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POPPY Z. BRITE NEL CUORE DELL'ETERNITÀ (The Lazarus Heart, 1998) A Caitlin Ringraziamenti Grazie a John Edward Ames, Jennifer Caudle, Jeff Conner, Richard Curtis, Christopher DeBarr, O'Neil DeNoux, John Douglas, Christa Faust, Neil Gaiman, Caitlin R. Kiernan, Rich Miller, James O'Barr, Jeanne O'Brien, Edward R. Pressman, David J. Schow, John Silbersack, Jimmy Vines e Leilah Wendell. Quando faccio sesso con qualcuno dimentico chi sono. Per un minuto dimentico perfino che sono un essere umano. Lo stesso avviene quando sono dietro la macchina fotografica. Dimentico di esistere. ROBERT MAPPLETHORPE L'anima umana ha un lato oscuro, pieno di conflitto e di tormento. È un lato dell'anima umana che pochi hanno il coraggio di esplorare. Il sacerdote che celebrò la messa al funerale di Mapplethorpe 1 In quella parte della sera che non è più giorno e non è ancora notte, il grande uccello nero giunge infine al vecchio cimitero, nella vecchia città sul fiume. È stato un lungo volo dai luoghi dove i morti attendono, segnando il tempo fino a dimenticarlo, fino a dimenticare anche se stessi, finché nulla rimane all'infuori di queste pietre terrene e di questi scheletri sgretolati, e anche loro, con il tempo, passeranno. Il corvo scende, attraversando le basse nubi sfilacciate che il temporale del pomeriggio si è lasciato dietro, il cielo azzurro spento che sbiadisce in grigio. La donna che percorre Prytania Street sente il grido roco dell'uccello, alza lo sguardo e vede una chiazza d'ebano che marchia violenta il cielo del tramonto estivo, si segna e affretta un po' il passo superando le mura cadenti del cimitero di Lafayette n. 1.
Manovrando tra i rami di magnolia, sfiorando foglie dure come scaglie di drago gocciolanti, il corvo segue l'istinto e il dovere. Con qualcosa che non si può chiamare pensiero ma che è più di una semplice sensazione di uccello, comprende il compito immediato e inevitabile che l'aspetta. Comprende le cose terribili che andranno compiute prima che possa fare ritorno alla nitidezza della sua vita tra le carogne. E così trova il piccolo mausoleo nel mezzo del camposanto. Il marmo grigio chiaro è fresco e levigato, non ancora aggredito dal sole del delta e dalla collera delle tempeste del Golfo, modesto gioiello incastonato tra i suoi antichi, consunti vicini. Lo circondano monumenti eretti nel corso di più di centocinquanta anni roventi, croci cadute e angeli dalle ali spezzate, iscrizioni consumate, rese lisce come seta. E poi questo ultimo arrivo, al tempo stesso elegante e decadente: una tomba che dice la ricchezza dei suoi morti, ma dice insieme la loro alterità. Il corvo si posa sul tetto a volta, le zampe artigliano il bronzo scivoloso dell'acroterio sovrastante la porta sigillata. L'acroterio ripete la forma reclinata di un giovane di piacevole aspetto, le mani legate sopra la testa, le caviglie ugualmente legate e un bavaglio stretto sulla bocca. La testa è china, gli occhi chiusi in supplica perfetta. Il corvo zampetta impaziente, nervoso, poggiando ora su una ora sull'altra delle sue zampe d'ebano artigliate. Posato sulla spalla di bronzo del ragazzo, sul metallo che solo tra anni conoscerà le stimmate del verderame, gracchia ancora: per se stesso, per l'oscura incertezza che sente dentro. Quindi piega le ali, e la risurrezione ha inizio. Quale devastazione procurano in un cadavere le affilate cure di patologi e becchini. Poiché quest'uomo ha subito una morte violenta c'è stata un'autopsia, organi asportati, scrutati e poi di nuovo buttati nella loro gelida culla di carne e ossa. Collante applicato a fissare le palpebre e tenere unite le dita, labbra cucite ben chiuse, sostanze caustiche spalmate o iniettate in questo corpo sigillato sotto il corvo. Dovrà disfare tutto ciò prima che l'anima possa essere restituita, e l'uccello sa qual è il suo compito, lo conosce come riconosce a chilometri di distanza l'odore dolciastro di una vittima della strada sull'asfalto dell'estate, come conosce i semplici atti ricorrenti della sua vita. Il lampo silenzioso di un fulmine lontano, verso le paludi dove il temporale si è ritirato. Il corvo strizza gli occhi stanchi e dà una beccata alla scultura di bronzo. Il suono riecheggia debolmente intorno, nella necropoli.
Compare un graffio impercettibile dove il suo becco aguzzo ha toccato il lucido metallo; dà un'altra beccata sulla spalla del ragazzo. Il suono che manda può avvertirlo attraverso le zampe, un suono che riverbera nei confini marmorei del mausoleo, crescendo di intensità negli spazi bui lungo le pareti, e ancora di più dentro il feretro più recente sul suo piedistallo granitico, non attutito ma amplificato dal passaggio attraverso pietra e metallo. Selettiva, però, questa magia. È venuto per un uomo, un uomo soltanto. Quello che dorme accanto a lui non udrà nulla, il suo corpo abusato, rappezzato, rimarrà immobile, indifferente a quanto ha avuto inizio. Il becco del corvo colpisce come un pugnale l'acroterio per la terza e ultima volta, e ora c'è un movimento dentro il mausoleo, dentro l'ultimo feretro. Il filo che tiene chiuse le labbra sottili del morto si snoda, si sgrana dalle minute incisioni dell'ago, cade. L'adesivo cianoacrilato che gli tiene chiuse le palpebre, che gli tiene ferme le mani congiunte sul petto, si sbriciola, e poi non è che polvere. Queste però sono cose abbastanza facili a farsi, e il corvo freme, ormai catturato dall'oscuro rito irreversibile cui ha dato l'avvio. Anche le lunghe incisioni nell'addome rigettano i loro punti e cominciano a sanarsi, la carne si salda come in una ripresa al rallentatore. Il corvo gracchia ancora, cedendo parti di sé per accelerare la risurrezione del corpo là sotto, vita che scaccia la morte. Perfino la mente dell'uccello coglie quanto di non giusto c'è in questi atti, la violazione di un ordine più primordiale e sacro di tutte le religioni dell'umanità, ma non può sottrarsi. Prostrato sul tetto del mausoleo, sente la sua vita ceduta ad altri, il misurato dissiparsi della sua vita per il compimento di queste magie. Ma esistono delle clausole scappatoia nella trama dell'universo, norme ineludibili che l'hanno portato qui. Non sa nulla il corvo di tutto ciò, sa solo che deve muoversi, volare veloce e alto e lontano, lontanissimo da questo luogo inanimato dove la memoria della vita giace immobilizzata sotto pesanti lastre di pietra. Altri punti di sutura si disfano e il corpo sanguina non sangue ma un'acida emorragia di liquidi da imbalsamatore, un getto lattiginoso dalle arterie aperte. Il cuore è riportato in vita con una scossa violenta, pompa liquido non suo nelle vene disseccate, e questa volta il corvo non gracchia, urla, mentre il corpo sotto di lui espelle litri e litri di fluido nella bara. Un flusso pulsante dalla carotide, da un'incisione nel braccio e da un'altra all'inguine, finché il sistema circolatorio è completamente svuotato, spurgato, e il cuo-
re di Lazzaro pompa solo aria fetida di formaldeide. Ora che le arterie aperte si riallacciano, un'altra illusione prende vita, e il corvo trema sul tetto, sta male, forse muore: penserebbe che sta morendo se capisse che cos'è la morte. Sangue dalla memoria genetica di cellule preservate, acqua da vino, sgorga dal cuore a riempire le vizze condutture di arterie, vene, capillari. Il corvo spiega le ali preso a un tratto da panico e dolore, penne nere contro la notte che s'infittisce, mentre le labbra del morto si schiudono. I polmoni sgonfi si alzano, si allargano e si contraggono, gettando altro liquido amaro attraverso le labbra martoriate, sforzandosi di risucchiare aria preziosa per la prima volta dopo cinque giorni, tossendo, vomitando morte. Il corvo ripiega le ali; la sofferenza è atroce, ma questa parte, almeno, è fatta; questa parte è compiuta. L'uccello si accascia sulla vittima bronzea immacolata e ascolta in attesa di quanto dovrà accadere. Da lontano, verso il lago Pontchartrain e le acque inquiete dal colore del caffè acquoso, arriva il rombo lieve e minaccioso di un tuono. Non ha ricordo del risveglio, solo l'improvviso sobbalzo della consapevolezza di essere sveglio, il dolore insopportabile del primo respiro. C'è qualcosa che gli riempie la bocca, e la sua lingua fredda cerca di rimuoverla, di sputare quella massa cotonosa e inzuppata. Ha gli occhi in fiamme, come quella volta che da bambino ebbe la congiuntivite e la mamma gli teneva un asciugamano caldo e umido sul viso per ammorbidire le croste che tenevano incollate le palpebre. Se lei fosse qui con lui, ora, potrebbe farlo ancora, potrebbe alleviare lo sgomento e il dolore che lo attanagliano. Ma non è qui. Jared Poe, di quel poco che sa, è certo di una cosa: è solo, più che solo, più solo di quanto si possa mai essere. Dal profondo di questa certezza, esala un rantolo spezzato e roco, che più che il segno della rinascita sembra un ultimo respiro, e apre gli occhi. Anche la luce soffusa intorno a lui è accecante dopo una notte così fonda, dopo un buio così completo e perfetto. Jared Poe richiude stretti gli occhi, prima che il bagliore gli incenerisca le palpebre sottili lasciandolo indifeso a fissare la luce per sempre. Stavo sognando, pensa. Sognavo di volare. Un piccolo inutile pensiero distinto in mezzo a tanto strazio, il dolore che impregna ogni cellula del suo corpo, fondendosi con il liquido maleodorante che lo circonda. Il petto gli si solleva, un involontario ansito improvviso, la contrazione a un tempo di troppi muscoli inutilizzati. Inarca la schiena mentre l'aria torna a uscire.
Qualcosa di disgustoso gli riempie la gola, la bocca vomita un liquido estratto dai polmoni o dallo stomaco, o da entrambi. Volavo con ali nere sopra New Orleans, pensa. Il sussulto che segue gli fa mordere la lingua, un po' più forte e se la mozzerebbe. La bocca si riempie di un sapore purificante, caldo di vita, ferroso, che spazza via l'aspro bruciore delle sostanze chimiche. Rotola sul fianco tossendo, cercando di afferrare i brandelli del sogno che stanno svanendo, che scivolano via prima che possa essere sicuro che appartenessero a lui. Volavo sopra New Orleans, e poi un pensiero più chiaro, come aspirando di nuovo quel primo alito: ero morto. Jared Poe urla nella sua bara, fa buon uso dell'ossigeno che si fa strada a forza nei suoi polmoni recalcitranti. Urla contro l'insostenibile ondata di ricordi, le immagini che seguono ciò che non può negare: ero morto. Lampi accecanti di rivelazioni non volute, quanto la vita che torna dentro di lui scalzando la morte. Il bestione cubano, quel pezzo di merda con la Magnum .35 tatuata sul braccio destro e la Madonna sul sinistro, e quando Jared abbassò lo sguardo, la mano che gli ficcava in pancia il cucchiaio acuminato. Lo spingeva, e il metallo penetrava sempre più profondo, rigirandosi. Un altro urlo e il rumore delle sbarre d'acciaio che si richiudevano nell'inferno accuratamente costruito di Angola. Chiuso. Le mani intorpidite di Jared si stringono. Picchiano le mura imbottite di raso della sua nuova prigione. Un po' più dentro a se stesso e torna l'odore di biblioteca ammuffita dell'aula di giustizia, il suono di condanna del martelletto, il mormorio soddisfatto del pubblico quando viene letto il verdetto, la donna corpulenta con la dentiera difettosa che legge le parole al giudice, tutte quelle facce sconosciute. «Basta, è troppo...» Jared Poe sta forgiando parole dalle urla, dal furore e dall'impatto dei pugni contro i fianchi della bara. «È troppo, cazzo, è troppo! Non voglio vedere più niente!» Ma c'è ancora molto da vedere, tante altre piccole supernove che deflagrano nei suoi occhi, e ogni esplosione è un altro segreto che lui vorrebbe tenersi nascosto, un altro tassello di un puzzle immensamente terrificante che sta cercando di non completare. Il puzzo di fumo e di sudore nell'auto della polizia, le manette che gli segano i polsi. «Dovremmo proprio portarlo di là ad Algiers», diceva il poliziotto seduto accanto al conducente. «Lo sai, eh, Henry? Questo frocio pervertito figlio di puttana dovremmo proprio portarlo dall'altra parte del
fiume e mettergli la canna della pistola in bocca. Fargli schizzare via quel cervello da criminale.» Quello al volante si era messo a ridere, sta ancora ridendo, come le ali frenetiche di uccelli neri in una gabbia in fiamme, e Jared sente che il metallo della cassa comincia a cedere attorno a lui. Ma non ancora, perché ecco che arriva l'ultimo ricordo, il peggiore. Sta salendo le scale del loro appartamento in Ursulines, l'appartamento suo e di Benny, e non vorrebbe vedere ma è già lì, prima ancora che vi sia la speranza di negare il getto acido di immagini. La chiave che fatica con la serratura difficoltosa, la porta che si spalanca su tanto rosso, rosso come rossetto e rose e garofani, Dio fa che sia qualsiasi cosa ma non quello che pensa lui, che lui sa. La spesa gli scivola dalle braccia, si sparge nell'ingresso che puzza come un mattatoio. Lo stesso puzzo di quella volta che usò un macello come ambientazione, il tanfo rosso che gli era rimasto nelle narici per settimane. «No, no, no, no», mormora, inutile giaculatoria agli dei in cui non ha mai creduto. «Non voglio vederlo più.» La bara ha uno schianto, va in pezzi come fosse fatta di stuzzicadenti incollati, e Jared precipita. Una caduta brevissima sul pavimento di pietra, duro, freddo e inerte come il corpo di Benny gettato per traverso sul loro letto, mani e piedi ancora legati, precisi nodi da boy scout che tengono uniti polsi e caviglie che sono separati da tutto il resto, dal mucchio di membra e organi... «Oh cazzo, oh cazzo», sussurra Jared tra i singhiozzi spezzati e le lacrime dense che gli scorrono lungo il viso e si raccolgono sul marmo del pavimento. «Benjamin», sospira, e c'è più pena in queste tre sillabe di quanto il suo corpo abbia mai potuto sperare di contenere. Le schegge del feretro gli piovono intorno con il rumore secco di fragili ossa, di bastoncini di Shangai. Non saprebbe dire quanto tempo è trascorso da quando ha aperto gli occhi, da quando ha ripreso a respirare. Lo stretto finestrino sopra la porta del mausoleo è passato dalle sfumature più scure del verde e del cobalto al nero, e questo gli dice solo che ora è notte. Un'altra notte in questa piccola città di morti, e notte nel mondo dei vivi, là fuori. Jared è seduto a terra appoggiato al muro di pietra e ha lo sguardo fisso sulla bara di Benny. È tutto quello che sta facendo da minuti o ore che non si è dato pena di contare. Non è riuscito a toccarla, con il mogano che luccica flebilmente nella penombra, l'ottone e i fiori appassiti sul coperchio. Non ha bisogno di toc-
carla per sapere che è reale. Dall'alto arriva un debole rumore raschiante. Jared alza la testa, rendendosi conto che lo sta sentendo da tempo, ignorandolo come ha ignorato il vuoto lacerante che ha nello stomaco, il bruciore nella gola. Come ha ignorato tutto tranne la bara di Benny, ancora lì indisturbata accanto alla rovina di schegge e metallo contorto che era la sua. Chiude di nuovo gli occhi. Non gli sono rimaste più lacrime, solo la sofferenza che lo invade e lo attraversa a ondate, interminabili ondate d'ebano, levigandolo come la pietra a cui è appoggiato. C'è solo sofferenza e rimpianto e una rabbia schiumante e senza fondo. Mentre ascolta i rumori inquieti che giungono dall'alto, ticchettio di alfabeto Morse o tamburellare di dita impazienti, Jared comincia a capire che quello a cui deve aggrapparsi è proprio questa rabbia. Questa rabbia che gli permetterà di alzarsi e camminare, che potrebbe nascondere uno scopo. Non poteva esserci alcuna risposta alla perdita che ha subito, nessuna reazione sana che non l'oblio, e ora anche questo gli è stato sottratto. Ma la rabbia è una cosa che è fuori del suo controllo, una cosa che vuole uscire, una belva affamata che può essere nutrita e saziata. Tutte queste cose le sente nascoste nel grattare sul tetto del mausoleo. Ora ricorda il sogno delle ali color della notte, il sogno vertiginoso del volo, e si alza, le gambe rigide come il sostegno di uno spaventapasseri. Si alza in piedi nel buio e ascolta il proprio cuore, il fruscio attutito del traffico sulle strade bagnate, e l'uccello nero lo chiama. Se la porta del mausoleo era sbarrata, il corvo ha provveduto anche a questo, e Jared nello spingere la superficie metallica sente il primo accenno di una forza fisica che non ha mai provato in tutta la sua vita. Il battente si spalanca come fosse di compensato, i cardini così poco usati cigolano forte per un istante che fa digrignare i denti. Quindi si sente solo il suono lieve della pioggia che ha ripreso a cadere leggera, raccogliendosi sui tetti dei muti abitanti del cimitero Lafayette. Jared si volta a guardare dietro di sé, posando lo sguardo sull'elegante feretro di Benny e sui rottami del suo, prima di uscire nella notte. Richiude la porta per non vedere più, perché nulla possa entrare. Indugia lì per un momento, il viso contro il metallo freddo e bagnato, traendo un vago conforto dal tepore costante delle gocce di pioggia. Poi l'uccello gracchia, un richiamo forte e aspro, e lui si volta. I quattro gradini che portano al mausoleo sono decorati con qualche candela votiva, dei fiori in varie fasi di
avvizzimento. C'è ancora qualcuno che viene qui, pensa lui. Lucrece, e forse altri, forse il nucleo più compatto di ammiratori che si è fatti dopo l'incidente, quello che la stampa chiamava il «macabro contingente». L'uccello si posa sulla spalla di Jared, si addossa con le penne bagnate contro il suo collo, come trovandovi un rifugio. La notte si allunga davanti a lui, oltre il muro di cinta del cimitero, si allunga come un grosso gatto che si stira. Qualcosa là fuori è più vasto e più sicuro di questa fetida città con le sue infinite corruzioni, forse perfino più vasto della sua perdita. Jared si mette in ascolto di quanto l'uccello ha da dirgli. Alcune volte, come questa notte, l'uomo nella grande casa presso il fiume si da il nome di Jordan. C'è un fiume che si chiama così, Giordano, nella Bibbia, e a lui piacciono i nomi dei fiumi. Qualche volta si dà il nome di Joseph Lethe, per un altro fiume e per ciò che significa, mentre altre volte è Stanley Hudson. Ma sono tutti nomi segreti, che non rivela a nessuno, salvo ai pochi eletti da lui. Quelli che è sicuro non saranno mai in condizione di diffondere la cosa, di svelare sconsideratamente i suoi nomi, come numeri di telefono sulle pareti del cesso di un lercio bar di checche. I giornali non conoscono i suoi nomi. Per loro lui è lo Squartatore di Bourbon Street, pittoresco soprannome che si è guadagnato per il primo che è stato trovato dagli sbirri, anni e anni fa. È sicuro che quel nome ha fatto vendere più copie di quante ne avrebbe fatte vendere uno qualsiasi dei suoi nomi veri. Le bugie tirano più della verità. Legge sempre sui giornali quello che ha fatto, ma non conserva mai i pezzi che legge, le dichiarazioni ufficiali della polizia, le speculazioni fantasiose dei giornalisti analfabeti. Sarebbe come andare in gita a Manhattan e comprarsi una T-shirt con I ♥ NY. La morte non è una cosa da quattro soldi, nonostante quello che il mondo pensa, nonostante come si comporta. Anzi, è piuttosto dispendiosa; lui è stato in grado di finanziare le sue ricerche solo perché la madre gli ha lasciato i diritti di perforazione su un po' di terra in Texas. Perversa fino in fondo, ha aspettato che il boom del petrolio si sgonfiasse per andarsene, e così la vendita della terra non ha fruttato chi sa quali somme favolose. Ma è abbastanza. Lui non ha grandi esigenze, salvo per quanto riguarda le sue ricerche. Con la morte non si lesina. Dalla sua finestra in alto, l'uomo che questa sera è Jordan può vedere il fiume che serpeggia silenzioso e potente nella notte tempestosa, grasso serpente bruno che scivola tra i suoi argini. La cosa più potente del mondo,
un fiume come quello. Aspetta un altro lampo e chiude la tenda prima che scoppi il tuono. C'è un lavoro lasciato in sospeso, qui, e non ricorda che cosa lo ha distratto. Qualcosa alla finestra o giù in strada, ma di qualunque cosa si trattasse ora non c'è più, e quello che si è portato a casa lo sta aspettando. Non sempre se li porta a casa, Loro, solo quelli veramente speciali, quelli che sono arrivati fino in fondo e quindi meritano più tempo, più attenzione. Quelli che hanno più da insegnargli su ciò che Loro sono, sull'abominio che sono diventati. Come questo: steso sul lucido acciaio del tavolo operatorio nella stanza più alta della sua casa sul fiume. Lo sta fissando mentre si volta dalla finestra, lo sta fissando con gli occhi sbarrati ancora molto coscienti. Lo stupisce sempre la Loro resistenza al dolore fisico e psicologico. Un'altra parte del mistero, un'altra cosa che Li esclude dall'umanità e Li rende così pericolosi. Ma nemmeno la metà di quanto è pericoloso lui. Anzi, nemmeno un quarto. Questo qui, per esempio. Questo con la patente della Louisiana che dichiara che il suo nome è Marjory Marie West, che la casella del sesso indica con una F. Questo, su cui ha già cominciato a lavorare ma che lo fissa ancora, vigile, cosciente, come se aspettasse l'occasione per scappare. Come se un'occasione simile potesse mai esistere. Anche se gli ha asportato la lingua prima che finisse l'effetto del Demerol, cauterizzando il viscido moncone perché non morisse dissanguato. Anche se la lingua ora nuota nel suo bel vaso di formalina bene in vista. È ancora qui, questo, questa cosa, ed è ciò che conta. L'uomo si passa tra gli unti capelli neri le dita inguantate nel lattice sporco di sangue, scosta un ciuffo scomposto dagli occhi grigio azzurri. Sceglie uno scalpello dal vassoio degli strumenti chirurgici. Alcuni di quegli attrezzi li ha ordinati a ditte di forniture cliniche, altri li ha comprati in negozi di antiquariato. Altri ancora se li è fabbricati personalmente, quelli che non si trovano in vendita perché nessuno ha mai avuto bisogno di usarli. Sul tavolo, quello lo guarda, quell'essere senza sesso che vorrebbe nascondersi nel mondo degli uomini e delle donne, nel mondo in bianco e nero degli opposti e dell'opposizione. Lui sa che quell'essere non è puro male, sa che questa è una di quelle stronzate a cui può credere un pazzo. Il male non esiste. Quello, piuttosto, è alieno, virale, e lui dev'essere molto
accorto nella sua campagna, se vuole che abbia successo. Se il mondo vuole essere libero una volta per tutte di quelle mostruosità. L'uomo che questa sera è Jordan controlla le cinghie di contenzione, i tiranti di cuoio forte, le fibbie d'acciaio. Tra poco scosterà il lenzuolo, tutto ciò che copre quel corpo intollerabile ora che lo ha privato della maschera degli abiti. E quello lo guarda, e il tuono brontola la sua vana protesta da un vago punto sopra la casa sul fiume. Il fatto che non conservi i ritagli dei giornali non vuol dire che non abbia ricordi. Un album dei ritagli sarebbe una cafonata, una mancanza di gusto. E niente è privo di gusto nei ricordi che conserva dentro la testa. Sono passati sette anni, sette lunghi anni rossi come un rotolo di pizzo scarlatto, da quell'afosa mattina di agosto in cui per la prima volta la sua opera approdò sui giornali. Era stato un travestito, noto sui marciapiedi del Quartiere Francese come Josie, non ancora diciannove anni ma avrebbe potuto passare per «una» venticinquenne. Gran parte di quanto lui ne aveva lasciato era stato ritrovato dentro tre bidoni dell'immondizia vicino a un bar per turisti in Bourbon Street. Gran parte, perché gli era occorsa una bella quantità di sangue per tinteggiare i muri di quel vicolo lercio accanto al bar. Non c'erano stati testimoni, ma tante chiacchiere dei due netturbini che avevano trovato i bidoni ammaccati pieni zeppi di carne, e fotografie dei pezzi che lui aveva lasciato penzolare da una scala antincendio come festoni natalizi di popcorn. Ovviamente quello non era stato il primo. Era stato il primo che aveva voluto che Loro vedessero. «Arriva il momento», aveva scritto su uno dei suoi quadernoni, «che devi mostrare qualcosa di te al nemico in cambio della Loro paura. La paura deve sicuramente indebolirLi.» E così quattro giorni dopo aveva lasciato un secondo corpo in un albergo a Rampart, un grasso travestito chiamato Petey, corpulento rifiuto lasciato a galleggiare a faccia in giù in una vasca di acqua saponata e sangue, nudo tranne che per la preziosa lingerie e le scarpe con i tacchi alti. Quello l'aveva trovato una cameriera dell'albergo. Quando finalmente la polizia aveva terminato con lei, da quanto aveva letto l'uomo, la ragazza se n'era tornata a Chicago. Il vero nome di Petey risultava essere Ralph Larkin, felice marito e tre volte padre, proprietario di una ferramenta in Metairie e antico membro di una sezione locale della Tri Ess, la «sorellanza» dei travestiti. L'uomo ricorda ancora come Petey lo scongiurava di risparmiargli la vi-
ta, come giurava di non saper nulla dell'Invasione né della Cabala e nemmeno della Mafia Gay, ma Loro mentono tutti. Perfino gli occulti, gli etero che nascondono l'erezione dentro mutandine di raso, quelli che desidererebbero soltanto vestirsi da donna e sanno che non saranno mai capaci di fare il passo. Jordan sospetta che siano tutti controllati tramite impianti, cybornani, esseri lillipuziani nascosti nei seni frontali o nel retto, minuscoli come pallini da caccia, se mai gli riuscisse di trovarne uno. Jordan sospetta che quegli gnomi siano programmati per essere teletrasportati fuori del corpo se questo viene catturato o ucciso... o forse si dissolvono semplicemente, senza lasciar tracce. Ormai è quasi mezzanotte, e il transessuale sul tavolo operatorio ha di nuovo perso conoscenza. Già tre volte gli ha spezzato sotto il naso una fialetta di ammoniaca, riportandolo a questo mondo, ma stavolta probabilmente se ne sta proprio andando. Lui sospira, depone lo specolo e la lunga sonda con gli ami saldati lungo tutta l'asta, e posa lo sguardo sugli appunti. Una chiazza scura di materiale organico macchia il foglio fittamente rigato, e ha difficoltà a leggere quanto ha annotato; Jordan sa che più tardi gli toccherà ricopiare tutta la pagina da cima a fondo. Il torace di quello improvvisamente si espande, aspirando aria, rivelando le pallide cicatrici a mezzaluna sotto i seni. Le cicatrici che nessuno dovrebbe vedere. Ma lui, lui vede tutto. Quando espira, dal petto viene un suono disuguale e gorgogliante. Schiude debolmente le palpebre per guardarlo un'ultima volta. Questo qui è molto, molto grazioso, ma lui con esperta prontezza mette da parte qualsiasi cosa che somigli a una partecipazione. Ha fatto abbastanza esperimenti per sapere che la compassione e la pena che sente qualche volta non sono altro che reazioni indotte chimicamente, generate da feromoni geneticamente manipolati secreti nel sudore e nelle lacrime di Quelli. «Non è troppo tardi», dice, ma ovviamente è una bugia. Per questo era già troppo tardi nel momento in cui lui gli ha offerto da bere, subito dopo il tramonto. «Non è troppo tardi per uscirne pulito. Io so essere misericordioso.» Ed ecco che quello se n'è andato, e Jordan è solo nella stanza, e non ha nient'altro a cui pensare che all'odore che si sprigiona ora che la vescica di quello si sta svuotando sul tavolo. I suoi ricordi sono netti quanto le parole che mette sulla carta.
Talvolta, quando le risposte che cerca sembrano assolutamente irraggiungibili, i ricordi sono il suo solo conforto. Memorie rassicuranti della sua determinazione e della sua audacia, e dei frutti della sua dedizione. Nemmeno una settimana dopo il grassone nella vasca, Joseph Lethe aveva rimorchiato uno della feccia del Quartiere Francese, un efebo che aveva adescato in macchina con una fialetta di polvere di anfetamina e se l'era portato fino ad Arabi prima di accostare e piantargli una palla nel cranio. Non gli chiese il nome né lui glielo disse. Il ragazzino indossava robaccia da due soldi da travestiti, una maglietta anni Settanta in poliestere e una parrucca nera che venne via quando Joseph trascinò il corpo fuori dall'auto. Aveva incatenato il cadavere al paraurti posteriore e se n'era andato su e giù fin quasi all'alba per le stradine sterrate delle paludi, luoghi solitari tra cipressi ed erba alta mormorante, nessuno spettatore tranne gli uccelli e gli alligatori. Aveva avvolto nella plastica quella cosa informe e sanguinolenta e l'aveva lasciata ai piedi di una quercia in Audubon Park. Dopo di che aveva deciso di tornare per un po' a essere Jordan, mentre osservava la città che cominciava a stringere le connessioni che lui le aveva lasciato da stringere. Intanto osservava la paura calare sulla popolazione gay del Quartiere Francese come un sipario a metà del film. Passeggiava per le strade e sentiva l'odore della paura, come melagrane fresche e vecchie gardenie, via via che maturava. Perché non ci fossero equivoci nel suo messaggio, ne aveva fatto un altro. Un transessuale appena trasformato da femmina in maschio: castrato e l'abominevole genitale costruito chirurgicamente ficcato in bocca. Questo qui aveva interpretato chiaramente i suoi segnali, era stato perfino intervistato da una televisione locale che preparava un'inchiesta sulle efferatezze dello Squartatore. Aveva dichiarato che c'era qualcuno che faceva strage nella comunità transessuale della città, un serial killer. Di questo Jordan s'era inorgoglito: quelli che importavano davvero non lo avevano frainteso. Pazienza che i poliziotti fossero così fottutamente apatici e incompetenti che non sarebbero riusciti a scovare neanche il loro riflesso in uno specchio. Quello che contava era che Loro avevano capito. Avrebbero diffuso la notizia che non erano più liberi di infiltrarsi indisturbati nella città. A quel punto avrebbe voluto fermarsi, rientrare nelle sue vecchie abitudini. Facendosi ogni tanto un occasionale elemento sbandato, uno fuori del branco, quelli che non sarebbero stati mai altro che persone scomparse, di una scomparsa di cui nessuno si sarebbe accorto. Ma quell'odore di carne e sudore della Loro paura era inebriante. Ora,
talvolta, pensa che quell'odore potrebbe essere stato un trucco per attirarlo allo scoperto: una sostanza chimica prodotta dal Loro organismo per indurgli una dipendenza fisica. A dargli tempo, dopo tutto, era possibile che perfino i poliziotti si facessero vedere. Era stato come cercare di rimettere il dentifricio nel tubetto quando aveva tentato di cessare le esibizioni pubbliche. E allora, aveva cominciato a cacciare più lontano e meno spesso. E gli anni erano passati e lui aveva imparato. Anche se il Loro numero non è diminuito sensibilmente, almeno ora Loro sanno che lui sa. E sa che Loro hanno paura di lui, perché se non avessero paura, sarebbe già morto da un pezzo. Jordan finisce di pulire il tavolo da vivisezione, passa gli strumenti all'autoclave e mette in serbo i nuovi campioni di tessuto, alcuni immersi in vasi di formalina, altri chiusi in contenitori Tupperware e sistemati nel vecchio frigorifero che brontola tra sé in un angolo della stanza. Dopo aver avvolto il corpo del transessuale nei sacchi di plastica blu per l'immondizia chiusi con nastro adesivo da tubature, se ne torna al suo posto alla finestra. L'uomo con i nomi di fiumi riapre le tende e guarda la nera ansa del Mississippi, le luci scintillanti della città che vi si riflettono. Più tardi porterà in macchina il cadavere, ma prima si concederà del tempo per riflettere su ciò che ha visto questa sera. E sulle altre cose che ha nella mente, i sogni che ha cominciato a fare: sogni in cui vola alto sulla città infetta di New Orleans. Sogni di penne nere e un volto familiare che non riesce a individuare. Su una chiatta diretta verso il Golfo del Messico lampeggia lenta una luce intermittente, e lui la osserva a occhi bene aperti mentre passa nella notte piovosa. Quando ha finito la sua scarsa cena, le olive, il pane francese e i pezzetti rinsecchiti di tonno, Lucrece sparecchia la tavola, mette i piatti sporchi nel lavabo e si rimette a sedere, fissando immobile l'orologio sopra i fornelli, finché il sole tramonta. Per tutto il pomeriggio ha continuato a piovere a intermittenza, e ora ha ricominciato a sputacchiare sul tetto dell'appartamento. Il rumore le fa venir sonno, e allora ascolta con più attenzione la musica che viene dallo stereo nella stanza accanto. Nick Cave, velluto consumato attorno a un ingranaggio arrugginito, gorgoglia Do You Love Me? Tanta malinconia in quella voce e in quelle parole, ma anche tanto coraggio.
