azione dipende dalla stimolazione della guanilato-ciclasi e dal conseguente aumento intracellulare di GMP ciclico. Queste enterotossine sono codificate da plasmidi trasmissibili situati nella parete della cellula batterica: i ceppi ETEC dotati dei plasmidi sia per LT che ST provocano una diarrea più intensa e più protratta nel tempo rispetto ai ceppi con plasmidi solo per ST. L’enterotossina LT possiede un notevole potere antigenico e induce la comparsa nel sangue di anticorpi neutralizzanti: i soggetti che vivono in area endemica per ETEC e posseggono tali anticorpi risultano meno esposti a presentare la sintomatologia diarroica in caso di riesposizione all’azione della tossina LT. Oltre alla produzione di entero-
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tossine, sembrano necessari altri fattori di patogenicità, tra cui la capacità dei ceppi ETEC di aderire mediante fimbrie alle cellule epiteliali dell’intestino tenue (fattore di adesività o di colonizzazione). Per l’assenza di proprietà invasive, i ceppi ETEC sono molto raramente coinvolti nelle infezioni extraintestinali da E. coli. 2. I ceppi enteropatogeni di E. coli (cosiddetti EPEC o Enteropathogenic E. coli) non producono enterotossine e sono privi di potere invasivo: la loro patogenicità sembra dovuta ad un particolare fattore di adesività localizzata, che determina l’alterazione dei microvilli degli enterociti con conseguente scomparsa dell’orletto “a spazzola”. 3. I ceppi enteroaggregativi di E. coli (EAggEC o Enteroaggregative E. coli) possiedono in molti casi un plasmide che porta geni da cui dipendono fenomeni di adesione ed a volte la produzione di un’enterotossina termostabile simile alla ST dei ceppi ETEC, il cui ruolo patogenetico è tuttora incerto. 4. I ceppi diffusamente adesivi di E. coli (DAEC o Diffusely Adherent E. coli) non sembrano capaci né di elaborare enterotossine né di invadere la mucosa intestinale: sia il loro meccanismo patogenetico che la loro eventuale differenziazione funzionale dagli altri ceppi di E. coli ugualmente dotati di capacità adesive (EPEC ed EAggEC) non sono stati ancora chiariti. C. Clinica. L’esordio è generalmente acuto, dopo un breve periodo di incubazione (24-48 ore), ed è caratterizzato dalla presenza di una diarrea acquosa, accompagnata da dolori addominali crampiformi e talvolta anche da vomito e febbricola. Le feci sono liquide e di colore chiaro, non contengono né muco né sangue né leucociti; il numero di scariche giornaliere è ampiamente variabile, ma di solito compreso in 4-8 nelle 24 ore. Nella forma della cosiddetta “diarrea del viaggiatore” la sintomatologia compare più frequentemente nel corso dei primi giorni del viaggio, l’esordio è solitamente brutale e la febbre spesso assente. D. Esami di laboratorio. In alcuni pazienti è possibile osservare una leucocitosi neutrofila e nei casi complicati ipokaliemia e acidosi metabolica. E. Diagnosi. L’accertamento diagnostico dei casi sospettati in base ai quadri epidemiologico e clinico si attua attraverso la coprocoltura, che permette di evidenziare spesso la crescita di ceppi di E. coli appartenenti ai serotipi più frequentemente enterotossigeni. Solo metodiche particolari eseguite in laboratori specializzati possono però dimostrare il preciso meccanismo patogenetico responsabile dei singoli casi: solo da pochi anni sono in commercio test radioimmunologici ed immunoenzimatici capaci di identificare i ceppi produttori di tossina termolabile e termostabile. F. Decorso e prognosi. Nell’adulto il decorso è solitamente benigno: i sintomi regrediscono in 24-48 ore e scompaiono nel giro di alcuni giorni. Nei bambini, ed
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in particolare nei lattanti, il quadro clinico può complicarsi per la comparsa di ipovolemia e alterazioni dell’equilibrio idroelettrolitico, che possono evolvere fino allo shock ipovolemico e all’acidosi metabolica: il quadro clinico può ricordare allora molto da vicino il colera. La “diarrea del viaggiatore” ha solitamente una guarigione spontanea rapida (3-4 giorni); nel 10% dei casi può protrarsi per più di 1 settimana. G. Terapia. Il trattamento è principalmente sintomatico e basato sulla reidratazione e sulla reintegrazione degli elettroliti persi con le feci (soprattutto potassio); si dimostrano utili anche gli antispastici e gli antidiarroici, mentre sono da proscrivere gli antisettici intestinali. Nelle forme gravi del lattante sia la terapia reidratante che la supplementazione elettrolitica devono essere condotte secondo gli schemi solitamente utilizzati nel colera. L’antibioticoterapia è indicata nei casi in cui la sintomatologia è molto pronunciata e/o protratta nel tempo: negli adulti i farmaci di prima scelta sono i fluorochinoloni, nei bambini il cotrimoxazolo. Anche in caso di “diarrea del viaggiatore”, se la diarrea è profusa (> 4 scariche/dì) e la terapia sintomatica non è risolutiva dopo 2-3 giorni, è consigliato l’autotrattamento antibiotico con un fluorochinolone (ciprofloxacina o norfloxacina); l’autoterapia empirica “precoce” con una dose unica di chinolonico non è invece da tutti condivisa. H. Profilassi. Si basa sulle norme igieniche adatte a ridurre l’insorgenza e la diffusione dell’infezione nelle comunità pediatriche (controllo sia del personale che della biancheria, immediato isolamento dei casi infetti). La prevenzione della “diarrea del viaggiatore” si basa invece sul rispetto di semplici norme igieniche alimentari e sull’uso profilattico di farmaci in casi selezionati. Nei paesi a rischio va sempre evitato, se possibile anche per alcune pratiche igieniche quali la pulizia del cavo orale, il consumo di acqua e altre bevande di dubbia provenienza che non siano sterilizzate o contenute in bottiglie sigillate, così come l’ingestione di verdura cruda, frutta che non possa essere sbucciata, carne e pesce crudo, frutti di mare, formaggi e gelati di produzione artigianale; cautelativamente il divieto può essere esteso ad ogni genere di alimento preparato o venduto all’aperto. La profilassi con fluorochinoloni in dose unica (la doxiciclina e il cotrimoxazolo, un tempo utilizzati, risultano oggi meno efficaci per l’ampia diffusione della farmacoresistenza di E. coli) non è consigliabile in tutti i soggetti che si recano in aree a rischio, data la potenziale tossicità dei farmaci ed il rischio di facilitare la comparsa di resistenze; va invece riservata ai soggetti a rischio di forme gravi, quali le persone affette da patologie infiammatorie intestinali croniche da HIV/AIDS o con ipoacidità gastrica anche farmacologicamente indotta, così come a coloro che per motivi di lavoro non possono sospendere la loro attività anche per brevi periodi. Non sono ancora disponibili vaccini contro i ceppi di E. coli enterotossigena: una copertura parziale è fornita dal vaccino orale anticolera che contenga la subunità B dell’enterotossina colerica e batteri interi.
MALATTIE INFETTIVE
Altre enterocoliti di natura enterotossica A. Enterite da Vibrio parahaemolyticus. Vibrio parahaemolyticus è un batterio Gram–, di forma bastoncellare o lievemente ricurva, asporigeno, anaerobio facoltativo. Isolato inizialmente in Giappone, ha una diffusione ubiquitaria: il suo serbatoio è rappresentato dai pesci, dai mitili, dai crostacei e dall’acqua di mare, oltre che dalle feci dei soggetti con enterite; non sono stati finora descritti portatori asintomatici. La trasmissione avviene per via fecale-orale principalmente attraverso il consumo di pesce, crostacei e frutti di mare crudi o poco cotti; è nella stagione calda che più frequentemente si osservano tanto i casi sporadici quanto le piccole epidemie. Il batterio è patogeno solo per l’uomo ed esplica la sua azione attraverso un duplice meccanismo: la produzione di un’enterotossina, molto simile a quella di V. cholerae, e l’azione infiammatoria diretta nei confronti della mucosa intestinale. Raramente è stato identificato come responsabile di infezioni di ferite, otiti e sepsi. Il duplice meccanismo patogenetico dà origine a due quadri clinici diversi: il più frequente (diarrea secretoria) è costituito da una diarrea acquosa, che compare dopo un periodo di incubazione breve (alcune ore) ed è accompagnata da dolori addominali crampiformi, nausea, vomito e talora febbre; il secondo (diarrea infiammatoria), tipico del subcontinente indiano, è caratterizzato invece da dissenteria (feci con muco e sangue), dolori addominali intensi, nausea e vomito. L’evoluzione è quasi sempre favorevole tanto nell’uno che nell’altro quadro, con una guarigione spontanea nel giro di pochi giorni. La diagnosi di certezza si basa sull’isolamento di V. parahaemolyticus dalle feci o da altri materiali biologici (ferite cutanee e mucose, sangue) nelle forme extraintestinali. La terapia è puramente sintomatica (reidratazione e correzione degli squilibri elettrolitici), ad eccezione delle infezioni extraintestinali in cui è solitamente necessaria anche l’antibioticoterapia, guidata se possibile dall’antibiogramma. La profilassi si basa sulle norme di igiene alimentare già descritte per il colera. B. Enterite da Clostridium perfringens, da Bacillus cereus. Alcuni ceppi di Clostridium perfringens, il batterio responsabile della gangrena gassosa, in particolare quelli di tipo A, sono in grado di produrre una potente enterotossina capace di provocare una diarrea profusa. Il microrganismo è abbastanza diffuso in natura e può essere isolato tanto da numerosi campioni di carne cruda quanto da feci animali ed umane (soggetti asintomatici); la sua trasmissione avviene per via fecale-orale attraverso il consumo di alimenti, più frequentemente carnei, inquinati nelle varie fasi della loro preparazione (dai mattatoi alle cucine). Con la cottura di questi alimenti, infatti, le forme vegetative vengono distrutte, mentre le spore sopravvivono e danno origine alle forme vegetative e alla conseguente produzione di tossina sia nel cibo mantenuto a temperatura ambiente che nel tubo digerente dell’uomo. Quella da C. perfringens è perciò una tossinfezione alimentare, in cui l’effetto del-
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la tossina preformata negli alimenti contaminati si somma a quello della tossina prodotta nel lume intestinale. Bacillus cereus è un batterio Gram+ sporigeno e aerobio, simile all’agente eziologico del carbonchio (Bacillus anthracis). Oltre che ampiamente diffuso nel terreno, nella polvere e nei vegetali, è isolabile anche dal latte e dagli insaccati; la sua trasmissione avviene per via fecale-orale principalmente attraverso l’ingestione di alimenti contaminati (più spesso le creme dolci, i budini, le creme per gelati). Dalla germinazione delle spore residue, anche B. cereus, come C. perfringens, può produrre un’enterotossina tanto negli alimenti contaminati quanto nel tubo digerente: si tratta anche in questo caso di una tossinfezione. Dopo un periodo di incubazione breve (8-24 ore) dalla consumazione dell’alimento contaminato, compaiono di solito diarrea acquosa e vomito, associati in alcuni casi a febbricola e segni di disidratazione. Il decorso è generalmente benigno e la guarigione è spontanea nel giro di alcuni giorni. La diagnosi si basa sull’isolamento del microrganismo nelle feci tramite coprocoltura o nell’alimento inquinato. Nelle tossinfezioni da C. perfringens metodiche immunoenzimatiche permettono di evidenziare anche l’enterotossina nel materiale fecale. La terapia è puramente sintomatica e la profilassi si basa sul rispetto delle norme di manipolazione e conservazione degli alimenti (cottura, refrigerazione).
Quelli più propriamente enteroinvasivi (i cosiddetti EIEC) posseggono la capacità di penetrare e di moltiplicarsi nelle cellule epiteliali del colon, causandone la distruzione e la conseguente desquamazione di aree di mucosa: ne deriva una sindrome dissenterica particolarmente grave, sovrapponibile a quella dovuta alle shigelle. Tanto in queste ultime quanto nei ceppi EIEC, la capacità invasiva sembra peraltro derivare dalla presenza di plasmidi che codificano la produzione di particolari proteine della membrana batterica esterna. La patogenicità dei ceppi enteroemorragici (EHEC) è invece correlata alla produzione, secondaria all’infezione di E. coli da parte di un batteriofago, di una o più tossine, il cui meccanismo d’azione è molto simile a quello delle tossine di Shigella dysenteriae. Dal punto di vista antigenico e strutturale si distinguono due tipi di tossine: VT1 (verotossina 1) o Stx1 (tossina shiga 1), pressoché identica a quella di S. dysenteriae di tipo 1; VT2 o Stx2, simile per l’attività biologica, ma antigenicamente e strutturalmente diversa da quella di S. dysenteriae. Le modalità di azione di queste tossine non sono ancora completamente conosciute: potrebbero causare un effetto diretto sull’epitelio intestinale e sugli endoteli dei vasi intestinali, o scatenare un meccanismo mediato dalla reazione immunitaria dell’ospite. Oltre alla capacità di produrre tossine, sono comunque coinvolti nella genesi della colite emorragica da EHEC anche altri fattori di virulenza, responsabili dell’adesione dei batteri alle cellule intestinali.
Infezioni intestinali da batteri enteroinvasivi
C. Clinica. Il quadro clinico è difficilmente differenziabile da quello osservabile in altre infezioni batteriche enteroinvasive, ed in particolare nella shigellosi. Nei casi sostenuti da ceppi EIEC la sintomatologia è caratterizzata da diarrea inizialmente acquosa e quindi muco-sanguinolenta, accompagnata da dolori addominali crampiformi, malessere generale e spesso febbre. Le infezioni da ceppi EHEC possono rimanere asintomatiche o provocare una diarrea non caratteristica: dopo un periodo di incubazione di 3-4 giorni dal consumo dell’alimento contaminato, i casi tipici si presentano invece con una diarrea emorragica, accompagnata da dolori addominali molto intensi e talvolta anche da nausea e vomito; la febbre è solitamente assente o moderata.
Enterocolite da E. coli enteroinvasiva ed enteroemorragica Le enterocoliti da E. coli enteroinvasiva rappresentano un quadro morboso caratterizzato clinicamente da una sindrome dissenterica, simile a quella osservata nella shigellosi, e sostenuto microbiologicamente da ceppi di E. coli dotati di differenti capacità di invadere la mucosa intestinale. A. Epidemiologia. I ceppi enteroinvasivi di E. coli sono pressoché ubiquitari e si rendono responsabili delle più comuni forme diarroiche da E. coli osservate nei paesi industrializzati. Possono sostenere sia casi sporadici, sia più frequentemente epidemie, osservabili tanto nella popolazione infantile quanto, soprattutto, tra gli adulti in relazione per lo più al consumo di alimenti contaminati. Il principale serbatoio è rappresentato dal tubo digerente dei bovini, la cui carne viene contaminata accidentalmente con il contenuto intestinale nel corso della macellazione o della preparazione degli alimenti. Oltre alla carne, possono rappresentare un veicolo di infezione anche il latte non pastorizzato e gli ortaggi. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. I ceppi enteroinvasivi di E. coli non differiscono dal punto di vista morfologico, biochimico e colturale dai ceppi non-enteroinvasivi.
D. Diagnosi. L’esame microscopico delle feci può essere orientativo, poiché può permettere di evidenziare notevoli quantità di neutrofili. La diagnosi è comunque spesso di esclusione e basata sulla negatività delle coprocolture per Shigella: la dimostrazione di E. coli nelle feci non è infatti di per sé indicativa di infezione, in quanto il batterio costituisce un normale saprofita intestinale. È perciò necessaria l’identificazione dei ceppi EIEC e EHEC di E. coli, possibile mediante l’utilizzo di antisieri specifici a livello fecale. Sono disponibili anche test sierologici. E. Decorso e prognosi. L’evoluzione è in genere favorevole nel volgere di una settimana. Nel 6% dei pazienti con infezione da ceppi EHEC, tuttavia, a distan-
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za di alcuni giorni dall’inizio della sintomatologia si può sviluppare una grave sindrome emolitico-uremica, dovuta probabilmente al passaggio in circolo della tossina e caratterizzata da anemia emolitica, piastrinopenia e insufficienza renale talvolta accompagnate da manifestazioni neurologiche (convulsioni, stato soporoso, coma, segni focali di vasculopatia) e da un interessamento epato-pancreatico. Questa forma è letale nel 3-5% dei casi; nei sopravvissuti possono però permanere sequele renali e neurologiche. Una complicanza più rara è rappresentata dalla porpora trombotica trombocitopenica, cui consegue un modesto danno renale. F. Terapia. Il trattamento è essenzialmente sintomatico. L’antibioticoterapia si dimostra inefficace: anzi, l’utilizzo di alcuni antimicrobici quali il cotrimoxazolo sembra aumentare la produzione della tossina in vitro. Nei soggetti con sindrome emolitico-uremica può essere necessaria l’emodialisi. G. Profilassi. Le misure profilattiche sono analoghe a quelle descritte per i ceppi non invasivi di E. coli. Salmonellosi Con il termine di salmonellosi si designano le infezioni causate dai batteri del genere Salmonella. Si possono manifestare con quadri clinici diversi, che comprendono in alcuni casi anche una fase sistemica (febbre tifoide, paratifi, infezioni extraintestinali), mentre in altri sono caratterizzati dalla primitiva ed esclusiva localizzazione al tubo digerente (enterocoliti). Comuni sono le infezioni asintomatiche e la condizione di portatore sano transitorio o cronico con frequente localizzazione del batterio a livello colecistico. Le Salmonelle sono bacilli Gram–, asporigeni, della famiglia delle enterobacteriaceae: presentano una buona sopravvivenza nell’ambiente esterno, resistono al congelamento in acqua e a talune sostanze in grado di inibire Escherichia coli; si sviluppano facilmente nei comuni terreni di coltura, tra cui il più frequentemente usato per la sua moderata selettività è il terreno di McConkey. Sono caratterizzate da una struttura antigenica complessa, che ha permesso di riconoscere più di 2000 sierotipi distinti; i principali mosaici antigenici sono costituiti da: antigeni H (flagellari), di natura proteica e termolabili; antigeni O (somatici), di natura lipopolisaccaridica e termostabili, costitutivi della parete batterica; antigeni K (periferici), termolabili, situati nella capsula batterica, e di cui il più noto è l’antigene Vi, cui un tempo si attribuiva la particolare virulenza di alcuni sierotipi. Secondo lo schema di Kauffmann-White, gli antigeni O (gruppo-specifici) permettono di distinguere le salmonelle in numerosi gruppi in cui tali componenti somatiche risultano identiche; gli antigeni H servono a differenziare le singole specie all’interno di ogni gruppo. La formula antigenica viene completata indicando l’eventuale presenza dell’antigene Vi. Come tutti i batteri Gram–, le salmonelle possiedono un’endotossina di natura lipopolisaccaridica, identificata negli antigeni O.
MALATTIE INFETTIVE
Febbre tifoide La febbre tifoide è un’infezione sistemica causata da Salmonella typhi; interessa soprattutto il sistema monocito-macrofagico e si presenta con una sintomatologia caratterizzata da febbre, cefalea, disturbi del sensorio; l’apparato gastroenterico rappresenta la porta d’ingresso dell’infezione e contribuisce solo in parte alla manifestazione del quadro clinico. A. Epidemiologia. Ubiquitaria, è particolarmente diffusa in tutti i paesi tropicali, ma anche in molti paesi dell’area mediterranea, Italia meridionale e insulare compresa, a causa della carenza delle reti fognarie e dei sistemi di smaltimento dei rifiuti; nelle regioni italiane centro-settentrionali si osservano invece casi sporadici in viaggiatori in aree endemiche. Poiché S. typhi è in grado di colonizzare solo l’uomo, sono i malati e soprattutto i portatori a rappresentarne la principale sorgente d’infezione: questi ultimi possono albergare il batterio nell’intestino o nella colecisti, per brevi periodi di tempo (portatori convalescenti) o per tutta la vita (portatori cronici), solitamente con cariche batteriche elevate e sufficienti a mantenere la circolazione dell’infezione, diversamente da quanto si osserva nel colera. La trasmissione avviene per via fecale-orale a partire dall’acqua o dagli alimenti contaminati direttamente o indirettamente da feci umane contenenti S. typhi: un ruolo importante rivestono l’acqua dolce (pozzi e acquedotti inquinati da fognature), l’acqua di mare (bagni e soprattutto consumazione di frutti di mare crudi pescati o coltivati in prossimità di sbocchi in mare di sistemi fognari) e le verdure (concimate con fertilizzanti naturali, contenenti spesso materiali fecali umani). Altre modalità di contagio sono gli alimenti contaminati da un portatore durante la loro preparazione (soprattutto latte, creme, gelati, carne), gli oggetti di uso personale di un malato e le mosche. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. S. typhi è un bacillo Gram–, asporigeno, della famiglia delle Enterobacteriaceae: diversamente dalle altre salmonelle, è in grado di metabolizzarre il glucosio con la sola produzione di acido e non di gas. Una volta penetrata nell’organismo per via orale, S. typhi supera la barriera gastrica e giunge nell’intestino tenue, dove aderisce agli enterociti e alle cellule M, gli elementi epiteliali disposti al di sopra delle placche di Peyer, che costituiscono il bersaglio iniziale del batterio. Invase le cellule epiteliali, i batteri vengono trasportati attraverso di esse fino alla lamina propria, dove probabilmente ha luogo una prima moltiplicazione: l’invasione delle cellule epiteliali attiva in esse diverse vie metaboliche con la liberazione di mediatori dell’infiammazione e l’aumento del calcio intracellulare, che possono influire sul trasporto elettrolitico e causare diarrea. Superata la mucosa intestinale, i microrganismi giungono nei linfonodi regionali, dove vengono in buona parte fagocitati; alcuni di essi riescono tuttavia a passare questo filtro e attraverso il dotto toracico raggiungono il torrente circolatorio causando una batteriemia di breve durata, interrotta dalla loro fagocitosi da parte delle cellule del
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sistema reticolo-endoteliale localizzate a livello epatico, splenico, midollare e linfonodale. S. typhi è però in grado di sopravvivere all’interno dei monociti-macrofagi, dove anzi si moltiplica attivamente fino ad indurre l’inizio di una batteriemia persistente: i batteri raggiungono in tal modo tutti gli organi, in particolare la colecisti, le pareti intestinali e le placche di Peyer. È in corrispondenza di questa seconda batteriemia che compaiono i primi segni clinici dell’infezione. La presenza delle salmonelle nelle cellule mononucleate determina in esse alterazioni funzionali e strutturali, che causano processi di emofagocitosi, ritenuti responsabili della pancitopenia osservata spesso nei pazienti con febbre tifoide. In seguito l’escrezione biliare dei microrganismi da un lato causa una colecistite, solitamente asintomatica, dall’altro determina l’eliminazione intestinale di altri batteri, responsabili dell’aumento della carica batterica fecale osservata nella 2a-3a settimana. La moltiplicazione delle salmonelle continua negli altri organi, in particolare nella milza, anche dopo la comparsa dei segni clinici: questo giustifica la persistenza prolungata della seconda batteriemia. Rimane controverso il ruolo delle endotossine di S. typhi nella patogenesi della malattia: la febbre e lo stato tossiemico che caratterizzano il decorso dell’infezione possono essere attribuite solo in parte all’azione delle endotossine circolanti; è probabile anche un coinvolgimento delle citochine prodotte dai macrofagi infettati. Un ruolo importante nel decorso dell’infezione è rivestito anche dalle caratteristiche dell’ospite, immunitarie e non: aumentano infatti la suscettibilità all’infezione i deficit dell’immunità cellulo-mediata e della funzionalità macrofagica, la diminuzione dell’acidità gastrica, le alterazioni della flora intestinale e le età estreme della vita. L’immunità successiva all’infezione si dimostra protettiva a vita nella maggior parte dei casi: essa è costituita dall’immunità anticorpale sistemica ed intestinale, nonché dall’immunità cellulo-mediata. Le lesioni causate da S. typhi interessano principalmente l’ultima parte dell’ileo e le corrispondenti stazioni linfonodali, ma possono estendersi anche al colon; evolvono classicamente attraverso stadi diversi, i cosiddetti “settenari” in cui si suddivide il decorso clinico naturale della malattia. Nel I stadio si osserva un’iperemia della mucosa intestinale ed un’iperplasia delle placche di Peyer. Nel II stadio si ha la necrosi del tessuto linfatico che si estende fino ad interessare tutta la sottomucosa con successiva formazione di escare necrotiche costituite da detriti di cellule mucose e linfoidi. Nel III stadio avviene il distacco delle escare e la formazione di ulcere, che si approfondano fino alla muscolare quando non alla sierosa, con conseguenti enterorragie e peritoniti da perforazione. Il IV stadio è caratterizzato dalla cicatrizzazione delle ulcere con restitutio ad integrum e riepitelizzazione. Un analogo processo è osservabile nei linfonodi mesenterici. Tutti gli organi sede di localizzazioni di S. typhi secondarie alla batteriemia possono presentare alterazioni di vario grado: si riscontrano spesso iperemia ed iperplasia della polpa splenica con successiva splenomegalia molle, sofferenza epatocitaria aspecifica, flogosi colecistica,
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alterazioni degenerative del miocardio, sofferenza aspecifica del parenchima renale. Le lesioni vasculitiche secondarie alla localizzazione di S. typhi nei capillari dermici sono alla base del caratteristico rush cutaneo osservabile nella seconda fase della malattia. C. Clinica. Classicamente l’evoluzione del quadro clinico viene suddivisa in quattro “settenari”, ciascuno dei quali corrisponde più o meno all’analogo stadio evolutivo delle lesioni intestinali ed extraintestinali sopra descritte. In realtà questa suddivisione è più virtuale che reale, soprattutto dopo che l’utilizzo spesso indiscriminato dell’antibioticoterapia si è rivelato in grado di modificare anche drasticamente l’evoluzione naturale dell’infezione. Dopo un periodo di incubazione compreso solitamente tra i 10 e i 14 giorni, talvolta dopo una diarrea precoce di tipo tossinfettivo, l’esordio della sintomatologia si presenta con febbre continua con puntate fino a 3940° C (l’ascesa graduale “a scalini” dell’iperpiressia fino al raggiungimento di un plateau in 5a-6a giornata è raramente osservabile), cefalea, dolori addominali diffusi, stipsi, tosse stizzosa, epistassi. La fase di stato è caratterizzata da febbre elevata continua (per almeno 15-20 giorni), dolori addominali, diarrea semiliquida con feci “a purea di piselli”, esantema roseoliforme fugace all’addome e alla base del torace nel 30% dei casi (le “roseole” sono piccole papule del diametro di 1-2 mm, di colorito rosa pallido, presenti in numero solitamente limitato e a rapida risoluzione nel giro di 24 ore), alterazioni del sensorio caratterizzate da apatia, astenia, adinamia, rare allucinazioni (il cosiddetto stato “tifoso” o stuporoso che ha dato il nome alla malattia). Tanto nella fase di esordio quanto in quella di stato si osservano frequentemente bradicardia relativa (aumento della frequenza cardiaca inferiore a quanto ci si aspetterebbe vista l’iperpiressia), splenomegalia a consistenza molle, dolenzia addominale diffusa con progressiva distensione dell’addome e frequente gorgoglio ileocecale, subittero, quadro auscultatorio polmonare caratterizzato da rumori bronchiali secchi diffusi. Dopo 3-4 settimane, nei casi in cui non si manifestano complicanze, il quadro clinico va gradualmente risolvendosi: dopo un periodo di ampie oscillazioni (periodo anfibolico) la febbre scompare per lisi, si risolvono i reperti addominali, la diuresi riprende e il sensorio si normalizza. Nella lunga fase di convalescenza che segue possono presentarsi in circa il 10-20% dei casi ricadute (a breve distanza di tempo dal primo episodio) o recidive (a maggiore distanza di tempo): il loro quadro clinico è sovrapponibile a quello del primo episodio, anche se di solito è meno impegnativo. Forme cliniche particolari. Accanto all’evoluzione classica si possono osservare tanto forme fruste o abortive, caratterizzate da un decorso più breve e sfumato, quanto forme ipertossiche, in cui la gravità della sintomatologia, specie a carico del sistema nervoso centrale, è più accentuata. Nei bambini il quadro clinico è solitamente più attenuato, se non per più frequenti segni di meningismo; anche negli anziani l’evoluzione è spesso
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atipica, con la non rara comparsa di complicanze emorragiche intestinali in presenza di una febbre moderata che difficilmente evoca una febbre tifoide. D. Esami di laboratorio. Nella fase febbrile della malattia è possibile osservare una leucopenia con neutropenia e una VES lievemente aumentata; nelle fasi più avanzate si può riscontrare un’anemia normocromica normocitica, una proteinuria modesta e l’aumento degli indici di necrosi epatica. E. Diagnosi. Il sospetto diagnostico avanzato sulla base dell’andamento clinico (febbre, tosse secca, splenomegalia, bradicardia relativa, meteorismo addominale con gorgoglio ileocecale) e degli esami di laboratorio sopracitati deve essere confermato nelle prime fasi dell’infezione dall’isolamento di S. typhi e più tardi dalla dimostrazione nel siero del paziente degli anticorpi specifici. Il microrganismo può essere dimostrato: nel sangue periferico attraverso l’esecuzione di ripetute emocolture, che presentano una sensibilità decrescente nel tempo (risultano infatti positive nel 90-95% dei casi nella prima settimana di febbre, nel 50% dei casi durante la seconda settimana e nel 25-30% nella terza); nel sangue midollare attraverso una mielocoltura, più sensibile dell’emocoltura e con oscillazioni sovrapponibili a quelle osservate in quest’ultima; nelle feci mediante coprocolture su terreni selettivi, che presentano all’opposto una sensibilità crescente nel corso dell’evoluzione del quadro clinico (ad una positività nel 15% dei casi nella prima settimana segue un 25-35% di coprocolture positive nella 2a-3a settimana); nelle urine tramite urinocoltura, che nella 2a-3a settimana presenta una positività sovrapponibile alla coprocoltura. Nei portatori cosiddetti “cronici”, la coprocoltura rimane positiva per lunghi periodi di tempo (da mesi ad anni) o anche per tutta la vita. Le indagini sierologiche sono solitamente utilizzabili a partire dalla 2a settimana di malattia: già da questo periodo la più classica di queste indagini, la sieroagglutinazione di Widal, risulta positiva nell’85-90% dei casi e tale si mantiene per mesi dopo la guarigione clinica. Nell’interpretazione del dato sierologico, è utile la titolazione separata degli anticorpi antiantigene O e antiantigene H: infatti, il riscontro in fase precoce ed anche a basso titolo di anticorpi anti-O, che appartengono alla classe IgM, è segno di malattia in atto, mentre la dimostrazione di una predominanza di anticorpi anti-H è indicativa di un precedente contatto con S. typhi, quale si osserva nei soggetti che hanno da tempo superato la malattia o nei vaccinati, oppure rappresenta una reazione crociata verso altri batteri intestinali. Il test di Coombs costituisce una prova diagnostica indiretta. In diagnosi differenziale vanno prese in considerazione numerose malattie infettive a decorso febbrile prolungato, quali la brucellosi, la TBC miliare acuta, le rickettsiosi (quali il tifo esantematico), la malaria, l’epatite virale acuta, la leptospirosi; più raramente è necessario distinguere la febbre tifoide dalle polmoniti, dalle altre infezioni da salmonella spp e da alcuni linfomi (morbo di Hodgkin).
MALATTIE INFETTIVE
F. Decorso e prognosi. L’evoluzione della febbre tifoide, fatale in assenza di terapia nel 10% dei casi, è stata nettamente modificata dall’introduzione dell’antibioticoterapia. L’utilizzo degli antibiotici, infatti, non solo ha permesso di ribaltare la prognosi infausta, ma ha anche modificato profondamente il decorso naturale dell’infezione: dopo 7-8 giorni di terapia il paziente può oggi essere già considerato in fase di convalescenza. Molte delle numerose complicanze che possono presentarsi nel corso dell’infezione sono diventate rare; altre invece, come l’enterorragia e la perforazione intestinale, rivestono ancora un ruolo importante tanto per la loro non eccezionalità quanto per le conseguenze prognostiche e terapeutiche ad esse legate. La perforazione intestinale rappresenta la più grave complicanza della febbre tifoide; più frequente nelle fasi avanzate della malattia (in corrispondenza del III stadio dell’evoluzione delle lesioni anatomopatologiche), avviene principalmente nell’ultimo tratto dell’ileo. La sintomatologia che ne consegue è quella dell’addome acuto: dolori addominali di tipo trafittivo, difesa della parete addominale, alvo chiuso a feci e gas, assenza di peristalsi. Orientano la diagnosi l’improvvisa caduta della febbre, l’aumento della frequenza del polso e l’eventuale comparsa di una leucocitosi; la confermano la presenza di una falce d’aria sottodiaframmatica alla radiografia addominale eseguita in posizione eretta. Nei casi di peritonite non da perforazione ma da propagazione, il quadro clinico è di solito meno grave. L’enterorragia costituisce la complicanza più frequente e si manifesta di solito tra la 2a e la 3a settimana di malattia. Nella maggior parte dei casi si tratta di un sanguinamento di lieve entità, evidenziato solo da melena o dalla presenza di sangue occulto nelle feci; in alcuni casi l’emorragia intestinale è massiva e si accompagna al quadro clinico dello shock ipovolemico (ipotensione, tachicardia, sudorazione fredda, vertigini). Come in caso di perforazione, orientano la diagnosi la rapida caduta della temperatura corporea ed il polso piccolo e frequente. Sono complicanze meno frequenti: la colecistite acuta o subacuta e cronica (frequente nei portatori cronici), secondaria alla localizzazione di S. typhi a livello della colecisti, specie nei soggetti con colelitiasi; l’epatite acuta fugace con subittero e lieve rialzo delle transaminasi, osservabile raramente nella fase precoce dell’infezione e probabilmente di origine tossica oltre che infettiva; la miocardite tossica nelle forme cliniche più gravi; la sepsi derivata dalla persistente batteriemia, che può dare origine in qualsiasi organo a infezioni localizzate spesso ascessuali (più frequenti sono le osteomieliti, le meningiti, le endocarditi, le osteoartriti e le pielonefriti); l’encefalopatia, parte integrante del quadro clinico, ma che può in alcuni casi complicarsi con manifestazioni psichiche (allucinazioni, deliri) a lenta risoluzione; la coagulazione intravascolare disseminata (DIC) nelle forme più gravi; le localizzazioni vascolari (flebiti a carico soprattutto delle vene femorale e safena) e polmonari (focolai broncopneumonici).
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G. Terapia. La strategia terapeutica deve contemplare non solo il trattamento eziologico (antibioticoterapia), ma anche la terapia di supporto, l’eventuale gestione delle complicanze e la bonifica dei portatori cronici. Un tempo basata sull’uso del cloramfenicolo e successivamente di ampicillina, amoxicillina e cotrimoxazolo, la terapia antibiotica trova ora nei fluorochinolonici (in particolare ciprofloxacina e ofloxacina) e nelle cefalosporine di III generazione (per es., il ceftriaxone) i farmaci di prima scelta, alla luce della sempre più frequente osservazione di ceppi di S. typhi resistenti ai farmaci precedentemente utilizzati oltre che dell’elevata tossicità di alcuni di essi (cloramfenicolo). Tanto nei quadri clinici già gravi fin dalla loro presentazione (coma, shock, alterazioni del sensorio), quanto nei casi in cui la lisi massiva di S. typhi, provocata dall’antibioticoterapia, può determinare un aggravamento dello stato tossiemico a causa della liberazione di notevoli quantità di tossine, è consigliabile supportare l’antibioticoterapia con una terapia corticosteroidea (per es., con desametasone). Nella maggior parte dei casi si rivela utile anche l’utilizzo delle soluzioni reidratanti e di sintomatici antipiretici (controindicato l’acido acetilsalicilico), antiemetici ed antidiarroici. In caso di enterorragia, possono essere necessarie emotrasfusioni ed interventi chirurgici specie nei sanguinamenti massivi; la perforazione intestinale necessita, oltre che dell’immediato approccio chirurgico, anche di un’antibioticoterapia ad ampio spettro efficace sugli abituali batteri intestinali, anaerobi compresi. Anche nella bonifica dei portatori cronici si preferisce ormai la ciprofloxacina all’ampicillina, a causa dei dosaggi elevati e del periodo di tempo più prolungato che richiedono le penicilline; la misura più efficace è comunque rappresentata nella maggior parte dei casi dalla colecistectomia. H. Profilassi. Si basa su una serie di misure igieniche, quali il controllo degli impianti di approvvigionamento idrico e di smaltimento dei reflui fognari, oltre che dei sistemi di coltivazione dei mitili, che hanno l’obiettivo di impedire la contaminazione dell’acqua e degli alimenti; a questi provvedimenti di ordine generale vanno associati il riconoscimento e la sterilizzazione dei portatori e la profilassi individuale. Quest’ultima comprende una serie di norme aspecifiche (astensione dal consumo di molluschi e di verdure crude di origine sospetta, disinfezione dell’acqua ad uso alimentare) e la vaccinazione. Obbligatoria per legge in alcune categorie professionali (impiegati nei servizi di approvvigionamento idrico e di raccolta e distribuzione del latte, nei servizi di disinfezione e lavanderia, nelle imprese di pulizie in ospedali e altri luoghi di cura), la vaccinazione è consigliata per tutti coloro che si recano in area endemica. In sostituzione del tradizionale vaccino inattivato (vaccino TAB), non più utilizzato per la breve durata della protezione e la non rara comparsa di effetti collaterali, si impiegano attualmente due preparati: il vaccino contenente microrganismi vivi attenuati, da somministrare per os, e il vaccino contenente il polisaccaride Vi purificato, a somministrazione intramuscolare. Il vaccino orale va somministrato in 3 dosi a giorni
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alterni e conferisce una protezione contro febbre tifoide e paratifi di almeno 2 anni; se somministrato in 4 dosi, la copertura vaccinale è prolungata fino a 5 anni. È sconsigliato in corso di antibioticoterapia, nei bambini al di sotto dei 6 anni e negli immunocompromessi, quali le persone con infezione da HIV, specie se con valori assoluti di T linfociti CD4+ inferiori a 400/mm3. Il vaccino intramuscolare, invece, può essere somministrato anche ai bambini di età superiore ai 2 anni e agli immunodepressi: conferisce una protezione sovrapponibile a quella del vaccino orale. Poiché la meflochina può interferire con la risposta immunitaria, si consiglia di somministrare il vaccino contro il tifo per os almeno a 24 ore di distanza dalla profilassi antimalarica e di non associare antibiotici. Paratifo Si definisce con il termine di paratifo il quadro clinico indifferenziabile dalla febbre tifoide, causato da Salmonella paratyphi A, B e C. Morfologicamente e colturalmente indistinguibili da S. typhi, si differenziano da quest’ultima e tra loro per la diffusione e la distribuzione geografica: mentre S. paratyphi A infetta solo l’uomo, S. paratyphi B e C possono infettare anche numerose specie animali; in Europa predomina S. paratyphi B, mentre le forme da S. paratyphi A sono rare e quelle da S. paratyphi C sono ancora di più raro riscontro, limitate a casi di importazione dalle regioni endemiche (Balcani, Oriente). Patogenesi, alterazioni anatomopatologiche e quadro clinico sono sovrapponibili a quelli della febbre tifoide: la gravità del malato, la frequenza di complicanze e la letalità sono tuttavia assai minori. Come per la febbre tifoide, la diagnosi si basa sull’isolamento dell’agente eziologico da sangue (emocoltura) o da feci (coprocoltura) e sulle prove sierologiche: la tradizionale sieroagglutinazione di Widal risulta in genere positiva tanto nei confronti di S. typhi quanto per tutte le salmonelle del paratifo, ad un titolo più elevato nei confronti della specie coinvolta. La terapia e la profilassi sono identiche a quelle della febbre tifoide. Salmonellosi “minori” (Enterocoliti da salmonelle) Le salmonellosi cosiddette “minori”, o enterocoliti da salmonelle, sono infezioni acute di origine alimentare, in genere autolimitantisi, causate da batteri del genere Salmonella e caratterizzate da diarrea, dolori addominali, febbre e talvolta vomito. A. Epidemiologia. A diffusione ubiquitaria, presentano una prevalenza ovunque in aumento ed un’incidenza più elevata nei mesi estivi, spesso in piccole epidemie familiari. Colpiscono soggetti di qualunque età, anche se i quadri clinici più gravi si manifestano di preferenza nei lattanti, negli anziani e nelle persone defedate. Il loro più importante serbatoio è rappresentato dagli animali domestici e di allevamento (in particolare pollame, ma anche bovini, ovini, maiali, cani e gatti), che presentano le salmonelle nel loro tubo digerente in
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assenza di manifestazioni cliniche; questo serbatoio è in continua espansione, a causa del sempre più frequente ricorso a mangimi ottenuti da scarti di macellazione spesso inquinati, e sottoposto alla selezione di ceppi di salmonelle antibioticoresistenti, visto il facile utilizzo di antibiotici nei grandi allevamenti. Importanti veicoli di infezione sono dunque gli alimenti (carne, uova, latte), contaminati direttamente o durante la loro manipolazione: le salmonelle non resistono infatti all’ebollizione, alla pastorizzazione e all’irradiazione dei cibi, ma non sono distrutte dai metodi di insaccatura e salatura e da una cottura rapida e superficiale. Anche i portatori fecali umani giocano un ruolo importante per la diffusione diretta o indiretta dell’infezione (attraverso la contaminazione di alimenti in origine non contenenti salmonelle e/o sottoposti a trattamenti in grado di distruggerle): particolarmente contagiosi si dimostrano in tal senso gli addetti all’industria alimentare e le gravide, che possono contaminare contemporaneamente il neonato, e di conseguenza l’isola neonatale e le sale parto; una frequenza non trascurabile di salmonellosi è stata osservata negli ultimi anni tra gli omosessuali maschi, legata a particolari pratiche sessuali. Gli episodi epidemici sono favoriti dal sovraffollamento e dall’inadeguatezza delle condizioni igieniche, quali si verificano frequentemente in talune comunità chiuse come enti assistenziali e reparti ospedalieri. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. Pressoché tutti i sierotipi di salmonelle possono causare enterocolite, ad eccezione di S. typhi e S. paratyphi A responsabili solo di infezioni disseminate con batteriemia. Anche se lo spettro eziologico è in teoria estremamente vasto, non sono più di 15-20 sierotipi diversi a determinare infezioni intestinali nel 70-80% dei casi osservati in una determinata regione: alle nostre latitudini le specie più frequentemente coinvolte sono rappresentate da S. Wien (comparsa in Europa solo recentemente e diffusasi con notevole rapidità), S. typhimurium, S. enteritidis, S. choleraesuis, S. Dublin, S. Panama, S. derby, S. anatum, S. Oranienburg, S. Newport, S. pullorum. La trasmissione avviene per via fecale-orale: superata la barriera gastrica, le salmonelle invadono le cellule epiteliali dell’intestino tenue e si moltiplicano attivamente a livello della lamina propria. L’invasione della mucosa intestinale è un momento patogenetico obbligato: nei casi in cui non si verifica, l’ingestione di alimenti contaminati non determina la comparsa di alcuna sintomatologia. Nella genesi della diarrea sembra avere un ruolo rilevante la produzione di interleuchina8 (IL-8), un potente fattore chemiotattico per i granulociti neutrofili che viene secreto dalle cellule dell’epitelio intestinale stimolate dalle salmonelle; alcuni ceppi elaborano inoltre una sostanza simile all’enterotossina colerica, di incerta patogenicità. Nei casi in cui si sviluppa un’enterocolite, la mucosa intestinale appare iperemica, edematosa e sede frequente di emorragie puntiformi; anche i follicoli linfatici e i linfonodi mesenterici vanno incontro a iperplasia. Visto lo stile di vita odierno, in particolare le abitudini alimentari e l’organizzazione della produzione di alimenti che le sostie-
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ne, l’ingestione di un certo numero di salmonelle è un fatto relativamente comune: ad essa però non segue sempre la comparsa di disturbi intestinali. Per l’insorgenza di questi ultimi sono determinanti numerosi fattori, alcuni dei quali legati al microrganismo in causa, altri all’ospite. Per quanto riguarda il batterio, non sembra essere la carica infettante responsabile o meno della patologia (nei volontari si sono infatti osservate cariche minime estremamente variabili, da meno di 103 a 1010 salmonelle per ml), quanto la virulenza della singola specie coinvolta, molto variabile da sierotipo a sierotipo: S. choleraesuis, per esempio, può causare batteriemie, specie nei soggetti con ridotte capacità di difesa, con conseguenti localizzazioni metastatiche (osteomielite, empiema, meningite, broncopolmonite, artrite, ascesso epatico); viceversa S. anatum provoca solitamente infezioni subcliniche e solo occasionalmente enterocolite. Per quanto concerne l’ospite, invece, oltre alle condizioni generali sopra citate (neonati, anziani, soggetti con riduzione delle difese immunitarie quali gli affetti da cirrosi epatica, leucemie, linfomi o i pazienti in trattamento immunodepressivo) anche numerosi fattori locali possono influire sull’evoluzione dell’infezione da salmonelle: il tipo di flora intestinale predominante al momento del contagio, pregressi interventi di gastrectomia e gastroenteroanastomosi, l’esistenza di neoplasie o malattie infiammatorie intestinali, l’uso di farmaci che possono ridurre l’acidità e la motilità gastrica. C. Clinica. I primi sintomi compaiono 12-48 ore dopo l’ingestione dell’alimento contaminato: l’esordio è acuto con diarrea, dolori addominali, talvolta vomito (gastroenterite) e tenesmo; nei casi di maggiore gravità si associa anche la febbre (38-39 °C). Le alterazioni dell’alvo, così come la sintomatologia dolorosa addominale, sono estremamente variabili da caso a caso: in alcuni pazienti si possono presentare fino a 30-40 scariche di feci liquide al dì con crampi addominali accentuati, in altri solo scarse evacuazioni non accompagnate da sintomatologia dolorosa; le feci sono spesso ricche di muco e talvolta accompagnate da minime quantità di sangue. La palpazione profonda dell’addome evoca solitamente un discreto dolore. Nelle forme batteriemiche possono presentarsi i sintomi e i segni delle differenti localizzazioni metastatiche; in alcuni di questi casi la sintomatologia intestinale può essere assente. D. Diagnosi. I comuni esami di laboratorio non presentano alterazioni di rilievo. La conferma diagnostica si attua attraverso la coprocoltura; le salmonelle possono essere isolate anche dall’alimento contaminato, mentre l’emocoltura risulta positiva solo nei casi con batteriemia. L’enterocolite da salmonelle deve essere differenziata da tutte le altre cause, infettive e non, di diarrea acuta: l’osservazione di muco e leucociti all’esame diretto delle feci può orientare verso un’infezione batterica intestinale e aiutare a differenziare la salmonellosi dalla dissenteria bacillare (shigellosi); inoltre le manifestazioni sistemiche caratteristiche di alcune salmonellosi
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sono solitamente assenti nelle forme enterotossiche (E. coli). È da ricordare che talvolta neoplasie intestinali o coliti ulcerose possono esordire clinicamente proprio per il sopraggiungere di un’infezione da salmonelle. E. Decorso e prognosi. Il quadro clinico, anche se inizialmente impegnativo, si attenua progressivamente e si risolve spontaneamente in genere nello spazio di 4-5 giorni; in alcuni casi la febbre e le alterazioni dell’alvo possono prolungarsi per 10-15 giorni. Nei lattanti, negli anziani e nei soggetti defedati, il decorso può essere invece molto impegnativo e potenzialmente letale in assenza di una tempestiva terapia: possono allora dominare il quadro i segni della disidratazione, dell’acidosi e delle alterazioni elettrolitiche (tachicardia, ipotensione, oligoanuria). Le batteriemie prolungate possono accompagnarsi a dimagramento, anoressia, rara anemia. In genere l’escrezione fecale del microrganismo termina in 10-15 giorni; solo nel 10% dei casi le coprocolture sono ancora positive a 4 settimane dall’esordio della sintomatologia. I veri portatori cronici, in cui il batterio è ancora isolabile dalle feci dopo un anno e oltre dall’episodio acuto, sono molto rari e di scarsa importanza epidemiologica alla luce dell’esteso serbatoio animale. F. Terapia. Anche se le alterazioni dell’alvo sono provocate dalla penetrazione delle salmonelle nella mucosa e non dalla liberazione di tossine nel lume intestinale, la più importante misura terapeutica è rappresentata dalla correzione degli squilibri elettrolitici e dell’equilibrio acido-base ove presenti, attraverso un trattamento di reidratazione e di resalificazione, e non dalla terapia antimicrobica. Quest’ultima è anzi sconsigliata, salvo che nelle forme gravi e complicate, non tanto per la benignità dell’infezione quanto per la dimostrata possibilità di prolungare il periodo di escrezione delle salmonelle (probabilmente dovuta alle profonde modificazioni della normale flora saprofitica intestinale indotte dall’antibioticoterapia) e di favorire la comparsa di fattori trasferibili di antibiotico-resistenza. Nei casi di batteriemia e localizzazioni extraintestinali, oltre che nei soggetti a rischio di forme più impegnative, la terapia antimicrobica risulta invece indispensabile e deve essere possibilmente guidata dall’antibiogramma, a causa della sempre più ampia diffusione di resistenze agli antibiotici più comunemente usati. I farmaci sono gli stessi utilizzati nella febbre tifoide (fluorochinoloni, cefalosporine, ampicillina, cotrimoxazolo). G. Profilassi. Le misure preventive attualmente più efficaci consistono in tutti quei provvedimenti che tendono a ridurre la circolazione delle salmonelle negli animali domestici e la contaminazione degli alimenti a livello industriale e familiare: controllo degli allevamenti, dei mangimi, della preparazione e conservazione dei cibi. Per quanto riguarda i portatori fecali umani, in particolare tra gli addetti all’industria alimentare e tra il personale ospedaliero, si deve tenere in considerazione l’eventuale autobonifica spontanea con il passare del tempo e la difficoltà di una loro sterilizzazione mediante antibioticoterapia.
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Shigellosi (dissenteria bacillare) La shigellosi, o dissenteria bacillare, è un’infezione intestinale acuta, causata da batteri appartenenti al genere Shigella. Si presenta con quadri clinici di intensità variabile in uno spettro che va da una diarrea acquosa autolimitantesi ad una sintomatologia impegnativa di tipo dissenterico caratterizzata da febbre, importanti dolori addominali, tenesmo ed emissione di feci mucosanguinolente. A. Epidemiologia. Infezione cosmopolita, presenta una maggiore frequenza e gravità nelle regioni tropicali, viste la carenza di infrastrutture igienico-sanitarie e la scarsa igiene degli alimenti e delle bevande presente in tali aree. Per lo stesso ordine di motivi è ormai rara in Europa occidentale, anche se in questi ultimi anni è stato osservato un aumento di casi in alcuni stati, quali la Gran Bretagna, in cui le condizioni igieniche sono più che soddisfacenti. Contrariamente a quanto si verifica nelle salmonellosi, l’uomo rappresenta l’unico serbatoio dell’infezione. La trasmissione avviene per via fecale-orale, direttamente (contatto mano-bocca) o indirettamente per l’ingestione di alimenti o più raramente di bevande contaminate; un ruolo non trascurabile è giocato dai soggetti convalescenti e dai portatori sani. Le epidemie nelle zone tropicali si presentano soprattutto nella stagione calda (spesso corrispondente alla stagione delle piogge), in cui la sopravvivenza dei batteri nell’acqua è più prolungata; anche le mosche possono avere un ruolo attivo nella trasmissione: le shigelle possono superare il loro tubo digerente e venire eliminate con le feci. Particolarmente colpite sono la prima e la seconda infanzia. Per causare infezione è sufficiente una carica batterica di Shigella di molto inferiore a quella necessaria per qualsiasi altro microrganismo patogeno intestinale dell’uomo. Ciclicamente, la frequenza delle diverse specie di shigelle è andata modificandosi nelle diverse parti del mondo: in Italia, le forme più gravi, causate da S. dysenteriae, sono di raro riscontro, mentre sono più comuni le infezioni da S. flexneri e da S. sonnei, specie nelle regioni meridionali. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. Le shigelle sono batteri aerobi Gram– a forma di bastoncelli, privi di ciglia e asporigeni, appartenenti alla famiglia delle Enterobacteriaceae. In base alle caratteristiche degli antigeni superficiali (in particolare l’antigene somatico O, polisaccaridico) sono state suddivise in quattro sierogruppi principali (A, B, C, D), all’interno dei quali sono stati riconosciuti numerosi sierotipi distinti per le loro proprietà biochimiche: il gruppo A comprende una sola specie, Shigella dysenteriae, suddivisa in 10 sierotipi; il gruppo B S. flexneri, distinta in 8 sierotipi; il gruppo C S. boydii, la specie di più raro isolamento anche se a distribuzione probabilmente ubiquitaria, distinguibile in oltre 15 sierotipi; il gruppo D S. sonnei, di cui non sono stati finora individuati sierotipi differenti. Tutte le shigelle possiedono un’endotossina termostabile, identificabile con l’antigene O, simile a quella di tutte le Enterobacteriaceae. Shigella dysenteriae di tipo
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1 (e probabilmente anche S. sonnei ed alcuni sierotipi di S. flexneri) produce anche un’esotossina proteica, termolabile, ad elevata attività citotossica, che sembra avere un ruolo importante nel determinare l’importante sintomatologia enterotossica, ed eventualmente neurotossica, osservabile nelle infezioni causate da questo sierotipo particolare di shigella. Questa esotossina sarebbe capace di compromettere il riassorbimento del sodio a livello degli enterociti, senza però influenzarne la secrezione dei cloruri, con conseguente accumulo di liquidi nel tubo intestinale. Una volta penetrate per via orale, le shigelle vengono in parte distrutte dai succhi gastrici; i microrganismi che riescono a superare questa barriera raggiungono il loro habitat naturale, rappresentato dal grosso intestino ed eventualmente anche dall’ultimo tratto del tenue. In tale sede aderiscono e penetrano negli enterociti, raggiungono quindi la sottomucosa, dove si moltiplicano determinando la formazione di microascessi, con successiva necrosi, ulcerazione epiteliale, stravaso ematico nel lume intestinale ed eventuale organizzazione di pseudomembrane (costituite da fibrina, leucociti, detriti cellulari, muco e batteri) in corrispondenza delle zone ulcerate. Le alterazioni sopraccitate riguardano solo gli strati superficiali della parete intestinale, per cui non si verificano né perforazioni né batteriemie. I linfonodi mesenterici risultano aumentati di volume, come nei casi di linfoadenomegalia reattiva. La guarigione, solitamente spontanea in 2-7 giorni, si accompagna a riepitelizzazione delle ulcere più piccole ed alla deposizione di tessuto di granulazione e successiva formazione di cicatrici a livello delle ulcere di maggiori dimensioni. Le basi fisiopatologiche della sindrome dissenterica non sono completamente note: l’ipotesi di un meccanismo enterotossico in aggiunta a quello enteroinvasivo è per ora sostenibile con certezza solo per S. dysenteriae di tipo 1. All’infezione da shigelle segue un’immunità specie-specifica incompleta. C. Clinica. Il periodo di incubazione è molto breve, da poche ore a 4-5 giorni. L’esordio è brutale ed è caratterizzato da dissenteria (feci inizialmente semiformate contenenti muco e sangue, che evolvono nel giro di 1-2 giorni in evacuazioni costituite pressoché solamente da piccole quantità di muco, pus e sangue, il cosiddetto “escreato rettale”) con numerosissime piccole scariche giornaliere, crampi della muscolatura addominale assai dolorosi, spiccato tenesmo. La febbre è incostante, continua o continuo-remittente, ed eccezionalmente elevata; lo stato generale risulta più o meno compromesso, la disidratazione e la tossiemia possono talvolta portare a quadri di severa prostrazione. L’esame obiettivo evidenzia una dolenzia addominale diffusa, in assenza comunque di segni di difesa. L’eventuale esecuzione della colonscopia, di solito controindicata perché intensamente dolorosa, documenta la diffusa iperemia della mucosa e la presenza di ulcere, zone emorragiche ed eventualmente pseudomembrane. Accanto a forme lievi, che non si presentano con il quadro classico ma solo con un alvo diarroico (6-7 scariche al dì) senza sangue e con scarso muco nelle feci
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in pazienti apiretici, si osservano forme gravi e fulminanti nei bambini, caratterizzate dalla presenza di una sintomatologia di origine neurotossica (meningismo, convulsioni, coma). Anche nei soggetti con infezione da HIV sono descritti quadri clinici gravi con batteriemia. D. Esami di laboratorio. Frequente è la presenza di una leucocitosi neutrofila, occasionale l’osservazione di una reazione leucemoide. E. Diagnosi. Il sospetto deve essere posto in base all’andamento epidemico dell’infezione e alla provenienza del paziente da area endemica nei casi di importazione; orientano verso una shigellosi l’esordio acuto della sintomatologia e la contemporanea presenza di febbre e feci muco-sanguinolente. L’esame microscopico a fresco delle feci mette in evidenza l’aspetto caratteristico denominato “bacillary exudate”, costituito dalla presenza di numerosi eritrociti e leucociti (prevalentemente granulociti neutrofili) e di rari batteri in assenza di forme mobili: più che con le enteriti virali o batteriche su base enterotossica, è necessario differenziare la shigellosi dalla dissenteria amebica, nella quale, peraltro, l’esame diretto delle feci evidenzia la presenza di forme mobili (trofozoiti ematofagi di Entamoeba histolytica) e non di leucociti. La diagnosi di certezza si attua attraverso la coprocoltura, utile tanto per la diagnosi di specie quanto per la possibilità di ottenere un antibiogramma che orienti l’approccio terapeutico. Si dimostra dotata di buona sensibilità e specificità anche la ricerca di shigelle nel materiale fecale realizzata con metodiche di immunofluorescenza. Di scarsa importanza risultano invece le indagini sierologiche. F. Decorso e prognosi. L’evoluzione naturale della shigellosi negli adulti precedentemente sani è in genere la guarigione spontanea in alcuni giorni-settimane: la febbre scompare in 3-4 giorni, la diarrea e gli altri disturbi intestinali si risolvono in una settimana. La prognosi è variabile a seconda della specie di Shigella coinvolta e lo stato di salute del malato prima della shigellosi: riguardo a questo ultimo aspetto, infatti, si è rilevato che nei lattanti e nei bambini (specie se malnutriti) così come negli anziani (in particolare in coloro che presentano altre malattie di base), l’infezione può presentare quadri più impegnativi e portare anche a morte nel 3-8% dei casi, principalmente per disidratazione e squilibri elettrolitici. Tra le complicanze, per altro rare, sono descritte l’enterorragia, la stenosi e l’invaginazione intestinale (più frequenti nei bambini piccoli), il megacolon tossico, la sindrome emolitico-uremica (solitamente associata all’infezione da S. dysenteriae di tipo 1), la congiuntivite, l’irite e l’artrite. Quest’ultima è più frequente nelle forme da S. dysenteriae non trattate: si tratta di una monoligoartrite in cui è abitualmente colpita una grossa articolazione (ginocchio, gomito), che appare dolente e tumefatta; talvolta l’interessamento articolare si inserisce nel quadro più complesso di una sindrome di Reiter (artrite, congiuntivite, uretrite).
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G. Terapia. Oltre al trattamento sintomatico di supporto rappresentato dalla reidratazione e correzione degli squilibri elettrolitici (pur in presenza di una perdita di liquidi e di sali minore che in altre forme di diarrea), dal monitoraggio globale dello stato del paziente e dall’eventuale utilizzo di antispastici (discusso è invece l’impiego degli antidiarroici), la terapia antibiotica è indicata soprattutto nei soggetti a maggior rischio di evoluzione complicata e sfavorevole (bambini ed anziani) e nelle infezioni da S. dysenteriae. L’antibioticoterapia si dimostra tanto più efficace quanto più precocemente è instaurata e si basa attualmente sull’utilizzo dei fluorochinoloni (per es., ciprofloxacina o norfloxacina) come farmaci di prima scelta, vista la progressiva comparsa in molte parti del mondo (India, Thailandia e anche nei paesi industrializzati) di resistenze ad ampicillina e cotrimoxazolo per anni utilizzati nel trattamento delle shigellosi. Farmaci di seconda scelta sono il cotrimoxazolo e l’azitromicina. Nei bambini, in cui i fluorochinoloni sono controindicati, si può ricorrere alle cefalosporine di III generazione per via parenterale. Se la terapia antibiotica è efficace, già nelle prime 24 ore si osserva un’importante regressione della sintomatologia. H. Profilassi. Si basa sull’isolamento del paziente e sulla disinfezione di tutto ciò che è stato contaminato dalle feci infette. La vaccinazione con microrganismi uccisi o viventi attenuati così come la chemioprofilassi si sono rivelate inefficaci. Infezione da Helicobacter pylori Un tempo considerato per alcune sue proprietà biochimiche appartenente al genere Campylobacter e denominato C. pylori, negli ultimi decenni Helicobacter pylori ha acquisito dignità di appartenenza ad un genere a sé stante, grazie alla dimostrazione di caratteristiche genomiche, ultrastrutturali e biochimiche che lo differenziano dal genere Campylobacter. Il crescente interesse per questo batterio è giustificato dalla dimostrazione del suo coinvolgimento nell’eziologia dell’ulcera peptica e della gastrite cronica antrale e nell’insorgenza dei linfomi gastrici intramucosi (i cosiddetti linfomi MALT, “Mucosa-associated Lymphoid Tissue”), nonché della sua associazione statisticamente significativa con il carcinoma gastrico (Cap. 23). Si suppone che circa metà della popolazione mondiale sia colonizzata da H. pylori: la prevalenza dell’infezione aumenta con l’età, potendo raggiungere percentuali superiori al 70% nella popolazione geriatrica, ed è particolarmente elevata nei paesi del Sud del mondo e in tutte le zone in cui le condizioni igienico-sanitarie sono precarie, così come in alcuni particolari soggetti quali gli ospiti di istituti ed il personale dei mattatoi. La trasmissione avviene per via oro-fecale e fecale-orale quasi esclusivamente in ambito interumano: il microrganismo è stato infatti dimostrato, oltre che nelle feci, anche a livello della placca dentaria ed è documentato il contagio attraverso l’ingestione di materiale contaminato e l’utilizzo di strumentazioni non adeguatamente sterilizzate (endoscopi, sonde nasogastriche).
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H. pylori è un batterio Gram–, provvisto di flagelli, di forma ricurva o a spirale in ambiente favorevole e di aspetto coccoide in ambiente ostile. Può essere coltivato su terreni all’agar, sangue o cioccolato, meglio se resi selettivi attraverso la supplementazione con antibiotici. Una volta raggiunto il lume gastrico, H. pylori riesce a superare la barriera mucosa e ad insinuarsi nelle cripte ghiandolari e negli spazi intercellulari, grazie alla motilità attiva dei suoi flagelli ed alla presenza sulla sua superficie di ureasi. Quest’ultimo è un enzima essenziale per la sopravvivenza di H. pylori a livello gastrico, in quanto è capace di idrolizzare l’urea normalmente presente nelle secrezioni gastriche producendo ammoniaca e bicarbonati, che contribuiscono a neutralizzare l’acidità gastrica e consentono così l’instaurarsi di un microambiente favorevole alla moltiplicazione del microrganismo. L’aderenza del batterio alle cellule della mucosa causa la distorsione della loro superficie, la distruzione dei microvilli e la conseguente riduzione della produzione di muco. H. pylori produce poi particolari tossine proteiche, dette “citotossine vacuolizzanti”, in grado di determinare la formazione di vacuoli intracellulari che danneggiano la funzionalità delle cellule epiteliali stesse. Tanto le cellule della mucosa danneggiate quanto H. pylori liberano sostanze chemiotattiche che richiamano neutrofili e linfociti: questa risposta infiammatoria non riesce tuttavia ad eradicare il microrganismo, in quanto H. pylori produce una superossido-dismutasi e una catalasi capaci di inibire i meccanismi di killing, e si cronicizza con la formazione a livello della lamina propria di infiltrati infiammatori costituiti prevalentemente da linfociti e plasmacellule. Le regioni gastriche maggiormente interessate dall’infezione sono l’antro ed il corpo; il batterio non penetra nelle cellule gastriche e non ha diffusione ematica. È dimostrato che H. pylori è la causa della gastrite antrale e rappresenta un importante cofattore nella patogenesi dell’ulcera peptica, in particolare di quella duodenale: si riscontra infatti in oltre il 90% dei soggetti con ulcera duodenale e la sua eradicazione riduce drasticamente le recidive di malattia. Sono ancora sconosciuti i meccanismi attraverso cui la presenza di H. pylori a livello gastrico possa favorire l’insorgere di un’ulcera duodenale: sono certamente coinvolti l’ipergastrinismo, con conseguente modificazione della secrezione cloridro-acida dello stomaco, e l’induzione di una metaplasia gastrica a livello duodenale, su cui si instaura l’ulcera. Probabilmente l’evoluzione della gastrite cronica verso l’atrofia può a sua volta favorire la comparsa di un adenocarcinoma in soggetti geneticamente predisposti. Asintomatica nella maggior parte dei casi, l’infezione da H. pylori può raramente causare una sintomatologia acuta, caratterizzata da epigastralgie, nausea e vomito, accompagnata talvolta da febbre e diarrea, più frequentemente da un quadro clinico cronico, rappresentato principalmente da pirosi gastrica e disturbi dispeptici (nausea, aerofagia, sensazione di rigonfiamento postprandiale). Nei casi con ulcera duodenale sono tipiche le epigastralgie, più frequenti nel corso della notte e lontano dai pasti.
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La diagnosi di certezza si basa sulla dimostrazione di H. pylori attraverso l’esame istologico del tessuto bioptico prelevato in corso di esofagogastroduodenoscopia, o più rapidamente e in modo meno dispendioso attraverso il test dell’ureasi (CLO test) eseguito sul medesimo campione bioptico. L’esame colturale si dimostra utile per saggiare la sensibilità del batterio (antibiogramma), specialmente nei soggetti allergici ad alcuni dei farmaci solitamente utilizzati e/o in soggetti già trattati con scarso successo. Tra le metodiche non invasive, dotate di sensibilità e specificità sicuramente inferiori a quelle invasive citate in precedenza, si rivelano di un certo interesse la determinazione degli anticorpi anti-H. pylori di classe IgG mediante test immunoenzimatico, utile anche per il monitoraggio nel tempo dell’effetto della terapia, e il cosiddetto “Urea Breath Test”, che si basa sulla misurazione nell’aria espirata della CO2 marcata dopo ingestione di isotopi. È l’eradicazione dell’infezione l’obiettivo della terapia, raccomandata nei soggetti con gastrite cronica sintomatica, ulcera duodenale associata a H. pylori o tumore MALT. Si basa sulla combinazione di un farmaco antisecretivo con uno/due antibiotici: tra i primi gli inibitori della pompa protonica (quali l’omeprazolo o il lansoprazolo) sono preferiti agli H2-antagonisti, in quanto dotati di attività diretta anche contro H. pylori; i secondi sono scelti, basandosi possibilmente su un antibiogramma, tra amoxicillina, claritromicina, metronidazolo e tetracicline. La triplice terapia (un farmaco antisecretivo e due antimicrobici), anche se meno ben tollerata, è ormai preferita alla duplice terapia per la minore incidenza di resistenze; l’associazione del metronidazolo all’amoxicillina, oltre ad aumentare il tasso di eradicazione, previene inoltre la comparsa di colite pseudomembranosa da Clostridium difficile, osservata in circa il 5% dei casi trattati con la sola amoxicillina. La durata del trattamento è ormai standardizzata in una settimana; sono descritti anche protocolli terapeutici di 10-14 giorni.
Altre enterocoliti di natura enteroinvasiva Enterocolite da Yersinia enterocolitica e Yersinia pseudotuberculosis Le yersinie sono batteri Gram–, aerobi facoltativi, asporigeni, di forma bastoncellare, appartenenti alla famiglia delle Enterobacteriaceae: oltre all’uomo, in cui occasionalmente rappresentano una componente della flora batterica intestinale, parassitano numerosi animali domestici e selvatici. Di Y. enterocolitica si conoscono più di 50 sierotipi e 5 biotipi, mentre di Y. pseudotuberculosis sono stati identificati 6 sierotipi e 4 sottotipi. Più frequenti nei bambini di età inferiore ai 5 anni, sono delle zoonosi estesamente diffuse e con ampio serbatoio animale: l’enterocolite da Y. enterocolitica è particolarmente frequente nell’Europa del Nord, ma anche in Canada, USA, America Latina, Africa ed Asia; l’infezione umana da Y. pseudotuberculosis è diffusa un po’ ovunque ma soprattutto in Europa.
La trasmissione di entrambe le yersinie avviene per via fecale-orale, attraverso alimenti contaminati (latte o carni) o più raramente acqua inquinata; è possibile anche il contagio diretto da animali infetti e dall’uomo. Giunti a livello del tubo intestinale, i batteri possono permanervi senza invadere la mucosa (è il caso dei portatori asintomatici, che possono eliminare yersinie con le feci per periodi di tempo non precisabili) o localizzarsi a livello del tessuto linfoide intestinale (in particolare appendice e linfonodi mesenterici), determinando alterazioni infiammatorie, necrosi ed ulcerazioni della mucosa; in alcuni casi si osservano sepsi da batteriemie a partenza da microascessi epatici, formatisi in seguito alla diffusione delle yersinie al fegato per via ematica o linfatica. L’enterocolite da Y. enterocolitica si presenta con diarrea, vomito, febbre e dolori addominali; quando si associano flogosi appendicolare e adenomesenterite, il quadro clinico può assomigliare molto a quello di un’appendicite acuta. Nei rari casi in cui avviene una disseminazione ematica, si possono osservare una poliartrite sierosa, la sindrome di Reiter (congiuntivite-uretrite-artrite) e l’eritema nodoso. Un quadro di franca sepsi, in presenza o anche in assenza di una sintomatologia intestinale, è riscontrabile solo in pazienti che presentano gravi affezioni di base, quali una cirrosi. L’infezione da Y. pseudotuberculosis si manifesta più frequentemente con una sintomatologia simil-appendicitica; rare sono la sepsi e le localizzazioni extraintestinali. Gli esami di laboratorio possono evidenziare una leucocitosi; la conferma diagnostica si basa sull’isolamento dei batteri in particolari terreni di coltura, a partire da feci, sangue o altro materiale biologico. Le prove sierologiche, eseguite con varie metodiche (test immunoenzimatici, immunofluorescenza, emoagglutinazione, fissazione del complemento), documentano la presenza di anticorpi già nelle fasi precoci dell’infezione e permangono positive per 2-6 mesi; la reattività crociata che si osserva non solo tra Y. enterocolitica e Y. pseudotuberculosis, ma spesso anche con Brucella spp, Salmonella spp ed E. coli rendono più complessa l’interpretazione dei risultati sierologici. La diagnosi differenziale deve prendere in considerazione l’appendicite acuta. Nelle forme da Y. enterocolitica il decorso è solitamente impegnativo e può essere infausto in assenza di trattamento: un’antibioticoterapia mirata (le yersinie sono solitamente sensibili ai fluorochinoloni, al cotrimoxazolo, alle tetracicline e alle cefalosporine di III generazione) è indicata in tutti i casi, ed in particolare nelle infezioni sistemiche e/o nei soggetti immunodepressi. Enterocolite da Campylobacter jejuni Solo verso la fine degli anni Settanta ha avuto una definizione precisa il ruolo di Campylobacter jejuni nella patologia umana: è di quegli anni la scoperta della sua estrema diffusione e della frequenza con cui determina una sindrome diarroica acuta. Al genere Campylobacter appartengono numerose specie batteriche, alcune delle quali (ed in particolare C. jejuni) sono associate ad un quadro di infezione intestinale, altre (quali C. fetus) ad un interessamento sistemico caratterizzato da batteriemia, meningiti, ascessi e vasculiti. C.
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jejuni è un batterio Gram–, morfologicamente simile ai vibrioni; oltre all’attività endotossinica esplicata dai liposaccaridi della parete cellulare, caratteristica di tutti i Gram–, produce un’enterotossina termostabile. In base agli antigeni somatici ne sono stati identificati più di 90 sierotipi, 50 in base a quelli capsulari e flagellari. L’enterocolite da C. jejuni è una zoonosi ubiquitaria: numerosissime specie di mammiferi (tra cui i bovini, i cavalli, le pecore e le scimmie) e di uccelli domestici e selvatici ne costituiscono l’ampio serbatoio. La trasmissione avviene per via fecale-orale, attraverso il consumo di alimenti contaminati (latte e carne bovina, ovina e di volatili da cortile) o acque dolci inquinate da feci di animali infetti, oppure attraverso il contatto diretto con feci di animali (cani e gatti soprattutto) o individui infetti. I più esposti alla malattia sono i bambini, tra i quali è frequente anche il contagio interumano; i mesi estivi costituiscono il periodo con maggior prevalenza di infezioni da C. jejuni. Superata la barriera gastrica, i batteri si moltiplicano attivamente nel piccolo intestino. Alla luce dell’elevata frequenza (più del 75% dei casi) del riscontro di eritrociti e leucociti nelle feci, della comparsa occasionale di batteriemia e delle osservazioni microscopiche a livello digiuno-ileale e colico (presenza di infiltrati infiammatori nella lamina propria, ulcerazioni superficiali della mucosa, microascessi ghiandolari), quasi certamente un meccanismo invasivo contribuisce alla patogenesi della diarrea; ad esso si aggiunge probabilmente anche l’azione di un’esotossina ad attività citolitica, simile a quella osservata nella colite pseudomembranosa da Clostridium difficile, e un’enterotossina similcolerica. Dopo un periodo d’incubazione di 2-7 giorni, compare uno spettro clinico ampiamente variabile, compreso tra l’escrezione asintomatica di C. jejuni con le feci e uno stato di malattia grave caratterizzato dalla disseminazione dell’infezione per via ematica. Le forme più frequenti presentano una fase iniziale, caratterizzata da ipertermia, brividi, mialgie, nausea, vomito, malessere generale, cui segue dopo 12-24 ore una sintomatologia intestinale costituita da dolori addominali di tipo colico e diarrea con feci liquide, maleodoranti e spesso mucoematiche. Sono descritte anche una sindrome similtifosa e forme con meningismo. La guarigione avviene solitamente nel giro di una settimana; nel 20% circa dei casi possono però comparire ricadute a distanza o uno stato di grave malessere, caratterizzato da febbre persistentemente elevata, disidratazione, squilibri elettrolitici, algie addominali molto intense che evocano un quadro clinico di addome acuto. La conferma diagnostica si ottiene attraverso l’isolamento di C. jejuni tramite coprocoltura (più raramente emocoltura o coltura di tampone rettale) in terreni selettivi. Nei soggetti non trattati la coprocoltura può permanere positiva fino a 7 settimane dall’esordio della sintomatologia. L’esame a fresco delle feci in campo oscuro o con un microscopio a contrasto di fase permette di giungere ad una diagnosi presuntiva, basata sull’osservazione della morfologia e dei movimenti caratteristici dei batteri presenti. Le prove sierologiche sono ancora di dubbia interpretazione.
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La terapia di prima scelta si basa sull’utilizzo dei fluorochinoloni, nei confronti dei quali sono però iniziate a comparire delle chemioresistenze; i macrolidi, come l’eritromicina o l’azitromicina, rappresentano i farmaci di seconda scelta, in quanto dotati di una minor efficacia terapeutica. Se nelle forme poco impegnative il trattamento può essere superfluo, è invece assolutamente raccomandato nei casi che presentano un decorso prolungato oppure febbre elevata o diarrea abbondante e muco-ematica La profilassi contempla le normali misure che si attuano in ogni caso di infezione a trasmissione fecale-orale (igiene personale e misure di prevenzione della contaminazione nella preparazione e distribuzione degli alimenti e delle acque). Enterocolite stafilococcica Si tratta della sindrome enterocolitica dovuta alla penetrazione e alla moltiplicazione di Staphylococcus aureus nella mucosa intestinale: non deve essere confusa con l’intossicazione alimentare stafilococcica, secondaria all’ingestione di tossine preformate negli alimenti. S. aureus è un componente abituale della normale flora intestinale, pur se non predominante. In particolari soggetti (neonati prematuri, lattanti, anziani e nei casi caratterizzati da scadimento generale dei meccanismi di difesa) ed in determinate condizioni (utilizzo di antibiotici “a largo spettro” che portano ad una pressoché totale sterilizzazione della comune flora enterica, o presenza di lesioni intestinali), gli stafilococchi possono diventare la componente numericamente più significativa della flora batterica Gram+: possono allora causare necrosi ed ulcerazioni della mucosa intestinale, accompagnate spesso dalla formazione di pseudomembrane (costituite da muco, frammenti necrotici, leucociti e fibrina). Fino agli anni Cinquanta, prima della scoperta del ruolo patogeno di Clostridium difficile, S. aureus era considerato responsabile anche della colite pseudomembranosa e i due quadri clinici erano considerati sinonimi. Il meccanismo patogenetico dell’enterocolite stafilococcica è ancora in buona parte sconosciuto: poiché questa forma era già descritta prima dell’avvento degli antimicrobici, anche il ruolo favorente dell’antibioticoterapia necessita di ulteriore inquadramento. Dopo un periodo compreso tra 2-3 giorni ed alcune settimane dall’inizio del trattamento antibiotico, la sintomatologia compare di solito bruscamente, con febbre, nausea, vomito frequente, dolori addominali e diarrea; le feci sono liquide, ricche di muco, in alcuni casi ematiche e contenenti spesso pseudomembrane. La perdita di liquidi è nella maggior parte dei casi cospicua: ne derivano squilibri elettrolitici accompagnati da segni di disidratazione profonda (oligoanuria, shock ipovolemico). In alcuni casi si osserva una batteriemia e la comparsa di localizzazioni secondarie. Il decorso si rivela quasi sempre impegnativo e spesso fatale nonostante l’introduzione di un trattamento adeguato, specie nella prima infanzia. La diagnosi è di solito abbastanza agevole: la brusca comparsa della sintomatologia sopra riportata in un soggetto trattato con antibiotici “a largo spettro” dovrebbe evocare anche l’enterocolite stafilococcica, oltre
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alla colite pseudomembranosa; l’osservazione di una leucocitosi potrebbe ulteriormente favorire l’orientamento diagnostico. La conferma si ottiene mediante la dimostrazione dell’abbondante eliminazione fecale di S. aureus attraverso una coprocoltura o anche un esame delle feci con striscio colorato. La terapia, essenziale per ottenere la risoluzione del quadro, oltre che sulla rapida correzione degli squilibri idroelettrolitici e sulla sospensione dell’eventuale antibioticoterapia “a largo spettro”, si basa sull’utilizzo di antimicrobici mirati, quali la vancomicina e la teicoplanina per os, particolarmente indicati in quanto non riassorbibili. In presenza di una batteriemia, è necessario però ricorrere alle penicilline penicillinasi-resistenti (oxacillina, cloxacillina) per via parenterale, oppure a vancomicina o teicoplanina pure per via endovenosa in caso di S. aureus meticillino-resistente. Enterocolite necrotizzante del neonato Conosciuta anche con la sigla di NEC (Necrotizing Enterocolitis), rappresenta una gravissima sindrome intestinale, nella maggior parte dei casi letale, che colpisce talvolta con andamento epidemico i neonati a rischio, quali i prematuri, quelli con basso peso alla nascita e gli ospiti delle Unità di Terapia Intensiva Neonatale. La malattia, attualmente in aumento, sembrerebbe avere una eziopatogenesi multifattoriale, in cui prevarrebbe tuttavia la componente infettiva, che si impianterebbe su una serie di condizioni favorenti: l’asfissia perinatale in grado di compromettere l’irrorazione intestinale, la sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) e il ricorso all’ossigenoterapia, il cateterismo dei vasi ombelicali, l’alimentazione e l’affollamento con scarso rispetto delle norme igieniche osservabili talvolta nei reparti per immaturi. Gli agenti infettivi non sembrano dunque la causa prima della malattia, poiché agiscono su tratti di mucosa intestinale già sofferente: ad essi però sarebbe dovuto l’andamento rapidamente ingravescente e similsetticemico dell’enterocolite. Tra le numerose specie batteriche e virali ritenute oggi responsabili della NEC, sono soprattutto i clostridi, in particolare il Clostridium perfringens e il C. butyricum, ad essere considerati tra i microrganismi più frequentemente coinvolti. Il quadro clinico è acuto ed aspecifico, tanto da essere spesso confuso con la peritonite, l’infarto intestinale e la sepsi neonatale. I segni più tipici sono il vomito biliare, la distensione addominale, lo svuotamento gastrico ritardato, la diarrea con emissione di feci muco-ematiche, cui si associa una grave compromissione dello stato generale evidenziata da letargia, dispnea, bradicardia, cianosi, instabilità della temperatura corporea. In alcuni casi è caratteristico il reperto radiologico, che documenta, oltre alla distensione delle anse intestinali e ai livelli idroaerei, anche la presenza di gas nella parete intestinale (la cosiddetta “pneumatosi cistica intestinale”): questo gas, costituito da idrogeno di origine batterica, viene considerato espressione dell’invasione della parete da parte di agenti infettivi in corrispondenza di tratti intestinali precedentemente lesi. Il decorso è molto grave e letale entro poche ore: le possibilità di trattamento, tanto medico quanto chirurgi-
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co, sono molto modeste e le sole misure oggi proponibili consistono nella prevenzione delle cause predisponenti. Da tempo è accertato che l’alimentazione al seno riduce notevolmente l’incidenza di enterocolite necrotizzante: il latte materno ha infatti un effetto favorente sullo sviluppo di Bifidobacterium bifidum, un microrganismo che è in grado di inibire la crescita dei clostridi. Più recentemente è stato dimostrato che anche la somministrazione per os di immunoglobuline (una miscela di IgA e IgG) nelle prime settimane di vita riduce significativamente la comparsa di NEC nei neonati che presentano fattori favorenti. Colite pseudomembranosa Si tratta di una patologia caratterizzata, dal punto di vista clinico, da diarrea e compromissione più o meno grave dello stato generale e, dal punto di vista anatomopatologico, da erosioni della mucosa colica e rettale ricoperte da pseudomembrane (placche muco-fibrinose). Conosciuta già nel XIX secolo, ha presentato un progressivo aumento di prevalenza a partire dagli anni Settanta, in corrispondenza dell’uso sempre più frequente e massiccio di antibiotici. Solo nell’ultimo decennio se ne è chiarita l’eziologia e la patogenesi. Responsabile della colite pseudomembranosa è Clostridium difficile, bacillo sporigeno Gram+, anaerobio obbligato, e più precisamente le tossine da esso prodotte: la tossina B, una potente citotossina capace di provocare alterazioni strutturali dei microfilamenti di actina del citoscheletro e responsabile delle lesioni e desquamazioni delle cellule epiteliali intestinali, cui consegue la formazione di pseudomembrane; la tossina A, molto meno attiva della precedente, capace di indurre a livello cellulare la formazione di infiltrati infiammatori di granulociti neutrofili e di provocare a livello del colon modificazioni della secrezione dei fluidi e perdita di albumina dalle venule postcapillari. C. difficile, pur esplicando la propria azione patogena principalmente a livello del tubo intestinale, può essere isolato anche dal sangue e/o da formazioni ascessuali extraintestinali. Non è stato ancora accertato se il serbatoio di C. difficile sia endogeno o esogeno: oltre che dall’intestino di portatori sani (dal 2-3 % della popolazione adulta fino al 10-30 % dei neonati), specie se ospedalizzati, è stato infatti occasionalmente isolato da suolo, sabbia, fango e soprattutto dagli ambienti ospedalieri e dalle mani del personale di assistenza, specie in concomitanza di casi conclamati di malattia. Le sue spore sono altamente resistenti all’essiccamento e ai disinfettanti utilizzati abitualmente negli ospedali: già poche ore dopo l’inizio della diarrea in un soggetto, l’ambiente ospedaliero viene da loro contaminato con possibilità di infezione per gli altri pazienti e di reinfezione per il malato; possono inoltre persistere per mesi nel suolo, sui pavimenti e le suppellettili, dato che non vengono distrutte da tutti i farmaci attivi sulle forme vegetative del microrganismo. La colite pseudomembranosa compare solitamente durante o in seguito (alcune settimane dopo) alla somministrazione di antibiotici, tanto per os che parenterale: i farmaci più frequentemente coinvolti sono la clindamicina e la lincomicina, cui seguono le aminopenicilline
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(ampicillina) e soprattutto le cefalosporine di III generazione, specie se ad elevata eliminazione biliare; sono invece assai meno spesso in causa gli aminoglicosidi, i fluorochinoloni e le ureidopenicilline (mezlocillina e piperacillina). La maggior frequenza di malattia osservata in concomitanza dell’assunzione di clindamicina e cefalosporine di III generazione è dovuta molto probabilmente alle profonde alterazioni che questi farmaci inducono nella flora batterica intestinale: la pressoché assoluta sterilizzazione da essi determinata a livello del tubo intestinale favorisce infatti lo sviluppo delle specie risparmiate, tra cui C. difficile. Rappresentano altri fattori di rischio gli interventi chirurgici (specie se addominali), le terapie antiblastiche, l’età avanzata e il sesso femminile; molte di queste condizioni agiscono rendendo probabilmente la mucosa intestinale più suscettibile all’azione lesiva delle tossine del batterio. Il quadro clinico che ne deriva presenta un ampio spettro di variabilità: da una diarrea mucosa non molto accentuata e a risoluzione spontanea in seguito alla sospensione dell’antibiotico responsabile, ai casi più gravi caratterizzati da 20-30 scariche al dì di feci mucosanguinolente, dolori e tensione addominale, febbre e da un’impegnativa sintomatologia generale secondaria all’importante perdita di liquidi, elettroliti e proteine. Nelle forme con una semplice diarrea, che è più corretto definire non come colite pseudomembranosa ma come “diarrea associata a C. difficile”, l’eventuale esecuzione di una colonscopia evidenzia solo una modesta iperemia della mucosa; nelle forme conclamate il quadro endoscopico è invece patognomonico e documenta la presenza di necrosi ed erosioni della mucosa associate a pseudomembrane. Anche il decorso è ampiamente variabile, in assenza di una terapia specifica, e può essere anche letale per l’insorgere di uno shock ipovolemico o di una perforazione intestinale, più frequenti nei soggetti anziani che presentano una sintomatologia particolarmente impegnativa già all’esordio. La diagnosi si basa sull’esame endoscopico (il solo che permette di differenziare la colite vera e propria dalla “diarrea associata a C. difficile”) e sulla dimostrazione del batterio e delle sue tossine nelle feci. La modalità diagnostica più rapida ed agevole è rappresentata dalla ricerca della tossina A (o più raramente di entrambe le tossine) nelle feci con la metodica immunoenzimatica o con tecniche di immunoblotting. È a livello ancora sperimentale l’amplificazione con metodo PCR (Polymerase Chain Reaction) di frammenti dei geni che codificano per le due tossine. C. difficile può infine essere isolato mediante coltura in anaerobiosi su terreni solidi selettivi. La terapia si basa sulla compensazione degli squilibri idroelettrolitici, sulla sospensione dell’antibioticoterapia in corso e sulla somministrazione per os di un farmaco attivo su C. difficile, quale può essere la vancomicina, la teicoplanina o il metronidazolo. Le forme più gravi di colite pseudomembranosa si possono dimostrare non completamente rispondenti al metronidazolo: solo in questi casi, e solo dopo il tentativo infruttuoso con l’imidazolico, ha senso ricorrere ai glicopep-
tidi, alla luce della comparsa sempre più frequente in numerosi paesi di ceppi di enterococchi resistenti a vancomicina e teicoplanina. Nei soggetti in cui non è possibile somministrare i farmaci per os, il trattamento risulta problematico; qualche risultato è stato ottenuto con il metronidazolo per via endovenosa. Nelle forme meno impegnative può essere sufficiente la terapia sintomatica; in alcuni di questi casi, in alternativa all’antibioticoterapia, è stata utilizzata con successo la colestiramina, una resina a scambio ionico in grado di legare la citotossina. In circa il 15-20% dei soggetti trattati con glicopeptidi o metronidazolo compaiono recidive, dovute non tanto alla comparsa di resistenza del microrganismo nei confronti del farmaco utilizzato nel primo ciclo terapeutico, quanto alla germinazione delle spore presenti nell’intestino del malato o acquisite dall’ambiente esterno (reinfezione): in tali casi è necessario ripetere il trattamento con metronidazolo oppure, se si rivela inefficace, con l’associazione di vancomicina o metronidazolo e rifampicina. Il 10-30% dei soggetti trattati diventa invece portatore asintomatico di C. difficile: in questi casi, più che ulteriori ripetuti cicli di antibioticoterapia, si rivela utile la somministrazione del comune lievito del pane, che si è dimostrato in grado tanto di interrompere l’eliminazione fecale di C. difficile in soggetti refrattari al trattamento con antibiotici, quanto di prevenire la comparsa di diarrea e colite se impiegato a scopo profilattico in corso di terapie antibiotiche che espongono al rischio di colite pseudomembranosa. Data l’elevata diffusibilità dell’infezione, specie negli ambienti ospedalieri e nelle comunità in genere, è utile adottare per i soggetti con diarrea almeno il cosiddetto “isolamento intestinale” (scrupoloso lavaggio delle mani, disinfezione accurata della sala da bagno, utilizzo dei guanti da parte del personale di assistenza soprattutto durante la manipolazione dei rifiuti e la toilette personale dei pazienti).
INFEZIONI INTESTINALI DA PARASSITI Sono infezioni prevalentemente diffuse nelle aree intertropicali ad elevata densità di popolazione. Alle nostre latitudini le parassitosi intestinali vengono in genere sottovalutate, poiché si ritiene che nel nostro paese i parassiti siano pressoché scomparsi, grazie al miglioramento delle condizioni igieniche ed ai progressi terapeutici. In realtà, le indagini epidemiologiche documentano che anche in Italia, e non solo nelle aree socioeconomiche più arretrate, alcuni parassiti a localizzazione intestinale circolano in maniera ancora significativa. A ciò si aggiungono l’aumento esponenziale dei viaggi internazionali da parte dei cittadini italiani e i fenomeni migratori che, soprattutto nell’ultimo decennio, stanno portando in Italia un numero non trascurabile, anche se non elevato, di cittadini provenienti da paesi del Sud del mondo. Accanto alle tradizionali parassitosi intestinali autoctone (giardiasi, criptosporidiosi, os-
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siuriasi, teniasi, strongiloidiasi) occorrerà dunque prendere in considerazione anche altre infezioni parassitarie di più frequente importazione (amebiasi, ascaridiasi e altre geoelmintiasi, schistosomiasi).
INFEZIONI INTESTINALI DA PROTOZOI Amebiasi Per amebiasi si intende la presenza di Entamoeba histolytica nell’organismo umano, tanto a livello intestinale quanto extraintestinale, indipendentemente dalla comparsa di manifestazioni cliniche. Il termine di infezione amebica indica la presenza di cisti amebiche a livello intestinale, senza lesioni tissutali. Con dissenteria amebica si definisce invece la patologia derivante dall’invasione della parete intestinale da parte dei trofozoiti di E. histolytica. L’amebiasi extraintestinale costituisce una patologia a sé stante, che può accompagnare la dissenteria amebica o esserne assolutamente indipendente; la sua localizzazione più frequente è quella epatica, dove la presenza di trofozoiti determina lo sviluppo dell’ascesso amebico epatico. A. Epidemiologia. Se l’infezione è cosmopolita, la malattia è quasi esclusivamente tropicale. Circa il 10% della popolazione mondiale sarebbe infetto e 50 milioni sarebbero i nuovi casi/anno con 40.000/110.000 decessi/anno. Il serbatoio è pressoché solo umano. È più frequente nelle aree in cui l’acqua è scarsa e/o non potabile ed in cui la fecalizzazione dell’ambiente è elevata. Nelle aree endemiche i portatori di cisti possono raggiungere prevalenze fino al 100% e tra la popolazione sana la sieroprevalenza può toccare il 20%. La malattia è presente a focolai in Asia, Africa e America Latina. Nei paesi occidentali la prevalenza dei portatori di cisti è inferiore al 5% e i casi autoctoni sono rari. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. È causata dal protozoo Entamoeba histolytica, unica specie del genere Entamoeba capace di invadere la parete intestinale e di provocare disturbi sia a livello del tubo digerente che extraintestinale. Specie a patogenicità variabile, fino a qualche anno fa veniva considerata in grado di determinare a livello intestinale tanto un ciclo patogeno, causato dall’invasione della mucosa e sottomucosa colica da parte delle forme vegetative, i trofozoiti, e dalla successiva formazione di lesioni ulcerative cosiddette “a bottone di camicia” o “a fiasco”, quanto un ciclo non patogeno (ciclo “minuta”), caratterizzato dalla sola presenza delle forme cistiche all’interno di feci più o meno formate e dall’assenza di lesioni della mucosa intestinale. Metodiche di ricerca biomolecolare hanno recentemente permesso di individuare una specie all’osservazione al microscopio ottico morfologicamente identica ad E. histolytica; questa nuova specie di ameba, cui è stato dato il nome di Entamoeba dispar, si è
rivelata apatogena ed è presente in tutti i casi prima considerati come “portatori di cisti” (“kist passers”) di E. histolytica. L’elemento di contagio è rappresentato dalla cisti, forma di resistenza: la trasmissione si realizza a partire dai soggetti malati o dai cosiddetti portatori sani principalmente per via fecale-orale, per contatto diretto o attraverso cibi e bevande contaminati; è possibile anche la trasmissione sessuale. Dopo l’ingestione della cisti e la moltiplicazione intestinale delle forme vegetative, differenti sono le evoluzioni possibili: l’eliminazione spontanea più o meno precoce dell’infezione; un’infezione cronica asintomatica; manifestazioni cliniche acute/subacute; lo sviluppo di amebiasi extraintestinale. Oltre al differente grado di virulenza che possiedono i diversi ceppi di Entamoeba histolytica, influiscono sul decorso dell’infezione anche alcune caratteristiche dell’ospite, quali l’età, lo stato immunitario (comprese le immunodepressioni da farmaci, per esempio una prolungata terapia steroidea), le situazioni di stress, un’eventuale gravidanza, nonché le condizioni fisico-chimiche del microambiente intestinale. L’ascesso epatico amebico è più frequente nel sesso maschile (4:1) e ha tra i suoi fattori predisponenti l’assunzione di alcool e di altre sostanze epatotossiche. Alcuni ceppi di E. histolytica sembrano comunque capaci di provocarlo anche in assenza di fattori predisponenti. È la più frequente manifestazione extraintestinale della amebiasi ed è dovuta all’embolizzazione a livello epatico di trofozoiti di E. histolytica che hanno raggiunto il torrente circolatorio attraverso le ulcerazioni provocate nella mucosa intestinale. La localizzazione intraepatica più frequente è a livello della regione postero-superiore del lobo epatico destro: solitamente l’ascesso è singolo, di dimensioni variabili e comunque a crescita rapida, a contenuto sterile rappresentato da materiale necrotico. Localizzazioni extraintestinali più rare sono riscontrabili, in ordine di frequenza, a livello polmonare e cerebrale. C. Clinica. 1. Amebiasi intestinale. In essa si possono distinguere una forma acuta (la dissenteria amebica) ed una forma cronica. • Dissenteria amebica. Il periodo di incubazione è solitamente breve (circa 1 settimana); in alcuni casi può invece prolungarsi e presentare sintomi aspecifici (inappetenza, diarrea, accentuazione del meteorismo intestinale). L’esordio, subacuto, è caratterizzato dalla comparsa di 3-4 scariche al dì di feci semiformate, inizialmente solo diarroiche e successivamente francamente dissenteriche, cioè frammiste a muco e sangue, cui si associano dolori addominali, tenesmo, dispepsia, astenia, inappetenza. Febbre e/o altri segni di tossiemia sono presenti solo nelle rare forme iperacute e sovrainfettate. • Amebiasi intestinale cronica. È caratterizzata da alvo alterno, dolenzia addominale, inappetenza e dimagramento. Segue spesso la forma dissenterica e può prolungarsi anche per anni. 2. Amebiasi extraintestinale. L’esordio avviene solitamente a mesi di distanza dall’infezione. Nella sua for-
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ma più frequente, l’ascesso epatico amebico, i sintomi iniziali sono costituiti da senso di peso e dolore ingravescente in ipocondrio destro, irradiato a livello interscapolare e acuito dagli accessi di tosse non produttiva. La fase di stato è caratterizzata da febbre continuo-remittente con puntate serotine e accompagnata da brivido, dolore gravativo in ipocondrio destro, tosse e ortopnea. L’esame obiettivo evidenzia solitamente un’epatomegalia dolente, un subittero e raramente un franco ittero, un’ottusità alla base polmonare destra. Le più rare forme extraintestinali polmonare e cerebrale possono presentarsi rispettivamente con un quadro di vomica e di crisi comiziali. D. Esami di laboratorio. Nell’amebiasi intestinale non si evidenziano alterazioni di rilievo, se non un aumento della VES. Al contrario, nell’ascesso amebico epatico è frequente l’osservazione di una spiccata leucocitosi con neutrofilia, di una VES elevata e di un’albuminuria. E. Diagnosi. 1. Nelle forme intestinali, l’accertamento diagnostico principale è rappresentato dall’esame parassitologico delle feci. In presenza di una dissenteria, per dimostrarne l’origine amebica, è necessario esaminare un campione di feci a fresco, non conservate cioè in formalina, e raccolte preferibilmente tra la componente mucoematica, così da poter ricercare i trofozoiti mobili ematofagi (contenenti cioè eritrociti). Nei casi in cui sia presente solo una diarrea, è pressoché impossibile trovare i trofozoiti che sono patognomonici, per cui sarà possibile ottenere solo una diagnosi presuntiva mediante la dimostrazione delle cisti attraverso un esame coproparassitologico. L’indagine va realizzata su almeno tre campioni di feci raccolti in giorni consecutivi, o meglio ancora alterni, conservati in formalina e contrastati con colorazione di Lugol. Particolarmente impegnativa potrà risultare in questo caso la diagnosi differenziale con amebe non patogene, quali Entamoeba coli, che presentano cisti di aspetto molto simile a quelle di E. histolytica. Raramente è necessaria una rettoscopia e/o pancolonscopia con prelievi bioptici a livello delle ulcere “a bottone di camicia”, per la ricerca di trofozoiti ematofagi più frequentemente evidenziabili a livello dei bordi sottominati. Tali metodiche sono però essenziali per discriminare un’amebiasi da altre patologie del colon, quali la rettocolite ulcerosa e le neoplasie. La ricerca sierologica con metodiche di immunofluorescenza indiretta o ELISA risulta positiva solo nelle forme invasive, dimostrando anche in questi casi una sensibilità non particolarmente elevata (circa 80%): visto il riacutizzarsi dell’amebiasi intestinale in corso di terapia steroidea e/o immunosoppressiva, una sierologia per E. histolytica è comunque da richiedere in ogni caso di sospetta colite ulcerosa con anamnesi positiva per soggiorno in area endemica per amebiasi. Oltre che con la rettocolite ulcerosa ed il morbo di Crohn, la dissenteria amebica deve essere posta in dia-
gnosi differenziale con la shigellosi (dissenteria bacillare) ed altre forme batteriche enteroinvasive (Yersinia, Campylobacter), nonché con alcune infestazioni da elminti (schistosomiasi). 2. Nelle forme extraintestinali, la diagnosi è posta attraverso la sierologia per E. histolytica, associata alla dimostrazione ecografica, radiologica o tomografica di una massa ascessuale singola o plurima a livello intraepatico, polmonare o cerebrale. Risulterà invece sempre negativa la ricerca di trofozoiti o cisti di E. histolytica nel liquido ascessuale prelevato in corso di puntura o drenaggio di un ascesso epatico, oppure nella vomica proveniente da un ascesso polmonare, poiché in entrambi i casi il contenuto delle cavità ascessuali è costituito solamente da materiale necrotico, sterile, mentre i trofozoiti responsabili della patologia ascessuale sono localizzati alla periferia della massa ascessualizzata, al confine con il parenchima sano. Analogamente, eventuali esami coproparassitologici per la ricerca di cisti e/o trofozoiti di E. histolytica possono risultare negativi, poiché le localizzazioni intestinali ed extraintestinali hanno un’evoluzione indipendente. La diagnosi differenziale dell’ascesso epatico amebico deve contemplare l’ascesso epatico piogenico, l’epatoma, l’idatidosi cistica (che ha a livello epatico la sede più frequente) e la cisticercosi (che, viceversa, solo raramente si presenta con cisti intraepatiche). F. Decorso e prognosi. 1. Nelle forme intestinali, l’evoluzione è in genere favorevole, con remissione in 4-6 settimane; possono comunque presentarsi recidive in corrispondenza di alterazioni dello stato immunitario dell’ospite. Le forme iperacute possono esitare in una colite necrotizzante iperacuta. Rare sono solitamente le complicanze, alcune delle quali possono rivelarsi fatali: perforazione intestinale con peritonite, appendicite, ulcera cutanea fagedenica, sovrainfezione batterica (soprattutto da Gram–). 2. Nella localizzazione extraintestinale più frequente, quella epatica, le complicanze sono rappresentate da: colestasi, versamento pleurico destro reattivo che può evolvere in empiema, versamento pericardico con possibile tamponamento cardiaco (più frequente nel caso di ascessi nel lobo epatico sinistro), fistolizzazione e ulcerazione cutanea, ipertensione portale e coma epatico. G. Terapia. 1. Nell’amebiasi intestinale, sono due le classi di farmaci, da utilizzare con differenti strategie di intervento: gli amebicidi tissutali (il classico metronidazolo ed i nuovi imidazolici quali il tinidazolo e l’ornidazolo, utilizzabili in schemi terapeutici di breve durata) attivi sulle forme tissutali, da utilizzare nelle forme sintomatiche, in presenza di trofozoiti ematofagi nelle feci e nelle forme iperacute associati ad antibiotici; gli amebicidi di contatto (quali la paromomicina), attivi solo sulle forme intraluminali, da utilizzare nei portatori di cisti e nelle terapie solo soppressive in area endemica. Le due classi di amebicidi sono da associare per ottenere l’era-
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dicazione dell’infezione nelle forme dissenteriche. In caso di sovrainfezione batterica è utile associare antibiotici come tetraciclina, eritromicina, spiramicina. Le indicazioni chirurgiche sono limitate alla perforazione, alla stenosi post-dissenterica ed alla fistolizzazione cutanea. 2. Nelle forme extraintestinali, ed in particolare nell’ascesso epatico amebico, i farmaci di prima scelta sono ancora una volta rappresentati dagli imidazolici (metronidazolo o tinidazolo), meglio se utilizzati per via endovenosa ed in dose unica giornaliera, così da ottenere un più elevato picco farmacologico. Rappresentano ormai una seconda scelta e sono scarsamente usati la diidroemetina e la clorochina. Nei casi non complicati si rivela inutile, se non addirittura controproducente, il drenaggio e l’approccio chirurgico: raramente accelera i tempi di guarigione ed è frequentemente gravato da fistolizzazioni nell’albero biliare. H. Profilassi. La diffusione dell’amebiasi è legata principalmente alla scarsità dell’acqua ed alla sua cattiva qualità: ogni tentativo di profilassi su vasta scala deve porsi perciò come obiettivo l’igiene delle acque. Per le singole persone che si recano in area endemica è utile consigliare particolare attenzione nell’utilizzo di acqua e ghiaccio di dubbia provenienza. Giardiasi Si definisce giardiasi o lambliasi l’infezione intestinale da parte del protozoo flagellato Giardia lamblia (o G. intestinalis o G. duodenalis), causa in tutto il mondo di sintomatologia diarroica e malassorbimento. A. Epidemiologia. Infezione cosmopolita, ha una prevalenza elevata in tutti i paesi dell’area tropicale a causa del basso tenore igienico. Rare sono le epidemie, da contaminazione idrica e/o da consumo di alimenti inquinati; più frequentemente si osservano casi sporadici. In Italia la sua osservazione è più frequente nelle regioni meridionali, ma anche le settentrionali e le centrali ne sono colpite. Nei paesi industrializzati, viene isolata in circa il 2% degli adulti e nel 6% dei bambini. Oltre al serbatoio umano, Giardia lamblia possiede un’importante riserva animale. Più frequente in età infantile, si presenta in forma più severa nei soggetti immunodepressi (non tanto in caso di infezione da HIV quanto in presenza di ipo--globulinemie), nei malnutriti e in caso di alterazioni della barriera gastrica (quali l’ipocloridria ed il deficit di IgA). B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. È causata dal protozoo flagellato Giardia lamblia, trasmesso per via fecale-orale nella forma cistica di resistenza attraverso il contatto interumano diretto o gli alimenti e le bevande contaminati. A differenza di E. histolytica, Giardia non possiede capacità invasive: la patogenesi dell’infezione è probabilmente complessa e dovuta sia a fattori legati al parassita, sia alla risposta dell’ospite. Con le sue forme vegetative, i trofozoiti, dotati di ventose sulla superficie ventrale, Giardia esercita tanto un danno
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diretto a livello duodeno-digiunale (e raramente biliare), aderendo agli enterociti e riducendone la superficie di assorbimento, quanto un danno mediato da tossine e da fenomeni di competizione tra parassita ed ospite di talune sostanze alimentari; in sua presenza il tenue è inoltre esposto con maggior facilità alla colonizzazione batterica. Conseguenza di questa pluralità di meccanismi è un complesso di alterazioni dei microvilli che determinano una più o meno estesa riduzione della superficie assorbente. C. Clinica. La giardiasi è asintomatica nell’80% dei casi e presenta un periodo di incubazione variabile da 1 a 3 settimane. Può causare una malattia diarroica acuta o subacuta, della durata di 5-7 giorni, caratterizzata dalla presenza di diarrea con steatorrea (feci pallide, schiumose, maleodoranti, talvolta con muco), febbricola, inappetenza, dolori addominali, nausea, meteorismo. In una piccola percentuale dei soggetti parassitati, e soprattutto nei bambini, può avere andamento cronico e presentarsi con dispepsia, distensione e algie addominali, episodi diarroici intermittenti responsabili a medio e lungo termine di un ritardo di crescita da malassorbimento, caratterizzato da calo ponderale e graduale anemizzazione. Molto più rara è la sintomatologia di tipo colangitico, contrassegnata da febbre, ittero ed epatomegalia. D. Esami di laboratorio. Essendo confinata al tubo digerente, la giardiasi raramente determina modificazioni dei comuni parametri ematologici, biochimici ed immunologici. E. Diagnosi. Diversamente da quanto osservato nei casi di amebiasi, la sola dimostrazione di cisti di G. lamblia nelle feci è sufficiente per porre diagnosi di giardiasi e per instaurare un trattamento farmacologico mirato. La diagnosi è tuttavia resa difficile dalla presenza intermittente delle cisti nelle feci. È perciò solitamente necessario eseguire su più campioni fecali raccolti in giorni diversi l’esame coproparassitologico a fresco tradizionale, contrastato con soluzione di Lugol, o più complesse colorazioni tricromiche o all’ematossilina ferrica su feci conservate in polivinilalcol e successivamente fissate. Nei casi con diarrea profusa, l’accelerato transito intestinale può permettere di osservare nelle feci anche i trofozoiti. Vista la localizzazione del parassita a livello del piccolo intestino, si dimostra lievemente più sensibile la ricerca non tanto delle cisti quanto delle forme vegetative nel succo duodenale, ottenuto attraverso aspirazione in corso di esofagogastroduodenoscopia (EGDS) o raccolto con una metodica particolare, l’Enterotest o string-test. Questo metodo consiste nell’osservazione diretta al microscopio ottico del liquido ottenuto per spremitura di un particolare batuffolo di cellulosa, deglutito dal paziente, messo a dimora a livello duodenale per almeno 12 ore e successivamente recuperato tramite il riavvolgimento del sottile filo alla cui estremità distale il batuffolo è attaccato. Raro è il ricorso ad una biopsia o prelievo di muco digiunale in corso di EGDS.
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Sono disponibili anche metodiche di diagnosi indiretta, basate principalmente sulla ricerca di antigeni fecali (ELISA) e anticorpi serici (immunofluorescenza). Alla luce della loro ridotta disponibilità, sono utilizzati soprattutto per indagini epidemiologiche e non tanto per la diagnostica di routine. La diagnosi differenziale, soprattutto nelle forme croniche ad andamento recidivante, va posta con altre cause di malassorbimento: sprue tropicale, insufficienza pancreatica, malattie infiammatorie croniche intestinali. F. Decorso e prognosi. In genere la guarigione è spontanea dopo l’attacco acuto; possono presentarsi riacutizzazioni a distanza di tempo. Come già descritto, specie nei bambini è possibile lo sviluppo di una sindrome da malassorbimento cronico. G. Terapia. Farmaci di scelta sono i derivati imidazolici (prima scelta: metronidazolo e tinidazolo; seconda scelta: albendazolo) somministrati a dosaggi e per periodi di tempo inferiori a quanto necessario in caso di amebiasi. Nei casi di insuccesso si può ricorrere al furazolidone o alla paromomicina. Sono state recentemente descritte forme resistenti alla monoterapia, più frequenti negli immunodepressi: in esse si dimostra efficace l’associazione di metronidazolo e albendazolo assunti per un periodo di tempo maggiore che nei casi non resistenti. H. Profilassi. L’esteso serbatoio animale rende pressoché vano qualunque tentativo di circoscrivere l’infezione. Il trattamento delle acque utilizzate per l’approvvigionamento idrico associato ad una maggior attenzione alle norme di igiene personale, ove possibile, possono ridurre il rischio di trasmissione interumana. Criptosporidiosi La criptosporidiosi è una zoonosi a diffusione cosmopolita dovuta a Cryptosporidium spp, il cui potere patogeno per l’uomo è stato accertato solo negli ultimi decenni. Responsabile nella popolazione generale di diarree autolimitantesi, rappresenta un grave problema nelle persone con infezione da HIV, in cui determina una sintomatologia gastrointestinale invalidante per qualità della vita e prognosi quoad vitam. In tali pazienti rappresenta una patologia indice di AIDS. A. Epidemiologia. L’infezione da Cryptosporidium spp sembra essere una delle più importanti cause di diarrea infettiva in molte parti del mondo. Il serbatoio animale è esteso a molte specie. L’infezione umana è più frequente nelle aree tropicali, ma recentemente è stata osservata una discreta prevalenza anche nelle zone temperate e nelle aree industrializzate. Cryptosporidium spp si considera responsabile di casi di “diarrea del viaggiatore” e una causa importante di diarrea nell’infanzia. Sono descritte epidemie ad andamento stagionale, spesso dovute ad inquinamento della rete idrica. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. Cryptosporidium spp costituisce un complesso di specie del genere Cryp-
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tosporidium, di cui Cryptosporidium parvum rappresenta la specie più frequentemente coinvolta nelle infezioni umane. Cryptosporidium è un coccide intracellulare ma extracitoplasmatico, che vive e si sviluppa attraverso fasi schizogoniche e sporogoniche sulla superficie degli enterociti dell’ospite. Forma di resistenza e infettante è l’oocisti, caratterizzata dalla presenza di quattro sporozoiti. La trasmissione avviene anche in questo caso per via fecale-orale, attraverso l’ingestione di acqua e/o alimenti contaminati. Le osservazioni in microscopia elettronica di materiale bioptico e autoptico ottenuto principalmente da pazienti con infezione da HIV ha permesso di dimostrare che i criptosporidi sono localizzati all’interno degli enterociti, immediatamente al di sotto della membrana plasmatica ma in posizione extracitoplasmatica. Tutto il tubo digerente, comprese le vie biliari, può essere coinvolto nelle infezioni da Cryptosporidium spp, anche se è l’intestino tenue ad esserne più frequentemente interessato. La presenza di Cryptosporidium spp negli enterociti determina una progressiva e massiva atrofia dei villi intestinali e l’accumulo di infiltrati infiammatori a livello della lamina propria. Il meccanismo fisiopatologico responsabile della diarrea è ancora sconosciuto: si suppone che sia coinvolta una tossina con meccanismo di azione simile a quella colerica. C. Clinica. La sintomatologia e l’evoluzione dell’infezione da Cryptosporidium spp sono condizionate principalmente dalla risposta immunitaria dell’ospite. Nei soggetti immunocompetenti la sintomatologia si autolimita: dopo un periodo di incubazione di 1-2 settimane, compaiono diarrea e sintomi di accompagnamento, quali nausea, inappetenza, dolori addominali crampiformi, che perdurano per circa 2 settimane per poi risolversi spontaneamente. Talvolta l’infezione è assolutamente asintomatica. Nelle persone con infezione da HIV e grave depressione immunitaria, invece, l’infezione da Cryptosporidium spp determina la comparsa di una diarrea che esordisce in modo insidioso, peggiora progressivamente fino a giungere ad un numero giornaliero elevato di scariche acquose (anche oltre 20 evacuazioni al dì) e si accompagna a dolori addominali importanti, vomito, malassorbimento, squilibri idroelettrolitici e grave calo ponderale. Nel 10% dei casi si associano sintomi riferibili ad un interessamento dell’albero biliare intra ed extraepatico (colangite, colecistite). Pazienti con infezione da HIV e numero di T linfociti CD4+ superiore a 200/mm3 sembrano in grado di eliminare l’infezione da Cryptosporidium spp spontaneamente entro un mese; nelle persone in cui la terapia antiretrovirale combinata ha permesso un parziale recupero del deficit immunitario, si osserva un controllo della sintomatologia gastrointestinale, pur persistendo oocisti di Cryptosporidium spp nelle feci. Anche in altri soggetti con deficit immunitari, come quelli affetti da ipo--globulinemia congenita, emopatie maligne o con immunodepressione farmacologicamente indotta, la criptosporidiosi può presentare quadri sintomatologici di analoga gravità.
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D. Diagnosi. La criptosporidiosi si diagnostica attraverso la dimostrazione delle oocisti di Cryptosporidium spp su feci concentrate, dopo colorazione con la metodica di Ziehl-Nielsen modificata (le oocisti sono alcool-acido resistenti) o con tecniche di immunofluorescenza indiretta. La sensibilità di questi metodi non è molto elevata, per cui le infezioni a bassa carica parassitaria possono non venire diagnosticate. Sembrano dimostrare una migliore sensibilità le tecniche di amplificazione genica con il metodo PCR (Polymerase Chain Reaction), per ora utilizzate solo in laboratori specializzati ed ancora gravate da problematiche di standardizzazione. E. Decorso e prognosi. Nelle persone immunocompetenti l’infezione si risolve spontaneamente entro 2 settimane-1 mese. Negli immunodepressi, e in particolare nelle persone con infezione da HIV, può presentare una prognosi sfavorevole quoad vitam a medio e lungo termine, se non intervengono fattori in grado di migliorare la depressione immunitaria. In questi pazienti rappresenta una patologia fortemente invalidante per la sua pesante influenza sulla qualità della vita. F. Terapia. Non esistono tuttora farmaci di provata efficacia contro Cryptosporidium spp. Nei soggetti immunocompetenti è sufficiente un terapia sintomatica di supporto. Negli immunodepressi per cause farmacologiche, la sospensione della terapia immunosoppressiva determina la risoluzione spontanea dell’infezione. Nelle persone con AIDS i numerosi tentativi terapeutici condotti con numerosi protocolli hanno portato fino a qualche anno fa a scarsi risultati: in alcuni casi una riduzione della sintomatologia, seppure parziale, è ottenuta con l’utilizzo di antibiotici, quali la paromomicina e l’azitromicina, e/o di antidiarroici antiperistaltici come l’octreotide. Dati più confortanti sembrano emergere da recenti studi con ditazoxanide; in alcuni casi sembra efficace l’associazione di paromomicina e azitromicina. La possibilità di introdurre negli ultimi anni terapie antiretrovirali di combinazione, che hanno permesso in numerosi casi un recupero significativo della funzionalità del sistema immunitario, ha favorevolmente influito anche sull’andamento della criptosporidiosi in molti pazienti. G. Profilassi. Visto il complesso di specie coinvolto e l’esteso serbatoio animale, è praticabile come profilassi solo il trattamento delle acque utilizzate per l’approvvigionamento idrico, associato ad una maggior attenzione alle norme di igiene personale ove possibile, al fine di ridurre il contagio interumano.
Altre infezioni intestinali da protozoi Blastocistosi Blastocystis hominis è un protozoo dell’ordine Blastocystides, a localizzazione esclusivamente intestinale, trasmesso per via fecale-orale con acqua e cibi conta-
minati e talvolta attraverso rapporti omosessuali. Solitamente causa infezioni asintomatiche; in alcuni casi, però, correlati frequentemente ad un’elevata carica parassitaria, può essere responsabile di episodi di diarrea acquosa accompagnata da dolori addominali, nausea, vomito, lieve iperpiressia e malessere generale, che possono perdurare anche per mesi. La diagnosi si basa sull’esame coproparassitologico con soluzione di Lugol, che evidenzia le caratteristiche forme vacuolari mono o plurinucleate. I dubbi sulla sua effettiva patogenicità non sono ancora totalmente fugati: si concorda che possa essere da solo responsabile di patologia, quando presente in carica elevata (almeno cinque cisti per ogni campo microscopico osservato a 400x) in soggetti con sintomatologia gastrointestinale nei quali non siano state dimostrate altre eziologie. Spesso accompagna altri parassiti patogeni, quali E. histolytica. Nei casi in cui può essere considerato patogeno, può essere utile, anche se non efficace nella totalità dei pazienti, una terapia con metronidazolo a dosaggi analoghi a quelli utilizzati nella dissenteria amebica. Microsporidiosi I microsporidi sono parassiti dell’ordine Microsporida, intracellulari obbligati, notevolmente differenti dagli altri protozoi per morfologia e ciclo vitale. Le forme di resistenza e disseminazione ambientale sono infatti rappresentate non tanto da cisti quanto da spore, dalle quali viene estrusa una struttura specializzata, il tubulo polare, che permette allo sporoplasma infettante contenuto nella spora di penetrare nella cellula bersaglio. Possono infettare tanto gli invertebrati quanto i vertebrati; nell’uomo le infezioni da microsporidi, un tempo rare, hanno subito un aumento significativo in corrispondenza dell’epidemia di HIV. Sei generi di microsporidi sono stati identificati come patogeni per l’uomo: i più frequenti sono Encephalitozoon (nelle specie E. hellem, E. cuniculi ed E. intestinalis) ed Enterocytozoon (nella specie E. bieneusi). Ubiquitari, sono più frequenti nelle aree tropicali. Le fonti di infezione e le modalità di trasmissione non sono completamente note: sono ipotizzate la via fecale-orale e quella inalatoria; maggiori dubbi persistono sulla trasmissione per via sessuale. L’introduzione delle terapie di combinazione antiretrovirali, avvenuta su vasta scala negli ultimi anni nei paesi occidentali sviluppati, consentendo un recupero della risposta immunitaria, ha significativamente ridotto l’incidenza delle microsporidiosi tra i soggetti con infezione da HIV residenti in tali paesi. Le localizzazioni gastrointestinali sono le più frequenti, specie nelle persone con infezione da HIV ed in particolare nei soggetti con elevata immunodepressione (T linfociti CD4+ < 100/mm3); sono causate principalmente da E. bieneusi ed E. intestinalis (in precedenza denominato Septata intestinalis). Si manifestano con una diarrea acquosa cronica, associata a dolori addominali crampiformi e calo ponderale progressivo da malassorbimento. Oltre che nella più frequente sede intestinale, E. bieneusi può localizzarsi e determinare patologia anche a livello respiratorio ed epatobiliare; E. intestina-
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lis può causare forme disseminate. Le altre specie più rare di microsporidi sono state riscontrate più frequentemente in corso di infezioni generalizzate (E. cuniculi ed E. hellem) e cheratocongiuntiviti (E. hellem). La diagnosi di microsporidiosi è particolarmente difficile, viste le piccolissime dimensioni di questi protozoi: fino ad alcuni anni fa era possibile solamente con l’ausilio della microscopia elettronica su campioni bioptici. Recentemente, in particolare per le infezioni intestinali, sono state messe a punto particolari colorazioni, quali la tricromica modificata di Weber e la colorazione con calcofluoro, che permettono l’identificazione delle spore su feci in tempi più rapidi e senza il ricorso a metodi invasivi; il loro limite è rappresentato dall’impossibilità a giungere ad una diagnosi di specie, importante per orientare prognosi e terapia. Le tecniche di amplificazione genica con il metodo PCR (Polymerase Chain Reaction) eseguite su materiale fecale, che permettono invece il riconoscimento della specie di microsporidi, sono ancora utilizzate solo in laboratori specializzati e gravate da problematiche di standardizzazione; l’impossibilità finora riscontrata di ottenere colture di E. bieneusi contribuisce ulteriormente a renderne problematica la messa a punto. Solo nelle forme causate da microsporidi del genere Encephalitozoon (in particolare nei casi di E. cuniculi ed E. intestinalis) si è dimostrata efficace la terapia con albendazolo prolungata per almeno 4 settimane. Nelle più frequenti infezioni da E. bieneusi l’albendazolo si è rivelato in grado di attenuare solo in alcuni casi la sintomatologia gastroenterica, senza tuttavia ottenere l’eradicazione dell’infezione, mentre nei pazienti con infezione da HIV si è dimostrato efficace in associazione alla terapia antiretrovirale. Isosporiasi Isospora belli è un coccide che parassita l’intestino unicamente dell’uomo. Pressoché ubiquitario, è più diffuso nelle aree tropicali ed in particolare in America Latina. L’infezione si trasmette per via fecale-orale, attraverso l’ingestione di cibi o bevande contaminati da oocisti. I cani sembrano rappresentare un importante serbatoio di I. belli. L’isosporiasi è asintomatica nella maggior parte dei casi; dopo un periodo di incubazione di circa 1 settimana, può tuttavia presentare una sintomatologia caratterizzata da febbre, cefalea, dolori addominali, diarrea con emissione di feci acquose, maleodoranti e ricche di muco. Solitamente il quadro clinico si risolve gradatamente in alcune settimane; nei soggetti immunodepressi, ed in particolare nelle persone con infezione da HIV e grave immunodepressione, l’infezione può tuttavia presentarsi in maniera più grave, con diarrea prolungata e dimagramento progressivo fino alla cachessia. La diagnosi di isosporiasi si basa sulla dimostrazione delle oocisti di I. belli (caratterizzate dalla presenza di due sporocisti contenenti ciascuna quattro sporozoiti) nelle feci esaminate a fresco e contrastate con Lugol, oppure dopo colorazione di Ziehl-Neelsen modificata. Talvolta, caso unico tra i protozoi, può concomitare una eosinofilia più o meno marcata. Buoni risultati terapeu-
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tici sono stati ottenuti con il cotrimoxazolo; nelle persone con AIDS può essere necessaria una terapia cronica soppressiva con una somministrazione settimanale di cotrimoxazolo. Un trattamento alternativo è rappresentato dalla pirimetamina. Ciclosporiasi Cyclospora cayetanensis è un coccide parassita degli enterociti del piccolo intestino, scoperto agli inizi degli anni Novanta come responsabile di diarree a decorso prolungato. A diffusione cosmopolita, risulta più diffuso nelle popolazioni delle aree tropicali ed in coloro che compiono viaggi a tali latitudini; sono state osservate epidemie anche in stati del Nord del mondo, causate dal consumo di cibi contaminati importati dalle aree endemiche. La trasmissione avviene per via fecaleorale. Il quadro clinico si caratterizza per una sindrome diarroica persistente, tanto nei soggetti sani quanto negli immunodepressi: dopo un’incubazione di alcuni giorni-1 settimana, compare una diarrea acquosa a decorso prolungato (1-8 settimane), accompagnata da nausea, anoressia, vomito, dolori addominali, che può determinare un non trascurabile dimagramento. La diagnosi viene posta sul riscontro di oocisti di C. cayetanensis a livello delle feci (esaminate a fresco o con colorazione di Ziehl-Neelsen) o in campioni bioptici di mucosa intestinale, osservati al microscopio elettronico. Il cotrimoxazolo costituisce una discreta terapia. Balantidiasi Balantidium coli è l’unico protozoo appartenente alla classe dei Ciliati coinvolto nella patologia umana. Ubiquitario, anche se più diffuso nelle aree tropicali, è più frequente nelle popolazioni a basso livello igienico e in soggetti defedati (per malnutrizione, altre patologie di base o immunodepressione) che vivono a stretto contatto con i maiali, che ne rappresentano la riserva animale più importante. La trasmissione all’uomo avviene per via fecale-orale, attraverso l’ingestione di alimenti e bevande inquinate da cisti. La balantidiasi può presentare un ampio spettro di sintomi. Asintomatica in oltre l’80% dei casi, può manifestarsi sotto forma di colite cronica e più raramente come dissenteria acuta: nel primo caso, si caratterizza per un alvo alterno, in cui periodi di stipsi fanno seguito ad episodi diarroici con emissione di feci semiliquide, ricche di muco, accompagnati da tenesmo e dolori addominali; nel secondo caso, il quadro clinico è generalmente più grave: l’esordio è brusco e la sintomatologia è sovrapponibile a quella che si osserva in caso di dissenteria amebica (10-15 scariche al giorno di feci liquide muco-ematiche, tenesmo e dolori addominali). Rara è la febbre, così come rare sono le complicanze quali le localizzazioni extraintestinali. La diagnosi si basa sul riscontro delle oocisti di B. coli (o più raramente dei trofozoiti, osservabili soprattutto in caso di accelerato transito intestinale) nelle feci, o nel materiale bioptico prelevato in rettosigmoidoscopia a livello delle ulcere intestinali. La prognosi è
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buona, ad eccezione delle forme iperacute in soggetti particolarmente defedati. Il trattamento si basa sull’utilizzo di tetracicline o metronidazolo.
INFESTAZIONI INTESTINALI DA ELMINTI Geoelmintiasi Con il termine di “geoelmintiasi” si intendono le infestazioni causate nell’uomo da elminti le cui forme larvali infettanti sono particolarmente diffuse nel terreno, a causa dell’elevata fecalizzazione ambientale riscontrabile in aree geografiche di elevata povertà e conseguente basso tenore igienico, e la cui trasmissione avviene per passaggio transcutaneo o ingestione di tali forme infettanti. Fanno parte delle geoelmintiasi infestazioni da nematodi (vermi cilindrici, a sessi separati del phylum Nematelminti) a diffusione cosmopolita e a maggior prevalenza in aree tropicali; le più importanti tra esse sono l’ascaridiasi, l’enterobiasi, l’anchilostomiasi, la tricocefalosi e la strongiloidiasi. Ascaridiasi Viene chiamata ascaridiasi l’infestazione da Ascaris lumbricoides, parassita obbligato dell’uomo. Rappresenta l’infestazione da elminti più diffusa nel mondo. Spesso asintomatica, può provocare in alcuni casi disturbi principalmente a livello del tratto gastroenterico, ma anche nelle ghiandole ad esso annesse (fegato, pancreas), nonché a livello respiratorio nella fase di invasione. A. Epidemiologia. A diffusione cosmopolita, presenta prevalenze più elevate (fino al 70-90% della popolazione) nei paesi tropicali, in cui tanto il basso livello igienico quanto le elevate temperature ed umidità rappresentano condizioni favorenti la maturazione delle larve nel terreno. All’interno delle aree iperendemiche, sono soprattutto i bambini a presentare le infestazioni più gravi, in quanto maggiormente a contatto con il terreno contaminato dall’emissione di feci contenenti uova di A. lumbricoides. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. A. lumbricoides è un nematode, il cui habitat naturale è rappresentato dall’intestino tenue umano. È il verme intestinale di maggiori dimensioni, potendo raggiungere una lunghezza di 20-30 centimetri. Il suo ciclo evolutivo si sviluppa praticamente solo nell’uomo, se non per una piccola parte nel terreno: le uova deposte nell’intestino dalla femmina vengono eliminate con le feci in forma non embrionata; è loro necessario un determinato periodo di permanenza nel terreno, in particolari condizioni di temperatura ed umidità, perché in esse si possa sviluppare l’embrione e possano diventare infestanti. La trasmissione dell’infezione avviene attraverso l’ingestione di cibi o acque contaminate da terreno conte-
nente uova embrionate. Nello stomaco dell’uomo l’azione dei succhi gastrici libera dall’uovo l’embrione, che perforata la parete intestinale, giunge attraverso il circolo portale dapprima al fegato e quindi al cuore destro ed al polmone, dove subisce una prima maturazione. Da lì, risalendo l’albero bronchiale, perviene fino all’altezza della faringe e, imboccando l’esofago, ritorna nello stomaco e nel tenue, dove termina la maturazione del verme adulto. Durante la permanenza nel tenue, alcuni adulti, ed in particolare i maschi, possono penetrare nei dotti biliari, dando origine a localizzazioni erratiche epatiche o pancreatiche. C. Clinica. L’ascaridiasi è frequentemente asintomatica e viene allora riconosciuta grazie all’osservazione delle uova in un esame coproparassitologico sistematico o all’emissione di un verme adulto con le feci e/o con il vomito, come più spesso avviene nei bambini con elevata carica parassitaria. Nei casi sintomatici possono comparire disturbi di tipo allergico e/o meccanico, causati rispettivamente dal passaggio larvale a livello polmonare e dalla persistenza dei vermi adulti nel tubo intestinale. Nella fase di invasione, infatti, può presentarsi la cosiddetta “sindrome di Loeffler” o infiltrato polmonare eosinofilo fugace, caratterizzato da febbricola, tosse secca di tipo asmatiforme, eventuale reazione cutanea di tipo urticarioide, infiltrati polmonari a rapida risoluzione, presenza di eosinofili nell’espettorato. Una volta che i vermi adulti hanno raggiunto il lume intestinale, la loro presenza in numero elevato può associarsi a dolori addominali diffusi o localizzati, nausea, vomito, alvo alterno, anoressia e calo ponderale. Le infestazioni massive, caratteristiche dei paesi dell’area tropicale e più frequenti nei bambini, possono causare quadri clinici gravi: occlusione o subocclusione intestinale, formazione di volvoli, ittero occlusivo, coliche biliari, appendicite acuta, pancreatite, peritonite da perforazione. D. Esami di laboratorio. Nel periodo di invasione (sindrome di Loeffler), è possibile osservare una leucocitosi con eosinofilia (fino al 20-50% di eosinofili). Nella fase di stato la conta e la formula leucocitaria rientrano solitamente nella norma. E. Diagnosi. L’infestazione da A. lumbricoides è confermata dall’osservazione delle caratteristiche uova mammellonate in campioni di feci conservati in formalina e osservati a fresco, oppure dal rinvenimento di un verme adulto all’interno delle feci o più raramente nel vomito. Nella fase di invasione l’esame coproparassitologico risulta solitamente negativo, positivizzandosi solo a distanza di 6-8 settimane dall’avvenuta infestazione. F. Decorso e prognosi. Generalmente a decorso benigno, l’ascaridiasi può complicarsi in caso di infestazioni massive e per le localizzazioni erratiche a livello epatico, pancreatico. G. Terapia. Numerosi sono i farmaci efficaci contro A. lumbricoides, alcuni di più antico utilizzo quali il
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mebendazolo ed il pirantel pamoato, altri di più recente introduzione quali l’albendazolo, ormai preferibile vista l’efficacia della monosomministrazione. Le complicazioni di tipo occlusivo o da migrazione erratica necessitano solitamente un approccio chirurgico in condizioni spesso di urgenza. H. Profilassi. Si basa essenzialmente sul miglioramento dell’igiene personale, degli alimenti ed ambientale; in molte aree iperendemiche per ascaridiasi, tali obiettivi che parrebbero minimali trovano ostacoli insormontabili per essere realizzati. Anchilostomiasi È un’infestazione causata da due specie di Nematodi tra loro molto simili, Ancylostoma duodenale e Necator americanus (riuniti sotto la denominazione di Hookworm), molto diffusa nei paesi dell’area tropicale a clima caldo-umido, ma presente anche nelle regioni temperate. Rappresenta una delle cause di anemia più frequenti nel mondo. A. Epidemiologia. Parassiti obbligati dell’uomo, le due specie sono cosmopolite e spesso presenti simultaneamente, talvolta nel medesimo paziente. N. americanus ha una maggiore diffusione nelle aree tropicali ed è la specie dominante in Africa e in America Latina ad est delle Ande; A. duodenale presenta una diffusione maggiore nel bacino del Mediterraneo, in Medio Oriente e sulla costa occidentale dell’America Latina. In Europa, compresa l’Italia, l’anchilostomiasi è pressoché completamente scomparsa: la necessità di determinate condizioni ambientali (particolari umidità e temperatura, elevata contaminazione fecale del suolo) perché avvenga la maturazione larvale nel terreno, rendono ragione della maggior presenza ed estensione dei focolai nell’area tropicale. L’anchilostomiasi costituisce una vera e propria malattia professionale per alcune tipologie di lavoratori quali i minatori, gli addetti alle fornaci ed il personale coinvolto nell’orticoltura. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. A. duodenale e N. americanus sono morfologicamente molto simili, se non per particolari differenti dell’apparato buccale, estremamente sviluppato in questi nematodi. Il loro ciclo di vita si svolge parte nell’uomo parte nel terreno: i vermi adulti, ematofagi, vivono nel duodeno e nel digiuno dell’uomo, fortemente ancorati alla mucosa per mezzo dei loro imponenti apparati buccali, grazie ai quali assorbono notevoli quantità di sangue. A seconda della specie, la femmina depone giornalmente nell’intestino una quantità variabile di uova, che vengono eliminate con le feci. Se raggiungono terreni favorevoli, caratterizzati da elevata umidità, temperatura compresa tra i 25 e i 30 °C e protezione dai raggi solari, proseguono il loro sviluppo, passando per le fasi di embrione, larva rabditoide, larva strongiloide ed infine infestante. Queste ultime possono rimanere infestanti per mesi, se permangono le condizioni climatiche favorevoli. L’infestazione dell’uomo avviene per via transcutanea (soprattutto attraverso piedi e mani) attraverso il contat-
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to con terreno contaminato e, nel caso di A. duodenale, anche per via orale. La larva infestante raggiunge quindi per via ematica il cuore destro e la circolazione polmonare, da dove passa nel sistema alveolo-bronchiale, quindi nella faringe, da cui raggiunge stomaco e duodeno dove completa la sua maturazione. Nelle donne che allattano è stata descritta anche la migrazione di larve di A. duodenale alle ghiandole mammarie con successiva infestazione del bambino attraverso il latte (fenomeno chiamato “ipobiosi”). L’azione patogena si realizza attraverso un meccanismo complesso, in parte di tipo traumatico (lesione della mucosa e successiva duodenite da ancoraggio dei vermi attraverso le loro capsule buccali), spoliativo (anemia di tipo sideropenico, proporzionale alla gravità dell’infestazione) e tossico. C. Clinica. La sintomatologia è strettamente condizionata dalla carica parassitaria e dalla fase di evoluzione dell’infestazione. Durante la fase d’invasione in sede di penetrazione transcutanea è possibile osservare una eruzione papulare pruriginosa e durante il passaggio polmonare (solitamente 7-10 giorni dopo l’avvenuta infestazione) la sintomatologia tipica della sindrome di Loeffler, già descritta nell’ascaridiasi (febbricola, tosse secca di tipo asmatiforme, eventuale reazione cutanea di tipo urticarioide, infiltrati polmonari a rapida risoluzione, presenza di eosinofili nell’espettorato). La fase di stato, il cui inizio solitamente avviene 40-100 giorni dopo il contagio, è spesso asintomatica, specie nei casi di infestazione a bassa carica quali si verificano per esempio nei viaggiatori in zone endemiche; nelle forme invece ad elevata carica, frequenti nella popolazione residente in area endemica e specialmente nei bambini, si osservano spesso sintomi e segni più o meno importanti di anemia (pallore, facile affaticabilità, dispnea da sforzo, tachicardia, palpitazioni, edemi declivi e perimalleolari), associati a disturbi del tratto gastroenterico di variabile gravità (epigastralgie, nausea, aerofagia e meteorismo, diarrea di lieve-media entità, melena più frequente nei neonati). Raramente si associa l’iperpiressia. D. Esami di laboratorio. Tipica nelle infestazioni a carica parassitaria medio-alta è l’osservazione di una anemia microcitica ipocromica, di origine sideropenica vista l’iposideremia, cui si associa una leucocitosi con discreta eosinofilia, soprattutto nella fase di invasione, e un’ipoprotidemia. E. Diagnosi. L’accertamento definitivo si basa sulla dimostrazione delle uova, dall’aspetto caratteristico (ellittiche, a doppia parete molto sottile, contenenti 4-8 blastomeri) indistinguibile nelle due specie, attraverso un esame parassitologico compiuto su almeno tre campioni di feci raccolti in giorni consecutivi o meglio ancora in giorni alterni. La diagnosi differenziale deve essere posta con altre cause di anemia ipocromica. F. Decorso e prognosi. Come la sintomatologia, anche la prognosi è strettamente correlata alla carica pa-
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rassitaria: buona per le infestazioni a bassa carica, si complica nelle infestazioni massive, soprattutto se associata a fattori aggravanti, quali l’ipoalimentazione. Nei bambini residenti nelle zone di iperendemia, l’anchilostomiasi rappresenta una delle cause di malnutrizione proteino-calorica e di ritardo della crescita. G. Terapia. I farmaci più frequentemente utilizzati sono gli imidazolici, dal tradizionale mebendazolo al più recente albendazolo, attualmente preferibile in quanto utilizzabile in monosomministrazione e gravato da minori recidive. Fino a qualche anno fa veniva utilizzato con discreto successo anche il pirantel pamoato. Nelle aree endemiche anche per schistosomiasi urinaria, può essere utilizzato anche il metrifonato che si dimostra efficace tanto su A. duodenale/N. americanus quanto su Schistosoma haematobium. Sono spesso necessari una terapia marziale e la correzione dello stato di malnutrizione. H. Profilassi. Nelle aree endemiche si basa sulla riduzione della contaminazione fecale del terreno, sulla ricerca dei portatori e sulle misure di protezione individuale, in particolare sull’utilizzo di calzature. Anche ai viaggiatori in area endemica è utile consigliare una protezione adeguata delle parti scoperte del corpo che possono venire eventualmente in contatto con il suolo. Tricocefalosi La tricocefalosi, o infestazione da Trichuris trichiuria, è una geoelmintiasi a diffusione cosmopolita, più frequente nelle aree tropicali, che può rendersi responsabile di una sintomatologia intestinale, anche se è molto spesso asintomatica. A. Epidemiologia. Anche se ubiquitaria, risulta più diffusa nei paesi tropicali, in cui il clima caldo-umido favorisce la maturazione delle uova nel terreno e l’elevata fecalizzazione del suolo agevola il contagio. All’interno delle zone tropicali, presenta prevalenze più elevate in America Centrale e Latina. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. Trichuris trichiuria è un nematode di piccole dimensioni, le cui forme adulte vivono infisse con la loro estremità anteriore filiforme nella mucosa dell’intestino cieco e dell’appendice dell’uomo. Le uova, liberate dalla femmina nel lume intestinale ed eliminate con le feci, non sono embrionate e diventano infestanti solo dopo aver soggiornato alcune settimane nel suolo. Se deglutite, ingerendo alimenti o acque contaminate dal terreno, vengono attaccate dai succhi digestivi e liberano le larve, che maturano in circa 30 giorni infisse nella mucosa del cieco. I disturbi intestinali sono dovuti all’irritazione meccanica della mucosa colica; nelle infestazioni massive può associarsi una sintomatologia da protratto sanguinamento occulto. C. Clinica. Come nell’anchilostomiasi, l’intensità delle manifestazioni cliniche è correlata all’entità dell’infestazione. Nelle infestazioni a bassa carica la trico-
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cefalosi è asintomatica, o può determinare una sintomatologia sfumata, caratterizzata da dolori addominali diffusi, nausea, vomito, alvo alterno con episodi di diarrea semiformata. Nelle infestazioni massive possono comparire disturbi di maggiore gravità, come dolori addominali intensi, diarrea con feci liquide, inappetenza, anemia e progressivo dimagramento. Nei primi anni di vita è di frequente riscontro un prolasso rettale. Raro è invece il riscontro di un’appendicite acuta. D. Esami di laboratorio. Solo nei primi periodi dell’infestazione può comparire una discreta eosinofilia. Nei casi ad elevata carica parassitaria si può osservare spesso un’anemia sideropenica. E. Diagnosi. L’accertamento definitivo si basa sulla dimostrazione delle uova, dall’aspetto caratteristico (a forma di limone, con due tappi polari e doppia parete) attraverso un esame parassitologico compiuto su almeno tre campioni di feci raccolti in giorni consecutivi o meglio ancora in giorni alterni. F. Decorso e prognosi. L’evoluzione è generalmente favorevole, ad eccezione delle sole infestazioni massive accompagnate da anemia e da altre complicazioni intestinali. G. Terapia. Al tradizionale mebendazolo, peraltro ancora efficace, si preferisce ormai l’albendazolo per la notevole efficacia dimostrata anche in monosomministrazione. H. Profilassi. Nelle aree endemiche si basa sulla riduzione della contaminazione fecale del terreno e sulle comuni norme di igiene alimentare. Ossiuriasi (Enterobiasi) L’ossiuriasi, o enterobiasi, è una geoelmintiasi cosmopolita causata da Enterobius vermicularis. Interessa maggiormente i bambini, in cui si manifesta pressoché costantemente con prurito anale. A. Epidemiologia. Ubiquitaria, rappresenta una delle infestazioni più comuni specie nelle comunità infantili. La trasmissione avviene per via fecale-orale; l’autoinfestazione attraverso gli oggetti e soprattutto le mani contaminate dalle uova costituisce la regola. È stata osservata anche la possibilità di una reinfestazione, attraverso la risalita delle larve infestanti dalla cute perianale al tubo intestinale in cui maturano nel verme adulto. La contaminazione importante della biancheria, degli effetti letterecci e dell’ambiente in genere in cui vive il piccolo paziente rendono ragione della facilità del contagio e delle difficoltà che si incontrano nel prevenire la reinfestazione. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. Enterobius vermicularis è un nematode di piccole dimensioni, con un discreto dimorfismo sessuale, parassita obbligato dell’uomo. I vermi adulti vivono nel tratto più distale del tenue, nell’appendice e nel cieco. Le femmine gravide
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migrano nell’ampolla rettale, da dove si spostano, soprattutto durante la notte, per deporre sulla cute perianale le uova già embrionate. Il ciclo biologico si compie nel solo uomo in circa un mese: le uova embrionate, una volta ingerite, maturano senza alcuna migrazione extraintestinale e raggiungono nell’intestino lo stadio di verme adulto. È possibile anche una migrazione delle femmine adulte fino alla vagina. C. Clinica. Il sintomo principale è costituito dal prurito anale, soprattutto notturno, che può esitare da un lato nella formazione di lesioni cutanee perianali da grattamento e dall’altro in eretismo ed insonnia. Nei casi in cui avviene una migrazione alla vagina può associarsi un prurito vulvare, talvolta accompagnato da edema locale e leucorrea. I disturbi intestinali, anche se frequenti, sono aspecifici: alvo alterno, inappetenza, dolori alla palpazione in fossa iliaca destra. Rare sono l’appendicite acuta e la salpingite. D. Esami di laboratorio. Essendo limitata al tubo intestinale, solitamente l’ossiuriasi non determina alcuna alterazione dei comuni esami ematochimici. E. Diagnosi. L’enterobiasi deve essere sempre sospettata in caso di prurito anale, soprattutto nel bambino, e deve essere confermata attraverso la dimostrazione delle uova (embrionate, asimmetriche, a forma di “panino”). Per tale ricerca si dimostra più sensibile del tradizionale esame parassitologico delle feci il metodo dello “scotch test” o “tape test” (metodo di Graham): esso consiste nell’applicazione di una striscia di nastro adesivo per alcuni secondi in più punti della cute perianale, da realizzare al risveglio prima della pulizia del mattino, e dal successivo esame diretto al microscopio di questa striscia adesa ad un vetrino, con la possibile interposizione di una-due gocce di soluzione fisiologica. Anche la sensibilità di questa metodica non è elevatissima, per cui è consigliabile ripeterla almeno 3-4 volte in giorni differenti prima di considerare la ricerca negativa. F. Decorso e prognosi. È sempre favorevole, anche se le reinfestazioni sono molto frequenti, pure nei casi in cui il trattamento ha apparentemente avuto successo. G. Terapia. Numerosi sono i farmaci che continuano ad essere indicati per l’enterobiasi: il pirantel pamoato e gli imidazolici di vecchia e recente introduzione, quali rispettivamente il mebendazolo e l’albendazolo. Qualunque sia il trattamento prescelto, è utile ripeterlo almeno una volta a distanza di 10-15 giorni ed è assolutamente essenziale estenderlo a tutti i membri della famiglia e agli altri contatti stretti, pena la pressoché certa comparsa di recidive a breve e medio termine. Così come è altrettanto importante associare ad esso una serie di misure igieniche personali e familiari (pulizia scrupolosa delle mani, ricambio e lavaggio giornaliero ad elevate temperature, se non addirittura fino all’ebollizione, della biancheria intima e degli effetti letterecci del paziente). In realtà, si osser-
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vano sempre più frequentemente casi di enterobiasi apparentemente resistenti a numerosi trattamenti compiuti consecutivamente o a distanza di tempo con differenti farmaci: si tratta probabilmente di reinfestazioni a partire da contatti stretti che sono sfuggiti al trattamento, e sembrano risolversi con più cicli settimanali di albendazolo. H. Profilassi. Si basa sul trattamento presuntivo e sull’osservazione delle più accurate norme igieniche all’interno dell’ambiente familiare e degli altri contatti stretti. Strongiloidiasi Per strongiloidiasi si intende la geoelmintiasi causata da Strongyloides stercoralis, a diffusione cosmopolita, e da Strongyloides fulleborni kellyi, presente solo in alcune aree tropicali quali la Nuova Guinea. Nei casi sintomatici è caratterizzata dalla compresenza di alterazioni gastroenteriche e cutanee, causate da differenti stadi di maturazione del parassita. Nei soggetti con infezione da HIV è considerata un’infezione opportunistica, capace di determinare in alcuni casi infestazioni disseminate. A. Epidemiologia. Infestazione cosmopolita (si stima che nel mondo gli individui infestati siano 100-200 milioni), la strongiloidiasi è maggiormente diffusa nei paesi caldi e umidi, dove presenta prevalenze molto differenti anche tra aree di una medesima regione, potendo giungere ad interessare fino all’85% della popolazione. È endemica in Italia, non solo nelle regioni meridionali e insulari, ma anche in quelle settentrionali come Lombardia e Veneto. L’uomo ne rappresenta l’unico serbatoio. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. Strongyloides stercoralis (analogo discorso vale anche per il più raro Strongyloides fulleborni kellyi), è un nematode di piccole dimensioni e dal ciclo riproduttivo abbastanza complesso, comprendente forme a parassitismo obbligato e a vita libera. La trasmissione all’uomo avviene per via transcutanea per contatto con suoli caldo-umidi, nei quali sono presenti le larve filariformi o strongiloidi infestanti. Una volta penetrate nell’organismo, esse subiscono una migrazione analoga a quella osservata nell’anchilostomiasi (cute, circolo vascolare, cuore destro, polmoni, trachea, esofago, duodeno), nel corso della quale subiscono processi di maturazione. È a livello duodeno-digiunale che il verme adulto termina il proprio sviluppo e si stabilisce all’interno delle cripte e nello spessore della mucosa. Ed è all’interno del tubo intestinale che, dopo l’inseminazione da parte del maschio, ma probabilmente anche attraverso meccanismi partenogenetici, la femmina depone le uova, da cui si sviluppano le larve rabditoidi che vengono emesse con le feci. Questo primo stadio larvale può seguire tre differenti sviluppi: qualora trovi nell’ambiente esterno particolari condizioni di temperatura (superiore ai 20 °C) ed umidità elevate, può svilupparsi in verme adulto a vita libera, da cui potranno originare altre larve rabditoidi e suc-
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cessivamente altri vermi adulti, o larve filariformi infestanti; se le condizioni climatiche esterne non sono ottimali, le larve rabditoidi possono evolvere solo in larve filariformi infestanti; è infine possibile anche l’autoreinfestazione senza la maturazione delle larve al suolo, ma attraverso lo sviluppo di larve infestanti direttamente a livello intestinale ed il loro passaggio diretto al circuito migratorio maturativo attraverso la parete intestinale e/o la cute perianale. Nei soggetti immunocompetenti, l’azione patogena di S. stercoralis si realizza principalmente nel duodeno: la deposizione delle uova nelle cripte ghiandolari determina la formazione di edema e microulcerazioni a livello della mucosa, con conseguente danno all’assorbimento intestinale; nelle infestazioni massive si possono osservare reazioni granulomatose periovulari, ostruzione di linfatici e vasi sanguigni da parte delle larve, con conseguente atrofia della mucosa, e sovrainfezioni batteriche. Nei soggetti immunocompromessi (in caso di malnutrizione proteino-calorica, ustioni, emolinfopatie, HIV, chemioterapia, radioterapia e trattamento steroideo ad elevati dosaggi), è più facile osservare tanto autoinfestazioni continue quanto iperinfestazioni con disseminazione delle larve in numerosi organi (soprattutto a livello epatico, polmonare e cerebrale), spesso associate a sepsi da enterobatteri trasportati in circolo dalle larve di S. stercoralis. C. Clinica. L’infestazione, soprattutto se a bassa carica parassitaria, può essere asintomatica. Una sintomatologia può comparire nella fase d’invasione, tanto in sede di penetrazione transcutanea sotto forma di dermatite papulare, quanto durante il passaggio polmonare con le caratteristiche di una sindrome di Loeffler solitamente discreta. Nella fase di stato, che si presenta circa 30 giorni dopo l’avvenuta infestazione, può essere presente la classica triade sintomatologica, rappresentata da dolori addominali, diarrea e lesioni cutanee. Nell’80% dei casi si manifestano infatti dolori addominali a tipo epigastralgia, dispepsia, dolori periombelicali. Nel 75% dei casi si osserva una steatorrea che può evolvere fino ad una vera e propria dissenteria. Le lesioni cutanee evidenziabili sono infine di due tipi e sono rappresentate da occasionali eruzioni urticarioidi pruriginose e, nelle autoinfestazioni, dalla più frequente migrazione sottocutanea (75% casi) o “larva currens”, una dermatite lineare “rampante” pruriginosa a progressione rapida (qualche centimetro al dì) localizzata soprattutto a livello della regione perianale, addominale (periombelicale) e alle cosce. Nei soggetti immunodepressi sono frequenti le forme maligne, che possono presentarsi con quadri di colite ulcerosa acuta-subacuta (dissenteria, ittero), ileo paralitico, polmonite, meningoencefalite a liquor torbido da sovrainfezione batterica, shock settico (pure da sovrainfezione). D. Esami di laboratorio. Nel 90% dei casi sono presenti segni di attivazione della risposta immunitaria: un’eosinofilia discreta o elevata (fino al 30-40%) ed un aumento delle IgE totali.
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E. Diagnosi. La conferma diagnostica si basa sulla dimostrazione delle larve rabditoidi (caratterizzate da un rigonfiamento piriforme lungo il tubo digerente) attraverso l’esame coproparassitologico eseguito su almeno cinque campioni raccolti in giorni consecutivi o meglio ancora in giorni alterni. Le uova (simili a quelle di Hookworm, ma più spesso già embrionate) sono più raramente riscontrabili nelle feci, se non nei casi a transito intestinale accelerato o nelle infestazioni da S. fulleborni; altrettanto si può dire delle larve strongiloidi o filariformi. La sensibilità dell’esame diretto delle feci è solo del 20-50% su un solo campione e le tradizionali tecniche di concentrazione (metodo di Ritchie o al formolo-etere, metodo di flottazione) sono inappropriate per la ricerca delle larve: si rivela utile il metodo di Baermann, non routinario in tutti i laboratori di microbiologia. Le larve rabditoidi possono essere ricercate anche con l’Enterotest e il sondaggio duodenale, ritenuti da molti più sensibili dell’esame coproparassitologico. La maggior parte dei soggetti immunocompetenti con strongiloidiasi presenta un titolo anticorpale contro antigeni di S. stercoralis, rilevabili con metodi immunoenzimatici. Nel sospetto di forme disseminate in soggetti immunodepressi le larve infestanti possono essere ricercate, oltre che nelle feci, anche nell’escreato, nel liquor, nelle urine. F. Decorso e prognosi. Pur se gravata da frequenti recidive, la prognosi è buona nei soggetti immunocompetenti. Negli immunocompromessi, invece, le forme disseminate presentano una mortalità elevata, superiore al 97% in assenza di terapia e dell’ordine del 50% dopo il trattamento con tiabendazolo; in questi casi la riduzione degli eosinofili, altrimenti considerata un indice di efficacia terapeutica, rappresenta un segno prognostico sfavorevole. G. Terapia. Fino a pochi anni fa i trattamenti farmacologici disponibili non si dimostravano sempre efficaci nell’eradicare l’infestazione, anche se utilizzati in cicli prolungati e ripetuti: i tradizionali imidazolici, come il mebendazolo, presentavano indici terapeutici non soddisfacenti, ed anche nuovi imidazolici con spettro più mirato, come il tiabendazolo e l’albendazolo, non sembravano in grado di eradicare l’infestazione. Inoltre il tiabendazolo si è rivelato un farmaco particolarmente tossico per molti pazienti mentre l’albendazolo, pur se meglio tollerato, si è dimostrato meno efficace. Un importante passo in avanti è stato ottenuto con l’utilizzo dell’ivermectina, farmaco da tempo utilizzato per la terapia di alcune filariosi (l’oncocercosi in particolare) e che rappresenta ora il trattamento di prima scelta tanto per la sua efficacia quanto per la praticità della monosomministrazione. Qualunque sia il farmaco utilizzato, negli immunocompromessi la terapia deve essere proseguita per un periodo più prolungato. H. Profilassi. Come per le altre geoelmintiasi, si basa su interventi che riducono la contaminazione fecale del terreno e sulle misure di protezione individuale.