Quando le ombre sono diventate abbastanza grandi e abbastanza nere da riempire il cortile davanti alla finestra, Lucrece esce dalla cucina. I suoi piedi nudi non fanno quasi rumore sul parquet del breve corridoio fino all'ampia stanza anteriore che affaccia su Ursulines. Il buio persistente si è fatto strada fin qui. Prende una scatoletta di fiammiferi dal tavolino di vetro e accende una candela profumata al sandalo. Il caldo cerchio di luce respinge la notte negli angoli polverosi della stanza, e Lucrece si sofferma davanti al proprio riflesso macilento in uno specchio, il grande specchio nella sua elaborata cornice di ciliegio, un oggetto che Benny trovò da un antiquario in Magazine Street e regalò a Jared per il suo trentesimo compleanno. Lucrece si tocca con cautela il volto pallido, segue il profilo marcato degli zigomi alti, le labbra carnose dipinte dello stesso nero delle palpebre. Vede che i cerchi sotto gli occhi sono diventati molto più profondi dall'ultima volta che ci ha fatto caso, o forse dipende da come tiene la candela. Con questa luce assomiglia moltissimo a lui, lo stesso pallore che Benny aveva coltivato per anni. Lucrece lo porta fedelmente: i colori di tanti mesi passati lontano dal sole, quasi in digiuno. Non può fare a meno di chiudere gli occhi e staccarsi dall'immagine dello specchio, il riflesso-spettro della donna che suo fratello indossava come un cambio d'abiti: non le è possibile sostenere la vista di quel riflesso vivo e respirante mentre lui giace così freddo e solo. «Gesù», sussurra, restando immobile per qualche momento, aspettando che la nausea, miscela di déjà vu e vertigini, sfumi lentamente. Si concentra sul suono della pioggia, sulle parole che Nick Cave sta cantando nell'appartamento buio. Benjamin e Lucas DuBois erano nati nella Pike County, in Mississippi, in un paesino così piccolo e squallido che di solito non era segnato neppure sulle carte geografiche. Gemelli, figli di una ragazza troppo giovane e spaventata per prendersi cura di loro, quando la mamma fuggì a Pensacola con un predicatore evangelista itinerante, loro andarono a vivere con la prozia Isolde. La zia possedeva il rudere cadente di un palazzo nelle vicinanze di quella che passava per la piazza del paese, una casa costruita vent'anni prima della Guerra Civile, che dimostrava uno per uno tutti i decenni della sua vita scolorita dal sole. La loro madre non era mai tornata a prenderli, ma di tanto in tanto si faceva viva con una cartolina illustrata. Si trattava per lo più di sgargianti immagini di contenuto religioso: quella che lo-
ro preferivano era la figura tridimensionale della distruzione di Sodoma e Gomorra. Inclinata da un lato si vedevano le due perverse città crollare sotto un cielo minaccioso; dall'altro lato, la Mano di Dio incombeva su una nuvola a forma di fungo di colore arancio acceso. Da ragazza, la zia Isolde aveva frequentato il college, a Starkville, e aveva insegnato a leggere e a scrivere ai gemelli prima ancora che compissero i quattro anni. Leggeva loro ad alta voce i libri che riempivano la casa: L'isola del tesoro e Cime tempestose, tutto Dickens, Dracula e Ivanhoe e Mark Twain. Gli insegnava la storia e le vite dei santi, la geografia e un po' di francese. In cambio, loro scrivevano commedie e gliele rappresentavano, saccheggiando i bauli per procurarsi i costumi, improvvisando le scene con il cadente mobilio vittoriano. Un Natale, l'anno che compirono i dodici anni e la zia Isolde sessantatré, i gemelli interpretarono due scene dall'Antonio e Cleopatra. Impararono a memoria tutte le battute e perfino si confezionarono i costumi con una vecchia Singer trovata in solaio. Lucas era Cleopatra, e per la scena della morte usarono una biscia viva che avevano trovato in letargo in cantina. Zia Isolde, entusiasta, continuò a gridare «Bravi! Bis!» fino a sgolarsi. Passarono altri Natali, e i graziosi ragazzetti divennero ancora più graziosi, adolescenti inquietantemente perfetti, con quei capelli neri come l'antracite e gli occhi del verde tenue che hanno le foglie della sanguinella in piena estate. Non uscivano quasi mai di casa e dal grande giardino incolto, tranne che per commissioni per la zia Isolde, e sapevano che cosa mormorava la gente del paese alle loro spalle. Era davvero innaturale che due ragazzi fossero allevati da una vecchia zitella nella sua vecchia e sinistra magione, senza frequentare la scuola né tanto meno la chiesa. Alla gente del posto tra l'altro Isolde non era mai piaciuta, perché se n'era stata per conto suo fin da ragazza, e aveva passato troppo tempo tra i libri e non abbastanza tra i ragazzi. A volte, quando i gemelli passavano a passo svelto per la strada di terra rossa che collegava la loro casa con il resto del paese, gli altri ragazzi si nascondevano tra i cespugli e li bersagliavano con sassi e sterco secco di vacca, chiamandoli femminucce, anormali. Lucas avrebbe sempre voluto scappare via, tirava il fratello per la manica scongiurandolo di non fermarsi, di non ascoltare. Ma Benjamin ascoltava, e qualche volta si fermava sulla stradina e restituiva le sassate. Una volta centrò alla testa un ragazzo che si chiamava Jesse Aderholdt, e Jesse e il suo amico Waylon Dillard li inseguirono fino a casa. Quando raggiunsero il vecchio cancelletto, con
Lucas che piangeva e gridava aiuto e Benjamin che gli urlava di piantarla, c'era Isolde in attesa, armata di mazza da baseball. Jesse e Waylon si fermarono a distanza di sicurezza, lanciando insulti mentre l'anziana donna riportava in casa i gemelli. «Vecchia fica rinsecchita», le urlavano. «Maledetta vecchia strega! Fai bene a proteggerli quelle due checche, se no li ammazziamo.» Poi Waylon Dillard gridò che il suo papà era del Klan e se voleva poteva far bruciare tutta quanta la casa. Alla fine se ne andarono, tornandosene furtivi al paese. Ma Lucas quella notte non chiuse occhio, pensando al fuoco. Quando poco prima dell'alba cadde in un sonno agitato, sognò uomini a cavallo coperti da lenzuoli bianchi e croci di fiamme. L'estate in cui i gemelli compirono sedici anni, Isolde morì, nel sonno, di un attacco di cuore. Dopo il funerale, a cui non partecipò che il prete, alcune donne vennero alla casa con un vicesceriffo dicendo che i gemelli non potevano rimanere lì da soli. Erano ancora minorenni, e dovevano essere adottati: probabilmente da due famiglie diverse perché sarebbe stato difficile trovarne una disposta ad accogliere due adolescenti. «Vi lasceremo stare qui finché non avremo parlato con l'assistente sociale di McComb. Avete tutto il tempo di mettere insieme le vostre cose», disse il vicesceriffo. Quella notte i ragazzi presero un po' di vestiti e di libri e tutti i soldi che la zia teneva in un vaso di coccio sotto il lavandino della cucina. Benjamin usò la latta di cherosene nella rimessa per appiccare il fuoco. Lasciarono le lettere che Lucas aveva scritto per annunciare il suicidio attaccate con un chiodo a una pianta di pecan. Rimasero nascosti per un po' in una macchia di rovi in cima a una collina un chilometro a sud del paese, osservando abbracciati il bagliore rosso dell'incendio che divampava sullo sfondo del cielo notturno cancellando le stelle. Nessuno dei due disse una parola. Dopo qualche tempo sgusciarono fuori dai rovi e si avviarono tra i boschi verso l'autostrada. Arrivarono con l'autostop fino a Bogalusa, e qui comprarono due biglietti per l'autobus che arrivava fino a New Orleans. La camera che fu di suo fratello, e dell'amante di suo fratello, è diventata per Lucrece un santuario. Dopo la loro tomba, questa è per lei il più sacro dei templi; una alla volta accende la dozzina di candele finché tutta la stanza è immersa in una morbida luce dorata. Quindi si siede sul suo angolo accanto al letto a baldacchino; un'altra sedia scomoda. Incrocia le braccia
sul petto, si stringe a sé. Ha rimesso tutto a posto, qui, tutto esattamente com'era prima che cominciasse il lungo incubo, l'incubo da cui non si è ancora destata. Le fotografie in bianco e nero sulle pareti sono i ritratti che Jared scattò a Benny in abito da sposa in lattice e merletti, con il busto così stretto in vita che Benny sembra un insetto, così fragile, così facile da spezzare. Erano questi i pezzi centrali della prima mostra importante di Jared, quella che gli procurò una recensione sul Village Voice, che richiamò l'attenzione dei collezionisti fino ad Amsterdam e Berlino, gente piena di soldi da spendere in arte. C'erano anche foto di Lucrece in quella mostra, di lei e Benny insieme, ma queste non riesce più a guardarle. Jared li aveva messi in posa insieme, i due gemelli come specchi invertiti, vestiti in costumi che con cangiante eleganza sottolineavano alternativamente i loro due sessi, che li rendevano ancora più intercambiabili che non l'opera dei loro geni. Alla fine della prima seduta, otto ore senza buttare giù nient'altro che sigarette e acqua minerale, Lucrece aveva la nausea, le vertigini, e una certezza della propria tenue identità più precaria di quanto fosse da anni. Scoppiò a piangere e Benny la tenne abbracciata finché il mondo lentamente si rimise a fuoco. Ora fissa la fotografia sopra il tavolo da toeletta di Benny, nella cornice metallica che luccica debolmente al lume delle candele. Benny sdraiato su un pavimento di cemento grezzo e screpolato, con il capo ritorto così bruscamente da un lato che sembra abbia il collo spezzato, una benda di raso che gli copre gli occhi, le labbra annerite appena appena dischiuse. A volte Lucrece vorrebbe avere la forza di strappar via le fotografie dalle pareti della stanza, di bruciare le foto e tutto il maledetto edificio con lei dentro. Appiccare un fuoco purificatore, un fuoco che cancella tutto, come lei e Benny hanno fatto tanto tanto tempo fa. Nella vita precedente, due vite prima, quando lei era ancora un ragazzino spaventato chiamato Lucas, in fuga, con il futuro che si apriva sconfinato davanti a loro. Ora il futuro è un muro compatto che lei potrebbe toccare se solo ne avesse il coraggio, un vicolo cieco alla fine del viale, via via sempre più stretto, della sua vita. Ma Lucrece sa di non avere il coraggio, la forza di compiere quel gesto finale, di coprire la distanza che la divide da suo fratello e mettere fine alla solitudine. Ha la forza di sopportare questa pena per sempre, se è necessario, e la forza di conservare questi ricordi, e non chiederà altro a se stessa. L'orologio sul cassettone scandisce l'ultimo minuto prima di mezzanotte. Lucrece siede eretta e continua a fingere che sta solo aspettando che Benny
rincasi. Il sole al tramonto era una sfera di fuoco abbagliante che si tuffava nella vasta distesa del lago Pontchartrain mentre l'autobus di Benjamin e Lucas attraversava il viadotto, un viadotto che ai loro occhi sembrava non finisse mai. Era come un ponte di fiaba uscito da uno dei libri ridotti in cenere nella biblioteca di Isolde, un ponte che attraversava l'abisso tra la loro infanzia e la città splendida e pericolosa che li aspettava. In quel momento Lucas avvicinò le labbra all'orecchio del fratello per bisbigliare l'unico segreto che avesse mai avuto con il suo gemello, l'unico segreto così pesante che non avrebbe mai immaginato che si sarebbe potuto un giorno trasformare in parole e uscire dalla sua bocca. Ma sentiva che in quell'attraversamento c'era una sorta di sfrenata magia, e che se non lo avesse detto allora, poteva restare rinchiuso dentro di lui per sempre. E quando fu uscito, Benjamin sorrise appena e diede al fratello un bacio sulla guancia. «Pensavi che non lo sapessimo?» disse, e Lucas fu troppo colpito per ribattere, sconvolto dalla sua confessione e dalla reazione disinvolta di Benjamin, dal mondo che sfilava via così veloce dal finestrino del bus. «Be', lo sapevamo. Pensavamo che lo sapessi, che lo sapevamo.» Lucas riuscì appena a fare di no con la testa. «Gesù», sospirò il fratello con un tono scoraggiato, ma sorrideva. «Ma lo sai che certe volte hai una bella testolina dura?» «Ma allora non mi odi?» Qualcosa lampeggiò sul viso di Benjamin così rapidamente che Lucas non lo colse quasi, collera subito riposta nel suo nero fodero prima che potesse far male. «Lo siamo tutti e due, Lucas. Non siamo in niente come tutti questi altri...» mormorò, accennando ai passeggeri seduti attorno a loro. «E questa è la nostra forza.» Lucas chiuse gli occhi. Mentre l'autobus continuava a percorrere il viadotto ed entrava a New Orleans, Benjamin sussurrò una vecchia storia, una storia che avevano inventato insieme anni prima, la storia di due fratelli magici uguali come due gocce d'acqua, che erano stati scambiati dalle fate nella culla di due comuni bambini umani, allevati da una vecchia gentile in una casa piena di cianfrusaglie e polvere e grossi ragni. Lucrece è quasi assopita sulla sua sedia quando si fa sentire per la prima volta il rumore alla finestra, la portafinestra dietro il letto con tutti i suoi neri drappeggi. In un primo momento pensa che il suono provenga dalla
porta dell'altra stanza, qualcuno che bussa alla porta dell'appartamento, qualcuno che vuole entrare, e pronuncia il suo nome prima di potersi trattenere. «Benny?» Ma il suono ricomincia, secco, come ghiaia gettata sul vetro, forte quasi da romperlo. Lucrece si alza. Ha le gambe molli e sente rizzarsi i capelli sulla nuca, un'improvvisa fioritura di sudore sotto gli indumenti, sulla fronte e sul labbro superiore. Poi il rumore diventa un rombo, come un tuono, solo che Lucrece sa che non è un tuono; è troppo contenuto e vicino per essere un tuono. Rotola lento sul tetto, e lei alza lo sguardo al soffitto, quand'ecco d'un tratto la finestra si spalanca sotto una folata di vento improvvisa e violenta. Le fiammelle delle candele oscillano e la stanza si riempie degli odori della pioggia, della cera calda, dell'ozono. «Benjamin?» ripete, più forte questa volta. Il temporale sembra trattenere il fiato, e per un momento c'è solo il rumore della pioggia che entra dalla finestra, cade sul letto e sul pavimento, le spruzza il viso. Poi un fruscio di ali, e caccia quasi un grido mentre il corvo gigantesco si posa sulla testiera del letto e la finestra si richiude di schianto dietro di lui. «Gesù Cristo», singhiozza. L'uccello manda un verso sonoro come rispondendole, gonfia le penne nerissime e si scuote di dosso l'acqua spruzzando di pioggia il copriletto già bagnato. Inclina la testa da un lato, con quel becco come il pugnale di un sicario, e Lucrece si chiede che cosa mai ha evocato la sua pena da questa città infestata, quale spirito oscuro è venuto a investigare sulla sua veglia. Si avvicina di un passo all'uccello, protendendosi. Il corvo sbatte le palpebre e gracchia di nuovo, apre le sue ali di ebano. Lucrece indietreggia e si lascia cadere sul bordo del letto. «Chi ti manda?» chiede. «Chi ti ha mandato da me?» «Lucrece», dice una voce dietro di lei, una voce che più familiare e sconosciuta non saprebbe immaginare, una voce che porta ferocemente incuneato in ogni lettera che pronuncia tutto ciò che è stato sentito, tutto ciò che è stato visto. Ha troppa paura per girarsi a guardare, il cuore le martella impazzito nel petto, ma lei sa che nonostante la paura deve voltarsi, che prima o poi dovrà voltarsi. Come Orfeo, come la moglie di Lot, senza pensare al prezzo che le costerà il vedere. Il non vedere è mille volte più orribile.
«Jared», sussurra, un sussurro più impercettibile di un alito. «Sei...?» «Sì, Lucrece», dice lui. «Sì», e lei si volta a guardare. Ha seguito l'uccello per chilometri, o almeno così gli è parso, lungo le strade bagnate di facce oscene e sospettose e di auto che lo aggrediscono con i clacson quando non si leva subito dalla strada. Pensa che l'uccello gli ha messo qualcosa dentro, un filo bruciante così luminoso che potrebbe accecarlo ed escludere il resto del mondo, qualcosa come una fame tagliente che lo ha trascinato in mezzo alla tempesta fino a questo luogo a cui da solo non sarebbe giunto mai. Quando il corvo lo ha portato al Quartiere Francese, lui è rimasto per un pezzo davanti all'appartamento, sul marciapiede di fronte, osservando in silenzio, attraverso la pioggia, la finestra della camera da letto. Ha guardato perplesso la fioca luce tremolante visibile attraverso le tendine di pizzo, chiedendosi chi possa vivere lì ora che lui è morto. Poi l'uccello si è alzato in volo dal palo della luce su cui si era posato, e il filo saldato dentro Jared si è teso di nuovo, e ha seguito le ali nere. Di sotto, la porta di sicurezza era aperta, così che chiunque sarebbe potuto entrare dalla strada, qualsiasi sballato con una pistola, qualsiasi ladro o assassino. Se l'è chiusa alle spalle e le sbarre di ferro hanno mandato un suono secco e sordo come la porta di una cella. E ora si trova sulla soglia della camera da letto dove Benny è morto, e Lucrece è in ginocchio davanti a lui. Il corvo lo scruta dal letto. Sente il filo nell'anima allentarsi e deglutisce, sente ancora il sapore delle sostanze chimiche, sente ancora il sapore guasto della morte come i postumi di una sbronza, un retrogusto di vomito vecchio, alcol, sigarette. «Perché?» dice lui. Sembra che la voce venga da un punto vicino, non proprio dalla sua gola e dalla sua lingua. A Jared non viene in mente nient'altro che valga la pena di chiedere, nient'altro che possa importare tranne quest'unica parola: «Perché?» e la ripete. Lucrece sembra incapace di rispondergli, lo fissa incredula e ammutolita. La somiglianza con Benny è tale che fa male vederla qui, l'incredibile, identica gemella di Benny. Jared si sente sul punto di cadere, si appoggia allo stipite della porta per avere un sostegno, ma niente può combattere la vertigine che risucchia i suoi piedi nudi. L'appartamento, questa fottuta stanza, è mantenuto come un altare perché lei non ha la forza di lasciare andare. Sembra che l'uccello sorrida, e Jared sente l'impulso di mettergli le mani al collo.
«Perché, Lucrece?» chiede in un ringhio feroce che percepisce con la pelle oltre che sentirlo. Jared chiude gli occhi, preme forte la fronte contro il muro. Si stupisce avvertendo la durezza del legno. «Che cosa mi hai fatto?» «Jared», ripete lei, pronuncia ancora il suo nome come qualcosa di sacro. Quando lui apre gli occhi lei si sta alzando lentissimamente, muovendosi con la lentezza di chi danza sott'acqua. Tende incerta una mano verso di lui e lui sente che le ginocchia gli cedono; si aggrappa più forte alla porta. «Avresti dovuto lasciarmi morto», geme, mentre la rabbia gli sale dalle viscere come vomito, una rabbia che quasi gli spegne le parole. Sbatte con violenza la testa contro la cornice della porta e Lucrece caccia un urlo. «Avresti dovuto lasciarmi morto. Io sono morto e tu avresti dovuto lasciarmi morto.» «Jared, non sono stata io a fare questo», dice lei. Lui sa che tutto il coraggio le viene dalla paura che lui potrebbe farsi del male ancora, che potrebbe danneggiare il suo prezioso trofeo vudù venuto dalla tomba, e allora sbatte di nuovo la faccia contro il muro. Qualcosa si spacca, e sulla vernice bianca resta uno sbaffo scuro di sangue. «Sì, sei stata tu! Tu e i tuoi fottuti giochetti di magia, Lucrece... tu hai mandato quel fottuto uccello a disseppellirmi.» «Gesù, no, ti giuro...» Si sta avvicinando a lui, come se la paura non contasse, come se non avesse alternativa. Jared sente quasi pena per lei, si vergogna quasi, se solo avesse modo di entrare in contatto con quei sentimenti attraverso la rabbia che lo soffoca. La luce delle candele si riflette sulle lacrime che le solcano le guance, sui suoi occhi vividi, pieni di pianto. E lui ora cade, infine, ma è una caduta lenta, lentissima. Quando lei ha attraversato la stanza, lui è accasciato contro il muro con il naso rotto, nel gusto del proprio sangue. «Dio, Jared.» Lucrece lo cinge con le braccia, lo attira a sé. Lui ne sente l'odore, il profumo di rosa tea e lavanda, il profumo di pulito dell'abito, il sudore, la paura che crepita attorno a lui come corrente elettrica. Lei lo abbraccia stretto e quando parla la sua voce risuona flebile come quella di una vecchia in punto di morte. «Io non ti ho mai mentito, Jared. Lo sai, cazzo, che non ti ho mai mentito...» «Ma perché, Lucrece? Gesù Cristo, perché?» Ora giunge improvvisa una fitta atroce tra gli occhi, un suono raspante e la carne della faccia di Jared
appare più che viva. Ha cominciato a muoversi, a spostarsi, e la prima cosa a cui pensa sono i vermi, che forse ha il cranio pieno di larve, là dove prima c'era il cervello, e ora si stanno facendo strada divorandogli la carne per uscire dalla faccia. Si sente distintamente uno schiocco mentre la pelle, l'osso e la cartilagine fremono. Vede che Lucrece si è coperta la bocca con una mano. «Oh, Jared», bisbiglia, con la voce gonfia di terrore e stupore. Alza la mano verso il viso aspettandosi di trovare mille minuscoli vermi che gli escono a fiotti dalle narici, un getto freddo di liquido rancido. E invece c'è solo il suo naso, il suo naso perfetto, come mai rotto. Nemmeno una goccia di sangue, e Jared resta a fissarsi imbambolato le dita come se anche loro lo stessero tradendo, come se questa fosse un'ennesima menzogna. «Che cosa sta succedendo?» chiede lei, con una voce fragile e spezzata come una lampadina rotta. Lui può solo risponderle respingendola, dandole una spinta così forte da farle perdere l'equilibrio, da farla cadere all'indietro mentre lui si porta di nuovo verso la solida, incontestabile parete. Il corvo continua a osservarlo dall'alto del letto. Jared ha la sensazione di poter vedere la presa che ha su di lui, il filo scintillante che corre dal livido petto dell'uccello al suo cuore, teso come una lenza, con l'amo ferrato così profondamente dentro di lui che non riuscirà mai più a sganciarselo. «Tu, nero pezzo di merda!» urla. L'uccello lo fissa sbattendo le palpebre. «Sei stato tu, non è vero?» Le mani di Jared spazzano freneticamente l'aria, cercando di afferrare un filo che è impalpabile e innegabile come la memoria. «Lasciami andare!» grida. «Rimandami dov'è il mio posto!» Il corvo manda un breve verso, un suono irritato, spazientito, e con un saltello si sposta fuori della portata delle sue mani. «Jared, ti prego, finiscila.» Lucrece allunga una mano verso la sua caviglia, singhiozzando, e lui la respinge con un calcio. «Non riesci a sentire quello che vuole dirti? Per l'amor del cielo, fermati e ascolta, Jared.» Ma qualcosa dentro di lui è scoppiato, qualcosa di maturo e brulicante, e la furia oscura e corrosiva è fuori prima ancora che lui capisca che ha trovato una strada. Sgorga da lui in un'inondazione selvaggia e demente; stacca una fotografia dalla parete, consapevole solo vagamente di che cos'è quello che ha preso, e la scaraventa contro l'uccello nero. La cornice si infrange contro la struttura del letto ed esplode in una pioggia di schegge di vetro. Ora quelli che sta guardando sono gli occhi di Benny, il viso che lo fissa dalla fotografia in bianco e nero rovinata. La foto pubblicata sul Voice,
Benny con le mani legate dietro la schiena, con un ghigno appena accennato sulle labbra. La sua figura su uno sfondo di ombra, due ali fiammeggianti dietro la schiena, ali affilate che sembrano protendersi dalle spalle nude di Benny. Jared aveva intitolato la fotografia Il corvo, e Benny l'aveva giudicato troppo ovvio, un gioco di parole troppo stupido. «Oh.» La sua voce è un minuscolo insignificante relitto gettato nella cascata rovente. «Oh, va' a farti fottere.» «Ti prego», dice Lucrece, implorante adesso. Lo supplica di fermarsi mentre afferra il candeliere Tiffany accanto alla porta e lo scaglia come una lancia fatta di bronzo e vetro colorato, passando da parte a parte la fotografia. E ora sorride per il corvo, un sorriso perfido come un rasoio, così largo che pensa gli spaccherà la testa in due, sicuramente gli squarcerà gli angoli della bocca. L'uccello gracchia e si mette in salvo più lontano. «Pensi che sia divertente? Eh, ti sembra che ci sia da ridere?» Ora Lucrece è davanti a lui, si frappone tra lui e il corvo, e la sua rabbia cambia bersaglio nello spazio di un battito del cuore. «Togliti dai coglioni.» «No», ribatte lei, con una voce bassa e ferma, che ora sembra quella di un uomo, ha il suono che aveva quando Jared incontrò per la prima volta lei e Benny all'inaugurazione di una galleria in centro. «No, non mi tolgo. Quello che sta succedendo sta succedendo per un motivo, Jared.» «No, Lucas», dice lui, caricando quel nome rifiutato di tutta l'enfasi che sa trovare: un'arma così facile, così semplice, così a portata di mano. Lucrece sussulta ma non si sposta. «È solo un fottuto scherzo. Solo uno stramaledetto brutto scherzo fatto a noi tutti, da una merda di universo contorto. Non ci sei arrivato, Lucas?» «Lo sai che non è così», insiste lei, guardandolo fisso, e la collera che si va formando nei suoi occhi pareggia quasi la rabbia di lui. «Gesù, non hai mai avuto il senso dell'umorismo.» Jared si gira e strappa un'altra delle sue fotografie dalla parete, la manda in pezzi sbattendola a terra. Il vetro e l'acciaio gli feriscono le mani, e le mani guariscono all'istante, come in una ripresa a velocità accelerata. Torna a voltarsi lentamente, sollevando i palmi perché lei possa vedere gli squarci che si richiudono. Perché lui possa vederne l'espressione. «E allora, cara, fammi un favore, lascia che ti rinfreschi la memoria.» Jared si muove così in fretta che sa che Lucrece non lo vede arrivare, la fa cadere di nuovo con una spinta sul letto. Le lancia le parole come fossero chiodi, uno più acuminato e più duro dell'altro, come se la sua sola voce
potesse crocifiggerla. «'Ma il corvo, posato solitario sul placido busto, pronunciò solo... quell'unica parola, come riversando in quella sola parola tutta la sua anima. Nient'altro poi pronunciò, non una piuma agitò...'» Lucrece lo schiaffeggia, il palmo della sua mano riecheggia secco contro la guancia, e Jared interrompe la recitazione quel tanto che gli basta per ridere di lei, per assaporare la sensazione bruciante che la mano gli ha lasciato sul viso. «Lasciami stare», ringhia lei. Jared restituisce lo schiaffo, la colpisce con forza e lei incespica sulla lampada e piomba sul letto. E adesso lui ricorda come può essere piacevole la violenza, lo sfogo purificatore, e cala su di lei come un vampiro di celluloide. «'Finché io mormorai, o poco più: Altri amici sono già fuggiti via...'» Lucrece gli pianta un ginocchio nell'inguine e usa l'altro piede per toglierselo di dosso. «Ti ho detto di lasciarmi stare, figlio di puttana!» Jared si arrende e si accascia a terra ai piedi del letto, accanto a quel che resta della lampada e della foto del Corvo. Lucrece si alza dal letto, ansante, aspettandosi un altro attacco, pronta questa volta. Jared però non si muove, fissa inespressivo la fotografia, il fantasma lacerato di Benny ancora intrappolato nei resti della cornice. Il corvo li osserva entrambi in silenzio dal suo punto di osservazione sulla testiera. «Non ho ucciso io Benny», dice Jared, parlando a Lucrece o a nessuno, e per il momento la rabbia si è spenta. Il suono della sua voce la fa rabbrividire nonostante l'adrenalina che martella nelle vene, un suono così piatto e vuoto, la voce di qualcuno che parla dal fondo di un pozzo profondo e asciutto. Quando gli risponde, si sforza di usare il tono più tranquillizzante possibile. «Lo so, Jared.» «Sì», dice Jared. «Lo so che tu lo sai.» Comincia a sfilare la foto dalla cornice spaccata, scuotendo il vetro polverizzato dall'immagine del suo amore assassinato, del fratello assassinato di lei. Il corvo gracchia di nuovo, sbatte rumorosamente le ali, ma Jared non lo guarda. I suoi occhi sono fissi sul bellissimo, perduto Benny. «Jared, tu lo capisci che cosa sta dicendo, vero?» Volge lentissimamente il capo verso di lei, come restio a distogliere lo sguardo dalla fotografia, anche per un momento, come temendo che possa
dissolversi. I suoi occhi sono vuoti e lontani come il suono della sua voce, e lei vorrebbe stringerlo di nuovo, liberarsi da tutti quei mesi che ha passato da sola, senza altra compagnia che la propria pena egocentrica, divorante. Invece non si muove, ma sposta lo sguardo sull'uccello. «Ti ha riportato indietro», dice, «per trovare chi è stato, e impedirgli di farlo ancora.» Sembra che il corvo la guardi con sospetto, c'è forse un barlume di diffidenza nei suoi piccoli occhi dorati, e allora lei gli chiede: «Ho torto?» «No, Lucrece», risponde Jared prima che l'uccello abbia la possibilità di farlo. «Non hai torto. Sento anch'io la stessa cosa. Non vorrei, ma la sento perfettamente.» «Io posso aiutarti», dice lei, sempre guardando il corvo, con una diffidenza che ora è reciproca. «Se riesco a capire quello che sta dicendo, potrò aiutarti. Su quello che è accaduto a Benny so delle cose, delle cose che non mi hanno lasciato dire in tribunale.» Il corvo con un breve volo si posa sulla spalliera ai piedi del letto, al di sopra di Jared, guarda prima lui, poi Lucrece, poi di nuovo lui, con occhi acuti come il becco, in qualche modo inquieti e fiduciosi al tempo stesso. «Non posso lasciarti coinvolgere in questa cosa, Lucrece», dice Jared, stringendosi al petto la foto, accarezzandone la liscia superficie come se ci fosse, lì, qualcosa di assai più prezioso della semplice carta. «Sciocchezze», risponde lei. «Sono già coinvolta.» Jared non trova le parole per ribattere, nulla che potrebbe convincerla, ma sa bene che lei non potrà seguirlo là dove gli toccherà andare. E così Jared Poe resta seduto in silenzio sul pavimento della stanza ad ascoltare il rumore della pioggia che cade su Ursulines, e il ritmo meno confortante del suo cuore di Lazzaro. 2 Il detective Frank Gray ha da mezz'ora lo sguardo fisso sul canale delle previsioni del tempo, troppo sbronzo per fregargliene qualcosa se ha già visto per tre volte di seguito lo stesso bollettino meteorologico locale, troppo sbronzo per fare lo sforzo di cambiare canale. Beve un altro lungo sorso di Jim Beam direttamente dalla bottiglia e la rimette al sicuro tra la protezione delle sue gambe. Il bourbon, almeno quello, ha ancora il sapore che deve avere, l'unica cosa nella sua vita che non è riuscita a tradire la sua fiducia. Gli brucia in maniera rassicurante nelle viscere, aggiunge il suo
contributo al muro di nebbia che lui mantiene tra sé e il mondo. Da qualche parte sul Golfo c'è un ciclone tropicale, una grande spirale bianca sullo sfondo dell'azzurro nelle fotografie da satellite. Fin qui c'è arrivato. Ma la perturbazione, e la minaccia che potrebbe rappresentare, sono ben lontane da lui, come tutto il resto, come la pioggia che picchia monotona contro il vetro del suo appartamento di merda. Frank beve un'altra sorsata, dolce incendio nella bocca che divampa giù per la gola. Quando raggiunge lo stomaco chiude gli occhi, e nel buio della sbornia il ragazzo è lì che lo aspetta. Diceva di avere ventun anni, e Frank sapeva che non era vero ma non insisté. Era entrato nel bar dopo il turno per una birra, il primo bicchiere per preparare la lunga sbronza del weekend. Era un posto qualsiasi in Magazine Street, senza nome, solo un cartello che diceva BAR e un quadrifoglio al neon sopra la porta, neon con marche di birra nelle vetrine buie, Patsy Cline nel jukebox. Frank aveva ordinato una Bud e se la stava sorseggiando al banco quando si era accorto del ragazzo che lo fissava da un séparé d'angolo, seduto lì da solo, con un sacco militare piazzato sulla sedia di fronte. Quando guardò di nuovo, dopo qualche minuto, il ragazzo era ancora lì, e lo fissava. Sul tavolino c'era una bottiglia, ma non sembrava che se ne stesse servendo. E poi il ragazzino gli aveva sorriso, un timido sorriso studiato, e aveva abbassato lo sguardo sul tavolo, mettendosi a giocherellare con l'etichetta della birra. La voce ansiosa dentro la sua testa aveva detto No, Frank, non va bene cacare dove si mangia, amico, ma lui aveva imparato da tempo a tenere al suo posto la voce. Passarono solo un paio di minuti prima che si accostasse al séparé del ragazzo. Da vicino dimostrava più anni di quanto avesse pensato dal bancone. Capelli biondi rasati sulla nuca, lentiggini da Huck Finn sotto gli occhi e alla base del naso. Gli occhi erano dell'azzurro limpido di un cielo di ottobre. «Ciao», fece Frank. Il ragazzo rispose al saluto, alzò gli occhi per un attimo, gli concesse un rapido sorriso prima di rimettersi a grattare l'etichetta della bottiglia semivuota di PBR che aveva davanti. Frank indicò la borsa. «In arrivo o in partenza?» «In arrivo», rispose lui. «Appena arrivato da Memphis, nel pomeriggio. In autobus.» «Memphis, eh?» disse Frank, e prima che potesse aggiungere altro, il ra-
gazzino bisbigliò: «Le andrebbe un pompino, signore? Glielo faccio per venti sacchi». Frank si guardò d'istinto alle spalle. Il locale era vuoto, a parte loro due e una donna anziana che consumava un Bloody Mary all'altra estremità del bancone. Il barista era al telefono ed era voltato di spalle. «Cristo, ragazzo, non perdi tempo, eh?» Il giovane si strinse nelle spalle, finì di scollare l'etichetta dal vetro scuro della bottiglia. «A che cosa serve girarci intorno?» «Potrei essere un poliziotto.» Il ragazzo sorrise, lisciò l'etichetta lacera sul piano del tavolo. «Oh, non lo è. Non lo sembra nemmeno. Ne ho fatti di servizi ai poliziotti, e lei non mi sembra affatto un poliziotto.» «Davvero?» Frank bevve un sorso dalla sua birra, lanciò un'altra occhiata dietro le spalle. La vecchia stava dicendo al barista qualcosa che lui non capì, ma l'uomo era ancora al telefono e la ignorò. «Forse faresti bene a essere un po' più prudente.» Il ragazzo sospirò e guardò Frank in faccia; ogni ombra di seduzione e di finzione era scomparsa, lasciandogli solo un accenno di impazienza irritata agli angoli della bocca. «Senti, amico, io vado a pisciare. Se vuoi io sono al cesso che ti aspetto, d'accordo?» Mentre il ragazzo si alzava e gli passava accanto, Frank balbettò: «Be', ecco, certo», ma l'altro era già a metà strada verso la toilette. Se glielo avessero chiesto, Frank avrebbe avuto difficoltà a farsi venire in mente qualcosa che avrebbe sempre desiderato essere, se non poliziotto. Aveva passato l'infanzia a imbottirsi di telefilm, di tutto, ogni puntata di Hawaii Squadra Cinque Zero, Starsky & Hutch, Baretta, Sulle strade della California. Questi erano i suoi cowboy, i suoi eroi, i suoi modelli di ciò che è bene e di ciò che è maschio. E se glielo avessero chiesto, avrebbe avuto difficoltà anche a ricordare un tempo in cui non era attratto dagli uomini: quegli uomini in particolare, con le loro uniformi blu, i lucidi distintivi, la solida sicurezza. Non aveva mai attraversato un periodo di incertezza sessuale, i tentativi di corteggiamento di ragazze da cui non era realmente attirato, la scoperta finale che gli uomini e solo gli uomini erano l'oggetto preciso del suo desiderio. Era stato tutto chiaro fin dall'inizio, e non aveva mai visto in conflitto le sue preferenze sessuali e il sogno di fare il poliziotto. Ma questo candore non era sopravvissuto neppure al corso di addestra-
mento all'accademia. Non ci fu bisogno che qualcuno lo prendesse da parte e lo avvertisse: «Frank, di checche qui non ce ne vogliamo». Vide subito l'odio nei suoi colleghi cadetti e lo riconobbe per quello che era, assorbì un'acuta consapevolezza del silenzio che avrebbe dovuto serbare, come il voto di celibato dei preti, se voleva avere entrambe le cose, sesso con uomini e distintivo, e lo imparò senza dover subire lezioni personali. Quello che accadde ad altri meno acuti di lui, gli bastò. Quando arrivò al dipartimento di polizia di New Orleans, assegnato come agente di ronda al Quinto Distretto, individuò il filo sottile su cui avrebbe dovuto camminare, allargò bene le braccia e piano piano avanzò mettendo un piede dopo l'altro. Poco dopo essere entrato in servizio, due agenti finirono sotto inchiesta per aver chiuso un occhio in cambio di favori sessuali da parte di prostituti nel Quartiere Francese. Prima delle udienze e dell'espulsione, Frank vide le altre cose che toccavano a quei due - le minacce, le botte, l'umiliazione - e prese nota. Quattro anni dopo fu promosso detective della Omicidi, quattro lunghi anni che aveva passato rigando diritto, soddisfacendo i suoi appetiti con la mano e materiale pornografico, e anche la pornografia era un grosso rischio. Lo sapeva, e teneva nascoste le sue riviste in una cassetta di ferro chiusa a chiave in fondo a un armadio, e non comprava mai niente nelle edicole o nei porno shop locali. Si faceva arrivare tutto a una casella postale che aveva aperto a Bridge City sotto falso nome, gratificazione sessuale in anonima carta da pacchi, i giornali e le videocassette che servivano da surrogato per tutto ciò che poteva essere un reale rapporto o un reale soddisfacimento. Aveva imparato la parte, il gioco di specchi e le cortine fumogene, ed era fiero che nessuno sospettasse nulla. Usciva con donne fittizie. Ogni volta che i ragazzi chiedevano di questa o di quell'altra donna, Frank era sempre pronto, con le battute preparate come quelle di un attore alla sera della prima. «Amico, hai visto che tette ha quella?» chiedeva uno, e Frank si portava una mano al pacco e ghignava a tempo. Sapeva tutte le allusioni e le battute sui finocchi, eccelleva nella pantomima dello sculettamento, della erre moscia e del polso floscio. Più di una volta aveva guardato dall'altra parte vedendo i colleghi che pestavano un frocio. Il machismo era solo un'altra parte della sua uniforme, dopo tutto, facilissima da indossare e poi togliere, come il berretto e le scarpe, e se mai c'era qualche dubbio, be' a questo serviva la confessione. Era tutto abbastanza facile da razionalizzare. Se solo avessero mostrato
un minimo di fottuto autocontrollo, se si fossero comportati da uomini, nessuno lo avrebbe capito e queste merdate non gli sarebbero successe. Ma a volte gli capitava di cogliere un riflesso del suo viso sottile nello specchio del bagno o nella vetrina di un negozio, e c'era solo la maschera, senza più la minima traccia dell'uomo che si nascondeva sotto. Allora doveva fermarsi, appoggiarsi al muro o mettersi a sedere finché la vertigine fosse passata. C'era la sensazione che in un certo senso stesse scivolando fuori di se stesso, che l'uomo che vedeva riflesso avesse già consumato il vero Frank Gray. E anche questa era una cosa abbastanza piccola per poterla ignorare facilmente. Cazzo, con una vita così fottutamente stressante, non poteva pretendere di non sentirla ogni tanto. Si diceva che era soltanto una cosa in più che veniva con il territorio, e se doveva farsi un paio di bicchieri prima di andare a letto per tenere alla larga gli incubi, pazienza. Il ragazzo nel gabinetto profumava di sudore e di sole, e Frank si sforzò di concentrarsi su quegli odori deliziosi anziché sull'aspro puzzo di orina e di deodoranti. Seduto sulla tazza del cesso, assaporando con le mani la morbida spazzola di quella testa, si tratteneva, voleva farlo durare, ben sapendo che potevano passare settimane prima di concedersi un'altra volta qualcosa di così meraviglioso, prima di sentirsi di nuovo così disperatamente bisognoso da rischiare. Quando finalmente venne, Frank si chinò e baciò la testa del ragazzino, sentendo sapore di sale e di Vitalis. Piccoli spasmi di orgasmo indugiavano ancora in qualche punto dentro di lui tra l'uccello e il cervello, e non aveva voglia di aprire gli occhi, di lasciare entrare la squallida luce del bagno, l'ancora più squallida realtà della situazione. «Cristo, lo sapevo che eri un fottuto poliziotto», disse il ragazzo, e quando Frank si decise ad aprire gli occhi vide che impugnava il suo revolver, glielo aveva sfilato dalla fondina alla caviglia e lo puntava al petto di Frank. «E allora, visto che sei venuto a raccontarmi delle storie, magari ne ricavo qualcosa di più che venti sacchi soltanto, no?» Frank deglutì, con bocca e gola improvvisamente aride, sentendosi un imbecille, un tale idiota da lasciarsi cogliere alla sprovvista da quello stronzetto, con i calzoni alle caviglie e l'uccello che sgocciolava sborra nel cesso, e la canna della sua pistola puntata dritta al cuore. «Ridammela prima che qualcuno si faccia male, va bene?» Come se credesse davvero che ci fosse la minima possibilità che accadesse una cosa del genere.
Il ragazzo scosse la testa e sorrise, si pulì la bocca strofinandola con il dorso della mano libera, ben attento a non togliere gli occhi da Frank. «Come?» gli chiese Frank, mentre la paura e la rabbia combattevano per impadronirsi della sua voce. «Davvero pensi che potresti far fuori un poliziotto con la sua pistola e farla franca?» «Gli altri porci di sbirri lo sanno che sei frocio?» disse il ragazzo. Frank lo colpì con violenza in piena faccia, scaraventandolo all'indietro contro la porta chiusa del cesso. Il revolver gli sfuggì di mano e cadde rumorosamente sulle piastrelle sporche del pavimento. Afferrò il ragazzo per il colletto della T-shirt e gli sbatté con forza la testa contro la porta. Quello si accasciò con un piagnucolio. Muovendosi lentamente, Frank raccolse con una mano la pistola, e con l'altra si tirò su i pantaloni. Infilò la 38 nella fondina, poi si alzò e gli assestò un calcio nello stomaco, e poi un altro in faccia. «Piccolo stupido pezzo di merda. Se ti rivedo... se solo ti rivedo un'altra volta, bocchinaro, dovranno dragare il fiume per cercare i pezzi che gli alligatori non hanno voluto. Mi hai capito?» Il ragazzo sputò una boccata di sangue e Frank Gray gli tirò un altro calcio nella pancia. «Rispondi, stronzo.» Il ragazzo riuscì ad articolare un suono strozzato e a fare un mezzo cenno con la testa. Frank gli si inginocchiò accanto e gli infilò in una tasca posteriore i venti che si era guadagnato. «Io torno di là, e mi finisco la birra. Tu resta qua ancora un po'.» Senza aspettare una risposta lasciò il ragazzo raggomitolato e gemente accanto alla tazza del cesso. Frank prende un altro sorso dalla sua bottiglia e fissa la lenta spirale antioraria della perturbazione che attraversa il teleschermo. L'annunciatore indica il delta e la costa della Louisiana e dice qualcosa che Frank non può sentire perché ha tolto il volume. Meglio ascoltare la pioggia, pensa, meglio ascoltare quell'incomprensibile cazzo di pioggia. Ne ha sentite tante di storie sulla puttana che frega il poliziotto sfilandogli pistola e distintivo quando quello non guarda, o che poi cerca di ricattarlo. Che cazzo te ne frega, è il pensiero da sbronzo che gli viene in testa ricordando la paura e la sorpresa che brillavano come una febbre negli occhi del ragazzo. Che cosa cazzo te ne può fregare mai. Ma c'è anche un'altra voce nella sua testa, la voce che ha cercato di impedirgli di parlare con
il ragazzo. A volte l'alcol la riduce a un bisbiglio, ma ora è bella forte e dice: Sì, è facile adesso dire queste stronzate da macho, Frank Gray. Ma oggi stavi per rimanerci, eh, amico? Frank traffica con il telecomando e alza il volume finché non sente più niente al di sopra della voce nasale del meteorologo. A darci dentro con l'alcol ha cominciato un paio di mesi prima della promozione a detective, quando era ancora un semplice agente di pattuglia nei quartieri di Iberville a est di Canai Street. Il suo partner era una giovane donna di colore, Linda Getty, una novellina con cui stava lavorando da appena un paio di settimane quando arrivò la chiamata, quella che avrebbe sempre ricordato come la Brutta Chiamata. Era un martedì grasso e per Frank quel pomeriggio avrebbe segnato il momento dell'inizio della discesa, della sua sistematica disgregazione fino a quel luogo di odio per se stesso e di decomposizione alcolica. «Queste stronzate coniugali sono la cosa peggiore», disse Frank. Linda annuì, gettando il mozzicone della sigaretta dal finestrino dell'auto di servizio mentre lui rispondeva alla comunicazione. «Sì, siamo a un paio di isolati dal posto», disse lui al microfono della radio, e fece un'inversione. Ora, ogni volta che ripensa ai quattro o cinque minuti prima che arrivassero al labirinto di condomini che fiancheggia il St. Louis n. 1 Cemetery, gli sembra sempre di aver avvertito una vaga premonizione, qualcosa di più pressante della solita apprensione di quando ci si mette in mezzo a due persone che si odiano quanto si possono odiare marito e moglie. Ma probabilmente sono palle, e lui lo sa, come qualcuno che vede san Paolo nella zuppa di pesce un attimo prima di rischiare di strozzarsi con un guscio di granchio, cercando a tutti i costi un segnale, per consolazione. «Lo so che durante l'addestramento lo avrai sentito cento volte», disse a Linda, parlando a raffica come faceva sempre quando era nervoso, «ma le cose così banali sono cento volte più pericolose di una chiamata, che ne so, per una rapina, o di un'irruzione per droga. Almeno lì te lo aspetti che qualcuno ti spari addosso o qualcosa del genere. Con stronzate come queste, non sai mai che cosa aspettarti.» «Capito», rispose Linda, cercando di apparire fredda e sicura di sé. Da quanto Frank ricorda della cosa, si augurò che lo fosse davvero. Quando l'auto si fermò davanti al caseggiato di mattoni rossi istoriato di graffiti si era già raccolta una piccola folla; la gente nel cortile fangoso e
sulla strada guardava qualcosa sull'asfalto. Facce diffidenti e dure si volsero verso di loro mentre scendevano dalla macchina. Frank ricorda di aver pensato che se non altro aveva smesso di piovere. «Che diavolo pensate di fare?» disse una donnetta alta mezza spanna e larga quasi altrettanto, con i bigodini verde menta che le spuntavano dai capelli. Frank sentiva la voce di un uomo che strepitava da uno degli appartamenti, una voce alta e da matto. «Su, andatevene a casa», cominciò Frank, e poi sentì Linda sussultare, il verso che fa chi ha appena visto qualcosa che è cento volte peggio di quanto avrebbe mai potuto immaginare. «Nessuno mi dice di stare zitta e di andarmene», ribatté la piccola grassona in tono stridulo e infuriato. «Ho chiesto che diavolo pensate di fare per questo!» Ma Frank le aveva già dato le spalle, e fissava Linda ritta dall'altro lato dell'auto, una mano sulla bocca e la voce filtrata dalle dita. «Che cosa c'è?» chiese lui. «Cosa c'è che non va?» Ma lei stava già indicando la cosa che lui aveva intravisto in mezzo alla strada mentre accostava al marciapiede. Un fottuto gatto morto, pensò. Cristo, perché mi deve fare questa scena per un cazzo di gatto morto in mezzo a una fottuta strada. Linda tirò fuori dalla tasca le sigarette, ne accese una e aspirò freneticamente per impedirsi di vomitare, un trucco che lui ben conosceva. «Frank», mormorò. «Oh, Dio. Guarda, guarda lì.» Lui fece il giro dell'auto da dietro cercando di non perdere d'occhio quel pubblico così irrequieto e la direzione da cui proveniva la voce dell'uomo, e cercando anche di vedere meglio quello che la partner vedeva lì in mezzo alla via. Non era un gatto. Se ne accorse un secondo dopo, con uno sguardo al corpicino scuro tra le figure che gli si erano raccolte intorno, pelle nuda e le righe rosso sangue tracciate sul nero dell'asfalto. Il bambino poteva avere sei mesi, e Frank non ebbe bisogno di chiedere per capire che un'auto gli era passata sopra la testa. Linda era appoggiata alla macchina, ripetendo ininterrottamente tra i conati «Oh, Dio, oh, Dio», e continuando ad aspirare fumo, come se esistesse un modo per dimenticare quello che aveva appena visto, un trucco per non averlo visto. Allora qualcuno nella folla si mise a ridere, una risata secca e dura che Frank ricorda con la stessa chiarezza con cui ricorda il corpo maciullato. E poi il primo sparo, e lui, rotto l'incantesimo, fu di nuovo in grado di muoversi. Ricorda di aver gridato a Linda di riprendersi, cazzo, di rimettersi insieme o l'avrebbe presa a pedate nel culo.
«Scusami», mormorò lei, pulendosi la bocca e allungando la mano verso la fondina. «Ma Cristo, Frank...» «Non c'è niente che potete fare per quel povero bambino», gridava la grassona dall'altro lato dell'auto di pattuglia. «Pensate piuttosto a quelli che non ha ancora ammazzato.» E Linda squadrò la donna, con lo sguardo velato dalle lacrime che le scendevano lungo le guance. «Ascolta la signora», disse Frank. Si sporse verso l'interno dell'auto cercando di mostrarsi calmo mentre staccava il microfono della radio. «Ehi, ci serve qualche cazzo di rinforzo quaggiù!» Fece una pausa prima di proseguire, prese fiato e si chiese se attraverso la radio alla centralinista arrivasse anche il battito del cuore che gli martellava nel petto, l'odore del sangue e dell'adrenalina. L'uomo che aveva sparato li stava aspettando al primo piano, si era barricato con la sua donna e i tre bambini di lei. Uno dei figli era il piccino morto nella strada: così aveva spiegato la donna grassa quando Frank aveva finito la comunicazione con la centrale. L'uomo si chiamava Roy, e aveva passato tutto il giorno a fumare crack. Anche questo lo avevano saputo dalla donna grassa. Estrassero entrambi la pistola prima di affrontare le scale in ferro e cemento che portavano al primo piano, dove si fermarono in cima alla rampa, Linda appiattita contro il muro, Frank qualche passo più vicino alla porta, molto più esposto. Erano passati più di cinque minuti da quando aveva chiamato per chiedere assistenza, e ancora non si sentiva nemmeno una sirena. Frank aveva le mani bagnate di sudore, sentiva incerta la presa sulla pistola. Udivano perfettamente l'uomo e la donna, dall'interno dell'appartamento, che urlavano l'uno contro l'altra, e le voci terrorizzate dei bambini, ma non c'erano stati altri spari. Mentre entravano nel palazzo Frank aveva notato un movimento dietro una finestra rotta. Aveva immaginato che fosse la stessa finestra da cui era stato gettato il piccolo. «Merda», imprecò Linda dietro di lui. «Dove cazzo sono, Frank? Non ci dovevamo neanche venire, quassù, senza appoggio.» «Sta' zitta», ringhiò lui, sistemandosi contro la ringhiera di ferro, preparandosi a fare fuoco se la porta si fosse aperta e ci fosse stata qualsiasi cosa nelle mani di quello stronzo. Quando gridò verso l'interno dell'appartamento sentì la tensione nella propria voce, la paura che vi si era avvinghiata. Gli diede la nausea quasi quanto la vista del bambino morto, il disegno del copertone stampato nella polpa insanguinata che era stata il suo cranio e il suo cervello.
«Roy? Mi senti, Roy? È la polizia. Metti giù l'arma e apri la porta prima che qualcun altro si faccia male...» «Vaffanculo, stronzo!» tuonò una voce maschile da dietro la porta. Dal battente metallico la vernice nera stava venendo via in brutte grosse croste, e Frank notò, sotto, il nero precedente, più sbiadito. Questi particolari li ricorda perfettamente. «Non sto facendo proprio niente che possa fregare agli sbirri della città di New Orleans! Vai a sbattere il culo dentro a quella tua cazzo di macchina della polizia e non rompermi i coglioni o a questa le faccio schizzare il cervello!» La donna cacciò un altro urlo. «Gesù, Frank, che diavolo di fine hanno fatto? Cazzo, dovrebbero essere qui da un'ora.» Una risposta da darle non l'aveva, ma sapeva che erano nei guai fino al collo. «Non lo so, va bene?» bisbigliò, cercando di mostrarsi calmo nonostante il panico che gli si stava raccogliendo nelle viscere, riempiendole come piombo freddo. «Ma adesso ci ritiriamo e aspettiamo...» «Aspettare cosa, Frank? Non verrà nessuno, e quello sta per ammazzarli tutti, là dentro. Ci sono dei bambini, Cristo santo.» «Ehi, stronzo!» suonò nuovamente la voce dell'uomo, una voce da cane rabbioso con cui non si sarebbe mai potuto ragionare, Frank lo sapeva bene. Nessuna risposta a quella voce, se non una risposta di forza, tanta forza da uccidere. «Sei sordo o cosa? Ho detto, vattene da quelle dannate scale o a questa troia le pianto una pallottola in testa!» «Niente da fare», disse Frank pianissimo a Linda. «Noi da soli non possiamo fare niente.» Alzò la voce verso la porta. «Okay, Roy, ora ci ritiriamo e ti lasciamo in pace proprio come hai detto tu. Ma voglio solo che tu...» E allora il fucile fece un rumore come di un tuono intrappolato in una scatola di metallo, che la lacera per uscire, e la porta nera schizzò completamente fuori dei cardini. Non ebbero il tempo di mettersi fuori tiro: Frank lo capì nell'attimo in cui vide Roy che alzava l'arma per sparare di nuovo. La donna era stesa ai suoi piedi. Frank vide che era stata colta in mezzo tra Roy e la porta quando la micidiale semiautomatica aveva fatto fuoco, che la detonazione l'aveva squarciata a metà. Roy era coperto del sangue della donna, e l'aria era densa di fumo e di una nebbia rossastra che si depositava. «Stai giù!» urlò a Linda, strappando secondi preziosi per mirare prima di
sparare due volte di seguito, cogliendo Roy entrambe le volte giusto in mezzo agli occhi. Il gigante fu scaraventato all'indietro e le sue dita in uno spasimo schiacciarono il grilletto del Roadblocker un'ultima volta, ma il colpo andato a vuoto fece solo un buco nel soffitto, aggiungendo intonaco polverizzato e altro fumo alla nebbia che già usciva dalla porta dell'appartamento. Indietreggiando, Roy finì contro un basso tavolino e piombò a terra morto. «Santa Madonna...» mormorò Frank, ma non riusciva a sentire neppure la propria voce per il ronzio che aveva nella testa, l'eco della fucilata che sfumava. «Stai bene là? Linda, stai bene?» Linda non rispose ma lui era già in movimento, avanzando verso la porta, senza spostare la canna della sua .38 dalla forma supina di Roy. Era caduto all'indietro oltre il tavolino, e i piedi spuntavano all'insù mostrando le costose scarpe da ginnastica inzuppate di sangue, il suo e quello della donna. Frank avanzò con cautela oltre la porta sfondata; vide che in mezzo aveva un buco grosso quanto il suo pugno e si chiese come diavolo facesse a non essere morto. Scavalcò la massa maciullata distesa di traverso sulla soglia, qualcosa che meno di un minuto prima era stata un essere umano. Il pavimento era scivoloso, e dovette appoggiarsi al muro. Anche questo era coperto di sangue, e quando tolse la mano, era rossa e appiccicosa. Degli altri bambini non c'era traccia. Dovevano essersi nascosti da qualche parte nell'appartamento. «Linda, mi servirebbe proprio il tuo aiuto, qua», gridò, chinandosi cautamente sul cadavere di Roy. «Dobbiamo trovare i ragazzini.» Notò i due fori precisi appena sopra il naso di Roy, e la pozza di sangue e di materia grigia che si allargava sul pavimento sotto la sua testa. Gli occhi erano spalancati, e fissavano il soffitto o Dio o l'uomo che lo aveva ucciso. Tra le mani stringeva ancora il fucile. «Linda? Mi senti?» Quando finalmente gli rispose, la sua voce era un suono fievole e incerto. Frank guardò lentamente al di sopra di una spalla, non fidandosi di dare la schiena a quel forsennato nemmeno adesso, nemmeno ora che non c'era la minima probabilità che potesse rialzarsi. Frank sforzò lo sguardo tra la nebbia di fumo e polvere che si andava diradando, verso l'ingresso dell'appartamento che si apriva sfrangiato come l'uscita da un qualche profondo recesso dell'inferno. Linda era seduta in cima alle scale, appoggiata al muro di mattoni e cir-
condata da una chiazza di sangue che si allargava. «Credo che mi ha beccata», disse, con le parole già impantanate nel torpore dello choc. «Frank, credo che quel bastardo mi ha presa.» Uscendo, Frank incespicò quasi nelle viscere della morta, riuscendo a malapena a ritrovare l'equilibrio. Anche da lontano vedeva il sangue sgorgare dalla ferita nella coscia di Linda, uno zampillo rosso vivo di sangue arterioso, che schizzava via a tempo con il battito del suo cuore, spandendone la vita sul pavimento di cemento. Linda fissava stupefatta la ferita, come se la cosa la meravigliasse, come se quella fosse la cosa più incredibile che avesse mai visto, non una parte di lei, non qualcosa che potesse essere accaduta a lei. Quando la raggiunse, Frank si lasciò cadere in ginocchio e guardò il buco della ferita, la pelle scura e il muscolo rosato ridotti a un hamburger masticato. Non capì come fosse successo che il colpo aveva mancato lui e colto lei finché non vide il pezzo contorto di metallo che spuntava dalla ferita, un frammento della porta che doveva essergli volato accanto senza toccarlo. «Ascolta, devo andare a chiamarti un'ambulanza», le disse, togliendosi la camicia per tamponarle la ferita. «Mentre sono via devi premere qui.» Lei annuì debolmente. Cazzo, morirà qui, pensò Frank mentre le avvolgeva stretta la camicia alla ferita che continuava a perdere sangue. Morirà dissanguata prima ancora che io arrivi a quella fottuta macchina per chiedere aiuto. «Non credo sia grave», biascicò lei. «Non sento tanto male. Credo di riuscire a camminare.» «Zitta, Linda», la interruppe lui legando le maniche della camicia per finire il bendaggio. «Se non te ne stai ferma senza lasciare la pressione su questa gamba, non dovrai camminare più per andare da nessuna parte. Saranno gli angeli a portarti dove vorrai andare.» Lei lo guardò, sbatté le palpebre e sorrise, un sorrisetto assente. Poi si tolse qualcosa dal dito, e glielo mise nel palmo sporco di sangue. «Per favore, Frank», gli disse, «di' a Judy che mi dispiace, va bene? Dille che la amo sempre. Lo fai, sì?» Lui guardò l'anello, una semplice fascetta di oro bianco, cercando di capire quello che gli stava dicendo. «Se succede qualcosa... se non ce la faccio... di' a Judy che ho detto che mi dispiace.» Gli strinse le dita chiudendogli la mano attorno alla fede. Frank inspirò profondamente, sapendo che non c'era tempo per la sua
sorpresa o per tranquillizzare le sue paure. La fasciatura era già zuppa di sangue. Le prese tutt'e due le mani, gliele pose sopra la ferita e le schiacciò forte, e lei perse quasi conoscenza. La schiaffeggiò finché si fu riavuta abbastanza da mantenere da sola la pressione. «Pensa a tenere qui le mani e andrà tutto bene, Linda. Non ti succederà niente se fai come ti dico. Hai capito?» «Sì», rispose lei, con una voce debolissima e lontanissima da lui. «Sì, ho capito che cosa vuoi dire, Frank.» «Torno immediatamente, te lo giuro. Arrivo solo fino alla macchina, va bene?» «Sì», ripeté Linda, e lui la lasciò lì e scese le scale fino al gruppo di gente che era ancora radunata davanti al palazzo. La grassona con i bigodini verdi lo guardò e fece un ghigno, mostrando proprio sul davanti un dente d'argento. «Hai lasciato nessuno vivo, giovanotto?» gli chiese mentre lui si faceva largo tra la folla senza rispondere, ignorandoli tutti. Aveva ripreso a piovere mentre lui e Linda erano di sopra, e sentì il freddo delle gocce sulla pelle, che lo ripulivano. Stringendo l'anello nella mano si diresse verso l'auto, pregando un dio in cui non credeva che almeno la raggiungesse prima di vomitare, pregando che l'aiuto arrivasse prima che lei morisse sola lassù. Mentre toccava il marciapiede sentì un tuono lontano verso il fiume, un rombo come una fucilata attutita, e il gemito ansioso delle sirene in arrivo. Linda Getty non morì, ma perse quasi la gamba e avrebbe zoppicato per tutta la vita. Frank andò a trovarla una sola volta in ospedale, quando le riportò la vera di oro bianco. Linda la riprese come se stesse rendendo una confessione. In effetti stava facendo proprio una cosa del genere, Frank lo sapeva. Linda si dimise dalla polizia mentre ancora lottava con la fisioterapia, e Frank salì senza fatica alla Omicidi. Ma non prima di aver saputo che quel pomeriggio c'erano almeno due autopattuglie a distanza di pochi minuti dalla loro posizione nel quartiere di Iberville. Entrambe avevano dichiarato problemi con il motore alla centrale quando alle loro radio era arrivata la richiesta di appoggio. E quando Frank era tornato alla centrale quel giorno, aveva scoperto che qualcuno aveva scritto LESBICA con lo spray rosso sull'armadietto di Linda, e vi aveva appiccicato sopra con il nastro adesivo assorbenti usati sporchi di sangue. Rimase a fissare il tutto per un pezzo, mentre la vecchia familiare paura
di essere scoperto lottava contro un senso di offesa che non aveva mai provato, mai in tutte le occasioni in cui aveva riso alle battute idiote sui froci, in cui aveva guardato dall'altra parte quando qualcuno usava le maniere forti con un finocchio, in cui era stato al gioco per paura di suscitare sospetti e attirare su di sé le ire di quei bulli. Fissava l'armadietto imbrattato e vedeva Linda Getty accasciata inerte contro il muro, con la vita che le usciva dal corpo, il sangue che le tingeva di nero i calzoni azzurri da poliziotto. Non aveva nemmeno gridato, si era sfilata con calma l'anello dal dito. Di' a Judy che la amo sempre. L'anello era ancora nel taschino della camicia, e il sangue denso che ne macchiava la liscia superficie metallica era uguale al graffito scarlatto vergato sullo sportello dell'armadietto. Più tardi Frank sarebbe arrivato a capire che se un uomo dispone di un unico momento in cui la redenzione è a portata di mano, quei minuti nello spogliatoio erano stati il suo momento, la sua unica occasione di cambiare il corso della sua vita. Una manciata di secondi in cui all'improvviso tutto era chiaro, semplice come il tono rassegnato della voce di Linda che arrivava attraverso il dolore e lo choc. E a quel punto Donovan disse qualcosa dietro di lui: «Sta' attento con chi te ne vai in giro, Frank», proprio così, e la rabbia che gli montava dentro annegò sotto la paura, la fredda, acquosa paura che aveva già spento così tanti fuochi e mille altri ancora ne avrebbe spenti. Frank si voltò e si trovò di fronte a Joe Donovan, un pezzo d'uomo con il volto segnato dalle tracce dell'acne, e le parole gli salirono alle labbra, le parole giuste, ma quando parlò scivolarono via e quello che venne fuori fu: «Già. Non si è mai troppo attenti, eh?» «Proprio», annuì Joe Donovan, «proprio mai troppo, amico.» Sorrise alla conferma che stava parlando con uno della sua pasta, uno che capiva che a volte bisogna fare dei sacrifici per mantenere una purezza più alta. «Niente di personale, Frank. Lo sai.» «Sì», rispose Frank. «Sì, certo.» E così il giorno dopo, con la testa che gli scoppiava, sfinito dalle lunghe ore riempite di incubi ubriachi in cui era costretto infinite volte ad abbattere Roy, il pazzo imbottito di crack, Frank andò a trovarla e a riportarle l'anello. Quando arrivò sul posto c'era un'altra donna nella camera, una ragazza bianca magra con un brillante alla narice destra e tatuaggi sulle braccia. Linda le disse qualcosa sottovoce e la ragazza li lasciò soli, lanciando un'occhiata sospettosa a Frank quando gli passò accanto per uscire
nel corridoio. Linda aveva lo sguardo velato dagli antidolorifici, come il giorno prima lo era dal dolore, la voce piatta e roca, biascicante. Lo guardò e si sforzò di sorridere. Frank tolse l'anello dalla tasca. Lo aveva ripulito dal sangue e ora luccicava debolmente sotto la luce bianca della camera di ospedale. «Grazie», disse rauca. Frank alzò le spalle. «Figurati. Ehi, ti trattano bene qua dentro?» «Tutto quello che una ragazza potrebbe desiderare.» Questa volta riuscì a sorridere, un sorriso stanco e sincero che lo costrinse a chinare gli occhi sulla punta delle scarpe. «Bene, fammi sapere se ti serve niente. Devo tornare alla centrale. Tutte quelle dannate carte per ieri. Sai come sono queste stronzate.» Lei fece di sì con la testa, poi allungò il braccio e gli toccò la mano. «Frank, lo sapevi, no?» Lui non rispose, continuò a spostare lo sguardo dalle sue scarpe a lei alla porta, non desiderando altro che tagliare la corda. «No», rispose, e questa era la verità, non lo sapeva. «Cazzo. Mi dispiace. Pensavo che lo sapessero tutti.» «Pensa solo a riposare e a guarire, va bene?» La ragazza tornò in quel momento e rimase sulla soglia, annunciandogli silenziosamente che il tempo a sua disposizione era finito. «Grazie», ripeté Linda. «Lassù mi hai salvato il culo.» «Bah, facevo solo il mio lavoro, no?» «Ci vediamo presto», mormorò ancora lei, mentre i farmaci la richiamavano verso l'incoscienza, lasciandolo libero, ora che aveva compiuto il suo dovere. Frank arrivò fino all'ascensore prima di mettersi a tremare, un tremito così violento che dovette sedersi. Ultimamente sogna spesso Roy, il matto imbottito di crack. Un sogno semplicissimo, una sorta di spot in cui lui osserva dal di fuori di se stesso ma sempre tanto vicino aa sentire l'odore della polvere da sparo e del sudore della propria paura. I particolari sono sempre molto più chiari di quanto lo furono al momento in cui la cosa avvenne nel caseggiato quel pomeriggio, rimontati e ritoccati per il suo piacere di spettatore. Il forte suono meccanico del Roadblocker che espelle il bossolo usato e inserisce il secondo, quello su cui è scritto il suo nome. Le macchie di nicotina giallo pergamena sui denti di Roy. I festoni grigioazzurri degli intestini sparsi della donna uccisa.