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INFESTAZIONI INTESTINALI DA PLATELMINTI TREMATODI Schistosomiasi intestinale È una malattia parassitaria caratterizzata da disturbi intestinali più o meno sfumati, spesso accompagnati da alterazioni epatiche e ipertensione portale. È causata dall’infestazione da Platelminti del genere Schistosoma; le specie più frequentemente coinvolte sono rappresentate da S. mansoni, S. intercalatum, S. japonicum, S. mekongi. Molto più raramente l’agente patogeno è costituito da S. haematobium, responsabile soprattutto della schistosomiasi genito-urinaria. A. Epidemiologia. La schistosomiasi rappresenta una delle più importanti elmintiasi umane: si suppone infatti che siano circa 150-200 milioni le persone infestate dagli schistosomi. S. mansoni è presente in tutta l’Africa subsahariana e in Egitto, dove sta a poco a poco sostituendosi a S. haematobium a causa delle modificazioni climatiche introdotte dalla costruzione della grande diga di Assuan; diffuso anche in Medio Oriente, rappresenta l’unica specie di Schistosoma presente in America Centrale e Latina (Nordest brasiliano, Suriname, Antille). S. intercalatum è invece circoscritto in focolai limitati nel solo continente africano. S. japonicum è diffuso in Estremo Oriente: eradicato dal Giappone, è endemico nella Repubblica Popolare Cinese, nelle Filippine e in focolai limitati in Indonesia. S. mekongi è endemico nella Penisola Indocinese (Laos, Thailandia, Cambogia). B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. Gli schistosomi sono gli unici Platelminti Trematodi non ermafroditi: oltre che sessi separati, posseggono infatti uno spiccato dimorfismo sessuale (il maschio ha forma piatta, la femmina è cilindrica e perennemente alloggiata nel canale ginecoforo maschile). Quattro sono le specie ritenute responsabili nell’uomo della schistosomiasi intestinale (S. mansoni, S. intercalatum, S. japonicum e S. mekongi); le ultime due sono state tra loro differenziate solo negli ultimi decenni. Molto raramente anche S. haematobium, normalmente responsabile della schistosomiasi genito-urinaria, può localizzarsi a livello dei plessi venosi perintestinali e determinare una sintomatologia gastroenterica. Presentano un ciclo di vita notevolmente complesso. I vermi adulti, molto longevi (fino a 30 anni di vita), vivono in copula pressoché continua nei plessi venosi perintestinali, tributari del sistema della vena mesenterica superiore o inferiore. Una volta piena di uova, la femmina abbandona il canale ginecoforo maschile e raggiunge nuotando controcorrente le più fini diramazioni del sistema venoso perintestinale, dove depone centinaia di uova embrionate ogni giorno. Queste, grazie allo sperone di cui è munita la loro superficie esterna e all’emissione di enzimi litici, cercano di raggiungere il lume intestinale, passando attraverso la parete vascolare ed intestinale, e vengono eliminate con le feci dopo alcuni giorni-settimane dalla
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loro deposizione. Alcune, tuttavia, possono venire embolizzate nella circolazione portale e giungere così al fegato, o più raramente in altri organi-filtro quali i polmoni. Le uova emesse con le feci, se raggiungono l’habitat idoneo rappresentato da acque dolci caratterizzate da particolari condizioni di temperatura, luminosità e velocità della corrente, liberano la larva in esse contenuta (miracidio), la quale cerca di raggiungere con un movimento attivo l’ospite intermedio, costituito da un mollusco di specie differente a seconda della specie di Schistosoma. Nel mollusco la larva subisce numerosi cicli di replicazione asessuata e maturazione (con la formazione di redie, redie figlie e cercarie), che portano alla formazione della larva infestante o furcocercaria: questa, grazie alla coda bifida (“a forca”) di cui è dotata, nuota attivamente alla ricerca dell’ospite definitivo (uomo e altre specie di animali). Ad esso la schistosomiasi è trasmessa attraverso l’ingresso delle furcocercarie per via transcutanea durante l’immersione prolungata (in corso di un bagno o di un guado) di parti del corpo in acque dolci e non vorticose (fiumi di portata non elevata, canali di irrigazione, laghi naturali o artificiali). Una volta penetrata nel sottocute, la larva infestante perde la coda e viene trasportata per via ematica nella circolazione sistemica e quindi al cuore destro e al circolo polmonare. Da qui, dopo aver subito un processo maturativo, giunge per vie ancora non note alla circolazione portale, in cui completa la maturazione a verme adulto e, risalendo controcorrente fino al sistema delle mesenteriche, inizia l’attività riproduttiva sessuata con la fecondazione e la deposizione di uova. Il tempo che intercorre tra la penetrazione transcutanea delle larve infestanti e la deposizione delle prime uova è di circa 6-8 settimane. Le singole specie di Schistosoma presentano alcune caratteristiche distintive nel loro ciclo vitale: nel caso di S. mansoni, per esempio, i vermi adulti vivono nei plessi venosi tributari della mesenterica inferiore, le uova presentano il caratteristico sperone in sede laterale e l’ospite intermedio è rappresentato da molluschi acquatici piatti (Planorbidae) del genere Biomphalaria; nel caso di S. intercalatum, i vermi adulti vivono principalmente nel sistema venoso perirettale, le uova presentano un grosso sperone terminale e l’ospite intermedio è un mollusco acquatico del genere Bulinus; in caso di S. japonicum e S. mekongi, infine, gli adulti vivono nelle diramazioni della vena mesenterica superiore, le uova sono munite di un piccolo sperone laterale, spesso difficilmente visibile e contenuto in una rientranza della parete, e l’ospite intermedio è costituito rispettivamente da un mollusco anfibio del genere Onchomelania e dal mollusco acquatico Tricula aperta. Sono le uova che non riescono a raggiungere il tubo intestinale ad essere responsabili della maggior parte della patologia causata dagli schistosomi. Nella parete colica l’irritazione cronica determinata dalle uova imprigionate nella sottomucosa e nella mucosa, e dagli antigeni da essi liberati, determina la formazione di granulomi e conseguenti processi riparativi fibrotici. Nel fegato si osservano lesioni prevalentemente periportali, dovute alla formazione di granulomi eosinofi-
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li periovulari ed alla successiva deposizione di tessuto di riparazione: ne deriva una fibrosi periportale caratteristica (fibrosi di Symmers), che causa ipertensione portale e conseguenti splenomegalia e circoli collaterali. La funzione epatocellulare è solitamente ben conservata, per cui è rara l’evoluzione cirrogena se non in presenza di altre infezioni epatiche sovrapposte, quali le epatiti croniche da HBV e HCV; un discorso a parte merita S. japonicum, che sembra essere maggiormente epatotossico ed in grado di determinare autonomamente quadri di cirrosi. Una volta formatesi anastomosi porto-cavali, le uova possono più facilmente raggiungere il circolo ed il parenchima polmonare, in cui determinano la formazione di granulomi eosinofili periovulari, analoghi a quelli intraepatici se non per una loro maggiore risposta alla terapia (legata probabilmente alla loro differente composizione in termini di sottopopolazioni linfocitarie), cui fa seguito la deposizione di fibrosi ed il progressivo instaurarsi di ipertensione polmonare e cuore polmonare cronico. Un ruolo patogenetico è ormai accertato anche per i vermi adulti, che contribuiscono, con gli antigeni che continuamente liberano, alla formazione di una glomerulonefrite membranosa da deposizione di immunocomplessi circolanti antigene-anticorpo: nella patogenesi di questa lesione sembra comunque che rivestano un ruolo significativo non tanto e non solo gli immunocomplessi che coinvolgono antigeni di Schistosoma spp, quanto soprattutto tutta la quantità di immunocomplessi di altra origine che non riescono più a passare a livello epatico per essere eliminati, a causa delle alterazioni circolatorie determinate dall’ipertensione portale. Analogamente a quanto avviene a livello renale, è possibile osservare una deposizione di immunocomplessi anche a livello di altri sistemi-filtro, quali i plessi coroidei: è difficile però attribuire un ruolo patogeno a questi depositi, dato che la funzionalità cerebrale può essere già più o meno pesantemente compromessa dalle alterazioni metaboliche conseguenti all’ipertensione portale. D. Clinica. L’infestazione da Schistosoma spp può determinare l’insorgere di quadri sintomatologici in diverse fasi del ciclo evolutivo del platelminta ed a differente distanza di tempo dal momento del contagio. 1. Dermatite da cercarie. In corrispondenza della penetrazione transcutanea della furcocercaria può comparire una dermatite maculo-papulare pruriginosa, che può sovrainfettarsi e complicarsi con lesioni da grattamento; si osserva anche in caso di penetrazione transcutanea di specie di schistosomi non in grado di proseguire la loro infestazione nell’uomo (la cosiddetta “dermatite dei nuotatori”). 2. Febbre di Katayama. È più frequente nelle infestazioni da S. japonicum (Katayama è il nome del piccolo villaggio giapponese in cui è stata descritta per la prima volta), in misura minore in quelle da S. mansoni. È in assoluto la causa più frequente di febbre associata a eosinofilia che si manifesti durante un viaggio in area tropicale o nelle settimane immediatamente successive in
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persone che abbiano fatto bagni, o siano state immerse anche solo con i piedi per un periodo non eccessivamente breve, in acque infestate da schistosomi. Si caratterizza per una febbre continua o continuo/remittente a comparsa precoce dopo l’infestazione (1-6 settimane) e autorisolventesi dopo 1-2 settimane; all’iperpiressia possono associarsi cefalea, artromialgie e sudorazioni notturne. Oltre alla febbre è sempre presente una sintomatologia di tipo allergico, costituita da tosse asmatiforme, eruzione cutanea urticarioide pruriginosa prolungata, edemi al volto, palpebre e perimalleolari. Più raramente possono associarsi anche dolori addominali, una diarrea acquosa o sanguinolenta, astenia e anoressia. Sono descritti casi di “Katayama parziale”, legati alla persistenza per mesi o anni di una reazione allergica ad antigeni di schistosomi anche dopo l’esecuzione di uno o più cicli terapeutici e probabilmente dovuti alla presenza di qualche coppia di vermi adulti sopravvissuta alla terapia e/o al mantenimento di una reazione immunitaria di tipo allergico, pur dopo la completa eliminazione dei vermi adulti. Sono caratterizzati dalla persistenza di tosse secca asmatiforme a mesi-anni dal trattamento e dalla ricomparsa periodica di prurito cutaneo. 3. Fase di stato. È caratterizzata da una sintomatologia acuta e cronica a livello intestinale e dalla successiva comparsa di un quadro clinico secondario all’interessamento cronico a livello epatico: in molti casi l’infestazione rimane asintomatica per decenni, fino alla comparsa della sintomatologia tipica della fase cronica epatosplenica. L’interessamento intestinale inizia solitamente a distanza di 40-60 giorni dall’avvenuta infestazione e presenta solitamente una sintomatologia sfumata caratterizzata da episodi di diarrea; nelle infestazioni massive può invece comparire una franca dissenteria con l’emissione di feci muco-sanguinolente, eventuale successiva anemizzazione e conseguente astenia. Sono frequentemente associati dolori addominali, nausea, meteorismo e tenesmo rettale. La tendenza alla cronicizzazione è elevata, con periodi evolutivi alternati a fasi di stabilizzazione; con il passare degli anni la mucosa intestinale va incontro a fenomeni tanto di tipo iperplastico con formazione di pseudopolipi intestinali, quanto di genere sclerotico con la possibilità di complicanze più gravi rappresentate da subocclusione, prolasso rettale, fistolizzazioni ed enterorragie. S. intercalatum, il meno patogeno degli schistosomi umani, può frequentemente determinare un quadro noto come “schistosomiasi rettale”: asintomatica nella maggior parte dei casi, può presentarsi con una sindrome dissenterica dolorosa accompagnata da tenesmo e pseudopoliposi rettale. Il pericolo maggiore per la vita del paziente è tuttavia rappresentato dall’interessamento epatico (schistosomiasi epatosplenica), che si presenta solitamente a distanza di decenni dall’avvenuto contagio e particolarmente nelle infestazioni massive. Si caratterizza per la presenza di epatosplenomegalia, ipertensione portale, varici esofagee, ascite e plurimi episodi di ematemesi; l’evoluzione in cirrosi è tuttavia rara e più frequente nei casi con sovrapposta epatite da HBV e/o HCV. S. japo-
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nicum e S. mekongi causano un danno epatico più precoce e più frequente di S. mansoni, per cui è più facile l’evoluzione in cirrosi anche in assenza di altre infezioni epatiche. In seguito all’embolizzazione di uova nel circolo polmonare, più frequente nei casi di ipertensione portale, può presentarsi una “schistosomiasi cardiopolmonare”, caratterizzata da crisi asmatiformi ricorrenti e da un quadro radiologico similtubercolare, che può evolvere verso l’ipertensione polmonare e il cuore polmonare cronico. Nei soggetti con ipertensione portale e la formazione di circoli collaterali, può presentarsi un’insufficienza renale cronica da glomerulonefrite membranosa secondaria al deposito di immunocomplessi circolanti. Rare sono le localizzazioni ectopiche di uova embolizzate, che possono determinare la comparsa di mieliti trasverse. Ugualmente rari sono i casi di sepsi recidivanti da salmonelle, conservate nel tubo intestinale dei vermi adulti e da lì periodicamente embolizzate in circolo. Nelle infestazioni da S. japonicum sono infine descritti casi con un danno cerebrale secondario all’embolizzazione di uova al cervello in presenza di insufficienza epatica: si manifestano con crisi convulsive, amaurosi e segni di coma epatico. D. Esami di laboratorio. Nella fase di invasione o febbre di Katayama è costante il riscontro di un’eosinofilia elevata (fino al 40-50%) e di un aumento delle IgE totali. Nella fase di stato l’eosinofilia è più rara; può essere talvolta osservata un’ipoalbuminemia da danno intestinale. E. Diagnosi. Nella fase di invasione o febbre di Katayama il sospetto è posto in base al riscontro di alterazioni degli esami ematochimici e immunologici sopraccitati (emocromo con formula leucocitaria per la ricerca della tipica eosinofilia, dosaggio delle IgE totali), mentre la diagnosi di certezza è ottenuta grazie alla dimostrazione nel siero di anticorpi contro Schistosoma spp attraverso differenti metodiche (i test attualmente più utilizzati si basano sul metodo ELISA, che presenta una sensibilità molto elevata ed un’ottima specificità. In questa fase, invece, l’esame coproparassitologico risulta sempre negativo, in quanto i vermi adulti non sono ancora giunti a maturazione e non hanno iniziato a deporre le uova. Nei casi sopra descritti di “Katayama parziale” è frequente l’osservazione di una sierologia per Schistosoma spp persistentemente elevata se non in aumento, in assenza di riscontro di uova nelle feci. Nella fase di stato la schistosomiasi intestinale si diagnostica attraverso la ricerca delle caratteristiche uova con l’esame coproparassitologico eseguito su almeno tre campioni di feci fissate in formalina, raccolti in giorni consecutivi o meglio ancora alterni a distanza di almeno un mese dalla probabile infestazione. Su tali campioni è utile eseguire tecniche di concentrazione, per aumentare la ridotta sensibilità della metodica: oltre alla semplice sedimentazione, sono indicate la concentrazione al formolo-etere (meglio conosciuta come “metodo di Ritchie”) e la tecnica di Kato-Katz, che permette di esaminare un maggior quantitativo di feci e viene perciò utilizzata in indagini epidemiologiche di
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massa per la determinazione della carica parassitaria fecale; è invece sconsigliata la più semplice tecnica di flottazione, in quanto non permette di evidenziare i platelminti trematodi quali gli schistosomi. La sierologia per Schistosoma spp permane positiva per tutta la fase di stato ed anche per un lungo periodo successivo all’eradicazione dell’infestazione; la valutazione periodica del titolo anticorpale può essere utile nel monitorare il follow-up post-terapeutico. L’osservazione, in soggetti residenti o provenienti da area endemica, di elevati titoli anticorpali, pur in assenza di un riscontro di uova di schistosomi nelle feci, depone per un’infestazione e rappresenta un’indicazione terapeutica. Nell’ultimo decennio si è acquisita una notevole esperienza nell’utilizzo dell’ecografia per la diagnosi e la valutazione periodica delle lesioni epatiche della schistosomiasi epatosplenica: le variazioni osservabili a livello della fibrosi periportale e del diametro della vena porta sono considerate un criterio importante nel monitoraggio tanto dell’evoluzione del danno epatico quanto dell’efficacia terapeutica. Nella fase di invasione la diagnosi differenziale va posta con altre patologie che possono causare una reazione allergica più o meno generalizzata: tra le infestazioni da elminti vanno prese in considerazione le geoelmintiasi (ascaridiasi, anchilostomiasi e soprattutto strongiloidiasi). Nelle fasi acute del periodo di stato si devono considerare le altre cause infettive di dissenteria (in particolare amebiasi e shigellosi), così come la rettocolite ulcerosa e le neoplasie del colon. Nelle fasi avanzate in cui predomina la sintomatologia epatica, occorre differenziare la schistosomiasi da altre cause di ipertensione portale e di cirrosi epatica. F. Decorso e prognosi. Il decorso è benigno nelle infestazioni a bassa carica parassitaria. Nei casi di infestazione da S. mansoni la prognosi è buona anche nelle fasi avanzate della schistosomiasi epatosplenica, in cui l’introduzione della terapia antielmintica permette di bloccare la deposizione di tessuto fibrotico a livello periportale; pur in presenza di ipertensione portale e varici esofagee, è possibile osservare plurime ematemesi non mortali. In questi casi l’evoluzione in cirrosi è rara se non è compresente un’altra infezione epatica, in particolare un’epatite cronica da HBV e/o HCV. Una prognosi peggiore si osserva solitamente nelle infestazioni da S. japonicum e S. mekongi, responsabili di un danno epatico più facilmente evolvente in cirrosi anche in assenza di coinfezioni epatiche. G. Terapia. In tutte le forme di schistosomiasi, farmaco di prima scelta è il praziquantel, efficace su tutti gli schistosomi umani anche nella fase cronica epatosplenica. La sua efficacia terapeutica, pur elevata, si dimostra variabile nelle differerenti forme e dipende dall’intensità dell’infestazione: la monosomministrazione, per esempio, e/o l’assunzione in due prese in una singola giornata sono consigliate rispettivamente nel trattamento di massa e nella febbre di Katayama o nelle infestazioni lievi; nelle forme da S. japonicum e S. mekongi il praziquantel dev’essere invece utilizzato ad un dosaggio maggiore ed
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in più prese giornaliere che nel caso di S. mansoni e S. intercalatum; nelle infestazioni massive, infine, e nel cosiddetto “Katayama parziale”, è utile proseguire la terapia per almeno 3 giorni ed eventualmente ripetere un ciclo a distanza di 1-2 mesi. In presenza di una significativa sintomatologia allergica, è utile associare al praziquantel anche una terapia steroidea. L’efficacia del trattamento è valutata dalla scomparsa di uova dalle feci in più campioni (almeno 3) raccolti in giorni consecutivi o meglio ancora alterni a distanza di 2 settimane-1 mese dal termine della terapia o dalla diminuzione significativa del titolo anticorpale osservata dopo alcuni mesi dall’assunzione del praziquantel. Se è presente eosinofilia, se ne osserva la rapida riduzione entro qualche mese dalla terapia, specie nel caso della febbre di Katayama. Alternativi al praziquantel, in quanto meno costosi anche se gravati da più insuccessi terapeutici, sono l’oxamnichina, efficace contro il solo S. mansoni, e il metrifonato, utilizzato contro S. haematobium specie nelle aree iperendemiche anche per anchilostomiasi che sembra ben rispondere a tale farmaco. H. Profilassi. Si basa sulla lotta chimica e biologica ai molluschi ospiti intermedi degli schistosomi, sull’educazione sanitaria delle popolazioni residenti in area endemica (sensibilizzazione a non defecare nei corsi d’acqua e a non bagnarsi in acque sospette) e sulla chemioprofilassi di massa eseguita 1-2 volte all’anno. Obiettivo di quest’ultima non è tanto quello di eradicare l’infezione nella popolazione, quanto quello di ridurre la carica parassitaria specie in quella parte di popolazione, i bambini in età scolare, più facilmente esposti a plurime infestazioni e portatori perciò delle cariche parassitarie più elevate.
INFESTAZIONI INTESTINALI DA PLATELMINTI CESTODI Teniasi e cisticercosi Con il termine di “teniasi” si intende l’infestazione dell’intestino umano da parte delle forme adulte di Taenia solium (la tenia del maiale) e di Taenia saginata (la tenia dei bovini), mentre per “cisticercosi” si intende l’infestazione disseminata dell’uomo (localizzata più frequentemente a livello cerebrale, muscolare, oculare) da parte delle larve di Taenia solium. A. Epidemiologia. T. solium e T. saginata sono ubiquitarie e frequenti non solo nei paesi tropicali ma anche in Europa, Italia compresa; nel nostro paese sono più diffuse nelle regioni meridionali e comunque in tutte le aree in cui è elevato il consumo di carne ed in particolare di insaccati prodotti artigianalmente e non sottoposti ai controlli della normale distribuzione. Sono infestazioni iperendemiche in Messico e in molte regioni dell’America Centrale e Latina, in Africa, in alcune aree del subcontinente indiano e nel Sud-Est asiatico.
B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. T. solium e T. saginata sono Platelminti Cestodi, i cui vermi adulti possono raggiungere notevoli dimensioni (oltre i 10 metri nel caso di T. saginata) e sono morfologicamente suddivisibili in una testa o scolice, “armata” nel caso di T. solium (caratterizzata cioè dalla presenza di uncini oltre che di quattro ventose) e “non armata” nel caso di T. saginata (caratterizzata solo dalla presenza di quattro ventose), un collo ed un corpo o strobila segmentato in migliaia di proglottidi. Ciascuna di queste possiede un apparato sessuale ermafrodito e rappresenta un contenitore ripieno di uova; le proglottidi di T. saginata sono solitamente emesse con le feci raggruppate e sono dotate di motilità autonoma, mentre quelle di T. solium sono immobili ed emesse individualmente. Le uova, o meglio gli embriofori, sono indistinguibili nelle due specie; di forma rotondeggiante e a doppia parete “radiata”, contengono l’embrione esacanto. Una volta emesse con le feci dall’individuo parassitato a livello intestinale dal verme adulto, le proglottidi si rompono nell’ambiente esterno e disseminano le uova nel terreno; se ingerite dall’ospite intermedio (il maiale per T. solium e il bue per T. saginata), dopo la digestione della parete operata a livello gastrico esse liberano l’embrione esacanto, il quale attraversa la parete intestinale e disseminandosi per via ematica va ad incistarsi nel tessuto muscolare in forma larvale (come Cysticercus bovis nel caso di T. saginata e Cysticercus cellulosae nel caso di T. solium). L’uomo si infesta ingerendo le larve contenute nella carne contaminata di bue o di maiale, cruda o poco cotta. Giunto nel duodeno, il cisticerco estroflette lo scolice, si fissa alla parete intestinale e si sviluppa in verme adulto in circa 3 mesi; le prime proglottidi possono quindi comparire nelle feci a distanza di 2-3 mesi dal pasto infestante. Solitamente il soggetto parassitato ospita nel proprio intestino un solo verme adulto, per cui questi cestodi vengono comunemente chiamati “vermi solitari”: questo sembra sia dovuto ad una specie di “immunità di presenza”, per cui il primo verme fissato alla mucosa intestinale impedisce lo sviluppo di altri vermi della stessa specie, probabilmente per fenomeni di competizione alimentare. Oltre che ospite definitivo delle due tenie, l’uomo può rappresentare anche l’ospite intermedio di larve di T. solium: come nel maiale, l’infestazione avviene per l’ingestione non di larve ma di uova, che liberano nello stomaco l’embrione esacanto, il quale raggiunge per via ematica gli organi bersaglio costituiti in ordine di frequenza dall’encefalo (parenchima, meningi, ventricoli), dall’occhio e dai muscoli scheletrici; rara è la localizzazione intraepatica ed ancor più rara, anche se descritta, quella cardiaca. L’ingestione di uova può essere accidentale e verificarsi attraverso le mani di un soggetto con una teniasi intestinale; nei portatori di un verme adulto può anche aver luogo l’autoinfestazione, tanto per via endogena (grazie al rigurgito di proglottidi o di uova dall’intestino allo stomaco e la successiva liberazione dell’embrione ad opera dell’azione del succo gastrico) quanto per via esogena (per trasporto passivo di uova dall’ano alla bocca attraverso le mani). A livello intestinale il verme adulto esercita un’azio-
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ne traumatica, irritante, tossica e soprattutto spoliatrice; nelle sedi in cui si incista, il cisticerco determina invece una reazione infiammatoria e fibrotica, caratterizzata dalla presenza di neutrofili ed eosinofili e dalla tendenza alla connettivizzazione. Il numero di formazioni vescicolari può variare notevolmente nel soggetto parassitato, da 1-2 a diverse centinaia; anche le cisti morte e più o meno calcificate possono essere responsabili di fenomeni morbosi. C. Clinica. Asintomatica nella maggior parte dei casi, la teniasi può causare una sintomatologia sfumata, rappresentata da lieve dispepsia, vaghi dolori addominali, meteorismo, modeste alterazioni dell’alvo; nelle infestazioni di lunga data può associarsi progressivo dimagramento. Tanto nei soggetti effettivamente parassitati quanto in coloro che suppongono di albergare una tenia, si può osservare la cosiddetta “sindrome da invasione”, costituita da alterazioni del carattere quali irritabilità, senso di agitazione, crisi isteriche, insonnia. Differente è la presentazione clinica della cisticercosi, in cui la presenza e la tipologia dei disturbi sono strettamente correlate alla sede ed al numero delle formazioni larvali: asintomatica nella maggior parte delle localizzazioni muscolari, se non per vaghi dolori ed astenia, in sede oculare può causare un quadro di iridociclite, distacco di retina, dolore, scotomi, mentre a livello cerebrale si presenta solitamente con una sintomatologia da processo espansivo intracranico rappresentata da cefalea, crisi epilettiche, episodi confusionali, turbe del linguaggio ed altri segni di interessamento neurologico puntiforme. D. Esami di laboratorio. Raramente nella teniasi, ed ancor più di rado nella cisticercosi, specie nel primo periodo dell’infestazione si può osservare una lieve o discreta eosinofilia, così come un aumento delle IgE totali. E. Diagnosi. La diagnosi di teniasi si basa sul riscontro di proglottidi e di uova nelle feci, sulla cute perianale (donde la discreta sensibilità anche dello scotch-test) o nella biancheria intima del paziente; l’importante distinzione tra T. solium e T. saginata non può essere realizzata a partire dalle uova, ma solo sulla base della eventuale mobilità delle proglottidi (presente solo in caso di T. saginata) e sul numero di ramificazioni uterine osservate nelle proglottidi stesse dopo chiarificazione in acido acetico (maggiore in T. saginata rispetto a T. solium). La diagnosi di cisticercosi è più complicata: solo nei pochi casi a localizzazione sottocutanea è possibile la diagnosi diretta tramite biopsia, mentre nelle più frequenti localizzazioni cerebrale, oculare e muscolare, evidenziate rispettivamente attraverso le immagini neuroradiologiche (TC e soprattutto RM), l’oftalmoscopia e l’esame radiologico eseguito con raggi molli a livello delle cosce, la conferma diagnostica è possibile solo grazie alla ricerca sierologica di anticorpi anti-Cysticercus cellulosae. Differenti sono le metodiche utilizzate per l’indagine sierologica: attualmente il più utilizzato è il test ELISA, dotato di una discreta sensibilità (88%) e alta specificità (99%).
F. Decorso e prognosi. Benigna nella teniasi, diventa riservata nelle localizzazioni oculare e soprattutto cerebrale della cisticercosi, che in alcuni casi possono portare all’exitus del paziente. G. Terapia. Nella teniasi farmaco di prima scelta è ormai il praziquantel in monosomministrazione, che si dimostra più efficace della tradizionale niclosamide. Nella cisticercosi si utilizza l’albendazolo, o come seconda scelta il praziquantel, che è però sconsigliato nella forma oculare per la pericolosa reazione allergica che può scatenarsi localmente in seguito alla massiva liberazione antigenica successiva alla distruzione larvale. Nei primi giorni di trattamento della cisticercosi, specie nella localizzazione cerebrale, è opportuna la somministrazione contemporanea di corticosteroidi tanto in funzione antiedema quanto per evitare i fenomeni infiammatori che possono derivare dalla degenerazione delle cisti: è utile ricordare che il desametasone aumenta la concentrazione plasmatica di albendazolo, mentre riduce del 50% quella di praziquantel. Nei casi di insuccesso della terapia medica, più frequenti nelle localizzazioni spinale e soprattutto ventricolare, è necessario ricorrere all’approccio neurochirurgico. H. Profilassi. Si basa sull’ispezione veterinaria delle carni bovine e suine dopo la macellazione e su una serie di misure igieniche, quali la corretta stabulazione dei suini, l’adeguata cottura delle carni, la rapida diagnosi e l’idonea terapia dei soggetti infestati. La prevenzione della cisticercosi si attua anche attraverso il trattamento tempestivo dei pazienti con T. solium; analogamente tale infestazione deve essere accuratamente ricercata anche nei familiari e nei conviventi dei soggetti in cui sia stata dimostrata una cisticercosi.
Altre infestazioni intestinali da cestodi Botriocefalosi L’infestazione da botriocefalo (Diphyllobothrium latum) è una parassitosi cosmopolita, solitamente asintomatica. D. latum rappresenta il più grande verme patogeno in grado di parassitare l’uomo; viene trasmesso attraverso l’ingestione di pesce d’acqua dolce crudo o poco cotto, le cui carni sono parassitate dalle larve di botriocefalo: presenta perciò una diffusione maggiore nelle aree ricche di laghi e corsi d’acqua, in cui è più abituale la consumazione di pesce d’acqua dolce (Europa del Nord, Giappone, USA). Oltre ad un’azione traumatica, irritante e spoliatrice, la presenza a livello intestinale dei vermi adulti di D. latum causa un depauperamento di vitamina B12, che il parassita utilizza per il proprio metabolismo: nelle infestazioni massive, accanto a turbe della canalizzazione è dunque frequente il riscontro di un’anemia megaloblastica su base competitiva. La botriocefalosi si diagnostica attraverso l’evidenziazione delle caratteristiche uova all’esame parassitologico delle feci. La terapia si basa sull’utilizzo del pra-
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ziquantel o della più tradizionale niclosamide, cui è utile associare acido folico e vitamia B12 nei casi caratterizzati da un quadro di franca anemia. La prevenzione si basa sulla corretta cottura dei pesci d’acqua dolce, potenziali veicoli dell’infestazione. Imenolepiasi È l’infestazione da Hymenolepis nana, elminta di piccole dimensioni, parassita obbligato dell’intestino umano, caratterizzato, unico tra i cestodi, dall’assenza abituale di ospite intermedio. Cosmopolita, presenta prevalenze più elevate nei paesi a clima caldo e temperato e a basso livello igienico. La sua trasmissione avviene direttamente per via fecale-orale, per cui sono più facilmente colpiti i bambini ed i soggetti istituzionalizzati. Tanto le alterazioni anatomopatologiche a livello intestinale quanto la conseguente sintomatologia sono strettamente correlate alla gravità dell’infestazione: abitual-
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mente asintomatica nei casi a bassa carica, l’imenolepiasi è caratterizzata nelle infestazioni massive dalla comparsa di diarrea con feci semiformate, meteorismo, flatulenza, dimagramento, cui si possono associare alterazioni del carattere, quali irritabilità, senso di agitazione o apatia, insonnia. Solo in bambini con scadute condizioni generali sono state osservate crisi coreiche e/o comiziali. La diagnosi si basa sull’osservazione all’esame parassitologico delle feci delle caratteristiche uova (ovali, contenenti l’embrione esacanto circondato da una membrana provvista di tappi polari e fimbrie). Farmaco di scelta è ormai, anche in questo caso, il praziquantel, più efficace della niclosamide peraltro da somministrare per periodi più prolungati che nelle infestazioni da Taenia spp. Data l’abituale assenza dell’ospite intermedio, la profilassi si basa sulle comuni norme igieniche personali e collettive; in caso di epidemia all’interno di comunità chiuse è indicato il trattamento di massa.
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ALTRE MALATTIE CAUSATE DA ELMINTI G. GAIERA
ECHINOCOCCOSI (IDATIDOSI) Con il termine di echinococcosi o idatidosi si intendono le infestazioni umane determinate dalle forme larvali dei cestodi del genere Echinococcus; le principali sono la più frequente echinococcosi o idatidosi cistica, causata da E. granulosus, e la più rara echinococcosi o idatidosi alveolare, dovuta a E. multilocularis.
Idatidosi cistica Si definisce idatidosi cistica l’infestazione da larve di Echinococcus granulosus, un piccolo cestode che vive in forma di verme adulto nell’intestino tenue del cane (ospite definitivo) e parassita nel suo stadio larvale numerosi ospiti intermedi, tra cui l’uomo. L’infestazione umana è caratterizzata dalla presenza di cisti contenenti le forme larvali, localizzate più frequentemente a livello epatico e più raramente a livello polmonare o, in casi ancor più rari, a livello cerebrale e renale. A. Epidemiologia. Infestazione cosmopolita, presenta maggiori prevalenze nelle popolazioni dedite all’allevamento del bestiame ed in particolare alla pastorizia: è quindi più diffusa in America Latina, Australia e Africa del Nord e del Sud. In Europa è presente in numerosi stati, Italia compresa: nel nostro paese si riscontra principalmente nelle regioni meridionali e nelle isole, in particolare in Sardegna, dove l’attività di pastorizia è molto estesa. Oltre che negli ovini, classici ospiti intermedi di E. granulosus, è di comune riscontro anche in bovini e suini: è perciò una tipica malattia rurale e professionale, che colpisce soprattutto le persone impegnate in lavori che presuppongono un rapporto uomo-cane-bestiame molto stretto. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. E. granulosus è la più piccola tenia di importanza medica (2-3 mm di lunghezza). Allo stadio di verme adulto parassita senza
provocare disturbi l’intestino tenue del cane domestico e dei canidi selvatici; l’uomo e gli altri ospiti intermedi (principalmente ovini) si infestano ingerendo accidentalmente le uova, contenenti l’embrione esacanto, emesse dai cani con le feci. Nell’intestino umano dalle uova si libera l’embrione, che raggiunge per via portale il fegato; si può quindi arrestare in questa sede (60-70% dei casi) o può superare il filtro epatico e giungere al cuore destro e ai polmoni. Nel caso in cui oltrepassi anche questo secondo filtro, attraverso la circolazione generale può disseminare in tutti gli organi, e più frequentemente a livello cerebrale e renale. Nella sede in cui si arresta, l’embrione inizia la trasformazione in cisti: perde gli uncini e dà rapidamente origine ad una vescicola, la cui faccia interna (detta membrana proligera) è sede di un’intensa replicazione larvale da cui originano le vescicole o capsule proligere. Alla superficie interna di queste ultime si sviluppano gli scolici, provvisti di uncini, che nell’ospite definitivo potranno dare origine ognuno ad una tenia adulta. Le vescicole aumentano con il tempo di volume, causando una progressiva compressione dei tessuti circostanti; la crescita è lenta, ma nel giro di anni può portare alla formazione di cisti di notevoli dimensioni (oltre i 10 cm di diametro). L’ospite definitivo, il cane, si infesta mangiando le viscere contaminate degli animali ospiti intermedi: nel suo intestino gli scolici, contenuti nelle vescicole proligere delle cisti, si fissano alla mucosa e si sviluppano in verme adulto nel giro di qualche settimana. Quando è completamente sviluppata, la cisti idatidea presenta una struttura complessa: il pericistio esterno, costituito di tessuto fibrosclerotico, che rappresenta la reazione dell’ospite alla presenza della cisti; la membrana cuticolare o ectocisti, biancastra, formata da numerose lamelle concentriche; la membrana proligera interna, da cui originano le capsule proligere. All’interno, oltre al liquido idatideo, si possono osservare la cosiddetta sabbia idatidea (costituita da residui di vescicole proligere e scolici) e le cisti figlie, identiche alla cisti madre. La sintomatologia provocata dalla cisti è dovuta principalmente all’effetto meccanico di com-
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pressione da essa esercitato sulle strutture contigue; più raramente è correlata a particolari modalità di evoluzione della cisti, quali la sovrainfezione (e conseguente formazione di un ascesso) e la rottura più frequenti nella sede polmonare, e a fenomeni tossico-allergici (fino allo shock anafilattico) secondari al passaggio in circolo di alcune componenti del liquido idatideo. La cisti può sopravvivere diversi anni e successivamente degenerare spontaneamente o andare incontro a calcificazioni più o meno complete della parete, interpretabili nella maggior parte dei casi come segno della sua morte. C. Clinica. Asintomatica anche per anni, nei casi più frequenti giunti all’osservazione nella fase caratterizzata da un semplice aumento di volume della/e cisti non ancora complicato, l’idatidosi presenta un quadro clinico eventualmente rappresentato da una sintomatologia compressiva, qualora la cisti raggiunga volumi ragguardevoli. La sintomatologia diventa più imponente in caso di complicazioni: se la cisti si fissura, come non raramente accade quando le sue delicate pareti incontrano un ostacolo durante la sua progressiva espansione volumetrica, può verificarsi la fuoriuscita di piccole quantità di liquido idatideo, che può scatenare la comparsa di una sintomatologia di natura tossico-allergica (prurito, reazione urticarioide, febbricola, crisi asmatiformi); se, come accade più raramente, la cisti si rompe, all’iniziale ed imponente sintomatologia dello shock anafilattico può seguire la cosiddetta echinococcosi secondaria, con formazione e disseminazione in numerosi organi di un numero elevato di cisti, cui consegue una grave compromissione delle condizioni generali del paziente (cachessia idatidea) e spesso l’exitus per infezioni intercorrenti. A seconda dell’organo in cui la cisti si localizza, si può presentare un quadro clinico differente. Nella più frequente idatidosi epatica, in cui la cisti, unica o multipla, interessa più spesso il lobo destro, possono comparire un senso di peso all’ipocondrio destro, un ittero spesso recidivante, una febbricola continua o accessi febbrili elevati, oltre che generici disturbi dispeptici in assenza di alterazioni delle condizioni generali; l’esame obiettivo può risultare negativo o evidenziare un’epatomegalia: solo nei casi in cui la cisti abbia una sede anteriore e superficiale è palpabile e si può apprezzare alla percussione il cosiddetto “fremito idatideo”. Nella più rara idatidosi polmonare, in cui l’accrescimento della cisti e l’incontro con le ramificazioni bronchiali sono più rapidi, la comparsa dei disturbi è solitamente più precoce e rappresentata da febbricola, tosse con espettorazione talvolta ematica, dolori toracici mal definiti e manifestazioni urticarioidi. La rottura in un bronco, che può costituire il quadro clinico d’esordio, determina la cosiddetta “vomica idatidea”, caratterizzata dall’emissione unica o ripetuta di liquido e sabbia idatidea contenente uncini, frammenti di membrana biancastra e moltissimi scolici; la compressione sul tessuto polmonare circostante determina spesso atelettasia e la successiva comparsa di un classico quadro di polmonite. Nei rarissimi casi di idatidosi renale possono comparire coliche renali con emissione di materiale idatideo,
A.
B.
Figura 79.1 - Cisti idatidea. L’esame tomodensitometrico con mezzo di contrasto evidenzia il pericistio (A), la membrana cuticolare o ectocisti (B, punte di freccia) e lo strato germinativo o membrana prolifera (B, freccia). (Da Prokop M., Galanski M.: Spiral and Multislice Computed Tomography of the Body. Thieme, Stuttgard-New York, 2003).
in quelli di idatidosi cerebrale una sintomatologia da processo espansivo intracranico con cefalea e vomito a getto, crisi convulsive e segni di lato. D. Esami di laboratorio. L’eosinofilia è più frequente nella fase iniziale di invasione o nelle complicazioni: una percentuale di eosinofili superiore al 7% si osserva in circa il 25% dei casi non complicati, mentre può giungere fino al 20-25% nei casi di fissurazione e rottura della/e cisti. Un comportamento quasi analogo presenta pure il titolo di IgE totali, che può tuttavia persistere elevato anche dopo la scomparsa dell’eosinofilia. Una leucocitosi neutrofila è spesso osservabile in caso di sovrainfezione della/e cisti. E. Diagnosi. In assenza di complicazioni è spesso casuale, in occasione dell’esecuzione per sospetti diversi di un’ecografia epatica o di una radiografia del torace; oltre a queste tecniche si dimostrano utili nel monitoraggio della/e cisti anche la tomografia assiale computerizzata e la risonanza nucleare magnetica in caso di idatidosi epatica, renale e cerebrale, e la tomografia assiale ad alta risoluzione nell’idatidosi polmonare. Il sospetto diagnostico posto in base al riscontro radiologico ed alle indagini epidemiologiche deve essere confermato mediante la dimostrazione nel siero degli anticorpi anti-E. granulosus; numerose sono le metodiche sierologiche utilizzate in questa ricerca: le più sensibili e diffuse sono attualmente rappresentate dai test immunoenzimatici e di immunofluorescenza, la più specifica è l’immunoprecipitazione in gel, riservata a laboratori specialistici. Un risultato sierologico negativo non esclude però totalmente la diagnosi di idatidosi: alcuni portatori di cisti, specie se a livello polmonare, non posseggono infatti anticorpi o presentano una risposta immunitaria molto bassa e parziale. In diagnosi differenziale vanno considerati: l’ascesso amebico epatico, ad insorgenza molto più rapida;
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la cisticercosi, rara in sede epatica e polmonare e più frequente a livello cerebrale; le neoplasie epatiche primitive e secondarie; le cause neoplastiche ed infettive (tubercolosi, aspergillosi, nocardiosi, infezioni da Rhodococcus equi) di cavità e ascessi polmonari; le alterazioni vascolari, le infezioni ed i processi sostitutivi responsabili di lesioni focali cerebrali. F. Decorso e prognosi. Sono strettamente legati alla localizzazione e al numero delle cisti: l’evoluzione è buona nei casi di formazione unica e facilmente aggredibile, mentre si complica in caso di cisti multiple e non asportabili. Particolarmente gravi, fino a mettere in pericolo la vita del paziente, sono le complicazioni della fissurazione e della rottura: shock anafilattico, sovrainfezione ed echinococcosi secondaria. G. Terapia. Il trattamento di scelta delle cisti sintomatiche è la rimozione mediante resezione chirurgica, preceduta dall’instillazione di una sostanza scolicida (soluzione ipertonica al 30% di cloruro di sodio o etanolo al 95%) per evitare il rischio di disseminazione in caso di rottura della cisti in corso di intervento. Recentemente è stata utilizzata con successo in casi selezionati una nuova modalità terapeutica per le cisti inoperabili, basata sull’aspirazione percutanea ecoguidata di parte del liquido idatideo, seguita dall’instillazione e successiva aspirazione dopo permanenza in situ di etanolo al 95% (PAIR = Percutaneous Aspiration-Injection-Reaspiration). La terapia medica è indicata, oltre che nei pazienti inoperabili, anche nei casi asintomatici con lo scopo di portare il paziente all’intervento chirurgico nelle condizioni migliori possibili (riduzione delle dimensioni e della vitalità della cisti), oltre che nelle settimane precedenti e successive all’intervento chirurgico per limitare ulteriormente il rischio di disseminazione: i farmaci utilizzati sono l’albendazolo come prima scelta e il mebendazolo come alternativa, somministrati in più cicli (3-5) alternati da brevi periodi di sospensione oppure somministrati continuativamente per 90-120 giorni. La terapia medica permette di ottenere una guarigione completa nel 25-30% dei casi e di bloccare l’evoluzione della cisti in un altro 50%; la sua efficacia viene monitorata con indagini radiologiche e sierologiche periodiche. H. Profilassi. Si basa essenzialmente su misure di sorveglianza veterinaria: igiene dei mattatoi, lotta alla macellazione clandestina, disinfestazione dei cani. È utile un’educazione sanitaria, che sensibilizzi al più stretto rispetto delle comuni norme igieniche nei contatti con i cani; analogamente, nelle regioni endemiche deve essere sconsigliato il consumo di verdure crude.
Idatidosi alveolare Rappresenta l’infestazione occasionale dell’uomo da parte di Echinococcus multilocularis, piccolo cestode molto simile a E. granulosus, di cui le volpi ed altri canidi selvatici sono gli ospiti definitivi e alcuni roditori selvatici gli ospiti intermedi abituali. Visti gli ospiti definitivi, è una elmintiasi diffusa solo nei paesi dell’emisfero
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settentrionale e in particolare nelle regioni fredde e montagnose. Il ciclo biologico di E. multilocularis è sovrapponibile a quello di E. granulosus, da cui si differenzia per il fatto che nell’ospite intermedio l’embrione si arresta e si sviluppa pressoché invariabilmente solo nel fegato. L’infestazione viene contratta dalla volpe per le sue abitudini carnivore e dall’uomo attraverso l’ingestione di alimenti, principalmente vegetali (more, lamponi), raccolti nei boschi e contaminati da feci di volpi, oppure scuoiando animali parassitati: ne risultano dunque particolarmente esposti i cacciatori e gli allevatori. Le alterazioni epatiche macro e microscopiche differiscono profondamente da quelle determinate da E. granulosus: non si osserva mai, infatti, una vera e propria membrana proligera limitante, ma un agglomerato disordinato di piccole cisti biancastre che infiltrano il fegato in maniera similneoplastica; solo l’esame istologico può differenziare con sicurezza l’idatidosi alveolare da neoplasie epatiche primitive o secondarie. Dopo un periodo di incubazione solitamente lungo (fino a 30 anni) e una sintomatologia iniziale insidiosa e banale (pesantezza epigastrica e disturbi dispeptici), l’infestazione si caratterizza quasi costantemente per la progressiva comparsa di un ittero ostruttivo; frequente è l’epatomegalia, liscia o a superficie irregolare. Pure le complicazioni sono frequenti e ricordano quelle tipiche delle neoplasie: espansione per contiguità agli organi viciniori, metastasi a distanza per disseminazione ematogena soprattutto a livello polmonare, sovrainfezione batterica. Il decorso spontaneo è pressoché fatale; spesso anche l’intervento chirurgico si dimostra tardivo per impedire questa evoluzione. La diagnosi è estremamente difficile, in quanto l’idatidosi deve essere differenziata dalle più frequenti neoplasie epatiche primitive e secondarie e dalle numerose cause di ascesso epatico e colangite. Nei casi sospetti in base al quadro radiologico e alle indagini epidemiologiche, si fonda essenzialmente sulla dimostrazione sierologica di anticorpi antiE. multilocularis, eseguibili solo in laboratori specializzati; può essere presente una reattività crociata con la sierologia per E. granulosus. La terapia è essenzialmente chirurgica, anche se l’intervento radicale è di solito impossibile e ci si limita ad una epatectomia parziale. La somministrazione prolungata (per anni) di albendazolo per os si è rivelata in alcuni casi in grado di bloccare l’evoluzione dell’infestazione a livello epatico e la comparsa di complicanze.
TOXOCARIASI (LARVA MIGRANS VISCERALE) La toxocariasi o larva migrans viscerale (LMV) è una infestazione dovuta a larve di nematodi parassiti di animali (principalmente Toxocara canis), che, essendo incapaci di completare il loro ciclo evolutivo nell’uomo, vagano nell’organismo umano per periodi variabili e terminano la loro esistenza negli organi profondi o nel sistema nervoso centrale. È notevolmente diffusa nei paesi tropicali: in India e in Brasile, per esempio, T. canis infe-
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sta il 40-80% dei cani. In media il 50-80% dei bambini che vivono in aree tropicali presentano anticorpi anti-T. canis, contro il 4-11%, percentuale comunque non trascurabile, osservabile tra i bambini dei paesi industrializzati. Anche se sono i bambini ad esserne maggiormente colpiti, per la loro maggiore tendenza all’ingestione di terreno e al contatto con piccoli animali, è segnalata una prevalenza non irrilevante dell’infestazione anche tra gli adulti residenti nei paesi industrializzati. L’agente eziologico maggiormente coinvolto è la larva di T. canis, l’ascaride del cane; meno spesso ne sono responsabili T. catis (l’ascaride del gatto) e Ascaris suum (l’ascaride del maiale). Si tratta in tutti i casi di nematodi il cui verme adulto si sviluppa nell’intestino di un animale e per cui l’uomo non è invece ospite definitivo. La trasmissione avviene per ingestione delle uova embrionate, presenti soprattutto nella sabbia contaminata dalle deiezioni degli animali infestati; a livello duodenale le uova si schiudono, dando origine a larve del secondo stadio, le quali superano la parete intestinale, attraverso il circolo portale sono trasportate al fegato e quindi tramite la vena cava superiore al cuore destro e ai polmoni, da cui disseminano attraverso la circolazione generale. Negli organi che tali larve raggiungono nella loro disseminazione (polmoni, fegato, occhio, sistema nervoso centrale) si scatena una reazione immunitaria di tipo granulomatoso, costituita soprattutto da eosinofili, che evolve con la formazione di noduli fibrosi. Asintomatica nella maggior parte dei casi e diagnosticabile allora solo per la presenza di eosinofilia e/o della sierologia per T. canis positiva, solamente nelle infestazioni massive presenta la sintomatologia classica della LMV, caratterizzata da quadri clinici differenti: la sindrome da LMV propriamente detta, con febbre e malessere generale, bronchite e tosse secca asmatiforme associate o meno a infiltrati polmonari a tipo miliare o nodulare, epatosplenomegalia indolente, segni di encefalopatia quali convulsioni, paresi, mieliti trasverse, linfoadenomegalia ed edemi sottocutanei localizzati; una corioretinite (o larva migrans oculare), secondaria alla formazione di un nodulo pigmentato coroideo circondato da edema ed associato talvolta a microemorragie retiniche, che può determinare deficit visivi anche severi, strabismo da lesione maculare, distacco di retina e glaucoma; un quadro di asma bronchiale isolato. Nella maggior parte dei casi, sia asintomatici che sintomatici, la guarigione è spontanea entro 24 mesi dall’infestazione, ad eccezione degli effetti del danno oculare che possono essere permanenti; l’eosinofilia scompare di solito più lentamente dei segni clinici. La diagnosi di certezza si basa sulla dimostrazione sierologica di anticorpi anti-T. canis: in questo il test immunoenzimatico ha dimostrato una sensibilità più elevata delle tecniche in precedenza utilizzate. Contribuiscono a porre il sospetto di toxocariasi il riscontro di una leucocitosi con eosinofilia elevata e di un aumento delle IgE totali; abbastanza comune è il rilievo di una anemia sideropenica. L’esame radiologico del torace può mettere in evidenza un quadro analogo a quello osservato negli stati asmatici o la presenza di multipli in-
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filtrati cotonosi. La ricerca delle uova di T. canis attraverso l’esame parassitologico delle feci e di altri liquidi biologici risulterà sempre negativa. In diagnosi differenziale vanno considerate le altre elmintiasi con passaggio polmonare (ascaridiasi, anchilostomiasi, strongiloidiasi) e il cosiddetto polmone eosinofilo tropicale, causato dalla massiva risposta allergica locale al passaggio di larve di filarie. Nella sindrome da LMV vera e propria la terapia si basa sull’uso di albendazolo o in alternativa di dietilcarbamazina (DEC), non disponibile in Italia e di più difficile impiego; il mebendazolo rappresenta una seconda scelta. Nella larva migrans oculare è utile introdurre una terapia corticosteroidea per via sistemica o intraoculare, prima dell’utilizzo della DEC. La profilassi è ardua e si basa sulla lotta all’infestazione canina.
LARVA MIGRANS CUTANEA Viene definita larva migrans cutanea (LMC) la dermatite provocata dalla penetrazione transcutanea di varie specie di nematodi che infestano i carnivori, soprattutto i cani, ma non sono in grado nell’uomo di superare la prima linea di difesa rappresentata dalla cute; le specie più frequentemente coinvolte sono Ancylostoma braziliense (parassita di cani e gatti) e Ancylostoma caninum (parassita dei cani). Diffusa in molte regioni tropicali, viene acquisita per contatto diretto della cute con le larve eliminate con le deiezioni animali e disseminate nel terreno, in particolare nei suoli umidi quali spiagge, risaie, paludi. La sintomatologia consiste nella comparsa di papule e di rilievi cutanei serpiginosi, corrispondenti alla lenta migrazione sottocutanea delle larve (qualche millimetro al dì, diversamente da quanto si osserva nella “larva currens” della strongiloidiasi); pressoché costanti sono il prurito e le lesioni da grattamento, frequenti le sovrainfezioni batteriche. Le sedi più spesso interessate sono quelle maggiormente a contatto con i suoli umidi: piedi, mani, natiche. La diagnosi è puramente clinica; ai fini della diagnosi differenziale, oltre alla strongiloidiasi, è utile considerare anche una miasi (causata dalla penetrazione cutanea di larve di particolari specie di mosche), una loaiasi (filariosi da Loa loa) o un’infestazione da Tunga penetrans (pulce penetrante). Il trattamento si basa sulla somministrazione di albendazolo o in alternativa di ivermectina; costituiscono ormai una seconda scelta tanto il tiabendazolo che il mebendazolo. Oltre che per via orale, sia l’albendazolo che il tiabendazolo possono essere utilizzati anche per uso topico in composti preparati artigianalmente a partire dalla triturazione delle compresse. L’uso topico del solo cloruro di etile, applicato con l’obiettivo di uccidere la larva per raffreddamento, si dimostra meno efficace e gravato da recidive. La profilassi si basa sull’utilizzo di quegli accorgimenti che riducono i contatti della cute con il terreno potenzialmente contaminato (uso di sandali e di asciugamani e/o stuoie durante la permanenza in spiagge sospette).
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INFEZIONI DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE A. CASTAGNA
Le infezioni del sistema nervoso centrale (SNC) costituiscono generalmente, nonostante i progressi in campo diagnostico e terapeutico, un evento clinico grave, condizionato nella patogenesi e nell’evoluzione clinica dalle peculiarità anatomiche, fisiologiche ed immunologiche proprie di questo apparato. Molte infezioni sono associate ad una elevata mortalità e nelle patologie trattabili il successo terapeutico è strettamente legato ad una diagnosi e ad un intervento terapeutico tempestivi. Nella maggioranza dei casi il quadro clinico è determinato dalla struttura anatomica coinvolta e dall’estensione del processo infiammatorio: meningiti, encefaliti, mieliti e ascessi cerebrali sono le forme morbose più rilevanti. Pur essendo entità cliniche separate, in molti casi vi è un interessamento di più strutture per cui si parla di meningoencefalite, encefalomielite, meningoencefalomielite.
MENINGITI La meningite è un processo infiammatorio a carico delle leptomeningi (pia e aracnoide), caratterizzato pertanto dall’aumento dei leucociti nel liquor cerebrospinale; sebbene possa essere innescato da patologie non infettive, nella grande maggioranza dei casi è secondario all’infezione diretta da parte di un microrganismo. Col termine di “meningismo” si definisce invece uno stato irritativo meningeo riportato in corso di alcune malattie febbrili, traumi, insolazioni, intossicazioni, non dovuto alla localizzazione diretta di patogeni e caratterizzato quindi dalla presenza di una normale componente cellulare liquorale. Numerosi agenti eziologici, più frequentemente virus e batteri, possono causare una meningite infettiva: nella maggioranza dei casi i microrganismi provengono dal circolo ematico, altre volte essi raggiungono le meningi per diffusione diretta da infezioni contigue (otomastoiditi, sinusiti), dall’esterno tramite soluzioni di continuo congenite, traumatiche o provocate da interventi chirur-
gici e indagini strumentali, raramente attraverso l’etmoide lungo le fibre del nervo olfattorio. In considerazione dell’elevato numero di microrganismi in grado di provocare manifestazioni cliniche spesso sovrapponibili, le meningiti infettive vengono generalmente differenziate sulla base di alcuni criteri la cui valutazione consente di restringere lo spettro dei possibili agenti eziologici in causa. In base alle modalità di evoluzione del processo infiammatorio le meningiti vengono differenziate in meningiti acute e meningiti subacute/croniche. La meningite acuta insorge in un intervallo variabile da poche ore a qualche giorno con un quadro clinico caratterizzato da febbre elevata, cefalea, rigor nucale, alterazioni dello stato di coscienza. La meningite subacuta/cronica evolve in un intervallo di tempo più lungo, variabile da settimane ad anni, l’esordio dei sintomi è più graduale, la febbre è generalmente meno elevata, più frequenti sono i sintomi neurologici focali. Nella tabella 80.1 sono riportati gli agenti eziologici prevalentemente associati alle due modalità di presentazione clinica. Un altro criterio di differenziazione è costituito dalla valutazione delle caratteristiche macroscopiche del liquor prelevato durante la rachicentesi, l’esame cardine nella diagnosi eziologica di meningite. Nel soggetto sano, in posizione seduta, il liquor fuoriesce ad una pressione di 35-45 cm H2O (15-20 cm H2O in decubito laterale); l’aspetto è limpido, incolore, trasparente, “come acqua di rocca”. L’analisi delle caratteristiche biochimiche principali evidenzia un contenuto di proteine variabile da 20 a 30 mg/dl (albumina 10-25 mg/dl, globuline 2,5-7,5 mg/dl); la glicorrachia corrisponde al 60-70% dei valori glicemici individuali (abitualmente 40-70 mg/dl); il tasso dei cloruri risulta di 700-750 mg/dl. Gli elementi cellulari, in genere linfociti, non sono più di 5/mm3. Nel paziente con meningite, invece, la presenza di una pleiocitosi liquorale consente di differenziare tra meningiti purulente (a liquor torbido), caratterizzate da una cellularità elevata costituita in prevalenza da neutrofili (in media 1000-5000 leucociti/mm3, “range” 10-10.000/mm3) e meningiti asettiche (a liquor limpi-
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Tabella 80.1 - I principali agenti eziologici causa di meningite infettiva in relazione alla loro presentazione clinica usuale. MENINGITE ACUTA
MENINGITE SUBACUTA/CRONICA
• Virus – Virus echo – Virus coxsackie – Virus polio – Arbovirus – Paramyxovirus parotitidis – Virus della coriomeningite linfocitaria – Virus herpes simplex 1 e 2 – Cytomegalovirus – Virus varicella-zoster – Virus di Epstein-Barr – HIV • Batteri – Neisseria meningitidis – – – – – – – –
Streptococcus pneumoniae Haemophilus influenzae Streptococcus agalactiae Listeria monocytogenes Staphylococcus aureus Staphylococcus epidermidis Pseudomonas aeruginosa Enterobacteriacee
• Spirochete – Treponema pallidum – Borrelia burgdorferi – Leptospira spp • Miceti
Mycobacterium tuberculosis Brucella spp Nocardia spp
Treponema pallidum Borrelia burgdorferi Candida spp Criptococcus neoformans Coccidioides immitis Histoplasma capsulatum
• Protozoi – Naegleria fowleri – Acanthamoeba spp • Elminti – Angiostrongylus cantonensis
do) caratterizzate da una cellularità più modesta, costituita in prevalenza da linfociti (100-1000 leucociti/mm3, range 50-2000/mm3) e caratterizzata dal mancato isolamento di patogeni all’esame colturale. Le meningiti purulente comprendono la maggioranza delle meningiti batteriche acute. Le meningiti asettiche comprendono principalmente le meningiti virali, ma molte infezioni non virali possono determinare un quadro simile: le infezioni da rickettsie (tifo esantematico, febbre Q), da spirochete (lue, malattia di Lyme, leptospirosi), da miceti, da protozoi e da alcuni batteri (tubercolosi, brucellosi ed alcuni casi di listeriosi). Possono inoltre presentarsi con un quadro liquorale analogo pazienti con una meningite batterica acuta (Neisseria meningitidis, Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae) “decapitata”, nella quale cioè l’aspetto macroscopico del liquor sia stato modificato da una terapia antibiotica istituita in precedenza.
Anche molte malattie ad eziologia non infettiva possono determinare un quadro clinico compatibile con una meningite asettica: meningiti neoplastiche, indotte da farmaci, sarcoidosi, LES, artrite reumatoide, angiiti granulomatose, malattia di Behçet, sindromi oculocefaliche. Soprattutto di fronte ad una pleiocitosi liquorale non spiccata, l’analisi qualitativa delle cellule presenti nel liquor fornisce informazioni utili per la diagnosi: sebbene i granulociti neutrofili possano essere presenti in numero discreto anche all’esordio di infezioni virali e tubercolari, la prevalenza di cellule polimorfonucleate è tipica delle infezioni batteriche e amebiche, le cellule mononucleate sono predominanti nelle infezioni da micobatteri, miceti, virus e rickettsie. Un numero significativo di eritrociti è caratteristico di un’emorragia subaracnoidea, ma può essere presente nelle infezioni da herpes virus, da aspergilli ed in quelle amebiche. L’incremento delle proteine nel liquor è generalmente moderato nelle meningiti virali, marcato in quelle batteriche, compresa la forma tubercolare e micotica. La glicorrachia è ridotta nelle meningiti batteriche non trattate ed in quelle da miceti, amebica e tubercolare; è sostanzialmente nella norma durante le infezioni virali e da rickettsie. In infezioni quali la tubercolosi, la brucellosi e le infezioni fungine il progressivo incremento delle proteine e la riduzione del glucosio nel liquor costituiscono frequentemente gli elementi del quadro liquorale più utili per la diagnosi. In presenza di una sindrome meningea, l’esame del liquor è dirimente nella diagnosi differenziale tra meningite e “meningismo”, nell’esclusione di patologie non infettive in grado di causare una sindrome meningea, prima fra tutte l’emorragia subaracnoidea, e nell’impostazione della terapia antimicrobica empirica in attesa della conferma microbiologica.
Meningiti batteriche acute Le meningiti batteriche acute costituiscono ancora oggi un’emergenza medica gravata da una morbilità e mortalità significative. Gli agenti eziologici in causa variano in relazione all’età del paziente e alla presenza di fattori predisponenti anche se Neisseria meningitidis, Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae sono i patogeni isolati in oltre l’80% dei casi. Le infezioni da streptococchi di gruppo B, che frequentemente colonizzano il canale del parto, sono caratteristiche dell’età neonatale, le infezioni da Listeria monocytogenes ed Enterobacteriaceae spp sono più frequenti nell’ospite compromesso (neonato, anziano, immunosoppresso) e nei pazienti con traumi cranici o sottoposti ad interventi neurochirurgici, nei quali è molto frequente anche l’isolamento di Staphylococcus aureus; Staphylococcus epidermidis è invece il patogeno più frequentemente in causa nelle infezioni delle derivazioni liquorali (Tab. 80.2).
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Tabella 80.2 - Terapia antibiotica empirica delle meningiti purulente. FATTORE PREDISPONENTE • Età – 0-4 settimane
– 4-12 settimane
– 3 mesi-18 anni
AGENTI EZIOLOGICI PIÙ COMUNI Streptococcus agalactiae, Escherichia coli, Listeria monocytogenes, Klebsiella pneumoniae, Enterococcus spp, Salmonella spp Streptococcus agalactiae, Escherichia coli, Listeria monocytogenes, Haemophilus influenzae, Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis Neisseria meningitidis, Haemophilus influenzae, Streptococcus pneumoniae
– 18-50 anni
Neisseria meningitidis, Streptococcus pneumoniae
– > 50 anni
Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis, Listeria monocytogenes, bacilli Gram– Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis, Listeria monocytogenes, Pseudomonas aeruginosa, Enterobacteriacee spp Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, Streptococchi -emolitici di gruppo A Staphylococcus aureus, Staphylococcus epidermidis Pseudomonas aeruginosa, Enterobacteriacee spp
• Ospite immunocompromesso
• Frattura base cranica • Trauma cranico
TERAPIA ANTIBIOTICA ampicillina (100-200 mg/kg ev in 2-3 dosi) + cefotaxime (100-200 mg/kg ev in 2-3 dosi) o ampicillina + aminoglicoside (es. gentamicina 5-7,5 mg/kg ev in 2-3 dosi) ampicillina (200-300 mg/kg ev in 2-3 dosi) + cefalosporina di III generazione (1) + vancomicina (2)
cefalosporina di III generazione (1) + vancomicina (2) o ampicillina (200-400 mg/kg ev in 6 dosi) + cloramfenicolo (75-100 mg/kg ev in 4 dosi) + vancomicina (2) cefalosporina di III generazione (3) +/ampicillina (12 g ev in 6 dosi) + vancomicina (2) ampicillina (12 g ev in 6 dosi) + cefalosporina di III generazione (2) + vancomicina vancomicina (bambino: 40-60 mg/kg ev in 4 dosi, adulto: 2-3 g ev in 2-3 dosi) + ampicillina + ceftazidime (bambino: 125-150 mg/kg ev in 3 dosi, adulto: 6 g ev in 3 dosi) cefalosporina di III generazione (3) + vancomicina (2) vancomicina (bambino: 40-60 mg/kg ev in 4 dosi, adulto: 2-3 g ev in 2-3 dosi) + ceftazidime (bambino: 125-150 mg/kg ev in 3 dosi, adulto: 6 g ev in 3 dosi)
• Interventi neurochirurgici • Derivazioni liquorali (1) Cefotaxime (200 mg/kg in 3-4 dosi) o ceftriaxone (100 mg/kg in 2 dosi) (2) Nell’attesa dell’antibiogramma, aggiungere vancomicina per la possibile resistenza di S. pneumoniae alle cefalosporine di III generazione (3) Cefotaxime (12 g ev in 4 dosi) o ceftriaxone (4 g ev in 2 dosi)
La patogenesi delle meningiti batteriche acute è complessa: l’elemento caratterizzante della flogosi meningea è l’accumulo di neutrofili e di essudato alla superficie delle leptomeningi. Gli spazi subaracnoidei risultano invasi dall’essudato purulento e i vasi che li attraversano sono frequentemente coinvolti nel processo infiammatorio: la vasculite corticale che ne deriva causa un’alterata perfusione parenchimale con conseguenti turbe ischemiche ed alterazioni del sensorio. Il coinvolgimento del microcircolo cerebrale è responsabile delle alterazioni della barriera emato-encefalica con apertura delle “giunzioni serrate” dell’endotelio vasale. Si crea pertanto una situazione di edema cerebrale favorito inoltre dalla liberazione di tossine e citochine infiammatorie e dall’ostacolo al fisiologico drenaggio del liquor: l’ipertensione endocranica che ne deriva costituisce l’elemento principale nel condizionare l’evoluzione del quadro clinico.
La meningite batterica acuta è caratterizzata clinicamente da febbre, cefalea, contratture muscolari e alterazioni psichiche. La cefalea è intensa, gravativa, esacerbata dagli stimoli sensoriali, spesso associata a fotofobia. Le contratture muscolari, dovute allo spasmo riflesso dei muscoli paravertebrali indotto dalla flogosi meningea, condizionano la presenza di numerosi segni neurologici: il più caratteristico è il “rigor nucale” (a paziente supino, la flessione passiva del capo sul tronco è difficile o impossibile e dolorosa) presente in oltre l’80% dei casi. In circa la metà dei casi sono presenti inoltre il segno di Brudzinski (a paziente supino, la flessione passiva del capo scatena una brusca flessione degli arti inferiori) e di Kernig (il paziente è incapace di porsi a sedere sul letto senza flettere contemporaneamente le ginocchia). Nei casi più gravi il paziente assume una posizione tipica, “a cane di fucile”: è in decubito laterale, rannicchiato su se stesso, con le gambe flesse sulle cosce e
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le cosce flesse sul bacino. Le alterazioni delle funzioni cerebrali (confusione, allucinazioni, delirio e una compromissione variabile dello stato di coscienza) sebbene più caratteristiche di un processo encefalitico, compaiono molto frequentemente anche nelle meningiti batteriche acute. Un terzo circa dei pazienti manifesta episodi di vomito a getto, crisi epilettiche e nel 10-20% dei casi insorgono paralisi dei nervi cranici (III, IV, VI, VII) o altri segni neurologici focali. Col progredire della malattia compaiono i segni tipici dell’ipertensione endocranica grave: bradicardia e ipertensione arteriosa, midriasi pupillare areattiva, postura decorticata o decerebrata, coma. In considerazione dell’acuzie del processo, la presenza di papilledema è invece molto rara. La diagnosi clinica di meningite batterica acuta, agevole nei casi conclamati, può essere più difficile negli anziani, nei bambini e negli ospiti compromessi, in particolare nei pazienti neutropenici per l’incapacità a sviluppare una risposta infiammatoria adeguata nello spazio subaracnoideo. Nell’anziano l’esordio può essere insidioso, i segni di flogosi meningea e la febbre variabili, mentre molto frequenti sono gli episodi confusionali. Nella prima infanzia, specie nel periodo neonatale, il quadro sintomatologico può non essere evocativo di un processo meningeo ed apparire indistinguibile da una comune infezione sistemica: il neonato è in genere soporoso, ipotermico, frequentemente insorgono convulsioni sotto forma di apnee protratte. Anche nel lattante il quadro clinico è aspecifico: gli elementi di maggiore sospetto sono il cambiamento improvviso degli atteggiamenti abituali, la presenza di un pianto acuto (pianto meningeo) e le alterazioni dello stato di coscienza. Mancano i segni abituali della flogosi meningea mentre è caratteristica, anche se tardiva, la tensione della fontanella bregmatica e la presenza del segno di Lesage (sollevato per le ascelle, il bambino non tende a “pedalare”, al contrario gli arti inferiori rimangono flessi e inerti). Nelle meningiti batteriche acute le indagini ematochimiche di routine documentano un costante aumento della velocità di eritrosedimentazione associato ad una marcata leucocitosi neutrofila nelle forme da Gram+ e cocchi Gram–. Le indagini neuroradiologiche (TC/RM) evidenziano un allargamento dei solchi cerebrali e fenomeni di congestione vascolare a carico della pia madre e dell’aracnoide; il tracciato elettroencefalografico mostra alterazioni aspecifiche. La diagnosi di meningite batterica acuta si basa sull’esame del liquor cerebrospinale prelevato mediante rachicentesi: la pressione liquorale iniziale è molto elevata (> 50 cm H20) e l’aspetto è torbido (“vetro smerigliato”) o francamente purulento. L’esame chimico-fisico evidenzia generalmente una pleiocitosi neutrofila (in media 1000-5000 leucociti/mm3, range 10-10.000 leucociti/mm3), riduzione della glicorrachia (< 40 mg/dl) e aumento della proteinorrachia (> 50 mg/dl). Nelle meningiti batteriche acute non trattate, l’esame microscopico del liquor, previa colorazione di Gram, consente di identificare il patogeno nel 60-90% dei casi; l’esame colturale, fondamentale per la conferma diagno-
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stica e soprattutto per la determinazione delle prove di sensibilità in vitro agli antibiotici, è positivo in oltre il 70% dei casi. La presenza di una terapia antibiotica in atto al momento della rachicentesi riduce le possibilità di riconoscimento batterioscopico e colturale al 40-60%. Nei casi con esame microscopico e colturale negativo, l’esecuzione di test immunologici specifici (test di agglutinazione al lattice, test immunoenzimatico) per la determinazione di antigeni microbici nel liquor può consentire di identificare il patogeno, seppur con una sensibilità variabile. La determinazione di sequenze del DNA batterico nel liquor mediante la reazione polimerasica a catena (Polymerase Chain Reaction, PCR) è stata applicata con risultati preliminari interessanti alle meningiti meningococciche e da Listeria monocytogenes. Le meningiti batteriche acute, soprattutto nell’età neonatale, sono ancora oggi gravate da una mortalità elevata, più frequente nelle prime 48 ore dall’esordio e nelle forme da pneumococchi (20-35%), da E. coli (30%), da Listeria monocytogenes (15-40%) e da streptococchi di gruppo B (10-30%). La presenza di alcune caratteristiche cliniche (ipotensione, alterazioni dello stato di coscienza, crisi epilettiche) e il ritardo nell’impostazione della terapia antibiotica dal momento dell’osservazione del paziente sono state anch’esse associate ad una prognosi significativamente più severa. Tra le sequele più comuni, anch’esse più frequenti nell’infanzia, figurano l’idrocefalo postmeningitico e i postumi legati al coinvolgimento dei nervi cranici (sordità, cecità, paralisi degli oculomotori e del facciale). La terapia delle meningiti batteriche acute si basa sull’utilizzo della terapia antibiotica specifica contro il microrganismo in causa e sull’utilizzo di farmaci (steroidi, diuretici osmotici, barbiturici ad alte dosi) in grado di ridurre l’ipertensione endocranica e controllare le complicanze che ne derivano. In presenza di una meningite purulenta, deve essere impostata immediatamente una terapia antibiotica empirica per via endovenosa sulla base dell’eventuale presenza di fattori predisponenti nei confronti di alcuni agenti eziologici e soprattutto dell’età del paziente; la rapida effettuazione dell’esame microscopico liquorale mediante colorazione di Gram e dei test immunologici per la dimostrazione di antigeni batterici può consentire di modulare la terapia in attesa della risposta dell’esame colturale e soprattutto dell’antibiogramma. Nella tabella 80.2 sono elencati i farmaci attualmente consigliati per il trattamento empirico delle meningiti purulente anche se per la diffusione della vaccinazione antiH. influenzae e i problemi legati alla farmacoresistenza delle meningiti pneumococciche il trattamento empirico delle meningiti purulente potrebbe diventare più uniforme in tutte le fasce d’età. La somministrazione di desametasone, consigliata nei bambini con meningite da H. influenzae, è stata recentemente indicata anche negli adulti per le meningiti da S. pneumoniae e Neisseria meningitidis. In presenza di una meningite purulenta nella quale, per la presenza di segni suggestivi di un’ipertensione endocranica grave, la rachicentesi sia controindicata o debba essere differita fino all’esecuzione della TC cere-
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brale, la terapia antibiotica empirica deve essere comunque iniziata, previa esecuzione di un’emocoltura. In presenza di un quadro liquorale compatibile con meningite asettica è comunque opportuno iniziare una terapia antibiotica empirica in tutti i casi in cui la diagnosi di meningite batterica acuta possa essere comunque sostenuta sulla base dei dati anamnestici e obiettivi.
si. Utile, in particolare nei casi in cui l’esame microscopico e colturale del liquor risulti negativo, la ricerca di antigeni microbici mediante test di agglutinazione al lattice, anche se, in considerazione della relativa sensibilità della metodica, un risultato negativo non esclude la diagnosi. L’affidabilità dell’identificazione del DNA batterico e della tipizzazione mediante PCR è in fase di valutazione clinica.
Meningite meningococcica A. Eziologia ed epidemiologia. È la meningite purulenta più frequente nell’adulto e nei paesi in cui è stata introdotta la vaccinazione anti-Haemophilus influenzae occupa un posto rilevante anche nell’eziologia delle meningiti dell’età infantile: in Italia vengono attualmente segnalati circa 200 casi/anno. È causata da Neisseria meningitidis, diplococco Gram– che nei preparati ottenuti da campioni biologici e da colture si presenta con una tipica disposizione “a chicco di caffè”, spesso a sede intracellulare. In base alla struttura antigenica dei polisaccaridi capsulari vengono distinti diversi sierogruppi, i più importanti dei quali sono i sierogruppi B e C, frequenti in America e in Europa, e il sierogruppo A, frequentemente responsabile delle epidemie in Africa e in Asia. La parete cellulare del meningococco è caratterizzata dalla presenza del lipo-oligosaccaride (LOS), potente endotossina verosimilmente implicata nella genesi dello shock settico e della coagulazione intravascolare disseminata che frequentemente complicano la sepsi meningococcica. La malattia si manifesta in forma sporadica o epidemica nel tardo inverno-inizio primavera. L’habitat naturale del meningococco è il rinofaringe dell’uomo: la trasmissione dell’infezione avviene per via aerogena attraverso l’inalazione di goccioline delle secrezioni nasofaringee di un malato o molto più frequentemente di un portatore sano dell’infezione.
D. Decorso e prognosi. La malattia ha un tasso di letalità stimato intorno al 10%. L’evoluzione della meningite meningococcica trattata tempestivamente è nella maggioranza dei casi favorevole e le sequele neurologiche infrequenti. Assai più grave è invece la sepsi meningococcica, in particolare nei casi caratterizzati dall’insorgenza di una coagulazione intravascolare disseminata massiva che hanno una prognosi pressoché costantemente infausta.
B. Clinica. La sindrome meningea compare bruscamente, dopo un breve periodo di incubazione (24-72 ore): le alterazioni dello stato di coscienza sono frequenti e possono evolvere rapidamente nel corso di poche ore, mentre le convulsioni e i segni neurologici focali sono meno caratteristici. In molti casi l’infezione è caratterizzata dalla comparsa di petecchie, in particolare sul tronco e sulle superfici estensorie degli arti inferiori, ma anche in sede congiuntivale e nelle zone cutanee più soggette a pressione (elastici, cinture). Le lesioni petecchiali possono confluire e formare estese lesioni ecchimotiche; costituiscono un indicatore importante dell’evoluzione della malattia e della possibile comparsa di una coagulazione intravascolare disseminata, segnalata dal subentrare di nuove petecchie nelle stesse aree, sanguinamento gengivale o gastrico, stillicidio ematico nei punti di prelievo o di inserzione della fleboclisi. C. Diagnosi. Il liquor è iperteso, torbido, opalescente o purulento, caratterizzato da pleiocitosi neutrofila, iperproteinorracchia, ipoglicorrachia: l’esame microscopico del sedimento liquorale con colorazione di Gram evidenzia il meningococco in circa il 75% dei ca-
E. Terapia. Gli antibiotici di scelta per il trattamento della meningite meningococcica sono la penicillina G (24 milioni di UI in 6 dosi) o l’ampicillina (12 g in 6 dosi) per via endovenosa per 10-14 giorni. Segnalazioni di una ridotta sensibilità di isolati di meningococco alla penicillina sono state riportate in diverse aree geografiche, in particolare in Spagna, seppur con un significato clinico non chiaro; in tali casi è giustificato l’utilizzo delle cefalosporine di III generazione (ceftriaxone o cefotaxime). Il cloramfenicolo rappresenta un’efficace alternativa nei pazienti allergici alla penicillina. La somministrazione di desametasone concomitante o antecedente la prima dose di antibiotico è associata ad una riduzione della mortalità. F. Profilassi. La principale misura per la prevenzione della meningite meningococcica è la profilassi antibiotica, raccomandata per coloro che nei 10 giorni antecedenti l’inizio dei sintomi hanno avuto contatti diretti e prolungati con il paziente, in particolare con le sue secrezioni orofaringee (familiari, membri di comunità chiuse come caserme, collegi, personale medico che abbia effettuato la respirazione bocca a bocca, ecc.): in questi soggetti, infatti, il rischio di malattia è 500-800 volte superiore a quello della popolazione generale. Il farmaco più utilizzato è la rifampicina (600 mg per os bidose per 2 giorni nell’adulto, 10 mg/kg per os bidose per 2 giorni nel bambino). Buoni risultati sono stati ottenuti anche con il ceftriaxone e la ciprofloxacina in dose unica, entrambi efficaci nell’eradicare il meningococco dal rinofaringe. La vaccinazione di routine con il vaccino meningococcico quadrivalente (attivo contro i sierogruppi A, C, Y e W135) non è giustificata per l’assenza di protezione nei confronti del sierogruppo B, per la sua scarsa efficacia nei bambini di età inferiore ai due anni e per la durata limitata del periodo di protezione anticorpale. È attualmente raccomandata in soggetti appartenenti a gruppi a rischio: viaggiatori in aree endemiche, quali l’Africa subsahariana o in zone con epidemie recenti, reclute, pazienti con asplenia anatomica o funzionale, o con deficit del complemento.
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Meningite pneumococcica A. Eziologia ed epidemiologia. È una meningite purulenta, causata da Streptococcus pneumoniae, cocco Gram+ che colonizza il rinofaringe, dal quale può essere isolato nel 10-20% dei casi negli adulti e nel 20-40% dei casi nei bambini. Ha un’incidenza annuale di 1-2 casi ogni 100.000 abitanti, più elevata nella prima infanzia e negli adulti oltre i 65 anni. Può derivare da un’infezione contigua (sinusite, otite media, mastoidite), da una disseminazione ematogena (polmonite, endocardite) ed è la meningite più frequente nei pazienti con frattura della base cranica e liquorrea. È frequentemente osservata in pazienti compromessi (malnutrizione, alcolismo, insufficienza epatica o renale cronica, diabete mellito, asplenia anatomica o funzionale, mieloma multiplo, ipo--globulinemia, neoplasie). B. Clinica e diagnosi. La presentazione clinica è variabile. L’esame microscopico del sedimento liquorale con colorazione di Gram è positiva in quasi tutti i casi, ad eccezione dei pazienti già trattati con antibiotici, nei quali il numero di batteri nel liquor viene significativamente ridotto; in questi casi la determinazione dell’antigene capsulare mediante test di agglutinazione al lattice può essere di ausilio diagnostico. C. Terapia. È buona regola che la terapia della meningite pneumococcica venga stabilita sulla base della sensibilità antibiotica del microrganismo in considerazione del frequente isolamento di ceppi penicillino-resistenti e del recente riscontro di ceppi resistenti alle cefalosporine. In Europa la prevalenza dei ceppi con ridotta sensibilità alla penicillina è variabile nelle diverse aree geografiche; in Francia, Spagna, Ungheria è superiore al 10%, mentre in Italia è inferiore al 5%. La terapia di prima scelta si basa attualmente sull’utilizzo di cefalosporine di III generazione (cefotaxime, ceftriaxone) in associazione o meno alla vancomicina in relazione ai livelli di resistenza alle -lattamine osservati in quell’area geografica. L’utilizzo della rifampicina in associazione alle cefalosporine si è dimostrata utile nel trattamento delle meningiti da pneumococchi resistenti. Anche la terapia con meropenem sembra dare risultati incoraggianti. La somministrazione di desametasone concomitante o antecedente la prima dose di antibiotico si associa ad un miglioramento della prognosi. D. Profilassi. La vaccinazione antipneumococcica può prevenire il rischio di infezioni invasive da S. pneumoniae: è consigliata nei gruppi a rischio e negli adulti oltre i 65 anni, nei quali conferisce una protezione superiore al 75%. Meningite da Haemophilus influenzae A. Eziologia ed epidemiologia. La meningite da Haemophilus influenzae, bacillo Gram– saprofita delle vie aeree superiori, è la più frequente causa di meningite purulenta nei bambini di età inferiore ai 5 anni, è gravata da una mortalità del 5% e dalla presenza di sequele neurologiche nel 15-30% dei casi. È particolar-
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mente frequente nei bambini di età compresa tra i 6 e i 18 mesi verosimilmente per l’insufficiente presenza a questa età di livelli anticorpali protettivi. Nei paesi nei quali è stata introdotta a partire dal 1985 la vaccinazione anti-H. influenzae di tipo B (USA, Finlandia) l’incidenza della malattia si è ridotta del 70-98%. B. Clinica e diagnosi. La presentazione clinica è variabile, l’esordio della sindrome meningea è abitualmente preceduto da un’infezione delle vie aeree superiori o da un’otite media e frequentemente caratterizzato nei bambini dalla comparsa di atassia. L’esame microscopico del sedimento liquorale con colorazione di Gram è positivo in circa il 70% dei casi, la ricerca dell’antigene capsulare mediante test di agglutinazione al lattice è risultata positiva in circa il 90% dei casi con isolamento positivo; anche l’emocoltura è frequentemente positiva. C. Terapia e profilassi. Le cefalosporine di III generazione (cefotaxime 200 mg/kg in 3-4 dosi, ceftriaxone 100 mg/kg in 1-2 dosi) somministrate per via endovenosa per 10-15 giorni costituiscono gli antibiotici di prima scelta per la terapia di questa meningite, in considerazione della frequente presenza di ceppi resistenti all’ampicillina e al cloramfenicolo. L’utilizzo in associazione di desametasone nei bambini si è dimostrato efficace nel ridurre le sequele neurologiche e uditive; la somministrazione concomitante o antecededente la prima somministrazione di antibiotico sembra maggiormente efficace.
Meningiti virali acute La meningite virale acuta è un evento clinico relativamente frequente: studi epidemiologici condotti negli anni Ottanta negli USA e in Nord Europa riportano una incidenza annuale pari a 10-25/100.000 persone. Gli agenti eziologici più spesso in causa sono gli enterovirus (coxsackie di gruppo A e B, echo), il virus parotitico, il virus della coriomeningite linfocitaria, il virus herpes simplex, il cytomegalovirus. Nella maggioranza dei casi la meningite virale è una malattia benigna autolimitantesi. Dal punto di vista clinico l’esordio è spesso brusco, la sindrome meningea è generalmente più sfumata, con una cefalea frequentemente frontale o retrorbitale e una rigidità nucale meno spiccata, a volte apprezzabile solo con una flessione estrema del capo sul collo. Più frequenti rispetto alle meningiti batteriche sono invece i sintomi tipici di un’infezione sistemica: astenia, anoressia, malessere generale, nausea, dolori addominali, faringodinia. L’esame del liquor, di aspetto limpido, incolore o appena opalescente, evidenzia in media 100-1000 cellule/mm3, in predominanza linfociti, la proteinorrachia può essere normale o modestamente elevata, la glicorrachia può essere normale o modestamente ridotta. Sebbene il quadro clinico e liquorale sia simile in tutte le meningiti asettiche, la raccolta di alcuni elementi
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anamnestici può orientare la diagnosi eziologica: l’insorgenza in una determinata stagione (le meningiti da enterovirus sono frequenti in tarda estate e in autunno, il virus della coriomeningite linfocitaria in inverno, il virus parotitico in primavera), la presenza di altri familiari malati (l’introduzione di un virus coxsackie causa infezione nei 2/3 dei soggetti non immuni), l’esposizione ad animali (topi, cavie, criceti) e ad artropodi (zanzare, zecche e flebotomi). Anche la ricerca di segni non neurologici può essere utile ai fini di una diagnosi eziologica: classici esempi sono la contemporanea presenza di parotite e/o orchite nelle infezioni da Paramyxovirus parotitidis, di herpangina nelle infezioni da virus coxsackie, di linfoadenomegalia nelle infezioni da virus dell’immunodeficienza umana (HIV), virus di EpsteinBarr (EBV), cytomegalovirus (CMV). La conferma diagnostica di meningite virale richiede tradizionalmente l’isolamento del virus da campioni biologici idonei (secrezioni orofaringee, feci, sangue, liquor cerebrospinale) e/o la dimostrazione di un significativo incremento dei titoli anticorpali specifici nel campione di siero raccolto in fase acuta e in convalescenza. In alcune infezioni è inoltre possibile documentare la presenza di una sintesi anticorpale intratecale attiva. La recente introduzione della PCR su liquor nella routine clinica ha reso più facile e rapida la diagnosi di infezione da virus erpetici ed enterovirus. Il trattamento delle meningiti virali è essenzialmente sintomatico ad eccezione delle infezioni sostenute da virus erpetici nelle quali l’aciclovir è stato utilizzato con successo. Meningite da enterovirus A. Eziopatogenesi. Gli enterovirus (virus coxsackie A e B, virus echo 1-9, 11-25, 30-31) sono responsabili dell’80% dei casi di meningite asettica ad eziologia documentata e in generale del 40-60% dei casi di meningite virale. Sono virus ubiquitari ed estremamente diffusi, responsabili di piccole epidemie a maggiore incidenza nella stagione estivo-autunnale. La trasmissione è generalmente per via oro-fecale: i virus possono essere isolati dalle secrezioni rinofaringee nella prima settimana dopo il contagio, mentre vengono eliminati in grandi quantità con le feci per oltre 3 settimane. I bambini, in particolare nel primo anno di vita, sono la popolazione più colpita. B. Clinica. La meningite da enterovirus ha manifestazioni cliniche comuni alle altre forme di meningite asettica: segni di encefalite o segni neurologici focali compaiono in una percentuale inferiore al 2% dei casi. C. Diagnosi. La diagnosi può essere più facilmente sospettata in presenza di segni sistemici caratteristici delle infezioni da enterovirus nel paziente e/o nei familiari: esantema roseoliforme, congiuntivite, linfoadenopatie nelle infezioni da virus echo 9, herpangina nelle infezioni da virus coxsackie di gruppo A, pericardite o pleurite nelle infezioni da virus coxsackie del gruppo B. Ad eccezione del periodo neonatale, il decorso è solitamente benigno; nei pazienti con ipo o a--globulinemia gli enterovirus possono tuttavia provocare meningi-
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ti croniche e meningoencefaliti progressive, spesso fatali nell’arco di alcuni anni. La diagnosi di meningite da enterovirus si basa sull’isolamento del virus dal liquor, possibile nel 65-70% dei casi, e/o nella dimostrazione di una risposta anticorpale specifica. L’isolamento virale da feci o gargarizzato, pur rappresentando un elemento suggestivo all’interno di un quadro clinico compatibile non è risolutivo ai fini diagnostici. L’identificazione del genoma virale nel liquor mediante PCR rappresenta attualmente un’alternativa diagnostica valida, caratterizzata da una sensibilità e rapidità di esecuzione maggiori, utile nel ridurre i tempi di ospedalizzazione e l’utilizzo di terapie antibiotiche empiriche. Meningite da virus parotitico A. Eziopatogenesi. Oltre la metà dei pazienti con parotite presenta una pleiocitosi liquorale linfocitaria e nel 25% dei casi una modica riduzione della glicorrachia. Nel l5% dei casi e più frequentemente nei maschi compare inoltre una sindrome meningea vera e propria, in media dopo 5 giorni dall’insorgenza della parotite; va tuttavia ricordato che in molti pazienti la tumefazione delle ghiandole salivari non è clinicamente apprezzabile. B. Clinica. La sintomatologia è simile alle altre forme di meningite asettica: febbre elevata per 3-4 giorni, vomito, letargia, rigor nucale, cefalea e alterazioni dello stato mentale; il decorso è solitamente favorevole nell’arco di 7-10 giorni. C. Diagnosi. La diagnosi è sierologica; l’isolamento virale da liquor, possibile nella prima settimana di malattia, è una metodica poco sensibile (30-50% dei casi). Meningite tubercolare È la causa più frequente di meningite cronica e rappresenta circa il 15% delle localizzazioni extrapolmonari da Mycobacterium tuberculosis. Deriva nella maggioranza dei casi dalla rottura nello spazio subaracnoideo di un tubercoloma cerebrale o spinale, meno frequentemente per disseminazione ematogena; quest’ultima evenienza è più frequente nei bambini a seguito di un’infezione primaria o negli ospiti compromessi (malnutrizione, alcolismo, neoplasie, terapie immunosoppressive, infezione da HIV). Il reperto anatomopatologico è caratterizzato da un prevalente interessamento delle meningi della base cranica dove è possibile osservare un essudato gelatinoso grigio-verdastro che si estende dal ponte al chiasma ottico ed avvolge a manicotto i nervi cranici adiacenti; frequenti sono i fenomeni vasculitici a carico delle vene e delle arterie locali. La presentazione clinica abituale è quella di una meningite cronica; al momento della diagnosi la metà dei pazienti riferisce la presenza di una sintomatologia aspecifica (cefalea, febbricola, modeste alterazioni dello stato psichico) da oltre 2 settimane; abbastanza precoce è la paralisi dei nervi oculomotori, in particolare dell’abducente, osservato nel 30-70% dei pazienti. Nei casi non trattati la malattia progredisce con l’insorgenza di una sindrome
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meningea conclamata, convulsioni, deterioramento dello stato psichico, interessamento bulbare e coma. Frequente è la presenza di una modesta anemia e di iponatriemia secondaria alla sindrome da inappropriata secrezione di ADH e nei casi di derivazione ematogena sono spesso presenti segni di localizzazione extrameningea; l’allergometria tubercolinica risulta negativa nel 50-60% dei pazienti. Le indagini neuroradiologiche possono evidenziare piccole lesioni tondeggianti, singole o multiple, assumenti il contrasto, verosimile espressione di tubercolomi in evoluzione; tale reperto è più frequente nei pazienti con infezione da HIV. Il liquor, generalmente iperteso, può essere limpido o avere un aspetto smerigliato, opalescente; lasciato a 37 °C per qualche ora, mostra sovente la formazione di un fine reticolo di fibrina (reticolo di Mya). È presente una moderata pleiocitosi liquorale (in media 100-500 cellule/mm3), in prevalenza linfocitaria, anche se in fase iniziale o nei pazienti in trattamento antitubercolare vi può essere una predominanza di neutrofili. La protidorrachia è elevata (150-400 mg/dl) e in pazienti con meningoencefalomielite tubercolare o in presenza di blocchi liquorali può superare i valori di 1000-2000 mg/dl. Caratteristica e spiccata, in assenza di trattamento, è la progressiva riduzione della glicorrachia (15-30 mg/dl). L’identificazione del micobatterio tubercolare all’esame microscopico è infrequente (10-20% dei casi); l’esame colturale in terreni idonei (Petragnani, Lowenstein-Jensen) o preferibilmente con metodiche radiometriche consente l’isolamento (38-88% dei casi), la tipizzazione e l’esecuzione dell’antibiogramma. La mortalità è ancora elevata nella prima infanzia, nell’anziano o nei casi a lungo indiagnosticati; sono inoltre possibili riprese evolutive della malattia nei casi non sufficientemente trattati. La prognosi è inoltre correlata alla gravità del quadro clinico al momento dell’introduzione della terapia; in circa la metà dei pazienti con profonde alterazioni dello stato di coscienza o estesi deficit motori permangono postumi severi. In considerazione della loro scarsa sensibilità e della necessità di tempi lunghi per l’isolamento del germe, le indagini microbiologiche convenzionali sono di scarso ausilio nell’impostazione di una terapia antitubercolare in presenza di un quadro clinico compatibile; rapida e affidabile per la sua sensibilità e specificità si è invece dimostrata l’identificazione del DNA del micobatterio mediante PCR, metodica recentemente introdotta nella routine clinica per la diagnosi differenziale delle meningiti infettive e per il monitoraggio dell’efficacia terapeutica nei pazienti in trattamento antitubercolare. In considerazione della relativa frequenza di questa patologia nel panorama delle meningiti croniche, l’introduzione di una terapia empirica antitubercolare è giustificata nei pazienti con una presentazione clinica e liquorale compatibile e un’anamnesi positiva per un’infezione tubercolare attiva o pregressa. Fondamentale è la raccolta dei campioni biologici idonei per l’esame colturale (liquor, escreato, sangue, urine, feci) prima dell’inizio della terapia. Nella meningite tubercolare sostenuta da microrganismi sensibili la terapia prevede la somministrazione,
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inizialmente per via endovenosa, poi per os di isoniazide, rifampicina e pirazinamide per i primi 2 mesi, poi di rifampicina e isoniazide per una durata totale di 6-9 mesi. Casi di meningite tubercolare sostenuti da microrganismi resistenti sono stati segnalati con frequenza crescente in particolare nei soggetti con infezione da HIV. In caso di sospetta resistenza a rifampicina e/o isoniazide, in attesa dei risultati delle prove di sensibilità è opportuna l’associazione di etambutolo e streptomicina. Nelle meningiti da ceppi multiresistenti, gravate da una letalità elevatissima, qualche risultato è stato ottenuto con l’introduzione di etionamide, claritromicina, imipenem e fluorochinoloni. L’utilizzo di steroidi (desametasone 8-12 mg/die o dosi equivalenti di prednisone) mantenuto per 4-6 settimane ed oltre si è dimostrato efficace nell’impedire la formazione di blocchi liquorali, nel ridurre il rischio di erniazione cerebrale e in generale la mortalità e la frequenza di sequele, in particolare nei pazienti con un quadro clinico di gravità intermedia. Neurosifilide Le manifestazioni cliniche della neurosifilide sono attualmente molto rare grazie al riconoscimento e al trattamento della lue in fase precoce; una maggior frequenza di casi è stata tuttavia segnalata nei pazienti con infezione da HIV. Nella storia naturale della malattia, a seguito della moltiplicazione e della disseminazione delle spirochete caratteristica della sifilide secondaria, vi è un frequente coinvolgimento asintomatico del SNC (8-40% dei casi). Nell’1-2% dei pazienti, più frequentemente nei primi 2 anni dall’infezione, si sviluppa un quadro di meningite asettica acuta (neurosifilide precoce), con cefalea, vomito, rigor nucale e a volte interessamento dei nervi cranici, in particolare del nervo ottico e dell’acustico. L’esame del liquor evidenzia una pleiocitosi linfocitaria variabile, iperproteinorrachia e una modesta ipoglicorrachia. In una percentuale variabile di casi l’infezione cronica del SNC conduce nell’arco di 5-30 anni alle manifestazioni caratteristiche della sifilide terziaria (neurosifilide tardiva), i cui quadri clinici principali, spesso coesistenti, includono la sifilide meningovascolare e la sifilide parenchimatosa; rarissimo è il riscontro di gomme luetiche cerebrali. Nella sifilide meningovascolare, che insorge 5-10 anni dopo l’acquisizione dell’infezione, l’elemento caratteristico è la presenza di un’endoarterite obliterante dei piccoli vasi, con conseguente sviluppo di piccole multiple aree infartuali e dei corrispondenti segni neurologici focali (emiplegia, afasia, crisi comiziali). Nella sifilide parenchimatosa l’elemento chiave è la degenerazione neuronale, determinante nell’insorgenza di due quadri clinici peculiari, generalmente documentabili dopo 10-20 anni dall’acquisizione dell’infezione e attualmente di osservazione eccezionale, la paralisi progressiva e la tabe dorsale. La diagnosi di neurosifilide si basa sul riscontro, nei soggetti con sierologia positiva, della positività delle prove liquorali: VDRL, determinazione della sintesi in-
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tratecale di anticorpi antitreponema, delle IgM anti-Treponema pallidum, della PCR. In alcuni casi si tratta di una diagnosi problematica perché la determinazione di VDRL su liquor può dare falsi positivi (contaminazione ematica) e falsi negativi. La negatività di TPHA e FTA su LCR esclude inoltre la diagnosi di neurosifilide tardiva, non la possibilità di una neurosifilide precoce. Il farmaco di scelta per il trattamento della neurosifilide è la benzilpenicillina, somministrata per via endovenosa, alla dose di 12-24 milioni di U divisi in 6 somministrazioni, per 10-14 giorni. In alternativa possono essere utilizzati, anche se sono stati segnalati insuccessi terapeutici, il ceftriaxone (1 g im o ev per 14 giorni), la doxiciclina (200 mg per os bidose per 21 giorni), il cloramfenicolo (2 g ev per 30 giorni). In tutti i pazienti con neurosifilide, in particolare nei soggetti con infezione da HIV, l’efficacia della terapia dovrebbe essere monitorata con controlli liquorali ogni 3-6 mesi fino a normalizzazione del quadro.
NEVRASSITI Le nevrassiti sono forme morbose nelle quali il processo infiammatorio è localizzato prevalentemente all’encefalo (encefaliti), al midollo spinale (mieliti) o ad entrambi (encefalomieliti). Possono avere un decorso acuto, subacuto o cronico e riconoscono nella grande maggioranza dei casi un’eziologia virale. Assai più raramente sono in causa altri agenti eziologici: micoplasmi, rickettsie (R. prowazekii, R. rickettsii), spirochete e protozoi (Toxoplasma gondii, Acanthamoeba spp, Trypanosoma spp). Nella maggioranza dei casi il processo infiammatorio è secondario a un’invasione diretta da parte dell’agente eziologico del tessuto cerebrale e del midollo spinale, meno frequentemente è scatenato da un processo di demielinizzazione post o parainfettiva; in alcuni casi il danno tissutale è invece legato all’azione lesiva di neurotossine di origine batterica. Gli agenti eziologici invadono il sistema nervoso centrale generalmente per via ematogena; il virus herpes simplex, il virus varicella-zoster e il virus della rabbia lo raggiungono per via neuronale, percorrendo in direzione centripeta le diramazioni nervose; le amebe “free-living” invadono l’encefalo penetrando attraverso la mucosa nasale e l’etmoide lungo le fibre del nervo olfattorio.
Encefaliti virali Oltre 100 virus sono stati associati ad un’infezione acuta del nevrasse (Tab. 80.3): la frequenza con cui essi causano un’encefalite varia in primo luogo in relazione alla neuroinvasività, al neurotropismo e alla neurovirulenza del microrganismo, vale a dire alla capacità di raggiungere il SNC, di infettare cellule di derivazione neurale e di causare malattia. Per esempio, il virus della parotite ha una neuroinvasività spiccata, ma causa raramente un’encefalite poiché ha un neurotropismo pressoché limitato alle cellule ependimali; viceversa il virus herpes simplex, ubiquitario e scarsamente neu-
Tabella 80.3 - I principali agenti eziologici virali causa di nevrassiti acute.
FAMIGLIA O GENERE Alphavirus
Flavivirus
Bunyavirus Paramyxovirus Morbillivirus Arenavirus Enterovirus
Lyssavirus Filovirus Lentivirus Herpetoviridae
Adenovirus
SPECIE Virus dell’encefalomielite equina occidentale Virus dell’encefalomielite equina orientale Virus dell’encefalite equina del Venezuela Virus dell’encefalite di St. Louis Virus dell’encefalite giapponese Virus dell’encefalite australiana della valle del Murray Virus delle encefaliti trasmesse da zecche Virus dell’encefalite californiana Virus della parotite Virus del morbillo Virus della coriomeningite linfocitaria Virus della poliomielite Virus echo Virus coxsackie Virus della rabbia Virus ebola Virus Marburg Virus dell’immunodeficienza umana (HIV) Virus herpes simplex 1 e 2 Virus varicella-zoster Cytomegalovirus Virus di Epstein-Barr Herpesvirus umano 6 Sierotipo 1, 6, 7, 12
roinvasivo, causa, una volta raggiunto il SNC, in virtù del suo spiccato neurotropismo per le cellule neuronali e gliali, un’encefalite molto grave. La frequenza di alcune encefaliti ha inoltre una precisa distribuzione geografica e stagionale: l’encefalite di St. Louis, trasmessa da zanzare, è la causa più comune di encefalite virale epidemica negli USA nella tarda estate, mentre le encefaliti trasmesse da zecche sono frequenti nell’Europa centro-settentrionale nel periodo primaverile. L’attuale frequenza di alcune patologie è inoltre condizionata dai programmi vaccinali in atto nei differenti paesi; in virtù delle vaccinazioni di massa, la poliomielite è stata pressoché eliminata dall’emisfero occidentale e le complicanze neurologiche del morbillo si vanno gradualmente riducendo. Le manifestazioni cliniche, nonché le alterazioni anatomopatologiche, dipendono dal neurotropismo dell’agente eziologico in causa e di conseguenza dal tipo di cellule e dalle sedi prevalentemente infettate. Nei casi in cui vi sia un contemporaneo interessamento delle leptomeningi, l’encefalite acuta esordisce con caratteristiche cliniche in parte sovrapponibili a quelle della meningite acuta: febbre, cefalea, rigor nucale, alterazioni dello stato di coscienza, variabili dal sopore al coma. A differenza delle meningiti, l’infezione dei neu-
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roni e il coinvolgimento diffuso della corteccia cerebrale giustificano l’insorgenza più precoce di alterazioni dello stato di coscienza e la maggior frequenza di crisi comiziali. Nelle encefaliti sono frequentemente presenti segni di tipo piramidale (accentuazione dei riflessi osteotendinei, presenza di una risposta cutaneo-plantare) e i segni tipici dell’ipertensione endocranica; il coinvolgimento diretto dei neuroni del tronco cerebrale può inoltre causare rapidamente coma o insufficienza respiratoria. L’infezione degli oligodendrociti è responsabile della comparsa di segni neurologici focali, correlati ai fenomeni di demielinizzazione; l’infezione della microglia e dei macrofagi può condurre ad alterazioni neurologiche per effetto indiretto sulla funzionalità dei neuroni. Le manifestazioni cliniche variano inoltre in relazione alle aree coinvolte nel processo infiammatorio: il coinvolgimento dell’area ipotalamo-ipofisaria può causare ipertermia o ipotermia, diabete insipido e inappropriata secrezione di ADH, il contemporaneo coinvolgimento del midollo spinale causa l’insorgenza di una paralisi flaccida, riduzione dei riflessi osteotendinei, ritenzione urinaria e fecale. La localizzazione del virus rabico nei neuroni del sistema limbico correla con le alterazioni del comportamento e l’aggressività tipiche della rabbia furiosa, la predilezione del virus herpes simplex per i lobi temporali giustifica le peculiarità della sintomatologia d’esordio. Nell’approccio al paziente con un quadro clinico compatibile con un’encefalite il compito del medico è quello in primo luogo di valutare rapidamente la presenza di patologie trattabili, prime fra tutte l’encefalite erpetica e le meningiti batteriche acute. Elementi chiave nell’interpretare le indagini neuroradiologiche e neurofisiologiche e nell’orientare in senso eziologico l’invio al laboratorio dei campioni di liquor sono la raccolta di un’anamnesi accurata con i familiari del paziente sulla presenza di precedenti infettivi, contatti con animali, effettuazione di vaccinazioni o viaggi, utilizzo di farmaci, nonché sulla concomitante presenza di episodi infettivi in altri membri della famiglia o nella comunità in cui vive il paziente, e l’esecuzione di un esame obiettivo volto a definire la presenza di un’ipertensione endocranica acuta, le caratteristiche del coinvolgimento neurologico e l’eventuale interessamento di altri organi o apparati. La TC cerebrale è utile in primo luogo per escludere l’esistenza di lesioni occupanti spazio: la presenza di una lesione in fossa posteriore o di un’estesa lesione edemigena asimmetrica controindica l’esecuzione della rachicentesi per il rischio di erniazione del tronco cerebrale, dei lobi temporali e cerebellari, derivante dall’alterazione della pressione endocranica, a seguito della rimozione di liquor. La RM cerebrale è più utile per la sua maggiore sensibilità nell’evidenziare, in fase precoce, la componente edemigena del processo infiammatorio, gli eventuali focolai necrotico-emorragici o la presenza di lesioni demielinizzanti. L’EEG documenta generalmente un rallentamento diffuso con occasionali attività comiziali; in alcune patologie, quali l’encefalite erpetica, il tracciato elettroencefalografico può essere caratteristico.
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L’esame del liquor, di aspetto limpido, normo o iperteso, evidenzia una pleiocitosi di grado variabile (102000 cellule/mm3), prevalentemente linfomonocitaria, anche se in alcuni casi, soprattutto all’esordio, può prevalere la componente polimorfonucleata. La presenza nel liquor di eritrociti può orientare la diagnosi verso un’encefalite erpetica. Nelle encefaliti virali, così come nelle encefaliti da rickettsie, la glicorrachia è sostanzialmente nella norma, mentre è ridotta nelle forme batteriche, fungine e nelle infezioni da amebe. La proteinorrachia è solitamente elevata, con un aumento anche della quota di immunoglobuline, inizialmente di provenienza ematica, per la maggior permeabilità della barriera emato-liquorale. Nelle infezioni sostenute da alcuni virus (per es., virus della parotite, virus herpes simplex, virus varicella-zoster) è possibile inoltre documentare nelle 2-3 settimane successive all’esordio la presenza di una sintesi intratecale attiva di IgG mediante la determinazione contemporanea del titolo di IgG nel liquor e nel siero. Quest’esame, seppur poco utile nell’indirizzare le decisioni terapeutiche in fase iniziale, è di aiuto nella conferma diagnostica. L’esame microscopico del sedimento liquorale preparato con la colorazione di Gram non evidenzia batteri e l’esame colturale standard è negativo. In assenza di lesioni focali il ricorso alla biopsia cerebrale non è utile ai fini diagnostici: la conferma della diagnosi risiede nell’isolamento virale da liquor o da altri campioni biologici (feci, saliva, sangue) e nella dimostrazione di un incremento significativo del titolo anticorpale nel siero ottenuto in fase acuta e convalescenziale. La dimostrazione di sequenze del genoma virale nel liquor mediante PCR qualitativa e quantitativa si è invece rivelata utile in particolare nella diagnosi delle encefaliti da virus erpetici e promettente nel monitoraggio dell’efficacia terapeutica dei farmaci antivirali. Infezioni da virus erpetici Quasi tutti i virus erpetici possono essere responsabili di manifestazioni cliniche legate al coinvolgimento del SNC; le più rilevanti sotto il profilo clinico-epidemiologico sono l’encefalite da virus herpes simplex, caratteristica del soggetto immunocompetente, e l’encefalite da CMV, pressoché esclusivamente osservata in soggetti con compromissione dell’immunità cellulomediata. Anche la mononucleosi infettiva può essere complicata in circa l’1% dei casi da manifestazioni neurologiche: meningiti asettiche, encefaliti, atassia cerebellare acuta, paralisi dei nervi cranici, sindrome di GuillainBarré. Nei pazienti con varicella le complicanze neurologiche si presentano in circa 1/10.000 casi, la manifestazione clinica più frequente è l’atassia cerebellare acuta, a decorso generalmente favorevole nell’arco di 3-4 settimane. Manifestazioni cliniche più rare includono l’encefalomielite postinfettiva, la mielite acuta trasversa, la sindrome di Reye, vasculiti ed ischemie cerebrali, sindrome di Guillain-Barré. Alcune complicanze neurologiche sono state descritte anche in associazione o a seguito di episodi di herpes zoster, principalmente in ospiti immunodepressi: meningite asettica, menin-
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goencefalite, mielite trasversa o ascendente ed emiparesi controlaterale a seguito di uno zoster oftalmico. Nei bambini con esantema critico sono frequenti le manifestazioni convulsive, eccezionale il riscontro di una meningite o encefalite; in segnalazioni isolate herpesvirus 6 è stato associato al riscontro di encefaliti nell’adulto.
alla biopsia cerebrale. Anche la dimostrazione di una sintesi intratecale di anticorpi specifici rappresenta un valido strumento per la conferma diagnostica; è per altro di limitato ausilio nella diagnosi differenziale delle encefaliti poiché è osservabile 2-3 settimane dopo l’inizio della malattia e può persistere per molti mesi.
Encefalite da virus herpes simplex A. Eziologia. L’encefalite da virus herpes simplex è una delle più frequenti cause di encefalite virale acuta (2-4 casi/anno per milione). La quasi totalità dei casi è sostenuta dal virus herpes simplex tipo 1, ad eccezione del periodo neonatale nel quale oltre i due terzi dei casi sono sostenuti dal virus herpes simplex tipo 2, che contamina il canale del parto. Durante l’infezione primaria, più frequentemente una gengivostomatite o una faringite, HSV-1 viene verosimilmente trasportato in maniera retrograda attraverso le fibre nervose sensitive fino ai gangli del trigemino, dove persiste in fase di latenza per tutta la vita. L’encefalite erpetica può essere il risultato di un’infezione primaria, di una reinfezione esogena o della riattivazione dell’infezione latente: il quadro istologico è caratterizzato dalla presenza di focolai necrotico-emorragici, più spesso localizzati alla corteccia temporale, infiltrati perivascolari ed alterazioni della glia e dei neuroni, nei quali è frequente il riscontro di tipiche inclusioni nucleari.
D. Terapia. L’acyclovir (30 mg/kg ev in 3 dosi per 14-21 giorni) costituisce il farmaco di scelta per la terapia dell’encefalite erpetica, poiché riduce significativamente l’elevata letalità (70% nei casi non trattati) e il rischio di postumi (90% nei casi non trattati) dell’encefalite erpetica. In considerazione della gravità della malattia, delle difficoltà e dei tempi necessari per giungere alla certezza diagnostica, nonché dell’efficacia e della buona tollerabilità del farmaco, il trattamento con acyclovir dovrebbe essere intrapreso in tutte le situazioni in cui il quadro clinico-neuroradiologico e liquorale non consenta di escludere tale diagnosi.
B. Decorso e clinica. Può avere un decorso insidioso o fulminante. Il quadro clinico è caratterizzato da febbre elevata e cefalea; il 90% dei pazienti, inoltre, sviluppa precocemente sintomi o segni suggestivi di un coinvolgimento mono o bilaterale dei lobi temporali: alterazioni improvvise della personalità e allucinazioni. Nel 40% dei pazienti insorgono precocemente crisi epilettiche focali. Nel 30% dei pazienti insorgono emiparesi, più severe al volto e all’arto superiore, afasia, deficit del campo visivo nei quadranti superiori, parestesie. In una minoranza dei casi il quadro evolve rapidamente fino al coma, senza segni di localizzazione. C. Diagnosi. La TC e più precocemente e più frequentemente la RM cerebrale possono fornire elementi utilissimi per una diagnosi presuntiva: in sede temporale mono o bilateralmente compaiono alterazioni ipodense espressione dello sviluppo di focolai necrotico-emorragici. Il tracciato elettroencefalografico può evidenziare solo un rallentamento diffuso, ma è frequente la presenza di caratteristici complessi ad alto voltaggio a partenza dai lobi temporali. Il liquor cerebrospinale è iperteso, con una pleiocitosi linfocitaria variabile (10-1000 cellule/mm3), una proteinorrachia elevata (in media 100 mg/dl). Pur non essendo un reperto patognomonico dell’encefalite erpetica sono spesso presenti globuli rossi. L’isolamento di HSV-1 da liquor è tipicamente negativo (4% dei casi) mentre l’identificazione del DNA virale mediante PCR, per la sua elevata specificità e sensibilità, costituisce attualmente, in particolare all’esordio sintomatologico, il principale strumento diagnostico e ha rapidamente soppiantato la necessità di ricorrere
Encefalite da cytomegalovirus Il cytomegalovirus può provocare una meningoencefalite nel corso di un’infezione congenita. Complicanze neurologiche quali meningiti, encefaliti e sindrome di Guillain-Barré possono essere presenti inoltre in circa il 5% dei pazienti con infezione acquisita; peraltro un interessamento neurologico grave ed esteso si verifica pressoché esclusivamente in soggetti con compromissione dell’immunità cellulo-mediata, in particolare nei soggetti con infezione da HIV. Il coinvolgimento del SNC può manifestarsi con le caratteristiche di un’encefalite micronodulare o con quadri clinici più distinti: la ventricoloencefalite e la poliradicolomielite. La ventricoloencefalite è caratterizzata da rallentamento psicomotorio, sopore, paralisi dei nervi cranici. Le manifestazioni cliniche della poliradicolomielite includono ipostenia ascendente, areflessia degli arti inferiori, perdita del controllo sfinterico, parestesie dolorose e deficit sensitivo variabile. Nei pazienti con ventricoloencefalite le indagini neuroradiologiche evidenziano ampliamento dei ventricoli, rinforzo subependimale, “enhancement” periventricolare. Le lesioni anatomopatologiche, necrosi dell’ependima e delle regioni subependimali, suggeriscono l’ipotesi di un’infezione fulminante centrifuga a partenza dai ventricoli, piuttosto che una diffusione ematogena quale quella osservata nell’encefalite micronodulare. L’esame del liquor evidenzia una pleiocitosi in prevalenza polimorfonucleata e ipoglicorrachia. La conferma eziologica viene ottenuta con l’isolamento del virus da campioni bioptici cerebrali o con la dimostrazione istologica o immunocitochimica, nello stesso materiale, dei tipici inclusi intranucleari o degli antigeni virali. Buona sensibilità ha anche l’identificazione del DNA virale nel liquor mediante la PCR, metodo di esecuzione assai rapido e agevole. La risposta ai farmaci antivirali, ganciclovir (10 mg/kg/die ev) e foscarnet (180 mg/kg/die ev) utilizzati anche in associazione o in alternanza è variabile, ma generalmente insoddisfacente.
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Encefaliti da arbovirus Le encefaliti da arbovirus (Arthropod-Borne virus) sono zoonosi causate da virus trasmessi occasionalmente all’uomo da artropodi (zanzare, zecche e flebotomi). Si manifestano in genere con episodi epidemici e hanno una distribuzione limitata alle aree geografiche in cui è presente il vettore e il serbatoio animale naturale; sono inoltre più frequenti nelle stagioni più calde nelle quali le condizioni climatiche favoriscono la diffusione del vettore. Oltre 20 arbovirus possono causare encefalite nell’uomo: gli agenti eziologici sono virus a RNA, appartenenti sotto il profilo tassonomico a generi diversi (Alphavirus e Flavivirus della famiglia Togaviridae, Bunyavirus della famiglia Bunyaviridae), ma accomunati da una caratteristica biologica: l’inoculazione del virus nell’ospite vertebrato è obbligatoriamente preceduta dall’infezione e dalla replicazione virale nell’insetto ematofago. I virus infatti si moltiplicano attivamente nell’intestino e nelle ghiandole salivari degli insetti vettori e vengono trasmessi mediante la puntura ad animali vertebrati (uccelli, roditori, equini, ovini, suini) che a loro volta costituiscono la riserva dell’infezione per altri artropodi. L’uomo si infetta accidentalmente e funge da ospite terminale, poiché non svolge alcun ruolo nel mantenimento e nella trasmissione del contagio. L’infezione è nella maggioranza dei casi inapparente e può essere documentata dalla comparsa di un’immunità specifica; solo in una piccola percentuale di casi, dopo un periodo d’incubazione variabile da 4 a 20 giorni, si sviluppa una malattia clinicamente manifesta. La localizzazione al SNC è preceduta da una fase viremica, nella quale è possibile tentare l’isolamento virale. Le lesioni anatomopatologiche consistono in leptomeningite ed in piccole emorragie ed infiltrati perivascolari cerebrali costituiti da linfociti ed elementi microgliali. Si stabiliscono quindi aree di necrosi anche estese, a volte prevalenti nella corteccia, a volte nei nuclei basali, nelle strutture talamiche, pontine, cerebellari o nelle corna midollari anteriori. I neuroni mostrano fenomeni di cromatolisi e degenerazione delle guaine mieliniche. 1. L’encefalite di St. Louis rappresenta la causa più comune di encefalite virale epidemica negli USA (oltre 2000 casi nell’epidemia del 1975). Le manifestazioni cliniche, più frequenti nell’anziano, sono in parte inusuali: in alcuni pazienti vi è una fase prodromica caratterizzata da disuria e piuria, frequente è la presenza di mioclonie e della sindrome da inappropriata secrezione di ADH; la letalità è del 5-10%. 2. L’encefalomielite equina occidentale, causata da un alphavirus, è presente nelle regioni occidentali degli USA, in America centrale, Argentina e Brasile. È trasmessa ai cavalli e all’uomo, principalmente da zanzare del genere Culex; il serbatoio naturale è principalmente costituito da fringuelli, passeri ed esteso a uccelli domestici. È raramente fatale anche se il decorso clinico può essere severo; le sequele sono più frequenti nella prima infanzia.
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3. L’encefalomielite equina orientale è presente nelle regioni paludose lungo la costa atlantica degli USA e dell’America centromeridionale. È causata da un alphavirus trasmesso ai fagiani, ai cavalli e raramente all’uomo da zanzare del genere Aedes; il serbatoio naturale dell’infezione è costituito in prevalenza da uccelli, soprattutto uccelli di palude, nell’ambito dei quali l’infezione è mediata da un’altra zanzara, Culiseta melanura. Sebbene rara, l’infezione umana è spesso sintomatica: l’encefalite ha un decorso fulminante con una letalità elevata (50-80%) e sviluppo di sequele permanenti in oltre un terzo dei pazienti. 4. L’encefalite giapponese è l’encefalite più comune in molte zone dell’Asia (oltre 20.000 casi/anno). È causata da un flavivirus trasmesso da zanzare del genere Culex; il serbatoio naturale dell’infezione è costituito da uccelli acquatici e maiali. La malattia colpisce prevalentemente i bambini, ha un decorso fulminante, caratterizzato dalla rapida comparsa di profonde alterazioni dello stato di coscienza, tremori grossolani, insufficienza cardiorespiratoria acuta, paralisi flaccida agli arti superiori. La letalità è di circa il 30%; un terzo circa dei sopravvissuti presenta gravi sequele (deficit cognitivi, paralisi, distonia, alterazioni nei movimenti). La disponibilità di un vaccino efficace (bambini, viaggiatori in aree rurali) ha ridotto notevolmente negli ultimi anni l’incidenza di questa malattia. 5. Le encefaliti trasmesse da zecche (Tick-Borne Encephalitis, TBE) sono causate da flavivirus antigenicamente correlati tra loro trasmessi da zecche del genere Ixodes presenti nelle regioni boscose in Canada (encefalite di Powassan), Scandinavia, Siberia (encefalite russa estivo-primaverile), Scozia e Irlanda (louping ill), in Giappone (encefalite da virus Negishi), in Belgio, nell’Europa centrale, soprattutto nei boschi viennesi e nella Foresta Nera (encefalite centroeuropea). Roditori (topi, ratti, marmotte) e ovini costituiscono la riserva naturale del virus. Le manifestazioni cliniche ricordano per alcuni aspetti la poliomielite: l’encefalite centroeuropea ha un decorso bifasico, caratterizzato dall’insorgenza di paralisi flaccide, forme ascendenti bulbari ad esito infausto durante il secondo episodio febbrile dopo una fase apiretica di 10-14 giorni. Rabbia A. Definizione ed epidemiologia. La rabbia è una nevrassite ad esito pressoché costantemente letale causata dal virus rabico: essa colpisce prevalentemente gli animali e solo occasionalmente l’uomo, in genere in seguito a morsicatura da parte dell’animale infetto. Ha diffusione ubiquitaria ed è distinguibile in due forme epidemiologiche: la rabbia urbana, propagata da animali domestici non immunizzati, principalmente dal cane, e la rabbia silvestre trasmessa dagli animali selvatici. Questi ultimi costituiscono il principale serbatoio dell’infezione: particolare importanza rivestono, nell’Europa settentrionale e centrale, la volpe, il tasso ed altri mustelidi che contribuiscono a mantenere l’infezione allo stato endemico. In altri paesi anche piccoli
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roditori quali scoiattoli, topi, ratti (Europa meridionale) e pipistrelli (America) rappresentano un’importante fonte di infezione. B. Eziologia. L’agente eziologico della rabbia è un virus appartenente alla famiglia Rhabdoviridae, genere Lyssavirus. Il virione, contenente RNA e di simmetria elicoidale, è circondato da un involucro proteico da cui originano escrescenze filamentose che lo rivestono e sono in grado di stimolare la sintesi di anticorpi neutralizzanti ed inibenti l’emoagglutinazione. Il nucleocapside contiene RNA e la sua complessa struttura antigenica induce la formazione di anticorpi specifici, fissanti il complemento. Gli anticorpi neutralizzanti sono protettivi. Il virus rabico è relativamente poco resistente: stabile alle basse temperature, può essere inattivato dal calore (60 °C per 5 min), dai raggi UV, dalla luce solare e dalla formalina. Virus isolati da diverse specie animali hanno mostrato differenti proprietà biologiche e sono state documentate numerose variazioni antigeniche: l’importanza di questi fattori nella patogenesi della rabbia e nell’eventuale immunizzazione resta ancora da chiarire. C. Anatomia e patologia. Il virus appena isolato dall’animale viene denominato virus da strada: esso provoca la malattia dopo un tempo di incubazione relativamente lungo, si moltiplica nel tessuto nervoso, determinando la formazione di inclusioni citoplasmatiche nei neuroni (corpi di Negri), ma anche in altri tessuti. Coltivato su encefalo di coniglio il virus si attenua (diminuisce la patogenicità per l’uomo) e diviene in grado di moltiplicarsi solo nel sistema nervoso (virus fisso). Il contagio avviene mediante morsicatura o graffiamento o lambimento di zone cutanee lese da parte dell’animale infetto. Il virus viene trasmesso all’uomo con la saliva e penetra nell’organismo attraverso soluzioni di continuo della cute, che rappresentano quindi la porta d’ingresso dell’infezione. Dopo la penetrazione del virus nell’organismo attraverso la cute o le mucose si verifica la prima moltiplicazione nel sito d’infezione; il virus quindi diffonde in direzione centripeta lungo i nervi periferici fino al SNC: la viremia evidenziata in qualche caso non sembra giocare un ruolo determinante. Nel SNC avviene la seconda replicazione virale all’interno dei neuroni e quindi il virus diffonde in direzione centrifuga lungo i nervi autonomici fino a raggiungere altri tessuti (ghiandole salivari, surreni, fegato, reni, polmoni, muscoli scheletrici, cute, cuore). Il virus viene quindi eliminato con la saliva ed in questo modo si verifica la diffusione della malattia. Le lesioni anatomopatologiche evidenziabili nel SNC sono di vario grado: macroscopicamente si rilevano iperemia, edema cerebrale e dilatazione vasale; le alterazioni microscopiche comprendono cromatolisi e picnosi nucleare dei neuroni, infiltrazione linfoplasmacellulare perineuronale ed intragliale, degenerazione e demielinizzazione dei cilindrassi. La lesione patognomonica è rappresentata dai tipici inclusi eosinofili intraci-
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toplasmatici contenenti particelle virali ed evidenziabili all’interno delle cellule neuronali dell’encefalo, del cervelletto e dei gangli spinali (corpi di Negri). Alterazioni si rivelano anche negli organi periferici invasi. D. Clinica. Le manifestazioni cliniche della rabbia possono essere distinte in tre stadi successivi che si verificano dopo un periodo d’incubazione variabile in media da 1 settimana a 3 mesi, ma in alcuni casi superiore a 1 anno. Il periodo di incubazione è tanto più breve quanto più profonde ed estese sono le lesioni da morsicatura, ovvero quanto più esse sono prossime o addirittura localizzate al capo o al collo. La fase prodromica è caratterizzata da sintomi non specifici, quali febbre, talora elevata (40 °C), cefalea, anoressia, nausea, mialgie, tosse non produttiva: più suggestive dell’infezione da virus rabico le parestesie (dolore, prurito, bruciore) che spesso compaiono nella sede d’inoculazione. Il periodo prodromico, della durata di 1-2 giorni, è seguito dalla fase irritativa o di eccitazione o furiosa in cui sintomi e segni mimano quelli di altre encefaliti virali: compaiono rachialgie, accompagnate da ipertonia muscolare, incoordinazione della muscolatura estrinseca oculare, spasmi laringotracheali scatenati talora anche dal semplice movimento dell’aria (aerofobia) o dalla vista dell’acqua (idrofobia). Le alterazioni psichiche vanno dallo stato di ansia e irritabilità alla profonda agitazione con confusione mentale e allucinazioni. Sono inoltre di frequente riscontro un aumento della salivazione, della sudorazione, della lacrimazione ed un’ipotensione posturale. Vengono talora descritte una spiccata iperestesia e la paralisi delle corde vocali. Quando le alterazioni della frequenza cardiaca e del ritmo del respiro non conducono già in questa fase a morte, segue al periodo irritativo la fase paralitica, caratterizzata dal progressivo interessamento dei nervi cranici e dalla risoluzione degli spasmi muscolari con comparsa di emiplegie o monoplegie. Si riscontrano allora diplopia, anisocoria, difficoltà alla deglutizione, paralisi del facciale; l’agitazione psichica si trasforma in torpore e quindi in coma. Occasionalmente il periodo paralitico può seguire direttamente la fase prodromica senza le tipiche manifestazioni di eccitazione (rabbia tranquilla). Negli animali il quadro clinico è del tutto sovrapponibile. E. Diagnosi. Le comuni indagini ematochimiche non evidenziano dati di rilievo; nel periodo encefalitico si possono osservare una leucocitosi neutrofila, proteinuria e cilindruria, mentre il liquor è sempre normale. La diagnosi clinica può presentare qualche difficoltà in fase prodromica; le manifestazioni encefalitiche vanno differenziate dalla poliomielite e dalle altre nevrassiti virali, mentre il tetano si distingue agevolmente per il trisma e l’opistotono sempre assenti nella rabbia. L’accertamento diagnostico si basa sull’isolamento del virus dalla saliva, dal liquor, dall’urina e dalle secrezioni nasali e congiuntivali: l’inoculo intracerebrale nel topo o intramuscolare nello hamster provoca la morte dell’animale entro alcuni giorni. Più rapida l’identificazione del virus in vitro mediante coltura su linee cellulari mu-
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rine. La diagnosi sierologica si avvale della titolazione degli anticorpi neutralizzanti e fissanti il complemento: essi compaiono sia durante l’infezione naturale sia in seguito a vaccinazione, ma a titolo più elevato nel primo caso. L’esame istopatologico diretto su materiale autoptico consente l’evidenziazione microscopica dei corpi di Negri nel tessuto cerebrale e l’identificazione del virus mediante il metodo dell’immunofluorescenza diretta. F. Prognosi. La prognosi della rabbia è infausta: il decorso è per lo più rapidamente progressivo fino a morte per insufficienza respiratoria (nel caso della rabbia furiosa) o arresto cardiaco (più frequente nella rabbia tranquilla). Rarissimi i casi di guarigione. Nel caso si provveda prontamente alla respirazione assistita possono comparire un certo numero di complicanze tardive, quali l’inappropriata secrezione di ormone antidiuretico, diabete insipido, aritmie cardiache, ileo paralitico. G. Terapia. Non esiste terapia farmacologica utile per l’infezione rabica: il trattamento si basa sulla respirazione assistita e sulla somministrazione sintomatica di barbiturici e fenotiazine. H. Profilassi. La profilassi prevede l’intervento sull’animale, l’intervento sul soggetto esposto a rischio (veterinari, addetti a stabulari, cacciatori) e l’intervento sul soggetto che si sospetta già infettato. La profilassi dopo contagio è possibile data la lunghezza del periodo d’incubazione della malattia (Tab. 80.4). Gli animali domestici dovrebbero essere sempre vaccinati: i casi sospetti che abbiano aggredito o morsicato l’uomo vanno tenuti sotto osservazione per 10 giorni e abbattuti per la successiva ricerca del virus nei tessuti cerebrali alla comparsa dei primi sintomi o segni di infezione. Negli animali selvatici i segni precoci di malattia sono di più difficile identificazione ed è perciò consigliabile procedere subito all’abbattimento e all’esame istopatologico dell’encefalo.
Le misure profilattiche da adottarsi in caso di morsicatura da animale sospetto sono le seguenti: • detersione immediata della ferita con abbondante acqua e sapone al fine di ridurre la carica infettante virale e successiva applicazione di alcool etilico al 4070% o di un composto di ammonio quaternario all’1%; la sutura va rimandata e se la ferita è profonda è consigliabile l’inoculo di siero antirabico ed eventualmente la profilassi antitetanica; • trattamento immunoprofilattico nel caso sia certamente infetto l’animale aggressore o nel caso di ferite profonde o localizzate al capo e al collo. La profilassi deve essere il più possibile precoce: nella tabella 80.4 sono riportate le norme consigliate dall’OMS; vanno comunque sempre considerate le circostanze in cui si è verificata la morsicatura e il luogo (animali sospetti e zone di certa diffusione); • il siero ottenuto da cavallo può dare luogo a reazioni di anafilassi. È perciò consigliabile saggiarne la tollerabilità con l’iniezione intradermica di una piccola dose prima di procedere alla somministrazione intramuscolare. Sono sempre preferibili, ove possibile, le immunoglobuline umane specifiche. Gli anticorpi compaiono 10-15 giorni dopo la prima vaccinazione, per questo motivo si raccomanda di associare al vaccino il siero antirabico; • i vaccini oggi utilizzati sono inattivati mediante coltivazione su embrione di anatra o cellule diploidi umane e successivo trattamento con propionolattone: i primi richiedono iniezioni sottocutanee quotidiane per 21 giorni consecutivi, gli ultimi un ciclo di tre iniezioni a distanza rispettivamente di 7 e 18 giorni l’una dall’altra; • nei soggetti ad alto rischio è opportuna l’immunizzazione preventiva: anticorpi neutralizzanti compaiono nell’80-90% dei casi. Se gli individui trattati vengono morsicati si somministrano una dose di richiamo subito (o cinque consecutive in caso di esposizione grave) ed una dopo 20 giorni: è necessario comunque un controllo periodico dei titoli anticorpali protettivi.
Tabella 80.4 Profilassi antirabica post-esposizione. ANIMALE Cane, gatto, furetto
Volpe e altri animali selvatici Bestiame e roditori
STATO DELL’ANIMALE
TRATTAMENTO
Sano e rintracciabile per 10 gg. di osservazione(1) Nessuno, a meno che l’animale non mostri sintomi di rabbia Rabido o sospetto Ig e vaccino antirabico Sconosciuto (fuggito) Consultare operatori di sanità pubblica Se indicato Ig e vaccino antirabico Considerarli rabidi fino a prova contraria Ig e vaccino antirabico (esami di laboratorio)(2) Considerare caso per caso. Consultare i locali operatori di sanità pubblica circa la necessità di profilassi antirabica Morsicature di scoiattoli, criceti, cavie, conigli e altro non richiedono in genere misure di profilassi antirabica
(1) Durante il periodo di osservazione, in caso di comparsa di sintomi di rabbia nell’animale iniziare il trattamento con Ig e vaccino antirabico. Gli animali saranno immediatamente abbattuti e si procederà ai necessari esami di laboratorio. (2) L’animale sarà ucciso ed esaminato. È sconsigliabile la cattura dell’animale per tenerlo sotto osservazione. Negli USA sono stati recentemente descritti casi di rabbia umana dopo contatto con pipistrelli.
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Mieliti Il coinvolgimento isolato o prevalente del midollo spinale può essere dovuto ad un’infezione diretta delle strutture nervose (mieliti primarie) o originare da focolai infettivi localizzati all’interno o all’esterno dello spazio subaracnoideo (mieliti secondarie). Le cause più frequenti di mieliti primarie sono le infezioni da enterovirus: i poliovirus responsabili della poliomielite, i virus coxsackie di gruppo A (tipo 4, 7, 9) o di gruppo B (tipi 2-5), responsabili della malattia paralitica poliosimile, quadro clinico analogo alla poliomielite ma caratterizzato da una minor gravità e da un decorso quasi sempre favorevole, e gli echovirus. In pazienti con compromissione dell’immunità cellulo-mediata l’infezione diretta del midollo spinale da virus varicella-zoster, virus herpes simplex, cytomegalovirus può determinare l’insorgenza di una mielite necrotizzante ascendente. Casi di mielite trasversa sono descritti nel corso di alcune infezioni batteriche (tubercolosi, sifilide, psittacosi) e nella schistosomiasi. Un coinvolgimento midollare a decorso cronico, progressivo caratterizza inoltre alcune infezioni da retrovirus (mielopatia vacuolare da virus dell’immunodeficienza umana tipo 1 (HIV-1), paraparesi spastica tropicale da virus linfotropo per le cellulle umane T (HTLV-1) e può essere osservato nella fase tardiva della malattia di Lyme. Le mieliti secondarie possono essere sostenute da focolai infettivi all’interno dello spazio subaracnoideo (coinvolgimento del midollo adiacente ai gangli delle radici dorsali nel corso di herpes zoster e alle radici posteriori nell’infezione da Treponema pallidum) o all’esterno dello spazio subaracnoideo (trauma o compressione midollare nel corso di osteomieliti vertebrali, ascessi spinali epidurali, empiemi spinali subdurali). Poliomielite A. Eziologia. La poliomielite è una malattia infettiva di gravità variabile, le cui manifestazioni cliniche sono espressione del coinvolgimento selettivo dei neuroni della sostanza grigia, in particolare dei motoneuroni delle corna anteriori del midollo spinale. È causata da poliovirus hominis (sierotipi 1, 2, 3) appartenente alla famiglia Picornaviridae, genere Enterovirus. B. Epidemiologia e patogenesi. L’incidenza della malattia, più frequentemente causata dal sierotipo 1, si è drasticamente ridotta con la vaccinazione estensiva, realizzata a partire dal 1955 col vaccino preparato con virus inattivati (Salk) e successivamente dal 1962 con il vaccino orale preparato con virus attenuati (Sabin). Mentre nell’emisfero occidentale l’infezione è praticamente scomparsa, in Asia, nel subcontinente indiano e in alcune zone dell’Africa subsahariana, nelle quali l’accesso alla vaccinazione è più difficoltoso e l’efficacia della stessa in parte compromessa dalle frequenti infezioni intestinali intercorrenti, sono stati registrati negli anni 1975-1995 ancora diversi focolai epidemici con un’incidenza annuale in media di 4,5 casi per 100.000 abitanti.
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Unica riserva dei virus poliomielitici è l’uomo. La trasmissione avviene per via oro-fecale, per contatto diretto o per consumo di alimenti contaminati da acque fognarie; nell’ambito di focolai epidemici anche le mosche giocano un ruolo significativo, mediante il trasporto di feci infette sui cibi. Penetrati nell’organismo, i poliovirus si moltiplicano inizialmente nei tessuti linfatici dell’orofaringe e nell’intestino; durante la fase viremica raggiungono il SNC per via transcapillare, anche se non è esclusa la possibilità di una migrazione diretta dei virus dal faringe per via assonale. C. Clinica e diagnosi. In oltre il 95% dei casi l’infezione da virus polio è clinicamente inapparente, nel 48% dei casi si sviluppa una forma abortiva o malattia minore con obiettività neurologica negativa, manifestazioni sistemiche simili a quelle di altre infezioni virali (febbre, cefalea, faringodinia, anoressia, vomito, dolori addominali) ed una remissione spontanea nell’arco di pochi giorni. Più raramente insorge una poliomielite non paralitica caratterizzata dalla contemporanea presenza di una meningite asettica simile a quella causata dagli altri enterovirus. La poliomielite paralitica rappresenta lo 0,1% di tutte le infezioni da virus poliomielitici; le paralisi insorgono nell’arco di 24-48 ore, a seguito della malattia minore, dopo un intervallo asintomatico di 2-7 giorni o in assenza di prodromi. Le manifestazioni cliniche dipendono dall’estensione e dalla distribuzione delle lesioni: nella paralisi spinale, la forma più frequente, le paralisi interessano in modo asimmetrico ed irregolare nel 60% dei casi uno o entrambi gli arti inferiori, nel 20-30% dei casi uno o entrambi gli arti superiori e meno frequentemente il diaframma e la muscolatura intercostale; nella paralisi bulbare (5-30% dei casi) prevalgono le paralisi dei nervi cranici, in particolare del IX e del X paio, meno frequentemente, ma con un decorso gravato da una letalità elevata, sono coinvolti i centri respiratori e vasomotori bulbari. Gli esami di laboratorio abituali non evidenziano elementi di rilievo; l’esame del liquor evidenzia un quadro compatibile con una meningite asettica. Studi istologici compiuti sui pazienti deceduti durante la malattia acuta documentano la presenza di processi infiammatori e di distruzione neuronale, soprattutto nei motoneuroni delle corna anteriori del midollo spinale, nei nuclei motori del bulbo e del ponte, nella sostanza reticolare, nel talamo e nella corteccia motoria. F. Decorso e prognosi. L’evoluzione e gli esiti della poliomielite sono estremamente variabili. Il rischio di mortalità, generalmente legato all’insorgenza di un’insufficienza cardiorespiratoria, è più elevato nelle prime settimane di malattia; la valutazione accurata del deficit funzionale motorio residuo è possibile dopo 2 mesi dall’esordio, con la risoluzione del processo flogistico. A distanza di 25-30 anni dall’episodio acuto di poliomielite, insorge in circa il 20% dei pazienti la cosiddetta sindrome postpoliomielitica, caratterizzata dallo sviluppo lentamente progressivo di dolore, ipostenia, atrofia, generalmente, ma non esclusivamente, nei segmen-
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ti interessati dall’episodio acuto. Questa sindrome è probabilmente spiegata dal precoce logoramento di motoneuroni sovraccaricati in un midollo spinale già danneggiato, mentre gli studi sierologici e mediante PCR volti a documentare il possibile ruolo di un’infezione persistente o ricorrente hanno dato finora risultati contraddittori. G. Terapia. Non esiste terapia specifica per le infezioni da poliovirus. L’ episodio acuto di poliomielite paralitica necessita del ricovero in unità di terapia intensiva e richiede una terapia sintomatica e di supporto volta a controllare le complicanze infettive e la possibile insorgenza di un’insufficienza respiratoria grave. H. Profilassi. La profilassi consiste nell’immunizzazione attiva, obbligatoria in Italia, effettuata mediante vaccino orale trivalente (Sabin) e mediante vaccino preparato da virus inattivato (Salk) nei soggetti immunocompromessi e negli adulti non vaccinati. Sono stati descritti raramente casi di poliomielite paralitica associati al vaccino orale trivalente in bambini riceventi la prima dose (1 caso ogni 1.200.000 prime dosi), in adulti inadeguatamente vaccinati o in pazienti immunocompromessi venuti a contatto con i bambini nei giorni successivi alla vaccinazione.
Infezioni virali lente del SNC Sebbene le infezioni virali del SNC siano tradizionalmente associate ad un processo infiammatorio acuto, numerosi studi condotti negli ultimi cinquant’anni sugli animali, sull’uomo e su modelli sperimentali animali hanno dimostrato che alcuni virus persistono, per mesi o anni, in forma latente o replicativa, nel SNC, in assenza di sintomatologia, e causano successivamente malattie a decorso progressivo e a prognosi generalmente infausta, denominate infezioni lente del SNC (slow infections). In questa definizione rientrano patologie quali l’AIDS dementia complex, la paraparesi spastica tropicale e le malattie croniche demielinizzanti, tra cui la leucoencefalopatia multifocale progressiva e la panencefalite sclerosante subacuta. Nel 1954, inoltre, Sigurdsson, patologo islandese, coniò il termine di atipically slow infections per definire un gruppo di patologie di natura degenerativa e non infiammatoria, anch’esse caratterizzate da un lungo periodo d’incubazione e da un esito invariabilmente infausto, sostenute da agenti infettivi di natura sconosciuta: le encefalopatie spongiformi trasmissibili. Leucoencefalopatia multifocale progressiva A. Eziologia ed epidemiologia. La leucoencefalopatia multifocale progressiva è una malattia subacuta demielinizzante descritta per la prima volta nel 1958 in pazienti con leucemia linfatica cronica e linfoma di Hodgkin. È causata dal virus JC, un virus a DNA, ubiquitario, appartenente al genere Polyomavirus della famiglia Papovaviridae. È riportata pressoché esclusivamente nell’ospite immunocompromesso (trapiantati, pa-
zienti con LES, artrite reumatoide, polimiosite, neoplasie ematologiche sottoposti a terapie immunosoppressive) ed è particolarmente frequente nei pazienti con AIDS (2-5% dei casi), probabilmente in seguito ad una stimolazione nell’espressione del genoma virale da parte di HIV. B. Patogenesi e clinica. A seguito dell’infezione primaria, generalmente subclinica, il virus JC persiste in fase latente principalmente a livello renale. Sebbene non sia ancora noto se la leucoencefalopatia multifocale progressiva sia il risultato della riattivazione di un’infezione latente o dell’infezione primaria in un soggetto immunodepresso, la patogenesi di questa malattia è di relativamente semplice interpretazione. In condizioni di immunosoppressione il virus si replica attivamente nel tessuto cerebrale (oltre 1010 virioni per grammo di tessuto). Gli oligodendrociti e gli astrociti sono le cellule infettate: nei primi si determina un’infezione produttiva che causa la lisi cellulare e di conseguenza la massiva demielinizzazione, caratteristica istologica principale della patologia. Le manifestazioni cliniche dipendono dalle aree interessate dal processo di demielinizzazione: l’esordio è caratterizzato più frequentemente dalla comparsa di emiparesi, deficit cognitivi, riduzioni del campo visivo, atassia, afasia. La malattia conduce a morte nell’arco di alcuni mesi. C. Diagnosi. La RM evidenzia lesioni multifocali non assumenti il contrasto nella sostanza bianca sottocorticale. Le alterazioni EEG sono aspecifiche. La conferma diagnostica attraverso l’esame istologico del tessuto viene limitata a casi selezionati; nella maggioranza dei pazienti, la presenza di un quadro neuroradiologico suggestivo e/o il riscontro nel liquor di sequenze del DNA virale, mediante PCR, rappresentano attualmente, in particolare nei pazienti con infezione da HIV, valide alternative diagnostiche. D. Terapia. Nonostante le sporadiche segnalazioni di efficacia terapeutica, l’utilizzo di alcuni farmaci per la terapia della leucoencefalopatia multifocale progressiva ha dato fino ad oggi risultati insoddisfacenti. L’introduzione recente di una terapia antiretrovirale aggressiva per il trattamento dell’infezione da HIV, verosimilmente in virtù dell’efficacia di tale terapia nell’ottenere un ripristino immunitario, ha comportato in alcuni pazienti affetti da leucoencefalopatia multifocale progressiva la remissione del quadro clinico e in generale un’alterazione nel decorso naturale della malattia con sopravvivenze superiori ai 2 anni. Sono descritti risultati contrastanti sull’efficacia della terapia con cidofovir, antivirale di recente introduzione utilizzato prevalentemente nei pazienti con infezione da HIV. Panencefalite sclerosante subacuta A. Eziologia ed epidemiologia. La panencefalite sclerosante subacuta (PESS) è una malattia molto rara e letale causata dalla persistenza nel SNC del virus del morbillo. Colpisce più frequentemente soggetti di età compresa tra i 5 e i 15 anni, è più frequente nel sesso maschile e nel-
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le zone rurali. Nei paesi in cui non viene praticata in modo estensivo la vaccinazione antimorbillosa, la malattia ha un’incidenza annuale di 1 caso ogni milione di bambini; oltre il 50% dei pazienti affetti ha contratto il morbillo nei primi 2 anni di vita. B. Patogenesi. La patogenesi della PESS è complessa e non completamente chiarita. È possibile che nella prima infanzia, a seguito dell’infezione primaria, alcuni fattori dell’ospite quali l’immaturità della risposta immunitaria o delle cellule target e la presenza residua di anticorpi materni possano favorire la persistenza del virus nel SNC. Il ciclo replicativo è caratterizzato dalla compromissione del “budding” virale con la conseguente impossibilità a produrre particelle virali complete: nel tessuto cerebrale dei pazienti infetti il virus è infatti costantemente cellulo-associato. L’espressione del genoma virale è alterata per l’accumularsi di mutazioni nei geni che codificano per i costituenti dell’involucro virale. Queste mutazioni comportano anomalie funzionali delle glicoproteine H e F, responsabili dell’adsorbimento e della fusione del virus con la membrana, e soprattutto la ridotta sintesi di proteina M, essenziale per l’assemblaggio virale e la fuoriuscita del virus dalla cellula infetta. La ridotta sintesi di proteine di membrana e di particelle virali complete consentirebbe alle cellule di rimanere infette in modo “inapparente” impedendo il loro riconoscimento da parte del sistema immunitario. L’accumulo intracellulare di prodotti virali e/o il rilascio di citochine infiammatorie potrebbero giocare un ruolo importante nella genesi del danno tissutale. Le alterazioni istopatologiche, limitate al SNC, interessano la sostanza bianca e la sostanza grigia in prevalenza negli emisferi cerebrali posteriori. Sono caratterizzate da un infiltrato infiammatorio perivascolare, costituito da linfociti e plasmacellule, a cui subentrano progressivamente estese reazioni microgliali e demielinizzazione. I neuroni e gli oligodendrociti sono le cellule più frequentemente infette, soprattutto a livello dendritico. Caratteristica è la presenza nel nucleo e nel citoplasma dei neuroni e delle cellule gliali di corpi inclusi eosinofili che contengono antigeni e RNA del virus del morbillo. C. Clinica. Il quadro clinico è abbastanza stereotipato. L’esordio è solitamente insidioso con alterazioni del comportamento e una riduzione della resa scolastica. Nelle settimane o nei mesi successivi subentra un declino intellettuale con episodi di alterazione della funzionalità motoria, crisi miocloniche. Alcuni pazienti sviluppano crisi comiziali, discinesie e atassia cerebellare, corioretinite e atrofia del nervo ottico. Nel terzo stadio i bambini cadono in uno stato stuporoso, associato a coreoatetosi, distonia, rigidità e alterazioni del sistema nervoso autonomo. Il quarto stadio è caratterizzato da una perdita completa delle funzioni corticali, mutismo e infine coma. La morte sopraggiunge in media nel giro di 1-3 anni, anche se nel 20% dei casi la sopravvivenza può essere più lunga (4-14 anni) con episodi di remissione apparente e di riesacerbazione. La RMN evidenzia alterazioni della sostanza bianca periventrico-
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lare e sottocorticale, che non assumono il contrasto, associate ad atrofia corticale diffusa. D. Diagnosi. La diagnosi si fonda sul quadro elettroencefalografico e liquorale. L’EEG è caratterizzato soprattutto nel secondo stadio da complessi parossistici periodici che compaiono ogni 4-18 sec, spesso in sincronia con le scosse miocloniche. Nel liquor è possibile evidenziare elevati livelli di IgG, oltre il 50% delle quali rappresentato da anticorpi antimorbillo, e numerose bande oligoclonali. La determinazione contemporanea del titolo anticorpale anche su siero consente di evidenziare una sintesi intratecale attiva. E. Terapia. Il trattamento della PESS è solo sintomatico: non esistono attualmente terapie efficaci. Encefalopatie spongiformi trasmissibili Questo gruppo di malattie include patologie descritte negli animali, tra cui lo scrapie e l’encefalopatia bovina spongiforme, e patologie che colpiscono l’uomo: il Kuru e la malattia di Creutzfeldt-Jacob sporadica sono le malattie più rilevanti sotto il profilo epidemiologico e clinico. A questo gruppo appartengono inoltre tre malattie ereditarie a trasmissione autosomica dominante considerate varianti cliniche della malattia di Creutzfeldt-Jacob: la sindrome di Gerstmann-Straussler-Scheincher, l’insonnia familiare fatale, la Creutzfeldt-Jacob familiare, inclusa la “nuova variante” descritta recentemente e probabilmente causata da alimentazione con carni bovine contaminate con prioni. Queste patologie hanno in comune un coinvolgimento pressoché esclusivo dell’encefalo con un quadro neuropatologico peculiare caratterizzato da astrocitosi, degenerazione e alterazioni spongiformi dei neuroni, all’interno dei quali si osservano infatti piccoli vacuoli rotondeggianti, soprattutto lungo gli assoni e i dendriti, con tendenza a confluire. È caratteristica comune, inoltre, l’assenza di un infiltrato infiammatorio e la presenza in grado variabile di placche amiloidi extracellulari. A. Patogenesi e clinica. Le encefalopatie spongiformi umane sono trasmissibili ad animali suscettibili mediante inoculazione di tessuti provenienti da soggetti infetti; l’infettività è maggiore per il tessuto cerebrale, è presente in alcuni tessuti periferici, è verosimilmente assente da tutti i liquidi biologici eccetto il LCS. Gli agenti responsabili dell’infettività sono stati chiamati prioni: il termine è stato introdotto nel 1982 per definire “una piccola particella proteinacea infettiva resistente alle procedure che modificano o idrolizzano gli acidi nucleici”. Infatti, pur essendo trasmissibili e capaci di replicazione analogamente ai virus, i prioni sono insolitamente resistenti ai trattamenti che inattivano i virus e gli acidi nucleici (alcool, formalina, calore, radiazioni ultraviolette, proteasi e nucleasi) ma vengono inattivati da trattamenti che distruggono le proteine (autoclave, fenoli, ecc.). L’infettività quindi permane nonostante la cottura, la fissazione in formalina e le comuni procedure di sterilizzazione. Il costituente principale, se non esclusivo, dei prioni è una proteina resistente all’azione delle proteasi
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(PrPres, Protease resistant Protein o Prion Protein) che è l’isomero conformazionale di una normale proteina cellulare dell’ospite sensibile all’azione delle proteasi (PrPsens), la cui funzione fisiologica è sconosciuta. La presenza di sequenze aminoacidiche identiche nelle due proteine giustifica verosimilmente un’altra caratteristica peculiare di queste patologie: l’assenza nel soggetto infetto di una risposta infiammatoria ed immunitaria. Nel corso dell’infezione, la PrPres si accumula principalmente nei neuroni, alterandone la funzione e determinando la vacuolizzazione e la morte cellulare. La presenza, all’esame immunocitochimico, del tessuto cerebrale di PrPres a livello sinaptico, perivacuolare e nelle placche amiloidee è pertanto diagnostica. La PrP è codificata da un gene localizzato sul cromosoma 20 e mutazioni puntiformi a questo livello possono portare ad alterazioni spongiformi dei neuroni. La sindrome di Gerstmann-Straussler-Scheincher è associata a mutazioni in diversi codoni, più frequentemente nel codone 102, la variante familiare della malattia di Creutzfeldt-Jacob e l’insonnia familiare fatale sono associate a mutazioni del codone 178; il polimorfismo presente al codone 129 gioca inoltre un ruolo importante nell’espressione di queste forme. 1. Il Kuru è un’encefalopatia spongiforme caratterizzata sul piano clinico da una degenerazione cerebellare acuta. La malattia ha raggiunto proporzioni epidemiche nella tribù dei Fore, in Nuova Guinea, che praticava il rito del cannibalismo. La trasmissione interumana era legata a riti funerari durante i quali le donne e i bambini manipolavano e mangiavano cervelli di parenti defunti infetti; negli ultimi 30 anni, con la cessazione di questa pratica rituale, la malattia è andata gradualmente scomparendo. Nel 1966 è stata dimostrata la trasmissibilità della malattia agli scimpanzé mediante inoculazione di sospensioni cerebrali di individui ammalati. 2. La malattia di Creutzfeldt-Jacob ha invece una distribuzione ubiquitaria e un’incidenza pari a 0,25-2 casi/anno per milione di abitanti. Anch’essa trasmissibile agli scimpanzé, può presentarsi in quattro varianti cliniche: sporadica (responsabile dell’85% dei casi), familiare, iatrogena e la nuova variante. 3. La Creutzfeldt-Jacob sporadica è una malattia a causa sconosciuta, diagnosticata più frequentemente in persone tra i 50 e i 70 anni. Il quadro clinico è caratterizzato dall’insorgenza di una demenza progressiva associata a crisi miocloniche, spesso scatenate da stimoli acustici o sensoriali. La sopravvivenza media è di circa 5 mesi e oltre l’80% dei malati muore entro un anno. La diagnosi definitiva richiede l’esame istologico del tessuto cerebrale, mediante il quale è possibile documentare la presenza di alterazioni spongiformi neuronali nella corteccia cerebrale e l’accumulo di PrPres nelle cellule e nelle placche amiloidi presenti in circa il 10% dei casi. Numerose indagini consentono però di limitare le indicazioni alla biopsia cerebrale. La RMN evidenzia in circa l’80% dei casi aree iperintense nei gangli della base, l’EEG mostra alterazioni aspecifiche
MALATTIE INFETTIVE
in fase iniziale, mentre col progredire della malattia è possibile osservare in oltre il 90% dei pazienti i caratteristici complessi periodici generalizzati a 1-2 cicli/sec. L’esame routinario del LCS è sostanzialmente normale a testimonianza della natura degenerativa e non infiammatoria di queste forme morbose: nel LCS di pazienti con Creutzfeldt-Jacob sporadica sono però rilevabili mediante immunoelettroforesi su gel o tecniche immunoenzimatiche elevati livelli di proteine del gruppo 143-3, costituenti proteici del tessuto cerebrale, la cui determinazione può essere utile nella diagnosi differenziale delle demenze. La possibilità della trasmissione interumana della Creutzfeldt-Jacob è stata tragicamente dimostrata (Creutzfeldt-Jacob iatrogena) in seguito al contatto con tessuto cerebrale infetto o al trapianto di tessuti contaminati (cornea, dura madre), alla somministrazione di ormone della crescita e ormone gonadotropo di derivazione pituitaria, e all’impiego di elettrodi corticali precedentemente utilizzati in pazienti malati e sterilizzati in modo inadeguato. La trasmissione attraverso sangue e derivati sembra improbabile. Nella primavera del 1986 vennero segnalati in Inghilterra i primi casi di encefalite bovina spongiforme, una epidemia con un picco massimo nel 1992, probabilmente innescata dall’ingresso nella catena alimentare di mangimi ottenuti a partire da bovini infetti, attualmente eliminati grazie ad una rigorosa normativa. Nello stesso paese sono stati segnalati negli anni 1994-1997, 22 casi di quella che è attualmente denominata nuova variante della malattia di Creutzfeldt-Jacob per le differenti caratteristiche cliniche: i pazienti sono più giovani con un’età media di 29 anni, il decorso è più prolungato e caratterizzato dall’atassia cerebellare, l’EEG non evidenzia i complessi periodici caratteristici, l’esame istologico del tessuto cerebrale ha dimostrato in tutti i casi la presenza di placche amiloidi diffuse, positive per PrPres. Nessuno dei pazienti presenta mutazioni nel gene che codifica per PrPres, ma tutti sono omozigoti per metionina al codone 129. La comparsa di questa nuova malattia umana è verosimilmente collegata al consumo alimentare di frattaglie e tessuti nervosi ottenuti da bestiame affetto da encefalopatia bovina spongiforme. Recenti prove supportano infatti l’ipotesi che la nuova variante della Creutzfeldt-Jacob e l’encefalopatia bovina spongiforme siano causate dallo stesso agente entrato nella catena alimentare, in grado di infettare per via orale e di superare la “barriera di specie”. B. Terapia e profilassi. Non esistono attualmente terapie in grado di modificare l’evoluzione delle encefalopatie spongiformi. In considerazione della provata infettività, sono necessarie adeguate precauzioni nel contatto con pazienti affetti da queste malattie e nella manipolazione dei loro campioni biologici e tissutali: è fondamentale un utilizzo il più ampio possibile di materiali monouso e la disinfezione adeguata di tutti gli strumenti chirurgici e dei materiali contaminati (sterilizzazione per un’ora con idrossido di sodio 1 N o in alternativa con ipoclorito di sodio, poi in autoclave a 132 °C per un’ora).
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Encefaliti demielinizzanti postinfettive
tiva, mediata da un meccanismo autoimmunitario simile, ma scatenata da agenti diversi, in particolare agenti delle malattie respiratorie.
Le encefaliti demielinizzanti postinfettive sono forme morbose che compaiono prevalentemente nei bambini, spesso ma non esclusivamente in rapporto con una malattia esantematica virale. Quadri analoghi sono stati descritti in passato anche in seguito alla vaccinazione antivaiolosa, alla vaccinazione antirabica con vaccini preparati da tessuto cerebrale e molto raramente vengono riportati in associazione alle vaccinazioni antidifterite, antivaiolo, antirabbia, antipertosse. Sebbene la correlazione con una infezione virale sia ben documentata sierologicamente, le encefaliti demielinizzanti postinfettive differiscono dalle encefaliti e meningiti acute virali a) sotto il profilo clinico, perché sintomi e segni compaiono tardivamente nel corso dell’infezione o settimane dopo la guarigione, b) sotto l’aspetto istologico per la caratteristica presenza di infiammazione perivenulare e demielinizzazione, c) sotto l’aspetto virologico per l’impossibilità, generalmente, di isolare i virus dal tessuto nervoso. Il meccanismo patogenetico è verosimilmente diverso: nelle encefaliti virali acute vi è un’invasione del SNC e l’infezione e la distruzione selettiva di uno o più tipi cellulari generalmente associate allo sviluppo di una risposta immunitaria umorale e cellulo-mediata che attenuano l’infezione; nelle encefaliti demielinizzanti postinfettive non vi è evidenza dell’invasione del SNC né di una sintesi anticorpale intratecale: la distruzione della mielina è probabilmente il risultato di un meccanismo autoimmune nei confronti di antigeni dell’ospite, mediato da alterazioni della risposta immunitaria innescati dall’infezione virale. 1. L’encefalomielite acuta postinfettiva è di gran lunga la principale complicanza neurologica del morbillo. Si verifica in 1/1000 casi, insorge più frequentemente 4-5 giorni dopo la comparsa dell’esantema. Tipicamente, nel paziente ormai apirettico e con l’esantema in attenuazione, ricompare improvvisamente febbre elevata e cefalea, alterazioni dello stato di coscienza, crisi comiziali e segni neurologici focali. La RM cerebrale documenta alterazioni diffuse della sostanza bianca, l’EEG evidenzia un rallentamento diffuso. Nella maggioranza dei casi il liquor evidenzia una modesta linfomonocitosi, ma soprattutto un aumento anche notevole della proteinorrachia. Nel liquor sono spesso presenti livelli elevati di proteina basica della mielina; non vi è presenza di una sintesi intratecale di anticorpi antimorbillo. L’esame neuropatologico documenta infiltrato monocitario perivenulare e demielinizzazione; l’esame immunocitochimico e le tecniche di ibridazione in situ non consentono di evidenziare l’infezione cerebrale. La mortalità è elevata (10-40%); nella maggioranza dei sopravvissuti permangono gravi sequele (ritardo mentale, emiparesi, paraplegia e atassia). Quadri clinici simili sono più rari nella varicella e del tutto infrequenti nella rosolia. 2. La leucoencefalite emorragica acuta potrebbe essere una forma più severa di encefalomielite postinfet-
3. Anche l’insorgenza di una mielite acuta trasversa può rappresentare l’espressione localizzata di una nevrassite postinfettiva; nel 30-35% dei casi vi è infatti una concomitante o precedente infezione virale (morbillo, parotite, rosolia, varicella, EBV, cytomegalovirus, HAV, HBV, adenovirus, virus dell’influenza di tipo A).
Nevrassiti mediate da tossine batteriche In queste forme morbose il danno tissutale non è legato all’infezione diretta da parte del microrganismo del sistema nervoso bensì all’azione lesiva di tossine prodotte da alcuni batteri: Corynebacterium diphteriae, Clostridium tetani e Clostridium botulinum. La tossina difterica causa una demielinizzazione dei nervi cranici e periferici, mentre le tossine tetanica e botulinica non determinano alterazioni istologiche tissutali. La tetanospasmina e la tossina botulinica hanno una struttura e una funzione simile, ma un neurotropismo diverso: la neurotossina botulinica esercita la sua azione lesiva a livello delle giunzioni neuromuscolari e delle sinapsi del sistema nervoso autonomo, determinando paralisi flaccida e riduzione delle secrezioni, la tetanospasmina ha un tropismo preferenziale per le cellule inibitorie del SNC, determinando spasmi e rigidità. Entrambe le malattie sono attualmente rare, potenzialmente letali e in buona parte prevenibili. Tetano Il tetano è una tossinfezione acuta, spesso letale, dovuta all’azione dell’esotossina di Clostridium tetani e caratterizzata clinicamente da ipertonia della muscolatura striata con spasmi localizzati o generalizzati. A. Eziologia. C. tetani è un bacillo anaerobio obbligato, Gram+, mobile, privo di capsula, le cui spore sono molto resistenti agli agenti chimici e fisici. I bacilli del tetano possiedono un antigene somatico (O) comune ed uno ciliare (H), in base al quale si distinguono 10 diversi sierotipi, tutti in grado di elaborare un’esotossina durante la loro moltiplicazione: la tetanospasmina è termolabile, estremamente virulenta e neurotropa. Il trattamento con formaldeide determina la perdita della tossicità, ma non del potere antigenico (tossoide). Di minore importanza patogenetica la produzione di una emolisina ossigeno-labile. B. Epidemiologia. L’infezione può considerarsi sporadica, in relazione all’urbanizzazione e al miglioramento delle condizioni socioeconomiche ed alla vaccinazione; è molto più frequente nelle zone tropicali dove costituisce ancora una delle principali cause di morte in età neonatale. Le spore del tetano sono ubiquitariamente diffuse nel suolo (soprattutto nei terreni agricoli concimati), nelle acque e nel pulviscolo atmosferi-
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co; inoltre il bacillo è ospite abituale del tratto intestinale degli erbivori, in particolare cavalli e pecore. Il contagio è diretto; l’uomo può occasionalmente ingerire le spore, disseminate con gli escrementi animali, negli alimenti e quindi eliminarle a sua volta con le feci; l’infezione consegue per lo più alla penetrazione delle spore o della forma vegetativa attraverso soluzioni di continuo cutanee e mucose (ferite, ustioni, decubiti, piaghe, morsi di animali, punture, iniezioni). I casi di tetano chirurgico sono oggi eccezionali; meno infrequenti quelli secondari a manovre ostetriche e all’uso di stupefacenti (l’eroina infatti è spesso “tagliata” con chinina che modifica il potenziale di ossido-riduzione nella sede di iniezione, favorendo la crescita del bacillo del tetano). La contaminazione di ferite o lesioni mucose con spore tetaniche non conduce necessariamente alla malattia: infatti per germinare le spore necessitano di una tensione di ossigeno molto inferiore a quella normalmente presente nei tessuti. La spora tetanica può sopravvivere nell’organismo mesi o anni e dare origine all’infezione solo quando le condizioni locali vengano modificate anche in conseguenza di un trauma minore. Le necrosi tissutali, i corpi estranei, le infezioni intercorrenti localizzate spesso in sede di ferite favoriscono la germinazione delle spore e la produzione dell’esotossina responsabile della sintomatologia. L’infezione tetanica resta localizzata alla porta d’entrata mentre la tossina, assorbita a livello delle placche neuromuscolari, risale le fibre nervose fino alle corna anteriori del midollo spinale, dove si lega in modo irreversibile ai gangliosidi. La diffusione della tossina può anche avvenire per via linfatica o ematica. L’azione della tetanospasmina è stricnino-simile bloccando i circuiti di inibizione sinaptica dei motoneuroni, senza aumentarne l’eccitabilità, ma determinando un’eccessiva risposta agli stimoli afferenti che si traduce perifericamente nell’ipertonia della muscolatura scheletrica e in spasmi conseguenti alla contrazione simultanea degli agonisti e degli antagonisti. È stata postulata anche un’azione diretta della tossina sulla placca neuromuscolare, probabilmente dovuta all’inattivazione dell’acetil-colinesterasi e al conseguente accumulo di acetilcolina. Gli effetti della tossina tetanica sembrano peraltro autolimitantesi e completamente reversibili, non residuando lesioni neurologiche, come si dimostra nei pazienti sopravvissuti, né alterazioni anatomopatologiche documentabili. C. Clinica. Il periodo d’incubazione varia da 2 a 56 giorni, tuttavia la maggior parte dei pazienti manifesta i primi sintomi entro 14 giorni. Un breve periodo di incubazione corrisponde di solito a un quadro clinico severo: in particolare la comparsa delle prime manifestazioni nell’arco di 2-3 giorni coincide con una mortalità molto prossima al 100%. I sintomi prodromici sono incostanti: frequentemente sono descritti cefalea, febbricola, dolori in corrispondenza della porta d’ingresso. La progressione della malattia conduce alla comparsa di contratture toniche che segnano l’inizio del periodo di stato: i sintomi tipici di questa fase possono essere sia generalizzati che localizzati.
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1. Nel tetano generalizzato la più comune manifestazione è il trisma, per ipertonia dei masseteri. Il volto assume la caratteristica espressione del risus sardonicus per contrazione persistente dei muscoli facciali. La rigidità muscolare si estende in senso cranio-caudale a tutta la muscolatura scheletrica determinando opistotono (iperestensione del tronco), iperestensione degli arti inferiori e flessione degli arti superiori. Crisi spastiche accessionali si susseguono con frequenza variabile e sempre maggiore col progredire della malattia, scatenate da movimenti volontari o stimoli esterni. Il laringospasmo e la contrattura dei muscoli respiratori possono impedire la ventilazione e condurre a marcata ipossia. L’arresto cardiaco e respiratorio costituiscono le più frequenti cause di morte; talora sono preceduti da improvvise alterazioni della pressione arteriosa (crisi ipertensive seguite da crisi ipotensive) definite anche “danza vascolare”. Obiettivamente si riscontrano comunemente tachicardia, febbre elevata (fino a 41-42 °C in corrispondenza delle crisi spastiche), sudorazione profusa, iperreflessia osteotendinea. A seconda della porta d’ingresso e della patogenesi il tetano viene denominato post-traumatico, chirurgico, ostetrico, neonatale. Il tetano neonatale è una forma severa che compare entro 10 giorni dalla nascita con spasmi generalizzati della muscolatura scheletrica ed evolve rapidamente conducendo a morte. 2. Nel tetano localizzato, più raro, le contratture interessano solo alcuni gruppi muscolari e non sono associate a sintomi sistemici né a parossismi. In rapporto alla sede si distinguono: il tetano cefalico, caratterizzato da disfagia, disfonia e dispnea, il tetano toracoaddominale e il tetano degli arti in cui possono comparire monoplegie e paraplegie. D. Esami di laboratorio. Le comuni indagini ematochimiche non evidenziano dati di rilievo: di incostante riscontro una leucocitosi neutrofila, mentre l’esame del liquor e l’elettroencefalogramma risultano nella norma. E. Diagnosi. La diagnosi clinica non presenta difficoltà nel periodo di stato. Durante il periodo prodromico il trisma va distinto dagli spasmi della muscolatura respiratoria e della deglutizione tipici della rabbia (non si tratta in quel caso di contrattura persistente) ovvero da manifestazioni analoghe in corso di meningiti o encefaliti (l’esame del liquor può essere in questi casi dirimente); infine nell’avvelenamento da stricnina mancano sempre la febbre e il trisma. È importante ricordare che in rari casi l’assunzione di fenotiazine e metoclopramide può essere seguita da spasmi muscolari simili a quelli del tetano, determinando una sindrome chiamata pseudotetano. L’isolamento di C. tetani da una ferita non depone che per una contaminazione non necessariamente correlata a malattia. F. Decorso e prognosi. Nelle forme lievi (a lunga incubazione) l’evoluzione è favorevole e la prognosi benigna: entro 7 giorni inizia la fase di risoluzione e si ot-
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tiene la guarigione in 2-4 settimane. Le forme di media gravità si manifestano nell’arco di 48-72 ore: il quadro clinico è impegnativo e la prognosi spesso riservata. Nel tetano grave (incubazione inferiore alle 48 ore) l’evoluzione è spesso rapidamente fatale. Tra le più importanti complicanze si annoverano l’atelettasia polmonare, le broncopolmoniti da aspirazione, le tromboembolie polmonari, le aritmie cardiache e lo scompenso conseguente a miocardite. Di una certa frequenza le infezioni delle vie urinarie da paralisi vescicale; rare le fratture o sublussazioni vertebrali. Sono stati descritti casi di ileo paralitico. G. Terapia. Il paziente affetto da tetano va sempre ospedalizzato in una Unità di Terapia Intensiva. La terapia prevede diverse misure: • provvedimenti generali volti al controllo della respirazione (talora si rende necessaria la tracheotomia) ed alla riduzione degli stimoli ambientali; • eliminazione del focolaio tetanigeno e neutralizzazione della tossina libera, mediante detersione della ferita e somministrazione di immunoglobuline umane specifiche; • trattamento delle contratture e degli spasmi con barbiturici, benzodiazepine, meprobamato o fenotiazine; • dubbia l’utilità dell’ossigenoterapia iperbarica. Tra gli antibiotici, la penicillina G è il farmaco di scelta per l’elettiva sensibilità del germe. H. Profilassi. La profilassi specifica si avvale della vaccinazione (immunizzazione attiva) con tossoide tetanico e dell’immunizzazione passiva con immunoglobuline specifiche in caso di ferita pericolosa. La vaccinazione conferisce un’immunizzazione completa per un periodo di circa 5 anni; dosi successive vengono raccomandate ogni 10 anni. Botulismo Il botulismo è un’intossicazione o una tossinfezione acuta, grave, dovuta alla neurotossina di Clostridium botulinum: la malattia è caratterizzata clinicamente da paralisi flaccida progressiva e riduzione delle secrezioni. A. Eziologia. C. botulinum è un bacillo anaerobio, Gram+, poco mobile, sporigeno. Le spore ubiquitariamente presenti nel suolo e nelle acque marine e lacustri, molto resistenti al calore (vengono distrutte se poste a 100 °C per 5 ore), contaminano con una certa frequenza i prodotti agricoli e ittici. In condizioni di anaerobiosi le spore possono germinare e durante la moltiplicazione il bacillo elabora un’esotossina di cui sono note varietà antigenicamente differenti, ma di analogo potere patogeno; i tipi A, B, ed E sono responsabili di quasi tutti i casi di botulismo umano. La tossina botulinica, composta da due catene polipeptidiche unite da un ponte disulfuro, è la più potente tossina esistente in natura (la dose minima letale per l’uomo è di circa 100 microgrammi) ma viene facilmente inattivata dal calore (100 °C per 20 min). B. Epidemiologia. La malattia, descritta per la prima volta in Germania più di 200 anni fa, si manifesta in ge-
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nere con piccoli episodi epidemici, per lo più conseguenti ad ingestione di cibi, spesso preparati artigianalmente, conservati in modo improprio (botulismo alimentare). La presenza di anaerobiosi, di un pH alcalino, il riscaldamento inadeguato al momento della preparazione dell’alimento possono favorire la germinazione delle spore e l’elaborazione della tossina; la mancata cottura dell’alimento prima del consumo non consente l’inattivazione della tossina eventualmente prodottasi. Le tossine di tipo A e B contaminano più spesso conserve di frutta, verdura, carni inscatolate o insaccati; la tossina di tipo E contamina i prodotti ittici conservati. I caratteri organolettici dei cibi inquinati non si modificano significativamente; caratteristico è il rigonfiamento delle scatole metalliche provocato dalla formazione di gas, espressione della moltiplicazione del bacillo. Piccoli focolai epidemici sono stati segnalati recentemente in Finlandia, in relazione al consumo di pesce affumicato conservato in scatole sottovuoto, e in un ristorante in Texas a causa di cibi preparati con patate conservate per giorni in fogli di alluminio. In Italia nel periodo 1994-98 si sono verificati oltre 180 casi, le conserve preparate in casa (per esempio la verdura sott’olio) sono una delle vie di trasmissione più frequenti. Più raramente la tossina viene prodotta nell’intestino in seguito all’ingestione con alcuni alimenti (frequentemente in causa il miele), di spore (botulismo infantile) o nei tegumenti per penetrazione di spore attraverso soluzioni di continuo della cute (botulismo da ferita); negli USA nell’ultimo decennio si è verificato un sensibile incremento dei casi di botulismo da ferita in relazione alla somministrazione intramuscolare o sottocutanea di eroina “black-tar”. C. Fisiopatologia. Ad eccezione che nel botulismo da ferita, la tossina botulinica viene assorbita nello stomaco e nel primo tratto del piccolo intestino. Raggiunte per via ematogena le terminazioni nervose colinergiche periferiche, la tossina penetra nel neurone e blocca la liberazione di acetilcolina a livello delle giunzioni neuromuscolari, in particolare quelle dei nervi cranici, delle fibre postgangliari parasimpatiche, delle fibre pregangliari del sistema autonomo: l’inibizione della liberazione di acetilcolina induce fenomeni paralitici e alterazioni delle secrezioni. Mancano reperti anatomopatologici di rilievo; il danno della sinapsi è irreversibile, il recupero richiede la crescita dell’assone presinaptico con la formazione di una nuova sinapsi. Durante la malattia non si generano anticorpi specifici: il contagio quindi non conferisce immunità. D. Clinica. I primi sintomi dell’intossicazione compaiono in genere dopo 12-48 ore dall’ingestione del cibo inquinato, ma la durata del periodo d’incubazione può variare da poche ore a più di una settimana; in generale il decorso della malattia è tanto più grave quanto più precoce è l’esordio clinico. È descritto talora un periodo prodromico, generalmente più frequente nelle forme causate dalle tossine di tipo B ed E, caratterizzato dalla comparsa di astenia, nausea, vomito, diarrea. Il quadro più tipico è caratterizzato da paralisi oculari:
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l’interessamento dei nervi oculomotori conduce ad una sindrome oftalmoplegica con strabismo divergente, ptosi palpebrale e diplopia, talora accompagnate da fotofobia. La contemporanea compromissione dell’innervazione oculare intrinseca si manifesta con paralisi dell’accomodazione, midriasi e anisocoria. La progressione dei disturbi neurologici è generalmente discendente: vengono via via interessati i nervi glosso faringeo e vago (disfagia, disartria), l’ipoglosso e il facciale. Il coinvolgimento della muscolatura respiratoria, sebbene non infrequente, è per lo più asintomatico: solo nei casi ad evoluzione più grave si può avere dispnea ed insufficienza respiratoria. Talora si manifesta una paralisi simmetrica degli arti, possono coesistere inoltre alterazioni della muscolatura liscia del tratto digerente ed urinario con conseguente stipsi e ritenzione urinaria. L’inibizione della trasmissione colinergica autonomica determina una riduzione delle secrezioni salivare e lacrimale e della sudorazione. All’esame obiettivo il paziente appare lucido, ben orientato e sempre apirettico anche nelle fasi acute della malattia, sono evidenti i segni oculari quali la ptosi palpebrale, lo strabismo e la midriasi pupillare; mancano i riflessi alla luce e all’accomodazione. La cute è in genere secca, il cavo orale e il faringe iperemici. Non sono presenti deficit sensitivi né si evidenziano riflessi patologici: i riflessi osteotendinei sono normalmente evocabili, talora ridotti. E. Esami di laboratorio. I comuni esami di laboratorio non evidenziano dati di rilievo. Le indagini neurofisiologiche documentano una normale velocità di conduzione nervosa, l’elettromiografia evidenzia la diminuzione del potenziale d’azione muscolare in seguito a stimolazione ripetuta del nervo motore corrispondente con scariche brevi sovramassimali; le alterazioni sono simili ma differenziabili rispetto a quelle osservate nelle sindromi miasteniche. F. Diagnosi. Ad eccezione delle forme iperacute, la diagnosi clinica di botulismo è agevole: utili, in particolare nella diagnosi differenziale con altre forme paralitiche (poliomielite, Guillain-Barré, sindromi miasteniche), la raccolta anamnestica mirata e l’attenzione ad alcuni elementi clinici rilevanti: l’assenza di febbre, alterazioni dello stato di coscienza e deficit sensitivi, la simmetria delle manifestazioni paralitiche, la presenza di disturbi secretori. La conferma diagnostica prevede la dimostrazione della presenza della tossina e la sua tipizzazione da campioni di siero, feci, succo gastrico del paziente e, quando possibile, dall’alimento contaminato. La metodica più sensibile è quella biologica: l’inoculazione nel topino di una sospensione contenente la tossina provoca paralisi e morte dell’animale nell’arco di 24-48 ore. In alternativa è possibile evidenziare e tipizzare la tossina con tecniche immunologiche (idrolisi su gel, ELISA) e il gene che codifica per essa mediante PCR. L’identificazione di C. botulinum mediante immunofluorescenza diretta o coltura in anaerobiosi da campioni di feci o tissutali può essere utile in particolare nella diagnosi di botulismo infantile o da ferita.
MALATTIE INFETTIVE
G. Decorso e prognosi. Il decorso del botulismo è assai variabile in relazione al tipo e alla quantità di tossina ingerita e alla precocità del ricovero del paziente in Unità di Terapia Intensiva. Nel 5-20% dei casi la malattia conduce rapidamente a morte per insufficienza respiratoria o arresto cardiaco da paralisi bulbare o a seguito di infezioni polmonari e urinarie sovrapposte che rappresentano le principali complicanze. Nei casi ad evoluzione favorevole i disturbi neurologici si risolvono nell’arco di settimane o mesi, residuando talora alterazioni dell’accomodazione e della meccanica respiratoria. H. Terapia. I pazienti con sintomi da intossicazione botulinica devono essere immediatamente ricoverati in Unità di Terapia Intensiva per poter procedere, se necessario, alla respirazione assistita ed eventualmente alla tracheotomia; inoltre, se il consumo degli alimenti inquinati è recente, può essere opportuno praticare una lavanda gastrica; in ogni caso sono consigliabili un clisma e la somministrazione di purganti. Dopo una prova di sensibilità verso siero di cavallo, verrà somministrato al paziente per via intramuscolare ed endovenosa siero equino antitossico trivalente (A, B, E). Nel botulismo infantile sono indicate le immunoglobuline umane in singola dose, mentre è inefficace il siero di cavallo come anche l’utilizzo degli antibiotici che possono incrementare la liberazione di tossine. L’utilizzo di antibiotici (penicillina, metronidazolo) è comunque raccomandato nel botulismo da ferita, nel quale è necessaria in primo luogo, previo esame colturale, un’accurata detersione locale.
ASCESSI CEREBRALI A. Fisiopatologia ed eziologia. L’ascesso cerebrale, processo suppurativo focale del parenchima cerebrale, è una patologia infrequente, associata attualmente ad una letalità considerevolmente ridotta (10% circa) grazie all’introduzione della TC cerebrale, al miglioramento delle procedure neurochirurgiche e ad una più ampia disponibilità di antibiotici in grado di superare la barriera ematoencefalica. Gli ascessi cerebrali possono derivare per propagazione da un’infezione contigua, per diffusione ematogena da un focolaio infettivo distante o essere di origine post-traumatica. Nel 20-30% dei casi la fonte di infezione non viene identificata. Nella maggioranza dei casi di infezione per contiguità la fonte di infezione è rappresentata da otiti medie croniche e mastoiditi, infezioni dei seni paranasali e dentarie: l’infezione si propaga ai tessuti adiacenti (osso, dura madre, leptomeningi, encefalo) in particolare attraverso i vasi venosi. L’eziologia è solitamente polimicrobica, costituita da flora aerobia e anaerobia (Bacteroides spp); negli ascessi di derivazione otogena, prevalentemente localizzati nel lobo temporale e nel cervelletto, è frequente l’isolamento di Enterobacteriacee spp e di Pseudomonas aeruginosa, negli ascessi frontali associati a si-
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80 - INFEZIONI DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE
nusiti croniche è caratteristico l’isolamento di streptococchi (S. intermedius, S. anginosus, S. constellatus). 1. Gli ascessi di origine post-traumatica possono insorgere in seguito a fratture craniche che abbiano causato brecce durali, interventi neurochirurgici, traumi oculari. Talvolta si sviluppano anche a notevole distanza di tempo dall’episodio traumatico; durante gli esami colturali vengono frequentemente isolati Staphylococcus aureus e Staphylococcus epidermidis. 2. Lo sviluppo di ascessi da piogeni di derivazione ematogena è frequentemente associato alla presenza di un focolaio infettivo polmonare e nei bambini alla presenza di una cardiopatia congenita (tetralogia di Fallot, trasposizione dei grandi vasi); molto raramente complicano invece il decorso di un’endocardite batterica o di episodi batteriemici. Si tratta di ascessi gravati da un’elevata mortalità, spesso multipli, frequentemente localizzati nel territorio di distribuzione dell’arteria cerebrale media, al limite tra sostanza bianca e sostanza grigia dove il flusso capillare è più lento. L’eziologia è variabile in relazione alla sorgente iniziale della batteriemia. L’utilizzo di modelli sperimentali animali e delle indagini neuroradiologiche ha contribuito a delineare l’evoluzione istologica della lesione ascessuale piogenica. L’inoculazione di un microrganismo nel parenchima cerebrale conduce alla formazione di un’area focale di edema e infiammazione, a cui subentra la formazione di un’area centrale necrotico-purulenta. La lesione viene delimitata dalla formazione di una capsula, ben evidente dopo 2 settimane, caratterizzata dalla presenza di tessuto neovascolarizzato al limite con la zona necrotica e dalla comparsa di gliosi e/o fibrosi periferica. Questa sequenza di eventi può essere modificata a seconda del microrganismo in causa e delle difese immunitarie dell’ospite.
A.
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B. Clinica. Le manifestazioni cliniche sono più correlate alla presenza di una lesione occupante spazio che alla presenza di un’infezione: dipendono dal numero, dalle dimensioni, dalla localizzazione dell’ascesso e dalla presenza di condizioni predisponenti nell’ospite. Nell’ascesso piogenico classico il sintomo più comune è la cefalea, spesso caratterizzata da un dolore sordo mal localizzato, associata solo nella metà dei casi a febbre, il che giustifica il ritardo diagnostico osservato in molti pazienti. In fase più avanzata compaiono sintomi e segni dell’ipertensione endocranica (nausea, vomito, sonnolenza, letargia, stupore); il papilledema è presente in circa il 25% dei pazienti. Nel 30-50% dei pazienti, in relazione alla localizzazione dell’ascesso, possono comparire segni neurologici focali (per es., emiparesi sensitivo-motoria, afasia, atassia) e crisi comiziali. La rottura dell’ascesso cerebrale nei ventricoli, complicanza gravata da una mortalità dell’80% circa, è segnalata dall’improvviso peggioramento della cefalea preesistente e dall’insorgenza di segni di meningismo. C. Esami di laboratorio e strumentali. L’esecuzione delle indagini neuroradiologiche con mezzo di contrasto è essenziale per la diagnosi. Alla TC, l’ascesso si presenta con un’area centrale ipodensa, delimitata da un “enhancement” periferico, uniforme, ad anello, circondata da un’area variabile di edema cerebrale (Fig. 80.1). La RM cerebrale è più sensibile nell’evidenziare la fase precoce di cerebrite, l’entità dell’edema circostante e la eventuale presenza di lesioni satelliti. Le due indagini, caratterizzate da un’elevata sensibilità, non sono altrettanto specifiche: in particolare la diagnosi differenziale tra ascesso cerebrale e proliferazione neoplastica non è facile. Nei pazienti con ascesso cerebrale l’esecuzione della rachicentesi è sconsigliata perché rischiosa e di scarso ausilio diagnostico; l’esame colturale del liquor è
B.
Figura 80.1 - Ascesso cerebrale temporale destro. La TC evidenzia un’area irregolare di ipodensità in sede temporale destra (A). Dopo somministrazione di mezzo di contrasto (B), la TC evidenzia una lesione multiloculata, caratterizzata dalla presenza di un “enhancement” marcato, e circondata da un’area di ipodensità, espressione dell’edema cerebrale.
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positivo infatti in meno del 10% dei casi. La diagnosi eziologica comporta l’analisi microbiologica ed istologica del campione di tessuto cerebrale ottenuto mediante biopsia stereotassica, drenaggio o exeresi dell’ascesso; l’approccio neurochirurgico varia in relazione alla sede, alle dimensioni e alle caratteristiche dell’ascesso, nonché alle condizioni cliniche del paziente. Nei pazienti in trattamento antibiotico le colture sono più spesso negative ma l’esame microscopico ed istologico del campione prelevato possono guidare i successivi passi terapeutici. D. Decorso e prognosi. Il decorso clinico e la prognosi dipendono dall’estensione del danno tissutale al momento della diagnosi: la mortalità è inoltre più elevata nei pazienti con un esordio clinico acuto e nei pazienti immunocompromessi. E. Terapia. In attesa della conferma eziologica, la terapia empirica dev’essere impostata tenendo conto della presumibile porta d’ingresso del microrganismo: l’utilizzo per via endovenosa di una cefalosporina di III generazione in associazione al metronidazolo è uno degli schemi più utilizzati. L’introduzione nella terapia empirica di un glicopeptide è opportuna negli ascessi posttraumatici e nei casi in cui si sospetti un’eziologia stafilococcica. Il trattamento antibiotico dev’essere protratto generalmente per 6-8 settimane, sebbene la durata della terapia debba essere individualizzata in relazione alla sensibilità del germe in causa, alle dimensioni dell’ascesso, al successo del drenaggio chirurgico, in definitiva alla risposta clinica e neuroradiologica. Gli ascessi di piccole dimensioni (diametro inferiore a 2,5 cm) generalmente si risolvono con la sola terapia antibiotica. L’intervento neurochirurgico viene preso in considera-
MALATTIE INFETTIVE
zione per gli ascessi di dimensioni maggiori ed in assenza di riduzione della lesione in corso di terapia antibiotica. L’utilizzo di steroidi a dosi elevate per pochi giorni può essere utile nei pazienti con grave ipertensione endocranica; l’utilizzo prolungato può ridurre la penetrazione degli antibiotici e rendere meno efficaci i meccanismi di clearance del microrganismo. Giustificata è l’introduzione di una profilassi anticonvulsivante. Nell’ultimo ventennio si è assistito ad una modificazione nell’epidemiologia degli ascessi cerebrali: grazie ad una maggior aggressività nella terapia delle otiti medie vi è una ridotta incidenza degli ascessi cerebrali otogeni del lobo temporale e cerebellare, mentre in relazione al più ampio utilizzo di terapie immunosoppressive vi è un aumento nell’incidenza degli ascessi cerebrali secondari a una compromissione dell’immunità umorale o cellulo-mediata. In questi casi i germi più frequentemente isolati sono Nocardia spp, Enterobacteriacee spp e miceti, in particolare Aspergillus spp, riscontrato anche in pazienti diabetici o neutropenici. Le caratteristiche istologiche e le manifestazioni cliniche differiscono da quelle osservate nell’ascesso piogenico classico; la scarsità della risposta infiammatoria giustifica la minor frequenza di cefalea, dei segni di ipertensione endocranica o meningismo, mentre sono comuni la febbre e segni a carico di altri organi o apparati, a testimonianza della disseminazione dell’infezione. Nei pazienti con infezione da HIV la causa più frequente di lesioni cerebrali focali assumenti il contrasto è la toxoplasmosi cerebrale: questo giustifica da un lato l’inizio di una terapia empirica antitoxoplasmosica in tutti i pazienti con infezione da HIV con questa complicanza neurologica e dall’altro la raccomandazione ad eseguire lo screening per infezione da HIV in tutti i pazienti con lesioni cerebrali focali.
C A P I T O L O
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INFEZIONI SISTEMICHE R. NOVATI, C. UBERTI-FOPPA, G. GAIERA
INFEZIONE DA CYTOMEGALOVIRUS Il cytomegalovirus (CMV) è un agente ampiamente diffuso di numerosi quadri clinici, che vanno da un’infezione generalmente asintomatica nell’ospite immunocompetente, ad un’infezione congenita di gravità variabile fino a gravi infezioni disseminate con interessamento di pressoché tutti gli organi e apparati nei pazienti gravemente immunocompromessi. A. Eziologia ed epidemiologia. CMV è un virus a DNA a doppia elica, appartenente alla famiglia delle Herpesviridae; come tutti i componenti della famiglia ha la caratteristica di persistere in forma latente in seguito all’infezione primaria. I meccanismi di infezione latente da CMV sono ancora poco noti; sembra comunque assodato che le cellule reservoir durante il periodo di latenza siano linfociti e monociti. L’infezione da CMV è ampiamente diffusa in tutto il mondo, con tassi di sieroprevalenza nell’adulto superiori al 90%; il contagio avviene prevalentemente per via inalatoria diretta, durante la prima e seconda infanzia nella maggioranza dei soggetti, e durante la vita fetale nel 5% circa dei casi. Dall’età puberale acquisisce importanza la trasmissione sessuale dell’infezione e resta tuttora elevato il rischio trasfusionale. B. Patogenesi. Dopo l’infezione si ha una prima fase di viremia con moltiplicazione a livello del sistema reticolo-endoteliale afferente il distretto infetto, seguita da una seconda fase viremica con disseminazione a numerosi organi e apparati (polmone, fegato, rene, ghiandole salivari, pancreas, ghiandole surrenaliche, sistema nervoso centrale), ove si riscontrano le cellule balloniformi contenenti i tipici inclusi citomegalici. All’infezione segue di norma una robusta risposta immunitaria, sia umorale sia, soprattutto, cellulo-mediata. Nei soggetti immunocompetenti la risposta immunitaria limita la diffusione dell’infezione contribuendo probabilmente
ad indurre la fase latente della stessa. Nei pazienti con deficit dell’immunità cellulo-mediata (per es., con infezione da HIV o sottoposti a trapianto) vi può essere l’insieme dei quadri clinici dell’infezione postprimaria, conseguente per lo più alla riattivazione dell’infezione latente per diminuita sorveglianza immunitaria, anche se non sono da escludere le reinfezioni esogene. C. Clinica. Le manifestazioni cliniche dell’infezione citomegalica sono molto variabili in relazione alle caratteristiche dell’ospite. Ne vengono qui descritte le principali forme cliniche, rimandando la descrizione dell’infezione in gravidanza nell’ospite immunocompromesso ed alcune manifestazioni d’organo (polmonite e nevrassite) ad altri capitoli di questo testo. 1. L’infezione primaria acquisita si contrae quasi sempre in età infantile, talvolta anche nell’adulto, ed è di regola asintomatica. Talora si verifica una sindrome febbrile aspecifica e ad andamento favorevole, occasionalmente accompagnata da modesta faringodinia. La prognosi è di regola favorevole anche se può persistere una discreta astenia per qualche settimana o mese. In una minoranza di pazienti si hanno sindromi tanto più rare quanto più severe, a partire da una sindrome similmononucleosica (febbre, faringite, linfoadenopatia superficiale diffusa ed eventualmente esantema maculopapuloso) fino a gravi quadri di interessamento d’organo (polmonite, miocardite, encefalite, pancitopenia ed altri) fortunatamente rari e confinati prevalentemente ai casi di trasmissione parenterale dell’infezione (trasfusioni). Buona parte dei pazienti, peraltro, continua ad eliminare virus per settimane o mesi con la saliva, le urine e le secrezioni genitali (portatori convalescenti). 2. L’infezione nell’ospite immunocompromesso costituisce la complicanza infettiva più frequente nei trapianti d’organo (rene, fegato, polmone, cuore) o di midollo, con un’ampia gamma di sindromi possibili; colite, polmonite, esofagite, retinite ed altre. Nei pazienti sottoposti a trapianto di midollo osseo è purtroppo fre-
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quente la polmonite da CMV, gravata da tasso di letalità molto elevato. Nelle persone con infezione da HIV e grave immunodeficienza (< 50 linfociti CD4+/l) si ha lo spettro delle infezioni da CMV in AIDS, una delle principali cause di morte per questa malattia. La localizzazione più frequente è a carico della retina (corioretinite), quindi dell’apparato digerente (colite, esofagite), del sistema nervoso centrale e periferico (soprattutto encefalite), del polmone e del surrene. 3. L’infezione congenita da CMV avviene solo in concomitanza dell’infezione primaria della madre, sia inapparente che clinicamente manifesta. La fetopatia è tanto più grave quanto più precoce il contagio; i bambini contagiati alla nascita risultano di regola asintomatici, ma tendono ad eliminare virus con la saliva e le urine per un lungo periodo di tempo. Si stima che l’infezione congenita da CMV si verifichi circa nell’1% delle gravidanze, tuttavia risulta fortunatamente sintomatica in non più del 10% dei casi. Il neonato sintomatico presenta di solito basso peso alla nascita, talvolta ittero ed epatosplenomegalia, porpora piastrinopenica, corioretinite, microcefalia con ritardo psicomotorio e polmonite interstiziale persistente. La prognosi in questi casi è severa, con tassi di letalità del 20-30% ed esiti spesso gravi nei pazienti sopravvissuti; i casi paucisintomatici vengono talvolta identificati retrospettivamente, sulla scorta di indagini avviate in merito ad un ritardo psicomotorio o a deficit sensoriali (più spesso ipoacusia). D. Diagnosi. I quadri clinici suggestivi se non patognomonici di infezione citomegalica comprendono praticamente solo la corioretinite, che si presenta all’esame del fondo dell’occhio con un quadro tipico di essudati biancastri ed emorragie. In tutti gli altri casi il sospetto clinico va corroborato dalla dimostrazione del virus o di suoi componenti piuttosto che degli anticorpi specifici, la cui dimostrazione si basa sulla ricerca degli anticorpi specifici di classe IgG o IgM, di solito con tecnica immunoenzimatica. Il sospetto di infezione primaria può essere confermato dalla presenza di IgM specifiche ed in qualche caso dall’aumento da due a quattro volte del titolo di IgG specifiche in prelievi successivi. Nelle altre forme cliniche da CMV la sierologia non è di regola utile, specie per l’elevata sieroprevalenza dell’infezione nella popolazione generale. L’isolamento del CMV è effettuabile in coltura di fibroblasti da numerosi campioni biologici; l’indicazione all’esecuzione della coltura va adattata al singolo caso clinico, tenendo conto dell’alta prevalenza dei portatori sani o convalescenti: in anni recenti sono state sviluppate metodiche per l’identificazione rapida del virus in coltura mediante anticorpi monoclonali diretti contro antigeni immediati-precoci del CMV (pp65 e pp72): tale approccio ha trovato un ampio impiego clinico specie nella diagnosi di viremia e di polmonite nei pazienti immunocompromessi. Infine, le tecniche di amplificazione genica (PCR), soprattutto nelle varianti semiquantitative, si sono rivelate di grande utilità, specie per la diagnosi ed il monitoraggio terapeutico delle complicanze neurologiche dell’infezione (encefalite, radicolomieliti).
MALATTIE INFETTIVE
E. Terapia e profilassi. La terapia dell’infezione da CMV è da riservare esclusivamente alle forme cliniche del paziente immunocompromesso, essendo l’infezione primaria del paziente immunocompetente di regola a prognosi favorevole ed autolimitantesi. In anni recenti sono stati sviluppati tre farmaci attivi contro il CMV: ganciclovir, foscarnet e cidofovir. Sono terapie da eseguire sempre sotto controllo specialistico per l’elevata incidenza di effetti collaterali anche gravi (pancitopenia, insufficienza renale, ritenzione idrica e squilibri elettrolitici, ulcerazioni urogenitali ed altri): nei pazienti immunocompromessi occorre spesso fare seguire ai trattamenti di induzione lunghi periodi di terapia soppressiva a dosaggio ridotto, finché persiste lo stato di immunodeficienza. La profilassi dell’infezione da CMV si prefigge obiettivi diversi a seconda delle categorie di pazienti; nei trapianti d’organo da donatore sieropositivo si può, per esempio, eseguire profilassi con immunoglobuline specifiche o chemioprofilassi con ganciclovir. Nei pazienti con infezione da HIV e con linfociti CD4+ < 100/l può essere effettuata profilassi primaria con ganciclovir per via orale, mentre è indicata, come già accennato, la profilassi secondaria (o terapia soppressiva).
MONONUCLEOSI INFETTIVA Il virus di Epstein-Barr (EBV) è un herpes virus umano ubiquitario; l’infezione da EBV è ampiamente diffusa in tutti i continenti ed è per lo più asintomatica, specie in età infantile. Nell’adolescente e nel giovane adulto l’EBV può dare una sindrome clinicamente manifesta, caratterizzata dalla comparsa nel siero di anticorpi eterofili, denominata mononucleosi infettiva. Infine, l’EBV è sicuramente implicato quale cofattore nell’eziopatogenesi del linfoma di Burkitt e del carcinoma naso-faringeo e probabilmente anche del linfoma di Hodgkin e del linfoma cerebrale primitivo nei pazienti affetti da AIDS. A. Eziologia. Il virus di Epstein-Barr osservato al microscopio elettronico ha un diametro di 180-200 nanometri ed appare costituito da nucleocapsidi esagonali avvolti da un involucro complesso; il virus contiene un DNA a doppia elica che codifica circa 80 proteine. EBV possiede un tropismo selettivo per i linfociti B e cresce in vitro anche nelle cellule epiteliali del nasofaringe; nelle cellule infettate il virus di solito non provoca effetti citopatici: i linfociti B infettati, contenenti il genoma virale, acquisiscono in vitro l’importante caratteristica di essere coltivabili indefinitivamente, divengono cioè “trasformati” o “immortalizzati”. È stato recentemente identificato il recettore specifico per il virus sulla membrana delle cellule infettabili; si tratta di una glicoproteina costitutiva della terza frazione del complemento (denominata C3d), del peso di 145 kD. Dopo la penetrazione del virus sono dimostrabili nei nuclei della cellula infettata gli antigeni virali precoci (Epstein-Barr Nuclear Antigens, EBNA);
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81 - INFEZIONI SISTEMICHE
successivamente ha luogo la sintesi di numerose copie di genoma virale, per lo più in forma di episoma circolare non integrato. L’immortalizzazione dei linfociti B infettati è un processo complesso, in parte ancora oscuro, dovuto all’interazione di geni virali e cellulari; un’azione sicuramente importante è svolta da alcune proteine di membrana del virus (Latent Membrane Proteins, LMP), in grado di trasformare la morfologia dei linfociti B e di inibirne l’apoptosi. In vitro, i linfociti B trasformati si replicano trasmettendo alla progenie il virus e producendo numerose immunoglobuline policlonali, prevalentemente, ma non esclusivamente, di classe IgM. Nelle cellule infettate, sia in vitro che in vivo, EBV resta perlopiù in forma latente; l’infezione latente può essere attivata da stimoli esogeni sulla cellula infetta, in grado di indurre la sintesi di virioni maturi. Il processo inizia con la sintesi di una proteina immediata (BZLF 1 o ZEBRA), che attiva una cascata di eventi fino alla sintesi degli antigeni precoci (Early Antigens, EA) responsabili della replicazione virale (DNA polimerasi e timidina chinasi) e dei geni strutturali tardivi, tra cui le proteine del capside virale (Viral Capsid Antigens, VCA). Il processo termina con la produzione di una progenie di virioni maturi e la distruzione della cellula ospite (ciclo litico). Infine, sono stati identificati due ceppi virali distinti (EBV-1 e -2), caratterizzati forse da una diversa capacità di trasformare i linfociti B, ma tuttora indistinguibili sierologicamente. B. Epidemiologia. L’infezione da EBV è ampiamente diffusa in tutti i continenti, con una sieroprevalenza che supera il 90-95% nella popolazione adulta quasi ovunque. L’infezione viene mediamente acquisita più precocemente nelle regioni tropicali che nei paesi industrializzati e la sieroprevalenza risulta ovunque superiore nelle fasce sociali più povere. La manifestazione clinica dell’infezione (mononucleosi infettiva) si verifica di regola nella popolazione sieronegativa nel 2° decennio di vita, interessando pertanto soprattutto gli adolescenti o i giovani adulti delle classi agiate nei paesi industrializzati, senza una particolare distribuzione stagionale. L’infezione viene trasmessa per via aerea, tramite contagio salivare diretto; il virus è presente nella saliva dei pazienti affetti da mononucleosi infettiva, che rimangono contagiosi per lungo tempo durante la convalescenza (fino a 18 mesi), ed anche, meno frequentemente, degli adulti con infezione asintomatica (15-25% dei casi) e nel 50% circa delle persone HIV positive. EBV, come tutti gli herpesvirus, possiede una modesta resistenza ambientale ed è di per sé scarsamente virulento, il contagio pertanto è per lo più diretto e richiede un certo grado di intimità (malattia del bacio); per tale motivo i focolai epidemici di mononucleosi infettiva sono da considerarsi piuttosto rari. Infine, la malattia può occasionalmente essere trasmessa mediante trasfusione di sangue. C. Patogenesi. Il decorso generalmente benigno della mononucleosi infettiva rende di solito non necessarie osservazioni anatomopatologiche; i linfonodi affetti
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presentano comunque follicoli linfoidi e centri germinativi ingranditi e moderatamente attivi: la milza (quando studiata autopticamente oppure dopo rimozione in seguito a rottura) è notevolmente ingrandita e pesante (2-3 volte la norma) con un’iperplasia della polpa rossa. Le tonsille palatine mostrano intensa proliferazione cellulare; alterazioni diffuse ma minime sono riscontrabili nel fegato e, a volte, nel sistema nervoso centrale. L’infezione inizia nei linfociti B dell’orofaringe, all’interno dei quali i geni virali sono dimostrabili subito dopo il contagio; durante il periodo di incubazione il virus si replica e si dissemina attraverso il cosiddetto sistema linforeticolare. La risposta immunitaria è complessa e coinvolge sia i meccanismi umorali che quelli cellulomediati; un ruolo importante nel determinare il quadro clinico è svolto da alcune citochine, quali TNF- ed interleuchina-6, presenti in elevata quantità nel siero dei pazienti. È stata recentemente dimostrata la capacità di EBV di stimolare nei granulociti neutrofili la produzione di due chemochine (citochine ad attività chemotattica), interleuchina-8 (IL-8) e MIP-1- (Macrophage Inflammatory Protein), aventi entrambe la capacità di attirare efficacemente i linfociti T e B nel sito di infezione e quindi, indirettamente, di contribuire alla propagazione della stessa. Come già accennato, il virus di Epstein-Barr ha la caratteristica di indurre la sintesi sia di anticorpi specifici, diretti contro antigeni virali, sia di anticorpi non specifici, detti anticorpi eterofili, diretti contro antigeni eritrocitari di pecora, cavallo e montone (agglutinine). Il ruolo degli anticorpi eterofili, per lo più di classe IgM, nella patogenesi della malattia non è noto e il titolo degli stessi non è correlato alla gravità delle manifestazioni cliniche. L’immunità cellulo-mediata è notevolmente depressa nelle prime fasi della malattia (ipo o anergia ai test cutanei) e il fenomeno si accompagna a notevole linfocitosi periferica, costituita perlopiù da linfociti T CD8+. In questa fase una quota elevata (fino al 20%) di linfociti B circolanti contiene gli antigeni virali precoci (EBNA). La risposta immunitaria cellulare diviene presto evidenziabile come attività citotossica specifica (dimostrata in vitro contro le LMP e altri antigeni virali) mediata da T-linfociti, e come immunità naturale, indotta dalle cellule natural killer. La guarigione clinica si accompagna a graduale scomparsa della linfocitosi e dei deficit immunitari; il virus tuttavia, come avviene caratteristicamente nelle infezioni da herpesvirus, non viene eliminato dall’organismo potendo persistere nell’orofaringe e forse in una quota di B-linfociti. Infine, come già accennato, il paziente convalescente rimane contagioso per lungo periodo dopo la guarigione. D. Clinica. Il virus di Epstein-Barr provoca nell’uomo uno spettro abbastanza ampio di manifestazioni cliniche. La mononucleosi infettiva in senso stretto è caratterizzata da una triade clinica composta da 1) febbre, faringodinia e linfoadenopatia, 2) linfocitosi e 3) dalla comparsa nel siero di anticorpi eterofili. Nella maggior parte dei casi l’infezione da EBV è comunque asintomatica o paucisintomatica; l’espressione clinica dell’infezione è correlata all’età, essendo quasi sempre asinto-
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matica in età infantile e più spesso sintomatica durante l’adolescenza, quando il rapporto tra casi sintomatici ed infezioni asintomatiche sembra essere di 1 a 3. Il periodo di incubazione è piuttosto lungo nella maggior parte dei casi adulti (40-50 giorni), probabilmente più breve nei bambini (10-15 giorni). L’esordio della mononucleosi può essere brusco ma è più spesso preceduto da alcuni giorni di febbricola, malessere, astenia, cefalea retrorbitaria; il disgusto per il fumo è caratteristico ma non specifico della mononucleosi infettiva. La febbre è presente pressoché in tutti i casi ed è spesso elevata; la faringodinia è presente nell’85% circa dei pazienti, si accompagna ad importante ipertrofia tonsillare e ad essudazione faringea in un terzo dei casi. In un terzo dei pazienti si osserva la comparsa di petecchie localizzate tra palato duro e palato molle, più spesso verso il termine della prima settimana di malattia: la faringotonsillite persiste in media per 7-10 giorni. La linfoadenopatia superficiale diffusa è presente in quasi tutti i casi; le stazioni caratteristicamente coinvolte sono quelle del collo e della testa, in particolar modo quelle latero-cervicali anteriori, ma risultano di regola affetti anche i linfonodi ascellari ed inguinali, a testimonianza della disseminazione dell’infezione. I linfonodi colpiti risultano dolenti alla palpazione anche superficiale, aumentati di dimensione, di consistenza soffice o duro-elastica, mobili sui piani sottostanti. Una splenomegalia molle, se ricercata con cura, risulta presente nella metà dei casi. L’epatomegalia è evidente nel 10% circa dei pazienti ed un franco ittero nella metà circa di questi. Un esantema maculopapuloso è presente nel 5% dei casi ma può essere caratteristicamente provocato o peggiorato dall’assunzione di ampicillina, talvolta erroneamente prescritta nel sospetto di una faringotonsillite acuta streptococcica. La maggior parte dei pazienti guarisce spontaneamente in 2-3 settimane con attenuazione graduale della febbre e della faringodinia; i sintomi costituzionali (astenia) possono invece persistere più a lungo. Esistono tuttavia alcune complicanze possibili, fortunatamente rare. Tra queste la rottura della milza è un evento raro ma temibile, relativamente più frequente nel periodo tardivo della malattia, essendo favorita dalla splenomegalia congestizia, già descritta; il sintomo caratteristico è il dolore, imponente, in ipocondrio sinistro, spesso irradiato alla scapola omolaterale, presto seguito dai segni dello shock ipovolemico incipiente. L’unica possibilità di evitare l’evoluzione catastrofica del quadro clinico è la splenectomia urgente; nella metà circa di questi pazienti la rottura splenica viene provocata da un trauma, talvolta anche lieve: è dunque opportuno che i pazienti affetti da mononucleosi evitino gli sforzi fisici pesanti e l’attività sportiva fino a guarigione avvenuta. L’anemia emolitica autoimmune complica il quadro clinico nel 2% circa dei casi ed è associata alla presenza nel siero di crioagglutinine nella maggior parte di questi pazienti; l’emolisi si verifica più spesso nella seconda settimana di malattia e regredisce gradualmente in 1-2 mesi; in qualche caso i corticosteroidi possono abbreviare la scomparsa dal circolo delle crioagglutinine.
MALATTIE INFETTIVE
La piastrinopenia di grado moderato è abbastanza frequente, rara invece la comparsa di piastrinopenia severa, accompagnata da petecchie cutane e mucose. Una varietà di complicanze neurologiche è stata associata a mononucleosi infettiva, ma l’incidenza complessiva delle stesse resta trascurabile (meno dell’1% dei casi) e la prognosi delle diverse forme cliniche è favorevole nella maggior parte dei pazienti; relativamente più comune è l’encefalite, più spesso interessante il cervelletto. Infine, un certo grado di sofferenza epatocellulare con elevazione degli enzimi di necrosi e di stasi epatica è presente in quasi tutti i pazienti affetti da mononucleosi infettiva, quasi mai però tale da influenzare significativamente il decorso clinico. In anni recenti è stato suggerito che l’infezione persistente da EBV possa essere causa frequente di astenia e malessere nel giovane adulto; l’ipotesi è stata originariamente suffragata dal riscontro di una sindrome costituita da astenia, faringodinia, mialgie e lievi deficit cognitivi in associazione a titoli elevati di anticorpi anti-EBNA, successivamente denominata mononucleosi cronica. Tale sindrome è stata successivamente apparentata ad un’altra entità clinica del tutto similare e di recente riscontro, più frequente nella giovane donna, denominata sindrome da stanchezza cronica (Post-Viral Chronic Fatigue Syndrome), comprendente (oltre a quelli già citati) una pletora di sintomi scarsamente specifici, in buona parte psicogeni, per la quale solo di recente sono state proposte delle linee guida diagnostiche; ad oggi tuttavia, il ruolo di EBV nell’eziopatogenesi sia della cosiddetta mononucleosi cronica che della sindrome da stanchezza cronica non è affatto provato e l’esistenza stessa delle due forme cliniche è messa in dubbio da alcuni Autori. E. EBV come virus oncogeno. Una possibile attività oncogena del virus di Epstein-Barr a carico delle cellule infettate è abbastanza facilmente immaginabile tenendo conto della nota capacità del virus di immortalizzare in vitro le linee cellulari suscettibili di infezione. Tale fenomeno, che interessa probabilmente i meccanismi di autoregolazione della crescita cellulare, costituisce uno dei modelli di oncogenesi virale più studiati al mondo e rende ragione dell’interesse verso un’infezione per il resto, come si è visto, prevalentemente benigna. Praticamente tutti i pazienti africani affetti da linfoma di Burkitt e la maggior parte di quelli affetti da carcinoma naso-faringeo possiedono titoli di anticorpi anti-EBV nel siero significativamente superiori ai controlli non affetti da tali neoplasie. Le tecniche di ibridazione molecolare hanno dimostrato in modo convincente il DNA virale nelle cellule tumorali di questi pazienti; tuttavia la peculiare distribuzione geografica ed etnica di questi tumori fanno ritenere che fattori genetici e/o altri cofattori virali siano necessari per la patogenesi del tumore. EBV è anche molto probabilmente implicato nella patogenesi del linfoma di Hodgkin, del linfoma a fenotipo B e nel linfoma cerebrale primitivo dei pazienti affetti da AIDS, essendone evidenziabile il genoma nelle cellule neoplastiche di un’elevata percentuale dei casi.
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81 - INFEZIONI SISTEMICHE
F. Diagnosi. Il sospetto di mononucleosi infettiva può essere ragionevolmente posto sulla scorta del quadro clinico; la diagnosi differenziale si pone di solito con l’infezione da cytomegalovirus, con la linfoadenite acuta da Toxoplasma gondii (nella quale risulta di regola assente la faringite), con la rosolia (quadro clinico modesto e comparsa dell’esantema senza faringite); la faringite acuta streptococcica è distinguibile per l’assenza di splenomegalia: nella leucemia acuta ed in altri disordini mieloproliferativi il quadro ematologico periferico è monomorfo e l’emomielogramma è di solito diagnostico. In tutti i pazienti la diagnosi differenziale sarà poi facilmente circostanziata dall’esecuzione delle analisi sierologiche specifiche e del tampone faringeo nel sospetto di infezione streptococcica. Un discorso a parte merita infine l’infezione acuta da HIV, talvolta clinicamente indistinguibile dalla mononucleosi infettiva e spesso per tale motivo misconosciuta; l’anamnesi epidemiologica (evento recente a rischio) e l’esecuzione delle analisi sierologiche appropriate può consentire l’identificazione precoce di questa sindrome. Il quadro ematico della mononucleosi infettiva è piuttosto caratteristico: nella prima settimana di malattia il numero dei leucociti può essere normale o lievemente diminuito per granulocitopenia relativa. Successivamente si evidenzia leucocitosi (10.000-20.000/l); l’elemento più caratteristico è la linfocitosi periferica, che raggiunge il 60-70% del totale dei leucociti in seconda settimana di malattia; gli elementi atipici (in passato denominati cellule di Dawney), che possono raggiungere il 30% del totale, sono molto caratteristici ma non patognomonici di mononucleosi infettiva, potendosi riscontrare in corso di infezione da CMV, rosolia, morbillo, toxoplasmosi ed epatite virale acuta. Il linfocita atipico si presenta ingrandito, con citoplasma vacuolato e basofilo e nucleo spesso lobulato, con cromatina addensata. L’eterogeneità morfologica e tintoriale degli elementi consente di solito la distinzione con i linfoblasti in corso di leucemia linfoide acuta. Frequente, come si è detto, l’aumento moderato delle transaminasi e molto comune (90-95% dei pazienti) il riscontro di crioglobuline in modesta quantità. Il sospetto clinico di mononucleosi infettiva va suffragato mediante la ricerca nel siero di anticorpi eterofili e di anticorpi specifici. Gli anticorpi eterofili furono scoperti nel 1932 da Paul e Bunnell, che notarono che il siero di pazienti affetti da mononucleosi infettiva agglutina i globuli rossi di montone; la reazione di Paul-Bunnel, insieme al cosiddetto test dicriminante di Davidson, ha costituito il caposaldo per la diagnosi di mononucleosi infettiva per alcuni decenni. In anni più recenti il test, lungo e laborioso da eseguire nella sua forma originaria, è stato sostituito da un metodo semplificato (Monotest) che ne ha anche aumentato la sensibilità e la specificità. Gli anticorpi eterofili, per lo più IgM, vengono prodotti da più del 90% dei pazienti nel corso della malattia e scompaiono dopo qualche mese. Gli anticorpi specifici, ricercati mediante immunofluorescenza indiretta o con metodica immunoenzimatica, sono specifici per alcuni epitopi virali. Gli anticorpi contro il Viral Capsid Antigen (VCA) compaiono nel siero molto precocemente
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(7-10 giorni dall’infezione); la positività esclusivamente per IgG anti-VCA indica infezione pregressa e tale riscontro ha significato soprattutto in studi epidemiologici di sieroprevalenza: per contro il riscontro di IgM antiVCA consente la diagnosi di mononucleosi infettiva nella maggior parte dei pazienti; come si è detto tale anticorpo compare nel siero poco dopo il contagio per scomparire in media dopo 4-8 settimane. Gli anticorpi antiEA persistono per qualche mese (3-4 in media) dopo l’infezione e sembrano associati a forme cliniche complicate o protratte, essendo peraltro di non raro riscontro nei pazienti affetti da carcinoma naso-faringeo e da linfoma di Burkitt. Infine, gli anticorpi anti-EBNA compaiono tardivamente nel corso del quadro clinico, probabilmente come risultato della citolisi delle cellule infette mediata dai T-linfociti, che provoca il rilascio dell’antigene; la ricerca degli anticorpi anti-EBNA, che persistono per tutta la vita, risulta pertanto di qualche utilità nei soggetti già negativizzatisi per anticorpi eterofili, con un recente sospetto episodio di mononucleosi. Il virus di Epstein-Barr si può coltivare in vitro in linee cellulari suscettibili ma l’interpretazione del risultato è molto difficile dato che l’infezione latente è estremamente diffusa nella popolazione generale. Infine, il DNA virale può essere ricercato con elevata sensibilità e specificità con metodiche di virologia molecolare nei tessuti (ibridazione in situ), dalle cellule mediante ibridazione (“Southern blot”) o tramite amplificazione genica (PCR). G. Terapia e profilassi. La mononucleosi infettiva non complicata non richiede terapia. I corticosteroidi sono indicati in caso di anemia emolitica, di piastrinopenia grave e di pericolo di ostruzione delle vie aeree superiori per eccessiva ipertrofia tonsillare. Numerosi farmaci antivirali inibiscono la crescita di EBV in vitro: adenina arabinoside, acyclovir, desciclovir, sorivudina, interferon-. L’utilizzo di tutti questi farmaci presenta tuttavia un rapporto rischio-beneficio decisamente sfavorevole in termini sia di costi sanitari sia, soprattutto, di effetti collaterali. Alcuni recenti studi clinici hanno dimostrato un calo significativo nell’eliminazione di EBV dall’orofaringe di pazienti affetti da mononucleosi infettiva trattati con acyclovir senza però un significativo beneficio clinico (durata e intensità dei sintomi). È infine allo studio la possibilità di un approccio immunoterapeutico per la mononucleosi ma soprattutto contro il linfoma di Hodgkin utilizzando linfociti citotossici specifici contro anche alcuni epitopi virali (LMP) spesso evidenziabili nelle cellule tumorali (cellule di Reed-Sternberg). Poiché la trasmissione dell’infezione richiede un contatto diretto ravvicinato, non è necessario isolare il paziente affetto da mononucleosi infettiva. In passato è stata valutata la possibilità di studiare dei vaccini contro la mononucleosi utilizzando ceppi di virus inattivato; attualmente tale approccio non è più utilizzato data la potenziale oncogenicità di EBV. Sono attualmente allo studio dei vaccini costituiti da una glicoproteina di superficie del virus (gp350), essenziale per il legame alla cellula ospite, che hanno dimostrato protezione dallo sviluppo di linfoma nell’animale da esperimento.
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MALATTIE INFETTIVE
PAROTITE EPIDEMICA La parotite epidemica è una malattia infettiva acuta e contagiosa di origine virale, caratterizzata da flogosi con aumento di volume e dolore delle ghiandole parotidi e talora interessamento di altri organi; in circa un terzo dei casi è asintomatica. Essa si manifesta con maggior frequenza nei bambini e negli adolescenti, è più rara negli adulti nei quali ha un andamento più grave con una maggior frequenza di complicanze extraparotidee. A. Epidemiologia. La malattia è ubiquitaria, con andamento endemico e maggiore incidenza all’inizio della primavera. Periodicamente (ogni 2-5 anni) si verificano riaccensioni epidemiche, in particolare nelle comunità ristrette. L’infezione viene contratta raramente prima dei 2 anni di età, essendo un’affezione tipica della seconda infanzia: colpisce più frequentemente giovani adulti. La resistenza all’infezione ad un anno di vita è dovuta all’immunità acquisita passivamente dalla madre per trasferimento transplacentare degli anticorpi materni. Gli adulti con età superiore a 20 anni sono immuni nell’80-90% dei casi anche se solo il 30% circa ha un’anamnesi positiva per parotite. L’uomo è l’unico serbatoio esistente in natura: la trasmissione ha luogo per contatto diretto (goccioline di Flügge), più di rado attraverso oggetti contaminati. Il virus viene eliminato con la saliva e con le urine ed è presente nelle secrezioni da 7 giorni prima a 2 settimane dopo la comparsa della tumefazione parotidea; il massimo picco di contagiosità dura pochi giorni. L’infezione, anche inapparente, conferisce un’immunità duratura che non esclude la rara possibilità di reinfezioni nell’adulto. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. L’agente eziologico della parotite epidemica è un paramyxovirus di forma sferica e dimensioni tra gli 80 e i 300 nm, contenente RNA e coperto da un involucro glicolipoproteico. Il virus, termolabile, ha una costituzione antigenica alquanto complessa: sono stati finora evidenziati antigeni fissanti il complemento (uno solubile “S” che ha sede nel core e l’altro “V” localizzato alla superficie), ed emoagglutinanti. Può essere isolato da saliva, liquor, urine, latte, sangue di soggetti infetti, oltre che da frustoli degli organi colpiti. La porta d’ingresso del virus è verosimilmente la mucosa respiratoria, dove si moltiplica per poi invadere le stazioni linfonodali cervicali e le ghiandole salivari nel corso della prima viremia. Una seconda fase viremica sarebbe responsabile delle localizzazioni secondarie. Le alterazioni anatomopatologiche sono analoghe per i parenchimi parotideo, pancreatico e per i testicoli e comprendono: edema interstiziale, emorragie puntiformi, infiltrati linfoplasmacellulari e necrosi delle cellule acinose. Nel lume dei dotti escretori sono presenti leucociti e detriti cellulari. C. Clinica. Il periodo di incubazione dura circa 2-3 settimane: è generalmente asintomatico, sebbene possa essere talora accompagnato da prodromi modesti (ma-
lessere, anoressia, brivido, febbricola). Nel 20% dei casi l’infezione è asintomatica. Perlopiù l’esordio è acuto con febbre, otalgia, mialgie, cefalea e quindi tumefazione parotidea, senza segni superficiali di flogosi: la ghiandola appare dolente, mal delimitabile e di consistenza duro-elastica. L’interessamento è inizialmente monolaterale, ma nella maggior parte dei casi (75%) in circa 2 giorni viene coinvolta anche la parotide controlaterale. Possono essere interessate anche le ghiandole sottomandibolari e sublinguali. L’aumento di volume delle parotidi si protrae per 2-3 giorni conferendo al paziente una facies particolare (donde il nome particolare di orecchioni) a causa dello spostamento in avanti e in fuori dei padiglioni auricolari, quindi, nel volgere di una settimana circa le ghiandole ritornano alle normali dimensioni. La fase acuta della malattia è caratterizzata da un dolore spontaneo in sede parotidea, esacerbato dalla masticazione, dall’assunzione di cibi acidi e dalla palpazione; all’ispezione del cavo orale è possibile talora evidenziare l’arrossamento e la tumefazione del dotto escretore, che può apparire circondato da petecchie. La febbre, abitualmente intorno ai 38-40 °C, persiste per 4-5 giorni, quindi cede per lisi, contemporaneamente all’attenuazione del dolore e dei sintomi generali. L’elettivo tropismo del virus per i parenchimi ghiandolari e per il tessuto nervoso giustifica la frequenza delle localizzazioni extrasalivari, che si possono avere in qualunque fase della malattia, prevalentemente dopo l’interessamento delle parotidi. La tabella 81.1 evidenzia la frequenza delle varie manifestazioni cliniche. 1. L’orchiepididimite si presenta nel 20-30% dei pazienti di sesso maschile in età postpubere ed è bilaterale in un sesto dei casi. L’esordio è acuto, caratterizzato da tumefazione e dolori scrotali, nausea, vomito, febbre. La manifestazione è benigna nella maggior parte dei casi e regredisce entro 5-7 giorni, frequentemente (50%) esita in una lieve atrofia testicolare che solo raramente si associa a sterilità. Tabella 81.1 - Frequenza delle varie manifestazioni cliniche dell’infezione da virus della parotite epidemica. MANIFESTAZIONI CLINICHE
FREQUENZA (%)
• Ghiandolari – Parotite – Pancreatite – Sottomandibolare e/o sublinguale – Orchiepididimite(2) – Ooforite • Neurologiche – Pleiocitosi liquorale – Meningite – Encefalite – Sordità transitoria • Altre – Alterazioni ECG – Alterazioni funzionalità renale (lievi)
60-70 ?(1) 10 25 (adulti) 5 (adulti) 50 1-10 0,1 4 5-15 > 60
(1) La congestione dell’organo è frequente, ma la manifestazione clinica è rara. (2) Rara in età prepubere.
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81 - INFEZIONI SISTEMICHE
2. La pancreatite si manifesta clinicamente in un numero ridotto di casi, anche se è piuttosto frequente un interessamento ghiandolare con congestione del parenchima. Talvolta il quadro può assumere i caratteri dell’addome acuto oppure limitarsi alla comparsa di dolori addominali, nausea, vomito e alterazioni dell’alvo. L’esito abituale è la guarigione in pochi giorni, sono rare le complicanze gravi, mentre non si esclude la possibilità che l’infezione favorisca l’insorgenza di diabete mellito. 3. L’interessamento del sistema nervoso centrale si rende clinicamente evidente nel 10% circa dei casi, ma in oltre la metà dei pazienti affetti da parotite epidemica è dimostrabile una pleiocitosi liquorale asintomatica con un numero di cellule da 10 a 2000/mm3 (prevalentemente linfociti con un 20-25% di casi con predominanza di leucociti polimorfonucleati), le proteine sono normali o lievemente aumentate, nel 6-30% dei casi è presente ipoglicorrachia. Le alterazioni liquorali possono persistere per 5 o più settimane. Quando manifesta, la meningite a liquor limpido è caratterizzata da una sindrome classica: febbre, cefalea, vomito, nausea, rigidità nucale. La sintomatologia regredisce entro 1-2 settimane senza sequele. L’encefalite si manifesta con una frequenza di un caso ogni 6000 parotiti epidemiche ed ha una distribuzione bifasica; nel primo gruppo l’encefalite compare in associazione alla parotite, ma più frequentemente si evidenzia da 7 a 10 giorni dopo la comparsa della tumefazione parotidea. L’encefalite ad insorgenza precoce è dovuta ad un danno diretto neuronale da invasione virale, l’encefalite più tardiva è invece un processo demielinizzante correlato alla risposta immunitaria all’infezione. L’encefalite tardiva segue all’invasione virale acuta: alcuni soggetti muoiono durante l’invasione primaria mentre alcuni di quelli che sopravvivono sviluppano anticorpi antivirali o antielementi neuronali con comparsa di una reazione autoimmune. Le caratteristiche cliniche sono quelle di un’encefalite non focale con grave alterazione dello stato di coscienza, convulsioni, paresi, afasia e movimenti involontari. 4. Tra le altre manifestazioni, peraltro poco frequenti, si ricordano la prostatite nel sesso maschile, l’ooforite descritta in una modesta percentuale della casistica femminile, una tiroidite granulomatosa tipo De Quervain, miocardite e pericardite. Sono state inoltre descritte manifestazioni oculari (dacrioadenite, cheratite, irite, congiuntivite), articolari (poliartrite migrante), polmonari, epatiche, mielite, neurite, poliradicolonevrite ascendente (sindrome di Guillain-Barré), mastite, porpora piastrinopenica. D. Esami di laboratorio. Nella parotite non complicata le indagini di laboratorio sono generalmente mute, salvo una modesta leucopenia con una linfocitosi reattiva. Nei pazienti con orchiepididimite, pancreatite o meningite si può osservare una marcata leucocitosi con neutrofilia (fino a 20.000 elementi/l) ed un aumento della VES. Un aumento delle amilasi e soprattutto delle lipasi sieriche accompagna in genere la pancreatite, in cui compaiono talvolta iperglicemia e glicosuria.
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E. Diagnosi. La diagnosi clinica è generalmente agevole. La bilateralità dell’interessamento parotideo, l’andamento della febbre, la consistenza della tumefazione ghiandolare permettono di eseguire una diagnosi differenziale con le parotiti batteriche (monolateralità, febbre di tipo settico), le scialolitiasi e le neoplasie parotidee. Non va dimenticato che un interessamento parotideo può comparire nel quadro di numerose sindromi quali quelle di Mikulicz, Sjögren, con l’utilizzo di alcuni medicamenti contenenti iodio (parotite da urografia), isoproterenolo, fenilbutazone, avvelenamenti da bromuri e da metalli pesanti. Per la diagnosi di certezza più che le indagini virologiche (isolamento dalla saliva, urine, liquor), alquanto complicate, sono indicativi i test sierologici immunoenzimatici e di immunofluorescenza indiretta (che permettono di identificare IgG ed IgM), di fissazione del complemento (che permette di evidenziare gli anticorpi diretti contro l’antigene S, che compaiono in fase precoce, e di quelli diretti contro l’antigene V, più tardivi). La diagnosi di infezione acuta viene eseguita con la dimostrazione degli anticorpi IgM o anti-S oppure su un aumento di circa quattro volte del titolo anticorpale in campioni di siero prelevati a 2-3 settimane di distanza. F. Decorso e prognosi. La prognosi è abitualmente favorevole, con la sola riserva dell’interessamento del sistema nervoso centrale: l’encefalite e la mielite così come l’atassia cerebellare, peraltro rare, possono avere esito letale nella metà dei casi. Sono state descritte glomerulonefriti acute emorragiche e porpore trombocitopeniche. Rara anche l’evenienza di una pancreatite necrotizzante. Infine, in alcuni casi l’infezione contratta in fase precoce di gravidanza ha condotto all’aborto: il virus non sembra in grado di indurre malformazioni fetali, mentre è stata ipotizzata ma non confermata la possibilità di sviluppo di fibroelastosi endocardica nel nascituro. G. Terapia. Non vi è trattamento specifico. Nei pazienti con orchite e nella meningite viene utilizzata la terapia steroidea anche se la sua efficacia non è stata documentata; negli altri casi si ricorre al trattamento sintomatico con analgesici ed antipiretici. Per quanto riguarda la profilassi, le immunoglobuline specifiche sono in grado di prevenire (o almeno attenuare) la sintomatologia se somministrate subito dopo il contagio. La vaccinazione (virus vivo attenuato), che si è rivelata efficace nel 90% dei casi, conferisce protezione valida per almeno 10 anni; è consigliabile nei maschi che abbiano raggiunto la pubertà senza contrarre l’infezione, data l’elevata frequenza di orchiti concomitanti all’infezione naturale. La vaccinazione antiparotite viene consigliata in associazione a quelle contro il morbillo e la rosolia durante l’età infantile. I ceppi attenuati utilizzati per la vaccinazione sono neurotropi ed inducono a considerare con cautela l’uso indiscriminato dell’immunoprofilassi attiva: secondo uno studio giapponese sembra che il rischio di meningite asettica postvaccinale, in particolare con un ceppo definito Urabe, sia dello 0,05-3%.
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MALATTIE INFETTIVE
TOXOPLASMOSI Il protozoo Toxoplasma gondii è un parassita intracellulare obbligato, a diffusione ubiquitaria, responsabile di importanti quadri clinici nell’uomo e negli animali domestici, il gatto in particolare. Il termine toxoplasmosi definisce la malattia indotta dal parassita e va distinto dal concetto di infezione da Toxoplasma gondii, che decorre asintomatica nella maggior parte casi. L’infezione cronica, o latente, è dovuta alla persistenza del parassita in forma cistica, è di regola asintomatica e si verifica in tutte le persone infettate dopo la guarigione della fase acuta; la riattivazione dell’infezione latente si può manifestare nei pazienti per qualunque motivo gravemente immunocompromessi. Occasionalmente l’infezione latente può dare luogo ad una corioretinite, potenzialmente pericolosa per la vista. Infine, la toxoplasmosi contratta in gravidanza può essere trasmessa al feto dando luogo alla toxoplasmosi congenita. A. Eziologia. Toxoplasma gondii presenta tre forme vitali: 1) l’oocisti, che è il prodotto del ciclo sessuato nell’epitelio intestinale del gatto e contiene gli sporozoiti; 2) il tachizoita, che è la forma tissutale invasiva (asessuato); 3) la cisti tissutale, contenente i bradizoiti, caratteristica dell’infezione latente. 1. L’oocisti misura circa 10 12 micron e viene eliminata in grande quantità nell’ambiente (anche 10 milioni di oocisti al giorno) con le feci del gatto infetto; la maturazione dell’oocisti (sporulazione) dà luogo alla forma infettante che può persistere come tale a lungo (fino a 18 mesi) nell’ambiente, a temperature comprese tra i 4 e i 37 °C. 2. Il tachizoita (3 7 micron circa) è un parassita intracellulare obbligato ed è presente nell’infezione acuta; può essere evidenziato nelle sezioni istologiche con colorazioni specifiche (Wright-Giemsa, immunoperossidasi). I tachizoiti possono virtualmente infettare tutte le cellule dei mammiferi, moltiplicandosi nel citoplasma all’interno del cosiddetto vacuolo parassitoforo al ritmo di una divisione ogni 4-6 ore, fino alla lisi cellulare e all’invasione di cellule adiacenti. 3. La cisti tissutale (da 10 a 200 micron di diametro) contiene fino ad alcune migliaia di bradizoiti e persiste di solito nei tessuti per tutta la vita (dell’ospite); le cisti si possono sviluppare in qualunque organo, più facilmente tuttavia nel muscolo striato, compreso il miocardio, e nell’encefalo. La cisti tissutale resiste al pH gastrico, donde l’abilità di trasmettere l’infezione con gli alimenti infetti (carne bovina, suina e ovina cruda o poco cotta). Le cisti tissutali vengono uccise dall’irradiazione con raggi , dal riscaldamento ad almeno 61 °C per almeno 5 minuti o dal congelamento (– 20 °C) per almeno 24 ore. B. Epidemiologia. L’infezione da Toxoplasma è una zoonosi ubiquitaria. Il parassita infetta animali erbivo-
ri, carnivori e onnivori, tra cui tutti i mammiferi; in tutti gli ospiti intermedi, uomo compreso, si produce il medesimo ciclo vitale del parassita, caratterizzato dalla persistenza dell’infezione in forma latente in svariati organi, particolarmente nella muscolatura striata. Come già accennato, l’ospite definitivo del parassita è il gatto, nell’epitelio intestinale del quale avviene il ciclo replicativo sessuato. La prevalenza delle cisti tissutali nelle carni per l’alimentazione umana è alta; per contro, l’eliminazione delle oocisti con le feci si verifica probabilmente nell’1% circa dei gatti. La sieroprevalenza per Toxoplasma gondii è elevata quasi ovunque ed aumenta con l’età; gli studi epidemiologici, ove effettuati (per es. in Francia), hanno dimostrato una sieroprevalenza del 90% circa nella popolazione al di sopra dei 40 anni di età. Come ci si attende dalle caratteristiche di resistenza ambientale delle oocisti, la sieroprevalenza nella popolazione è inferiore in aree a condizioni climatiche estreme (zone aride o molto fredde, alta montagna). Il parassita viene di regola trasmesso all’uomo per via orale o per via transplacentare; nel primo caso l’infezione avviene dopo ingestione di carni crude o poco cotte contenenti le cisti tissutali (alcuni studi hanno evidenziato le cisti tissutali nel 25% di campioni di carne suina e ovina), oppure di verdure o altri alimenti contaminati dalle oocisti; resta da citare la possibilità del contagio attraverso ingestione delle oocisti dopo contaminazione accidentale delle mani con le feci del gatto; eventualità che sembra comunque assai meno frequente delle altre. La trasmissione materno-fetale avviene nelle donne che si infettano a gravidanza già iniziata, molto raramente appena prima del concepimento; nei paesi industrializzati si sono osservati tassi di sieroprevalenza nelle donne in età fertile del 50% circa. La toxoplasmosi può inoltre raramente essere trasmessa per inoculo accidentale nel personale dei laboratori di microbiologia e attraverso trasfusioni di sangue (il parassita sopravvive fino a 50 giorni nelle unità di sangue per emotrasfusione). Un’ulteriore via di trasmissione, rara ma non trascurabile, si verifica dopo trapianto d’organo (specie trapianto cardiaco) da donatore sieropositivo a ricevente sieronegativo. Il contagio interumano diretto non è noto ma, al di là delle modalità di trasmissione riportate, è da considerarsi improbabile. Infine, l’encefalite da Toxoplasma gondii costituisce una delle più frequenti e drammatiche infezioni opportunistiche maggiori nei pazienti con infezione da HIV; l’incidenza della neurotoxoplasmosi in AIDS è correlata alla sieroprevalenza per anticorpi anti-Toxoplasma nelle persone HIV positive, che oscilla tra il 15-40% negli USA e il 70-95% in Europa meridionale (Italia inclusa) e in alcuni paesi africani. Fino a pochi anni or sono nelle aree geografiche ad elevata sieroprevalenza la neurotoxoplasmosi colpiva almeno il 25% dei pazienti affetti da AIDS, rappresentando la patologia diagnostica in molti casi, con un’incidenza inversamente proporzionale alla conta dei linfociti T CD4+; in anni recenti l’uso estensivo della profilassi primaria e gli importanti progressi della terapia antiretrovirale com-
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binata (prevenzione del danno immunologico) hanno considerevolmente ridotto l’incidenza di questa complicanza dell’AIDS. C. Immunopatogenesi. Toxoplasma può attivamente infettare tutti i tipi cellulari; sono state recentemente dimostrate delle strutture contrattili (del tipo actina-miosina) adese alla superficie interna della membrana del tachizoita, probabilmente responsabili dei micromovimenti effettuati dal parassita per infettare la cellula ospite; nel citoplasma della cellula infettata il parassita è avvolto da una porzione di membrana cellulare a formare il cosiddetto vacuolo parassitoforo che pone il tachizoita al riparo dai meccanismi di difesa quali la fusione lisosomiale e la lisi da anticorpi specifici e complemento. L’immunità cellulo-mediata è cruciale per il controllo dell’infezione. I linfociti T CD4+, con atteggiamento funzionale Th1 hanno un ruolo importante nel promuovere la distruzione dei tachizoiti da parte dei macrofagi e, direttamente, da parte di citochine infiammatorie, quali il TNF. Anche i linfociti T CD8+ possono esercitare un’azione litica sui tachizoiti e sulle cellule che da essi sono parassitate. La diminuzione di linfociti T CD4+ e la ridotta produzione di citochine, quali la IL-2 e l’INF-, nei pazienti affetti da AIDS spiegano la marcata suscettibilità di questi ultimi all’infezione da Toxoplasma. La neurotoxoplasmosi in AIDS deriva quasi invariabilmente dalla riattivazione dell’infezione latente; ciò può avvenire da cisti tissutali, cerebrali, oppure originare da altri organi (muscolo striato) con disseminazione al sistema nervoso sia centrale che, più raramente, periferico; la prima ipotesi parrebbe più frequente, tuttavia il frequente riscontro (circa il 35% dei casi) di parassitemia in pazienti affetti da neurotoxoplasmosi sembra favorire la seconda possibilità, suffragata anche da modelli di infezione cerebrale nell’animale. La corioretinite in un paziente immunocompetente deriva molto probabilmente dalla riattivazione di un’infezione congenita mentre sembra di origine ematogena nella maggior parte dei pazienti affetti da AIDS. Le conoscenze sui quadri anatomopatologici in corso di toxoplasmosi derivano per lo più dallo studio di lesioni autoptiche in pazienti immunodepressi o affetti da malattia congenita grave. Le biopsie linfonodali effettuate in pazienti affetti da toxoplasmosi linfoghiandolare acuta evidenziano iperplasia follicolare reattiva e cluster irregolari di istiociti epitelioidi attorno ai centri germinativi. La neurotoxoplasmosi in AIDS provoca la formazione di ascessi cerebrali, tipicamente più di uno, costituiti da una zona centrale avascolare e necrotica, circondata da un cercine di cellule infiammatorie (linfociti, plasmacellule, macrofagi) nel quale si possono rinvenire numerosi tachizoiti, e da un’area periferica contenente cisti parassitarie; sono di comune riscontro edema perilesionale, aree di vasculite, emorragia ed infarto. Le lesioni si manifestano più spesso nei nuclei della base, ma sono altresì frequenti nel cervelletto e nel tronco encefalico. In qualche caso la neurotoxoplasmosi assume i caratteri di un’infezione cerebrale disseminata (encefalite) con noduli microgliali diffusi.
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La polmonite da Toxoplasma assume indifferentemente i caratteri di polmonite interstiziale (più frequentemente), di polmonite necrotizzante o di addensamento parenchimale. Nel neonato il danno cerebrale comprende la vasculite periventricolare e la formazione di aree necroticoemorragiche che tendono tipicamente a calcificare. L’idrocefalo si può produrre in seguito ad alterata circolazione liquorale. La corioretinite è caratterizzata da necrosi ed importante infiammazione nelle strutture colpite; vi può essere essudazione intravitreale; nei pazienti affetti da AIDS il quadro tende ad essere più grave (pan-oftalmite) e non sono rare le lesioni multiple e bilaterali. La miosite e la miocardite da T. gondii non sono di raro riscontro autoptico in pazienti con AIDS, ma sono di solito clinicamente inapparenti. Infine, una varietà di altri organi (fegato, pancreas, prostata, ghiandole surrenaliche, reni, midollo osseo) può risultare colpita da toxoplasmosi anche se l’incidenza di queste localizzazioni è piuttosto bassa. D. Clinica. Saranno trattate separatamente le forme cliniche principali della malattia, cioè la toxoplasmosi nel soggetto immunocompetente, la toxoplasmosi nel paziente immunocompromesso, la toxoplasmosi oculare e la toxoplasmosi congenita. 1. Toxoplasmosi acuta nel paziente imunocompetente. Nell’80-90% dei casi l’infezione da T. gondii nell’adulto è asintomatica; nei casi sintomatici il quadro clinico è quasi sempre quello di una linfoadenite acuta, che colpisce di regola i linfonodi latero-cervicali, anche se tutte le stazioni linfonodali superficiali possono essere variamente interessate: i linfonodi affetti sono discretamente ingranditi, dolenti alla palpazione, di consistenza parenchimatosa e non danno luogo a suppurazione. Spesso si associano febbre, astenia e malessere, sudorazioni notturne; meno frequentemente mialgie, faringodinia, esantema maculo-papuloso, epatosplenomegalia: talvolta è presente un lieve grado di linfocitosi atipica (< del 10%). Le linfoadenopatie addominali profonde possono provocare dolore addominale. Nel paziente immunocompetente il quadro clinico è benigno e si risolve spontaneamente in qualche settimana, anche se le linfoadenopatie possono persistere per alcuni mesi o più. La diagnosi differenziale comprende i linfomi, la sarcoidosi, le neoplasie metastatiche ai linfonodi e le linfoadenopatie infettive acute e croniche, come l’infezione acuta da CMV e da HIV, la mononucleosi infettiva, la malattia da graffio di gatto, la tularemia, la tubercolosi linfonodale, la sindrome linfoadenopatica in corso di infezione da HIV. 2. Toxoplasmosi nel soggetto immunodepresso. La neurotoxoplasmosi è la causa più frequente di lesioni cerebrali focali in pazienti affetti da AIDS. I sintomi d’esordio più frequenti sono i deficit motori (emiparesi) e la disartria, tuttavia si può verificare un’ampia varietà di manifestazioni cliniche in relazione alla localizzazione degli ascessi cerebrali; tra le più frequenti citiamo le alterazioni del comportamento e dello stato di co-
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scienza, i deficit dei nervi cranici (segno di lesioni al tronco encefalico), le emisindromi sensitive, i segni cerebellari (atassia), le crisi convulsive. L’esordio clinico è subacuto nella maggior parte di pazienti con graduale comparsa dei deficit neurologici ma può essere acuto (crisi comiziale ed emiparesi) nel 15-25% dei casi. Non rare le emorragie cerebrali. La TC cerebrale evidenzia nel 70-80% dei pazienti lesioni cerebrali ipodense, di solito multiple, spesso bilaterali, tipicamente localizzate nei nuclei della base, che presentano un caratteristico rinforzo perilesionale ad anello dopo iniezione del mezzo di contrasto. È comune l’edema perilesionale e i segni di ipertensione endocranica (dislocazione delle strutture mediane dell’encefalo); la TC cerebrale quasi sempre sottostima il numero degli ascessi, che possono essere meglio valutati mediante RM. In nessun caso il quadro neuroradiologico d’esordio, anche se altamente suggestivo, può essere considerato patognomonico di neurotoxoplasmosi; la diagnosi differenziale si pone soprattutto con il linfoma cerebrale primitivo che si manifesta con lesioni plurime almeno in un terzo dei casi. Il principale criterio di diagnosi differenziale in questi casi resta la risposta alla terapia, che risulta evidente dopo 3 settimane almeno nel 90% dei pazienti idoneamente curati. Il liquido cefalorachidiano evidenzia solo una modesta pleiocitosi ed iperproteinorrachia. Tutti i casi di neurotoxoplasmosi in AIDS sono fatali entro pochi giorni dall’esordio clinico se non trattati immediatamente; fortunatamente rara è l’encefalite diffusa da T. gondii, ad esordio acuto e decorso clinico di regola fulminante. La polmonite da Toxoplasma si manifesta di solito con febbre persistente, tosse, dispnea ingravescente e viene spesso confusa con la polmonite da Pneumocystis carinii. La corioretinite da Toxoplasma è relativamente rara nei pazienti affetti da AIDS ed è associata a neurotoxoplasmosi nei due terzi circa dei casi; la diagnosi differenziale si pone essenzialmente con la corioretinite da cytomegalovirus. La toxoplasmosi si può riattivare, benché meno frequentemente, anche in pazienti immunodepressi in seguito a trapianto d’organo oppure a causa di neoplasie (linfoma di Hodgkin o altri linfomi); in questi pazienti appare relativamente frequente l’interessamento del miocardio, che sfiora il 40% dei casi in alcune casistiche e si può manifestare in pazienti trapiantati di cuore, sieronegativi per anticorpi anti-Toxoplasma, se il donatore era sieropositivo. 3. Toxoplasmosi oculare nel paziente immunocompetente. L’infezione da Toxoplasma è un’importante causa di corioretinite in Europa e negli USA e la grande maggioranza dei casi si sviluppa quale complicanza tardiva di un’infezione congenita. L’infezione si manifesta più frequentemente nel 2° e nel 3° decennio di vita ed è rara dopo i 40 anni. La lesione caratteristica è un focolaio monolaterale di retinite necrotizzante, che appare inizialmente come una rilevatezza della retina di aspetto cotonoso, a margini poco distinti, più spesso situata al polo posteriore della retina. Il vitreo e l’umor acqueo
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restano di solito limpidi. In seguito a guarigione, la lesione atrofizza ed esita in una macchia pigmentata. I sintomi iniziali della retinite sono visione offuscata, dolore oculare, scotomi e fotofobia; il quadro clinico migliora dopo qualche giorno, con recupero della visione, che tuttavia non di rado è incompleto. La corioretinite da T. gondii tende a recidivare anche dopo la terapia (13-30% dei pazienti secondo alcuni studi), la diagnosi differenziale comprende l’uveite posteriore in corso di tubercolosi, sifilide, lebbra ed istoplasmosi. 4. Toxoplasmosi congenita. L’infezione congenita da Toxoplasma è la conseguenza dell’infezione acuta, di solito asintomatica, contratta dalla donna durante la gravidanza; il decorso dell’infezione materna (asintomatica oppure no) non sembra influenzare la probabilità di trasmettere l’infezione al feto. Numerosi studi epidemiologici suggeriscono oggi che la probabilità di trasmettere l’infezione è correlata al trimestre di gravidanza, passando dal 10-25% dei casi nel 1° trimestre al 30-45% nel 2° trimestre fino al 60-65% dei casi nel 3° trimestre. Per contro, l’infezione fetale è tanto più grave quanto prima si verifica, determinando aborto o toxoplasmosi congenita grave nel 1° trimestre, mentre i neonati saranno per lo più asintomatici se infettati nel 2° trimestre (circa il 75% di essi) e ancor più nel 3° trimestre, quando più del 90% dei neonati risulta privo di segni apparenti di toxoplasmosi congenita. È importante sottolineare che la terapia specifica nella madre riduce il rischio di trasmissione al feto di circa il 60%. Il quadro clinico della toxoplasmosi congenita è decisamente proteiforme; i segni più comuni includono la corioretinite, la cecità, l’anemia e la piastrinopenia, l’esantema, l’ittero, la polmonite e una serie di importanti segni neurologici, tra cui strabismo, microcefalia, calcificazioni intracraniche, epilessia, ritardo psicomotorio, encefalite e idrocefalo. In alcune importanti casistiche pubblicate la toxoplasmosi congenita risultò asintomatica nella metà dei casi, moderata in un terzo circa, severa nel 12% dei casi e fatale nell’1% circa dei neonati infetti. L’infezione curata può guarire senza dare reliquati, oppure vi possono essere delle sequele, specie neurologiche, che si rendono manifeste anche dopo parecchi mesi. Come accennato, la toxoplasmosi congenita può essere clinicamente manifesta già nel neonato oppure si può rendere evidente nei mesi successivi; nel primo caso (toxoplasmosi neonatale), le sequele neurologiche sono particolarmente frequenti e severe (calcificazioni intracraniche, epilessia e idrocefalo, cecità, ritardo psicomotorio). Se l’infezione si manifesta più tardivamente il quadro clinico può essere severo ma anche di modesta gravità; in questi piccoli pazienti si ha spesso epatosplenomegalia e linfoadenopatia diffusa mentre le complicanze neurologiche e la corioretinite possono manifestarsi dopo mesi o anche anni, tanto da risultare spesso inattese: di qui l’importanza dello studio completo e protratto nel tempo dei neonati e dei lattanti affetti da toxoplasmosi congenita. La trasmissione materno-fetale si verifica anche in donne HIV positive, sia in seguito ad infezione acuta che a riattivazione di un’infezione latente pregressa; in queste pazienti la trasmis-
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sione della toxoplasmosi avviene in misura più grave e più frequente: la maggior parte dei neonati risulta anche infettato con HIV, donde l’ipotesi, per ora non ancora dimostrata definitivamente, di un ruolo reciprocamente favorente la trasmissione verticale dei due microrganismi. La toxoplasmosi congenita deve essere differenziata dalle altre infezioni del complesso TORCH, dalla listeriosi, dalla sifilide, dall’eritroblastosi fetale. Infine, Toxoplasma gondii è stato isolato da materiale abortivo di donne con infezione cronica, ma l’importanza della toxoplasmosi come causa di aborto è tuttora sconosciuta e controversa. E. Diagnosi. Ognuna delle principali forme cliniche della toxoplasmosi richiede un approccio diagnostico proprio; il medico dispone oggi di un articolato complesso di indagini diagnostiche specifiche, tese sostanzialmente a identificare nel campione biologico il parassita, alcuni suoi costituenti oppure la risposta anticorpale specifica dell’organismo. Tale pletora di indagini disponibili unitamente al carattere proteiforme della malattia può rendere confuso l’iter diagnostico; è quindi opportuno che sia il clinico che il microbiologo si familiarizzino con i test di più frequente impiego, riservando ad ambienti specialistici i casi dubbi. Quella che segue è una breve rassegna delle indagini disponibili e degli algoritmi diagnostici più frequentemente impiegati per la diagnosi delle diverse forme cliniche dell’infezione. 1. Diagnosi diretta di infezione da Toxoplasma gondii. Per diagnosi diretta si intende l’identificazione del parassita o di suoi costituenti. • L’isolamento di T. gondii è effettuabile inoculando materiale biologico (sangue, leucociti, tessuti omogeneizzati) nel peritoneo della cavia ed osservando il liquido ascitico dopo 6-10 giorni o prima se l’animale muore; nei casi positivi è facile osservare i tachizoiti. Nei casi dubbi si può ricercare la sieroconversione nella cavia. L’isolamento di T. gondii da sangue o altri materiali biologici è diagnostico di toxoplasmosi acuta, ivi compresa la toxoplasmosi congenita. La metodica risulta indirettamente complessa (mantenimento dello stabulario) e viene effettuata in pochi centri di riferimento. • La dimostrazione dei tachizoiti in campioni biologici (strisci da liquor, da broncolavaggio o da liquido amniotico) o in sezioni istologiche è diagnostica di toxoplasmosi acuta. Alle colorazioni tradizionali, già descritte, si sono aggiunte in anni recenti le tecniche di immunoistochimica basate sull’uso di antisieri specifici e di svariati sistemi di lettura, più spesso immunoenzimatici e in immunofluorescenza; queste metodiche sono abbastanza semplici, sono tuttavia gravate da scarsa sensibilità, ancor più se il parassita viene ricercato nei fluidi biologici (liquor, amnios). • L’amplificazione genica (PCR) presenta buone caratteristiche di sensibilità e specificità; il significato clinico e il valore predittivo diagnostico della PCR per il DNA di T. gondii sono stati studiati su sangue, li-
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quor, liquido amniotico, broncolavaggio, tessuto cerebrale, umor acqueo: l’applicazione più promettente sembra sicuramente quella su liquido amniotico per la diagnosi di toxoplasmosi congenita e forse su umor acqueo per la diagnosi di corioretinite. Inoltre, la PCR per T. gondii è positiva nel liquor del 40% circa dei pazienti con AIDS affetti da neurotoxoplasmosi. L’inconveniente principale della PCR applicata alla diagnosi di toxoplasmosi è che la metodica non è ancora stata idoneamente standardizzata e che pertanto l’efficacia diagnostica della stessa dipende in buona misura dalla perizia e dall’esperienza del singolo laboratorio. 2. Diagnosi indiretta di infezione da Toxoplasma gondii. Per diagnosi indiretta si intende la ricerca di anticorpi specifici, che può essere effettuata, oltre che nel siero, nel liquor e, raramente, nell’umor acqueo. • Il test di Sabin-Feldman (Dye test) è il test sierologico di riferimento verso il quale vengono confrontate le altre metodiche; il test è disponibile presso pochi laboratori di riferimento, dato che richiede l’uso di tachizoiti vivi. Si tratta di un test di neutralizzazione, sensibile e specifico, nel quale i tachizoiti vengono lisati in presenza di anticorpi e complemento. Misura essenzialmente le IgG specifiche che compaiono nel siero 1-2 settimane dopo il contagio, raggiungono la massima concentrazione in 6-8 settimane e declinano in 1-2 anni, potendo tuttavia persistere per tutta la vita. • L’immunofluorescenza indiretta ottiene una cinetica anticorpale sovrapponibile a quella del Dye test; la metodica è più facile da eseguire e non presenta rischi biologici per gli operatori: presenta per contro una sensibilità leggermente inferiore e può fornire risultati falsamente positivi se il siero contiene anticorpi antinucleo. La metodica consente altresì la ricerca delle IgM specifiche (test IFA-IgM), che compaiono nel siero poco prima delle corrispondenti IgG per scomparire di solito, ma non sempre, dopo qualche mese. Anche in questo caso gli anticorpi antinucleo e il fattore reumatoide possono causare falsi positivi. • L’ agglutinazione diretta utilizza trofozoiti conservati in formalina come fonte di antigeni; il metodo è semplice, accurato, poco costoso e viene utilizzato soprattutto per lo screening di donne gravide. Il limite del test è di consentire la ricerca solo delle IgG specifiche, poiché la ricerca delle IgM provoca una percentuale eccessiva di false positività. • Le analisi immunoenzimatiche (ELISA) sono tra le più utilizzate per la diagnosi di toxoplasmosi nella maggior parte dei laboratori. Le IgM vengono ricercate con tecnica “double sandwich” (DS-IgM-ELISA) che identifica una cinetica simile all’IFA-IgM, con una sensibilità sicuramente superiore e meno falsi positivi da interferenza. Il test per la ricerca delle IgA in ELISA presenta una sensibilità superiore al test IgM per la diagnosi di toxoplasmosi congenita e la sua esecuzione sembra elettiva per la diagnosi di tale forma clinica; secondo alcuni studi il test IgA-ELISA pre-
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senta elevata sensibilità (superiore all’85%) anche nei casi di corioretinite mentre la metodica non è stata tuttora adeguatamente studiata nella neurotoxoplasmosi. Esiste anche un test ELISA per la ricerca di IgE antiToxoplasma, che non sembra però offrire vantaggi di sorta sul test per la ricerca delle IgM del parassita. Altre analisi sierologiche, poco usate o cadute in disuso, sono l’emoagglutinazione indiretta e la fissazione del complemento e l’immunoblotting. 3. Diagnosi delle principali forme cliniche di toxoplasmosi. • La toxoplasmosi linfonodale acuta nel paziente immunocompetente è facilmente sospettabile già sulla scorta del quadro clinico; la diagnosi va confermata ricercando le IgM e le IgG specifiche; la negatività di entrambi i test in due sieri successivi esclude la diagnosi di toxoplasmosi. La positività per IgM in presenza di un quadro clinico compatibile conferma praticamente la diagnosi ma andrebbe confermata in almeno un campione ottenuto dopo circa 3 settimane, dato che le IgM possono persistere nel siero anche per un anno. La toxoplasmosi acuta è altresì confermata in caso di documentata sieroconversione per IgG o IgM specifiche; in questi casi l’esecuzione di analisi successive ha valore per lo più epidemiologico. Infine, nei pazienti sottoposti a biopsia linfonodale il quadro istopatologico è piuttosto caratteristico, secondo quanto già descritto, anche se è di solito difficile identificare i tachizoiti nelle sezioni istologiche linfonodali. • Per una sospetta toxoplasmosi in un paziente immunodepresso occorre in prima istanza ricercare le IgG specifiche; i pazienti positivi sono a rischio di riattivazione, nei pazienti sieronegativi con sospetta malattia occorrerà ricercare la sieroconversione. La diagnosi di neurotoxoplasmosi in AIDS si basa sui criteri di sospetto forniti dalle immagini neuroradiologiche; la diagnosi microbiologica, possibile l’esecuzione della PCR su liquor o dopo esecuzione di biopsia cerebrale, è complessa, relativamente poco efficace e non priva di rischi. • La corioretinite da Toxoplasma può essere diagnosticata in presenza di una sierologia positiva e di un quadro clinico compatibile; poiché la malattia sembra essere una complicanza tardiva della toxoplasmosi congenita, le IgM specifiche in questi pazienti sono di regola negative, mentre anche alcuni Autori ritengono utile la ricerca delle IgA anti-T. gondii. La presenza di anticorpi specifici nell’umor acqueo indica produzione locale e suggerisce fortemente la diagnosi di corioretinite da Toxoplasma; infine, la PCR per il DNA del parassita nell’umor acqueo ha dato risultati convincenti in piccole serie cliniche di pazienti con AIDS e sospetta corioretinite da T. gondii. • La diagnosi di toxoplasmosi congenita richiede la dimostrazione di IgM o IgA specifiche nel sangue fetale (diagnosi prenatale) o nel neonato; le IgG non hanno valore diagnostico essendo trasmesse passivamente dalla madre. Il test DS-IgM-ELISA consente
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la diagnosi di toxoplasmosi congenita nel 75% circa dei neonati; il test può risultare negativo alla nascita in una percentuale, non trascurabile, di neonati, infettatisi probabilmente nelle ultime fasi di vita fetale: in questi casi la sieroconversione avviene comunque sempre entro qualche settimana. La ricerca delle IgA specifiche presenta forse una sensibilità ancora superiore a quella delle IgM, specie nel neonato, ma tale test è tuttora effettuato in una minoranza di ospedali. • Lo screening anti-Toxoplasma nella donna gravida si basa sulla ricerca di IgG e di IgM specifiche. La negatività per entrambi gli isotipi esclude la diagnosi ed identifica la donna come soggetto a rischio di infezione nel prosieguo della gestazione. La positività per le sole IgG è indicativa di infezione cronica e di minimo rischio di infezione congenita. La positività per le IgM pone il sospetto di infezione acuta in atto; poiché questi anticorpi restano in circolo per alcuni mesi dopo il contagio, nei casi dubbi è talvolta richiesta l’esecuzione di analisi aggiuntive, tra cui la funicolocentesi per la ricerca di IgM o IgA nel sangue fetale (metodica gravata da rischio di danno fetale grave) oppure l’esecuzione di PCR su liquido amniotico. Il test sembra avere una buona efficacia diagnostica ma è tuttora poco diffuso per le ragioni precedentemente esposte. F. Terapia e profilassi. La toxoplasmosi linfoghiandolare acuta non va di regola trattata, salvo nei rari casi complicati da interessamento viscerale. La neurotoxoplasmosi in AIDS se precocemente e correttamente trattata migliora quasi costantemente dopo terapia, tanto che la mancata risposta, almeno parziale, alla terapia ne inficia la diagnosi. La terapia di prima scelta comprende la pirimetamina da associare a un sulfamidico; la terapia è gravata da un’elevata incidenza di effetti collaterali non di rado gravi (pancitopenia e in particolar modo piastrinopenia severa da pirimetamina, danno renale con cristalluria e litiasi e soprattutto gravi reazioni allergiche da sulfamidico). Per tali ragioni il sulfamidico più frequentemente associato alla pirimetamina è la sulfadiazina, caratterizzata da emivita relativamente breve (circa 6 ore), tale da consentire una rapida discesa dei livelli plasmatici del farmaco in caso di allergia o tossicità. In casi particolari (pazienti incoscienti) si possono utilizzare associazioni iniettabili di pirimetamina e sulfamidici a lunga emivita (sulfametopiridazina). In tutti i pazienti la funzione midollare andrà supportata con acido folinico, che non viene incorporato dal parassita. La terapia della neurotoxoplasmosi è lunga (da 3 a 6 settimane e oltre) e circa il 40% dei pazienti deve modificare la terapia o ridurre i dosaggi per l’insorgenza di effetti collaterali. La terapia di seconda scelta consiste nell’associazione di pirimetamina e clindamicina ad elevato dosaggio; ciò comporta alto rischio di colite pseudomembranosa. Il cotrimossazolo sembra di una qualche efficacia nel trattamento della neurotoxoplasmosi in AIDS; il vantaggio del farmaco sta nell’incidenza di effetti collaterali relativamente bassa rispetto alle terapie succitate. L’idrossinaftochinone (atovaquone) possiede un certo grado di attività cisticida e potrebbe pertanto ridurre l’incidenza
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delle recidive; il farmaco è abbastanza ben tollerato ma è gravato da una biodisponibilità erratica e da un costo elevato. Nei casi in cui si renda necessaria la profilassi primaria e secondaria della neurotoxoplasmosi viene effettuata con gli stessi farmaci, a dosaggio ridotto; in anni recenti il farmaco più utilizzato è il cotrimossazolo, anche se non vi è a tutt’oggi la dimostrazione della superiorità di questo farmaco sull’associazione pirimetamina-sulfamidico. Resta l’importanza, fondamentale, della correzione del danno immunologico mediante la terapia antiretrovirale, capace da sola di ridurre ai minimi termini l’incidenza della neurotoxoplasmosi nei pazienti con infezione da HIV. La corioretinite da Toxoplasma si cura con pirimetamina e sulfadiazina per circa 4 settimane; l’associazione di corticosteroidi è indicata se la lesione coinvolge la macula o il nervo ottico. La terapia della toxoplasmosi in gravidanza riduce sensibilmente il rischio di infezione congenita; il farmaco di prima scelta è la spiramicina, caratterizzata dal fatto di non passare la placenta (assenza di tossicità fetale); per lo stesso motivo, tuttavia, i casi di infezione fetale documentata (esito della funicolocentesi) andrebbero curati secondo alcuni Autori con la terapia di prima scelta; in nessun caso la pirimetamina andrebbe comunque somministrata prima della 16a settimana di gestazione, per il rischio di teratogenicità. La terapia dell’infezione congenita con i farmaci di prima scelta (pirimetamina e sulfadiazina associati ad acido folinico) consente miglioramenti clinici nella maggior parte dei neonati infetti; la terapia andrebbe protratta per circa un anno, monitorando frequentemente gli effetti collaterali e l’evoluzione clinica del neonato. Altri farmaci vengono talvolta usati o sono attualmente studiati per la terapia e/o la profilassi della toxoplasmosi; tra questi citiamo il dapsone (usato soprattutto in profilassi), i macrolidi, le tetracicline e un potente antifolico, analogo del metotrexate, il trimetrexate. Infine, la profilassi dell’infezione nella donna gravida e sieronegativa si basa sull’attenzione all’alimentazione, evitando sempre le carni crude o poco cotte, i salumi crudi, le uova crude e i contatti diretti con i gatti, possibilmente deputando ad altri l’igiene delle lettiere e lo smaltimento degli escrementi del gatto.
B. Epidemiologia. La brucellosi è un’infezione ubiquitaria, più diffusa nel bacino del Mediterraneo, nella penisola arabica, nel subcontinente indiano e nell’America centro-meridionale. La trasmissione interumana dell’infezione non è nota, pertanto tutti i casi umani di brucellosi sono da ritenersi di origine animale. Il serbatoio animale sicuramente implicato nella trasmissione della zoonosi è piuttosto ampio: il biotipo B. abortus infetta i bovini, ma anche bufali, cammelli e yak. B. melitensis infetta le capre e gli ovini ed è la specie più spesso implicata nei casi di brucellosi del Mediterraneo, inclusa l’Italia. B. suis infetta i suini ed è associata a casi di brucellosi nei mattatoi. Infine, B. canis infetta i cani ed è la causa meno frequente di brucellosi umana. Nell’animale la brucellosi è un’infezione cronica che può persistere per tutta la vita; le conseguenze più comuni per l’animale infetto sono la sterilità e l’aborto, dovute all’infezione degli apparati riproduttivi di entrambi i sessi. L’animale affetto da brucellosi elimina elevate quantità di germi con le urine, con il materiale abortivo e, soprattutto, con il latte. L’uomo si infetta tramite il contatto diretto con carcasse di animali infetti o tramite l’ingestione di latte o latticini contaminati o non pastorizzati. La prima eventualità costituisce un rischio professionale per gli addetti alla lavorazione animale, in particolar modo la macellazione, per gli allevatori e per i pastori; l’ingestione di latte e latticini contaminati allarga il rischio di brucellosi ad ampie fasce di popolazione, specialmente laddove i controlli veterinari ed igienici in senso lato sul bestiame sono meno efficaci (aree rurali). La Brucella ha scarsa resistenza al riscaldamento, pertanto l’infezione è raramente trasmessa tramite l’ingestione di carni contaminate cotte. Nel bacino del Mediterraneo, inclusa l’Italia, la causa più frequente di trasmissione della malattia è sicuramente legata al consumo di latte e latticini freschi contaminati, per esempio ricotta di capra o di pecora; la malattia è tuttora endemica in Italia ed è più frequente nelle regioni meridionali ove è più diffuso l’allevamento di ovini e caprini; un recente studio epidemiologico ha dimostrato una sieroprevalenza in Campania e in Calabria del 3 e del 4% circa, rispettivamente. Per contro l’incidenza nelle aree ad alto controllo igienico-veterinario (Nord America) è in costante diminuzione.
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C. Patogenesi. In relazione alle diverse vie di trasmissione il bacillo penetra nell’organismo attraverso la cute abrasa o la congiuntiva (contatto diretto con animali infetti), le vie aeree superiori (lavoratori dei mattatoi) e le mucose dell’apparato digerente (ingestione di alimenti contaminati). L’evoluzione dell’infezione dopo la penetrazione delle brucelle nell’organismo è simile a quella osservata nella febbre tifoide: i bacilli colonizzano i linfonodi regionali e da qui disseminano attraverso una fase ematogena a tutti gli elementi del cosiddetto sistema reticolo-endoteliale (milza, linfonodi, midollo osseo, fegato). Le brucelle possono essere opsonizzate nel siero e fagocitate dai leucociti polimorfonucleati; sono peraltro anche patogeni intracellulari facoltativi ed hanno la capacità di sopravvivere al killing intracellulare dei neutrofili e dei
La brucellosi è una malattia degli animali selvatici e domestici, trasmissibile all’uomo (zoonosi); la caratteristica saliente dell’infezione è la grande varietà e la aspecificità dei quadri clinici possibili. A. Eziologia. Le brucelle sono dei piccoli coccobacilli Gram–, aerobi, mobili e asporigeni. Al genere Brucella appartengono diverse specie: B. melitensis, B. abortus, B. suis, B. canis. Il principale antigene noto del germe è il lipopolisaccaride ad attività endotossica, affine per struttura alle endotossine di altri germi Gram–, da cui le non rare false positività sierologiche da crossreazione.
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macrofagi tissutali, all’interno dei quali si moltiplicano. I meccanismi responsabili di questo fenomeno sono nel complesso poco noti; una delle teorie più recenti attribuisce alla Brucella la capacità di sintetizzare un enzima, superossido-dismutasi, in grado di proteggere il germe dalla lisi ossidativa intracellulare. La patogenicità del germe è comunque legata al lipopolisaccaride di membrana (LPS) e i ceppi deficitari per LPS hanno in vitro virulenza e patogenicità molto ridotte. La risposta umorale alla brucellosi è caratterizzata da un’iniziale sintesi di IgM specifiche seguita, dopo 6-14 giorni, dallo “switch” verso le IgG; queste ultime si negativizzano di regola nell’arco di qualche mese durante la convalescenza. In linea di massima un titolo di IgG anti-Brucella positivo a lungo indica infezione persistente o recidiva. La guarigione della malattia è dovuta allo sviluppo di una forte immunità cellulo-mediata specifica, con reclutamento di linfociti T specificamente attivati che sintetizzano linfochine, a loro volta implicate nell’attivazione dei meccanismi battericidi dei macrofagi. Lo sviluppo di ipersensibilità ritardata specifica favorisce la formazione di granulomi, importanti per limitare la diffusione dell’infezione, e conferisce, insieme all’immunità umorale specifica, un certo grado di protezione contro le reinfezioni. D. Clinica. Il periodo di incubazione varia da 2 a 8 settimane dal contagio; l’infezione è sistemica e può coinvolgere numerosi apparati. L’esordio clinico può essere insidioso (nella metà circa dei casi) oppure brusco; i sintomi all’esordio sono poco specifici, è costante la febbre, spesso elevata, e i sintomi costituzionali (anoressia, malessere, cefalea, dolori diffusi al rachide). La febbre diventa di tipo ricorrente od ondulante nei casi cronici non trattati; la sudorazione maleodorante è un reperto piuttosto specifico benché incostante. È singolarmente frequente il riscontro di una sindrome depressiva di accompagnamento, tipicamente sproporzionata rispetto alla severità del quadro clinico. Di fronte alla varietà dei sintomi riferiti contrasta la relativa pochezza dei segni obiettivi; si può avere linfoadenopatia superficiale diffusa, splenomegalia moderata ed epatomegalia in una percentuale di pazienti che oscilla dal 10 al 60% a seconda delle casistiche. I pazienti adeguatamente curati guariscono in qualche settimana o qualche mese al massimo; se le cure sono interrotte troppo presto la malattia tende invece a ripresentarsi in una percentuale non trascurabile dei casi. In alcuni pazienti i sintomi, di solito la febbre e sintomi costituzionali, persistono per 12 o più mesi; si può parlare in questi casi di brucellosi cronica. La brucellosi, come già accennato, è sostanzialmente una malattia sistemica, tuttavia le complicanze a carico di vari organi e apparati non sono rare. A carico dell’apparato digerente si può avere vomito, dolore addominale, diarrea o stipsi. L’iperemia della mucosa intestinale e l’iperplasia delle placche di Peyer sono frequenti. L’interessamento epatico è probabilmente frequente, anche se la funzionalità epatica è di solito conservata;
MALATTIE INFETTIVE
si può avere formazione di granulomi (diagnosi differenziale con la sarcoidosi) o di ascessi intraepatici. L’interessamento dello scheletro si ha nel 30% circa dei pazienti, sotto forma di artriti, spondiliti, osteomieliti. La forma più comune di brucellosi dello scheletro è comunque la sacroileite. Il liquido sinoviale nei casi di artrite è infiammatorio e le brucelle possono essere isolate nella metà circa dei casi. Le osteomieliti tendono a cronicizzare con rimaneggiamento e distruzione delle strutture ossee interessate. L’endocardite da Brucella è rara (2% dei casi) ma costituisce la causa più frequente di morte per brucellosi. L’interessamento polmonare è multiforme, potendo andare da un quadro di tracheobronchite non specifica a diverse forme di interessamento polmonare: polmonite alveolare, polmonite miliariforme, ascesso polmonare, formazione di noduli polmonari, pleurite essudativa. Infine, l’interessamento neurologico si può manifestare (nel 5% circa dei pazienti) con meningite a liquor limpido, encefalite, neuropatia periferica o poliradicolopatia, psicosi; sono stati riportati rari casi di formazione di ascessi cerebrali, epidurali e intramidollari. E. Diagnosi. Data l’aspecificità del quadro clinico, l’anamnesi epidemiologica riveste particolare importanza in un caso di sospetta brucellosi; si dovrà indagare i contatti con animali e il consumo di alimenti sospetti (formaggi freschi!). Le comuni indagini ematochimiche sono di scarso ausilio; è comune un modesto grado di pancitopenia, gli indici di flogosi sono elevati ma notoriamente non specifici. La diagnosi microbiologica si basa sull’isolamento del germe, di solito da sangue, eventualmente da sangue midollare o da altri prodotti biologici. La migliore sensibilità si ha con la mielocoltura, data la localizzazione intracellulare delle brucelle. I sistemi di isolamento rapido, come il metodo radiometrico o la tecnica di lisi-centrifugazione, sono preferibili, anche per la maggior sensibilità. Recentemente è stata sviluppata una metodica immunoenzimatica per la ricerca di antigene batterico (lipopolisaccaride) nel siero che sembra offrire una sensibilità identica a quella delle indagini colturali, con il vantaggio di tempi d’esecuzione assai inferiori. In tutti i casi di sospetta brucellosi le indagini sierologiche sono di ausilio; la ricerca degli anticorpi agglutinanti (IgG e IgM) è positiva nella grande maggioranza dei pazienti, con un titolo superiore a 1:160 (spesso molto più elevato) durante la malattia, in graduale diminuzione dopo la terapia. La ripresa o la mancata diminuzione del titolo degli anticorpi agglutinanti sono suggestive di recidiva di brucellosi o di trattamento inadeguato. Sono possibili le reazioni falsamente positive (per es., da cross-reazione in corso di colera, tularemia o yersiniosi) e (più raramente) falsamente negative. Gli anticorpi anti-Brucella di classe IgG e IgM possono anche essere ricercati con metodica immunoenzimatica, che offre forse una maggiore sensibilità rispetto alla ricerca delle agglutinine e permette di seguire distintamente la cinetica dei due isotipi di immunoglobuline. Infine, l’amplificazione genica per il DNA di Brucella potrebbe rivelarsi di una qualche utilità, spe-
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cie in circostanze cliniche particolari (coinvolgimento del sistema nervoso centrale), ma l’uso della metodica per la diagnosi di brucellosi non è ad oggi ancora stato definito con precisione. F. Terapia e profilassi. In era preantibiotica la brucellosi era una malattia cronica recidivante e debilitante, con una mortalità complessiva del 2% circa. Oggi la terapia antibiotica abbrevia il decorso clinico, riduce i sintomi e l’incidenza delle complicazioni. Numerosi schemi di antibioticoterapia sono stati proposti contro la brucellosi, e vi è tuttora un certo disaccordo circa la durata della terapia e le associazioni da impiegare in presenza di forme cliniche particolari; ciò anche per la relativa carenza di studi clinici controllati, data la scarsa incidenza della brucellosi (e lo scarso peso sociale ed economico della malattia) nei paesi a più alta produttività scientifica (USA). Quelli che seguono sono comunque gli schemi di terapia più diffusamente accettati. Nell’adulto e nel bambino di età superiore a 8 anni: doxiciclina per os per 6 settimane e gentamicina endovena per 14 giorni; in alternativa doxiciclina e rifampicina per os. Nel bambino di età inferiore agli 8 anni cotrimossazolo e gentamicina. Altri trattamenti proposti sono doxiciclina e streptomicina (considerata di prima scelta da numerosi Autori), doxiciclina e cotrimossazolo (associato a una percentuale più elevata di recidive); la durata della terapia non è ben stabilita, salvo dove indicato, e andrebbe regolata sulla risposta clinica, microbiologica e sierologica (discesa del titolo degli anticorpi neutralizzanti). La prevenzione della brucellosi si basa sul controllo dell’infezione animale tramite la sorveglianza sieroepidemiologica e l’eliminazione degli animali positivi. Inoltre, la vaccinazione del bestiame con un vaccino costituito dal ceppo B19 di B. abortus e la pastorizzazione del latte hanno consentito la riduzione di incidenza della brucellosi nelle aree in cui queste elementari misure vengono eseguite; resta tuttora il problema dei controlli igienico-sanitari nei paesi in via di sviluppo, in particolar modo della produzione e consumo ad uso familiare di latte e latticini da parte delle popolazioni rurali.
MALARIA (*) La malaria è un’infezione da protozoi del genere Plasmodium, trasmessa attraverso la puntura di un insetto vettore, la zanzara femmina del genere Anopheles, che punge l’uomo dal tramonto all’alba. Tra le patologie di importazione, rappresenta una delle poche vere urgenze, se non addirittura un’emergenza: di malaria si continua infatti a morire, anche nell’Occidente sviluppato.
(*) A. Castagna
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Da qui l’importanza di una diagnosi e di una presa in carico terapeutica che siano le più precoci possibili. Di fronte ad ogni episodio febbrile in persone che hanno soggiornato negli ultimi 3-4 mesi in un’area di endemia malarica, con o senza profilassi, la prima patologia da escludere è sempre e comunque la malaria. A. Epidemiologia. La malaria è endemica nella maggior parte delle aree intertropicali dei continenti africano, latino-americano ed asiatico. Sono stimate in 2 miliardi le persone esposte al rischio e in 100-200 milioni i nuovi casi/anno. Con una mortalità annuale stimata di 2-2,5 milioni di persone rappresenta la prima causa infettiva di morte al mondo: nelle regioni di malaria cosiddetta “stabile” (in cui, cioè, il rischio di infezione è presente tutto l’anno), per esempio la maggior parte dell’Africa subsahariana, la mortalità è più elevata tra i bambini al di sotto del 3° anno di età. In Europa occidentale sono dell’ordine di qualche migliaio i nuovi casi osservati ogni anno; nell’ultimo decennio essi sono sensibilmente in crescita a causa dell’aumento dei viaggi internazionali e dei fenomeni migratori. Nella quasi totalità dei casi si tratta di malaria di importazione (in cui, cioè, l’infezione è stata acquisita in area endemica); rari sono i casi di “airport malaria” (infezione autoctona avvenuta nelle vicinanze di aeroporti internazionali) ed ancor più rari quelli di “baggage malaria” (infezione autoctona avvenuta nelle vicinanze di scali marittimi di merci provenienti da aree endemiche). Il lieve ma costante incremento della temperatura della crosta terrestre, complice anche il cosiddetto “effetto serra”, fa avanzare ad alcuni l’ipotesi che la malaria possa in futuro ricomparire in Europa, e più probabilmente nel Sud Europa (Italia compresa), vista la persistenza di specie di Anopheles potenziali vettori. B. Eziologia. Quattro sono le specie di plasmodi che determinano malaria nell’uomo: Plasmodium vivax rappresenta la specie più diffusa al mondo, potendo trovarsi anche in zone temperate e ad altitudini maggiori degli altri plasmodi umani. Le forme più gravi e pericolose, in quanto potenzialmente letali, sono però determinate da P. falciparum. Più rare e solitamente benigne sono invece, in ordine di frequenza e di gravità, le forme da P. malariae e P. ovale. Rare (5-7% dei casi) sono le cosiddette “doppie infezioni”, più frequentemente dovute all’associazione di P. falciparum con un’altra delle tre specie. I plasmodi sono protozoi intracellulari appartenenti all’ordine dei Coccidiida e al subordine degli Hemosporiidea. Il loro ciclo biologico (Fig. 81.1) comprende una fase di riproduzione asessuata, o schizogonica, ed una sessuata, o sporogonica, e si realizza in due ospiti, l’uomo e la zanzara femmina del genere Anopheles: tra le specie dotate di maggiore efficacia nella trasmissione sono da ricordare quelle del complesso Anopheles gambiae e Anopheles funestus diffuse nell’Africa subsahariana. Al momento della puntura, dalle ghiandole salivari della Anopheles sono iniettati nell’uomo gli sporozoiti, la forma infettante; essi scompaiono rapidamente (circa 30 minuti) dal torrente
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MALATTIE INFETTIVE
Ciclo esoeritrocitario e stadi di latenza epatici
Penetrazione negli eritrociti
Invasione del sangue periferico
Ciclo eritrocitario schizogonico
TROFOZOITE IPNOZOITI Penetrazione negli epatociti
SCHIZONTE
Solo per P. vivax e per P. ovale
CRIPTOZOITI MEROZOITI
MACROGAMETOCITO
MICROGAMETOCITO
SPOROZOITI
Ingestione con il sangue al momento della puntura UOMO ZANZARA MACROGAMETE
MICROGAMETE
Inoculazione con la puntura
SPOROZOITI
ZIGOTE
Migrazione degli sporozoiti nelle ghiandole salivari
Gametogenesi Stomaco della zanzara
OOCISTI
OOCINETE
Segmentazione della oocisti e liberazione degli sporozoiti
Sporogonia Parete esterna dello stomaco della zanzara
Ciclo sporogonico
Figura 81.1 - Ciclo biologico dei plasmodi della malaria.
circolatorio e vanno a localizzarsi negli epatociti, dove si moltiplicano attivamente per via asessuata (fase esoeritrocitaria primaria o schizogonica tissutale) fino a formare delle cellule giganti plurinucleate, gli schizonti epatocitari, composti di numerosi merozoiti. Dopo un periodo variabile da pochi giorni (6-7 nel caso di P. falciparum) ad alcuni mesi (18-26 nel caso di P. vivax e P. ovale), i merozoiti vengono liberati nel sangue per rottura e distruzione degli epatociti infettati e vanno a parassitare gli eritrociti, nei quali avviene una seconda moltiplicazione asessuata (fase intraeritrocitaria o schizogonica eritrocitaria). Analogamente a quanto avviene a livello epatico, anche questa schizogonia porta alla formazione degli schizonti, da cui per lisi delle emazie infettate si liberano merozoiti che vanno a parassitare altri eritrociti. Dopo un primo periodo in cui a livello eritrocitario questi eventi si susseguono in maniera non sincrona, a poco a poco la schizogonia eritrocitaria assume un andamento sincronizzato nella maggior parte degli eritrociti infettati: da ciò deriva un ciclo eritrocitario che si ripete a distanza di 48 ore nel caso di P. falciparum, vivax e ovale e di 72 ore nel caso di P. malariae. Dopo alcuni cicli schizogonici, per
un motivo ancora ignoto, alcuni merozoiti, anziché proseguire nella riproduzione asessuata, virano verso quella sessuata, o sporogonia, dando origine ai gametociti, cellule sessuate a sessi separati (detti macrogametociti se di sesso femminile e microgametociti se di sesso maschile), che rappresentano le sole forme infettanti per la zanzara e permettono la prosecuzione in essa del ciclo maturativo dei plasmodi. La sporogonia può continuare solo se una zanzara del genere Anopheles, pungendo, succhia il sangue di un soggetto infetto che presenta gametociti in circolo: nello stomaco dell’insetto avviene l’exflagellazione del microgametocita, che dà origine a 8 gameti maschili, la trasformazione del macrogametocita in gamete femminile e la loro fusione nello zigote. Questo si trasforma in oocinete, dotato di motilità autonoma, che passa attraverso la parete gastrica e sulla sua superficie esterna diventa oocisti: da essa si libereranno gli sporozoiti, che migreranno nelle ghiandole salivari dell’insetto, da cui possono essere iniettati nell’uomo in occasione di una successiva puntura. Nel caso di P. vivax e ovale, alcuni parassiti (i cosiddetti ipnozoiti) possono permanere quiescenti negli
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epatociti per mesi ed anni e dare così origine alle vere e proprie recidive di malaria descritte per queste due specie fino a 3-4 anni di distanza dalla puntura infettante. La loro riattivazione, detta fase esoeritrocitaria secondaria, può avvenire in concomitanza di transitorie riduzioni della funzionalità del sistema immunitario, quali si possono realizzare in corso di stress (un viaggio aereo può essere sufficiente) o di gravidanza. Viene avanzata l’ipotesi che gli ipnozoiti possano costituire una forma di adattamento dei plasmodi per sopravvivere nelle zone temperate, dove gli insetti vettori non sono presenti lungo tutto il corso dell’anno. Più raramente la malaria può essere trasmessa attraverso emotrasfusioni o punture accidentali di sangue infetto o per via transplacentare. In questi casi non avviene l’inoculazione nell’organismo di sporozoiti, ma direttamente di successivi stadi di maturazione (asessuati o sessuati) del plasmodio, per cui anche nelle infezioni da P. vivax e ovale non si avrà formazione di ipnozoiti e non si potranno quindi presentare recidive. C. Patogenesi. Anche se i differenti stadi del ciclo biologico dei plasmodi sono conosciuti ormai da più di un secolo, solo recentemente si è giunti a preliminari scoperte delle basi molecolari delle interazioni tra il parassita e le diverse cellule umane in cui è ospitato nel corso del suo sviluppo. La proteina predominante sulla superficie dello sporozoita (CSP, Circum-sporozoite Protein), per esempio, è stata recentemente dimostrata come il ligando per il recettore posto sulla superficie dell’epatocita. Da tempo si è invece osservato che un antigene di superficie dell’eritrocita, noto come fattore Duffy e legato all’espressione del sistema AB0, sia necessario per l’ingresso di P. vivax nelle emazie: la sua assenza nella razza nera è portata a spiegazione della rarità dell’infezione causata da questa specie di plasmodi tra la popolazione di colore. Nella patogenesi delle differenti manifestazioni cliniche che può assumere la malaria, gli studi recenti stanno rivelando un ruolo via via crescente della risposta immunitaria dell’ospite, in particolare del “network delle citochine”. 1. La fase acuta dell’infezione (detta “accesso malarico”), per esempio, è un evento brutale e sincrono dovuto all’emolisi massiva tanto degli eritrociti parassitati che non parassitati: in tale meccanismo, ed ancora di più nella concomitante distruzione delle piastrine (la piastrinopenia rappresenta uno dei segni di laboratorio più precoci dell’accesso malarico), un ruolo centrale spetta al sequestro ed alla distruzione immuno-mediati che si realizzano a livello splenico. Anche la tipica febbre malarica sembra dovuta alla fagocitosi dei prodotti di degradazione dell’emoglobina (il cosiddetto pigmento malarico o emozoina), liberati in circolo dall’emolisi degli eritrociti, da parte delle cellule del sistema reticolo-endoteliale (SRE) e dalla conseguente liberazione da parte di queste ultime di citochine infiammatorie che fungono in questa situazione da potente pirogeno endogeno.
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2. Analogamente, nella patogenesi della malaria severa e complicata da P. falciparum, accanto all’ipotesi di più vecchia data secondo cui le osservate alterazioni del microcircolo cerebrale e degli organi profondi (reni, polmoni, intestino) sono dovute all’ipossia, all’ipoglicemia e all’acidosi conseguenti all’ostruzione determinata dalla formazione di microtrombi di eritrociti parassitati impilati, si è affermata negli ultimi anni l’ipotesi che il fenomeno della “citoaderenza” degli eritrociti all’endotelio del microcircolo abbia anche una base immunitaria. I principali meccanismi fisiopatologici che a tale livello si scatenano (la vasodilatazione e l’aumento della permeabilità vascolare) non sono solo legati all’ingombro fisico del torrente circolatorio da parte degli eritrociti deformati alla loro superficie a causa della presenza del plasmodio, ma sono anche mediati ed amplificati dall’aumentata produzione di citochine, quali IL-1, TNF- e TNF-. In particolare, l’aumentata liberazione di -Tumor Necrosis Factor (TNF-), scatenata da P. falciparum (l’unico tra i plasmodi umani che si dimostra essere un potente stimolatore di TNF), sembra avere un ruolo diretto nella patogenesi tanto dell’edema polmonare quanto dell’anemia e dell’ipoglicemia. 3. P. malariae può provocare una glomerulonefrite da deposizione di immunocomplessi antigene-anticorpocomplemento, probabilmente attraverso una stimolazione antigenica continua dovuta ai bassi livelli di parassitemia osservati in questa specie di plasmodi. Oltre all’immunità umorale e cellulo-mediata, altri fattori legati all’ospite sembrano essere importanti nel condizionare le manifestazioni cliniche conseguenti all’infezione da plasmodi: tra questi, l’età e la durata dell’esposizione alle punture infette, la presenza di particolari determinanti HLA e la funzionalità splenica. D. Clinica. L’incubazione ha una durata variabile solitamente tra i 10 e i 20 giorni. Il tempo che intercorre tra la puntura infettante e la comparsa della sintomatologia è più breve nell’infezione da P. falciparum (anche 6-7 giorni) e può raggiungere i 18 mesi in caso di P. vivax e P. ovale. 1. Accesso malarico. È composto abitualmente da tre fasi: il “brivido”, caratterizzato da freddo intenso e brivido scuotente per 3-4 ore; il “calore secco” con febbre intensa e cefalea per altre 3-4 ore; la “sudorazione profusa” in cui si ha una rapida defervescenza in altre 3-4 ore. L’accesso malarico si presenta solitamente con una certa periodicità, legata alla durata del ciclo eritrocitario ed alla successiva lisi degli eritrociti: ogni 48 ore nell’infezione da P. falciparum, vivax e ovale; ogni 72 ore nell’infezione da P. malariae. Tuttavia, la malaria da P. falciparum può esordire con un periodo di febbre continua ad andamento irregolare, prima che si stabilisca la sincronizzazione dell’accesso ogni 48 ore. Come in precedenza accennato, solo le forme da P. vivax e P. ovale possono provocare delle vere e proprie “recidive”, a distanza anche di 3-4 anni, causate dalla riattivazione degli ipnozoiti intraepatocitari. Pur in as-
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senza di ipnozoiti, sono state descritte “recrudescenze” di P. malariae a distanza di 20-30 anni dall’infezione (come nel caso di soldati italiani che hanno contratto malaria nei Balcani nel corso della seconda guerra mondiale ed hanno avuto recrudescenze a distanza di decenni). Il meccanismo che ne è responsabile è finora sconosciuto: alcuni ipotizzano che possano essere dovute al persistere di basse parassitemie subcliniche legate alla più lenta replicazione di questa specie di plasmodi. Frequentemente accompagnano la febbre altri sintomi e segni: cefalea, artromialgie, nausea e vomito, diarrea, subittero, ittero, splenomegalia e/o epatomegalia spesso dolenti. 2. Forme cliniche particolari. • Nei casi di infezione da P. falciparum possono presentarsi quadri particolari, quali la malaria severa e complicata, la malaria “coleriforme” (con predominante sintomatologia gastroenterica), la malaria “algida” (caratterizzata da importante ipotermia) o con iperpiressia fatale, la febbre emoglobinurica meglio conosciuta come “black water fever”. – La malaria severa e complicata (un tempo detta “malaria perniciosa” o “terzana maligna”) è causata dal solo P. falciparum ed è la forma di malaria più grave, talvolta letale. È definita dalla presenza di almeno una delle seguenti caratteristiche: coma, anemia severa (emoglobina < 5 g/dl), insufficienza renale acuta, edema polmonare acuto, ipoglicemia (< 40 q/dl), shock (pressione arteriosa sistolica < 50 mmHg), sanguinamento e/o coagulazione intravascolare disseminata (DIC), convulsioni generalizzate, acidemia/acidosi. Permettono di porre solo il sospetto di malaria severa e complicata: le alterazioni dello stato di coscienza, l’ittero, l’estrema astenia, una parassitemia > 5% degli eritrociti. Tra le presentazioni cliniche più frequenti della malaria severa e complicata c’è anche la cosiddetta “malaria cerebrale” caratterizzata da perdita di coscienza fino al coma, accompagnato o meno da convulsioni, che può evolvere fino a quadri di decerebrazione. Frequenti sono le sovrainfezioni, specialmente a livello polmonare, favorite dalla ARDS. Nel solo sospetto di malaria severa e complicata, il paziente è perciò da riferire il più rapidamente possibile ad un’Unità di Terapia Intensiva che possa godere, se possibile, del supporto di una divisione di malattie infettive. – La febbre emoglobinurica, o “black water fever”, è una complicanza ormai rara dell’infezione da P. falciparum, legata per lo più in passato a dosi eccessive di chinino assunto in autotrattamento; recentemente ne sono stati descritti alcuni casi in corso di terapia con meflochina. Si presenta solitamente con un’importante anemia emolitica, ittero, ipotensione e insufficienza renale acuta, che può giungere fino all’anuria caratterizzata dal co-
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lore molto scuro delle ultime urine emesse (donde il nome di “black water fever”). • Nelle infezioni da P. malariae può presentarsi una forma con danno renale, determinata, come sopra riportato, da una glomerulonefrite da deposizione di immunocomplessi circolanti: più frequente nei bambini, si caratterizza clinicamente per accumuli localizzati di liquidi (edemi declivi e/o al volto), che possono evolvere fino ad uno stato anasarcatico. E. Esami di laboratorio. L’accesso malarico è spesso caratterizzato da: piastrinopenia (segno molto precoce, solitamente precedente all’anemia), anemia emolitica, iperbilirubinemia e alterazione degli indici di funzionalità epatica (aumento degli indici di necrosi e più raramente di stasi epatica), innalzamento degli indici di emolisi (lattico-deidrogenasi e aptoglobina), VES elevata. Nei differenti quadri di malaria severa e complicata da P. falciparum possono presentarsi un’importante anemia, un aumento della creatininemia, una severa ipoglicemia, acidosi ed acidemia, alterazioni della coagulazione (diminuzione del fibrinogeno, aumento dei prodotti di degradazione della fibrina). Nelle infezioni da P. malariae con danno renale è frequente la proteinuria oltre ad un aumento della creatininemia. F. Diagnosi. Tradizionalmente l’accertamento diagnostico viene realizzato attraverso la “emoscopia”, vale a dire la ricerca diretta del plasmodio nel sangue periferico (prelievo da capillare o venoso) con le metodiche della “goccia spessa” e dello “striscio sottile”, colorati rispettivamente con il solo Giemsa (la goccia spessa non è fissata, pena l’impossibilità di ottenere da essa alcun genere di informazione all’osservazione al microscopio) e con May-Grumwald-Giemsa o metanolo-Giemsa. La prima tecnica si rivela più sensibile ma meno specifica della seconda, la quale, viceversa, permette più facilmente di porre diagnosi di specie (in quanto in essa sono preservati gli eritrociti persi nella goccia spessa ed i parassiti stessi presentano una morfologia meglio conservata), ma può dare falsi negativi in caso di basse parassitemie. Dal punto di vista clinico, la prima distinzione diagnostica da operare è tra P. falciparum (responsabile dei casi più gravi e in molte aree clorochino-resistente o addirittura polichemioresistente) e gli altri plasmodi; tra questi ultimi, la seconda distinzione utile a fini terapeutici è tra P. vivax e P. ovale da un lato (non sempre facilmente distinguibili in emoscopia, ma entrambi caratterizzati dalla persistenza di ipnozoiti intraepatici e quindi dalla possibilità di recidive a distanza) e P. malariae dall’altro lato. Per la scelta terapeutica (terapia per os o endovenosa) e il “follow-up”, oltre alla diagnosi di specie è necessario conoscere e richiedere la determinazione della densità parassitaria, realizzabile tanto su goccia spessa che su striscio sottile. Recentemente sono state introdotte nuove metodiche, più rapide e in alcuni casi più sensibili delle tradizionali: i test rapidi con metodi immunocromatografici per P. falciparum, basati sulla dimostrazione dell’antigene ricco
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in istidina presente in questa sola specie, e per P. falciparum e P. vivax, basati sulla dimostrazione del loro enzima lattico-deidrogenasi; il metodo detto QBC (Quantitative Buffy Coat), basato sulla ricerca con microscopio a fluorescenza dei plasmodi a livello dello strato del “buffy coat” ottenuto dopo centrifugazione del prelievo ematico; l’amplificazione genica con metodica PCR (Polymerase Chain Reaction), che può dimostrarsi utile principalmente nei casi di parassitemie molto basse e in quelli con doppia infezione. La ricerca degli anticorpi (sono disponibili routinariamente solo kit che permettono di ricercare anticorpi anti-P. falciparum, caratterizzati da parziali cross-reazioni con le altre specie di plasmodi) non è utile ai fini diagnostici, ma solamente epidemiologici, in quanto gli anticorpi compaiono solitamente a distanza di mesi dall’infezione. G. Decorso e prognosi. Non esiste un’immunità naturale permanente contro la malaria: solo la continua esposizione a punture infettanti, cioè ad un’ininterrotta stimolazione antigenica, permette la persistenza in circolo di un livello anticorpale che, se non è in grado di impedire la comparsa della sintomatologia, quanto meno è in grado di attenuarla, impedendo il passaggio dei merozoiti da una cellula all’altra. È sufficiente però che una persona che ha vissuto in area endemica e possiede anticorpi circolanti, si allontani per due anni dalle zone di endemia, per perdere gli anticorpi circolanti: qualora si reinfetti, correrà il rischio di contrarre una forma più severa, come quella che colpisce coloro che non hanno mai soggiornato in zona malarica. Si parla perciò di malaria in soggetti non-immuni e in semi-immuni. Ad eccezione delle forme da P. falciparum, l’evoluzione spontanea della malaria è favorevole: accessi malarici, non certo piacevoli ma con una sintomatologia progressivamente più attenuata possono ripresentarsi a distanza di mesi-anni (fino a 3-4 anni) nel caso di infezione da P. vivax e P. ovale, a distanza anche di decenni (20-30 anni) in caso di P. malariae. Un’attenzione diversa merita la malaria da P. falciparum: se lasciata a se stessa e se evolve nella forma severa e complicata, è segnata da un’elevata mortalità (> 30%) e da sequele neurologiche temporanee o permanenti: 10-12% dei sopravvissuti ad una malaria cerebrale presentano alterazioni neurologiche al momento delle dimissioni dall’ospedale. Anche nella ormai più rara “black water fever” l’evoluzione è spesso infausta: non rara è la morte per eccessiva idratazione in corso di terapia e conseguente edema cerebrale. H. Terapia. Nell’approccio terapeutico all’accesso malarico va considerata la possibile farmacoresistenza di P. falciparum ad alcuni antimalarici di più comune impiego (sulfamidici, clorochina, dapsone, pirimetamina). Nella decisione dello schema terapeutico è perciò utile distinguere tra le infezioni da P. falciparum clorochino-resistente e quelle determinate da P. falciparum clorochino-sensibile, P. vivax, P. malariae e P. ovale. La clorochino-resistenza di P. falciparum, insorta progressivamente dagli anni Settanta a partire dalla penisola
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indocinese e successivamente diffusasi nell’Africa orientale e nella regione amazzonica, interessa ormai la quasi totalità dell’Africa subsahariana, buona parte del Sud-Est asiatico e pressoché l’intera Amazzonia. A ciò si aggiungono le resistenze di P. falciparum alla meflochina e di P. vivax alla clorochina, recentemente descritte in alcune aree dell’Estremo Oriente. 1. Nei casi non complicati di malaria da P. falciparum clorochino-resistente, la terapia consigliata è quindi costituita da chinino più sulfadossina-pirimetamina (oppure clindamicina o tetraciclina), o in alternativa da meflochina o alofantrina. Efficace è anche l’associazione di atovaquone (un antiparassitario di recente sperimentazione) e di proguanile (finora utilizzato solo nella profilassi antimalarica). Di recente introduzione è anche l’associazione fra derivati dell’artemisinina (vedi punto 2), quale l’artemether e la lumefantrina. La via di somministrazione della maggior parte di questi farmaci è quella orale. 2. Solo nei casi di malaria severa e complicata (in particolare nelle forme cerebrali), è indispensabile iniziare la terapia per via parenterale fino a quando è possibile passare alla terapia orale: nella terapia endovenosa i farmaci utilizzati sono il chinino dicloroidrato o la chinidina gluconato. In alcuni casi è utile associare clindamicina sempre per via endovenosa, per accelerare la caduta della parassitemia. I derivati dell’artemisinina, principio attivo contenuto nel vegetale Artemisia annua utilizzato da secoli nella medicina tradizionale cinese come antipiretico, ed in particolare l’artemether sono attualmente disponibili ed utilizzabili in alcune aree iperendemiche caratterizzate da clorochino-resistenza; essi si stanno rivelando degli efficaci antimalarici capaci di ottenere rapidamente la clearance della parassitemia. 3. Nei casi di malaria dovuta a tutti i plasmodi, ad eccezione di P. falciparum clorochino-resistente, il farmaco di scelta per la terapia dell’accesso acuto è rappresentato ancora dalla clorochina per os; solo in caso di controindicazioni o di parassitemia elevata, può essere necessario utilizzare la medesima terapia parenterale con chinino o chinidina, indicata nei casi complicati di malaria da P. falciparum clorochino-resistente. 4. Nella malaria da P. vivax e P. ovale, dopo la terapia dell’accesso con clorochina, la prevenzione delle recidive da riattivazione degli ipnozoiti intraepatici deve essere realizzata con primachina per os. 5. In tutti i casi in cui viene utilizzata una terapia per os, è utile la premedicazione con antiemetici soprattutto prima della dose carico. 6. Nell’impostazione della terapia antimalarica, è importante conoscere le principali controindicazioni dei farmaci che attualmente abbiamo a disposizione. In gravidanza, per esempio, si possono utilizzare con
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le dovute cautele solo clorochina e chinino; la meflochina è sicuramente controindicata nei primi quattro mesi, mentre primachina e alofantrina lo sono per tutto il periodo di gestazione. Nei bambini sotto i 15 kg di peso non è consigliata la meflochina, in quelli sotto gli 8 anni le tetracicline. Nei cardiopatici o ipertesi che utilizzano digossina, -bloccanti, calcioantagonisti o chinidina sono controindicati tanto chinino che meflochina ed alofantrina. Quest’ultima non va utilizzata nei soggetti con intervallo Q-T allungato all’elettrocardiogramma. La primachina non deve essere somministrata ai soggetti con deficit della glucosio-6fosfato-deidrogenasi (G6PD), perché può scatenare una crisi emolitica più o meno grave. 7. Nella malaria severa e complicata, accanto al trattamento eziologico, è indispensabile instaurare una terapia di supporto, possibilmente in reparti di terapia intensiva, pena il decesso del paziente nonostante l’efficacia del trattamento antimalarico. Spesso, in tali casi, si rendono necessari il monitoraggio emodinamico, un’assistenza ventilatoria precoce (che può variare dalla più semplice ossigenoterapia fino alla respirazione totalmente assistita), il mantenimento dell’equilibrio idroelettrolitico con bilancio negativo, la correzione puntuale di ipoglicemia, anemia e acidosi, il controllo dell’ipertermia e delle convulsioni. In casi di parassitemia particolarmente elevata può essere valutata l’opportunità anche dell’exanguinotrasfusione; nei casi con grave insufficienza renale può essere necessario instaurare un trattamento dialitico. Recenti studi controllati hanno dimostrato che gli steroidi, utilizzati per molti anni empiricamente nella terapia della malaria cerebrale, sono controindicati, in quanto aumenterebbero la durata del coma. I. Profilassi. Va premesso che nessuna profilassi antimalarica può impedire il contagio: se una zanzara infetta punge un uomo che sta assumendo la profilassi, inoculerà comunque sporozoiti, che si svilupperanno negli stadi successivi di maturazione. L’obiettivo della profilassi è perciò quello di mantenere la carica parassitaria il più possibile al di sotto della soglia clinica, così da impedire che si possa sviluppare l’accesso malarico. A seconda delle specie di Plasmodium predominanti, della presenza di P. falciparum clorochino-resistente e del grado di tale resistenza (variabile nei gradi RI, RII e RIII), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha suddiviso le aree di endemia malarica in tre zone, denominate rispettivamente A, B e C (Fig. 81.2). Nelle zone A, caratterizzate da un basso rischio dovuto principalmente a P. vivax e a P. falciparum ancora sensibile alla clorochina, e limitate ormai al solo Medio Oriente ed al Centro America, la profilassi consigliata è rappresentata ancora dalla clorochina. Nelle zone B, comprendenti il subcontinente indiano, parte dell’Estremo Oriente e l’estremo sud dell’Africa, in cui il rischio è più elevato ed è costituito principalmente da P. falciparum con resistenza RI-RII alla clorochina, l’OMS consiglia l’associazione di clorochina e proguanile. Nelle
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zone C, caratterizzate da un rischio elevato dovuto a P. falciparum fortemente resistente alla clorochina (RIII) o polichemioresistente, ed estese ormai a tutta l’Africa subsahariana (ad eccezione dell’estremo sud), all’intero bacino amazzonico, all’intera penisola indocinese ed a parte degli arcipelaghi dell’Estremo Oriente, l’OMS consiglia la profilassi con meflochina. In aree particolari della penisola indocinese (zona C), e più precisamente nelle zone della Thailandia situate al confine con l’Unione di Myammar (ex Birmania) ad ovest e con la Kampuchea ad est, è stata descritta una resistenza alla stessa meflochina, per cui l’OMS consiglia l’assunzione dell’associazione proguanile ed atovaquone o di tetraciclina. Per tutti questi farmaci utilizzati in profilassi, vige la regola di iniziarne l’assunzione alcuni giorni prima della partenza verso l’area malarica (così da averne un dosaggio congruo in circolo già all’arrivo nelle zone potenzialmente a rischio e per saggiarne la tollerabilità), di proseguirla per tutto il periodo di soggiorno in area malarica e per 4 settimane complete dopo l’uscita dalla zona a rischio (così da offrire una copertura sufficiente a prevenire lo svilupparsi di un accesso malarico causato da una puntura infettante avvenuta negli ultimi giorni del soggiorno in area endemica o addirittura nel corso del viaggio di ritorno). Nella valutazione dell’opportunità di consigliare la profilassi antimalarica, è utile operare una distinzione tra viaggio medio-lungo (da 2 settimane a 2-3 mesi) e viaggio corto (1 settimana): nel secondo caso, infatti, la probabilità che avvenga una puntura infettante e che si presenti nel corso del viaggio un accesso malarico è molto bassa, qualunque sia la specie di Plasmodium responsabile, per cui la profilassi può essere consigliata solo nel caso dei cosiddetti “terreni particolari”, rappresentati dai bambini al di sotto di 1 anno, dalle gravide e dalle persone anziane, diabetiche, cardiopatiche. In questi casi, infatti, il rischio di contrarre la malaria in forma clinica può essere pericoloso per la vita; d’altra parte alcuni degli stessi farmaci utilizzati in profilassi e in terapia, come sopra riportato, sono controindicati in alcune di queste situazioni. Un discorso a parte merita la permanenza in area malarica per un periodo maggiore dei 2-3 mesi: i dati della letteratura sono discordi nell’indicazione dell’utilità di una profilassi antimalarica a lungo termine, propendendo alcuni in alternativa all’indicazione di regimi di autotrattamento in caso di accesso malarico dimostrato o anche solo sospetto, altri per brevi regimi profilattici tali da creare quanto meno un minimo di immunità nel soggetto che va a soggiornare in area endemica. Da ultimo è importante sottolineare come la prima prevenzione contro la malaria è rappresentata non tanto e non solo dai farmaci, quanto anzitutto dalle cosiddette “misure fisiche” utili a ridurre il rischio di punture da parte delle zanzare: un abbigliamento congruo, la riduzione dell’esposizione notturna, l’utilizzo di repellenti cutanei ed ambientali e di zanzariere alle finestre delle abitazioni e/o al di sopra dei letti. Da tutto ciò emerge chiaramente come la profilassi debba essere il più possibile personalizzata sul singolo
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Aree in cui la malaria è scomparsa, è stata eradicata o non è mai esistita Aree a rischio limitato Aree in cui si verifica la trasmissione della malaria
Figura 81.2 – Suddivisione delle zone di endemia malarica in rapporto al rischio di infezione e alla chemioprofilassi consigliata (Fonte: WHO, 2003-2004). Per i farmaci indicati nella chemioprofilassi antimalarica, si veda il testo.
viaggiatore in area endemica e sulle particolari condizioni in cui si troverà a viaggiare e a soggiornarvi. Da decenni si stanno compiendo studi riguardo alla possibilità di realizzare un vaccino antimalarico; gli ultimi anni hanno visto la sperimentazione, purtroppo rivelatasi abbastanza deludente, di alcuni dei candidati vaccini approntati. Poiché la malaria non conferisce una immunità a vita, non è stato possibile finora realizzare un modello di studio dell’immunità contro l’infezione da plasmodi e resta ancora da chiarire, tra l’altro, quali differenti meccanismi possano essere responsabili della protezione verso l’infezione. Gli antigeni finora più frequentemente studiati come candidati per la predisposizione di un vaccino sono il CSP (Circum-sporozoite Protein), il MSP-1 (Merozoite Surface Protein) e il Pfs25 (antigeni gametocitari): presenti nei diversi stadi di maturazione del parassita, sono sufficientemente differenti da non determinare fenomeni di cross-reazione a livello anticorpale, per cui molti ricercatori ritengono che un vaccino efficace debba stimolare la produzione di anticorpi contro almeno tre antigeni di tre stadi differenti (sporozoiti, merozoiti e gametociti). È stata recentemente dimostrata una parziale efficacia di un vaccino anti-CSP in bambini africani.