A volte nel sogno le cose vanno giusto come andarono la prima volta e Roy se ne prende due nella testa prima di poter sparare ancora. Altre volte però va diversamente - a Frank s'inceppa il revolver, o è di un secondo troppo lento, o la mira è fuori centro di qualche centimetro a destra o a sinistra - e il vecchio Roy ha, dopo tutto, la sua seconda occasione. Il colpo non fa mai male, o almeno Frank non ricorda mai il dolore quando finalmente è sveglio e coperto di sudore freddo, sano e salvo nel suo letto. C'è solo l'impatto, la forza che gli toglie il fiato e lo scaraventa all'indietro al di là della sottile ringhiera. A volte precipita per un tempo che non finisce mai, come Alice nella tana del coniglio verso il Paese delle Meraviglie. E a volte sembra che cada solo per un istante prima di svegliarsi con un sobbalzo. Ma finora non ha mai toccato il fondo. Frank Gray cambia finalmente canale sul vecchio televisore da tredici pollici e finisce la bottiglia di bourbon su un episodio degli Intoccabili che ha già visto almeno una dozzina di volte. Attraverso la nebbia di sonno alcolico che gli avvolge il cervello, la grezza violenza in bianco e nero è confortevole, lo stridore delle ruote e il rimbalzo dei proiettili dei mitragliatori sono rassicuranti come una ninnananna. Ha bisogno di pisciare ma pensa che può trattenerla ancora un po', almeno fino alla prossima interruzione pubblicitaria, prima di trascinarsi a cercare il bagno. La pressione della vescica gli ricorda il ragazzino del bar, l'Huck Finn che succhia cazzi per venti dollari, gli riporta alla mente la sorpresa sul suo volto quando gli è arrivato il pugno. Pensano tutti che le cose sono così maledettamente facili, che puoi avere tutto e subito, approfittare di qualcuno e poi derubarlo pure. Gli sarebbe piaciuto arrestarlo per adescamento. Che strepitasse pure sui poliziotti culi finché volesse, comunque nessuno gli avrebbe mai creduto. Almeno, è piacevole dirselo, e quando è così sbronzo riesce quasi a crederci, quasi a far finta che nessuno mormora alle sue spalle, che nessuno gli ride dietro, che nessuno sospetta che lui non è uno dei ragazzi. Frank chiude gli occhi mentre scorrono i titoli di coda, pensa che forse la pisciata può tenersela ancora per il tempo di un pisolino. Fuori la pioggia cade da un cielo nero, e il rumore che fa lo porta in un sonno profondo e grazie a Dio senza sogni.
3 Manca un'ora a mezzanotte, e Jared e Lucrece sono seduti insieme sul pavimento della camera da letto. Lucrece ha messo via le fotografie a pezzi e si è versata un bicchiere di scotch. Il corvo li osserva dal letto. A volte gracchia forte, come preparandosi ad annunciare qualcosa di urgente; ogni volta loro due si voltano verso l'uccello, aspettando che vada avanti, finché non è chiaro che per il momento non ha altro da dire. Ogni tanto Jared scoppia di nuovo a piangere, singhiozzi profondi che lo scuotono e sembrano volerlo spaccare in due, e Lucrece lo tiene stretto finché non sono passati e lui si è calmato. «Non capisco che cosa dovrei fare», dice. Lucrece rivolge al grosso uccello nero uno sguardo dì rimprovero trattenuto, come pensando che non ha fatto il suo dovere fino in fondo e che toccherà a lei aggiungere i pezzi mancanti. «Che cosa ti ha detto l'uccello?» chiede a Jared. Lui fissa l'uccello che se ne sta sul letto, scrutando i suoi occhi vigili. Dopo un po' le risponde, parlando lentamente, come fosse poco sicuro delle parole o del modo in cui si tengono insieme. «Ci sono bilance e la morte di Benny ha lasciato squilibrati i loro piatti.» Si interrompe, ricordando una statua della Giustizia davanti al tribunale in cui fu condannato a morire, la donna di bronzo senza età, bendata, con la spada e la bilancia in equilibrio. Il ricordo di lei e l'amara ironia della cosa lo fanno ridere. Jared ghigna sprezzante verso l'uccello. «No», dice. «Non è solo questo. Se per riportare indietro i morti bastasse una piccola ingiustizia, tutti i fottuti camposanti sarebbero deserti.» Il corvo risponde chiocciando. «Non è l'ingiustizia», dice a Lucrece, a se stesso e all'uccello. «Non può essere l'ingiustizia, non può.» «E allora che cosa?» sussurra Lucrece, temendo che Jared conosca la risposta, ma più ancora che non la conosca. Lei la sa, l'ha sentita nella voce stridula dell'uccello; potrebbe dirla a Jared ma sa che deve vederla lui con i suoi occhi. «Andate tutti e due a farvi fottere», mormora lui, e lei gli prende delicatamente il viso tra le mani. La sua pelle è fredda. Il freddo la colpisce come un brutto ricordo, o così bello che riviverlo fa male. «È il tuo dolore, Jared», gli dice, non lasciando che distolga lo sguardo
dai suoi occhi. «È il tuo dolore a creare lo squilibrio, il tuo dolore che deve avere soddisfazione perché l'ordine sia restaurato.» «Stai dicendo stronzate, Lucrece... non ti accorgi di quanto sei ridicola?» Lei lo ignora. «Non soltanto il dolore, però. Il tuo amore per Benny. Anche quello c'entra. È quella la parte che avresti dovuto portare con te nell'aldilà. Dolore e rabbia dovevi lasciarteli dietro. Non c'è posto per loro tra i morti.» Jared la respinge, il sorrisetto si scioglie in una risata carica di odio, un suono orribile, rapace, che Lucrece non crederebbe umano se non vedesse che esce dalle sue labbra. «Non c'è posto per niente, tra i morti, Lucrece, tranne che per la fame dei vermi.» Ora lei non riesce più a guardarlo negli occhi, non riesce a sostenerne lo scintillio di ebano. Sa che fa parte di quel che lui è diventato, parte di ciò che dovrà fare se vorrà mai trovare pace, ma questa consapevolezza non le rende più facile affrontarlo. «Puoi ascoltare il corvo, Jared. Lo sai che quello che ti sto dicendo è la verità.» Lui non dice nulla. Quando lei solleva di nuovo gli occhi e lo guarda lui sta osservando l'uccello appollaiato sulla spalliera del letto. Le sue labbra sono tirate all'indietro, così tese che i denti sembrano zanne messe a nudo, pronte per la carne fresca. «Un angelo vendicatore», ghigna. «Così gli dei possono starsene a riposo e conservare le mani pulite. E questo che stai dicendo?» L'uccello arruffa le penne e sposta il peso da una zampa all'altra. «È tutto qui, vero? Trova i cattivi e fagliela pagare, così che la mia anima irrequieta smetta di disturbare i dannati che arrostiscono giù all'inferno.» Il corvo ricompatta le penne e si rannicchia come temendo che Jared voglia colpirlo. «Bene, e allora dimmi che cosa di buono ricava Benny da questo, figlio di puttana dal cuore nero. Dimmi che riparerà a quello che qualche stronzo depravato ha fatto a Benny e allora, forse, avrò voglia di seguirti in questo gioco, di fare quello che dici tu.» Lucrece avverte palpabile la sua furia nell'atmosfera chiusa della camera da letto, più immediata del temporale che è fuori, sente la sua collera crepitare nell'aria umida che li avvolge. «Niente può aiutare Benny, Jared. Se tu non trovi pace e non torni da lui,
niente potrà mai aiutare Benny.» L'ultima parte della frase le rimane in gola come una scheggia di vetro, ma lei sa che va detta. «In questo momento Benny è solo, Jared, solo al freddo e al buio, aspettando che tu torni da lui.» E si tende, pronta a incassare il suo pugno, o a gettarsi di nuovo tra lui e l'uccello. Ma Jared resta seduto immobile e scruta il corvo, mentre i muscoli del suo viso cominciano a rilassarsi in modo quasi impercettibile. «Ah, Dio», mormora. Lei vorrebbe abbracciarlo ancora, vorrebbe che esistessero parole da dirgli. «Ma non è tutto, Lucrece. Se riesci a udire quello che dice, lo sai che non è tutto.» «Sì», annuisce lei, perché capisce la voce dell'uccello, la sua mente stridula, disagevole, così come capiva i pensieri che Benny non le esprimeva mai a voce alta, così come sapeva quando i suoi sogni erano agitati. «Tu dovresti sapere chi lo ha ucciso», dice Jared al corvo, sputando le parole come se avessero un sapore disgustoso nella sua bocca. «È così che dovrebbe andare. Tu mi trascini indietro fin qui e mi indichi. Ma tu non puoi indicarmi l'assassino, vero? Non puoi indicarmi un cazzo!» Lucrece azzarda un contatto, poggia una mano sulla spalla di Jared e lui si volta verso di lei e la fissa con uno sguardo di odio destinato all'uccello. Le sembra di vedere l'inferno rinchiuso in quegli occhi, le pupille due pozzi che conducono all'abisso dell'infinito. «Ho ragione, vero? Non sa niente, come non sapeva niente la stramaledetta polizia.» «Il corvo sta facendo quello che era destinato a fare. Qualunque altra cosa succeda, è solo un corvo e ci sono limiti ai suoi...» ma si interrompe, ben sapendo come devono suonare a Jared le sue parole, così pragmatico, così lontano dalla religione. Per Jared tutto questo è solo un cumulo di idiozie vudù prive di senso. «Ci sono limiti ai suoi poteri. C'è qualcos'altro, qui, qualcosa che si sta mettendo di mezzo, qualcosa che dobbiamo capire e aggirare.» Jared si nasconde il viso tra le mani e lei pensa che stia di nuovo per mettersi a piangere. Sarebbe meglio della collera, qualcosa che lei conosce molto più intimamente. Da quando è morto il fratello ha passato tutta la vita in compagnia del dolore. È diventata la concubina prediletta del dolore. «Non ci capisco niente di niente», dice Jared. «E non devi perdere tempo a sforzarti», risponde Lucrece, sperando che ora la sua voce gli trasmetta almeno un po' di aiuto. «Rischi di smarrirti se
dedichi troppo tempo a cercare di capire come questo sia possibile. Dobbiamo semplicemente accettare le cose come stanno.» «Tu come le sai queste cose, Lucrece? Almeno questo puoi dirmelo? Puoi dirmi perché tu capisci che cosa sta dicendo questo cazzo di uccello?» Lei tace di nuovo, conoscendo la risposta ma timorosa di lasciarla libera, improvvisamente di fronte alle proprie paure e ai propri dubbi. Sapendo che la sua risposta la legherà a questo mistero con nodi che mai dita, mortali o non mortali, potranno mai più sciogliere. «Sì», risponde infine, staccando la mano dalla spalla di Jared, e comincia a sbottonare il vestito sul davanti. «Sì, credo che posso farlo.» Si abbassa l'abito fin sotto le spalle magre e bianche, scoprendo il severo corsetto di seta nera. Si gira perché Jared possa vedere le sue spalle nude. «L'ho fatto fare circa un mese dopo il funerale di Benny», spiega. «Speravo che il dolore e la guarigione mi aiutassero a guarire un poco...» La voce le manca ora che sente gli occhi di lui seguire sulla schiena l'intricato disegno delle cicatrici. L'immagine che il bisturi ha tracciato nella sua pelle, l'incisione che nelle sue intenzioni doveva essere l'immagine di un corvo imperiale, dalla fotografia di Jared. Ma l'artista aveva solo l'immagine di un corvo comune su cui lavorare, e le confessò di avere un po' imbrogliato con il disegno solo tempo dopo, quando la garza e il cerotto chirurgico nascondevano il suo lavoro ancora fresco, ancora gemente. «Penso che sia questo il motivo per cui posso sentire il tuo corvo, Jared.» «Oh, Lucrece...» dice lui, sfiorando con le dita l'incrociarsi delle righe in rilievo di carne bianca. «Un po' è servito», riprende lei, risistemandosi il vestito sulle spalle, nascondendo il disegno. «Forse adesso servirà molto di più. Forse mi permetterà di aiutarti.» Jared si alza e si mette davanti al corvo, sovrastandolo, e l'uccello storce il collo per guardarlo in faccia. «Se mi hai riportato qui per niente, bastardo», lo minaccia, «ti giuro che morirai molto, molto lentamente.» «Credo che sia il momento di piantarla con queste cazzate da macho, Jared», interviene Lucrece finendo di allacciare l'ultimo bottone perlaceo del suo abito. «E, se non ti dispiace, è una lei.» Jared la guarda senza capire, e il corvo fa un verso sommesso. «Il corvo», spiega Lucrece. «È una corva.» Jared alza gli occhi al cielo.
«Chiedo scusa.» Il corvo li informa che c'è ancora un po' di tempo, e così Jared resta a riposare un poco tra le braccia di Lucrece e ascolta la pioggia, che ora scende più forte picchiando il tetto della casa come un perfetto e rasserenante strumento a percussione. Chiude i suoi occhi di morto e cerca di immaginare che quelle che lo stringono sono le braccia di Benny, e non della sua gemella. Lei gli accarezza i capelli con le lunghe dita, dita come quelle di Benny, più morbide e più esitanti ma abbastanza simili per il gioco che lui sta giocando nella sua testa. «Voglio toglierti questa orribile giacca», gli dice lei. «E questa camicia.» Ha ancora il vestito con cui è stato sepolto, tagliato sul dorso per comodità di quelli delle pompe funebri. «E poi ti troverò qualche altra cosa da indossare.» Jared Poe aveva conosciuto Benjamin DuBois in una galleria nel Warehouse District, un capannone malfermo di lamiera ondulata, muri marci e pavimenti in cemento così vicino al fiume che l'aria puzzava di fango e pesce guasto. Era un posto dove si tenevano performance e lui c'era andato solo perché si esibiva l'uomo di un suo amico e lui era rimasto a secco di scuse. Con pochissime eccezioni aveva sempre trovato il genere artistico della performance o una noia spaventosa o semplicemente orribile, ultima pretenziosa spiaggia per aspiranti senza talento alla disperata ricerca di una nicchia dove infilarsi. Il più delle volte andava a finire che si sentiva imbarazzato per il performer, imbarazzato per il pubblico che ce la metteva tutta per capire ogni stronzata che gli veniva ammannita, e talmente a disagio che a metà dello show tendeva a filarsela. E la scena quella sera non faceva eccezione: di sicuro non era la cosa peggiore che avesse visto, ma abbastanza brutta da farlo pentire di non aver inventato una storia su un guasto alla macchina o un guaio alle tubature dell'acqua ed essersene rimasto a casa. L'artista se ne stava in piedi su un piccolo podio al centro del capannone con nient'altro addosso che una vecchia pelle di alligatore e un paio di mocassini dall'aria costosa, e leggeva ad alta voce dal Wall Street Journal. Per fortuna c'era un bar e Jared si mantenne nei suoi paraggi, buttando giù ogni tanto una tequila e cercando di mantenere la faccia seria. Ma la maschera diventava sempre più difficile da portare e il tizio con la pelle di alligatore andava avanti all'infinito con la sua giaculatoria mentre il Cuervo si faceva strada nel sangue di Jared verso il suo cervello. Pur di distrarsi in qualche modo, si mise ad ascoltare quello che diceva
una coppia che stava a qualche passo di distanza, a margine del pubblico. Jared aveva subito notato come si assomigliavano, e la donna era così alta che lui si era chiesto se non fosse un travestito. Parlavano ad alta voce tra loro, quasi gridando per sentirsi al di sopra del listino di borsa che attraverso il microfono sul palco rimbombava dagli altoparlanti piazzati lungo le pareti. Erano entrambi vestiti in costumi vittoriani in cuoio e lattice di taglio perfetto, la pelle bianca come il gesso e i capelli come raso nero. Per Jared sembravano una visione feticista e allucinata di Jonathan e Mina Harker, un'improbabile sovrapposizione di pudicizia e perversione, ma interpretavano alla perfezione quella visione, per improbabile che fosse. «È decisamente un inferno», diceva la donna. La sua voce parve confermare i sospetti di Jared sul suo sesso. «Macché», ribatté il ragazzo, che pur essendosi accostato al suo orecchio fu costretto a gridare. «È molto, molto peggio.» Il ragazzo non era esattamente il tipo di Jared. A lui piacevano i sottomessi muscolosi, i corpi duri ma cedevoli capaci di sostenere ogni genere di appassionata tortura gli accadesse di escogitare. Aveva sempre trovato un po' noioso il lato gotico del sadomaso e del feticismo, un po' troppo teatrale per i suoi gusti. Ma quel ragazzo aveva qualcosa di diverso, qualcosa di così imprevisto con quegli zigomi alti e sporgenti e quegli occhi infossati, e Jared fu preso del tutto alla sprovvista dal guizzo che sentì nei jeans. Chiese al barista un'altra tequila e fece un cauto passo in direzione dei due. «L'inferno ha un'acustica migliore», stava gridando il ragazzo. «E qualcosa che vale la pena di ascoltare», rispose la donna sempre gridando. «Mi sembra di capire che non siete particolarmente colpiti», intervenne Jared, forte da farsi sentire, e i due lo squadrarono freddamente con i loro occhi truccati. «Aspetta, non me lo dire», disse il ragazzo, con l'indice alzato per dare maggior enfasi alle sue parole. «Questo qui è l'innamorato di quel povero stronzo malconsigliato, e lo abbiamo colpito nei suoi affetti.» «O forse è solo un critico di qualche rivistucola», replicò la sua compagna. Ora che li aveva di fronte Jared si rese conto che erano gemelli. «No», rispose sorridendo, mostrando che sapeva stare allo scherzo. «È solo un povero scemo che non aveva di meglio da fare stasera.» «Oh», disse il ragazzo. «Così è meglio. Così non dobbiamo fare le persone educate davanti a questa lagna.» Jared scosse la testa e bevve ancora un sorso di tequila prima di rispondere.
«Non è il caso. Uno di voi due per caso ci capisce qualcosa di quello che sta succedendo?» Il ragazzo lanciò un'occhiata verso il tizio nudo mascherato da alligatore. «Be'», rispose dopo un momento, «sull'argomento abbiamo opinioni diverse. Io sono convinto che sia tutto un infelice equivoco. Il vero artista è rimasto bloccato nel traffico o rapito o qualcosa del genere, e quello lì è semplicemente un povero demente che si trovava a passare e si è infilato al suo posto. La vicinanza tra le sue allucinazioni e le attese di questo pubblico è tale che nessuno si è accorto di niente. Mia sorella viceversa ritiene che si tratti di una brillante metafora della strisciante yuppizzazione del...» La sorella lo interruppe con un colpo sul braccio: non forte ma lui mandò un gemito da ferito e si strofinò la spalla. «Hai un nome?» chiese, tendendo la mano inguantata a Jared come se si aspettasse da lui un baciamano con inchino. «Oh, sì, scusa.» Strinse la mano tesa. Il guanto di pelle era morbido come la seta e la stretta di lei era ferma ma non virile. «Jared. Jared Poe. Faccio il fotografo.» «Jared Poe? P-O-E, Poe?» disse il ragazzo massaggiandosi ancora la spalla e lanciando un'occhiataccia alla sorella. «Stai scherzando, vero?» «Per niente», rispose Jared, finendo il drink. «Purtroppo no. È il mio nome vero.» La sorella fece teatralmente un passo indietro, spalancò le braccia e si schiarì la gola prima di cominciare a parlare, una voce ampia e più profonda di quella dello sventurato che continuava a blaterare dagli altoparlanti. Teneva la testa alta mentre parlava, gli occhi fissi su un punto al di là della polvere e delle travi del tetto, e pronunciava ogni sillaba con una perfetta dizione scenica. «'Ma il Corvo, posato solitario sul placido busto, pronunciò solo «'Quell'unica parola, come riversando in quella sola parola tutta la sua anima. «'Nient'altro poi pronunciò, non una piuma agitò... «'Finché io mormorai, o poco più: Altri amici sono già fuggiti via...'» A questo punto un tizio in piedi dietro di loro si girò e la zittì. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. «Per carità! Rischi di perderti la quotazione del maiale della settimana scorsa.» Il tizio lo guardò male e tornò a voltarsi verso il performer. «È stato eccellente», disse Jared, e il ragazzo rivolse alla sorella uno sguardo al tempo stesso di gelosia e di fierezza.
«Lucrece è una spaventosa esibizionista», commentò. «Meglio che stare a sentire quell'imbecille», replicò Jared, usando il bicchiere vuoto per indicare l'alligatore di Wall Street. Lucrece sospirò e rivolse un mezzo sorriso a Jared. «Be', non è un gran che come complimento, ma grazie lo stesso.» Di nuovo il tizio si girò con uno «shhhhhhhh» più forte di prima, e il fratello rispose mostrandogli la lingua. «Se a voialtri lo spettacolo non interessa, perché non ve ne andate da qualche altra parte?» fece quello. «Non ha torto», disse Jared ai gemelli. «Ho paura che se sento ancora questa merda mi viene da vomitare.» Il tizio scosse la testa e tornò a voltarsi verso il piccolo palco. «Sinceramente mi fa pena la gente come voi, che non è aperta a nuove esperienze.» «Oh Gesù Cristo in carriola!» esclamò Lucrece, e presi per mano il fratello e Jared li guidò attraverso il banco di nebbia delle sigarette e la massa di corpi mormoranti verso la rampa di carico, unico ingresso e uscita visibile della galleria, e li condusse fuori nella notte. Fuori, l'aria afosa sembrava quasi fresca dopo il capannone gremito. Camminarono verso nordest lungo Market Street, allontanandosi dal fiume e dai suoi miasmi. Quando Jared azzardò che forse quella parte della città non era esattamente il posto migliore per una passeggiata notturna, Lucrece fece una risata sommessa e gli chiese di quale zona di New Orleans fosse. Il fratello, di cui lui non aveva ancora saputo il nome, tirò fuori una piccola borraccia d'argento di brandy che si spartirono svoltando da Market e avventurandosi tra altri edifici fatiscenti, muri diroccati e tetti di lamiera separati da strade abbandonate a se stesse da tanto tempo che ormai c'erano più buche che asfalto. La combinazione dell'alcol e della compagnia dei due gemelli andò alla testa di Jared, distraendolo e disorientandolo. Ben presto si accorse che non sapeva più dove si trovavano. Niente gli appariva familiare, o meglio tutto gli appariva vagamente familiare: alcuni angoli del quartiere dei magazzini che non erano stati ancora adattati ad abitazioni per yuppie ma per il momento erano stati lasciati come decadente indicazione di un'epoca in cui la zona era piena del rumore e dell'andirivieni di attività dimenticate. «Dove diavolo stiamo andando?» chiese Jared alla fine, e percepì nella sua voce l'incertezza che vi si era insediata a un certo punto tra la tequila e il brandy.
«Che differenza fa?» disse il ragazzo, ma Lucrece rispose: «Da noi. Ci siamo quasi». Arrivarono all'inizio di un vicolo semiostruito da una barricata fatta con le carcasse di due auto abbandonate e un frigorifero guasto. Mentre i gemelli lo precedevano, uscendo dalla fievole copertura dell'illuminazione stradale, Jared si fermò, si appoggiò al cofano di una delle due macchine e cercò inutilmente di schiarirsi le idee. Non era mai stato tanto a Nord da dover camminare su una lastra di ghiaccio, ma pensò che la sensazione dovesse essere la stessa, un passo incerto dopo l'altro che lo allontanava sempre di più dal terreno solido e sicuro. Il ragazzo si voltò e lo guardò dall'ombra, lo spicchio più buio tra i muri alti e neri. «Jared, vieni o no? Lo sai che non è prudente startene lì da solo.» Il suo tono era impaziente e divertito, vagamente petulante, e Jared si accorse che gli era venuto duro. Duro per quel ragazzo bello e sarcastico, vestito come un William Gibson in versione Londra fine Ottocento, e, probabilmente, duro anche per la sua gemella. «Davvero, Jared, Benny ha ragione. C'è brutta gente in giro.» La voce veniva da un punto vicino alle sue spalle. Ruotò su se stesso troppo in fretta, quasi perse l'equilibrio, quasi cadde a faccia in giù sul marciapiede dissestato. Lucrece era accanto al vecchio frigorifero, ma lui avrebbe giurato che era lei a guidare il gruppo, che era già scomparsa in fondo al vicolo davanti al fratello. «Come... come hai fatto?» Lei si limitò a sorridergli. «Te l'ho detto, le piace mettersi in mostra», ghignò Benny. «Una volta ha letto un libro, ecco tutto.» Lucrece gli passò accanto, continuando a sorridere con il suo sorriso enigmatico, lo prese di nuovo per la mano, e i tre si immersero insieme nell'ombra. Jared ha gli occhi chiusi e non parla da quasi un'ora. Lascia che i ricordi si depositino su di lui come il limo sul fondo fangoso di un fiume, come la pioggia che batte su Ursulines, che batte sul tetto e le finestre dell'appartamento. Lucrece ha trovato un pettine d'argento e gli sta pettinando i lunghi capelli tenendogli la testa in grembo. «Devi dirmi tutto quello che sai», le dice infine, e i denti del pettine esitano, attardandosi nel leggero avanzare nella sua capigliatura. «Non è molto», risponde lei dopo un momento. «Probabilmente non è
molto più di quanto sai tu, Jared.» Apre gli occhi e scruta attentamente il volto di Lucrece. «Harrod sapeva che non ero stato io, vero?» Lei ha un sussulto quando sente pronunciare il nome del pubblico ministero, rivedendo l'immagine del procuratore dagli occhi grigi, John Henry Harrod, affilato come la mannaia di un macellaio, come le zanne affamate di un lupo da cartoni animati. «Sinceramente credo che a Harrod non gliene fregasse niente, in un senso o nell'altro. Aveva bisogno di un assassino e tu eri a portata di mano. Niente di personale...» «Cazzate», protesta Jared. Chiude di nuovo gli occhi perché sa che il tono aspro della sua voce le fa male e non vuole vedere altra sofferenza sul suo viso, sapendo che è da vigliacchi non guardare, e non guardando lo stesso. «Harrod ha preso due piccioni con una fava. Liquida l'artista finocchio e contemporaneamente fa contenti tutti gli elettori finocchi.» Lucrece riprende a pettinargli i capelli, in lunghi gesti uguali, come avendo ancora una speranza di calmarlo, di portargli qualche briciola di conforto. A voce bassissima dice: «Gli omicidi non sono cessati, Jared». Ora lui riapre gli occhi, la fissa senza parole, incredulo, mentre lei prosegue. «Televisione e giornali non danno molto peso alla cosa. Cercano di metterla a tacere, credo, parlando di omicidi per emulazione. Nessuno vuole ammettere che possa essersi trattato di un errore, soprattutto...» Si interrompe, volta la testa verso il letto dove il corvo è ancora appollaiato. Jared finisce la frase al suo posto. «Soprattutto ora che l'uomo che avevano messo in prigione si è beccato nella pancia il manico affilato di un cucchiaio ed è sepolto al Lafayette Cemetery.» «Già», mormora lei, e l'uccello nero gracchia. I gemelli occupavano l'intero ultimo piano di uno dei due edifici che fiancheggiavano il vicolo. Jared si voltò a guardare la strada da cui erano arrivati, la luce fioca e sporca in fondo al vicolo, mentre Lucrece apriva una porta antincendio di acciaio con una grossa e antiquata chiave di ottone presa dalla borsa. Oltre la porta c'era una scala così stretta che Jared dovette salirla quasi camminando di traverso. In cima c'era un'altra porta metallica, dotata di uno spioncino e di tre chiavistelli. Lucrece pescò altre chiavi, sbloccò le serrature una dopo l'altra e spinse il battente che si aprì
lentamente con un cigolio rugginoso. Tastò il muro all'interno e fece scattare un interruttore, accendendo una fila di lampadine nude appese in alto tra le travi del soffitto. «Cristo», mormorò Jared seguendo Benny oltre la soglia. «Accidenti. Voi due non fate le cose a metà, eh?» «Che senso avrebbe?» chiese Benny, ma Jared non lo ascoltava, troppo colpito da quello che i due avevano fatto del piano superiore di quel vecchio magazzino: i rifiuti di una città trasformati in incredibile eleganza, spazzatura modellata nella più inverosimile opulenza. C'erano rottami di auto e pezzi di macchinari irriconoscibili saldati insieme a formare tavoli e mobili, tende traslucide fatte di plastica abilmente pieghettata come divisori tra gli ambienti, frammenti di vetro inseriti nelle pareti che scintillavano come pietre preziose. L'unico elemento del mobilio che sembrava utilizzato secondo la sua funzione originaria era un enorme letto a baldacchino posto verso il centro del loft. Il tutto era laccato in varie sfumature di rosso e nero e luccicava come bagnato sotto le luci. «Accomodati», disse Benny, indicando una poltrona accanto al letto. «Prendiamo qualcosa da bere.» Jared obbedì, troppo ubriaco e confuso per poter fare altro. La poltrona era ricoperta di un tessuto di velluto cremisi scuro e il suo telaio spigoloso era fatto con ossa che sembravano umane tenute insieme da colla e aste di metallo. «Sono vere?» chiese a voce alta ai gemelli che erano dietro una delle tende di poliuretano, figure indistinte che si muovevano come immerse in un'acqua fredda e oleosa. Si sentì un tintinnio di cubetti di ghiaccio e la risposta di Lucrece. «Sì, certo che sono vere.» Jared fissò a lungo i braccioli, lunghe ossa che terminavano in pugni scheletrici, uno rivolto in alto verso il soffitto, l'altro verso le assi nude del pavimento. «In questa città è molto più facile procurarsi ossa vere che artificiali», aggiunse Benny. «Lo sapete», continuò Jared, parlando perché la sua voce era una compagnia migliore della sua immaginazione, «che c'è gente che la vedrebbe come una stronzata abbastanza disgustosa?» Benny sgusciò da un taglio invisibile nella plastica, con un bicchiere per mano. «E tu, Jared Poe? Tu sei uno di quelli? Tu la vedi come una stronzata abbastanza disgustosa?» Jared prese il suo drink, un whisky liscio con ghiaccio, e lo assaggiò con cautela. Benny sospirò e scosse la testa. «Avanti, scemo. Cosa vuoi che ci
sia? Mica ti abbiamo portato qui per avvelenarti.» Il liquido ambrato scese lungo la gola dandogli una piacevole sensazione di calore, una marca che non riconobbe, probabilmente qualcosa di più costoso della roba che era abituato a bere lui. «È notevole, veramente notevole», disse, prendendo un altro sorso dal bicchiere. «Che cosa?» chiese Lucrece che gli era arrivata silenziosamente alle spalle. «Il nostro appartamento o il tuo drink?» «Tutti e due», rispose Jared. «Abbiamo fatto quasi tutto noi», spiegò Benny, sedendosi sull'angolo del letto vicino a Jared. «Questo no, è ovvio», precisò toccando il letto con il palmo della mano. «Questo lo abbiamo trovato da un antiquario in Magazine Street. Risparmiato per mesi, ma ne valeva la pena...» Lasciò scorrere via quell'ultima frase ambigua. Lucrece si sedette accanto al fratello sorseggiando dal suo bicchiere. Di nuovo Jared fu colpito dalla somiglianza tra i due, riflesso maschile e femminile dell'identico viso perfetto. «Allora, signor Jared Poe, che genere di fotografie fai?» chiese Lucrece, cingendo con un braccio la vita del fratello. «Be'», rispose lui, osservando ogni loro mossa. L'erezione cominciava a essere un fastidio, e cambiò posizione sulla poltrona di velluto e ossa. «Dipende, se ho fatture da pagare o no. Se mi scade l'affitto, si tratta per lo più di matrimoni e bambini...» Benny alzò gli occhi al cielo con un'espressione schifata. «E per il resto?» lo sollecitò Lucrece. «Per il resto, be'... Sto mettendo insieme un portfolio di scultura e architettura funeraria dell'Ottocento.» Fece una pausa, e poi riprese quasi riluttante, in una sorta di ammissione di colpa: «E qualche volta fotografo quelli che incontro nei cimiteri». «Ah», fece Benny con un improvviso lampo di interesse negli occhi. «Visto, Lucrece? Lo sapevo che non era il solito artista fallito.» «Sì, be', non ne sarei così sicuro», rispose Jared accigliandosi. «Avete mai notato quanti sono quelli che fanno fotografie nei cimiteri?» «Il punto è», intervenne Lucrece rivolta non a Jared ma al fratello, «se è bravo o no.» «Se ci mette o no il cuore», aggiunse Benny. Finì di bere, depose il bicchiere a terra, ai suoi piedi. I cubetti di ghiaccio tintinnarono lievemente. «In che senso?» chiese Jared, e Lucrece alzò le spalle.
«Chiunque è capace di puntare una macchina fotografica e fare clic, Jared», spiegò poi. «Fottutissimi turisti yankee in giro panoramico sull'autobus lo fanno tutti i santi giorni della settimana. Il punto è se tu capisci realmente o no...» «... i morti», completò Benny. «Dopo tutto sono le loro case quelle che metti su celluloide e carta, giusto?» Jared fissò per qualche attimo Benny negli occhi prima di rispondere, sentendosi improvvisamente sperduto e sciocco, dentro fino al collo, o forse completamente fuori del suo elemento. Gli occhi di Benny erano dello stesso verde brillante di quelli della sorella, il verde dello smeraldo non lavorato. «Giusto», disse infine, ricordando solo vagamente la domanda. «Giusto.» «Perché non basta apprezzare i morti», proseguì Benny. «Rubare semplicemente la loro immagine e chiamarla arte. Non c'è...» «... intesa», concluse Lucrece, e Jared si rese conto che quell'abitudine di completarsi le frasi a vicenda cominciava a fargli venire i brividi. «Qualsiasi genuina estetica mortuaria richiede, anzi esige, che l'artista non tratti i morti come dei semplici oggetti. Occorre vederli come opposti dinamici della vita, non vasi vuoti privati di tutto tranne che del potere di renderci nervosi, timorosi della nostra mortalità.» «E l'esibizionista sarei io», commentò Lucrece, giocherellando distrattamente con un dito con i cubetti di ghiaccio nel bicchiere. Jared si sforzò di far passare quello che aveva detto Benny attraverso l'alcol che gli annebbiava la mente. Scosse la testa. «No, voglio dire, è una cosa molto, ehm, molto ben formulata...» «Già, non è straordinario che uno così carino sia anche intelligente?» miagolò Lucrece, sorridendo e toccando le labbra del fratello con la punta dell'indice bagnata di whisky. «Ma non lo abbiamo mica portato fin qui solo per parlare di lavoro, no?» le disse Benny, e lei scosse la testa e gli diede un rapido bacio sulla guancia. Improvvisamente Jared sentì una vampata di calore, e capì che era arrossito, e che molto probabilmente i gemelli se n'erano accorti. «Sarebbe terribilmente, terribilmente poco fine», disse Lucrece, e Benny voltò la testa baciandola sulle labbra. Il rigonfio nei jeans di Jared rispose immediatamente come se qualcuno gli avesse attaccato un filo invisibile alla punta del pene e gli avesse appena dato uno strattone.