LEISHMANIOSI (*) Con il termine leishmaniosi si intende un gruppo di malattie infettive provocate da protozoi emoflagellati del genere Leishmania, trasmesse all’uomo attraverso
la puntura di moscerini. A seconda della specie di Leishmania coinvolta e della situazione immunitaria del soggetto, nell’uomo l’infezione può manifestarsi in forma generalizzata (leishmaniosi viscerale) o determinare quadri clinici localizzati alla sola cute (leishmaniosi cutanea) o a cute e mucose principalmente delle vie aree superiori (leishmaniosi cutaneo-mucosa). A. Epidemiologia. Leishmania ha una distribuzione quasi ubiquitaria, non limitata alle aree tropicali. Nel mondo sono circa 180 milioni le persone esposte al rischio di contrarre la forma viscerale (causata dal complesso Leishmania donovani) e sono circa 100.000 i nuovi casi ogni anno: nella sua varietà donovani, è presente in India, Asia e Africa centrale; nella varietà chagasi in America centrale e meridionale; nella varietà infantum nel bacino del Mediterraneo e in tutte le aree costiere della penisola italiana, dalla Liguria alla Sicilia con maggior prevalenza lungo le coste di Calabria e Sicilia orientale. Nelle persone con infezione da HIV, nei trapiantati e in altri casi in cui si osserva una compromissione dell’immunità cellulo-mediata, si presenta come un’infezione opportunistica e dimostra una prevalenza più elevata che nella popolazione generale. La forma cutanea è diffusa soprattutto in Medio Oriente, dove è conosciuta come “bottone di Aleppo” o “di Damasco”, e nel bacino del Mediterraneo. La forma cutaneo-mucosa è circoscritta invece al Centro e Sud America.
(*) A. Castagna
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Fonte dell’infezione e serbatoio naturale sono numerosi mammiferi, primo fra i quali nelle aree urbane e rurali è il cane domestico; altri canidi e roditori selvatici sono un importante serbatoio nelle aree desertiche e di foresta. B. Eziologia. Il genere Leishmania, della famiglia delle Trypanosomatidae e dell’ordine dei Kinetoplastida (di cui fanno parte anche i tripanosomi africani e americani), comprende un numero elevato di specie, infettanti l’uomo e numerosi animali, indistinguibili per la loro morfologia e fino a qualche anno fa classificate in base al quadro clinico da esse determinato, alla loro distribuzione geografica, all’epidemiologia, alle caratteristiche delle infezioni sperimentali negli animali di laboratorio da esse provocate e alle loro modalità di crescita in coltura. Negli ultimi decenni sono state approntate metodiche di laboratorio più sofisticate, quali le tecniche di analisi immunochimica, di comparazione dei profili isoenzimatici e di biologia molecolare, che hanno fornito una base più oggettiva alla tassonomia ed hanno permesso di raggruppare gli isolati di Leishmania, ottenuti dall’uomo e dagli animali in differenti aree geografiche, in quattro specie o “complessi”: L. donovani, L. tropica, L. mexicana, L. brasiliensis. È stata soprattutto la recente introduzione dell’amplificazione genica con metodo PCR (Polymerase Chain Reaction) a rivoluzionare la classificazione del genere Leishmania, poiché sta permettendo di riconoscere con maggior precisione le numerose sottospecie di cui sono composte le quattro specie precedentemente riconosciute. Il complesso Leishmania donovani è responsabile della leishmaniosi viscerale. Il complesso L. tropica e il complesso L. mexicana sono responsabili della forma solamente cutanea. Il complesso L. brasiliensis è responsabile della forma cutaneo-mucosa. Si è comunque osservato che una singola specie di Leishmania può produrre differenti quadri clinici e che ogni sindrome clinica può essere determinata da più di una specie: le manifestazioni cliniche dipendono infatti da un complesso di interazioni che si realizzano tra la capacità invasiva, il tropismo e la virulenza del parassita da un lato, e il tipo di risposta immune che il paziente è in grado di produrre dall’altro. Ne sono una dimostrazione i casi di infezione sistemica da visceralizzazione di ceppi finora decritti come dermotropi, osservata nei soggetti con infezione da HIV. Tutte le specie di Leishmania sono trasmesse all’uomo attraverso un insetto vettore della famiglia delle Phlebotominae, appartenente principalmente al genere Phlebotomus in Europa, Asia e Africa, e al genere Lutzomya in America Latina. Si tratta di moscerini, frequenti sulle coste sabbiose e nelle zone a clima secco (donde il nome “sandflies”, o mosche della sabbia), che solitamente pungono l’uomo nelle ore diurne. Sembra comunque che la maggior parte delle infezioni umane non avvenga per iniezione attiva del protozoo da parte del flebotomo al momento della puntura, quanto per schiacciamento da parte dell’uomo dell’insetto intento a pungere. Il ciclo biologico prevede una moltiplicazione intracellulare della forma amastigote (priva di flagello)
MALATTIE INFETTIVE
nell’uomo e negli altri mammiferi infettati, ed una moltiplicazione extracellulare della forma promastigote (provvista di flagello) nello stomaco dell’insetto. Il promastigote, che rappresenta la forma infettante, una volta penetrato nell’ospite, si trasforma a livello del torrente circolatorio in amastigote, parassita intracellulare obbligato: nelle specie viscerotrope raggiunge quindi le cellule del sistema reticolo-endoteliale (SRE) degli organi profondi (milza, midollo osseo, fegato), dove si moltiplica attivamente; nelle specie dermotrope raggiunge invece e si stabilisce nelle cellule del SRE presenti a livello cutaneo e/o a livello mucoso. Dal torrente circolatorio, dalla linfa o dal derma, in cui vengono a trovarsi transitoriamente, gli amastigoti potranno raggiungere lo stomaco di un flebotomo nel corso di un pasto ematico; nel particolare microambiente rappresentato dal tubo intestinale del vettore subiranno trasformazioni attraverso cui diventeranno forme infettanti promastigoti. Sono state descritte anche altre modalità di trasmissione, più rare, come la via ematica attraverso trasfusione di emoderivati e punture accidentali con sangue infetto, quali potrebbero avvenire anche tra individui che fanno uso di sostanze stupefacenti per via endovenosa ed utilizzano la medesima siringa: tale modalità di trasmissione potrebbe spiegare l’insorgenza di piccole epidemie di leishmaniosi tra tossicodipendenti osservate in area non endemica. C. Patogenesi. Nella patogenesi delle infezioni da Leishmania, qualunque sia la specie coinvolta e lo spettro clinico determinato, un ruolo importante è sostenuto dalla risposta immunitaria dell’ospite, soprattutto dalla sua componente cellulo-mediata: da essa, ed in particolare da quanto avviene a livello di attivazione citochinica immediatamente dopo l’infezione, dipenderà buona parte dell’evoluzione clinica. D’altra parte la stessa infezione da Leishmania nella sua forma sistemica è in grado di determinare un’immunosoppressione nell’ospite. Per queste sue caratteristiche, l’infezione da Leishmania è diventata un modello ideale per lo studio tanto in vitro che in vivo dei meccanismi coinvolti nella risposta immune cellulo-mediata. 1. Nei pazienti affetti dalla forma viscerale è assente la risposta immunitaria CD4-mediata protettiva di tipo Th1; viceversa, le persone in cui l’infezione si autorisolve e quelle in cui la terapia antiprotozoaria risulta efficace, sviluppano una risposta di tipo Th1 che si dimostra in grado di offrire un alto livello di protezione, per cui la forma clinica può ricomparire solo a distanza di tempo nel caso in cui si verifichi un’immunodepressione. Non è noto perché in alcune persone predomini una risposta protettiva di tipo Th1 ed in altre no: sembrano essere importanti la risposta citochinica iniziale, il modo con cui i macrofagi, le cellule di Langerhans o i B-linfociti presentano gli antigeni di Leishmania nel contesto degli antigeni di istocompatibilità, e la stessa sede in cui è avvenuto l’inoculo di leishmanie. Nello stesso tempo, l’infezione da Leishmania esercita un’azione immunodepressiva: i macrofagi infettati non sono infatti più in grado di produrre né IFN- né
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IL-2, e presentano una ridotta espressione degli antigeni di istocompatibilità di classe I e II; al contrario secernono TGF- e prostaglandine, che possiedono un’azione potenzialmente immunosoppressiva. Nei soggetti senza risposta protettiva Th1, che presentano la forma clinicamente più grave, nella sede di inoculo non si ha solitamente un’importante risposta immunitaria, quindi una lesione apparente. La moltiplicazione degli amastigoti nelle cellule del sistema reticolo-endoteliale, la loro disseminazione per distruzione delle cellule infettate e l’infezione di altre determina un’iperplasia di tali cellule a livello epatico e splenico, con conseguente spleno ed epatomegalia. 2. Nella leishmaniosi cutanea si osserva a livello della sede di inoculo una risposta infiammatoria in parte acuta ed in parte cronica, caratterizzata dalla presenza di cellule mononucleate sia infette che non infette, da linfociti e da plasmacellule. Questo determina la formazione di una papula, che successivamente si allarga e può eventualmente ulcerarsi. L’ulcerazione persiste finché predomina localmente una risposta linfocitaria di tipo Th2; questa, nella maggior parte dei casi, dopo settimane o mesi, viene controbilanciata e superata da una risposta di tipo Th1, che determina l’eliminazione dalla lesione delle cellule fagocitiche mononucleate e l’evolversi di una reazione granulomatosa con cellule epitelioidi e giganti. La lesione guarisce di solito lentamente, lasciando una cicatrice piana ed atrofica. 3. Nella leishmaniosi cutaneo-mucosa tanto le lesioni cutanee quanto quelle mucose, che possono comparire alcuni mesi o anni dopo le cutanee, contengono spesso solo pochi amastigoti, quando non ne siano addirittura prive. Sono invece caratterizzate da un’infiammazione cronica aspecifica, ricca di intensi infiltrati di cellule mononucleate, che evolve verso una reazione granulomatosa. La predilezione per la sede nasale sembra essere motivata dalla più bassa temperatura osservabile in tale distretto, che favorisce la crescita del parassita, e dalla scarsa efficacia della risposta immunitaria a livello del tessuto cartilagineo. D. Clinica. 1. Leishmaniosi viscerale. L’incubazione è generalmente lunga (2-6 mesi) e la lesione in sede di inoculazione è solitamente assente. L’esordio è raramente acuto, diversamente da quanto avviene per altre cause di febbre da emoparassiti, come la malaria, ed è spesso caratterizzato da febbricola intermittente. La fase di stato della malattia è caratterizzata principalmente da febbre intermittente o continuo-remittente (talvolta con i caratteristici due picchi giornalieri), astenia ingravescente, dimagramento progressivo che può eventualmente evolvere fino alla cachessia, emorragie (frequenti le epistassi e le gengivorragie); a tali sintomi possono associarsi dolori addominali ed epigastralgie, tosse, diarrea e/o dissenteria, artralgie diffuse. L’esame obiettivo evidenzia una splenomegalia dura indolente – di-
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versamente da quanto avviene nell’accesso malarico, caratterizzato da una splenomegalia molle e spesso dolente –, epatomegalia, linfoadenomegalia ed eventualmente ittero. Nelle persone con infezione da HIV si osserva spesso una diffusione sistemica degli amastigoti di Leishmania, che possono essere ritrovati, oltre che nelle sedi tipiche (midollo osseo, fegato, milza), anche a livello polmonare, pleurico, gastroenterico, urogenitale e cutaneo, accompagnati o meno da una sintomatologia d’organo corrispondente; la frequente osservazione di leishmanie in questi soggetti immunodepressi nelle sedi tanto tipiche che atipiche, anche successivamente alla terapia ed in assenza di sintomatologia, può far supporre che si realizzi in essi un equilibrio, peraltro instabile, tra parassita e sistema immunitario, tale da controllare l’infezione senza essere in grado di eliminarla. 2. La leishmaniosi cutanea è caratterizzata dalla comparsa di una lesione cutanea nella sede di inoculo a distanza di settimane-mesi dal contagio. La lesione presenta inizialmente le caratteristiche di una papula rossastra, che evolve successivamente nel caratteristico “bottone”: un nodulo di consistenza dura, mobile sui piani profondi, che può ingrandirsi fino a raggiungere 2 cm o più di diametro e ricoprirsi al centro di una crosta aderente al sottocute; quest’ultima, successivamente, può staccarsi lasciando un’ulcera solitamente superficiale, circolare, a bordi netti e sollevati (“a vulcano”) e con un fondo rappresentato da tessuto di granulazione. Dall’ulcera può frequentemente uscire un liquido sieroso o sieropurulento. Può concomitare una linfoadenopatia reattiva regionale. Anche se le caratteristiche della lesione cutanea non possono permettere di identificare la specie di Leishmania responsabile, il quadro clinico si presenta spesso lievemente differente a seconda della specie coinvolta: nella forma da L. tropica, la lesione tende ad essere singola, a crescita lenta, ed a risoluzione nel giro di 1 anno; nella forma da L. maior, le lesioni sono più frequentemente multiple, crescono più rapidamente e guariscono più lentamente. Anche la forma cosiddetta “cutanea diffusa” inizia con una papula localizzata: questa però, diversamente da quanto avviene nella forma cutanea “classica”, non si ulcera, ma dà origine a lesioni satelliti che si sviluppano attorno fino a metastatizzare in aree distanti della cute, più frequentemente localizzate al volto e alle estremità degli arti. 3. Nella leishmaniosi cutaneo-mucosa le manifestazioni cutanee possono essere singole o plurime e presentare uno spettro morfologico variabile: anche nel medesimo paziente si possono osservare tanto lesioni piccole, asciutte e crostose quanto ulcerazioni larghe, profonde e mutilanti. Nelle forme con lesioni cutanee localizzate, il quadro clinico iniziale è sovrapponibile a quello osservato nella leishmaniosi cutanea. Sono descritte anche forme in cui la formazione di lesioni cutanee segue a distanza di 1-2 settimane la comparsa di una linfoadenopatia regionale, altre in cui i tipici noduli cutanei si sviluppano a catena lungo il decorso dei vasi linfatici. Come nella leishmaniosi cutanea, la for-
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ma diffusa, rara variante anergica, è caratterizzata dalla disseminazione di noduli principalmente al volto e alle estremità. In una percentuale di pazienti sconosciuta e probabilmente variabile da una regione endemica all’altra, dopo un periodo di tempo di mesi-anni (mediamente di 5-6 anni, con casi osservati anche a distanza di decenni), le leishmanie possono persistere nell’organismo anche dopo la scomparsa della lesione cutanea primaria e causare lesioni mucose mutilanti localizzate principalmente al rinofaringe. I primi segni sono rappresentati frequentemente da epistassi e ostruzione nasale. Il processo parte spesso dal setto nasale come una piccola tumefazione eritematosa della mucosa, che può lentamente evolvere fino alla perforazione e alla distruzione del setto con conseguente crollo della punta del naso (“naso a tapiro”). La distruzione della mucosa nasale può esitare anche in ulcerazioni cutanee e perforazioni del palato molle. Possono essere coinvolti anche il labbro superiore, la lingua e, nell’ordine, le mucose buccali, del faringe e del laringe; più raro, anche se particolarmente grave, è l’interessamento della trachea. E. Esami di laboratorio. Nella leishmaniosi viscerale si osserva con una certa frequenza una pancitopenia o solamente un quadro di anemia normocromica, leucopenia con spiccata neutropenia o piastrinopenia; la VES è solitamente elevata e caratteristica è la disprotidemia con una più o meno accentuata iper--globulinemia policlonale. Nella leishmaniosi cutanea si osservano raramente alterazioni nei comuni esami di laboratorio; la forma cutaneo-mucosa, nella sua fase di invasione delle mucose, è frequentemente accompagnata da segni indiretti di infiammazione. F. Diagnosi. La leishmaniosi viscerale è un’infezione talvolta di non facile diagnosi: le metodiche di ricerca diretta del parassita tradizionalmente utilizzate presentano infatti un certo grado di invasività e dimostrano una sensibilità non elevata. La puntura splenica è la tecnica più sensibile (> 90%), ma è oggi raramente utilizzata per l’elevato rischio di emorragie; l’aspirato e la biopsia osteomidollare presentano una minore sensibilità (70%, con maggior sensibilità dell’aspirato rispetto alla biopsia), ma sono le metodiche maggiormente usate in quanto più sicure; la biopsia epatica è una tecnica di seconda scelta per la sua ridotta sensibilità (40%). Il materiale prelevato viene osservato al microscopio con colorazione di Giemsa per la ricerca degli amastigoti e/o messo in coltura in particolari terreni (Steiner, NNN) a crescita lenta e non facile manipolazione per l’evidenziazione delle forme promastigoti. Per tali motivi, sono oggi maggiormente utilizzate metodiche indirette, quali la ricerca su siero di anticorpi anti-Leishmania spp, che si rivela particolarmente sensibile nella popolazione generale, pur senza un’elevata specificità (possibili cross-reazioni con altri anticorpi); è però pressoché inutile nelle persone con infezione da HIV, in cui i kit anticorpali routinariamente utilizzati presentano anche una sensibilità ridotta (max 60%). Anche per far fronte alle problematiche diagnostiche di tali pazienti sono state recentemente utilizzate metodiche
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nuove, che si stanno rivelando altamente sensibili e specifiche, quali l’amplificazione genica con metodo PCR su sangue e aspirato midollare. Il test cutaneo alla leishmanina (noto come test di Montenegro), peraltro ormai scarsamente utilizzato, si dimostra negativo nella forma viscerale, positivizzandosi solo dopo l’eradicazione del parassita. La leishmaniosi cutanea si diagnostica tramite l’evidenziazione microscopica degli amastigoti e/o su dimostrazione in coltura dei promastigoti da materiale ottenuto tramite biopsia realizzata non al centro ma ai bordi della lesione, ricchi di parassiti; la sierologia risulta invece negativa, il test di Montenegro si positivizza precocemente. Nella leishmaniosi cutaneo-mucosa la diagnosi è basata sull’identificazione microscopica degli amastigoti e/o su dimostrazione in coltura dei promastigoti da tessuto prelevato con biopsia ai bordi delle lesioni o da materiale essudato raccolto per apposizione su vetrino. La sierologia risulta frequentemente positiva a titolo elevato e può essere utilizzata anche per il monitoraggio della risposta terapeutica; il test alla leishmanina presenta un’elevata sensibilità. G. Decorso e prognosi. Di sola leishmaniosi viscerale raramente si muore, ma le complicanze sono numerose e spesso fatali: più frequenti sono quelle infettive, rappresentate da infezioni broncopolmonari (polmoniti pneumococciche, TBC), sepsi e infezioni del tratto gastroenterico (amebiasi, shigellosi, ecc.); fortemente invalidanti sono le emorragie retiniche; più rara è la cosiddetta “post-kala-azar dermal leishmaniasis” (PKDL), osservata soprattutto nelle forme indiane e africane a distanza di mesi-anni dalla sintomatologia sistemica o come prima manifestazione di infezione, caratterizzata dalla comparsa di macule depigmentate al volto e al tronco o di noduli al volto, infarciti di amastigoti. Il decorso della leishmaniosi cutanea è solitamente benigno: dopo un periodo variabile da alcuni mesi fino al massimo di 1 anno, l’ulcera guarisce lasciando una cicatrice piatta, atrofica e depigmentata. Rare sono le forme recidivanti a distanza di anni; ancor più raro l’interessamento mucoso. La forma cutanea diffusa ha una progressione più lenta e può persistere per 20 anni o più. La leishmaniosi cutaneo-mucosa è fortemente invalidante per la sede privilegiata dalle lesioni mucose; può essere fatale per la possibilità di determinare ostruzioni progressive delle vie aeree superiori e polmoniti ab ingestis. H. Terapia. Il trattamento della leishmaniosi viscerale è impegnativo: utilizza farmaci gravati da tossicità non trascurabile e richiede il ricovero ospedaliero per tutta la sua durata o quantomeno, nel caso di utilizzo degli antimoniali, fino alla valutazione della tollerabilità farmacologica. Rappresentano ancora la prima scelta i derivati pentavalenti dell’antimonio (meglumina antimoniato o stibogluconato di sodio), da somministrare in 1-2 dosi/dì per via endovenosa o intramuscolare profonda per almeno 28 giorni, pena la comparsa di recidive con l’antico schema di cicli di 21 giorni interval-
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lati da 15 giorni di sospensione. Agli antimoniali è stato associato con successo in alcune casistiche l’allopurinolo e in altre l’interferon-. Come alternativa agli antimoniali è sempre più utilizzata l’amfotericina B (farmaco antimicotico) in perfusione endovenosa molto lenta, meglio nella formulazione liposomiale, che, pur penalizzata da un costo molto elevato, si dimostra gravata da effetti collaterali molto inferiori della formulazione tradizionale e permette trattamenti ugualmente efficaci con brevi cicli terapeutici. È ormai considerata un farmaco di terza scelta la pentamidina isetionato per via endovenosa. Sono in corso protocolli terapeutici sperimentali sull’efficacia della miltefosina per os che viene già indicata come farmaco di prima scelta da molti Autori. Nei soggetti con infezione da HIV si preconizza l’utilità di una profilassi secondaria quoad vitam post-trattamento con cicli periodici di amfotericina B liposomiale. La leishmaniosi cutanea, solitamente a guarigione spontanea, si dimostra più facilmente trattabile con plurimi schemi terapeutici: oltre che con gli antimoniali intralesionali anche con imidazolici per os e paromomicina topica. La leishmaniosi cutaneo-mucosa risulta invece gravata da numerosi insuccessi terapeutici: la scelta del trattamento è tra gli antimoniali (efficaci nel 60% dei casi) e l’amfotericina B (efficace in oltre il 75% dei casi) secondo gli schemi utilizzati nella forma viscerale. L. Profilassi. Non è attualmente disponibile alcuna profilassi, né farmacologica né vaccinale: l’unica azione possibile è la sensibilizzazione comportamentale per evitare l’esposizione alle punture dei flebotomi. Anche il controllo dei vettori risulta pressoché irrealizzabile.
LEBBRA La lebbra, detta anche hanseniasi o morbo di Hansen dal nome dello scienziato norvegese che per primo ne scoprì il batterio responsabile, è una malattia infettiva ad esordio lento e decorso cronico, che si manifesta in individui suscettibili dopo il contatto con il Mycobacterium leprae. Si presenta con uno spettro di quadri clinici, in cui i due organi bersaglio del micobatterio – la cute ed i nervi periferici – sono coinvolti con gradi differenti, a seconda della risposta immunitaria e della conseguente reazione tissutale dell’ospite. A. Epidemiologia. Meno frequente che in passato, la lebbra è tuttavia ancora endemica in estese aree di Asia, Africa, America Latina ed Oceania: più di un miliardo di persone vive ancora in paesi in cui la prevalenza dell’hanseniasi è stimata intorno all’1‰ e sono circa 700.000 i nuovi casi che vengono diagnosticati ogni anno. Si presenta come una malattia legata alla povertà e alle precarie condizioni igieniche, in cui è costretta ancora a vivere buona parte della popolazione mondiale. Nei diversi continenti gli stati maggiormente colpiti sono l’India (dove si concentra il 70% dei casi noti in tutto il mondo), l’Indonesia, il Bangladesh, il Brasile e la
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Nigeria. La lebbra è presente con focolai in via d’estinzione anche in paesi dell’Europa del sud (Spagna, Portogallo, Italia, Grecia, Albania) e negli USA. Nel nostro paese i focolai residui sono localizzati nelle regioni meridionali, in particolare in Puglia e Calabria. Visto l’aumento nell’ultimo decennio dei flussi migratori dal Sud del mondo verso il Nord maggiormente sviluppato, nei paesi in cui non è endemica la lebbra può comparire in casi sporadici come patologia d’importazione. In soggetti particolarmente defedati con difetti dell’immunità cellulo-mediata ed in presenza di un’elevata carica ambientale di M. leprae, anche soggiorni brevi in area endemica sono sufficienti per contrarre l’infezione e presentare la malattia. B. Eziopatogenesi e fisiopatologia. M. leprae (detto anche bacillo di Hansen) è un batterio Gram+, aerobio, non sporigeno e non mobile, alcool-acido resistente, a forma di bastoncello e a crescita lenta. Parassita intracellulare obbligato, può essere isolato dalle lesioni cutanee e a livello dei nervi periferici, così come nell’endotelio vasale e nelle cellule mononucleate del sangue. Non cresce invece in terreni artificiali, né in colture di tessuti. Tra gli animali, soltanto l’armadillo sviluppa un’infezione generalizzata; nei tradizionali animali da esperimento (topo, ratto) si ha invece solo una limitata moltiplicazione con formazione di granulomi in sede di inoculo, a meno che essi non vengano precedentemente sottoposti a timectomia o irradiazione totale. L’infezione si trasmette per contatto interumano diretto, molto probabilmente in misura maggiore attraverso le alte vie respiratorie che non attraverso la cute non integra, considerata in passato come la via d’ingresso principale: la regione nasale dei turbinati sembra essere infatti un ambiente relativamente freddo e umido favorevole alla crescita di M. leprae. La principale sorgente di infezione è rappresentata dai malati multibacillari non trattati, che eliminano nell’ambiente grandi quantità di bacilli: in un clima caldo-umido ed al riparo dei raggi solari, quale si realizza maggiormente nei paesi dell’area intertropicale in cui è concentrata la quasi totalità dei malati, il bacillo può infatti sopravvivere all’esterno del corpo umano e mantenere la capacità infettante per quasi un mese. La lebbra ha probabilmente una contagiosità elevata, ma determina manifestazioni cliniche evidenti solo in un numero limitato di persone: ciò dipende in buona parte dall’immunità cellulo-mediata dell’ospite. Nella maggior parte dei casi (circa il 97%), M. leprae è infatti distrutto subito dopo l’ingresso nell’organismo umano; nel restante 3% si instaura un’infezione subclinica che può essere evidenziata con il dosaggio degli anticorpi e il test di trasformazione linfoblastica. Solo in una piccola percentuale (inferiore all’1%), dà luogo ad una malattia clinicamente evidente: M. leprae è perciò scarsamente patogeno rispetto ad altri micobatteri, quali M. tuberculosis. L’immunità cellulo-mediata dell’ospite condiziona non solo la comparsa della malattia, ma anche le diverse forme cliniche con cui la malattia può presentarsi. Nel 1963 Ridley e Jopling hanno classificato i vari qua-
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dri clinici in uno spettro che va da una forma “tubercoloide” o TT a forte immunità cellulare con bacilli scarsi o assenti e poche lesioni a una forma “lepromatosa” o LL con miliardi di bacilli diffusi tanto nell’ambito cutaneo che in organi interni e con numerose lesioni cutanee presenti su tutto il corpo. Questa polarizzazione è influenzata anche dalla costituzione genetica dell’ospite, come dimostra l’associazione tra sistema HLA e forme polari. Tra i due poli è compreso un gruppo di forme intermedie o “borderline”: “borderline tubercoloide” o BT, “borderline centrale” o BB e “borderline lepromatosa” o BL. Vi è infine la forma indeterminata (I), una forma iniziale di lebbra, ad immunità incerta, che si autorisolve nella maggior parte dei casi e solo in una ridotta percentuale evolve verso una forma conclamata. Le forme polari di lebbra (TT e LL) sono relativamente stabili; quelle intermedie (BT, BB e BL), invece, se lasciate senza trattamento tendono ad evolvere in tempi più o meno lunghi verso il polo lepromatoso, mentre in corso di terapia o nel periodo ad essa successivo virano verso il polo tubercoloide. Quest’ultima evenienza, se da un lato è da interpretarsi come un segno favorevole di recupero più o meno parziale di immunità contro M. leprae, dall’altro può essere accompagnata da un peggioramento della sintomatologia soprattutto a carico dei tronchi nervosi, in cui una riattivazione immunitaria può determinare un aumento dei processi infiammatori con conseguente edema e dolore. Le lesioni iniziali sono localizzate a livello della porta d’ingresso di M. leprae: i microrganismi si moltiplicano nelle cellule subepidermiche, nelle cellule di Schwann e nei macrofagi perivascolari; successivamente si approfondano e danneggiano gli annessi cutanei, le fibre nervose sensitive ed in seguito quelle motorie. L’evoluzione successiva è differente nelle diverse forme dello spettro. In quella tubercoloide, l’immunità cellulo-mediata e l’ipersensibilità ritardata permettono di controllare la moltiplicazione bacillare, riducendone la disseminazione e portando alla formazione di granulomi, costituiti da infiltrati di cellule epitelioidi e cellule giganti di Langhans circondate da linfociti, da cui raramente si possono isolare i micobatteri: particolarmente colpite sono le fibre nervose. Nella forma lepromatosa si osservano invece una serie di alterazioni dell’immunità cellulo-mediata specificamente rivolta contro M. leprae, per cui la fase batteriemica non si arresta e porta alla disseminazione dei micobatteri in ogni organo: risultano interessati dai fenomeni più distruttivi la cute, i nervi periferici, la mucosa orale e rinofaringea, i testicoli e l’occhio. Le lesioni granulomatose sono costituite in questa forma prevalentemente da macrofagi: le cellule giganti sono assenti, i linfociti e le cellule epitelioidi sono scarse, mentre i bacilli sono presenti in numero elevatissimo stipati spesso all’interno di grosse vescicole (i cosiddetti “globi”). C. Clinica. Il periodo di incubazione medio varia da 2-5 anni per le forme tubercoloidi a 8-12 anni per quelle lepromatose: questo può rendere ragione della rarità della lebbra nei bambini di età inferiore ai 5 anni. I soggetti destinati a manifestare una forma lepromatosa
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possono presentare come segni prodromici rinorree ripetute, riniti crostose ed edemi articolari; nei soggetti che presenteranno una forma iperergica (TT e BT), la comparsa di sintomi cutanei o nervosi è preceduta quasi sempre da parestesie e dolori urenti nelle aree di innervazione dei tronchi più frequentemente colpiti. Nella fase di malattia i distretti corporei più frequentemente interessati sono la cute ed i nervi periferici. 1. Le lesioni cutanee possono essere di tipo maculare, papulare, nodulare, a placca o ad infiltrazione diffusa. Il loro aspetto può variare in funzione del colore della pelle: se infatti le lesioni ipopigmentate si presentano come tali in tutte le razze, le lesioni eritematose sono rosse o di color camoscio (forma lepromatosa) nei pazienti di pelle chiara, mentre sono di color rame o senza alterazioni di colore nei soggetti con pelle scura. L’iperpigmentazione è segno solitamente di regressione delle lesioni, mentre la desquamazione è propria delle riesacerbazioni (dette “leproreazioni”) in via di guarigione. Nel corso di leproreazione le lesioni possono poi diventare edematose (placche) o anche ulcerarsi; ulcerazioni trofiche possono comunque comparire anche al di fuori delle riesacerbazioni, in corrispondenza delle salienze ossee a livello delle braccia e/o delle gambe, delle mani e/o dei piedi. Le differenti forme si caratterizzano per la presenza di lesioni cutanee dotate di particolare distribuzione e tipologia, associate o meno a disturbi della sensibilità e più o meno infarcite di bacilli alcool-acido resistenti (BAAR). Nella forma “indeterminata” (I) si osservano solamente una o poche macule raggruppate, a bordi sfumati, senza perdita di sensibilità e prive di BAAR. Nella forma “tubercoloide” (TT) le lesioni hanno una distribuzione monolaterale e sono costituite da macule a bordi netti, che possono presentare una guarigione centrale (lesioni anulari) e/o papule ai bordi; in loro corrispondenza la cute è secca, priva tanto di sensibilità che di bacilli. La forma “borderline tubercoloide” (BT) si caratterizza per la presenza di lesioni bilaterali asimmetriche, maculari, con bordi netti a volte papulosi alternati a bordi sfumati, in corrispondenza dei quali si possono osservare lesioni satelliti; la cute è secca, priva di sensibilità, mentre i BAAR possono essere osservati nei soggetti con molte lesioni e tendenza alla distribuzione simmetrica (BT multibacillare). Nella forma “borderline centrale” (BB) – rara, in quanto passa rapidamente verso la BT o la BL a causa della sua elevata instabilità immunologica – le lesioni sono bilaterali simmetriche e costituite da macule, placche e noduli: caratteristiche sono le macule e le placche con un’area centrale indenne (la cosiddetta “area immune”), in corrispondenza delle quali la cute è liscia al tatto, senza alterazioni della sensibilità ma positiva per la ricerca di BAAR. La forma “borderline lepromatosa” (BL) si caratterizza per la distribuzione bilaterale simmetrica di macule, placche e noduli a bordi sfumati, senza disturbi della sensibilità ma ricche di BAAR tanto isolati che raggruppati in globi.
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La forma “lepromatosa” (LL), infine, nella sua varietà “subpolare” (LLs) presenta lesioni bilaterali simmetriche maculari, nodulari o a placca di dimensioni ridotte, a bordi sfumati e senza perdita di sensibilità, ed una positività della ricerca di BAAR tanto nella cute lesionata quanto in quella apparentemente indenne; nella sua varietà “polare” (LLp), caratterizzata da un’anergia completa, presenta invece un’infiltrazione cutanea diffusa, cui consegue a livello del volto la cosiddetta “facies leonina” e la perdita delle sopracciglia (madarosi). 2. La neuropatia leprosa è di tipo ipertrofico, per cui i nervi periferici diventano palpabili in corrispondenza di tragitti superficiali o prossimalmente al passaggio in canali osteofibrosi. Maggiormente colpiti sono i nervi facciale, ulnare, mediano, peroneo comune, tibiale posteriore; l’interessamento del nervo radiale è di solito successivo a quello dell’ulnare e del mediano. Il coinvolgimento del nervo facciale porta frequentemente al lagoftalmo e alla caduta dell’angolo della bocca del lato interessato. Dalla lesione dell’ulnare deriva la formazione del cosiddetto “piccolo artiglio” (flessione delle falangi distali del quarto e quinto dito della mano), a quella del mediano la cosiddetta “mano di scimmia” (perdita della capacità di adduzione e opposizione del pollice, appiattimento dell’eminenza tenar): se sono colpiti tanto l’ulnare quanto il mediano, ne consegue la deformazione nota come “mano ad artiglio”. L’interessamento del peroneo comune porta alla caduta in flessione del piede (“piede cadente”), mentre quello del tibiale posteriore all’iperflessione delle falangi distali del piede (“dita ad artiglio”). 3. Rappresentano quadri clinici particolari la forma neuritica pura, caratterizzata dal solo interessamento dei tronchi nervosi senza lesioni cutanee, e la forma istioide di Wade, una variante della forma lepromatosa in cui le lesioni cutanee sono costituite da piccoli noduli duri a limiti netti. D. Esami di laboratorio. Negli stadi avanzati si osservano un’iper--globulinemia policlonale con incremento della frazione IgG, una falsa positività del fenomeno LE e dei test sierologici per la lue, la presenza di fattore reumatoide e di crioglobuline. E. Diagnosi. La diagnosi di lebbra viene posta classificando la forma che si sta osservando, cioè ricercando la congruità tra i vari parametri clinici, batteriologici, istopatologici ed immunologici. Il sospetto diagnostico viene avanzato in presenza di un soggetto con anamnesi positiva per soggiorni o provenienza da area endemica, che presenti all’esame obiettivo lesioni cutanee corrispondenti ai modelli di distribuzione di una delle forme dello spettro. Delle lesioni cutanee dev’essere valutata la distribuzione (monolaterale, bilaterale asimmetrica o simmetrica), la presenza in loro corrispondenza di una perdita di sensibilità (tattile, termica, dolorifica) e di eventuali BAAR: in caso di distribuzione monolaterale o bilaterale asimmetrica, le lesioni devono essere a superficie secca, prive
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di sensibilità e di BAAR; in caso di distribuzione bilaterale simmetrica sono invece lisce al tatto, con sensibilità conservata e più o meno infarcite di BAAR. In assenza di lesioni cutanee, una lebbra deve essere sospettata in base all’interessamento clinico dei nervi più comunemente colpiti da M. leprae: può essere utile in questi casi l’esecuzione di una biopsia di un nervo sensitivo, quale il nervo surale, alla ricerca dei BAAR e degli infiltrati infiammatori. I BAAR vengono ricercati tanto nelle lesioni cutanee quanto nei lobi auricolari, mediante la colorazione di Ziehl-Nielsen degli strisci ottenuti dal materiale prelevato: l’osservazione anche di un solo bacillo consente di classificare il paziente come multibacillare. La ricerca dei BAAR a livello del muco nasale ha invece solo un significato epidemiologico e non è utile ai fini diagnostici. La conta dei bacilli (indice batterico o IB) è importante per la classificazione e, se associata alla loro morfologia, per la valutazione dell’efficacia terapeutica. I bacilli possono infatti presentarsi solidi o frammentati: quelli solidi sono dotati di potere infettante, mentre la frammentazione è un segno di perdita di vitalità e di infettività. L’indice morfologico (IM) esprime la percentuale dei bacilli solidi sui totali osservati: la sua riduzione in corso di terapia è indicativa dell’efficacia del trattamento. L’esame istologico permette di confermare il sospetto diagnostico e rappresenta l’unica modalità di diagnosi della lebbra indeterminata (I), caratterizzata dalla presenza di infiltrati rotondo-cellulari nei fasci neurovascolari e di BAAR a livello nervoso. Nelle differenti forme la tradizionale colorazione all’ematossilina-eosina permette di studiare la tipologia dell’infiltrato, mentre la colorazione di Fite Faraco (Ziehl-Nielsen modificata) mette in evidenza gli eventuali bacilli presenti. L’amplificazione genica con metodica PCR, eseguita su materiale bioptico, consente di dimostrare la presenza di bacilli anche quando presenti in bassa carica: può rappresentare quindi un importante supporto per il “follow-up” del paziente. Viene utilizzata anche per identificare ceppi di M. leprae resistenti ad alcuni dei farmaci comunemente utilizzati, quali la rifampicina. L’intradermoreazione alla lepromina (estratto di M. leprae uccisi con il calore) rappresenta un aiuto per la classificazione della forma di lebbra, mentre ha scarsa utilità diagnostica, in quanto può risultare positiva anche nei soggetti sani. A distanza di 3-4 settimane (test di Mitsuda) si evidenzia un nodulo le cui dimensioni sono proporzionali all’immunità cellulo-mediata del soggetto: raggiunge perciò la massima positività nella forma TT, mentre è negativo nella parte anergica dello spettro. Recentemente sono stati messi a punto anche test sierologici per la valutazione della risposta immunitaria dell’ospite, che si dimostrano utili ai fini diagnostici in casi selezionati: l’evidenziazione di anticorpi anti-PGL-I (un antigene glicolipide di superficie di M. leprae) con metodiche di immunodiffusione ed immunoenzimatiche, dimostra una specificità elevata ed una sensibilità compresa tra il 95% nelle forme lepromatose e il 50% nelle forme tubercoloidi.
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F. Decorso e prognosi. La lebbra è una malattia ad esordio lento ed andamento tipicamente cronico, caratterizzato da fasi di remissione e da periodi di riesacerbazione. In alcuni casi, tuttavia, l’esordio può essere improvviso e in circa il 25% dei malati l’andamento può essere interrotto dalla comparsa di fenomeni acuti, le cosiddette “reazioni leprose” o “leproreazioni”. Sono questi fenomeni infiammatori acuti immunomediati essenzialmente di due tipi che presentano diversa patogenesi e differente espressione clinica. Le “leproreazioni di tipo 1”, note anche come “reazioni borderline” o “reversal”, sono causate da fenomeni di ipersensibilità ritardata mediata da T linfociti: sono espressione di un cambiamento del rapporto tra carica antigenica di M. leprae e immunità cellulo-mediata del paziente e determinano lo spostamento del malato verso il polo TT (reazioni “upgrading”) o verso il polo LL (reazioni “downgrading”) dello spettro. Le reazioni upgrading sono gravate da elevata morbilità, in quanto causano solitamente gravi danni ai nervi periferici; si manifestano clinicamente con algie importanti lungo il decorso e nei territori innervati dai nervi infiammati ed edematosi, e a livello cutaneo con la riaccensione infiammatoria di vecchie lesioni che diventano eritematonodose e con la comparsa di nuove lesioni con analoghe caratteristiche. Le “leproreazioni di tipo 2”, conosciute anche come “eritema nodoso leproso” (ENL), sono dovute invece a vasculiti da immunocomplessi circolanti. Si presentano nei pazienti affetti da lebbra multibacillare (con una prevalenza del 50% nelle forme LL e del 25% nelle BL) con la comparsa di noduli duri e dolenti, che tendono a formare larghe placche infiltrate, a localizzazione principale lungo la faccia estensoria degli arti superiori e delle cosce, al dorso e al volto. Insorgono rapidamente e persistono alcuni giorni fino a 1-2 settimane, accompagnati da febbre, malessere generale, leucocitosi e proteinuria. Oltre alla cute possono essere interessati anche altri distretti corporei, con la comparsa di linfoadeniti, artriti, glomerulonefrite, iridociclite (particolarmente pericolosa per l’eventuale sviluppo di un glaucoma secondario e la successiva cecità), nevriti e orchiepididimite (possibile causa di sterilità). Una variante dell’ENL, il cosiddetto “fenomeno di Lucio”, viene considerata un’entità clinica distinta, in quanto si presenta solo nei pazienti latino-americani affetti da lebbra lepromatosa: da un punto di vista istologico si caratterizza per la presenza di una grave vasculite necrotizzante responsabile della formazione di infarti dermici; sul versante clinico si manifesta con ulcere cutanee irregolari e con il rischio di sepsi che si possono rivelare fatali. La prognosi, pur nell’andamento spesso lunghissimo della malattia, è legata alla forma di lebbra e dipende in buona parte dalla precocità della diagnosi e dall’adeguatezza del trattamento. È in genere migliore nella forma tubercoloide, anche se a distanza di tempo dopo la guarigione clinica, successiva all’antibioticoterapia, si può evidenziare un’estensione del danno neurologico. Nella forma lepromatosa possono invece stabilirsi più facilmente gravi sequele (mutilazioni, cecità), forte-
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mente invalidanti e più scarsamente responsive al trattamento, che possono pesantemente influire tanto sulla qualità che sulla durata della vita. G. Terapia. Inizialmente trattata con i sulfoni in monoterapia, anche la lebbra come le altre micobatteriosi ha beneficiato negli ultimi decenni dell’utilizzo della polichemioterapia. Nel 1982 l’OMS ha introdotto due schemi polichemioterapici differenti: uno per i malati paucibacillari, con le forme I, TT e in parte BT dello spettro; l’altro per i malati multibacillari, che corrispondono alle forme LL, BL, BB e parzialmente BT. Per le forme paucibacillari è raccomandato un trattamento giornaliero con sulfone (DDS) e mensile con rifampicina per almeno 6 mesi. Per le forme multibacillari lo schema consigliato comprende l’assunzione giornaliera di DDS e clofazimina, cui si associa un’assunzione mensile supervisionata di rifampicina e clofazimina; la durata di questa terapia, inizialmente fissata dall’OMS in 2 anni, è stata recentemente ridotta ad una sola annualità. Negli ultimi anni sono stati sperimentati nuovi farmaci antimicobatterici, quali l’ofloxacina, la claritromicina e la minociclina, che si sono dimostrati capaci di sterilizzare in breve tempo le lesioni nella quasi totalità dei casi: questo ha permesso di sperimentare nuovi schemi rapidi di trattamento, che hanno recentemente portato l’OMS ad introdurre un nuovo schema detto ROM (rifampicina, ofloxacina e minociclina in unica somministrazione) per la cura della lebbra con singola lesione cutanea, indipendentemente dalla presenza o meno di bacilli. Le osservazioni di molti studiosi sembrano però raffreddare i facili ottimismi e dimostrare l’inefficacia a lungo tempo tanto di questi trattamenti rapidi quanto degli schemi più prolungati, portando a mettere in dubbio la stessa possibilità di eradicazione di M. leprae e non solo nei soggetti anergici. Accanto alla terapia farmacologica, in un numero di casi non trascurabili, raggruppati soprattutto verso il polo anergico dello spettro, si rende spesso inevitabile l’approccio chirurgico e neurochirurgico, per far fronte alle complicanze provocate in buona parte dalla disseminazione dei bacilli. Nelle leproreazioni di tipo 1 è necessaria la somministrazione di corticosteroidi per os, da prolungarsi per alcuni mesi con riduzione a scalare dopo l’evento acuto; nei casi con più esteso ed importante interessamento nervoso si deve ricorrere ad interventi neurochirurgici di neurolisi. Nelle leproreazioni di tipo 2 (ELN e fenomeno di Lucio) viene utilizzata la talidomide o in alternativa i corticosteroidi per os a dosaggio elevato. H. Profilassi. Si basa sulla somministrazione di sulfoni per almeno un anno ai contatti stretti dei malati: dopo l’inizio dell’antibioticoterapia non è comunque necessario che i pazienti vengano isolati, come per tanto tempo è avvenuto anche dopo l’introduzione della polichemioterapia, con effetti fortemente stigmatizzanti per i malati. Le ricerche per l’allestimento di un vaccino efficace non hanno ancora prodotto risultati significativi: i pre-
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parati che si dimostrano attualmente più attivi sembrano quelli costituiti dall’associazione di BCG viventi con bacilli di M. leprae uccisi al calore.
SIFILIDE La sifilide è una malattia sistemica complessa dalle manifestazioni cliniche proteiformi causata dalla spirocheta Treponema pallidum; l’infezione viene trasmessa per via sessuale oppure dalla madre al feto durante la gestazione (sifilide congenita). La storia naturale della sifilide viene arbitrariamente suddivisa in un periodo di incubazione della durata di circa 3 settimane, uno stadio primario caratterizzato da una lesione indolente cutanea o mucosa (sifiloma primario), uno stadio secondario caratterizzato da disseminazione batteriemica, linfoadenopatia generalizzata e lesioni muco-cutanee diffuse, una fase di latenza e in una minoranza di casi uno stadio terziario con coinvolgimento teorico di tutti gli organi e apparati, più spesso del sistema nervoso centrale e periferico e dell’aorta ascendente. L’origine della sifilide in Europa resta una delle controversie più affascinanti nella storia della medicina, legata inizialmente alla mancanza di documentazione sulla malattia antecedente il XV secolo; di qui l’ipotesi, mai dimostrata, che la malattia sia stata importata in Europa in seguito alla prima colonizzazione delle Americhe. Per altro fino alla fine del 1800 venivano indicate con l’acronimo lues venereum (malattia o piaga venerea) tutte le infezioni trasmesse per via sessuale, inclusa la gonorrea. L’importante diffusione della malattia nei decenni della prima rivoluzione industriale rese la sifilide, insieme alla tubercolosi, un’importante causa di morbosità e di letalità nelle popolazioni di recente inurbazione, arrivando a lasciare più di un segno nella società e nella cultura del secondo Ottocento. A. Eziologia e patogenesi. Treponema pallidum appartiene alla famiglia delle Spirochaetaceae, comprendente almeno altri due importanti patogeni umani, Borrelia e Leptospira. T. pallidum è un bacillo spiraliforme, provvisto di tre brevi filamenti ad ogni estremità, responsabili della caratteristica mobilità del germe. Il genoma batterico, costituito da circa 1.200.000 paia di basi, codifica per circa 12 possibili fattori di virulenza (proteine di membrana) e numerose emolisine, per ora assai poco caratterizzate. T. pallidum è dotato di scarsa resistenza ambientale e, contrariamente ad altre spirochete, non è coltivabile in vitro, potendo essere isolato solo dall’animale (coniglio). La porta d’ingresso del germe è la cute abrasa o le mucose anche integre; poche ore o pochi giorni dopo il contagio il microrganismo penetra nel torrente circolatorio e/o linfatico disseminandosi praticamente ovunque. Il germe si replica in 30-33 ore e la dose minima infettante sembra essere piuttosto bassa. La patogenesi della malattia con particolare riguardo ai meccanismi della risposta immunitaria e del determinismo delle di-
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verse fasi resta ancora in buona parte poco chiara. Sembra comunque importante per la diffusione dell’infezione la motilità del germe, forse parzialmente attivata in risposta a stimoli chemotattici. Resta comunque evidente che in presenza delle principali condizioni determinanti deficit dell’immunità cellulo-mediata (per es., infezione da HIV e denutrizione cronica) il decorso della malattia è di solito più severo (incidenza e gravità delle complicanze e delle manifestazioni tardive). Nel sifiloma primario si possono osservare polimorfonucleati e macrofagi contenenti treponemi fagocitati. Tuttavia la lesione istopatologica più caratteristica della sifilide, presente in tutti gli stadi della malattia, è l’endoarterite obliterante dei vasa vasorum e dei piccoli vasi, con ispessimento della parete endoteliale e accumulo di fibroblasti. T. pallidum può essere osservato nelle lesioni dei vasi con le colorazioni specifiche. La gomma luetica è una lesione non granulomatosa costituita da un’area centrale amorfa e necrotica circondata da un intenso infiltrato plasmacellulare e da foci di endoarterite obliterante; più frequente nella sifilide terziaria, la gomma luetica si può manifestare ovunque. B. Epidemiologia. La sifilide si contrae per contatto sessuale o per via transplacentare, molto raramente da trasfusioni di sangue infetto o per inoculo accidentale di materiale infetto. Lo stadio primario è il più contagioso; in questo caso la malattia si contrae dopo un contatto cutaneo o mucoso con un sifiloma, situato di solito in corrispondenza dei genitali, delle labbra, del cavo orale, della regione anale o perineale. La sifilide congenita si può contrarre in utero oppure, più di rado, durante il passaggio nel canale del parto. La trasmissione in corso di emotrasfusione è eccezionale nei paesi dove i donatori vengono controllati con il test VDRL. La maggior parte dei casi di sifilide si verifica nelle fasce di età più sessualmente attive (15-30 anni); l’incidenza della malattia nei paesi industrializzati è crollata dopo il 1940, ed in effetti nessun’altra infezione è stata probabilmente altrettanto influenzata dalla scoperta della penicillina. Negli ultimi 15 anni si è osservato il primo cospicuo aumento dell’incidenza annua della sifilide, parallelo alla diffusione dell’epidemia di infezione da HIV e con caratteristiche epidemiologiche in buona parte sovrapponibili (popolazioni sessualmente molto attive, tossicodipendenti). C. Clinica. Gli studi sulla storia naturale della sifilide risalgono all’era preantibiotica, con l’eccezione del tristemente famoso studio di Tuskegee, terminato nel 1962, nel quale 431 uomini di colore affetti da sifilide vennero lasciati senza terapia al fine di valutare l’incidenza delle complicanze tardive della malattia; sembra comunque che sia la sifilide secondaria che la sifilide terziaria si manifestino nel 25% circa dei pazienti non trattati, le gomme luetiche nel 16% dei casi, la sifilide cardiovascolare nel 10% e le complicanze neurologiche nel 6-7% circa dei pazienti: le lesioni risultano molto più frequenti nelle serie autoptiche, in particolar modo quelle cardiovascolari.
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1. Sifilide primaria. Il classico sifiloma primario esordisce nel punto di inoculo come papula singola indolente, dopo un periodo di incubazione medio di 3 settimane; la lesione si indurisce dopo poco e compare erosione della superficie: i bordi sono rilevati, di consistenza quasi cartilaginea. Sono possibili le lesioni multiple (più comuni negli HIV positivi); la sovrainfezione del sifiloma, non rara, provoca dolore. Al sifiloma si accompagna la linfoadenopatia locoregionale, i linfonodi sono moderatamente ingranditi, di consistenza duroelastica, indolenti e mobili. Le varianti morfologiche possibili del sifiloma così descritto sono numerose e non rare, sicché ogni lesione genitale dovrebbe indurre il sospetto di sifilide e dovrebbero essere effettuati test diagnostici. Il sifiloma guarisce spontaneamente in 3-6 settimane, residuando solo, e non sempre, un’area di cute o mucosa lievemente pigmentata e atrofica. La linfoadenopatia distrettuale invece può persistere per mesi o anni. La diagnosi differenziale del sifiloma si pone essenzialmente con l’herpes genitale, la condilomatosi genitale e le lesioni genitali traumatiche sovrainfette; nelle aree endemiche anche con l’ulcera molle, il linfogranuloma venereo, la tularemia, l’antrace cutaneo, la tubercolosi. 2. Sifilide secondaria. La sifilide secondaria risulta dalla moltiplicazione delle spirochete e dalla disseminazione dell’infezione; inizia da 2 a 8 settimane in media dopo la comparsa del sifiloma, che può essere ancora visibile. Le manifestazioni cliniche della sifilide secondaria sono estremamente varie. La cute è interessata nel 90% dei pazienti, presentando più spesso lesioni multiple maculo-papulose o pustolose (sifilodermi), del diametro inferiore al centimetro, non pruriginose e lievemente infiltrate, che possono interessare qualunque zona cutanea, iniziando spesso a livello del tronco e della radice degli arti. Le lesioni, che sono contagiose, progrediscono da maculo a papulose e, talvolta, a pustolose o necrotiche, parallelamente al grado di endoarterite e vasculite del derma. Sono tipicamente assenti le lesioni vescicolari. L’esantema è comunemente non sincrono e la localizzazione palmo-plantare è quasi patognomonica di sifilide secondaria. La localizzazione ai follicoli piliferi determina aree di alopecia e la perdita o l’assottigliamento delle sopracciglia e della barba (il “segno dell’omnibus” dei vecchi clinici). Le lesioni mucose, assai contagiose, sono costituite da aree di erosione superficiale della mucosa, di colorito grigio argenteo, circondate da un alone rossastro, indolenti se non sovrainfettate. I sintomi costituzionali sono presenti nel 70% dei pazienti, comprendendo più spesso febbricola persistente, anoressia e calo ponderale, astenia, artralgie e linfoadenopatia superficiale diffusa; la linfoadenopatia epitrocleare è molto caratteristica. L’interessamento clinico del sistema nervoso centrale si ha nel 40% dei pazienti, di solito con cefalea, segni sfumati di meningismo, linfocitosi e iperprotidorrachia all’esame del liquido cefalorachidiano. Rara la meningite acuta a liquor limpido. Ogni altro organo o apparato può essere interessato; tra le forme cliniche meno rare ricordiamo il coinvolgimento renale (glomerulonefrite
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da immunocomplessi, sindrome nefrosica), epatico, oculare (uveite) e dell’apparato locomotore (sinoviti, osteiti). 3. Sifilide latente. È la fase della sifilide nella quale i test sierologici specifici risultano positivi in assenza tuttavia di segni di malattia (particolarmente a livello della cute e del sistema nervoso); è comune un’anamnesi positiva per sifilide primaria e/o secondaria o di sifilide congenita. Si usa definire sifilide latente precoce il periodo di 4 anni circa in cui si possono manifestare le recidive di lue secondaria (il 90% delle quali si hanno comunque nel primo anno) e sifilide latente tardiva la fase successiva caratterizzata dallo sviluppo di un’efficace risposta immunitaria e dunque dall’assenza delle recidive di malattia. 4. Sifilide terziaria. La sifilide terziaria è un’affezione a lenta progressione che può interessare qualunque organo o apparato, spesso molti anni dopo l’infezione primaria. Le forme cliniche più frequenti sono la neurosifilide, la sifilide cardiovascolare e la sifilide benigna tarda, caratterizzata dalla presenza delle gomme. Le gomme luetiche sono lesioni similgranulomatose non specifiche, tipiche della sifilide terziaria, oggi di raro riscontro; la loro importanza clinica risiede nella capacità di provocare distruzione dei tessuti circostanti, più frequentemente a carico delle strutture osteocartilagenee del cranio (palato, setto nasale). La neurosifilide è fondamentalmente una meningite cronica che può interessare qualunque porzione del sistema nervoso centrale; l’infezione può essere asintomatica e come tale diagnosticata in presenza di anomalie chimico-fisiche del liquido cerebrospinale (elevazione delle proteine, linfocitosi, ipoglicorrachia) oltreché di una VDRL positiva nel liquor. L’incidenza della neurosifilide asintomatica in pazienti non trattati varia molto (dall’8 al 40%) a seconda degli studi effettuati; la percentuale di pazienti destinata a sviluppare neurosifilide sintomatica è sconosciuta. Lo spettro di quadri clinici in corso di neurosifilide è incredibilmente vario; esistono tuttavia due categorie clinicopatologiche principali dalle quali dipendono la gran parte delle forme cliniche osservate, spesso comunque ampiamente sovrapposte tra di loro: la sifilide meningovascolare e la sifilide parenchimatosa. La forma meningovascolare è l’espressione della tipica endoarterite obliterante, che esita in multiple aree infartuali dall’estensione variabile, responsabili a loro volta dei deficit neurologici più frequenti, come emiplegia o emiparesi, afasia, epilessia. Nella sifilide parenchimatosa predomina l’aspetto degenerativo su quello infiammatorio, con estesa distruzione neuronale, soprattutto della corteccia cerebrale. I quadri clinici più frequenti e caratteristici, la paresi generalizzata (o paralisi progressiva) e la tabe dorsale, risultano dalla combinazione di manifestazioni psichiatriche e di segni neurologici. Si può avere quindi labilità emotiva, depressione, delirio e allucinazioni, deterioramento cognitivo; la tabe dorsale è legata alla demielinizzazione delle colonne posteriori, delle radici e dei gangli dorsali del midollo spinale e provoca pare-
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stesie, atassia, accessi dolorosi improvvisi e folgoranti, disturbi sfinterici e perdita della sensibilità tattile profonda. I disturbi oculari sono comuni; è caratteristica la pupilla di Argyll-Robertson, miotica e irregolare, reagente all’accomodazione ma non alla luce; non rare l’atrofia del nervo ottico con perdita progressiva della visione e la ptosi del bulbo oculare. Tutti i nervi cranici possono peraltro essere interessati, più spesso il VII e l’VIII, con comparsa di facies amimica, acufeni, ipoacusia e sordità monolaterale. Tutte le malattie degenerative del sistema nervoso centrale entrano in diagnosi differenziale con la neurosifilide; ricordiamo le demenze, la sclerosi multipla, l’alcolismo cronico, le sindromi extrapiramidali, tutte le vasculopatie cerebrali acute o croniche. La sifilide cardiovascolare è la conseguenza dell’endoarterite obliterante, già descritta; la forma clinica più diffusa è l’aortite, caratterizzata dalla formazione di un aneurisma fusiforme. È più spesso coinvolta l’aorta ascendente, con insufficienza della valvola aortica e stenosi coronarica. L’aortite luetica si ha nell’80% dei pazienti affetti da neurosifilide e nel 10% circa dei pazienti sifilitici non trattati. Altre arterie possono essere coinvolte, tra cui l’arteria temporale. Il coinvolgimento epatico può condurre ad insufficienza d’organo e cirrosi (hepar lobatum sifiliticum). 5. La sifilide congenita. L’infezione del feto è più probabile nei primi stadi della sifilide ed è comunque rara prima della 16a settimana di gestazione; se l’infezione è trasmessa si può avere morte neonatale, sifilide congenita precoce o infezione latente o tarda. Il quadro clinico è variabile e spesso asintomatico; nella forma precoce è frequente l’interessamento cutaneo-mucoso e delle ossa, con esantema vescicolo-bolloso, rinite cronica essudativa (il muco nasale è spesso ricco di treponemi), periostiti e osteocondriti. La forma tarda si verifica nel bambino sopravvissuto alla forma precoce; è caratteristica la cheratite interstiziale, si può avere neurosifilide sintomatica o asintomatica, sovrapponibile clinicamente alle forme osservate nell’adulto. Le cosiddette stigmate sifilitiche, esito di lesioni precoci, comprendono tra l’altro le aortopatie ricorrenti e il dente di Hutchinson (incisivi superiori con bordo libero incavato a forma di mezzaluna). Sottolineiamo infine che, data l’innocuità della penicillina anche nel neonato, tutti i neonati da madre sicuramente sifilitica dovrebbero essere adeguatamente trattati, indipendentemente dal quadro clinico alla nascita. D. Diagnosi. Nella sifilide primaria, secondaria e congenita precoce il mezzo diagnostico più rapido e diretto consiste nell’esame microscopico degli essudati sierosi ottenuto da una lesione muco-cutanea; le lesioni non secernenti possono essere iniettate con una piccola quantità di soluzione fisiologica per ottenere i treponemi. I preparati biologici vanno osservati al microscopio in campo oscuro o in contrasto di fase. Treponema pallidum appare con la tipica forma di vite sottile e con i caratteristici movimenti ondulanti nella zona mediana.
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I test sierologici per la diagnosi di sifilide costituiscono una classica fonte di confusione ed errore di interpretazione della medicina non specialistica; la spiegazione sta nella diversa tipologia dei test impiegati, che ricercano: • anticorpi non specifici, definiti impropriamente reaginici (VDRL o RPR), utili per lo screening e che indicano principalmente infezione attiva, non guarita o inadeguatamente curata; • anticorpi specifici, che possono indicare infezione attiva o pregressa. Il test VDRL o la sua variante rapida detta RPR (Rapid Plasma Reagin) ricerca anticorpi di classe IgG ed IgM che inducono flocculazione del plasma in presenza di cardiolipina. È noto che le false positività della VDRL non sono rare, specie in corso di infezioni virali e batteriche, di connettiviti sistemiche e nei soggetti HIV positivi quale epifenomeno della attivazione policlonale di B linfociti. La VDRL e la RPR sono specialmente utili per valutare l’efficacia della terapia, dovendosi negativizzare entro un anno dalla terapia del sifiloma primario ed entro 2 anni dalla terapia della sifilide secondaria. Un test RPR ancora positivo dopo tale periodo può significare reinfezione, infezione persistente o falsa positività. I test più spesso impiegati per la ricerca di anticorpi specifici anti-Treponema sono il TPHA (Treponema pallidum Haemoagglutination Assay) e il FTA-abs (Fluorescent Antibody absorbed test). Il FTA è un test in immunofluorescenza indiretta, difficile da standardizzare e da quantificare; dopo la sieroconversione il FTA-abs rimane positivo per tutta la vita, eccetto che in una minoranza di pazienti (circa il 10%, più spesso HIV positivi), nei quali si può negativizzare in seguito a terapia precoce. Il significato d’uso del FTA-abs sta pressoché esclusivamente nella conferma di specificità dei pazienti riscontrati VDRL o RPR positivi. Il TPHA è sovrapponibile nell’uso pratico al FTA-abs, rispetto al quale è di esecuzione più semplice ma presenta una minore sensibilità nelle fasi precoci della malattia. Molto recentemente sono stati effettuati studi per la ricerca di anticorpi specifici con metodica ELISA, con valori di sensibilità e specificità molto elevati: tale metodica potrebbe almeno parzialmente sostituire i test TPHA e FTA-abs nel prossimo futuro. Il Treponemal Immobilization test (TPI) valuta la capacità di anticorpi specifici e complemento di immobilizzare in vitro i treponemi; è il test di riferimento sul quale vengono standardizzate le comuni analisi sierologiche per la sifilide e viene eseguito solo in pochi laboratori di riferimento, richiedendo tra l’altro l’uso di treponemi vivi. I quadri sierologici più frequenti sono schematicamente i seguenti: • RPR positiva e TPHA positiva: il paziente ha la sifilide (in qualunque stadio). Se il paziente è idoneamente curato il test RPR si deve negativizzare. Se ciò non avviene si hanno tre possibilita: reinfezione, infezione persistente, falsa positività.
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• RPR positiva e TPHA negativa: alta probabilità di test falsamente positivo, non sono comunque rare le false negatività della TPHA in pazienti HIV positivi. • RPR negativa e TPHA positiva: sifilide pregressa, idoneamente curata. La diagnosi di neurosifilide nel liquor cefalorachidiano si basa sulla positività della RPR (specifica ma non molto sensibile), sull’evidenza della sintesi intratecale di anticorpi anti-Treponema (TPHA) e soprattutto sulla positività della PCR per il DNA di T. pallidum, con i vantaggi e i noti limiti della metodica. Come già accennato i test di screening per la lue (VDRL e RPR) sono afflitti da una percentuale di false positività piuttosto elevata; in questi casi ricordiamo che il primo criterio che orienta verso la falsa positività è la negatività dei test specifici (TPHA o FTA-abs) sullo stesso campione di siero. Le false positività per RPR o VDRL si possono avere in concomitanza ad altre malattie infettive o di malattie non infettive. Tra le prime citiamo la borreliosi, la leptospirosi, la lebbra, la tubercolosi, la scarlattina, la rickettsiosi e la malaria; tra le seconde la tossicodipendenza, le vaccinazioni, tutte le connettiviti sistemiche. Riassumendo, quindi, i test reaginici (VDRL e RPR) si usano per lo screening di massa e per la verifica dell’efficacia di una terapia antisifilitica, mentre la ricerca degli anticorpi specifici (TPHA o FTA-abs) trova la ragione d’uso per la conferma della diagnosi nei casi riscontrati RPR o VDRL positivi. F. Terapia. Il farmaco di prima scelta per la terapia della sifilide in tutti gli stadi è notoriamente la penicillina; tuttavia, paradossalmente, non esistono studi controllati che sanciscano in maniera definitiva la posologia del farmaco e la durata del trattamento, almeno per la maggior parte dei pazienti. Accade così che le linee guida terapeutiche possano variare, anche consistentemente, a seconda dei vari paesi e delle diverse scuole di venereologia. Le attuali linee guida americane sono le seguenti: • sifilide primaria e sifilide secondaria: penicillina G benzatina, 2,4 milioni di UI im una volta alla settimana per 2 o 3 somministrazioni; • sifilide terziaria e/o neurosifilide e sifilide in qualunque stadio nei pazienti HIV positivi: penicillina G, 2 o 4 milioni di UI ev ogni 6 ore per 10 giorni. Nei pazienti allergici alla penicillina esistono valide alternative terapeutiche (doxiciclina in primis, alternativamente eritromicina, cloramfenicolo, ceftriaxone). Non è raro comunque che la sifilide venga curata inavvertitamente con antibiotici utilizzati contro altre infezioni, eventualmente più appariscenti, per esempio la gonorrea; è da notare inoltre che non vi è ad oggi evidenza di una diminuita efficacia della penicillina contro la sifilide. Infine, talvolta si può avere la reazione di Jarisch-Herxeimer, più frequente in casi di sifilide secondaria, una reazione sistemica che si manifesta 2 ore circa dall’inizio della terapia con penicillina, caratterizzata da insorgenza di febbre con brivido, cefalea, mialgia, tachicardia, tachipnea ed ipotensione,
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vasodilatazione cutanea con arrossamento. Il fenomeno è di gravità variabile e la sua patogenesi non è nota; nei casi severi è spesso indicata la terapia di supporto con corticosteroidi.
LEPTOSPIROSI A. Eziologia. Le leptospire sono delle spirochete mobili ad estremità uncinate, a simmetria spiraloide. Attualmente il genere Leptospira comprende due specie: Leptospira biflexa, che è saprofita, e Leptospira interrogans, patogena. Di quest’ultima sono stati descritti sulla base di pannelli antigenici conservati almeno 200 diversi sierotipi; in generale, comunque, la tassonomia delle leptospire è in rapida evoluzione, specie dopo l’utilizzo delle metodiche di biologia molecolare che ne facilitano la tipizzazione. B. Epidemiologia e patogenesi. L’infezione da L. interrogans è particolarmente diffusa ai Tropici, ma risulta tuttavia endemica quasi ovunque; alcuni studi sieroepidemiologici hanno confermato che si tratta di un’infezione assai più comune di quanto ipotizzato. I roditori costituiscono il più importante serbatoio animale delle leptospire; per esempio, è stata stimata una percentuale di topi infetti, di regola asintomatici, superiore al 50% in una nazione evoluta come la Norvegia. La trasmissione dell’infezione all’uomo avviene di solito tramite il contatto con acqua contaminata dalle urine infette dei roditori. Le condizioni favorenti l’insorgenza di focolai epidemici sono il sovraffollamento in aree urbane a basso tenore igienico in situazioni climatiche particolari (quale la stagione delle piogge nelle metropoli asiatiche). La malattia sembra comunque in espansione anche in aree urbane europee ed americane, dove la popolazione dei roditori è in aumento. La patogenesi della leptospirosi è in buona parte sconosciuta; vi è una significativa assenza di lesioni istopatologiche significative a livello renale ed epatico nei pazienti con insufficienza funzionale, anche grave, di questi organi. Ciò fa supporre un danno a livello subcellulare, tuttavia non è ancora stata identificata con certezza una sostanza ad attività endotossinica della Leptospira. Si sono osservati unicamente elevati livelli di TNF- correlati a casi con più severo danno d’organo. C. Clinica. La leptospirosi asintomatica è comune in aree endemiche e nelle popolazioni ad elevato rischio di esposizione, nelle quali le indagini sieroepidemiologiche hanno dimostrato una sieroprevalenza per anticorpi specifici prossima al 15%. L’infezione sintomatica si presenta in forma lieve nel 90% circa dei pazienti mentre nel 5-10% dei casi si ha la leptospirosi itterica severa (morbo di Weil). La malattia ha spesso un decorso bifasico. Dopo un periodo di incubazione medio di 7-12 giorni si ha la prima fase, batteriemica, della durata di 4-7 giorni, caratterizzata da febbre, mialgie severe, cefalea, talvolta dolori addominali e vomito; in
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questa fase la Leptospira è coltivabile dal sangue e dal liquido cerebrospinale. Dopo un breve periodo di defervescenza esordisce la cosiddetta fase immune della malattia, riconoscibile dalla comparsa nel siero di anticorpi specifici. La malattia in questa fase (della durata media da 7 a 30 giorni) si accompagna ad una rimarchevole varietà di manifestazioni cliniche; il sintomo più importante e più frequente è la cefalea, presente nel 98% dei pazienti, espressione di interessamento meningeo: il liquido cerebrospinale è limpido, talvolta normoteso, e presenta linfocitosi (in media 500-1000 cellule/ml) e iperproteinorrachia. La febbre è di regola presente, anche se meno elevata che nella prima fase della malattia; si associano spesso brividi, mialgie, nausea e dolori addominali diffusi, congiuntivite, eritrodermia, splenomegalia e linfoadenopatia superficiale diffusa. Le leptospire possono persistere per mesi nell’umor acqueo, potendo provocare uveiti croniche o ricorrenti. La leptospirosi anitterica ha prognosi favorevole nella maggior parte dei pazienti, anche non trattati. La forma grave dell’infezione è la leptospirosi itterica (morbo di Weil); associata inizialmente a L. icterohaemorrhagiae può essere in realtà provocata da qualunque sierotipo del germe patogeno per l’uomo. Si tratta di una forma clinica con un tasso di letalità compreso tra il 5 e il 10%, caratterizzata da ittero, insufficienza renale acuta e manifestazioni emorragiche. In una percentuale non trascurabile di pazienti il quadro clinico risulta variabile, essendo dominato a seconda dei casi da segni di insufficienza renale, epatica o respiratoria; quest’ultima può essere dovuta a polmonite infiltrativa nodulare diffusa con emorragia intralveolare e danno alveolare: frequente in questi casi l’emottisi. Nella maggior parte dei pazienti, comunque, l’insufficienza epatica non è grave; la coagulazione intravascolare disseminata è variamente presente in almeno il 50% dei pazienti ed è strettamente legata al manifestarsi di necrosi tubulare renale ed oligoanuria. D. Diagnosi. Importanti per la diagnosi sono le informazioni epidemiologiche (soggiorno in aree endemiche, contatti con acque possibilmente contaminate). I casi asintomatici o paucisintomatici di regola sfuggono alla diagnosi. Nei pazienti provenienti dai Tropici con insufficienza epatica e renale la diagnosi differenziale si pone con l’epatite virale, la malaria, la febbre tifoide, il dengue e l’infezione da hantavirus. In questi casi la diagnosi può essere confermata mediante la ricerca di anticorpi specifici di classe IgG e IgM nel siero con metodica immunoenzimatica; la specificità del test può essere confermata tramite immunoblotting. Le leptospire sono abbastanza facilmente coltivabili in terreni specifici dal sangue e da altri liquidi biologici, tra cui il liquido cefalorachidiano e le urine. Infine, le leptospire possono essere dimostrate precocemente nei campioni biologici tramite amplificazione genica (PCR). E. Terapia e profilassi. Tutti i pazienti con insufficienza epato-renale severa dovrebbero ricevere adeguato supporto in terapia intensiva, al fine soprattutto di mantenere un’adeguata perfusione renale. Numerosi
antibiotici sono attivi contro Leptospira interrogans. Il farmaco di prima scelta per tutte le forme gravi e complicate è la penicillina G per via endovenosa ad elevato dosaggio. Una valida alternativa per le forme lievi è la doxiciclina; questo farmaco può essere anche impiegato come profilassi per chi si dovesse esporre ad elevato rischio di infezione in un breve lasso di tempo, per esempio i lavoratori stagionali o i militari. La leptospirosi conferisce immunità specifica per sierotipo, sono pertanto possibili reinfezioni da sierotipi diversi. Non esiste a tutt’oggi un vaccino efficace e sicuro contro tale infezione.
BORRELIOSI DI LYME È un’infezione causata dalla spirocheta Borrelia burgdorferi, trasmessa dal morso, di solito asintomatico, di zecche del genere Ixodes. A. Eziologia. B. burgdorferi è una spirocheta appartenente alla famiglia delle Treponemataceae, ordine Spirochetales. È un bacillo spiraloide, microaerofilo, flagellato, che possiede antigeni propri e altri in comune con le altre spirochete. Può essere isolato in alcuni terreni (Kelly modificato). B. Epidemiologia. B. burgdorferi viene trasmessa con la puntura di zecche del genere Ixodes: I. scapularis o I. pacificus (USA), I. persulcatus (Asia), I. ricinus (Europa). Le zecche hanno un ciclo vitale di circa 2 anni che si svolge in tre fasi: larva, ninfa, insetto adulto. Per lo sviluppo richiedono periodici pasti ematici da un ospite vertebrato: i roditori per le ninfe, i mammiferi di media e grossa taglia (soprattutto i cervi) per gli adulti. Il serbatoio animale è comunque piuttosto vasto, comprendendo anche uccelli ed animali domestici (cani, gatti e cavalli); l’uomo, come il cane e il cavallo, viene punto occasionalmente. La trasmissione dell’infezione si verifica durante il pasto ematico, per rigurgito del contenuto intestinale della zecca o per iniezione della saliva contaminata. La borreliosi di Lyme è endemica in Nord America, in Australia, nelle regioni settentrionali dell’Asia e in gran parte dell’Europa (Gran Bretagna, Svezia, Francia, ex URSS ed altri paesi, tra cui l’Italia). Le indagini sieroepidemiologiche recenti hanno dimostrato una prevalenza di anticorpi specifici nella popolazione sana compresa tra il 4% e l’8%, con un incremento, non trascurabile, dei casi osservati ogni anno. Mancano ancora a tutt’oggi delle indagini epidemiologiche su larga scala che consentano di definire con sufficiente precisione la circolazione dell’infezione in Europa. In Italia l’infezione è stata descritta per la prima volta in Liguria nel 1984, è stata dimostrata una sieroprevalenza nella popolazione generale del 2,4% in Sicilia e del 4% nella provincia di Bologna, tuttavia sembra prevalentemente confinata nelle regioni del nord-est.
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In generale, sono a rischio aumentato di borreliosi di Lyme le popolazioni rurali e quelle che per qualsivoglia motivo soggiornano in campagna o nei boschi (campeggiatori, cacciatori e pescatori). C. Patogenesi. Dopo la penetrazione nella cute le spirochete possono provocare lesioni caratteristiche a questo livello oppure si disseminano a distanza per via ematica, potendo essere isolate da una varietà di organi e tessuti (oltre alla cute da sangue, liquor, miocardio, membrane sinoviali e liquido sinoviale e altri). B. burgdorferi ha probabilmente la capacità, comune ad altre spirochete patogene per l’uomo, di persistere per lungo tempo nei tessuti. La lesione cutanea è espressione di infezione circoscritta mentre nei sintomi sistemici di infezione disseminata giocano probabilmente un ruolo le citochine infiammatorie (interleuchina-1) rilasciate dai macrofagi in seguito a stimolo da parte dei LPS batterici. I sintomi neurologici sono probabilmente dovuti ad infezione del sistema nervoso centrale mentre parte dei sintomi tardivi della malattia riconoscono forse un meccanismo autoimmunitario. D. Clinica. Una varietà di manifestazioni cliniche è stata riferita in passato alla borreliosi di Lyme; con il progredire delle conoscenze si è osservato che la malattia si presenta nella maggior parte dei casi con alcune forme cliniche peculiari; caratteristica della malattia è la tendenza a manifestare complicanze a medio e a lungo termine, che ne consentono secondo alcuni la suddivisione in stadi clinici. 1. Eritema cronico migrante. È la manifestazione clinica più caratteristica della borreliosi di Lyme, essendo presente nel 90% circa dei pazienti; la lesione esordisce come una papula rossa in prossimità di un morso di zecca, verificatosi circa una settimana prima, ed aumenta di dimensioni nell’arco di qualche giorno; lo sbiancamento centrale è caratteristico ma non sempre presente. I sintomi di accompagnamento più frequenti, presenti nella metà circa dei pazienti, sono l’astenia, le artromialgie, la cefalea e la febbre. La lesione dev’essere distinta soprattutto dalle punture di insetto, dalle celluliti e dalle comuni dermatiti micotiche e batteriche. 2. Cardite. La malattia cardiaca è una complicanza di solito tardiva (settimane o mesi dopo l’infezione) che si manifesta nel 5-10% dei pazienti; si tratta quasi sempre di gradi variabili di blocco atrioventricolare, associati qualche volta a palpitazione e dispnea, più di rado a miocardio-pericardite. L’evoluzione è di solito favorevole nell’arco di qualche settimana. 3. Malattia neurologica. Il coinvolgimento neurologico si verifica nel 10% circa dei pazienti ed è forse più frequente in Europa. La forma clinica più comune è la meningite a liquor limpido (spesso si accompagna all’eritema migrante), che può essere associata a neurite dei nervi cranici e a radicolopatia (sindrome di GarinBoujadoux-Bannwarth). L’esame del liquido cerebro-
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Tabella 81.2 - Complicanze neurologiche della borreliosi di Lyme. • Interessamento dei nervi cranici: paresi o paralisi del facciale, a volte bilaterale • Meningite: più frequente nel cosiddetto secondo stadio della malattia; sindrome meningea spesso non conclamata, può essere associata a radicolopatia; pleiocitosi liquorale e sintesi intratecale di anticorpi specifici nell’80% circa dei pazienti • Radicolonevrite sensitivo-motoria acuta: forse più comune in Europa, può essere multifocale e/o asimmetrica: pleiocitosi liquorale in quasi tutti i casi • Neuropatia periferica: complicanza tardiva della malattia caratterizzata per lo più da parestesie, espressione di sofferenza assonale • Encefalopatia ed encefalomielite: complicanze tardive della malattia, rare, ad andamento subacuto o cronico, caratterizzate da gradi variabili di deterioramento cognitivo e, talvolta, da lesioni diffuse della sostanza bianca cerebrale. È presente sintesi intratecale di anticorpi specifici; rara la pleiocitosi liquorale; talvolta positiva la PCR
spinale evidenzia pleiocitosi linfoide (in media circa 100 cellule/l) e modesta iperproteinorrachia. Sono descritte anche radicolonevriti, neuropatie periferiche e, quali complicanze tardive, encefalomieliti croniche. Le complicanze neurologiche della malattia sono riassunte in tabella 81.2. 4. Artrite. Questa forma clinica è più diffusa nel continente nordamericano (poco più della metà dei pazienti); l’artrite di Lyme si manifesta nel 90% dei casi entro un anno dall’infezione, presentandosi tipicamente, in assenza di terapia, con attacchi intermittenti di monoartrite migrante o di oligoartrite asimmetrica, della durata media di tre mesi. Le articolazioni più frequentemente colpite sono la temporomandibolare ed il ginocchio; il dolore articolare e l’eritema sono spesso minimi e il liquido sinoviale è solo modestamente infiammatorio. Il germe viene isolato dal liquido sinoviale solo di rado, tuttavia la PCR per il DNA di B. burgdorferi è positiva nell’85% di questi pazienti. 5. Forme cliniche particolari. L’acrodermatite cronica atrofica è una lesione cutanea rosso-bluastra, che si sviluppa lentamente ad un’estremità andando incontro ad atrofia dopo qualche mese; è associata a neuropatia periferica in un terzo circa dei casi. Il linfocitoma da Borrelia è un nodulo pseudotumorale, che si manifesta tipicamente sull’orecchio esterno o sul capezzolo e che tende a scomparire dopo poche settimane di terapia antibiotica specifica. La borreliosi di Lyme è relativamente frequente in età infantile, senza caratteristiche cliniche specifiche di questa fascia di età. Infine, non vi è per ora evidenza certa di trasmissione in utero dell’infezione né di borreliosi di Lyme congenita. E. Diagnosi. Nonostante Borrelia burgdorferi sia abbastanza facilmente coltivabile dalle lesioni cutanee, la diagnosi di eritema migrante in aree geografiche ende-
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miche per borreliosi di Lyme si può basare esclusivamente sui criteri clinici. In questi pazienti l’esame colturale è comunque positivo in un’elevata percentuale di casi, superiore a quella identificata dalle indagini sierologiche. Queste ultime acquisiscono importanza nella borreliosi di Lyme extracutanea; le più recenti metodiche immunoenzimatiche e di conferma in immunoblotting consentono di identificare gli anticorpi specifici nella quasi totalità di pazienti con borreliosi extracutanea. Di particolare importanza lo studio della produzione intratecale di anticorpi specifici nelle sospette complicanze neurologiche croniche. Infine, l’amplificazione genica del DNA del microrganismo (PCR) ne consente l’identificazione certa in una varietà di campioni biologici; l’utilizzo clinico della metodica non è tuttavia ancora stato definito.
le, dall’acqua, dal suolo e dalla polvere. La via di trasmissione resta ignota nella maggior parte dei casi, ma sembra predominante quella legata all’ingestione di alimenti contaminati (carni e soprattutto latte e latticini); è dimostrata l’esistenza di portatori asintomatici del germe, in grado di eliminarne grandi quantità con le feci. L’incidenza della malattia è bassa (< 1 caso all’anno/100.000 abitanti in Europa) e probabilmente stabile, almeno negli ultimi venti anni. Circa i due terzi dei pazienti affetti dalle due forme cliniche principali di listeriosi, la sepsi e la meningite, presentano una condizione clinica debilitante sottostante, di solito una malattia emolinfoproliferativa o una neoplasia solida di altra natura. In un terzo dei casi la listeriosi si manifesta in gravidanza e solo nel 14% circa dei pazienti non si riscontrano cofattori favorenti la malattia.
F. Terapia e profilassi. Anche se buona parte delle manifestazioni cliniche della borreliosi di Lyme possono risolversi spontaneamente senza terapia, gli antibiotici accelerano la guarigione e prevengono, probabilmente, le complicanze tardive. Il farmaco di prima scelta in presenza di eritema migrante è la doxiciclina (100 mg 2 volte al giorno per 14/21 giorni); di seconda scelta sono l’amoxicillina o la claritromicina, quest’ultima da preferirsi in età pediatrica per le note controindicazioni all’uso delle tetracicline al di sotto del 10° anno di età. Le complicanze cardiache e neurologiche (meningite) vanno trattate con il ceftriaxone. Non vi è evidenza dell’utilità di terapie prolungate o ripetute. La prognosi della borreliosi di Lyme trattata è favorevole nella maggior parte dei pazienti; solo in caso di coinvolgimento neurologico può residuare un minimo grado di paresi a un nervo cranico. L’antibioticoprofilassi dopo morso di zecca è probabilmente inutile ed è attualmente sconsigliata. È allo studio un vaccino costituito da una proteina ricombinante della superficie esterna del microrganismo (Ospa), che ha dimostrato un elevato grado di protezione negli animali e che è risultato ben tollerato in piccole casistiche di volontari umani, anche se per definirne l’efficacia nell’uomo occorrerà attendere l’esito di ampi studi epidemiologici in aree endemiche.
C. Patogenesi. La capacità di L. monocytogenes di indurre batteriemia costituisce il momento patogenetico chiave dell’infezione; per la virulenza del germe sembra essenziale una tossina emocitolitica di 52 kD, denominata listeriolisina O. In seguito alla batteriemia il germe può diffondere nel sistema nervoso centrale, oppure nella donna gravida può attraversare la barriera ematoplacentare infettando il liquido amniotico e il feto.
LISTERIOSI A. Eziologia. Listeria monocytogenes è un bacillo aerobio Gram+ non sporigeno e mobile. La forma clinica più usuale della malattia è una batteriemia, che si manifesta frequentemente durante la gravidanza, nel corso della quale pur non provocando listeriosi ad esito drammatico nella madre si possono verificare danni al feto e gravi forme settiche perinatali. Il bacillo è infine causa di meningoencefalite in pazienti defedati (immunodepressi, pazienti affetti da neoplasia). B. Epidemiologia. Il germe è ampiamente diffuso in natura, essendo stato isolato da una grande varietà di specie animali, da alimenti di origine animale e vegeta-
D. Clinica. La listeriosi colpisce prevalentemente neonati o bambini entro il primo anno di vita oppure adulti ultracinquantenni. In gravidanza la listeriosi provoca quadri febbrili di durata ed intensità variabile, spesso erroneamente attribuiti ad altre cause (infezioni delle vie urinarie); talvolta si può avere parto prematuro o nascita a termine di feto morto. Nella listeriosi neonatale vi può essere contagio perinatale oppure durante il parto. La prima evenienza dà luogo ad una forma clinica estremamente grave, anche nota come granulomatosi settica infantile. Il neonato si presenta febbrile e con una disseminazione di ascessi e granulomi splenici, polmonari, epatici, renali ed anche cerebrali; nel 75% circa dei piccoli pazienti il quadro è ulteriormente complicato da meningoencefalite: la letalità è vicina al 100% dei casi, solo il pronto sospetto clinico e l’inizio tempestivo della terapia può ribaltare la prognosi in qualche caso. La listeriosi peripartum si manifesta di solito entro il primo mese di vita con una meningoencefalite; la presentazione clinica è relativamente povera (inappetenza e febbricola) e il decorso clinico è spesso subacuto. L’esame del liquor evidenzia comunque aumento della cellularità e delle proteine e diminuzione del glucosio; l’esame batterioscopico è di regola negativo mentre l’esame colturale del liquor è frequentemente positivo. In qualche caso la listeriosi neonatale presenta esclusivamente caratteri di una sindrome settica ad eziologia indeterminata, senza interessamento meningeo. Il quadro clinico della meningite da Listeria nell’adulto immunodepresso è del tutto sovrapponibile a quello che si riscontra in epoca neonatale: anche qui vi può essere andamento subacuto e predominanza di segni aspecifici, quali le anomalie comportamentali; la sindrome meningea è presente ma spesso può essere
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sfumata. Nell’adulto defedato è stata infine recentemente descritta l’encefalite da Listeria, caratterizzata dalla presenza di plurime lesioni focali variamente distribuite, interessanti soprattutto la sostanza bianca sottocorticale, meglio visibili in risonanza magnetica nucleare; la diagnosi è solo indiretta qualora venga diagnosticata una batteriemia da L. monocytogenes e la prognosi è di regola sfavorevole. E. Diagnosi e terapia. L. monocytogenes va ritenuta una causa non rara di meningite nell’adulto defedato e l’incidenza della malattia in questa popolazione è probabilmente destinata ad aumentare; la meningite da Listeria andrebbe sospettata in questi pazienti e l’esame del liquido cerebrospinale andrebbe eseguito in presenza di febbre anche non particolarmente elevata e di segni neurologici o neuropsichiatrici di incerta attribuzione: l’esame obiettivo neurologico accurato può riconoscere nella maggior parte dei casi segni anche lievi e/o precoci di infiammazione meningea. La listeriosi va sospettata in caso di minaccia d’aborto in madri apparentemente sane o affette da febbre di natura indeterminata; nell’infezione neonatale l’indagine colturale sul più ampio numero di campioni biologici deve essere comunque immediatamente seguito da un’antibioticoterapia aggressiva. La routine ematochimica evidenzia aumento degli indici di flogosi. La diagnosi microbiologica è spesso ardua; peraltro la Listeria all’esame batterioscopico del campione biologico può essere confusa con gli streptococchi. Per aumentare le chance di isolamento, di regola difficile, il campione va inviato al laboratorio subito dopo la raccolta e in abbondante quantità (per es., almeno 10 ml di liquido cefalorachidiano). Non esiste una terapia standard per la listeriosi; l’antibiotico di prima scelta è la penicillina o l’ampicillina, da associare secondo alcuni ad un aminoglicoside in caso di meningite; benché gli isolati resistenti alla penicillina siano molto rari, la terapia andrebbe comunque impostata sulla scorta dei risultati dell’antibiogramma, se ciò è possibile; nei pazienti allergici alla penicillina la migliore alternativa terapeutica sembra essere il cotrimossazolo, il germe risulta spesso sensibile anche all’eritromicina ed alle tetracicline.
ANTRACE L’antrace è un’antropozoonosi conosciuta fin dall’antichità; tuttora endemica in ampie aree geografiche, la malattia ha assunto oggi importanza soprattutto per l’uso del Bacillus anthracis nella fabbricazione di armi biologiche. A. Eziologia ed epidemiologia. B. anthracis è un voluminoso (1,5 3-10 micron) bastoncello Gram+ sporigeno; cresce facilmente in agar sangue dove produce colonie dalla caratteristica forma a testa di medusa. L’antrace è essenzialmente una malattia degli erbivori (ovini, caprini, bovini) ma anche dei suini; il bestiame contrae una malattia gastrointestinale con conseguente
disseminazione dopo ingestione di spore che contaminano i pascoli. Le spore possiedono un elevato grado di resistenza ambientale (anche 20-30 anni), motivo per cui un pascolo infetto rimane potenziale fonte di contagio per molti anni; i programmi di vaccinazione intensiva del bestiame confinano attualmente la malattia prevalentemente in Africa ed Asia, tuttavia casi sporadici o microepidemie di antrace animale sono annualmente descritti anche nei paesi sviluppati. La malattia umana colpisce di regola la popolazione a contatto con gli animali: pastori, macellai, ma anche lavoratori dell’industria di prodotti animali. L’incidenza dell’antrace umano è in diminuzione dal secondo dopoguerra; i casi descritti sono tutti ad origine zoonotica, mentre la trasmissione interumana dell’infezione non è descritta. L’antrace umano si manifesta con tre forme cliniche: la forma cutanea, che risulta dal contatto con l’animale o con prodotti animali infetti; la forma inalatoria, che deriva da inalazione delle spore; e la forma gastrointestinale, che è dovuta all’ingestione di carne contaminata. La forma cutanea comprende da sola il 95% dei casi di antrace umano, la forma inalatoria il restante 5% circa, mentre la forma gastrointestinale è molto rara. In anni recenti sono stati descritti due importanti focolai epidemici di antrace umana, il primo nello Zimbabwe nel 1980, con 6500 casi segnalati ed almeno 100 decessi; il secondo caso in Siberia nel 1979 con 66 vittime accertate di antrace inalatorio, episodio probabilmente dovuto ad un precedente incidente in un deposito di armi biologiche. B. Patogenesi. La virulenza di B. anthracis è legata essenzialmente alla produzione di due tossine, denominate tossina edemigena e tossina letale; il meccanismo di azione di entrambe è ancora largamente ignoto. Sembra che la tossina edemigena sia in grado di aumentare i livelli di AMP ciclico intracellulare; le due tossine poi sono sicuramente in grado di inibire la fagocitosi dei neutrofili, come evidente anche dalla scarsità della risposta infiammatoria intralesionale. La malattia si sviluppa quando le spore penetrano nell’organismo e germinano nella forma bacillare che inizia a moltiplicarsi attivamente. La germinazione avviene probabilmente all’interno dei macrofagi ed il rilascio della tossina provoca edema regionale e necrosi tissutale. La forma cutanea rimane di solito localizzata; nella forma gastrointestinale il bacillo viene trasportato ai linfonodi mesenterici, dove si replica attivamente, dando successivamente luogo a disseminazione ematica e tossiemia. Analogamente, nell’antrace inalatorio si ha precoce invasione dei linfonodi mediastinici con necrosi emorragica e disseminazione per via ematica. C. Clinica. L’antrace cutaneo si sviluppa da 2 a 5 giorni dopo il contagio, manifestandosi dapprima come una papula, che evolve a lesione vescicolare, del diametro di 1-2 cm, in 24-48 ore. La lesione è circondata da una tipica zona edemigena, che in caso di localizzazione al collo può provocare compressione delle vie aeree superiori. Il bacillo in questa fase è facilmente riscontrabile nella lesione all’esame batterioscopico e
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colturale; mentre è tipica la scarsità o assenza dell’infiltrato infiammatorio. La lesione di regola non è dolorosa, evolve in ulcera in 5-7 giorni e successivamente in un’escara nera (da cui l’eponimo di carbonchio attribuito in passato alla malattia) che guarisce in 2-3 settimane. Molti pazienti hanno sintomi di accompagnamento, soprattutto febbre, cefalea e linfoadenopatia regionale. L’evoluzione dell’antrace cutaneo è la guarigione nella maggior parte dei casi, benché la mortalità nei pazienti non trattati, successiva a disseminazione e sepsi, sia compresa tra il 5% e il 20%. L’antrace gastrointestinale si presenta sotto due diverse forme cliniche, la prima caratterizzata da forti dolori addominali, ematemesi e melena; la prognosi è sempre infausta in 24-72 ore, anche a causa del fatto che la diagnosi precoce è quasi sempre impossibile in assenza di dati epidemiologici altamente suggestivi. È descritta inoltre una variante di antrace intestinale caratterizzata da lesioni ulcerative orofaringee e da un minore tasso di letalità. L’antrace inalatorio o polmonare si manifesta da 1 a 6 giorni dopo l’esposizione alle spore; la forma clinica si manifesta inizialmente in maniera non specifica, con febbre non elevata, tosse non produttiva, mialgie e malessere. Vi può essere in qualche paziente un transitorio miglioramento clinico, ma di regola dopo 2-4 giorni si verifica insorgenza improvvisa di insufficienza respiratoria acuta e shock settico, con decesso quasi sempre entro 24 ore. La diagnosi clinica dell’antrace inalatorio è estremamente difficile e comunque di regola tardiva. La forma clinica può essere in qualche paziente sospettata radiologicamente in presenza di un allargamento del mediastino, espressione della mediastinite emorragica, e di un versamento pleurico bilaterale, senza addensamenti broncopneumonici. L’antrace inalatorio viene considerata forma clinica costantemente letale, tuttavia nella recente epidemia russa si ha notizia certa di almeno 10 pazienti sopravvissuti. Infine, circa il 50% dei pazienti affetti da antrace inalatorio presenta anche interessamento meningeo ed emorragia subaracnoidea, ad avvalorare la natura sistemica della malattia.
gativa sono la facilità nella coltivazione del bacillo, la persistenza ambientale (conservazione degli ordigni), la possibilità di selezionare ceppi resistenti alla penicillina, l’impossibilità alla diagnosi precoce della forma inalatoria congiunta all’elevatissima letalità di questa forma clinica. Alcuni modelli di dispersione ambientale delle spore effettuati negli anni Sessanta con simulanti innocui (B. globigii) hanno suggerito che un attacco terroristico in una metropolitana in orario di punta provocherebbe circa 10.000 vittime. Analogamente si stima che un ordigno contenente 50 kg di B. anthracis rilasciato su una città di 500.000 persone provocherebbe circa 150.000 vittime entro 7 giorni.
D. Terapia e profilassi. L’antibiotico di prima scelta è la penicillina, la ciprofloxacina e la doxiciclina costituiscono trattamenti alternativi nei pazienti allergici alla penicillina. L’antrace cutaneo può essere curato con terapia orale, mentre la forma gastrointestinale ed inalatoria richiedono trattamenti endovenosi ad elevato dosaggio, da associare se possibile a terapia intensiva di supporto. È disponibile un vaccino costituito da un filtrato sterile di coltura di un ceppo non virulento che elabora un antigene protettivo; l’efficacia del vaccino nell’uomo non è nota, tuttavia la vaccinazione è obbligatoria negli USA per alcune categorie a rischio, per esempio i militari. Infine, oggi viene consigliata sia la vaccinazione che l’antibioticoprofilassi nel sospetto di esposizione accidentale alle spore di B. anthracis.
Febbre di Oroya e verruca peruviana
E. Antrace come arma biologica. Da qualche decennio le spore di B. anthracis costituiscono l’ingrediente prediletto per la fabbricazione delle cosiddette bombe biologiche. Le ragioni di questa macabra prero-
BARTONELLOSI Del genere Bartonella era nota fino a pochi anni or sono una sola specie di interesse medico, Bartonella bacilliformis, responsabile di due infrequenti forme cliniche confinate all’area andina, la febbre di Oroya e la verruca peruviana. In anni recenti al genere Bartonella sono state affiliate Bartonella quintana e Bartonella henselae (in precedenza denominate Rochalimae) responsabili di due infezioni rimaste a lungo ad eziologia incerta, la febbre delle trincee e la malattia da graffio di gatto (o linforeticulosi benigna) e di due altre forme cliniche di recente identificazione, la peliosi bacillare e l’angiomatosi bacillare. Eziologia e classificazione. Le Bartonelle sono piccoli coccobacilli Gram–, lievemente incurvati, coltivabili in terreni arricchiti al sangue. Caratteristica comune a tutte le specie è la capacità di infettare gli eritrociti e le cellule endoteliali, inducendo rispettivamente emolisi e neoproliferazione vascolare. La famiglia delle Bartonellaceae è stata recentemente scorporata dall’ordine delle Rickettsiales, di cui faceva parte.
È l’infezione provocata da Bartonella bacilliformis, endemica nelle zone montagnose di Perú, Ecuador e Colombia; il germe viene trasmesso da un insetto vettore (Lutzmoya). Dopo un periodo di incubazione di circa 3 settimane la malattia si può manifestare in maniera subdola (febbricola), a decorso autolimitantesi oppure con esordio clinico brusco; in questo caso il quadro clinico è quello di una sepsi severa, con febbre elevata e brivido, cefalea, alterazioni dello stato di coscienza fino al coma; tipica è la grave anemia emolitica acuta da invasione eritrocitaria, comune la linfoadenopatia diffusa, le artromialgie e la trombocitopenia. La malattia non trattata è gravata da elevato tasso di letalità (circa il 50% dei casi) e la prognosi del paziente è strettamente legata alla possibilità di instaurare terapia antibiotica e di supporto adeguata in tempi rapidi, evento abbastanza improbabile nelle zone endemiche. La dia-
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gnosi clinica peraltro non è difficile in area endemica, le emocolture, quando eseguite, sono positive in un’elevata percentuale di pazienti. Il 15% circa dei pazienti convalescenti rimane batteriemico per lungo periodo di tempo, agendo probabilmente anche come serbatoio dell’infezione; una minoranza di questi casi sviluppa dopo qualche mese la complicanza tardiva, la cosiddetta verruca peruviana. Si tratta di gittate di lesioni verrucose pleiomorfe, più diffuse al volto, caratterizzate istologicamente da neoproliferazione vascolare e dalla possibilità di identificare la Bartonella all’interno delle lesioni; infrequenti ma non rare le localizzazioni mucose (orofaringe). L’infezione ha andamento cronico favorevole nella maggior parte dei casi.
Febbre delle trincee e malattie da graffio di gatto L’agente eziologico della febbre delle trincee è B. quintana, trasmessa dal pidocchio umano in condizioni di sovraffollamento e scarsa igiene, quali quelle che si riscontrarono tra i militari delle due guerre mondiali. Il decorso è variabile e le manifestazioni cliniche pleiomorfe; nei casi tipici si hanno comunque accessi parossistici di febbre, separati da intervalli variabili di apiressia. La malattia da graffio di gatto esordisce nel 90% dei casi con una papula o pustola cutanea in corrispondenza di un graffio o morso di gatto, di solito avvenuto circa 7 giorni prima; sembra possibile la trasmissione anche tramite insetto vettore (moscerino). Dopo qualche settimana (da 1 a 7) si sviluppa linfoadenopatia distrettuale, accompagnata da febbre in un terzo circa dei casi. L’infezione è in genere autolimitantesi, tanto da rendere tuttora dubbia l’indicazione all’antibioticoterapia. L’istologia dei linfonodi evidenzia alterazioni infiammatorie non specifiche mentre i bacilli sono solo occasionalmente evidenziabili con colorazioni specifiche (Warthin-Starry). Una forma clinica particolare è la localizzazione oculare con linfoadenopatia preauricolare (sindrome di Parinaud); tra le possibili complicanze citiamo la fistolizzazione dei linfonodi (15% dei casi circa) e la meningoencefalite, fortunatamente rara. La malattia è stata a lungo orfana di un agente eziologico certo e solo in anni recenti si è avuta evidenza del ruolo eziologico di B. henselae.
Peliosi bacillare e angiomatosi bacillare B. henselae può provocare sindromi febbrili aspecifiche sia nel soggetto immunocompetente (accessi febbrili ricorrenti spesso in associazione con artromialgie, talvolta con meningite asettica) che nel paziente immunodepresso, tipicamente con infezione da HIV, nel quale si può manifestare un quadro insidioso di febbre persistente e sintomi costituzionali (astenia e inappetenza, calo ponderale, cefalea). Una complicanza possibile è l’endocardite. La disseminazione tissutale del-
l’infezione può dare luogo all’angiomatosi bacillare, un disordine proliferativo neovascolare che coinvolge soprattutto la cute e i linfonodi; il quadro clinico ricorda quello della verruca peruviana, tuttavia le lesioni specifiche presentano una rimarchevole variabilità morfologica. Importante nei pazienti HIV positivi la diagnosi differenziale con il sarcoma di Kaposi. La peliosi bacillare è caratterizzata da lesioni pseudocistiche di pochi millimetri di diametro, a contenuto ematico, rivestite internamente da tessuto similendoteliale, diffuse nella milza, nel fegato e nei linfonodi di pazienti immunodepressi, più spesso HIV positivi. Sia B. henselae che B. quintana sono state associate a questa forma clinica. Terapia. In tutte le infezioni umane da Bartonella note ad oggi l’antibiotico di prima scelta è la doxiciclina e l’unica valida alternativa riconosciuta è costituita dai macrolidi (eritromicina, claritromicina o azitromicina); fa eccezione l’endocardite da B. henselae, per la quale i farmaci di prima scelta sono la gentamicina o il ceftriaxone.
TULAREMIA A. Epidemiologia. Francisella tularensis è un piccolo coccobacillo pleiomorfo aerobio, Gram–. La tularemia è una malattia ad ampia diffusione geografica, soprattutto nell’emisfero settentrionale. Il germe è in grado di infettare centinaia di specie animali; tra questi quelli più importanti per la trasmissione all’uomo sembrano i roditori domestici e selvatici. L’infezione può essere trasmessa all’uomo attraverso il morso dell’insetto vettore oppure il contatto con prodotti animali infetti. È descritta anche l’infezione tramite acque contaminate stagnanti, il fango, la polvere; il contagio interumano non è noto. Gli insetti vettori più importanti sono i flebotomi e le mosche nel continente nordamericano e probabilmente le zanzare in Europa (Scandinavia). È probabile che la trasmissione dagli animali avvenga o per ingestione di carni infette oppure durante la lavorazione di prodotti animali (non solo macellazione ma anche scuoiamento e concia delle pelli); le categorie a maggior rischio per tularemia sono quindi i pastori, i veterinari, gli agricoltori in genere, i cacciatori e gli addetti all’industria della lavorazione animale. Sono comunque stati descritti casi di contagio avvenuti secondo le modalità più disparate, tra cui l’indossare pelli o pellicce animali di provenienza artigianale. Una categoria a rischio particolare è costituita dai lavoratori dei laboratori di microbiologia, per l’elevata virulenza del bacillo. B. Patogenesi. Il germe può penetrare nell’organismo attraverso soluzioni di continuo della cute, anche inapparenti, oppure per ingestione o inalazione; la carica infettante minima sembra essere molto bassa (anche 50100 bacilli): ciò spiega l’elevato rischio di malattia professionale per i laboratoristi. Dalla porta di ingresso il
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germe si diffonde ai linfonodi regionali e da qui attraverso una fase batteriemica può diffondere a numerosi organi. I tessuti affetti sviluppano necrosi locale con infiltrato infiammatorio misto. In qualche caso si possono sviluppare dei granulomi ad evoluzione caseosa, erroneamente interpretabili come di origine tubercolare. L’insorgenza di una forte immunità cellulo-mediata si accompagna alla guarigione dalla malattia. C. Clinica. Le diverse forme cliniche della tularemia dipendono probabilmente dalla via di ingresso del germe, dalle condizioni immunologiche dell’ospite e dall’eventuale presenza di un’infezione disseminata. Sono descritti più quadri clinici, spesso variamente sovrapposti tra di loro. In quasi tutti i pazienti la malattia si presenta improvvisamente, dopo un periodo di incubazione di 3-5 giorni, con febbre elevata e brivido, astenia, cefalea e mialgie, talvolta bradicardia relativa. La tularemia ulcero-ghiandolare comprende circa la metà dei casi; la via di trasmissione è di solito l’insetto vettore. Dopo un periodo di incubazione medio di 3-5 giorni si manifesta una papula rossa e dolente associata a linfoadenopatia locoregionale. Dopo qualche giorno la papula si trasforma in un’ulcera molle a bordi rilevati che, se non trattata, guarisce lentamente nell’arco di qualche settimana; la lesione è più frequentemente localizzata nelle zone più esposte a puntura di insetto (viso e collo, estremità degli arti). In alcuni pazienti probabilmente contagiatisi tramite cibo o acque infette la lesione ulcerativa si localizza alle mucose orofaringee (tularemia faringea); tale variante clinica è più frequente nell’infanzia. Se la lesione cutanea non diviene manifesta si ha la tularemia ghiandolare (circa il 10% dei casi), che dev’essere differenziata da altre forme di linfoadenopatia acuta febbrile (toxoplasmosi, tubercolosi, malattia da graffio di gatto, ecc.); i linfonodi interessati possono suppurare e fistolizzare. La forma oculoghiandolare è probabilmente dovuta a contatto congiuntivale con dita contaminate ed è caratterizzata da congiuntivite ulcerativa molto dolorosa associata ad adenopatia angolo-mandibolare o retro-auricolare; la visione di solito non viene compromessa, tranne nei rari casi di estensione corneale del processo (ulcere corneali). Nel 20-30% dei pazienti la tularemia si presenta esclusivamente come sindrome settica senza segni cutanei né linfoadenopatie (tularemia tifoide); frequentemente si associano diarrea, mialgie e cefalea, mentre sono comuni le complicanze broncopolmonari (circa il 50% dei casi), specie negli incidenti di laboratorio (contagio per inalazione). Nella forma polmonare della tularemia il quadro clinico è dominato fin dall’esordio da una polmonite alveolare, con febbre, tosse poco produttiva e insufficienza respiratoria acuta. Anche questa forma clinica è di più frequente riscontro negli addetti dei laboratori di microbiologia. D. Diagnosi e prognosi. La diagnosi delle forme linfoghiandolari e cutanee è prevalentemente clinica; la forma polmonare e quella tifoidea sono più ardue da sospettare; particolarmente in questi ultimi pazienti
l’indagine epidemiologica può in qualche caso correttamente indirizzare il clinico, benché l’anamnesi epidemiologica risulti silente nel 40% almeno dei pazienti. Il germe può essere isolato da numerosi campioni biologici su terreni appropriati, tuttavia la procedura è da evitare nei casi fortemente sospetti, per l’elevato rischio di trasmissione professionale. I casi dubbi possono essere confermati mediante la ricerca di anticorpi specifici di classe IgG e IgM in ELISA, possibilmente comparando i titoli tra siero acuto e siero convalescente, nel quale si dovrebbe evidenziare un aumento di anticorpi specifici di circa quattro volte. La malattia conferisce immunità protettiva. In era preantibiotica la tularemia era fatale per un terzo dei pazienti; attualmente il tasso di letalità complessivo è intorno al 4%, le forme a prognosi più severa sono la tifoidea e la polmonare, specie se la diagnosi è tardiva. F. tularensis è sensibile a un ridotto numero di antibiotici; per tale motivo la tularemia polmonare andrebbe sospettata nelle polmoniti severe che non rispondono alle terapie convenzionali. E. Terapia e profilassi. Il farmaco di prima scelta è la streptomicina e la durata della terapia è di 15 giorni; una valida alternativa sembra fornita dalla gentamicina a cui va associato il cloramfenicolo nel sospetto di interessamento meningeo. La tularemia si può prevenire curando l’igiene della lavorazione animale e limitando i contatti con gli animali selvatici, specie se apparentemente malati; la trasmissione da insetto vettore può essere prevenuta nelle aree endemiche indossando capi coprenti e tramite uso di repellenti per insetti.
SEPSI E SHOCK SETTICO Lo shock settico è l’evento conclusivo di un processo patologico evolutivo che può esser schematicamente suddiviso in cinque momenti caratterizzanti definibili come: Batteriemia: riscontro di batteri nel sangue. Sindrome da risposta infiammatoria sistemica (SIRS): associazione di almeno tre dei seguenti segni: febbre > di 38 °C, frequenza cardiaca > 80 battiti al minuto, frequenza respiratoria > 20 atti al minuto, leucocitosi. Sepsi: SIRS più infezione documentata (esame colturale positivo). Sepsi severa: sepsi con disfunzione d’organo da ipotensione e ipoperfusione (oliguria, acidosi lattica, confusione mentale). Shock settico: ipotensione refrattaria e ipoperfusione tissutale in un paziente settico. Le sovraindicate forme cliniche costituiscono le tappe evolutive di un unico processo fisiopatologico. A. Epidemiologia. Lo shock settico è la causa di morte più frequente nelle Unità di Terapia Intensiva medica e chirurgica. La mortalità complessiva oscilla tra il 16% nei pazienti con sepsi e il 40-60% nei pazienti affetti da shock settico. I microrganismi responsabili sono più spesso i bacilli Gram– aerobi; negli ulti-
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mi anni tuttavia sono in aumento i casi dovuti a batteri Gram+, probabilmente in relazione al più ampio uso di dispositivi intravascolari. Lo shock settico si può occasionalmente manifestare anche in risposta ad un’infezione virale, fungina o protozoaria. Tra i principali fattori che hanno contribuito ad aumentare in modo significativo l’incidenza delle sepsi in anni recenti occorre citare, oltre all’impiego diffuso dei dispositivi intravascolari, le indagini strumentali invasive, le terapie antiblastiche inclusa la radioterapia, le terapie immunosoppressive e corticosteroidee protratte; ne consegue che sono a rischio aumentato i pazienti defedati in genere, in particolar modo i pazienti chirurgici e/o quelli ricoverati nelle Unità di Terapia Intensiva, i pazienti neoplastici, i trapiantati, gli anziani, i prematuri, i diabetici scompensati, i cirrotici, gli immunocompromessi per qualsivoglia motivo con tutte le possibili combinazioni e/o sovrapposizioni di questi elementi. B. Eziopatogenesi. Talvolta all’origine di una sepsi vi è un focolaio primitivo ben evidente, per esempio ferite o lesioni cutanee, infezioni d’organo diagnosticate; non di rado, tuttavia, il focolaio infettivo di partenza non viene riconosciuto e rimane occulto. I foci primari di infezione più frequenti sono l’apparato respiratorio, la cavità addominale, le vie urinarie e i vasi venosi (processi tromboflebitici da dispositivo intravascolare in corso di terapia infusionale); di non trascurabile importanza sono i foci dentari. 1. Risposta infiammatoria. I pazienti con shock settico presentano una risposta immunologica bifasica, con una prima fase ad elevata risposta infiammatoria seguita da un periodo di immunodepressione. La risposta infiammatoria sistemica è scatenata dalla presenza di batteri nel sito di infezione e dal rilascio di tossine e di altri mediatori infiammatori; queste sostanze stimolano il rilascio da parte dei macrofagi di citochine proinfiammatorie come il Tumor Necrosis Factor (TNF) e l’interleuchina-1 (IL-1) che amplificano la risposta infiammatoria. Le tossine si legano a recettori cellulari attivando proteine regolatorie, quali i fattori trascrizionali intracellulari NF-kb; TNF e IL-1 possono agire direttamente a livello tissutale ma soprattutto amplificano la risposta infiammatoria sistemica inducendo una pletora di citochine e di altri mediatori infiammatori: interleuchina-6 e 8, complemento, prostaglandine, leucotrieni, ecc. I mediatori infiammatori stimolano la produzione dai macrofagi, dalle cellule endoteliali e dalla muscolatura liscia di ossido nitrico, che viene considerato uno dei principali responsabili della vasodilatazione dell’ipotensione e del danno miocardico in corso di shock settico. I mediatori infiammatori inducono inoltre aumentata espressione delle molecole di adesione sulla membrana dei granulociti neutrofili (CD11/CD18) e delle molecole intercellulari di adesione delle cellule endoteliali (ICAM-1 e 2); l’aderenza endoteliale dei neutrofili attivati e il loro passaggio nello spazio extravascolare provocano danno microvascolare e sofferenza tissutale; analogamente, TNF e IL-1 inducono l’espressione di fattori tissutali sulle cellule endoteliali, con at-
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tivazione della via estrinseca della coagulazione, deposito di fibrina e coagulazione intravascolare disseminata; questa grave complicanza è caratterizzata da trombosi microvasale e sanguinamento secondario a trombocitopenia e carenza di fattori della coagulazione da consumo (in particolare fibrinogeno e fattori II, V, VII, VIII). La tromboplastina tissutale può innescare la cascata della coagulazione direttamente o indirettamente in seguito all’attivazione della via intrinseca per innesco del fattore XII di Hageman ad opera delle endotossine batteriche: ne consegue la conversione di plasminogeno in plasmina risultante in fibrinolisi. Nelle fasi avanzate dello shock settico si ha aumentata sintesi di molecole e mediatori ad attività antinfiammatoria, come i corticosteroidi e le interleuchine-4 e 10, finalizzata a modulare la risposta infiammatoria: ne consegue una fase di significativa depressione della risposta immune cellulo-mediata, spesso indispensabile nel condizionare favorevolmente l’evoluzione clinica del malato. 2. Alterazioni emodinamiche. Le alterazioni emodinamiche sono dovute principalmente al diminuito tono vascolare e alla depressione dell’attività del miocardio. La frequenza cardiaca e la gittata cardiaca spesso risultano aumentate; le resistenze vascolari periferiche sono diminuite a causa della riduzione del tono arteriolare, per contro le resistenze vascolari del piccolo circolo sono aumentate con conseguente ipertensione polmonare. Nonostante l’aumento della gittata cardiaca vi è ipoperfusione tissutale evidenziabile dall’aumento nel sangue dell’acido lattico, conseguenza dell’insufficiente estrazione dell’ossigeno a livello tissutale. La diminuzione del tono vascolare interessa sia il comparto arterioso che quello venoso. La diminuzione del tono venoso, più spiccata nel sito di infezione, provoca un relativo sequestro ematico nel comparto venoso; la diminuzione del tono arteriolare è causa importante di ipotensione, con riduzione dei flussi ematici a tutti i parenchimi: le alterazioni dell’omeostasi circolatoria variano spesso a seconda dei diversi letti vascolari, ne risulta una maldistribuzione dei flussi e dei volumi ematici. Il fenomeno è aggravato dalle ostruzioni microvascolari (dovute sia alla coagulazione intravascolare che alle alterazioni delle capacità reologiche delle cellule del sangue) e dalla perdita di autoregolazione anche del microcircolo con neoformazione di shunt arterovenosi e diminuzione della superficie di scambio capillare. Un deficit funzionale del miocardio si verifica nella maggior parte dei pazienti affetti da shock settico, in presenza di solito di una normale perfusione coronarica e di un normale metabolismo ossidativo miocardico; la patogenesi del fenomeno non è pertanto tuttora chiara ma sembra implicata un’azione miocardio-depressiva da parte dell’ossido nitrico, del TNF- e di IL-1. L’ipertensione polmonare e la probabile “down-regulation” dei recettori -adrenergici sono altri fattori che possono deprimere la funzione miocardica nello shock settico. In definitiva, l’ipovolemia relativa (da aumento del letto vascolare) ed assoluta (da perdita di liquidi nel terzo spazio) insieme alla depressione miocardica esitano in ipotensione e grave ipoper-
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fusione tissutale; il fenomeno diventa tipicamente irreversibile dopo qualche ora dall’esordio clinico della sindrome. 3. Metabolismo ossidativo. I meccanismi che alterano il metabolismo ossidativo nello shock settico sono complessi; benché in alcuni casi vi sia una ridotta gittata cardiaca (stato ipodinamico) nella maggior parte dei pazienti, almeno nelle prime fasi dello shock, il diminuito metabolismo ossidativo sembra dovuto perlopiù alla ridotta capacità cellulare ad estrarre in maniera efficiente l’ossigeno dal sangue. Oltre alle anomalie distributive dei flussi ematici distrettuali si verificano probabilmente danni tissutali di natura tossica tali da alterare il metabolismo ossidativo cellulare; tra le sostanze indiziate vi sono le endotossine batteriche, l’ossido nitrico e il TNF-. C. Clinica. È spesso, ma non sempre, presente il quadro clinico riferibile al focolaio infettivo di partenza. La febbre con brivido è un segno caratteristico ma incostante, potendo mancare in pazienti defedati o in terapia con corticosteroidi; l’eventuale presenza di ipotermia costituisce segno prognostico sfavorevole. Altri fattori prognostici sfavorevoli a volte presenti sono la neutropenia e le alterazioni neuropsichiche. La tachipnea è un evento frequente e precoce, spesso causa di alcalosi respiratoria. Le manifestazioni cutanee possono essere dovute alla presenza di un focolaio infettivo a tale livello (cellulite batterica); alternativamente si può manifestare un quadro di eritrodermia diffusa in relazione alla produzione di tossine eritrogeniche da parte di germi Gram+: le manifestazioni cutanee evidenti dovrebbero accelerare la diagnosi e consentire un orientamento terapeutico mirato. L’evoluzione clinica da un quadro di instabilità emodinamica verso lo shock settico si verifica di solito in 24-48 ore circa; fanno eccezione le forme fulminanti, più spesso da bacilli Gram–, che possono evolvere in poche ore. All’insorgenza di ipotensione segue a breve l’oliguria (< 20 ml/ora di flusso urinario); nelle prime fasi della sindrome vi è spesso tachicardia e vasodilatazione periferica mentre il periodo terminale è caratterizzato dal pallore estremo (vasocostrizione) e dall’anuria. Per lungo tempo si è cercato di associare alcune caratteristiche cliniche all’eziologia batterica dello shock (cosiddetti shock caldo e freddo); dagli studi più recenti è emersa solo la tendenza ad una tachicardia meno spiccata nelle infezioni da germi Gram–; è pertanto prudente iniziare una terapia antibiotica a spettro molto ampio, in attesa degli accertamenti colturali. Le complicanze polmonari sono frequenti e severe: esse vanno da polmoniti alveolari, spesso a focolai multipli, probabilmente secondarie a batteriemia, fino alla sindrome da distress respiratorio dell’adulto, o ARDS (Adult Respiratory Distress Syndrome); questa forma clinica, presente nel 30-50% dei pazienti, riflette eventi fisiopatologici distinti e variamente sovrapposti a seconda dei casi, quali edema interstiziale diffuso, microembolizzazione polmonare in corso di coagulopatia da consumo (shunt funzionale alveolo-capillare), polmonite alveolo-interstiziale a focolai multipli; ne deriva
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un quadro di insufficienza respiratoria grave in presenza di addensamenti polmonari multipli. Il quadro clinico avanzato in corso di shock settico è caratterizzato dall’ipotensione refrattaria con sofferenza ischemica dei parenchimi nobili; ne deriva la cosiddetta insufficienza multiorgano (MOF: Multi-Organ Failure) con insufficienza respiratoria, renale, epatica, surrenalica, disturbi del ritmo e della conduzione, confusione mentale e coma. D. Diagnosi. Il sospetto clinico di sepsi severa ad evoluzione verso lo shock settico nasce sempre dall’osservazione accurata del paziente; la presenza di una sepsi, con febbre e brividi, il riscontro del focolaio infettivo di partenza, i segni ematici di infezione acuta (aumento di VES e PCR, leucocitosi neutrofila) devono indirizzare il medico verso la ricerca tempestiva dei fattori di instabilità emodinamica incipiente (ipotensione ed oliguria), dei segni precoci di coagulopatia da consumo (piastrinopenia e allungamento di PT, ad APTT, diminuzione del fibrinogeno e aumento dei relativi fattori di degradazione), delle alterazioni dell’equilibrio acidobase (alcalosi respiratoria). Le emocolture e gli altri eventuali esami microbiologici potenzialmente utili (esame microscopico e colturale dell’espettorato, urinocoltura, coltura di dispositivi intravascolari) vanno eseguiti con attenzione e a regola d’arte e il sospetto clinico va segnalato al laboratorio di microbiologia al fine di ottenere la migliore efficacia diagnostica. In tutti i casi sarà la qualità globale dell’assistenza (si pensi semplicemente all’importanza del monitoraggio giornaliero dei parametri vitali e della diuresi e al controllo frequente degli indici infiammatori e della funzionalità renale) a consentire la diagnosi precoce di instabilità emodinamica, evento spesso a presentazione tanto più clinicamente subdola se non addirittura ingannevole quanto più l’ammalato vi risulta predisposto a causa dei più svariati fattori. E. Terapia. Le possibilità di ribaltare la prognosi in corso di sepsi severa o di shock settico sono legate alla tempestività del sospetto clinico, all’inizio di un’antibioticoterapia adeguata ed aggressiva, all’identificazione del microrganismo causale e del focolaio di partenza del processo infettivo ed all’inizio di un’idonea terapia intensiva di supporto con l’obiettivo immediato di sostenere il circolo e le funzioni degli organi vitali. In attesa degli accertamenti colturali, la scelta degli antibiotici deve tenere conto della sede possibile del focolaio di partenza, dei microrganismi di più frequente riscontro e dei pattern di sensibilità locale, garantendo al contempo un ampio spettro di attività. La ticarcillinaclavulanato, la piperacillina-tazobactam, i carbapenemici, le cefalosporine di III generazione, gli aminoglicosidi in monoterapia o in associazione sono gli antibiotici più frequentemente usati in questi pazienti. Le alterazioni emodinamiche e la coagulazione intravascolare disseminata andrebbero curate in una divisione di Terapia Intensiva; il cardine del trattamento sono la reintegrazione idrosalina e le amine simpaticomimetiche (dopamina, dobutamina). Nonostante l’approccio
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terapeutico aggressivo la letalità in corso di shock settico è ancora moto elevata (40-60%). In anni recenti sono stati fatti vari tentativi di affrontare lo shock settico con schemi di terapia disegnati sulla base dei complessi meccanismi eziopatogenetici che sostengono la sindrome. Tuttavia, i risultati da una metanalisi di 24 studi pilota su farmaci in grado di modulare la risposta infiammatoria hanno dimostrato una riduzione di letalità solo modesta (dal 34 al 37%), che non è stata confermata in studi randomizzati e controllati. Tra le numerose sostanze sperimentali citiamo il filgrastim, il MABT88 (anticorpo monoclonale contro antigeni comuni delle Enterobacteriaceae), la tifacogina, l’inibitore selettivo della fosfolipasi AII, l’inibitore della sintetasi dell’ossido nitrico e, soprattutto, la proteina C attivata ricombinante; quest’ultima, da poco disponibile anche in Italia, è il primo farmaco che si è dimostrato in grado di ridurre significativamente la mortalità a 28 giorni per shock settico, indipendentemente dalla causa. Nell’insieme questi risultati rendono ragione una volta di più della complessità e della natura multifattoriale della patogenesi dello shock settico e suggeriscono per il prossimo futuro un approccio combinato nella terapia eziopatogenetica di questa sindrome.
INFEZIONE DA HIV E SINDROME DA IMMUNODEFICIENZA ACQUISITA La sindrome da immunodeficienza acquisita (Acquired Immunodeficiency Syndrome: AIDS) è una malattia ad eziologia virale con andamento epidemico, che colpisce in prevalenza giovani adulti e bambini; le manifestazioni cliniche sono costituite da infezioni opportunistiche e da insolite forme di tumori maligni quali il sarcoma di Kaposi ed il linfoma non Hodgkin favorite da una gravissima compromissione della risposta immunitaria cellulo-mediata. Inizialmente l’AIDS è stata riconosciuta come malattia nel 1981 negli USA, in seguito ad un numero sorprendente di casi di polmoniti da Pneumocystis carinii e di tumori non usuali (sarcoma di Kaposi) osservati in soggetti omosessuali e tossicodipendenti di giovane età abitanti a New York e a San Francisco. In seguito, hanno presentato manifestazioni cliniche e deficit immunitari simili anche soggetti emotrasfusi, bambini nati da madri tossicodipendenti e partner di soggetti bisessuali. L’andamento epidemiologico ne suggerì la natura infettiva; dopo circa due anni di ricerche, alla fine del 1983, venne isolato l’agente eziologico da parte del laboratorio di virologia dell’Istituto Pasteur (Parigi) e del National Cancer Institute (Bethesda, Maryland). Il virus venne inizialmente denominato LAV (Lymphadenopathy-associated Virus) e HTLV-III (Human T-cell Lymphotropic Retrovirus Type III); successivamente gli è stata attribuita l’attuale definitiva denominazione: HIV (Human Immunodeficiency Virus) di cui sono noti due sierotipi (1 e 2). L’alterazione immunitaria tipica della
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malattia è in larga parte dovuta al deficit selettivo di una sottopopolazione linfocitaria (i linfociti T CD4+) che viene infettata dal virus. La sindrome da immunodeficienza acquisita e le neoplasie e sindromi ad essa correlate sono la diretta o indiretta conseguenza di un’infezione da HIV-1 e HIV-2.
Epidemiologia L’epidemia è con ogni probabilità originata nell’Africa equatoriale, zona in cui il virus era endemico almeno fin dagli anni Cinquanta. Da qui si è diffusa alla fine degli anni Settanta nelle isole dei Caraibi e in alcune aree metropolitane degli USA e del Nord Europa tramite soggetti infetti. Gli intensi scambi commerciali e turistici tra aree inizialmente interessate dall’epidemia e non ancora colpite, e l’uso di emoderivati infetti provenienti da aree epidemiche (in particolare gli USA) hanno contribuito alla diffusione dell’infezione da HIV in tutto il mondo all’inizio degli anni Ottanta. Le prime segnalazioni sono avvenute nella primavera del 1981, quando venne registrata al Center for Diseases Control (CDC) di Atlanta (USA) la comparsa di un’insolita epidemia di polmonite da Pneumocystis carinii in giovani omosessuali; l’iniziale riscontro della malattia in soggetti omosessuali e tossicodipendenti suggerì l’esistenza di un agente eziologico trasmissibile per contagio diretto da individui infetti. Poco rilevante appare per il momento il ruolo epidemiologico di HIV-2, che ancor oggi ha una diffusione limitata ad alcuni stati dell’Africa occidentale, in particolare alla Guinea Bissau dove raggiunge una prevalenza del 7% circa nella popolazione urbana, e a nazioni con notevole immigrazione di soggetti provenienti dall’Africa occidentale. Anche la frequenza con la quale si sviluppano casi di malattia a partire dall’infezione da HIV-2 è notevolmente inferiore a quella che si osserva nei soggetti HIV-1-positivi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità calcola che HIV-1 abbia già infettato al mondo circa 40 milioni di persone (Fig. 81.3). Tra questi è rilevante il numero dei casi di malattia: valutazioni realistiche fanno ritenere che alla fine del 2003 i casi cumulativi di morti per AIDS fossero circa 20.000 (adulti e bambini). I casi segnalati sono tuttavia assai meno di quelli stimati, per l’usuale ritardo con cui le notifiche vengono fatte e soprattutto per la difficoltà di conoscere con esattezza il numero dei casi reali in alcune regioni africane ed asiatiche dove l’identificazione e la segnalazione dei pazienti risultano particolarmente difficoltose. Dei 37 milioni di casi adulti di infezione, due terzi dei quali nell’Africa sub-sahariana, si stima che il 50% siano donne. A questi casi vanno aggiunti 2-5 milioni di bambini di età inferiore a 15 anni. Dal 1982 al dicembre 2003 in Italia sono stati notificati 52.836 casi di AIDS con una mortalità del 64.3%, 733 (1,4%) in età pediatrica (< 13 anni). L’andamento dei tassi d’inciden-
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Europa orientale ed Asia centrale 1.300.000 Nord America 1.000.000
Caraibi 430.000
America Latina 1,6 milioni
Europa occidentale 580.000 Asia orientale 900.000 Africa del nord e centro-orientale 480.000
Sud-Est asiatico e Asia del sud 6,5 milioni
Africa sub-sahariana 25 milioni Australia e Nuova Zelanda 32.000
Figura 81.3 - Stima del numero di adulti e bambini con infezione da HIV alla fine del 2003 (UNAIDS, 2004).
za per anno di diagnosi mostra un incremento dei casi fino al 1995, seguito da una diminuzione continuata fino al 2001, mentre nel 2002 il numero dei casi diagnosticati sembra stabilizzarsi. Inoltre, si nota un aumento dei casi attribuibili alla trasmissione sessuale. L’HIV può essere trasmesso per via parenterale con trasfusioni di sangue o di emoderivati infetti, con l’inoculazione di piccole quantità di sangue contaminato attraverso lo scambio di siringhe tra tossicodipendenti o per puntura accidentale con aghi o strumenti infetti. La trasmissione può avvenire, inoltre, con rapporti sessuali (sia omosessuali, sia eterosessuali). Il virus contenuto nel liquido seminale di maschi sieropositivi può contagiare cellule suscettibili della mucosa vaginale o rettale oppure raggiungere direttamente le abituali cellulebersaglio attraverso lesioni delle mucose. L’infezione può essere trasmessa anche da donne con secrezioni cervico-vaginali infette. Una donna HIV positiva può trasmettere l’infezione al figlio durante la gravidanza, al momento del parto o dopo la nascita con l’allattamento al seno. Il rischio di infezione è molto diverso e varia da caso a caso in relazione alle modalità di esposizione ed ai fattori predisponenti dell’ospite. Il rischio di trasmettere l’infezione attraverso una trasfusione è molto elevato (superiore al 90%), mentre per i rapporti eterosessuali viene valutato inferiore all’1%. Nelle due principali popolazioni con comportamenti a rischio (omosessuali e tossicodipendenti) i tassi di infezione variano dal 5 al 70%. La probabilità di trasmissione materno-fetale oscilla tra percentuali piuttosto alte in Africa (35%) a percentuali più contenute in Europa (14%). Molto bassa è la probabilità di contrarre l’infezione con le esposizioni occasionali a materiali infetti da par-
te di personale addetto all’assistenza di pazienti HIV positivi o che maneggiano campioni biologici contaminati (inferiore a 1/1000). Pur essendo il virus presente nella saliva e nelle lacrime, non è stata segnalata per il momento alcuna trasmissione di infezione in soggetti esposti soltanto a questi liquidi biologici. Non sono veicoli di infezione gli oggetti di uso comune (stoviglie, utensili, apparecchi telefonici e così via), i servizi igienici e gli insetti ematofagi. Vivere nella stessa abitazione o avere normali rapporti di convivenza con persone infette o ammalate di AIDS non espone al rischio di infettarsi. La dinamica della diffusione del virus sembra assumere caratteristiche diverse a seconda delle aree geografiche interessate dall’epidemia. Il modello epidemiologico più tipico e noto è quello americano. Negli USA ed in Europa la malattia ha un’incidenza più elevata nei maschi di età compresa tra i 20 e i 50 anni. Colpisce in prevalenza soggetti con comportamento a rischio (omo o bisessuali e tossicodipendenti), anche se sempre più frequentemente la trasmissione si verifica attraverso rapporti eterosessuali. La trasmissione con sangue o emoderivati costituisce un retaggio del passato ed è attualmente eccezionale. Nella fascia intertropicale del globo ed in particolare in Africa, invece, l’AIDS è una malattia diffusa quasi esclusivamente tra donne e uomini di giovane età in pari misura, a conferma della trasmissione bidirezionale del virus tra uomo e donna. Recenti studi condotti nelle città dell’Africa centrale hanno dimostrato che l’infezione si contrae prevalentemente attraverso rapporti eterosessuali, che percentuali molto rilevanti (20% circa) di giovani adulti sessual-
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mente attivi sono sieropositivi, e che l’infezione si sta diffondendo dalle aree urbane alle popolazioni rurali. In alcuni paesi (Zaire, Kenya, Uganda, Sud Africa) è particolarmente preoccupante la sieroprevalenza nell’ambito della prostituzione. Caratteristiche simili all’andamento dell’epidemia in Africa si osservano nelle isole dei Caraibi (Haiti) ed in America meridionale (Brasile). Nei continenti attualmente ancora poco coinvolti dall’epidemia (Asia ed Oceania), l’infezione viene diffusa da soggetti “ponte” che hanno contratto l’infezione in aree ad alta endemia, sia attraverso rapporti eterosessuali, sia con i citati comportamenti a rischio. Inizialmente l’Asia apparve investita dall’epidemia di AIDS marginalmente ed inizialmente solo in Giappone la diffusione del virus aveva assunto dimensioni tali da destare preoccupazione; a partire però dalla seconda metà degli anni Ottanta si sta osservando un esplosivo incremento della sieropositività nel Sud-Est asiatico (in Thailandia in particolare) ed in alcune zone dell’India. Attualmente la Cina ha segnalato un preoccupante “outbreak” epidemico. In Italia, come in tutti i paesi industrializzati, l’AIDS si manifesta come un fenomeno prevalentemente diffuso nelle aree metropolitane ove sono più alte le concentrazioni di popolazioni con comportamenti a rischio. La situazione epidemiologica italiana presenta caratteristiche peculiari con preminente interessamento dei tossicodipendenti e di ex tossicodipendenti, uomini e donne, in età sessualmente attiva, che rappresentano un rischio potenziale aggiuntivo di diffusione, sia attraverso rapporti eterosessuali nella popolazione aperta, sia per trasmissione materno-fetale. In Italia la diminuzione dell’incidenza dei casi di AIDS, iniziata a metà del 1996, si è confermata anche in questi ultimi anni. Lo scenario più tipico degli anni scorsi, che vedeva l’AIDS come una malattia che colpiva i giovani maschi dei paesi industrializzati, si è trasformato in quello di una malattia che colpisce donne, uomini e bambini dei paesi del Terzo mondo. Già oggi l’AIDS è largamente diffusa in Africa e nell’America centrale; se a ciò si aggiunge la recente diffusione del virus in regioni come il Sud-Est asiatico, l’India e la Cina, che per densità di popolazione e condizioni igienico-sanitarie riproducono l’ambiente africano o latino-americano, si può prevedere che nei prossimi anni l’epidemia di AIDS sarà sempre di più un flagello per le nazioni in via di sviluppo. L’epidemia quindi va sempre più assumendo i connotati di un’infezione a trasmissione sessuale. In futuro dovremo aspettarci un aumento dei pazienti che hanno acquisito l’infezione con i rapporti eterosessuali, con conseguente incremento del numero di donne infette ed ammalate, poiché l’infezione viene contratta con il rapporto eterosessuale più facilmente dalla donna che dall’uomo (la probabilità di contagio è circa 3 volte superiore). Ricaduta inevitabile sarà l’aumento dei casi di AIDS pediatrica trasmessi da madre a figlio.
MALATTIE INFETTIVE
Eziologia e replicazione virale L’HIV è un retrovirus appartenente alla sottofamiglia Lentivirinae. I retrovirus umani sono RNA virus dotati di un particolare sistema enzimatico, una DNA-polimerasi RNA dipendente o trascrittasi inversa, che fa trascrivere in DNA l’informazione genetica contenuta nel RNA del virus. HIV misura 9,7 kb e, come gli altri retrovirus, è costituito da tre geni strutturali: gag che codifica la produzione delle proteine del capside [p24gag], del nucleocapside e della matrice; pol, che codifica enzimi virali quali la trascrittasi inversa, la proteasi e l’integrasi; env, che codifica le proteine dell’involucro o envelope (gp120env e gp 41env). I long terminal repeat (LTR) situati alle due estremità del genoma sono un sito di legame di fattori cellulari; il legame fra fattori cellulari e virali con le regioni regolatrici è importante per la modulazione della trascrizione di RNA virale, della trascrizione in risposta a vari stimoli mitogenici e per l’attività transattivante del virus sull’espressione di prodotti genici virali. Il genoma di HIV contiene altri geni peculiari che regolano la produzione di proteine a basso peso molecolare, la cui funzione rimane ancor oggi definita solo in parte: alcuni di essi inducono la sintesi di proteine virali (tat e vif), altri la inibiscono (nef e vpu). HIV-2 presenta una morfologia ed un effetto citopatico molto simile a quello di HIV-1. L’analisi delle sequenze nucleotidiche ha dimostrato però notevoli differenze (40% circa) tra i geni dei due retrovirus ed interessanti analogie di HIV-2 con i retrovirus dell’immunodeficienza della scimmia (SIV). Questi dati fanno ipotizzare la presenza di un comune “antenato” per i virus sopraccitati con comune tropismo per i linfociti CD4+ dei primati che ha successivamente dato origine, in ordine di evolutività, a SIV, HIV-2 e HIV-1. HIV, mediante glicoproteine (gp 120) del suo involucro, si lega ad un recettore specifico denominato CD4. Questa proteina caratterizza fenotipicamente i linfociti T helper-inducer e rappresenta il recettore per il virus. La sua presenza, di regola in concentrazione inferiore, su altri tipi cellulari (per es., parte delle cosiddette Antigen Presenting Cells – monociti, macrofagi, cellule dendritiche – e dei linfociti B) favorisce, in associazione con un corecettore di membrana per una porzione della gp41, la penetrazione del virus anche in queste cellule. Sono stati identificati alcuni corecettori di HIV-1, rappresentati dai recettori per le chemochine (CCR5, CXCR4 ed altri). CCR5 viene utilizzato dai ceppi NSI (non sinciziogeni), prevalentemente macrofagotropici di HIV-1 (cioè con tropismo selettivo per i macrofagi), mentre il recettore CXCR4 è coinvolto nell’infettività dei linfociti T da parte delle varianti SI (sinciziogene) e linfocitotrope di HIV-1 (cioè con tropismo selettivo per i linfociti e per linee cellulari di tipo T). Oltre che nelle popolazioni cellulari CD4+, che rimangono il bersaglio preferenziale di HIV, il virus è in grado di infettare anche altri stipiti cellulari, quali gli elementi retinici, varie cellule del sistema nervoso centrale e cellule neuroendocrine della mucosa intestinale.
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81 - INFEZIONI SISTEMICHE
Le differenti modalità d’interazione tra HIV e cellula ospite ed i differenti tipi di cellule colpite dall’infezione rendono ragione della notevole varietà di espressioni cliniche osservate nei soggetti HIV positivi. Il ciclo replicativo di HIV è suddiviso in diverse fasi. Penetrato nella cellula, HIV libera il proprio patrimonio genetico rappresentato da RNA, e grazie all’attività di un enzima (trascrittasi inversa) trasforma RNA in DNA, capace di integrarsi con i geni della cellula ospite. L’infezione nei linfociti può restare silente: in questo caso la cellula sopravvive, veicolando il genoma virale (provirus) come parte del proprio patrimonio genetico. Occasionalmente il provirus può “esprimersi”, obbligando la cellula a produrre numerose nuove particelle virali; in tal caso il linfocito infetto va incontro a lisi e morte. Diversi fattori trascrizionali stimolano la replicazione virale. I prodotti della trascrizione, attraverso eventi di “splicing”, si modificano e diventano idonei per la traduzione e la sintesi delle proteine virali quali per esempio gag, pol ed env. Dopo essere stati prodotti, RNA genomico e le proteine si assemblano in vicinanza della superficie cellulare dove il virione fuoriesce dalla cellula per gemmazione. Alcune tappe del ciclo vitale del virus (la trascrizione del provirus, la sintesi di proteine virali) dipendono dal corretto funzionamento dell’attività della cellula ospite; altre (la trascrizione del genoma virale o la successiva integrazione) sono invece regolate da funzioni virus-specifiche.
Patogenesi I ceppi di HIV-1 possiedono propietà biologiche distinte rispetto alla loro capacità di indurre sincizi, alla velocità di replicazione e al tropismo cellulare; queste differenze fenotipiche sembrano essere geneticamente codificate da porzioni del gene env. La prevalenza di varianti fenotipiche distinte sembra dipendere dallo stadio dell’infezione; nella fase asintomatica possono essere isolati ceppi prevalentemente non induttori di sincizi (NSI) macrofagotropici, mentre le varianti citopatiche sincizio-inducenti (SI) emergono nel corso dell’infezione nel 50-60% dei soggetti infettati e la loro comparsa precede di 2 anni circa la progressione in AIDS. Al contagio fa seguito un’intensa attività di replicazione di HIV che si accompagna ad elevati livelli di replicazione virale e citolisi di linfociti CD4+ (prima infezione). Successivamente, in un periodo di tempo compreso tra 1 settimana e 3 mesi, si va instaurando una risposta immune sia umorale, sia cellulo-mediata. Compaiono infatti linfociti T citotossici ed anticorpi specifici. La risposta immune porta all’eliminazione del virus libero dal torrente circolatorio, ma non dalle cellule e dai tessuti che ne rappresentano i réservoirs abituali. Nonostante l’apparente scomparsa (in questa fase è difficilmente evidenziabile anche con indagini colturali), HIV persiste in stato di quiescenza nei linfonodi o in altri organi bersaglio nei quali si è disseminato nella fase viremica.
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All’infezione acuta e al successivo consolidamento della risposta immunitaria, segue una fase caratterizzata da bassi livelli di replicazione virale e sostanziale conservazione del patrimonio immunologico. Questo periodo è definito di “latenza” o di “quiescenza”, peraltro solo apparente, in quanto nei tessuti linfoidi la replicazione di HIV permane attiva. La definizione di stato di latenza resta valida sotto il profilo clinico, ma non virologico (Fig. 81.4). Il linfonodo rappresenta un microambiente particolarmente favorevole alla replicazione del virus. Esso, infatti, è ricco di cellule suscettibili all’infezione (APC: Antigen Presenting Cells, cellule dendritiche, macrofagi), le quali, quando infettate, richiamano linfociti CD4+ con il compito di cooperare alla risposta anticorpale anti-HIV. I linfociti CD4 attivati sono un facile bersaglio per HIV e sono in grado di garantire un’intensa replicazione del virus; essi, a loro volta, infetteranno altre cellule attivate, richiamate nel microambiente linfonodale da alcune citochine. La maggior parte dei linfociti infetti rimane imprigionata nella struttura linfoghiandolare; il numero di cellule infette circolanti, pertanto, rimane molto basso per un lungo periodo di tempo. La fase di quiescenza può venire interrotta occasionalmente per il sopravvenire di stimoli in grado di attivare la replicazione virale. Tra gli eventi attivatori più efficaci sembrano figurare altre infezioni, in particolare se sostenute da virus linfotropi (per es. i virus erpetici). I mediatori dell’attivazione della replicazione virale sembrano individuabili in alcune linfochine quali il Tumor Necrosis Factor e talune interleuchine (transattivazione). La replicazione virale (a basso titolo, ma persistente) con il tempo altera le caratteristiche morfologiche e funzionali dell’apparato linfoghiandolare. Nelle fasi avanzate di malattia si giunge ad un profondo sovvertimento della struttura dei linfonodi, che appare completamente scompaginata e non più in grado di trattenere i linfociti infetti. Il quadro istopatologico, e soprattutto quello immunoistochimico, consentono di differenziare gli aspetti strutturali del linfonodo nelle varie fasi di infezione e di trarre utili informazioni non solamente a scopo diagnostico, ma anche ai fini prognostici. Sulla scorta delle ormai numerose descrizioni delle principali caratteristiche istologiche, è stato proposto un modello di classificazione che prevede una suddivisione della patologia linfoghiandolare in quattro stadi: • iperplasia follicolare caratterizzata da un aumento del numero e delle dimensioni dei centri germinativi con irregolarità dell’area perifollicolare e presenza di piccoli agglomerati di cellule epitelioidi nelle aree intrafollicolari; • involuzione follicolare con un iniziale scompaginamento della struttura dei follicoli con comparsa di infiltrati linfocitari e riduzione delle cellule dendritiche; • involuzione follicolare con atrofia caratterizzata dalla presenza di piccoli residui follicolari con depositi PAS-positivi e cellule centrofollicolari e dendritiche considerevolmente ridotte di numero;
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MALATTIE INFETTIVE
Sieroconversione Infezione
Decesso
Linfociti Linfociti TT CD4+ CD4+ per perµll
Paziente asintomatico
Paziente sintomatico
AIDS
1000
500
Linfociti T CD4+
0
Linfociti T CD4+ per µl l
Copie di HIV-RNA nel plasma
Anticorpi anti-HIV p24 10 2
4-8 settimane
10-12 anni
Copie di HIV-RNA nel plasma/ml
10 6 Anticorpi anti-HIV env
2-3 anni
Figura 81.4 - Modello teorico di evoluzione dell’infezione da HIV. Nel corso dell’infezione primaria si verifica una disseminazione del virus con rapida riduzione del numero dei linfociti CD4+. La progressiva riduzione del numero dei linfociti CD4+ negli anni seguenti, causata dalla continua replicazione virale, porta al rischio di sviluppare infezioni opportunistiche.
• deplezione follicolare con completo scompaginamento del quadro strutturale del linfonodo completamente alterato, quasi del tutto privo di follicoli, con rare cellule centrofollicolari, pronunciata neoangiogenesi, linfopenia e predominanza di piccoli linfociti frammisti a plasmacellule ed istiociti. La progressiva riduzione dei linfociti CD4 è un complesso fenomeno multifattoriale, solo in parte dovuto alla lisi di cellule causata direttamente da HIV. Esso è infatti anche legato alla formazione di sincizi derivati dalla fusione di più cellule sia infette, sia non infette, alla produzione di fattori solubili extracellulari che inibiscono la produzione di cloni cellulari CD4+ ed alla lisi di cellule non infette, che esprimono sulle loro membrane equivalenti delle proteine del virus, da parte di linfociti T citotossici, o cellule natural killer. Tra gli altri potenziali meccanismi di riduzione quantitativa dei linfociti T helper, innescati (ma non direttamente provocati) da HIV, vanno ricordati la più rapida morte cellulare programmata (apoptosi), osservata anche in linfociti CD4 non infetti, ed il ruolo di antigeni di varia natura (superantigeni) in grado di rendere più suscettibili all’infezione i linfociti CD4. Fenomeni autoimmunitari ed il blocco dei recettori CD4 da parte di
antigeni retrovirali circolanti sembrano in grado di inibire notevolmente le normali funzioni immunitarie dei linfociti T helper. Nel prolungato periodo di asintomaticità si creano quindi le condizioni per lo sviluppo, attraverso complessi meccanismi eziopatogenetici, del deficit dell’immunità cellulo-mediata che predispone all’insorgenza dell’AIDS conclamata.
Storia naturale e prognosi La storia naturale dell’infezione da HIV inizia con la penetrazione del virus nell’organismo e l’interessamento dei linfonodi dove si replica attivamente (e continuerà a farlo per tutta la durata dell’infezione); la conseguente disseminazione sistemica determina un’infezione acuta che decorre generalmente in modo asintomatico; soltanto in alcuni casi provoca una serie di segni e sintomi peraltro poco caratteristici, cosicché nella maggior parte dei casi essa rimane misconosciuta (Fig. 81.4). La sindrome, infatti, il più delle volte è aspecifica e si limita ad un semplice rialzo termico accompagnato da faringodinia, astenia, linfoadenomegalia ed artromialgie.
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81 - INFEZIONI SISTEMICHE
Talvolta sono presenti sintomi gastroenterici, come nausea, vomito, diarrea, ed epatosplenomegalia. Solo in alcuni casi si osservano manifestazioni cliniche più specifiche, quali le ulcere delle mucose del cavo orale o genitali ed un esantema roseoliforme (sindrome similmononucleosica). Quando è presente la tipica sindrome similmononucleosica, la diagnosi differenziale si pone con altre infezioni da virus (herpes, cytomegalovirus, rosolia, adenovirus), batteri (streptococchi, in particolare), protozoi (Toxoplasma gondii) e le neoplasie (linfomi, leucemie). Più raramente, la prima infezione è caratterizzata da un’encefalite o da una meningite acuta reversibile con perdita di memoria, disorientamento ed alterazioni della personalità e/o da mielopatie o neuropatie. 1. Sieroconversione. La durata dell’infezione primaria è di circa 2 settimane, tuttavia i sintomi possono persistere per 2 mesi. Nella fase di sieroconversione si riscontra linfopenia con deplezione dei linfociti CD4+; dopo la prima settimana il numero dei linfociti totali aumenta, specie a carico della frazione dei CD8+, mentre il numero dei CD4+ si riduce. L’infezione acuta si associa ad alti livelli di viremia. La viremia plasmatica decresce rapidamente nelle 3-4 settimane successive, come probabile conseguenza della risposta immunitaria dell’organismo. Anticorpi specifici anti-HIV, di classe IgM, compaiono in un periodo variabile da 1 settimana a 3 mesi dal contagio, ma la loro determinazione non è entrata nell’uso clinico. La comparsa delle IgG specifiche si riscontra abitualmente da 1 a 2 mesi dopo l’infezione primaria, ma in alcuni casi sono state osservate sieroconversioni anche a maggior distanza dall’esposizione al virus. Nel periodo che precede la sieroconversione, definito “periodo finestra”, l’infezione può essere diagnosticata mediante tecniche di amplificazione di sequenze genomiche (valutazione quantitativa di RNA o di DNA provirale di HIV-1 con la PCR) oppure con l’isolamento del virus su linee cellulari infettate con materiale biologico. La diagnosi differenziale va posta con malattie infettive comuni quali l’influenza, la toxoplasmosi, la mononucleosi infettiva. La risposta immune che segue l’impianto del virus è complessa ed è sia umorale (anticorpi anticore ed antienvelope del retrovirus), sia cellulo-mediata (linfociti T citotossici, natural killer). 2. Stadio precoce dell’infezione. All’infezione primaria, nella maggior parte dei casi, segue un periodo di latenza clinica (linfociti CD4 > 500/l) che dura mediamente 6-9 anni, benché non siano affatto rari i casi ad evoluzione sfavorevole precoce (2-3 anni). Questa latenza è solo clinica e non biologica in considerazione del fatto che in questa fase sono stati dimostrati elevati livelli di viremia plasmatica ed intralinfonodale, fenomeno associato ad un’imponente produzione ed eliminazione (turn-over) di virus e di cellule target. È stato stimato che, in pazienti con infezione da HIV, circa il
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5% della popolazione cellulare T CD4+ corporea totale sia distrutto ogni giorno; per mantenere stabile il numero dei linfociti CD4 occorre che un numero equivalente di cellule sia prodotto ogni giorno. La capacità rigenerativa del sistema immunitario è costantemente stimolata per compensare il danno causato dalla replicazione virale. Durante questo periodo si verifica una progressiva riduzione del numero dei linfociti CD4+ (pur mantenendosi superiori ai 500/l nella maggior parte dei soggetti); si può anche osservare la comparsa di linfoadenopatia generalizzata e persistente (LGP), definita come aumento di volume dei linfonodi superiore a 1 cm, a carico di almeno due stazioni linfonodali extrainguinali non contigue che persiste da almeno 3 mesi, in assenza di malattia in grado di causare linfoadenopatia. La linfoadenopatia è bilaterale, interessa tutte le stazioni linfoghiandolari apprezzabili ed assume una particolare evidenza in sede retro-nucale, latero-cervicale ed ascellare. La maggioranza degli individui non presenta sintomi associabili a deficit dell’immunità cellulo-mediata, possono tuttavia comparire dermatite seborroica, molluschi contagiosi, leucoplachia, herpes labiale, herpes zoster multidermatomerico. In questo stadio dell’infezione la terapia antiretrovirale è raccomandata solo per i soggetti sintomatici o con elevata viremia. 3. Lo stadio medio dell’infezione è caratterizzato da un numero di linfociti CD4 compresi fra 200 e 500/l associato ad altre anomalie immunologiche. Gli individui che rientrano in questo stadio possono rimanere asintomatici o presentare sintomi quali candidosi vaginale, dermatite seborroica ricorrente, diarrea, febbre intermittente, sinusiti, bronchiti, polmoniti. L’eziologia delle infezioni batteriche è generalmente sostenuta da microrganismi presenti nelle comunità quali Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, Moraxella catarrhalis e Mycoplasma pneumoniae. 4. Stadio avanzato dell’infezione. Il progressivo peggioramento del deficit dell’immunità cellulo-mediata (linfociti CD4+ al di sotto dei 200 per l ed anergia ai test cutanei) è accompagnato abitualmente da infezioni croniche della cute o delle mucose causate da virus o da funghi, insolitamente gravi e persistenti. Tra le micosi, le infezioni da Candida spp della mucosa dell’orofaringe rappresentano una delle patologie di più frequente riscontro. La localizzazione orale sovente precede o si accompagna a lesioni viscerali (esofagite da Candida, candidosi disseminata), a volte asintomatiche o accompagnate da un semplice rialzo termico. Relativamente frequenti sono le candidosi cutanee e le dermatofizie della pelle glabra e delle unghie (herpes circinato, tinea pedis, onicomicosi). Tra i patogeni di origine virale, l’herpes simplex è responsabile di lesioni cutanee caratterizzate da vescicole ed ulcere sanguinanti, particolarmente in regione orale, genitale, perianale. Nell’infezione da virus varicella-zoster vi è una notevole disseminazione delle lesioni che interessano uno o più dermatomeri; frequenti le ulcerazioni e le sovrainfezioni batteriche con successiva batteriemia. La diagnosi clinica di infezione da virus vari-
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cella-zoster risulta quasi sempre facile, mentre nelle alterazioni dermatologiche da herpes simplex e da cytomegalovirus, che può causare processi necrotici susseguenti ad una vasculite, la diagnosi differenziale è più difficoltosa e la conferma diagnostica è basata sull’isolamento del virus dal liquido della vescicola o dall’ulcera, mediante indagini colturali. Frequenti sono le patologie da papillomavirus, quali verruche al volto e alle mani, ed il mollusco contagioso localizzato per lo più al volto. È abbastanza comune anche la presenza di condilomi acuminati e di verruche volgari multiple a livello genitale ed anorettale. Recenti studi con microscopia elettronica e con tecniche di ibridazione in situ hanno dimostrato l’eziologia virale (virus di Epstein-Barr) anche della leucoplachia villosa orale o hairy leukoplakia (placche biancastre leucoplasiche, generalmente localizzate al dorso della lingua), che spesso pone problemi di diagnosi differenziale con la candidosi. Di riscontro pressoché abituale nelle fasi avanzate di malattia, ma di frequente osservazione anche nei soggetti HIV positivi paucisintomatici, è la dermatite seborroica. Si tratta probabimente di un’infezione cutanea da Pityrosporum (P. ovali, P. orbiculare), favorita sia dalla ridotta capacità di risposta cellulo-mediata, sia dalla localizzazione di HIV nelle cellule immunocompetenti dell’epidermide (cellule di Langerhans); in alcuni casi rappresenta il primo segnale di progressione della malattia. Molte forme gravi possono assomigliare ad una psoriasi, nelle forme di media gravità sono utili gli steroidi topici a bassa dose. La progressiva compromissione delle difese immunitarie favorisce lo sviluppo delle infezioni opportunistiche e delle neoplasie indicative di AIDS. Il tasso di letalità dell’AIDS (60% circa ad un anno e mezzo dalla diagnosi e del 90% a 3 anni), molto alto all’esordio dell’epidemia, è attualmente drasticamente ridotto grazie alla terapia antiretrovirale ed al trattamento e prevenzione delle patologie opportunistiche. La sopravvivenza media rimane molto bassa in particolare nei pazienti con linfomi non Hodgkin ad alto grado di malignità e a localizzazione cerebrale e in quelli affetti da infezioni disseminate da cytomegalovirus e da Mycobacterium avium-Mycobacterium intracellulare (o complesso Mycobacterium avium, MAC). Attualmente, con il miglioramento delle tecniche diagnostiche che permettono un precoce intervento terapeutico delle infezioni opportunistiche, con la abituale profilassi delle più frequenti forme opportunistiche e con il trattamento antiretrovirale, la sopravvivenza dei pazienti sieropositivi è aumentata. Il riconoscimento dei soggetti che presentano un maggior rischio di evolvere in malattia conclamata riveste oggi particolare rilevanza a causa della sempre crescente disponibilità di farmaci. Alcuni indicatori si sono dimostrati di particolare utilità e vengono definiti “markers o indicatori di progressione”; possono essere distinti in virologici, immunologici e clinici. Tra gli indicatori virologici, quello abitualmente usato nella pratica clinica è la viremia plasmatica. Attual-
MALATTIE INFETTIVE
mente si può effettuare a scopo solo di ricerca la determinazione quantitativa del carico provirale (DNA intracellulare) e di RNA messaggero intracitoplasmatico (espressione dell’attività trascrizionale del virus), mentre è sicuramente di maggiore importanza l’analisi della viremia quantitativa (“viral load”), cioè del numero di copie di RNA virale per unità di misura plasmatica (copie/ml); tale test si è dimostrato il sistema più sicuro ed affidabile come marcatore di progressione della malattia e di monitoraggio dell’efficacia della terapia antiretrovirale. Le concentrazioni plasmatiche di HIV-1 RNA riflettono la velocità di replicazione virale attiva e conseguentemente la distruzione delle cellule T CD4+. Il valore progressivo del dosaggio di HIV-1 RNA iniziale post-sieroconversione è stato chiaramente dimostrato, infatti una singola determinazione plasmatica di HIV-1 RNA ottenuta poco dopo l’infezione iniziale può predire eventi clinici successivi di anni. Gli indicatori immunologici prendono in considerazione l’andamento dello stato di immunodeficienza, gli indici di sofferenza o turn-over linfocitario, i marcatori di alterazione dell’omeostasi immunitaria e la diminuzione della risposta anticorpale specifica. Nel corso della fase di cronicità dell’infezione da HIV il numero dei linfociti CD4+ è diminuito e la riduzione è strettamente associata allo sviluppo di infezioni opportunistiche e tumori. È naturale, quindi, considerare la riduzione dei linfociti CD4+ un importante indicatore di progressione dell’infezione: studi prospettivi in tal senso hanno ampiamente confermato questa ipotesi. La conta del numero assoluto dei linfociti CD4+ per microlitro è il metodo abituale di valutazione dello stadio di immunodeficienza e delle sue variazioni nel corso della storia naturale dell’infezione e durante i trattamenti antiretrovirali. Rapide diminuzioni del numero assoluto e delle percentuali di CD4 (superiore al 10% per anno = “rapid decline”) sono un segno prognostico sfavorevole. In generale, la riduzione dei linfociti CD4+ provoca un’inversione del rapporto CD4+/CD8+ che è tanto maggiore quanto minore è il numero dei CD4+. Più basso è il rapporto CD4+/CD8+, più elevata la probabilità di progressione della malattia. Anche questo parametro può quindi essere considerato come indice di progressione. Meno lineare nel corso dell’infezione è l’andamento del numero dei CD8+. Nell’infezione primaria, infatti, il loro numero è molto elevato e successivamente, per un lungo periodo, può rimanere al di sopra dei livelli normali. In queste fasi, nei soggetti con linfociti CD4+ nell’ambito della normalità, è l’alto numero dei CD8+ a provocare l’inversione del rapporto CD4+/CD8+. Nelle fasi avanzate di malattia, invece, il numero di linfociti CD8+ si riduce parallelamente al numero assoluto dei linfociti; la loro riduzione rappresenta un fattore prognostico sfavorevole. La 2-microglobulina (2-M) è una proteina presente sulla superficie di ogni cellula nucleata come catena leggera dei complessi di antigeni di istocompatibilità di classe I. I livelli di 2-M aumentano quando vi è un’attivazione o lisi di cellule mononucleate, come avviene in corso di infezione da HIV. Diversi studi hanno dimo-
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81 - INFEZIONI SISTEMICHE
strato che livelli di 2-M superiori ai 3 mg/l sono associati ad un aumentato rischio di progressione della malattia, e che livelli superiori a 5 mg/l preludono all’insorgenza di infezioni opportunistiche. La neopterina viene prodotta durante il metabolismo della guanosina trifosfato ed aumenta durante l’attività cellulare. La fonte principale di produzione sono i monociti ed i macrofagi stimolati da citochine (interferon-). Livelli urinari o sierici superiori ai 15 mg/ml sono stati osservati in pazienti con AIDS, mentre nei soggetti asintomatici il tasso è inferiore a 5 mg/ml. È stato dimostrato che un parametro in grado di predire sia l’evoluzione dell’infezione da HIV, sia l’esito della terapia antiretrovirale è il fenotipo biologico di HIV-1, definito dalla capacità di indurre o meno la formazione di sincizi cellulari durante la coattivazione con linfociti del donatore. La comparsa della variante sinciziogena, che avviene in media due anni prima della progressione in AIDS, è predittiva di un’accelerazione nel tasso di riduzione delle cellule CD4+. Tra i marker di progressione vanno ricordate anche le anomalie dell’immunità umorale: l’aumento delle IgA ed il declino della risposta anticorpale anticore di HIV. La stimolazione dei linfociti B di norma dà origine ad un’iper--globulinemia policlonale; in alcuni casi, però, soprattutto negli stadi più avanzati dell’infezione, si osserva un aumento selettivo delle IgA, per esaurimento funzionale dei cloni deputati alla produzione di altre immunoglobuline o per iperproduzione di sole immunoglobuline A. L’aumento di IgA è associato frequentemente ad una più sfavorevole evoluzione della malattia. Non frequente, e di esclusiva osservazione nelle fasi avanzate di malattia, è la scomparsa o la riduzione degli anticorpi anticore di HIV (anti-p24) che va interpretata come una quasi completa perdita della capacità di risposta immune da parte dell’organismo. La mancanza di anticorpi anti-p24 prelude ad una rapida progressione verso gli stadi terminali di malattia. Alcune infezioni opportunistiche cosiddette “minori” ed alcuni sintomi sistemici, infine, sono importanti indicatori di progressione. Essi, di fatto, esprimono uno stato di immunodeficienza già consolidato e tale da permettere l’insorgenza di infezioni non gravi causate da patogeni opportunisti. I marker clinici più abituali sono la candidosi orale, la leucoplachia orale villosa, l’herpes zoster, la dermatite seborroica, una rilevante perdita di peso. I vari indicatori presentano un diverso valore predittivo. Il marcatore prognostico ritenuto attualmente più affidabile di evoluzione clinica e di monitoraggio dell’efficacia della terapia è rappresentato dalla conta dei linfociti CD4. Il significato prognostico delle infezioni opportunistiche “minori” è molto rilevante; tuttavia la loro comparsa – troppo tardiva – le rende poco utili ai fini di un tempestivo intervento terapeutico. Ai fini di un corretto controllo clinico di tutti i soggetti sieropositivi asintomatici, si ritiene sia sufficiente prescrivere una determinazione della viremia plasmatica dopo circa 6-9 mesi dall’infezione acuta (“set-
point”), ogni 3-4 mesi nei pazienti mai trattati, all’inizio della terapia, 4 settimane dall’inizio e ogni 3-4 mesi durante la terapia ed all’insorgenza di un evento clinico. Poiché infezioni intercorrenti possono momentaneamente alternare il set-point, si consigliano sempre due determinazioni a distanza di 4 settimane. La determinazione del numero dei linfociti CD4+ deve essere eseguita al momento della diagnosi di infezione da HIV ed in seguito ogni 3-6 mesi.
Classificazione Il Decreto del Ministero della Sanità del 28 novembre 1986 prevede la notifica obbligatoria per i soli casi di AIDS. La definizione di caso di AIDS, così come era stata redatta dai CDC, comportava la “presenza di una malattia almeno moderatamente indicativa di un deficit dell’immunità cellulare, in assenza di ogni altra causa intercorrente di immunodeficienza o di qualsiasi causa definita di diminuita resistenza alle malattie”. Il graduale riconoscimento delle manifestazioni cliniche correlate all’infezione ha portato all’utilizzazione di sistemi di classificazione adatti sia ai fini epidemiologici che clinici. Oggi, quindi, alcune patologie di abituale riscontro nei pazienti HIV sieropositivi come la “wasting syndrome” (forte dimagramento, con febbre e diarrea persistente), la tubercolosi polmonare ed extrapolmonare, le infezioni batteriche (in particolare le sepsi da salmonelle o almeno due episodi di broncopolmonite ad eziologia batterica nello stesso anno) e soprattutto l’encefalopatia da HIV (AIDS-dementia complex) vengono nosograficamente considerate AIDS, a differenza del passato. Anche il carcinoma invasivo del collo dell’utero, per l’elevata frequenza con la quale si manifesta in donne HIV sieropositive, è stato incluso tra i segni di malattia conclamata. La classificazione attualmente utilizzata per l’infezione da HIV è stata proposta nel 1993 dai CDC e prevede una suddivisione dei pazienti in base non solo ai sintomi clinici, ma anche ai livelli dei linfociti CD4+, come riportato nella tabella 81.3. Questo sistema divide i pazienti in nove sottogruppi in base a condizioni cliniche associate all’infezione da HIV ed al numero di linfociti CD4/l. Il sistema prevede tre categorie cliniche indicate con le lettere A, B e C. La categoria A include l’infezione acuta, l’infezione asintomatica e la linfoadenopatia generalizzata persistente; la categoria B include condizioni sintomatiche non incluse in A e C quali candidosi orofaringea, sintomi costituzionali (febbre > 38,5 °C e/o diarrea persistente per più di 1 mese), leucoplachia orale villosa, herpes zoster multidermatomerico o ricorrente, porpora trombocitopenica idiopatica, angiomatosi bacillare, listeriosi, neuropatia periferica, candidosi vulvovaginale (persistente, frequente o scarsamente responsiva ai farmaci), displasia cervicale/carcinoma in situ della cervice uterina, malattia infiammatoria della pelvi; la categoria C include le condizioni cliniche indicative di AIDS (Tab. 81.4).
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MALATTIE INFETTIVE
Tabella 81.3 - Proposta di revisione del sistema di classificazione delle infezioni da HIV e dei casi di AIDS per adolescenti e adulti (CDC, 1992). CATEGORIE SUDDIVISE PER NUMERO DI LINFOCITI T CD4+
(1) > 500/l (2) 200-499/l (3) < 200/l
CATEGORIE CLINICHE A
B
Asintomatici, infezione acuta (primaria) da HIV o LAS (1)
Sintomatici (condizioni non previste in A o C)
A1 A2 A3
B1 B2 B3
C(2)
C1 C2 C3
(1) Linfoadenopatia generalizzata persistente. (2) Infezioni opportunistiche e tumori indicativi di AIDS (vedi Tab. 81.4)
La correlazione tra basso numero di CD4+ e AIDS si è osservata in questi anni con tale frequenza da far sì che vengano considerati passibili di notifica di malattia tutti i pazienti con meno di 200 CD4+/l (categoria 3 della Tab. 81.3), anche in assenza di sintomatologia clinica (A3). Una classificazione a sé stante è stata proposta per l’AIDS pediatrica. Quest’ultima si riferisce ai soggetti di età inferiore ai 13 anni positivi per HIV ed esclude, quali cause indicative di AIDS, le infezioni da T. gondii e da herpes simplex disseminate riscontrate entro il 1° mese di vita e le infezioni disseminate da cytomegalovirus riscontrate nei primi 6 mesi di vita. Include invece, oltre alle patologie specificamente elencate nella definizione di AIDS dell’adulto, alcune particolari patologie pediatriche come le polmoniti interstiziali linfocitarie croniche, le infezioni batteriche gravi ricorrenti ed altre malattie (emopatie, dermopatie, cardiopatie, nefropatie, epatopatie) probabilmente secondarie all’infezione da HIV e meno comuni nell’adulto. Nei paesi con possibilità diagnostiche limitate (per es., per le nazioni africane) è stata adottata una classificazione “clinica” più semplice, allo scopo di facilitare la notifica. Essa è basata sul rilievo di almeno due segni “maggiori” (perdita di peso superiore al 10%, diarrea o febbre protratta per oltre 1 mese) e un segno “minore” (tosse protratta per più di 1 mese, dermatite generalizzata, manifestazioni zosteriane ricorrenti, candidosi orofaringea, infezioni croniche e disseminate da herpes simplex, linfoadenopatia generalizzata). Analogamente, è stata applicata una classificazione clinica pediatrica, fondata su due degli stessi segni “maggiori” e su un segno “minore” compreso tra linfoadenopatia generalizzata, candidosi orofaringea, infezioni comuni ripetute (otiti, faringiti e così via), tosse persistente, dermatite generalizzata e confermata sieropositività della madre.
Tabella 81.4 - Patologie definenti un caso di AIDS. • Candidosi esofagea, tracheale, bronchiale o polmonare • Carcinoma invasivo del collo uterino • Criptococcosi extrapolmonare • Criptosporidiosi, con diarrea persistente da oltre 1 mese • Istoplasmosi disseminata • Coccidioidomicosi disseminata • Infezione da Cytomegalovirus tranne le localizzazioni epatica, splenica e linfonodale • Retinite da Cytomegalovirus con perdita della visione • Infezione da Herpes simplex ulcerativa persistente o disseminata • Encefalopatia da HIV (AIDS-dementia complex) • Sarcoma di Kaposi • Isosporiasi intestinale cronica • Linfoma di Burkitt • Linfoma immunoblastico • Linfoma cerebrale primitivo • Micobatteriosi atipica (da M. avium o M. Kansasii più altre specie) disseminata • Tubercolosi polmonare ed extrapolmonare • Polmonite da Pneumocystis carinii • Almeno due episodi di broncopolmonite ad eziologia batterica nello stesso anno • Leucoencefalite multifocale progressiva • Toxoplasmosi viscerale (SNC) • Strongiloidiasi extraintestinale • Sepsi ricorrenti da salmonelle non tifoidi • Wasting syndrome (slim disease)
Diagnosi eziologica La diagnosi eziologica viene raggiunta dimostrando la presenza del virus o della risposta anticorpale. La presenza del virus è massima nella fase acuta dell’infezione, prima della comparsa della risposta immune, per ridursi poi sensibilmente nel lungo periodo di infezione cronica, in cui il virus rimane integrato nel genoma delle cellule ospiti o confinato nei réservoirs dell’infezione (tessuto linfatico, SNC). Viremie elevate ricompaiono spesso a distanza di anni dal contagio e precedono la comparsa di sintomatologia clinica. Può essere dimostrata la presenza del virus o di sue componenti antigeniche; entrambi possono essere titolati o quantificati. Il virus viene evidenziato sia nelle cellule infette, per lo più linfociti circolanti, sia in liquidi biologici quali plasma, liquor e liquido seminale. Le metodiche principali comprendono l’isolamento su linee di linfociti CD4+, la messa in evidenza di cDNA o RNA virale amplificato con il metodo della PCR, la ricerca su siero, plasma e liquor di componenti del core del virus (HIV-Ag p24) con metodiche immunoenzimatiche. La PCR può evidenziare sia DNA, sia RNA virale: il primo esprime la presenza del virus integrato in forma
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81 - INFEZIONI SISTEMICHE
di provirus o presente nel citoplasma; il secondo, il virus in fase di attiva replicazione. Tra gli antigeni virali, la ricerca dell’antigene p24, attualmente raramente eseguita, si era dimostrata utile ai fini diagnostici prima di avere la possibilità di eseguire routinariamente la determinazione della viremia plasmatica. La determinazione della viremia plasmatica, con un metodo di valutazione semiquantitativo, fornisce la misura della quantità del virus libero in grado di infettare altre cellule. La viremia cellulare dimostra la presenza di linfociti infetti in grado di trasmettere l’infezione, la cui entità può essere valutata con diluizioni del campione in esame. Attualmente sono disponibili in commercio tre sistemi per la determinazione del numero di copie di HIV-RNA: RT-PCR, NASBA e bDNA con sensibilità, specificità e riproducibilità tra loro paragonabili. La sola differenza riscontrata, e comunque da non sottovalutare, è che il bDNA è in grado di rilevare tutti i sottotipi di HIV-1, mentre RT-PCR ha una scarsa sensibilità per il sottotipo A e il NASBA per il sottotipo G. La variabilità all’interno di ciascun saggio è compresa tra 0,12 e 0,2 Log. Le colture e le co-colture consentono soprattutto di studiare le caratteristiche fenotipiche del virus (ceppi a rapida o lenta crescita, ceppi formanti e non formanti sincizi) che hanno un notevole valore prognostico sull’evoluzione dell’infezione. Il tempo medio di comparsa degli anticorpi specifici è di 2 mesi circa dal contagio. Nella quasi totalità dei soggetti infetti, gli anticorpi sono dimostrabili 6 mesi dopo e persistono per tutta la vita (sono espressione di “sieropositività” per HIV). Nel siero sono riscontrabili anticorpi diretti contro le glicoproteine codificate dal gene env (gp160, gp120, gp41) e le proteine codificate dal gene pol (p64, p53, p31) e dal gene gag (p55, p24, p13 e p15). Un soggetto infetto, pertanto, è privo di anticorpi nel solo cosiddetto “periodo finestra”, che corrisponde alle 6-8 settimane successive al contagio. Anticorpi appartenenti alla classe IgM sono presenti nei primi stadi dell’infezione e probabilmente anche in seguito, durante le fasi di riattivazione della replicazione virale; la loro dimostrazione sarebbe pertanto utile, ma a tutt’oggi non vi sono test abbastanza affidabili per la loro messa in evidenza. Del tutto eccezionalmente, la produzione di anticorpi può cessare negli stadi terminali dell’infezione a causa del gravissimo stato di immunodeficienza, oppure in condizioni di prolungata e assoluta assenza di replicazione virale. Quest’ultima condizione è da considerarsi rarissima e reversibile. Per la diagnosi di infezione, pertanto: • nelle prime settimane dopo il contagio (“periodo finestra”) è dimostrabile la presenza del virus con metodi complessi (PCR e colture virali) o dell’antigene p24 con test immunoenzimatici; • successivamente, il metodo più comune è la dimostrazione degli anticorpi anti-HIV.
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Tra le tecniche attualmente in uso per la ricerca degli anticorpi specifici, le metodiche immunoenzimatiche (ELISA) si fanno ampiamente preferire come prova di screening e di diagnostica routinaria per maneggevolezza e costi. Il test dimostra una sensibilità superiore al 95% e una specificità che si avvicina al 95%. Il test di conferma impiegato è il Western Blot (WB), non soltanto perché dotato di elevata specificità e sensibilità nei confronti di tutti gli anticorpi diretti contro gli antigeni virali, ma anche perché consente di seguire la dinamica della risposta anticorpale nei confronti delle diverse componenti (gag, pol ed env) del virus. Criteri precisi per giudicare positiva la risposta sono ancora controversi: tuttavia, la presenza di almeno due bande di immunoprecipitazione comprese tra p24, gp41 e gp120-160 indica una positività dell’esame. I test di immunoprecipitazione (RIPA) e di immunofluorescenza indiretta (IFA) sono affidabili e da tempo in uso, e possono in alcuni casi essere impiegati come test di conferma. Talvolta i test immunoenzimatici danno risultati falsamente positivi, in genere dovuti a reazioni crociate con anticorpi diretti contro antigeni di istocompatibilità di classe II o con autoanticorpi (antinucleo, antimitocondrio, ed altri). Le false positività sono più frequenti nei soggetti politrasfusi, nelle multipare e nei pazienti con malattie autoimmuni. I falsi positivi al WB, che ha una specificità del 99,9%, sono molto rari ed in genere limitati ai casi cosiddetti “indeterminati”, caratterizzati da risposta ad una sola proteina virale (per es. p24). In questi casi il ricorso ad altri test di conferma (RIPA, IFA) o alla PCR o alle colture virali può dirimere il dubbio. I risultati falsamente negativi sono limitati alla “fase finestra”, agli stadi terminali di malattia oppure all’uso di test immunoenzimatici che abbiano come substrato solo singole proteine virali ricombinanti (p24). Nei neonati da madre HIV sieropositiva, la presenza degli anticorpi di origine materna (che possono persistere sino al 18° mese di vita) non consente una diagnosi precoce di infezione mediante la ricerca di anticorpi anti-HIV. virali; la diagnosi viene quindi eseguita mediante isolamento virale o PCR che devono essere effettuati entro 2 settimane dalla nascita e, se negativi, ripetuti dopo 3-6 mesi per poter evidenziare le eventuali infezioni intrapartum. Il “follow-up” sierologico viene effettuato di solito mediante WB, ripetendo l’indagine ogni 3 mesi, onde verificare l’andamento della risposta anticorpale. Nel neonato infetto si ha prima una riduzione della reattività anticorpale dovuta alla riduzione degli anticorpi materni, seguita da un aumento dovuto alla produzione degli anticorpi da parte del neonato. Nel neonato sano si osserva una progressiva riduzione degli anticorpi trasmessi passivamente fino alla loro completa scomparsa nell’arco di circa 18 mesi. La diagnosi di infezione mediante PCR, coltura virale o ricerca di Ag p24 può essere utile anche in soggetti che abbiano avuto esposizioni al contagio in data nota (punture accidentali, contatti occasionali), poiché consente di identificare l’infezione prima della comparsa degli anticorpi.
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MALATTIE INFETTIVE
AIDS E INFEZIONI OPPORTUNISTICHE Le infezioni opportunistiche sono le più importanti cause di morbosità e letalità nei pazienti con sindrome da immunodeficienza acquisita. Sono nella quasi totalità dei casi provocate da virus, batteri, miceti e protozoi a sviluppo intracellulare, favorito dal deficit dell’immunità cellulo-mediata. La più parte delle infezioni associate ad HIV è conseguente alla riattivazione endogena di microrganismi acquisiti in precedenza, che nell’ospite immunocompetente solo eccezionalmente danno origine a malattia, mentre nell’AIDS si manifestano nella loro più grave espressione. Le infezioni sono spesso disseminate, eradicabili con difficoltà e caratterizzate da frequenti recidive di sempre più arduo trattamento. In molti casi, più infezioni opportunistiche si presentano in successione ravvicinata, o addirittura contemporaneamente, ponendo notevoli difficoltà di diagnosi differenziale e costringendo a terapie complesse. La frequenza con la quale le infezioni opportunistiche si manifestano non è omogenea, differisce da un’area geografica all’altra e muta nel tempo. Attualmente la polmonite da Pneumocystis carinii e l’esofagite da Candida spp, le malattie indice più frequenti nei primi anni di epidemia (l’80% dei casi), sono notevolmente diminuite a causa delle pratiche di profilassi primaria e secondaria abitualmente impiegate. La probabilità che si manifesti un’infezione opportunistica è in funzione della gravità della compromissione immunitaria: esse sono prevalentemente rappresentate da riattivazione endogena di infezioni latenti. Il rischio di comparsa delle diverse patologie è correlato all’entità dell’immunocompromissione: meno il microrganismo è patogeno, maggiore è l’entità dell’immunodepressione necessaria per la comparsa di malattia. La tubercolosipuò manifestarsi anche con conte elevate di linfociti CD4+, mentre al contrario la malattia da CMV e le micobatteriosi non tubercolari sono di più comune riscontro nelle fasi avanzate di malattia, caratterizzate da un tasso di linfociti CD4+ inferiore a 50/l. Le varie patologie si manifestano con incidenza diversa sia in rapporto al fattore di rischio che alla distribuzione geografica. Per esempio il sarcoma di Kaposi è stata la prima manifestazione di AIDS negli omosessuali maschi rispetto al 4% circa dei tossicodipendenti ed all’1-2% degli emofilici; la meningoencefalite criptococcica è fra le più frequenti infezioni opportunistiche in Africa mentre è relativamente più rara in Europa e negli USA; l’isosporiasi è di quasi esclusivo riscontro nelle aree tropicali e così via. Fattori diversi come condizioni nutrizionali, fattori riguardanti l’ospite, varianti regionali dei ceppi di HIV e fattori genetici possono essere la causa di queste osservazioni. HIV e gli agenti opportunisti possono colpire vari organi ed apparati; qui di seguito sono ricordati i quadri clinici di più frequente osservazione.
Apparato respiratorio La più frequente infezione opportunistica in corso di AIDS rimane la polmonite da P. carinii (PCP): fino a poco tempo fa essa rappresentava la prima infezione opportunistica nel 60% circa dei casi e colpiva complessivamente – nel corso della malattia da HIV – più dell’80% dei pazienti con AIDS. Oggi, grazie alla profilassi, la prevalenza si è ridotta, ma la PCP mantiene una notevole importanza per la grave insufficienza respiratoria che frequentemente provoca (Fig. 81.5) La tubercolosi polmonare complica la storia naturale dell’infezione da HIV sempre più spesso; il polmone può anche essere interessato in corso di infezioni disseminate da micobatteri non tubercolari, in particolare il complesso Mycobacterium avium-M. intracellulare (MAC o MAI). Tra gli altri microrganismi in grado di causare quadri polmonari, vanno ricordati i miceti (in particolare Candida spp e C. neoformans) e il cytomegalovirus, responsabile di interstiziopatie e frequentemente evidenziato in autopsie di soggetti deceduti per polmoniti interstiziali refrattarie al trattamento con farmaci attivi contro P. carinii. I pazienti affetti da AIDS, ovviamente, sono soggetti anche ad infezioni da parte dei microrganismi che provocano polmoniti e broncopolmoniti negli individui immunocompetenti (Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, Mycoplasma pneumoniae, Legionella pneumophila e virus respiratori). Le broncopolmoniti batteriche recidivanti nelle fasi avanzate di malattia, favorite dalla frequente neutropenia, sono tra le cause di morte più comuni. In questi ultimi anni sono pure divenute più frequenti le broncopolmoniti, gli ascessi polmonari e le pleuriti causate da opportunisti inconsueti come Rhodococcus equi e Nocardia asteroides. La polmonite interstiziale linfocitaria o LIP (Lymphocitic Interstitial Pneumonitis) è una manifestazione clinica comune nell’AIDS pediatrica, ma è stata osservata anche negli adulti. Non è chiaro se questa patologia sia identificabile con la cosiddetta NPI (Non-specific Interstitial Pneu-
Figura 81.5 - Polmonite da P. carinii in un paziente con linfociti CD4+ = 200/l. La tomografia computerizzata evidenzia una grave flogosi interstiziale bilaterale associata a piccole e numerose formazioni bollose.
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monia) descritta da alcuni Autori con particolare frequenza. Le sue caratteristiche cliniche sono simili a quelle osservate nella PCP; la risoluzione o stabilizzazione del quadro avviene senza terapia specifica. La causa di questa polmonite interstiziale rimane sconosciuta; è stato ipotizzato il ruolo eziologico di HIV in associazione o meno a EBV. Apparato digerente Le infezioni opportunistiche dell’apparato digerente sono assai tipiche e comprendono la stomatite e l’esofagite da Candida spp, virus herpes simplex e cytomegalovirus, le ulcerazioni perianali da virus herpes simplex ed enteriti di varia eziologia. Le forme micotiche e da virus herpes simplex rispondono abbastanza bene al trattamento, ma tendono facilmente a recidivare; in qualche caso le infezioni fungine non rimangono limitate alle mucose, ma si disseminano a tutto l’organismo. La sindrome diarroica causata da enterite, sempre fastidiosa, può assumere caratteri di notevole gravità. Le indagini coprologiche talora dimostrano la presenza di microrganismi per i quali si dispone di farmaci efficaci (Salmonella spp, Shigella spp, Campylobacter jejuni, Giardia lamblia, Isospora belli, Entamoeba histolytica, Neisseria gonorrhoeae, micobatteri). Non raramente, tuttavia, l’eziologia della diarrea resta sconosciuta, nonostante le indagini più accurate, oppure è dovuta ad agenti poco o per nulla sensibili alle terapie antimicrobiche (Cryptosporidium parvum, micobatteri non tubercolari, microsporidi). Il trattamento, in questi casi, deve necessariamente limitarsi all’impiego di farmaci sintomatici. L’interessamento dell’apparato digerente da CMV a frequente localizzazione esofagea, talvolta si estende anche allo stomaco (disfagia, grave dolore retrosternale o epigastrico), al colon (diarrea, calo ponderale, dolori addominali, febbre, talvolta perforazione intestinale) ed al fegato. Sistema nervoso centrale e periferico Approssimativamente, il 60% dei pazienti con AIDS presenta sintomi neurologici, e nell’80-90% dei casi vengono dimostrati quadri neuropatologici all’autopsia. HIV, oltre ad essere linfotropo, presenta un notevole neurotropismo ed è stato chiamato in causa quale diretto responsabile di diverse alterazioni neurologiche non ascrivibili direttamente ad altri patogeni opportunisti. I quadri di coinvolgimento del sistema nervoso centrale sono molteplici e possono essere suddivisi in due categorie: le patologie causate direttamente dall’infezione da HIV e le patologie opportunistiche conseguenti al quadro di immunodepressione determinato dal retrovirus. Le più frequenti infezioni virali, nel paziente non trattato con terapia antiretrovirale triplice, sono le encefaliti da CMV e la leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML) causata dal virus JC appartenente alla famiglia Papovaviridae, genere Polyomavirus; più di rado si osservano encefaliti da virus herpes simplex, virus varicella-zoster e adenovirus. La tabella 81.5 illu-
stra le complicanze neurologiche nell’infezione da HIV in base alla loro localizzazione anatomica. L’infezione protozoaria più comune è l’encefalite da T. gondii, mentre tra le micosi la meningoencefalite da C. neoformans è quella di più frequente riscontro. Più rare risultano le infezioni opportunistiche dovute ad altri miceti (Candida albicans, Aspergillus fumigatus, Histoplasma capsulatum, Coccidioides immitis) e da batteri (Mycobacterium tuberculosis, MAC, Listeria monocytogenes, Nocardia asteroides). Piuttosto frequenti il linfoma cerebrale primitivo e la localizzazione cerebrale dei linfomi sistemici. Tabella 81.5 - Complicanze neurologiche nell’infezione da HIV in base alla localizzazione anatomica. ENCEFALO • Prevalentemente non focali – Frequenti AIDS-dementia complex (ADC) Encefalopatia metabolica Encefalite da CMV – Rare Encefalite erpetica Aspergillosi • Prevalentemente focali – Frequenti Toxoplasmosi Linfoma cerebrale primitivo Leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML) – Rare Tubercolosi (ascesso cerebrale) Criptococcoma Encefalite da VZV Disordini vascolari MIDOLLO SPINALE – Frequenti – Rare
Mielopatia vacuolare Mielite da VZV Linfoma spinale epidurale o subdurale Mielopatia HTLV-1 associata MENINGI
– Frequenti
Meningite criptococcica Meningite asettica (HIV) – Meno frequenti Meningite linfomatosa (metastasi) Meningite tubercolare Meningite luetica – Rare Meningite da Lysteria monocitogenes NERVI PERIFERICI E RADICI SPINALI – Molto frequenti Polineuropatia sensitiva distale – Frequenti Neuropatia autonomica Herpes zoster Neuropatia demielinizzante acuta e cronica Neuropatia tossica da farmaci (ddl, ddC) – Meno frequenti Mononeurite multipla Poliradicoloneuropatia da CMV MUSCOLO Polimiosite Miopatie non infiammatorie Miopatia tossica da zidovudina
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Le manifestazioni neurologiche direttamente correlate all’infezione da HIV presentano frequenza e caratteristiche cliniche diverse in relazione al periodo d’insorgenza. Durante l’infezione acuta ed il periodo asintomatico si può osservare una meningite acuta asettica con febbre, cefalea e rigor nucale, che solitamente si risolve spontaneamente; più spesso pazienti del tutto asintomatici presentano una pleiocitosi liquorale che poi tende a declinare in parallelo con la comparsa degli anticorpi anti-HIV. Nelle fasi sintomatiche dell’infezione da HIV, in concomitanza con la progressiva compromissione dell’immunità cellulo-mediata, le manifestazioni cliniche espressione dell’interessamento del sistema nervoso centrale sono più frequenti e molto più gravi. Il quadro neurologico più tipico, rilevato nel 20-30% dei pazienti con AIDS e denominato AIDS-dementia complex (ADC), è caratterizzato dall’insorgenza di demenza con deficit progressivo delle funzioni cognitive. I pazienti lamentano inizialmente difficoltà di concentrazione e memoria, rallentamento nell’ideazione e nell’eloquio, meno frequentemente uno stato confusionale con disorientamento temporo-spaziale. Ai deficit cognitivi si aggiungono spesso alterazioni dell’umore e del comportamento con apatia, letargia, diminuita risposta emotiva, nonché deficit motorî con instabilità della marcia, ipostenia agli arti inferiori, tremore, ipertonia e iper-reflessia. Sebbene il danno neurologico possa stabilizzarsi senza compromettere pesantemente la qualità di vita, nella maggioranza dei pazienti l’evoluzione è progressiva, ed in alcuni casi si manifesta una demenza grave: il malato è costretto a letto, paraplegico, incontinente, con una comunicazione verbale molto ridotta. Nei casi di prevalente interessamento midollare (mielopatia-HIV correlata) il quadro clinico è caratterizzato da paraparesi, atassia, ipertonia degli arti, incontinenza urinaria senza importanti alterazioni delle funzioni cognitive. Oltre alla sintomatologia peculiare dell’ADC, possono essere di ausilio diagnostico le indagini neuroradiologiche e l’analisi del liquor. Gli esami neuroradiologici evidenziano nella maggioranza dei casi atrofia cerebrale e alterazioni focali o diffuse della sostanza bianca, ipodense, che non assumono il mezzo di contrasto. L’esame citologico e chimico-fisico del liquor risulta spesso normale; in alcuni casi vi è una modesta iperproteinorrachia e pleiocitosi linfocitaria. In molti pazienti la presenza del virus nel liquor può essere evidenziata tramite l’isolamento di HIV su colture cellulari e/o la ricerca di HIV-1 mediante tecnica PCR o antigene p24; l’utilità clinica dei marcatori virali è attualmente ancora oggetto di studio. È stato evidenziato anche un incremento di alcuni marcatori indiretti della risposta immunitaria cellulare: neopterina, 2-microglobulina, TNF-, acido chinolinico, prostaglandine, interleuchina-1, interleuchina-6, ecc. La diagnosi è essenzialmente clinica, anche se test neurofisiologici (EEG computerizzato e p300) e soprattutto neuropsicologici (trail making A e B, WAIS-R) possono quantificare il danno neurologico e costituire elementi utili per il monitoraggio terapeutico. Nei bambini l’encefalopatia HIV-correlata può manifestarsi già all’età di 2 mesi con ritardi nello sviluppo psicomotorio,
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atrofia cerebrale, calcificazioni bilaterali dei nuclei della base, o, più avanti, con notevole difficoltà nei processi di apprendimento. La relazione tra le manifestazioni cliniche dell’ADC e le alterazioni istopatologiche HIV-associate osservate nel tessuto cerebrale dei pazienti con AIDS è ancora oggetto di studio. Mentre sono elevate le probabilità di riscontrare lesioni a carico del SNC in pazienti con AIDS (sino al 90% in alcune serie di autopsie), solo nel 30% circa dei casi autoptici è stata osservata un’encefalite da HIV caratterizzata dalla presenza di cellule giganti multinucleate in cui sono riconoscibili antigeni virali. L’eziopatogenesi dell’ADC è complessa e verosimilmente multifattoriale. Dati sempre più numerosi, tuttavia, confermano l’ipotesi di un rilevante ruolo patogenetico diretto di HIV: il virus è stato isolato dall’encefalo, dal liquor, dal midollo spinale e dai nervi periferici di pazienti con manifestazioni neurologiche HIV-correlate. La presenza di HIV e l’identificazione di DNA e RNA virale nel liquor di molti soggetti completamente asintomatici sottolinea la possibilità di un’esposizione precoce e costante del SNC all’azione di HIV, veicolato al suo interno da cellule della serie monocitico-macrofagica. Nel SNC la persistenza del virus sarebbe sostenuta dall’infezione prevalente di elementi di derivazione midollare (macrofagi, microglia), più che di elementi “funzionali” (neuroni, oligodendrociti, astrociti, cellule endoteliali vascolari). Come l’infezione porti ad un danno neurologico che si manifesta prevalentemente solo in fase tardiva, rimane ignoto. Sono stati a buona ragione chiamati in causa meccanismi immunopatologici legati alla liberazione di citochine da parte delle cellule infette (TNF-, IL-1 e IL-6 sembrerebbero coinvolte nell’amplificare la replicazione di HIV e nell’indurre astrogliosi e danno mielinico) o di altri possibili mediatori (proteine virali, neurotrasmettitori). Gli astrociti producono un potente fattore chemiotattico (MCP-1: Monocyte Chemoattractant Protein-1) ed altre molecole che attraggono i linfociti T e i monociti; l’infezione di queste cellule porta alla disseminazione intracerebrale del virus. La demenza HIV-correlata sembra essere reversibile: a possibile conferma indiretta del ruolo eziopatogenico di HIV, la terapia con zidovudina si è dimostrata efficace nel diminuirne l’incidenza, nel recuperare i deficit cognitivi, motori e comportamentali dei pazienti affetti da ADC, nel ridurre le alterazioni neuroradiologiche a carico della sostanza bianca e i livelli liquorali di 2-microglobulina, di Ag p24 e di HIV-1 RNA, marcatori di replicazione virale all’interno del SNC. L’utilizzo della zidovudina non si è rivelato altrettanto utile in una minoranza di pazienti in cui il danno neurologico è quasi esclusivamente midollare. Oltre al coinvolgimento del sistema nervoso centrale, l’infezione da HIV si accompagna ad alcuni disturbi a carico del sistema nervoso periferico. È stata segnalata l’insorgenza, solitamente nelle fasi precedenti la malattia conclamata, di mononeuriti e di poliradicolonevriti infiammatorie acute demielinizzanti (tipo GuillainBarré), soprattutto motorie, a volte associate ad una modesta pleiocitosi liquorale. Più frequentemente, e in
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genere nelle fasi terminali dell’infezione da HIV, si sviluppa una polineuropatia distale simmetrica prevalentemente sensitiva con iperalgesia e dolori urenti in sede plantare. Il quadro elettroneurografico è quello di una degenerazione assonale distale del processo sia centrale sia periferico del primo neurone sensitivo; nei nervi cutanei distali è presente qualche aspetto di degenerazione similwalleriana con infiltrati di macrofagi attivati. L’infezione da HIV può essere inoltre associata ad una miopatia persistente, con ipostenia progressiva prossimale degli arti inferiori e superiori e incremento della creatina-fosfochinasi sierica. Cute e mucose superficiali L’interessamento della cute e delle mucose superficiali in corso di infezione da HIV è abituale. Il più delle volte le infezioni muco-cutanee sono il primo segnale di compromissione dell’immunità cellulo-mediata. Tutte le patologie infettive dermatologiche possono manifestarsi nei soggetti HIV-sieropositivi; l’evoluzione è spesso grave e protratta, contraddistinta da frequenti recidive. Le più usuali (candidosi orofaringea, leucoplachia villosa orale e dermatite seborroica) sono già state descritte nel paragrafo della storia naturale, poiché la loro presenza è strettamente correlata con l’evoluzione dell’infezione da HIV. Tra le altre, che vengono analizzate per esteso in altri capitoli, vanno ricordate le infezioni da virus varicellazoster (zoster necrotico-emorragico, multimetamerico, eruzioni disseminate ectimatose), da virus herpes simplex (lesioni croniche ulcerative a localizzazione anorettale), da poxvirus (mollusco contagioso disseminato) e da virus del papilloma umano (condilomi acuminati). Di comune osservazione sono anche le patologie muco-cutanee da alterata reattività (psoriasi, dermatiti esantematiche o esfoliative), ad eziologia infettiva (follicoliti, micosi cutanee) o neoplastica (sarcoma di Kaposi). Di più rara osservazione sono l’alopecia, la fotosensibilizzazione acuta e/o cronica, la vitiligine. In circa il 40% dei soggetti trattati con zidovudina, soprattutto ad alte dosi (1200 mg/die), si possono osservare alterazioni della pigmentazione delle unghie che consistono in strisce longitudinali scure. Altri apparati A. L’apparato emopoietico è quasi costantemente coinvolto da anomalie nelle varie fasi dell’infezione da HIV. Anemia, leucopenia e piastrinopenia sono presenti nella maggior parte dei pazienti in stadio avanzato. In alcuni casi (5% circa) una piastrinopenia grave può manifestarsi anche in soggetti asintomatici, all’inizio dell’infezione. L’anomalia decorre il più delle volte senza manifestazioni emorragiche; talvolta, però, assume le caratteristiche cliniche della porpora piastrinopenica idiopatica che sembra sostenuta, nella maggior parte dei casi, dalla presenza di anticorpi antipiastrine, prodotti nell’ambito dell’alterazione immunologica generale. La patogenesi della piastrinopenia, in corso di infezione da HIV, è più complessa nei confronti delle altre citopenie. I fenomeni immunopatologici invocati nella piastrinopenia ad insorgenza precoce pur essendo com-
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plessi si possono ricondurre a due elementi fondamentali: la cross-reattività fra alcune glicoproteine delle piastrine e dell’envelope di HIV e l’espansione di cloni di cellule B CD5+ deputati alla produzione di IgM, in parte con attività anti-IgG (fattore reumatoide). La proliferazione policlonale dei linfociti B porta alla produzione di anticorpi antipiastrine favorita dalla cross-reattività in particolare fra la gp120 di HIV e GPIIIa delle piastrine; questi anticorpi sono scarsamente citopatogeni, ma vengono complessati dalle IgM ad attività reumatoide e quindi aderiscono alle piastrine. Nei pazienti piastrinopenici si riscontrano spesso immunocomplessi circolanti composti da IgG, IgM, C3, C4; gli IC, più che le IgG antipiastrine, rendono queste ultime suscettibili al sequestro e alla distruzione da parte della milza. L’anemia e la leucopenia sono spesso conseguenza di malattie linfoproliferative o secondarie ad infezioni opportunistiche (CMV, micobatteri, parvovirus, leishmania), oppure a trattamenti mielotossici (citostatici, sulfamidici, zidovudina). In assenza di una causa secondaria, l’alterazione dell’emopoiesi può essere dovuta anche ad un effetto diretto di HIV tramite l’infezione dei monociti che hanno un ruolo fondamentale nella regolazione di fattori (citochine, fattori di crescita) che regolano l’emopoiesi. Una splenomegalia, espressione di patologie opportunistiche (micobatteriosi, malattie linfoproliferative, salmonellosi) o di epatiti croniche, può contribuire ad aggravare le alterazioni della crasi ematica. B. Le infezioni dell’occhio sono abituali nei pazienti con AIDS ed in qualche caso possono rappresentare il primo segno clinico del passaggio dalla condizione di stabilità a quella di malattia conclamata. L’interessamento oculare si manifesta con lesioni della retina. HIV può essere causa diretta di una retinite caratterizzata da lesioni “a fiocco di cotone” o favorire l’impianto di infezioni opportunistiche. La più frequente e grave è causata da CMV: si riconosce per la presenza di estese aree essudative granulose associate ad imponenti emorragie a fiamma. Tali lesioni, quando non si attua tempestivamente una precoce terapia antivirale (ganciclovir, foscarnet o cidofovir) possono portare a necrosi della retina e a cecità. Meno frequenti le lesioni oculari da altri microrganismi come T. gondii, P. carinii, C. neoformans, herpes simplex ed herpes zoster virus, la cui presenza va sempre tenuta in considerazione in assenza di lesioni patognomoniche di corioretinite da CMV. Nelle fasi più avanzate della malattia, altri organi ed apparati vengono coinvolti (anche se in minor misura) da processi patologici associati all’AIDS. C. La patologia renale è nella maggior parte dei casi provocata dall’impiego di farmaci potenzialmente nefrotossici e dalla disidratazione, ipovolemia ed ipossia che le differenti condizioni cliniche possono provocare. Sono pure state descritte rare nefropatie che sembrano specificamente correlate all’infezione da HIV. Nell’infezione sistemica da CMV e da micobatteri i pazienti con AIDS vanno abbastanza spesso incontro ad
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episodi di surrenalite che esitano in gravi insufficienze endocrine. D. Non frequente, ma di notevole rilevanza clinica, è l’interessamento dell’apparato cardiovascolare; si ricordi, in particolare, la miocardite linfocitaria (da HIV o da CMV) che è in genere asintomatica e non necessita di trattamenti specifici, ma che può dare origine ad una cardiomiopatia dilatativa, causa di gravi scompensi cardiocircolatori. In qualche caso anche altre patologie opportunistiche (criptococcosi, micobatteriosi, toxoplasmosi, linfomi, sarcoma di Kaposi) possono interessare il cuore. E. Riveste un certo interesse, infine, la segnalazione di poliomiositi e di miopatie, che vanno differenziate dalle più abituali forme di alterazione del tessuto muscolare causate dalla zidovudina o conseguenti alle neuropatie.
AIDS E TUMORI Nei pazienti con infezione da HIV è notevole la frequenza con cui si riscontrano patologie neoplastiche; le più comuni sono il sarcoma di Kaposi ed i linfomi non Hodgkin, questi ultimi soprattutto a localizzazione cerebrale. La probabilità di osservare questi tumori è tanto rilevante, rispetto a quella osservata nella popolazione generale, da farli considerare patologie-indice per la definizione di caso di AIDS. Non così chiara è l’associazione con altri tumori come la malattia di Hodgkin, neoplasie ano-rettali e tumori dell’apparato genitale: di questi, soltanto il carcinoma della cervice uterina viene attualmente considerato una patologia indicativa di AIDS.
Sarcoma di Kaposi Il sarcoma di Kaposi che si osserva in corso di AIDS è definito “epidemico” e presenta caratteristiche epidemiologiche e cliniche differenti rispetto alla forma “classica” ed a quella “endemica” o “africana”. Nella forma classica, infatti, la neoplasia si manifesta generalmente tra gli anziani (sopra i 60 anni) di origine ebrea o mediterranea; è abitualmente confinato alle estremità inferiori, con interessamento cutaneo generalizzato o viscerale tardivo. Il sarcoma di Kaposi endemico colpisce i giovani adulti dell’Africa centrale ed è contraddistinto da lesioni nodulari localizzate; in un terzo circa dei casi si presenta in forma disseminata aggressiva con interessamento osseo. Il sarcoma di Kaposi endemico (EKS) è il tumore di più comune riscontro nei pazienti HIV sieropositivi. Colpisce mediamente un terzo circa dei pazienti con infezione da HIV e per il 10-15% dei casi di AIDS costituisce la patologia opportunistica d’esordio.
La diffusione dell’EKS nei soggetti con infezione da HIV non è omogenea, privilegiando alcuni comportamenti a rischio, come l’omosessualità. Ciò induce ad ipotizzare che la sua patogenesi sia complessa e preveda il ruolo iniziale di cofattori infettivi trasmessi per via sessuale o per via fecale-orale. È stato considerato nel passato il possibile ruolo del cytomegalovirus, del papillomavirus umano tipo 16, del virus di Epstein-Barr, ma è probabilmente un virus erpetico (HHV8: human herpes virus) il cui genoma è stato recentemente identificato nelle cellule del sarcoma di Kaposi il più probabile co-fattore patogenetico, HHV8 è stato evidenziate in più del 90% dei sarcomi di Kaposi associati all’AIDS ed in alcuni casi di linfomi pleurici, pericardici o peritoneali (“body cavity lymphomas” o “primary effusion lymphomas”). Manca a tutt’oggi una sicura dimostrazione del ruolo eziologico dei fattori virali sopra elencati. Sebbene l’eziologia del sarcoma di Kaposi rimanga oscura, una serie di dati sostiene che lo sviluppo del sarcoma non può essere spiegato dalla sola immunocompromissione. I fattori che sostengono l’ipotesi di un agente trasmissibile come causa del sarcoma di Kaposi AIDS-associato sono i seguenti: l’immunocompromissione non è una condizione fondamentale per lo sviluppo del tumore, il sarcoma è 300 volte più frequente in pazienti con AIDS rispetto ad altri soggetti immunocompromessi, mentre l’incidenza dei linfomi non Hodgkin nelle due popolazioni è simile; inoltre, oltre il 90% dei sarcomi si manifestano in uomini omosessuali o bisessuali. Il modello patogenetico attualmente proposto sostiene che, in soggetti HIV positivi, l’attivazione dei linfociti T causa il rilascio di citochine che stimolano la proliferazione delle cellule sarcomatose denominate spindle cells (cellule fusate). La replicazione di HIV causa il rilascio extracellulare della proteina del gene tat che, a sua volta, può stimolare le cellule sarcomatose e pre-attivare le cellule mesenchimali. La proliferazione delle spindle cells causa il rilascio di citochine (GM-CSF, IL-6, IL-1, ecc.) capaci di indurre neoangiogenesi e proliferazione delle cellule mesenchimali. Con l’evoluzione sfavorevole della malattia e la comparsa di infezioni opportunistiche, la liberazione di citochine e di fattori di crescita angiogenetica diverrebbe particolarmente spiccata ed anarchica, e ciò giustificherebbe il drammatico aumento del tasso di crescita delle cellule sarcomatose. Il tumore inizia generalmente come una piccola area non rilevata della cute e delle mucose di colorito bruno, rosso o violaceo, che evolve in poche settimane o mesi in noduli o placche. All’esordio, pertanto, le lesioni cutanee possono essere poco caratteristiche e comparire anche in soggetti con un elevato numero di linfociti CD4+. In tali casi è consigliabile eseguire una biopsia per la conferma diagnostica. Anche le lesioni cutanee iniziali, però, possono essere accompagnate da localizzazioni viscerali asintomatiche. Nei pazienti con AIDS, invece, le lesioni angiosarcomatose sono in genere multiple, interessando la cute non soltanto a livello degli arti inferiori, ma anche del
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tronco, degli arti superiori e del volto e si accompagnano a molteplici localizzazioni viscerali. Le più comuni sono a carico di linfonodi, milza, fegato, mucosa orale e gastrointestinale, che peraltro possono essere colpiti dalla neoplasia anche in assenza di lesioni cutanee. Il sarcoma di Kaposi polmonare non è frequente, ma pone problemi di diagnostica differenziale complessi: si presenta infatti con tosse, febbre e dispnea e con un quadro radiologico di broncopneumopatia interstiziale associato o meno a tumefazioni dei linfonodi mediastinici. Per giungere ad una diagnosi differenziale con altre patologie abituali in corso di AIDS (polmonite da P. carinii o da cytomegalovirus), è talvolta necessario effettuare indagini invasive come la biopsia del polmone. Nonostante il decorso aggressivo del sarcoma, la neoplasia è raramente la causa primitiva di morte nei pazienti con AIDS, che il più delle volte vanno incontro ad exitus per il sovrapporsi di gravi infezioni opportunistiche. Linfomi In alcuni casi l’AIDS ha come iniziale manifestazione clinica un linfoma non Hodgkin (NHL). Anche se questa neoplasia si può manifestare in tutte le fasi dell’infezione da HIV, la sua incidenza è più alta negli stadi più avanzati di malattia. La più lunga sopravvivenza dei casi di AIDS trattati con antiretrovirali e chemioantibiotici per la terapia e la profilassi delle principali infezioni opportunistiche ha fatto sì che in questi ultimi anni l’incidenza di NHL aumentasse. Si tratta in genere di linfomi B ad alto grado di malignità (linfoma immunoblastico, linfoblastico, centrocitico o centrociticocentroblastico oppure simil-Burkitt), raramente di linfomi a varietà T. Responsabili del loro sviluppo, più che fattori ambientali o comportamentali, sarebbero le caratteristiche immunologiche dell’ospite. Un’infezione da EBV precede in genere lo sviluppo del tumore e probabilmente contribuisce all’espansione di cloni cellulari precancerosi caratterizzati da molteplici anomalie. Attualmente l’ipotesi più plausibile è che una crescita non regolata di EBV in soggetti immunodepressi possa espandere il pool dei linfociti suscettibili al riarrangiamento genico con potenziale oncogenico. Diversamente da quanto avviene nella popolazione generale, in cui i linfomi non Hodgkin si manifestano generalmente con l’interessamento di una o più stazioni linfonodali, in soggetti HIV positivi si osserva già all’esordio una malattia disseminata anche alle sedi extralinfonodali nell’80-90% dei casi (caratteristica tipica dei linfomi che insorgono in pazienti affetti anche da altri tipi di immunocompromissione acquisita o congenita). Le sedi extralinfonodali che più frequentemente sono interessate nei linfomi non Hodgkin associati ad AIDS comprendono il sistema nervoso centrale (circa il 30% dei casi), il tratto gastroenterico (26%), il midollo osseo (25%) e il fegato (12%). Sono inoltre coinvolti il polmone, la cute, le mucose, in particolare cavo orale e rettale. In più della metà dei casi le infezioni opportunistiche concorrono a rendere la prognosi di questi pazienti par-
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ticolarmente infausta. Dopo l’esecuzione della chemioterapia le recidive sono molto frequenti e la sopravvivenza media non supera l’anno dal primo riconoscimento. I problemi di diagnosi differenziale in larga parte dipendono dalla localizzazione della neoplasia. L’interessamento del sistema nervoso centrale (per la difficoltà di raggiungere una diagnosi istologica e la somiglianza con gli aspetti neuroradiologici di altre patologie opportunistiche) e quello linfoghiandolare (per la frequente associazione con la linfoadenopatia generalizzata persistente) costituiscono i quadri istopatologici e clinici di interpretazione più problematica. La diagnosi di linfoma cerebrale richiede l’utilizzo della biopsia cerebrale, attualmente indicata in pazienti che non hanno risposto alla terapia empirica per toxoplasmosi, patologia cerebrale da porre in diagnosi differenziale con il linfoma per la somiglianza delle immagini neuroradiologiche; tuttavia la scintigrafia cerebrale (SPECT: Single Photon Emission Computed Tomography) permette di differenziare la patologia neoplastica e quindi il linfoma, dalle infezioni con un’accuratezza diagnostica dell’8090% (Fig. 81.6). Il tracciante utilizzato 201 è un analogo del potassio che viene attivamente estratto dalle cellule neoplastiche per azione della pompa Na+/K+. Mediante tecniche di amplificazione genica (PCR) è stato possibile dimostrare sequenze del DNA virale di EBV nel liquido cerebrospinale nella quasi totalità dei linfomi cerebrali AIDS associati; ciò ha suggerito la possibilità di utilizzare la presenza di EBV-DNA nel liquor come un marker tumorale specifico. Oltre ai linfomi non Hodgkin, nei gruppi a rischio per AIDS viene segnalato un sempre maggior numero di linfomi di Hodgkin, che si presentano in stadio avanzato in sedi inconsuete (sistema nervoso centrale, cute, retto)
Figura 81.6 - RMN con gadolinio: lesione focale nell’emisfero destro, assumente mezzo di contrasto, accompagnata da edema perilesionale e dislocazione della linea mediana. La lesione è compatibile con linfoma cerebrale.
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e con evolutività particolarmente aggressiva (quadri istologici di cellularità mista o deplezione linfocitaria). Il carcinoma invasivo della cervice uterina (CIC) è stato recentemente incluso nell’elenco delle patologie diagnostiche di AIDS a causa della sua aumentata frequenza nelle donne HIV positive. Globalmente tale neoplasia è stata diagnosticata in circa il 2% di tutte le donne con AIDS (1,8% in Italia, 2,1% in Europa e 2,2% negli USA). I pochi dati di letteratura disponibili non permettono di conoscere la storia naturale del CIC in queste pazienti. Il fatto che la neoplasia insorga frequentemente nelle fasi precoci del deficit immunitario evidenzia che nella patogenesi di questa malattia sono importanti altri fattori oltre all’immunocompromissione, e fra questi il più rilevante è rappresentato dall’interazione fra HPV (Human Papilloma Virus) e HIV. Studi in vitro hanno dimostrato la capacità della proteina tat di HIV di determinare l’espressione delle proteine oncogene E6, E7 di HPV. Le caratteristiche cliniche del CIC nelle donne HIV positive sono la multifocalità delle lesioni carcinomatose, l’atipicità del quadro metastatico (muscoli psoas, meningi) e la ridotta risposta alla terapia convenzionale. Molti studi hanno evidenziato una frequenza più elevata di altri tumori, non diagnostici di AIDS, rispetto alla popolazione generale; in particolare sono aumentati il linfoma di Hodgkin, il carcinoma dell’ano, il carcinoma del testicolo, le neoplasie del distretto orofaringeo, il melanoma e il mieloma multiplo.
Terapia Le attuali possibilità di trattamento delle varie fasi dell’infezione da HIV e delle patologie associate comprendono la terapia antiretrovirale, la profilassi primaria e secondaria delle infezioni opportunistiche, la terapia delle infezioni opportunistiche e dei tumori HIVcorrelati, l’impiego di fattori di crescita, citoprotettori, modificatori della risposta biologica ed infine le terapie di supporto e le cure palliative. Terapia antiretrovirale Le caratteristiche strutturali del retrovirus lo rendono sensibile a diversi composti. Molte sostanze sono in grado di inibirne la replicazione in vitro; soltanto alcune, però, giungono all’impiego clinico. I farmaci che possono essere ragionevolmente utilizzati nell’infezione da HIV dovrebbero infatti rispondere ai seguenti requisiti: scarsa o nulla tossicità (la lenta evoluzione della malattia prevede trattamenti di mesi o anni), capacità di penetrare all’interno delle cellule-bersaglio (il genoma di HIV è integrato come provirus nel DNA delle cellule ospiti) e di superare la barriera ematoencefalica (il SNC è uno dei più classici réservoirs del virus), disponibilità di formulazioni somministrabili per os. I potenziali punti d’attacco di HIV nelle varie fasi del suo ciclo di replicazione sono molteplici. L’infezione o la propagazione dell’infezione può essere evitata interferendo nel processo di adesione del virus con il recettore sulla superficie della cellula-ber-
saglio. Attualmente sono in fase di sviluppo clinico sostanze in grado di impedire l’adesione del virus alle cellule bersaglio bloccando i recettori e co-recettori cellulari (CD4, CCR5, CXCR4) ed è in commercio un farmaco (enfuvietide) in grado di interferire con la fusione di HIV. I farmaci invece in grado di inibire l’attività replicativa del virus si basano attualmente su tre principali meccanismi di azione: • inibizione della trascrittasi inversa (una DNA polimerasi RNA-dipendente), per impedire al virus di trasformare RNA in DNA e di integrarsi nel genoma della cellula ospite (analoghi nucleosidi, analoghi aciclici e carbociclici dei guanosidi); • inibizione dell’integrazione del DNA provirale nel DNA cellulare e della trascrizione ad RNA messaggero della cellula da parte dei geni regolatori di HIV, per evitare la produzione di nuove proteine virali (inibitori di tat, interferoni, oligodeossinucleotidi antisenso); • inibizione delle successive fasi (assemblaggio, gemmazione e rilascio delle particelle virali complete) per interferenza con l’attività enzimatica. In particolare gli inibitori delle proteasi di HIV non consentono la formazione di particelle virali complete impedendo il “taglio” corretto di catene proteiche neoformate. È ormai dimostrato che la terapia combinata, con farmaci ad effetto sinergico, sia preferibile alla monoterapia con analogo nucleosidico per raggiungere tre principali obiettivi: l’efficace soppressione della replicazione virale indispensabile per il miglioramento della risposta immunitaria; l’inibizione o il rallentamento dell’insorgenza di resistenze; l’intervento specifico su differenti serbatoi cellulari o tissutali del virus. I principi generali sui quali si fonda la terapia antiretrovirale sono i seguenti: la replicazione del virus causa un danno al sistema immunitario e conseguente insorgenza di AIDS; i livelli di HIV-RNA plasmatici esprimono l’intensità della replicazione virale ed è associata alla distruzione dei linfociti CD4+; la progressione della malattia è diversa nei singoli individui e quindi la decisione terapeutica dev’essere personalizzata in base al rischio di evoluzione indicato dai livelli di HIV-RNA e dal numero dei CD4; l’utilizzo di combinazioni farmacologiche sopprime la replicazione al di sotto del livello individualizzabile mediante la ricerca di HIV-RNA e limita la selezione di ceppi virali resistenti ai farmaci. L’efficacia della terapia antiretrovirale è infatti condizionata dalla comparsa di varianti virali farmacoresistenti; questi mutanti sono stati isolati sia durante la terapia con farmaci inibitori della trascrittasi inversa sia con gli inibitori delle proteasi. Numerosi studi hanno valutato le mutazioni geniche responsabili della resistenza ed in molti casi è stato evidenziato che la comparsa di queste mutazioni correla con un peggioramento dello stato clinico del paziente. I metodi attualmente utilizzati per valutare la farmacoresistenza di HIV consistono in saggi biologici per la caratterizzazione fenotipica del virus isolato e metodi molecolari che permettono invece di valutare la presenza delle mutazioni ge-
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notipiche che conferiscono farmacoresistenza; entrambi i tipi di saggio hanno vantaggi e svantaggi dovuti all’esecuzione dei metodi, in particolare non è ancora possibile attribuire un valore biologico assoluto alla caratterizzazione molecolare delle mutazioni. Attualmente la decisione di quando iniziare la terapia antiretrovirale dev’essere valutata considerando il numero dei linfociti CD4+ e l’entità della viremia plasmatica. Il cambiamento dei farmaci avviene alla ripresa della replicazione virale, soprattutto quando seguita da riduzione dei CD4 o da peggioramento clinico. Le indicazioni non univoche fornite dalle linee guida elaborate in vari paesi dipendono dalle diverse metodologie utilizzate: dati clinici emersi da studi controllati e/o markers biologici di progressione. L’analisi degli studi controllati autorizza le seguenti conclusioni sulle quali converge il massimo consenso: inizio precoce della terapia prima che i ceppi resistenti si siano selezionati e integrati in stato di latenza in linfociti infetti e che si siano verificati danni irreversibili nei tessuti linforeticolari. Di regola viene indicata la terapia antiretrovirale in presenza di eventi clinici AIDS-correlati ed allorquando la carica virale supera le 30.000 copie/ml ed i linfociti CD4 risultano inferiori ai 350 ml. In questi casi va consigliata una terapia continuativa aggressiva con combinazioni di tre farmaci (2 inibitori della trascrittasi inversa + un inibitore delle proteasi oppure un analogo non nucleosidico) intesa ad abbattere la carica virale fino ad azzerarla (attualmente ciò equivale ad un numero < di 50 copie/ml) con periodico controllo della terapia tramite la conta dei linfociti CD4+ e la valutazione della carica virale; periodico controllo dell’adesione alla terapia e della sua tollerabilità. La maggior parte dei preparati finora sperimentati ed abitualmente usati nella pratica clinica è rappresentata dagli inibitori dell’attività di retrotrascrizione di HIV e dagli inibitori delle proteasi. Tra gli inibitori della trascrittasi inversa, quelli già di corrente uso terapeutico sono gli analoghi nucleosidici (zidovudina, didanosina, stavudina e lamivudina, abacavir, emitricitabina) o necleotidici (tenofovir). Questi farmaci interferiscono con l’attività della trascrittasi inversa di HIV, interrompendo l’allungamento della catena del DNA (“chain terminators”) e bloccando la replicazione del virus a livello di uno specifico punto del suo ciclo replicativo. Sono dotati di un elevato indice terapeutico e la loro attività antivirale in vitro viene ottenuta a dosi molto basse, facilmente raggiungibili anche con la somministrazione per os. Gli analoghi nucleosidici possono essere considerati profarmaci, poiché per esplicare la loro azione devono essere trasformati nel metabolita attivo trifosforilato all’interno delle cellule infettate. La zidovudina, il primo farmaco ad essere applicato in clinica, mantiene alcune indicazioni particolari fra cui la terapia antiretrovirale della donna in gravidanza, l’AIDS-dementia complex e la piastrinopenia HIV-correlata. I pazienti con AIDS-dementia complex hanno dimostrato un recupero delle funzioni cognitive e neurologiche con migliore risposta ai test neuropsicologici e un
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miglioramento delle immagini neuroradiologiche (RM) durante la terapia con il farmaco. Nei casi di piastrinopenia la zidovudina consente di ottenere un aumento del numero delle piastrine una o due settimane dopo l’inizio della somministrazione. La zidovudina riduce la trasmissione perinatale del 65-75%. È stata descritta l’associazione tra una prolungata terapia con zidovudina e lo sviluppo di una miopatia caratterizzata da mialgie, debolezza e riduzione della massa della muscolatura prossimale degli arti con aumento della creatina-fosfochinasi sierica. I più frequenti e gravi effetti collaterali sono conseguenti a fenomeni di mielotossicità, che si manifestano in primo luogo con una progressiva anemizzazione (anemia megaloblastica), in rari casi assai marcata e tale da richiedere ripetute emotrasfusioni. Neutropenie moderate o gravi si hanno solo nei pazienti trattati per lungo periodo. Non è comune la comparsa di epatotossicità; alterazioni della funzionalità epatica si osservano in genere dopo una prolungata somministrazione in pazienti con epatopatie croniche. La zidovudina dopo lunghi periodi di trattamento può dimostrarsi inefficace; la riduzione della capacità di inibire la crescita di HIV è probabilmente dovuta, almeno in parte, all’acquisizione di resistenza al farmaco da parte del retrovirus, per mutazioni di singoli aminoacidi del gene che codifica la produzione delle polimerasi. La didanosina (dideossinosina, ddI) è dotata di una farmacocinetica che consente una maggiore efficacia antiretrovirale nei confronti dei retrovirus a localizzazione monocitico-macrofagica. I principali effetti tossici del farmaco sono le neuropatie periferiche, la diarrea, la pancreatite, l’aumento dell’amilasemia, dell’uricemia e dei trigliceridi plasmatici. La complicanza più temibile è la pancreatite, la cui frequenza, nei casi trattati che non presentano i fattori di rischio maggiormente associati a questo evento, è relativamente bassa. Dopo trattamenti protratti negli stadi avanzati della malattia, si osservano neuropatie periferiche, caratterizzate da dolore e disturbi sensitivi e motori a carico delle estremità inferiori. Altri analoghi nucleosidici di notevole potenzialità antiretrovirale che vengono utilizzati sono la lamivudina (3TC) e la stavudina, (d4T), l’abacavir e l’emtricitabina. La stavudina ha azione simile a quella della zidovudina, ma è meno mielotossica e meno atta a selezionare mutanti resistenti; per questi motivi viene utilizzata in alternativa alla zidovudina. La diffusione nel liquor è di circa il 40% e può quindi essere utilizzata per la prevenzione e/o la terapia dell’AIDS-dementia complex. I più frequenti effetti collaterali sono la neuropatia periferica dose-correlata che richiede modifiche del dosaggio e la pancreatite, raramente cefalea, malessere, febbre, nausea e vomito. La lamivudina viene utilizzata spesso in associazione con AZT o d4T con le quali presenta sinergia sia in vivo sia in vitro. Sono state dimostrate resistenze crociate fra 3TC e ddI. Gli effetti collaterali sono infrequenti; fra le anomalie di laboratorio vengono segnalate ane-
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mia, neutropenia, trombocitopenia, alterazioni pancreatiche e degli indici di necrosi epatocellulare. Abacavir, che può in rari casi provocare una sindrome da ipersensibilità di notevole severità; viene impiegato con altri due inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa nelle terapie di mantenimento. Tenofovir è un analogo nucleotidico recentemente introdotto in commercio che si è dimostrato maneggevole ed efficace anche in pazienti pretrattati con farmaci della stessa classe. Fra gli inibitori della trascrittasi inversa non nucleosidici vengono attualmente utilizzati la nevirapina e l’efavirenz; gli studi preliminari hanno dimostrato una buona tollerabilità e capacità di inibizione della replicazione di HIV. Efavirenz e nevirapina non presentano resistenze crociate con analoghi nucleosidici e inibitori delle proteasi. Fra gli effetti collaterali della nevirapina è frequente rash cutaneo accompagnato da febbre, congiuntiviti, lesioni orali e malessere generalizzato, e talvolta epatotossicità. Efavirenz, che nelle prime settimane di trattamento può dare qualche disturbo di tipo neurologico (sogni vigili, insonnia), sta dimostrando negli studi clinici in corso di mantenere un’efficacia antivirale duratura. Gli inibitori delle proteasi bloccano le reazioni enzimatiche con le quali il gene pol di HIV produce proteine funzionalmente essenziali per il suo ciclo replicativo; ne consegue la formazione di un virus difettivo non infettante. Gli inibitori delle proteasi (ritonavir, saquinavir, indinavir, nelfinavir, lopinavir, amprenavir, atazanavir) vengono attualmente utilizzati nella pratica clinica con buoni risultati, soprattutto se somministrati in combinazione con altri farmaci antiretrovirali, sia in termini di riduzione della viremia plasmatica ed aumento del numero dei CD4, sia per l’aumento della sopravvivenza. Gli effetti collaterali di questi farmaci sono molteplici, ma difficilmente ne impediscono l’utilizzo. La limitazione principale al loro utilizzo è rappresentata dall’interazione farmacocinetica con altri farmaci di uso frequente nel paziente affetto da AIDS (rifabutina, ketoconazolo, ecc.). L’indinavir causa nefrolitiasi nel 2-3% dei casi trattati, iperbilirubinemia soprattutto indiretta e aumento degli indici di necrosi epatocellulare; il farmaco presenta resistenza crociata con il ritonavir. Il ritonavir provoca comparsa di nausea e vomito nel 50% dei casi trattati; le interazioni farmacologiche sono prevalentemente in rapporto con l’inibizione di alcune isoforme del citocromo P450 da parte del ritonavir ed è perciò controindicata la contemporanea somministrazione di farmaci metabolizzati con queste modalità. Per contro con lo stesso meccanismo d’azione il ritonavir aumenta considerevolmente la biodisponibilità di molti altri inibitori delle proteasi (lopinavir, indinavir, amprenavir, atazanavir) potenziandone l’efficacia e consentendo di impiegare un numero minore di capsule in alcuni casi in unica somministrazione. Il “boosting” con basse dosi di ritonavir ha radicalmente cambiato la potenza dei farmaci di questa classe soprattutto nei confronti di ceppi di HIV con ridotta sensibilità, alzando notevolmente il quoziente inibitorio.
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Pur rimanendo un problema rilevante la resistenza crociata tra inibitori delle protrasi risulta pertanto attualmente in molti casi di scarsa rilevanza clinica. L’introduzione degli inibitori delle proteasi nella terapia da HIV ha radicalmente modificato la possibilità di migliorare la prognosi di questa malattia, ma con il prolungarsi della sopravvivenza di queste persone aumenta anche l’importanza degli effetti collaterali della terapia. Si stanno accumulando dati sull’associazione tra uso di inibitori delle proteasi e insorgenza di iperlipidemia. Sono state osservate due sindromi da accumulo di lipidi: una sindrome è caratterizzata da accumulo di lipidi a livello addominale sempre associata a ipertrigliceridemia; nella seconda il deposito anomalo di lipidi, che avviene in regione cervico-dorsale, non si accompagna ad alterazioni della concentrazione lipidica ed è stato osservato anche in soggetti non solo in terapia con inibitori delle proteasi ma anche con altri farmaci antiretrovirali. Sono stati inoltre riportati casi di diabete e di malattia coronarica insorti in pazienti con iperlipidemia. Il trattamento con citochine ed in particolare con IL-2 in associazione a farmaci antiretrovirali si è dimostrato efficace nell’incrementare il numero dei CD4; il rischio maggiore di tale trattamento è rappresentato da un possibile transitorio aumento della replicazione virale correlato alla attivazione linfocitaria sotto stimolo citochinico. Meno problematico è l’impiego di modificatori della risposta biologica come gli interferoni ( e soprattutto ) che, oltre ad un effetto immunomodulante, hanno attività antiretrovirale. Nella lotta all’AIDS l’immunoprofilassi attiva rimane uno degli obiettivi primari. La preparazione di un vaccino per l’AIDS presenta particolari difficoltà dovute alle caratteristiche biologiche e molecolari di HIV-1 e alla complessità della risposta immunitaria dell’ospite. Gli ostacoli da superare sono rappresentati dall’ipervariabilità genetica del virus, dall’esistenza di molteplici sottotipi virali a diversa distribuzione geografica, dall’integrazione provirale nel genoma dell’ospite, dall’elettivo tropismo per macrofagi e linfociti e dalla possibilità di invadere e danneggiare irreversibilmente “santuari” immunologici quali timo, midollo, sistema linfoghiandolare e sistema nervoso centrale. Inoltre la correlazione fra produzione di anticorpi e generazione di linfociti T virus-specifici da una parte, protezione dalla diffusione del virus nell’organismo e dalla progressione della malattia dall’altra, è aleatoria. La ricerca di epitopi immunogeni per i prodotti dei vari geni virali ha permesso di identificare varie sequenze bersaglio di anticorpi e di linfociti T citotossici virus-specifici CD8+ (CTL). Tra le più studiate è l’ansa V3 della gp 120 che contiene il determinante principale per la neutralizzazione virale da parte di anticorpi; l’alta variabilità che distingue questa regione giustifica l’insorgenza di varianti resistenti alla neutralizzazione sia nel corso dell’infezione naturale, sia dopo immunizzazione con gp 120 e con gp 160 ricombinanti. Queste difficoltà spiegano la cautela di molti ricercatori che giudicano prematuro il passaggio alla fase III degli studi di vaccina-
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zione, reclutando volontari a rischio di infezione in numero elevato; infatti molte formulazioni vaccinali con virus attenuati o ricombinanti non sono ancora state valutate estensivamente per i possibili effetti dannosi a distanza di tempo. Le molteplici risposte immuni da parte di cellule immuno-competenti (APC, CTL, CO4) nei confronti di diversi componenti strutturali del virus non ha consentito peraltro, a tutt’oggi, di riconoscere un univoco modello sul quale costruire una risposta immune cellulare specifica che possa garantire un efficace controllo della replicazione del virus. I cosidetti “vaccini terapeutici” studiati negli schemi di trattamento dei pazienti HIV positivi non sembrano al momento in grado di sostituire con pari chance di successo la terapia antiretrovirale. Terapia e profilassi delle infezioni opportunistiche La condotta terapeutica riguardo alle infezioni opportunistiche dei pazienti HIV sieropositivi è condizionata dalle caratteristiche che queste assumono nell’ospite immunocompromesso. Le infezioni opportunistiche, infatti, si presentano in genere nella loro forma più grave e sono quasi sempre disseminate; la carica microbica è usualmente molto rilevante e la presenza contemporanea di più agenti eziologici molto frequente. La maggior parte delle infezioni è causata dalla riattivazione di microrganismi endogeni latenti, o dalla disseminazione di agenti abitualmente non patogeni favorita dalla ridotta risposta immunitaria dell’ospite. Alcune infezioni da virus, batteri, funghi e protozoi sono difficilmente eradicabili; è necessario non soltanto il trattamento della forma acuta, ma anche una prolungata terapia di mantenimento, per evitare le recidive. La contemporanea presenza di patologie a carico di più organi ed apparati rende difficile sia somministrare tutti i farmaci necessari, sia ottenere la disponibilità dei pazienti a seguire le terapie prescritte. La prevenzione delle infezioni che ricorrono con maggiore frequenza (profilassi primaria) e delle recidive delle prime infezioni (profilassi secondaria) costituisce un importante obiettivo del trattamento dei pazienti con infezione da HIV. I criteri che orientano nella scelta della prevenzione del primo episodio di un’infezione opportunistica sono la frequenza con cui questa si manifesta, la gravità e la possibilità di trattamento della malattia, lo stato di immunodeficienza del paziente da sottoporre a profilassi, la disponibilità di composti efficaci e ben tollerati per lunghi periodi. La profilassi primaria della tubercolosi è indicata nei soggetti HIV sieropositivi con risposta positiva all’intradermoreazione di Mantoux, ed in quelli con risposta negativa che abbiano un’anergia ai test cutanei (isoniazide, 300 mg/die). È stata descritta la comparsa di infezione da M. tuberculosis multiresistente (MDR: Multidrug Resistant Tuberculosis) che rendono complessa la terapia dei pazienti affetti da questo tipo di tubercolosi. La profilassi primaria delle infezioni da complesso Mycobacterium avium viene consigliata per i pazienti
che presentano un tasso di linfociti CD4+ inferiore a 100/l, soprattutto nelle aree geografiche con elevata diffusione di micobatteri non tubercolari. Per i soggetti con un livello di linfociti CD4+ inferiore a 200/l è indicata la profilassi primaria della pneumocistosi polmonare (cotrimossazolo con diversi schemi: 160 mg + 800 mg 2 volte al giorno, 1 volta al giorno o a giorni alterni; pentamidina, 300 mg per aerosol 1 volta al mese; associazione di pirimetamina con dapsone o sulfamidici). La prevenzione della neurotoxoplasmosi viene in genere ottenuta con la somministrazione di cotrimossazolo o di pirimetamina più dapsone o sulfamidici, utilizzata per la profilassi della pneumocistosi polmonare. Attualmente, salvo controindicazioni particolari, viene consigliata la profilassi secondaria per la polmonite da P. carinii, l’infezione da CMV, l’encefalite da T. gondii e la meningoencefalite da criptococco. I dati relativi all’efficacia della profilassi secondaria delle candidosi con imidazolici sono controversi soprattutto a causa dell’elevata comparsa di resistenze al fluconazolo; l’utilizzo della profilassi viene quindi consigliato solo in pazienti con frequenti recidive. Terapia dei tumori I più comuni tumori HIV-correlati sono i linfomi non Hodgkin (NHL) ed il sarcoma di Kaposi (KS). I NHL in corso di AIDS sono nella maggior parte dei casi linfomi B extranodali ad alto grado di malignità, spesso con localizzazione primitiva o secondaria al SNC. Le manifestazioni d’esordio ed il decorso clinico sono spesso complicati dalla presenza di infezioni opportunistiche e di leucopenia che ne pregiudicano la possibilità di trattamento e ne condizionano la prognosi. La chemioterapia aggressiva con schemi di associazione quali CHOP (ciclofosfamide, doxorubicina, vincristina e prednisone), mBACOD (ciclofosfamide, doxorubicina, vincristina, bleomicina, metotrexato, desametasone), che porta ad un’elevata percentuale di remissioni dei linfomi non Hodgkin ad alto grado di malignità in pazienti HIV negativi, non è sempre tollerata nei pazienti con AIDS. I trattamenti utilizzati nel linfoma di Hodgkin (ABVD: doxorubicina, bleomicina, vincristina, dacarbazina; MOPP: mecloretamina, vincristina, procarbazina e prednisone) hanno fornito risultati incoraggianti. Gli schemi di trattamento vanno sovente adattati ad ogni singolo caso valutando i parametri immunologici e clinici della malattia di base. Non sempre è possibile somministrare i chemioterapici sino alla fase di completa remissione e di consolidamento, per la presenza o la comparsa di grave neutropenia e di infezioni opportunistiche. Una migliore tollerabilità ematologica si osserva associando alla terapia citostatica fattori di crescita emopoietici. La terapia antitumorale va accompagnata da una profilassi delle complicanze infettive e, quando possibile, dal trattamento antiretrovirale. Nei pazienti con linfoma cerebrale primitivo si pratica la radioterapia (4000 cGy su tutto l’encefalo) e,
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quando possibile, la somministrazione di metotrexato per via endorachidea o per via sistemica. Il sarcoma di Kaposi può presentarsi con poche lesioni cutanee, con lesioni cutanee disseminate, con interessamento linfoghiandolare e viscerale (soprattutto apparato digerente e polmone). L’estensione del tumore e la localizzazione non sembrano condizionare la prognosi quanto la concomitante presenza di infezioni opportunistiche e la gravità delle alterazioni immunitarie. Il miglioramento dello stato di immunocompromissione indotto dalla terapia antiretrovirale può portare ad una regressione delle lesioni sarcomatose. Gli indirizzi del trattamento del sarcoma di Kaposi prevedono la semplice osservazione in caso di lesioni cutanee localizzate in aree non coperte, ed il trattamento locale o la radioterapia per le lesioni cutanee poco estese, ma edematose o esteticamente inaccettabili. Nelle forme cutanee disseminate, a rapida progressione, o con interessamento linfoghiandolare e viscerale, va praticato un trattamento antitumorale sistemico. La scelta dello schema di terapia citostatica non è ancora ben definita: alcuni Autori privilegiano trattamenti più conservativi (modificatori della risposta biologica quali gli interferoni oppure monochemioterapia), mentre altri consigliano una polichemioterapia. Nelle forme con interessamento viscerale, a rapida progressione, con sintomatologia tumorale (febbre) ed edema, quando le condizioni generali, l’assenza di infezioni concomitanti e la crasi ematica lo consentono, va praticata una polichemioterapia (etoposide, adriamicina, doxorubicina, vincristina, vinblastina, bleomicina in varie combinazioni tra loro). Terapia di supporto La maggior parte dei pazienti nelle fasi più avanzate dell’AIDS presenta sintomi simili a quelli che si osservano negli stadi terminali dei tumori o di altre malattie irreversibili. Questi comprendono manifestazioni dolorose a varia localizzazione, anoressia, perdita di peso, nausea, vomito, dispnea e tosse, ai quali frequentemente si aggiunge una compromissione delle capacità cognitive e motorie causate dall’encefalite da HIV o da altre patologie croniche del sistema nervoso centrale che causano un notevole peggioramento della qualità di vita. Alcuni problemi rivestono particolare importanza: la diarrea, i dolori, la febbre ricorrente, l’ipotensione e la demenza. Una delle principali cause di diarrea e vomito è la criptosporidiosi, nei confronti della quale mancano possibilità di terapia eziologica. Le evacuazioni sono molto frequenti e si accompagnano spesso a nausea e vomito, causando grave debilitazione, dimagramento ed infine cachessia. Tale sintomatologia va controllata con antidiarroici (loperamide, codeina fosfato, octreotide, morfina solfato, eptadone) e con antiemetici (metoclopramide, domperidone, alloperidolo). La perdita di proteine ed elettroliti deve essere reintegrata con un adeguato apporto
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nutrizionale per via enterale o parenterale; in qualche caso di rapido dimagramento si è dimostrato vantaggioso l’impiego di steroidi anabolizzanti (megestrolo acetato o analoghi). Tra i sintomi che accompagnano gli stadi avanzati di malattia va ricordato il dolore. L’interessamento di più organi ed apparati ad opera di patologie infettive e neoplastiche, in particolare del sistema nervoso centrale e periferico, causa dolori locali o generalizzati, quasi sempre ricorrenti o persistenti. Una terapia farmacologica del dolore con antinfiammatori non steroidei o con oppiacei si rende sovente necessaria. L’astenia, la prostrazione e l’ipotensione, qualora se ne conoscano le cause (anemia, ipovolemia, ipocorticosurrenalismo), possono essere almeno in parte corrette con terapie sostitutive: trasfusioni, corticosteroidi. La cura delle infezioni opportunistiche che le causano è raramente risolutiva; l’assistenza familiare ed infermieristica, associata ad un supporto sia psicoterapeutico sia farmacologico, può essere d’aiuto.
Prevenzione La trasmissione dell’infezione da HIV avviene quasi esclusivamente attraverso i rapporti sessuali (omo ed eterosessuali) con soggetti infetti, le trasfusioni di sangue o emoderivati contenenti il virus, l’uso di siringhe o aghi contaminati. Le madri sieropositive possono trasmettere l’infezione al figlio durante la gravidanza, al momento del parto e durante l’allattamento. La modalità più frequente di trasmissione è quella prenatale. Altre vie di trasmissione non sono state finora documentate: pertanto, non espongono al rischio d’infezione i contatti sociali nell’ambiente familiare, di lavoro o scolastico; la frequentazione di locali pubblici (inclusi bar, ristoranti e piscine); l’utilizzo di mezzi di trasporto; l’uso in comune di stoviglie ed arredi; gli alimenti e l’acqua. Non è stata dimostrata trasmissione del virus per via aerea (goccioline di saliva, sputo, colpi di tosse), attraverso le abituali manifestazioni di cortesia e di affetto (strette di mano, abbracci, baci), con liquidi biologici (urine, saliva, lacrime, sudore) o mediante vettori (zanzare, altri insetti e animali). L’adozione di provvedimenti quali l’esclusione e l’autoesclusione dei donatori appartenenti alle categorie a rischio, il controllo di tutte le unità di sangue ed il trattamento al calore degli emoderivati ha dato risultati concreti. Di più ardua valutazione è l’efficacia delle iniziative di prevenzione-informazione dirette ai soggetti con comportamenti a rischio, ai quali va consigliato di non fare uso di droghe, di evitare lo scambio di siringhe ed i rapporti sessuali occasionali non protetti e di ridurre il numero di partner sessuali. I soggetti sieropositivi, infine, devono sottoporsi a periodici esami di controllo, evitare donazioni di sangue, sperma ed organi, informare il proprio partner ed i sanitari curanti.
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Alle donne sieropositive in età fertile va sconsigliato il concepimento. Va tuttavia segnalato che la trasmissione materno-fetale è stata radicalmente ridotta dalla pratica di trattare la madre del nascituro con terapia antiretroviale a partire dalla 16a settimana, con la profilassi “short-term” al momento del parto (nevirapina), con il trattamento preventivo del neonato (zidovudina) e con l’allattamento artificiale. Si richiama inoltre la necessità di osservare rigorosamente le norme igienico-sanitarie atte ad impedire la
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trasmissione del virus (materiale a perdere o accurata disinfezione) nelle pratiche che implichino l’uso di aghi o strumenti taglienti, come interventi di piccola chirurgia, iniezioni, agopuntura, tatuaggi, manicure. Il rischio di infezione occupazionale da HIV è stato valutato dello 0,17% dopo esposizione percutanea e dello 0,49% dopo esposizione mucosa; negli operatori sanitari con esposizione accidentale a HIV è quindi raccomandata la profilassi con farmaci antiretrovirali, in questi casi la terapia dev’essere personalizzata in base alla storia farmacologica del paziente fonte.
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La patologia da miceti è polimorfa, comprende infezioni superficiali cutanee, infezioni estese alle mucose ed infezioni profonde che possono interessare qualsiasi organo ed apparato. Gli agenti eziologici delle micosi profonde possono essere distinti da un punto di vista morfologico in lieviti e muffe. I lieviti, tra cui Candida spp e Cryptococcus neoformans, sono cellule ovoidali o sferiche; si riproducono per gemmazione e, in alcuni casi, attraverso la formazione di spore sessuate. Non danno origine a miceli, benché alcune specie possano costituire pseudoife (catene di cellule allungate). Le muffe, tra cui Aspergillus spp e Mucorales spp, si sviluppano come filamenti ramificati (ife) che tendono ad interconnettersi fino a formare un micelio. Alcuni miceti (Histoplasma capsulatum, Coccidioides immitis, Blastomices dermatitidis, Paracoccidioides brasiliensis) sono detti dimorfi poiché in relazione alle condizioni ambientali possono presentarsi sia in forma miceliale (in natura, nei terreni colturali), sia come lieviti (nei tessuti). Quando il microrganismo invade il tessuto viscerale le lesioni anatomopatologiche più comuni consistono in reazioni di tipo granulomatoso, in cui istiociti, cellule giganti e cellule epitelioidi tendono a circoscrivere la colonia fungina: si formano quindi microascessi intervallati da aree di parenchima sano. Vari granulomi possono fondersi in formazioni anche di notevoli dimensioni e dare origine a manifestazioni di tipo escavativo, o ascessi, progressivamente occupati da miceti in attiva moltiplicazione. Nell’ospite immunocompromesso la reazione infiammatoria può essere minima o assente; in questo caso l’ascesso è composto solo da miceti e tessuto necrotico. Da un punto di vista clinico gli agenti eziologici delle micosi profonde possono essere distinti in due gruppi: miceti patogeni e miceti opportunisti. I primi, tra cui H. capsulatum, C. immitis, B. dermatitidis, P. brasiliensis, sono in grado di dare infezioni clinicamente manifeste anche nel soggetto sano. Si tratta di infezioni con una ristretta distribuzione geografica, contratte a seguito dell’inalazione di spore presenti nell’ambiente. Le infezio-
ni, prevalentemente localizzate a livello polmonare, sono frequentemente asintomatiche, a rapida risoluzione e determinano nel soggetto un’immunità specifica. Le micosi profonde da opportunisti sono sostenute da miceti, saprofiti ubiquitari a bassa virulenza e patogenicità, in grado di dare una malattia di rilevanza clinica pressoché esclusivamente nei soggetti debilitati o immunodepressi. In questi casi l’infezione comporta spesso malattia, la risoluzione dell’episodio non assicura la protezione nei confronti della stessa, sono invece frequenti le recidive. Sebbene in anni recenti siano state identificate nuove specie fungine in grado di dare malattia nell’ospite compromesso, le principali micosi sono: candidosi, criptococcosi, aspergillosi e mucormicosi.
MICOSI DA MICETI PATOGENI Istoplasmosi L’istoplasmosi è una malattia causata da Histoplasma capsulatum, un fungo dimorfo, endemico nelle regioni centrali degli USA, dove si stimano 500.000 nuove infezioni/anno e dove oltre l’80% degli individui adulti è stato esposto all’infezione. Altre aree di endemia includono il Centro e Sud America, mentre sono stati descritti piccoli focolai epidemici in India e sud-est asiatico. Il fungo si moltiplica nel terreno, in particolare in aree inquinate dagli escrementi di uccelli. Inalato per via respiratoria il fungo può causare nel soggetto normale, in relazione alla carica infettante, una infezione asintomatica o un quadro clinico polmonare transitorio, mentre negli ospiti compromessi può condizionare l’insorgenza di un’infezione polmonare cronica o di un’infezione disseminata. 1. L’infezione polmonare acuta sintomatica è caratterizzata dalla comparsa, dopo un periodo di incubazione di 1-3 settimane, di una sindrome similinfluenzale, con
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tosse e dolore toracico retrosternale o pleurico, associata nel 10% dei casi ad artralgie severe, artriti ed eritema nodoso. Queste manifestazioni tendono a risolversi spontaneamente nell’arco di 1-3 settimane, anche se in molti casi può persistere un’astenia intensa per alcuni mesi. Gli esami radiografici del torace documentano la presenza di piccoli infiltrati nodulari disseminati ad entrambi i campi polmonari, frequentemente associati ad ingrandimento dei linfonodi ilari e versamento pleurico. Questi infiltrati tendono a regredire nell’arco di alcuni mesi lasciando il posto a piccole calcificazioni (Fig. 82.1). 2. L’inalazione delle spore fungine può causare anche un’istoplasmosi polmonare cronica, tipicamente osservata nei pazienti con una malattia polmonare ostruttiva preesistente, nei quali si assiste ad un’insidiosa distruzione del tessuto polmonare legata alla progressiva formazione di aree di fibrosi e di escavazione specie a carico dei lobi superiori. Queste alterazioni polmonari condizionano l’insorgenza di emottisi, di frequenti sovrapposizioni batteriche e di un’insufficienza respiratoria grave. 3. L’istoplasmosi disseminata è stata descritta nei bambini e negli anziani, ma soprattutto negli ospiti immunocompromessi e con particolare frequenza nei pazienti con AIDS. La malattia, secondaria alla disseminazione del fungo dal parenchima polmonare agli organi ricchi di macrofagi, può avere un decorso fulminante o più cronico ed è caratterizzata dalla comparsa di epatosplenomegalia, anemia, iposurrenalismo, ulcere mucose a livello del cavo orale, della mucosa rinofaringea, del tratto gastrointestinale e genitale. Nel 10-25% dei casi, in particolare nei pazienti con AIDS, vi è anche un interessamento del sistema nervoso centrale (meningite, lesioni focali).
MALATTIE INFETTIVE
La diagnosi clinica di istoplasmosi può essere difficile perché la presentazione delle forme acute è simile a quella di altre infezioni (Chlamydia, legionella, micoplasma) mentre le forme croniche entrano sovente in diagnosi differenziale con la tubercolosi e la coccidioidomicosi. Utile ai fini diagnostici è l’effettuazione delle prove sierologiche; pur con alcuni limiti di sensibilità e specificità i test di immunodiffusione e fissazione del complemento evidenziano la presenza di anticorpi anti-istoplasmina nell’80% dei pazienti con infezione acuta. La ricerca dell’antigene polisaccaridico di H. capsulatum nel sangue, nelle urine e nel liquor è invece un metodo utile per la diagnosi di istoplasmosi disseminata. I test cutanei di ipersensibilità ritardata non vengono utilizzati a scopo diagnostico, ma solo in studi epidemiologici, poiché un risultato positivo non consente di differenziare tra infezione attiva e pregressa e un risultato negativo non esclude la possibilità di una infezione attiva. La certezza diagnostica si basa sull’osservazione diretta e/o sull’isolamento colturale del fungo che richiede generalmente 4-6 settimane. Nella malattia disseminata l’osservazione al microscopio è positiva su escreato, sangue, midollo osseo in oltre il 50% dei casi, le emocolture e le colture del midollo osseo nel 50-70% dei casi. La prognosi è riservata nelle forme croniche e spesso infausta nelle forme disseminate. L’istoplasmosi polmonare acuta non necessita di terapia ad eccezione delle situazioni in cui sia necessario prevenire fenomeni di atelettasia e fibrosi mediastinica secondari all’ingrossamento dei linfonodi ilari: in questi casi è consigliato un trattamento con itraconazolo (200 mg/die per 9 mesi). Nelle forme polmonari croniche il farmaco di scelta è l’itraconazolo (200 mg/die per 6-12 mesi). Le forme disseminate ad evoluzione fulminante o dell’ospite immunocompromesso devono essere trattate con amfotericina B (0,5-1 mg/kg/die) o, in caso di insufficienza renale, di una delle formulazioni lipidiche, fino a remissione clinica. Nei pazienti immunocompromessi e nell’istoplasmosi disseminata, è necessario proseguire il trattamento con una terapia di mantenimento a lungo termine (itraconazolo 200 mg/die).
Coccidioidomicosi
Figura 82.1 - Pregressa istoplasmosi polmonare. La radiografia antero-posteriore del torace evidenzia numerose piccole calcificazioni disseminate ad entrambi i campi polmonari.
La coccidioidomicosi è un’infezione provocata da Coccidioides immitis, un fungo dimorfo, endemico in alcune zone aride e calde degli USA sud-occidentali e dell’America centro-meridionale dove oltre l’80% della popolazione è stato esposto all’infezione. Nella maggioranza dei casi l’infezione avviene per via aerea, attraverso l’inalazione di spore prodotte e disperse con la polvere nell’aria, durante la lunga stagione secca estiva; in questo periodo vengono segnalati episodi epidemici, in rapporto a scavi, arature del terreno e tempeste di sabbia. Raramente il micete penetra attraverso soluzioni di continuo della cute provocando lesioni focali, linfangite e adenopatia satellite.
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1. In circa il 60% dei casi l’infezione polmonare acuta è asintomatica; nelle forme clinicamente manifeste, dopo un periodo di incubazione di 1-4 settimane, insorge una sindrome similinfluenzale, con tosse secca e dolore pleurico. Nel 50% dei casi compaiono, soprattutto nei bambini, eruzioni cutanee morbilliformi, localizzate al tronco e agli arti, o quadri simili all’eritema nodoso e polimorfo, più frequenti nelle donne, entrambi espressione di sensibilizzazione ad antigeni micotici. L’aspetto radiografico più frequente è una polmonite segmentaria, associata nel 20-30% dei casi a versamento pleurico e interessamento dei linfonodi ilari. L’infezione polmonare acuta si risolve spontaneamente nel 95% dei casi entro 1-3 settimane. 2. Nei casi rimanenti l’infezione evolve verso una coccidioidomicosi polmonare cronica con formazione di lesioni granulomatose. Gli esami radiologici evidenziano noduli polmonari, zone di fibrosi ed aree di escavazione, localizzate in prevalenza ai lobi superiori, che talora comportano episodi di emoftoe; queste lesioni perdurano mesi o anni, ma tendono anch’esse a guarire spontaneamente. 3. L’1% degli individui infetti sviluppa una coccidioidomicosi disseminata, una forma clinica grave, spesso fatale, tipicamente osservata nell’ospite immunocompromesso. La disseminazione ematogena del fungo può avvenire a seguito dell’infezione primaria o per riattivazione di infezioni pregresse, latenti. Le manifestazioni più tipiche consistono nell’insorgenza di una polmonite miliare, di noduli cutanei e subcutanei con un centro ulcerato, e di un interessamento osteoarticolare con lesioni litiche al cranio, alle vertebre, alle ossa delle mani e dei piedi. Particolarmente frequente e grave nei pazienti con AIDS è l’insorgenza di una meningite, a decorso insidioso, spesso complicata da idrocefalo. La diagnosi clinica di coccidioidomicosi è difficile poiché le forme croniche e disseminate possono avere una presentazione analoga alla tubercolosi. La diagnosi si basa sull’osservazione diretta del micete nei campioni biologici e tissutali e sull’isolamento colturale: la coltura dell’escreato è positiva nel 40-70% delle forme polmonari acute mentre nelle forme disseminate le emocolture, urinocolture e le colture del liquor sono meno frequentemente positive. Mentre i test epicutanei sono utili solo ai fini epidemiologici, i test sierologici sono spesso diagnostici: in oltre il 90% dei casi con infezione polmonare acuta sintomatica sono documentabili anticorpi di classe IgM (test di precipitazione) o più tardivamente di classe IgG (test di fissazione del complemento). L’aumento o la persistenza di titoli elevati di IgG è significativamente correlata allo sviluppo di una malattia disseminata; nel 70% dei casi di coccidioidomicosi meningea sono inoltre presenti nel liquor cerebrospinale anticorpi fissanti il complemento. La terapia è indicata in tutte le infezioni polmonari acute severe e in tutte le localizzazioni extrapolmonari. Il trattamento si fonda sull’utilizzo di amfotericina B a
dosi elevate (1-1,5 mg/kg/die) o a dosi equivalenti della formulazione liposomiale. Anche la terapia con i composti triazolici ha dato risultati soddisfacenti nelle forme meno gravi (fluconazolo, itraconazolo).
Blastomicosi La blastomicosi è una patologia rara, causata da un fungo dimorfo, Blastomices dermatitidis, endemica nel continente americano (USA e Canada) e in alcuni paesi dell’Africa. L’habitat naturale è costituito dal terreno, specialmente se contaminato da feci di uccelli e animali. Il contagio, più frequente tra i maschi, avviene attraverso le vie respiratorie con l’inalazione delle spore. L’infezione polmonare acuta è asintomatica in oltre il 50% dei casi, nelle forme clinicamente manifeste la sintomatologia è aspecifica (tosse con espettorato purulento, dolori toracici, emoftoe, progressivo decadimento generale) e insorge dopo un periodo di incubazione di 3-12 settimane; gli aspetti radiologici sono variabili. In entrambi i casi la risoluzione spontanea dell’infezione polmonare è infrequente, più spesso la micosi tende a disseminarsi per via linfatica ed ematogena con localizzazioni cutanee (70%), osteoarticolari (30%), genitourinarie (15-35%) e più raramente con un interessamento del sistema nervoso centrale. Le manifestazioni cutaneee sono di tipo verrucoso o ulcerato, preferenzialmente localizzate agli arti, al collo, al cuoio capelluto. Le lesioni sono istologicamente caratterizzate da un’area centrale necrotico-purulenta circondata da una ampia reazione infiammatoria granulomatosa. Nell’ospite immunocompromesso la disseminazione a seguito di un’infezione acuta o della riattivazione endogena di una precedente infezione è spesso rapida, gravata da un tasso di letalità elevato (30-40%), con un interessamento del sistema nervoso centrale molto più frequente, soprattutto nei pazienti con infezione da HIV. La diagnosi clinica può essere problematica per la difficoltà a differenziare la blastomicosi da altre infezioni quali la tubercolosi e la coccidioidomicosi; indicativa appare l’osservazione di lesioni contemporaneamente presenti a cute, ossa e polmone. L’accertamento diagnostico si basa sull’isolamento colturale del fungo da campioni di escreato, broncolavaggio, pus, urine. La prognosi è sempre riservata. Nelle infezioni disseminate più gravi e nelle forme dell’ospite immunocompromesso il farmaco di scelta è l’amfotericina B (0,5-0,6 mg/kg/die ev fino a stabilizzazione clinica). Nei quadri ad andamento cronico, più indolente, o per la prosecuzione terapeutica nei pazienti che hanno inizialmente risposto all’amfotericina B si impiega l’itraconazolo (200-400 mg/die per almeno 6 mesi).
Paracoccidioidomicosi La paracoccidioidomicosi è una patologia con una distribuzione geografica limitata al Centro e Sud Ameri-
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MALATTIE INFETTIVE
ca, provocata da Paracoccidioides brasiliensis, un fungo dimorfo saprofita del suolo e dei vegetali. L’infezione è più frequente nelle regioni montane subtropicali e nei soggetti di età compresa tra i 20 e i 50 anni. L’inalazione delle spore fungine causa un’infezione polmonare con caratteristiche simili all’istoplasmosi polmonare cronica. Altre forme cliniche secondarie ad un’infezione polmonare inapparente o alla penetrazione del fungo attraverso la cute e le mucose comprendono la paracoccidioidomicosi mucocutanea, caratterizzata dalla comparsa di lesioni granulomatose croniche, spesso ulcerate della cute del volto, della mucosa orale, nasale, laringea, la paracoccidioidosi linfonodale con interessamento frequente delle catene laterocervicali e sottomandibolari e la paracoccidioidomicosi disseminata nella quale le lesioni granulomatose-necrotiche possono estendersi all’intestino, fegato, surrene, scheletro e sistema nervoso centrale. La diagnosi clinica non è facile poiché questa patologia entra in diagnosi differenziale con la leishmaniosi mucocutanea, la lebbra, la tubercolosi e l’istoplasmosi. Di notevole utilità diagnostica sono le prove sierologiche: i test di immunodiffusione e di fissazione del complemento sono positivi in oltre l’80% dei pazienti con paracoccidioidomicosi; titoli anticorpali elevati sono associati alle infezioni più severe, mentre un declino dei titoli anticorpali è correlato positivamente con l’efficacia del trattamento. La conferma diagnostica si basa sull’isolamento del fungo, dopo incubazione della coltura a 25-30 °C per 3-4 settimane. La prognosi è riservata nelle forme disseminate. Poiché la malattia non va incontro a risoluzione spontanea e le recidive sono frequenti, il trattamento antifungino è previsto in tutte le forme cliniche di paracoccidioidomicosi: il farmaco di scelta è l’itraconazolo (50-100 mg/die per 6 mesi), in alternativa possono essere utilizzati il chetoconazolo, l’amfotericina B, la sulfadiazina.
MICOSI DA MICETI OPPORTUNISTI Candidosi I miceti del genere Candida sono abituali commensali della cute e delle mucose dell’uomo (cavo orale, intestino, vie urogenitali). Tra le oltre 150 specie di Candida, solo alcune sono patogene per l’uomo: la specie più frequentemente isolata è C. albicans, abituale saprofita delle mucose; può inoltre contaminare cibo e oggetti ed è presente nel suolo e nell’ambiente ospedaliero. Altre specie di meno frequente isolamento sono C. guilliermondii, C. krusei, C. parapsilopsis, C. tropicalis, C. pseudotropicalis, C. lusitaniae, C. rugosa, C. glabrata. I fattori predisponenti più importanti nel condizionare l’insorgenza di candidosi profonde comprendono l’utilizzo di terapie antibiotiche protratte, la presenza di
neutropenia e/o le alterazioni della funzionalità granulocitaria. Altre condizioni facilitano inoltre l’ingresso in circolo di questi microrganismi: l’utilizzo di cateteri intravascolari e vescicali, di nutrizioni parenterali, di protesi, gli interventi chirurgici sul tratto gastroenterico, nonché l’uso di eroina per via parenterale. Le candidosi profonde possono interessare qualsiasi organo ed apparato: le manifestazioni clinicamente più rilevanti comprendono polmoniti, endocarditi, meningiti, endoftalmiti ed infezioni disseminate. A. La polmonite da Candida può presentarsi come una broncopolmonite focale o generalizzata secondaria ad una colonizzazione endobronchiale o come una polmonite interstiziale, finemente nodulare, secondaria ad una disseminazione ematogena, difficilmente distinguibile all’esame radiografico da uno scompenso cardiaco o da una pneumocistosi. La certezza diagnostica è raggiungibile solo attraverso la biopsia polmonare che documenti l’invasione tissutale del micete, mentre la presenza di Candida nell’escreato o nel broncolavaggio, in considerazione della frequente colonizzazione del tratto respiratorio nei malati debilitati, pur rivestendo significato diagnostico in un contesto clinico adeguato, non consente di per sé una diagnosi definitiva. B. L’endocardite da C. albicans, la più frequente tra le endocarditi fungine, può subentrare in pazienti con malattie valvolari o dopo interventi chirurgici di sostituzione valvolare, nei pazienti neoplastici in trattamento chemioterapico, nei pazienti con un accesso venoso centrale o come sovrainfezione nelle endocarditi batteriche. La sintomatologia non differisce da quella delle endocarditi batteriche; caratteristica è la tendenza allo sviluppo di voluminose vegetazioni valvolari per cui il 50% dei pazienti va incontro a gravi episodi di embolizzazione con potenziale occlusione di arterie di medio calibro. La diagnosi è relativamente facile: le emocolture sono positive nella maggioranza dei casi e l’utilizzo dell’ecocardiogramma transesofageo consente di evidenziare con una buona sensibilità le vegetazioni valvolari, preferenzialmente localizzate alla valvola aortica e mitralica. Nei pazienti tossicodipendenti la specie più frequentemente isolata è C. parapsilopsis e la valvola più frequentemente colpita è la tricuspide. C. La meningite da Candida, sostenuta in oltre il 90% dei casi da C. albicans, è in circa il 50% dei casi una complicanza di un’infezione disseminata, meno frequentemente può derivare da un’infezione di shunt ventricolari, traumi cranici, interventi neurochirurgici, contaminazioni durante rachicentesi. La sintomatologia è variabile, nel 50-60% dei casi l’esame liquorale evidenza una pleiocitosi linfocitaria, ipoglicorrachia e iperproteinorrachia; l’esame microscopico a fresco o con colorazione di Gram del liquor è positivo in circa il 40% dei casi. D. L’endoftalmite da Candida è una patologia grave, spesso secondaria a una disseminazione ematogena del
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fungo, particolarmente frequente nel tossicodipendente; più raramente è una complicanza di traumi oculari. La sintomatologia comprende visione offuscata, scotomi, dolore oculare; l’esame del fundus rivela la presenza di caratteristici essudati retinici bianco-giallastri mono o bilaterali. E. La candidosi disseminata è una malattia a prognosi severa, di crescente riscontro in ambiente ospedaliero. È una complicanza caratteristica degli ustionati gravi, dei pazienti con leucemia acuta, oppure con un decorso postoperatorio complicato specialmente a seguito di trapianti, interventi cardiochirurgici o del tratto gastroenterico. Vi può essere un coinvolgimento di tutti gli organi con la tipica formazione di microascessi o granulomi, particolarmente frequenti nel rene, encefalo, miocardio, occhio. In condizioni di profonda alterazione della risposta infiammatoria si possono formare macroascessi: la candidosi epatosplenica, osservata nei pazienti con leucemia acuta e neutropenia prolungata, caratterizzata dal riscontro alla TC di multiple lesioni ipodense, con enhancement perilesionale, ne rappresenta un classico esempio. La diagnosi eziologica di candidosi disseminata è spesso problematica: solo il 15-40% dei pazienti viene diagnosticato nei tempi necessari per ricevere un trattamento adeguato. La diagnosi di candidosi disseminata rimane in molti casi una diagnosi clinica: le emocolture sono infatti negative in circa il 50% dei casi; in considerazione dell’abituale presenza del microrganismo sulle mucose, l’isolamento di Candida spp da altri campioni biologici (escreato, urine, feci, cute) pur dotato di valore predittivo non costituisce di per sé una chiara indicazione al trattamento antifungino. Inoltre la determinazione degli anticorpi anticandida nel siero è poco utile per la frequente possibilità di falsi positivi e falsi negativi. La presenza di un’emocoltura positiva per Candida spp ha invece un elevato significato diagnostico poiché è associata alla presenza di una candidosi disseminata nella quasi totalità degli ospiti immunocompromessi, ad un tasso di letalità del 40% e può preludere allo sviluppo in futuro di complicazioni quali artriti, endoftalmiti, endocarditi. Il riscontro di una candidemia costituisce di conseguenza una chiara indicazione ad intraprendere senza indugi un trattamento antifungino, a completare l’iter diagnostico volto ad evidenziare l’interessamento pluriviscerale, a rimuovere rapidamente i cateteri intravascolari eventualmente presenti. La diagnosi definitiva di candidosi disseminata prevede il prelievo bioptico dell’organo interessato al fine di documentare istologicamente l’invasione tissutale ad opera dei miceti. Nel paziente neutropenico o in rapido peggioramento clinico la terapia della candidemia e della candidosi disseminata per via ematogena si basa sull’utilizzo di amfotericina B a dosi crescenti (0,5-0,7 mg/kg/die ev) in associazione alla flucitosina (150 mg/kg/die in 4 somministrazioni per os o ev) nei casi più severi al fine di ottenere rapidamente livelli ematici terapeutici. L’utilizzo dell’amfotericina B liposomiale (AmBisome), alla posologia di 3-5 mg/kg/die consente di ridurre l’entità degli effetti collaterali di tipo idiosincrasico (nausea,
vomito, febbre), l’incidenza di tromboflebiti in sede di iniezione, la tossicità renale e midollare, e di raggiungere più velocemente le concentrazioni plasmatiche terapeutiche. Nel paziente non neutropenico e in condizioni cliniche stabili l’utilizzo del fluconazolo (400-800 mg/die per os o ev) ha dato risultati incoraggianti in termini di efficacia e tossicità. Nei confronti delle specie di Candida resistenti al fluconazolo si sono dimostrati efficaci la caspofungina, echinocandina con attività fungicida verso diverse specie di Candida (70 mg per il primo giorno poi 50 mg/die ev) ed un nuovo triazolico, il voriconazolo (6 mg/kg ev ogni 12 ore il primo giorno, poi 3 mg/kg ev ogni 12 ore).
Criptococcosi La criptococcosi è una patologia causata da Cryptococcus neoformans, un lievito capsulato a distribuzione ubiquitaria. La variante neoformans è presente nelle deiezioni dei piccioni e in generale nel suolo contaminato da deiezioni di uccelli. È responsabile della maggioranza dei casi di criptococcosi umana. La variante gattii è molto diffusa nelle aree tropicali dell’Africa e dell’Asia orientale e ha come nicchia ambientale gli alberi di Eucalyptus camaldulensis. C. neoformans infetta l’uomo prevalentemente per via respiratoria, anche se raramente è stata dimostrata la possibilità di un contagio attraverso la cute e la mucosa nasofaringea. A. La manifestazione clinica più comune è la criptococcosi polmonare, anche se raramente diagnosticata poiché nel soggetto immunocompetente si tratta solitamente di un’infezione subclinica o paucisintomatica, autolimitantesi. La sintomatologia è aspecifica (tosse con espettorato mucoso, dolore toracico, febbricola, sudorazioni notturne, calo ponderale) e gli aspetti radiologici sono variabili: frequente la presenza di lesioni nodulari con un interessamento ilare minimo o assente, meno frequenti gli infiltrati polmonari diffusi o peribronchiali. La diagnosi di criptococcosi polmonare viene posta in base all’esame microscopico e colturale dei campioni biologici (broncoaspirato, broncolavaggio, biopsia transbronchiale e transtoracica) e mediante la ricerca dell’antigene polisaccaridico criptococcico nel siero (test di agglutinazione al latice, metodo immunoenzimatico); quest’ultima prova riesce positiva soltanto in una minoranza dei casi. Nell’ospite immunocompetente la prognosi è favorevole; la terapia con amfotericina B (0,5-0,8 mg/kg/die ev) o fluconazolo (400-800 mg/die per os o ev) è indicata nei pazienti con sintomatologia protratta. B. Negli ospiti con compromissione dell’immunità cellulo-mediata l’infezione polmonare evolve molto spesso in un’infezione disseminata, la cui manifestazione clinica più frequente è la meningoencefalite criptococcica, patologia grave con un tasso di letalità, nonostante terapia, del 25-30%.
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MALATTIE INFETTIVE
Questa patologia, particolarmente frequente nei pazienti con AIDS, è caratterizzata da un esordio spesso insidioso e indolente: il sintomo principale è una cefalea da modesta a gravativa, bilaterale, diffusa. Possono coesistere nausea, vomito, rigor nucalis. La febbre è modesta o assente per lo meno nelle fasi iniziali, mentre sono frequentemente presenti alterazioni dello stato di coscienza quali sopore e disorientamento. In oltre il 90% dei casi vi è ipertensione liquorale e l’esame del liquor evidenzia ipoglicorrachia, iperproteinorrachia e una pleiocitosi linfocitaria di grado variabile. Nel 5% dei pazienti con interessamento neurologico la TC o la RM cerebrale documentano la presenza di criptococcomi, piccole lesioni nodulari iperdense con contrasto ad anello. L’idrocefalo rappresenta la complicanza più severa. La diagnosi di meningoencefalite criptococcica è relativamente semplice: la determinazione dell’antigene criptococcico mediante test al lattice su liquor è positiva in oltre il 90% dei pazienti non trattati, l’esame microscopico del liquor mediante colorazione con inchiostro di china consente di riconoscere i criptococchi nel 70% dei casi. La conferma diagnostica si basa sull’isolamento colturale di C. neoformans nel liquor cerebrospinale. In tutti i pazienti con un’infezione criptococcica sospetta o documentata, il completamento dell’iter diagnostico prevede l’accertamento o l’esclusione di una forma disseminata attraverso la determinazione dell’antigene criptococcico su liquor e siero, e degli esami colturali di sangue, urine, secreto prostatico, liquor. La terapia si basa sull’utilizzo dell’amfotericina B o della sua formulazione liposomiale, in monoterapia o in associazione con la flucitosina fino a sterilizzazione del liquor. L’utilizzo di desametasone è indicato in presenza di un importante edema cerebrale, anche se un uso troppo prolungato può interferire con la clearance del microrganismo. In considerazione del rischio di recidive, particolarmente frequente nei pazienti con AIDS, è indicata, dopo la sterilizzazione liquorale, l’introduzione di una terapia soppressiva a lungo termine con composti triazolici (fluconazolo o itraconazolo).
Aspergillosi Gli aspergilli sono miceti assai diffusi in natura. Sono presenti nel terreno, nella paglia, nel fieno, nei foraggi, nei cereali, nella vegetazione in decomposizione. Costituiscono le comuni muffe di abituale osservazione negli ambienti umidi e scarsamente soleggiati. Sono state inoltre descritte epidemie nosocomiali di aspergillosi nei reparti di oncologia o nelle unità di trapianto in associazione con il rinnovo delle strutture, con la costruzione di edifici adiacenti, con la contaminazione del sistema di ventilazione. Si possono isolare anche dalla cute, dal cavo orale e dall’apparato digerente dell’uomo; sono quindi considerati saprofiti occasionali dotati di scarsa patogenicità e invasività.
Aspergillus fumigatus è l’agente eziologico più frequentemente isolato in corso di aspergillosi, ma altre specie tra cui A. flavus e A. niger possono causare malattia nell’uomo. L’inalazione delle spore di aspergillo nell’apparato respiratorio può dare origine a quadri patologici diversi: le manifestazioni principali sono attribuibili a due differenti modalità di risposta immune dell’ospite: una reazione di ipersensibilizzazione o una riduzione dei meccanismi di difesa dell’ospite. 1. Nel primo caso si sviluppa un’aspergillosi broncopolmonare allergica frequentemente descritta negli individui atopici, mediata da una risposta immunologica di tipo I, III e probabilmente IV nei confronti di antigeni rilasciati durante la colonizzazione dell’albero bronchiale. Febbre, asma bronchiale, tosse produttiva, malessere, calo ponderale sono i sintomi più frequenti. Caratteristica è l’espettorazione di tappi di muco brunastro, nei quali è comune l’osservazione al microscopio di eosinofili e delle ife fungine. L’esame colturale dell’escreato è saltuariamente positivo. Gli esami ematochimici evidenziano eosinofilia costante, titoli elevati di IgE totali e di IgG antiaspergillo. L’esame radiografico del torace evidenzia infiltrati nodulari (fugaci, unilaterali o bilaterali, più frequenti ai lobi superiori) ma anche aree di atelettasia polmonare e bronchiectasie soprattutto in caso di esacerbazioni ricorrenti. L’aspergillosi allergica non richiede necessariamente una terapia. Nei casi più severi è indicata la somministrazione di steroidi per via sistemica e inalatoria, efficaci nel ridurre la sintomatologia e nel favorire la risoluzione degli infiltrati polmonari. In considerazione della patogenesi di questa forma il trattamento antifungino non è indicato. 2. Nei pazienti con cavitazioni polmonari secondarie a bronchiectasie, pregressi ascessi polmonari batterici, tubercolosi, sarcoidosi, istoplasmosi, pneumoconiosi, l’esposizione al fungo può condurre alla colonizzazione saprofitica delle cavitazioni, con formazione di un aspergilloma, solitamente localizzato ai lobi superiori. La lesione è inizialmente costituita da un ammasso di ife fungine vitali, fibrina, muco, nel quale compaiono successivamente aree di degenerazione centrale, circondato da una scarsa reazione flogistica locale (Fig. 82.2). L’esame radiografico del torace o ancor meglio la TC o la RM del torace evidenziano una massa rotondeggiante od ovalare a contenuto aereo nel tratto superiore. L’emottisi, a volte massiva, dovuta all’erosione di aree vascolarizzate della parete della cavità è il sintomo caratteristico che si verifica nel 50-80% dei casi. L’approccio terapeutico è di tipo conservativo; la resezione chirurgica è indicata in caso di emottisi severa o ricorrente. Non esistono studi clinici controllati sull’efficacia degli antimicotici, l’indicazione alla terapia con itraconazolo deriva da singole segnalazioni o da studi non controllati.
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Figura 82.2 - Aspergilloma dell’apice polmonare. L’anatomia macroscopica evidenzia una cavità rotondeggiante, delimitata da tessuto fibrotico.
mificati con una divisione dicotomica rettilinea. La conferma diagnostica definitiva è data dall’isolamento colturale del fungo dal tessuto biopsiato. I farmaci più attivi nella terapia dell’aspergillosi invasiva sono l’amfotericina B, il voriconazolo e la caspofungina. L’amfotericina B a dosaggi elevati (1 mg/kg/die). L’utilizzo dell’amfotericina B liposomiale al dosaggio di 3-5 mg/kg/die consente un più rapido ottenimento dei livelli ematici terapeutici con una minore tossicità. Il voriconazolo, considerato da molti Autori farmaco di prima scelta, viene somministrato al dosaggio di 6 mg/kg ev ogni 12 ore il primo giorno, poi 4 mg/kg ev ogni 12 ore. La caspofungina viene somministrata alla posologia di 70 mg ev il primo giorno, poi 50 mg/die ev. Nei pazienti sottoposti a trapianto di midollo osseo ed in terapia con elevati dosaggi di corticosteroidi, viene preferita una terapia iniziale di associazione voriconazolo+caspofungina. Il trattamento deve essere iniziato rapidamente e protratto fino a risoluzione del quadro clinico.
Mucormicosi 3. Nei pazienti immunodepressi l’esposizione al fungo può condizionare l’insorgenza di un’aspergillosi polmonare invasiva. I pazienti più a rischio sono i pazienti neutropenici con neoplasie ematologiche, i trapiantati, i bambini con malattia granulomatosa cronica. Il quadro clinico, spesso fatale, è determinato da una invasione generalizzata del tessuto polmonare con infarcimento emorragico. Nel 30% dei casi vi è inoltre una disseminazione ematogena con localizzazione a livello del tratto gastroenterico (40% dei casi), renale (30% dei casi) e del SNC (10% dei casi). La sintomatologia clinica è aspecifica, gli esami radiologici evidenziano inizialmente la presenza di noduli polmonari singoli o multipli, meglio visibili alla TC; il quadro evolve rapidamente verso un consolidamento bilaterale diffuso, con formazione di cavitazioni e immagini periferiche cuneiformi tipiche delle aree infartuate. La presenza di questi aspetti radiologici così come l’espettorazione di materiale necrotico costituiscono all’interno di un quadro clinico compatibile una chiara indicazione al trattamento antifungino. L’esame colturale del broncolavaggio è positivo in circa il 60% dei casi. Il metodo più attendibile per la diagnosi di aspergillosi acuta invasiva è la dimostrazione all’esame microscopico del materiale bioptico dei caratteristici filamenti settati e ra-
La mucormicosi è un’infezione opportunistica rara provocata da muffe appartenenti all’ordine Mucorales, generi Absidia, Rhizopus e Mucor, ubiquitariamente presenti nel terreno e nei cibi avariati (frutta, pane). Si tratta di miceti dotati di scarsissima invasività ed attività patogena, che si impiantano esclusivamente in soggetti gravemente compromessi, con neoplasie ematologiche, chetoacidosi diabetica, ustioni gravi o sottoposti a trapianti. L’infezione avviene soprattutto per inalazione delle spore per via aerea. Le manifestazioni cliniche possono interessare l’apparato respiratorio, gastroenterico, cutaneo; la forma clinica più frequente è la mucormicosi rinocerebrale, patologia rapidamente fatale se non trattata, nella quale l’infezione, a partenza dai seni paranasali, coinvolge poi il volto, il palato, l’orbita e l’encefalo. Analogamente agli aspergilli, i Mucorales hanno un particolare tropismo per l’endotelio vascolare, causando trombosi, infarti e rapida necrosi tissutale. La diagnosi si basa sulla dimostrazione microscopica dei miceti nel materiale ottenuto dalle lesioni necrotiche. La prognosi è sempre grave. Le possibilità terapeutiche, modeste, si fondano sul precoce impiego dell’amfotericina B e sulla rapida rimozione chirurgica del tessuto necrotico.
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INFEZIONI IN SITUAZIONI PARTICOLARI A. CASTAGNA, C. UBERTI-FOPPA, R. NOVATI
Il miglioramento della prognosi nei soggetti immunocompromessi associato all’altrettanto e forse più significativo dinamismo nella ricerca e diagnostica delle infezioni, non può non rendere le manifestazioni infettive sempre più polimorfe e dipendenti sia da ospiti speciali sia da particolari situazioni ambientali. Il riconoscimento di nuovi o riemergenti microrganismi (erlichiosi, ciclosporiasi, febbre del Nilo occidentale, sindrome respiratoria acuta grave, ecc.) richiede un elevato indice di sospetto clinico che si fonda sia su quadri clinici ben definiti nel soggetto immunocompetente sia su manifestazioni polimorfe sostenute dal progressivo deterioramento del sistema immunitario, ma anche su fattori demografici, ambientali e di adattamento microbico. Le manifestazioni cliniche in precedenza misconosciute e in continuo dinamismo rendono indispensabili approcci diagnostici sempre più polimorfi e peculiari di ogni singola situazione soggettiva e/o ambientale. In questo capitolo vengono brevemente descritte alcune infezioni in situazioni particolari come le manifestazioni cliniche nei soggetti immunocompromessi, suddivise in relazione al tipo di deficit immunitario. Vengono anche incluse le patologie infettive peculiari della gravidanza in quanto caratterizzata da uno stato di relativa immunocompromissione necessaria allo scopo di tollerare gli antigeni fetali “non-self ” e quindi di assicurare la sopravvivenza fetale. Fra i fattori ambientali più rilevanti nel determinare una particolare situazione clinica, le infezioni ospedaliere continuano ad essere rilevanti in termini di conseguenze per il paziente e di costi economici associati. Nonostante le infezioni nosocomiali siano in parte prevedibili, è necessario definire strategie di intervento efficaci con l’apporto interdisciplinare delle diverse figure professionali e dei diversi specialisti con il compito di attivare programmi di sorveglianza, prevenzione e lotta alle infezioni nosocomiali e di igiene ospedaliera in generale. Una naturale collocazione in questo capitolo merita la febbre di origine sconosciuta, un piccolo ma importante sottogruppo di febbri persistenti e difficili da dia-
gnosticare che hanno affascinato i clinici fin dai primi giorni della termometria clinica. Altre situazioni speciali in continua evoluzione, perché dipendenti dal fenomeno della globalizzazione sia come conseguenza di conflitti locali sia per lo spostamento di migliaia di individui dalle nazioni in via di sviluppo alle aree industrializzate, sono rappresentate dal bioterrorismo (agenti infettivi utilizzati come armi biologiche) e dalla patologia infettiva dei flussi migratori che richiede nuove strategie di interventi sanitari.
INFEZIONI DELL’OSPITE COMPROMESSO (*) L’ospite compromesso è un soggetto con una ridotta resistenza alle infezioni causata da uno o più deficit dei meccanismi di difesa antimicrobica. Il termine ospite immunocompromesso identifica invece il soggetto nel quale il deficit più importante dell’attività antimicrobica è legato ad un’alterata risposta immunitaria. Numerose condizioni, fisiologiche e patologiche, sono associate ad un grado più o meno marcato di compromissione dell’ospite: l’età neonatale o avanzata, le condizioni di denutrizione o debilitazione, le gravi insufficienze d’organo, il diabete mellito, la splenectomia, l’abuso di alcool o droghe, la presenza di neoplasie, l’utilizzo protratto di antibiotici, antinfiammatori e citostatici. Nella tabella 83.1 sono elencati i principali fattori che condizionano l’efficienza dei meccanismi di difesa antimicrobica; i singoli deficit si associano frequentemente ad uno spettro abbastanza limitato e caratteristico di infezioni, spesso gravi e potenzialmente pericolose per la vita. La rapida identificazione del tipo di compromissione presentata dal paziente costituisce pertanto la premessa necessaria per definire l’iter diagnostico più idoneo e la terapia empirica più adeguata nei confronti di una malattia a sospetta eziologia infettiva. (*) A. Castagna
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MALATTIE INFETTIVE
Tabella 83.1 - I principali deficit dei meccanismi di difesa antimicrobica e gli agenti infettivi più frequentemente associati. BATTERI
MICETI
VIRUS
PARASSITI
Soluzioni di continuo Staphylococcus epidermidis Candida spp della cute e delle mucose Staphylococcus aureus Streptococcus spp Enterobacteriacee Enterococcus spp Pseudomonas spp Deficit granulocitari
Escherichia coli Candida spp Pseudomonas aeruginosa Aspergillus spp Klebsiella pneumoniae Staphylococcus aureus Staphylococcus epidermidis Streptococcus spp
Deficit dell’immunità umorale
Streptococcus pneumoniae Haemophilus influenzae Neisseria meningitidis
Deficit del complemento
Staphylococcus aureus Streptococcus pneumoniae Streptococcus pyogenes Haemophilus influenzae Pseudomonas spp Proteus spp Neisseria spp
Deficit dell’immunità cellulo-mediata
Lysteria monocytogenes Salmonella spp Mycobacterium spp Legionella pneumophila
Deficit dei meccanismi di difesa Soluzioni di continuo della cute e delle mucose L’integrità della cute e delle mucose del tratto gastrointestinale e respiratorio rappresenta un meccanismo di difesa aspecifico essenziale nel prevenire l’impianto e la diffusione di microrganismi patogeni. Le alterazioni di questa barriera anatomofunzionale aumentano di conseguenza la suscettibilità dell’ospite alle infezioni: gli esempi più noti sono rappresentati dal portatore di catetere intravascolare, dal paziente politraumatizzato e dall’ustionato grave. A. L’ampio utilizzo dei dispositivi intravascolari permanenti ha notevolmente facilitato la gestione del paziente ospedalizzato che frequentemente necessita di terapie antibiotiche o citostatiche in infusione continua, di nutrizioni parenterali, trasfusioni e numerosi prelievi ematici di controllo. La presenza di un accesso vascolare permanente (Hickman, Port) predispone d’altro canto il paziente ad una maggiore suscettibilità ad infezioni batteriche e fungine poiché consente a questi contaminanti di superare la barriera anatomofunzionale cutanea. Il processo infettivo si localizza più frequentemente alla cute nel punto di inserzione del catetere ma può coinvolgere il tratto tunnellizzato o la tasca sottocutanea, favorendo l’insorgenza di una batteriemia o sepsi. Gli agenti eziologici più frequentemente isolati tra i batteri sono gli stafilococchi coagulasi negativi e lo
Giardia lamblia
Pneumocystis carinii Cryptococcus neoformans Histoplasma capsulatum Coccidioides immitis
Herpes simplex Varicella-zoster Cytomegalovirus Epstein-Barr
Toxoplasma gondii Cryptosporidium parvum Strongyloides stercoralis
Staphylococcus aureus; non rare sono inoltre le fungemie da Candida spp in particolare nei pazienti immunocompromessi, molto debilitati o sottoposti a prolungate terapie antibiotiche. Il rischio infettivo può essere ridotto utilizzando tecniche sterili durante ogni manipolazione del catetere, rivalutando frequentemente l’aspetto della cute nel punto di inserzione dello stesso, eseguendo emocolture ripetute sia dal catetere sia dalla vena periferica in presenza di ogni episodio febbrile. L’utilizzo della terapia antibiotica mirata consente di controllare nella maggioranza dei casi la batteriemia evitando la rimozione del catetere. In alcune situazioni, invece, in particolare in presenza di uno stato settico, di batteriemie da Bacillus spp o di fungemie da Candida spp, la pronta rimozione del catetere costituisce l’intervento terapeutico risolutore. B. Il paziente politraumatizzato, frequentemente ricoverato nei reparti di Terapia Intensiva, presenta una maggiore suscettibilità alle infezioni per diverse ragioni. La presenza di soluzioni di continuo della cute o delle mucose, di zone di ischemia o devitalizzazione favorisce la colonizzazione tissutale da parte di patogeni nosocomiali. L’immobilizzazione del paziente e i relativi problemi di decubito, nonché l’ampio utilizzo di procedure mediche invasive (posizionamento di drenaggi, cateteri intravascolari e vescicali, tracheostomia), l’alterazione della flora microbica intestinale contribuiscono a rendere questa colonizzazione più rapida e severa. Traumi estesi inoltre condizionano il crearsi di uno sta-
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83 - INFEZIONI IN SITUAZIONI PARTICOLARI
to ipermetabolico e di una conseguente deficienza nutrizionale che può compromettere l’efficienza dei fenomeni di cicatrizzazione e dei meccanismi di difesa immunitaria. Nei pazienti che sopravvivono all’insulto traumatico iniziale, l’insorgenza di infezioni rappresenta la causa più frequente di mortalità (30-80%). In considerazione del largo utilizzo in questi pazienti di terapie antibiotiche ad ampio spettro si è osservato negli ultimi anni un incremento di infezioni post-traumatiche da stafilococchi meticillino-resistenti, enterobatteriacee (Escherichia coli, Enterobacter spp, Klebsiella spp) Pseudomonas spp ed Enterococcus spp multiresistenti) e da miceti. Le infezioni più frequenti sono rappresentate da batteriemie e sepsi, secondarie ad infezioni delle lesioni, delle cicatrici chirurgiche o dei cateteri intravascolari, da infezioni delle basse vie respiratorie e del tratto urinario. La diagnosi di infezione nel paziente traumatizzato è spesso problematica e richiede notevole esperienza clinica: infatti i segni abituali di infezione (febbre, leucocitosi, stato iperdinamico) possono essere il risultato di processi infiammatori non infettivi (ematomi, trombosi venose profonde, fenomeni atelettasici) e l’interpretazione dei risultati degli esami microbiologici risente spesso della difficoltà nel differenziare tra colonizzazione tissutale ed infezione vera e propria. C. Nel paziente ustionato grave le infezioni rappresentano ancora oggi la causa più importante di mortalità. Le infezioni più frequenti sono limitate ad un numero ristretto di batteri (stafilococchi spp, Enterobacter cloacae, Enterococcus faecalis, Escherichia coli, Pseudomonas aeruginosa). Negli ultimi anni, probabilmente per l’uso indiscriminato di terapie antibiotiche ad ampio spettro, è stato segnalato un aumento nella frequenza di infezioni fungine. In presenza di ustioni estese (> 30% della superficie corporea) si assiste ad una contaminazione microbica del tessuto necrotico rapida e costante che rappresenta il punto di partenza per lo sviluppo di un’infezione e la sua evoluzione in batteriemia o sepsi. Questi processi sono inoltre favoriti dalla concomitante depressione dell’immunità umorale e cellulo-mediata osservata in questi pazienti e soprattutto dall’instaurarsi di alterazioni della funzionalità granulocitaria con un progressivo esaurimento dell’attività fagocitica, verosimilmente in relazione all’eccesso di materiale estraneo in circolo. La presenza all’esame colturale tissutale di una concentrazione di microrganismi > 105 e soprattutto l’evidenza istologica di un’invasione batterica nel tessuto vitale sono correlati con un rischio elevato di mortalità. I principali obiettivi terapeutici consistono nel garantire il mantenimento del circolo nelle zone ustionate e nella rimozione del tessuto necrotico sotto adeguata copertura antibiotica. La frequente rivalutazione della zona ustionata e del tessuto circostante consente di evidenziare segni suggestivi di infezione batterica o fungina (emorragie, colorazione verdastra o nerastra e rapido distacco dell’escara). Il periodico controllo mediante esami colturali e istologici del tessuto biopsiato consente di conoscere con anticipo i microrganismi potenzialmente responsabili di infezione e di individuare rapidamente le situazioni in cui
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è necessario associare alla terapia antimicrobica topica e all’intervento chirurgico una terapia antibiotica mirata per via sistemica (infezioni suppurative da cocchi Gram+, infezioni invasive da miceti). Ostacoli e ostruzioni ai deflussi fisiologici La presenza di ostacoli od ostruzioni al deflusso fisiologico del tratto urinario, dell’apparato respiratorio, dell’apparato digerente o delle vie biliari comporta una stasi del contenuto che favorisce la proliferazione della flora microbica endogena o dei distretti adiacenti. Nel paziente neoplastico la presenza di fenomeni ostruttivi secondari alla patologia di base condiziona l’insorgenza di episodi infettivi: l’ostruzione bronchiale secondaria alla presenza di un carcinoma broncogeno favorisce l’insorgenza di polmoniti, la presenza di un carcinoma prostatico può favorire le infezioni ricorrenti delle vie urinarie, il coinvolgimento neoplastico delle vie biliari può determinare l’instaurarsi di colangiti ascendenti. Danni a carico del SNC Numerose patologie del sistema nervoso centrale (tumori primitivi o metastatici, emorragie, nevrassiti, traumi del midollo spinale, complicanze metaboliche o da farmaci) possono alterare o abolire il riflesso della tosse, ridurre la contrattilità diaframmatica e dei muscoli intercostali, condizionare l’insorgenza di una vescica neurogena o di un ileo paralitico. La presenza di questi deficit, spesso associata ad un’alterazione più o meno profonda dello stato di coscienza e all’allettamento del paziente, favorisce l’insorgenza di polmoniti da aspirazione, di infezioni del tratto urinario, della cute e dei tessuti molli, determinando un significativo incremento del tasso di mortalità in questa popolazione. Deficit granulocitari Deficit qualitativi o quantitativi della funzionalità granulocitaria si associano a un elevato rischio di contrarre infezioni da batteri e miceti. I deficit qualitativi (alterazioni della chemiotassi, della fagocitosi e della capacità microbicida dei neutrofili) possono essere espressione di malattie congenite (sindrome di Chediak-Higashi, sindrome di Giobbe, malattia granulomatosa cronica) o acquisite (LES, leucemia mieloide cronica, anemia megaloblastica, infezione da HIV). Anche la neutropenia può essere su base congenita (agranulocitosi genetica infantile, neutropenia cronica familiare, neutropenia ciclica) o acquisita: quest’ultima rappresenta la causa più frequente di alterazione della funzionalità granulocitaria. È riscontrata in modo particolare nei pazienti con leucemia acuta, nei pazienti neoplastici o sottoposti a trapianto d’organo o di midollo, nei pazienti trattati con farmaci mielosoppressivi o con radioterapia e nei pazienti con anemia aplastica. Nel paziente neutropenico la stragrande maggioranza delle infezioni è sostenuta da batteri e in misura minore dai miceti. L’incidenza e la severità delle infezioni sono inversamente proporzionali al numero assoluto dei neu-
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trofili, e sono significativamente correlate alla rapidità d’insorgenza e alla durata della neutropenia: il rischio di infezioni aumenta significativamente nei pazienti con neutrofili < 500/mm3 e la maggioranza delle infezioni più severe insorge in pazienti con neutrofili < 100/mm3. Altri fattori contribuiscono ad aumentare il rischio infettivo nel paziente neutropenico: la contemporanea presenza di mucositi da chemioterapici, di fenomeni ostruttivi secondari alla patologia neoplastica di base, di cateteri intravascolari, nonché la alterazione della flora microbica endogena. Le terapie antibiotiche utilizzate possono inoltre ridurre la componente anaerobica della flora intestinale, componente essenziale nel prevenire la colonizzazione con batteri Gram– o miceti acquisiti in ambiente ospedaliero. Nella gestione del paziente neutropenico è importante tenere sempre in considerazione alcuni elementi. • L’insorgenza della febbre dev’essere considerata fino a prova contraria un segno suggestivo di infezione: questo segno è clinicamente molto rilevante soprattutto in considerazione della scarsità o aspecificità degli altri sintomi o segni caratteristici delle diverse patologie infettive, indotta dall’alterazione della risposta infiammatoria conseguente alla neutropenia. • Oltre l’80% delle infezioni insorgono inizialmente a livello della cavità orale, dell’esofago e del colon, dei polmoni, della cute, della regione perineale e sono sostenute dalla flora endogena, vale a dire da microrganismi a bassa patogenicità che colonizzano abitualmente quelle sedi o, nei pazienti ospedalizzati, da germi acquisiti in ambiente ospedaliero, più virulenti e frequentemente resistenti agli antibiotici comunemente usati. Anche se inizialmente localizzato, ogni episodio infettivo è potenzialmente grave per la frequente possibilità di una generalizzazione; la pronta prescrizione della terapia antibiotica empirica più adeguata rappresenta pertanto il momento cruciale nella gestione del paziente neutropenico febbrile. In quest’ottica la conoscenza della microflora ambientale ospedaliera e del relativo spettro di sensibilità agli antibiotici è di fondamentale importanza nell’impostare una terapia empirica efficace. • La terapia antibiotica empirica classica si basa, soprattutto in caso di neutropenia severa e prolungata, sull’utilizzo iniziale, per via endovenosa, di una -lattamina con attività anti-Pseudomonas spp associata ad un aminoglicoside. L’introduzione nello schema terapeutico di un glicopeptide (vancomicina, teicoplanina) è giustificata nei centri ospedalieri con un’incidenza elevata di stafilococchi meticillino-resistenti e nei pazienti in peggioramento clinico o ancora febbrili dopo 3-4 giorni di terapia antibiotica ad ampio spettro. Nel paziente neutropenico in cui la febbre persista per 4-7 giorni nonostante una copertura antibiotica adeguata, è consigliata l’introduzione dell’antifungino per via endovenosa (amfotericina B, fluconazolo) con il duplice scopo di impedire la colonizzazione fungina che inevitabilmente accompagna le terapie antibiotiche protratte e di trattare infezioni micotiche in fase iniziale o subclinica. La disponibilità di nuovi
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farmaci (cefalosporine di IV generazione, monobattami, carbapenemici, fluorochinoloni, linezolid) ha reso possibile l’introduzione di monoterapie, di pari efficacia e maggior maneggevolezza, utili soprattutto per la prosecuzione terapeutica nei pazienti in miglioramento clinico. • La riduzione del rischio infettivo e la risoluzione dei singoli episodi infettivi sono significativamente associate al recupero della neutropenia: in quest’ottica è ormai pratica clinica consolidata l’utilizzo nelle neutropenie indotte da chemioterapici dei fattori di crescita mielo-monocitari ricombinanti (Granulocyte Colony Stimulating Factor, G-CSF; Granulocyte Macrophage Colony Stimulating Factor, GM-CSF). Queste glicoproteine, stimolando la maturazione e la proliferazione delle cellule progenitrici midollari, pur non eliminando i problemi connessi al nadir della neutropenia, ne riducono la severità e la durata. Questa strategia terapeutica consente di adottare schemi chemioterapici ottimali in una quota più ampia di pazienti neoplastici, di ridurre la necessità di terapie antibiotiche complesse o protratte e la degenza ospedaliera del paziente. Deficit dell’immunità umorale e del complemento I difetti dell’immunità umorale si associano ad una aumentata suscettibilità nei confronti di uno spettro ristretto di infezioni, riconducibile alla carenza di anticorpi opsonizzanti nei confronti di batteri capsulati, quali Streptococcus pneumoniae e Haemophilus influenzae. Nella Tab. 83.2 sono riportate le principali patologie congenite e acquisite responsabili di una soppressione dell’immunità umorale. A. Nei pazienti con mieloma multiplo o leucemia linfatica cronica la ricorrenza di infezioni batteriche è Tabella 83.2 - Cause principali di deficit della risposta immunitaria nei confronti degli agenti infettivi. Deficit dei linfociti B A--globulinemia di Bruton Ipo--globulinemia Disglobulinemia Deficit selettivo di IgM Deficit selettivo di IgA Leucemia linfatica cronica Mieloma multiplo Deficit dei linfociti T Aplasia timica Ipoplasia timica Candidosi mucocutanea cronica Deficit di purinonucleoside fosforilasi Infezione da HIV-1 Malattia di Hodgkin Sarcoidosi Deficit misto dei linfociti B e T
Ipo--globulinemia comune variabile Atassia-teleangectasia Immunodeficienza combinata grave (SCID) Sindrome di Wiskott-Aldrich
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correlata alla severità dell’ipo--globulinemia. La carenza selettiva o severa di IgA è associata ad una maggior frequenza di infezioni da Neisseria meningitidis e Giardia lamblia. B. Nel paziente splenectomizzato, soprattutto se l’intervento è stato eseguito in età infantile, vi è una maggior frequenza di infezioni da batteri capsulati. Il patogeno più frequentemente isolato nel corso di polmoniti, meningiti e nelle sepsi fulminanti caratteristiche di questa condizione è Streptococcus pneumoniae, ma anche Haemophilus influenzae e occasionalmente Neisseria meningitidis possono causare infezioni clinicamente rilevanti. Sono giustificate dal ruolo critico che la milza svolge nell’attività antimicrobica, in relazione alla significativa produzione anticorpale ad opera dei linfociti B residenti e all’efficiente attività di sequestro e rimozione batterica da parte del sistema monociticomacrofagico, molto sviluppato. Anche alcuni difetti di componenti del sistema del complemento sono alla base di un’aumentata suscettibilità alle infezioni batteriche. Il deficit di C3, presente in alcune epatopatie congenite e nel corso di malattie autoimmuni quali il LES, è associato ad uno spettro di infezioni simile a quello osservato nelle ipo--globulinemie; nei difetti delle componenti C5-C6-C7-C8 si osserva in particolare un’aumentata suscettibilità ad infezioni da Neisseria spp. Deficit dell’immunità cellulo-mediata L’immunità cellulo-mediata è il principale dispositivo di protezione contro gran parte dei più importanti patogeni e in particolare contro i microrganismi endocellulari obbligati; infatti il prodotto finale della difesa immunitaria cellulo-mediata è l’attivazione della cellula monocito-macrofagica, elemento chiave nella fagocitosi e nel killing dei microrganismi intracellulari. Alterazioni a qualunque livello dei linfociti T o delle cellule monocito-macrofagiche possono condurre ad un’aumentata suscettibilità alle infezioni. In alcune malattie congenite o acquisite (Tab. 83.2) o in alcune situazioni quali la tossicodipendenza da eroina, le alterazioni dell’immunità cellulo-mediata sono parte integrante del quadro clinico di base, mentre in altre condizioni (per es., trapianto d’organo solido, trapianto midollare) sono il risultato delle terapie immunosoppressive a cui il paziente è sottoposto. Nella tabella 83.1 è elencato lo spettro di microrganismi caratteristicamente associato ai deficit dell’immunità cellulo-mediata; nella grande maggioranza dei casi si tratta di microrganismi che nella popolazione immunocompetente sono raramente responsabili di infezioni clinicamente manifeste (per es. Pneumocystis carinii) o raramente provocano quadri clinici disseminati e potenzialmente letali (CMV, VZV, Toxoplasma gondii). La frequenza con cui questi microrganismi danno luogo ad infezioni clinicamente manifeste varia in relazione al tipo di immunocompromissione ed in particolare alla severità e alla durata della immunosoppressione; i pazienti con linfoma di Hodgkin raramente sviluppano una polmonite da Pneumocystis carinii, mentre questa pato-
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logia è molto frequente nei bambini con leucemia linfoblastica acuta, trattati con terapie di mantenimento molto aggressive e nei pazienti con AIDS. Nel paziente tossicodipendente gli episodi infettivi costituiscono la principale causa di morte. La patogenesi degli episodi infettivi associata alla tossicodipendenza da eroina è riconducibile alla consistente riduzione dell’immmunità cellulo-mediata, in parte attribuibile all’azione immunomodulante dell’eroina e di altri oppiacei (metadone, marijuana) esplicata mediante il legame con i recettori per gli oppiacei presenti sui linfociti. Il significato clinico di queste osservazioni in vitro è comunque incerto poiché le infezioni tipiche dell’immunodeficienza cellulo-mediata sono raramente riportate in questi soggetti in assenza di una concomitante infezione da HIV. Controversi sono anche i risultati degli studi volti a documentare una riduzione dell’immunità umorale e della funzionalità granulocitaria in questi pazienti. Nella patogenesi degli episodi infettivi associati alla tossicodipendenza da eroina giocano inoltre un ruolo determinante sia la ripetuta introduzione per via parenterale di materiale non sterile sia la pratica diffusa dello scambio di siringhe che comporta continue microtrasfusioni di sangue potenzialmente infetto. Lo spettro di patologie infettive nel tossicodipendente include oltre alle infezioni trasmesse per via parenterale (HIV, HTLV-II, virus epatitici, altre malattie a trasmissione sessuale) numerose patologie d’organo ad eziologia batterica o fungina. Nel tossicodipendente le infezioni della cute e dei tessuti molli (celluliti, ascessi) costituiscono la causa più frequente di ricovero ospedaliero: i patogeni più frequentemente isolati sono cocchi Gram+ (Staphyloccus aureus, stafilococchi coagulasi-negativi, Streptococcus spp). Se trascurate, queste infezioni possono complicarsi con osteomieliti, miositi e fasciti necrotizzanti, batteriemie e sepsi. Altri quadri clinici tipici sono le endocarditi, le endoftalmiti, le tromboflebiti, la formazione di aneurismi micotici e di ascessi splenici. L’endocardite infettiva, spesso recidivante, è la causa più frequente di batteriemia nei tossicodipendenti. Gli agenti eziologici più frequentemente isolati sono stafilococchi e streptococchi, Candida spp, ma vi sono numerosi isolamenti di microrganismi considerati abitualmente non patogeni (Bacillus spp, Pseudomonas cepacia, Xanthomonas maltophilia, Corynebacterium spp, Staphylococcus xylosus, Staphylococcus saprophyticus) il cui ruolo eziologico è giustificato sia dalle alterazioni dell’immunità sia dalle pratiche di pulizia delle siringhe prima dell’uso con metodi poco ortodossi quali l’utilizzo della saliva, ecc. Un’altra patologia caratteristica di questa popolazione è l’endoftalmite; spesso associata all’endocardite o parte di un’infezione disseminata è sostenuta frequentemente da miceti, in particolare Candida spp. Trapianto e infezioni Esistono numerose condizioni cliniche o patologie nelle quali il rischio infettivo è legato alla contemporanea presenza di più deficit dei meccanismi di difesa antimicrobica: l’esempio più caratteristico è costituito dai
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pazienti sottoposti a trapianto. La terapia immunosoppressiva necessaria per controllare i fenomeni di rigetto espone il paziente al rischio di infezioni severe che ancora oggi costituiscono una delle principali cause di morte. Gli episodi infettivi complicano circa il 70% dei trapianti ed insorgono in maggioranza nei primi 4 mesi dall’intervento. Le fonti d’infezione e gli agenti eziologici implicati sono molteplici: • infezione dell’organo trapiantato e delle strutture adiacenti, della ferita chirurgica, dei dispositivi intravascolari permanenti da batteri e miceti endogeni o nosocomiali; • infezioni sostenute da microrganismi ambientali (Aspergillus spp, Nocardia spp, Legionella pneumophila, enterovirus, virus respiratorio sinciziale, adenovirus); • infezioni sostenute da agenti veicolati dall’organo o dal midollo trapiantato, dalle trasfusioni di sangue ed emoderivati (CMV, EBV, virus epatitici, Toxoplasma gondii); • riattivazione nel ricevente di infezioni precedenti il trapianto (CMV, EBV, HSV, VZV, HHV8, BKV, JCV, Mycobacterium tuberculosis e micobatteri atipici) o reinfezione dell’organo trapiantato (HBV, HCV). Le infezioni da virus erpetici, in particolare, rappresentano una delle evenienze più problematiche nel paziente trapiantato. L’agente virale più frequentemente in causa è il CMV: riattivazioni dell’infezione latente nei riceventi sieropositivi e infezioni primarie nei riceventi sieronegativi costituiscono ancora oggi, nonostante la disponibilità di strategie di prevenzione, un problema clinico rilevante in particolare nelle situazioni in cui è necessaria un’intensa immunosoppressione. L’infezione primaria da CMV è più spesso sintomatica ed associata ad un tasso di letalità più elevato. Le manifestazioni cliniche più frequenti includono una sindrome similmononucleosica, alterazioni della funzionalità epatica e più raramente, in particolare nel trapianto di fegato, epatiti gravi; la polmonite interstiziale e le ulcerazioni del tratto gastroenterico sono invece le complicanze più temibili. Nel paziente trapiantato sono frequenti anche le riattivazioni di infezioni latenti da HSV, con interessamento muco-cutaneo orale e ano-genitale; più rare le disseminazioni con grave interessamento epatico e polmonare osservate preferenzialmente nei trapianti di midollo osseo e polmone. Riattivazioni di VZV, generalmente localizzate, si sviluppano in circa il 10% dei trapiantati. Studi recenti documentano inoltre una correlazione tra la riattivazione di HHV-8 e l’insorgenza di sarcoma di Kaposi. L’infezione primaria o la riattivazione di una pregressa infezione da EBV sono correlate in particolare allo sviluppo di una sindrome linfoproliferativa (PTLD, Posttransplant Lynfoproliferative Disease), osservata nel 2-10% dei pazienti e caratterizzata ancora oggi da una mortalità elevata. È una sindrome eterogenea, le cui manifestazioni variano da una grave, spesso ricorrente, sindrome similmononucleosica, all’infiltrazione da parte di cellule B polimorfe di molti organi viscerali e allo
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sviluppo di linfomi, localizzati in particolare nel tratto gastroenterico, collo, torace. 1. Nel trapianto d’organo solido la tipologia, la sede di sviluppo e la frequenza delle infezioni, nonché la severità e la mortalità associate, variano in primo luogo in relazione all’organo trapiantato. Il trapianto di fegato è associato a complicanze infettive nell’80% dei casi. Nel periodo postoperatorio le infezioni più frequenti e gravi sono le infezioni batteriche e fungine del tratto gastroenterico, in particolare ascessi epatici o periepatici, colangiti, peritoniti sostenute da enterococchi spp, Gram–, anaerobi della flora intestinale e Candida spp. Nel trapianto di cuore e cuore-polmone sono particolarmente frequenti e gravi le infezioni polmonari batteriche nosocomiali o acquisite in comunità. Caratteristica è inoltre l’insorgenza nel periodo postoperatorio di una mediastinite sostenuta principalmente da Staphylococcus aureus e Staphylococcus epidermidis. Nei pazienti sottoposti a trapianto di cuore sono inoltre più frequenti le infezioni da toxoplasma, attribuibili alla presenza di cisti nell’organo trapiantato, da nocardia e i disordini linfoproliferativi associati all’infezione da EBV. Le infezioni delle vie urinarie sia batteriche (Escherichia coli, Klebsiella, Enterobacteriacee, Pseudomonas aeruginosa, Enterococcus spp) che fungine (Candida spp) rivestono particolare importanza clinica nel trapianto di rene; pur essendo oggi associate ad un tasso di mortalità molto ridotto, continuano ad essere problematiche per la tendenza a recidivare. L’eziologia delle complicanze infettive è inoltre correlata all’intervallo di tempo trascorso dall’intervento, in funzione dell’intensità e della durata della terapia immunosoppressiva in atto. Nel primo mese predominano le infezioni da batteri e miceti caratteristiche del decorso postoperatorio, le epatiti da HBV, le riattivazioni da HSV. Nella seconda fase (2-6 mesi) predominano le complicanze infettive principalmente correlate all’immunosoppressione (CMV, EBV, Mycobacterium tuberculosis, Listeria monocytogenes, Pneumocystis carinii, Aspergillus spp, Nocardia spp, Toxoplasma gondii, HCV). Nella fase tardiva (> 6 mesi) le infezioni più tipiche sono infezioni del SNC, in particolare da Listeria monocytogenes e Cryptococcus neoformans, e più raramente di corioretiniti da CMV. 2. Il trapianto di midollo osseo allogenico differisce notevolmente da quello degli organi solidi per l’assenza di una ferita chirurgica, la presenza di un’immunosoppressione completa nel mese successivo al trapianto e il possibile sviluppo di una reazione del trapianto contro l’ospite (GvDH, Graft versus Host Disease) che aggrava ulteriormente lo stato di immunodepressione. Il rischio infettivo varia col progressivo subentrare di diversi deficit nei meccanismi di difesa antimicrobica (Fig. 83.1). Nel mese successivo al trapianto predominano i rischi infettivi legati alla neutropenia, alle ripetute trasfusioni di sangue e derivati e alla compromissione delle barriere cutaneo-mucose conseguenti alla terapia antiblastica di condizionamento e alle manovre mediche invasive a cui il
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83 - INFEZIONI IN SITUAZIONI PARTICOLARI
100%
Herpes simplex Batteriemia da Gram– e Gram+ Cytomegalovirus Varicella-zoster Candida e Aspergillus
Infezione da catetere venoso
Epatite C Batteriemia da Streptococcus pneumoniae
0
30
60
90
120
150
180
365 giorni
Figura 83.1 - Infezioni nel trapianto di midollo osseo allogenico in relazione alla presenza dei diversi deficit dei meccanismi di difesa antimicrobica.
paziente ospedalizzato è sottoposto, prima fra tutte il posizionamento di un accesso venoso centrale. In questo periodo vi è di conseguenza un elevato rischio di infezioni nosocomiali batteriche, in particolare da stafilococchi ed enterobatteri, e di infezioni da Candida spp ed Aspergillus spp legate anche all’alterazione della flora microbica operata dalla terapia antibiotica. Frequente è in questo periodo anche la riattivazione di HSV: una riattivazione orolabiale si manifesta approssimativamente nel 75% dei pazienti sieropositivi e può complicarsi con un’esofagite o polmonite. Nel 2°-3° mese dopo il trapianto, il principale rischio infettivo è legato alla profonda compromissione dell’immunità cellulo-mediata condizionata dalla comparsa di una GvDH acuta e dai trattamenti immunosoppressivi intrapresi per la profilassi della stessa. Nei pazienti con GvDH le polmoniti interstiziali sostenute in oltre la metà dei casi da CMV e le manifestazioni polmonari da aspergillo rappresentano in questo periodo le complicanze infettive più gravi. Dopo il 3° mese, il rischio di infezioni si riduce perché la maggior parte dei dispositivi di perfusione sono stati rimossi e la terapia immunosoppressiva è stata alleggerita. Si assiste ad un graduale recupero dell’immunità umorale e cellulo-mediata che può essere rallentato in un terzo dei pazienti dallo sviluppo di una GvDH cronica e dai trattamenti immunosoppressivi conseguenti. In questi pazienti le infezioni sono più frequenti: la persistenza di una compromissione combinata dell’immunodeficienza umorale e cellulo-mediata si associa ad una maggiore suscettibilità ad infezioni da VZV e ad infezioni del tratto respiratorio da virus o batteri capsulati (Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae). La prevenzione delle infezioni nel paziente trapiantato si avvale in primo luogo di misure semplici ma di indiscussa utilità quali l’igiene del paziente, il lavaggio frequente delle mani e l’utilizzo di maschere da parte del personale sanitario e dei visitatori. La disponibilità di far-
maci utilizzabili nel recupero della neutropenia (G-CSF, GM-CSF) e di vaccini per l’induzione di una risposta immunitaria nei confronti di patogeni importanti (per es., Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, HBV) ha contribuito alla riduzione del rischio infettivo. La profilassi chemioterapica nei confronti dei singoli agenti infettivi è ancora oggi un problema aperto per la necessità di definire le strategie di intervento più efficaci in relazione al tipo di trapianto e alle caratteristiche del ricevente. La profilassi antibiotica perioperatoria è variabile da centro a centro. La profilassi con cotrimossazolo si è dimostrata utile nel ridurre la frequenza delle infezioni batteriche, in particolare delle vie urinarie e dell’apparato respiratorio e l’incidenza di polmoniti da Pneumocystis carinii. L’efficacia della profilassi delle infezioni da Candida con fluconazolo è limitata dalla possibile emergenza di ceppi resistenti o di altri miceti, in particolare aspergilli. La profilassi con antivirali è in continua evoluzione in virtù di una maggiore disponibilità di farmaci, sebbene gravata da problemi di tossicità e dallo sviluppo di resistenze. La profilassi con acyclovir è indicata in particolare nei trapiantati di polmone e midollo osseo sieropositivi nei quali vi è un rischio significativo di riattivazioni generalizzate da HSV. L’introduzione della profilassi con ganciclovir per via endovenosa ha comportato una riduzione del rischio di infezione e di malattia da CMV nel trapianto di midollo osseo e di fegato in soggetti sieropositivi.