«Non saprei», disse Benny tirandosi indietro. La luce bianca si infranse su un sottile filo di saliva che univa le loro labbra. «Forse non è all'altezza. Forse ci siamo sbagliati ed è solo uno che posa come tanti...» Jared deglutì con uno sforzo, sentendosi improvvisamente la bocca e la gola secche. Desiderò che il suo bicchiere non fosse già vuoto, ma non voleva spezzare quel momento chiedendone ancora. Si agitò nervoso nella sua strana poltrona. «O forse non gli interessano i ragazzi», disse Lucrece caricando la voce di rammarico, e la sua lingua passò velocissima sul labbro inferiore di Benny. E allora Benny sussurrò maliziosamente: «O forse non gli interessano le ragazze». «Centrato», disse Jared. Aveva posato il bicchiere sulla mano scheletrica rovesciata e aveva messo le mani in grembo per coprirsi, imbarazzato dal proprio imbarazzo. Lucrece si allungò all'indietro, scostandosi dal fratello, con sul viso una maschera quasi comica di esagerata delusione. Benny la lasciò andare, ma seguì con lo sguardo la sua ritirata. «Nemmeno le ragazze che una volta erano ragazzi?» domandò. Jared colse il tono tagliente della domanda un attimo prima che Lucrece desse uno schiaffo al fratello. Non era un buffetto scherzoso, e il rumore della mano contro la guancia risuonò forte nell'appartamento. «Troia», sibilò Lucrece, e Jared ebbe l'impressione che sulle sue labbra fosse apparso un vago accenno calcolato di sorriso. «Touché», disse Benny. Ci sono fili dappertutto, pensò Jared, non solo alla punta del mio uccello. Quella era una scena provata e riprovata innumerevoli volte, era chiaro, perfezionata in privato e con la pratica. «Pazienza», disse Lucrece, e si alzò dal letto. «Per fortuna guardare mi piace. Non ti secca se guardo, vero, signor Poe?» «Quindi eravate gemelli identici?» chiese lui, domandandosi se non stesse facendo un passo di troppo, se quello non fosse un punto troppo delicato per Lucrece, se non stesse rischiando di far saltare la possibilità di concludere con Benny. Ma lei si strinse nelle spalle, si scostò i capelli da un lato e disse: «Tanto tempo fa». «A volte», disse Benny togliendosi il soprabito di pelle, «penso che mia sorella non mi perdonerà mai per non aver fatto il passaggio con lei. Per aver rovinato la scena, per così dire.» «Tu le palle non le hai mai avute», replicò Lucrece, e ora sì che sorride-
va, un sorriso accorto, segreto, che diceva che lì c'erano così tante cose che Jared non avrebbe mai neppure potuto sperare di capirne la metà. «Mai avuto le palle.» Mentre Benny cominciava a sbottonarsi il gilet Jared si alzò dalla poltrona di ossa, muovendosi lentamente, come se ogni sua azione e reazione dovesse ricevere un punteggio, e raggiunse il gemello maschio sul letto. Lucrece li lasciò soli il tempo di versarsi ancora da bere, poi tornò con la bottiglia e prese il posto di Jared in poltrona. Jared si strofina le tempie desiderando che vi fosse qualcosa di semplice come il dolore a pulsare lì dentro. È in piedi davanti al corvo, lo sovrasta, e l'uccello lo guarda con occhi attenti, vigili. Lucrece è ancora seduta sul pavimento della camera da letto dietro di loro, e ha ancora in mano il pettine d'argento. «Da dove dovrei cominciare?» chiede, e la domanda è posta all'uccello o a Lucrece o a se stesso o a tutti e tre. «Non lo so con certezza», risponde Lucrece. Quando Jared si volta, vede che ha tra le dita qualche filo dei suoi lunghi capelli neri, e li fissa intensamente. Come uno che maneggi una sacra reliquia, pensa lui, e il pensiero gli dà la nausea. Che cosa sono per lei? Che cosa crede che io sia diventato? «Credo che da te ci si aspetta che trovi l'assassino di Benny e che lo fermi. Credo che questo è il motivo per cui sei stato riportato qui.» «E Harrod e i poliziotti e quel giudice fottuto? Non fanno anche loro parte di questa storia?» Gli occhi di Lucrece si staccano riluttanti dal prezioso trofeo dei suoi capelli, si concentrano su Jared ritto ai piedi del letto. Il letto che divideva con il suo gemello. Il letto che Jared vide per la prima volta nel loro loft tanto tempo prima. Gli occhi di Lucrece appaiono duri e antichi quanto la stessa New Orleans, umidi quanto la notte. «Non ne sono sicura, Jared. Forse. Ma forse no. È il corvo quello che dovrebbe sapere che cosa deve succedere, e per qualche motivo non lo sa.» «Mi hanno incastrato», dice Jared. L'uccello distoglie lo sguardo e dà una beccata al duro legno della testata. «Penso che dobbiamo essere sicuri, Jared, prima che tu faccia qualcosa a cui poi non si può rimediare.» «Quei fottuti poliziotti si sono presi il disturbo di essere sicuri prima di arrestarmi? Prima di informare gli stramaledetti giornali che Benny l'avevo
ucciso io? Quanto erano sicuri, Lucrece?» Si accorge del tono aspro, tagliente che avvolge le sue parole, della collera che cresce di intensità. «Non credo che tu possa punire tutti, Jared. Un sacco di gente ha fatto un sacco di idiozie. Penso che tu debba concentrarti su quello che ha dato l'avvio al tutto.» «Ma non lo sai per certo, vero?» Lei sospira, un verso spezzato come il rantolo di un moribondo. «No, Jared, non lo so.» Jared allontana lo sguardo da lei, dall'inutile uccello, e trova il suo riflesso che lo guarda dallo specchio sopra il tavolino da toeletta di Benny, pallida imitazione di doppelgänger di un morto, pelle color cenere spenta. Ma c'è anche il fuoco, vivida brace di vendetta, in quegli occhi morti e vivi. «Ti prego, Jared, dammi solo la possibilità di scoprire il possibile. Conosco delle persone che potrebbero esserci d'aiuto.» Jared si avvicina allo specchio e il suo riflesso lo imita facendo un passo avanti. A un angolo della cornice è appesa una maschera bianca da martedì grasso, ciondola penzolando dall'elastico. Jared la prende in mano, scruta la smorfia beffarda e feroce da clown stampata nel cuoio raggrinzito e screpolato. La maschera ha un sorriso che un volto umano non potrebbe mai imitare, le sottili labbra scarlatte ripiegate su se stesse, la striscia nera che attraversa le orbite vuote e ricorda il muso di un procione rabbioso. Era stato Jared a regalare la maschera a Benny, l'aveva comprata da un venditore ambulante l'ultimo carnevale che avevano passato insieme; ricorda gli occhi di smeraldo di Benny che lo guardavano attraverso quelle fessure. «Sì», dice Jared a Lucrece, indossando la maschera da pagliaccio sopra il suo viso ancora più crudele. «Parla con quelle streghe di tuoi amici e vediamo che cosa dicono. Non starò con il fiato sospeso, ma tu chiedi lo stesso.» Ora sono i suoi occhi a riempire lo spazio destinato a quelli di Benny, i suoi occhi che come la brace di ieri sera chiedono solo di essere attizzati, che hanno bisogno solo di una minima esca per tornare a divampare come un inferno. Non c'è nel suo viso niente di più vivo di questa maschera, niente se non questi occhi che valga la pena mostrare: decide di tenerla. «Nel frattempo anch'io ho qualche domanda da fare, Lucrece. E so chi ha le risposte.» 4
I barboni radunati attorno ai cancelli di Jackson Square parlano sottovoce tra loro, misteriosi come una confraternita cabalistica. La pioggia è un po' diminuita, tanto da lasciarli uscire da portoni e ripari e stringersi presso gli alti cancelli di ferro. Si sono raccolti all'ombra della cattedrale, questa sera non diversamente da tutte le altre, aspettando l'inizio di un'altra nottata di piccoli drammi e transazioni commerciali. Alcuni di loro sono senza casa, altri fingono soltanto, invidiosi dell'indipendenza, della sicurezza, della libertà di quelli che lo sono davvero. «Ma, voglio dire, non vi pare che è una specie di pervertito?» chiede agli altri il ragazzo alto, dal lungo abito nero, il ragazzo che si fa chiamare Michelle, lanciando un'occhiata al di sopra della spalla all'uomo davanti al Presbytere. «Cristo, ci fai la cortesia di darci qualche fottuto elemento per capire?» La ragazza che gli ha risposto si accende una sigaretta, espira dalle narici forate e scruta attraverso il fumo l'uomo che se ne sta immobile di fronte al museo. «Senza offesa, Mikey, ma ti sei guardato allo specchio ultimamente?» «Nemmeno tu sei precisamente il Duca», dice uno dei ragazzi, e tutti ridono. «Nemmeno tu sei proprio una tipa da sogno.» Michelle guarda ancora da sopra la spalla magra l'uomo con l'impermeabile di lusso. «Scommetto che ci ha i soldi», dice. «Scommetto che ci ha un sacco di soldi.» «Hai un solo modo per saperlo», dice qualcuno, e di nuovo tutti ridono. «O mangi questa minestra...» lo schernisce la ragazza, poi torna a immergersi nella lettura del tascabile malridotto che si porta dietro da giorni. Sulla copertina c'è stampata una sola parola, SETA, con la faccia di una ragazza dai capelli bianchi che guarda il lettore attraverso una rete acchiappasogni indiana. Michelle sa che aspettano tutti di vederlo alla prova, che deve dimostrare di essere davvero uno di loro, non più il pivellino del gruppo. Questa è la sua prima settimana in strada, ma già gli piace più della vecchia vita a Shreveport. Almeno così lo pagano, e può dire la sua sugli uomini con cui fa sesso anziché aspettare terrorizzato che il patrigno gli piombi tutte le notti in camera, ubriaco e così rumoroso che è impossibile che la madre non senta. Ma da lei mai una parola, mai nemmeno una domanda, un rifiuto della realtà spesso come lo strato di Max Factor che si spalma ogni mattina sulla faccia per dimostrare venticinque anni anziché cinquanta, spesso
come il grigio sudario di disperazione suburbana da cui è scappato con una carta di credito rubata e un biglietto dell'autobus per il sud. «Impara a prenderla da uomo», gli diceva il patrigno se lui si permetteva di piangere. «Non c'è differenza con il modo in cui ti tratterà il mondo. Non c'è differenza con questo schifo di mondo.» «Guarda e impara, Robin», dice alla ragazza. Tutti ridono ancora mentre lui si allontana dal gruppo, sentendosi immediatamente più vulnerabile, separato dal branco, per conto suo. L'uomo con l'impermeabile lo nota e azzarda un sorriso, lascia cadere sull'acciottolato la sigaretta che sta fumando e la schiaccia con il tacco di uno dei suoi mocassini. Non possono esserci più di dieci metri dai cancelli al punto in cui l'uomo lo aspetta, davanti al Presbytere, un breve percorso a ostacoli di turisti e attori di strada, ma il tratto sembra almeno tre o quattro volte più lungo. Ora che è arrivato davanti all'uomo, Michelle sta sudando. «Sei carino», dice l'uomo, e Michelle gli sorride cauto. «Ma scommetto che te l'hanno detto in tanti, vero?» Mi hai preso per un idiota? chiede all'uomo la voce dura, da incallito veterano della strada, la voce potente e senza paura che sta coltivando da cinque giorni. Credi che non lo so che queste cazzate le dici a ogni ragazzo che ti vuoi fare? Ma sbatte le palpebre, una sola volta, pudico come le ragazzine sceme della sua vecchia scuola che si scioglievano davanti agli atleti dell'istituto. «No. Non me l'ha mai detto nessuno.» «Be'», ribatte l'uomo, «allora vuol dire proprio che viviamo in un mondo di merda, ti pare?» e in questo momento l'uomo sembra così tanto il patrigno di Michelle che lui quasi si ritira, si mette la coda tra le gambe e torna di corsa al sicuro tra gli altri, che lo stanno osservando dai cancelli. «Proprio», dice invece. «Già, signore, a volte è proprio così.» Dal suo posto a sedere sui gradini di pietra davanti allo spiazzo, Robin vede l'uomo che conduce Michelle nel vicolo stretto tra il Presbytere e la cattedrale. Una parte di lei prova pena per lui, la stessa parte che prova pena per tutti loro. La parte debole, si dice, e quindi tiene per sé i suoi pensieri e torna a concentrarsi sul rap sparato dalla radio che ha ai suoi piedi. Quando hanno finito l'uomo dà a Michelle un biglietto da venti e brontola richiudendosi con difficoltà la lampo dei pantaloni. Michelle vorrebbe sputare, togliersi dalla bocca il sapore piatto, invadente dell'uomo. Le ragazze per bene ingoiano, pensa. Non sa più dove l'ha sentita, ma probabilmente l'ha letta una volta su una T-shirt. È ancora in ginocchio, e l'antico
acciottolato di Père Antoine Alley puzza di immondizia e foglie di magnolia in decomposizione e del piscio di tutti i turisti ubriachi che si sono infilati nella stradina per alleggerire la vescica. Le pietre gli fanno male alle ginocchia e si alza, lentamente, controllando che non si sia sgocciolato sulla calzamaglia. «Dicevo sul serio, prima», dice l'uomo. «Sul fatto che sei carino, dico. Non dovresti nemmeno stare qui in strada. Dovresti trovarti un lavoro decente, tipo fare spettacoli di travestiti o qualcosa del genere, sai? Queste strade ti metteranno nei casini, bimbo. Nessuno rimane carino come te stando troppo qua in giro.» Ora Michelle è solo, segue con lo sguardo l'uomo che si allontana in fretta da lui, verso le luci vive e il rumore e l'assoluzione dell'anonimato di Royal Street. Michelle sente qualcosa di fresco sul viso e si rende conto che la pioggia ha ripreso a cadere, per ora solo una pioggerella leggera, ma si sentono anche i tuoni e lui sa che tra qualche minuto probabilmente sarà un acquazzone. Abbassa lo sguardo sui venti dollari che ha in mano, il biglietto spiegazzato di carta e inchiostro verde, e pensa che se solo ne avesse avuto uno ogni volta che quel cazzo di patrigno se lo è fatto, cazzo, ora avrebbe un appartamento a Pontalba. Si sta avviando verso la piazza, ansioso di mostrare a Robin e agli altri che non se l'è filata, e ancora più ansioso di uscire da quel vicolo puzzolente. Il tuono scuote di nuovo il cielo sopra di lui, romba come il ruggito di un'immensa belva feroce, e Michelle decide che almeno si è meritato una tazza di caffè e una decina di minuti al coperto. Appena un breve intervallo prima del prossimo cliente, dice a se stesso. Magari offrirà un caffè anche a Robin. «Ti fanno paura i tuoni, Michelle?» dice qualcuno, qualcuno che sta dietro di lui. Si gira di scatto, punta lo sguardo nell'ombra che affolla il tratto deserto di Père Antoine. «No», risponde al buio, e la sua voce suona esile e vulnerabile, altro che incallito veterano. «Neanche un pochino?» insiste la voce per niente convinta. «Tutta quella potenza sopra la testa, come il rumore del cielo che si spacca. Non ti fa paura?» «Sono solo tuoni», dice Michelle, sforzandosi di vedere chi gli parla, e il tuono si sente di nuovo, più vicino, più immediato, come se avesse sentito le sue parole, la negazione della sua autorevolezza, e se la fosse presa. «Allora hai molto coraggio, per essere... una bimba», ribatte la voce, e
l'uomo si fa avanti, dove Michelle può vederlo. Un altro uomo alto, con una giacca a vento nera, i capelli inzuppati di pioggia che gli pendono a ciuffi sul viso. Michelle non riesce a vedere i suoi occhi. «C'è qualcosa che vuole, signore?» chiede Michelle. Almeno questa volta è il tono di uno che ha le palle, quasi come il tono che, immagina, avrebbe Robin. Anche se quel tizio sta cominciando seriamente a fargli strizza, anche se l'urgenza di girare sui tacchi e fuggirsene al sicuro tra i cancelli di Jackson Square e la compagnia degli altri è così forte che gli è diventato quasi impossibile restarsene lì. «Voglio...» comincia a dire l'uomo, ma la sua voce è coperta dallo scoppio di un altro tuono. «Che cosa?» Michelle indietreggia di un passo, sperando che arrivi qualcuno, un barbone o un turista o perfino un fottuto poliziotto, chiunque, purché interrompa, spezzi l'incantesimo e gli dia la forza di muoversi. «Voglio parlare con te, Michelle», dice l'uomo. «Accadono delle cose, stanotte, di cui tu e io dobbiamo parlare.» «Non ho tempo per le chiacchiere», ribatte Michelle. «Devo guadagnarmi da vivere, io.» Quando si volta, le luci della piazza velate dalla pioggia sembrano vicinissime. Solo pochi passi e sarà di nuovo tra i suoi, di nuovo all'aperto. «Sarai pagato», dice l'uomo dietro di lui, «se è questo che ti preoccupa. Avrai quello che ti spetta. Per il tuo tempo.» «No grazie, signore», dice Michelle. «Credo che ha trovato la persona sbagliata.» Ora sta camminando verso gli altri, e si stupisce che le luci siano tanto più vivide già a un solo passo di distanza dalla voce vuota, untuosa di quell'uomo. Già comincia a sentirsi un po' stupido per essersi fatto spaventare così facilmente, pensa come lo tormenterebbe Robin se dovesse venirlo a sapere. Devi fare la pelle dura, bimba, sente che gli dice, se vuoi fare i tuoi giochetti nel Quartiere Francese. C'è un sacco di gente strana, là fuori... C'è un rumore di passi decisi dietro di lui, ora, e un'improvvisa fitta bruciante alla base della nuca. Sono stato punto, pensa, Gesù sono stato punto, ricordando quella volta che era finito in un nido di vespe infuriate dietro il garage della nonna. E poi la luce si fa di nuovo lontanissima, più lontana di quanto gli sia mai sembrato possibile. Un momento ancora e non c'è più, e lui è solo al buio, un buio freddo e totale. L'uomo che porta i nomi dei fiumi sa di non essere più come gli altri
uomini, che una parte del suo lavoro spaventoso lo ha modificato per sempre e non potrà mai più ritornare all'esistenza semplice e indolore che conduceva prima. Sapere questo a volte gli provoca una tale sofferenza che resta seduto da solo, per ore, in una stanza buia e piange per quanto ha perduto di sé. È una cosa terribile, lo sa, avere così poca scelta sul corso della propria vita, aver avuto così tante cose decise da altri prima ancora che lui nascesse. Essere soldato in un esercito di luce e sangue così segreto che non potrà mai esservi alcun riconoscimento dei suoi successi o dei suoi fallimenti, nemmeno il contatto più fuggevole con i suoi fratelli e sorelle compagni d'arme, per paura di essere scoperti. Gli invasori sono dappertutto, e i Loro agenti sono dappertutto. Un momento di debolezza, un piede in fallo, potrebbe significare molto, molto di più della semplice perdita della sua vita. Fa dei sogni in cui qualcuno (mai lui, mai) è stato debole, uno degli altri soldati senza nome, senza faccia che lavorano segretamente nelle città corruttrici del mondo. Nei sogni Loro camminano per le strade senza paura, diffondendo il contagio androgino, e il cielo brucia dei motori rombanti delle Loro astronavi da guerra. Spesso si sveglia da questi sogni urlando, raggomitolato nel letto inzuppato di sudore, con l'odore soffocante dei diesel e della carne arsa che ancora gli brucia nelle narici. Ma non resiste ai sogni; capisce che sono parte integrante della sua visione, parte di ciò che lo conserva forte e sicuro e puro. Annota i minimi particolari di ogni sogno, tutto quello che riesce a ricordare, in appositi quaderni neri che conserva in una stanza senza finestre nel centro della casa. Ora è quasi una settimana che c'è un nuovo sogno, e lui sa che significa che il tempo a disposizione è ancora meno di quanto pensasse. In questo sogno ha un paio di potenti ali nere, le ali di un fiero angelo vendicatore, che lo portano alto sulla morente città in fiamme di New Orleans. Le strade, in basso, sono piene di fuoco e di laghi di sangue che bruciano come benzina. I corpi sussultanti delle creature nella Loro forma più genuina, nel Loro aspetto primario, sono aggrappati a ogni muro e tetto. I Loro corpi lisci e asessuati, bianchi come ossa sotto il cielo notturno, gli umidi fori rossi tra le Loro gambe come le fauci a becco di un calamaro o di una piovra. Nel sogno le Loro voci si uniscono in un singolo orrido gemito e i Loro occhi neri e gonfi lo guardano con astio mentre passa sopra di Loro. La fine del sogno è sempre la stessa, la parte in cui l'uomo con i nomi dei fiumi guarda al di sopra della spalla l'ombra del corvo che cala fulmineo sopra la terra.
Michelle si sveglia in un luogo che sa di disinfettante e di muffa e di lattice. È sdraiato su un nudo tavolo metallico e c'è una luce violenta, bianca e accecante, che gli ferisce gli occhi e aggrava il dolore che ha alla testa. Ha le vertigini e la nausea e non vorrebbe altro che riaddormentarsi. Chiude gli occhi, annulla quella luce odiosa, e poi la voce dice: «E tempo che noi si parli, Michael». Sta cercando di trovare qualcosa da dire, qualcosa di cattivo e di appropriato - qualcosa che direbbe Robin - quando sente un rumore secco. Improvvisamente le narici gli si riempiono del tanfo corrosivo dell'ammoniaca. Tossisce e ansima convulsamente mentre gli ultimi pietosi brandelli di incoscienza vengono spazzati via e non resta altro che la luce che penzola alta sopra di lui e il freddo contro la pelle nuda. E la voce. «Ecco», dice. «Adesso mi capisci?» Michelle cerca di rispondere ma ha bocca e gola troppo secche, non una goccia di saliva, e gli sembra di avere la lingua grande il doppio, inutilizzabile. «Fai segno di sì se capisci quello che dico», dice la voce, e Michelle annuisce. Ha capito di avere mani e piedi imprigionati solidamente al tavolo con larghe cinghie di cuoio. Poi un bicchiere di acqua tiepida gli viene spinto contro le labbra e ne ingoia una sorsata. «A volte il sedativo fa questo effetto. Ti passerà presto e potrai parlare.» Il bicchiere ritorna e questa volta Michelle beve più a lungo, nota che l'acqua ha un vago sapore di cloro, come l'acqua di una piscina. Ma è una delizia mentre scende lungo la gola infiammata. Appena il bicchiere si allontana, cerca di parlare, ma al posto delle parole esce solo un raschio inintelligibile. «Te l'ho detto, passerà», gli dice la voce dell'uomo. Ora distingue vagamente la sua forma, intravista tra la luce abbagliante e gli occhi che gli lacrimano. «Dove sono?» gracida Michelle. La sagoma arretra di un passo, uscendo dal bagliore quel tanto perché la sua faccia cominci a prendere forma, i suoi lineamenti a mettersi lentamente a fuoco. Un volto magro e provato, il volto di un giovane dall'aspetto stanchissimo che sembra molto più vecchio della sua età. Michelle sbatte le palpebre, e ora vede gli occhi dell'uomo, occhi di piatto grigioverde come il cielo temporalesco di un pomeriggio di gennaio, occhi gelidi e al tempo stesso pieni di minaccia, di violenza.
«Le domande le faccio io», dice l'uomo senza scomporsi. «Questo...» riesce a dire Michelle, ma deve deglutire, recuperare con la lingua qualche goccia preziosa di saliva per inumidirsi la gola prima di continuare. «È un ospedale?» «No», risponde l'uomo. «Ma te l'ho già detto che le domande le faccio io, no? Risparmia le forze. Ti serviranno, Michael.» «Non... non chiamarmi così.» Michelle chiude gli occhi, ricordando che quella è la faccia che ha visto in Père Antoine, i capelli bagnati di pioggia e la puntura al collo, e la paura sale sommergendo il disorientamento. Non ha importanza dove si trovi, lo sa. Si trova in un brutto posto, in un posto molto brutto dove non dovrebbe stare. «È il tuo nome, no? È il nome che ti hanno dato i tuoi genitori.» Ora nelle mani dell'uomo c'è una piccola torcia elettrica nera. La usa per esaminare gli occhi di Michelle, come un medico, ma Michelle sa che quell'uomo non è un medico. «Non... non lo è più», dice Michelle, e chiude gli occhi che gli bruciano quando le dita e la torcia si allontanano. «Il mio nome è Michelle.» «Ma è un nome da ragazza, e tu non sei una ragazza, no?» Michelle ignora la domanda, come l'ha ignorata in passato tante volte. «Che cosa vuoi farmi?» chiede. L'uomo sospira, e Michelle sente il soffio improvviso dell'alito dell'uomo, freddo sul torace nudo. «Voglio farti qualche domanda.» «È questo che intendi fare? Farmi delle domande?» Questa volta l'uomo non risponde. Michelle prova a tendere le cinghie che gli bloccano polsi e caviglie. Il duro cuoio gli morde la pelle come la lama di un coltello smussato. «E inutile che cerchi di liberarti. Ti legherei di nuovo. Bisogna che tu lo sappia.» Michelle rinuncia a divincolarsi e passa la lingua sulle labbra screpolate che sanno di sudore e di rossetto. Inghiotte di nuovo prima di parlare, per essere sicuro di controllare la voce. «Se non avessi paura di me», dice, «non mi avresti nemmeno legato.» La risposta dell'uomo è un verso improvviso, tra il colpo di tosse e lo sbuffo infastidito, poi colpisce con forza Michelle con la mano. La testa di Michelle scatta di lato, colpisce violentemente il freddo metallo del tavolo. La bocca gli si riempie del sapore del sangue. «Devo prendere precauzioni, ragazzo, ma non prendermi sotto gamba, e non sopravvalutarti.» L'uomo tace e Michelle vede che ora sta ansimando,
il respiro viene fuori affrettato e forzato, un succedersi furioso di sibili, come una bestia presa al laccio o una vecchia disperata. «Se avessi pensato che tu costituissi un pericolo immediato per me o per altri ti avrei ammazzato su due piedi in quel fottuto lurido vicolo. Nell'ago avrei potuto metterci cianuro, se avessi voluto, sarebbe stato altrettanto facile. Più facile.» L'uomo si interrompe, inspira ed espira rumorosamente la sua esasperazione, e Michelle, che non trova altro da dire ed è ormai praticamente certo che non ne uscirà con le sue gambe, chiede: «Sei pazzo, vero?» Ringhiando, l'uomo si staglia davanti al bagliore della lampada chirurgica, e la luce gli disegna un alone attorno alla testa come l'aureola di un santo folle. Afferra la faccia di Michelle a due mani, mani enormi, mollicce, una per lato, con i pollici sopra gli occhi di Michelle come serpenti che si preparano a scattare. Ora il viso dell'uomo è a un palmo da quello di Michelle, i muscoli tesi a combattere la rabbia che spinge dall'interno. L'alito dell'uomo sa di marcio. «Dovrai trovare qualcosa di molto meglio di questo», dice, e sembra che le sue parole si appiccichino alle guance di Michelle come uno spruzzo di saliva. «Gesù! Davvero pensi che questa non l'avevo già sentita? Credi che basti questo per entrare nella mia testa?» La presa dell'uomo si stringe, le sue mani come una morsa, le ganasce d'acciaio si serrano. Michelle pensa che potrebbero sfondargli il cranio come un melone maturo se questa fosse la volontà dell'uomo, se volesse farla finita così presto, così facilmente. Ma Michelle sa che l'uomo non vuole concludere ancora, che quello che l'uomo vuole potrà prendere molto, molto tempo ed essere peggio della morte. «Il fatto è che ho già conosciuto dei pazzi», dice Michelle, e deve lottare contro la forza schiacciante delle mani dell'uomo per muovere la bocca. «E a sentirli erano come te.» «Due luglio 1947, pezzo di merda!» urla l'uomo in faccia a Michelle, come se questo dovesse dirgli qualcosa, dovesse spiegargli tutto. «Due luglio 1947, pervertito figlio di puttana! Adesso mi dici che cazzo è caduto dal cielo quella notte se vuoi restare vivo! Se vuoi solo la speranza di uscire vivo di qui!» Michelle deglutisce e pensa al patrigno e alla vita di merda che faceva a Shreveport, pensa alla libertà che ha sentito quando è sceso dall'autobus a New Orleans, a Robin e agli altri. Chiude gli occhi. «Ci sono delle cure per quelli come te», mormora. La mano che tiene il
lato destro della sua faccia lascia la presa e c'è un breve momento di sospensione del dolore prima che il pugno gli si abbatta sul naso spaccandogli il ponte e il mondo, misericordiosamente, torni a dileguarsi. L'uomo fissa sconsolato la cosa maciullata e sanguinante in cui ha ridotto la faccia del bel ragazzino, il sangue che gli sgorga dalle narici e dilaga sul lucido ripiano argentato raccogliendosi in due pozze scarlatte ai lati della testa. Il volto privo di conoscenza dipinto come una maschera carnevalesca, che lo schernisce con la sua menzogna di femminilità. Schernisce la sua debolezza, il triste fatto che lui è così facilmente manipolabile. Che anche dopo tutto il suo lavoro, tutti i suoi minuziosi esami e le sue accurate osservazioni, sia così facile farlo dubitare di se stesso. Guarda il sangue che gli macchia le nocche della mano destra, le dita ancora strette a pugno, le unghie che mordono la carne. Il rosso del sangue guasto del ragazzo dice: Sei così debole. Sei troppo, troppo debole. L'uomo si allontana di un passo dal tavolo e per poco non cade incespicando in una sedia. È stato un tale rischio farne due in una notte, prima il transessuale, ormai morto e in attesa di sepoltura, e ora questo finocchietto, non ancora nemmeno larva, solo un fottuto puttano bambino che gioca a travestirsi. E l'uomo sa che non dovrebbe portare niente in casa tranne quelli che hanno fatto il passaggio, che lo hanno fatto fino in fondo. Ha infranto una delle sue regole più sacre per colpa dei sogni e delle cose che ha visto dalla finestra, le cose-uccello tra le nuvole sopra il fiume, sopra la città. Perché aveva bisogno di risposte e aveva troppa paura per aspettare. Hai paura e allora fai casini, pensa. Fai casini e allora finisci morto. «Due luglio», dice sottovoce, e ride, una risata fredda per la propria stupidità. Si strofina le mani nervosamente su e giù sui pantaloni. «Questo qui non sa nemmeno chi sono, figuriamoci se sa del due luglio. Non sa un cazzo di niente!» Gira attorno al tavolo, accerchiando il ragazzo come uno squalo affamato ma incerto, chiedendosi come gli sia mai venuto in mente che quel bambino potesse essergli della minima utilità, sapendo che è stata una scelta fatta per necessità, per cieca disperazione. Se solo riuscisse a cancellare le orribili immagini dei sogni giusto per il tempo di riflettere più chiaramente, se solo riuscisse a capire perché ha la sensazione che questa notte qualcosa è cambiato. Perché dopo tanti anni di lavoro accuratissimo per individuare e fissare il ritmo dei Loro movimenti, ritmi prevedibili come le maree o le stagioni o le fasi lunari, perché a un tratto tutto sembra com-
pletamente cambiato. Non riesce nemmeno a ricordare bene quando ha sentito per la prima volta questo nuovo senso di urgenza, dopo che ha portato il transessuale nella sua casa, dopo che i test e le domande sono cominciate. Qualcosa dal cielo, forse. I tuoni? pensa, sforzandosi di ricordare che cosa ha chiesto al bambino sul tavolo a proposito dei tuoni, e se poteva essere importante. L'uomo lancia un'occhiata all'orologio a muro e vede che sono passati tre quarti d'ora buoni da quando il ragazzo ha perso i sensi. Come? Com'è possibile che sia passato tutto questo cazzo di tempo? Per essere sicuro controlla l'orologio che ha al polso. L'uomo smette di girare e resta immobile. Chiude gli occhi, concentrandosi su un piccolo punto di calma che tiene nascosto nell'anima, un punto così profondo che Loro non riusciranno mai a trovarlo. Qualcosa per tenersi occupato in una giornata piovosa, così dice sempre a se stesso quando ha bisogno di ritrovare quella parte di sé, e ora la pioggia sta proprio picchiando dura e gelida contro la finestra della stanza. C'è pace in quello spazio dentro di lui, o quanto di più vicino alla pace saprà mai trovare. Se riuscirà a procurarsi anche solo un brandello di quella pace, ce la farà a riprendere il controllo di tutta quella merda. E il controllo è la cosa più importante che c'è. L'uomo estende la calma in qualcosa di più grosso e in questo qualcosa si avvolge stretto. In piedi, ascolta il suo cuore e l'orologio sul muro, la pioggia che scende di fuori e il respiro incerto e acquoso del ragazzo sul tavolo. E lentamente, ma costantemente come il ticchettio cadenzato dei suoni che gli riempiono le orecchie, comincia a vedere la semplice soluzione scritta nell'incontestabile linguaggio della sua risolutezza. La prima volta che l'uomo vide Jared Poe fu due settimane dopo che ebbe ucciso il transessuale, da donna diventato uomo, che era stato intervistato alla televisione. Aveva sempre avuto fede nella provvidenza, o in qualcosa che poteva essere la provvidenza, e così, quando vide il volantino affisso alla bacheca degli annunci di un caffè del Quartiere Francese, capì. Stava prendendo una tazza di caffè africano nero e amaro al suo posto abituale da Kaldi's quando notò il pezzo di carta, fotocopiato in nero su carta giallo margherita e appiccicato accanto a una dozzina di altri manifestini che annunciavano concerti rock e gatti smarriti. Staccò il foglietto dal tabellone e lo lesse aspettando che il caffè si raffreddasse un po'. In cima, in grossi e severi caratteri gotici, era stampato ESPRESSIONE DEL
DOLORE. Sotto c'era una fotografia, malamente riprodotta, di una figura umana inginocchiata, a testa china. Un'altra in piedi la sovrastava con una frusta in mano. L'uomo non fu in grado di identificare il sesso dei due personaggi raffigurati. Lisciò il volantino sul piano del tavolo e lo lesse attentamente, più volte, per essere sicuro che non gli sfuggisse niente di importante. Oltre al titolo e alla fotografia, c'erano un paio di capoversi ritagliati da una recensione sul Village Voice che annunciava la scoperta del «legittimo erede di Robert Mapplethorpe: Jared Poe di New Orleans». L'articolo proseguiva definendo l'opera del fotografo «sublime devianza»: «Poe, seguace ma non certo imitatore... conosce le sottigliezze che occorre padroneggiare per la decostruzione totale del sesso e dei ruoli sessuali». Sotto la fotografia era stampato un indirizzo del Warehouse District, una galleria chiamata PaperCut, con date e orari. L'uomo, che allora si dava ancora il nome di Joseph Lethe, ripiegò accuratamente il manifestino e se lo infilò nel taschino della camicia. Il sabato seguente si fece portare da un taxi all'inaugurazione della mostra di Jared Poe. Ovviamente il PaperCut non era una vera e propria galleria, solo un vecchio magazzino vuoto da cui era stato spazzato via un poco (solo un poco) di sudiciume, con un'insegna che pendeva discretamente sulla facciata. All'interno c'erano una cinquantina o una sessantina di persone e un labirinto di sostegni di compensato su cui erano esposte le fotografie virate in seppia di Jared Poe, ognuna con un passepartout di cartoncino marrone e una cornice di acciaio rugginoso o lucido di cromatura. Joseph Lethe infilò un biglietto da cinque nella cassetta di plastica delle offerte libere accanto alla porta e si tenne al margine dei gruppetti sparsi di persone che circolavano per la mostra. Il cuore aveva cominciato ad accelerare quando il taxista aveva svoltato da Felicity in Market Street, e ora era ubriaco di adrenalina e del battito che andava all'impazzata. Eccolo lì, a muoversi in mezzo a Loro e ai Loro accoliti, corpi androgeni in lattice e cuoio e calze a rete. Facce pitturate di bianco come teschi, occhi neri come orbite vuote. Pezzi di metallo sporgenti da labbra e sopracciglia, gioielli come i resti di un incidente di fabbrica. Non facevano caso a lui, gli assassini in mezzo a Loro, procedevano tranquilli nelle loro pose svenevoli. Non si era mai sentito potente come in quel momento, circondato dal nemico e totalmente invisibile a Loro. Joseph Lethe aveva portato con sé uno dei suoi quadernoni gialli e un portamina. Si fermò davanti a ognuno di quegli abomini fissati ai cartello-
ni, stupito e affascinato dal fatto che Loro si lasciassero raffigurare così apertamente, i Loro perversi ritratti messi giù sulla carta, ostentatamente. Prese nota accuratamente delle fotografie, appuntandone titolo e numero di catalogo e aggiungendo sintetiche ma precise descrizioni di ciascuna. Quando si accorse che qualcuno stava sbirciando alle sue spalle si girò di scatto, coprendo i suoi appunti con una mano protettiva. L'intruso era una creatura alta vestita da donna, secca come uno spaventapasseri e pallida come un pezzo di gesso, come se ogni palmo esposto della sua pelle fosse stato spruzzato dello stesso bianco opaco. Indossava una T-shirt nera lacera con maniche e colletto strappati via, un paio di calzoni neri di stretch che non mostravano traccia dei suoi genitali, se mai ne aveva da nascondere. In mezzo alle sopracciglia scure e sottili era dipinto un singolo puntino rosso, come il bindi delle indiane. Sorrise, mostrandogli una dentatura perfetta, e con una voce vellutata né maschile né femminile domandò: «Lei scrive per un giornale?» «No, no», rispose lui, sorpreso dalla calma che c'era nella sua voce, senza la minima traccia del panico che gli cresceva dentro, della paura di essere stato, nonostante tutto, scoperto. «Sono solo uno studente.» «Ah», disse quell'essere in tono di scusa, e ammiccò. C'era in quegli occhi qualcosa di strano, che lui non riusciva a identificare. Lanciò una rapida occhiata alla fotografia che stava esaminando quando quello lo aveva interrotto. «È proprio bravo, vero?» chiese l'essere. «Voglio dire, non è uno dei soliti palloni gonfiati che scattano immagini feticistiche per il piacere da guardone dei normali.» «Sì», convenne freddo Joseph Lethe, attento a non mostrarsi troppo entusiasta. «È bravo. È, ecco...» «Genuino», finì l'altro per lui in tono definitivo. «È genuino.» Joseph Lethe fissò intensamente la fotografia, pregando che la cosa che gli stava alle spalle se ne andasse, che la sua curiosità fosse stata soddisfatta a sufficienza. La foto era intitolata Scilla e Cariddi. Come quasi tutte quelle che aveva visto fino a quel momento, mostrava due figure indefinite, una da un lato e l'altra dall'altro dell'immagine. La figura a sinistra aveva le lunghe braccia spalancate, la testa rovesciata all'indietro e il piccolo seno nudo. Quella sulla destra dava le spalle alla prima ed era raggomitolata in un duro nodo di muscolo e ombra. In mezzo a loro pendeva un oggetto indistinto, piccolo e duro, sospeso a un filo teso. «'Dio o uomo'», sussurrò la creatura dietro di lui, «'nessuno potrebbe ri-
volgerle lo sguardo con gioia.'» «Che cosa?» chiese lui. «Come ha detto?» Si voltò di nuovo, ma quello si era già allontanato, insinuandosi in un gruppetto di corpi più in là, lungo la fila di espositori. Si asciugò la fronte accorgendosi per la prima volta del caldo che faceva dentro il magazzino, dove non c'era l'aria condizionata ma solo una serie di ventilatori giganti dall'aspetto antiquato che giravano lentamente appesi al soffitto. Era madido di sudore. Joseph Lethe strinse a sé il suo quadernone giallo e passò alla stampa successiva. Questa era intitolata I piaceri di Tiresia ed era la prima di quelle che aveva visto che avesse una sola figura, o quella che lui in un primo momento aveva scambiato per una sola figura. Avvicinandosi vide che in realtà era una doppia esposizione, con due corpi che occupavano lo stesso spazio. Gli sembrò che potesse trattarsi di un corpo maschile sovrapposto a uno femminile, ma era difficile esserne sicuri. Le due forme, avvolte in strisce di carne cruda e nelle viscere di animali macellati, erano ritte in mezzo a una scura pozza del sangue che scorrendo sui loro corpi nudi si era raccolto attorno ai loro piedi scalzi. Solo i volti erano puliti, non sfocati dal trucco del fotografo, le due teste, maschile e femminile, voltate di profilo rispettivamente a destra e a sinistra. E allora si rese conto di un'altra cosa. In tutte le fotografie finora compariva la stessa coppia, un ragazzo e una ragazza così perfettamente simili che dovevano essere fratello e sorella, forse gemelli. Sentì un piccolo brivido gelargli la schiena, come un soffio improvviso di aria fredda. Joseph Lethe si deterse di nuovo la fronte sudata, si passò le mani sui pantaloni e scrisse il titolo della fotografia. Al di là dell'ultimo divisorio di compensato, verso il fondo della galleria, c'era un tavolino pieghevole dove servivano il vino e delle fettine rinsecchite di formaggio bianco su crackers integrali. Joseph Lethe non ci pensava proprio a bere o mangiare qualcosa in quel posto, per cui ignorò la sensazione di arsura che aveva in gola. Si avvicinò comunque al tavolo e a quelli raccolti intorno, che chiacchieravano eccitati tutti insieme. Se ne stette in disparte, aspettando l'occasione di vedere bene l'artista, che era seduto al tavolo. Joseph Lethe aveva impiegato poco più di un'ora per completare il suo catalogo di tutte le fotografie in mostra, complessivamente quarantatré, e ora teneva saldamente sotto il braccio il suo quaderno.
Quando si era accorto che per tutte le foto avevano posato gli stessi due modelli, aveva cominciato a fare attenzione ai titoli. C'era chiaramente un motivo conduttore, e i motivi conduttori sono sempre la chiave per capire, per inserire nel contesto una nuova parte dell'intrigo. Molti titoli erano presi direttamente da Omero, l'Iliade e l'Odissea, gli altri venivano da frammenti sparsi della mitologia greca. Solo uno spezzava il motivo conduttore, e quindi lui sapeva che doveva essere la via di accesso a questo cifrario di luci e ombre. La fotografia cruciale aveva il titolo incongruo di Il corvo, riferimento, immaginava, al poemetto, e anche arguzia: Il corvo di Jared Poe. Joseph Lethe sospettava anche che indicasse che la poesia si sarebbe rivelata una sorta di stele di Rosetta per l'intera esposizione. Il corvo mostrava il solo modello maschio, con il viso truccato come quello di una donna. Aveva le mani legate con il nastro isolante e un paio di ali eteree erano state fatte spuntare in qualche modo dalle sue magre scapole. Era l'unica fotografia in cui il soggetto guardasse nell'obbiettivo. Un angolo delle labbra truccate del ragazzo era ritorto all'insù in una smorfia o un ghigno, un'espressione ferina di minaccia o di sfida, e gli occhi gli brillavano di una segreta gioia maligna: occhi che, come quelli della creatura che pochi minuti prima aveva parlato a Joseph Lethe, avevano qualcosa di anomalo che lui non riusciva ancora a individuare. Si era annotato di concentrarsi di più sui Loro occhi negli esami futuri. Nella folla si aprì un varco e lui vide che Jared Poe era impegnato in un colloquio con una donna dall'aria banale che prendeva appunti. Non era affatto il mostro che Joseph Lethe si era preparato a incontrare, nessuno dei previsti travestimenti o alterazioni fisiche. Il fotografo dimostrava sui trentacinque anni, forse qualcosa di più, vestito semplicemente in T-shirt nera e blue jeans. L'unica caratteristica che si faceva notare sul suo volto era una barba di due o tre giorni. Comunque solo per un paio di secondi Joseph Lethe si chiese se un uomo dall'apparenza così normale potesse davvero essere l'autore di quegli sconci che aveva appena visto, un momento di sorpresa prima di notare le due figure sedute dietro a Jared Poe, una per parte. Erano gli strani modelli, fratello e sorella, delle foto. Non c'era da sbagliare, e si sentì come se avesse visto qualcosa che non avrebbe dovuto, come se dovesse distogliere lo sguardo o coprirsi gli occhi. Sperò che lo choc del vederli in carne e ossa non si fosse riflesso troppo esplicitamente sul suo volto. La donna era seduta a sinistra e il ragazzo a destra, e si tenevano stretti
alla mano del fotografo. I modelli vestivano di nero, semplici abiti simili che mostravano le linee dei loro corpi, l'esigua differenza di muscoli e grasso che distingueva l'uno dall'altro. Sì, erano gemelli. Ormai ne era certo, ed era quasi altrettanto certo che fossero gemelli identici, pur sapendo che due gemelli identici di sesso opposto era una contraddizione biologica. Allora la donna sollevò la testa e guardò dritto verso di lui, ed ecco di nuovo quegli occhi. Quell'indefinibile anomalia nel suo sguardo apparentemente cordiale. Il calore improvviso che aveva sentito prima ritornò, facendogli venire la pelle d'oca. Strinse gli occhi, riuscendo a stento a non distogliere lo sguardo. Era come se lo stesse sfogliando con quegli occhi, togliendogli di dosso come a una cipolla una sfoglia dopo l'altra di indumenti e pelle e coperture per vedere cosa c'era sotto. Joseph Lethe si sentì preso dalla nausea e dalle vertigini. «Non si sente bene?» chiese una voce. Sapeva che era la creatura che gli aveva parlato prima, sapeva che ora su di lui c'erano due paia di quei terribili occhi, e l'idea gli diede l'impulso di scappare. La sensazione di quegli occhi gli fece venire voglia di passarsi sulla pelle spugna d'acciaio e borace per liberarsi dal contatto. Invece rimase immobile e mantenne gli occhi fissi sulla modella. Lei gli sorrise, un sorriso cortese che, lo sapeva, voleva metterlo a suo agio, farlo cadere in un falso e traditore senso di sicurezza, ma sapeva anche che lei aveva visto la verità. Aveva capito esattamente chi e che cosa era lì, e tra un attimo si sarebbe alzata e lo avrebbe additato, o avrebbe sussurrato qualcosa all'orecchio del fotografo... «Non si sente bene?» ripeté a voce più alta la creatura, ora molto vicina. «Vuole bere qualcosa?» «Sto benissimo», rispose lui voltandosi dall'altra parte, strappandosi dallo sguardo della gemella. Si figurò degli ami immersi nella sua pelle che si liberavano con uno strappo mentre lui si allontanava dalla donna, lasciando minuscoli brandelli di sé attaccati al metallo arrugginito. Lei li avrebbe tirati a sé, li avrebbe conservati come prova della sua esistenza. Nel ripercorrere a passo svelto il labirinto degli espositori gli parve che ora le fotografie lo puntassero come musi di mostri gotici accusatori, fameliche sentinelle che potevano prendere vita da un momento all'altro per farlo a brani. Ma riuscì a passare oltre, a superare la porta e uscire nella notte calda e appiccicosa. Joseph Lethe proseguì senza fermarsi finché non ebbe messo un isolato abbondante tra sé e il PaperCut, le cose radunate là dentro, e
quelle orrende fotografie. Poi si arrestò, senza fiato, appoggiandosi a un lampione, con i fianchi doloranti e il panico che scemava a poco a poco. Alzò gli occhi verso il cielo estivo, oltre l'alone dell'illuminazione stradale verso l'incerta spruzzata di stelle, punte di spillo così lontane e in mezzo tutto quell'infernale nulla. Rabbrividì ricordando gli occhi della gemella, l'espressione compiaciuta di trionfo. Gli sarebbe ritornata alla mente infinite volte, puntuale come le costellazioni distese sopra il delta e il sinuoso Mississippi. Gli sarebbe rimasta dentro per sempre. Aveva rovinato tutto, si era lasciato prendere incautamente dalla curiosità, era finito in una trappola preparata per lui e solo per lui. Era così chiaro, adesso, così fottutamente ovvio, un elaborato banchetto di false informazioni e specchietti per le allodole che, Loro lo sapevano da sempre, lui avrebbe trovato irresistibile. Avevano attirato il Loro nemico allo scoperto, e ora lo avevano visto in faccia, avevano imparato l'odore della sua paura. D'ora in poi il suo lavoro sarebbe stato diverso. Non poteva più essere il semplice gioco in cui lui dava Loro la caccia a suo piacimento. Era diventato, in una sola sera tumultuosa, la preda oltre che il cacciatore. Il fatto che Loro gli avessero permesso di scappare non significava né più né meno che Loro erano sicuri di poterlo prendere appena fossero stati pronti. Joseph Lethe chiuse gli occhi e divenne Stanley Hudson, sperando che la trasformazione gli facesse guadagnare un po' del tempo di cui aveva bisogno. Tenne gli occhi chiusi finché il respiro e il polso non furono tornati quasi normali. Poi tolse dalla tasca il foglio piegato di carta gialla e abbassò lo sguardo sul ritaglio fotocopiato dell'articolo del Voice. Gli occorse solo un momento per trovare quello che cercava, la breve menzione dello studio-appartamento del fotografo in Ursulines Street. Stanley Hudson ripiegò il volantino e lo rimise nel taschino della camicia. Lanciò un'ultima occhiata in direzione della galleria e scomparve nella notte. *** Stanley Hudson passò quasi un'intera settimana chiuso nella sua alta e scura casa sul fiume, non mangiando nient'altro che cibi in scatola accuratamente passati prima al forno a microonde. Passò una settimana a studiare gli appunti che aveva preso sulle fotografie di Jared Poe, una settimana cercando il modo per rimettere le cose a suo vantaggio, di sbrogliare la rete che con tanta abilità era stata gettata sopra di lui.
Forse, concluse, le foto dopotutto non erano totalmente inutilizzabili. La stessa mostra era stata una messinscena per sviarlo, almeno di questo ormai era sicuro, ma le singole fotografie potevano rivelarsi ugualmente utili... se fosse riuscito a leggere tra le righe, anzi se fosse riuscito a scoprire righe tra cui leggere. Aveva il sospetto che la risposta si trovasse nella collocazione e nella composizione dell'ultima stampa che aveva visto, Il corvo. Doveva servire a metterlo fuori strada, ma forse in quell'atto Loro avevano mostrato qualcosa di ben più autentico sulla Loro natura di quanto avrebbe mai potuto scoprire lui con tutti i suoi esperimenti. Se solo avesse avuto in suo possesso la stampa originale, o anche una fotocopia, se solo non avesse dovuto lavorare basandosi sulla memoria e sui suoi appunti in ultima analisi inadeguati, avrebbe potuto cominciare ad afferrarne il senso. Quando capì che non ce la faceva più ad aspettare, che ogni giorno che passava chino sulle sue note era un altro chiodo piantato sul coperchio della sua bara, Stanley Hudson raccolse le semplici, micidiali cose di cui aveva bisogno in una vecchia sacca di pelle acquistata anni prima da un rigattiere, tutte le cose affilate e luccicanti che sarebbero servite, tutti i suoi aghi e cavi e fili chirurgici. Ma poiché questa sua mossa contro di Loro non doveva servire soltanto a dimostrare la sua superiorità, né soltanto a eliminare la minaccia immediata alla sua vita e alla sua missione, prese anche un assortimento di vasi da campione e liquidi conservanti. Poiché nel Loro disperato bisogno di prenderlo in trappola avevano sventatamente rivelato una delle Loro più terribili perversioni dell'ordine naturale, e il suo lavoro gli imponeva di non dimenticare mai il suo ruolo di scienziato oltre che di soldato. L'ultimissima cosa che pose nella borsa sarebbe servita più che altro a dimostrare a Loro che lui non era lo stupido che credevano, che Loro gli avevano fornito l'indizio che alla fine avrebbe portato alla Loro rovina. Depose in cima a tutto le due pagine che aveva strappato dal grosso tomo rilegato delle opere complete di Edgar Allan Poe. A questo punto Stanley Hudson chiuse di scatto la sua borsa nera. Attese finché non fu certo che il fotografo fosse davvero andato via, che non stava solo fingendo di aver lasciato l'appartamento, e solo allora uscì dal riparo dell'androne dove aveva passato buona parte della mattina e attraversò Ursulines. Gli bastarono un paio di minuti per far saltare la serratura del portoncino in ferro battuto, e ci avrebbe messo la metà se non avesse dovuto continuamente controllare che nessuno lo stesse guardando.
Il meccanismo scattò senza intoppi obbedendo alla perizia delle sue dita; quindi spinse piano il battente perché non urtasse contro la parete del piccolo ingresso da cui partivano le scale, e lo chiuse, ancora più cautamente, alle sue spalle. Le scale erano di legno, e allora si tolse le scarpe e salì con le sole calze ai piedi. In cima c'era un'unica porta, ed emise un sospiro di sollievo all'idea che non correva il rischio di entrare nell'appartamento sbagliato. Appoggiò un orecchio alla porta e si mise in ascolto, al di là degli accordi discordanti della musica rock che proveniva dall'interno, al di là dei tonfi martellanti del proprio cuore, cercando il segno che gli confermasse l'esattezza della sua ipotesi, che gli desse la certezza che non aveva fatto tutto quello per niente. Dopo qualche istante avvertì un rumore inconfondibile di passi, qualcuno che dall'altra parte della porta calpestava il legno cigolante del pavimento, e Stanley Hudson si mise all'opera sulla serratura. «Non... so... di cosa parli», farfuglia Michelle con una voce spessa e impastata, intorpidita dalle droghe che l'uomo gli ha dato per mantenere il livello del dolore a un rombo sordo e lontano. Michelle ha cominciato a pensare al dolore come a Dolore, un essere famelico con gli occhi di fiamma e troppe teste e troppe bocche, incatenato a un muro, e la catena si sta lentamente sganciando. Ora ha la sensazione che Dolore sia stato con lui per tutta la vita. Ora sa che c'è un solo modo perché finalmente si liberi e lo divori, come il Lupo Cattivo, e lui Cappuccetto Rosso con il pomo d'Adamo e l'uccello e non ci sarà mai pace in alcun luogo se non nel buio corrosivo del suo ventre, nel pozzo di dissolvimento delle sue viscere. «Non so...» Allora l'uomo cessa di tagliare, d'un tratto, come convinto finalmente che Michelle gli sta dicendo la verità. Lo scalpello cade sferragliando nel vassoio metallico con gli altri strumenti e il lattice rosso delle mani dell'uomo passa tra gli occhi di Michelle e quelle parti che sono state tagliate via e appese agli uncini sopra il tavolo, dove lui può vederle, anzi non può non vederle perché l'uomo gli ha asportato le palpebre fin dall'inizio. «Ma certo che non lo sai, bimbo», dice l'uomo gentilmente. E poi riempie una siringa di un liquido trasparente. Fa penetrare l'ago nei muscoli scoperti dell'addome di Michelle, e Dolore si avventa per l'ultima volta. Il rumore degli artigli e del muro che si sbriciola è assordante, e copre di sé il mondo vivo e crudo di carne e acciaio. «Ma anche le pedine ignare hanno la loro funzione, Michael», dice
l'uomo. Poi bisbiglia indistintamente qualcosa come «Perdonami», prima che Dolore spalanchi le fauci e Michelle scivoli agevolmente, grato, nella sua gola. *** Stanley Hudson aveva previsto di trovare tutti e due i gemelli nell'appartamento di Ursulines, e il fatto che ci fosse solo il ragazzo fu una delusione. Ad averlo riconosciuto era stata la ragazza, era stata lei a violentarlo con quel suo sguardo sogghignante di trionfo. Ma di lei si sarebbe occupato più tardi, si disse, una volta finito con il ragazzo chiamato Benjamin. Si fermò nella stanza dove ogni superficie era tinta di toni complementari di rosso e nero, si fermò e si rimproverò. Di quello si sarebbe occupato più tardi. Benjamin gli aveva detto tutto quanto lui voleva sapere, aveva confessato come sei anni prima il suo gemello identico era andato a Trinidad, nel Colorado, per farsi operare, per il passo finale della conversione, cedendo la propria umanità per chi sa quale oscura ricompensa che Loro promettevano ai Loro discepoli. Saranno più o meno quattrocentoventi chilometri da Trinidad, Colorado, a Roswell, New Mexico, si disse distrattamente posando ancora una volta lo sguardo, al di là del macello sul letto a baldacchino, sulla stampa del Corvo di Jared Poe. Il ragazzo morto fissava ancora Stanley Hudson dalla fotografia, ma qualsiasi minaccia quel volto poteva contenere era stata negata dai riti purificatori della lama. Si chinò, mise la mano nella borsa di pelle ai suoi piedi e ne tolse le pagine che aveva tagliato dal libro di Edgar Allan Poe. Mentalmente contò i versi scorrendo le strofe iniziali del poemetto. Quando arrivò al ventiseiesimo lo segnò con un evidenziatore giallo che aveva trovato nello studio di Jared Poe. E poi lesse il verso ad alta voce. «'Dubitando, sognando sogni che mai mortale osò sognare...'» Ventisei per due, pensò, fa cinquantadue, e scese fino al verso cinquantadue, poi sottrasse sei versi per ognuno degli anni dalla conversione del gemello ancora vivo, e lesse il quarantaseiesimo verso evidenziandolo con l'inchiostro al neon giallo. «'Ma, con fare di signore o di dama, si appollaiò sulla porta della mia camera...'» Stanley Hudson sospirò stancamente e fissò di nuovo la fotografia che lo guardava dall'altro lato della stanza. «Con fare di signore o dama», ripeté lentamente, convinto che il mes-
saggio sarebbe stato compreso, che Loro avrebbero capito che lui c'era arrivato, che aveva fatto i collegamenti giusti. Si alzò e fece il giro del letto, scavalcando con cura l'intestino e i reni del ragazzo e la parte superiore del fegato, e con un pezzo di nastro adesivo (preso anche questo dallo studio di Jared Poe) fissò le pagine evidenziate al vetro schizzato di sangue che proteggeva la fotografia. Quindi lasciò l'evidenziatore nel macello ammucchiato in mezzo al letto, si sfilò i guanti chirurgici e si diresse verso il bagno per lavarsi il viso. Quella notte, quando Jared Poe fu arrestato per l'omicidio del suo amante, Stanley Hudson si era appena concesso di tornare a essere Joseph Lethe. Guardò il telegiornale sul vecchio apparecchio in bianco e nero in cucina mentre consumava la sua cena di carne in scatola, ascoltò il racconto della morte raccapricciante del ragazzo e una breve intervista a un detective della Omicidi di New Orleans. In un primo momento sentì gelosia e rabbia, gelosia perché il merito del suo lavoro andasse a quel fotografo pervertito, benché proprio quella fosse la sua intenzione. Ma poi il cronista chiese al detective se ci fosse qualche legame tra la morte di Benjamin DuBois e gli omicidi dello Squartatore di Bourbon Street, e anche se il detective non volle fare dichiarazioni in proposito, Joseph Lethe colse negli occhi del poliziotto un lampo subito controllato. Mentre il presentatore passava a un servizio su un attacco di alligatori in Bayou Segnette, lui masticò un boccone di carne e di patate e si disse che c'erano cose più importanti del suo orgoglio. Uccidendo il gemello aveva segnato una vittoria duplice su di Loro, aveva colpito non uno ma due accoliti. Perché ora il fotografo, che era stato scelto per diffondere le Loro mostruose immagini, per disseminare subliminarmente le Loro menzogne attraverso la sua «arte» perversa, sarebbe finito rinchiuso in una prigione, inutilizzabile. E se la polizia riteneva Jared Poe responsabile anche degli altri omicidi, questo concedeva molto più tempo a Joseph Lethe. Buttò giù il boccone con un sorso tiepido di Canada Dry dalla lattina e si concesse un cauto sorriso. Joseph Lethe sistema il corpo del ragazzo puttana in sacchi per l'immondizia e li lega insieme con un intero rotolo di nastro adesivo, finché il tutto è contenuto in un pacco bene ordinato. Poiché questo non può essere sepolto in giardino, dato che il giardino è solo per quelli che hanno fatto il passo completo, porta il corpo giù per le scale che conducono dalla sala
degli esami fino al garage e lo scarica nel portabagagli dell'auto. Sente il brontolio di un tuono, che gli ricorda il temporale e le sue visioni. Apre la porta del garage e scruta il buio agitato dalla tempesta. Manca ancora un'ora all'alba, tempo più che sufficiente a completare l'opera. La paura e la confusione, la pericolosa incertezza che lo avevano colpito minacciando di erodere la sua volontà sono scomparse del tutto, spazzate via dal meticoloso, familiare rituale della vivisezione del ragazzo. Sopra New Orleans lo sfolgorante tridente di un fulmine arpiona il mondo. Joseph Lethe vede la sagoma di un gigantesco uccello di ebano spalancare le ali sopra la città battuta dalla pioggia. Un segno, pensa, e anche un avvertimento. Che qualcosa sta arrivando, qualcosa di mai visto e terribile mandato a fermare lui. Qualcosa che lui dovrà attirare allo scoperto per poterlo affrontare, distruggere, così come un anno fa ha distrutto i Loro piani contro di lui. Abbassa lo sportello del cofano, controlla che sia chiuso, e sale in macchina. 5 «No», dice Lucrece, ma Jared ha già varcato la finestra della camera da letto, seguendo il corvo. Non si ferma a considerare la forza invisibile che ha spalancato la finestra quando gracchiando l'uccello ha spiccato il volo staccandosi dal letto. E non si ferma a porsi questioni di gravità o di lontananza dalla strada; ora si muove spinto dal solo istinto, un istinto che si è portato dalla tomba o che forse fluisce dentro di lui dal corvo. Sente i battenti della finestra che si chiudono dietro di lui, escludendo ancora il temporale, escludendo Lucrece. C'è un vago senso di vertigine, la sensazione non di cadere ma del rischio di cadere, e il frullo sovrapposto delle lunghe code della marsina di lattice e le ampie ali dell'uccello. Ma ecco la piatta e solida superficie di un tetto sotto i suoi piedi. Jared si volta, guardando verso l'appartamento. Intravede dietro le tende la luce fioca e instabile delle candele. Gli sembra di vedere del movimento dall'altra parte, Lucrece che corre a vedere se lui giace schiantato sulla strada, ma il corvo gracchia di nuovo, un verso aspro, imperioso. Jared distoglie lo sguardo, lo posa sull'uccello appollaiato sull'orlo di una grondaia intasata dalle foglie. «E adesso?» chiede. Il corvo si scrolla, minute gocce di pioggia cristalline spruzzate dalle penne. Lo guarda con occhi ansiosi, impazienti ma indecisi.
«Lo sapevo», dice Jared, sentendo il gusto della pioggia sulle labbra, il vago sapore oleoso di prodotti chimici nelle gocce. «Lo sapevo che ti saresti dimostrata inutile, lo sai?» Il corvo sbatte le palpebre, manda un altro verso, come per dire, Ti ho già cavato il culo dalla fossa, no? Si scuote un'altra volta e guarda a sud verso le luci di Bourbon Street. «Non sei capace di trovare quello che ha ammazzato Benny e non sai perché. Bene, mentre tu ci pensi, io ho altre faccende da sistemare. C'è speranza che mi possa servire almeno in questo?» L'uccello guarda dall'altra parte. «Credo proprio che dovrai farlo», prosegue Jared. «Magari non è previsto che tu lo faccia, ma posso autorizzarti io. Perché tu lo sai chi sono, e sai benissimo che se lo meritano.» Il corvo si stringe in se stesso ed emette un piccolo verso gracchiante e malinconico. Jared vede che sta tremando, ma non è più capace di provare pietà, tanto meno per quell'uccellaccio nero che lo ha strappato all'oblio. La pioggia è fredda, però, e si chiede per un momento come mai sia ancora capace di sentire il freddo. Poi un'altra ondata di disperazione e rabbia lo travolge, mille volte più gelida del temporale, più acida della pioggia inquinata. Un dolore così grande e pesante può solo sfiancarlo o spingerlo avanti. «C'è solo questo per farmi proseguire?» mormora, sospettando che l'uccello non abbia risposte, ma sentendo ugualmente il bisogno di chiedere. Disperazione e rabbia, pensa, soppesando le parole come fossero pallottole, e dice: «Sto perdendo tempo, è vero?» Il corvo risponde aprendo le ali e spiccando il volo dalla grondaia verso il cielo sopra Ursulines Street, dirigendosi via da Bourbon. Jared esita solo un momento, lancia un'ultima occhiata verso l'appartamento e poi lo segue, muovendosi come se avesse solo un minimo di sostanza più dell'ombra mentre attraversa i tetti e gli spazi vuoti che li separano. *** Immediatamente Jim Unger pensa che a svegliarlo sia stato un suo stesso urlo, ma Julie accanto a lui è ancora addormentata, e allora forse quell'urlo non è mai uscito dall'incubo, dalla sua gola. Trema, coperto di un sudore freddo e appiccicoso. Al buio, cerca a tentoni le sigarette sul comodino, accende una Camel e aspira a fondo, guardando il display luminoso della radiosveglia. Le cifre squadrate verde fantasma dicono 3:37. Unger
tira un'altra boccata dalla sigaretta. La testa è ancora troppo piena del sogno, la cascata rossa di immagini e suoni, e il cuore gli batte come se avesse appena fatto una maratona. Nel sogno si trovava di nuovo nell'appartamento di Ursulines, quello dove ebbe inizio la sua parte nell'arresto e l'incriminazione di Jared Poe. Solo che questa volta era lui il primo a entrare dalla porta, il primo a vedere il sangue e le viscere penzolanti da pareti e soffitto. Nel sogno era lui a trovare le pagine attaccate con lo scotch alla foto, a leggerle ad alta voce, solo i versi evidenziati - adesso non li ricorda, ma nel sogno erano chiarissimi - e qualcuno scattava fotografie. Dal flash lampi di luce bianca, uno dopo l'altro, e lui chiedeva a chi lo stava facendo se per favore la smetteva, cazzo, e gli lasciava trovare un po' di cazzo di concentrazione. E poi c'era il rumore alla finestra e lui si voltava a guardare. Dietro di lui l'idiota con la macchina fotografica continuava a scattare, flash, flash, flash, e sentiva Fletcher che diceva: «Cristo, Jimbo, non aprire. Non farlo entrare», e Vince Norris diceva: «Be' questa merda che abbiamo qui non è roba da culi? Fottuti schifosi figli di puttana, ve lo dico io». «Chiudi il becco», lo zittiva lui, protendendosi al di sopra dei pezzi umani sparsi sul letto, verso la finestra, per aprirla, per lasciarlo entrare perché la smettesse di fare quei rumori, come se la notte si stesse scucendo un punto alla volta, come se mille becchi appuntiti o mille artigli stessero lavorando sul vetro. «Cristo, Jimbo», diceva Fletcher, «non vorrai farlo entrare qui con noi? È questo che vuoi fare?» Ma la sua mano aveva già raggiunto la maniglia insanguinata, stava già spalancando uno dei battenti. Dall'altro lato spingeva una forza irresistibile e triturante, e un'improvvisa umida folata di interiora e piume debordava sopra il letto. Coglieva per un attimo l'immagine di un'altra cosa là fuori, qualcosa di enorme e frenetico su zampe lunghe come stecchi prima di svegliarsi, e il grido gli moriva sulle labbra, portandosi misericordiosamente via ogni impressione della cosa intravista fuori della finestra. Unger si alza dal letto, attento a non svegliare la moglie, a non interrompere i suoi sogni. Attraversa la stanza fino alla stampella agganciata all'interno dell'anta del guardaroba, la stampella dove tiene sempre la fondina e la pistola di ordinanza. La toglie dal fodero e controlla le camere di scoppio, tutte e sei cariche, poi la rimette nella sua custodia di cuoio. Quel semplice atto gli dà un po' di aiuto, lo fa sentire più reale, più con i piedi per terra. Aspira un'altra boccata di Camel e guarda al di sopra della
spalla, verso la finestra nascosta dalle brutte tende violacee che Julie si è portata dietro quando è venuta a stare con lui. Sente la pioggia picchiare sul vetro, abbastanza simile al rumore del sogno per fare la connessione. Pochi secondi dopo scoppia un lampo. È passata quasi una settimana da quando ha saputo di Poe, che un grosso cubano gli ha aperto la pancia ed è morto prima che qualcuno dell'infermeria del carcere riuscisse a fermare l'emorragia. Buona fottuta pulizia, si dice. Fa risparmiare ai contribuenti i soldi per mantenere un bastardo pervertito. «Lei è un figlio di puttana dal cuore di ghiaccio, James Unger. Nessuno si è mai preso il disturbo di dirglielo?» Queste erano le parole che aveva usato Pam Tierney, e lui l'aveva guardata e aveva sorriso, pensando, proprio così, troia, e tutti qui al dipartimento sanno che tu sei una lesbica di merda, ma aveva risposto solo: «Tesoro, non mi pagano per avere il cuore tenero». «Be', se la pagassero per questo sarebbe un pezzo di merda senza un quattrino», aveva ribattuto lei. Il detective Jim Unger si siede a terra accanto alla porta del guardaroba per finire la sigaretta, con la pistola a portata di mano. Conta i secondi che passano tra ogni lampo e il tuono che segue, e tiene gli occhi fissi sulla finestra. Sono quasi dieci anni che è in servizio, gli ultimi quattro alla Omicidi, e in quel tempo Jim Unger ne ha vista di merda. Sparatorie, coltellate, strangolamenti, un omicida armato di ascia, corpi fatti a pezzi e scaricati nei canali a disposizione di alligatori e gamberi, una volta ha visto il cadavere di una donna che uno aveva cercato di sciogliere nella vasca da bagno riempita di acido muriatico. Ma niente, assolutamente niente lo aveva preparato allo spettacolo che lo aspettava nella camera da letto in cima a una scala cigolante all'angolo tra Ursulines e Dauphine quell'afoso pomeriggio di agosto. E niente mai avrebbe potuto. A quel tempo era ancora suo partner Vincent Norris, il dinoccolato e brizzolato Vince che dalle distese del Texas settentrionale si era trasferito a New Orleans per fare il poliziotto, che parlava come un attore di mezza tacca in un vecchio film di cowboy. Vince non aveva mai imparato a ridere della merda nauseante con cui avevano a che fare tutti i santi giorni, non era mai riuscito a piazzare quell'indispensabile ammortizzatore tra sé e il lavoro.