INFEZIONI E GRAVIDANZA(*) La gravidanza è caratterizzata da uno stato di relativa immunocompromissione necessaria alla sopravvivenza (*) C. Uberti-Foppa
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fetale in quanto indotta allo scopo di tollerare gli antigeni fetali “non-self ”. La gravità di alcune malattie infettive, con particolare riguardo a quelle per le quali è importante una corretta risposta immunitaria cellulo-mediata, è quindi maggiore nella donna gravida: il rischio di acquisire malattie infettive è aumentato anche nella puerpera e nel neonato. In particolare, nel periodo neonatale le malattie sostenute da batteri e da virus sono più frequenti che in ogni periodo successivo della vita; mentre le infezioni batteriche si verificano nell’1% dei neonati, quelle virali sono presenti nel 6-8% di tutti i nuovi nati. I microrganismi patogeni possono essere acquisiti prima, durante o dopo la nascita.
Infezioni materne Fra le malattie virali a cui la gravida è più suscettibile e che hanno un andamento più grave e protratto soprattutto nel 3° trimestre si ricorda la poliomielite (causa più frequentemente paralisi spastiche), l’infezione da virus di Epstein-Barr, la varicella, le infezioni da virus coxsackie, l’influenza di tipo A. Il virus dell’epatite E (HEV) è spesso causa di forme fulminanti (fino al 20% in alcune casistiche) in donne che contraggono l’infezione nel 3° trimestre di gravidanza; sulla base di ricerche eseguite negli animali di laboratorio è stato ipotizzato un ruolo diretto di HEV nel precipitare lo stato di pre-eclampsia, possibile conseguenza sia del danno dei tubuli renali causato dalla localizzazione e replicazione di HEV in questa sede sia tramite l’azione di citochine rilasciate dall’attivazione delle cellule di Kupffer. Per la trattazione sistematica delle varie infezioni si rimanda ai relativi capitoli: in questo capitolo vengono brevemente discusse solo alcune manifestazioni cliniche peculiari. A. L’infezione da Listeria monocytogenes ha un andamento più grave in tutti i soggetti con deficit dell’immunità cellulo-mediata incluse le donne gravide. La manifestazione clinica più tipica è la batteriemia da Listeria, più frequente nel 3° trimestre, che si manifesta clinicamente con una febbre improvvisa associata a mialgie, artralgie e cefalea; la meningite è rara. In gravidanza la prognosi è correlata all’epoca gestazionale in cui il feto acquisisce l’infezione, con una mortalità quasi del 100% nel caso di contagio materno nel 1° o 2° trimestre. L’infezione perinatale è possibile causa di aborto, morte neonatale, parto prematuro, granulomatosi “infantiseptica” (multipli granulomi e microascessi epatici e splenici), sepsi neonatale precoce, meningite neonatale tardiva. B. La tubercolosi ha un andamento più grave nelle donne gravide; in particolare la meningite tubercolare è una frequente causa di mortalità materna nelle aree in via di sviluppo. La tubercolosi congenita è rara, il rischio di trasmissione al feto aumenta in caso di coinfezione con il virus dell’immunodeficienza umana. M. tu-
berculosis viene trasmesso dalla madre al feto prevalentemente per via ematogena dalla placenta alla vena ombelicale, oppure il feto può aspirare o ingerire il liquido amniotico contaminato da una tubercolosi genitale o placentare. C. Coccidioides immitis è un fungo endemico in aree desertiche del sud-ovest degli USA, dell’America centrale e meridionale. In queste aree 1:1000 donne gravide sono affette da coccidioidomicosi con un rischio di disseminazione superiore di 40-100 volte rispetto al rischio nella popolazione generale; in circa un terzo dei casi di disseminazione si ha l’interessamento del sistema nervoso centrale. C. immitis è l’unico micete in grado di attraversare la placenta e di causare infezione ematogena nel feto. D. In gravidanza l’infezione da Plasmodium falciparum si associa ad una parassitemia maggiore rispetto a quella generalmente presente nella popolazione generale. Le conseguenze dell’elevata densità parassitaria sul feto sono un’aumentata mortalità fetale, il basso peso alla nascita e la prematurità. E. Le batteriurie in gravidanza sono per lo più asintomatiche; una batteriuria significativa è presente dal 5 al 10% delle diverse indagini, è più frequente nelle donne con basse condizioni socioeconomiche ed aumenta con l’età ed il numero dei parti. La ricerca sistematica della batteriuria è consigliata per la loro elevata prevalenza, mentre il trattamento è indotto dalla frequente evoluzione in pielonefrite e dalla correlazione fra infezioni delle vie urinarie, prematurità, gestosi e aborto. F. L’endometrite puerperale ha un’incidenza fra l’1 e l’8%; i fattori di rischio di questa manifestazione sono il tipo di parto (3% per il parto spontaneo e > 10% per il cesareo), il travaglio prolungato, la rottura prolungata delle membrane. Sebbene il rischio assoluto di morte in seguito a processi infettivi del post partum sia basso, la sepsi puerperale è, in ordine di frequenza, la seconda causa di morte materna negli USA. L’endometrite deriva frequentemente da un’infezione mista da aerobi (più comunemente G. vaginalis, E. coli e streptococchi) e da anaerobi (Bacteroides spp e streptococchi anaerobi) di provenienza genitale. La diagnosi si basa sulla presenza di febbre, dolenzia uterina, lochiazioni purulente o maleodoranti, leucocitosi periferica ed esclusione di infezioni localizzate in altra sede. La colorazione di Gram delle secrezioni uterine può essere utile nella scelta della terapia antibiotica, le emocolture sono positive nel 10-20% delle pazienti con infezioni uterine puerperali. Essendo coinvolti sia anaerobi che aerobi la copertura antimicrobica dovrà essere ampia; la clindamicina in associazione a una cefalosporina di terza generazione è efficace; associazioni alternative sono la cefoxitina o l’imipenem o la piperacillina-tazobactam + la doxiciclina. G. La mastite puerperale è la forma più comune di infezione mammaria. Nella maggior parte dei casi la
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83 - INFEZIONI IN SITUAZIONI PARTICOLARI
mastite è sporadica e si manifesta nelle donne che allattano, non ricoverate in ospedale, come una cellulite mammaria monolaterale generalmente causata da un’infezione penetrata attraverso soluzioni di continuo del capezzolo (ragadi, ferite). La mastite epidemica si manifesta soprattutto nelle donne ricoverate in ospedale in concomitanza di epidemie stafilococciche; essa interessa le ghiandole ed i dotti galattofori della mammella. S. aureus è il germe isolato più frequentemente nelle mastiti sia epidemiche che sporadiche. Il trattamento antibiotico precoce è essenziale per prevenire la progressione dell’infezione verso le forme ascessuali. In attesa delle risposte delle colture, la terapia iniziale dovrebbe comprendere un antibiotico attivo contro lo stafilococco. Patogenesi In gravidanza l’immunocompromissione è indotta da fattori materni e fetali elencati nella tabella 83.3. Fra i fattori materni più rilevanti ricordiamo l’idrocortisone, i cui livelli plasmatici aumentano di 3-7 volte, ed un gruppo di proteine plasmatiche ad attività immunosoppressiva, definite proteine associate alla gravidanza, che aumentano particolarmente nel 3° trimestre e che hanno un ruolo importante nell’evitare il rigetto del feto. Anche la placenta ed il feto producono proteine ad attività immunosoppressiva: -fetoproteina, gonadotropina corionica umana ed estrogeni. L’-fetoproteina inibisce selettivamente la risposta immunitaria dipendente dai linfociti T. Altri fattori fetali in grado di indurre immunocompromissione sono rappresentati dal passaggio transplacentare di linfociti fetali che inibiscono la mitosi di linfociti materni stimolati e da anticorpi citotossici per i T linfociti materni, di rilevante importanza nell’evitare il rigetto fetale. Tabella 83.3 - Fattori che causano immunocompromissione in gravidanza. Fattori materni • Riduzione della risposta immunitaria cellulo-mediata • Aumentati livelli di sostanze umorali immunosoppressive • Proteine plasmatiche associate alla gravidanza • Prostaglandine • Corticosteroidi Fattori fetali • • • • • •
Linfociti fetali Anticorpi citotossici per i T linfociti materni -fetoproteina Gonadotropina corionica umana Lattogeno placentare umano Estrogeni
(Modificata da Roos K.L., Infectious Diseases in Clinical Practice 7: 80-87, 1998)
Infezioni fetali L’infezione del feto (inteso come il prodotto del concepimento dalla fine della 8a settimana di gestazione alla nascita) viene denominata congenita quando contratta durante la vita intrauterina e connatale quando acquisita durante il parto. Sono chiamate perinatali le infezioni contratte dalla 28a settimana di gestazione al 7° giorno dopo la nascita. La più frequente modalità di trasmissione di infezione congenita è quella transplacentare con invasione ematica fetale; più raramente il feto può essere contagiato da tessuti od organi adiacenti infetti, per esempio organi genitali, oppure in conseguenza a manovre invasive per la diagnosi e/o la terapia di disordini fetali (trasfusione intrauterina, ecc.). La tabella 83.4 elenca i microrganismi notoriamente responsabili di infezioni in grado di indurre danni fetali. Questo elenco include T. gondii, rosolia, cytomegalovirus (CMV) ed herpes simplex virus (HSV) abitualmente identificati con l’acronimo TORCH, anche se ai fini di una corretta prevenzione dovrebbe essere esteso ad altre infezioni fetali causa di infezioni congenite come la sifilide, gli enterovirus, varicella-zoster virus (VZV), Human Immunodeficiency Virus (HIV) e, in aree endemiche, Plasmodium e Trypanosoma cruzi. Fra i microrganismi di più recente riconoscimento come causa di trasmissione transplacentare sono da ricordare parvovirus B19, Borrelia burgdorferi e virus dell’epatite C. L’infezione da parvovirus B19 (agente eziologico del megaloeritema infettivo) può causare un’infezione del feto con aborto spontaneo e/o idrope fetale. La trasmissione transplacentare sembra avvenire nel 25-30% delle infezioni acquisite in gravidanza, ma il danno fetale è presente solo nel 5% dei casi. L’idrope si evidenzia mediante l’ecografia uterina e l’infezione può essere accertata con la ricerca del DNA virale nel liquido amniotico, isolando il virus oppure con la ricerca di anticorpi specifici di tipo IGM nel sangue fetale. La trasmissione dell’HBV, quando la madre è portatrice cronica dell’antigene di superficie e dell’antigene e (HbsAg+ e HbeAg+), avviene in circa l’80% dei bambini, la maggior parte dei quali diventerà portatore cronico asintomatico. Nei casi in cui la madre è antiHbe positiva, la trasmissione dell’infezione risulta nettamente inferiore, ed il neonato solo raramente diventa portatore cronico di HbsAg. Il contagio avviene durante il passaggio nel canale del parto. L’HbsAg è evidente, oltre che nel liquido amniotico, nel sange del funicolo, nel latte materno e nel materiale gastrico aspirato dal neonato immediatamente dopo la nascita. Le madri con epatite cronica C possono trasmettere il virus ai loro bambini. Fortunatamente il rischio di trasmissione è basso (< 5%); la coinfezione con HIV aumenta la frequenza di trasmissione verticale. È possibile, ma infrequente, anche la trasmissione del virus dell’epatite delta; sembra invece che la trasmissione verticale del virus dell’epatite E sia la causa di una significativa morbosità e mortalità perinatale.
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MALATTIE INFETTIVE
Tabella 83.4 - Effetti dell’infezione transplacentare sul feto. EFFETTI DELL’INFEZIONE TRANSPLACENTARE INFEZIONE O MALATTIA
PREMATURITÀ
BASSO PESO ALLA NASCITA
ANOMALIE DELLO SVILUPPO
MALATTIA CONGENITA
INFEZIONE POSTNATALE PERSISTENTE
• Batteri – Treponema pallidum – M. tuberculosis – L. monocytogenes – Campylobacter fetus – Salmonella typhi – Borrelia burgdorferi
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• Virus – Rubivirus – Cytomegalovirus – Herpes simplex – Varicella-zoster – Rubulavirus – Morbillivirus – Vaiolo – Coxsackie virus B – Poliovirus – Epatite B – HIV* – Parvovirus
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• Protozoi – T. gondii – Plasmodium – T. cruzi
* HIV = Human Immunodeficiency Virus + correlazione fra infezione transplacentare ed effetto sul feto accertata; – nessuna correlazione fra infezione e patologia fetale; (+) correlazione fra effetto ed infezione sopettata, ma non definitivamente accertata (Modificata da Infectious Diseases of the Fetus & Newborn Infant. Remington & Klein. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 1995)
La sifilide viene generalmente acquisita per via transplacentare, ma è possibile anche il contagio durante il passaggio nel canale del parto. Nel caso di madre affetta da sifilide primaria, o secondaria non trattata, i bambini possono nascere prematuri o andare incontro a morte perinatale in circa la metà dei casi; i rimanenti saranno affetti da sifilide congenita. Queste percentuali si riducono al 10% di morti perinatali e 10% di casi di sifilide congenita qualora l’infezione venga acquisita nell’ultimo periodo di gestazione. Il virus dell’immunodeficienza umana può essere trasmesso durante la vita intrauterina, intraparto e con l’allattamento. Il rischio di trasmissione è molto variabile in base alle aree geografiche, nel Nord America è del 25%. La terapia antiretrovirale eseguita in gravidanza si è dimostrata in grado di ridurre significativamente il rischio di infezione verticale da HIV. Patogenesi Il feto si sviluppa in un’ecosfera sterile, separata dai microrganismi materni dalla placenta e dalle membrane amniotiche. Le conseguenze dell’infezione ematogena transplacentare includono la morte con riassorbimento dell’embrione, l’aborto e la nascita di un neonato prematuro o a termine che può essere normale o malato. Gli effetti dell’infezione sul neonato si evidenziano con un basso peso alla nascita (risultato di un ritardo di
crescita intrauterina), anomalie dello sviluppo, malattia congenita o anche con bimbo sano. L’infezione acquisita in utero può persistere dopo la nascita e causare alterazioni significative nella crescita e nello sviluppo che possono essere già evidenti alla nascita oppure essere riconoscibili solo dopo mesi o anni. La variabilità degli effetti delle infezioni è chiaramente dimostrata dai casi di gemelli biovulari in cui un gemello può subire gravi danni mentre l’altro può avere solo lievi alterazioni. 1. La morte con riassorbimento dell’embrione è generalmente la conseguenza di un’infezione contratta nelle prime settimane di gestazione. 2. Aborto. L’infezione fetale si può evidenziare dopo la 6a settimana di gravidanza con un aborto. La morte intrauterina può essere causata direttamente da una grave infezione fetale, oppure da un’interferenza dei microrganismi con l’organogenesi che non permette lo sviluppo necessario per le funzioni vitali. Come chiaramente evidente per l’infezione da CMV, le infezioni primarie causano generalmente danni peggiori rispetto alle recidive. 3. La prematurità, intesa come nascita di un neonato vivo prima della 37a settimana di gestazione, può essere
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83 - INFEZIONI IN SITUAZIONI PARTICOLARI
di teratogenesi devono esser distinte quelle dovute alla risposta infiammatoria. L’infiammazione, con conseguente distruzione tissutale, al contrario dell’attività diretta teratogenica, è responsabile di diffuse alterazioni strutturali caratteristiche della sifilide congenita, di infezione transplacentare da HSV e soprattutto della toxoplasmosi che può causare microcefalia, idrocefalo e microftalmia.
causata da qualsiasi microrganismo in grado di indurre infezione fetale nell’ultimo trimestre di gravidanza. 4. Ritardo di crescita intrauterina e basso peso alla nascita. La nascita di neonati “piccoli per l’epoca gestazionale” può essere associata a molteplici infezioni; un legame di causa-effetto è stato chiaramente dimostrato solo per la rosolia, la toxoplasmosi e le infezioni da cytomegalovirus; più recentemente anche l’HIV è stato indicato come una possibile causa.
6. Malattia congenita. Le manifestazioni cliniche causate da infezione intrauterina possono manifestarsi alla nascita, a distanza di pochi giorni o di anni dalla nascita. La tabella 83.5 elenca le più frequenti manifestazioni cliniche neonatali causate da agenti infettivi. I bambini con infezione congenita causata da rosolia, toxoplasma, CMV ed enterovirus possono avere segni di infezione disseminata quali ittero, splenomegalia e polmonite non evidenziabili fino al periodo neonatale, sebbene i processi patogenetici responsabili risalgano a settimane o mesi prima del parto. Alcune infezioni e la loro eziologia possono essere sospettate in base alla presenza di particolari sindromi
5. Anomalie dello sviluppo e teratogenesi. CMV, rosolia e VZV causano anomalie dello sviluppo fetale umano in particolare e rispettivamente a carico dell’apparato neurologico, cardiaco ed agli arti. Le cardiopatie congenite sono state associate anche ad infezioni da coxsackie virus B3 e B4. Il meccanismo patogenetico responsabile di queste anomalie, pur non essendo stato completamente chiarito, sembra essere dovuto alla capacità da parte di alcuni virus di causare morte cellulare, alterazioni della differenziazione cellulare e danno cromosomico. Dalle alterazioni indotte con meccanismi
Tabella 83.5 - Manifestazioni cliniche neonatali di infezione acquisita in utero od alla nascita. MICRORGANISMI MANIFESTAZIONI CLINICHE • • • • •
VIRUS DELLA CYTOMEGA- TOXOPLASMA HERPES TREPONEMA ENTERO- STREPTOCOCCO ROSOLIA LOVIRUS GONDII SIMPLEX VIRUS PALLIDUM VIRUS DI GRUPPO B E. COLI
Epatosplenomegalia Ittero Adenopatia Polmonite Lesioni cutanee o mucose – Porpora o petecchie – Vescicole – Esantema maculopapulare • Lesioni neurologiche – Meningoencefalite – Microcefalia – Idrocefalo – Calcificazioni intracraniche – Paralisi – Deficit uditivi • Lesioni cardiache – Miocardite – Difetti congeniti • Lesioni ossee • Lesioni oculari – Glaucoma – Corioretinite o retinopatia – Cataratta – Atrofia ottica – Microftalmia – Uveite – Congiuntivite o cheratocongiuntivite
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+ + – – – + –
– – – – – – +
– – – – – – –
– assente o rara; + presente; ++ di particolare interesse diagnostico (Modificata da Infectious Diseases of the Fetus & Newborn Infant. Remington & Klein. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 1995)
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cliniche. Per esempio, l’associazione di idrocefalo, calcificazioni intracraniche diffuse e corioretinite è generalmente associata ad infezione da T. gondii, la sindrome caratterizzata da difetto cardiaco, ipoacusia e cataratta è causata dalla rosolia, l’associazione di calcificazioni periventricolari e microcefalia è dovuta a CMV, lesioni vescicolari e cheratocongiuntivite sono frequentemente causate da herpes simplex, lesioni cutanee eczematose, bollose e/o maculari al palmo delle mani ed alla pianta dei piedi in associazione a rinorrea ed a segni di osteocondrite ed osteite sono dovute al T. pallidum, anomalie degli arti e lesioni cicatriziali sono causate da VZV, l’edema diffuso (idrope fetale in utero) è associato ad infezione da parvovirus, l’infezione da HIV si può manifestare con l’associazione di grave candidosi orale, infezioni batteriche ricorrenti e calcificazioni dei gangli basali dell’encefalo. 7. Infezione persistente postnatale. I microrganismi possono sopravvivere e replicarsi nei tessuti a lungo dopo l’infezione in utero. Il CMV ed il virus della rosolia possono essere escreti per mesi o anni da vari fluidi e tessuti corporei di bambini sintomatici o asintomatici alla nascita. Le infezioni congenite da rosolia, HSV, CMV, HIV, T. gondii, sifilide, tubercolosi e malaria sono in grado di provocare un danno tissutale persistente. Non sono noti i meccanismi di mantenimento della cronicità dell’infezione che non sembrano essere dovuti a deficit immunitari. È interessante ricordare che quasi tutti i microrganismi causa di infezione postnatale persistente (inclusi i virus epatitici e con l’eccezione della rosolia) possono cronicizzare anche nell’adulto sano. La probabilità di trasmissione materno-fetale delle infezioni varia in base al microrganismo in causa ed al trimestre di gravidanza. Il rischio di rosolia congenita nei feti di madri con rosolia sintomatica è più elevato nel primo trimestre (90% prima dell’11a settimana di gestazione), si riduce al 25% circa a 23-26 settimane per riaumentare al 67% dopo la 31a settimana. L’infezione da virus della rosolia nelle prime 11 settimane di vita intrauterina causa teratogenicità, mentre non sono evidenti anomalie congenite se l’infezione viene contratta dopo la 16a settimana. Al contrario, la frequenza di infezione congenita da toxoplasma aumenta dal 1° al 3° trimestre dal 14 al 59%, tuttavia più la gravidanza è avanzata e minori sono i danni fetali indotti dal protozoo. Il CMV causa malattia congenita, sia durante l’infezione primaria sia durante le recidive, la frequenza di patologia fetale è però maggiore per l’infezione acuta. Diagnosi Le infezioni intrauterine possono presentarsi senza alcun riscontro clinico o con una varietà di manifestazioni cliniche assai diverse tra loro. Una valutazione diagnostica completa per una sospetta infezione neonatale deve considerare i fattori epidemiologici, l’anamnesi materna, l’esame obiettivo, i risultati di labo-
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ratorio e delle immagini radiologiche. Nel neonato gli esami sierologici generalmente identificati come “titoli TORCH” si riferiscono al dosaggio delle immunoglobuline di classe G che sono di origine materna; il dosaggio delle IgM neonatali non è sufficientemente sensibile da renderlo utile come test diagnostico. Comunque, in Italia, anticorpi diretti contro gli agenti eziologici del gruppo TORCH vengono ricercati routinariamente in tutte le donne gravide per verificarne l’immunizzazione e, in loro assenza, attuare eventuali misure di profilassi nei confronti del feto. Nel caso di infezione congenita conclamata la diagnosi è prevalentemente clinica. Le manifestazioni cliniche più comuni che il neonato presenta a seguito di un’infezione congenita sono la porpora, l’ittero, l’epatosplenomegalia, la polmonite e la meningoencefalite. Come già ricordato, alcuni microrganismi sono causa di sindromi particolari. Per l’associazione fra i vari microrganismi e le relative manifestazioni cliniche si rimanda alla tabella 83.5. Correlazione fra infezione materna e malattia congenita 1. Infezione materna subclinica o asintomatica. La maggior parte delle donne che in gravidanza hanno un’infezione da CMV, rosolia, toxoplasma, HSV e HIV sono asintomatiche ed è quindi di difficile riconoscimento l’evento infettivo clinico causa di malattia congenita. Per esempio, solo pochissime donne hanno sintomi di infezione acuta da HSV, ed il numero di donne con infezione acuta da T. gondii clinicamente evidente è inferiore al 10%. Anche le lesioni genitali causate da T. pallidum e HSV, a causa della loro localizzazione, non vengono generalmente riconosciute. 2. Infezione materna cronica e ricorrente. Alcuni microrganismi possono causare infezioni materne croniche o recidivanti e quindi infettare il feto durante una ripresa della replicazione del microrganismo; queste reinfezioni sono generalmente associate a deficit immunitari intercorrenti. Sono stati anche descritti casi di malattia fetale da rosolia in madri immuni per rosolia all’inizio della gravidanza. I microrganismi in grado di causare infezione cronica sono Plasmodium, T. gondii, T. pallidum, i virus epatitici, HSV, VZV, CMV, HIV. Nell’infezione recidivante da T. gondii è possibile osservare un’infezione congenita solo in presenza di un deficit immunitario materno. 3. Infezione materna preconcepimento. L’associazione fra infezioni preconcepimento ed infezione fetale è stata descritta per la rosolia e la toxoplasmosi. Per la diagnosi eziologica, gli aspetti clinici e la terapia delle singole infezioni si rimanda ai relativi capitoli.
Infezioni acquisite durante la nascita L’infezione neonatale ad insorgenza precoce si verifica entro i primi 5 giorni di vita ed è quasi sempre cau-
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sata da infezioni contratte durante il parto, ma in qualche caso anche durante la vita intrauterina. I fattori correlati con il possibile sviluppo di una sepsi ad insorgenza precoce sono l’infezione materna perinatale, il travaglio prolungato e la rottura delle membrane che precede di parecchio tempo il parto, la prematurità, il basso peso alla nascita, un basso indice di Apgar e la degenza in rianimazione. Quando è presente uno dei fattori sopra elencati, il neonato dev’essere sottoposto ad indagini ematochimiche e deve essere tenuto in osservazione per diagnosticare tempestivamente l’eventuale comparsa di sepsi. Fra i batteri più frequentemente correlati alla sepsi neonatale si ricordano gli streptococchi di gruppo B ed E. coli, che è uno dei microrganismi enterici materni che può colonizzare l’apparato gastrointestinale del neonato, dal quale può diffondersi al sangue ed alle meningi. Fra le donne gravide la frequenza di colonizzazione con streptococchi di gruppo B varia dal 5 al 40% in base alla popolazione. I nati da madri colonizzate sono anch’essi frequentemente colonizzati (40-75%) e l’1-2% in genere sviluppa una malattia in tempi brevi. La presenza di anticorpi materni specifici sembra proteggere il bambino dallo sviluppo di una sepsi ad insorgenza precoce. Fra le infezioni neonatali si ricorda la particolare gravità della meningite batterica a causa della paucisintomaticità dell’infezione, dell’elevata mortalità e della frequenza di sequele. Da molte casistiche risulta che E. coli e gli streptococchi di gruppo B causano fino al 70% delle meningiti neonatali, mentre L. monocytogenes è responsabile di un altro 5%. La congiuntivite neonatale è di solito causata da microrganismi acquisiti durante il passaggio nel canale del parto: Chlamydia trachomatis, stafilococchi, gonococchi, streptococchi e virus. La soluzione di Crede (argento nitrato all’1%) è efficace, come anche le tetracicline o l’eritromicina, per la terapia della congiuntivite gonococcica e dev’essere applicata negli occhi del neonato entro un’ora dalla nascita. Patogenesi Il feto è normalmente protetto dalle infezioni che la flora microbica del tratto genitale materno può causare; questa protezione viene persa dopo la rottura delle membrane. Se il parto viene protratto, dopo la rottura delle membrane la microflora vaginale può risalire per via retrograda e causare infiammazione delle membrane e della placenta. L’infezione fetale può essere causata anche da aspirazione di liquido amniotico infetto. Se invece il parto avviene con tempi corretti, dopo la rottura delle membrane il bambino può essere colonizzato da vari microrganismi durante il passaggio nel canale del parto: cocchi Gram+ (streptococchi, stafilococchi), cocchi Gram– (Neisseria gonorrhoeae, ecc.), bacilli Gram– (E. coli, Proteus spp), batteri anaerobi, virus (CMV, HSV), funghi, Chlamydiae, micoplasmi e protozoi (Trichomonas vaginalis). I microrganismi precedentemente elencati possono essere più o meno frequentemente associati ad infezione neonatale. Nel neonato avviene una colonizzazione iniziale sulle superfici cutanee e mucose (nasofaringe, orofaringe,
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congiuntive, cordone ombelicale ed annessi genitali); mentre nella maggior parte dei bambini i microrganismi proliferano a livello delle superfici senza causare infezione, in alcuni si può osservare invasione superficiale (per es., a livello sinusale, otitico e nasofaringeo) o ematica con conseguente sepsi. Il cordone ombelicale è una delle più frequenti vie di infezione poiché i tessuti devitalizzati rappresentano un terreno eccellente per la crescita dei microrganismi e le vene ombelicali trombizzate rappresentano una via diretta di accesso ematico. Diagnosi La diagnosi clinica di infezione neonatale acquisita durante la nascita è difficile in quanto i segni iniziali di infezione sono generalmente subdoli ed aspecifici, nel 10% circa dei casi il neonato è asintomatico. La difficoltà respiratoria, la letargia, l’ittero, il vomito e la diarrea possono essere dovuti a cause infettive e non-infettive. I sintomi ed i segni della sepsi batterica sono rappresentati da ipertermia, ipotermia, dispnea, cianosi, disturbi cardiovascolari e gastrointestinali, epatomegalia, ittero, diatesi emorragica, letargia, irritabilità, convulsioni. La prova di agglutinazione al latice è in grado di evidenziare rapidamente la maggior parte delle infezioni da streptococco che devono essere poi confermate dalla coltura. Devono essere raccolti campioni di sangue, urina e liquor poiché i campioni raccolti sulla superficie corporea (naso-faringe, ascelle, canale auricolare, ombelico, aspirato gastrico e regioni inguinali) sono di scarsa utilità nell’identificare l’eziologia della sepsi, tranne che nelle infezioni erpetiche. La presenza di IgM specifiche neonatali può essere utile per la diagnosi di infezione neonatale. La corretta gestione delle sepsi neonatali dipende dalla precocità della diagnosi e dalla tempestività della terapia: a causa dell’elevata mortalità di questa manifestazione clinica, la terapia antibatterica empirica dev’essere iniziata immediatamente dopo che sono stati prelevati i liquidi biologici per le colture. Lo schema dei farmaci antibatterici, che deve comprendere un farmaco attivo nei confronti di cocchi Gram+ ed enterobatteri Gram–, dev’essere rivisto alla luce degli esami colturali e di sensibilità dei microrganismi eventualmente isolati. Le linee guida di prevenzione della sepsi da streptococchi di gruppo B prevedono lo screening, attraverso colture in sede ano-genitale, per streptococchi di gruppo B dalla 35a alla 37a settimana di gestazione seguito, in caso di positività, dalla profilassi intrapartum con penicillina. L’immunoprofilassi passiva con immunoglobuline si è dimostrata utile per la varicella neonatale e per l’interruzione della trasmissione perinatale di epatite B. Nel bambino nato da madre HBsAg positiva, oltre alla somministrazione di 0,5 ml di immunoglobuline specifiche entro le prime 12-24 ore dopo la nascita viene eseguita, in altra sede corporea, la prima dose di vaccino. La seconda dose di vaccino va somministrata dopo 4 settimane e la terza va inoculata durante il 3° mese di vita in concomitanza con la prima dose delle altre vaccinazioni obbligatorie; una quarta dose viene sommini-
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strata all’11° mese di vita, in concomitanza con la terza dose delle altre vaccinazioni obbligatorie.
INFEZIONI NOSOCOMIALI(*) Controllo delle infezioni ospedaliere Le infezioni ospedaliere costituiscono uno degli aspetti più importanti nella moderna pratica ospedaliera sia medica che chirurgica, interessando almeno il 5% dei pazienti ricoverati; si pensi che negli USA le infezioni ospedaliere sono responsabili di circa 60.000 decessi annui, di un aumento medio delle degenze di circa 4 giorni e di un surplus di spesa sanitaria di almeno 10 miliardi di dollari all’anno: non stupisce quindi che in alcuni paesi il controllo delle infezioni ospedaliere costituisca materia d’insegnamento e disciplina autonoma. Anche nel nostro paese dal 2003 è attiva una società scientifica espressamente dedicata al problema. L’attività di controllo delle infezioni nosocomiali ha lo scopo di ridurre il rischio e l’incidenza delle infezioni contratte in ambiente ospedaliero ovvero di proteggere da tali eventi i pazienti, i loro visitatori e i lavoratori dell’ospedale. In Italia il controllo delle infezioni nosocomiali spetta al Comitato Infezioni Ospedaliere (CIO); si tratta di un gruppo di lavoro permanente e multidisciplinare composto dal farmacista ospedaliero, da un rappresentante dell’area medica e uno dell’area chirurgica, un microbiologo, un’infermiera epidemiologa o una caposala, da uno specialista in malattie infettive (se disponibile). Il Comitato Infezioni Ospedaliere ha gli obiettivi di seguito elencati. • La sorveglianza epidemiologica, avente lo scopo di registrare l’incidenza delle infezioni nosocomiali; tale attività può essere mirata a divisioni o servizi a rischio particolarmente aumentato (come le terapie intensive), oppure estesa a tutto l’ospedale. In questo secondo caso il supporto organizzativo richiesto è naturalmente assai superiore. • Lo studio dei focolai epidemici: quando l’incidenza mensile di un evento supera del 95% l’incidenza media dello stesso nei due anni precedenti per lo stesso periodo di tempo si può parlare di focolaio epidemico; in tale caso si attiva un’indagine epidemiologica approfondita e mirata per comprendere e rimuovere le cause del fenomeno. In alcuni casi si tratta di eventi apparenti, legati per esempio all’introduzione di nuove tecniche diagnostiche. • L’educazione: il CIO dovrebbe produrre e aggiornare continuamente le linee guide per la riduzione del rischio di contagio; i settori più importanti a tale proposito riguardano lo smaltimento dei campioni biologici, le procedure di disinfezione, la prevenzione della tubercolosi, le norme sull’isolamento. (*) R. Novati
• La medicina preventiva: in alcuni paesi (in Italia non è obbligatorio) il CIO collabora con il servizio di medicina preventiva per i settori di sua competenza, quali i programmi vaccinali e le profilassi postesposizione. • L’uso degli antibiotici: quasi la metà dei pazienti ricoverati riceve terapia antibiotica nel corso della degenza; le implicazioni cliniche, epidemiologiche ed anche economiche legate al buon uso di questi farmaci sono evidenti. In alcuni ospedali, dal CIO può derivare la commissione antibiotici, con gli obiettivi di valutare il buon uso degli antibiotici in ospedale, in termini di razionale indicazione, di scelta, di costi e, soprattutto, al fine di monitorare gli spettri di sensibilità dei ceppi isolati ai farmaci e la prevalenza di ceppi resistenti (per es., stafilococchi o enterococchi meticillino-resistenti, Pseudomonas multiresistenti). • Il controllo di qualità: in alcuni paesi l’attività del CIO sta logicamente confluendo in quella del cosiddetto epidemiologo ospedaliero, figura professionale che ha il compito primario di verificare il corretto uso delle risorse e delle procedure, attività di particolare rilievo in un periodo, come quello attuale, di attenzione al contenimento e al miglior utilizzo della spesa sanitaria. L’integrazione di queste funzioni è realtà attuale in una minoranza di ospedali italiani, ma è possibile, oltreché ampiamente auspicabile, che diventi diffusa nel prossimo futuro. Per la vastità dell’argomento saranno di seguito accennati gli aspetti più importanti delle infezioni nosocomiali: le procedure di isolamento, le infezioni dei dispositivi intravascolari, le infezioni delle vie urinarie le infezioni dell’apparato respiratorio.
Procedure di isolamento L’isolamento del paziente ha lo scopo di prevenire la trasmissione di un microrganismo da un paziente infetto o colonizzato ad altri pazienti, ai visitatori e al personale sanitario (che può a sua volta trasmettere l’infezione ad altri pazienti). Alcuni studi di prevalenza hanno dimostrato che il 7-12% dei pazienti ricoverati necessiterebbe di una qualche forma di isolamento, che viene tuttavia attuato solo in un terzo circa di essi. L’isolamento dovrebbe essere attuato anche nel sospetto di una malattia trasmissibile salvo essere confermato o disdetto in relazione agli accertamenti diagnostici. In presenza di una diagnosi eziologica l’isolamento può essere specifico, negli altri casi viene di solito impostato in base al sospetto clinico e, soprattutto, in relazione alle modalità possibili di trasmissione del microrganismo. L’isolamento stretto è utilizzato per prevenire la trasmissione di infezioni particolarmente virulente, come difterite, febbri emorragiche virali, peste polmonare, herpes zoster disseminato; in questi casi è richiesta camera singola per l’ammalato, uso di maschere, guanti, sovracamice e sovrascarpe per tutti i visitatori. L’isolamento da contatto è focalizzato alle infezioni trasmissibili per contatto diretto con il paziente, in particolar modo scabbia e pediculosi.
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L’isolamento respiratorio (camera singola e mascherina) serve a prevenire la trasmissione di microrganismi patogeni per via aerea; va impiegato, per esempio, in caso di epiglottite da Haemophilus, meningite, polmonite da Staphylococcus aureus, pertosse e morbillo. In caso di tubercolosi aperta, comprese le forme linfonodali fistolizzate, andrebbero impiegate precauzioni aggiuntive, quali il ricovero in camera singola a pressione negativa (al fine di ridurre il rischio di fuoriuscita di bacilli all’esterno), la possibilità di effettuare sei cambi d’aria all’ora e l’uso di mascherine ad alto potere filtrante; ciò per l’elevata persistenza ambientale del bacillo tubercolare, sia al suolo sia, soprattutto, in sospensione, veicolato in minuscole particelle di aerosol emesse dal paziente. Le precauzioni enteriche (bagno privato) andrebbero impiegate per le infezioni trasmissibili con le feci, quali colite da Clostridium difficile, salmonellosi, epatite A ed E, infezioni da enterovirus, in particolare coliti ma anche meningoencefaliti o miocarditi se non è esclusa l’eziologia da enterovirus.
Infezioni dei dispositivi intravascolari In questi ultimi anni è abituale l’impiego di dispositivi intravascolari per finalità sia diagnostiche che terapeutiche; ciò ha comportato un aumento importante nell’incidenza ospedaliera di casi di batteriemia legati all’uso di tali dispositivi, con una stima negli USA di almeno 25.000 episodi all’anno. I dispositivi intravascolari più spesso impiegati in ospedale sono i cateteri venosi centrali e periferici, i cateteri per nutrizione parenterale totale, i dispositivi per cateterismo dell’arteria polmonare e i dispositivi a permanenza per terapie endovenose protratte, quali i cateteri tunnellizzati sottocutanei. Dalla contaminazione di un dispositivo intravascolare può derivare un’infezione locale o sistemica (batteriemia); le complicanze locali più comuni sono la cellulite, ascessi cutanei o sottocutanei e tromboflebiti settiche. Contrariamente a quanto ritenuto in passato, si è dimostrato che tutta la linea infusionale può costituire il punto di ingresso dei germi nel torrente circolatorio; le contaminazioni si possono dunque verificare a livello della soluzione da infondere (che spesso costituisce un ideale pabulum per la crescita di batteri e funghi, come nel caso delle sacche per alimentazione parenterale), delle giunzioni tra le componenti della linea infusionale e del punto di inserzione cutaneo del dispositivo. Quest’ultima modalità resta probabilmente la più frequente, essendo la cute un compartimento non sterile. Vi sono numerosi e ben definiti fattori di rischio aumentato per lo sviluppo di infezione in un dispositivo intravascolare; alcuni sono correlati al paziente, come l’età (< di 1 anno o > di 60 anni), la gravità della patologia di base, la neutropenia, la presenza di ustioni. Altri fattori di rischio sono legati al dispositivo ed alla procedura, come la sede del catetere (maggior rischio per i cateteri centrali), l’igiene (lavaggio delle mani!) e l’esperienza dell’operatore, il contesto in cui viene ap-
plicato il dispositivo (rischio aumentato nelle situazioni d’emergenza) e la durata del posizionamento, correlata a minor rischio di infezione se inferiore alle 72 ore. Per quanto riguarda l’eziologia, almeno il 60% degli episodi di batteriemia associati ad infezioni di dispositivi intravascolari sono di origine stafilococcica; in anni recenti sono divenute predominanti le forme da stafilococchi coagulasi negativi, specie in pazienti portatori di cateteri a permanenza, anche se Staphylococcus aureus rimane una causa frequente di infezione in questi dispositivi. Altri microrganismi di non raro riscontro sono Klebsiella, Serratia, Enterobacter, Pseudomonas aeruginosa e Pseudomonas cepacia, Citrobacter e Candida. La diagnosi clinica di contaminazione di un dispositivo intravascolare spesso non è agevole, anche perché nella metà circa dei casi non vi sono segni locali di flogosi; la diagnosi deriva in questi casi dal sospetto clinico, in presenza di segni di sepsi, e andrà suffragata mediante l’esecuzione di emocolture seriate. In un’elevata percentuale di pazienti affetti da sospetta infezione di un catetere intravascolare occorrerà rimuovere il dispositivo, in assenza di un altro focolaio sepsigeno certo; tale esigenza deriva in primo luogo dalla scarsa o nulla attività degli antibatterici sulle colonie di germi che colonizzano le superfici dei dispositivi. La rimozione del dispositivo e la sua eventuale sostituzione, procedura banale e poco dispendiosa per i cateteri periferici, costituisce spesso un problema per i cateteri centrali il cui riposizionamento costituisce manovra niente affatto priva di rischi. In tutti i casi è indicato l’esame colturale della punta del catetere, prelevata sterilmente secondo procedure standardizzate. La prevenzione delle infezioni dei dispositivi intravascolari costituisce l’approccio più moderno a questo importante capitolo di morbilità e di spesa ospedaliera; come già accennato, dagli studi epidemiologici recenti è emersa l’importanza delle corrette procedure sia di posizionamento che di uso e manutenzione delle linee infusionali nonché di un uso razionale dei dispositivi intravascolari (indicazione al posizionamento, tempestiva rimozione, diagnosi precoce di contaminazione del dispositivo).
Infezioni delle vie urinarie Sono le infezioni più frequenti in ambiente ospedaliero e nell’80% dei casi sono conseguenti all’uso di cateteri uretro-vescicali. La maggior parte dei microrganismi responsabili di batteriuria associata ad uso di catetere proviene dalla flora urogenitale del paziente, che può peraltro modificarsi in ospedale in seguito a colonizzazione da flora nosocomiale. L’inserzione del catetere provoca di per sé trascinamento di quantità anche importanti di batteri nel lume vescicale; successivamente sia il lume interno che la superficie esterna del catetere costituiscono una via privilegiata per la risalita di germi in vescica. In anni recenti l’uso di dispositivi chiusi (catetere e sacchetto) ha di molto ridotto l’incidenza della batteriuria da coloniz-
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zazione endoluminale, che rimane tuttavia possibile, e non rara, in seguito all’esecuzione di manovre di apertura provvisoria del dispositivo, per esempio per la raccolta di un campione di urine. Vi sono alcuni ben definiti fattori di rischio aumentato per lo sviluppo di un’infezione delle vie urinarie in un paziente cateterizzato, il più importante dei quali rimane la durata del cateterismo; seguono l’appartenenza al sesso femminile, gli errori di posizionamento e nella cura del dispositivo, l’insufficienza renale, il diabete mellito e altri meno importanti. L’incidenza di batteriuria nei pazienti cateterizzati per breve periodo (2-4 giorni) è comunque significativamente superiore a quella osservata nella rimanente popolazione ospedaliera (20-30% contro circa l’1% dei pazienti); considerando che il 15-25% dei pazienti ricoverati in ospedale viene sottoposta a cateterismo vescicale durante la degenza, è facile comprendere che tale forma clinica rappresenta l’infezione più comune in ambiente ospedaliero. Il germe più frequentemente associato a batteriuria in questi pazienti è Escherichia coli; altri batteri di frequente riscontro sono Pseudomonas aeruginosa, Klebsiella, Proteus mirabilis, Staphylococcus epidermidis. La maggior parte dei casi di batteriuria da catetere decorre in maniera asintomatica, la febbre si verifica nel 30% circa dei casi; l’importanza di queste infezioni, anche nel paziente non febbrile, resta legata al rischio di sviluppare complicanze renali (pielonefriti acute e croniche, specie in pazienti affetti da litiasi renale, ascessi renali) e batteriemia; quest’ultimo evento, relativamente infrequente (circa il 5% dei casi di batteriuria), comprende tuttavia almeno il 15% dei casi di batteriemia in ambiente ospedaliero. Il cateterismo vescicale prolungato si associa a batteriuria praticamente nella totalità dei pazienti; la flora batterica implicata è sovrapponibile a quella sovraccitata, risultano tuttavia insolitamente frequenti (fino al 25% dei casi in alcune casistiche) le infezioni da Providencia stuartii, che probabilmente è in grado di sfruttare il lume del catetere come nicchia ecologica. Sono inoltre di comune riscontro le infezioni polimicrobiche, talvolta comprendenti germi di raro riscontro. Le complicanze possibili sono le stesse descritte per le cateterizzazioni di breve durata, ma in questi pazienti si verificano comprensibilmente più spesso e in misura più severa. La migliore prevenzione delle infezioni delle vie urinarie in ospedale consiste nell’evitare il cateterismo vescicale tutte le volte che ciò è possibile; in anni recenti sono state studiate tecniche alternative per lo svuotamento vescicale, come l’uso di cateteri esterni (urocondom) e il cateterismo sovrapubico. Un’altra semplice tecnica per ridurre l’incidenza di batteriuria è il cateterismo estemporaneo. Infine, lo studio e l’applicazione di linee guida per il posizionamento e il mantenimento dei cateteri vescicali secondo le migliori norme igieniche e l’educazione permanente del personale ospedaliero costituiscono un caposaldo per la prevenzione della batteriuria nosocomiale.
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Infezioni dell’apparato respiratorio Le polmoniti costituiscono circa il 15% delle infezioni nosocomiali, presentano un tasso di letalità medio che oscilla dal 20 al 50% e causano il 15% circa dei decessi che si verificano in ospedale; è evidente che qualunque riduzione di incidenza e di letalità delle polmoniti nosocomiali può incidere significativamente sulla mortalità intraospedaliera. L’incidenza delle polmoniti nosocomiali negli USA è di circa 6 casi ogni 1000 pazienti dimessi; la distribuzione dei casi in ospedale è caratteristicamente disomogenea, con un’incidenza molto superiore nei pazienti postchirurgici e nelle divisioni di Terapia Intensiva: in queste ultime l’incidenza può superare il 10% dei pazienti ricoverati. La prognosi delle polmoniti nosocomiali è particolarmente influenzata dalla gravità delle condizioni cliniche del paziente, tanto che nei pazienti gravi la polmonite costituisce spesso l’evento clinico terminale. La maggior parte delle polmoniti nosocomiali è causata da bacilli Gram– aerobi, soprattutto Pseudomonas aeruginosa, ma anche Enterobacteriaceae, Klebsiella, Escherichia coli, Haemophilus, Serratia; tra i germi Gram+ predomina Staphylococcus aureus, secondo per frequenza (circa il 15% del totale dei casi) solo a Pseudomonas; Streptococcus pneumoniae risulta di infrequente riscontro nella maggior parte degli studi epidemiologici (meno del 3% dei casi). Talvolta la polmonite nosocomiale può avere eziologia virale (virus influenza A, virus respiratorio sinciziale) o fungina (Aspergillus spp). Oltre alla gravità del quadro clinico sottostante vi sono altri fattori predisponenti lo sviluppo di una polmonite nosocomiale, in parte già citati: il ricovero in Unità di Terapia Intensiva e l’intubazione naso-tracheale, l’età avanzata, le malattie polmonari croniche (bronchite cronica enfisematosa), gli interventi chirurgici, tutte le cause di immunosoppressione (trapianti, chemioterapie, ecc.). La polmonite nosocomiale può derivare da inalazione di germi dalle vie aeree superiori o dall’ambiente oppure può essere secondaria a batteriemia; in quest’ultimo caso vi può essere un focolaio sepsigeno situato più frequentemente a livello delle vie urinarie, dei vasi venosi (flebite o tromboflebite settica) o delle valvole cardiache. Per gli aspetti diagnostici e terapeutici delle polmoniti nosocomiali si rimanda al capitolo sulle polmoniti; giova comunque ribadire quanto la presentazione clinica delle polmoniti nosocomiali sia spesso atipica rispetto alle forme acquisite in comunità, rendendo in tal modo spesso difficile la diagnosi, ciò che è bene evidenziato dalle serie autoptiche, che dimostrano un’incidenza di polmonite assai superiore di quanto clinicamente diagnosticato; anche per queste forme cliniche sarà soprattutto l’esperienza e l’abilità del clinico ad inquadrare compiutamente il paziente nella sua complessità, ponendo nella giusta evidenza i fattori di rischio per lo sviluppo di polmonite nosocomiale, identificando i segni precoci di sospetta infezione, spesso sfumati (peggioramento dell’astenia, aumento anche lieve della frequenza respiratoria, ecc.), ed attuando tempestivamente le indagini diagnostiche e le terapie di prima scelta indicate a seconda della tipologia di paziente.
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Data l’importanza della patologia di base nella patogenesi delle polmoniti nosocomiali è evidente che gli sforzi diretti a prevenire queste forme cliniche sono destinati a dare scarsi risultati; l’unica raccomandazione di ordine generale, teoricamente pleonastica, è quella di limitare i ricoveri nelle Unità di Terapia Intensiva ai casi di effettiva necessità e di considerare comunque l’ospedale come un ambiente potenzialmente nocivo per le persone per qualunque ragione defedate, privilegiando l’assistenza a domicilio tutte le volte che ciò sia possibile.
FEBBRI DI ORIGINE SCONOSCIUTA(*) La maggioranza degli episodi febbrili si associa ad un quadro clinico che ne rende agevole l’inquadramento diagnostico e la soluzione; abitualmente infatti si risolvono spontaneamente o dopo terapia adeguata in pochi giorni o al più entro 2 settimane. In alcuni casi, invece, la febbre rappresenta l’unico segno di malattia e persiste più a lungo; in altri ancora la febbre, dopo essersi risolta spontaneamente, si ripresenta ad intervalli regolari. Queste condizioni sono state raggruppate nel 1961 da Petersdorf e Beeson con il termine di febbre di origine sconosciuta (FUO, Fever of Unknown Origin). La definizione ufficiale di FUO include i quadri clinici caratterizzati da un aumento della temperatura oltre i 38 °C, confermata con diverse determinazioni, che perdura da oltre 3 settimane e che rimane non diagnosticata dopo una settimana di adeguate indagini cliniche e di laboratorio. Nella pratica clinica rientrano abitualmente nella definizione di FUO episodi febbrili di qualunque entità con le caratteristiche sopra riportate. Con il termine di FUO, e pertanto meritevoli di una valutazione diagnostica tempestiva e accurata, vengono inoltre definiti tutti gli episodi febbrili della durata superiore a 3 giorni osservati nei pazienti ospedalizzati per altre ragioni, nei pazienti neutropenici e nei pazienti con infezione da HIV. Sono state segnalate in letteratura oltre 200 patologie che possono essere responsabili di episodi di FUO; la frequenza con cui queste patologie vengono diagnosticate nell’ambito dei casi di FUO è rimasta pressoché costante negli anni 1960-1990 ed include infezioni (30%-40%), neoplasie (20%-30%), connettiviti (10%-20%), altre malattie (15%-20%). Nel 5%-15% dei casi l’episodio di FUO rimane non diagnosticato, nonostante un iter diagnostico meticoloso; fortunatamente nella grande maggioranza dei casi si tratta di pazienti in condizioni stabili, nei quali si assiste ad una defervescenza spontanea e solo raramente emerge in seguito una malattia grave. Numerose casistiche di FUO documentano infine che in oltre il 10% dei casi la febbre non esiste o è simulata/provocata dal paziente (febbre fittizia). La prima condizione è di frequente riscontro in giovani donne, nelle quali un aumento della temperatura, (*) A. Castagna
Tabella 83.6 - Patologie infettive più frequentemente responsabili di febbre di origine sconosciuta. Infezioni localizzate • Endocardite – Ascessi (dentale, intracranico, polmonare, subfrenico, periappendicolare, diverticolare, epatico, splenico, intrarenale, perirenale, retroperitoneale, dello psoas, tubo-ovarico, prostatico, placentare) – Infezioni delle vie biliari, delle vie urinarie, dei seni paranasali, della mastoide, encefaliti – Osteomielite – Infezioni dei cateteri vascolari, infezioni protesiche Infezioni generalizzate – Tubercolosi, salmonellosi, brucellosi, borreliosi, leptospirosi, sifilide, yersiniosi, febbre Q, psittacosi, gonorrea disseminata, meningococcemia cronica, malattia da graffio di gatto, malattia di Whipple Candidosi disseminata, aspergillosi, criptococcosi, istoplasmosi, coccidioidomicosi, pneumocistosi – CMV, EBV, HIV, parvovirus B19 – Toxoplasmosi, malaria, leishmaniosi, amebiasi, babesiosi, tripanosomiasi, trichinosi
abitualmente non superiore a 37,5 °C, può rappresentare semplicemente una fisiologica accentuazione del normale ritmo circadiano. La febbre provocata è di non rara osservazione nei bambini o adolescenti di entrambi i sessi in relazione a periodi di difficoltà nella vita scolastica o relazionale o tra le persone con un buon background medico o paramedico.
Patologie infettive Le patologie infettive rappresentano ancora oggi la causa più frequente di FUO (Tab. 83.6). Tra le patologie infettive si è osservata una riduzione di incidenza di malattie quali l’endocardite batterica, gli ascessi e le sepsi intraddominali verosimilmente attribuibile ad una maggiore accuratezza diagnostica degli esami microbiologici e delle tecniche di imaging. Altre patologie quali la tubercolosi e l’infezione da CMV continuano ancora oggi ad essere una causa frequente di FUO; altre ancora quali la malattia di Lyme e l’infezione da HIV sono spesso segnalate nelle recenti casistiche. Infezioni localizzate Gli elementi di maggiore difficoltà nel diagnosticare infezioni localizzate sono rappresentati dall’assenza o scarsità di sintomi e/o segni clinici a carico dell’area interessata e dalle difficoltà nell’interpretazione dei referti degli esami microbiologici e degli esami di imaging. A. Un esempio classico di ritardo diagnostico nel paziente con FUO è costituito dall’endocardite batterica, in particolare nei casi in cui non sia possibile apprezzare nuovi soffi valvolari o soffi preesistenti permangano immodificati nel tempo. La dimostrazione di
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vegetazioni valvolari può essere condizionata dai limiti di sensibilità dell’ecocardiogramma transtoracico. La conferma microbiologica è talvolta problematica per la persistenza di emocolture negative, legate alla precedente terapia antibiotica, alla presenza di patogeni a lenta crescita o il cui isolamento richieda procedure microbiologiche speciali. B. Gli ascessi da piogeni, in particolare della cavità addominale, sono frequentemente causa di FUO. Fondamentale nell’indirizzare la diagnosi (soprattutto nei pazienti con scarsa sintomatologia focale) è la documentazione anamnestica di condizioni o patologie predisponenti, come traumi o pregressi interventi chirurgici, anche se cronologicamente lontani dall’episodio febbrile, o la presenza di corpi estranei e di protesi. C. Anche le infezioni delle vie urinarie possono essere responsabili di FUO in particolare nei casi in cui il sospetto clinico sia fuorviato dal riscontro di un’urinocoltura negativa, evenienza di non raro riscontro in presenza di fenomeni ostruttivi o di ascessi perirenali. Infezioni generalizzate A. Tra le infezioni generalizzate, la tubercolosi, specialmente la forma extrapolmonare e miliare, costituisce ancora oggi la causa infettiva più frequente di FUO, anche in relazione alla sua aumentata incidenza nell’ambito dell’epidemia da HIV. Il ritardo nel formulare una corretta diagnosi è più frequente nei pazienti in cui la febbre costituisce per settimane l’unico sintomo e nei quali mancano gli elementi chiave per il sospetto diagnostico. Infatti l’esame microscopico dell’escreato può risultare negativo nel 50-75% dei casi, in circa il 50% delle forme extrapolmonari la radiografia del torace è normale e nelle forme miliari e peritoneali l’allergometria tubercolinica è frequentemente negativa. La raccolta addizionale di campioni biologici e tissutali per gli esami microbiologici e istologici e l’applicazione a questi campioni di test diagnostici rapidi quali la PCR sono attualmente accorgimenti molto utili per pervenire più rapidamente alla diagnosi. B. Le infezioni fungine causano raramente febbre protratta nel soggetto immunocompetente; rappresentano invece cause importanti di FUO nel paziente neutropenico (candidemia, aspergillosi) e nel paziente con infezione da HIV in fase avanzata (criptococcosi, pneumocistosi).
MALATTIE INFETTIVE
sono la toxoplasmosi e la malaria di importazione. Nei pazienti con toxoplasmosi il sospetto diagnostico può essere tardivo nei casi in cui la linfoadenomegalia sia minima o apprezzabile solo a livello di un singolo linfonodo. La diagnosi di malaria in aree non endemiche può essere ritardata nei casi in cui il medico non venga a conoscenza dei viaggi del paziente in aree endemiche, o nelle situazioni in cui, in seguito ad un’assunzione non corretta della profilassi antimalarica, gli accessi febbrili siano asincroni e la parassitemia di grado modesto o indeterminabile.
Patologie non infettive La FUO può avere un’eziopatogenesi non infettiva; nella tabella 83.7 sono elencate le patologie non infettive più frequentemente in causa. Neoplasie A. La malattia neoplastica più frequentemente responsabile di FUO è rappresentata dai linfomi Hodgkin e non-Hodgkin. Diversi fattori possono contribuire a rendere difficoltosa la diagnosi: le stazioni linfonodali periferiche possono apparire normali all’ispezione, la linfoadenopatia mediastinica può non essere evidenziata alla radiografia del torace, le biopsie eseguite possono risultare non diagnostiche per l’esiguità del campione linfonodale prelevato, la localizzazione del linfoma può essere eclusivamente extranodale con interessamento epatico, splenico, midollare o endoluminale. Tabella 83.7 - Patologie non infettive più frequentemente responsabili di FUO. Neoplasie • Linfoma Hodgkin, linfoma non-Hodgkin, leucemia, mielodisplasia • Tumori solidi (carcinoma rene, polmone, mammella, ovaio, stomaco, colecisti, pancreas, sarcomi, tumore primitivo epatico, mixoma atriale) Connettiviti • Polimialgia reumatica, LES, morbo di Still, arterite a cellule giganti, vasculiti, periarterite nodosa, granulomatosi di Wegener, malattia di Kikuchi, malattia di Behçet, malattia di Weber-Christian, aortite di Takayasu Malattie granulomatose
C. L’infezione virale più frequentemente responsabile di febbre protratta è l’infezione da CMV: in circa il 25% degli adulti immunocompetenti la febbre può persistere per oltre 3 settimane. Difficoltà diagnostiche sono state segnalate anche in pazienti con mononucleosi infettiva, nei quali il riscontro di anticorpi eterofili e specifici per EBV può essere successivo di alcune settimane all’esordio della febbre. D. Tra le infezioni parassitarie quelle più frequentemente responsabili di FUO nella nostra area geografica
• Malattia di Crohn, colite ulcerosa, epatite granulomatosa, sarcoidosi Varie • • • • •
Febbre familiare mediterranea, neutropenia ciclica Embolia polmonare ricorrente, ematomi, trombosi Epatite alcolica Malattia di Castleman Alterazioni della termoregolazione: tumori o traumi cerebrali, ipertiroidismo, feocromocitoma
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83 - INFEZIONI IN SITUAZIONI PARTICOLARI
B. Tra i tumori solidi, il carcinoma renale è la causa più frequente di FUO; la febbre è infatti presente nel 20% dei casi ed è sintomo d’esordio nel 15% di essi. Molte altre neoplasie possono essere causa di FUO, incluso il mixoma atriale, patologia rara nella quale, in circa il 30% dei casi, la febbre costituisce il sintomo predominante. Altre cause A. Tra le connettiviti, il morbo di Still e nei pazienti di età superiore ai 50 anni la polimialgia reumatica e l’arterite a cellule giganti sono le malattie più frequentemente responsabili di FUO. In questo ultimo caso febbre, malessere e uno spiccato aumento della VES possono costituire gli unici elementi del quadro clinico; la diagnosi definitiva richiede la biopsia dell’arteria temporale il cui aspetto può apparire anche normale. B. Tra le altre cause di FUO è necessario ricordare le malattie granulomatose di eziologia non infettiva, in particolare la granulomatosi epatica idiopatica. La diagnosi di queste forme richiede la biopsia dell’organo interessato per escludere alcune patologie, quali la tubercolosi, le infezioni da miceti, il linfoma che determinano un quadro clinico ed istologico simile. C. Anche l’epatite alcolica è una causa frequente di FUO, spesso sottovalutata poiché il paziente tende a negare o minimizzare l’assunzione di alcolici. Elementi utili nell’orientare la diagnosi verso questa forma sono rappresentati da un livello molto più elevato delle aspartato-amino-transferasi rispetto alle alanino-amino-transferasi in associazione ad una netta leucocitosi. D. Tra le cause vascolari di FUO è molto frequente il riscontro di ematomi nella cavità addominale, nello spazio retroperitoneale, nella parete degli aneurismi, nella parete arteriosa in caso di dissecazione aortica. L’embolia polmonare ricorrente è un’altra causa frequente di FUO, specialmente nel paziente neoplastico o allettato: la febbre può persistere anche per settimane, il corteo sintomatologico polmonare può essere scarso e la valutazione radiografica del torace poco suggestiva. E. Nei pazienti con febbre prolungata deve sempre essere presa inoltre in considerazione anche l’ipotesi diagnostica di una febbre da farmaci che almeno teoricamente può comparire durante l’assunzione di qualsiasi farmaco anche preso in precedenza per lunghi periodi di tempo. In alcuni casi, in particolare in assenza di eosinofilia ed esantema, il quadro clinico caratterizzato da una febbre di tipo settico, con brividi, ipotensione, leucocitosi è difficilmente distinguibile da altre forme di piressia e in particolare dalla sepsi batterica. È buona regola pertanto in questa situazione sospendere nei limiti del possibile tutta la terapia farmacologica in atto: nel caso di febbre da farmaci la temperatura si normalizza entro 48-72 ore dalla sospensione del farmaco responsabile.
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Approccio diagnostico al paziente con FUO La conoscenza di una corretta metodologia di indagine nella valutazione del paziente con FUO si è rivelata molto utile nell’abbreviare i tempi diagnostici ed evitare indagini inutili, se non addirittura rischiose per il paziente. Le principali difficoltà nella definizione eziologica di una FUO sono raramente dovute alla presenza di una patologia rara, bensì più frequentemente alla presenza di una patologia ben nota con una presentazione atipica. Il ritardo diagnostico è frequentemente legato all’incapacità ad evidenziare elementi chiave tra le informazioni già disponibili, alla difficoltà nell’interpretare i risultati delle indagini effettuate, alla tendenza generale a procrastinare gli esami invasivi in particolare nei casi in cui per giungere alla diagnosi definitiva è comunque indispensabile ottenere il campione tissutale per l’esame microbiologico o istologico. Il ritardo diagnostico può diventare purtroppo determinante nel condizionare la prognosi del paziente in particolare nel corso di infezioni addominali, micosi sistemiche, tubercolosi miliare, endocarditi, emboli polmonari ricorrenti. Un corretto approccio metodologico nella valutazione del paziente con FUO prevede innanzitutto la raccolta accurata e ripetuta dell’anamnesi interrogando sia il paziente, sia i familiari. È fondamentale indagare l’esistenza di condizioni predisponenti o patologie precedenti, di malattie familiari o ereditarie, di pregressi interventi chirurgici. Dev’essere inoltre indagata l’effettuazione di viaggi all’estero, l’esposizione a tubercolosi, il contatto con animali, la puntura di insetti, l’assunzione di farmaci, droghe, alcool, le abitudini sessuali, la frequentazione di particolari ambienti di lavoro o durante il tempo libero. È importante documentare la reale esistenza della febbre e circostanziare l’esordio dell’episodio febbrile, il tipo di febbre, l’andamento circadiano, la presenza di brividi e sudorazioni, il tipo di risposta ad antipiretici ed antinfiammatori. La conoscenza delle caratteristiche e dell’andamento della febbre è di regola poco indicativo nella diagnosi differenziale tra patologie infettive e non, mentre può rivelarsi molto utile nell’identificare le situazioni di febbre fittizia. Elementi chiave nell’avvalorare questo sospetto diagnostico sono l’assenza dei segni obiettivi che abitualmente accompagnano la febbre (l’arrossamento del volto, l’iperemia congiuntivale, la tachicardia), le ottime condizioni generali del paziente con appetito e peso conservati, l’andamento ingiustificatamente irregolare della curva termica con puntate elevatissime e defervescenze repentine, soprattutto se non accompagnate rispettivamente da brividi e sudorazioni, l’insensibilità o la risposta capricciosa ad antipiretici ed antinfiammatori. Occorre infine rivolgere al paziente in più occasioni domande mirate, volte ad evidenziare la presenza di sintomi minori, ritenuti irrilevanti dal paziente, possibile espressione di patologia d’organo o d’apparato. In quest’ottica è essenziale effettuare poi un esame obiettivo completo, accurato e ripetuto periodicamente in fase diagnostica, poiché alcuni pazienti sviluppano
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1682 Tabella 83.8 - Indagini consigliate per la valutazione iniziale del paziente con febbre di origine sconosciuta. • Esame emocromocitometrico con formula leucocitaria • Esame delle urine e del sedimento urinario, urinocoltura • VES, PCR, elettroforesi delle sieroproteine, dosaggio delle immunoglobuline • Funzionalità epatica e renale, amilasi, LDH • Emocolture (3 campioni nelle 24 ore in assenza di terapia antibiotica) • Fattore reumatoide, C3-C4, anticorpi antinucleo • Esami sierologici (CMV, EBV, HIV, virus epatitici, Toxoplasma gondii, salmonelle, brucelle, borrelie, treponema) • Allergometria tubercolinica • ACE, ormoni tiroidei • Rx torace • Ecografia addome
solo nel corso del tempo segni suggestivi di malattia. L’esame obiettivo deve includere una valutazione della cute, del cuoio capelluto, delle unghie, del cavo orale, della loggia tiroidea, della regione ombelicale e perineale, dell’occhio, l’auscultazione del cuore, l’ispezione regolare di tutte le stazioni linfonodali periferiche, la ricerca di masse o zone di resistenza addominali. Poiché molte FUO non sono accompagnate da segni clinici locali e l’occhio è spesso coinvolto nel corso di malattie sistemiche, un’attenta valutazione di orbita, cornea, congiuntiva, uvea, retina è consigliata in tutti i pazienti con febbre prolungata anche in assenza di sintomi di tipo oftalmologico. La presenza di lesioni della congiuntiva o di una franca congiuntivite può accompagnare alcune infezioni virali, da Chlamydia, la tubercolosi, la sifilide, la tularemia, l’istoplasmosi, la malattia da graffio di gatto, la leptospirosi; petecchie congiuntivali possono essere presenti nel corso di un’endocardite batterica. La presenza di un’uveite può indirizzare l’iter diagnostico nella diagnosi differenziale tra alcune infezioni (toxoplasmosi, sifilide, tubercolosi) e altre malattie non infettive (LES, vasculiti, malattia da siero, sarcoidosi, artrite reumatoide giovanile). Sulla scorta dei dati anamnestici e clinici raccolti è preferibile seguire un iter diagnostico individualizzato piuttosto che un algoritmo predeterminato.
MALATTIE INFETTIVE
Nella tabella 83.8 sono elencati gli esami di laboratorio di primo livello utili per verificare l’esistenza di uno stato infiammatorio, di eventuali danni d’organo e per un’iniziale differenziazione tra patologia infettiva o non infettiva. In casi selezionati, l’inclusione in questa batteria di esami di uno studio dell’immunità umorale e cellulare, guidato da elementi anamnestici, obiettivi o dalla presenza di alterazioni della funzione midollare consente inoltre di identificare rapidamente il paziente immunocompromesso nel quale le possibili cause infettive di FUO si estendono a patologie rare nella popolazione generale, causate da microrganismi opportunisti. In questi casi è pertanto indicata la determinazione del dosaggio delle immunoglobuline e del complemento, del fenotipo delle sottopopolazioni linfocitarie, dei test cutanei di ipersensibilità ritardata e dei test di funzionalità granulocitaria. Nel sospetto di una patologia d’organo, anche in assenza di una sintomatologia suggestiva, può essere ragionevole eseguire rapidamente la TC e/o indagini di imaging funzionale quali la scintigrafia, soprattutto nei casi in cui gli esami radiografici ed ecografici routinari non si siano rivelati utili nel dirimere il dubbio diagnostico. L’esecuzione delle indagini non invasive consente di raggiungere una diagnosi eziologica in circa il 25% dei casi di FUO, mentre in circa il 50% dei casi riportati di FUO la definizione eziologica è invece legata all’esecuzione di indagini invasive, quali l’agobiopsia, la biopsia ECO o TC guidata e la laparoscopia. In generale, l’utilizzo nel paziente con FUO di una terapia ex juvantibus in assenza di una diagnosi definitiva è sconsigliabile poiché può ostacolare anziché chiarirne l’eziologia. Tuttavia un tentativo terapeutico può essere giustificato anche in chiave diagnostica se i dati clinici e di laboratorio depongono in modo convergente a favore di una determinata eziologia. L’introduzione di una terapia empirica impostata sulla base di tutti gli elementi clinici e di laboratorio raccolti diventa poi prudente e doverosa nei pazienti in condizioni precarie o in rapido peggioramento. Per esempio può essere consigliabile l’introduzione di una terapia steroidea se il sospetto di una patologia infettiva è ragionevolmente escluso, di 2-3 settimane di terapia antitubercolare nel sospetto di una tubercolosi attiva o di una terapia antibiotica ad ampio spettro e a dosaggi adeguati nel sospetto di un’endocardite batterica anche con emocolture negative.
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BIBLIOGRAFIA
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MALATTIE INFETTIVE
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PARTE QUINDICESIMA
MALATTIE NEUROLOGICHE a cura di G. COMI
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C A P I T O L O
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VASCULOPATIE CEREBRALI G. COMI, M. SESSA
Cenni di anatomia La vascolarizzazione cerebrale è garantita da due sistemi: il circolo anteriore o carotideo e il circolo posteriore o vertebrobasilare. A. Circolo carotideo. Entrambe le carotidi comuni, di cui la sinistra nasce dall’arco aortico e la destra dal tronco anonimo, si biforcano a livello della cartilagine tiroidea nell’arteria carotide esterna (ACE) e arteria carotide interna (ACI). Quest’ultima entra nel cranio attraverso il foro lacero. Nel tratto intrapetroso dà piccoli rami per la cavità timpanica e l’arteria del canale pterigoideo che si anastomizzano con rami dell’ACE. Quindi, immettendosi nel seno cavernoso, forma il sifone. Anche qui dà piccoli rami che si anastomizzano con l’ACE. A questo livello può persistere l’arteria trigeminale, normalmente atresica nell’adulto, che si unisce alla basilare. L’ACI dà l’arteria oftalmica, che entra nella cavità orbitaria attraverso il forame ottico, l’arteria comunicante posteriore, l’arteria corioidea anteriore, e si biforca in arteria cerebrale media (ACM) e arteria cerebrale anteriore (ACA) (Tab. 84.1). B. Circolo vertebrobasilare. Le due arterie vertebrali, che originano dalle arterie succlavie, risalgono lungo il collo percorrendo un canale virtuale formato dalla sovrapposizione dei forami vertebrali delle vertebre cervicali da C6 a D2, entrano nel cranio attraverso il forame magnum e si uniscono a formare l’arteria basilare. Nel tratto extracranico le due arterie vertebrali danno origine all’arteria spinale anteriore, singola e mediana. L’arteria basilare si divide poi nelle due cerebrali posteriori unite al circolo anteriore dalle arterie comunicanti posteriori. Nel complesso il sistema vertebrobasilare irrora le strutture della fossa cranica posteriore, il lobo temporale e occipitale, il talamo (Tab. 84.2). La circolazione cerebrale è dotata di circoli collaterali che, con il variare delle condizioni emodinamiche, cercano di supplire, in particolare in condizioni patolo-
giche, alla diminuzione di flusso ematico in un determinato territorio encefalico. I principali circoli anastomotici sono: • circolo di Willis: mette in comunicazione il circolo carotideo con il circolo vertebrobasilare e il circolo di un emisfero con il controlaterale. In condizioni fisiologiche i due circoli sono funzionalmente indipendenti, ma, in caso di occlusioni o stenosi serrate a monte del poligono, il flusso può invertirsi per vicariare i vasi ipoperfusi a valle della stenosi; • arterie corticopiali: consentono anastomosi tra i grossi rami di divisione terminali dell’arteria carotide interna e del circolo vertebrobasilare; • collaterali extracraniche: (per es. arteria oftalmica e suoi rami, arteria carotido-timpanica) si realizzano tra la carotide interna e l’esterna.
Fisiopatologia L’encefalo non ha riserve e si basa sul metabolismo ossidativo del glucosio per la produzione di energia garantitogli dal torrente circolatorio. L’encefalo riceve il 12% della portata cardiaca, consuma il 20% dell’ossigeno disponibile e il 25% di glucosio; è un organo a elevata attività metabolica ed è dotato di una notevole capacità di autoregolazione, per cui per valori pressori compresi tra 60 e 140 mmHg è in grado di mantenere un flusso ematico costante nella sostanza bianca e parimenti nella sostanza grigia. Questo è possibile principalmente grazie all’autoregolazione del calibro da parte delle arteriole cerebrali, che vanno incontro a vasocostrizione mediante un meccanismo non ancora ben conosciuto: si è ipotizzata una regolazione di tipo neurovegetativo, ma alcuni studi indicano l’esistenza di fattori liberati localmente che agiscono sulla parete vasale. Al di sopra di 140 mmHg e al di sotto di 40 mmHg, l’autoregolazione viene a mancare e il flusso ematico cerebrale dipende esclusivamente dalla pressione di perfusione.
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1688 Tabella 84.1 - Rami di suddivisione dell’ACI e rispettivi territori di irrorazione. • Arteria oftalmica • •
•
•
– Retina, muscoli estrinseci dell’occhio Arteria comunicante – Anastomosi con la cerebrale poposteriore steriore contribuendo a formare il circolo di Willis Arteria corioidea – Tratto ottico, nucleo genicolato anteriore laterale, parte rostrale – Radiazioni ottiche – Plesso corioideo – Globo pallido – Ippocampo, uncus – Braccio post capsula interna-par– te inferiore – Peduncolo cerebrale Arteria cerebrale – Corteccia frontale mediale anteriore – 4/5 anteriori corpo calloso e corteccia fronto-parietale adiacente • Arteria ricorrente di Heubner – Testa del nucleo caudato – Braccio anteriore capsula interna – Ipotalamo • Arterie perforanti profonde – Striato-parte anteriore – Capsula interna-parte ventrale braccio anteriore Arteria cerebri media • Arteria lenticolostriate – Putamen – Pallido – Capsula interna - parte superiore e braccio anteriore – Testa del caudato – Corona radiata - parte inferiore • Ramo corticale superiore – Area contraversiva occhi/capo – Area Broca – Corteccia motoria – Corteccia sensitiva • Ramo corticale inferiore – Area Wernicke – Radiazione visiva – Parte superiore del lobo temporale ed insula • Rami perforanti delle arterie corticali – Centro semiovale
In condizioni normali il flusso ematico cerebrale è di 50 ml/100 gr/min con un apporto di O2 di 165 mol/100 gr/min (= 3,5 ml/100 gr/min) e di glucosio di 30 mol/100 gr/min (= 5 mg/100 gr/min). Quando il flusso scende al di sotto di 10 ml/100 gr/min si realizza una condizione di ischemia. La zona infartuata è circondata da un’area di ridotta ischemia che ancora non è andata incontro alla necrosi (penombra ischemica). Se in un breve periodo di tempo (finestra terapeutica) si interviene e si determina la riperfusione della penombra ischemica, un’importante quota di tessuto cerebrale che sarebbe andato incontro a morte viene nuovamente irrorato e tale zona potrà riprendere regolarmente la propria funzionalità.
MALATTIE NEUROLOGICHE
Tabella 84.2 - Principali rami arteriosi del circolo vertebro-basilare e rispettivi territori di irrorazione. • Arteria verticale
• PICA-Arteria cerebellare postero-inferiore – Verme – Tonsilla – Emisfero cerebellare suboccipitale – Bulbo laterale • Perforanti – Bulbo
• Arteria basilare
• – • – – • – – – – • – – –
• Arteria cerebrale posteriore
• – • – – – • – • • – • –
Perforanti Base ponte ai lati linea mediana Circonferenziali brevi e lunghe 2/3 laterali del ponte Peduncoli cerebellari medi/superiori AICA-Arteria cerebellare antero-inferiore Bulbo rostrale Base del ponte Strutture cerebellari rostrali VII e VIII nc all’interno del canale uditivo SCA-Arteria cerebellare superiore Mesencefalo dorsolaterale Peduncolo cerebellare superiore Superficie super. emisferi cerebellari Perforanti interpeduncolari Area subtalamica Arterie mesencefaliche e talamiche Mesencefalo Talamo Parte del corpo genicolato laterale Comunicante posteriore Anastomosi con il circolo carotideo Talamogenicolate e corioidea posteriore talamo Ramo anteriore Lobo temporale Ramo posteriore Corteccia calcarina, parieto-occipitale
Il danno neuronale conseguente alla riduzione dell’apporto di ossigeno e di glucosio è determinato dall’azione di alcuni mediatori locali prodotti dell’alterazione del metabolismo cellulare dovuta al collasso dei processi energetici cellulari con disintegrazione delle membrane cellulari: aminoacidi eccitatori; radicali liberi, prostaglandine e leucotrieni; acido lattico; accumulo intracellulare di ioni Ca. Nel danno ischemico si distinguono diverse fasi in relazione al tempo e alla gravità. In seguito alla riduzione dell’apporto di ossigeno, vengono meno le riserve di ATP necessarie per il corretto funzionamento delle pompe ioniche di membrana, in particolare la Na/K ATPasi, deputate al mantenimento dell’omeostasi cellulare. Si osservano quindi alterazioni biochimiche quali la fuoriuscita extracellulare di K, l’aumento dell’ingresso di ioni Ca e Na nella cellula, con richiamo di acqua nello spazio intracellulare e sviluppo di edema citotossico. Con la riduzione dell’apporto di ossigeno la cellule ischemica perde la capacità di produrre energia sottoforma di ATP mediante la fosforilazione ossidativa e
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si affida alla glicolisi anaerobia con produzione di acido lattico e idrogenioni a partire dalle riserve di glucosio. La riduzione del pH intracellulare che ne consegue contribuisce all’alterazione della funzione cellulare con un incremento dell’edema citotossico e una paralisi vasomotoria che, associata ad alterazioni della barriera emato-encefalica, determina nell’arco di qualche ora un edema vasogenico che contribuisce in modo sostanziale all’incremento della pressione intracranica. L’incremento di calcio intracellulare attiva una serie di enzimi, potenzialmente dannosi per la cellula, tra cui le fosfolipasi, che inducono un’alterazione della permeabilità delle membrane, le proteasi, che determinano la distruzione delle proteine di membrana e del citoscheletro, le endonucleasi responsabili del danno alla cromatina nucleare. Le cellule ischemiche, private dunque della selettività di membrana, liberano alcuni intermedi glicolitici, glutammato e aspartato, con funzione di neurotrasmettitori, che a loro volta interagiscono con i recettori NMDA (N-Metil-D-Aspartato) e AMPA (-amino 3 idrossi-5 metil isossazolo-4-acido propionico) dei neuroni stessi provocando un ulteriore accumulo di Ca e Na intracellulare. Molte strategie attuali per limitare il danno ischemico sono basate sull’utilizzo di bloccanti del canale NMDA per il glutammato, uno dei diversi canali del calcio coinvolti in questo flusso anomalo. L’insieme dei fenomeni di deplezione di ATP, accumulo di Ca citosolico, degradazione dei fosfilipidi ad opera delle fosfolipasi e accumulo degli acidi grassi liberi, comporta un danno mitocondriale inizialmente reversibile. Con il persistere dello stimolo anossico, il danno mitocondriale diviene irreversibile per fuoriscita del citocromo c e per attivazione di caspasi effettrici responsabili della morte cellulare. A tutto ciò si aggiunge l’azione tossica esercitata dalle citochine infiammatorie, tra cui TNF e IL-1, responsabili di un’attivazione endoteliale e leucocitaria. Nel tessuto cerebrale anossico le citochine possono aumentare con due meccanismi: sintesi ex novo da parte delle cellule gliali e dei neuroni stessi e secrezione da parte dei leucociti che invadono rapidamente l’area ischemica provenienti dal torrente circolatorio attraverso il danno nella parete vasale. Inoltre, l’aumentata espressione di molecole di adesione da parte delle cellule ipossiche facilita il reclutamento di leucociti polimorfonucleati dal circolo. Si ipotizza che la compromissione biochimica di alcune cellule strutturalmente intatte dopo l’ischemia sia responsabile della vulnerabilità delle stesse all’insulto da parte di radicali liberi dell’ossigeno prodotti dalle cellule endoteliali e dai leucociti. Sempre maggiori sono i dati sperimentali a favore di un ruolo predominante della risposta infiammatoria nel danno da riperfusione ed è stato dimostrato che bloccando con idonei antagonisti il recettore di citochine come TNF- e interleuchina-1B, la necrosi tissutale si riduce significativamente. Nella cosiddetta zona di penombra ischemica, la deplezione di ATP e le alterazioni di membrana risultano reversibili; con il ripristino del flusso ematico si osserva il recupero della normale funzione cellulare. In ogni caso, a seconda dell’entità e della durata dell’insulto ischemico, un numero variabile di cellule può andare
incontro a morte anche dopo il ripristino del flusso ematico per necrosi o apoptosi per un meccanismo di danno da ischemia/riperfusione.
Eziopatogenesi La Publication Committee dello studio Trial of ORG 10172 in Acute Stroke Treatment (TOAST) ha proposto una classificazione degli ictus ischemici su base fisiopatologia (Tab. 84.3). La classificazione TOAST, la cui accuratezza è stata validata da uno studio prospettico dello stesso gruppo, viene attualmente ampiamente utlizzata in trial multicentrici. Per quanto riguarda l’eziopatogenesi degli ictus emorragici si distinguono fattori anatomici, emodinamici ed emostatici. Ictus ischemico Gli ictus ischemici costituiscono circa l’80-85% di tutti gli eventi cerebrovascolari. A. Malattia aterosclerotica dei grandi vasi. Le complicanze tromboemboliche da lesioni aterosclerotiche dei vasi del collo rappresentano la causa più frequente di ischemia cerebrale (circa il 50% degli ictus ischemici). Determinanti anatomiche hanno valore fondamentale nella localizzazione delle placche che tendono a formarsi a livello dell’arco aortico, delle biforcazioni carotidee, del sifone carotideo, dell’origine della cerebrale media, dell’origine e confluenza delle arterie vertebrali dove le condizioni di flusso sottopongono a più frequente e intenso microtraumatismo la parete vasale. La placca aterosclerotica può accrescersi lentamente determinando un progressivo restringimento del lume vasale fino a una significativa riduzione del flusso oppure può ulcerarsi e ciò favorisce l’aggregazione piastrinica con formazione di un trombo che occlude in maniera acuta il vaso. Il trombo, a sua volta, può causare l’ischemia cerebrale attraverso vari meccanismi: • accrescendosi e restringendo progressivamente il lume vasale fino ad occluderlo; • propagandosi fino ad occludere l’origine di rami che si dipartono dal vaso trombotico; • frammentandosi spontaneamente e dando luogo ad emboli in grado di occludere vasi distali di minor calibro.
Tabella 84.3 - Classificazione TOAST eziopatogenetica degli ictus ischemici. • Aterosclerosi dei vasi di grosso calibro • Cardioembolia (possibile/probabile) • Occlusione piccoli vasi; cause diverse (vasculopatie non aterosclerotiche, disordini della coagulazione) • Cause non determinate • Identificazione di due o più cause – valutazione negativa – valutazione incompleta
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Pur essendo ormai assodata una correlazione diretta tra entità della stenosi e rischio di evento cerebrovascolare, gli studi più recenti hanno introdotto i concetti di placca “a rischio” e placca “instabile”. La placca “a rischio è caratterizzata da core necrotico ricco in lipidi, emorragia intraplacca, calcificazioni e cappuccio fibroso integro, mentre nella placca “instabile” il cappuccio è sottile e/o ulcerato e proprio la rottura del cappuccio fibroso sembra svolgere un ruolo determinante nella patogenesi degli eventi ischemici come l’ictus, l’attacco ischemo-transitorio (TIA), l’infarto miocardio e l’angina instabile, indipendentemente dal grado di stenosi vasale. B. Malattia dei piccoli vasi. Le lesioni lacunari sono più frequenti in soggetti con lunga storia di ipertensione, diabete e abitudine tabagica. Le sedi più frequenti sono: putamen, base del ponte, talamo, braccio posteriore della capsula interna e nucleo caudato. Il rialzo della pressione arteriosa diastolica piuttosto che di quella sistolica sembra essere implicato nella genesi di lacune multiple. I cambiamenti strutturali dei vasi cerebrali causati dall’ipertensione arteriosa sono caratterizzati dall’angiopatia fibrinoide, dalla lipoialinosi e dalla formazioni di microaneurismi. La lipoialinosi o necrosi fibrinoide della parete arteriosa comporta la sostituzione della membrana elastica, muscolare e dell’avventizia con depositi ialini che conducono a stenosi per formazione di microateromi ed eventualmente ad occlusione del lume vasale. Va anche considerato però che nei pazienti diabetici e ipertesi c’è una ridotta perfusione a livello del microcircolo e una minore capacità di autoregolazione che ha come conseguenza una minore possibilità di attivare circoli collaterali di compenso e quindi un danno tissutale più grave in seguito all’occlusione embolica delle arterie penetranti. Pertanto la sola associazione tra una sindrome lacunare e la presenza di fattori di rischio come l’ipertensione e il diabete non è sufficiente a porre diagnosi di infarto lacunare in quanto vanno sempre escluse le altre possibili cause di ictus ischemico. C. Ictus cardioembolico. La fibrillazione atriale non valvolare (FANV) è la più frequente causa di ictus ricorrenti e la più comune sorgente cardiaca di emboli. Infatti, ha una prevalenza del 6% nei pazienti di età superiore a 65 anni ed è responsabile del 15% di tutti gli ictus ischemici e del 25% degli ictus in pazienti di età superiore a 80 anni. Il rischio assoluto medio di ictus in pazienti con FANV in assenza di terapia anticoagulante è pari a circa il 5% per anno. Gli ictus da FANV sono generalmente più gravi con una mortalità e disabilità ad un anno del 71%. Il rischio di ictus aumenta se coesistono età avanzata, ipertensione arteriosa, pregressi TIA o ictus, disfunzione del ventricolo sinistro (VS), calcificazioni dell’anulus mitralico, dilatazione dell’atrio sinistro, mentre è più basso nei pazienti senza altri fattori associati e con età inferiore a 60 anni. L’incidenza della FANV è più alta negli uomini che nelle donne anche se tale differenza si annulla con l’età: gli uomini con tale condizione hanno spesso una malattia coronarica sotto-
MALATTIE NEUROLOGICHE
stante, mentre le donne hanno spesso una valvulopatia non nota. Altre condizioni cardiache potenzialmente ad alto rischio emboligeno sono l’infarto miocardio acuto (IMA), l’endocardite infettiva, la stenosi mitralica, le protesi valvolari meccaniche. Gli infarti cardioembolici sono spesso estesi, multipli, bilaterali. Un ictus embolico si verifica nell’1% dei soggetti ospedalizzati per IMA. Trombi nel VS si associano più spesso ad un IMA recente che ha interessato la parete anteriore. La maggior parte degli episodi embolici si verifica entro i 3 mesi successivi all’IMA con l’85% degli episodi embolici che si sviluppa nelle prime 4 settimane. Nei pazienti con ictus “criptogenetico” e con età inferiore a 55 anni un PFO (Patent Foramen Ovalis) o un aneurisma del setto interatriale (ASA) può essere individuato in più del 50% dei casi, laddove la sua prevalenza in pazienti di tutte le età con ictus associato a malattia dei grandi vasi o a lacune è intorno al 23%. Il meccanismo attraverso il quale, in presenza di un PFO, si realizzerebbe un ictus potrebbe essere l’embolismo paradosso di materiale trombotico venoso attraverso lo shunt atrio destro-atrio sinistro. Nella maggior parte dei casi l’origine degli emboli è difficile da definire data la bassa incidenza di trombosi venose profonde nei pazienti giovani. Va comunque valutato il possibile ruolo dell’associazione con uno stato di ipercoagulabilità. Fattori che supportano un embolismo paradosso in pazienti con PFO e ictus sono: esordio dell’ictus dopo manovre che incrementino la pressione nelle cavità destre del cuore come tossire o defecare, una precedente storia di tromboflebite, criteri ECG o ecocardiografici di ipertensione polmonare, embolizzazione diretta da trombi formatisi all’interno del PFO o di un aneurisma del setto atriale, formazione di un trombo causata da fibrillazione atriale parossistica spesso clinicamente silente. La coesistenza di PFO e ASA accresce il rischio di ictus cardioembolici. D. Vasculopatie non aterosclerotiche. Le vasculiti sono associate ad eventi cerebrovascolari nel 5% dei pazienti con ictus al di sotto dei 45 anni e nello 0,2% dei pazienti al di sopra di questa età. 1. Le vasculiti infiammatorie possono coinvolgere vasi di ogni dimensione, incluse le arteriole precapillari e le venule postcapillari. Ictus ischemici possono complicare numerose vasculiti sistemiche. Nel lupus eritematoso distemico (LES) l’ictus può essere attribuito ad un fenomeno di embolia cardiogena (endocardite verrucosa non batterica o di Libman-Sacks), alla presenza di anticorpi antifosfolipidi, a una vasculopatia occulta o a una vasculite immunomediata. Nella sindrome di Behçet, le trombosi venose sono più frequenti delle occlusioni arteriose. Nell’arterite di Takayasu i sintomi neurologici sono causati dall’ischemia a carico del sistema nervoso centrale dovuta all’occlusione dell’arco aortico e dei suoi rami principali o all’ipertensione arteriosa causata dalla coartazione aortica o dalla stenosi dell’arteria renale. Altre vasculiti associate ad eventi cerebrovascolari possono essere l’arterite a cellule giganti, con predilezione per i rami arteriosi carotidei
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e, anche se più raramente, la tromboangioite obliterante, nota anche come malattia di Buerger, che interessa le piccole e medie arterie e le vene. 2. La dissecazione delle arterie cervicali e cefaliche è la vasculopatia non aterosclerotica più frequentemente causa di ictus ischemico giovanile. La dissecazione è prodotta dalla penetrazione di sangue nello spazio subintimale con successiva estensione longitudinale dell’ematoma intraluminale tra gli strati della parete del vaso. La maggior parte delle dissecazioni interessa il segmento extracranico della carotide interna, meno spesso si verifica nel tratto intracranico della carotide interna o a livello del circolo vertebrobasilare. La dissezione arteriosa può essere conseguenza di ferite penetranti o non penetranti del collo. Le ferite penetranti danneggiano prevalentemente, per ovvi motivi anatomici, le arterie carotidi. Il trauma non è sempre francamente evidente; può essere banale o semplicemente rappresentato da un movimento del collo rotatorio o in iperestensione, a cui sono più sensibili le arterie vertebrali rispetto alle carotidi. Spesso non è possibile evidenziare, seppure con un’anamnesi accurata, nessun trauma degno di nota. Numerose condizioni, tra cui la displasia fibromuscolare, la sindrome di Marfan, la sindrome di Ehlers-Danlos tipo IV, la coartazione aortica, la malattia di Menkes, il deficit di -1-antitripsina, la degenerazione cistica della lamina media, l’elevazione del contenuto di elastasi arteriosa, l’aterosclerosi, la tortuosità dei vasi, il moyamoya, le infezioni faringee, l’abuso di farmaci simpaticomimetici e l’arterite luetica, predispongono alle dissecazioni spontanee. Le dissecazioni dovrebbero essere considerate nella diagnosi differenziale di ictus in tutti i giovani adulti specie quando i tradizionali fattori di rischio sono assenti. Secondo gli studi più recenti il meccanismo responsabile dello stroke in presenza di una dissecazione sarebbe quello tromboembolico e non l’ipoperfusione come ritenuto classicamente. 3. Le radiazioni ad elevata intensità possono accelerare il processo aterosclerotico soprattutto in presenza di iperlipidemia. Le vasculopatie postirradiazione sono legate alla dose e all’età del paziente al momento dell’esposizione. 4. Il moyamoya è una vasculopatia occlusiva delle arterie intracraniche non infiammatoria, cronica e progressiva a patogenesi ignota. È caratterizzato da una stenosi bilaterale e progressiva del tratto distale delle arterie carotidi interne che si estende al tratto prossimale dell’arteria cerebrale anteriore (ACA) e dell’arteria cerebrale media (ACM), coinvolgendo spesso il circolo di Willis con sviluppo di estesi circoli collaterali alla base cranica che angiograficamente appaiono simili ad una nuvola o una boccata di fumo (moyamoya); possono inoltre essere presenti aneurismi intracranici localizzati maggiormente nel circolo posteriore. Può causare TIA, cefalee, crisi epilettiche, disturbi del movimento, deterioramento cognitivo, infarti cerebrali o emorragie intracraniche. La malattia colpisce in genere bambini, adolescenti e giovani adulti.
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5. L’uso di droghe e di farmaci simpaticomimetici da banco possono causare uno stroke ischemico. Le sostanze più comunemente implicate sono le amfetamine e la cocaina. È stata descritta l’associazione tra cefalea, emicrania e ictus soprattutto nelle donne giovani. La patogenesi dell’infarto emicranico è controversa. 6. L’arteriopatia cerebrale autosomica dominante con infarti sottocorticali e leucoencefalopatia (CADASIL) è un’arteriopatia geneticamente determinata ad ereditarietà autosomica dominante. Più del 90% dei casi è associato a mutazioni missenso nel gene NOTCH3, un recettore transmembrana verosimilmente coinvolto nella trasduzione del segnale. Il danno ischemico sembrerebbe conseguente ad alterazioni funzionali delle arterie, le cui pareti presentano modificazioni ultrastrutturali quali materiale granulare elettrondenso nella media delle arterie perforanti e degenerazione delle cellule muscolari lisce. E. Stati di ipercoagulabilità. In quest’ambito possiamo distinguere condizioni protrombotiche ereditarie, probabilmente ereditarie e acquisite. Tra i deficit dei fattori della coagulazione geneticamente determinati, alcuni sono chiaramente associati a trombosi nel distretto arterioso, mentre per altri è stata dimostrata un’associazione con le trombosi venose. Infine, per altri difetti, mancano dati che dimostrino un’associazione statisticamente significativa con eventi cerebrovascolari. 1. Condizioni ereditarie. Le forme ereditarie chiaramente associate ad eventi ischemici arteriosi sono i vari tipi di omocisteinemia di cui si parla nel capitolo 52. L’omocisteina in eccesso interferisce con il metabolismo del collagene nelle pareti vasali predisponendo ad una diatesi trombotica arteriosa e venosa; l’accumulo di omocisteina determina anche un’aumentata adesività piastrinica favorendo in tal modo la patologia occlusiva. 2. Condizioni probabilmente ereditarie. Sono state segnalate associazioni fra aumentato rischio di eventi cerebrovascolari in particolari sottopopolazioni e polimorfismi a carico di alcuni fattori dell’emostasi, tra cui fibrinogeno, fattore II e alcune glicoproteine piastriniche. Analogamente sono stati segnalati elevati livelli di alcuni fattori della coagulazione in pazienti con ictus, suggerendo un possibile ruolo di mutazioni a loro carico nel predisporre ad eventi cerebrovascolari. Va comunque ricordato che fattore VIII e il fibrinogeno possono aumentare anche come parte della risposta di fase acuta. 3. Condizioni acquisite. Particolare interesse nell’ambito degli stati protrombotici acquisiti hanno suscitato gli anticorpi antifosfolipidi (aPL). 4. Numerosi studi hanno dimostrato che il deficit di proteina C (PC), proteina S (PS), antitrombina III (AT III), della resistenza alla proteina C attivata e del
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fattore V di Leiden costituiscono fattori di rischio per la trombosi venosa, ma non per quella arteriosa. I pazienti con tali anomalie della coagulazione non hanno un aumentato rischio di IMA o di stroke rispetto alla popolazione generale. Inoltre, il Copenhagen City Heart Study, che comprende 3 studi caso-controllo che includono più di 8000 individui di età compresa fra i 20 e i 98 anni e due studi prospettici, che reclutano più di 9000 soggetti seguiti per un periodo di 21 anni, ha dimostrato che il fattore V di Leiden è associato con trombosi venosa, ma non con IMA, cardiopatia ischemica o ictus ischemico. Emorragia cerebrale (Tab. 84.4) A. L’ipertensione arteriosa è il principale fattore di rischio per l’emorragia cerebrale: il 50-70% dei pazienti con ictus emorragico ha un’ipertensione nota. Studi retrospettivi hanno dimostrato che l’ipertensione arteriosa aumenta da 2 a 6 volte il rischio di emorragia cerebrale. I pazienti ipertesi che sospendono il trattamento antipertensivo hanno un raddoppio del rischio di emorragia cerebrale rispetto a quelli che continuano il trattamento. Le sedi più frequenti sono: i gangli della base (in particolare il putamen), il talamo, la sostanza bianca profonda periventricolare, il cervelletto e il ponte. L’ipertensione cronica conduce ad una degenerazione della parete delle piccole arterie perforanti (100-600 m di diametro) caratterizzata da infiltrato lipidico nella tonaca media con riduzione dell’elasticità, necrosi fibrinoide (lipoialinosi) e sostituzione collagenosa; la lamina elastica diviene frammentata e l’intima ispessita. Il riscontro di microaneurismi originariamente descritti da Charcot-Bouchard (300-900 m di diametro privi di tonaca media muscolare e lamina elastica interna e costituiti unicamente da tessuto connettivo) a carico delle arterie più piccole (100-300 m di diametro) è frequentemente descritto nei reperti anatomopatologici del paziente iperteso anche se non sono mai stati identificati come fonte di sanguinamento. Il coinvolgimento della tonaca media sembrerebbe essere il più importanTabella 84.4 - Classificazione eziopatogenetica degli ictus emorragici • Fattori anatomici – Ipertensione arteriosa – Angiopatia amiloidea – Malformazioni vascolari – Neoplasie – Trombosi venosa • Fattori emodinamici – Ipertensione arteriosa instabile – Riperfusione postinfarto – Sostanze simpaticomimetiche – Postendoarterectomia – Dolore-freddo-emicrania • Fattori emostatici – Terapia anticoagulante – Terapia fibrinolitica – Trombocitopenia – Deficit fattori della coagulazione – Insufficienza epatica
MALATTIE NEUROLOGICHE
te e sistematico riscontro nel paziente con ipertensione arteriosa distinguendosi dal processo aterosclerotico, frequentemente associato, che interessa l’intima delle arterie di maggiore calibro. Le piccole arterie penetranti sarebbero più frequentemente e gravemente danneggiate dall’ipertensione rispetto ai vasi corticali di calibro simile in quanto le prime, originando direttamente da arterie di grosso calibro, non presentano anastomosi con altre arterie e pertanto sono meno protette dal danno ipertensivo. Il meccanismo con cui l’ipertensione conduce a tali cambiamenti strutturali nelle piccole arterie perforanti non è noto. Ipoteticamente la muscolatura liscia ipertrofizzata dallo stress emodinamico potrebbe divenire ischemica per insufficiente apporto nutritivo e di ossigeno, le cellule andrebbero quindi incontro a necrosi rilasciando enzimi lisosomiali distruttivi per gli altri costituenti della parete arteriosa. L’ipertensione potrebbe produrre meccanicamente una distruzione dell’endotelio con essudazione di elementi plasmatici che danneggerebbero l’intima e la media. B. L’angiopatia amiloidea è stata riconosciuta solo negli ultimi decenni come causa di emorragia cerebrale in particolare in sede lobare, essendo associata al 10% di tutte le emorragie e al 30% delle emorragie lobari. La prevalenza dell’angiopatia amiloidea sporadica aumenta con l’età passando dall’8% in pazienti al di sotto dei 60 anni al 60% nei pazienti con più di 90 anni. La principale caratteristica patologica è la deposizione di -amiloide nella tonaca media e avventizia delle arterie leptomeningee, arteriole, capillari e vene. La sede dell’emorragia nell’angiopatia amiloidea è tipicamente al passaggio cortico-sottocorticale degli emisferi cerebrali, principalmente in sede occipitale, parietale, frontale, e può essere ricorrente. L’angiopatia amiloidea cerebrale non fa parte di un processo di amiloidosi diffusa. L’angiopatia amiloidea associata ad emorragia presenta alcune caratteristiche peculiari. La deposizione di amiloide è più estesa nei soggetti colpiti da emorragia non tanto per quanto riguarda la numerosità dei vasi colpiti quanto in relazione alla quantità di deposito per singolo vaso. Inoltre, le arterie corticali dei soggetti sintomatici spesso presentano evidenza di dilatazione, degenerazione e necrosi fibrinoide. Oltre alla forma sporadica, esistono due forme autosomiche dominanti causate da specifiche mutazioni del gene che codifica per il precursore della Proteina amiloide e dalla mutazione del gene per la cistatina-C (“Icelandic type”). La prima forma, simile alla variante sporadica, è caratterizzata da depositi intravascolari di -amiloide prodotta dalle cellule muscolari lisce. Nella seconda forma l’amiloide di tipo cistatina-C è sintetizzata dagli astrociti e l’esordio dei sintomi espresso con emorragia cerebrale è più precoce (intorno ai 30 anni). Dal punto di vista clinico, di fronte ad un primo episodio di emorragia lobare la diagnosi può essere supportata dal riscontro alla RM cerebrale di precedenti emorragie puntiformi. Tuttavia la conferma diagnostica rimane affidata al dato istologico. L’angiopatia amiloide può anche manifestarsi sottoforma di sintomi neurologici focali transitori ricorrenti (ipostenia, parestesie, disturbo visivo) seguiti da lesione emorragica nella stessa area ce-
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rebrale implicata nei precedenti episodi. Un altro aspetto clinico non associato ad emorragia è il deterioramento cognitivo con associato riscontro di diffusa demielinizzazione della sostanza bianca sottesa da lesioni vascolari caratterizzate da ispessimento della parete delle arteriose secondaria all’ipertrofia della tonaca media. La presenza di emorragie multiple è fortemente suggestiva anche se non esclusiva dell’angiopatia amiloidea. C. Le malformazioni vascolari sono responsabili del 10-20% delle emorragie cerebrali. La malformazione artero-venosa (MAV) è un insieme di vasi sanguigni anomali con anastomosi diretta tra arteria e vena senza interposizione di capillari in cui è presente tessuto nervoso. Le dimensioni possono essere variabili da meno di 1 cm di diametro fino a raggiungere un’estensione lobare o multilobare. Benché si ritenga che la MAV abbia un’origine congenita, solo il 18-20% delle MAV è diagnosticato in individui al di sotto dei 15 anni suggerendo che questa malformazione sia soggetta a crescere. I vasi che costituiscono la malformazione sono tortuosi con anomala architettura della parete tanto che può essere difficile distinguere la componente arteriosa e quella venosa. La tonaca elastica e muscolare sono marcatamente ridotte o assenti e la parete è spesso ispessita, sclerotica e mineralizzata e possono essere presenti aneurismi formati dalla dilatazione segmentale di queste arterie anomale. Il tessuto nervoso interposto è solitamente molto gliotico. Le arterie di origine sono ectasiche con una parete vasale anomala per presenza di ipertrofia della media o riduzione della componente muscolare con sostituzione ialina. L’emorragia cerebrale è la manifestazione clinica iniziale nel 50-60% delle MAV. Di queste emorragie il 45% ha sede parenchimale, il 20% subaracnoidea e nel 10% dei casi le due sedi sono associate, in un altro 10% l’emorragia è intraventricolare e infine nel 15% l’emorragia è intraventricolare e parenchimale. L’80% delle MAV è sopratentoriale e di queste il 20% è localizzata in sede profonda. Nel 10% delle MAV si associano aneurismi sacculari che sono una fonte di sanguinamento, e le MAV associate ad aneurismi hanno un rischio annuale di risanguinamento del 7% rispetto al rischio del 2-3% annuo delle MAV non associate ad aneurisma. In assenza di aneurisma il sito di rottura è più frequentemente sul versante venoso della malformazione ed è maggiore in presenza di un’unica vena di drenaggio e ancora maggiore se il drenaggio è compromesso o a carico del sistema profondo. Paradossalmente le MAV di piccole dimensioni sanguinano più frequentemente e più abbondantemente di quelle di grosse dimensioni. Il meccanismo proposto per spiegare questo fenomeno è la maggiore differenza di pressione tra l’arteria di entrata e la vena di drenaggio nelle piccole MAV sintomatiche. Se la differenza non è significativa queste MAV tenderebbero a crescere in dimensione. D. Gli angiomi cavernosi sono strutture vascolari precapillari sinuose dilatate costituite da endotelio senza componente venosa e senza interposto tessuto nervoso. La parete vasale ialinizzata è priva di lamina muscolare ed elastica e comunemente si riscontrano calci-
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ficazioni, sclerosi e trombosi. Hanno una distribuzione simile alle MAV (50% emisferica, 30% in fossa posteriore, 20% nei gangli della base o nel talamo). Non sono evidenziabili angiograficamente ma con la RM (nelle immagini in T2 sono caratterizzate da un segnale centrale misto con un anello circostante di ipointensità che corrisponde all’emosiderina). Clinicamente gli angiomi cavernosi possono manifestarsi con sintomi focali indotti anche dalla crescita della malformazione. Il rischio di emorragia di una lesione sintomatica è stimato intorno allo 0,25-0,60% l’anno e il rischio di risanguinamento è del 4,5% l’anno. Tuttavia l’emorragia è raramente fatale poiché la pressione all’interno della lesione è relativamente bassa (40 mmHg). Esiste una forma familiare localizzata sul cromosoma 7 e 3. Nella maggior parte dei casi familiari gli angiomi cavernosi sono multipli; un paziente affetto dalla forma familiare ha il 75% di probabilità che un parente di primo grado sia portatore della stessa anomalia. E. Gli angiomi venosi sono strutture venose anomale ialinizzate prive di tonaca elastica e muscolare che drenano in una singola vena di superficie o meno frequentemente nel sistema venoso profondo. Si riscontrano perlopiù nei lobi frontali, parietali e cerebellari. F. Le teleangectasie capillari, costituite da vasi capillari con un singolo strato endoteliale e un lume più dilatato (20-500 m) separati da normale tessuto nervoso, sono la forma più benigna di malformazione vascolare localizzata prevalentemente in sede pontina, cerebellare o emisferica sovratentoriale. Rappresentano il 17% delle anomalie vascolari e hanno un bassissimo potenziale di sanguinamento se non multiple. G. Gli aneurismi sono anomalie vascolari acquisite (da patologia aterosclerotica, da amiloidosi, da processi infiammatori e settici, come si osserva per esempio nell’endocardite batterica ecc.) anche se possono insorgere sulla base di fragilità della parete vasale su base congenita. Gli aneurismi sono principalmente localizzati in corrispondenza delle biforcazioni arteriose del circolo di Willis. La parete aneurismatica è spesso assottigliata, fibrotica e priva della tonaca muscolare ed elastica risultando così più suscettibile a rottura. Lo spazio subaracnoideo è la sede più frequente di sanguinamento anche se il 30-40% delle emorragie è associato ad emorragia intraparenchimale soprattutto in funzione della sede dell’aneurisma (arteria cerebrale media in corrispondenza della biforcazione nel lobo temporale, arteria comunicante anteriore, arteria cerebrale anteriore distale, biforcazione dell’arteria carotide interna). La rottura degli aneurismi è stata posta in relazione con un innalzamento acuto della pressione arteriosa (esercizio fisico, ecc.) e anche in relazione temporale con l’assunzione di cocaina. H. Le fistole artero-venose sono lesioni acquisite in seguito all’occlusione patologica di un seno venoso (trombosi, neoplasia) che a causa dell’ipertensione venosa determina un’anomala anastomosi tra le arterie e le
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vene. L’emorragia cerebrale può essere la manifestazione iniziale nel 15% dei casi mentre il rischio di sanguinamento in pazienti con manifestazioni focali è dell’1-2% annuo. I. La sindrome di moyamoya nell’adulto si manifesta comunemente con un’emorragia intracerebrale, subracnoidea e meno frequentemente intraventricolare. La maggior parte delle emorragie avviene nei gangli della base e in assenza di una diagnosi angiografica della patologia occlusiva primitiva queste emorragie non possono essere differenziate dalle più comuni emorragie ipertensive. L. La dissecazione arteriosa, anche se raramente, può essere complicata da un’emorragia che è quasi esclusivamente confinata allo spazio subaracnoideo. M. L’emorragia all’interno di un tumore rappresenta circa il 5% di tutte le emorragie cerebrali e il primo sintomo nel 50% di tutte le emorragie tumorali. I tumori cerebrali primitivi raramente sono causa di sanguinamento (meno dell’1%). Fra gli astrocitomi il rischio di emorragia è correlato al grado di malignità. Gli oligodendrogliomi rappresentano un’eccezione essendo tumori benigni con un’elevata incidenza di sanguinamento (in relazione probabilmente con la componente calcifica della parete vasale che ne riduce la resistenza). I tumori metastatici presentano sanguinamento nel 1014% dei casi, soprattutto le metastasi da carcinoma bronchiale, carcinoma renale, melanoma e coriocarcinoma (questi ultimi arrivano ad un rischio di sanguinamento del 40-60%). N. La trasformazione emorragica di un infarto cerebrale è un evento che si riscontra in circa il 20-40% degli ictus ischemici cardioembolici. La prolungata occlusione arteriosa causa nel parenchima distale e nella parete arteriosa fenomeni di ischemia che indeboliscono strutturalmente la parete vasale che non è più in grado di sostenere la pressione di riperfusione una volta risolto l’embolo o attraverso rami collaterali. Anche se meno comune, l’infarto venoso è più spesso associato a trasformazione emorragica. In questo caso l’emorragia è preceduta da una fase ischemica che può manifestarsi con segni neurologici focali, crisi comiziali, encefalopatia. La sede più frequentemente colpita è il seno sagittale superiore. Tra i fattori emodinamici riconosciuti come causa di emorragia cerebrale va anche ricordata l’ipertensione instabile e la puntata ipertensiva come complicanza da assunzione di sostanze tossiche, endoarterectomia, emicrania, esposizione al freddo, dolore intenso, epilessia. O. Nell’ambito dei fattori emostatici la terapia anticoagulante aumenta il rischio di emorragia intracranica da 7 a 10 volte con un rischio assoluto dell’1% annuo. In particolare i pazienti con malattia cerebrovascolare e con ipertensione arteriosa che assumono terapia anticoagulante hanno un rischio maggiore di emorragia cerebrale. Il meccanismo non è completamente noto an-
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che se la patologia della parete vasale (per es., necrosi fibrinoide e angiopatia amiloidea) sembra prevalere in alcuni pazienti. Per quanto riguarda la terapia antiaggregante il rischio di emorragia cerebrale non è risultato aumentato. La terapia trombolitica aumenta il rischio di emorragia cerebrale in quanto produce ipofibrinogenemia e prodotti di degradazione della fibrina che hanno proprietà anticoagulanti, riduce il fattore V e VIII della coagulazione ed altera la funzione piastrinica. La meta-analisi degli studi clinici sulla terapia trombolitica con alteplase nell’ictus ischemico entro 3 ore dall’esordio dei sintomi ha indicato un rischio di emorragia cerebrale nel 6,6% dei casi. P. Altre cause di emorragia cerebrale sono: la leucemia mieloide con conseguente trombocitopenia, l’abuso alcolico condizionante epatopatia, l’assunzione di sostanze tossiche (anfetamine, cocaina, eroina, ecc.). Tra i possibili meccanismi patogenetici associati all’uso di sostanze tossiche sono stati individuati: la vasculite, l’endocardite batterica, l’arteriopatia ipertensiva, le malformazioni vascolari, la trombocitopenia, l’insufficienza epatica, l’ipertensione acuta. La vasculite è caratterizzata da un’angite necrotizzante simile alla poliarterite nodosa che interessa la parete vasale di arterie e arteriole che presentano necrosi fibrinoide della media e dell’intima, con distruzione della tonaca elastica e muscolare rimpiazzate da tessuto collagene. Inoltre è presente un infiltrato di neutrofili, eosinofili e istiociti che circondano il vaso e si estendono al parenchima circostante. Le alterazioni potrebbero derivare da un effetto tossico diretto della sostanza sulla parete vasale o da una reazione di ipersensibilità alla sostanza o a un adulterante. Cocaina, fenilciclidina e amfetamine hanno anche un effetto simpaticomimetico che può indurre a un acuto rialzo della pressione arteriosa per diretta stimolazione cardiaca e vasocostrizione. La maggior parte di queste emorragie sono lobari. Anatomia patologica
Dal punto di vista anatomopatologico e quindi funzionale lo stravaso ematico diffonde lungo la via di minore resistenza infiltrandosi tra i fasci di fibre della sostanza bianca mentre la materia grigia è più resistente all’infiltrazione e risulta più frequentemente compressa. La dimensione dell’ematoma si correla al calibro del vaso rotto e alla durata del sanguinamento. L’emorragia cerebrale, oltre a produrre un effetto distruttivo immediato per l’ematoma, determina anche un danno ischemico nel tessuto cerebrale circostante mediato dall’effetto massa che interrompe il flusso sanguigno, come dimostra la presenza di necrosi ischemica attorno all’emorragia L’emorragia cerebrale aumenta acutamente il volume intracranico con conseguente riduzione della compliance intracranica, aumento della pressione intracranica e riduzione della perfusione cerebrale. Inoltre, nel parenchima circostante l’ematoma si sviluppa una reazione edemigena che può determinare un ulteriore aumento della pressione endocranica con conseguenti effetti sulla morbilità e mortalità del paziente. I meccanismi di formazio-
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ne dell’edema perilesionale, anche se non completamente conosciuti, sembrano molteplici e complessi. Si ritiene che l’edema precoce possa essere causato da fattori contenuti nel sangue travasato, in particolare fattori della cascata della coagulazione quali trombina e fibrinogeno, per il loro effetto proinfiammatorio. Intervengono successivamente altri fattori tra cui la tossicità dell’emoglobina conseguente alla lisi eritrocitaria, l’attivazione del complemento e l’alterata permeabilità della barriera ematoencefalica. In fase acuta vanno pertanto controllati ed evitati l’ipercarbia, l’ipossia e la vasodilatazione, che aumentano il volume ematico, e l’ipotensione che riduce la perfusione cerebrale. Dopo circa 2 settimane compaiono i macrofagi nella periferia dell’ematoma e il suo riassorbimento avviene nell’arco di settimane o mesi in funzione delle dimensioni dello stesso.
Epidemiologia I dati di incidenza e prevalenza nei principali studi nazionali ed internazionali sono molto variabili in quanto riflettono le differenze nella composizione della popolazione, essendo l’ictus una patologia frequente soprattutto nella popolazione anziana. L’incidenza dell’ictus, infatti, aumenta progressivamente con l’aumentare dell’età, raggiungendo un valore massimo negli ultraottantacinquenni (Tab. 84.5). Anche i tassi di prevalenza nella letteratura internazionale variano a seconda della popolazione studiata e delle fasce di età esaminate. Nella popolazione anziana (di età compresa tra 65 e 80 anni) italiana la prevalenza è del 6,5% (limiti fiduciali al 95%), con un valore del 10,3% nella fascia di età dagli 80 agli 84 anni. Considerando la struttura della popolazione italiana, ci aspettiamo nel prossimo quinquennio più di 200.000 nuovi casi per un totale di poco meno di 1 milione di casi totali. Il rischio assoluto di ictus nei pazienti che hanno sofferto di un attacco ischemico transitorio è del 7-12% nel primo anno e del 4-7% per ogni anno nei primi 5 anni, mentre la frequenza di recidive nei pazienti con ictus è del 10-15% nel primo anno e del 4-9% nei primi 5 anni dopo l’evento iniziale. La mortalità globale si aggira intorno al 10-15% a 30 giorni e al 30% ad un anno. Nel 35% residua grave disabilità. Nei paesi occidentali l’ictus rappresenta pertanto la prima causa di disabilità e la terza causa di morte, dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie. Tabella 84.5 - Tassi di incidenza per 100.000 abitanti per fascia di età (sintesi dai vari studi internazionali). ETÀ 0-44 45-54 55-64 65-74 75-84 > 85
VALORE MINIMO 9 57 119 408 979 1513
VALORE MASSIMO 28 246 496 1060 1682 3632
Clinica La diagnosi di episodio cerebrovascolare è in primo luogo una diagnosi clinica, a cui si arriva con la raccolta di un’accurata anamnesi patologica prossima e remota e con un attento esame obiettivo neurologico. L’esordio dei sintomi generalmente è improvviso e in assenza di evidenti cause scatenanti. Sintomi associati sono rari; la presenza di dolore facciale o cervicale può suggerire una dissecazione. I sintomi sono focali e negativi, cioè manifestano una perdita di funzione. I sintomi neurologici focali derivano dalla disfunzione di una precisa area cerebrale, per esempio un disturbo della forza, della sensibilità, della vista, dell’equilibrio, del linguaggio e delle altre funzioni corticali superiori, ecc. Sintomi non focali, non anatomicamente localizzabili, come stanchezza, confusione ed alcuni sintomi, pur focali, ma isolati sono raramente, se non mai, dovuti a ischemia cerebrale focale, pertanto non debbono essere interpretati né come TIA né come ictus. La progressione dei sintomi è generalmente massimale in pochi secondi. La durata dei sintomi aiuta a distinguere un TIA da un ictus. Secondo la classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) del 1978, si distingue: • TIA: sindrome clinica caratterizzata da un improvviso deficit focale neurologico (o monoculare), della durata inferiore a 24 ore; • ictus: sindrome clinica caratterizzata dallo sviluppo rapido di sintomi e/o segni clinici di deficit neurologico focale (a volte globale), la cui sintomatologia perdura per più di 24 ore. Questa distinzione temporale si sta rilevando sempre più arbitraria e non particolarmente utile sia in termini diagnostici che prognostici. Innanzitutto è noto che circa il 70% dei TIA si risolve entro un’ora e che meno del 10% dura più di 12 ore. Inoltre, grazie alla migliore capacità di risoluzione delle tecniche neuroradiologiche, circa il 35% dei pazienti con TIA a risoluzione tra 1 e 24 ore presentano una lesione in sede congrua alla TC. Non è ancora noto se la presenza di lesioni alla TC rappresenti un fattore prognostico sfavorevole, ma comunque la tendenza è quella di classificare i pazienti con eventi focali transitori e TC positiva non come pazienti con TIA, ma come pazienti con “infarto cerebrale con segni transitori”. Similmente andrebbe creata una nuova categoria diagnostica per pazienti con ictus clinicamente definito, ma con TC/RM normali. Nel caso del TIA la sintomatologia si risolve più gradualmente rispetto all’esordio, ma completamente. Alla risoluzione dell’evento, l’esame obiettivo neurologico è generalmente negativo. Possono permanere segni quali asimmetria dei riflessi o stimolazione cutaneo-plantare in estensione. I TIA possono essere ripetuti, anche se continui attacchi stereotipati devono porre il sospetto di crisi comiziali parziali.
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Ischemie cerebrali In funzione del distretto vascolare interessato, si distinguono grandi sindromi vascolari. A. Occlusione della carotide interna. Trattandosi di un vaso di grosso calibro l’occlusione della carotide è, nella grande maggioranza dei casi, il momento finale di un processo esteso nel tempo, essenzialmente su base arteriosclerotica, che ha portato alla formazione di una placca ed al suo successivo accrescimento fino a diventare occludente, oppure alla formazione di un trombo su una placca ulcerata. L’occlusione della carotide interna si verifica anche in corso di dissecazione, qualora il trombo intramurale si accresca in modo tale da occludere il vero lume del vaso, qualora il trombo si accresca all’interno del lume effettivo o per embolia dal trombo stesso. La carotide interna, trovandosi a monte del circolo di Willis e a valle dell’arteria carotide esterna, viene ottimamente compensata, nella sua funzione, dai due principali circoli collaterali vicarianti di cui dispone l’encefalo. Per entrambi questi motivi l’occlusione carotidea può decorrere in modo del tutto asintomatico (sono descritte anche occlusioni bilaterali delle carotidi interne asintomatiche o paucisintomatiche) e costituire unicamente un reperto di autopsia, fatto questo particolarmente frequente prima che le moderne tecniche neuroradiologiche e sonografiche fornissero allo specialista e al medico generico strumenti diagnostici di agevole applicazione. Un’altra conseguenza di questa situazione emodinamicamente privilegiata dalla carotide interna è l’estrema variabilità del quadro clinico che l’occlusione del vaso comporta quando sintomatico: si va da sindromi imponenti che riflettono la compromissione di un intero emisfero cerebrale a quadri molto più discreti, conseguenti, per esempio, all’occlusione delle arterie intracraniche che si distaccano dalla carotide (arteria oftalmica, arteria corioidea anteriore, ecc.). Sul piano clinico la sindrome conclamata della trombosi carotidea è, nella grande maggioranza dei casi, preceduta da tipici TIA nel suo territorio di irrorazione, causati o da embolizzazioni arteroarteriose o da deficit emodinamici transitori in un circolo ipoperfuso. I TIA si manifestano con: deficit sensitivo-motori localizzati all’emicorpo o all’arto superiore o all’emifaccia controlaterale alla carotide interessata; episodi di afasia transitoria quando è interessato l’emisfero dominante; episodi di amaurosi transitoria (amaurosis fugax) omolaterali alla carotide interessata. Meno frequentemente si possono osservare crisi epilettiche, episodi confusionali, episodi emicranici. La sindrome conclamata è caratterizzata da un’emiplegia a prevalenza facio-brachiale controlaterale all’ostruzione, ad esordio acuto o, talora, subacuto (qualche giorno); flaccida all’inizio ma con tendenza ad evolvere verso la spasticità. Quasi sempre coesiste, nel territorio plegico, un deficit sensitivo globale. Nella sindrome da ischemia totale del territorio della carotide interna il paziente presenta una riduzione del livello di vigilanza Se la lesione è localizzata nell’emisfero dominante si ha di regola un’afasia mista o prevalentemente espressiva. Le turbe visive si manifestano o con un’emianopsia o con un’amaurosi
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omolaterale alla carotide occlusa e quindi alterna all’emiplegia (sindrome oculo-piramidale) che è patognomonica di questo tipo di patologia ma che si verifica solo in una piccola percentuale di casi. Più raramente (per il gioco dei compensi emodinamici) il danno ischemico si localizza nei territori di confine con l’arteria cerebrale anteriore manifestandosi con una monoplegia crurale. B. Occlusione dell’arteria cerebrale media. Un rammollimento ischemico nel territorio dell’arteria cerebrale media sta alla base del quadro clinico di più frequente riscontro nell’ambito delle cerebrovasculopatie acute. Per il suo lungo e complesso decorso l’arteria cerebrale media irrora un vasto territorio che comprende distretti profondi e superficiali dell’emisfero cerebrale. Questi distretti possono essere interessati globalmente o individualmente dall’ischemia dando luogo a quadri clinici sostanzialmente diversi. Essendo un ramo “terminale” della carotide interna, l’arteria cerebrale media è situata a valle dei circoli collaterali della carotide esterna e del circolo di Willis, e sono notevolmente limitate le possibilità di supplenze nell’eventualità di un’occlusione: esse sono affidate unicamente al circolo di compenso assicurato dalle anastomosi cortico-piali che consentono al sangue portato dalle altre arterie terminali (l’arteria cerebrale anteriore e l’arteria cerebrale posteriore) di riperfondere a ritroso il territorio dell’arteria cerebrale media. Le occlusioni possono essere situate all’origine dell’arteria (rammollimento globale), possono coinvolgere le arterie perforanti lenticolostriate (rammollimento del territorio profondo) o i principali rami di divisione. 1. Occlusione dell’arteria cerebrale media alla sua origine. Dà il classico quadro di emiplegia a predominanza facio-brachiale, accompagnata da un deficit sensitivo, distribuito nel medesimo territorio, che coinvolge soprattutto la sensibilità profonda e la stereognosia ed emianopsia omonima controlaterale all’occlusione, associata ad afasia se a carico dell’emisfero dominante. Quando è colpito l’emisfero non dominante vi è un’aprassia costruttiva ed un’inattenzione per l’emispazio sinistro con anosognosia (sindrome di Anton-Babinski). 2. Occlusione delle arterie perforanti. Traduce sul piano clinico il rammollimento capsulare. Essa è costituita da un’emiplegia proporzionale dell’emisoma controlaterale all’emisfero leso in muscolatura facciale, arto superiore e inferiore sono in egual misura coinvolti dal disturbo motorio che evolve rapidamente verso la spasticità e da un’emianestesia nello stesso territorio di distribuzione. Mancano afasia e disturbi visuospaziali. 3. Occlusione dei rami terminali dell’arteria cerebrale media. Particolarmente frequente il rammollimento nel territorio dell’arteria prerolandica che è caratterizzata da un’emiplegia a prevalenza facio-brachiale, di cui, in un prosieguo di tempo, permane e si accentua la componente facciale, e da un’afasia motoria (di Broca). L’occlusione dell’arteria del solco rolandico dà luogo a
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una monoplegia brachiale (all’inizio può trattarsi di un’emiplegia) e da un concomitante deficit sensitivo marcato. Quando è colpito l’emisfero dominante coesiste un’afasia di Wernicke. L’occlusione dell’arteria parietale posteriore condiziona un’ischemia del carrefour parieto-temporo-occipitale. Il quadro clinico è contraddistinto da un’emianopsia, da un’afasia di Wernicke (quando è colpito l’emisfero dominante) e da una sindrome di Anton-Babinski (quando è colpito l’emisfero minore). Con una certa frequenza si rileva (nella lesione a carico dell’emisfero dominante) una sindrome di Gerstmann (agnosia digitale-acalculia-agrafia-incapacità di distinguere la destra dalla sinistra). C. Occlusione dell’arteria cerebrale anteriore. Un rammollimento nel territorio di irrorazione dell’arteria cerebrale anteriore si realizza per occlusione del vaso a valle dell’arteria comunicante anteriore, che di norma fornisce un’efficiente supplenza tramite il circolo controlaterale quando l’occlusione è localizzata a monte. Va peraltro tenuta presente la possibilità di anomalie di quest’ultima e la possibilità che entrambe le cerebrali anteriori originino da una sola carotide: in quest’ultimo caso è possibile un rammollimento bilaterale responsabile di un quadro clinico caratterizzato da paraplegia e incontinenza. Il quadro clinico tipico è caratterizzato da una monoplegia a predominanza crurale controlaterale, con disturbi sfinterici e anestesia nello stesso territorio. La compromissione dell’area motoria accessoria può comportare un deficit motorio anche a carico dell’arto superiore che coinvolge soprattutto la muscolatura prossimale. Caratteristica la comparsa di riflessi arcaici di prensione forzata (“grasping-reflex”) e di ricerca a tastoni (“groping-reflex”) e della rigidità paratonica (“gegenhalten”). Il coinvolgimento dell’arteria di Heubner è responsabile di un’afasia transcorticale motoria, caratterizzata da povertà di linguaggio spontaneo a fronte di una preservata capacità di ripetere frasi parlate o scritte. Sul versante psichico si osserva una serie di sintomi caratteristici della sindrome frontale come l’apatia e la diminuzione degli interessi e dell’iniziativa motoria, la perseverazione motoria e l’impersistenza attentiva. L’intero quadro psichico è più marcato quando entrambe le cerebrali anteriori sono occluse.
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teria cerebrale posteriore esprime la sofferenza dei territori encefalici che essa irrora: il lobo occipitale e la parte inferomediale del lobo temporale, la parte superiore del mesencefalo, gran parte del talamo, della regione subtalamica e dell’ipotalamo. Anche in questo caso bisogna tenere conto delle supplenze fornite dalle anastomosi con altri distretti vascolari (arteria comunicante posteriore; anastomosi cortico-piali con l’arteria cerebrale media). Il quadro clinico è caratterizzato da emianopsia laterale omonima controlaterale. Se sono coinvolte le aree parastriate dell’emisfero dominante (aree 18 e 19) ci possono essere disturbi simbolici come agnosia visiva, agrafia, prosopagnosia, alessia. Se l’infarto si estende fino al giro angolare si può avere una sindrome di Gerstmann. L’interessamento del mesencefalo si manifesta con disturbi dell’oculomozione e quello talamico e subtalamico con deficit sensitivi ed iperpatia controlaterale e talora emiballismo. Non rara è l’occlusione di entrambe le arterie cerebrali posteriori per effetto di un grosso embolo (per lo più di provenienza cardiaca postinfartuale) che si dispone “a sella” alla biforcazione della basilare. Ne consegue cecità corticale con anosognosia, negazione della cecità e confabulazioni che riguardano presunte percezioni visive. F. Occlusione dell’arteria vertebrale. L’occlusione di un’arteria vertebrale nel suo decorso extracranico è di norma ben compensata dall’arteria controlaterale (ma bisogna tener presente l’eventualità che questa sia congenitamente atresica) e può non dar luogo a sintomi a focolaio. Quando l’occlusione interessa il segmento intracranico coinvolge di regola i rami terminali che dall’arteria vertebrale prendono origine provocando rammollimenti a carico di vari distretti dell’emibulbo. I quadri clinici corrispondenti sono nel complesso di poco frequente osservazione, tranne la sindrome risultante dall’infarto laterale del bulbo che si osserva per trombosi dell’arteria vertebrale o, più specificamente, dell’arteria cerebellare posteriore-inferiore. La sindrome è nota anche con il nome di sindrome di Wallenberg o della fossetta laterale del bulbo. Le strutture nervose coinvolte ed i relativi sintomi sono i seguenti:
D. Occlusione dell’arteria corioidea anteriore. Il territorio tributario di questo ramo arterioso gode di efficienti supplenze da parte dei territori vascolari viciniori (arteria cerebrale anteriore, arteria cerebrale posteriore, arteria corioidea posteriore) sicché l’occlusione dell’arteria può avvenire senza la comparsa di una vistosa sintomatologia. Nei pochi casi in cui è stata possibile la verifica anatomo-clinica, l’occlusione dell’arteria corioidea anteriore si manifestava con un’emiplegia proporzionale e una concomitante emianestesia globale controlaterali. Costanti le alterazioni del campo visivo con emianopsia laterale omonima o con quadrantopsia.
• il nucleo della radice discendente del trigemino con un’ipoestesia o anestesia dell’emifaccia omolaterale interessante la sensibilità superficiale; • il fascio spinotalamico con deficit delle sensibilità superficiali dell’emisoma controlaterale; • i nuclei dei nervi IX e X con conseguente paralisi dell’emivelo palatino, dell’emifaringe e della corda vocale omolaterale (disfagia, disartria e disfonia); • il nucleo vestibolare inferiore con vertigini, vomito e nistagmo; • il peduncolo cerebellare inferiore con tremore intenzionale e atassia degli arti omolaterali con lateropulsione; • le fibre simpatiche discendenti con sindrome di Bernard-Horner.
E. Occlusione dell’arteria cerebrale posteriore. La sindrome conseguente all’occlusione completa dell’ar-
G. Occlusione dell’arteria basilare. L’occlusione completa dell’arteria basilare alla sua origine è un
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evento non frequente dato il calibro del vaso: di regola è preceduto da frequenti TIA nel suo territorio. Il quadro clinico nella maggior parte dei casi è ad inizio brusco ed è caratterizzato da sintomi che esprimono il coinvolgimento esteso delle strutture del tronco encefalico. Dominano il quadro i disturbi della coscienza-vigilanza che possono giungere al coma profondo o al mutismo acinetico. Imponenti i disturbi di moto che nella loro espressione più grave possono manifestarsi con una quadriplegia ipertonica con coinvolgimento dei nervi cranici. Una forma particolare è quella caratterizzata dalla plegia completa del distretto cranico e somatico con l’eccezione dei nervi oculomotori: “locked-in syndrome” (sindrome da incarceramento). Sono inoltre presenti sintomi neurovegetativi a carico della respirazione, della termoregolazione, del ritmo cardiaco che costituiscono un ulteriore elemento di gravità del quadro clinico. Accanto alle forme acute che comportano un rammollimento esteso del tronco encefalico si possono osservare, raramente, sindromi parziali a più lenta instaurazione con prognosi meno sfavorevole allorché, attraverso il circolo di Willis, si instaurino supplenze che possano compensare, in varia misura, i deficit irrorativi. Le occlusioni dei rami brevi che si staccano dall’arteria basilare danno luogo a una serie di sindromi caratterizzate da segni omolaterali all’emitronco leso (che traducono la lesione a carico dei nuclei e dei centri ivi localizzati) e controlaterali (che traducono la lesione di vie nervose destinate ad incrociarsi caudalmente alla lesione). Queste sindromi alterne sono nel complesso poco frequenti soprattutto quelle a patogenesi vascolare (più frequentemente la patogenesi è infiammatoria o tumorale). Fra le numerose sindromi descritte ricordiamo le seguenti. • Sindromi pontine – Sindrome di Millard-Gubler: paralisi periferica del VII omolaterale, emiplegia controlaterale – Sindrome di Foville: paralisi dello sguardo laterale, emiplegia controlaterale – Sindrome di Babinski-Nageotte: emisindrome cerebellare e turbe della deglutizione omolaterali, emiplegia controlaterale. • Sindromi mesencefaliche – Sindrome di Weber: paralisi omolaterale del III, emiplegia controlaterale – Sindrome di Benedikt: paralisi omolaterale del III, movimenti abnormi controlaterali – Sindrome di Claude: paralisi omolaterale del III, emisindrome cerebellare controlaterale. Attualmente, nella pratica clinica, viene frequentemente utilizzata la classificazione Oxfordshire Community Stroke Project (OCSP) (Tab. 84.6). Nota più comunemente come classificazione Oxford, essa distingue quattro sindromi cliniche in accordo a segni da deficit del circolo carotideo o da circolo vertebrobasilare, ed anche in funzione delle caratteristiche anatomo-funzionali delle arterie, distinguendo pertanto vasi di piccolo calibro, quali le arterie perforanti (< 400 m), e i
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Tabella 84.6 - Classificazione Oxfordshire Community Stroke Project (OCSP). SINDROME
CARATTERISTICHE CLINICHE
LACI (LACS, Lacunar Syndromes): ictus/TIA senza afasia, disturbi visuospaziali, compromissione definita del tronco encefalico e della vigilanza; conseguenti ad occlusione di arterite perforanti profonde.
– Ictus motorio puro: deficit motorio metà faccia/arto superiore/arto inferiore – Ictus sensitivo puro: deficit sensitivo metà faccia/arto superiore/arto inferiore – Ictus sensitivo-motorio: ictus sensitivo + ictus motorio – Emiparesi atassica: sindrome atassia omolaterale + paresi crurale (sindrome mano goffa-disartria)
TACI (TACS, Total Anterior Circulation Syndromes): ictus/TIA con disturbo motorio, visivo, delle funzioni corticali superiori +/– alterazioni dello stato di coscienza, conseguenti ad occlusione completa dell’arteria carotide interna.
Presenza di tutti i seguenti segni: emiplegia controlaterale alla lesione + emianopsia controlaterale alla lesione + disturbo di una funzione corticale superiore, variabilmente associati a ipoanestesia. Spesso concomita un disturbo della vigilanza
PACI (PACS, (Partial Anterior Circulation Syndromes): disturbi ben definiti delle funzioni corticali superiori con deficit meno estesi dei TACS e/o deficit sensitivo-motorio che non soddisfa criteri LACI. A seconda dei rami della carotide interna coinvolti si possono identificare una delle seguenti presentazioni cliniche:
– Deficit senstivo-motorio + emianopsia – Deficit sensitivo-motorio + compromissione di una funzione corticale – Compromissione di una funzione corticale + emianopsia – Deficit sensitivo-motorio meno esteso di sindrome lacunare – Deficit di funzione corticale superiore isolata
POCI (POCS, Posterior Circulation Syndromes)
– Paralisi di almeno un nervo cranico + deficit motorio e/o sensitivo controlaterale – Deficit motorio e/o sensitivo bilaterale – Disturbo coniugato di sguardo (orizzontale o verticale) – Disfunzione cerebellare senza deficit vie lunghe (come nell’emiparesi atassica) – Emianopsia isolata o cecità corticale
grandi vasi. La OCSP ha dimostrato buona sensibilità, specificità e valore predittivo positivo o negativo delle sindrome cliniche giudicate in rapporto all’esame neuroradiologico. Emorragie cerebrali Nella definizione di ictus dell’OMS sono inclusi, oltre all’ictus ischemico ed emorragico, anche l’emorragia cerebrale primaria ed alcuni casi di emorragia suba-
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racnoidea (ESA), anche se la definizione non si adatta all’ESA nel caso in cui questa si manifesti con cefalea e rigor nucalis. La sindrome acuta che si instaura all’atto dell’emorragia è un evento drammatico e tumultuoso che riflette la grave sofferenza globale dell’encefalo più che la sede dell’emorragia. Il quadro clinico è molto simile a quello che si osserva nell’ictus conseguente ad episodio tromboembolico. Non sempre, d’altra parte, uno spandimento emorragico è di entità tale da indurre danni parenchimali così cospicui e devastanti da causare, in un gran numero di casi, la morte del paziente già nei primi giorni, e di consentire in pochi altri la sopravvivenza al prezzo di esiti invalidanti gravi. Sia nel caso dell’emorragia degli ipertesi che negli ematomi in sede atipica, il danno può essere più limitato e consentire una progressione meno invalidante sia per un’evoluzione naturale dell’affezione, sia per l’effetto di appropriati interventi terapeutici (medici e/o chirurgici). Anche per gli eventi emorragici si possono distinguere sindromi cliniche distrettuali. A. Emorragia capsulare. La particolare suscettibilità delle arterie lenticolostriate alla rottura sta alla base della frequenza con cui l’emorragia cerebrale interessa questo distretto encefalico. Il quadro clinico è contraddistinto dall’esordio acuto, a cielo sereno, con manifestazioni focali e generali che traducono, oltre alla distruzione del parenchima nervoso sotto la spinta del sangue stravasato, anche la concomitante presenza di una componente edematosa ed il possibile estendersi dell’ematoma a zone adiacenti (in direzione rostrale, caudale e nei ventricoli laterali). I disturbi della coscienza sono sempre presenti e realizzano, nella maggioranza dei casi, un coma profondo. Coesistono alterazioni neurovegetative soprattutto a carico della respirazione che condizionano un ingombro delle vie respiratorie. Anche le funzioni cardiocircolatorie appaiono gravemente compromesse, talora con l’instaurarsi di valori pressori elevatissimi, talora con una marcata ipotensione. Vi è di solito un’ipertermia. Gli sfinteri sono di regola incontinenti. La sindrome capsulare, che comporta un’emiplegia flaccida e un’emianestesia globale massiccia controlaterale, può essere nella fase iniziale di evidenza non immediatamente palese in un contesto di dissoluzione totale delle funzioni di coscienza, ma si rivelerà, nei soggetti che sopravvivono, dopo qualche giorno con le caratteristiche classiche della sindrome piramidale (ipertonia, accentuazione dei riflessi osteo-tendinei, segno di Babinski). Spesso si osserva rotazione del capo e dei globi oculari verso il lato dell’emisfero leso. Nelle lesioni dell’emisfero dominante (ed allorché le condizioni del paziente consentano un’opportuna semeiotica) si evidenzia un’afasia globale. L’invasione ventricolare è contraddistinta dalla particolare gravità dei disturbi della coscienza e delle funzioni neurovegetative. Il paziente appare in preda ad un ipertono generalizzato su cui si iscrivono episodi di iperestensione del tronco e degli arti con intrarotazione degli arti superiori (crisi di decerebrazione).
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B. Emorragia talamica. L’affermarsi delle tecniche neuroradiologiche ha permesso di stabilire come questa sede di emorragia sia piuttosto frequente. La minor estensione del versamento emorragico fa sì che il disturbo della coscienza all’esordio sia meno grave. Nella fase di regressione si evidenziano i segni della lesione talamica (ipoestesia-iperpatia; emianopsia omonima controlaterale) e del coinvolgimento marginale della capsula interna (emiparesi). C. Emorragie del tronco encefalico. Gli ematomi del tronco si localizzano soprattutto a livello del ponte e, assai più raramente, a livello bulbare e/o mesencefalico. La sintomatologia dell’ematoma pontino consiste essenzialmente in disturbi della coscienza accompagnati da alterazioni neurovegetative (della funzione cardiorespiratoria, della termoregolazione con iperpiressia). I disturbi di moto coinvolgono il fascio piramidale bilateralmente (tetraplegia) e l’oculomozione intrinseca ed estrinseca (spiccata miosi). Negli ultimi tempi si sono descritti ematomi meno estesi con sintomatologia parcellare e a prognosi meno severa. D. Emorragia cerebellare. È un evento non infrequente nell’ambito delle emorragie parenchimali, la cui eziologia, oltre alla rottura delle arterie perforanti in soggetti ipertesi, include anche la possibilità di rottura di malformazioni congenite o tumorali (emangioblastoma). La sintomatologia esprime sia la distruzione del parenchima cerebellare, sia la sofferenza di strutture viciniori come il tronco encefalico, sia la sofferenza generale dell’encefalo a causa dell’ipertensione endocranica. Nelle forme acute il quadro clinico è dominato dal disturbo importante della coscienza che può apparire all’esordio o instaurarsi entro poche ore, preceduto da cefalea occipitale, vomito e disturbi atassici. Coesistono turbe della respirazione, emiplegia controlaterale, paralisi di sguardo. Nelle forme a più lento esordio si fa più evidente la sintomatologia cerebellare emisferica che si aggiunge alla paralisi di sguardo e all’emiplegia controlaterale. E. Emorragia subaracnoidea. È probabilmente la più frequente malattia cerebrale a patogenesi emorragica. Almeno nella metà dei casi essa è causata dalla rottura di un aneurisma sacculare, in un numero consistente di casi (circa il 10%) la rottura vasale si realizza nell’ambito di una malformazione arterovenosa (MAV) e nel 15% dei casi in soggetti con arteriosclerosi e ipertensione al di fuori di una patologia malformativa congenita. Fra le eziologie meno comuni ma non infrequenti, ricordiamo i traumi cranici, le trombosi delle vene corticali (specie nel puerperio), le alterazioni della coagulazione (leucemia, anemia aplastica, emofilia, l’uso di anticoagulanti, ecc.). Vi sono sostanziali differenze circa l’età media di insorgenza dell’emorragia subaracnoidea a seconda delle eziologie considerate. La massima incidenza si ha per la rottura di una MAV tra i 30-40 anni, per la rottura di un aneurisma sacculare tra i 40 e i 55 anni e nelle fasce di età superiori per emorragie nei soggetti arteriosclerotici e ipertesi. Il quadro
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clinico dell’emorragia subaracnoidea esordisce di solito in modo improvviso senza prodromi tranne nei casi in cui l’aneurisma o la malformazione siano di volume tale da produrre sintomi “a focolaio”. Questa evenienza è nel complesso poco frequente (ma non eccezionale) nel caso degli aneurismi sacculari. Questi talora, soprattutto quelli a carico della carotide interna, possono raggiungere volumi cospicui ed essere causa di compressione di strutture adiacenti (sindrome del seno cavernoso con sofferenza dei nervi cranici III-IV-VI e branca oftalmica del V; aneurismi sopraclinoidei con sofferenza del chiasma o del nervo ottico). Più comune (circa la metà dei casi) la possibilità che una MAV dia luogo a sintomi prodromici: questi consistono in crisi epilettiche focali, cefalee, episodi confusionali e deficit motorio-sensitivi all’emisoma controlaterale. Il sintomo principale del sanguinamento subaracnoideo è costituito dalla cefalea intensa e brutale estesa a tutto il cranio ma talvolta localizzata in regione frontale ed altre volte irradiantesi lungo la spina dorsale. I segni meningei sono quasi sempre presenti con rigidità nucale, segni di Kernig e di Brudzinski. In almeno un quarto dei casi si possono evidenziare emorragie retiniche: questo sintomo peggiora la prognosi dell’emorragia subaracnoidea. Con frequenza variabile si evidenziano segni di sofferenza vegetativa: episodi ipertensivi, iperpiressia, alterazioni elettrocardiografiche. L’emorragia subaracnoidea quale che sia la sua eziologia (ma soprattutto per rottura di aneurisma) ha una prognosi severa con più del 20% di mortalità entro la prima settimana e del 50% entro il primo mese. Particolarmente temibile è la possibilità di un nuovo sanguinamento (evento frequente tra il 5° ed il 15° giorno) che recenti statistiche indicano aver luogo nel 70% dei pazienti entro un anno dal primo episodio. Il rischio di sanguinamento è maggiore per gli aneurismi della comunicante anteriore, seguiti da quelli della carotide interna e della cerebrale media. Un altro elemento da considerare è la possibilità che lo spasmo vascolare cerebrale conseguente all’emorragia (è questo uno dei pochissimi eventi in cui può verificarsi uno spasmo vascolare cerebrale) induca rammollimenti a distanza con comparsa di segni clinici “a focolaio”. Una complicanza non rara dell’emorragia subaracnoidea è l’instaurarsi di un idrocefalo normoteso entro pochi giorni dall’emorragia. Esso è causato dal blocco delle cisterne della base per effetto del sangue stravasato, con conseguente blocco della circolazione e del riassorbimento del liquor. Il quadro clinico corrispondente è caratterizzato da turbe della vigilanza, incontinenza sfinterica, difficoltà alla deambulazione. Una volta diagnosticata questa forma, si impone un intervento di derivazione del liquor che, se eseguito tempestivamente, consente la regressione più o meno completa della sintomatologia. Sindromi speciali A. Vasculiti. Le vasculiti sono da tenere in considerazione in caso di ictus ischemico o emorragico in pazienti giovani, con ictus ricorrenti, con quadri di encefalopatia, con eventi neurologici multifocali o mononeuriti multiple, o con segni e sintomi sistemici. Altre
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manifestazioni di vasculiti cerebrali includono cefalea, crisi epilettiche, deterioramento cognitivo. Si distinguono vasculiti primitive del sistema nervoso centrale e vasculiti secondarie associate a malattie infettive, malattie sistemiche, neoplasie e indotte dall’uso di farmaci o droghe. Le forme primitive possono insorgere ad ogni età, anche se il picco massimo di incidenza è nella IV-V decade. I sintomi più comuni sono la cefalea, che si presenta in più del 60% dei pazienti, spesso accompagnata da nausea e vomito e con remissioni spontanee, gli eventi cerebrovascolari acuti, disturbi cognitivi, disturbi della vigilanza, crisi comiziali, sintomi sistemici quali febbre e calo ponderale. La malattia si può presentare come una sindrome meningitica cronica o con un quadro di interessamento acuto del SNC. La prima è più frequente nei maschi, è caratterizzata da una storia di cefalea che persiste da qualche mese, seguita da segni neurologici focali e non-focali intermittenti. Se non diagnosticata si instaurano quindi un decadimento cognitivo e alterazioni dello stato di coscienza. La seconda forma è più frequente nel sesso femminile e tipicamente si manifesta con cefalea intensa e ictus in una persona sino ad allora totalmente asintomatica. La diagnosi si basa sulla biopsia cerebrale, sull’esame del liquor cerebrospinale, sulle indagini neuroradiologiche e sull’esclusione delle altre cause note di vasculite. La diagnostica di laboratorio spesso è completamente normale; anche la velocità di eritrosedimentazione è normale in più di un terzo dei pazienti. Praticamente tutte le vasculiti sistemiche possono essere associate a coinvolgimento del SNC con sindromi ictali. Tra le connettiviti sistemiche, quadri ictali sono più frequenti nel LES, mentre sono più rari nell’artrite reumatoide, nella sindrome di Sjögren e nella sclerosi sistemica progressiva, dove è più frequente il coinvolgimento del sistema nervoso periferico. Considerazione particolare merita l’arterite temporale (arterite a cellule giganti) perché coinvolge il sistema nervoso centrale nella totalità dei casi e soprattutto perché una pronta diagnosi seguita da una tempestiva terapia può evitare al paziente esiti gravissimi. Clinicamente la malattia si presenta con una cefalea spiccata, localizzata di regola alla regione temporale che è dolente alla palpazione e dove il tronco arterioso appare prominente, di aumentata consistenza e talora non pulsante. Nei pazienti (ricordiamo che la donna è colpita di preferenza con un rapporto 2:1) è presente una sintomatologia generale caratterizzata da malessere, febbricola, dolore mandibolare alla masticazione (claudicatio masticatoria), anoressia, dolori muscolari diffusi (si rileva spesso l’associazione con la polimialgia reumatica). Il pericolo incombente nel paziente con arterite temporale è la cecità per occlusione di una o di entrambe le arterie oftalmiche, che si instaura improvvisamente o è talora preceduta da episodi di amaurosis fugax. Fondamentali per la diagnosi i dati ematologici che evidenziano quasi sempre un marcatissimo aumento della VES e, meno costantemente, un aumento delle -2-globuline e del fibrinogeno del siero. La positività dell’infiltrato infiammatorio all’esame bioptico
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della parete arteriosa consente naturalmente una diagnosi formale, ma la sua negatività non esclude la diagnosi. Questa affezione è efficacemente curata con corticosteroidi a forti dosi, per esempio prednisone 50 mg al dì. L’efficacia del trattamento può essere controllata seguendo i valori della VES che normalmente ritornano nei limiti della normalità entro qualche mese: è importante non sospendere troppo presto il trattamento per evitare ricadute (documentabili con un aumento della VES). Solo la tempestività dell’intervento terapeutico può evitare la catastrofe della cecità che, una volta instauratasi, non è reversibile. Per questo la somministrazione di corticosteroidi è consigliabile nel caso di una persona anziana che lamenta cefalea temporale intensa ed ha una VES molto elevata, ancora prima della biopsia dell’arteria.
E. Sindrome pseudobulbare. La sindrome pseudobulbare è conseguenza dell’interessamento bilaterale dei tratti cortico-bulbari che produce una paralisi spastica bulbare. Generalmente i pazienti hanno sofferto in passato di precedenti eventi cerebrovascolari che hanno danneggiato un fascio corticonucleare. Dato che i nuclei bulbari sono innervati da fibre provenienti da ambo i lati, un coinvolgimento unilaterale è spesso clinicamente silente. Un secondo ictus a carico del tratto cortico-bulbare controlaterale diventa a questo punto sintomatico. I sintomi tipici sono la disfagia, la disfonia, la disartria, spesso associati a paralisi della lingua o della muscolatura facciale. I muscoli interessati non sono atrofici e non presentano fascicolazioni; i riflessi in ambito cranico sono accentuati. Spesso viene perso il controllo emotivo con riso e pianto spastico.