Erano arrivati sul posto molto prima del coroner, pochi minuti dopo che una vecchia isterica aveva fermato un'autopattuglia. Quasi tre mesi prima che a Vince venisse l'esaurimento nervoso, o come cazzo alla fine decisero di definirlo i medici, e lasciasse la polizia. Una volta Vince gli telefonò dall'ospedale, in piena notte, con una voce impastata da ubriaco per tutti i tranquillanti che gli davano. Parlava tranquillo e molto lentamente, esitante, come temendo che ci fosse qualcuno a origliare. «Come va là fuori nel mondo della realtà, Jimbo?» chiese. «Bene, Vince», rispose Jim. «Tutto bene. Ti stanno curando a dovere là dentro?» Dall'altra parte della linea il silenzio durò così a lungo che a un certo punto Jim chiese: «Ehi, Vince, sei ancora lì?» E la voce di Vince ritornò, ma ora bisbigliava. «Mi stanno dando certe piccole pillole», disse. «Tre volte al giorno, Jimbo, certe piccole pillole rosse», e tacque di nuovo. Jim sentì un rumore attutito di passi sullo sfondo prima che Vince riprendesse. «Non servono a niente», disse, e ora Jim doveva sforzarsi per sentirlo. Non sembrava che Vince bisbigliasse, ma piuttosto che stesse parlando verso il telefono dal fondo di un pozzo profondissimo, come se qualcuno avesse calato il ricevitore dall'orlo del pozzo e le parole di Vince dovessero varcare tutto quel buio. «Lo vedo ancora, Jimbo», disse. «Lo vedo ancora quello che c'era lassù.» Jim deglutì, con la gola troppo secca per parlare. Aveva la pelle d'oca sulle braccia, come una reazione allergica a quello che aveva sentito. «Devi avere fiducia in quei dottori, Vince. Sanno quello che fanno», rispose, sforzandosi di mostrare che credeva a quel che stava dicendo. «Ci vuole un po' di tempo, ma alla fine...» Clic. La comunicazione s'interruppe. Unger rimase seduto lì per un pezzo, bevendo scotch e fissando il telefono muto. Quando Jim Unger era una recluta, un sergente anziano gli disse: «Lascia che questa merda ti prenda e ti ritroverai completamente fuori di testa». Lui aveva seguito il consiglio alla lettera. Aveva passato gli anni lasciando che le cose che vedeva, le atrocità che gli esseri umani erano capaci di farsi a vicenda o di fare a se stessi lo intorpidissero, formassero uno spesso callo attorno alla sua anima. E forse per questo gli incubi li aveva
solo su quello che avevano trovato nell'appartamento di Jared Poe. C'erano già due autopattuglie quando arrivarono lui e Vince, con i lampeggiatori che spazzavano di blu e rosso la via che si andava oscurando. Fu Vince a salire per primo le scale. Un agente chiamato Fletcher venne loro incontro sulla porta dell'appartamento. «Tenetevi forte, voi due», disse, «che qua è da non crederci.» Era verde, e dovette scorgere il muto scetticismo negli occhi di Jim. Infatti aggiunse: «Il mio partner è dentro che vomita. Non sto scherzando. È fottutamente incredibile». Fu allora che Jim sentì l'odore, la puzza che prende alla gola di sangue e merda e carne, come immaginava che dovesse puzzare un mattatoio. Vince si coprì la bocca con una mano e mormorò: «Gesù». «Credo quasi che hanno usato una raspa da legno sul corpo», disse Fletcher scuotendo la testa mentre faceva strada attraverso il fetore dell'appartamento fino alla camera da letto. «Oh, maledizione», mormorò Vince Norris, e riuscì a uscire dalla camera e ad arrivare a metà corridoio verso il bagno prima di vomitare, così almeno non inquinava la scena del delitto. «Cazzo, ve l'avevo detto che non scherzavo», fece Fletcher sulla difensiva, e si spostò per lasciare una visuale migliore a Jim. Jim fu quasi per chiedere dove diavolo fosse il corpo, ma si fermò mentre la prima impressione cominciava a svanire. La domanda giusta, si rese conto, era dove diavolo non fosse il corpo. Le pareti, i mobili, il pavimento, perfino il dannato soffitto, tutto era tinteggiato con una densa, umida vernice di materiale umano. Era come guardare nella pancia di un bizzarro gigantesco animale il cui interno si trovasse ad assomigliare a una camera da letto. Le uniche cose che riuscì a riconoscere come parti effettivamente umane erano sul grande letto a baldacchino: mani e piedi della vittima legati alle colonne con un cordino di nylon che forse all'origine era bianco ma che ora aveva la stessa tinta cremisi del resto. Si voltò dall'altra parte, con lo stomaco che si rivoltava, deciso a non vomitare. «Cazzo, non è proprio possibile», disse a Fletcher. «Me lo avessi chiesto mezz'ora fa sarei stato d'accordo al cento per cento.» «Ho bisogno di una sigaretta.» Jim si diresse verso la porta cercando di mettere un po' di distanza tra sé e la puzza. Vince ora era in ginocchio, scosso dai conati a vuoto, e questo di sicuro non aiutava. Jim si appoggiò a una sedia e accese una delle sigarette al mentolo che teneva per i casi dav-
vero brutti, inspirò il fumo e rimase a fissare il pavimento e le punte sformate delle sue scarpe. Il sapore della sigaretta non fece molto per mascherare il tanfo di sangue e vomito che gli riempiva le narici. «Dove diavolo sono gli altri?» chiese a Fletcher soffiando il fumo. «Qua fuori c'erano due macchine.» «Sono di sotto con la signora», spiegò l'agente. «Quella che l'ha trovato. Abita al piano di sotto. Forse è la proprietaria.» «Lei ha trovato questo?» chiese Jim. «Già. C'era sangue che pioveva dal soffitto, puoi crederci o no. È salita a vedere che cosa stava succedendo e ha trovato la porta socchiusa. Stanno cercando di tenerla calma finché arriva l'ambulanza.» «Ma non ha visto nessun altro quassù? Solo... quello?» «Sì, da quello che ci ha detto finora.» Jim sospirò, soffiò via quel fumo che sapeva di caramelle per la tosse, e guardò Vince. «Tutto bene da quelle parti?» Vince si strofinò la bocca con il dorso della mano, fece per rispondere, ma poi si limitò a fare di sì con la testa. «Sono sicuro che quelli dell'ufficio del coroner saranno entusiasti del casino che hai fatto là per terra», disse Jim. «Si fottano», mormorò Vince. Poco dopo lo assalì un altro conato. «Procuragli un asciugamano bagnato o qualcosa del genere», disse Jim a Fletcher. Sentirono l'ambulanza e Jim tirò un'altra boccata dalla sigaretta. «Potete pure prendercela calma, ragazzi», commentò. Da una porta chiusa, evidentemente il bagno, arrivò il rumore di uno sciacquone. Qualche istante dopo la porta si aprì e ne uscì un agente più giovane che Jim non riconobbe. La faccia del ragazzo era bianca come una ricotta. «Pensi che ce la farai a sopravvivere?» «Forse sì», rispose l'altro, con un debole sorriso. «O forse no.» Vince gli passò veloce accanto e si chiuse la porta alle spalle. Quando gli infermieri cominciarono a salire le scale Fletcher li intercettò e li dirottò verso la casa dell'anziana signora. Le diedero l'ossigeno e un blando sedativo, ma niente di abbastanza forte perché fosse in grado di parlare quando fu il momento delle domande. Il furgone del coroner arrivò poco dopo l'ambulanza. Jim Unger era uscito all'aperto nella speranza che l'aria della notte gli portasse via almeno in parte il fetore dell'appartamento
dalle narici, dove sembrava aver messo radici come uno strisciante fungo rosso. Erano state rarissime le occasioni in cui aveva pensato all'aria del Quartiere Francese come ad aria fresca, e questa era una di quelle. Dopo il mattatoio del primo piano, gli onnipresenti odori di fondo fatti di scarichi di fogna e acqua del fiume, immondizia in decomposizione e muffa apparivano familiari e rasserenanti. Il coroner, Pam Tierney, era una robusta irlandese di terza generazione. Jim Unger sapeva che per lei i poliziotti erano nel migliore dei casi un male necessario, buttafuori che erano lì solo per impedire alla gente di incasinare la scena del delitto prima che le vere indagini avessero inizio. Le aveva visto dare letteralmente uno schiaffo sulla mano di un agente perché aveva toccato una tazza da caffè che si trovava vicino a un cadavere. «Mani in tasca!» lo aveva ammonito. «Per un giovanotto sveglio come lei non dovrebbe essere troppo complicato.» Ora era di fronte a lui, e scrutava con ansia le finestre dell'appartamento del primo piano. «A sentire la ricevente, stasera per me avete qualcosa di speciale.» «Oh, probabilmente è stato ordinato espressamente per lei, Tierney», rispose lui, senza fare il minimo sforzo per nascondere quello che sentiva per la donna. Cristo, mezzo distretto sapeva che era una lesbica di merda, che al momento si scopava una stronzetta di artista di New York. «E allora che cosa aspettiamo?» chiese lei in tono impaziente, e lui si strinse nelle spalle e gettò sul marciapiede il terzo filtro al mentolo. «Prima le signore», disse, e la seguì su per le scale, pregando tra sé che quello fosse il giorno in cui avrebbe finalmente visto la vecchia sanguefreddo-e-fegato Tierney correre alla tazza del cesso. Quando raggiunsero la porta della camera da letto, Jim non guardò di nuovo dentro, ma fissò Vince e Fletcher che gironzolavano nel soggiorno. Vince appariva ancora troppo sottosopra per badarci, ma Fletcher alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. Pam Tierney non disse una parola per tre o quattro minuti buoni, rimase immobile, con lo sguardo inchiodato sulla camera grondante sangue. Quando si voltò verso Jim, l'unico segno che lo spettacolo l'aveva colpita fu un profondo sospiro sconsolato. «Caspita», mormorò, e si mise a ridere, proprio a ridere, un breve, asciutto, triste, fottuto suono che a Jim Unger fece venire la voglia di tirarle un cazzotto. «Qualche ipotesi sulla causa della morte, detective?» chiese lei, girando-
gli intorno diretta verso la cucina. «Che ne dice di una bomba a mano?» disse Fletcher mentre lei passava accanto a lui e a Vince e al suo partner. Il partner era seduto su un divano di pelle nera, e sfogliava un album di fotografie. «Sì, Fletcher, molto buona. Dev'essersela studiata tutto il pomeriggio.» Poi al partner: «Ehi, che diavolo sta facendo?» Il ragazzo sobbalzò e alzò di scatto lo sguardo su di lei, sorpreso, con gli occhi spalancati come quelli di un bambino beccato con tutto il braccio in un vaso di biscotti. «A meno che lei non sia una specie di scherzo di natura, nato con i polpastrelli lisci, le chiederei di mettere giù quell'oggetto e di alzarsi dal divano. Sarebbe così gentile?» «Meglio che le dai ascolto, Joey», disse Fletcher. «Morde molto più forte di quanto abbaia.» Ma il giovane poliziotto aveva già rimesso l'album sul tavolino da caffè dove l'aveva trovato e si era alzato di scatto come un giocattolo meccanico. «Grazie», disse Pam Tierney, e scomparve nella cucina. «Ma che cos'ha?» chiese il ragazzo. «Probabilmente questa settimana la sua amichetta ha le sue cose», disse Fletcher. In quel momento i due assistenti della Tierney arrivarono in cima alle scale, armati entrambi di macchine fotografiche e valigie con l'equipaggiamento scientifico. Rimasero sulla soglia, con un'aria smarrita e arricciando il naso per il fetore. «Dov'è il corpo?» chiese uno dei due, e tutti, compreso Vince Norris, si misero a ridacchiare. «Se voi riuscite a non toccare niente per cinque minuti», disse Jim, «vado a fare due chiacchiere con la Dragonessa lì dentro.» Trovò Pam Tierney al fornello, che stava versando un pacchetto di caffè macinato in un tegame di ferro. Il gas sotto la pentola era acceso e l'odore di caffè bruciato già cominciava a riempire l'aria. «Che diavolo sta facendo?» le chiese lui, osservando perplesso il tegame. «Quello che mi ha addestrato a Baton Rouge lo faceva ogni volta che ci capitava qualcosa di veramente puzzolente, soprattutto quelli rimasti per un pezzo sott'acqua. Personalmente direi che puzza molto di più di quello che c'è là dentro», e accennò con il capo in direzione della camera. «Ma non posso permettermi di avere gente che mi vomita intorno mentre sto
cercando di lavorare.» Regolò la fiamma sotto la pentola e sventolò una mano mandando il fumo nero verso il soffitto. Jim tossì e la scrutò attraverso quella foschia. «Vorrebbe dirmi che a lei quella merda di là non fa nessun effetto?» Pam Tierney si voltò verso di lui. Aveva gli occhi umidi, ma lui attribuì la cosa al caffè che bruciava. «Che cosa dovrei fare secondo lei, Unger? Spargere in giro il mio pranzo come i tre porcellini là dentro? Cazzo, sì che mi fa effetto, ma sono io quella che deve rientrare là dentro a raccattare quello che è rimasto del tizio.» Jim lanciò un'occhiata verso la camera da letto. «Secondo me era una donna. C'è dello smalto nero sulle unghie delle mani e dei piedi», ma la Tierney scosse la testa. Lasciò il fornello acceso e uscì dalla cucina scostando Jim Unger dallo stretto passaggio. Diede alcuni secchi ordini agli assistenti, che cominciarono a sistemare le cose, aprendo le valigie. Quindi tornò a voltarsi verso Jim, che era rimasto sulla soglia della cucina. «Venga un attimo qui, Sherlock. Voglio farle vedere una cosa.» Jim sospirò, ma attraversò la stanza e la raggiunse in fondo alla camera da letto. Gli indicò qualcosa ai suoi piedi sul pavimento imbrattato di materiale organico. «Ha mai visto uno di questi su una ragazza?» gli chiese. Jim si chinò per guardare meglio prima di capire che quel salsicciotto di carne sul pavimento era un pene, con ancora attaccato un pezzetto di scroto. Il glande era attraversato da un grosso anello di acciaio. Jim Unger sentì la spinta calda e acida della colazione semidigerita farsi strada dallo stomaco e si precipitò verso il gabinetto. «Come pensavo», gli gridò dietro Pam Tierney, un attimo prima che in cucina scattasse l'allarme antincendio. Jim Unger accende la sua seconda Camel e la luce di un lampo illumina la stanza come a mezzogiorno. Due secondi dopo arriva il tuono e la detonazione fa tremare i vetri delle finestre di casa. Nel letto, Julie alza la testa. «Che cos'è stato?» chiede. «Soltanto un tuono, tesoro.» «Ah», dice lei dubbiosa, e poi: «Perché non dormi?» «Ho fatto un brutto sogno.» È la pura verità, ma suona falso uscendo dalla sua bocca. Pensavi di aver sentito qualcosa. È questo che intendevi dire, vero? È questo che volevi dire.
«Ah», ripete Julie, questa volta con un tono più convinto, e si gira dall'altra parte. «Con calma, signora Poche. Non abbiamo fretta», disse Vince per la quinta o sesta volta. L'anziana donna nera lo fissava con due occhi resi enormi dalle spesse lenti dei suoi occhiali. Jim Unger cominciava a perdere interesse, e osservava attraverso le tendine di pizzo della signora Poche uno dei tirapiedi della Tierney che scattava fotografie al marciapiede. «Non è che devo chiamare il mio avvocato?» chiese lei ancora una volta. Vince scosse la testa. «Lei non è sospettata, signora Poche.» E perché no? si chiese Jim. Perché diavolo no? La cosa non avrebbe avuto meno senso di qualsiasi altra spiegazione. «Vogliamo soltanto sapere se lei questo pomeriggio ha visto o udito qualcosa di insolito.» La signora fissò Vince come se gli fosse spuntata una seconda testa in mezzo al petto, poi spostò la dentiera avanti e indietro nella bocca. «C'era sangue che colava dal mio soffitto», ripeté poi. «Mi pare che questo sia abbastanza maledettamente insolito.» «E dalle torto, Vincent», commentò Jim chiudendo le tendine. Nell'appartamento c'era odore di polvere e di medicinali, i miasmi dell'età, e cominciava a deprimerlo. «Se volesse riferirci qualche altra cosa che ha visto, signora, ci sarebbe di grande aiuto», riprese rivolto alla signora Poche. Lei distolse lo sguardo da Vince spostando gli occhi impauriti su Jim. «È stato spaventoso», ripeté per l'ennesima volta. «Meno male che non c'era nessuno dei miei nipotini. Si immagina se avessero visto una cosa del genere?» «Signora», la interruppe Jim, sforzandosi di mostrarsi cortese ma sul punto di perdere la pazienza, «ha visto nessuno che entrava o usciva dall'appartamento prima di salire di sopra?» La vecchia si accigliò e mosse la dentiera. Jim guardò di nuovo la macchia marrone sul soffitto del soggiorno. Era larga quanto una pizza abbondante, e lui calcolò che doveva essere situata sotto uno dei piedi del letto di Poe. C'era una macchia simile, molto più piccola, anche sul pavimento, e prima o poi quel tizio sul marciapiede sarebbe venuto a fotografarle entrambe. «Io non ho visto altro che il signor Poe, e visto che è il suo appartamento non ci vedo niente di insolito. Va e viene continuamente.»
«E a che ora ha visto andar via il signor Poe?» le chiese Vince, fingendo di scrivere tutto quanto lei diceva sul blocco degli appunti aperto sulle ginocchia. «Ehi, aspettate un minuto. Se sta pensando che il signor Poe c'entri qualcosa con questa storia, si sbaglia di grosso, giovanotto. Il signor Poe è sì un ragazzo, diciamo, particolare, ma non ucciderebbe proprio nessuno. E soprattutto non Benny. Benny era il suo amico, capito?» «A che ora ha visto il signor Poe uscire di casa, signora?» chiese Jim, continuando a fissare la macchia sul soffitto. La stanza del piano di sopra era insopportabile, ma quella macchia scura sembrava produrre l'effetto opposto; i suoi occhi continuavano a tornarvi su. «Non c'è niente di male a essere un ragazzo particolare», ribadì la signora Poche incrociando in grembo le mani grinzose. «Lo dice anche Oprah.» «Sì, signora», sospirò Vince. «Ha il diritto di avere una sua opinione. Ma lei non ha visto o udito...» «Quello che ho visto è stato tutto quel sangue che pioveva dal mio soffitto», ripeté lei, pronunciando ogni parola lentamente, come se fosse arrivata alla conclusione che quei due erano duri d'orecchio. Fu allora che la porta d'ingresso si aprì e Fletcher disse: «Venite, ragazzi, credo che lo abbiamo preso». *** La prima volta che Jim Unger vide Jared Poe, il fotografo era seduto ammanettato sul sedile posteriore di un'auto di servizio, con lo sguardo fisso davanti a sé come se vedesse qualcosa di lontanissimo che a nessun altro era possibile scorgere. Se quegli occhi fossero stati spenti, vuoti, la cosa non avrebbe turbato il detective. Ma non lo erano. Sembrava quasi che brillassero nell'ombra, ed era difficile guardare quel viso troppo a lungo. «Un'altra auto lo ha preso giù a Conti», spiegò Fletcher, «che gironzolava parlando tra sé. Adesso non parla, ma la sua patente dice che è Jared A. Poe, e dà questo posto come suo indirizzo.» L'uomo nel retro dell'auto non reagì al suono del proprio nome. Il davanti della sua T-shirt bianca era incrostato di sangue rappreso, e così i suoi jeans. Aveva mani e braccia del colore dei petali di rosa essiccati. «Dev'essere il nostro uomo, Jim», disse Vince Norris. «La vecchia ha detto che l'amico si chiamava Poe.» «Gli hanno letto i suoi diritti?» chiese Jim a Fletcher, e l'agente alzò le
spalle. «Probabile, ma a che serve chiedere qualcosa a questo frocio? È un vegetale, Jimbo.» «Deve essere lui», insisté Vince. «Guarda quanto cazzo di sangue ha addosso. Si è tagliato facendosi la barba, secondo te?» Jim si chinò accanto allo sportello aperto dell'auto, così vicino da sentire l'odore del sangue che si stava seccando sugli indumenti di Jared Poe. «Lei è in arresto», gli disse, «sospettato di omicidio. Ha capito l'accusa, signor Poe?» Jared Poe sbatté le palpebre, una sola volta, e voltò un po' la testa verso i tre poliziotti. «Ho capito», rispose. La voce suonò fragile come un vetro sottilissimo. «Ho capito», ripeté. «Pensate che io abbia ucciso Benny.» «Santo cazzo, Batman», disse Fletcher, mettendosi a ridere. «Questo finocchio sa parlare.» «Vince, toglimelo dai piedi, per piacere, prima che mandi tutto all'aria», mormorò Jim, cercando di non distogliere lo sguardo dagli occhi brillanti di Jared Poe. «Ho ragione, vero?» chiese l'uomo nel retro dell'auto. «Pensate tutti che sono stato io a fare quello a Benny.» «Senti, amico.» Jim si fece più vicino, cercando di mostrarsi calmo, di mostrarsi ragionevole. «Che cosa ti aspetti che pensiamo? Sappiamo che era il tuo amico e tu sei tutto insanguinato. Abbiamo un testimone che ti ha visto mentre lasciavi la scena del delitto. Faremo delle analisi e scommetto che quel sangue è del tizio del primo piano. Ora, se non lo hai ucciso tu, farai bene a spiegarci da dove viene tutta quella roba rossa.» «Non l'ho ucciso io», disse Jared Poe. Chiuse gli occhi, voltò la testa dall'altra parte. «Ah, no? E allora io sono Babbo Natale», sbottò Vince Norris. «Detective», chiamò qualcuno, e Jim Unger si girò a guardare. L'uomo che prima faceva fotografie sul marciapiede ora si trovava sulla porta che dava sulle scale. «Pam dice che ha trovato qualcosa che voi due dovreste vedere subito.» L'uomo scomparve su per le scale e Jim tornò a guardare Jared Poe, che aveva ancora gli occhi chiusi. C'era del sangue anche sul viso. Lunghe righe, come pittura di guerra indiana, e uno sbaffo scuro che gli attraversava le labbra. «Potresti facilitare le cose a te e a me», disse, ma Poe non gli rispose. Quando un attimo dopo Jim sbatté lo sportello dell'auto, Poe non ebbe la
minima reazione. «Portalo via», disse Jim a Fletcher, poi si rivolse a Vincent Norris. «Forza, andiamo a vedere la simpatica sorpresa che ha in serbo per noi questa volta la Dragonessa.» «Fottuto mentecatto», disse Vince per la terza volta mentre Jim restituiva la busta di plastica a Pam Tierney. Nella busta c'erano due pagine strappate da un libro, Il corvo di Edgar Allan Poe. Due versi erano stati segnati con un evidenziatore giallo. «'Con fare di signore o di dama... '?» Jim Unger lesse ad alta voce. «E questo dovrebbe avere un senso? Come se ci stesse lasciando un messaggio? Così?» «Forse», disse il coroner, guardando le pagine con la fronte aggrottata. «O forse stava cercando di dire qualcosa a se stesso, o al morto. Cazzo, che ne so, non sono una psicoioga.» Jim guardò ancora la fotografia incorniciata. La Tierney o uno dei suoi ragazzi l'aveva portata via dalla camera da letto. Ora era sul pavimento, ritta contro il tavolino da caffè. Il vetro era rigato da materiale organico incrostato che nascondeva parzialmente l'immagine, l'androgino alato che rivolgeva il suo ghigno all'obbiettivo. Avevano trovato la poesia fissata con lo scotch sulla foto, e in realtà a Jim non fregava un cazzo di che cosa il killer intendesse comunicare con i passi evidenziati. C'era un'eccellente porzione di impronta di un pollice giusto in mezzo alla striscia di nastro adesivo. «Se l'impronta corrisponde, direi che si potrebbe scommettere con una certa sicurezza che avete beccato quello giusto», disse la Tierney. «Già», rispose Jim. «Incrociamo tutti le dita.» Da sopra la spalla lanciò un'occhiata alla camera da letto. Qualcuno vi aveva acceso una lampada da terra, e di lì lui poteva vedere le ombre degli uomini che stavano ancora lavorando su quel macello, mobili macchie di buio che cercavano di passare per umane, ombre allungate dal pavimento al soffitto, fluide e immateriali come fantasmi. Il mattino dopo Jim Unger e Vince Norris interrogarono Jared Poe in una stanzetta che odorava di detersivo per i pavimenti e fumo di sigarette. Quanto era rimasto della vittima li aspettava ancora nell'ufficio della Tierney nei sotterranei del palazzo del tribunale. L'autopsia era stata fissata per l'una. Con un po' di fortuna per quell'ora avrebbero avuto una confessione.
«Allora, signor Poe, cerchiamo di rendere la cosa il più indolore possibile», disse Vince, accendendosi una Pall Mall e soffiando il fumo contro le piastrelle della parete. «Non posso dire di aver dormito fottutamente bene questa notte, e anche lei ha l'aria di aver fatto altrettanto, per cui credo che sarà meglio per tutti se mettiamo da parte le stronzate.» Jared scrutò i due detective. Aveva gli occhi rossi e cerchiati di nero, come due lividi, e la luce al neon della stanza dava alla sua pelle una tonalità verdastra. Aveva la barba non fatta ed era vestito dei panni della prigione, con una camicia di tela troppo larga e macchiata sul davanti. «Il sangue che ti abbiamo trovato sulle mani e sugli abiti corrisponde a quello della vittima, Jared», aggiunse Jim Unger, deponendo un fascicolo sul tavolo tra loro. «E abbiamo una vagonata di impronte digitali e anche una testimone che ti pone sulla scena del delitto. Sappiamo che hai ucciso Benjamin DuBois, Jared. Sei assolutamente sicuro che non vuoi che sia presente un avvocato prima che...» «Ho già detto che non ho bisogno di avvocati», rispose Jared. «Sì, lo so che cosa hai detto. Ma devo essere sicuro...» «Non l'ho ucciso io.» Jared strinse gli occhi, poi li protesse con la mano dalla luce abbagliante. «Non ho bisogno di avvocati.» «Le abbiamo visto i graffi sulla schiena, signor Poe», intervenne Vince. «Lo sa che cosa troveremo sotto le unghie del signor DuBois?» Jared Poe rispose lentamente, come se avesse difficoltà a ricordare come si parla, o a cosa servono le parole. «Abbiamo fatto sesso ieri mattina, prima che uscissi», disse senza aprire gli occhi. «Non ho ucciso io Benny.» «E allora come mai avevi tutto quel sangue addosso, Jared?» chiese Jim, scostando un po' la sedia dal tavolo, cercando di guardarlo meglio in viso. «L'ho trovato», disse Jared, e deglutì con uno sforzo, come uno che stesse cercando di non piangere, o di non vomitare. «L'ho trovato e volevo... volevo... Gesù...» «Dunque ammette di essere stato lì?» chiese Vince. Ora era in piedi e più vicino a lui, chino sul tavolo, con la sigaretta stretta tra i denti. Jim pensò che sembrava un avvoltoio dei cartoni animati. «Ero al Centro Arte Contemporanea in Camp Street. Devo... dovevo tenervi una mostra. Sono stato lì tutto il giorno a prendere misure.» «Ma ha appena detto che lei e il signor DuBois avete fatto sesso ieri mattina», lo interruppe Vince. «Sì, prima che io uscissi.»