B. Dissecazione. È generalmente, ma non sempre, preceduta da un evento traumatico al collo o da un movimento di rotazione/iperestensione (vedi Eziopatogenesi). Spesso il paziente riferisce dolore al viso, nella zona periorbitaria, al collo. Va ricercata attentamente una sindrome di Horner omolaterale alla dissecazione della carotide interna, conseguente all’interessamento delle fibre simpatiche che corrono intorno alla parete del vaso. Possono esservi associati anche paralisi dei nervi cranici inferiori, in particolare l’ipoglosso, da compressione diretta da parte della parete ingrossata della carotide interna o da danno ischemico. Questi sintomi possono precedere l’insorgenza dell’ischemia cerebrale di ore o giorni. Le dissezioni possono avvenire, anche se più raramente, a livello intracranico e presentarsi con i sintomi classici di un’ischemia cerebrale nel territorio di irrorazione del vaso colpito o con i sintomi di un’emorragia subaracnoidea da fissurazione del vaso dissecato.
F. Demenza vascolare. Grazie al continuo affinarsi delle tecniche di valutazione cliniche e strumentali dei pazienti e alle migliori conoscenze sulla patogenesi delle demenze in generale, la definizione di demenza vascolare è andata via via cambiando negli anni, sino quasi a contestarne l’esistenza come entità a sè stante. La prima distinzione tra demenza di Alzheimer (AD), quindi su base degenerativa, e demenza vascolare su base aterosclerotica risale al 1899. Nel 1974 è stato introdotto il termine di demenza multinfartuale, successivamente sostituito con il termine di demenza vascolare. Da un punto di vista eziopatogenetico si distinguono numerosi sottotipi: lieve deficit cognitivo su base vascolare; demenza multinfartuale; demenza vascolare conseguente ad un singolo infarto in posizione strategica; demenza vascolare associata a stato lacunare; demenza vascolare conseguente a patologia emorragica; demenza mista (combinazione di AD e demenza vascolare). In particolare, l’associazione di AD e lesioni vascolari sembra molto più frequente di quanto ipotizzato in passato. Il rischio di sviluppare AD sembra più elevato in pazienti portatori di fattori di rischio cardiovascolari, quali ipertensione, diabete, arteriopatia periferica e fumo. Evidenze recenti suggerirebbero che la patologia vascolare indurrebbe l’insorgenza di entrambe le patologie dementigene. Parallelamente, l’allele 4 dell’apolipoproteina E, notoriamente associato all’AD, aumenterebbe il rischio di AD nei pazienti che sopravvivono ad un ictus e aumenterebbe il rischio di sviluppare un’angiopatia amiloidea cerebrale nei pazienti con AD. Pertanto, nei soggetti anziani, molti casi di demenza sono conseguenti all’effetto cumulativo delle due patologie. La demenza vascolare rappresenta la seconda causa più frequente di demenza, dopo l’Alzheimer, con una prevalenza nei soggetti sopra i 65 anni che varia dall’1,2 al 4,2% a seconda dei paesi analizzati. Lo studio ILSA in Italia riporta una prevalenza del 4,2% e una netta prevalenza nel sesso maschile Da un punto di vista clinico è utile distinguere forme a prevalente coinvolgimento corticale e forme sottocorticali. Nelle forme corticali l’esordio è acuto e l’andamento a gradini. I deficit neurologici sono conseguenti al territorio colpito. Un’occlusione dell’arteria cerebrale po-
C. Ictus ed emicrania. Gli infarti cerebrali che complicano l’emicrania sono principalmente corticali ed interessano il territorio di distribuzione della PCA. L’infarto emicranico si presenta con episodi ricorrenti di dolore pulsante unilaterale ad intensità crescente associato a fenomeni visivi stereotipati che si verificano in entrambi i campi visivi simultaneamente, in uno dei quali la perdita di vista diventa permanente. D. CADASIL (arteriopatia cerebrale autosomica dominante) - La malattia è caratterizzata da una storia di emicrania e dalla comparsa precoce, tra i 30 e i 60 anni, di episodi cerebrovascolari che progrediscono verso la demenza. La RM dell’encefalo mostra un quadro di leucoencefalopatia periventricolare, associata ad infarti a carico della sostanza bianca, gangli della base e troncoencefalo; tipico è il coinvolgimento della capsula esterna. Un sottotipo di emicrania nota come emicrania emiplegica familiare caratterizzata da ipostenia transitoria o franche paralisi durante l’aura è associato a mutazioni dissenso nel gene CACNA1A che codifica per una subunità di un canale del calcio voltaggio-dipendente. Entrambi i geni sono localizzati sul cromosoma 19p13.
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steriore si manifesta con amnesia, allucinazioni visive e deficit visivi, confusione. Afasia o disturbi visuospaziali, a seconda del coinvolgimento dell’emisfero dominante o non dominante, sono associati a ictus nel territorio dell’arteria cerebri media. Infarti nel territorio della cerebrale anteriore sono caratterizzati da abulia, aprassia e, talora, afasia. Circa il 60% dei pazienti presenta sintomi depressivi e l’8-12% crisi epilettiche. Nelle forme sottocorticali l’esordio è più frequentemente subacuto e più spesso il deterioramento cognitivo è progressivo. All’esame neurologico prevalgono i segni pseudobulbari ed extrapiramidali. Da un punto di vista cognitivo predominano l’apatia e l’inerzia. In più di un terzo dei pazienti è presente un’ideazione delirante.
Diagnosi differenziale Poiché i sintomi di un TIA regrediscono in circa il 70% dei pazienti entro 60 minuti, e, comunque, entro 24 ore per definizione, la diagnosi di TIA si basa spesso solo sull’anamnesi e anche neurologi esperti dimostrano una variabilità interosservatore considerevole nella diagnosi TIA. Questa variabilità dipende non solo dalla difficoltà della raccolta anamnestica, ma anche dall’incertezza nella definizione di alcuni aspetti del TIA, quali, per esempio, la durata minima per cui un deficit neurologico focale possa essere ancora considerato a genesi vascolare. Data l’alta possibilità di incorrere in errori diagnostici è bene, oltre a valutare con attenzione che siano rispettati i criteri diagnostici di evento cerebrovascolare, tenere in considerazione le più frequenti diagnosi differenziali, di cui alcune serie e potenzialmente trattabili, tra cui l’aura emicranica, le crisi comiziali, l’amnesia globale transitoria, l’ipoglicemia, una poussè di sclerosi multipla, disturbi labirintici o disturbi dei nervi periferici. Nell’aura emicranica i sintomi sono generalmente positivi e spesso visivi, la loro progressione si realizza nell’arco di minuti e spesso concomitano fono e fotofobia e nausea. Al sintomo neurologico segue spesso l’attacco emicranico anche se è possibile l’aurea sine emicrania. Infine, l’emicrania generalmente colpisce pazienti giovani, con una storia familiare o personale di attacchi emicranici. Nella crisi comiziale i sintomi sono positivi con progressione nell’arco di circa un minuto. Talvolta il paziente si presenta con sintomi negativi (come la paralisi di Todd postcritica), ma in tal caso il fenomeno è stato preceduto da una crisi parziale o generalizzata. In alcuni casi, la diagnosi differenziale rimane difficile, per esempio laddove la crisi si manifesta con una sospensione transitoria delle capacità espressive. In tal caso, un concomitante distacco dalla realtà, l’amnesia per l’evento o il ripetersi di episodi sempre con analoghe caratteristiche può far propendere per una diagnosi di epilessia. Infine, un aiuto alla diagnosi differenziale può venire da un’anamnesi positiva per attacchi epilettici. Le lesioni strutturali intracraniche (tumori) generalmente sono responsabili di deficit neurologici ad evoluzione progressiva nell’arco di giorni. Sintomi transitori possono essere espressione di un sanguinamento intralesione, di furto
vascolare, di incarceramento di vasi o di una crisi comiziale. L’amnesia globale transitoria è un disturbo globale della memoria caratterizzato da amnesia anterograda (impossibilità a memorizzare alcuna informazione nuova) e retrograda (incapacità a rievocare episodi accaduti nelle ultime settimane o anni). Rimangono indenni il senso di identità, il linguaggio, le funzioni visuospaziali, ecc. Nella maggioranza dei casi l’eziopatogenesi è sconosciuta ma va considerata nella diagnosi differenziale degli eventi cerebrovascolari. Spesso anche disturbi metabolici possono mimare eventi vascolari, in particolare l’ipoglicemia. Quest’ultima si verifica più tipicamente in pazienti con anamnesi positiva per diabete, generalmente di notte, dopo esercizio o dopo digiuno. La glicemia torna rapidamente normale e quindi va ritestata nelle stesse condizioni che hanno scatenato l’evento. Le poussée di sclerosi multipla generalmente si verificano in pazienti giovani, sono caratterizzate dalla concomitanza di sintomi positivi e negativi e si associano evidenze subcliniche di altri distretti interessati. La vertigine può essere un sintomo di disfunzione labirintica del nervo vestibolare, del nucleo vestibolare nella fossetta laterale del bulbo, delle radiazioni vestibolari che connettono il nucleo alla corteccia vestibolare all’estremità posteriore dell’insula. La vertigine di origine centrale ha carattere rotatorio. Ma soprattutto sono i segni associati che aiutano a distinguere una vertigine centrale da una vertigine da lesione delle strutture periferiche. Una vertigine centrale è solitamente accompagnata da sintomi e segni di interessamento di altre strutture del tronco; non vi sono disturbi dell’udito. La vertigine centrale è continua. Le vertigini periferiche sono spesso accessuali, scatenate da cambiamenti di posizione e associate a disturbi dell’udito. Infine, anche mononeuropatie periferiche vanno tenute in considerazione, seppure i disturbi siano generalmente precipitati da una postura forzata o da un movimento e un attento esame obiettivo dovrebbe rivelarne la distribuzione tronculare. La diagnosi di ictus, seppure più semplice, deve comunque sempre tenere in considerazione la possibilità di alcune diagnosi differenziali, tra cui principalmente le lesioni strutturali intracraniche quali tumori, processi infettivi/infiammatori, malformazioni vascolari. Nella diagnosi differenziale dell’ictus viene in grande aiuto anche la diagnostica neuroradiologica.
Scale di valutazione La necessità di un’attenta misurazione del danno neurologico rende imperativo l’utilizzo di scale appropriate alla valutazione del paziente cerebrovascolare, ampiamente validate, affidabili, riproducibili e sensibili a minime variazione delle condizioni neurologiche. Queste scale vengono impiegate sia nella valutazione del paziente acuto, con l’obiettivo di quantificare il danno neurologico per selezionare i pazienti che meglio possono beneficiare di alcune terapie o in cui ne sia controindicato l’utilizzo, sia nel monitoraggio del paziente nella fase subacuta e riabilitativa per quantificare l’effi-
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cacia di interventi terapeutici medici o riabilitativi e quantificare il danno funzionale residuo.
Il BI misura solo funzioni molto basilari e non prevede una valutazione del deficit cognitivo.
A. National Institute of Health Stroke Scale (NIHSS). Comprende 11 voci in cui viene valutata la migliore prestazione osservata e non la prestazione potenziale. Il paziente con nessun deficit neurologico ha un punteggio di 0, mentre il punteggio massimo è di 34. I suoi principali vantaggi sono la rapidità di esecuzione al letto del paziente e la sua elevata validità di criterio nel predire la dimensione della lesione. Per tale motivo la NIHSS è stata validata e ampiamente utilizzata in numerosi studi clinici sulla terapia dello stroke. Il suo principale svantaggio consiste nella sottorappresentazione degli item che testano funzioni del troncoencefalo, risultando quindi poco sensibile per la valutazione dei pazienti affetti da sindromi del circolo posteriore.
Entrambe le scale, ma soprattutto il BI, possono essere somministrate da operatori sanitari altri rispetto al neurologo; può essere sufficiente l’intervista di un familiare o assistente, anche telefonica.
B. Scandinavian Stroke Scale (SSS). È una scala a 9 voci, originariamente sviluppata per gli ictus nel territorio della cerebri media, che esprime sia un punteggio prognostico che a lungo termine. Il punteggio prognostico si avvale della valutazione dello stato di coscienza, la paralisi dello sguardo e l’ipostenia degli arti, mentre il punteggio a lungo termine prende in considerazione la forza degli arti, l’afasia, la paralisi facciale, l’orientamento e la deambulazione. Pazienti con punteggio di 40 o superiore hanno minori probabilità di recupero spontaneo; mentre il recupero è spontaneo nei pazienti con punteggio < 40. Il punteggio 40 è spesso usato come criterio di inclusione negli studi in fase acuta. Tra i vantaggi della SSS è la possibilità di testare la deambulazione, che rappresenta un importante elemento per valutare l’esito del paziente. Come la NIHSS, non valuta adeguatamente gli infarti del circolo posteriore. Vi sono inoltre scale deputate alla quantificazione della condizione funzionale del paziente post-Stroke che possono essere divise in scale di valutazione globale, volte ad un’ampia valutazione dello stato funzionale del paziente, come la modified Rankins Scale (mRS), e scale di valutazione della vita quotidiana (ADL) che prevedono un’analisi dettagliata delle attività di routine, come il Barthel Index (BI). C. modified Rankin Scale (mRS). Comprende una valutazione globale a 5 punti della funzione del paziente volta a misurare la quantità di assistenza necessaria al paziente per raggiungere vari livelli di funzionamento. Va da un punteggio di 0 nel paziente totalmente asintomatico al punteggio di 5 nel paziente con grave disabilità (allettato e totalmente dipendente). È stato successivamente aggiunto un grado 6 per i pazienti deceduti. D. Barthel Index (BI). Comprende 10 voci ponderate che misurano l’alimentazione, il fare il bagno, la pulizia personale, il vestirsi, il controllo della vescica, l’uso della toilette, il trasferimento da una sedia, la deambulazione e il salire le scale.
Esami di laboratorio e strumentali Come ampiamente ricordato la diagnosi di evento cerebrovascolare è fondamentalmente una diagnosi clinica, basata sull’obiettività neurologica e sull’attenta raccolta dell’anamnesi prossima. Anche alcuni elementi anamnestici remoti vanno sempre ricercati, la cui presenza può suffragare l’ipotesi diagnostica di evento vascolare. Tra questi vanno ricordati i classici fattori di rischio vascolare come età, sesso, ereditarietà e fattori familiari, ipertensione arteriosa, cardiopatie (FA, endocardite infettiva, stenosi mitralica, IMA esteso e recente), ipertrofia ventricolare sinistra, fumo di sigaretta, stenosi carotidea sintomatica, diabete mellito e un precedente episodio cerebrovascolare. A. Esami di laboratorio. Gli accidenti cerebrovascolari acuti costituiscono un gruppo assai eterogeneo sul piano fisiopatologico. Precisarne le cause e i meccanismi patogenetici costituisce una tappa fondamentale ai fini prognostici e terapeutici. Gli esami di laboratorio possono fornire indicazioni utili nel mostrare la presenza di fattori che predispongono ad eventi emorragici o ischemici ed inoltre forniscono indicazioni utili su fattori che possono influenzare l’evoluzione clinica. Gli accertamenti hanno quindi la funzione di contribuire alla diagnosi eziologia, di gestire al meglio il paziente nella fase acuta e di impostare correttamente la prevenzione secondaria. L’emocromo con formula consente di individuare alcune possibili cause ematologiche di ictus e di controllare che un’eventale anemia non complichi l’ischemia. Circa il 20% dei pazienti con poliglobulia è colpito da ictus ischemico. Le anemie acute da emorragia possono provocare un ictus da ipotensione arteriosa, in particolare infarti nei territori di confine. La trombocitopenia essenziale può pure comportare eventi ischemici a carico di piccoli vasi in circa il 10% dei casi. Le leucemie, infine, possono comportare sia eventi emorragici che eventi ischemici cerebrali. Di grande importanza è la ricerca di coagulopatie congenite o acquisite che possano comportare rischi di ischemia o emorragia; ricordiamo in particolare le coagulopatie vascolari disseminate acute e croniche che complicano certe neoplasie, come gli adenocarcinomi e i linfomi, essendo talvolta la prima manifestazione del tumore. Fondamentale è la ricerca dei prodotti di degradazione della fibrina. Il tempo di protrombina con determinazione dell’International Normalized Ratio (INR) è fondamentale nel caso il paziente sia un candidato alla trombolisi. L’iperviscosità del sangue, una condizione che si osserva in numerose affezioni, emoglobinopatie,
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sindromi mieloproliferative, disglobulinemie, ecc., può comportare la formazione di trombi nei piccoli vasi; è perciò importante determinare l’ematocrito, il fibrinogeno e la deformabilità dei globuli rossi. L’elettroforesi serica può rivelare una paraproteinemia che comporta un rischio accresciuto di emorragia cerebrale. Particolarmente nell’ictus giovanile deve essere sospettata una vasculite, il che richiede la determinazione della velocità di sedimentazione, la ricerca di anticorpi antinucleo e antifosfolipidi, o un’arterite. Le arteriti possono essere batteriche, parassitarie, virali o disimmuni. Nell’anziano la forma più frequente è l’arterite di Horton. La messa in atto di test specifici (come il test FTA-abs per la sifilide) è raccomandabile solo dopo che le tecniche di imaging abbiano orientato verso questa diagnosi. La determinazione della glicemia è importante sia perché il diabete è un importante fattore di rischio, sia perché la presenza di iperglicemia è un fattore prognostico negativo per un buon recupero dall’accidente cerebrovascolare. I livelli sierici di colesterolo e trigliceridi devono essere controllati in quanto costituiscono un importante bersaglio della prevenzione secondaria. B. Diagnosi cardiovascolare. Un elettrocardiogramma viene eseguito di routine per individuare infarti miocardici misconosciuti o aritmie cardiache, come la fibrillazione atriale, che predispongono all’ictus. L’ecocardiogramma è fondamentale per dimostrare la presenza di trombi o di condizioni predisponenti all’embolismo, come la pervietà del forame ovale o aneurismi di parete o dei setti. È preferibile l’esame transesofageo in quanto l’ecocardiogramma transtoracico non vede bene i trombi in orecchietta sinistra. C. Neuroradiologica. In un paziente con ictus la tomografia assiale computerizzata (TC) è l’esame fonda-
A.
mentale per discriminare tra lesione ischemica e lesione emorragica, anche se la risonanza magnetica (RM) è più sensibile ed accurata nel rivelare l’estensione del danno. Il ruolo principale della TC è legato alla rapidità d’esecuzione dell’esame e all’ampia disponibilità dell’apparecchiatura sul territorio. Gli infarti ischemici si rendono visibili alla TC 24-48 ore dopo l’esordio, tuttavia nelle prime 3-6 ore si possono vedere alcuni segni indiretti, come una maldefinizione del nucleo lenticolare (Fig. 84.1), la difficoltà nel distinguere la sostanza bianca dalla grigia, la scomparsa dei solchi, l’iperdensità del vaso occluso (Fig. 84.2) e nel caso di grossi infarti, uno spostamento delle strutture della linea mediana conseguenti all’edema. Nei giorni successivi l’area infartuata diviene ipodensa e se ne può apprezzare l’estensione, il che aiuta a definire il vaso interessato. Occorre ricordare che l’aspetto alla TC di un infarto è aspecifico, potendo essere confuso con lesioni infiammatorie o neoplastiche. Le correlazioni clinico-strumentali consentono però di risolvere ogni dubbio nella maggioranza dei casi. L’emorragia parenchimale è immediatamente visibile alla TC come un’area di iperdensità. L’area di iperdensità è abitualmente circondata da un’area di ipodensità dovuta all’edema e all’ischemia. In caso di trasformazione emorragica di un’area infartuata, l’iperdensità assume almeno inizialmente un aspetto serpiginoso immerso in un’area ipodensa; nelle fasi avanzate una trasformazione emorragica non è distinguibile da un’ematoma. La RM già nelle prime ore può mostrare un rigonfiamento della zona infartuata, mentre un’alterazione di segnale nelle immagini pesate in T2 si rende abitualmente evidente come un’area di iperintensità nelle immagini T2 pesate dopo 6-8 ore. La grande utilità della RM dipende dalla sua capacità di mostrare lesioni anche molto piccole e di rivelare con la tecnica della diffusione aree di alterato segnale già 1-6 ore dopo l’evento ischemico (Fig. 84.3). Un limite del-
B.
Figura 84.1 - TC testa di un infarto ischemico in fase acuta nel territorio delle arterie lenticolostriate di sinistra. (A) Sezione assiale eseguita entro 6 ore dall’ictus ischemico che evidenzia l’oscuramento del nucleo lenticolare. (B) Sezione assiale eseguita a 24 ore dall’ictus ischemico che mostra l’ipodensità del nucleo lenticolare.
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A.
B.
C.
Figura 84.2 - TC testa di un infarto ischemico in fase acuta nel territorio dell’arteria cerebrale media di destra. (A) Sezione assiale eseguita entro 6 ore che mostra il segno dell’iperdensità dell’arteria cerebrale media. (B) Sezione assiale più rostrale che mostra il “ribbon sign” precoce. (C) Sezione assiale eseguita a 24 ore dall’insorgenza dei sintomi che mostra un’ampia area di ipodensità nel territorio superficiale e profondo dell’arteria cerebrale media destra.
A.
B.
C.
Figura 84.3 - RM di un infarto ischemico in fase acuta nel territorio di un ramo corticale dell’arteria cerebrale media di destra. (A) Sezione assiale in densità protonica. (B) Sezione assiale pesata in T2. (C) Sezione assiale in diffusione che mostra una precoce restrizione della diffusione nell’area ischemica.
la tecnica di diffusione sta proprio nella sua sensibilità in quanto alterazioni della diffusione sono riscontrabili anche in pazienti con TIA, inoltre va ricordato che vi sono circa un 20% di falsi negativi. La RM di perfusione valuta invece lo stato del microcircolo; ne esistono due varianti, una che si avvale dell’iniezione di mezzo di contrasto, la seconda che si basa sulle proprietà del sangue in movimento e non richiede mezzo di contrasto. Alterazioni con la tecnica di perfusione sono visibili già dopo 4-6 ore. La zona di tessuto cerebrale che risulta ipoperfusa, ma non presenta alterazioni con la tecnica di diffusione, corrisponderebbe alla zona di penombra ischemica, suscettibile di un recupero se riperfusa (Fig. 84.4). La comparsa di un segnale correlato all’emorragia nelle immagini RM dipende dalle pro-
prietà paramagnetiche dei prodotti di degradazione dell’emoglobina. Nelle prime 24 ore la RM è normale o presenta alterazioni simili a quelle prodotte dall’ischemia. Dopo il primo giorno compare un’ipointensità nelle immagini pesate in T2 associata ad ipointensità nelle immagini pesate in T1. L’angiografia è la tecnica di elezione per esplorare il circolo intra- ed extracranico, ma è gravata da un 4% circa di morbilità. Trova raramente un’indicazione nell’ictus per il rischio di indurre un peggioramento del quadro clinico, ma può essere necessaria nel caso si intenda procedere con una trombolisi intrarteriosa (vedi oltre) o in caso di emorragia subaracnoidea. L’angiorisonanza consente in modo non invasivo di avere informazioni sulle arterie cerebrali di grande e medio cali-
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Perfusione
Diffusione
A.
B.
Figura 84.4 - RM encefalo di un infarto ischemico in fase acuta. (A) Sezione assiale in diffusione che evidenzia l’area ischemica. (B) Sezione assiale in perfusione che evidenzia l’area globale di ridotta perfusione. La differenza tra le due aree, definite come “diffusion-perfusion mismatch”, rappresenta l’area di penombra ischemica.
bro. Di grande utilità nel dimostrare una dissecazione arteriosa e alterazioni multiple di calibro delle arterie indicative di un processo infiammatorio. D. Ecografia doppler. Attualmente viene pressoché esclusivamente impiegata la tecnica duplex che fornisce allo stesso tempo informazioni sulla morfologia e sul flusso ematico. L’ultrasonografia doppler è utilissima nel valutare l’entità della stenosi dei grossi vasi, anche se un limite sta nell’impossibilità di discriminare tra stenosi serrata e occlusione. Consente inoltre di misurare lo spessore della parete e di valutare le caratteristiche della placca ateromatosa. È utilizzata principalmente per lo studio dei vasi del collo. L’esame doppler transcranico viene impiegato per valutare la presenza di stenosi della porzione intracranica della carotide interna, dell’arteria cerebrale media e dell’arteria basilare. L’esame doppler dovrebbe essere prescritto a tutti i pazienti ad alto rischio per vasculopatia cerebrale come strumento di screening delle stenosi significative (> 70%) subcliniche della biforcazione carotidea e come strumento di prevenzione secondaria. E. Elettroencefalografia. Il ruolo dell’elettroencefalogramma nell’ictus si è molto contratto con la disponibilità delle nuove tecniche di imaging; rimane tuttavia molto utile nel rilevare stati di male parziale in pazienti che presentino improvvisi peggioramenti del quadro clinico e in fase precocissima nel fornire indicazioni sull’organicità di quadri neurologici ictali di natura non chiara.
Terapia I grandi progressi nel campo delle neuroscienze, l’enorme sviluppo delle tecniche diagnostiche, l’identificazione di nuovi farmaci hanno drasticamente rivoluzionato l’approccio al paziente con ictus cerebri in fase acuta, in quanto hanno fornito nuovi insight nell’eziopatogenesi dell’evento ictale, hanno permesso di elucidare meglio i meccanismi di sviluppo del danno parenchimale e dell’instaurarsi del deficit neurologico e hanno messo a disposizione nuovi approcci terapeutici farmacologici, endovascolari, chirurgici. Pertanto l’ictus è un’urgenza medica che merita un ricovero immediato e un percorso diagnostico-terapeutico preferenziale in strutture ad elevata specializzazione, come ormai raccomandato dal documento di Helsinborg (Pan-European Consensus Meeting on Stroke Management, 1995) e da numerose linee guida. È ormai evidente come la gestione del paziente nelle prime ore dall’evento ictale sia determinante nel prevenire l’instaurarsi di un danno parenchimale permanente o nel limitarne l’estensione, influendo quindi in modo drastico sull’outcome funzionale. Una revisione sistematica della Cochrane Collaboration ha dimostrato la superiorità, in termini di miglior outcome e ridotta mortalità, dell’assistenza del paziente cerebrovascolare acuto in una stroke unit rispetto a reparti non dedicati. La stroke unit ideale è costituita da letti monitorati e gestita da un team multidisciplinare di medici, riabilitatori ed infermieri competenti e dedicati alle malattie vascolari. Inoltre, l’ospedale che riceve pazienti con ictus dovrebbe garantire con-
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sulenze neurologiche specialistiche da parte dello stroke team, consulenza cardiologica, diagnostica di laboratorio e TC disponibili in urgenza 24 ore su 24. Infine, la possibilità di accedere a diagnostiche più raffinate neurosonologiche, neuroradiologiche e cardiologiche e la disponibilità di competenze neurochirurgiche, di chirurgia vascolare, di intervenzionistica endovascolare, permette, anche in urgenza, di meglio definire natura e origine del danno cerebrale, impostare la migliore terapia disponibile per ciascun paziente, prevenire o curare eventuale complicanze. Il percorso ideale del paziente con ictus cerebri dovrebbe seguire un modello organizzativo ben definito sin dall’esordio dei sintomi, che minimizzi i tempi che intercorrono dalla comparsa dei primi disturbi alla presa in carico da parte di personale specializzato. È innanzitutto indispensabile una campagna di sensibilizzazione della popolazione con l’obiettivo di migliorare la conoscenza della malattia e dei suoi sintomi e di aumentare la consapevolezza dell’esistenza di interventi efficaci, come la trombolisi, nel migliorare la prognosi solo se eseguiti in urgenza. Inoltre è necessario mettere in atto degli interventi che velocizzino l’invio del malato presso la struttura sanitaria più vicina (e autorizzata all’esecuzione della trombolisi), per esempio tramite l’attivazione di percorsi preferenziali con il servizio di pronto intervento. Una volta giunto in Pronto Soccorso il paziente deve essere sottoposto ad immediata rilevazione dei parametri vitali, prelievo per la routine ematochimica, ECG, valutazione neurologica e TC della testa. Nei pazienti che giungono entro 3 ore dall’insorgenza dei sintomi, in presenza di un’obiettività neurologica quantificabile con un punteggio NIHSS < 25 e con segni TC precoci assenti o interessanti < 1/3 del territorio della cerebrale media è indicata la trombolisi con alteplase, dopo attenta esclusione delle controindicazioni. Quattro grandi studi multicentrici (ECASS, NINDS, ECASS II, ATLANTIS) e in particolare la loro metanalisi hanno dimostrato sicurezza ed efficacia dell’attivatore ricombinante del plasminogeno tissutale se utilizzato per via endovenosa negli ictus ischemici entro le 3 ore dall’esordio. Negli USA l’FDA ha approvato nel 1996 l’uso di alteplase nell’ictus ischemico acuto. Nel 2002 l’EMEA (European Agency for Evaluation of Medical Products) ha approvato l’utilizzo di alteplase nell’ictus ischemico acuto, condizionando la sua approvazione definitiva al completamento di due ulteriori studi, lo studio SITS-MOST (Safe Implementation of Thrombolysis in Stroke Monitoring System) e lo studio ECASS III (European-Australian Acute Stroke Study), Lo studio SITS-MOST, è uno studio post-marketing di fase IV di confronto di incidenza di emorragia intracranica sintomatica, mortalità ed indipendenza con quelle di una revisione sistematica di pazienti trattati con alteplase entro 3 ore in studi clinici randomizzati. Lo studio ECASS III è uno studio randomizzato verso placebo per valutare sicurezza ed efficacia di alteplase nella finestra terapeutica tra la 3a e la 4a ora. In Italia è stata recepita l’indicazione della CE nel 2003, per cui, attualmente, l’utilizzo di alteplase è am-
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messo secondo il protocollo SITS-MOST ed esclusivamente in strutture ospedaliere idonee identificate dalle regioni e provincie autonome. Il trattamento deve essere iniziato entro 3 ore dall’insorgenza dei sintomi dell’ictus e dopo avere escluso la presenza di emorragia intracranica mediante appropriate metodiche d’imaging. La terapia trombolitica non è indicata in pazienti con deficit neurologici lievi e in rapido miglioramento e negli ictus di grave entità sulla base di valutazioni cliniche (per es., NIHSS > 25) e/o di adeguate tecniche di imaging. In centri con provata esperienza di neuroradiologia intervenzionistica può essere presa in considerazione la somministrazione locoregionale di un trombolitico, in particolare in casi selezionati di ictus del circolo anteriore e nelle trombosi di basilare, con una finestra terapeutica sino alle 6 ore. Non vi sono invece trial controllati randomizzati che abbiano valutato sicurezza ed efficacia della terapia anticoagulante orale nell’ictus trombotico in fase acuta. In caso di ictus cardioembolico è indicata la terapia con anticoagulante orale, che va iniziata seguendo delle indicazioni ben precise, dettate dalla potenziale evoluzione emorragica naturale degli ictus cardioembolici e dal rischio iatrogeno. Negli ictus cardioembolici la trasformazione emorragica spontanea avviene nel 40% dei casi. La trasformazione più frequente è sottoforma di petecchie, tende a manifestarsi a 5-7 giorni dall’esordio e consegue al ritorno di sangue attraverso i vasi piali inizialmente compressi dall’edema. Non ha conseguenza sul piano clinico e non è influenzata dagli anticoagulanti. Invece, l’infarcimento emorragico in forma di ematoma, più importante clinicamente, può verificarsi spontaneamente nel 2% dei casi, si verifica di solito entro 48 ore e consegue alla riapertura del vaso occluso per lisi dell’embolo. Pertanto è indicato iniziare precocemente (dopo 48 ore) la terapia anticoagulante, qualora una TC abbia documentato una lesione minore del 30% dell’emisfero colpito senza trasformazione emorragica in forma di ematoma; è indicato procrastinare di almeno 14 giorni l’inizio del trattamento anticoagulante, escludendo i casi a rischio emboligeno molto elevato, qualora vi sia una lesione estesa alla TC a 48 ore, per il maggior rischio di trasformazione emorragica sintomatica. Infine tutti i pazienti in fase acuta in cui non sia indicata la terapia trombolitica o anticoagulante vanno trattati con antiaggreganti. Ad oggi solo l’ASA è stato testato in fase acuta in due grandi studi randomizzati in doppio cieco. La loro metanalisi indica che su 1000 pazienti trattati 12 evitano morte o grave disabilità, 7 evitano recidiva e 2 hanno complicanze emorragiche. Mediando l’esperienza dalla pratica cardiologica, studi clinici randomizzati sono in corso per valutare sicurezza ed efficacia dell’uso in fase acuta dell’antiaggregante piastrinico per via endovenosa abciximab, frammento Fab di anticorpo monoclonale che si lega in modo competitivo al recettore glicoproteina IIb/IIIa delle piastrine attivate impedendone l’aggregazione, con una finestra terapeutica maggiore del trombolitico classico (a 6 ore dall’esordio dei sintomi o a 3 ore dal risveglio con i sintomi).
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Eparina ed eparinoidi. Non vi sono indicazioni all’uso di eparina non frazionata, eparina a basso peso molecolare, eparinoidi. Sebbene l’ipertensione arteriosa sia frequente in pazienti con ictus acuto (>80%), il suo trattamento non deve generalmente essere iniziato precocemente e non vi sono indicazioni conclusive sulla sua gestione, soprattutto in considerazione della necessità di garantire, particolarmente nella fase acuta, un flusso di perfusione cerebrale sufficiente alla sopravvivenza della penombra ischemica. Oltre ad una preesistente ipertensione, valori pressori elevati possono essere associati a molteplici cause, quali il riempimento vescicale, il dolore, la risposta fisiologica all’ipossia cerebrale o l’ipertensione intracranica. Spesso i valori si normalizzano controllando queste variabili. In caso di ipertensione marcata persistente, la sua correzione deve avvenire con cautela evitando risposte ipotensive esagerate. Non esistono valori definitivi, ma sulla base delle evidenze e del consenso finora ottenuti, nell’ictus ischemico viene proposto l’uso di nitroderivati se PAD > 140 mmHg, l’uso di labetalolo o urapidil se PAS > 220 mmHg, PAD 120-140 mmHg o PAM > 130 mmHg. Se PAS 185-220 mmHg o PAD 105120 mmHg, il trattamento antipertensivo va rimandato se non coesistono insufficienza ventricolare sinistra, dissezione aortica o IMA. La terapia antipertensiva non è indicata se PAS < 185 mmHg o PAD < 105 mmHg. Il trattamento dell’edema cerebrale è indicato in caso di rapido deterioramento dello stato di coscienza, segni clinici di erniazione cerebrale o evidenze neuroradiologiche di edema con dislocamento delle strutture della linea mediana od obliterazione delle cisterne perimesencefaliche. Il trattamento farmacologico si avvale di diuretici in fase acuta e diuretici osmotici. Infine, la fase acuta dell’ictus rappresenta una delle condizioni cliniche che maggiormente richiede, e sicuramente beneficia di un attento monitoraggio e gestione assistenziale volti a prevenire o curare le eventuali complicanze, di cui le più frequenti sono le patologie cardiache (infarto miocardio, scompenso, aritimie), le infezioni, le trombosi venose profonde. Prevenzione primaria Il controllo dell’ipertensione arteriosa è indicato in tutti i pazienti, indipendentemente dall’età, dalla concomitanza di altri fattori di rischio cerebrovascolari e dal grado di ipertensione. Molte cardiopatie sono associate ad aumentato rischio di ictus e, per tale motivo, necessitano una terapia di profilassi primaria. In particolare, è indicata la terapia anticoagulante con INR tra 2 e 3 nei pazienti con infarti miocardici, se associati a riduzione della frazione di eiezione ventricolare sinistra e trombo in ventricolo sinistro, con valvulopatie, se associate a fibrillazione atriale, dilatazione atrio sinistro (diametro > 55 mm), insufficienza ventricolo sinistro o storia di embolie, nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare, in particolare se di età compresa tra i 65 e 75 anni o se in presenza di altri fattori di rischio tromboembolico (diabete, ipertensione arteriosa, scompenso cardiaco, dilatazione atriale sinistra, di-
MALATTIE NEUROLOGICHE
sfunzione sistolica ventricolare sinistra). La terapia anticoagulante è anche indicata nei pazienti con protesi valvolari meccaniche, mantenendo INR tra 2,5 e 3,5 e nelle protesi biologiche sino a tre mesi dall’impianto. Nonostante la formulazione di linee guida che hanno ricevuto consenso internazionale, in molti pazienti con cardiopatie la decisione di impostare una profilassi primaria, in particolare la scelta tra terapia anticoagulante e terapia antiaggregante, va fatta in base alla valutazione delle caratteristiche del singolo paziente e all’attenta analisi del rapporto rischio/beneficio della compliance. Il trattamento dell’ipercolesterolemia è indicato nei pazienti coronaropatici e nei pazienti ad alto rischio per patologie cerebrovascolari. Nei pazienti affetti da diabete mellito, di età superiore a 30 anni e con un fattore di rischio aggiuntivo (anamnesi familiare positiva per cardiopatia ischemica, fumo di sigaretta, ipertensione arteriosa, obesità, micro- o macroalbuminuria, ipercolesterolemia o ipertrigliceridemia) è indicata in prevenzione primaria la terapia antiaggregante. I pazienti con Ab antifosfolipidi asintomatici non richiedono terapia antitrombotica in prevenzione primaria. Ad oggi non esistono indicazioni definitive sull’efficacia della terapia antitrombotica in prevenzione primaria nei pazienti con placche dell’arco aortico. Prevenzione secondaria Nei pazienti con TIA o ictus non cardioembolico è indicata la terapia antiaggregante con ASA (100-325 mg al dì), ASA (50 mg al dì) associato a dipiridamolo (400 mg al dì), tienopiridine (ticlopidina alla dose di 500 mg al dì o clopidogrel alla dose di 75 mg al dì). Il profilo farmacologico del clopidogrel lo rende più raccomandabile della ticlopidina essendo meno associata ad effetti collaterali, in particolare la mielodepressione, a fronte però di un maggiore costo. Numerosi studi randomizzati sono in corso per valutare sicurezza ed efficacia di terapie con associazione di antiaggreganti verso la monoterapia o l’eventuale superiorità di un antiaggregante rispetto all’altro. Purtroppo gran parte di questi studi sono difficilmente comparabili tra di loro in quanto reclutano popolazioni eterogenee e confrontano dosi molto variabili di ASA. L’uso di anticoagulanti orali è indicato nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare e in alcuni altri casi selezionati di cardiopatie e valvulopatie emboligene. Il problema della compliance e del rischio emorragico impongono sempre un’attenta valutazione, caso per caso, dell’indicazione all’uso dell’anticoagulante. La terapia antitrombotica è consigliata nei pazienti con anticorpi antifosfolipidi che presentino in anamnesi pregressi episodi trombotici, sia arteriosi che venosi. Studi retrospettici indicherebbero la migliore efficacia della terapia anticoagulante, ma non vi è un consenso definitivo sul range terapeutico. Il trattamento dell’ipertensione è indicato per la prevenzione secondaria dell’ictus. Sempre maggiori sono i dati a favore dell’utilizzo di ACE-inibitori, in parti-
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colare perindopril associato al diuretico indapamide, in prevenzione secondaria anche in assenza di ipertensione arteriosa. Nei pazienti con pregressa patologia cerebrovascolare e cardiopatia ischemica, associati o meno ad aumento del colesterolo totale, è indicato l’uso di statine. Terapia chirurgica Due grandi studi internazionali (NASCET e ECST) hanno dimostrato l’efficacia dell’endoarterectomia (TEA) carotidea nella prevenzione secondaria dell’ictus in pazienti con stenosi carotidea sintomatica. Entrambi hanno dimostrato che la TEA carotidea è più efficace della terapia antiaggregante nei pazienti con stenosi carotidea tra il 70 e il 99% sintomatica; altrettanto è stata dimostrata la non efficacia nelle stenosi sintomatiche < 30%. Meno chiare e in attesa di ulteriori conferme dagli studi clinici in corso rimangono le indicazioni alla terapia chirurgica delle stenosi tra il 30 e il 69% sintomatiche e delle asintomatiche. Il maggiore contributo per quanto riguarda i pazienti asintomatici deriva dallo studio ACAS che ha incluso pazienti con stenosi tra il 60 e il 99% asintomatica. Dai risultati dello studio emerge una riduzione significativa del rischio di ictus o morte nei pazienti trattai chirurgicamente. Essendo lo studio non disegnato per analizzare i pazienti suddivisi per percentuale di stenosi, molti continuano a porre indicazione alla TEA carotidea in pazienti asintomatici quando il grado di stenosi sia superiore all’80%. Le linee guida dell’American Heart Academy (AHA) pongono indicazione all’intervento nei pazienti asintomatici con stenosi ≥ 60%, a fronte di un rischio chirurgico < 3% ed un’aspettativa di vita di almeno 5 anni. Generalmente la terapia chirurgica nei pazienti con ictus viene posticipata alla stabilizzazione del paziente.
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Scarsi sono i dati in letteratura sulle indicazioni alla TEA in urgenza, che per ora rimane indicata nei TIA in crescendo o negli ictus minori stabilizzati in presenza di stenosi congrua di grado elevato. Negli ultimi anni, l’angioplastica carotidea associata a posizionamento di stent è stata proposta nei pazienti ad alto rischio chirurgico, in particolare pazienti con ristenosi postchirurgiche, danni da raggi, inaccessibilità chirurgica della stenosi, ma la sua applicazione è stata limitata dall’elevato rischio di embolizzazione periprocedurale di frammenti dalla placca. Per ovviare a questo problema sono stati sviluppati sistemi di protezione con filtri che vengono posizionati distalmente. I dati ottenuti dagli studi randomizzati che hanno utilizzato questa metodica dimostrano che nei pazienti con stenosi di grado severo e ad alto rischio la procedura endovascolare non è inferiore all’endoarterectomia nella prevenzione di eventi vascolari (ictus ed IMA) e morte. Sono necessari ulteriori dati per ampliare l’applicabilità clinica di questa metodica. Riabilitazione Il 40% dei pazienti colpiti da ictus necessitano di un programma riabilitativo che prevede un intervento multidisciplinare, in relazione alle singole esigenze, del fisiatra, dello psicologo, del logopedista, del terapista occupazionale del pneumologo, del cardiologo, dell’internista e dell’assistente sociale. La rieducazione neuromotoria permette di affrontare tutte le principali invalidità motorie che si possono manifestare in questo tipo di pazienti come la rieducazione al controllo dei movimenti segmentari, l’allenamento all’equilibrio, la diminuzione dell’ipertono e il riallenamento cardiovascolare. L’intervento di riabilitazione neuropsicologica ha come obiettivo il recupero di uno o più deficit cognitivi e/o l’ottimizzazione compensatoria delle abilità residue.
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C A P I T O L O
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NEUROPATIE A. QUATTRINI, G. COMI
Premessa In questo capitolo sono prese in considerazione le malattie del sistema nervoso periferico. Le neuropatie periferiche comprendono un gruppo eterogeneo di patologie caratterizzate da alterazioni a carico del nervo periferico, relative alla sua struttura e/o funzione. Le cause determinanti l’insorgenza di una neuropatia periferica sono molteplici, come pure i quadri clinici evidenziati, tanto che sono state proposte varie classificazioni in conformità a parametri eziopatogenetici, istopatologici, anatomici e clinici. Importante dal punto di vista clinico la distinzione in polineuropatie (alterazioni diffuse e simmetriche dei tronchi nervosi) per lo più di origine tossica, metabolica, carenziale o infiammatoria; mononeuropatie (alterazioni dei singoli nervi) per lo più di origine traumatica; mononeuropatie multiple o multineuropatie (alterazioni di più nervi) per lo più di origine vascolare. In questi ultimi anni, lo sviluppo di nuove tecniche diagnostiche e la ricerca di nuovi approcci terapeutici hanno condotto a numerosi e rilevanti progressi nella conoscenza delle neuropatie periferiche. Tuttavia, per la maggior parte delle neuropatie periferiche, il trattamento è ancora lungi dall’essere soddisfacente e le misure preventive sono ancora di difficile attuazione. Attualmente, le cause di neuropatia possono essere suddivise in due grandi gruppi: quelle di carattere ereditario (provocate da anomalie genetiche) e quelle acquisite (provocate da patologie, come il diabete, o da traumi); nel caso in cui le cause non siano note si parla di neuropatie idiopatiche. Da un punto di vista clinico ed eziologico si distinguono, essenzialmente, i seguenti gruppi di neuropatie: • • • • • • •
neuropatie ereditarie; neuropatie infiammatorie ed infettive; neuropatie metaboliche ed endocrine; neuropatie in corso di emopatie e neoplasie; neuropatie carenziali e tossiche; radicolopatie e plessopatie; mononeuropatie da compressione o intrappolamento.
Il sistema nervoso periferico comprende i nervi cranici, con l’eccezione del II, i nervi periferici con le rispettive radici nervose e gangli spinali, i plessi e il sistema nervoso vegetativo. Lo scopo di tale sistema è quello di collegare il sistema nervoso centrale con gli organi periferici attraverso il sistema nervoso somatico e il sistema nervoso vegetativo, responsabili rispettivamente delle risposte volontarie e involontarie dell’organismo. Il nervo periferico è costituito da un numero variabile di fascicoli nervosi, i quali sono contenuti in fasci di tessuto connettivo costituiti da elementi cellulari fibroblastici e da matrice collagene che li circonda. Dall’esterno all’interno si riconoscono: epinevrio, perinevrio ed endonevrio. L’epinevrio si trova esternamente ed è costituito da tessuto connettivo che avvolge e circonda i singoli fascicoli formando il nervo periferico: ha una funzione essenzialmente di protezione meccanica. Il perinevrio è una struttura lamellare che avvolge, invece, ciascun fascicolo e funzionalmente si comporta come una barriera sangue-nervo. L’endonevrio è costituito da una matrice di connettivo lasso in cui si trovano scarse cellule fibroblastiche e le fibre nervose. Le fibre nervose del sistema nervoso periferico si dividono in mieliniche e amieliniche. Le fibre mieliniche sono di calibro maggiore e ognuna di esse entra in contatto con una singola cellula di Schwann che, avvolgendo l’assone a spirale, forma intorno a questa una struttura lipoproteica detta appunto guaina mielinica. Nelle fibre mieliniche il plasmalemma delle cellule di Schwann, che si dispone intorno all’assone, si interrompe periodicamente in corrispondenza dei nodi di Ranvier, delimitando così gli spazi internodali. La particolare struttura che le fibre mieliniche presentano in corrispondenza dei nodi di Ranvier permette una bassa soglia di eccitabilità e la conduzione saltatoria dell’impulso. Nelle fibre amieliniche la conduzione non è saltatoria e quindi avviene con minor rapidità. Le neuropatie periferiche si dividono, da un punto di vista patologico, in mielinopatie (neuropatie demielinizzanti) ed assonopatie (neuropatie assonali). La mielina è
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la componente più vulnerabile dalle noxe patogene e può essere danneggiata sia da processi che interessano in modo primitivo le cellule di Schwann, con risparmio dell’assone, sia in modo secondario al danno assonale primitivo. Quando la mielina stessa è il bersaglio del processo patologico si ha quella che viene comunemente chiamata demielinizzazione segmentaria, solitamente limitata a singoli internodi: la mielina viene frammentata e poi rimossa dall’azione dei macrofagi. Nella neuropatia prevalentemente demielinizzante, la velocità di conduzione nervosa rallenta notevolmente. Nelle assonopatie l’alterazione è principalmente a carico dell’assone fino alla sua completa degenerazione con la formazioni di “ovoidi”, reperto comune sia della degenerazione walleriana che di quella assonale. La degenerazione walleriana è la conseguenza di una lesione focale che provoca una degenerazione distale dell’assone e può determinare alterazioni a livello del corpo cellulare del neurone. La degenerazione assonale è il processo patologico più frequente; segue anch’essa ad una lesione neuronale primitiva, ma non si tratta di un’interruzione dell’assone, bensì rappresenta un danno su base metabolica che condiziona un’alterazione generalizzata del neurone, che progredisce dall’estremità distale della fibra nervosa verso il corpo cellulare. La degenerazione assonale determina atrofia muscolare e può associarsi a danno secondario della guaina mielinica. A questi meccanismi di danno fanno seguito fenomeni di remielinizzazione e rigenerazione (Fig. 85.1). I sintomi e i segni di neuropatia periferica possono insorgere improvvisamente oppure anche molto lentamente, nel corso degli anni, e dipendono dal tipo di fibre nervose interessate (motorie, sensitive, vegetative), dalla loro localizzazione e, entro certi limiti, dalla natura del danno, assonale e mielinico. Nel caso di una lesione delle fibre motorie vi saranno astenia e facile affaticabilità con segni quali ipostenia, paresi o paralisi, riduzione del tono e del trofismo muscolare. Caratteristico, inoltre, è osservare una diminuzione o abolizione dei riflessi osteotendinei. Sintomi sensitivi o deficit specifici di modalità sensitive consistono in dolore, crampi, disestesie, parestesie, assenza del senso di posizione, instabilità con segni obiettivi di deficit sensitivo come ipoanestesia superficiale e profonda. Il coinvolgimento del sistema nervoso vegetativo si esprime sul piano clinico con alterazioni della cute e degli annessi, turbe della sudorazione e della piloerezione; anidrosi e ipotensione ortostatica; stipsi o diarrea; disturbi sfinterici; impotenza sessuale; alterazioni pupillari. In caso di danno prevalentemente assonale, il deficit di forza distale è solitamente accompagnato da atrofia dei muscoli interessati. I disturbi sensitivi, invece, possono essere minimi, ma è possibile evidenziare un deficit sensitivo distale soprattutto per la sensibilità tattile e dolorifica. In caso di demielinizzazione, i disturbi della sensibilità sono più importanti, con un convolgimento prevalente a carico delle sensibilità profonde. L’atrofia muscolare, in genere, si riscontra solamente nei casi di lunga durata o molto gravi.
MALATTIE NEUROLOGICHE
Alterazioni anatomopatologiche dei nervi periferici
Nervo periferico normale
Assonopatia
Degenerazione walleriana
Mielinopatia
Figura 85.1 - Rappresentazione schematica dei principali processi patologici del nervo periferico.
Esami di laboratorio e strumentali Nell’ambito della diagnosi differenziale delle neuropatie periferiche possono assumere significato: le analisi specifiche di sangue e urine, l’elettromiografia e lo studio della velocità di conduzione delle fibre nervose, la puntura lombare, la biopsia del nervo e del muscolo. Le indagini di laboratorio sono utili nel determinare eventuali malattie sistemiche che spesso sono associate ad una neuropatia periferica e per individuare l’eziologia della neuropatia. Nella maggior parte dei pazienti con neuropatia periferica, sia acuta che cronica, è indispensabile ricorrere a diversi esami biochimici per identificare i disturbi metabolici come il diabete, l’ipotiroidismo, l’insufficienza renale, la porfiria, ecc. Sono indispensabili anche gli esami di laboratorio mirati ad identificare stati carenziali, tossici, infiammatori e infettivi che possono provocare una neuropatia periferica. Nelle neuropatie di sospetta trasmissione ereditaria è fondamentale l’analisi genetica.
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85 - NEUROPATIE
Come detto, le polineuropatie possono risultare da molteplici processi patologici. Tuttavia, nella pratica clinica, le polineuropatie immunomediate sono un capitolo importante per il significato diagnostico, considerato che il trattamento immunomodulante spesso porta ad un miglioramento nelle funzioni e nella qualità della vita di questi pazienti. La ricerca di fattori sierici che sono associati con le polineuropatie immunomediate include test per anticorpi monoclonali o policlonali che legano specifici composti neuronali. Assumono rilevanza diagnostica e clinica: • anticorpi monoclonali IgM anti-MAG (glicoproteina associata alla mielina), associati frequentemente ad una gammopatia “benigna” e a una neuropatia di tipo demielinizzante, prevalentemente sensitiva; • anticorpi monoclonali IgM o policlonali IgG antiganglioside GM1, associati con una neuropatia motoria multifocale, polineuropatie croniche sensitivomotorie e raramente con malattie del motoneurone, sindrome di Guillain-Barré; • anticorpi IgG antiganglioside GQ1b si osservano in modo specifico nei pazienti con sindrome di Miller Fisher; • anticorpi monoclonali IgM antisolfatide, associati a neuropatie prevalentemente sensitive di tipo assonale; • anticorpi policlonali IgG anti-HU, presenti in pazienti con neuropatia sensitiva subacuta paraneoplastica, associata frequentemente a un microcitoma polmonare. L’esame del liquido cerebrospinale può essere utile per evidenziare la presenza di infezioni o infiammazioni. Un elevato contenuto di proteine è presente in numerose forme di neuropatia: nella sindrome di GuillainBarré, nel diabete e in altre polineuropatie infiammatorie con danno prevalentemente mielinico. A. Biopsia del nervo. La biopsia del nervo è utile in pazienti selezionati con accuratezza e se il nervo è prelevato, processato e analizzato correttamente in centri adeguati. Nella maggioranza dei casi viene biopsiato il nervo surale al suo passaggio tra il malleolo laterale e il tendine di Achille. Il nervo surale è un nervo puramente sensitivo la cui asportazione, nella maggior parte dei casi, non provoca gravi conseguenze al paziente. Le complicanze della biopsia del nervo surale sono distinte in generiche, ovvero comuni a tutti gli atti chirurgici (reazione allergica all’anestetico locale, infezioni, ecc.), e specifiche della biopsia: dolore temporaneo postoperatorio (nel 30-40% dei casi); parestesie e/o disestesie che si manifestano nel 10% dei casi; ipoestesia e/o anestesia a livello del malleolo e della parte laterale del piede. Nella maggior parte dei casi il deficit recupera spontaneamente in periodi più o meno lunghi (da uno a 4 o più anni). Nell’1% dei casi è possibile che si sviluppi un neuroma postoperatorio, dovuto a fenomeni degenerativi a carico del moncone distale. Nel caso di tale complicanza, potrà essere eseguita una terapia conservativa (bendaggio del piede, infiltrazione locale di
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anestetici) o il neuroma potrà essere asportato chirurgicamente. A tutt’oggi, non sono mai state stilate linee guida internazionali circa l’indicazione alla biopsia del nervo surale. In molti tipi di neuropatia la diagnosi eziologica non richiede la biopsia del nervo surale in quanto i dati anamnestici, i test clinici e neurofisiologici, nonché le terapie ex adjuvantibus, sono spesso sufficienti per una precisazione patogenetica. Tuttavia, la biopsia del nervo surale è ancora oggi importante nella diagnosi di alcune affezioni del nervo periferico. La biopsia non è indicata in quelle condizioni che non modificano l’approccio e la gestione della polineuropatia, provvedendo unicamente a fornire un quadro di severità e di attività della malattia. Scarse informazioni si ottengono, infatti, in quasi tutte le neuropatie tossiche/metaboliche e nella maggior parte delle neuropatie ereditarie classiche come la malattia di Charcot-Marie-Tooth di tipo 1a (CMT1A) e la neuropatia ereditaria da suscettibilità all’intrappolamento (HNPP). La biopsia può essere utile nel confermare una diagnosi, come nei casi di amiloidosi e sarcoidosi. L’esame istologico è indicato anche per supportare una diagnosi in quelle neuropatie per le quali sono disponibili trattamenti o consulenze genetiche, come nella poliradicolonevrite cronica infiammatoria demielinizzante (CIDP) e in alcune forme di neuropatia ereditarie; per escludere alcune delle ipotesi diagnostiche e per distinguere tra due alternative diagnostiche che implicano un diverso approccio terapeutico (lebbra verso neuropatia vasculitica in un paziente proveniente da una regione endemica per la lebbra). La biopsia è essenziale in tutti i casi in cui si può determinare la causa della neuropatia in modo definitivo. Per alcune neuropatie sono stati ormai definiti criteri diagnostici internazionalmente accettati (vedi CIDP o lebbra). Tuttavia, esistono casi di CIDP con pattern elettrofisiologico assonale, oppure la lebbra primariamente nevritica, per i quali la biopsia del nervo surale è indispensabile. Nei casi in cui la neuropatia fa parte di un quadro sindromico di vasculite sistemica la diagnosi è clinico-laboratoristica; tuttavia esistono casi di vasculite isolata del sistema nervoso periferico per i quali la biopsia riveste un ruolo fondamentale. B. Neurofisiologia. Lo studio dell’attività elettrica dei nervi e dei muscoli è un elemento essenziale della diagnosi delle neuropatie periferiche, in quanto consente di oggettivare e quantificare l’entità delle alterazioni delle fibre nervose, di definire la distribuzione topografica del danno, e discriminare tra mononeuropatie, multineuropatie e polineuropatie; fornisce inoltre utili indicazioni sul tipo prevalente di danno, assonale o mielinico. L’esame abituale comprende lo studio della velocità di conduzione motoria e sensitiva dei tronchi nervosi e l’esame ad ago dei muscoli. Altre tecniche complementari, come lo studio delle risposte tardive e delle risposte riflesse, sono utili per definire l’interessamento dei tratti prossimali delle vie nervose. Le tecniche elettrofisiologiche sono infine di grande utilità nel valutare l’evoluzione del danno nervoso e la risposta agli interventi terapeutici.
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1. Studi di conduzione nervosa. La conduzione nervosa viene valutata separatamente per le fibre motorie e le fibre sensitive. Lo studio della conduzione motoria consiste nell’applicazione di stimoli elettrici a nervi motori o misti e nella derivazione del potenziale d’azione muscolare composto da un muscolo innervato da quello specifico nervo. Il tempo di conduzione, misurato come l’intervallo di tempo occorso tra il momento in cui viene applicato lo stimolo e l’istante in cui compare la risposta motoria, è dovuto alla somma del tempo impiegato dallo stimolo ad arrivare alla placca muscolare, più il tempo di trasmissione tra nervo e muscolo. La stimolazione del nervo in un secondo punto, distale rispetto al primo punto di stimolazione, consente di definire il tempo di conduzione motoria tra i due punti di depolarizzazione del nervo e di calcolare la velocità di conduzione motoria tra i due punti di stimolazione. Dato che si può stimolare il nervo in vari punti, risulta possibile stimare la velocità di conduzione motoria lungo gran parte del tragitto nervoso. Oltre alla velocità di conduzione motoria nei diversi tratti e alla latenza motoria distale, viene valutata anche la morfologia del potenziale motorio di sommazione. La sua ampiezza si riduce proporzionalmente al numero di fibre nervose degenerate o con conduzione bloccata. La velocità di conduzione sensitiva consiste nella registrazione dei potenziali elettrici generati dalle fibre sensitive mieliniche di maggiore diametro. La registrazione di queste risposte è diventata più agevole con l’impiego del computer, che rende possibile la media automatica di un numero elevato di risposte con l’estrazione del potenziale dal rumore di fondo. Esistono due modalità diverse di ottenere queste risposte sensitive: la tecnica di stimolazione ortodromica e quella antidromica. Con la prima un nervo sensitivo, o i rami sensitivi di un nervo misto vengono stimolati distalmente e il potenziale evocato viene derivato prossimalmente, quindi rispettando il percorso fisiologico degli stimoli nervosi, dalla periferia verso il centro. La tecnica antidromica viene preferita da alcuni perché consente abitualmente la registrazione di risposte più ampie e quindi meglio riconoscibili; consiste nella stimolazione di un nervo sensitivo o misto e nella registrazione del potenziale evocato da un punto distale dello stesso nervo, se il nervo è puramente sensitivo, o dei suoi rami sensitivi, nel caso si tratti di un nervo misto. Nel caso dello studio della conduzione sensitiva la velocità può essere calcolata con la stimolazione del nervo anche in un solo punto, in quanto non vi sono sinapsi interposte tra stimolazione e derivazione. Anche per la conduzione sensitiva, oltre alla velocità, è importante analizzare le caratteristiche morfologiche della risposta. Una serie di fattori influenza la conduzione nervosa e questi, pertanto, devono essere controllati. La temperatura ha un grande ruolo, la diminuzione di un grado comporta una riduzione di circa 5 m/sec. La velocità di conduzione aumenta con l’età nei primi anni di vita, raggiungendo i valori dell’adulto verso i 5 anni, col completarsi del processo di mielinizzazione; i valori tendono poi a ridursi con l’età, a partire dai 50 anni. La velocità di conduzione nelle fibre mieliniche di grande calibro dipende sia dal diametro della fibra ner-
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vosa sia dall’assetto delle guaine mieliniche che consentono di accelerare la conduzione mediante il meccanismo della conduzione saltatoria. Nella fibra mielinica la depolarizzazione avviene a livello del nodo di Ranvier, ove si concentrano i canali del sodio voltaggio-dipendenti. La demielinizzazione segmentaria provoca una dispersione dei canali lungo tutto l’assone. La diminuita concentrazione per unità di superficie determina inizialmente un incremento del tempo di depolarizzazione, con conseguente rallentamento della conduzione nervosa; il gradino successivo comporta il blocco della conduzione nervosa. In caso di patologia assonale la velocità di conduzione può mantenersi normale o rallentare lievemente, qualora vengano perse tutte le fibre più rapide, o in patologie che provocano un’assonocachessia perché la riduzione di diametro determina un rallentamento della conduzione nervosa. In ogni caso il rallentamento della conduzione nervosa in caso di patologie assonali è sempre modesto, con valori di velocità non inferiori al 70% del valore normale. In caso di patologia demielinizzante le risposte da stimolazione prossimale e distale risultano di ampiezza diversa, sia perché alcune fibre possono avere un blocco di conduzione tra i due punti di stimolazione, sia perché vi è una desincronizzazione degli impulsi nelle fibre variabilmente demielinizzate per cui, più ci si sposta prossimalmente come punto di stimolazione, più l’ampiezza della risposta risulta dispersa (di durata aumentata) e ridotta (Fig. 85.2). I valori di velocità di conduzione nervosa possono risultare notevolmente rallentati, fino a valori di 10-20 m/sec, e inoltre le latenze motorie distali risultano notevolmente prolungate. Nelle polineuropatie il ruolo degli studi di conduzione nervosa è principalmente quello di individuare il tipo di danno: mielinico, assonale o misto. Devono essere studiati più nervi al fine di avere un’indicazione sulla simmetricità del danno e sulla distribuzione della patologia. Per gli arti superiori vengono abitualmente studiati i nervi ulnare e mediano per la conduzione motoria e gli stessi più il nervo radiale per la conduzione sensitiva. Per gli arti inferiori vengono abitualmente studiate la conduzione motoria dei nervi peroneo e tibiale posteriore, e la conduzione sensitiva del nervo surale. Almeno alcuni nervi devono essere studiati bilateralmente. Lo studio della conduzione nervosa consente di valutare se la polineuropatia interessa allo stesso modo le fibre sensitive e quelle motorie o se vi è un interessamento elettivo di una delle due popolazioni di fibre. Nelle polineuropatie demielinizzanti acquisite, come la sindrome di Guillain-Barré e la demielinizzazione cronica idiopatica, il rallentamento della velocità di conduzione nervosa può presentare una variabilità anche ampia, da nervo a nervo, spesso con iniziale interessamento dei tronchi nervosi nelle sedi di comune intrappolamento, come il polso per il nervo mediano e il gomito per il nervo ulnare. Nelle forme genetiche, come la malattia di DéjerineSottas e le neuropatie ereditarie sensitivo-motorie, il rallentamento della conduzione nervosa e l’incremento della latenza distale sono più uniformi e simmetrici.
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A.
A.
C.C.
B.
B. Figura 85.2 - Modificazioni dei parametri di conduzione nervosa nelle patologie assonali (B) e nelle patologie demielinizzanti (C) rispetto al quadro normale (A). Nei tre pannelli la traccia superiore è la risposta motoria da stimolo distale e quella inferiore da stimolo prossimale. Si noti che, mentre in condizioni normali le ampiezze delle risposte da stimolo prossimale e da stimolo distale sono identiche, nelle patologie assonali l’ampiezza del potenziale motorio di sommazione è ridotta per entrambi i punti di stimolazione e la latenza delle risposte è normale; nelle patologie demielinizzanti, invece, l’ampiezza da stimolo prossimale è ridotta rispetto a quella da stimolo prossimale per il blocco di conduzione e per la desincronizzazione degli impulsi nervosi. Si noti inoltre in (C) un prolungamento del tempo di latenza da stimolo prossimale, determinato dal rallentamento della conduzione nervosa.
Nelle neuropatie focali lo studio della conduzione nervosa consente di individuare con precisione la sede del danno, purché il nervo sia stimolabile sia prossimalmente che distalmente alla sede del danno. Un danno assonale acuto determina la degenerazione degli assoni distalmente alla sede di lesione entro una settimana. L’esplorazione elettrofisiologica dopo tale intervallo di tempo dimostra un’assenza delle risposte motoria e sensitiva se vi è neurotmesi, cioè lesione completa del nervo, mentre in caso di assonotmesi la risposta da stimolazione prossimale e distale ha ampiezza uguale e ridotta proporzionalmente al numero di fibre lese. In caso di compressione cronica il nervo va inizialmente incontro a demielinizzazione focale e successivamente a degenerazione assonale secondaria. L’assone, distalmente al punto di compressione, risulta di diametro ridotto, mentre nella sede di compressione la regione paranodale è alterata e la guaina mielinica viene spinta via dal punto di compressione. La velocità di conduzione è rallentata esclusi-
vamente nella sede di compressione e l’ampiezza della risposta da stimolo prossimale è ridotta rispetto a quella ottenuta da stimolo applicato subito distalmente al sito di lesione; la risposta da stimolo prossimale, oltre che di ampiezza ridotta, risulta anche di morfologia dispersa. L’ampiezza della risposta da stimolo distale dà invece un’indicazione sul numero di fibre superstiti, un parametro particolarmente utile in caso di importante blocco di conduzione. 2. Elettromiografia. L’esame elettromiografico consiste nella registrazione dell’attività elettrica prodotta dalle fibre muscolari, sia a riposo che durante l’attivazione volontaria. In condizioni di riposo le fibre muscolari non producono alcuna attività elettrica, salvo che nella regione della placca. Durante la contrazione volontaria, l’attività elettrica elementare derivabile è il potenziale di unità motoria che è espressione dell’insieme dei potenziali di fibra muscolare generati dalle fibre
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innervate da un motoneurone. In realtà il potenziale di unità motoria che noi registriamo è espressione solo di quelle fibre muscolari dell’unità motoria che sono nel campo di derivazione dell’ago elettrodo, ma sul piano pratico il potenziale derivato è assimilabile all’attività elettrica generata da tutta l’unità motoria. L’esame elettromiografico di un muscolo inizia con la valutazione della presenza di potenziali di denervazione, fibrillazione e onde ripide positive (Fig. 85.3), che sono osservabile a partire da 15-20 giorni dal realizzarsi della denervazione. Successivamente il paziente è invitato a contrarre debolmente il muscolo; in questo modo risulta possibile valutare la morfologia dei potenziali di unità motoria. In caso di denervazione acuta la morfologia dei potenziali di unità motoria non si modifica, mentre in caso di denervazione cronica si osserva un incremento di durata e ampiezza dei potenziali, in quanto le fibre muscolari denervate possono venire reinnervate dalle fibre nervose superstiti. Infine il paziente viene invitato ad attivare massimamente il muscolo, così si può valutare il quadro elettromiografico che ne consegue. In condizioni di normalità, a causa dell’elevato numero di unità motorie attivate e dell’elevata frequenza di scarica delle singole unità motorie, si ottiene un quadro elettromiografico caratterizzato da una fitta attività elettrica che non consente di riconoscere i singoli potenziali di unità motoria, definito come quadro interferenziale (Fig. 85.4). In caso di denervazione il quadro interferenziale si ridurrà proporzionalmente al numero di unità motorie perse (tracciato di transizione), un impoverimento che può giungere fino a una tale semplificazione da consentire di riconoscere i singoli potenziali (tracciato di singole oscillazioni). L’esame elettromiografico contribuisce a definire il tipo di danno nervoso periferico, in quanto: in caso di patologia assonale si osservano i segni di denervazione acuta o cronica; in caso di demielinizzazione pura non si osservano i potenziali di denervazione, né i segni di rimaneggiamento dell’unità motoria; per sforzo massimale si può osservare un tracciato variabilmente impoverito in caso di blocco di conduzione. L’esame offre inoltre alcune indicazioni sull’età della patologia e sulla sua distribuzione, un’informazione, quest’ultima, particolarmente importante in caso di mono o multineuropatia.
Potenziali di fibrillazione
100 V 10 ms/div
Figura 85.3 - Potenziali di fibrillazione, derivati dal muscolo in condizione di riposo ed espressione di un processo di denervazione.
Sforzo lieve singole oscillazioni 50 V 10 ms/div
Sforzo moderato transizione povera 50 V 10 ms/div
Sforzo intenso interferenza 50 V 10 ms/div
Figura 85.4 - Quadro elettromiografico da sforzo volontario in un soggetto normale. Si noti come, con il progressivo incremento dello sforzo, si derivino sempre più numerosi potenziali di unità motoria, fino a raggiungere un tracciato di interferenza nel quale i singoli potenziali non sono più identificabili.
In caso di patologie acute dei nervi periferici l’esame elettromiografico non dovrebbe essere eseguito prima di una settimana e può fornire informazioni complete solo dopo tre settimane.
Neuropatie ereditarie Le neuropatie ereditarie sono un gruppo eterogeneo di affezioni del sistema nervoso periferico che si differenziano per caratteristiche cliniche, neurofisiologiche, istopatologiche e per tipo di trasmissione ereditaria. Si distinguono forme degenerative e forme metaboliche. La malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT) corrisponde all’acronimo inglese HMSN (Hereditary Motor and Sensory Neuropathy), che indica l’insieme delle neuropatie ereditarie di tipo sensitivo-motorio. La malattia di CMT rappresenta la forma più frequente di neuropatia periferica ereditaria, di comune riscontro nella pratica clinica, con una prevalenza di 1 su 2500. Essa comprende un gruppo di patologie molto eterogeneo da un punto di vista clinico ed è caratterizzata, nella sua forma classica, da ipostenia/ipotrofia della muscolatura distale soprattutto a carico degli arti inferiori (distribuzione peroneale), deficit sensitivo principalmente a carico della sensibilità vibratoria, ipo/areflessia osteotendinea e, nella maggior parte dei casi, da piede cavo e dita a martello. Riportata inizialmente come forma ad ereditarietà autosomica dominante, sono state individuate forme lega-
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te all’X e forme recessive. Solo recentemente, infatti, l’integrazione di diversi criteri diagnostici quali quelli elettrofisiologico, istopatologico e soprattutto genetico ha portato ad una più precisa classificazione clinica di queste patologie. Oggi, quindi, è possibile discernere se forme cliniche differenti corrispondano ad entità genetiche distinte o costituiscano forme ad espressività variabile della stessa entità genetica. Infatti, l’identificazione di geni responsabili di CMT ha avuto un significativo incremento negli ultimi anni, portando ad un totale di 16 i geni correlati alla malattia finora isolati. A. CMT1/HMSN1. Autosomica dominante, è una forma demielinizzante di neuropatia, con una marcata riduzione delle velocità di conduzione motorie (VCM). Da un punto di vista patologico è caratterizzata da demielinizzazione e remielinizzazione cronica con formazione di “bulbi di cipolla” alla biopsia del nervo periferico. Tra i casi di CMT, la CMT1 è il sottotipo più frequente e si riconoscono due varianti in base al gene affetto: CMT1A, associata a duplicazione o mutazioni puntiformi nel gene che codifica per la proteina della mielina periferica 22 (PMP22); CMT1B, meno frequente rispetto alla precedente, associata a mutazioni nel gene della proteina della mielina P0; forme rare sono la CMT1C e CMT1D. B. CMT2/HMSN2. È una forma tipicamente assonale. L’esame neurofisiologico evidenzia una neuropatia di tipo assonale con VCM relativamente conservate; l’esame patologico evidenzia una riduzione del numero di fibre mieliniche e segni di danno assonale. La CMT2 è divisa in differenti forme, elencate con le lettere dall’A alla G. Solamente per la CMT2A e la CMT2E sono stati identificati i geni: KIF1b e NEFL. C. Malattia di Déjerine-Sottas (DSS)/HMSN III. Può essere causata dalla mutazione di 5 geni differenti: tuttavia, i casi più frequenti si associano agli stessi geni responsabili della CMT1A (PMP22) e CMT1B (P0). È una neuropatia grave, demielinizzante ad esordio precoce entro i due anni di età. È caratterizzata clinicamente da una grave compromissione motoria, gravi deficit sensitivi con atassia e da malformazioni scheletriche importanti. Le velocità di conduzione nervose sono marcatamente ridotte, con una grave ipo-demielinizzazione e remielinizzazione cronica con numerose formazioni a “bulbo di cipolla”. Solitamente si tratta di casi sporadici. Per lo più l’ereditarietà è autosomica dominante. D. Neuropatia ereditaria con suscettibilità alle paralisi da pressione (HNPP). Autosomica dominante, è dovuta a delezione del gene della PMP22 o a mutazione puntiforme del medesimo gene. È caratterizzata clinicamente da deficit sensitivo-motori acuti, transitori e ricorrenti, scatenati da traumi o compressioni di lieve entità. Si osserva un’alterazione della conduzione nervosa più evidente ai comuni siti di entrapment. L’esame della biopsia del nervo mostra una neuropatia prevalentemente demielinizzante con caratteristici ispessimenti focali della mielina (tomacula).
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E. CMT4. È autosomica recessiva. Comprende forme rare, quali: CMT4A, prevalentemente assonale, nella quale è stato isolato anche il gene, chiamato GDAP1; CMT4B, mutazione del gene MTMR2, caratterizzata da demielinizzazione e caratteristiche alterazioni della mielina (myelin outfoldings); CMT4C, forma assonale; CMT4D, dovuta a mutazioni del gene NDRG1; CMT4E, dovuta a mutazioni del gene dell’EGR2; CMT4F dovuta ad alterazione del gene della periaxina. F. CMTX. È una neuropatia ereditaria associata a mutazioni del gene della connessina 32 (Cx32) e si caratterizza per la mancanza di trasmissione da maschio a maschio. È una neuropatia di tipo misto: assonale e demielinizzante. G. Neuropatia ipomielinizzante congenita (CH). È molto rara, associata a mutazioni nel gene P0. È una neuropatia congenita con ipotonia alla nascita, talora associata ad artrogriposi, e gravissima ipostenia che può portare a morte precocemente. Il termine evidenzia il grave quadro di ipomielinizzazione e di fibre nervose prive di mielina che si riscontra all’esame del nervo periferico.
Neuropatie infiammatorie e infettive Neuropatie infiammatorie Le neuropatie infiammatorie sono affezioni acute e croniche con una prevalenza di circa 11/100.000 e costituiscono una delle maggiori cause di disabilità neurologica transitoria e permanente nella popolazione adulta. La patogenesi di queste neuropatie è solo parzialmente nota. Esistono evidenze, tuttavia, che suggeriscono, come evento patogenetico cruciale, un meccanismo immunomediato. In questo paragrafo sono riassunti gli aspetti clinici e patologici delle più comuni affezioni immunomediate del sistema nervoso periferico: la sindrome di Guillain-Barré, la poliradicolonevrite infiammatoria demielinizzante cronica e le neuropatie vasculitiche. A. Sindrome di Guillain-Barré (GBS). La causa più comune di neuropatia infiammatoria è la GBS, una poliradicolonevrite acuta, ad esordio rapido, prevalentemente motorio, che può evolvere a paralisi totale ed insufficienza respiratoria nell’arco di pochi giorni dall’esordio, associata a considerevoli morbilità e mortalità. La GBS, infatti, è la più frequente causa di paralisi flaccida acuta nel mondo, con un’incidenza di 1-4 casi per 100.000. La sua incidenza aumenta con l’età, passando da 1/100.000 nel bambino a 8 /100.000 nella popolazione adulta. Sebbene circa l’80% dei pazienti abbia un recupero parziale o completo nell’arco di alcune settimane o mesi, la mortalità è stata riportata nell’11-15% dei pazienti come risultato di sepsi, embolismo polmonare, infarto miocardico ed aritmia. Inoltre, il 10-15% dei pazienti è così disabile un anno dopo l’esordio dei sintomi che non può camminare senza appoggio.
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Il fenotipo clinico della GBS dipende, in gran parte, dai differenti gradi di infiammazione, demielinizzazione e danno assonale caratteristici della sindrome. La classica presentazione clinica (AIDP: polineuropatia demielinizzante acuta infiammatoria) è caratterizzata da una rapida paralisa flaccida con areflessia. I criteri diagnostici includono una debolezza muscolare progressiva di tutti e quattro gli arti ed iporeflessia o areflessia. La debolezza muscolare è solitamente ascendente e relativamente simmetrica. I sintomi sensitivi possono essere presenti con parestesie gradualmente ascendenti dalle parti distali degli arti; meno frequentemente è riferito dolore. Nei pazienti più gravi sono spesso presenti disfunzioni del sistema nervoso autonomo. L’obiettività neurologica mostra, oltre al deficit stenico, una marcata ipotonia ed una scomparsa dei riflessi osteotendinei. In tutti i pazienti, la rachicentesi è un esame da programmare ogni volta si sospetti una GBS, in quanto il risultato di un esame completo del liquor, seppure non patognomonico, può essere di fondamentale importanza per porre diagnosi. Si evidenzia un innalzamento delle proteine senza un concomitante aumento di cellule. Tale quadro è noto con il termine di dissociazione albumino-citologica. È una neuropatia demielinizzante dal punto di vista neurofisiologico, con un aumento della latenza motoria distale e della latenza dell’onda F, riduzione della velocità di conduzione nervosa e dispersione temporale anormale. Differenti varianti cliniche e patologiche sono state riportate. Esse includono la neuropatia acuta sensitiva e motoria di tipo assonale (AMSAN), la neuropatia motoria assonale (AMAN) e la variante sensitiva della GBS. Tra le varianti cliniche vi è poi la sindrome di Miller Fisher (MFS), che ha segni immunologici e patologici caratteristici. La MFS è caratterizzata dalla presenza di anticorpi IgG diretti verso il ganglioside GQ1b (80-100% dei pazienti) e dalla triade clinica di oftalmoplegia, atassia e areflessia osteotendinea. La patogenesi della GBS è solo parzialmente nota. Nella maggior parte dei pazienti la malattia fa seguito, con un intervallo da 1 a 3 settimane, ad un episodio infettivo antecedente, spesso dovuto a Campilobacter jejuni (30% dei casi), citomegalovirus (10-15%) o virus di Epstein-Barr (10%). Evidenze da studi sperimentali, associati a dati immunologici ed immunopatologici nell’uomo, suggeriscono che il meccanismo eziopatogenetico sia di tipo immunomediato e coinvolgente entrambe le risposte immunitarie, umorale e cellulare. Il quadro patologico caratteristico della GBS è la presenza di un infiltrato infiammatorio composto da linfociti T e da demielinizzazione mediata dai macrofagi (nella forma classica). Nelle forme più gravi è anche presente una degenerazione assonale che talvolta può risultare l’aspetto predominante. Nella fase acuta di GBS, anticorpi diretti verso molteplici gangliosidi e glicolipidi sono riscontrati nel siero dei pazienti (anticorpi anti-GM1). I pazienti con GBS possono richiedere, da un punto di vista assistenziale, di controllo biochimico umorale, assistenza respiratoria, assistenza alimentare ed assistenza cardiologica. Nei pazienti con GBS sono efficaci la plasmaferesi e l’infu-
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sione di immunoglobuline endovena. A tutt’oggi, il trattamento di prima scelta è quello con immunoglobuline; la terapia con corticosteroidi non è efficace. B. Poliradicolonevrite infiammatoria demielinizzante cronica (CIDP). È considerata la variante cronica della Guillain-Barré e può presentarsi con attacchi ripetuti o con un andamento lentamente progressivo. La CIDP è un’infiammazione cronica del sistema nervoso periferico con un’incidenza di 1-2 casi per 100.000. Questa neuropatia differisce nel decorso e nella prognosi dalla GBS. È caratterizzata da un esordio subacuto e ha un decorso cronico progressivo oppure ricorrente. È una polineuropatia che frequentemente causa prolungata invalidità e può associarsi a dolore. La causa e i meccanismi patogenetici della CIDP non sono noti, ma è verosimile che meccanismi immunologici siano coinvolti. I dati patologici indicano che la CIDP è causata da una demielinizzazione infiammatoria delle radici spinali e dei nervi periferici. Le caratteristiche patologiche della CIDP sono l’edema endoneurale, l’infiltrazione sparsa di linfociti e una demielinizzazione mediata dai macrofagi con succesiva remielinizzazione. La cronicità e la progressione della malattia, associata a ripetuti eventi di demielinizzazione e remielinizzazione, portano alla formazione dei tipici “bulbi di cipolla” e a degenerazione assonale con perdita di fibre mieliniche. L’insorgenza dei primi sintomi può avvenire a qualsiasi età e la manifestazione più frequente è quella di un danno sensitivo-motorio. Il deficit è solitamente simmetrico, ma negli stadi precoci di malattia può essere osservata una distribuzione asimmetrica. Il deficit motorio interessa soprattutto gli arti, comportando spesso difficoltà nella deambulazione, nel salire e scendere le scale, nella prensione e nell’utilizzo degli oggetti. I sintomi sensitivi sono sia soggettivi, come sensazioni dolorose o di intorpidimento, sia obiettivi (ipoestesie). Raramente si assiste a un interessamento dei nervi cranici. La diagnosi è basata sul riscontro di ipo- o areflessia, e di deficit motori e sensitivi all’esame obiettivo. L’esame del liquor cerebrospinale mostra una dissociazione albumino-citologica e l’incremento delle proteine liquorali risulta più marcato durante le recidive della sintomatologia. Le indagini neurofisiologiche evidenziano riduzione delle velocità di conduzione motoria e sensitiva, dispersione temporale e blocchi di conduzione, assenza o significativo aumento della latenza dell’onda F. L’esecuzione della biopsia del nervo surale può essere utile in quei casi di CIDP con pattern elettrofisiologico assonale. Il decorso e la prognosi della CIDP variano in relazione alla gravità dei quadri clinici: decorso lento monofasico, decorso a recidive, decorso progressivo a gradini, decorso lento progressivo. Nel 50% dei pazienti la prognosi è buona; circa un terzo dei pazienti affetti dalla neuropatia è costretto a letto o all’uso della sedia a rotelle. La CIDP, distinguibile dalla GBS per il suo diverso decorso, richiede una diagnosi differenziale soprattutto
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con le neuropatie ereditarie e quelle in corso di discrasia plasmacellulare o di linfoma. Nella CIDP sono indicate la terapia immunosoppressiva (prima scelta con corticosteroidi) e le infusioni di immunoglobuline endovena. C. Neuropatia vasculitica. Il coinvolgimento del sistema nervoso periferico è un evento comune in corso di vasculite, malattia dipendente da una flogosi segmentaria o diffusa dei vasi sanguigni. La neuropatia vasculitica può essere la manifestazione di una malattia sistemica come l’artrite reumatoide, la sindrome di Sjögren, sindromi paraneoplastiche o malattie infettive. Frequentemente, si osserva nel contesto di una vasculite primaria, come la poliarterite nodosa o la sindrome di Churg-Strauss, o in corso di malattie del connettivo (artrite reumatoide, sindrome di Sjögren, granulomatosi di Wegener, lupus eritematoso sistemico, ecc.). Una neuropatia vasculitica si associa anche alla crioglobulinemia o può essere una malattia primitiva del sistema nervoso periferico (Tab. 85.1). Indipendentemente dalla causa di vasculite, la più tipica manifestazione clinica della neuropatia vasculitica è l’interessamento, in genere acuto, di un singolo tronco nervoso (mononeuropatia), a cui segue il successivo ed asimmetrico interessamento di altri nervi (multineuropatia o mononeuropatia multipla). L’esordio è in genere caratterizzato da dolore e parestesie frequentemente nel territorio del nervo mediano o ulnare per l’arto superiore e dello sciatico per l’arto inferiore, essendo questi i nervi vascolarizzati per lunghi tratti da vasi terminali senza possibili anastomosi. I disturbi motori sono costituiti da deficit dei muscoli del carpo e della loggia antero-laterale della gamba. Nella poliarterite nodosa, caratterizzata da infiammazione necrotizzante delle piccole e medie arterie (sistema nervoso, rene, muscolo scheletrico, cute), vengono preferenzialmente colpiti gli arti inferiori. La vasculite del sistema nervoso periferico è presente nel 25% dei pazienti al momento della diagnosi; il 60-
Tabella 85.1 - Classificazione delle vasculiti. • Vasculite primaria – Poliarterite nodosa – Granulomatosi allergica di Churg-Strauss – Vasculite isolata/primitiva del sistema nervoso periferico – Arterite a cellule giganti – Vasculite da ipersensibilità • Malattie multisistemiche – Sindrome di Sjögren – Granulomatosi di Wegener – Lupus eritematoso sistemico – Artrite reumatoide – Sindrome paraneoplastica – Sclerodermia • Vasculiti associate ad infezioni – Lebbra – Infezione da HIV – Malattia di Lyme
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70% dei pazienti sviluppa la neuropatia nel corso della malattia. Nella granulomatosi di Wegener, il sistema nervoso periferico è coinvolto nel 10-20% dei casi si manifesta, generalmente, una mononeuropatia multipla dei nervi cranici, con insorgenza dopo mesi di malattia. La neuropatia associata ad artrite reumatoide si riscontra nel’1-10% dei pazienti e tipicamente si manifesta dopo anni di malattia. È un indice prognostico negativo. I sintomi sono distali alle dita, di un piede o di una mano, e solitamente si associano a noduli reumatoidi, erosioni periarticolari attive e alti titoli di FR. La sindrome di Sjögren è una malattia autoimmune caratterizzata da xerostomia, xeroftalmia, secchezza di altre mucose e coinvolgimento pluriviscerale. Nel 1020% dei pazienti è presente una neuropatia vasculitica. La polineuropatia più frequente è simmetrica, distale, prevalentemente sensitiva. Si può presentare anche come gangliopatia delle radici dorsali, caratterizzata da un esclusivo convolgimento sensitivo. In questa sindrome è frequentemente interessato il nervo trigemino. La sindrome di Churg-Strass è una vasculite primaria multisistemica delle arterie di piccolo e medio calibro, caratterizzata da asma, eosinofilia ed infiltrati polmonari. Una mononeuropatia multipla è frequente (5067% dei pazienti) è può essere il sintomo di presentazione della malattia. Il quadro clinico e patologico è molto simile a quello della poliarterite nodosa, eccetto che per la prevalenza dei sintomi polmonari e dell’eosinofilia. I pazienti affetti da neuropatia periferica su base vasculitica presentano a livello clinico il fenomeno di Raynaud, infarti del letto ungueale, ulcere cutanee, lesioni purpuriche associate a febbre e dolenzia diffusa. Gli esami di laboratorio mostrano un’elevazione di tutti gli indici infiammatori aspecifici (VES, PCR, ANA), una positività del RA test con modesta anemia normocitica e normocromica, e ipocomplementemia. Tra gli accertamenti diagnostici strumentali, assume importanza clinica lo studio neurofisiologico, che, oltre a documentare una neuropatia di tipo assonale, rivela il coinvolgimento asimmetrico del danno, suggerendo un’eziopatogenesi vasculitica. Utile anche l’esecuzione della biopsia del nervo, che permette di formulare una dignosi definitiva di neuropatia vasculitica. La natura del danno è assonale, con evidenti segni di necrosi della parete del vaso ed infiltrazione transmurale di cellule infiammatorie, prevalentemente linfociti T e macrofagi. La prognosi è in relazione alla gravità della neuropatia e la terapia è la stessa della malattia sistemica di base. Neuropatie infettive Le neuropatie infettive sono condizioni infiammatorie, spesso definite con il termine “neuriti”. È un gruppo di malattie importanti, dal punto di vista clinico, in quanto sono la causa più comune al mondo di neuropatia (per es., la lebbra nei Paesi in via di sviluppo e le neuropatie associate ad HIV) e, in generale, sono curabili o si possono prevenire.
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Si suddividono in: • • • •
neuropatia da lebbra; neuropatia associata alla malattia di Lyme; neuropatia da herpes zoster; neuropatia associata ad HIV.
A. Neuropatia da lebbra. La lebbra è una malattia a trasmissione interumana per contagio diretto prolungato, causata da un bacillo acido-resistente, il Mycobacterium leprae, chiamato comunemente bacillo di Hansen. È la causa più comune di neuropatia nei Paesi in via di sviluppo. Tuttavia, con i frequenti flussi d’immigrazione, il sospetto di diagnosi di lebbra deve sorgere di fronte a un paziente che proviene da Paesi con lebbra endemica e che presenti lesioni cutanee e segni di neuropatia periferica. La lebbra è una malattia infettiva a carico principalmente della cute (macule, papule, placche, noduli e infiltrazioni diffuse) e del sistema nervoso periferico. Le lesioni sono in rapporto diretto con la risposta immune cellulo-mediata dell’ospite. Le neuropatie si dividono in: • neuropatia lepromatosa, caratterizzata da completa anergia; • neuropatia tubercoloide, espressione di elevata reattività verso il M. leprae; • neuropatia intermedia “borderline”; • forma neuritica pura. Nella lebbra il danno al nervo è imputabile all’affinità del bacillo di Hansen per le cellule di Schwann. Nella lebbra tubercoloide, lo stato iperergico dell’ospite impedisce la moltiplicazione dei bacilli e si osserva un’abbondanza di tessuto di granulazione costituito da cellule epitelioidi. La neurite leprosa provoca ipertrofia dei nervi sottocutanei, che sono quindi apprezzabili con la palpazione (ipertrofia dei rami del plesso cervicale superiore e particolarmente del ramo auricolare). Nella lebbra lepromatosa, lo stato anergico del paziente sfocia direttamente in setticemia con colonizzazione batterica delle cellule del nervo e infiltrazione di cellule infiammatorie. La presenza di batteri è infatti maggiore nella forma lepromatosa, caratterizzata da un’alta concentrazione batterica nelle lesioni. Nel corso di lebbra, l’interessamento del sistema nervoso periferico riguarda le branche sensitiva, vegetativa (ipoanidrosi) e motoria. I disturbi sensitivi sono sempre presenti e talvolta sono le prime manifestazioni, con iperestesie, bruciori e dolori lancinanti lungo il decorso del nervo. Successivamente si ha anestesia superficiale sia a livello delle lesioni cutanee che nelle regioni innervate da nervi più frequentemente coinvolti dalla lebbra. L’anestesia porta il malato a trascurare traumi e infezioni. Questa condizione di anestesia, con la presenza concomitante di disturbi trofici nelle zone anestetiche e di paralisi muscolare, provoca importanti invalidità: callosità e ulcerazioni (ulcere perforanti plantari) che possono interessare le strutture muscolari e ossee sottostanti, e deformità alle mani e ai piedi.
MALATTIE NEUROLOGICHE
Nella lebbra tubercoloide sono coinvolti frequentemente il nervo ulnare, il nervo mediano, il peroneo, il facciale (superiore e specialmente il suo ramo sopraorbitale) e il trigemino. È rara la paralisi del nervo radiale. La diffusione dei bacilli, nella lebbra lepromatosa, provoca un quadro clinico iniziale simmetrico di anestesia termico-dolorifica localizzato prevalentemente al dorso delle mani e dei piedi, ai padiglioni auricolari e alla superficie antero-laterale delle gambe. In seguito, l’anestesia può interessare la gran parte del corpo. Segue il deficit motorio. Per la diagnosi di lebbra è fondamentale l’esame microbiologico dello striscio cutaneo (solitamente lobi auricolari) o della biopsia del nervo utilizzando il metodo Ziehl-Neelsen. Nella terapia della lebbra sono indicati i seguenti farmaci: dapsone, rifampicina e clofarimina. B. Neuropatia associata alla malattia di Lyme. La malattia di Lyme fu individuata per la prima volta nella città di Lyme, Connecticut, ed è causata da una spirocheta, la Borrelia burgdorferi. La trasmissione della malattia avviene in genere dall’animale infetto (cervi, cani o altri mammiferi) all’uomo, mediante la puntura di una zecca infetta. Le manifestazioni cliniche iniziali sono caratterizzate da una lesione maculo-papulare di colore rosso vivo ai bordi, di consistenza dura, localizzata frequentemente alla coscia, all’inguine e all’ascella (eritema migrante). Si associa frequentemente un quadro clinico caratterizzato da febbre, mal di testa e malessere generalizzato. In alcuni casi il batterio può diffondersi, dopo alcune settimane o anche mesi, e può provocare la comparsa di disturbi neurologici (meningiti, neuriti dei nervi cranici, neuropatia periferica), cardiaci o, più spesso, articolari (artriti), per la localizzazione secondaria del parassita nei rispettivi organi. La diagnosi si basa principalmente sull’anamnesi, sull’esame obiettivo e su test sierologici (ricerca di anticorpi specifici antispirocheta), tra cui l’immunofluorescenza e il test ELISA. Questa malattia presenta focolai endemici in Canada, Cina, Australia, Giappone ed Europa. In Italia le regioni più convolte sono quelle del NordEst della penisola, soprattutto il Friuli-Venezia Giulia. I quadri clinici possono consistere in radicolopatia (spesso acuta e dolorosa), plessopatia, mononeuropatia multipla e polineuropatia simmetrica. La neurofisiologia e l’esame morfologico del nervo possono evidenziare un quadro misto: assonale e demielinizzante. Nel liquido cerebrospinale si riscontrano un aumento delle proteine e pleiocitosi. Il trattamento prevede farmaci antibatterici: doxiciclina, tetracicline, eritromicina, penicillina G. C. Neuropatia da herpes zoster. Il virus della varicella/zoster (VZV) provoca, come infezione primaria, la varicella. Il virus è neurodermotropo, provocando lesioni cutanee e, a livello del sistema nervoso periferico, una ganglioneurite. La riattivazione del virus determina manifestazioni cutanee simili a quelle dell’herpes simplex, limitate ad un dermatomero o al territorio di un ganglio sensitivo. Le zone più colpite sono il tronco, la
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zona cervicale, la zona cranica (trigeminale) e gli arti. Dolore e parestesie precedono solitamente l’eruzione vescicolare. Tale sintomatologia dura per tutto il periodo dell’eruzione e, nell’anziano, può persistere per lungo tempo (neurite post-herpetica). Meno frequentemente sono presenti perdita della sensibilità e paralisi motoria. La riattivazione del virus è associata ad un calo delle difese immunitarie, spiegando l’aumento di incidenza dello zoster nei pazienti affetti da linfoma/leucemie (8-12% dei casi), all’assunzione di farmaci immunosoppressori e all’avanzamento dell’età. D. Neuropatia associata ad HIV. L’interessamento del sistema nervoso periferico è molto frequente in corso di malattia da HIV. Una neuropatia periferica sintomatica è presente nel 15% dei pazienti sieropositivi e tale percentuale raggiunge il 50% quando si ricorre ad indagini strumentali. Le differenti forme di neuropatia periferica si manifestano durante le specifiche fasi della malattia: • poliradicolonevrite infiammatoria acuta e poliradicolonevrite infiammatoria cronica: durante la fase di sieroconversione sintomatica o asintomatica; • mononeuropatia multipla: nelle fasi precoci sintomatiche (ARC); • polineuropatia simmetrica distale: in pazienti già affetti da AIDS; • poliradicolonevrite da citomegalovirus: in pazienti già affetti da AIDS; • neuropatia infiltrativa linfomatosa: in pazienti già affetti da AIDS. Nelle fasi iniziali dell’infezione da HIV è caratteristica la poliradicolonevrite infiammatoria acuta o cronica. Sebbene queste forme siano più frequenti nella fase di sieroconversione o nei pazienti sieropositivi asintomatici, si possono osservare in pazienti in fase precoce sintomatica (ARC) ed AIDS. La poliradicolonevrite infiammatoria acuta è una malattia acuta da HIV, simile alla sindrome di Guillain-Barré. Una forma simile è la poliradicolonevrite da citomegalovirus, più frequente in pazienti affetti da AIDS. Il liquido cerebrospinale mostra pleiocitosi. La variante cronica è la forma più comune nei soggetti sieropositivi per HIV non-AIDS. È una neuropatia sensitivo-motoria progressiva con demielinizzazione e infiltrato infiammatorio associato anche a vasculite. La terapia corticosteroidea o la plasmaferesi sono consigliate, mentre è dubbia l’utilità dell’AZT, data la probabile genesi autoimmune. Molto spesso, nell’ARC si osserva un coinvolgimento dei nervi cranici, dei nervi toraco-addominali o dei nervi degli arti, con un quadro tipico di mononeuropatia multipla. È importante, in questi pazienti, l’esecuzione della biopsia del nervo per documentare l’eventuale presenza di una vasculite associata responsiva alla terapia corticosteroidea. Il 10-35% dei pazienti, nelle fasi avanzate di malattia, manifesta una polineuropatia distale simmetrica prevalentemente sensitiva, inizialmente agli arti inferiori, con dolore, parestesie, deficit sensitivo e areflessia. La
compromissione motoria è rara, ma – se presente – è distale alle gambe. Spesso questi pazienti hanno compromissioni anche a livello centrale. È una neuropatia di tipo assonale senza infiltrati infiammatori. La terapia è indirizzata unicamente ai sintomi.
Neuropatia diabetica Il diabete è una delle cause più comuni di neuropatia. La neuropatia è una complicanza molto diffusa, nel mondo occidentale, in grado di incidere notevolmente sulla qualità di vita del paziente diabetico. È stato stimato, da studi epidemiologici, che la prevalenza della neuropatia nei pazienti con diabete è in modo approssimativo del 20-30%. L’incidenza annua della neuropatia è circa del 2%. Il fattore di rischio più importante per lo sviluppo della neuropatia diabetica è la condizione di iperglicemia. Altri fattori di rischio concomitanti sono la presenza di ipertensione arteriosa, l’iperlipidemia ed il consumo di alcol. Attualmente non esiste una terapia specifica della neuropatia e lo strumento terapeutico fondamentale, a tutt’oggi più valido, è la prevenzione tramite il controllo metabolico. La progressione della neuropatia, inoltre, è dipendente dal controllo glicemico, in entrambi i tipi di diabete 1 e 2. Il danno, in corso di diabete, può essere a carico di tutte e tre le sezioni del sistema nervoso periferico: neuroni sensitivi, motori ed autonomici, e tutte le fibre sono vulnerabili. Le manifestazioni della neuropatia sono quindi diverse, assumendo forme molto varie, quali poli o mononeuropatie con disfunzioni che possono essere sensitive, sensitivo-motorie ed autonomiche. Le neuropatie diabetiche vengono così classificate: • polineuropatia simmetrica distale; • neuropatia disautonomica; • mononeuropatie dei nervi cranici, degli arti superiori e inferiori; • neuropatia diabetica prossimale; • mononeuropatie multiple. A. Polineuropatia simmetrica distale. La forma più comune tra le neuropatie diabetiche è la polineuropatia sensitivo-motoria simmetrica distale (oltre l’80% dei pazienti). È caratterizzata da una neuropatia sensitiva simmetrica distale ad inizio agli arti inferiori. L’esordio in genere è più precoce nei soggetti in cui il controllo metabolico non è soddisfacente. L’insorgenza è subdola nella maggior parte dei casi, anche se talvolta compare acutamente dopo un coma diabetico. I primi segni di neuropatia, quali l’areflessia achillea e l’ipopallestesia agli arti inferiori, sono presenti anche senza sintomi soggettivi. Quando questi compaiono sono rappresentati da senso di intorpidimento e parestesie a tipo formicolio e bruciori ai piedi. Il dolore, quando presente, può essere molto disturbante; è prevalentemente notturno e localizzato agli arti inferiori. All’esame obiettivo si può rilevare una diminuzione della sensibilità superficiale a calza. Talvolta si manifesta una grave compromissione della sensibilità profonda con atassia della marcia e ar-
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tropatia neuropatica che interessa anche le grosse articolazioni. Questa forma è nota con il nome di “pseudotabe diabetica”. I disturbi della sensibilità associati a disturbi circolatori possono determinare la comparsa di ulcere torbide facilmente sede di fatti suppurativi. Il decorso è caratterizzato da aggravamenti e remissioni improvvise solitamente, ma non sempre, correlati al grado di controllo metabolico.
duzione o l’assenza del riflesso rotuleo e talvolta una risposta cutaneo-plantare scorretta. Precede la comparsa dei sintomi un calo ponderale anche notevole (5-10 kg). È associata ad alterazioni di tipo microvasculiticoischemico e probabilmente la sua genesi è autoimmune. La prognosi anche in questo caso è buona, con recupero completo a condizione che si ottenga un buon controllo glicemico.
B. Neuropatia disautonomica. La neuropatia sensitivo-motoria è la forma di neuropatia più comune, ma c’è un aumento di prevalenza e impatto delle neuropatie autonomiche. Questa forma è presente da sola, ma spesso in associazione con la precedente polineuropatia simmetrica distale. I sintomi sono variabili e possono comparire all’inizio o dopo molti anni dall’esordio della malattia diabetica e variare da lievi fino a una compromissione delle attività quotidiane. Questa complicanza riduce la percentuale di sopravvivenza nei soggetti affetti, soprattutto per l’interessamento del sistema cardiovascolare. Per l’alterazione dell’innervazione cardiaca vagale si osserva una scarsa adattabilità della frequenza cardiaca in diverse situazioni funzionali, con conseguenti ipotensioni posturali talora gravi e accompagnate da sincope. La paresi gastrica è la complicanza più comune associata con il diabete, ma le disfunzioni del sistema autonomo possono colpire l’intero sistema gastroenterico dall’esofago fino al colon, con senso di nausea dopo i pasti, rallentato svuotamento gastrico, episodi di diarrea. Molto frequenti sono i sintomi a carico dell’apparato genitourinario. Precoce è la comparsa, nei soggetti maschi diabetici, di impotenza associata o meno a eiaculazione retrograda. Una vescica diabetica, caratterizzata da un ritardato stimolo ad urinare, con successiva dilatazione della vescica e perdita di urina, è comunemente presente in pazienti diabetici. Altri disturbi legati ad alterazioni del sistema nervoso autonomo sono la riduzione dell’innervazione pupillare, l’alterazione simmetrica della sudorazione con anidrosi inizialmente distale agli arti inferiori e con sudorazione paradossa del torace e del volto durante l’assunzione di cibi.
E. Mononeuropatie multiple. I nervi periferici possono essere lesi o isolatamente o in associazione, dando in quest’ultimo caso il quadro della mononeuropatia multipla. I nervi più frequentemente interessati sono l’ulnare, il radiale, il mediano per il plesso brachiale; lo sciatico, il femorale, il nervo cutaneo laterale della coscia e i peronei per il plesso lombare. L’insorgenza è acuta con comparsa di dolore e astenia nel territorio del nervo interessato. L’interessamento, in caso di monenuropatia multipla, non è simmetrico. La prognosi è buona con recupero in 6-8 settimane. Degno di nota il fatto che in soggetti diabetici è aumentata l’incidenza di sindromi da intrappolamento. A tutt’oggi non esiste un trattamento specifico della neuropatia diabetica. Esiste, comunque, una stretta correlazione fra controllo glicemico del diabete e complicanze: è evidente, infatti, una più alta percentuale di neuropatia nei pazienti con controllo glicemico peggiore. Data la frequenza dei disturbi della motilità intestinale, giovano talvolta complessi vitaminici del gruppo B allo scopo di reintegrare le perdite. A livello sintomatico sono utili gli analgesici, soprattutto quando il dolore diviene un sintomo molto fastidioso per il paziente. Buon effetto sul dolore si ottiene utilizzando il gabapentin, la carbamazepina e l’amitriptilina.
C. Neuropatia dei nervi cranici. Questa mononeuropatia compare prevalentemente in soggetti anziani. I nervi cranici più frequentemente interessati sono in ordine di frequenza il III, il IV e il VI, causando diplopia, seguiti dal VII con un quadro sovrapponibile alla paralisi di Bell. Nella paralisi del III paio è sempre risparmiata la componente oculo-intrinseca con risparmio della reattività pupillare. L’insorgenza è acuta, in genere monolaterale, ed è accompagnata in circa la metà dei casi da dolore. La prognosi è buona con recupero in genere completo. D. Neuropatia diabetica prossimale: amiotrofia diabetica. È caratterizzata da ipotonia, ipotrofia e ipostenia prossimale, e asimmetria agli arti inferiori spesso accompagnata da dolore prevalentemente notturno. I muscoli interessati sono il quadricipite femorale, l’ileopsoas e gli adduttori. All’esame clinico si notano la ri-
Neuropatia uremica È una neuropatia sensitivo-motoria che si manifesta in soggetti con insufficienza renale cronica. È presente, secondo vari Autori, nel 75% dei casi. L’eziologia pare sia imputabile ad un fattore metabolico non ancora identificato. Sono ritenute possibili cause: l’urea, carenze dietetiche o vitaminiche, il Mg++. La dialisi può portare ad un miglioramento della sintomatologia riportando i parametri metabolici nella norma. Dopo trapianto renale si sono avuti casi di completa guarigione clinica e strumentale della neuropatia. L’esordio è sempre distale e simmetrico con inizio agli arti inferiori. Raramente può manifestarsi come forma motoria pura. Generalmente inizia con parestesie a tipo bruciore e disestesie ai piedi, prevalentemente notturne. Compaiono poi disturbi motori quali ipostenia dapprima agli arti inferiori ed in seguito agli arti superiori. Frequentemente sono presenti anche disturbi della sensibilità profonda (ipopallestesia ed alterazioni del senso di posizione). Talora la neuropatia uremica può diventare gravemente invalidante fino alla tetraplegia. Più spesso si presenta come “sindrome delle gambe senza riposo” caratterizzata da continui movimenti nel tentativo di alleviare una sensazione di fastidio e dolo-
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re agli arti inferiori. A livello obiettivo esistono un innalzamento delle soglie della sensibilità superficiali e profonde e assenza dei riflessi osteotendinei. La progressione è cronica e ingravescente nella maggior parte dei casi, sebbene siano stati osservati un peggioramento ed un esordio acuto simile alla GBS. L’esame morfologico del nervo mostra una neuropatia di tipo assonale con perdita di fibre e demielinizzazione secondaria.
Neuropatia ipotiroidea La neuropatia periferica (escludendo la sindrome del tunnel carpale) avviene nel 17-60% dei pazienti con ipotiroidismo. La base patogenetica è metabolica. Tipicamente è una polineuropatia sensitiva motoria cronica di media entità con prevalenti parestesie. L’esordio è agli arti inferiori distalmente con interessamento successivo degli arti superiori e della parte prossimale degli arti inferiori. La sintomatologia è caratterizzata all’esordio da crampi e parestesie, complicati in seguito da deficit del senso di posizione ed ipostenia. La sintomatologia neuropatica a volte può costituire il sintomo d’esordio di un ipotiroidismo misconosciuto, mentre più frequentemente è associata a disturbi quali disfonia, atassia, mixedema e ipersensibilità al freddo. L’evoluzione della neuropatia è lentamente progressiva. L’esame neurofisiologico può evidenziare un danno di tipo assonale, mielinico o misto. La patologia mostra un danno che può essere prevalentemente demielinizzante o di degenerazione assonale. La perdita assonale solitamente è a carico delle fibre di grosso calibro. Le proteine liquorali possono essere aumentate. Il ritorno ad una situazione eutiroidea, con terapia ormonale sostitutiva, determina un miglioramento della neuropatia e nei, casi meno gravi, una completa guarigione.
Neuropatie nelle porfirie Le porfirie sono abitualmente classificate in base al loro prevalente sito di produzione. L’interessamento del sistema nervoso periferico avviene esclusivamente nelle porfirie epatiche ereditarie (porfiria acuta intermittente, porfiria variegata e coproporfiria ereditaria). Queste malattie sono trasmesse con carattere dominante e presentano attacchi acuti separati da fasi latenti della malattia. L’assunzione di alcuni farmaci (analgesici, barbiturici, sulfamidici, ecc.) ha talora un effetto scatenante. I sintomi iniziano in età adolescenziale e sono costituiti da deficit prevalentemente motori. Una sintomatologia dolorosa localizzata alla schiena o agli arti può precedere l’insorgenza dell’ipostenia. Gli arti superiori sono più frequentemente affetti degli arti inferiori ed i muscoli prossimali sono solitamente più interessati. Il deficit motorio è abitualmente simmetrico, ma può essere anche asimmetrico. Talvolta l’esordio della sintomatologia è costituito da parestesie prossimali, in genere rapidamente seguite da deficit motori. La neuropa-
tia abitualmente ha un decosrso più o meno rapidamente ingravescente, talvolta vi è una progressione a gradini con fasi di remissioni di giorni o settimane prima di un ulteriore aggravamento. Nella maggior parte dei casi l’apice della sintomatologia viene raggiunto in un periodo variabile da 1 a 4 settimane. Frequente è l’interessamento dei nervi cranici con la partecipazione del VII, del II, del V, dell’XI e del XII nell’ordine. I quattro arti sono quasi sempre interessati all’apice della neuropatia. Gli arti superiori sono più colpiti degli arti inferiori e la parte prossimale maggiormente della distale. I riflessi osteotendinei sono abitualmente diminuiti o assenti. I disturbi della sensibilità sono presenti in circa la metà dei casi e sono costituiti essenzialmente da disturbi soggettivi. La sensibilità tattile superficiale discriminativa può essere interessata, mentre la pallestesica e la statochinestesica sono risparmiate. Caratteristico, quando presente, è che il deficit sensitivo è prevalentemente prossimale. Completano il quadro sintomatologico della malattia l’incontinenza sfinterica, che può essere presente, alterazioni comportamentali quali depressione, insonnia, confusione, delirio, allucinazioni, crisi convulsive, che sono presenti in circa un quarto dei casi, e tachicardia persistente. La prognosi del paziente con neuropatia in corso di attacchi di porfiria acuta intermittente è sempre grave, con una mortalità di circa il 30%.
Neuropatie in corso di emopatie e neoplasie Le forme di neuropatia prese in esame in questo paragrafo, sono quelle associate ad emopatie e neoplasie. Una discrasia plasmacellulare, o gammopatia monoclonale, è attualmente riconosciuta come una delle cause principali di neuropatia. Nei pazienti affetti da gammopatia monoclonale, singoli cloni di cellule B proliferano in modo abnorme e secernono un eccesso di anticorpi. Questi anticorpi monoclonali possono essere di tipo IgG, IgM o IgA e vengono denominati componenti M. La maggior parte delle gammopatie monoclonali non ha carattere di malignità; tuttavia, in alcuni casi le cellule B proliferanti sono di natura maligna e possono associarsi ad un mieloma multiplo, in cui la componente monoclonale è solitamente IgG o IgA, alla macroglobulinemia di Waldenström, in cui la componente monoclonale è una IgM, al linfoma o all’amiloidosi primaria. Le neuropatie periferiche associate alle gammopatie monoclonali hanno una patogenesi eterogenea e possono essere ricondotte a un’attività autoanticorpale della componente monoclonale, a una crioglobulinemia, a un’amiloidosi, a un’infiltrazione dei nervi da parte delle cellule tumorali e, forse, all’azione di prodotti biologicamente attivi secreti dalle cellule linfatiche proliferanti. Si possono identificare numerose sindromi cliniche distinte. A. Gammopatia monoclonale benigna o gammopatia monoclonale di incerto significato (MGUS). Con il termine “benigne” si intendono quelle forme
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che, in soggetti apparentemente sani, presentano come unica anomalia una componente monoclonale nel siero. In questa forma la concentrazione della componente monoclonale rimane costante per molti anni, non si riscontrano raccolte focali di cellule tumorali e non si evidenziano sintomi e segni sistemici. Tuttavia, le gammopatie monoclonali benigne possono talora trasformarsi in maligne. Gli anticorpi sono IgG nel 60% dei casi, IgM nel 10-30% e IgA nei rimanenti casi. In circa la metà dei casi con neuropatia periferica associata a gammopatia monoclonale IgM, la proteina monoclonale ha attività autoanticorpale nei confronti della mielina ed in particolare della glicoproteina associata alla mielina (MAG). Tuttavia, in pazienti con neuropatia associata a gammopatia monoclonale IgM, numerosi altri antigeni del nervo periferico sono stati identificati come bersagli della paraproteina. Tra questi antigeni vanno ricordati i solfatidi, i neurofilamenti, il condroitin solfato e vari glicolipidi. Nei pazienti con neuropatia e gammopatia anti-MAG si documenta una neuropatia distale e simmetrica, lentamente progressiva, caratterizzata dall’esordio prevalentemente sensitivo, ma che comporta un successivo coinvolgimento motorio. La neuropatia si manifesta solitamente con atassia della marcia spesso associata a tremore agli arti superiori. I sintomi iniziano in genere intorno ai 50 anni e i maschi ne sono prevalentemente affetti. Il sistema nervoso centrale è risparmiato, ma può esservi un’alterazione dei potenziali evocati visivi. Frequentemente i pazienti presentano un aumento quantitativo nel siero delle immunoglobuline della classe M, mentre l’elettroforesi proteica o l’immunoelettroforesi rivela la presenza di un picco monoclonale. L’anticorpo monoclonale IgM ad attività anti-MAG è nella maggior parte dei casi l’espressione di una MGUS, sebbene in alcuni casi sia presente in corso di macroglobulinemia di Waldenström o di leucemia linfatica cronica. Gli studi elettrofisiologici mostrano alterazioni compatibili con una demielinizzazione o un danno misto di demielinizzazione e degenerazione assonale. L’analisi morfologica del nervo surale evidenzia la presenza di demielinizzazione segmentaria, talvolta accompagnata da degenerazione assonale. L’immunofluorescenza diretta mostra depositi di IgM e complemento sulle guaine mieliniche, suggerendo una possibile mediazione del complemento nell’insorgenza della malattia. Un allargamento delle lamelle mieliniche a livello delle linee di minor densità, che si ritiene sia tipico di questa forma di neuropatia, si osserva al microscopio elettronico. L’iniezione intraneurale dei sieri di alcuni pazienti con anticorpi anti-MAG comporta il legame degli anticorpi sulla superficie della mielina, demielinizzazione e anomalie della conduzione nervosa a livello del sistema nervoso periferico. Inoltre, una neuropatia demielinizzante è stata anche ottenuta con il trasferimento sistemico degli anticorpi nell’animale, confermando l’ipotesi di un ruolo patogenetico di questi anticorpi nella neuropatia. I solfatidi sono degli sfingolipidi acidi presenti nella guaina mielinica del sistema nervoso periferico. Anticorpi antisolfatidi sono stati descritti in pazienti con neuro-
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patia prevalentemente sensitiva o sensitivo-motoria. La neuropatia sensitiva è caratterizzata da parestesie dolorose e diminuzione della sensibilità tattile superficiale e termica. Gli anticorpi antisolfatidi possono essere sia delle IgG che delle IgM. Gli studi elettrofisiologici e morfologici possono evidenziare una neuropatia di tipo assonale o demielinizzante. L’esatto meccanismo di danno a livello del sistema nervoso periferico non è noto. Tuttavia, gli anticorpi antisolfatidi possono legarsi ad antigeni di superficie dei neuroni sensitivi dei gangli delle radici dorsali, esercitando in questa sede la loro probabile azione patogena. Inoltre, in alcuni pazienti gli studi di immunofluorescenza diretta evidenziano depositi di IgM e complemento a livello della guaina mielinica. I pazienti con neuropatia e gammopatia monoclonale (IgM anti-MAG) possono rispondere al trattamento con farmaci citostatici, atti a ridurre il livello di componente monoclonale. Può essere utile anche un trattamento plasmaferetico o con -globuline ad alte dosi. B. Neuropatia e mieloma. Il mieloma costituisce la forma clinica più importante di immunoglobulinopatia monoclonale ed è caratterizzato da un’infiltrazione plasmacellulare del midollo osseo con conseguenti alterazioni ematologiche (anemia e piastrinopenia) e ossee. Le lesioni ossee, nella maggior parte dei casi, hanno carattere osteolitico. Gli anticorpi monoclonali sono nel 60% dei casi IgG, nel 20% IgA, mentre nel restante 20% dei soggetti non sono presenti catene pesanti monoclonali (in circa la metà di questi si trovano nel siero e nelle urine solo catene leggere monoclonali). Una neuropatia clinicamente evidente è stata descritta nel 313% dei pazienti con mieloma, mentre nel 40-60% dei pazienti solo le indagini elettrofisiologiche o istologiche documentano l’esistenza di una neuropatia subclinica. Un fattore da tenere in considerazione è la presenza o meno di amiloidosi, che viene segnalata in circa il 15% dei casi di mieloma multiplo. Alcuni Autori ritengono che la patogenesi delle neuropatie del mieloma sia da ricondurre interamente all’amiloidosi, affermazione non condivisa da tutti gli Autori, ma che sottolinea quanto sia importante tale componente neuropatologica nella genesi di taluni aspetti clinici del danno del sistema nervoso periferico. Nel mieloma multiplo senza amiloidosi, la neuropatia spesso precede le manifestazioni cliniche del mieloma o coincide con la comparsa di queste ultime. La sintomatologia è nella maggior parte dei casi di tipo sensitivo-motorio, simmetrica e con inizio agli arti inferiori. Il suo decorso è gradualmente progressivo e può giungere ad una tetraparesi grave. Una componente dolorosa è stata frequentemente descritta, mentre non vi sono di solito segni clinici di disfunzione vegetativa. Le proteine liquorali sono frequentemente aumentate. Gli studi neurofisiologici e neuropatologici evidenziano una neuropatia prevalentemente di tipo assonale; in alcuni casi viene anche riferita demielinizzazione verosimilmente secondaria. Una proliferazione maligna di linfociti B IgM-secernenti si verifica nella macroglobulinemia di Waldenström con infiltrazione del midollo osseo da parte dei
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linfociti e plasmacellule. Una neuropatia periferica è stata descritta nell’8-25% dei pazienti con macroglobulinemia di Waldenström. Nella maggior parte dei casi descritti la sintomatologia neurologica compariva dopo che si erano manifestati i sintomi sistemici della malattia. La neuropatia ha un esordio insidioso subacuto, ma non mancano casi ad esordio acuto con un decorso simile a quello che si osserva nella poliradicolonevrite di Guillain-Barré. È tipicamente sensitivo-motoria, distale e simmetrica, e il quadro clinico è dominato da una sintomatologia dolorosa e crampiforme a cui può aggiungersi una franca ipoestesia distale. Le proteine liquorali sono solitamente aumentate. La neurofisiologia evidenzia segni di denervazione nei muscoli interessati, ma il dato caratteristico è costituito, nella maggior parte dei casi, da un marcato rallentamento delle velocità di conduzione motorie e sensitive. L’esame istopatologico del nervo può evidenziare un danno di tipo assonale o demielinizzante con infiltrazione linfocitaria nell’endonevrio e perinevrio. Questa neuropatia è frequentemente associata ad un’attività autoanticorpale delle componenti monoclonali. Una neuropatia è presente in circa il 50% dei pazienti con mieloma osteosclerotico in associazione con la sindrome POEMS (polineuropatia, organomegalia, endocrinopatia, componente monoclonale ed alterazioni cutanee). La neuropatia è sensitivo-motoria, distale, simmetrica e lentamente progressiva. Le indagini elettrofisiologiche evidenziano sia una demielinizzazione che una degenerazione assonale, mentre le indagini istologiche dimostrano una degenerazione assonale con demielinizzazione secondaria. Le componenti monoclonali sono in genere IgG o IgA, con catene leggere di tipo . La causa della neuropatia nella sindrome POEMS è sconosciuta: potrebbe essere legata all’attività autoanticorpale delle componenti monoclonali o alle citochine secrete dalle plasmacellule monoclonali, o ad altri fattori tuttora non identificati, alcuni dei quali potrebbero essere responsabili della neuropatia o della sindrome POEMS. C. Neuropatia associata ad amiloidosi primaria. L’amiloidosi è presente nel 20% dei pazienti con mieloma multiplo ed una neuropatia periferica si osserva nel 20% di tutti i pazienti con amiloidosi primaria da catene leggere. La neuropatia dell’amiloidosi primaria è tipicamente distale e simmetrica, caratterizzata da disestesie dolorose e compromissione autonomica, e da un successivo coinvolgimento motorio. Sono presenti, infatti, sintomi sensitivi che aprono solitamente la sintomatologia sotto forma di parestesie-disestesie con senso di intorpidimento, localizzate principalmente ai piedi ed alle mani. Quasi costante la componente dolorosa, descritta come dolore urente oppure come intorpidimento doloroso o, meno spesso, come dolore folgorante. Il deficit sensitivo coinvolge prevalentemente la sensibilità superficiale termodolorifica rispetto a quella profonda. I sintomi motori sono stati sempre segnalati in circa l’80% dei casi; essi compaiono in genere più tardi rispetto ai sintomi sensitivi. Un esordio unicamente motorio del quadro clinico è stato descritto in rari ca-
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si di amiloidosi primaria. Le alterazioni neurovegetative sono un aspetto clinico assai caratteristico dell’amiloidosi primaria: ipotensione ortostatica che può essere all’origine di episodi sincopali, disfagia, stitichezza, diarrea, anidrosi e disturbi sfinterici. L’esame neurofisiologico evidenzia una neuropatia di tipo assonale ed alterazioni delle velocità di conduzione nervosa a carico dei nervi mediano, ulnare e peroneo. L’esame morfologico del nervo surale evidenzia una perdita preferenziale di fibre amieliniche e di fibre mieliniche di piccolo calibro e depositi di sostanza amiloide a livello dell’endonevrio. D. Neuropatia associata a crioglobulinemia mista. Nella crioglobulinemia mista (Cap. 69) si può avere una neuropatia vasculitica. Nella maggior parte dei casi si tratta di crioglobuline di tipo II, composte da IgM monoclonali con attività di fattore reumatoide, capaci di legarsi ad IgG o IgA policlonali e di formare crioprecipitati. Una neuropatia periferica si osserva nel 715% dei pazienti con crioglobulinemia. Accanto alla crioglobulinemia essenziale o primaria vi sono situazioni come il mieloma multiplo, la macroglobulinemia, la panarterite nodosa, il lupus eritematoso, la sindrome di Sjögren, l’epatite cronica attiva in cui la comparsa di crioglobuline (crioglobulinemie secondarie) viene a complicare il quadro clinico. Tipicamente i sintomi sia generali che neurologici in corso di crioglobulinemia si accentuano (o addirittura compaiono) con l’esposizione al freddo. La neuropatia è tipicamente vasculitica ed ischemica, caratterizzata da un convolgimento asimmetrico e successivo dei singoli tronchi nervosi, a tipo mononeuropatia multipla. I sintomi comprendono parestesie ed ipoestesie soprattutto all’estremità distale degli arti inferiori con dolore muscolare, ipostenia ed atrofie muscolari, assenza dei riflessi profondi. Gli studi neurofisiologici evidenziano, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, segni di denervazione dei muscoli testati ed una neuropatia asimmetrica prevalentemente di tipo assonale. L’esame istologico del nervo surale dimostra degenerazione assonale, perdita di fibre mieliniche e, nella maggior parte dei casi, la presenza di infiltrati infiammatori linfocitari perivascolari con alterazione della parete dei vasi. E. Neuropatia paraneoplastica. Per sindrome paraneoplastica si intende una manifestazione clinica che si accompagna a tumori, ma non è dovuta all’azione diretta del tumore stesso. La neuropatia sensitiva subacuta (NSS) è la più frequente manifestazione clinica neurologica associata al microcitoma polmonare e rappresenta un “effetto remoto” del tumore sul sistema nervoso periferico. La NSS è caratterizzata da parestesie, dolore, intorpidimento con perdita delle sensibilità profonde, a distribuzione inizialmente asimmetrica ma in un secondo tempo interessante i quattro arti e frequentemente il tronco e il volto. Talora sono presenti anche disturbi della sfera autonomica come ipotensione ortostatica, ritenzione urinaria e riflessi pupillari alterati. L’andamento è rapidamente progressivo e
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solitamente tale sintomatologia esordisce prima della diagnosi di tumore, nella maggior parte dei casi un microcitoma polmonare. L’esame obiettivo evidenzia atassia sensoriale, areflessia osteotendinea, ipotrofia muscolare ed ipotonia. In circa la metà dei pazienti è inoltre rilevabile un coinvolgimento del SNC con segni e sintomi di interessamento cerebrale, cerebellare, del tronco encefalico e dei neuroni delle corna anteriori midollari. Gli studi elettrofisiologici mostrano alterazioni compatibili con un danno di tipo assonale. Il principale dato patologico consiste in una perdita di neuroni nei gangli delle radici dorsali accompagnata da infiltrati linfomonocitari e proliferazione delle cellule satelliti. Conseguentemente si hanno una perdita assonale e una riduzione delle fibre nervose periferiche e delle vie centrali nei cordoni posteriori. La biopsia del nervo surale non è specifica, evidenziando una perdita globale di fibre, sia di piccolo che di grosso calibro, mieliniche ed amieliniche associata a degnerazione assonale. Solitamente, non si osservano segni di rigenerazione assonale. Nel siero e nel liquor di questi pazienti si riscontrano anticorpi denominati ANNA-1 (Anti-Neuronal Nuclei Antibodies type I) o anti-Hu. La presenza di anticorpi anti-Hu è di regola evidenziata in pazienti con microcitoma polmonare, e può essere associata, oltre che ad una neuropatia sensitiva, ad un’encefalite limbica. Questi anticorpi, costituiti da IgG policlonali, riconoscono determinanti antigenici presenti sia nelle cellule tumorali che nelle strutture neuronali. In immunoistochimica gli anticorpi anti-Hu colorano i nuclei neuronali risparmiando il nucleolo. Gli antigeni proteici degli anticorpi anti-Hu hanno un peso molecolare compreso tra 35-40 kD e sono stati identificati sia nei nuclei delle cellule neuronali che in quelli delle cellule tumorali polmonari dei pazienti affetti da neuropatia sensitiva. Gli anticorpi anti-Hu sono considerati marker tumorali altamente specifici, in particolar modo in quei pazienti che lamentino disturbi sensitivi di tipo periferico o presentino un quadro clinico di encefalomielite o di danno cerebellare.
Neuropatie carenziali Le polineuropatie carenziali e avitaminosiche, tra cui è compresa per analogie eziopatogenetiche la polineuropatia alcolica, sono un gruppo di affezioni conseguenti ad un insufficiente apporto alimentare di vitamine, eventualmente aggravato da una maggior richiesta (per es., la gravidanza), da uno squilibrio dietetico (alcoliche) oppure da un alterato assorbimento intestinale. Le sindromi da malassorbimento di origine gastrica (gastrite atrofica), di origine epatica (ittero ostruttivo, cirrosi), da enteropatia (morbo celiaco, enteriti croniche) e le gravi malattie croniche sistemiche nel loro complesso possono presentare disturbi neurologici di tipo periferico da carenza vitaminica. Gli stati carenziali sono i seguenti: • decit di vitamine del complesso B (tiamina B1–piridossina B6–cianocobalamina B12);
• deficit di acido folico; • deficit di acido pantotenico; • decit di acido nicotinico (vitamina PP). Come si osserva nella maggior parte delle polineuropatie, indipendentemente dalla loro eziopatogenesi, gli aspetti clinici della polineuropatia carenziale sono quelli di una neuropatia sensitivo-motoria. La polineuropatia alcolica e il beri-beri, che presentano una serie di analogie cliniche, sono sicuramente legati ad una carenza vitaminica, sebbene non sia palese il rapporto tra una sola delle vitamine citate e il quadro neuropatico. La forma più comune, nel mondo occidentale e nei Paesi dell’Europa orientale, è quella associata all’alcolismo. La polineuropatia alcolica è molto diffusa ed il paziente ha una storia di eccessivo consumo di alcool ed una scarsa ingestione di cibo. La polineuropatia alcolica interessa il 10% dei pazienti con evidenza anamnestica e clinica di esotossicosi alcolica. In circa la metà di questi casi il danno neurogeno è molto lieve, spesso asintomatico e messo in evidenza solo dall’esame obiettivo neurologico o da esami strumentali come l’elettromiografia. L’esordio è solitamente ad insorgenza insidiosa, per lo più sensitivo, con sensazioni di intorpidimento dei piedi, dolore sordo distale, ma sono possibili anche dolori lancinanti di breve durata. Caratteristica è la sensazione di piedi “brucianti” con zone iperestesiche che, stimolate anche lievemente, provocano dolori intensissimi. L’instabilità della marcia, caratteristica delle lesioni dei cordoni posteriori, può essere legata anche ad alterazioni della sensibilità profonda da danno periferico; all’esame obiettivo neurologico, alterazioni della sensibilità superficiale e profonda si presentano di frequente con una distribuzione caratteristica. I disturbi motori si manifestano con ipostenia ed ipotonia più a carico del distretto distale che prossimale e con interessamento degli arti inferiori maggiore di quello degli arti superiori. Non è infrequente la paresi della dorsiflessione dei piedi e delle mani, sono frequenti disturbi crampiformi. I riflessi osteotendinei sono sempre diminuiti, frequentemente l’achilleo ed il rotuleo sono assenti. I nervi cranici sono per lo più risparmiati, ma in qualche paziente si notano disfagia, disfonia e sintomi di interessamento del sistema nervoso autonomo come ipotensione ed ipotermia. La neuropatia è a decorso subauto o cronico, l’andamento è influenzato da una dieta adeguata e dall’integrazione vitaminica. L’astensione dall’alcool non deve essere brusca per il rischio di esordio di alterazioni delle funzioni psichiche in relazione all’astinenza (delirium tremens). Paradossalmente, se assunta a dosi eccessive la piridossina può indurre una neuropatia periferica. La guarigione delle polineuropatie nutrizionali è un processo molto lento. La neuropatia da deficit di acido nicotinico (vitamina PP) dà un quadro clinico solitamente caratterizzato da coinvolgimento del sistema nervoso centrale (epilessia, depressione, episodi deliranti acuti, disorientamento spazio-temporale). I segni periferici sono meno evidenti e consistono in ipotrofia ed ipostenia per la com-
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ponente motoria, e parestesie distali per la componente sensitiva. La terapia anche in questo caso è sostitutiva. Il defict di vitamina B12 è frequente in caso di patologia gastrica e nelle malattie da malassorbimento. Il quadro clinico è dominato da segni e sintomi da interessamento delle vie lunghe posteriori (mielosi funicolare) con atassia e spasticità, mentre l’interessamento del nervo perferico si manifesta con disturbi parestesici distali a gradiente. La terapia sostitutiva con vitamina B12 è efficace nell’ottenere una regressione dei sintomi in caso di diagnosi tempestiva. Cardini della diagnosi differenziale tra le polineuropatie carenziali ed alcolica e le altre forme di neuropatia (sia acquisite che ereditarie) sono: un’anamnesi accurata; il frequente cointeressamento del sistema nervoso centrale. Fondamentali i dati ematologici ed ematochimici: i dosaggi dei livelli plasmatici delle vitamine e dei folati; il riscontro di frequenti anemie ed epatopatie.
Neuropatie tossiche Il numero delle sostanze note in grado di determinare un danno a livello del sistema nervoso periferico è in continuo aumento, dato il crescente impiego di prodotti chimici nell’agricoltura, nell’industria e soprattutto in campo medico, come l’utilizzo di agenti antineoplastici. Per la maggior parte le neuropatie tossiche sono sporadiche e dovute ad intossicazioni intenzionali (tentativi di suicidio o omicidio) o accidentali (individuali o in piccoli gruppi di persone) per esposizione in ambiente di lavoro. Solitamente le neuropatie tossiche sono polineuropatie sensitivo-motorie croniche. Tuttavia, certe sostanze quali gli organofosforici e il tallio determinano una neuropatia che può essere fatale nel giro di pochi giorni. A. Neuropatie tossiche ambientali. 1. Acrilamide. Viene impiegata nell’industria della carta e per stabilizzare il suolo nelle operazioni di perforazione. I primi sintomi da intossicazione consistono in dolori crampiformi e parestesie agli arti inferiori, successivamente compare atassia da deficit delle sensibilità statochinestesica. L’esame obiettivo evidenzia areflessia, ipoestesia per varie modalità sensitive ed ipostenia distale. L’esame neurosisiologico e il quadro neuropatologico sono caratterizzati prevalentemente da un danno assonale con una riduzione delle fibre di grosso calibro. La neuropatia è reversibile nelle prime fasi di malattia e nei casi meno gravi con l’allontamento dall’esposizione all’acrilamide del soggetto affetto. 2. Composti organofosforici. Sono impiegati come pesticidi, lubrificanti e plastificanti. In acuto tali composti provocano una sindrome colinergica acuta in relazione all’effetto anticolinesterasico, successivamente invece compare una neuropatia periferica sensitivo-motoria assonale, dapprima agli arti inferiori poi agli arti
superiori. Il recupero è lento, spesso incompleto. Tra le altre sostanze ad uso industriale, in grado di provocare una neuropatia sensitivo-motoria, vi sono alcuni solventi come il disolfuro di carbonio. B. Neuropatie tossiche dovute a metalli. 1. La neuropatia a seguito di intossicazione da arsenico sembra essere la più comune tra le neuropatie da metalli. L’intossicazione da arsenico è di solito legata a scopi criminali, accidentali (cibo contaminato) o occupazionali (industria del cuoio, degli insetticidi e delle vernici). L’intossicazione acuta è caratterizzata da dolori addominali, vomito o diarrea; quella cronica presenta invece un esordio insidioso e sintomi aspecifici come anoressia, nausea ed astenia diffusa. La neuropatia, che può avvenire a distanza di 1-3 settimane dall’esposizione al metallo, è solitamente sensitivo-motoria, simmetrica, a calza o a guanto, sia del deficit sensitivo che di quello motorio. Le parestesie dolorose sono spesso imponenti e presenti sia agli arti superiori che inferiori. L’osservazione di caratteristiche striature alle unghie e di un’ipercheratosi palmoplantare è suggestiva di avvelenamento arsenicale, che può essere confermato da un dosaggio del metallo nelle urine e nei capelli. 2. L’intossicazione da piombo è in grado di produrre nel bambino un’encefalopatia (convulsioni, ipertensione endocranica, cecità e coma), mentre nell’adulto più spesso induce una neuropatia. L’esposizione cronica al piombo è frequente tra gli operai idraulici, i pittori, i fabbricanti di accumulatori e, in passato, tra i tipografi e i lavoratori esposti ad esalazioni di motori a scoppio. Il disturbo neuropatico, non sempre simmetrico, si presenta con una sintomatologia motoria così rilevante da far passare in secondo piano i deficit sensitivi. Vengono interessati soprattutto i distretti distali degli arti superiori. Caratteristica è la paralisi dei nervi radiali, che si manifesta con la caduta del polso che, sebbene meno frequente, ha come corrispettivo agli arti inferiori la caduta del piede per paralisi dei nervi peronei. In associazione si possono avere coliche addominali, un’anemia con punteggiatura dei globuli rossi o il tipico orletto gengivale. La diagnosi è facilitata anche della determinazione di un’aumentata escrezione urinaria del metallo. L’uso di D-penicillamina è raccomandato. 3. Avvelenamenti cronici dovuti ad altri metalli come il mercurio o il tallio possono produrre quadri clinici simili alla polineuropatia arsenicale. I sali di tallio, se assunti in dose sufficiente, possono indurre la comparsa di un quadro clinico simile alla GBS o a quello di una neuropatia acuta sensitiva. Se i sali sono assunti per os, compaiono dapprima dolore addominale, vomito e diarrea, seguiti dopo pochi giorni da dolori e sensazioni di punture di spillo alle dita dei piedi ed alle mani, e poi da rapido indebolimento dei muscoli di gambe e braccia. Anche i nervi cranici possono essere colpiti. La diagnosi differenziale con la GBS è spesso consentita dalla rapida perdita dei capelli indotta dal tallio. Per quanto concerne
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la terapia, l’eliminazione dei sali di tallio è accelerata dall’assunzione di cloruro di potassio. C. Neuropatia da farmaci. Numerosi farmaci possono indurre neuropatia. Tra questi il disulfiram, usato nella terapia dell’alcolismo cronico; l’amiodarone, utilizzato nelle aritmie cardiache; la vincristina, il cis-platino e i taxami, usati nella terapia antitumorale. Una rara complicazione del trattamento con disulfiram è rappresentata da una neuropatia diffusa ai quattro arti con deficit iniziale sensitivo e successivamente motorio. Il rischio di misconoscere il possibile effetto dannoso del farmaco, imputando i disturbi all’intossicazione alcolica, può indurre il clinico a proseguire la terapia quando una sua sospensione favorirebbe la guarigione. La neuropatia è dose-dipendente e di tipo assonale. 1. L’amiodarone, utilizzato in pazienti con aritmia cardiaca, può indurre una neuropatia periferica nel 610% dei pazienti in terapia. È una neuropatia dose-dipendente e può essere simile, da un punto di vista clinico e neurofisiologico, ad una neuropatia infiammatoria (GBS o CIDP). 2. La neuropatia indotta dalla vincristina inizia solitamente con parestesie a tipo formicolio a distribuzione distale agli arti. L’ipostenia rappresenta poi una delle manifestazioni più rilevanti, esitando in paralisi complete della muscolatura estensoria delle dita e del polso agli arti superiori. Il deficit motorio alle gambe rimane confinato distalmente, ma in pochi casi risulta così marcato da impedire il mantenimento della stazione eretta. La neuropatia migliora anche con la sola riduzione del dosaggio. 3. I taxami – paclitaxel e docetaxel – costituiscono una classe di chemioterapici con una dimostrata attività antitumorale nei confronti di una varietà di tumori solidi come quello dell’ovaio, della mammella, del pancreas e dell’intestino, spesso refrattari alla chemioterapia tradizionale. Un importante effetto tossico è lo sviluppo di una neuropatia periferica che rappresenta il più importante effetto indesiderato non ematologico (neutropenia) ed è spesso dose-limitante. La neurotossicità da docetaxel è stata osservata nel 10-50% dei pazienti trattati. I sintomi delle neuropatie indotte da farmaci, iniziano ad una dose cumulativa tra i 50 e 720 mg/m2 e possono essere reversibili alla sospensione del trattamento. Solitamente le manifestazioni iniziali sono rappresentate da una neuropatia periferica prevalentemente sensitiva con parestesie a tipo formicolio a calza e guanto. Spesso si osserva una perdita distale e simmetrica della sensibilità vibratoria, propriocettiva, termica e dolorifica. Tuttavia, una neuropatia sensitivo-motoria è più comune di quanto si pensasse inizialmente. La debolezza muscolare è di solito moderata e localizzata alla muscolatura distale degli arti. Gli studi neurofisiologici evidenziano un danno di tipo assonale. La bio-
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psia del nervo surale mette in evidenza un danno di tipo assonale, costituito da una grave perdita del numero di fibre di grosso e piccolo calibro, atrofia assonale con alterazioni ed aggregazioni dei microtubuli, degenerazione assonale e rigenerazione assonale.
Radicolopatie e plessopatie Nella prima parte di questo paragrafo sono prese in considerazione le affezioni riguardanti le porzioni del sistema nervoso periferico entro il canale spinale, fissate alle superfici ventrale e dorsale del midollo spinale: le radici spinali. La seconda parte è dedicata alla patologia dei plessi, luogo di passaggio tra le radici ed i tronchi nervosi, che costituiscono un sistema di anastomosi tra le fibre nervose provenienti da radici spinali differenti. Radicolopatia cervicale La radicolopatia cervicale è una condizione comune a maggior prevalenza femminile. Le cause comuni di radicolopatia sono la protrusione cervicale e la spondilosi, condizione degenerativa del disco e del corpo vertebrale con formazione di osteofiti e conseguente stenosi dei forami di coniugazione. I fattori di rischio sono il sollevamento di pesi, incidenti automobilistici o sportivi. Le forme poliradicolopatiche possono frequentemente associarsi a diabete. La diagnosi di radicolopatia cervicale si basa sulla storia clinica e l’esame obiettivo. I sintomi prevalenti sono dolore all’arto, parestesie, sensazione di intorpidimento e ipostenia. Il dolore è il primo sintomo nelle forme acute, ma non ha valore localizzatorio. Talvolta, però, la distribuzione del dolore è radicolare. A volte il dolore è esacerbato dalla manovra di Valsalva, a causa dello stiramento della dura madre a livello del punto di compressione intraspinale. Anche le parestesie e la sensazione di intorpidimento spesso non hanno valore localizzatorio e possono peggiorare con la manovra di Valsalva. In caso di compressione sul midollo possono essere presenti anche disturbi minzionali (urgenza o incontinenza minzionale/fecale). L’esame obiettivo neurologico deve cogliere la distribuzione radicolare dell’ipostenia e l’alterazione dei riflessi osteotendinei e della sensibilità in relazione al livello anatomico della radice coinvolta. È utile, inoltre, valutare il segno di Lhermitte, che si esplica facendo flettere attivamente il capo al paziente. La radicolopatia cervicale entra in diagnosi differenziale con l’amiotrofia nevralgica (sindrome di Sudeck), la plessopatia brachiale acuta traumatica, la sclerosi laterale amiotrofica e la sindrome dell’egresso toracico. Radicolopatia toracica La presentazione clinica tipica della radicolopatia toracica è con dolore e parestesie che si irradiano dalla parte posteriore del dorso nel territorio di distribuzione dermatomerica di quella radice. Talora tali sintomi entrano in diagnosi differenziale con dolori di origine addominale o cardiaca. I deficit sensitivi sono tipici nel
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territorio di distribuzione della radice nervosa. L’ipostenia è difficilmente dimostrabile, in quanto coinvolge i muscoli intercostali ed addominali. Le principali cause di radicolopatie toraciche sono: herpes zoster, radicolopatia di Lyme, radicolopatia diabetica toracoaddominale, tumori spinali, erniazione discale, spondilosi, lesione traumatica della radice nervosa, ascesso o ematoma spinale epidurale.
branche delle radici costituiscono i tronchi primari: il tronco superiore (branca anteriore di C5 e C6), il tronco medio (sola radice di C7) e il tronco inferiore (dalla fusione delle radici di C8 e D1). I tronchi primari si dividono in rami posteriori ed anteriori. Le lesioni del plesso brachiale (Tab. 85.2) sono quasi sempre di origine traumatica e si distinguono tre tipi di paralisi, in rapporto alle radici interessate:
Radicolopatia lombosacrale Il sintomo predominante è il dolore, ma hanno maggior valore localizzatorio la distribuzione delle alterazioni della sensibilità (parestesie o ipoestesie) e l’ipostenia. Talvolta, tuttavia, non è interessato l’intero dermatomero o miotomo, pertanto possono essere coinvolte solo le porzioni distali degli arti creando problemi di diagnosi differenziale con lesioni del nervo o del plesso. Le poliradicolopatie lombosacrali possono associarsi alla sindrome della cauda equina, caratterizzata da dolore acuto e parestesie in regione sacrale, anestesia a sella, disfunzioni vescicali o intestinali, possibile ipostenia degli arti inferiori progressiva e claudicatio intermittens. Le cause più comuni di radicolopatia sono le erniazioni discali e la spondilosi. L’esame obiettivo neurologico evidenzia un deficit neurologico a distribuzione radicolare. Positiva la manovra di Laségue, volta a stirare il nervo sciatico e le radici associate L5-S1 determinando la comparsa di dolore. L’arto coinvolto deve essere flesso all’anca ed esteso al ginocchio a paziente supino. La comparsa di dolore a meno di 70° è considerata positiva. Analogamente l’estensione dell’arto all’anca a paziente prono determina lo stiramento delle radici più prossimali L2-L4. L’obiettivo del trattamento consiste nel ridurre il dolore, stabilizzare o migliorare i deficit nervosi, prevenire le complicanze midollari qualora ve ne sia il rischio. Il trattamento delle radicolopatie acute/croniche consiste in diversi approcci terapeutici a seconda della gravità: educazione del paziente (evitare il sollevamento di pesi), terapie fisiche, terapie mediche (antidolorifici, infiltrazioni a base di steroidi), intervento chirurgico (laminectomia e fusione). Nelle radicolopatie cervicali il collare cervicale non è raccomandato perché previene la precoce mobilizzazione del rachide cervicale.
• tipo superiore (C5-C6); • tipo medio (C7); • tipo inferiore (C8-D1).
Plessopatie Il plesso brachiale è costituito dalle divisioni anteriori e posteriori di cinque radici: C5, C6, C7, C8 e D1. Le
Le lesioni del plesso superiore sono causate frequentemente da stiramento. Nella paralisi del plesso superiore (o di Erb-Duchenne) il deficit interessa prevalentemente la spalla con atrofia dei muscoli del cingolo scapolare e della parte anteriore del braccio. I movimenti della spalla e del gomito sono compromessi; l’arto pende inerte lungo il tronco, atteggiato in adduzione per paralisi del deltoide (abduttore del braccio), intrarotato per paralisi del sopraspinoso, sottospinoso e piccolo rotondo (extrarotatori del braccio) ed esteso al gomito. Sono conservati i movimenti della mano e del polso. Il riflesso bicipitale è assente. Si evidenzia un deficit sensitivo sulla superficie esterna del braccio e dell’avambraccio. Nelle lesioni di tipo medio si assiste ad una lesione isolata di C7. È molto rara ed è caratterizzata da un deficit soprattutto dell’estensione della mano e delle dita (estensori lunghi). Si evidenzia un deficit sensitivo del 2°, 3° e 4° dito. Il riflesso tricipitale è ridotto o assente. La paralisi del plesso inferiore (di DéjerineKlumpke) è anch’essa dovuta a stiramento; il deficit interessa soprattutto la mano, che assume un atteggiamento “ad artiglio”. Si osserva, infatti, un deficit della flessione del polso e della flessione ed abduzione delle dita per paralisi dei muscoli flessori delle dita e dei muscoli interossei e lombricali. Le eminenze tenar ed ipotenar sono appiattite e gli spazi interossei appaiono incavati. Vi è un deficit sensitivo lungo il margine ulnare della mano e dell’avambraccio. Sono conservate le funzionalità del deltoide e degli altri muscoli della spalla. Talvolta, si può associare una sindrome di Claude Bernard-Horner: miosi, restringimento della rima palpebrale, enoftalmo. Nelle paralisi totali del plesso brachiale, clinicamente si assommano i precedenti sintomi.
Tabella 85.2 - Diagnosi differenziale tra lesioni radicolari e lesioni del plesso brachiale. RADICE CERVICALE Distribuzione monoradicolare o pluriradicolare Dolore cervicale Liquor con aumento di proteine o cellule Liquor chiaro Potenziale d’azione nervoso sensitivo normale EMG: denervazione della muscolatura paravertebrale (dopo 1 settimana) Mielografia: tasche radicolari vuote o rotte
PLESSO BRACHIALE Sempre pluriradicolare Nessuna sindrome dolorosa cervicale Potenziale d’azione nervoso notevolmente ridotto EMG: muscolatura paravertebrale normale Mielografia: normale
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Una forma particolare è l’amiotrofia nevralgica (Parsonage-Turner). È una neurite brachiale che può insorgere acutamente in un soggetto in buona salute. Il quadro clinico è caratterizzato da dolore alla spalla, al collo e può essere molto intenso. Dopo un breve periodo di tempo (3-10 giorni) segue una paralisi muscolare che porta ad una perdita totale o quasi totale della forza nei muscoli colpiti (dentato anteriore, deltoide, tricipite o del bicipite), a differenza delle lesioni radicolari che non provocano quasi mai la paralisi completa di un muscolo. Sono ridotti o aboliti i riflessi bicipitale e tricipitale. La sindrome è solitamente autolimitante con ripristino delle sensibilità e recupero della forza in 6-12 settimane (sono stati descritti dei casi, tuttavia, con tempo di recupero superiore all’anno). Il plesso brachiale anteriore può essere compromesso nella sindrome dell’egresso toracico (costa sovrannumeraria, ipertrofia ed anomalie dello scaleno medio) con distribuzione del dolore e dei deficit sensitivi soprattutto nel territorio del nervo ulnare. Si ha inoltre compressione dell’arteria e vena succlavia (ischemia dell’arto, fenomeno di Raynaud, unghie fragili, alterazioni cromatiche scure del braccio, edema). Le lesioni da stiramento del plesso lombare (L1-L4) e del plesso sacrale (L5-S5) sono rare. Solitamente, le lesioni di questi due plessi si osservano per tumori degli organi del piccolo bacino o come conseguenza di parti prolungati e difficili ed interventi ginecologici. Una lesione del plesso lombare (radici superiori) può determinare un deficit dell’ileopsas e del quadricipite (nervo femorale) con difficoltà nel salire le scale. Si evidenzia deficit sensitivo a livello della superficie anteriore e mediale della coscia. Nella lesione delle radici inferiori si osserva un deficit dell’adduzione della coscia, oltre al deficit dell’estensione della gamba. Nelle lesioni del plesso sacrale, il quadro clinico è quello tipico da lesione del nervo sciatico.
Mononeuropatie da compressione o intrappolamento I nervi periferici nel loro decorso vengono spesso a trovarsi in canali o docce atte, in condizioni normali, ad ospitarli. Quando, per qualsiasi ragione, questi canali si restringono o il nervo diviene più suscettibile alla compressione si determina un danno della fibra nervosa e si ha una mononeuropatia. Questa mononeuropatia può essere osservata nell’ipotiroidismo per accumulo di mucopolisaccaridi, nell’acromegalia, nell’amiloidosi, nelle patologie infiammatorie ed in particolare nell’artrite reumatoide per ipertrofia dei tessuti molli. Un aumento della suscettibilità alla compressione del nervo è presente in gravidanza e nel diabete. Il sintomo principale della neuropatia da intrappolamento è il dolore, disturbante, accessuale, notturno, per
MALATTIE NEUROLOGICHE
lo più localizzato nella sede della compressione, ma che può irradiare sia in senso prossimale che distale. Inizialmente il dolore è accompagnato da parestesie, seguito da ipoestesie più per la sensibilità tattile che dolorifica, e da disturbi della vasoregolazione e della termoregolazione. Compaiono in seguito ipostenia ed atrofia muscolare per i nervi con componente motoria. A livello obiettivo, nella seconda fase si notano ipoestesia e atrofia muscolare nel territorio di distribuzione del nervo, mentre i riflessi osteotendinei non sono generalmente ridotti. Questo dato permette una diagnosi differenziale con forme mononeuropatiche di altra eziologia. Caratteristico è il segno di Tinel: comparsa di una sensazione parestetica suscitata dalla compressione nella sede di intrappolamento. La diagnosi precoce, quando esista il sospetto di intrappolamento, è possibile tramite gli esami neurofisiologici, che mostrano un marcato rallentamento delle velocità di conduzione a livello della sede della compressione. I nervi più frequentemente interessati sono i seguenti: • Arti superiori: – nervo mediano a livello del tunnel carpale o al passaggio sotto il pronatore rotondo all’avambraccio. La sindrome del tunnel carpale è più frequente nelle donne ultraquarantenni. Clinicamente è caratterizzata da parestesie alla faccia palmare del 1°, 2° e 3° dito della mano e alla metà radiale del 4° dito. Nei casi cronici il quadro si aggrava per la comparsa di deficit motori con ipotrofia dell’eminenza tenar e dei movimenti di opposizione e abduzione palmare del pollice; – nervo ulnare al gomito a livello del condilo mediale e nel tunnel di Guyon al polso; – nervo radiale a livello ascellare e a livello del muscolo supinatore. • Arti inferiori: – nervo cutaneo laterale della coscia a livello della spina iliaca antero-superiore sotto la fascia addominale, che causa meralgia parestetica con dolore urente alla faccia laterale della coscia fino al ginocchio; – nervo tibiale al di sotto del malleolo interno nel tunnel tarsale e tra il 3° e il 4° osso metatarsale nella metatarsalgia di Morton, un neuroma legato all’aumentata pressione, spesso da calzature strette. La terapia si basa, nelle fasi iniziali, sull’uso di farmaci antinfiammatori o sull’infiltrazione locale di corticosteroidi. Nei casi resistenti e nei casi in cui l’esame neurofisiologico mostra un maggior danno è indicato l’intervento chirurgico di sbrigliamento. In caso di malattie sistemiche la terapia dell’affezione di base, negli stadi precoci della neuropatia, può permettere di evitare l’intervento. Sarà utile inoltre allontanare il paziente da attività lavorative che possano determinare un aggravamento della patologia.
C A P I T O L O
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86
MIOPATIE S.C. PREVITALI, M. COMOLA
Premessa In questo capitolo vengono prese in considerazione le malattie dei muscoli volontari e della giunzione neuromuscolare. Il termine “miopatia” si riferisce ad un’affezione primitiva della funzione muscolare a cui si possono associare segni e sintomi che coinvolgono altre strutture del sistema nervoso (sia periferico che centrale) o di altri organi ed apparati (sistema cardiocircolatorio, sistema endocrino, sistema immunitario, sistema visivo, ecc.). Il rapido progredire delle conoscenze in questo campo rende estremamente difficile una classificazione sistematica definitiva di tali malattie. Le nuove tecniche di diagnostica molecolare hanno permesso di identificare e raggruppare alcune forme in specifiche entità nosologiche. Si possono fondamentalmente distinguere tre grandi gruppi: le miopatie ereditarie/congenite, le miopatie acquisite e i disordini della trasmissione neuromuscolare. Ognuno di questi gruppi comprende poi entità nosologiche ben distinte (Tab. 86.1). Muscolo striato scheletrico Una così ampia suscettibilità alla malattia dipende dall’intricata struttura del muscolo striato. Il singolo muscolo è composto da numerose fibre orientate fra loro parallelamente e di diametro variabile da 10 a 100 m. Ogni singola fibra si presenta come una cellula polinucleata, con i nuclei disposti sotto la membrana citoplasmatica (sarcolemma); nel citoplasma (sarcoplasma) si riconoscono l’apparato contrattile, formato dalle miofibrille composte da filamenti di proteine contrattili (actina e miosina), gli organuli cellulari (mitocondri, apparato del Golgi, ecc.), il glicogeno, gocciole lipidiche, gli enzimi e la mioglobina, composto ferroproteico deputato all’immagazzinamento e al trasporto dell’ossigeno (si veda Fig. 86.1). L’unità d’azione delle singole fibre muscolari, la loro innervazione e vascolarizzazione sono sostenute dal tessuto connettivo
che avvolge le singole fibre (endomisio), le riunisce in fascicoli primari e secondari (perimisio) e avvolge infine questi ultimi (epimisio). Particolari reazioni istoenzimatiche hanno evidenziato la presenza nel muscolo umano di due classi di fibre muscolari. Le prime (tipo 1) sono ricche in mitocondri ed enzimi ossidativi; presentano una contrazione lenta ed intervengono soprattutto in reazioni toniche posturali. Le seconde (tipo 2) sono ricche in glicogeno e miofosforilasi, presentano una contrazione rapida e sono maggiormente coinvolte nelle reazioni fasiche. Tali aspetti biochimico-funzionali delle fibre muscolari sono determinati dal prevalente metabolismo dei motoneuroni deputati alla loro innervazione. Tutte le fibre innervate da un motoneurone appartengono allo stesso tipo fibrale. È questo il concetto dell’unità motoria, intesa come unità fisiologica di base per tutte le attività motorie: riflessa, posturale, volontaria. Nei muscoli umani sono rappresentati ambedue i tipi fibrali e, poiché le singole unità motorie tendono ad embricarsi tra loro, il risultato è un aspetto a mosaico nelle sezioni trasversali di muscolo colorate con opportuni metodi istochimici. Giunzione neuromuscolare Gli elementi costitutivi della giunzione neuromuscolare sono il terminale della fibra nervosa motoria e la sottostante membrana muscolare (placca motrice). Tra i due componenti non c’è continuità, ma esiste uno spazio, la fessura sinaptica. Nel terminale nervoso sono presenti vescicole contenenti acetilcolina. Quando l’impulso nervoso giunge alla terminazione, provoca la liberazione di “quanti” di acetilcolina dalle vescicole, con passaggio nella sinapsi e fissazione ai recettori specifici posti a livello della placca motrice. Ne risulta la depolarizzazione della placca che, propagandosi a tutta la fibra, dà origine alla contrazione. L’acetilcolina viene quindi inattivata, la membrana muscolare si ripolarizza e torna ad essere nuovamente eccitabile.
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MALATTIE NEUROLOGICHE
Tabella 86.1 - Classificazione delle malattie muscolari più frequenti. MIOPATIE EREDITARIE E CONGENITE Distrofinopatie – Distrofia muscolare di Duchenne (DMD) – Distrofia muscolare di Becker (BMD) Distrofia muscolare dei cingoli (LGMD) • Forme autosomiche dominanti – LGMD1A Miotilina – LGMD1B Lamina A/C – LMGD1C Caveolina-3 • Forme autosomiche recessive – LGMD2A Calpaina-3 – LGMD2B Disferlina – LGMD2C -sarcoglicano – LGMD2D -sarcoglicano – LGMD2E -sarcoglicano – LGMD2F -sarcoglicano – LGDD2G Telethonina – LGMD2H TRIM32 – LGMD2I FKRP – LGDD2J Titina Distrofie scapolo-peroneali – Emery-Dreifuss tipo 1 – Emery-Dreifuss tipo 2 Distrofia facio-scapolo-omerale Distrofia miotonica (DM) – DM1 tipo Steinert – DM2 tipo PROMM – DM3 Canalopatie – Paralisi periodiche ipokaliemiche – Paralisi periodiche iperkaliemiche – Paralisi periodiche normokaliemiche – Miotonia congenita di Thomsen e Becker – Miotonie aggravate dal potassio – Paramiotonia congenita Miopatie miofibrillari – Desmina – -cristallina – Miotilina Miopatie distali – Welander – Miyoshi (disferlina) – Finnish-Markesbery (titina) – Miopatia da corpi inclusi – Oculofaringodistale – Telethonina Miopatie congenite – Distrofia muscolare congenita – Miopatia nemalinica – Central core myopathy – Miopatia miotubulare – Multicore – Miopatia di Bethlem – Altre
MIOPATIE ACQUISITE Miopatie infiammatorie • Infettive – Virali – Batteriche – Micotiche – Parassitarie – Miosite focale • Disimmuni – Polimiosite – Dermatomiosite – Associate a connettiviti – Miosite da corpi inclusi Miopatie dismetaboliche – Glicogenosi – Deficit di mioadenilato-deaminasi – Miopatie da accumuli lipidici – Miopatie mitocondriali Miopatie disendocrine – Distiroidismo – Miopatia steroidea – Osteomalacia Miopatie tossiche • Etiliche • Farmaco-indotte – Statine – Amiodarone – Colchicina – Zidovudina – Steroidi – Litio – Altri
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86 - MIOPATIE
Inquadramento semeiologico Un’accurata raccolta della storia clinica ed un attento esame obiettivo sono di fondamentale importanza per formulare un’ipotesi diagnostica e decidere l’iter diagnostico da seguire per identificare una malattia neuromuscolare. Il primo passo per poter identificare correttamente una malattia neuromuscolare è legato ad un’accurata e completa raccolta anamnestica. L’insieme di queste informazioni permette di indirizzare le indagini successive distinguendo tra forme acute, subacute e croniche, ed identificando le forme sindromiche e polisintomatiche. Nel sospetto di forme genetiche sarebbe utile disegnare un albero genealogico familiare che permetta di documentare in modo semplice ed immediato le caratteristiche genetiche riguardanti la famiglia in esame. Infatti, è importante rilevare se vi sia consanguineità nella famiglia di origine o se altri membri della famiglia siano affetti da malattie neuromuscolari. È quindi opportuno indagare se vi sia stato un regolare sviluppo motorio ed identificare temporalmente l’esordio della sintomatologia. Accanto ai disturbi primitivi del muscolo scheletrico, è opportuno rilevare se vi siano sintomi concomitanti di altri distretti, come per esempio quello cardiaco, endocrino, visivo, ecc. Tra i principali sintomi e segni di una malattia neuromuscolare si annoverano l’ipotrofia, l’ipostenia, l’affaticamento muscolare, la modificazione dei riflessi osteotendinei, l’ipertrofia, le mialgie e i crampi. Tali manifestazioni, però, possono insorgere anche per disturbi del sistema nervoso centrale od in corso di neuropatia. Sarà quindi l’insieme dei dati raccolti che permetterà di formulare un sospetto diagnostico di sede. 1. L’ispezione del paziente permette di constatare l’eventuale presenza di un’atrofia muscolare. In corso di miopatia l’atrofia è conforme al deficit stenico, mentre è molto più grave in presenza di un’amiotrofia spinale o una neuropatia. Si deve valutare se interessa prevalentemente la muscolatura prossimale o quella distale, o se privilegia alcuni distretti muscolari: per esempio, nelle distrofie facio-scapolo-omerali sono molto colpiti i muscoli del distretto scapolare ed il bicipite brachiale mentre è risparmiato il deltoide; invece, nella distrofia miotonica di Steinert sono molto atrofici i muscoli temporali, sternocleidomastoidei e quadricipiti femorali. 2. Meno frequente dell’atrofia è invece l’ipertrofia muscolare. Si parla di ipertrofia fisiologica quando è indotta da un prolungato allenamento muscolare, come in corso di alcune pratiche sportive o nel sollevamento pesi. L’ipertrofia patologica può invece riscontrarsi in forma generalizzata, come nella miotonia congenita, quale risultato di una continua attività muscolare. Più frequentemente si osserva invece un’ipertrofia focale, soprattutto nella muscolatura del polpaccio, come in corso di alcune distrofie dei cingoli e glicogenosi. Si parla più correttamente di pseudoipertrofia dei polpacci, quando l’aumentato volume del polpaccio consegue
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ad un infarcimento di tessuto adiposo e connettivo che sostituisce in realtà il tessuto muscolare, come avviene più comunemente nelle distrofinopatie ed in alcune distrofie dei cingoli. 3. L’ipostenia è il sintomo più frequente in corso di malattia neuromuscolare ed è la principale causa di disabilità. La capacità di identificare l’esordio temporale del difetto stenico dipende molto dal distretto colpito e dallo stile di vita del paziente. Un paziente con uno stile di vita molto attivo si accorgerà più rapidamente dell’insorgenza di un difetto stenico, e viene più rapidamente percepito un interessamento della muscolatura prossimale e agli arti inferiori. Il paziente si lamenterà di avere difficoltà a salire le scale, camminare in salita o alzarsi dalla posizione seduta. Se sono interessati primariamente i quadricipiti, come nella malattia da corpi inclusi o nella miotonia di Steinert, il paziente lamenterà difficoltà nel scendere le scale o camminare in discesa, o riferirà frequenti ed improvvise cadute. Nelle forme molto gravi dell’infanzia, come le distrofinopatie, i bambini, nel rialzarsi da una posizione supina, eseguono una sorta di arrampicamento lungo il proprio corpo aiutandosi con gli arti superiori; questo comportamento viene denominato manovra di Gower. Se sono interessati primariamente gli arti superiori, i pazienti lamenteranno difficoltà ad eseguire tutte quelle manovre che necessitano l’elevazione delle braccia oltre la linea delle spalle, come per esempio pettinarsi, asciugarsi i capelli con un phon o riporre oggetti su scaffali elevati. Se sono interessati i muscoli distali degli arti inferiori, i pazienti riferiranno di inciampare nei gradini e di non riuscire a camminare sulle punte e/o sui talloni; in questi casi si apprezza un piede cadente, denominato footdrop. Se ad essere ipostenici sono invece i muscoli distali degli arti superiori, il paziente riferirà difficoltà ad allacciarsi i bottoni, aprire i barattoli, utilizzare le forbici. Se sono primariamente interessati i muscoli flessori delle dita, come nella miopatia da corpi inclusi o nella miotonia di Steinert, i pazienti riferiscono particolare difficoltà ad aggrapparsi. Vi sono vari metodi per misurare la forza muscolare durante la visita clinica, ma quello più utilizzato e maneggevole è sicuramente la scala MRC (British Medical Research Council) che assegna 5 punti di stenia muscolare, da 0 (assenza di contrazione e movimento) a 5 (stenia normale), testando 10 muscoli per lato. 4. Differentemente dall’ipostenia, l’affaticamento muscolare identifica una progressiva riduzione della forza muscolare in corso di prolungato esercizio fisico. Viene primariamente riferito in corso di malattie della placca neuromuscolare, sia direttamente come progressivo esaurimento delle forze muscolari in corso di esercizio fisico sia indirettamente come maggiore affaticabilità percepita verso sera e sdoppiamento dell’immagine visiva (diplopia per interessamento della muscolatura estrinseca dell’occhio). Un rapido esaurimento muscolare viene riferito anche in corso di miopatie dismetaboliche, come nelle glicogenosi, nei difetti del metabolismo lipidico o nelle miopatie mitocondriali.
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MALATTIE NEUROLOGICHE
5. Altri sintomi molto frequenti sono mialgie e crampi muscolari. Le mialgie sono spesso presenti in corso di miopatie infiammatorie e possono essere sia spontanee sia indotte dalla compressione muscolare. Sono spesso associate a rigidità muscolare e più frequenti al mattino in corso di polimialgia reumatica. Se si associano a crampi e rapida esauribilità muscolare suggeriscono un difetto metabolico (glicogenosi, miopatia mitocondriale) o un distiroidismo. I crampi possono essere presenti in individui sani, soprattutto in seguito a disidratazione e localizzati ai polpacci. Qualora la frequenza sia eccessiva e siano diffusi a più distretti muscolari bisogna accertarsi che non vi siano alterazioni tiroidee, miopatie metaboliche, o ci si trovi di fronte ad un difetto genetico della proteina caveolina-3. 6. Il tono muscolare ed i riflessi osteotendinei sono poco influenzati in corso di miopatia o malattia della placca neuromuscolare. Il tono può essere modicamente ridotto ed i riflessi sono ridotti in proporzione all’ipostenia ed ipotrofia muscolare. Fanno eccezione, invece, alcune forme di miopatia congenita che sono causa di grave e generalizzata ipotonia muscolare, tanto che in questi casi si parla di “floppy baby” o “bambino ciondolante”. Nella diagnosi differenziale di un “floppy baby” bisogna considerare anche difetti del sistema nervoso centrale e malattie metaboliche. 7. Infine, diretta conseguenza di una malattia neuromuscolare è un disordine della marcia. Qualora vengano colpiti prevalentemente i muscoli del cingolo pelvico si osservano una compensatoria iperlordosi lombare ed una conseguente deambulazione ondeggiante o anserina. In presenza di una marcata ipostenia dei quadricipiti si osserva una tendenza all’iperestensione del ginocchio. La presenza di un foot-drop causa una deambulazione steppante, con necessità di sollevare molto le gambe per evitare di inciampare a causa del piede cadente.
Diagnosi Un corretto inquadramento diagnostico delle malattie neuromuscolari richiede una serie di valutazioni che includono: • dosaggio ematico degli enzimi muscolari ed altri esami ematochimici; • elettromiografia (EMG); • diagnostica per immagini; • test ischemico e da sforzo; • biopsia muscolare; • Western blot; • esami molecolari; • altri esami (neuroradiologici; valutazione cardiologica, oculistica, ORL, endocrinologica; ecc.). A. Esami ematochimici. In tutte le patologie che causano un danno delle fibre muscolari si ha un rilascio ematico di enzimi quali transaminasi (AST, aspartatoaminotransferasi, meno frequentemente ALT, alanina-
aminotransferasi), lattico-deidrogenasi, aldolasi, creatinchinasi (CK). Per la contemporanea presenza di tali enzimi in altri organi, soprattutto cuore e fegato, è necessario assicurarsi dell’integrità di questi ultimi. La valutazione sierica degli isoenzimi può essere di qualche utilità. L’enzima che si è rivelato più indicativo di danno muscolare è la CK. L’elevazione sierica di CK (isoenzima MM o CK3) è molto variabile, raggiungendo i valori più elevati in alcune condizioni come la distrofia di Duchenne e di Becker, la distrofia muscolare da deficit di disferlina, l’iperpiressia maligna, la rabdomiolisi ed alcune forme di polimiosite acuta. I valori di CK spesso si correlano con l’estensione e la gravità di malattia. Viceversa, in alcune miopatie a lenta evoluzione, come nella distrofia facio-scapolo-omerale, nelle miopatie congenite, canalopatie, e miopatie mitocondriali, i valori di CK possono anche risultare nei limiti di normalità. Accanto al dosaggio degli enzimi muscolari è opportuno indagare la funzionalità di tiroide e paratiroidi, che possono generare quadri clinici simili ad un processo infiammatorio e dismetabolico. Nel sospetto di una miopatia infiammatoria, lo screening immunitario deve comprendere una valutazione della VES, spesso alterata, e la ricerca di autoanticorpi. Autoanticorpi antinucleo o componenti citoplasmatici vengono rilevati nell’80% delle miositi. Tra gli anticorpi di più ampia utilità clinica: gli anticorpi anti-Jo-1, presenti nel 20-30% delle miositi, e spesso associati a forme caratterizzate da un infiltrato istiocitario ed interessamento polmonare; anticorpi anti-SRP (Signal Recognition Particle) e anti-Mas sono associati a forme ad insorgenza acuta e rapidamente progressiva, che rispondono ottimamente agli steroidi. Tra le altre determinazioni utili da eseguire, un dosaggio degli elettroliti sierici ed urinari dovrebbe essere effettuato nel sospetto di una canalopatia, facendo particolare attenzione ai valori di potassio. Infine, è importante valutare una glicemia basale ed eventualmente una curva da carico nel sospetto di distrofia miotonica, laminopatia o canalopatia. B. Elettromiografia. Per gli aspetti metodologici si veda il capitolo 85. Nelle malattie primitive del muscolo, sia ereditarie come nelle distrofie, sia acquisite, vi è una perdita disorganizzata di fibre muscolari. In questo caso durante la contrazione si osserva un tracciato di bassa ampiezza con potenziali di unità motoria polifasici di breve durata (Fig. 86.1). Il rumore all’altoparlante è quello di un suono crepitante come quello della grandine sul tetto. Se oltre un tracciato miopatico si osservano potenziali di fibrillazione a riposo è necessario prendere in considerazione la diagnosi di dermato-polimiosite. Il fenomeno della miotonia produce un tracciato elettromiografico caratteristico con raffiche spontanee di potenziali in rapida successione che aumentano e gradualmente diminuiscono. Acusticamente si ha un reperto sonoro particolare come di un aeroplano in picchiata. La stimolazione elettrica ripetitiva di un nervo motorio determina nella miastenia potenziali evocati motori progressivamente di minor ampiezza, mentre nella sindrome miasteniforme di Eaton-Lambert si ot-
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86 - MIOPATIE
A.
C. LAM
DG
SCS
INT
SCG
B. Z
Miosina
DYS DYB SYN Actina
CAV Actina Actinina
Figura 86.1 - (A) Fibre muscolari scheletriche. (B) Componenti contrattili citoplasmatiche. (C) Principali proteine del complesso che legano la matrice extracellulare al citoscheletro della cellula muscolare. CAV = caveolina-3; DG = distroglicano; DYB = distrobrevina; DYS = distrofina; INT = integrine; LAM = laminina-2; SCG = sarcoglicani; SCS = sarcospam; SYN = sintrofine.
tiene con la stimolazione ripetitiva a frequenze superiori a 10 Hz una risposta incrementale, con potenziali evocati di ampiezza progressivamente crescente (Fig. 86.2). C. Diagnostica per immagini. Include essenzialmente l’esame ecografico, la tomografia assiale computerizzata (TC) e la risonanza magnetica nucleare (RM) delle masse muscolari. L’ecografia muscolare è stata una delle prime tecniche impiegate per valutare in modo non invasivo il tessuto muscolare. È estremamente maneggevole e più facilmente reperibile anche in ospedali piccoli. Fornisce informazioni simili a quelle
Figura 86.2 - Stimolazione ripetitiva del nervo ulnare a 4 Hz (sinistra) e a 50 Hz (destra). (A) Normale. (B) Miastenia gravis. (C) Sindrome di Eaton-Lambert.
di TC e RM, anche se con minore sensibilità e definizione di dettaglio. Le informazioni fornite dalla TC sono ormai superate dall’utilizzo della RM. La RM, infatti, permette un’eccellente valutazione dell’architettura interna delle masse muscolari consentendo di identificare quale muscolo o quale porzione di muscolo presenti anomalie strutturali. La sensibilità di questa tecnica è molto alta, anche se la sua specificità rimane piuttosto bassa. Le anomalie muscolari vengono identificate come modificazioni dell’intensità di segnale o delle dimensioni del muscolo esaminato. Si distinguono usualmente tre diversi pattern: 1) edema muscolare, in corso di processi infettivi e infiammatori, traumi, rab-
A.
2 mV
B.
2 mV
C.
2 mV
500 ms
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domiolisi, radioterapia e denervazione acuta; 2) infiltrazione di tessuto adiposo, che può essere accompagnata da atrofia muscolare ed è caratteristica di processi distrofici, denervazione cronica, disuso, terapia steroidea o traumi prolungati; 3) la presenza di masse, come nei tumori, ascessi, ematomi, miositi ossificanti, mionecrosi, sarcoidosi e parassitosi. Alcune distrofie hanno selettività di coinvolgimento muscolare, come nei deficit di disferlina. Ecografia, TC e RM possono essere utilizzate per identificare la sede di un prelievo bioptico in presenza di anomalie focali sia in caso di un processo infiammatorio (miositi focali) che in presenza di una massa. D. Test ischemico e da sforzo. Il test ischemico viene utilizzato in pazienti in cui si sospetti un deficit metabolico di glicogenolisi, glicolisi o dell’enzima mioadenilato-deaminasi. Viene indotta un’ischemia mediante uno sfigmomanometro posizionato sull’avambraccio del paziente, al quale viene chiesto di compiere un esercizio (apertura e chiusura della mano a pugno) applicando una forza prestabilita. Vengono quindi prelevati dei campioni di sangue venoso dalla mano a tempi prestabiliti e confrontati i valori di lattato, piruvato e ammonio rispetto ai valori basali. L’ischemia indotta blocca la produzione di energia mediante la fosforilazione ossidativa e la rende possibile solo mediante la glicolisi anaerobia con forte produzione di piruvato, lattato ed ammonio. L’innalzamento dei valori di ammonio ma non di lattato e piruvato suggerisce un difetto di glicogenolisi o glicolisi. Un innalzamento di piruvato e lattato ma non di ammonio suggerisce un difetto dell’enzima mioadenilato-deaminasi. Un innalzamento del piruvato ma non del lattato suggerisce un difetto di lattato-deidrogenasi. Il test da sforzo viene utilizzato nel sospetto di un difetto del metabolismo ossidativo (miopatia mitocondriale). Dopo un periodo di riposo (24 ore) si misurano i valori basali di lattato e piruvato, e viene poi chiesto al paziente di compiere un esercizio fisico standardizzato, per esempio mediante cicloergometro, per circa 15-20 minuti. L’intensità del lavoro viene aumentata progressivamente fino ad un valore massimo (pari a circa 3/4 dello sforzo massimo effettuabile). Il paziente viene quindi fatto riposare supino e gli vengono prelevati campioni di sangue ogni 5 minuti per circa mezz’ora. I valori di lattato e piruvato tornano normali in un soggetto sano dopo circa un’ora e mezza, ma nella prima mezz’ora decadono molto rapidamente. Nei soggetti affetti da miopatia mitocondriale, avendo scarsa possibilità di utilizzare il metabolismo ossidativo e dovendo ricorrere a quello glicolitico, si misurano usualmente alti valori di lattato dopo lo sforzo (e spesso partono da valori più alti già a riposo), ed il loro ritorno a condizioni basali è molto più lento. E. Biopsia muscolare. È importante innanzitutto selezionare adeguatamente il muscolo da sottoporre a prelievo. La scelta si basa sulla distribuzione clinica del deficit stenico, tenendo presente di non biopsiare un muscolo colpito in modo così grave da essere sostituito
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per la maggior parte da tessuto connettivo e/o adiposo. È da evitare anche il prelievo in sede di recente esame elettromiografico, per gli artefatti prodotti dall’inserzione dell’ago. La biopsia, sia “a cielo aperto”, sia ad ago, va di norma eseguita in anestesia locale. Si prelevano 3-4 piccoli cilindri di tessuto muscolare che verranno quindi processati separatamente al fine di ottenere preparati utilizzati per lo studio istologico-istochimico, biochimico, morfometrico e in microscopia elettronica. Lo studio morfologico è di grande ausilio sia per la diagnosi differenziale fra sofferenza muscolare neurogena, distrofia, polimiosite, miopatia metabolica, sia per l’evidenziazione di malattie del tessuto connettivo e dei vasi come nella panarterite nodosa. Inoltre, è possibile stabilire nelle miopatie metaboliche da accumulo se tale alterazione riguarda il metabolismo glucidico o lipidico, o se è presente una mitocondriopatia. Infine è possibile differenziare alcune forme di miopatia congenita sulla base di peculiari alterazioni strutturali presenti nella fibra muscolare, come per esempio nella miopatia nemalinica, in cui si osservano corpi bastoncelliformi che spiccano per il loro colore rosso intenso, alla tricromica di Gomori, rispetto al bluverde delle fibre. Fondamentalmente in miopatologia si osservano quadri di atrofia da denervazione in cui alla fibra muscolare viene meno l’influenza trofica del nervo. In tal caso la fibra, pur non perdendo la propria integrità di membrana, si presenta di volume ridotto, angolata, ipercolorata alle reazioni per gli enzimi ossidativi. Nelle fasi di denervazione attiva si possono osservare gruppi di fibre atrofiche, mentre nella successiva fase reinnervativa si osservano ampi gruppi di fibre appartenenti tutte ad un solo tipo, per il già citato fenomeno dell’innervazione collaterale e ampliamento del territorio dell’unità motoria. Fenomeni di degenerazione segmentaria, che possono giungere fino alla necrosi completa e fagocitosi, si possono osservare tipicamente nella polimiosite, in cui spesso sono anche presenti infiltrati composti da cellule linfomonocitarie, o nelle distrofie progressive, dove la successiva sostituzione di tessuto connettivo e adiposo può essere imponente. Tuttavia, se la lesione necrotizzante non ha comportato la distruzione completa di tutta la fibra muscolare, le capacità di rigenerazione del segmento residuo sono ottime. Il processo rigenerativo è contrassegnato da proliferazione nucleare, formazione di neosarcoplasma e fusione e allineamento in un’unità integrata. I nuclei sono ampi, vescicolosi con nucleoli evidenti, il citoplasma circostante appare basofilo perché ricco di ribonucleoproteine. Sperimentalmente si è osservato che l’intero processo di degenerazione-rigenerazione della fibra si compie in 3-4 settimane. Anomalie strutturali delle singole fibre si possono osservare nelle già citate miopatie congenite o in altre patologie, come per esempio nella distrofia miotonica di Steinert, dove sono tipiche le fibre con masse sarcoplasmiche e le fibre ad anello in cui parte delle miofibrille decorre perpendicolarmente. È da rilevare, infine, come alcune patologie interessino prevalentemente un solo tipo fibrale. Così l’atrofia delle fibre di tipo 1, per altro poco comune, è presente nella distrofia miotonica, nelle distrofinopatie, nelle distrofie dei cingoli, nell’artrite
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reumatoide e in alcune miopatie congenite. L’atrofia delle fibre di tipo 2 è viceversa molto comune e si riscontra in condizioni “parafisiologiche” come l’invecchiamento e in tutte quelle condizioni che determinano inattività muscolare, le connettiviti e la miastenia grave. Oltre alla valutazione morfologica ed istoenzimatica, più recentemente sul preparato istologico è possibile effettuare una serie di valutazioni immunoistochimiche che permettono di diagnosticare numerose forme di distrofia muscolare legate a deficit di proteine strutturali, come per esempio la distrofia muscolare di Duchenne e/o Becker per la mancanta od alterata distribuzione della proteina distrofina; le distrofie dei cingoli conseguenti a difetti dei sarcoglicani, disferlina o caveolina3. Anche la tipizzazione dell’infiltrato infiammatorio ed il riscontro di un’aumentata espressione degli antigeni MHC di classe I sono estremamente utili per formulare una diagnosi di miosite. F. Western blot. Questa tecnica viene ultimamente utilizzata come complemento alla diagnosi istologica ed immunoistochimica nel sospetto di una miopatia ereditaria conseguente a mutazione di proteine strutturali. Un campione omogenato di tessuto muscolare viene fatto correre su un gel denaturante di poliacrilamide attraverso un campo elettroforetico in modo da poter separare le varie proteine, che sono quindi trasferite su un filtro dove si possono identificare mediante anticorpi specifici. Vengono così osservate modificazioni sia qualitative che quantitative di alcune proteine che permettono di diagnosticare le distrofinopatie, alcune distrofie muscolari dei cingoli (disferlina, calpaina-3, sarcoglicani, caveolina-3) o la distrofia muscolare congenita (laminina -2, sarcoglicano-). G. Analisi molecolare. L’insieme dei dati clinici e strumentali consente di formulare un’ipotesi diagnostica che in molti casi può essere ora confermata mediante analisi genetica. Le nuove tecniche di genetica molecolare hanno permesso, inoltre, di discriminare tra le varie forme di miopatia e di dimostrare come miopatie con caratteristiche cliniche differenti possano essere causate da mutazioni di uno stesso gene. Ecco perché la classificazione delle miopatie è in continua evoluzione. Infine, permettono una diagnosi presintomatica e di consulenza genetica. Ogni difetto genetico causa un difetto biochimico che si manifesta con la perdita di funzione di una proteina (forme recessive) o l’acquisizione di una funzione tossica (forme dominanti). Le malattie neuromuscolari sono usualmente causate da un singolo difetto genetico, non è quindi necessario ricorrere a metodiche di citogenetica che evidenziano grosse delezioni o aneuploidie (mancanza o eccesso di cromosomi). La presenza esclusiva di pazienti di sesso maschile affetti e la trasmissione materna devono sempre suggerire un difetto a carico del cromosoma X. Le forme dominanti hanno tipicamente una trasmissione verticale nella famiglia, con 50% di probabilità di trasmettere il difetto genetico ad ogni figlio, anche se la penetranza (la possibilità in un paziente con la mutazione di manifestare la malattia) e l’espressività (la se-
verità dei sintomi) possono a volte mascherare il tipo di trasmissione. Nelle forme recessive i genitori sono necessariamente portatori asintomatici. Il tipo di test utilizzato per evidenziare il difetto genetico dipende molto dalla patologia sospettata. Vi sono miopatie che hanno mutazioni sempre in una specifica regione, come la distrofia oculo-faringea, ed altre in cui le mutazioni sono cosidette “private”, ovvero ogni paziente ha la sua mutazione e quindi tutto il gene deve essere analizzato, come nella distrofia di Emery-Dreifuss. Nella maggior parte dei casi, però, ci si trova di fronte a patologie in cui ci sono alcune aree ad alta incidenza di mutazione, e più rare mutazioni private. I test più frequentemente utilizzati prevedono la ricerca di grosse aree di delezione, mediante PCR (Polymerase Chain Reaction) o Southern blot, come nelle distrofinopatie e nella distrofia facio-scapolo-omerale. Mutazioni più piccole o mutazioni puntiformi, se già note per l’alta incidenza, possono essere ricercate mediante siti di restrizione o con particolari tecniche di PCR che amplificano la porzione nota. Il risultato viene confermato mediante sequenziamento diretto del prodotto di PCR. Se la mutazione non è ancora identificata viene eseguita un’analisi di DHPLC (Denaturing High Pressure Liquid Chromatography) o viene sequenziato direttamente tutto il gene. H. Altri esami. Come completamento diagnostico in molti casi è opportuno effettuare una serie di valutazioni sistemiche per valutare la funzionalità cardiaca, visiva, uditiva, endocrina, epatica, renale, scheletrica, le alterazioni cutanee e, non ultima, la funzione del sistema nervoso centrale.
MIOPATIE EREDITARIE E CONGENITE Consistono in un gruppo di malattie determinate geneticamente e caratterizzate dalla degenerazione primitiva del tessuto muscolare; differiscono per la localizzazione clinica, per la gravità del deficit di forza e per la differente modalità di trasmissione ereditaria.
Distrofinopatie Le distrofinopatie sono distrofie muscolari progressive conseguenti ad un difetto della proteina distrofina. Si trasmettono come carattere recessivo legato al cromosoma X e quindi colpiscono quasi esclusivamente i maschi. Dato l’elevato tasso di mutazioni spontanee, però, in un terzo circa dei casi si tratta di mutazioni sporadiche. La distrofia muscolare di Duchenne (DMD) e la sua forma allelica più mite di Becker (BMD) sono le forme più frequenti di distrofia muscolare con un’incidenza, rispettivamente, di 1 su 3500 e 1 su 30.000 nati maschi. Altre forme di distrofinopatia molto meno frequenti si possono presentare come una cardiomiopatia isolata, la miopatia dei quadricipiti,
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crampi con mioglobinuria od elevazione asintomatica degli enzimi muscolari. Fino a poco tempo fa la diagnosi di DMD e BMD era esclusivamente clinica e strumentale, spesso adiuvata dalla presenza di una storia familiare positiva. I recenti progressi della genetica molecolare hanno permesso di identificare il gene responsabile di malattia, denominato distrofina e posizionato sul braccio corto del cromosoma X in posizione Xp21. Successivamente è stata identificata anche la grossa proteina (427 kD) codificata da questo gene ed anch’essa denominata distrofina, localizzata nella regione subsarcolemmale delle fibre muscolari. Le diverse mutazioni della distrofina danno origine alle varie forme alleliche di malattia: l’assenza completa causa spesso le forme più gravi, la presenza di una proteina residua è spesso compatibile con forme più lievi. La distrofina fa parte di un complesso sistema di legame tra il citoscheletro della cellula muscolare e la matrice extracellulare intervenendo probabilmente in molte funzioni cellulari, tra le quali: stabilizzazione della membrana plasmatica, regolazione di flussi ionici, motilità ed adesione cellulare. Le altre molecole implicate in questo sistema di legame, qualora mutate, sono responsabili di varie forme di distrofia muscolare (congenita e dei cingoli) (Fig. 86.1C). A. Clinica. La DMD è caratterizzata da inizio precoce, di solito prima del 4° anno di vita, raramente dopo il 7° anno. Inizialmente sono colpiti i muscoli del cingolo pelvico e scapolare; il bambino presenta un’andatura anserina con iperlordosi lombare, facilità alle cadute, difficoltà a salire e scendere le scale. Nel passare dalla posizione sdraiata a quella eretta esegue una complicata manovra di arrampicamento su se stesso (manovra di Gowers). Obiettivamente si riscontrano ipotrofia, ipotonia, ipostenia della muscolatura cingolare e pseudoipertrofia dei polpacci, secondaria alla progressiva sostituzione con tessuto fibroadiposo. Il decorso è rapidamente ingravescente. La stenia progressivamente si riduce determinando l’inabilità alla deambulazione entro 10 anni dall’inizio dei sintomi. Compaiono retrazioni muscolotendinee e deformazioni osteoarticolari. Poiché la distrofina è presente anche in altri tessuti – mu-
A.
scolo striato cardiaco, muscolo liscio e tessuto nervoso – nel 90% dei casi insorge una cardiomiopatia, si può osservare una sindrome pseudo-ostruttiva intestinale e, a volte, è presente anche un deficit intellettivo. La morte interviene intorno al 2°-3° decennio per insufficienza cardiorespiratoria o per infezioni respiratorie intercorrenti favorite dall’immobilità e dalle deformazioni toraciche. La BMD é simile per aspetto clinico e distribuzione del deficit stenico alla DMD, ma di minor gravità; infatti, l’esordio della sintomatologia di solito è più tardivo ed il decorso più benigno. Sintomi d’esordio possono comprendere debolezza muscolare, crampi, mialgie, atrofia muscolare o semplice elevazione delle CK. La deambulazione è possibile anche dopo il 2°-3° decennio e alcuni pazienti sopravvivono fino al 5°-6° decennio. La cardiomiopatia è manifesta in circa il 70% dei pazienti. Le donne portatrici di mutazione del gene distrofina possono presentare nell’8-10% dei casi manifestazioni cliniche quali miopatia a distribuzione cingolare e/o cardiomiopatia. B. Diagnosi. I valori sierici di CK, nei primi anni di vita, sono circa 200-300 volte i limiti superiori; soltanto nelle fasi più tardive, quando il tessuto muscolare è stato ampiamente sostituito da connettivo, i valori di CK diminuiscono. L’elettromiografia e la biopsia muscolare confermano la sofferenza muscolare primitiva. In particolare lo studio morfologico evidenzia una spiccata variabilità del diametro fibrale con fibre atrofiche e ipertrofiche di forma tondeggiante e nucleo centralizzato; molte fibre presentano degenerazione ialina, frequenti sono i fenomeni di necrosi, fagocitosi, rigenerazione fibrale. Il tessuto connettivo, già aumentato nei primi giorni di vita, progressivamente sostituisce il tessuto muscolare. Mediante tecniche di immunoistochimica e Western blot si può dimostrare l’assenza della proteina distrofina nel 99% delle DMD (Fig. 86.3). Nelle BMD, come conseguenza di delezione o duplicazione del gene distrofina, la proteina distrofina è presente in modo disomogeneo nelle cellule muscolari all’esame immuoistochimico, ed appare di peso molecolare più piccolo (80%) o più grande (5%) alla valutazione con Western blot. Nel restante 15% delle forme di
B.
C.
Figura 86.3 - Aspetto distrofico alla colorazione con ematossilina ed eosina del muscolo di un bambino affetto da DMD (A), mancanza di reattività delle fibre muscolari all’esame immunoistochimico con anticorpi antidistrofina (B), mentre permane una discreta positività con gli anticorpi anti -sarcoglicano (C).
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BMD la proteina ha normale peso molecolare, ma è presente in minor quantità. L’analisi del DNA estratto dai leucociti con le tecniche attualmente in uso, PCR di regioni hotspot e Southern blot, permette di confermare la diagnosi nel 70% dei casi. C. Terapia. Non esiste terapia farmacologica efficace e risolutiva. L’unico trattamento che ha mostrato qualche beneficio nel rallentare la progressione di malattia e ritardare il deficit deambulatorio è attualmente la terapia steroidea. È invece consigliata la fisioterapia ed eventualmente la correzione chirurgica delle retrazioni tendinee. Di fondamentale importanza è la prevenzione della malattia tramite l’individuazione delle portatrici del gene affetto.
Distrofie muscolari dei cingoli La definizione distrofia muscolare dei cingoli (Limb Girdle Muscular Distrophy, LGMD) è stata usata per la prima volta da Walton e Nattrass (1954) e comprende una serie di malattie muscolari differenti legate alla mutazione di un numeroso numero di geni, tuttora in espansione. Si suddividono in forme trasmesse come autosomiche dominanti (LGMD tipo 1) e forme autosomiche recessive (LGMD tipo 2). La malattia colpisce quindi entrambi i sessi. Sono presenti anche molti casi sporadici. Nelle forme classiche l’esordio è di norma durante il 2°-3° decennio, in alcuni casi con deficit di forza inizialmente al cingolo scapolare (forma di Erb), più frequentemente al cingolo pelvico. In tempi variabili (1-20 anni) il deficit stenico coinvolge entrambi i cingoli con un decorso lentamente progressivo; in alcune forme si osserva ipertrofia dei polpacci, mentre la muscolatura del distretto cefalico viene usualmente risparmiata. L’avanzamento delle tecniche di diagnosi molecolare ha persmesso di identificare anche forme ad esordio più tardivo e forme asintomatiche, e come lo stesso deficit genetico possa causare miopatie distali, scapolo-peroneali o cardiomiopatie isolate. Clinicamente i pazienti si presentano lamentando un deficit nel salire le scale, alzarsi da una sedia o sollevare le braccia sopra la linea delle spalle. Crampi e mialgie sono spesso presenti. Il coinvolgimento cardiaco è raro ad eccezione delle forme da deficit di lamina. Il tracciato elettromiografico è miopatico. Rispetto alla forma di Duchenne, l’elevazione sierica degli enzimi muscolari è inferiore (3-5 volte il limite superiore, eccetto le forme da deficit di caveolina-3, calpaina e disferlina) e la biopsia muscolare mostra un minor grado di necrosi fibrale. Le indagini di immunoistochimica, Western blot e genetica molecolare permettono di identificare molte di queste forme. A. LGMD1B o laminopatia. Si veda il paragrafo dedicato alle miopatie scapolo-peroneali. B. LGMD1C o caveolinopatie. Costituiscono le forme più frequenti a trasmissione autosomica dominante e sono dovute a mutazioni del gene Caveolina-3
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(CAV3), che codifica per una proteina di membrana localizzata a livello delle caveole (vescicolazioni del plasmalemma) importante per la trasduzione di segnali all’interno della cellula e per il metabolismo lipidico. L’esordio della sintomatologia è spesso dopo i 5 anni, coinvolge la muscolatura prossimale ed è lentamente progressivo. Sono frequenti i crampi muscolari, la presenza di ipertrofia dei polpacci ed elevati valori di CK. Vi sono anche casi in cui l’unica manifestazione clinica è la presenza di un rialzo delle CK. Alla biopsia muscolare si osserva una ridotta colorazione con gli anticorpi anticaveolina-3. L’analisi genetica permette di confermare il sospetto diagnostico. Vi sono alcune rare sindromi, denominate “Rippling muscle disease”, in cui il paziente lamenta dolori, rigidità e crampi muscolari, specie durante l’attività fisica o lo stiramento passivo del muscolo, che sono elettricamente silenti all’esame elettromiografico e sono spesso la conseguenza di una mutazione del gene Caveolina-3. L’unica terapia disponibile è quella sintomatica con benzodiazepine per le manifestazioni crampiformi. C. LGMD2A o calpainopatia. Consegue a mutazione della calpaina-3, una proteasi citoplasmatica calciodipendente, legata alla titina ed alle miofibrille, e probabilmente coinvolta nei processi di proteolisi del citoscheletro cellulare. Nel 76% dei casi una mutazione della calpaina causa una classica distrofia dei cingoli, che può avere esordio precoce o tardivo e manifestazioni cliniche sia lievi che molto gravi. Nel 10% dei casi sono interessati solo i muscoli del cingolo scapolare. Vi sono poi casi in cui l’unica manifestazione clinica è un innalzamento dei valori di CK (10%). Rara l’ipertrofia dei polpacci. Quasi mai interessato il muscolo cardiaco. Le CK sono usualmente molto elevate, la biopsia muscolare mostra un quadro distrofico con fibre muscolari lobulate. Nell’80% dei casi si osserva una riduzione della quantità di calpaina-3 con il Western blot. È definitiva la diagnosi molecolare. D. LGMD2B o disferlinopatia. È dovuta a mutazioni della disferlina, una proteina di membrana associata alla caveolina-3 e probabilmente implicata nei processi di fusione cellulare nello sviluppo e rigenerazione del tessuto muscolare. L’età d’esordio è estremamente variabile, così come le manifestazioni cliniche e la gravità di malattia. Sono sempre presenti alti valori di CK. All’interno della stessa famiglia si possono presentare casi con distrofia dei cingoli, ed altri con miopatia distale (Miyoshi) o semplice iperCKemia più o meno accompagnata da crampi e mialgie. Una dolorosa ipertrofia dei polpacci è spesso transitoria nelle prime fasi di malattia, successivamente diventa caratteristica una amiotrofia dei polpacci. TC e RM mostrano spesso un interessamento selettivo di alcuni muscoli, come il soleo ed il gastrocnemio mediale, i muscoli posteriori della coscia e i paravertebrali. Alla biopsia muscolare si possono rilevare infiltrati infiammatori. Gli esami immunoistochimico e Western blot rivelano un deficit di disferlina che deve essere confermato con un test molecolare.
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E. LGMD2C-F o sarcoglicanopatie. Classificate come 4 diversi disordini a seconda del gene interessato, sono spesso indistinguibili sia clinicamente che all’esame istologico ed immunoistochimico. Conseguono a mutazione dei sarcoglicani, un complesso di proteine transmembrana che partecipa a legare la distrofina con il distroglicano e la matrice extracellulare. L’esordio tipico è tra i 3-12 anni, con aspetto molto simile alle DMD; solo le forme 2C e 2D possono avere esordio più tardivo, con aspetti clinici simili alla BMD. Si possono sviluppare anomalie scheletriche e contratture articolari, si può rilevare ipertrofia dei polpacci, è raro il coinvolgimento cardiaco. Nelle forme ad esordio infantile la progressione è rapida, con perdita della capacità di deambulare nella seconda-terza decade. La biopsia muscolare mostra un quadro di distrofia, l’esame immunoistochimico la mancanza della proteina mutata spesso accompagnata dalla mancanza di altri sarcoglicani o dalla loro riduzione. La diagnosi di certezza è solo molecolare. Come nelle distrofinopatie, l’unica terapia applicabile è quella steroidea, che rallenta la progressione di malattia.
Distrofia facio-scapolo-omerale È la terza forma di distrofia muscolare più frequente dopo la distrofia miotonica e quella di Duchenne, con una prevalenza di 1 ogni 20.000 casi. Viene trasmessa come carattere autosomico dominante, ad espressione quindi in entrambi i sessi, come conseguenza di una delezione di una sequenza nucleotidica ripetuta, denominata D4Z4, presente in posizione 4q35. Normalmente il numero di ripetizioni di questa sequenza varia da 11 a 150; in presenza di sole 1-8 ripetizioni la malattia si rende manifesta. Più è grande la delezione, più è grave la malattia e precoce l’insorgenza. Come queste delezioni causino l’insorgenza di malattia non è tuttora noto. In un 5% di casi la malattia non è dovuta a delezioni della regione D4Z4. Clinicamente vi è di solito un iniziale coinvolgimento della muscolatura facciale con impossibilità a serrare gli occhi, sorridere, fischiare; la facies progressivamente diventa amimica ed il linguaggio inintelligibile. Successivamente vengono coinvolti i muscoli del cingolo scapolare, in particolare sternocleidomastoideo, trapezio, romboide, deltoide e poi bicipite e tricipite. La meccanica articolare del cingolo viene alterata (clavicole prominenti, scapole alate). Spesso vengono coinvolti anche i muscoli della loggia antero-esterna della gamba con deficit della dorsiflessione del piede. Raramente all’esordio si può avere il coinvolgimento dei soli muscoli della gamba o non presentare coinvolgimento della muscolatura facciale. La progressione della malattia è estremamente lenta con periodi prolungati di stazionarietà, anche se sono stati descritti rari casi a rapida evoluzione. Solo il 20% dei casi finisce su una carrozzina, mentre la spettanza di vita non viene alterata. In alcuni casi sono presenti ipoacusia e telangectasie retiniche. In caso di grosse delezioni si possono sviluppare ritardo mentale ed epilessia.
Le CK sono spesso normali; l’elettromiografia è miopatica o normale nelle fasi iniziali. La biopsia muscolare mostra modesti segni di atrofia ed ipertrofia muscolare, necrosi; in un terzo dei casi sono presenti infiltrati infiammatori che non si correlano però con la durata e l’attività di malattia. L’analisi genetica mediante Southern blot dimostra e quantifica la delezione. Una terapia steroidea a volte può rallentare la progressione di malattia e migliorare la stenia muscolare, pur non modificandone il decorso finale.
Distrofie scapolo-peroneali Esistono altre forme di distrofia muscolare la cui distribuzione di ipotrofia-ipostenia riguarda soprattutto il cingolo scapolare e la loggia antero-esterna della gamba. Tra queste, le forme più importanti sono: A. Distrofia muscolare di Emery-Dreifuss (EMD1). Legata al cromosoma X, viene trasmessa come carattere recessivo ed è conseguenza di una mutazione del gene Emerina (EMD), sito in regione Xq28. L’omologa proteina sintetizzata si localizza nel nucleo, dove svolge un ruolo non ancora ben definito La distrofia è caratterizzata da un deficit muscolare a distribuzione scapolo-peroneale, precoci contratture dei bicipiti e dei polpacci, ed alterazioni cardiache caratterizzate da difetti della conduzione atrio-ventricolare e bradicardia sinusale, tali da comportare l’impianto di un pacemaker. È presente una notevole variabilità intrafamiliare. La progressione è lenta e difficilmente impedisce la deambulazione. B. Distrofia muscolare da deficit di Lamina A/C (EMD2). Ha trasmissione sia autosomica dominante che recessiva ed è dovuta a mutazioni del gene Lamina A/C (LMNA), che codifica un filamento intermedio nucleare. Può dare origine a sindromi cliniche estremamente differenti tra cui una distrofia muscolare scapolo-peroneale, distrofia dei cingoli (LGMD2B), neuropatia assonale (AR-CMT2B1), cardiomiopatia dilatativa con difetti di conduzione, lipodistrofia familiare di Dunningan, displasia mandibulosacrale e progeria. La miopatia può accompagnarsi a contratture tendinee, di minore gravità rispetto alla forma EMD1. Le alterazioni del ritmo cardiaco impongono spesso l’impianto di un pacemaker e di un defibrillatore. Frequenti sono infatti, nell’anamnesi familiare, le morti improvvise.
Distrofia miotonica Comprende almeno tre diverse sindromi cliniche con manifestazioni multisistemiche, che associano un quadro di distrofia muscolare al fenomeno miotonico. La manifestazione clinica comune a queste affezioni muscolari è infatti la miotonia, definita come una difficoltà al rilasciamento muscolare dopo contrazione. Per esempio, il soggetto può accorgersi della difficoltà a rilasciare la presa dopo aver afferrato un oggetto. Ripe-
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tendo il medesimo movimento, la miotonia gradualmente diminuisce per poi scomparire. La forma classica, detta di Steinert, è stata la prima malattia a trasmissione dominante causata da un’espansione di triplette descritta in letteratura. A. Distrofia miotonica di tipo 1 (DM1) o di Steinert. Si tratta della distrofia miotonia classica e più diffusa (prevalenza 5/100.000). La malattia viene trasmessa con carattere autosomico dominante come conseguenza di un’espansione di triplette CTG presenti nella porzione terminale del gene DMPK (proteina miotonina protein-chinasi) sul cromosoma 19. La presenza di un numero di triplette maggiore di 50 è indicativa di malattia. Maggiore è il numero di triplette, più grave risulta la sindrome. È tipica l’anticipazione dei sintomi di malattia col passare delle generazioni. È in realtà una sindrome multisistemica di gravità variabile anche tra i membri di una stessa famiglia, in cui, oltre alla distrofia muscolare progressiva e alla miotonia, sono presenti calvizie, cataratta, atrofia testicolare, disturbi cardiaci. La sintomatologia di solito esordisce tra i 20 e i 50 anni. I sintomi inizialmente possono consistere in debolezza alle mani e alle braccia, difficoltà alla deambulazione; raramente è il fenomeno miotonico a richiamare l’attenzione del paziente. Il quadro clinico evidenzia ptosi palpebrale e indebolimento della muscolatura facciale (con tipica facies inespressiva), del collo, in particolare sternocleidomastoidei, e degli arti: sono soprattutto coinvolti i muscoli quadricipiti e i muscoli flessori distali. La miotonia di solito è osservabile alle mani e alla lingua. La voce può risultare flebile per il coinvolgimento dei muscoli laringei. La cataratta si associa in circa il 90% dei casi, la calvizie è pressoché costante nei maschi dopo i 25 anni d’età. L’atrofia testicolare, presente in circa il 70% dei casi, si associa a ipo-azoospermia. Nella donna è segnalata dismenorrea. Nel 60% dei pazienti sono presenti inoltre disturbi cardiaci, in particolare turbe della conduzione atrio-ventricolare. È frequente un’intolleranza glicemica. Sono stati descritti più rare anomalie della struttura ossea del cranio e deficit psichici. Il decorso è lentamente progressivo. L’invalidità della deambulazione è raggiunta dopo circa 15-20 anni dall’esordio della malattia. La morte interviene di solito prima dei 60 anni per sofferenza cardiaca o per infezioni polmonari intercorrenti. La diagnosi è facilitata dall’anamnesi e dal caratteristico quadro clinico ed elettromiografico. Anche l’esame istologico mostra un quadro abbastanza tipico, con atrofia delle fibre di tipo 1, centralizzazione nucleare, fibre ad anello e masse sarcoplasmatiche, ma attualmente non viene più eseguita poiché nel sospetto diagnostico di una DM1 è consigliabile eseguire prima il test genetico. Non esiste terapia medica efficace. L’uso di farmaci come il chinino e la procainamide, benefici per la riduzione del fenomeno miotonico, è sconsigliabile data l’esistenza di turbe cardiache. B. Distrofia miotonica di tipo 2 (DM2) o PROMM (distrofia miotonica prossimale). Presenta caratteristiche cliniche simili alla DM1, anche se spesso con esor-
dio più tardivo (anche in tarda età) e con sintomatologia solitamente più lieve. In molti casi i sintomi a carico degli altri organi (occhio, cuore, sistema endocrino) non sono presenti. L’ipostenia è più spesso presente nella muscolatura prossimale ed il fenomeno miotonico più frequentemente è accentuato dal caldo piuttosto che dal freddo, come nella DM1. Il quadro miotonico deve essere ricercato all’esame elettromiografico, anche se a volte è necessario eseguire più esami per evidenziarlo. La biopsia muscolare può differire dalle forme di tipo 1, evidenziando molto spesso quadri neurogeni. È possibile confermare a livello molecolare il sospetto diagnostico di DM2. Dopo aver escluso geneticamente una DM1, è opportuno ricercare l’espansione della sequenza CCTG nel gene ZNF9, che codifica per un fattore di trascrizione. C. Distrofia miotonica di tipo 3 (DM3). Pur non essendo ancora noto il gene responsabile di questa forma di miotonia, questo risiede nella regione 15q21-q24 ed alcuni dei geni candidati sono attualmente in via di studio. Il quadro clinico presenta caratteristiche simili alla forma di tipo 2, a cui si possono associare decadimento intellettivo ed epilessia.
Canalopatie Comprendono un gruppo di patologie caratterizzate da un difetto funzionale di alcuni canali ionici a livello del tessuto muscolare, che causano una difettosa eccitabilità della membrana sarcolemmale che risulta depolarizzata durante gli attacchi. Si distinguono alcune sindromi ben caratterizzate, di cui attualmente si conosce la mutazione genetica responsabile. La mutazione di ogni canale – sodio, cloro, potassio e calcio – può però dare origine anche a sindromi diverse. Le canalopatie sono caratterizzate soprattutto da rigidità muscolare, mialgie e ipostenia muscolare persistente o intermittente. In alcuni casi è presente un fenomeno miotonico. A. Paralisi periodiche ipokaliemiche. Possono conseguire a mutazioni del canale del calcio di tipo-L (CACNA1S), del sodio (SCN4A) o del potassio (KCNE3), con trasmissione autosomica dominante. Sono clinicamente simili, insorgono nell’adolescenza, più raramente fino ai 30 anni, e sono caratterizzate da episodi di ipostenia acuta spesso scatenati da freddo, ingestione di carboidrati, bevande alcoliche, stress emotivo o riposo dopo esercizio fisico. Gli attacchi sono più frequenti nell’uomo; spesso asintomatiche le donne. Gli attacchi cominciano tipicamente al risveglio con ipostenia generalizzata e iporeflessia, e possono durare per ore o giorni. Solo raramente è interessata la muscolatura bulbare e respiratoria. Di solito si osservano una riduzione dei livelli ematici di potassio (2-3 mEq/L) ed un innalzamento dei valori delle CK. L’esame elettromiografico risulta normale lontano dagli attacchi, mentre durante l’attacco si osserva un decremento dei potenziali di azione motoria. La biopsia muscolare può essere normale od
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evidenziare una miopatia vacuolare ed aggregati tubulari. Nei casi dubbi può essere eseguito un test da stimolazione con glucosio ed insulina che scatenano un attacco acuto. Invece che iperpolarizzare la membrana muscolare, come avviene nelle persone normali, in questi pazienti l’insulina riduce la conduttanza dei canali del potassio causando depolarizzazione e scatenando l’attacco. La somministrazione di potassio, acetazolamide e l’esercizio fisico possono alleviare l’intensità ed accorciare l’attacco. Vanno distinte forme simili conseguenti a ipertiroidismo. B. Paralisi periodiche iperkaliemiche. Sono anch’esse dovute a mutazioni del canale del potassio (KCNE3) o del sodio (SCN4A), a trasmissione autosomica dominante. L’insorgenza è nella prima decade, anche in questi casi con attacchi che cominciano al mattino, al risveglio, ma l’ipostenia dura pochi minuti, al massimo qualche ora. L’ipostenia è generalizzata ma risparmia la muscolatura facciale e respiratoria. Gli attacchi sono scatenati da freddo, riposo dopo esercizio fisico, stress emotivo ed ingestione di potassio, mentre hanno un effetto benefico l’esercizio fisico e l’ingestione di carboidrati, la gravidanza, l’assunzione di alcolici. Diversamente dalle forme ipokaliemiche, può associarsi una miotonia. Durante gli attacchi si possono rilevare un aumento delle CK e dei valori di potassio (> 4,5 mEq/L), un aumento e una riduzione dei potenziali di azione motoria all’esame elettromiografico (scariche miotoniche), ed una miopatia vacuolare con fibre in degenerazione e necrosi alla biopsia muscolare. Ai pazienti vengono consigliate una dieta povera di potassio e ricca di carboidrati e una terapia con diuretici tiazidici; durante gli attacchi possono essere somministrati farmaci -adrenergici. C. Miotonia congenita. Si distingue una forma dominante di Thomsen ed una forma recessiva di Becker. Sono entrambe causate da mutazioni del canale del cloro voltaggio-dipendente (CLCN1) che destabilizza il potenziale di membrana. La forma dominante insorge più frequentemente nella prima infanzia, ha alta penetranza (90%), ed è caratterizzata da miotonia di lieve entità, esacerbata dal freddo e dallo stress. La rigidità muscolare è particolarmente accentuata appena si inizia un movimento, e si riduce con l’esercizio. I pazienti presentano ipertrofia muscolare diffusa (aspetto erculeo), raramente mialgie od ipostenia. I valori delle CK sono normali o lievemente aumentati, l’EMG mostra la presenza della miotonia ed un decremento alla stimolazione ripetitiva ad alta frequenza. Come terapia si possono usare farmaci antiepilettici, acetazolamide, chinino. La forma recessiva (di Becker), insorge più spesso nella seconda infanzia, è più frequente della forma dominante, ed interessa soprattutto gli arti inferiori. Il fenomeno miotonico non viene peggiorato dal freddo, si può accompagnare a lieve ipostenia distale e facile affaticabilità, ed è solitamente presente ipertrofia muscolare, soprattutto agli arti inferiori.
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D. Paramiotonia congenita o malattia di von Eulenburg. È un disordine autosomico dominante conseguente a mutazioni del canale del sodio (SCN4A) o del cloro (CLCN1). La rigidità muscolare in queste forme è marcatamente esacerbata dal freddo e non si risolve con la ripetizione dell’esercizio fisico (cosa che la contraddistingue clinicamente da una miotonia vera). L’esordio è spesso nell’infanzia e coinvolge la muscolatura del collo, della faccia e delle mani. Successivamente agli attacchi di rigidità può comparire marcata ipostenia e possono essere necessarie ore per recuperare la stenia muscolare. È frequente una sovrapposizione clinica con le paralisi periodiche iperkaliemiche. L’esame elettromiografico dimostra la presenza delle scariche miotoniche, che peggiorano con il raffreddamento del muscolo e non migliorano con l’esercizio fisico. Il quadro clinico migliora con l’uso di farmaci antiaritmici ed anestetici stabilizzatori di membrana; l’acetazolamide può migliorare o peggiorare la sintomatologia.
Miopatie miofibrillari Si tratta di un gruppo di miopatie caratterizzate dalla presenza di accumuli intracitoplasmatici di filamenti intermedi di desmina. L’esordio più frequente è in età adulta, e può interessare sia la muscolatura prossimale che quella distale. Caratteristico è il coinvolgimento cardiaco (60% dei casi), con aritmie (che richiedono l’impianto di pacemaker) e cardiomiopatia, che a volte precedono il quadro miopatico. A volte i pazienti sviluppano insufficienza respiratoria. I valori di CK sono normali o lievemente aumentati. L’EMG mostra un quadro miopatico con segni neurogeni. La biopsia muscolare rivela la presenza di accumuli di materiale fibroso, positivo all’esame immunoistochimico per la desmina, la distrofina, e il precursore della -amiloide. L’analisi molecolare dimostra la presenza di mutazioni nel gene della desmina (forme più frequenti, a trasmissione sia dominante che recessiva), -cristallina e miotilina.
Miopatie distali Diversamente da quanto accade usualmente nelle miopatie, in queste forme l’atrofia e l’ipostenia muscolare hanno prevalentemente od esclusivamente distribuzione distale. Si tratta di forme a trasmissione sia dominante che recessiva, di cui spesso si conosce la localizzazione cromosomica ma non il gene, che hanno più frequentemente insorgenza in età adulta. Possono entrare in diagnosi differenziale con alcune presentazioni anomali di miopatie infiammatorie, più spesso la miosite da corpi inclusi, alcune glicogenosi e rare forme di distrofia facio-scapolo-omerale ad esordio distale agli arti inferiori. In molte di queste miopatie la biopsia muscolare rivela la presenza di vacuoli citoplasmatici. Meritano una menzione la forma di tipo I, o di Welander, poiché coinvolge quasi esclusivamente gli arti superiori, e la miopatia di Miyoshi, il cui difetto genetico di disferlina è identico alla LGMD2B.
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Miopatie congenite Si tratta di miopatie causate da un deficit genetico che hanno esordio fin dalla nascita ed hanno una progressione molto lenta. Esistono eccezioni con esordio più tardivo o rapida evoluzione. Clinicamente è spesso impossibile distinguere tra una miopatia congenita e l’altra, e soprattutto nei primi mesi di vita tra una miopatia ed una forma neurogena di amiotrofia spinale. Clinicamente il quadro è caratterizzato da ipotonia-ipostenia muscolare (sindrome del bambino ciondolante) e ritardato sviluppo delle tappe motorie. In alcune forme possono associarsi tratti dismorfici, per esempio deformazioni scheletriche, in altre vengono colpiti preferenzialmente i muscoli oculari. I valori ematici di CK possono essere aumentati o normali, l’EMG spesso è di difficile interpretazione nei primi 6 mesi di vita, ma può essere utile per identificare la sede dove effettuare una biopsia muscolare. Per poter differenziare le varie forme è necessario eseguire una biopsia muscolare con analisi istologica, istochimica ed ultrastrutturale, e successivo test molecolare. Tra le forme più note, la distrofia muscolare congenita, la miopatia nemalinica, la central core e la centronucleare. A. Distrofia muscolare congenita. Include un gruppo di miopatie congenite con caratteristiche istologiche di distrofia. Oltre alle usuali manifestazioni cliniche di una miopatia congenita, questi bambini possono presentare deformità scheletriche (artrogriposi) e coinvolgimento cerebrale con deficit di attenzione e ritardo mentale. Si distinguono forme merosina-positive e forme merosina-negative. La merosina, o laminina-2, è uno dei principali componenti della matrice extracellulare del tessuto muscolare. Nelle forme in cui manca si riscontrano mutazioni nel gene codificante LAMA2. Vi sono poi forme in cui la merosina è normale e ad essere mutati sono i suoi recettori sulla superficie cellulare, quali l’integrina -7, l’integrina -4 (in questa forma sono presenti anche gravi lesioni cutanee) o il distroglicano, ma per quest’ultimo ad essere mutati sono alcuni enzimi coinvolti nei processi di glicosilazione della sua subunità extracellulare (fukutina, FKRP, LARGE). Come conseguenza si ha un difetto nel legame tra la matrice extracellulare ed il complesso glicoproteico associato alla distrofina del citoscheletro della cellula muscolare. B. Miopatia nemalinica. Si tratta anche in questo caso di una miopatia non progressiva, caratterizzata alla biopsia muscolare dalla presenza di aggregati di materiale fibroso, detti “rod”, ben visibili soprattutto con la colorazione tricromica di Gomori, composti prevalentemente da -actinina, actina ed altri filamenti della linea Z. Sono note forme molto gravi ed esordio neonatale che possono portare a morte per insufficienza respiratoria. Vi sono poi forme meno gravi, che si presentano nell’infanzia e sono spesso accompagnate da anomalie come palato ogivale, cifoscoliosi ed altre deformazioni scheletriche. Vi sono forme ad esordio in età adulta, spesso lievi o asintomatiche. Le forme più comuni sono
a trasmissione autosomica dominante, ma sono descritte anche forme a trasmissione recessiva. I geni coinvolti sono numerosi e comprendono: -tropomiosina 3, -tropomiosina 3, -actinina, troponina e nebulina. C. Miopatia centronucleare o miotubulare. È caratterizzata alla biopsia muscolare da numerose fibre muscolari con nucleo in posizione centrale, che sembrano il risultato di un arresto di sviluppo della cellula muscolare. Vi sono forme molto gravi, spesso X-linked, con esordio neonatale e morte per insufficienza respiratoria. Nelle forme più comuni l’esordio è in tarda infanzia, con interessamento anche della muscolatura facciale extraoculare. Più rare e lievi le forme tardive dell’adulto. Le forme X-linked sono recessive e conseguenza di una mutazione del gene miotubularina MTM1, una fosfatasi dei fosfolipidi. Le forme autosomiche dominanti sono causate da mutazione del gene MYF6, che codifica per il fattore miogenico 6, un fattore di trascrizione che regola la miogenesi. Nelle forme autosomiche recessive il gene non è ancora noto. D. Central core miopathy. Questa forma associa alle caratteristiche comuni delle forme congenite la presenza di bassa statura, cifoscoliosi, piede cavo ed anomalie delle anche. Le forme dell’adulto possono essere completamente asintomatiche e presentare solo innalzamento dei valori di CK, o possono essere presenti crampi e mialgie. L’aspetto caratteristico alla biopsia muscolare è quello di avere fibre muscolari con una porzione centrale priva di reattività, in particolare con le colorazioni per gli enzimi ossidativi. Consegue a mutazioni del gene RYR1 (Ryanodin Receptor), che codifica per un canale del calcio che regola il passaggio del calcio dal reticolo endoplasmatico al citoplasma ed è responsabile anche dell’ipertermia maligna.
Ipertermia maligna È una sindrome caratterizzata da improvviso rialzo termico, grave e diffusa rigidità muscolare e rabdomiolisi, tachicardia, cianosi ed acidosi lattica, conseguenti all’esposizione ad alcuni anestetici generali come l’alotano, il carbacolo e la succinilcolina, a neurolettici e ad alcool. Viene trasmessa come carattere autosomico dominante e, nel 50% delle forme familiari e nel 20% di quelle sporadiche, è causata da una mutazione del gene per il Ryanodin Receptor (variante allelica della central core myopathy). Più raramente consegue a mutazioni di un canale del calcio voltaggio-dipendente di tipo L (CACNL2A o CACN1S) posto nel sarcolemma e nei tubuli T e che regola il flusso di calcio dalla regione extracellulare all’interno della cellula. Infine sono descritte forme per mutazione del canale del sodio (SCN4A), come nelle paralisi periodiche iperkaliemiche. Queste mutazioni, in condizioni particolari, come in corso di assunzione dei farmaci sopra descritti, in presenza di gravi infezioni o per esercizio fisico prolungato in ambiente molto caldo, possono scatenare un quadro di ipermetabolismo acuto conseguente all’improvviso in-
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nalzamento dei valori di calcio intracellulare che porta a persistente ipercontrattilità muscolare, rabdomiolisi e depauperamento delle riserve energetiche (ATP). Un quadro simile si può verificare anche associando inibitori del reuptake della serotonina (come la fluoxetina) ad inibitori delle monoamioossidasi (iMAO); od associando litio ed antidepressivi triciclici. Il trattamento prevede la sospensione della terapia in atto, la somministrazione di dantrolene, che blocca il recettore ryanodina, iperventilazione, raffreddamento della temperatura corporea e utilizzo di diuretici osmotici.
IperCKemia essenziale Alti valori di CK sono usualmente considerati patognomonici di miopatia. Tuttavia elevati valori di CK si possono riscontrare anche in soggetti affetti da altre patologie o condotte anomale (distiroidismo, emopatie, neoplasie, gravidanza, traumi, eccessivo esercizio fisico, abuso di droghe ed alcool) o in soggetti apparentemente sani. In questi ultimi casi il loro riscontro è puramente accidentale in seguito ad esami di routine. Tali soggetti vengono considerati affetti da iperCKemie essenziali, anche se in questi ultimi anni, con l’affinamento delle tecniche diagnostiche, si è in grado di diagnosticare alcune di queste forme. Si ritiene attualmente utile eseguire un esame bioptico che, nel 1015% dei casi, permette di evidenziare la presenza di una miopatia subclinica. Le miopatie che possono presentarsi come iperCKemia essenziale comprendono: BMD, LGMD1C, LGMD2A, LGMD2B, deficit di adenilato-deaminasi, deficit di carnitil-palmitoil-transferasi, miopatie miofibrillari, central core myopathy e ipertermia maligna, miopatia da aggregati tubulari, miopatie mitocondriali e miopatie infiammatorie.
MIOPATIE ACQUISITE Miopatie infiammatorie Forme infettive A. Miositi virali. Le miositi virali sono principalmente caratterizzate da mialgie ed edema delle masse muscolari ad insorgenza acuta, e dalla difficoltà di poter giungere ad una diagnosi in merito all’agente patogeno. Gli agenti responsabili più noti sono i virus influenzali e parainfluenzali, adenovirus e Coxsackie. I retrovirus (HIV, HTLV-1) sono più tipicamente responsabili di forme subacute-croniche, del tutto simili alle polimiositi per patogenesi e decorso. Una delle forme più comuni è la miosite acuta benigna infantile, più frequente nei maschi in prima-seconda decade, ad insorgenza stagionale ed associata ad influenza. I prodromi comprendono febbre, tosse e cefalea, seguiti dopo 1-4 giorni da mialgie diffuse, lieve debolezza e senso di rigidità muscolare. Le CK possono
aumentare fino a 14.000 UI e si possono riscontrare alti titoli virali, soprattutto di virus dell’influenza B. La risoluzione è spontanea nel giro di una settimana. Negli adulti, le miositi virali in corso di epidemie influenzali possono essere molto invalidanti e gravi, soprattutto in caso di necrosi massiva con conseguenti complicazioni renali e respiratorie. La risoluzione avviene spontaneamente in 2-3 settimane. B. Miositi batteriche. La miosite batterica, o piomiosite, si presenta generalmente come un piccolo ascesso, che coinvolge un solo muscolo, più frequentemente il quadricipite o il gluteo. Spesso in anamnesi si rileva un precedente trauma muscolare e tra i fattori favorenti si riscontrano positività per HIV, diabete mellito, terapie endovenose, terapia steroidea. L’agente patogeno più comune è lo Staphylococcus aureus (90% dei casi), seguito da streptococco -emolitico, Escherichia coli e Streptococcus pneumoniae. Clinicamente il paziente lamenta dolore e gonfiore localizzati ad un muscolo, spesso accompagnati da febbre. Istologicamente si osserva un ascesso intramuscolare, con una parte centrale composta da tessuto necrotico e cellule infiammatorie (neutrofili, macrofagi, linfociti), ed un’area circostante di tessuto di granulazione. Gli esami di laboratorio evidenziano un aumento della VES e delle CK, con emocolture spesso negative. Ecografia, TC o RM del muscolo affetto possono evidenziare e localizzare l’area dell’ascesso per mirare un’agobiopsia. L’incisione dell’ascesso e la terapia antibiotica risolvono il problema. C. Miosite da sarcoidosi. Può presentarsi in forma acuta con ipostenia, mialgie e crampi della muscolatura prossimale. Più raramente possono essere presenti disfagia, deficit respiratori o della motilità oculare. I noduli infiammatori possono essere palpati a livello muscolare, mimare una massa muscolare ed associarsi a neuropatia. La presenza od il sospetto di una sarcoidosi sistemica indirizza la diagnosi. La biopsia muscolare evidenzia una lesione granulomatosa con cellule epitelioidi, linfociti e cellule giganti. D. Miosite focale. Colpisce ad ogni età e senza distinzione di sesso un singolo muscolo, più frequentemente agli arti inferiori (quadricipite, gluteo, gastrocnemio) e meno frequentemente altri distretti. Si presenta con dolore ed edema localizzato ad un muscolo, senza ipostenia generalizzata o altro sintomo. La tendenza è alla risoluzione spontanea in settimane-mesi e raramente recidiva. Sebbene spesso la causa rimanga sconosciuta, tra gli agenti patogeni responsabili si annoverano il Campylobacter, la Borrelia burgdorferi ed il micobatterio della tubercolosi. Si pensa che all’origine vi sia un piccolo evento traumatico e sia più frequente nei soggetti con prolungate terapie endovenose. Le CK sono spesso normali, l’EMG mostra un quadro irritativo localizzato, ma l’esame più utile è un’ecografia, una TC o una RM della lesione. La biopsia muscolare permette di distinguere le forme infiammatorie (infiltrato mononucleato, degenerazione e necrosi fibrale) da una
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neoplasia (sarcoma). Come terapia si somministrano antidolorifici e antinfiammatori non steroidei. Forme disimmuni A. Polimiosite (PM) e dermatomiosite (DM). Queste forme sono ampiamente trattate da un punto di vista eziopatogenetico e clinico-strumentale nel capitolo 67. In questo paragrafo verranno trattati alcuni aspetti dell’iter diagnostico di stretta pertinenza neurologica. L’esame EMG mostra frequentemente segni di ipereccitabilità di membrana, dovuta a processi di denervazione in porzio conseguenti al processo infiammatorio, con aumentata attività di inserzione e potenziali di fibrillazione. Sono poi presenti caratteristici segni miogeni, come potenziali di unità motoria di piccola ampiezza, spesso polifasici, reclutati precocemente durante lo sforzo muscolare. La biopsia muscolare nelle PM rivela spesso un quadro miopatico, con necrosi fibrale e fagocitosi, e numerosi infiltrati infiammatori composti da linfociti T e monociti-macrofagi. Gli infiltrati sono più frequentemente in regione endomisiale, dove spesso sottendono fibre muscolari ancora sane, e più raramente in regione perimisiale. Non vi è in genere sovvertimento del connettivo endoperimisiale, ad eccezione delle forme che cronicizzano. Diffusa a quasi tutte le fibre l’espressione sarcolemmale e sarcoplasmatica degli antigeni MHC di classe I. Nelle DM l’atrofia fibrale è tipicamente perifascicolare (ovvero a carico delle fibre disposte alla periferia del fascicolo muscolare), l’infiltrato è caratteristicamente in regione perimisiale e frequentemente perivascolare. Si osserva una progressiva perdita di capillari, su molti dei quali si può rilevare la presenza di fattori del complemento attivato (MAC). Solo alcune fibre, per lo più in regione perifascicolare, presentano positività per gli antigeni MHC di classe I. Qualora pazienti affetti da PM o DM siano stati sottoposti a trattamenti immunosoppressivi alcune settimane prima di effettuare la biopsia muscolare, il quadro infiammatorio e la positività immunoistochimica possono venire a mancare, rendendo più incerta la diagnosi di malattia. B. Miosite da corpi inclusi (IBM). Malattia la cui eziopatogenesi rimane ancora per lo più oscura, ha esordio più frequentemente in età avanzata e costituisce la forma di miopatia infiammatoria più diffusa dopo i 50 anni. Sono note anche alcune forme familiari; in questi casi si parla di miopatia da corpi inclusi e l’aspetto infiammatorio non è usualmente presente. La sua incidenza è maggiore negli uomini e nella razza bianca. L’ipostenia e l’ipotrofia hanno progressione molto lenta, a volte con distribuzione asimmetrica, ed interessano prevalentemente i muscoli flessori del collo, i quadricipiti e la muscolatura flessoria distale degli arti. Spesso è presente disfagia (30%). Raramente si possono rilevare la presenza di una lieve polineuropatia e disordini disimmuni associati (sindrome di Sjögren); non sono presenti manifestazioni sistemiche nei tumori associati. I valori di CK possono essere normali o lievemente aumentati. L’esame EMG mostra segni miopatici, ma frequentemente anche segni neurogeni cronici
che possono mascherare il quadro miogeno. L’esame istologico può evidenziare la presenza di infiltrati infiammatori linfomonocitari, che però possono anche mancare, necrosi fibrale ed un generale aspetto miopatico, ed una diffusa espressione degli antigeni MHC di classe I sulla membrana plasmatica e nel citoplasma della maggior parte delle fibre muscolari. Caratteristici i vacuoli dotati di un orletto rossastro alla colorazione con la tricromia di Gomori e contenenti materiale granulare che all’esame ultrastrutturale è composto da bande di filamenti tubulari Non è nota una terapia efficace, infatti molto scarsa è la risposta alla terapia steroidea e solo in alcuni casi sembra dare qualche risultato la terapia con immunoglobuline endovena.
Miopatie dismetaboliche A. Glicogenosi. Sono malattie multisistemiche caratterizzate da eccessivo accumulo di glicogeno nei tessuti per carenza, su base ereditaria, di uno o più enzimi necessari alla sua scissione. In alcune forme esiste coinvolgimento muscolare. L’argomento è trattato nel capitolo 65. B. Miopatie associate a difetti del metabolismo lipidico. Sono, in particolare, la miopatia legata a deficit di carnitina e la miopatia secondaria a deficit dell’enzima carnitin-palmitoil-transferasi. Nella prima il deficit di carnitina può essere localizzato solo al muscolo scheletrico; la sintomatologia è caratterizzata da debolezza muscolare diffusa lentamente ingravescente. Il disturbo a volte risponde positivamente alla terapia sostitutiva con carnitina ad alte dosi per os e ai corticosteroidi. La deficienza sistemica di carnitina si manifesta nell’infanzia o nell’adolescenza con debolezza muscolare progressiva, epatopatia e nefropatia. La malattia in questo caso è frequentemente letale, ma in alcuni casi risponde alla terapia orale con carnitina. Il deficit dell’enzima carnitin-palmitoil-transferasi comporta la comparsa di crampi muscolari episodici, molto dolorosi, seguiti da mioglobinuria. I crampi insorgono dopo sforzo muscolare prolungato o dopo digiuno. Una possibile grave complicazione è l’insufficienza renale acuta da necrosi tubulare secondaria alla mioglobinuria. La prevenzione delle crisi si attua con una dieta adeguata in acidi grassi a catena media e riducendo i periodi di digiuno. C. Miopatie mitocondriali. I mitocondri sono organelli citoplasmatici che convertono carboidrati, lipidi e proteine in energia (ATP). Un difettoso funzionamento dei mitocondri causa alterazioni in tutti quei tessuti che richiedono un alto apporto energetico come i muscoli scheletrici ed il cervello, causando l’insorgenza di miopatie ed encefalomiopatie mitocondriali. Altri organi possono essere coinvolti come i nervi periferici, ghiandole endocrine, cuore, reni e pancreas, determinando l’insorgenza di sindromi complesse. I mitocondri originano filogeneticamente da batteri entrati in relazione simbiotica con le cellule eucario-
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te; sono infatti gli unici organelli cellulari, oltre al nucleo, provvisti di specifico DNA detto mitocondriale (mtDNA). Poiché durante la formazione dello zigote l’mtDNA proviene esclusivamente dalla madre, le malattie mitocondriali hanno caratteristica trasmissione materna. Bisogna però ricordare che l’mtDNA non contiene tutti i geni necessari per le funzioni mitocondriali, che dipendono in parte da alcuni geni nucleari. Questo comporta che un ristretto numero di patologie mitocondriali sia causato da mutazioni di geni nuclearie quindi sia soggetto alle leggi di trasmissione mendeliana. Le mutazioni dell’mtDNA sono spesso grosse delezioni, più raramente duplicazioni o mutazioni puntiformi. Poiché tali mutazioni sono spesso tessuto-specifiche, è necessaria l’analisi del tessuto muscolare per identificare le mutazioni che non vengono invece rilevate a livello leucocitario. Le malattie mitocondriali identificate sono ormai numerosissime, con esordio che varia dal periodo neonatale all’età adulta. Tra le manifestazioni cliniche generali che devono far sospettare la presenza di una malattia mitocondriale bisogna ricordare: ptosi palpebrale, usualmente bilaterale, ed oftalmoparesi ad esordio subdolo, per cui il paziente non lamenta mai diplopia; ipostenia dei muscoli flessori del collo, e raramente di quelli estensori; ipostenia della muscolatura prossimale, anche se spesso le prove di forza risultano normali ed il paziente lamenta piuttosto una facile affaticabilità nello sforzo prolungato; ipoacusia; diabete mellito; crisi emicraniche e bassa statura. La diagnostica comprende una valutazione degli enzimi muscolari che possono essere aumentati o normali, un dosaggio dell’acido lattico, spesso aumentato già a riposo ma fortemente alterato dopo un test da sforzo, controllo di glicemia, funzionalità epatica e renale. Utile un elettroencefalogramma per dimostrare la presenza di un quadro epilettico, l’esame EMG che può mostrare sia un quadro miopatico che polineuropatico, e la RM (eventi ischemici, atrofia cerebellare, atrofia dei cordoni posteriori). La biopsia muscolare mostra numerose fibre “ragged red”, ovvero infarcite di mitocondri che sono aumentati in numero e dimensioni, e pieni di inclusioni. Si rilevano inoltre anomalie delle colorazioni per gli enzimi ossidativi e per la citocromo-c-ossidasi. Le anomalie morfologiche mitocondriali sono ben evidenziabili mediante esame ultrastrutturale. Test biochimici su estratti di tessuto muscolare possono dimostrare difetti enzimatici della catena respiratoria. Test genetici possono dimostrare delezioni, duplicazioni o mutazioni puntiformi a carico dell’mtDNA o del DNA nucleare. La terapia è prettamente sintomatica, ad eccezione dei difetti primari di coenzima Q10, che può essere somministrato farmacologicamente. Seguono le sindromi con interessamento muscolare più frequenti. A. Sindrome di Kearns-Sayre (KSS). Esordio prima dei 20 anni con oftalmoplegia e retinopatia pigmentosa, spesso presenti miopatia prossimale e ipoacusia. Si possono associare aritmie cardiache, sindrome cerebellare,
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demenza, diabete mellito e, più raramente, una neuropatia periferica. 2. Oftalmoplegia esterna progressiva (PEO). Esordio in infanzia o adolescenza, ptosi bilaterale, oftalmoplegia, ipostenia della muscolatura flessoria del collo, prossimale degli arti e faringea. Consegue a mutazioni sia dell’mtDNA che del DNA nucleare. 3. Mioclono-epilessia con fibre “ragged red” (MERRF). Esordio in tarda adolescenza o età adulta, epilessia mioclonica e generalizzata, atassia sensitiva e cerebellare, presenza di numerose fibre “ragged red” alla biopsia muscolare. Spesso associati deficit uditivi, demenza, polineuropatia, miopatia e bassa statura. 4. Encefalopatia mitocondriale con acidosi lattica e episodi ischemici cerebrali (MELAS). Ictus cerebrali prima dei 40 anni, encefalopatia (demenza, epilessia), acidosi lattica, fibre “ragged red”. Più rari: miopatia, neuropatia, diabete mellito, ipoacusia, cardiopatia, bassa statura, retinopatia pigmentosa.
Miopatie disendocrine Sono state descritte miopatie in associazione con un’ampia gamma di endocrinopatie. In molti casi l’interessamento muscolare è una caratteristica incidentale, a volte subclinica, rilevabile solo con metodiche strumentali. In altri casi la sintomatologia muscolare può essere la prima manifestazione, da cui si arriva a diagnosticare la malattia sottostante. A. Miopatie associate a disturbi della tiroide. Esistono quattro diverse sindromi muscolari associate all’ipertiroidismo. 1. Miopatia tireotossica. Più frequente nelle donne, verso i 40-50 anni, si manifesta con debolezza muscolare di solito prossimale a decorso lentamente progressivo e atrofia muscolare prevalentemente al cingolo scapolare (presenza di scapola alata). Si associano talvolta fascicolazioni e disfagia; può essere subclinica. 2. Myasthenia gravis. L’incidenza di ipertiroidismo in corso di miastenia è di circa il 5%, mentre la presenza di miastenia nella tireotossicosi è assai inferiore. 3. Paralisi periodica. Simile alla forma ipokaliemica; si manifesta soprattutto nelle razze orientali. 4. Oftalmoplegia esoftalmica. Si osserva in corso di morbo di Graves; la paralisi dei muscoli extraoculari è secondaria all’edema e all’infiltrato infiammatorio del contenuto orbitario; la patogenesi potrebbe essere di natura autoimmunitaria (recente riscontro di un autoantigene di 67 kD localizzato a livello tiroideo e oculare); si manifesta bilateralmente, è spesso asimmetrica, coinvolge in particolare i muscoli retti mediale ed inferiore; è dolorosa e può causare proptosi, cheratite ulcerosa e neuropatia ottica.
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L’ipotiroidismo si associa a patologia muscolare sia nella sindrome di Kocher-Debré-Semelaigne del bambino, sia nella sindrome di Hoffmann dell’adulto. La prima è caratterizzata da rallentamento motorio, ipostenia-ipotrofia muscolare e cretinismo; nella seconda, più frequente nelle donne, l’astenia muscolare si associa a crampi, mialgie, facile affaticabilità e fenomeni di tipo miotonico. L’ipostenia muscolare, di solito non grave, è prossimale e simmetrica. Possono associarsi rabdomiolisi e sindrome del tunnel carpale. Il livello di CK a volte può essere molto elevato. Entrano spesso in diagnosi differenziale con le miositi. B. Miopatia steroidea. Questa forma è stata descritta in associazione alla malattia di Cushing e in pazienti trattati a lungo con terapia steroidea, in particolare con preparati fluorinati. È caratterizzata da ipotrofia e ipostenia dei muscoli cingolari e prossimali degli arti, soprattutto inferiori. Caratteristico alla biopsia muscolare il reperto di un’atrofia selettiva delle fibre di tipo 2. Il livello sierico di CK può essere elevato. Tale forma complica a volte casi di poli-dermatomiosite che apparentemente non rispondono alla terapia steroidea prolungata. Sono state inoltre descritte miopatie associate ad osteomalacia, iperparatiroidismo, iperpituitarismo.
Miopatie tossiche Numerosi medicamenti e sostanze tossiche possono associarsi ad una sofferenza muscolare. I meccanismi di danno muscolare possono includere: • effetto tossico diretto generalizzato determinante miopatia necrotizzante (alcool, cocaina, ciclosporina, isoniazide, statine, veleno di serpente, organofosfati) • effetto tossico localizzato (antibiotici, anestetici); • miopatia ipokaliemica (diuretici, lassativi, liquirizia, amfotericina C, alcool); • miopatia infiammatoria (D-penicillamina, procainamide, fenitoina, levodopa, cimetidina); • miopatia mitocondriale (zidovudina, germanio); • miopatia da accumulo lisosomiale, “lipidosi” (clorochina, amiodarone); • ipertermia maligna (anestetici alogenati come l’alotano e miorilassanti depolarizzanti come la sucinilcolina nei soggetti geneticamente predisposti); • sindromi miasteniche (si veda in seguito). La rabdomiolisi acuta e massiva associata a necrosi tubulare può essere una grave complicanza di tali miopatie. La miopatia etilica è probabilmente la più comune miopatia tossica; si distingue una forma acuta, insorgente dopo abbondante assunzione di alcolici e caratterizzata da crampi muscolari, mialgie, iperpiressia, aumento degli enzimi sierici e a volte da insufficienza renale secondaria a mioglobinuria; e una forma cronica meno caratteristica ad interessamento prossimale spesso associata a neuropatia.
Disordini della trasmissione neuromuscolare I disordini della trasmissione neuromuscolare possono essere suddivisi in congeniti/familiari e acquisiti. I primi coinvolgono prevalentemente la prima infanzia fino all’età adolescenziale, possono interessare strutture molecolari diverse poste in sede pre o postsinaptica, sono condizioni cliniche rare, la cui trattazione viene rimandata a testi più specifici. I disordini acquisiti sono il botulismo (si veda il Cap. 81), la myasthenia gravis (MG) e la sindrome miasteniforme di Lambert-Eaton. Myasthenia gravis È una malattia caratterizzata da facile esauribilità muscolare dopo ripetuta o continuativa attivazione del muscolo scheletrico e da tendenza al recupero dopo un periodo di inattività fisica. A. Eziopatogenesi. È ormai accertato che la sede dell’anormalità funzionale miastenica è la giunzione neuromuscolare, in particolare la regione postsinaptica. Studi in microscopia elettronica hanno evidenziato una netta diminuzione del numero di recettori dell’acetilcolina nelle placche motrici dei muscoli affetti. La miastenia è una malattia autoimmunitaria. È infatti dovuta alla presenza di autoanticorpi circolanti (antirecettore dell’acetilcolina) e la malattia può essere trasferita in animali di laboratorio (iniettandoli con il siero di pazienti affetti) riproducendo sia il quadro clinico che istologico di malattia. Inoltre, è frequente l’associazione con malattie a genesi immunitaria come la tiroidite di Hashimoto, l’artrite reumatoide, l’anemia perniciosa, la sindrome di Sjögren ed il lupus eritematoso sistemico. Nel 70% circa dei pazienti esistono anomalie del timo: timoma (10%) o iperplasia semplice (60%). L’ipotesi più accreditata è che alla base della MG vi sia un’alterazione timica con attivazione linfocitaria e formazione di anticorpi diretti verso antigeni comuni sia al timo che alla placca motrice; ciò provocherebbe la distruzione dei recettori colinergici e il conseguente blocco postsinaptico della trasmissione neuromuscolare. B. Clinica. Colpisce tutte le razze, con una prevalenza di circa 7-10 casi per 100.000. Può iniziare a qualunque età con picchi nel 3° decennio, in cui è più frequente nel sesso femminile, e dopo i 50 anni, quando predilige il sesso maschile. Esiste anche una forma giovanile, presente soprattutto nelle popolazioni asiatiche (fino al 30% dei casi). L’esordio è di solito graduale, più raramente improvviso; in questo caso occasioni scatenanti possono essere rappresentate da emozioni, malattie febbrili, gravidanza, parto, traumi. Alcuni farmaci hanno un chiaro ruolo nell’evidenziare una miastenia subclinica o nel peggiorare la sintomatologia di una forma già conclamata. Ricordiamo, in particolare, alcuni antibiotici come gli aminoglicosidi, l’ampicillina, la norfloxacina; gli antireumatici come la clorochina; e altri come la procainamide, la fenitoina, i -bloccanti e la tossina botulinica. Nel 60% dei casi è interessata la muscolatura ocu-
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lare estrinseca con ptosi palpebrale mono-bilaterale e diplopia. Nel 20% dei casi la malattia esordisce con segni bulbari (disfagia, disfonia o ipofonia) per l’interessamento dei muscoli laringo-faringo-palatini. Più raramente l’esordio interessa i muscoli facciali o la muscolatura degli arti, in particolare quella prossimale degli arti superiori. Quando sono coinvolti i muscoli della faccia, il paziente presenta difficoltà nella masticazione, nella protrusione delle labbra, non riesce più a fischiare. Il sorriso assume tipicamente le caratteristiche di una smorfia verticale; diventa difficile mantenere sollevate le braccia, e quindi pettinarsi e sollevare gli oggetti. È importante sottolineare la grande variabilità temporale della sintomatologia, il peggioramento dopo attività fisica e il recupero completo o parziale dopo riposo. Il decorso è estremamente variabile. Un decorso particolarmente favorevole (40% dei casi) è osservabile nelle forme localizzate alla muscolatura oculare estrinseca, soprattutto se tale localizzazione rimane isolata per più di 2 anni. Dei rimanenti casi, il 35% si generalizza, il 15% sviluppa sintomi bulbari, il 10% sviluppa sintomi che restano limitati agli arti. Le remissioni spontanee, più frequenti nei bambini, si verificano nel 10-20% circa dei casi nei primi 10 anni e circa il 20% presenta miglioramenti spontanei dei sintomi. Può intervenire una rapida diffusione della sintomatologia a gruppi muscolari successivi, o la situazione clinica può rimanere stabile per mesi o anni prima che compaia un nuovo sintomo. La situazione è particolarmente labile nei primi 5 anni di malattia, in cui possono essere frequenti le crisi miasteniche con quadri di insufficienza respiratoria acuta; dopo 10 anni il rischio di crisi miasteniche è nettamente diminuito. La mortalità è andata decrescendo in maniera progressiva, dal 30% circa nel periodo dal 1940 al 1957, fino all’attuale 5%, grazie al continuo perfezionamento della terapia. Si calcola una mortalità del 25% nelle forme non trattate. La fascia d’età a mortalità più alta è tra i 40 e i 50 anni. In base al quadro clinico e all’evoluzione è possibile distinguere le seguenti forme: • I) miastenia oculare pura, benigna; • IIA) miastenia generalizzata senza segni bulbari, benigna; • IIB) miastenia generalizzata con segni bulbari, ad evoluzione lenta, a prognosi meno benigna delle due precedenti; • III) miastenia generalizzata con segni bulbari ad evoluzione rapida, a prognosi grave (rischio di paralisi respiratorie); • IV) miastenia di tipo I, IIA, IIB che si aggrava rapidamente con rischio di paralisi respiratoria. Esiste inoltre una classificazione clinica della MG che si basa sui dati epidemiologici, sulle caratteristiche delle alterazioni timiche e dei dati bioumorali. Tale classificazione costituisce un utile presupposto per l’impostazione dell’approccio terapeutico alla malattia. In base a tale classificazione si distinguono le seguenti forme:
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• MG associata a timoma: ha un picco di frequenza intorno ai 50 anni, e si associa a positività degli anticorpi antirecettore; • MG sieropositiva senza timoma ad esordio prima dei 50 anni: ha un’elevata frequenza di iperplasia timica e maggiore frequenza nelle femmine; • MG sieropositiva ad esordio dopo i 50 anni: mostra un’elevata frequenza di involuzione timica e maggiore frequenza nei maschi; • MGs sieronegativa: in genere non si associa a patologia timica, ha un picco di frequenza intorno ai 40 anni e uguale frequenza fra i sessi. C. Esami complementari. 1. Test al tensilon. Il tensilon (cloruro di edrofonio) è un anticolinesterasico ad azione rapida e fugace. Nel paziente miastenico, somministrato per via endovenosa, produce entro 1 min un netto miglioramento del deficit muscolare; l’effetto regredisce in circa 10 min. Il test è positivo solo nella miastenia, negativo nelle sindromi miasteniformi e in tutte le altre patologie neuromuscolari. 2. Elettromiografia. La stimolazione ripetitiva del nervo a bassa frequenza (3 Hz) (Fig. 86.4) evoca una risposta muscolare tipica: l’ampiezza dei potenziali d’azione diminuisce rapidamente e progressivamente. L’EMG di fibre singole permette di valutare il jitter, definito come la fisiologica oscillazione temporale che esiste nella depolarizzazone di due fibre muscolari facenti parte della stessa unità motoria. Nella miastenia si osservano un incremento del jitter e la presenza di blocchi. Quest’ultimo test ha una sensibilità elevata (98%) rispetto alla stimolazione ripetitiva (70%), ma ha una specificità più bassa, per cui è più alto il rischio di false positività. Inoltre in tutti i pazienti miastenici va ricercata la presenza di un timoma o di un’iperplasia timica mediante TC o RM del mediastino: nel 10-15% dei pazienti è presente un tumore timico, nel 60-80% è presente un’iperplasia follicolare del timo (soprattutto nei pazienti di età inferiore ai 50 anni), mentre nel 20% è
Figura 86.4 - Stimolazione ripetitiva del nervo ulnare al polso a 3 Hz. Si noti la progressiva caduta d’ampiezza del potenziale motorio di sommazione, che raggiunge il plateau alla quinta risposta.
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presente un’involuzione timica (prevalente in pazienti di età superiore ai 50 anni). Utile infine il dosaggio sierico degli anticorpi antirecettore. Si tratta di un test di elevata specificità (99%), ma di sensibilità relativamente bassa (80%), dovuta all’esistenza di forme di miastenia sieronegative. Il titolo anticorpale non è sempre correlabile alla gravità della malattia. D. Terapia. La terapia della MG ha sostanzialmente il duplice scopo di limitare il blocco della giunzione neuromuscolare, prolungando l’azione dell’acetilcolina, e di agire sul processo autoimmunitario di base. La terapia sintomatica, che può essere sufficiente in alcuni casi di miastenia oculare, si basa sui farmaci anticolinesterasici. Il più utilizzato è la piridostigmina sotto forma di bromidrato. Normalmente l’azione farmacologia della piridostigmina orale inizia entro 30 minuti e dura per 3-4 ore, ma la risposta individuale può variare. La posologia viene aggiustata in relazione alle richieste individuali del paziente durante il giorno. Di solito la dose utilizzata è di 60 mg 3-4 volte al giorno. Un possibile effetto collaterale del farmaco è rappresentato dalla comparsa delle crisi colinergiche, determinate da iperdosaggio o da aumentata sensibilità al farmaco. Sono simili alle crisi miasteniche e quindi caratterizzate da insufficienza respiratoria, ma possono associarsi a irrequietezza, lacrimazione, crampi addominali, diarrea, vomito, crampi muscolari. La terapia immunosoppressiva si basa su corticosteroidi, azatioprina e altri farmaci, ed è efficace nella quasi totalità dei pazienti miastenici. I glucocorticoidi all’inizio della terapia vanno usati con particolare precauzione perché possono indurre un aggravamento temporaneo dei sintomi. Si aumenta gradualmente la posologia, per esempio se si utilizza il prednisone 5 mg/die ad intervalli di 2-3 giorni, fino a raggiungere la dose di 1-1,5 mg/kg/die da mantenere per circa 1-2 mesi, quindi si riduce la posologia ricercando la dose minima efficace da somministrare preferibilmente a giorni alterni. Trattandosi di una terapia prolungata, è necessario considerare gli effetti collaterali dei corticosteroidi; a questo riguardo è bene consigliare una dieta povera in sodio e carboidrati, e vanno monitorati nel tempo i valori della pressione arteriosa e della glicemia. Annualmente, inoltre, è importante valutare il metabolismo osseo mediante mineralometria ossea computerizzata per il rischio di osteoporosi L’azatioprina e gli altri immunosoppressori sono efficaci sia usati singolarmente che in associazione con gli steroidi. L’azatioprina è la più usata per la sua relativa sicurezza. La dose consigliata è di 2/3 mg/kg/die da raggiungere gradualmente. Gli effetti collaterali più frequenti sono l’intolleranza gastrica e la depressione del midollo osseo. Va assunta quindi a stomaco pieno e vanno monitorati i valori della crasi ematica, e la funzionalità epatica e renale. La plasmaferesi, l’immunoassorbimento selettivo delle IgG e la somministrazione di immunoglobuline
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umane ad alto dosaggio sono terapie utilizzate nei casi di pazienti miastenici rapidamente ingravescenti o per la preparazione alla timectomia di pazienti con coinvolgimento respiratorio o bulbare. Presentano il vantaggio di un buon indice di efficacia e di una buona rapidità d’azione; gli svantaggi sono individuabili in una ridotta persistenza del beneficio clinico, nei costi elevati e, soprattutto per la plasmaferesi, in alcuni effetti collaterali e limitazioni d’uso, per cui si rende necessaria la presenza di personale altamente specializzato. La timectomia ha lo scopo di rimuovere la potenziale fonte di insorgenza e di mantenimento della malattia. Ha ormai ottenuto consenso diffuso nel trattamento della MG, anche se non esistono finora studi controllati che ne dimostrino in modo definitivo l’efficacia. È indicata in tutti i pazienti con presenza radiologica di ingrandimento timico e nei pazienti giovani con interessamento generalizzato o bulbare in assenza di ingrandimento timico, soprattutto se la malattia è presente da non più di 2 anni, nei quali sono stati riportati tassi di remissione intorno al 40-50%. Tende a migliorare l’evoluzione della malattia determinando in molti casi una stabilizzazione clinica con dosaggi ridotti dei farmaci. Normalmente si assiste a una prognosi migliore nei casi in cui non è presente un timoma. La presenza di un timoma, documentata dagli esami radiologici, rappresenta tuttavia un’indicazione assoluta alla timectomia a causa del rischio di un’infiltrazione locale o di metastasi a livello della cavità pleurica. La tecnica della timectomia deve consentire un’asportazione radicale del timo. Si tratta di un intervento elettivo, che viene programmato quando la farmacoterapia ha raggiunto una buona stabilizzazione clinica dei sintomi al fine di evitare crisi miasteniche nel postoperatorio. Sindrome miasteniforme di Lambert-Eaton (LEMS) È una sindrome spesso associata al carcinoma bronchiale “a piccole cellule”, più raramente a neoplasia della mammella, prostata, stomaco. Può precedere l’evidenziazione del tumore anche di 1-2 anni. Clinicamente è caratterizzata da ipostenia e ipotrofia dei muscoli cingolari ad insorgenza tardiva, di solito dopo il 5° decennio. È raro l’interessamento dei muscoli innervati dai nervi cranici, mentre spesso si associano parestesie agli arti, algie muscolari, assenza dei riflessi osteotendinei. In alcuni casi, inoltre, l’ipostenia muscolare tende a regredire durante la ripetizione di sforzi massimali. L’esame elettromiografico tipicamente mostra un iniziale potenziale d’azione muscolare di ampiezza ridotta e una risposta incrementale con stimolazioni ripetitive ad elevata frequenza. La patogenesi consiste in un blocco presinaptico secondario all’insufficiente liberazione di “quanti” di acetilcolina dai terminali assonici di natura immunologica, secondario ad un’attività autoimmunitaria contro i canali del calcio voltaggio-dipendenti (VGCC) a livello del terminale motorio presi-
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naptico. Nei pazienti con LEMS e microcitoma polmonare, le cellule tumorali presumibilmente contengono epitopi condivisi dai VGCC e inducono la produzione di anticorpi anti-VGCC. Nei pazienti con LEMS senza tumore, gli anticorpi anti VGCC sono probabilmente prodotti nell’ambito di uno disreattività autoimmunitaria generalizzata. Quando la diagnosi di LEMS è stata confermata, si dovrebbe sempre eseguire un’approfondita ricerca strumentale di un eventuale tumore, ripetuta periodicamente in caso di iniziale negatività dello screening.
MALATTIE NEUROLOGICHE
La migliore risposta terapeutica si ottiene dal trattamento del tumore, se questo è presente. Nei casi in cui non si è individuata la neoplasia, qualche dubbio risultato è ottenibile mediante l’immunoterapia. Le aminopiridine, in particolare la 3,4 diaminopiridina (3,4DAP), incrementando il rilascio di acetilcolina dai terminali del nervo motorio, determinano un miglioramento della trasmissione neuromuscolare e quindi un miglioramento temporaneo della sintomatologia, in particolare dell’ipostenia e dell’affaticabilità muscolare.
C A P I T O L O
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CEFALEE B. COLOMBO, G. COMI
In assenza di situazioni traumatiche, il capo è la regione anatomica che più frequentemente è indicata come punto di partenza di una sintomatologia dolorosa. Dal 70 all’80% della popolazione generale lamenta nel corso di un anno almeno un attacco di cefalea: se si considera che circa 300 condizioni patologiche si possono presentare con questo sintomo, secondo la recente classificazione della International Headache Society (IHS) del 2004, è evidente come una diagnosi precisa derivata da un iter diagnostico ben strutturato sia fondamentale per poter arrivare ad una specifica categorizzazione dello stesso sintomo. La localizzazione anatomica del dolore è spesso di scarsa importanza clinica: l’encefalo presenta strutture sensibili ed insensibili al dolore, i meccanismi algogeni che le attivano possono essere molteplici: trazione, tensione, distensione, dilatazione ed infiammazione (Tab. 87.1). Le cefalee vengono distinte in primarie (non legate a una causa organica specifica) e secondarie (sostenute da una causa organica). Il primo obiettivo di fronte ad un paziente che soffre di cefalea è quello di riuscire a distinguere una forma primaria da una forma secondaria, in quanto le seconde possono essere sintomatiche di gravi patologie. La diagnosi eziologica delle cefalee è un esercizio spesso molto difficile, in quanto si basa nella maggioranza dei casi solo sulle caratteristiche del dolore, un disturbo squisitamente Tabella 87.1 - Dolore cranico e strutture correlate. STRUTTURE SENSIBILI AL DOLORE Cute Muscoli Seni venosi Porzioni di dura alla base del cervello Arterie durali Arterie intracerebrali Nervi cervicali V e VII nervo cranico
STRUTTURE INSENSIBILI AL DOLORE Teca cranica Plessi corioidei Ependima ventricolare La maggior parte di dura e pia madre
soggettivo e molto arduo da definire. Le possibili cause di cefalea sono moltissime, anche se le forme primarie costituiscono circa il 90% (Tab. 87.2).
CEFALEE PRIMARIE Emicrania L’emicrania è una patologia che comprende, oltre al dolore al capo, una sintomatologia neurovegetativa ed un coinvolgimento emotivo-affettivo. Si manifesta con attacchi che possono andare da frequenze sporadiche (uno al mese) a frequenze elevate (1-2 attacchi a settimana). L’intensità del dolore è per i due terzi dei pazienti assai grave, rendendo conto di un’elevata disabilità. I criteri diagnostici della IHS distinguono un’emicrania con aura e un’emicrania senza aura. L’emicrania senza aura si definisce per una sintomatologia caratterizzata da attacchi ricorrenti di cefalea della durata da 4 a 72 ore (se non trattati) e con almeno due dei seguenti sintomi associati: localizzazione unilaterale, dolore di qualità pulsante, intensità del dolore da moderata a grave, peggioramento con l’attività fisica o necessità di evitare la stessa (anche camminare o salire le scale). Nel corso dell’attacco deve comparire almeno uno di questi sintomi: nausea e/o vomito, fotofobia e fonofobia. L’emicrania con aura presenta una cefalea con caratteristiche simili a quella appena descritta ma associata a disturbi neurologici ricorrenti focali e reversibili che si sviluppano gradualmente nell’arco di 5-20 minuti e durano meno di 60 minuti. Tali disturbi sono prevalentemente di tipo visivo (scotomi positivi scintillanti, emianopsie omonime, teicopsie ovvero scotomi a forma di C con bordi scintillanti che si allargano gradualmente), sensitivo (parestesie a partenza dalla mano e coinvolgenti il braccio fino al viso) o del linguaggio (disfasia, disartria, parafasie). La cefalea generalmente si presenta dopo la scomparsa dell’aura. Sintomi differenti dell’aura possono comparire in successione dopo un
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periodo di più di 5 minuti (aura complessa). L’aura emicranica può talora comparire senza essere poi seguita dall’emicrania (aura isolata) o può raramente durare più di un’ora (aura prolungata). L’emicrania colpisce un’elevata percentuale della popolazione generale. La prevalenza varia con il sesso, l’età e la razza, ed è difficile da stimare in quanto la patologia è una condizione episodica con attacchi che variano in frequenza da anno ad anno. Gli studi che hanno valutato la prevalenza in un anno, cioè il numero di persone che Tabella 87.2 - Classificazione delle cefalee. Sindromi cefalalgiche primarie • Emicrania • Cefalea muscolotensiva • Cefalea a grappolo e sindromi correlate (include TACs [Trigeminal Autonomic Cephalalgias] quali emicrania parossistica, SUNCT [Short Lasting Unilateral Neuralgiform Headache with Conjunctival Injection and Tearing]) • Cefalea a “rombo di tuono” • Cefalea ipnica • Cefalea benigna postesercizio, postcoitale • Cefalea da tosse Sindromi cefalalgiche secondarie • Traumatica – Trauma cranico semplice chiuso – Trauma cranico complesso con emorragia subdurale/extradurale/intradurale/ESA (emorragia sub-aracnoidea) • Malattia cerebrovascolare – ESA – Aneurismi non rotti – Ischemia cerebrale acuta (TIA o ictus cerebri) – Emorragia subdurale/extradurale/intracerebrale non traumatica – Dissezione carotidea o vertebrale – Trombosi dei seni venosi centrali – Vasculiti (incluse le vasculiti a cellule giganti) • Infezioni del SNC – Meningoencefaliti (batteriche, virali, fungine) – Ascessi cerebrali • Patologie intracraniche non-vascolari – Idrocefalo intermittente (per es., cisti colloide) – Ipertensione intracranica idiopatica – Tumori intracranici – Apoplessia pituitaria – Malformazione di Arnold-Chiari – Neurite ottica • Patologie metaboliche o tossiche – Feocromocitoma – Sindrome da astinenza – Patologie farmacoindotte • Encefalopatia ipertensiva • Patologie della colonna cervicale • Patologie dentarie, ORL od oftalmiche (per es., sinusite acuta, glaucoma) • Patologia secondaria a problemi internistici (per es.: IMA, infezione non a carico del SNC, ecc.)
MALATTIE NEUROLOGICHE
hanno avuto almeno un attacco di emicrania durante l’anno precedente, evidenziano una prevalenza simile in Europa ed in America (5-6% per gli uomini e 18-20% per le donne). Durante gli anni riproduttivi l’emicrania colpisce maggiormente il sesso femminile con un rapporto di circa 3:1. Fino alla pubertà la prevalenza è la medesima nei due sessi. Il picco di prevalenza per l’emicrania è nei primi 40 anni, migliorando usualmente in età avanzata pur essendo possibile avere ancora attacchi in età senile. L’emicrania senza aura è più frequente di quella con aura con un rapporto di circa 7:1. Le cause dell’emicrania sono ancora sconosciute, ma una serie di osservazioni supporta l’ipotesi di un’anomala attivazione del sistema trigemino-vascolare in pazienti geneticamente predisposti. Il rischio di essere affetti da emicrania è raddoppiato nei familiari di primo grado di pazienti affetti da emicrania senza aura. Si suppone che l’ereditarietà sia di tipo multifattoriale. L’unica forma di emicrania nella quale sia stato verificato un coinvolgimento genetico definito è l’emicrania emiplegica familiare (FHM), forma ad ereditarietà autosomica dominante. La scoperta di mutazioni missenso puntiformi nel gene CACNA1A (mappato sul braccio corto del cromosoma 19) codificante la subunità 1A del canale del calcio P/Q in pazienti affetti da FHM1 potrebbe indicare un potenziale coinvolgimento disfunzionale dei canali ionici anche nell’emicrania. In tal senso depone anche la mutazione riscontrata in pazienti con emicrania emiplegica familiare di tipo II, nella quale è interessato il gene ATP1A2. Le alterazioni della distribuzione intra ed extracellulare degli ioni spiegherebbero bene la depolarizzazione neuronale corticale progressiva o “spreading depression”. Studi genetici in pazienti affetti da emicrania con e senza aura non hanno però confermato un coinvolgimento specifico di questi geni, il che non esclude ovviamente il coinvolgimento di altri geni implicati nella regolazione della funzione dei canali ionici. Recenti studi supportano la teoria che eventi di tipo neurale (attivazione periferica, evidenziata dalla liberazione di CGRP, un peptide vasoattivo) provochino la dilatazione di vasi sanguigni a livello meningeo. La conseguente fuoriuscita di sostanze chimiche algogene a livello della dura madre attiva fibre nervose trigeminali (rami della divisione oftalmica del trigemino). Queste fibre passano attraverso il ganglio trigeminale e formano sinapsi con neuroni di secondo ordine nel complesso trigeminocervicale, ove arrivano anche afferenze dalla fossa posteriore tramite rami delle radici di C2. Il coinvolgimento della divisione oftalmica del nervo trigemino e la sovrapposizione con strutture innervate da C2 spiega la distribuzione comune del dolore nelle regioni frontali e temporali, come pure della regione occipitale e cervicale. Una modulazione degli input dolorosi derivati dal sistema trigeminovascolare si attua a livello del nucleo del rafe dorsale, del locus coeruleus e del nucleo del rafe magno. Il dolore è dovuto ad un’alterata percezione da sensibilizzazione centrale o periferica dell’afferenza craniovascolare. L’anomala modulazione sovraspinale del dolore è dovuta ad uno sbilanciamento dei sistemi di controllo prevalentemente a li-
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vello del grigio periacqueduttale (vie di controllo serotoninergiche ed aminergiche al talamo controlaterale). Queste vie modulano il flusso cerebrale, la permeabilità di barriera e controllano l’aspetto “signal to noise” degli impulsi sensitivi. Il fenomeno dell’aura viene interpretato come un evento neuroelettrico caratterizzato da un’eccitazione neuronale corticale seguita da depressione della medesima attività, ad esordio spontaneo o scatenato da stimoli visivi. L’aura emicranica è associata ad una diminuzione del flusso cerebrale che si propaga lungo la corteccia ad una velocità di 2-3 mm/minuto (“spreading oligoemia”), spesso preceduta da una fase di iperemia focale. Tale evento non rispetta i territori di vascolarizzazione e non è legato a vasocostrizione. La disfunzione neuronale che ne consegue non arriva all’ischemia, se non raramente. Se la “spreading depression” corticale è di portata tale da attivare il nucleo trigeminale caudale; si attuano così dei meccanismi a cascata che portano, attraverso riflessi assonali a partenza dai terminali trigeminali che innervano i vasi piali penetranti, alla liberazione di proteine plasmatiche (sostanza P e CGRP) con attivazione del riflesso trigeminovascolare e conseguente sensibilizzazione dolorosa. Terapia A. Terapia dell’attacco. Un corretto approccio terapeutico dovrebbe considerare come premessa l’eliminazione o la correzione dei fattori scatenanti o delle situazioni favorenti lo scatenamento dell’attacco emicranico. In particolare bisognerà considerare elementi quali: • lo stress; • il rilassamento dopo stress (esempio il fine-settimana e la variazione dei ritmi biologici conseguenti); • i cambiamenti nelle abitudini di vita (come il lavoro a turni); • le alterazioni del ritmo sonno-veglia (il risveglio precoce o ritardato); • i cibi contenenti tiramina o feniletilamina (alcool, cioccolato, formaggi, insaccati); • farmaci (nitroderivati, alcuni antipertensivi); • il digiuno; • le variazioni atmosferiche; • i cicli mestruali; • diete incongrue; • l’uso di contraccettivi orali.
La terapia dovrà poi essere individualizzata andando a ricercare una possibile cura preventiva, quando necessario, o limitandosi all’uso di una terapia sintomatica appropriata in relazione alla frequenza degli attacchi e alla loro intensità. Il trattamento preventivo va riservato ai pazienti la cui frequenza media di attacchi sia superiore ai tre al mese negli ultimi tre mesi, o nei quali la durata degli attacchi sia particolarmente significativa e di notevole intensità, specie se poco rispondenti alla terapia sintomatica. Gli obiettivi della terapia sintomatica sono fondamentalmente: la riduzione del dolore, la scomparsa dei sintomi associati (nausea, vomito, foto e fonofobia) e la rapida ripresa delle performance psicofisiche. Utilizzando un approccio “stratificato”, si consiglia l’utilizzo di triptani per i pazienti con attacchi di intensità moderata o grave, e di FANS per quelli con intensità lieve o moderata. I farmaci andrebbero assunti in tempi precoci rispetto all’insorgenza dell’attacco stesso (ovvero non all’acme). Si sconsiglia l’uso dei triptani nella fase dell’aura, mentre nella medesima fase può essere utilizzato l’acido acetilsalicilico fatto seguire da un triptano all’insorgere della successiva emicrania. Va suggerito al paziente di seguire elementari norme igieniche in corso di attacco, come il riposo a letto in una stanza buia e silenziosa. 1. I FANS (Tab. 87.3) agiscono inibendo la sintesi delle prostaglandine in sede perivasale e bloccando i meccanismi che portano all’aumento della permeabilità vasale e alla liberazione di amine vasoattive. L’indometacina possiede anche un’attività analgesica centrale con azione diretta sui sistemi serotoninergici ed oppioidi endogeni. L’attività sull’attacco emicranico andrebbe valutata, in caso di insuccesso, utilizzando almeno altri due farmaci della medesima classe prima di definirla inefficace. In caso di associazione con butalbital (barbiturico a breve durata di azione) o caffeina i FANS tendono ad avere un’attività assai precoce, ed esistono in commercio farmaci composti in tal modo. Ciò rende però possibili una cefalea da “rebound” ed un fenomeno di tolleranza che può portare all’abuso farmacologico. Per la caffeina questo è possibile con dosaggi anche di 300 mg/die. 2. I triptani (Tab. 87.4) sono la prima classe di farmaci specificamente studiati per l’attività antiemicranica. Hanno attività agonista selettiva sui recettori
Tabella 87.3 - Terapia dell’attacco di emicrania con FANS. PRINCIPIO ATTIVO
POSOLOGIA
CONTROINDICAZIONI
Acido acetilsalicilico Indometacina
500-1000 mg per os, im, ev (max 4 g/24 h) 25-50 mg per os 50-100 mg rettale, im, ev 600-1200 mg per os, rettale (max 1800 mg/24 h) 550-1100 mg per os, rettale (max 1650 mg/24 h) 100 mg per os, rettale, im 50 mg per os (max 300 mg/24 h) 100 mg im (max 200 mg/24 h)
Gastrite o ulcera Nefropatia
Ibruprofene Naprossene sodico Diclofenac Ketoprofene
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MALATTIE NEUROLOGICHE
Tabella 87.4 - Terapia dell’attacco di emicrania con triptani. PRINCIPIO ATTIVO Sumatriptan
Zolmitriptan Rizatriptan Eletriptan Naratriptan Almotriptan Frovatriptan
POSOLOGIA 6 mg sc (max 12 mg/24 h) 50-100 mg per os (max 300 mg/24 h) 25 mg rettale (max 50 mg/24 h) 20 mg spray nasale (max 40 mg/24 h) 2,5 mg per os (max 5 mg/24 h) 10 mg per os RPD (max 20 mg/24 h), 5 mg se associato a propranololo 20-40-80 mg per os (max 160 mg/24 h) 2,5 mg per os (max 5 mg/24 h) 12,5 mg per os (max 25 mg/24 h) 2,5 mg per os (max 5 mg/24 h)
5HT1B/1D ed agiscono sia con effetto vascocostrittivo a livello dei vasi cefalici con attività sulle anastomosi arterovenose (effetto mediato da recettori 5HT1B) sia con attività inibitoria dell’infiammazione sterile neurogena provocata dal rilascio di peptidi vasoattivi (CGRP) da parte delle terminazioni perivascolari meningee (effetto mediato da recettori 5HT1D). I triptani agiscono anche inibendo la trasmissione centrale del dolore a livello del nucleo caudale trigeminale. Gli effetti collaterali segnalati con i triptani sono per lo più caratterizzati da sensazione di costrizione toracica, arrossamento del volto, dolore al collo, tensione e sensazione di caldo e di freddo. Tali sintomi sono reversibili e della durata di qualche minuto, ma è bene segnalarli al paziente in quanto abbastanza frequenti (circa 10% dei casi). I triptani sono controindicati nei soggetti che soffrono di cardiopatia ischemica, ipertensione, o che hanno avuto storia pregressa di ictus o infarto.
La classe dei triptani si è dimostrata superiore al placebo nel trattamento acuto degli attacchi di emicrania. Le differenze di efficacia tra i vari composti sono modeste, legate soprattutto in alcuni casi alla più sicura tollerabilità (almotriptan), alla risposta più rapida sul dolore (rizatriptan ed eletriptan), all’assenza di recidive (frovatriptan), alla costanza di efficacia nel tempo (rizatriptan). Va considerato che la mancata risposta ad un triptano non è indicativa della mancata efficacia dell’intera classe farmacologica. Si consiglia quindi, in caso di insuccesso con un triptano, di testare l’efficacia di altri composti della medesima classe. Il sumatriptan per spray nasale è stato recentemente approvato per il trattamento delle forme di emicrania in età adolescenziale (dai 12 anni in su). 3. Gli ergot-derivati (ergotamina e diidroergotamina) erano i farmaci di prima scelta in epoca ante-triptani. La loro attività recettoriale è molto diffusa (1 e 2, 5HT1B e D, 5HT2, 5HT1A, D2) e l’effetto è principalmente dovuto alle caratteristiche vasocostrittive (non selettive) del composto, anche se un effetto sull’infiammazione sterile neuromediata è stato verificato. Questa classe di farmaci si è dimostrata in alcuni studi superiore all’aspirina 500 mg e pari al naprossene 825 mg, mentre i triptani (sumatriptan ed eletriptan) si sono dimostrati più efficaci di una combinazione di ergotamina tartrato 2 mg e caffeina 200 mg. Gli ergot-derivati, in virtù della diffusa e potente attività vasocostrittrice, hanno estese controindicazioni, quali ipertensione arteriosa, cardiopatia ischemica, pregressa ischemia cerebrale. L’assunzione cronica può a sua volta provocare disturbi ischemici cerebrali e periferici, ipertensione, tachi-bradicardia e disturbi renali.
Tabella 87.5 - Profilassi dell’emicrania. PRINCIPIO ATTIVO
POSOLOGIA
NOTE
-bloccanti
Propranololo Metoprololo Atenololo Nadololo Timololo
40-240 mg/die 100-200 mg/die 50-100 mg/die 40-240 mg/die 10-20 mg/die
Incrementare gradualmente il dosaggio fino alla dose di mantenimento; sospendere allo stesso modo
Calcio-antagonisti
Flunarizina Verapamil Cinarizina
5-10 mg/die 160-320 mg/die 75-150 mg/die
Somministrazione serale preferibile Aumento e sospensione graduali Somministrazione serale preferibile
TCI/SSRI
Amitriptilina Fluoxetina
25-100 mg/die 10-20 mg/die
Paroxetina
10-20 mg/die
Suggerita somministrazione serale Dosi più alte da consigliare in presenza di disturbo d’ansia o depressione Idem
Antagonisti 5-HT2
Pizotifene
0,5-1,5 mg/die
Somministrazione serale
Anticonvulsivanti
Valproato (1)
500-1500 mg/die
Somministrazione serale o frazionata a seconda del dosaggio
Gabapentin (1) Topiramato (1)
600-1200 mg/die 100-150 mg/die
Idem Incrementare gradualmente il dosaggio
(1) Non indicato nella scheda tecnica in Italia.
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B. Profilassi. La profilassi dell’emicrania (Tab. 87.5) ha lo scopo di ridurre la frequenza delle crisi prevenendone l’insorgenza. L’attività farmacologica si esplica dopo circa un mese e gli effetti clinici iniziano a manifestarsi di conseguenza. La profilassi andrebbe proseguita per alcuni mesi (2-3 mesi), iniziando a basse dosi ed incrementando la posologia gradualmente; andrebbe poi ripetuta a cicli (eventualmente a dosi più basse) per mantenere l’efficacia nel tempo. È consigliabile l’utilizzo di un solo farmaco, anche se in alcuni casi le terapie di combinazione con più composti sono necessarie. Per valutare l’efficacia di un farmaco si raccomanda al paziente la compilazione di un diario per controllare l’effettiva riduzione del numero di crisi e la persistenza nel tempo del risultato. Le classi farmacologiche di prima scelta sono quelle dei -bloccanti, dei calcioantagonisti, dei serotoninergici, degli antidepressivi (tricicilici e SSRI), degli antiepilettici. Secondo le raccomandazioni dell’American Academy of Neurology risultano di gruppo 1 (elevata efficacia, buona forza di evidenza, modesti effetti collaterali) e di grado A (risultati derivati da studi randomizzati) il valproato, l’amitriptilina, il propranololo e il timololo. Del gruppo 2 (efficacia minore del gruppo 1 ma comunque valida) fanno invece parte, fra gli altri, l’atenololo, il verapamil, la fluoxetina, il gabapentin. Relativamente alla classe degli antiepilettici, il topiramato è stato recentemente approvato dalla FDA negli USA per la prevenzione dell’emicrania a dosi da 50 a 200 mg/die. Studi multicentrici, randomizzati, in doppio cieco contro placebo hanno verificato l’efficacia anche alle dosi più basse, con effetti collaterali quali parestesie distali delle estremità, perdita di peso e lievi deficit cognitivi, reversibili alla sospensione del trattamento. Più recenti studi in aperto hanno valutato l’attività favorevole del levetiracetam (1500-2500 mg/die) nelle emicranie cronicizzate, della zonisamide (100-400 mg/die) nel medesimo gruppo di pazienti, della tossina botulinica iniettata simmetricamente nei muscoli frontali, temporali e glabellari con ripetizione del trattamento ogni 3-6 mesi nelle forme di emicranie refrattarie a precedenti terapie, del lisinopril (20 mg/die con buona efficacia) e del candesartan (16 mg/die con relativa efficacia) per le forme emicraniche. Questi composti necessitano però di studi controllati, randomizzati e contro placebo su popolazioni più vaste di pazienti per essere inseriti stabilmente nell’attuale armamentario farmaceutico relativamente alla profilassi dell’emicrania.
Cefalea tensiva La cefalea tensiva è la forma più frequente di cefalea. Si stima che circa due terzi delle persone siano affetti da questo tipo di cefalea nel corso della vita, ma per fortuna nella maggior parte dei casi si tratta di episodi isolati o di brevi periodi della vita in cui si manifestano episodi ripetuti. Più raramente la cefalea tensiva assume un decorso cronico. La cefalea viene definita tale se è presente per più di 15 giorni al mese e da più di 6 mesi. La patolo-
gia ha un esordio solitamente in età giovanile (età media di insorgenza intorno ai 30 anni, con il 40% dei casi ad inizio prima dei 20), anche se sono possibili esordi in età più avanzata. È possibile anche una coesistenza con forme emicraniche: la coesistenza delle due forme può portare con maggiore probabilità ad una cronicizzazione del quadro clinico. Gli episodi si caratterizzano per un dolore della durata variabile da 30 minuti a 7 giorni e con almeno due delle caratteristiche seguenti: localizzazione bilaterale, qualità oppressiva/compressiva (non pulsante), intensità media o moderata, non aggravato dall’attività fisica come camminare o salire le scale. Inoltre devono essere assenti sia nausea che vomito, e può essere presente fotofobia o fonofobia. È spesso presente un dolore alla palpazione della muscolatura pericranica, incrementato in relazione alla frequenza ed all’intensità della cefalea. Tale dolore va ricercato manualmente, con la digitopressione della muscolatura frontale, temporale, masseterina, pterigoidea, sternocleidomastoidea, nonché dello splenio e del trapezio La cefalea di tipo tensivo ha come evento iniziale generalmente una condizione di stress psicofisico che porta sia ad una transitoria alterazione della modulazione del dolore sia ad un aumento nella nocicezione dei muscoli pericranici da tensione degli stessi. Se si instaura una sensibilizzazione periferica (a livello dei meccanocettori e nocicettori miofasciali) si può attuare (anche in funzione della ricorrenza degli attacchi) una disfunzione permanente del sistema antinocicettivo che provoca una sensibilizzazione centrale ed in definitiva una cronicizzazione della patologia (cefalea tensiva cronica) Terapia La terapia della cefalea tensiva si basa sull’approccio sintomatico (fase acuta) e sulla profilassi, allo scopo di prevenire o ridurre la frequenza degli attacchi. A. Terapia dell’attacco. Si basa sull’uso di FANS che presentino risultati clinici derivati da studi clinici controllati contro placebo. Vanno considerati alcuni effetti collaterali che sono abbastanza comuni a tutta questa classe di farmaci e che sono da valutare prima della prescrizione in particolari gruppi di soggetti. Si ricordano quindi gli effetti sull’apparato gastroenterico (bruciore gastrico, nausea, possibilità di ulcere), sulla cute (rash e prurito) ed i rari effetti a carico del SNC (rallentamento psichico e confusione). I farmaci di questa classe raccomandati sono i salicilati (dosi da 0,5 a 2 g/die), il ketoprofene (dosi pari a 50-150 mg/die per os o 100 mg/die per via endovenosa o intramuscolare), il naprossene (specie per gli attacchi di lunga durata, avendo un’emivita superiore alle 12 ore e a dosi pari a 550-1100 mg/die), l’ibuprofene (dosi pari a 200-800 mg/die). Il paracetamolo è consigliato alla dose di 500-1000 mg/die. I farmaci di associazione (FANS più, per es., codeina o caffeina) presentano un’efficacia maggiore ma un aumentato rischio di comparsa di cefalea da “rebound” e successiva cefalea da abuso farmacologico. Altri FANS, anche se comunemente usati nella pratica clinica, non hanno indicazioni derivate da studi clinici controllati.
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MALATTIE NEUROLOGICHE
B. Profilassi. Si basa sull’utilizzo dell’amitriptilina, a partire da basse dosi (5 mg/die) salendo fino a dosi di mantenimento di 25-75 mg/die. Il farmaco si è dimostrato efficace in numerosi studi controllati contro placebo, specie nelle forme croniche. L’effetto antalgico dell’amitriptilina si esplica a dosaggi inferiori e in tempi più brevi (1-2 settimane) di quelli necessari per ottenere un effetto antidepressivo, suggerendo che le principali vie biochimiche implicate nell’analgesia da triciclici (potenziamento dei sistemi oppioidi endogeni, potenziamento del “gate control” midollare, aumento della sensibilità neuronale alla sostanza P) siano differenti da quelle attuate nell’effetto sul tono dell’umore. Gli effetti collaterali sono legati al profilo farmacologico e all’attività anticolinergica (secchezza delle fauci, stipsi, visione offuscata, tachicardia), antistaminica (sonnolenza, aumento ponderale) ed -adrenergica (ipotensione ortostatica). Gli effetti cardiovascolari dei triciclici annoverano anche il rallentamento della conduzione intraventricolare e un aumentato rischio di fibrillazione ventricolare in pazienti con insufficienza cardiaca. Fra gli altri antidepressivi triciclici può essere citata la clorimipramina (dosi 75-150 mg/die), superiore in alcuni studi anche all’amitriptilina a scapito di maggiori effetti collaterali. L’antidepressivo atipico dotiepina (75 mg/die) si è dimostrato superiore al placebo. Fra i farmaci antidepressivi attivi sulla ricaptazione della serotonina (SSRI) i risultati sono da considerarsi contrastanti: se svariati studi in aperto avevano dimostrato per alcuni di essi una buona efficacia, studi controllati hanno segnalato come l’amitriptilina risultasse superiore a citalopram, sertralina e fluoxetina. Recentemente si è evidenziato un vantaggio da parte della mirtazapina nelle forme di cefalea tensiva cronica (dose di 15-30 mg/die) rispetto al placebo in uno studio controllato, randomizzato, cross-over. Un altro gruppo di farmaci utilizzabili è quello dei miorilassanti. La tizanidina si è dimostrata efficace da dosi di 2 mg/die fino a 18 mg/die (con aumento comunque lento e graduale della posologia). Gli effetti collaterali più frequenti sono sonnolenza, xerostomia, senso di confusione. Non esistono studi adeguati per le benzodiazepine o i miorilassanti ad azione centrale. Bassi dosaggi di clordiazepossido o diazepam sono consigliati in caso di coesistenza di insonnia o stati ansiosi. Sono suggeribili anche terapie comportamentali quali il biofeedback o l’agopuntura, ma va soprattutto valutata la coesistenza (e la successiva correzione) di fattori concausali quali l’alterazione dei ritmi sonno-veglia, eccessivi stress psicofisici, tensioni muscolari, comorbidità psichiatriche (disturbi da attacco di panico, depressione, ansia generalizzata).
Cefalea a grappolo Questa forma di cefalea veniva un tempo definita come cefalea istaminica di Horton o nevralgia del nervo vidiano. Si tratta di una forma di cefalea parossistica e stereotipata nell’espresione clinica che viene riconosciuta per l’i-
nizio improvviso e la ripetizione dei sintomi per settimane o mesi, con periodi di remissione più o meno lunghi. Questa forma di cefalea è stata a lungo considerata una quasi esclusività maschile, con rapporto maschi: femmine di 6-8:1; alcuni studi epidemiologici recenti hanno però rivelato una riduzione dello squilibrio per sesso, con una ratio di 2:1 e hanno spiegato la variazione con modifiche delle abitudini e dello stile di vita, per esempio aumento delle donne che fumano e che hanno attività lavorative stressanti. L’età media di esordio è 30 anni (con un range di 7-83 anni). Una storia familiare è valutata nell’11-20% dei casi. La cefalea a grappolo si caratterizza per la comparsa di un dolore violento, strettamente unilaterale, dal medesimo lato, nella zona orbito-frontale ed irradiato alla nuca, della durata di 15-180 minuti se non trattato. La cefalea è associata ad almeno un sintomo fra i seguenti: iniezione congiuntivale ipsilaterale e/o lacrimazione, congestione nasale ipsilaterale e/o rinorrea, edema periorbitario ipsilaterale, sudorazione facciale e della fronte ipsilaterale, miosi e/o ptosi ipsilaterale, senso di irrequietezza e di agitazione. Si deve notare che nel 35% dei casi non sono segnalati sintomi neurovegetativi e che in circa il 20% dei casi sono riportate fotofobia e nausea. Gli attacchi hanno una frequenza da 1 a giorni alterni fino a 8 al giorno. Gli attacchi si presentano in serie (“cluster”) della durata di settimane o mesi, seguiti da periodi di remissione della durata tipicamente di mesi o anni. Il 15% dei pazienti ha però sintomi cronici, senza periodi di remissione. La forma viene distinta, infatti, in episodica (periodi di remissione tra un “cluster” e l’altro di più di un mese) e cronica (periodi di remissione tra un “cluster” e l’altro di meno di un mese). Una forma cronica può presentarsi de novo o evolvere da una forma episodica. In rari casi la forma è stata associata a cause secondarie quali tumori parasellari, malformazioni arterovenose, aneurismi dell’arteria basilare. La cefalea a grappolo primaria deriva da una disfunzione ipotalamica ed è influenzata da componenti neuroendocrine, sovra-extraipotalamiche e circadiane (cicli stress-relax, stagioni, stile di vita). Recenti studi hanno valutato l’attivazione di nuclei ipotalamici inferiori in corso di attacco. Terapia A. Terapia dell’attacco. Dato il repentino esordio dei sintomi e il raggiungimento del picco massimo del dolore in pochi minuti, per il trattamento di un attacco acuto di cefalea a grappolo sono necessari farmaci ad attività specifica ed assai rapida (Tab. 87.6). Gli approcci più efficaci risultano essere l’utilizzo dell’inalazione di ossigeno al 100% (per 15 minuti a 6/7 l/min) e l’iniezione sottocutanea di sumatriptan. Nonostante sia stato evidenziato un sufficiente risultato anche con la formulazione spray di sumatriptan, l’esordio dell’efficacia di quest’ultima formulazione risulta troppo lento per lo scopo. Anche lo zolmitriptan alla dose di 10 mg/die si è dimostrato statisticamente superiore al placebo nel trattamento degli attacchi di cefalea a grappolo episodica. B. Profilassi (Tab. 87.7). È necessaria per evitare, specie nei pazienti che presentano un numero di attacchi pluriquotidiani, l’abuso di farmaci sintomatici o la loro tossi-
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87 - CEFALEE
Tabella 87.6 - Terapia dell’attacco di cefalea a grappolo con FANS. PRINCIPIO ATTIVO E POSOLOGIA
QUALITÀ DELL’EVIDENZA
EFFICACIA SU BASE SCIENTIFICA
IMPRESSIONE CLINICA DI EFFICACIA
EFFETTI COLLATERALI
RAGGRUPPAMENTO RACCOMANDATO
Sumatriptan, 6 mg sc
Grado A
++
++
Occasionali e lievi/moderati
Gruppo 1
Ossigeno 100% inalato a 6-7 l/min
Grado B
+
+
Rari e lievi
Gruppo 2
Ergotamina + caffeina (1 mg + 100 mg per os oppure 2 mg + 100 mg rettale)
Grado C
+/–
+/–
Occasionali e moderati
Gruppo 5
cità. Va instaurata precocemente all’insorgere dei primi attacchi e va proseguita per almeno 2 settimane dopo la scomparsa delle crisi, sospendendola gradualmente e reiniziandola alla ripresa della successiva fase di grappolo.
e va controllata durante il trattamento insieme alla funzionalità tiroidea, epatica, renale ed agli elettroliti. Tra gli effetti collaterali più frequenti si ricordano: diarrea, tremore, senso di confusione mentale.
1. Gli steroidi (prednisone e desametasone) hanno una rapida efficacia e permettono una precoce remissione della sintomatologia. Vanno iniziati a dose piena con riduzione ogni 3-5 giorni di 10 mg (prednisone per os) o alla dose di 4 mg 2 volte al dì im (desametasone) per 2 settimane con riduzione a 4 mg/die im per una settimana. Nella forma cronica risultano efficaci in tempi assai rapidi. Vanno utilizzati con cautela in relazione ai possibili effetti collaterali, eventualmente associandoli ad un gastroprotettore.
4. Altri farmaci sperimentati con successo, ma che necessitano di studi più ampi, sono il valproato di sodio (alla dose di 1000-2000 mg/die), il topiramato ed il gabapentin. Anche la melatonina alla dose di 10 mg/die si è dimostrata efficace in uno studio pilota in doppio cieco contro placebo. 5. In casi resistenti alla terapia farmacologica appare promettente l’approccio chirurgico con l’attuazione della “deep brain stimulation” (impianto stereotassico di elettrodo stimolatore) del grigio ipotalamico postero-inferiore. La metodica va applicata solo a gruppi selezionati di pazienti, specie se affetti da forme croniche strettamente unilaterali e assolutamente intrattabili nonostante ripetuti approcci con protocolli farmacologici convenzionali.
2. Calcio antagonisti. Il verapamil è spesso utilizzato come prima scelta, sia nella forma episodica che in quella cronica. Può essere prescritto fino a 360 mg/die, anche in associazione agli steroidi. La dose iniziale è di 80 mg 2 volte al dì, incrementando la posologia fino a dose piena in relazione all’assenza di effetti collaterali. Le percentuali di successo sono pari all’80%, anche a dosi intermedie (240 mg/die). È consigliabile effettuare un ECG prima dell’inizio della terapia per evidenziare eventuali blocchi A-V.
Nevralgia trigeminale La nevralgia del trigemino si caratterizza per la presenza di attacchi parossistici di dolore facciale o frontale della durata da pochi secondi a meno di 2 minuti. Il dolore deve presentare almeno 4 delle seguenti caratteristiche: distribuzione lungo una o più branche del nervo trigemino, comparsa improvvisa con elevata intensità, di qualità urente e localizzato superficialmente, precipitato dalle stimolazioni di cosiddette “zone grilletto” o da al-
3. Il carbonato di litio si è dimostrato efficace a dosaggi compresi tra i 600 ed i 900 mg/die. Sono consentite anche dosi di 1200 mg/die. Risulta efficace in tempi assai brevi, ed anche a dosi sieriche più basse di quelle necessarie per il trattamento dei disturbi psichiatrici. La litiemia dovrebbe essere inferiore a 1,2 mEq/l Tabella 87.7 - Profilassi della cefalea a grappolo. PRINCIPIO ATTIVO E POSOLOGIA
QUALITÀ DELL’EVIDENZA
EFFICACIA SU BASE SCIENTIFICA
IMPRESSIONE CLINICA DI EFFICACIA
EFFETTI COLLATERALI
RAGGRUPPAMENTO RACCOMANDATO
Verapamil, 120 mg × 2-3 die per os
Grado B
++
++
Rari, non gravi
Gruppo 2
Prednisone, 50-60 mg/die per os (a scalare)
Grado B
++
++
Rari, non gravi
Gruppo 3a
Litio, 300 mg × 3-4 die per os
Grado B
++
+/–
Rari, non gravi
Gruppo 3b
Melatonina, 10 mg/die per os
Grado B
+
?
Nessuno
Gruppo 5
Pizotifene, 3 mg/die per os
Grado B
+
?
Rari, non gravi
Gruppo 5
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MALATTIE NEUROLOGICHE
cune attività quotidiane quali mangiare, parlare, lavarsi la faccia o i denti in un paziente del tutto asintomatico nei periodi intercritici. Gli attacchi sono tipicamente stereotipati nel singolo paziente, l’obiettività neurologica è nella norma (anche se i pazienti spesso segnalano una lieve riduzione nella percezione della temperatura e del tatto superficiale nella zona implicata). L’incidenza è di 4,5 casi su 100.000, l’esordio avviene generalmente in età medio-avanzata. La nevralgia ha la tendenza a presentarsi in periodi della lunghezza di settimane o mesi, con remissioni spontanee che possono durare mesi o anni. Nel tempo gli attacchi possono divenire più frequenti ed il dolore aumentare di intensità. La nevralgia trigeminale è dovuta nell’80-90% dei casi alla compressione della radice del nervo trigemino (“root entry zone”) a livello pontino. Tale compressione focale è causata da un tortuosità di un vaso arterioso o venoso che si accentua nel corso degli anni per il processo aterosclerotico che lo porta a contatto con il nervo. Il tronco nervoso va incontro a un processo di demielinizzazione focale e nella regione di compressione si ha la generazione di impulsi ectopici conseguenti all’accentuata ipereccitabilità degli assoni demielinizzati. Gli impulsi ectopici si possono scatenare sia spontaneamente che a seguito di impulsi che viaggiano nelle fibre afferenti, il che spiega perché il masticare o il parlare inneschino spesso gli attacchi di dolore. Altre cause più rare sono l’infiltrazione della radice del nervo, del ganglio di Gasser o del nervo stesso da carcinomatosi o da amiloide, microinfarti o angiomi a livello del ponte, meningiomi, cisti epidermoidi o tumori della fossa posteriore (con distorsione del nervo). C’è poi da segnalare come il 2% dei soggetti affetti da nevralgia trigeminale sia affetto da sclerosi multipla, e l’1% dei soggetti con sclerosi multipla soffra di nevralgia trige-
minale. In questo particolare caso si presenta molti anni dopo l’esordio della malattia, solo raramente ne è il sintomo iniziale. La comparsa di una nevralgia trigeminale bilaterale in una persona di età inferiore ai 40 anni deve fare sospettare una sclerosi multipla. In questo caso la nevralgia è dovuta alla presenza di una placca a livello della “root entry zone”, anche se in una minoranza di pazienti è stata verificata la presenza di compressione vascolare. La terapia iniziale della nevralgia trigeminale è farmacologica e si basa principalmente su farmaci antiepilettici. Il farmaco di prima scelta è la carbamazepina (o la oxcarbazepina), che risulta efficace a dosi molto variabili, fino a 1600 mg/die; provoca sonnolenza, vertigini e confusione mentale per cui è raccomandabile iniziare con dosi basse, 400-600 mg/die. Alternative alla carbamazepina sono la difenilidantoina, il clonazepam, il gabapentin, il topiramato, la lamotrigina (Tab. 87.8). La maggior parte dei pazienti risponde alla terapia medica, ma la ricaduta è la regola. Se la risposta alla terapia medica non è soddisfacente si deve passare a procedure mini-invasive che hanno come obiettivo la distruzione delle fibre di grande diametro della seconda e/o terza branca del ganglio di Gasser, per termocoagulazione, mediante microcompressione, con radiofrequenze o con iniezione di glicerolo. Queste procedure hanno come principale effetto collaterale l’ipoestesia nel territorio trigeminale relativo ed inoltre è possibile la recidiva dopo 2-3 anni. L’unica procedura spesso risolutiva è la decompressione mediante apertura della fossa cranica posteriore ed eliminazione del conflitto vascolo-nervoso. Ovviamente la procedura non è esente da rischi. Un’alternativa meno rischiosa è rappresentata dalla radiochirurgia selettiva mediante gamma-knife.
Tabella 87.8 - Terapia iniziale della nevralgia trigeminale. PRINCIPIO ATTIVO
POSOLOGIA
EFFICACIA
Baclofene
50-80 mg/die
Buona
Carbamazepina
300-1000 mg/die
Eccellente
Clonazepam Gabapentin Lamotrigina
4-8 mg/die 1800-3600 mg/die 200-400 mg/die
Scarsa Buona Buona
Oxcarbazepina
300-1200 mg/die
Buona
Difenilidantoina
200-300 mg/die
Buona
Pimozide
4-12 g
Eccellente
Tizanidina Topiramato Valproato
6-18 mg/die 25-250 mg/die 600-1200 mg/die
Scarsa Promettente Scarsa
EFFETTI COLLATERALI Scarsi, dopo sospensione rapida Effetti collaterali neurologici, introdurre lentamente. Interazioni farmacologiche Importante sonnolenza Effetti collaterali neurologici Effetti collaterali neurologici Un aumento rapido della dose può portare a rash cutanei Effetti collaterali neurologici, ad alte dosi iponatriemia Non interazioni farmacologiche Effetti collaterali neurologici Facile sovradosaggio Effetti collaterali neurologici importanti Effetti collaterali neurologici Effetti collaterali neurologici Effetti collaterali neurologici
LIVELLO DI EVIDENZA RCT RCT Case report Case report RCT a campione piccolo Case report
Case report RCT RCT Case report Case report
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87 - CEFALEE
Dolore facciale atipico A differenza della nevralgia facciale, il dolore facciale atipico è definito come continuo, profondo, uni o bilaterale. Anatomicamente non segue i confini dell’innervazione facciale ed è aggravato dallo stress e dalla stanchezza. La descrizione dei sintomi è vaga, il dolore è descritto come pulsante o profondo e diffuso, tormentoso. Il soggetto per lo più lamenta anche una lunga storia di diagnosi errate. Spesso sono state instaurate molteplici terapie invasive che hanno peggiorato il quadro clinico (avulsioni dentarie). Il dolore è per lo più bilaterale, talvolta ha caratteristiche di attacchi (25%), ma sono segnalate remissioni nel 50% dei casi. I pazienti lamentano disestesie. Può associarsi a comorbidità psichiatriche quali depressione e disturbi somatoformi d’ansia. Colpisce per lo più soggetti femminili di età compresa tra i 30 ed i 50 anni, tende ad essere costante e a non modificarsi nel tempo. La disabilità non è elevata, ma l’intensità del dolore è descritta come moderata-grave. Una volta escluse le rare cause organiche (tumori dell’apice polmonare, tumori della parotide), la terapia più adeguata è con amitriptilina (10-75 mg/die preferibilmente in dose serale).
CEFALEE SECONDARIE Diagnosi differenziale Anche se le cefalee primarie costituiscono il capitolo di gran lunga più frequente, non vanno dimenticate le altre possibili cause di cefalea, alcune delle quali sono rarissime. La priorità iniziale è identificare quei pazienti che si presentano con cefalea acuta di recente insorgenza (un quarto circa dei quali è portatore di patologie intracraniche importanti) e che dovranno andare incontro ad accertamenti urgenti. È molto più pericoloso non riconoscere una cefalea ad insorgenza acuta piuttosto che sbagliare la
sua diagnosi: la competenza dei medici (ovvero la conoscenza delle cause che possono provocare cefalee violente) è quindi un fattore chiave per un migliore inquadramento di tali pazienti. Va ricordato che la stessa attenzione va riservata anche a pazienti che soffrono cronicamente di cefalea, ma che improvvisamente lamentano un nuovo tipo di cefalea o un attacco caratterizzato da un dolore particolarmente intenso. Si può infatti trattare di una nuova patologia insorta in un soggetto che soffre di una cefalea primaria oppure di un paziente che è giunto all’estremo di sopportazione di una cefalea cronica. Va posta particolare attenzione alla qualità del dolore, più che alla sua intensità, e occorre valutare il contesto in cui la cefalea è insorta, i prodromi e i segni e sintomi di accompagnamento. Per esempio, un dolore retro-orbitario con associato un disturbo visivo, insorto in associazione ad un episodio di vomito incoercibile, deve far pensare a una dissecazione dell’arteria carotide omolaterale. L’esordio acuto, violento e fulminante (“thunderclap headache”) deve far pensare all’insorgenza di un’emorragia subaracnoidea. Va ricordato che il dolore da emicrania è per lo più pulsante, quello della cefalea a grappolo è descritto come profondo, lancinante, quello della cefalea tensiva è oppressivo, costrittivo, quello da processo espansivo endocranico è sordo, continuo, accentuato dai colpi di tosse. Un mutamento nelle caratteristiche della cefalea, la presenza di un dolore unilaterale che non cambia sede e la comparsa di sintomi neurologici nel corso della cefalea stessa (piuttosto che precedenti alla stessa) indirizzano all’effettuazione di esami strumentali di neuroimaging. Tradizionalmente si crede che un soggetto che lamenta il suo “peggior mal di testa di sempre” sia quello a maggior rischio di emorragia subaracnoidea; l’affermazione va evidentemente stemperata dal buon senso: solo la raccolta allargata di dettagli più specifici (Tab. 87.9) che riescano a comparare l’attuale cefalea con altre sofferte dal paziente (in termini di temporalità dell’esordio, durata, caratteristiche, gravità e localizzazio-
Tabella 87.9 - Elementi clinici per la diagnosi differenziale. CLINICA Cefalea che inizia dopo i 50 anni Cefalea ad insorgenza improvvisa
Cefalea di recente insorgenza in un paziente oncologico o HIV positivo Cefalee che aumentano di frequenza Cefalea con sintomi sistemici (febbre, rigor nucale, rash cutaneo) Segni neurologici focali (ad esclusione di quelli tipici per aura) Papilledema
DIAGNOSI DIFFERENZIALE Arterite temporale di Horton, lesione occupante spazio Emorragia subaracnoidea (ESA), apoplessia pituitaria, sanguinamento da una massa o malformazione artero-venosa (MAV), lesione occupante spazio (soprattutto in fossa posteriore) Meningite (cronica o carcinomatosa), ascesso cerebrale (includendo la toxoplasmosi), metastasi Lesione occupante spazio, ematoma subdurale, abuso di farmaci Meningite, encefalite, malattia di Lyme, infezione sistemica, vasculite Lesione occupante spazio, MAV, stroke, vasculiti o collagenopatia (per es., sindrome da anticorpi antifosfolipidi) Lesione occupante spazio, pseudotumor, meningite
ELEMENTI DIAGNOSTICI NECESSARI VES, neuroimaging Neuroimaging, puntura lombare
Neuroimaging, puntura lombare Neuroimaging, screening farmacologico Neuroimaging, puntura lombare, esami ematochimici Neuroimaging, screening vasculitico
Neuroimaging, puntura lombare
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ne del dolore) potrà indurre il neurologo a determinate scelte di tipo diagnostico e terapeutico. È importante l’identificazione di eventuali patologie sistemiche potenzialmente induttrici di cefalea. Una febbre senza meningismo può indicare la presenza di una patologia sistemica in grado di contribuire alla cefalea (infezione delle alte vie respiratorie nel 10% dei casi, sinusiti nel 5% dei casi, gastroenteriti nel 3% dei casi). L’ipertensione può generare cefalea solo se la pressione diastolica si situa persistentemente ed indicativamente intorno ai 130-140 mmHg: in questo caso, però, si manifestano anche alterazioni dello stato mentale ed offuscamento del visus, e generalmente si può già evidenziare obiettivamente un papilledema. L’ipertensione endocranica è forse la causa più temibile di cefalea secondaria, in quanto può dipendere dalla presenza di un tumore o di alterazioni dei processi di produzione, circolazione e riassorbimento del liquor. In questi casi la cefalea si associa a vomito, bradicardia, accentuazione del dolore con le manovre che elevano la pressione endocranica, come sforzi fisici, colpi di tosse, soffiarsi il naso, ecc. Se è presente rigidità nucale si deve sospettare un’irritazione meningea, sia essa in origine di natura infettiva o emorragica. Nei pazienti più anziani va palpata l’arteria temporale e devono essere valutate la sua consistenza e la dolenzia provocata durante la manovra. Al termine dell’approccio clinico potranno essere definiti tre gruppi di pazienti: • soggetti con lunga storia di cefalee simili ed assenza di nuovi segni focali all’esame neurologico: questo gruppo di pazienti è composto per lo più da giovani che hanno presentato un attacco di emicrania con o senza aura particolarmente fastidioso o che hanno avuto un peggioramento del dolore tensivo di base a tipo “last straw” (ovvero la goccia che fa traboccare il vaso) divenendo insofferenti ad esso; • soggetti che presentano la comparsa di nuovi sintomi cefalalgici che verosimilmente derivano da cause non neurologiche (glaucoma, crisi ipertensive): in questo caso la valutazione deve essere indirizzata verso il riconoscimento della patologia sospettata; • soggetti che riferiscono la comparsa di nuova cefalea, senza cause apparenti, o viceversa pazienti con storia di sintomi cefalalgici cronici ma comparsa di nuove anomalie focali all’esame neurologico: questi pazienti vanno accuratamente indagati nel sospetto di una forma di cefalea secondaria. Il passo successivo è quello di scegliere i test diagnostici più appropriati per quel particolare paziente in studio relativamente al sospetto diagnostico formulato sulla scorta dei dati clinici e della storia anamnestica. Gli esami ematologici sono indicati nel sospetto di un’arterite temporale (VES e PCR) ovvero in una cefalea ad insorgenza in età adulta con localizzazione nella regione dell’arteria temporale stessa. L’emocromo è importante in tutti i soggetti con febbre e meningismo. Un livello di carbossiemoglobina è consigliato quando il soggetto è rimasto confinato in un
MALATTIE NEUROLOGICHE
ambiente con sospette fughe di gas o quando più persone della medesima comunità si presentano per la medesima sintomatologia dolorosa. Un’emogasanalisi è indicata quando i sintomi ed i segni sembrano indicativi di un quadro di ipossia o di acidosi. Un basso livello di sodio può essere indicativo, fra le altre condizioni, di un’inappropriata secrezione di ormone antidiuretico (causata da un trauma cranico), di un’emorragia subaracnoidea o di un’encefalite. La febbre è un forte elemento di allarme per meningite, anche se in soggetti anziani e in persone immunodepresse la febbre può mancare. I segni meningei classici possono essere variabilmente presenti in relazione all’entità di interessamento delle meningi, sia nei pazienti affetti da meningite che in quelli colpiti da emorragia subaracnoidea. Il dolore da meningite tende a localizzarsi a livello retro-orbitario ed aumenta alla rotazione degli occhi ed allo scuotimento del capo. L’esame del liquor deve essere eseguito senza indugi in caso di sospetta meningite e deve comportare un esame colturale, batteriologico e virologico. L’emorragia subaracnoidea va considerata in qualsiasi paziente si presenti con un esordio improvviso di cefalea acuta, a massima espressione entro pochi secondi (ma che può svilupparsi in minuti) anche se si risolve entro un’ora, soprattutto se ci sono stati perdita di coscienza, nausea, vomito ed è presente rigidità nucale. Nella metà dei casi l’emorragia subaracnoidea è preceduta da un’emorragia sentinella, che si verifica 2-4 settimane prima. La tomografia assiale computerizzata (TC) e la risonanza magnetica (RM) del cranio sono gli esami fondamentali da effettuare nel sospetto di una qualsiasi forma di cefalea secondaria, mentre la radiografia del cranio non risulta di alcuna utilità. In particolare questi esami devono essere richiesti nel sospetto di un processo espansivo, di patologie infiammatorie meningee o encefaliche, di emorragia subaracnoidea. L’assioma secondo cui una TC od una RM dell’encefalo (a maggior risoluzione per lo studio della fossa posteriore) andrebbero sempre premesse ad una puntura lombare si basa sul rischio di creare un’erniazione in caso di presenza di lesione occupante spazio cerebrale non diagnosticata ed aumento conseguente della pressione intracranica. Indicazioni di massima per l’esecuzione immediata di una TC/RM encefalo sono le seguenti: • la prima cefalea mai occorsa nella vita di un paziente o la sua peggiore cefalea, se ne ha già sofferto, in particolar modo se è ad insorgenza rapida (“thunderclap headache”); • un cambiamento nella frequenza, intensità o caratteristiche cliniche dell’attacco cefalalgico; • anormalità all’obiettività neurologica; • cefalea ad andamento progressivo o cefalea giornaliera persistente senza precedenti; • sintomi neurologici che non soddisfano i criteri per emicrania con aura o che, per le loro caratteristiche, suggeriscono la necessità di ulteriori approfondimenti; • evidenza EEG di anomalie elettriche cerebrali focali;
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87 - CEFALEE
• un’emicrania che si manifesta sempre nello stesso lato, associata a sintomi neurologici controlaterali; • se la terapia di routine non ha condotto al giovamento previsto.
CONCLUSIONI Per un soggetto che si presenta al medico con una cefalea definibile per i criteri dell’IHS 2004 come emicrania, senza alcun cambiamento nella qualità e nelle caratteristiche e senza storia di crisi epilettiche (in assenza di sintomi o segni neurologici) non si ritiene consigliabile
un approfondimento con metodiche di neuroimaging. L’effettuazione di esami laboratoristico-strumentali è indicata solo se esistono dati clinici che possono far pensare ad un’eziologia organica del disturbo. Per un soggetto che si presenta, invece, con una cefalea atipica (come, per es., una cefalea cronica quotidiana) o con un’evidenza di segni o sintomi peculiari, l’approfondimento strumentale comprendente un dato di neuroimaging è fortemente consigliato. Le terapie per l’emicrania, come pure per tutte le altre patologie cefalalgiche (acute o di profilassi) vanno valutate in rapporto al singolo paziente, considerando l’età, i possibili effetti collaterali, la durata della terapia stessa, le comorbidità.