«Ma nessuno l'ha visto lì? C'è nessuno che possa confermare quello che ci sta dicendo?» Jared scostò la mano e la luce violenta fu di nuovo libera di colpirlo in viso. «No», disse dopo qualche istante. «No, non credo. Ma perché... perché secondo voi avrei mai potuto fare del male a Benny?» «Diccelo tu, Jared», intervenne Jim, e Vince fece schioccare la lingua contro il palato. «Non ho tempo per queste stronzate, signor Poe», riprese poi. «E neanche il detective Unger, qui, ha tempo per queste stronzate. Lei crede che una giuria se le berrebbe? Abbiamo visto le fotografie che fa. Bella merda da pervertiti, signor Poe. Io sono convinto che le viene duro, a far male alla gente.» Jared Poe chiuse di nuovo gli occhi. «Come pensa che la vedrà una giuria, eh? Persone normali a cui non piace metterlo e prenderlo nel culo, che non godono a fotografare ragazzini vestiti da donna? Sa, ho lavorato due anni alla buoncostume, e non ho mai visto niente disgustoso un decimo di questa roba.» Jim Unger alzò una mano per zittire Vince, segnale che ora era il suo turno. Vince brontolò qualcosa e si voltò verso il falso specchio dall'altra parte della stanza. «Non puoi dirci di non aver mai fatto del male a Benny, no, Jared? Perché lo facevi regolarmente. Vero? Ogni volta che lo scopavi gli facevi male. Benny voleva che tu gli facessi male...» «A che serve che vi dica qualcosa, detective?» chiese Jared Poe. Jim Unger sentì l'impulso di distogliere lo sguardo da quegli occhi stanchi e arrossati. «Voi avete già deciso. L'unica cosa che volete sentire da me è una confessione. La sola cosa che vi soddisferebbe è sentire da me che io... che io ho fatto quello a Benny.» «Cazzo, mi sembra abbastanza ragionevole», disse Vince senza girarsi. «Date le circostanze.» «Ma non succederà mai, detective.» «E allora è meglio che ci ripensi bene, all'avvocato, Jared», disse Jim, alzandosi in piedi e spingendo la sedia contro il tavolo. «Perché nonostante quello che tu dici, e quante volte lo dici, tu per noi sei colpevole quanto è vero l'inferno. E sono pronto a scommettere che altrettanto colpevole sembrerai al procuratore distrettuale e alla giuria.» Vince lasciò cadere a terra il mozzicone e lo schiacciò con il tacco. «E non stiamo parlando di ergastolo, signor Poe. Stiamo parlando di sedia e-
lettrica. Questo lo capisce?» «Andiamo», disse Jim, con la mano sulla maniglia della porta. «Lasciamogli un po' di tempo. Sono sicuro che prima o poi se ne renderà conto. Un uomo non può trovarsi immerso fino al collo nella propria merda e non sentire la puzza, prima o poi.» Jim Unger finisce un'altra sigaretta e la spegne in un posacenere di ceramica del colore dei girasoli appassiti, un oggetto che ha fatto a scuola la nipote di Julie, un regalo allegro che ora è pieno di mozziconi, cenere e fiammiferi bruciati. C'è un altro lampo e gli viene in mente di accendere la televisione. Forse il bollettino meteorologico può togliergli il sogno dalla mente, allontanare quelle cose che comunque non dovrebbe ricordare, che continuano a rodere come un cane su un vecchio osso spolpato. Il temporale è reale, concreto, immediato, il genere di minaccia che lui almeno può capire, non come quei brandelli spiritati di ricordo intrappolati dentro la sua testa, o la menzogna che avrebbe potuto fare di più per Vince Norris. La notizia del suicidio di Vince lo raggiunse il giorno dopo che aveva saputo che Jared Poe era morto. Era passato un mese da quando Vince era stato dimesso dall'ospedale, ma la sua mente era ancora a pezzi, tenuta in qualche modo insieme giorno per giorno dalle pillole e due volte alla settimana dalle sedute con il terapeuta. Viveva con la madre a Slidell, e Jim continuava a ripromettersi di fare qualcosa di più che informarsi del suo stato, a dirsi che doveva decidersi ad andare dall'altra parte del lago e passare un pomeriggio con Vince. Ma aveva rimandato e rimandato, e alla fine era arrivata la telefonata di un amico dell'ufficio dello sceriffo di St. Tammany Parish. Quando Jim arrivò a Slidell avevano già portato via il corpo. C'era solo il sangue che aveva lasciato nella sua camera da letto e sua madre, seduta per conto suo a fissare il vuoto da una finestra della cucina verso il giardino invaso dalle erbacce. Sulla scena c'era ancora qualche poliziotto, e uno di loro, un detective di nome Kennedy, prese Jim in disparte. «C'è una cosa là dentro su cui volevo chiederti un'opinione», disse indicando in fondo al lungo corridoio in penombra verso la camera di Vince Norris. Jim aveva già guardato la stanza e non gli piaceva l'idea di tornarci. «Che cos'è? Guarda, io veramente...» «Lo so che era tuo amico», disse Kennedy. «È per questo che speravo che mi aiutassi a darmi una spiegazione.» «Una spiegazione di cosa?» ma il detective si era già avviato lungo il
corridoio, per rientrare nella stanza dove Vince Norris si era tagliato la gola con la scheggia di uno specchio rotto. E Jim lo seguì, desiderando solo tornarsene nella sua auto e mettere quanti più chilometri possibile tra sé e questa casa, e il più in fretta possibile. Il detective lo precedette nella camera, e Jim stava cercando di ripetergli che c'era già stato, aveva già visto tutto quello che c'era da vedere e non ci teneva a vederlo di nuovo, grazie tante, quando Kennedy indicò il basso soffitto e poi incrociò le braccia. «Quello», disse, e Jim alzò lo sguardo. Un rozzo profilo di uccello, un enorme uccello con le ali spalancate e un becco come un pugnale, era stato tracciato sul soffitto direttamente sopra il letto. Il sangue era già secco. Jim Unger rimase immobile e senza parole, con lo sguardo fisso e la testa che gli girava. Improvvisamente la camera gli sembrò gelida. «Non un biglietto, niente. Solo questo», disse Kennedy. «Pensiamo che lo abbia fatto con le dita, prima di tagliarsi la gola. Tutti i polpastrelli della destra erano raschiati a sangue.» «Potresti non metterlo nel rapporto?» chiese Jim, incapace di staccare lo sguardo dall'incerta traccia marrone sul bianco dell'intonaco, ricordando la voce impastata dai sedativi di Vince al telefono: Lo vedo ancora, Jimbo. Lo vedo ancora quello che c'era lassù. «Se ne sai qualcosa, di questo, mi piacerebbe...» Jim lo interruppe prima che potesse finire. «Ti sto chiedendo se per favore puoi tenere questa cosa fuori dal tuo fottuto rapporto!» L'esplosione di rabbia spezzò l'incantesimo. Spostò lo sguardo: sempre meglio vedere il sangue di Vince sul tappeto logoro color merda e sul letto. «Ma...» «Di' solo sì o no. Ma quello non significa niente, va bene? Vince non stava bene. Aveva gli incubi.» Ci fu un lungo silenzio tra loro: l'altro detective guardò Jim, poi alzò gli occhi sul macabro disegno sul soffitto. «Sì», rispose alla fine Kennedy. «Sì. Che cazzo. Come vuoi tu.» Jim ringraziò, o pensò di ringraziare, e subito uscì sul corridoio. E lì trovò la madre di Vince che lo aspettava, a bloccargli la fuga. Aveva il volto di una morta, troppa pena nei suoi occhi perché potesse esserci qualcosa di simile alla vita. «Dimmelo tu», disse, e il suono della sua voce era vecchio, vecchio come le paludi infestate e i cieli sopra di loro, vecchio come la prima madre
che avesse mai perso un figlio. «Vince aveva tanta paura e non ha mai voluto dire né a me né ai dottori di che cosa aveva paura. Ma tu lo sai, è vero? Me lo devi dire.» Avrebbe potuto farlo, avrebbe potuto farla sedere e raccontarle i suoi sogni, l'incubo grondante rosso in cui erano entrati a Ursulines, particolari che, sospettava, Vince non aveva mai confidato a nessuno. E se lo avesse fatto forse le cose sarebbero andate diversamente. «Mi dispiace, signora Norris», disse invece. «Giuro su Dio che vorrei saperlo, ma non lo so. Mi dispiace moltissimo.» Quindi passò oltre e non si fermò finché non fu fuori della casa e vicino alla macchina, dall'altra parte del vialetto dissestato di cemento. Allora si girò a guardare, e la vide che lo osservava da dietro le tende del soggiorno, il viso accusatore diventato vecchio quanto il suono della sua voce. Non accende il televisore, ma lascia Julie a dormire nel loro letto e scende in soggiorno. Toglie il revolver dal fodero e lo porta con sé. Non gli va di stare troppo lontano dalla sua pistola. Fuori, il temporale infuria sulla città. Jim pensa di mettersi seduto in cucina a bere una birra e guardarlo per un po' dalla finestra, spera che quell'alcol sia sufficiente a fargli tornare la voglia di dormire. Ha un flacone di Valium nell'armadietto dei medicinali, briciole azzurre di calma, ma non gli piace usarle, non gli piace il tipo di conforto irreale, distaccato, che danno. Il suono della pioggia sono dita giganti che tamburellano sul tetto; stappa la lattina di Miller e si siede. Con la pistola sul tavolo davanti a lui, fissa lo sguardo sull'umida notte frustata dai fulmini. La birra gli dà una sensazione rassicurante scendendogli in gola, e con un'unica lunga sorsata ne beve mezza lattina. «Devi fartene una ragione, Jimbo», mormora, detergendosi le labbra. La notte, fuori, è rischiarata da un altro lampo. Una frazione di secondo di luce diurna si accampa sul mondo e lui si immobilizza, la lattina a mezz'aria, il dorso dell'altra mano ancora umido di birra e saliva. Quello che cazzo era, prima che possa bloccare il pensiero, prima che possa dirsi che era solo un gioco della luce improvvisa attraverso la pioggia battente, solo un'illusione dei suoi occhi stanchi. In alto scoppia il tuono. Jim Unger depone la lattina, raccoglie la .38 e si accosta alla finestra girando attorno al tavolo. Che cazzo pensi di aver visto là fuori?
«Niente», si risponde a voce alta, «assolutamente niente di niente», ma poi il lampo si ripete, crepita sopra il quartiere di Metairie e lo smentisce. Perché quello che credeva di aver visto è ancora lì, ritto a pochi passi dalla finestra della cucina, e sta guardando lui, con due occhi felini obliqui e senza fondo. Occhi che bucano una ghignante faccia arlecchinesca, carne raggrinzita del colore di qualcosa che è rimasta troppo a lungo nell'acqua. «Cristo santo...» bisbiglia. Alza la pistola, ma la cosa di fuori è più veloce, molto più veloce. Il vetro va in frantumi, esplode attorno a lui in un boato di vento e una pioggia di diamanti di schegge e acqua. Jim sente la pistola sfuggire alla sua presa, rimbalzare fragorosamente sul linoleum mentre cerca di proteggersi il viso dai frammenti volanti del vetro. Al di sopra del frastuono del temporale e delle lastre che si sbriciolano c'è un altro suono, un frullo frenetico, il suono terribile e familiare di nere ali furibonde. Sto ancora sognando, pensa indietreggiando e finendo contro il tavolo. «Detective Unger», lo chiama una voce da un punto molto vicino, una voce che sembra tessere la sua materia con la cacofonia di invisibili uccelli. «Chi cazzo sei?» urla Jim alla notte che dilaga dalla finestra sfondata. Le braccia e le mani sono ferite e insanguinate, e anche in bocca sente il sapore del sangue. Ma non sente dolore, non ancora. Non c'è spazio in lui altro che per la paura, cento volte più esigente di quanto potrebbe mai essere qualsiasi sofferenza di natura meramente fisica. «Lo so che è passato del tempo», dice la voce. Si rende conto che anche quella gli è familiare. «Ma mi offende l'idea che puoi avermi già dimenticato.» «Cazzo, non avvicinarti», ringhia Jim, cercando di mostrarsi padrone di sé, di mostrare che non è vero che sta per farsela addosso. Cerca con lo sguardo a terra la .38, ma la luce sul lavandino si è messa a tremolare e il pavimento è cosparso di vetri e acqua che riflettono la luce intermittente con uno sfarfallio che gli impedisce di individuare l'arma. «Non sembri troppo contento di vedermi», dice la voce, ora da un punto alle sue spalle. Jim volta la schiena a quel buco spalancato dove un tempo era la finestra, e la cosa con la faccia ghignante da arlecchino si staglia per un attimo alla luce prima di dissolversi nell'oscurità di ritorno. «Ho una pistola, figlio di puttana», dice, e fa un passo verso la porta che dalla cucina porta al garage. Ci sono cose, là fuori, con cui può difendersi, cose taglienti. «No, detective. Questa volta la pistola ce l'ho io.» Improvvisamente il
freddo del metallo preme contro la sua tempia. «Non perdere tempo prezioso a chiederti come», prosegue la voce, che ora parla direttamente dentro il suo orecchio, e lui capisce che non serve continuare a fingere che quella non è la voce di Jared Poe. Non serve fingere che quello che si trova nella sua cucina e gli preme il suo stesso revolver del cazzo contro la testa non è il morto. «Perché ora come ora il come non ha importanza. Quello che ha importanza è se io credo o meno che mi stai dicendo la verità.» Viene spinto su una delle sedie, una mano sulla spalla gelida come la canna della .38, una mano dura e perentoria come acciaio temperato che lo costringe a sedere mentre ogni muscolo del suo corpo gli sta dicendo di fuggire. «Immagino che ricorderai come funziona la cosa, per cui cerchiamo di renderla il più indolore possibile», dice la voce. Poi forti dita gli si insinuano tra i capelli, gli tirano la testa all'indietro finché si trova a fissare direttamente la pallida faccia ghignante. Adesso può vedere che è una misera maschera di carnevale, non un vero volto. «Non sei Poe», dice lui. «Se sei Poe, togliti la maschera, vigliacco fottuto.» «Sbagliato», dice la faccia bianca senza muovere le labbra, e il calcio della pistola gli cala fulminea sul naso, spaccando l'osso, lacerando la cartilagine. Il sangue caldo gli scorre lungo il mento. Jim Unger urla come se un dolore corrosivo gli inondasse la testa, ma un tuono ne inghiotte il suono. «Hai visto che cosa mi hai fatto fare?» La canna dell'arma è già nuovamente premuta contro la sua tempia. Jim annaspa e altro sangue gli riempie le narici e la bocca, soffocandolo. «Tu lo sapevi, è vero?» chiede l'uomo dietro la maschera. «Lo sapevi che non ero stato io a uccidere Benny.» «Cazzate», farfuglia Jim Unger sputando sangue e muco, perdendo materia dal naso spaccato. Ha gli occhi pieni di lacrime e vede male la maschera, che ora è solo una chiazza indistinta di alabastro sullo sfondo del buio tremolante. «Non mentire, porco fottuto». Ora la pistola preme contro il mento di Jim, puntata verso l'alto. «Non ho una sola ragione in tutto questo mondo di merda di non tirare il grilletto e farti saltare il cervello, quindi, cazzo, non mentire con me.» Allora Jim sente la debolezza nella voce, il filo teso della collera. Una
crepa che potrebbe offrirgli un'occasione, se riesce a non rovinare tutto. «Che differenza fa?» chiede. «Anche se non abbiamo preso il killer, abbiamo tolto dalla circolazione un altro schifoso pervertito, giusto?» «Credi davvero che questo è una specie di gioco, eh?» La mano che impugna la pistola trema per la rabbia che vuole uscire, una rabbia come un cane affamato tenuto alla catena. Tanta rabbia può rendere imprudenti. Jim ingoia, disgustato dal sapore amaro e salato del proprio sangue. «In un modo o nell'altro, stavo facendo solo il mio dovere, giusto?» «Sbagliato», ringhia Jared Poe, una voce che potrebbe essere quella di Jared Poe se mai una cosa del genere fosse possibile. Il revolver improvvisamente oltrepassa le labbra di Jim, spezzando i denti mentre la canna è spinta con forza contro la lingua. Il tuono piomba dal cielo a coprire il boato assordante della detonazione. *** Quattro isolati dalla casa di Jim Unger, Jared ferma la sua corsa, si lascia cadere in un cespuglio di oleandri e resta supino a fissare la pioggia, il ventre delle basse nuvole galoppanti chiazzate di arancione dall'illuminazione stradale di Metairie. La maschera di Benny è ancora stretta nella sua mano. La pioggia che gli ha già lavato di dosso quasi tutto il sangue del poliziotto, ora lava il suo sangue, perso dai cento graffi e squarci prodotti dal tuffo attraverso la finestra. C'è niente che avrebbe potuto dire, che ti avrebbe impedito di ucciderlo? si chiede, ma è come se la domanda la facesse Lucrece, come se fosse Lucrece a parlare da dietro i suoi occhi. «Che differenza fa?» le chiede, già sapendo che non c'è risposta. Il corvo si posa al suolo accanto al cespuglio e Jared volta la testa per vederlo. L'acqua scorre sulle penne nere; una goccia si è fermata alla punta del becco e resta lì pendente come una gemma finché l'uccello non la scrolla via. «E tu dov'eri, stronza? Non dovevi essere lì ad aiutarmi?» L'uccello gracchia e apre le ali, sbatte le palpebre sugli occhi dorati con un'espressione tra l'indifferenza e l'accusa. Non che Jared debba basarsi su una cosa così sfumata come il linguaggio dei gesti. Gli sarebbe impossibile non sentire la sua voce, non capire. «Ah, sì? Be', vaffanculo anche tu», risponde Jared, e torna supino a fissare lo sguardo nella pioggia.
6 Rimasta sola nell'appartamento dopo la partenza di Jared e dell'uccello, Lucrece siede alla finestra a guardare la pioggia che scorre lungo i marciapiedi di Ursulines. Sa che dovrebbe mettersi in attività, porre le domande che l'impazienza e l'ira hanno impedito a Jared di considerare, e non starsene seduta con le mani in mano mentre quel poco che rimane del suo mondo va alla deriva verso nuovi disastri. Ma si sente troppo stordita, totalmente sopraffatta. C'è un limite, pensa. Perfino per me ci dev'essere un limite. Da quando Benny è morto la sua vita ha continuato a precipitare verso una disperazione così assoluta e schiacciante da poter essere il fondo buio dell'oceano, quella pressione assoluta su ogni centimetro della sua pelle e della sua anima. Non ha avuto nemmeno il tempo di piangere la perdita del suo gemello, la sua ombra luminosa, che subito ha dovuto cominciare a battersi per salvare la vita di Jared e si è trovata scaraventata nell'arena spietata di avvocati, poliziotti, tribunali. E anche la stampa, perché quella era una storia troppo bella per non sbatterla su ogni prima pagina di giornale e in televisione: la sorella transessuale chiede salva la vita dell'omosessuale accusato dell'omicidio del gemello travestito. Quando finalmente la polizia ebbe finito con l'appartamento di Jared e Benny, fu lei a grattare via il sangue del fratello da pavimento e finestre, lei a trascinare via i materassi incrostati di materia organica e a ridipingere pareti dalle quali le macchie non sarebbero mai andate via. Si era sentita una traditrice, a coprire quelle ultime tracce di lui. Era stata lei a organizzare il funerale di Benny quando l'ufficio del coroner aveva finalmente dato il permesso di seppellire quanto era rimasto di lui nel terreno che l'anno prima Jared aveva comprato in Lafayette n. 1. E Lucrece fece quasi tutto da sola perché se Jared aveva tutto un suo codazzo nel mondo dell'arte, loro tre avevano pochissimi amici veri, gente disposta a mettersi al suo fianco durante il ciclone di pubblicità e dolore che era diventata la sua vita nei giorni successivi all'assassinio di Benny. Giorni che si erano trasformati in lunghi mesi dello stesso implacabile, ossessivo dolore. Quando il processo fu concluso e Jared fu rinchiuso nel braccio della morte di Angola, Lucrece rimase a montare la guardia all'appartamento. Lasciò la vecchia casa nel Warehouse District. L'unica speranza che le re-
stava era che saltasse fuori una prova passata inosservata che scagionasse l'amante del fratello prima che l'esecuzione la lasciasse definitivamente, irrimediabilmente sola al mondo. Contro quel giorno non aveva armi, salvo il rasoio dal manico di madreperla di Jared e la coscienza dei propri limiti, la sicurezza che non sarebbe rimasta priva di una via di uscita, di un modo per far cessare il dolore quando fosse stato chiaro che per lei non c'era altro da fare. Quando non ci fossero più stati brandelli di stupida speranza a cui appigliarsi, grandi fantasie di giustizia che l'aiutassero a trascinarsi giorno dopo giorno. Poi Jared era rimasto ucciso in una specie di rissa, uno scontro con un altro detenuto, o forse era stato semplicemente aggredito, i particolari non le sono ancora chiari. In ogni caso non avevano più importanza. Quello che importava era che la fine era arrivata molto prima di quanto prevedesse, e la cosa l'aveva trovata impreparata. Jared sarebbe dovuto morire dopo tutti i lenti e impersonali rituali dell'esecuzione legale, dopo gli appelli e le proteste inevitabili. Invece era morto dissanguato nel cortile di un carcere. O almeno così le avevano detto. La notizia era arrivata con una telefonata notturna di uno degli avvocati di Jared. Dopo, era rimasta a lungo seduta a fissare il telefono come se ci fosse stato un errore, magari tra un momento qualcuno avrebbe richiamato dicendole che no, si era trattato di un altro Jared Poe, spiacenti dell'equivoco. O anche uno scherzo. Gli avvocati dopo tutto ne fanno di scherzi macabri, e lei sarebbe stata ben lieta di perdonarli e avrebbe riso, cazzo, avrebbe proprio riso a quel punto. Alla fine andò all'armadietto dei medicinali in bagno dove teneva il rasoio, si sedette sul sedile del gabinetto e fissò la lama così come aveva fissato il telefono. Non aveva paura di morire. Se mai l'aveva avuta, la paura le era stata strappata via. Lucrece aprì la lama che mandò un fioco riflesso alla luce bassa del bagno. Si fece anche un paio di tagli di prova sulle braccia, preparandosi al dolore degli affondi longitudinali necessari per assicurarsi l'oblio definitivo. Ma poi qualcuno le aveva sussurrato all'orecchio, così vicino che ne aveva avvertito l'alito freddo sulla guancia. Una sola domanda da una voce gentile così simile a quella di Benny che il rasoio le sfuggì di mano finendo rumorosamente sulle mattonelle del pavimento. Chi seppellirà Jared se tu te ne vai? Poteva essere dentro la sua testa, prodotto di un'immaginazione codarda o traditrice, allucinazione fabbricata in un estremo tentativo di salvare la propria inutile vita. Ma attese, perfettamente immobile, con l'orecchio pa-
zientemente teso a cogliere quant'altro la voce volesse dirle ancora. «Non ho fatto tutto quello che potevo?» chiese Lucrece in un bisbiglio all'appartamento deserto. «No?» Non ci fu risposta, anche se rimase seduta sull'asse del gabinetto ancora per un'ora, ascoltando il mormorio di fondo del vecchio edificio scricchiolante, la voce della strada del Quartiere Francese che continuava la sua vita attorno a lei. Senza di lei, eventualmente. Alla fine raccolse il rasoio e lo richiuse, riponendolo nell'armadietto. Era condannata a qualche altro giorno di vita, un altro po' di dolore, dall'immagine del misero funerale di Jared, il feretro portato nel mausoleo e nessuno dei presenti che non fosse pagato per essere lì. Fuori il temporale ulula come un gigante che ha fame. Lucrece appoggia il palmo della mano alla lastra della finestra. La sente così come vede se stessa, levigata, trasparente e fredda come la pioggia che la colpisce dall'altro lato. Perché ho dovuto tirare avanti dopo il funerale? Bella domanda, eh? Ma non ha più risposte adesso di quante ne avesse quella notte quando era rimasta seduta con il rasoio aperto ai suoi piedi. Solo l'irresponsabile temporale e la notte indifferente, il rumore del proprio cuore, inquieto segnale della sua irrilevante mortalità. Se Lucrece fosse stata meno schiacciata dal mondo e dalla sua permanenza nel mondo, se non fosse già stata costretta ad accettare tante perdite e tanto orrore, il ritorno di Jared forse sarebbe stato l'ultimo passo oltre i limiti di ciò che lei era capace di sopportare, la parte della storia in cui l'autore la perde perché pretende troppa credulità da parte sua, e lei chiude il libro definitivamente. Ma così, sembra solo un altro episodio impossibile in una storia che è diventata sempre più ridicola dal giorno in cui lei è nata con un corpo che non era adatto nemmeno alle sue esigenze più elementari. È questa la sola verità che è capace di leggere nel ritmo della pioggia contro la finestra, l'unico pronostico che sa trarre dalle tracce dell'acqua che si incrociano sul vetro. Il crudele, semplice dato della sua sopravvivenza e l'angosciosa consapevolezza che ha ancora qualcosa da fare prima di poter finalmente lasciarsi andare e seguire il gemello. «Per favore, Jared», dice, ritirando la mano dalla finestra, lasciando ricadere le tendine che nascondono il temporale. «Dammi il tempo che mi serve per capire. Non farmi star qui senza scopo...» E scoppia il tuono come la risata di un vecchio.
*** L'Occhio di Horus è a un paio di isolati a ovest dell'appartamento, un negozietto di curiosità stretto tra una galleria d'arte e un antiquario specializzato in lampadari déco. Quando lo raggiunge, Lucrece è bagnata da capo a piedi nonostante l'impermeabile nero e l'ombrello. Si ferma grondante sotto la tettoia a strisce, scrutando nell'unica vetrina polverosa. Il vetro è decorato con due geroglifici egizi accuratamente riprodotti, falchi stilizzati che racchiudono il nome del negozio scritto in lettere gotiche. Lucrece ci veniva spesso, con Benny o da sola, quando ancora disegnava abiti, veniva a comprare quello che le serviva - piume, ossa di uccelli - da Aaron Marsh, il proprietario. Mancano ancora un paio d'ore all'alba e il Quartiere Francese è quieto, assonnato, le baldorie di quella notte fradicia quasi tutte finite ma il nuovo giorno ancora di là da venire. Lucrece picchia di nuovo con le nocche infreddolite sulla porta. Una campanella dall'altro lato tintinna debolmente ma dall'interno della bottega buia non arriva altro suono o movimento. Comincia a tremare. Pesta i piedi sul marciapiede, e sente che l'acqua le è entrata anche negli stivali. Bussa più forte, scuotendo i piccoli riquadri di vetro colorato della porta. «Dai, Aaron», dice, «lo so che sei là dentro da qualche parte.» Con un pugno colpisce la porta. Questa volta una fioca luce incerta balugina verso il fondo dell'Occhio di Horus e si sente qualcuno che incespica. Qualche imprecazione. Pochi momenti dopo sente lo scatto della serratura che viene aperta e poi la porta si socchiude, ancora fermata dalla catena di sicurezza. Aaron Marsh la sbircia con cautela, come un topo, con la barba bianca scompigliata e gli occhi azzurri che brillano anche in quel buio. «Che diavolo vuoi?» brontola da dietro la catena. «Hai idea di che ora è? Se non te ne vai chiamo la polizia.» «Scusami, Aaron», dice Lucrece. Adesso la riconosce, ripete il suo nome un paio di volte ed emette un verso, una specie di grugnito disgustato. «Lucrece», dice. «Lucrece DuBois? Che cosa vuoi?» «Devo parlare con te, Aaron. Parlare di corvi.» Aaron Marsh grugnisce di nuovo. «Pensavo che fossi morta», brontola diffidente, e Lucrece scuote la testa. «No. Era mio fratello. Ma è per questo che sono qui. A causa di Benny.»
«Ma non hai detto che volevi parlare di corvi?» fa lui, strizzando gli occhi per vederla meglio. Le sopracciglia arcuate sono dello stesso bianco niveo della lunga barba. «Ti prego, Aaron. Sto morendo congelata qua fuori.» Batte ancora i piedi a terra, e non soltanto per scena. Lui mormora tra i denti qualcosa che Lucrece non capisce, ma sgancia la catena e apre completamente la porta, facendosi da parte per lasciarla passare. È in vestaglia e pantofole e i suoi occhi sono assonnati e vigili a un tempo. Grata, Lucrece entra nel tepore del negozio. Aaron richiude la porta dietro di lei, fa scattare la serratura. Nell'aria si sentono odori di vecchie piume e polvere, cedro e tabacco da pipa: gentili, nostalgici odori di un tempo in cui per lei la vita aveva ancora senso. «Mi stai bagnando tutto il pavimento», dice Aaron, ed è inutile negarlo: l'acqua le scorre dall'impermeabile e dai capelli sul tappeto turco rosso e oro. La luce fioca proveniente dal retrobottega fa apparire Aaron appena un po' più vecchio dei suoi sessanta anni inoltrati. La fa pensare a un Walt Whitman un po' sballato. Le prende l'impermeabile e lo tiene con cautela con due dita, lo appende a un pomello di ottone fissato al muro accanto alla porta, indica un altro attaccapanni a cui Lucrece appende l'ombrello. Lei fa girare lo sguardo sull'Occhio di Horus, che non sembra molto cambiato dalla sua ultima visita, almeno un anno e mezzo fa. File di alti espositori e librerie in quercia e noce tappezzano le pareti, scaffali pieni di scheletri minuziosamente assemblati di aquile e aironi, e cento specie diverse di uccelli canori; prodigi della tassidermia, civette e anatre impagliate, e un gruppo di colombe migratrici estinte e, in una vetrina al centro del negozio, l'oggetto per lui più prezioso, che non venderebbe per nessuna cifra ma che non può fare a meno di esporre: un dodo impagliato. Vi sono vasi traboccanti di piume di pavone, di fagiano, di struzzo, cassetti pieni di ogni genere e tipo immaginabile di uova, ognuno accuratamente privato del suo contenuto embrionale e protetto in un letto di bambagia. Prima di trasferirsi a New Orleans, negli anni Cinquanta, Aaron Marsh insegnava ornitologia all'università di una cittadina del Massachusetts orientale. C'era stato uno scandalo sessuale, uno studente bocciato si era vendicato confessando al preside o al rettore o a chi sia di essere stato l'amante di Aaron, e il professor Marsh si era ritrovato con il culo per terra. E così era venuto nel sud, in un luogo più caldo, più libero, meno portato alla caccia alle streghe, e aveva aperto l'Occhio di Horus. «Allora, vuoi un po' di tè?» le chiede ancora burbero, anche se ora si è
addolcito quasi del tutto. «Una tazza bollente di tè verde ti riscalderà a dovere.» «Sì», risponde lei. «Lo prendo molto volentieri, grazie.» Aaron si avvia ciabattando verso la tenda di perline di ambra che separa il negozio dalla stretta rampa di scale che porta di sopra alla sua abitazione. Lucrece lo segue lentamente, ammirando i tesori di Aaron nonostante la nebbia mentale di freddo e di paura che la avvolge. Passa accanto al grande dodo che monta la sua silenziosa guardia perpetua come un personaggio di Lewis Carroll. Sembra osservarla circospetto con i suoi occhi di vetro, pronto a scattare se lei fa una mossa sbagliata. Quando Lucrece arriva alla tenda di perline Aaron è già in cima alle scale, e parla sottovoce con qualcuno. Non le era neppure venuto in mente che potesse non essere solo, e si chiede se avranno l'intimità che le occorre per porgli le sue domande. Gli scalini scricchiolano rumorosamente sotto le sue scarpe bagnate. «Sono sicuro che sopravviverai», brontola Aaron. «Adesso torna a dormire e smettila di fare lo stronzo.» Lucrece tocca l'ultimo artritico gradino che dà sul breve corridoio del primo piano quando Aaron è appena scomparso nella cucina in fondo. Alla sua destra la porta della camera da letto è aperta e c'è una lampada accesa su un tavolino accanto a un grande letto a baldacchino. Seduto nel letto, un giovanotto la guarda con aria seccata. «Non potevi aspettare fino a domani mattina?» le chiede. «No», risponde lei, «mi dispiace ma proprio non potevo.» L'uomo fa un gesto con la mano e si rimette sdraiato, coprendosi la testa con un cuscino. «Scusami», ripete Lucrece, a disagio. Poi Aaron la chiama dalla cucina e lei sente l'acqua che scorre riempiendo un pentolino. «Lascialo perdere», le grida Aaron, ma lei chiude la porta della camera, che cigola ancora più rumorosamente delle scale. Il robusto tè verde riesce davvero a dare calore a Lucrece. Mentre Aaron ciancia sul negozio, ne sorseggia una seconda tazza, scaldandosi il palmo delle mani attorno alla piccola porcellana cinese. Anche il profumo e il sapore del tè le danno nostalgia. Si chiede se esista ancora al mondo qualcosa che non sia toccata dalla sua tristezza. «Ma tu volevi parlare di corvi», dice infine l'uomo, e la scruta con attenzione da sotto le sopracciglia soffiando sul suo tè fumante.
«Sì», annuisce lei, deponendo la tazza sul tavolo. «Che cosa sai di corvi e trapassati, di corvi e fantasmi?» Aaron aggrotta la fronte e si liscia la barba. «Mi hai tirato giù dal letto alle quattro di notte per sentirti raccontare delle favolette?» «È molto importante», dice lei, scoccando un'occhiata all'orologio unto sopra il fornello. Segna le quattro e venti. Si chiede da quanto tempo Jared è andato via, dove potrebbe trovarsi adesso. O forse mi sono immaginata tutto, pensa. Forse sono solo una pazza che se ne va in giro sotto la pioggia a chiacchierare di uccelli. «Mitologia e folclore non sono il mio campo», risponde Aaron, e ingoia un sorso di tè. «Ma devi averne incontrato tanto nei tuoi studi. Devi aver sentito una quantità di cose strane.» «Cose strane», fa lui, e si mette a ridere, chiudendo gli occhi per un attimo come assaporando il gusto del tè o perdendosi in un ricordo. «Tutti vedono o sentono cose strane, Lucrece. Se vivono abbastanza e tengono gli occhi aperti. Soprattutto chi è ragazzo in New England. O vecchio a New Orleans.» «Hai conosciuto Jared Poe?» chiede lei, sentendo che sta perdendo la calma. «L'amante di Benny, il fotografo?» Aaron socchiude gli occhi, soffia di nuovo sul tè. «Hai detto corvi.» «Sì», risponde Lucrece. «Una volta l'ho visto», dice Aaron, posando la tazza. «E so che è stato ammazzato in carcere. L'ho sentito alla radio sarà una settimana. Lo Squartatore di Bourbon Street ucciso in una rissa tra galeotti.» «Già.» Lucrece comincia a pensare che avrebbe fatto meglio ad andare da qualcun altro. Qualcuno portato a credere alle storie di fantasmi più di questo scienziato emarginato, quest'uomo dai capelli bianchi che potrebbe aver inventato il dubbio per i propri piaceri particolari. «Che cosa ha a che fare con i corvi, Lucrece?» «Stanotte Jared è tornato.» Lo dice così, semplicemente, il tutto in una sola volta prima di cambiare idea. «È tornato, con un corvo.» Aaron Marsh non dice nulla, tiene gli occhi fissi sul tè che si sta raffreddando, la piccola porcellana antica decorata con passeri blu cobalto dipinti sotto la vernice trasparente screpolata. «Perché dovrei inventarmi una cosa del genere, Aaron?» sussurra Lucre-
ce. «Non sta a me dirlo.» Aaron sospira e unisce le mani davanti a sé. «In India il corvo è l'uccello della morte. In molte culture esiste questo legame. È abbastanza naturale, visto che i corvi si nutrono di carogne. L'osservazione che i corvi mangiano i morti ha portato a leggende e tradizioni in cui questo uccello è una sorta di guida delle anime, le accompagna dal mondo dei vivi a quello dei morti...» «Ma nessuno ha mai parlato del caso contrario?» chiede Lucrece, e lui alza lo sguardo su di lei. I suoi occhi hanno quasi la stessa tonalità di blu degli uccelli dipinti sulle tazzine di porcellana. «Immagino che tu abbia conoscenze più adatte a rispondere a una domanda di questo genere», le dice. «Non mancano occultisti e spiritisti in questo quartiere.» «Ma io è di te che mi fido, Aaron, perché so che non mi dirai quello che ho voglia di sentirmi dire, né che senti di quello che dico solo quello che hai voglia di sentire. Tu sei uno scienziato.» «Ero uno scienziato», la corregge lui. «Ora sono soltanto un vecchio pederasta che vende penne di piccione e polvere di ossa di pulcino a presunte sacerdotesse vudù.» «E a quanto pare passa un sacco di tempo ad autocommiserarsi», aggiunge Lucrece, senza badare a nascondere la crescente irritazione. «Be', sì», ammette Aaron. «Scusami se ti ho disturbato.» Si alza per andarsene, non vuole più perdere e far perdere tempo, ma immediatamente Aaron le fa segno di rimettersi a sedere. «Non posso dirti molto», dice. «Ma c'è un tedesco, Weicker, mi sembra...» Si tormenta la barba. «Al diavolo. Aspetta un minuto. Torno subito.» Lucrece si risiede mentre Aaron si alza e la lascia sola in cucina. Sorseggia il suo tè e ascolta il rumore dei passi che percorrono il corridoio e poi scendono in negozio lungo la scala cigolante. Dalla camera da letto, l'uomo chiama: «Aaron, che cazzo vuole quella?» «Ti ho detto di dormire, Nathan», risponde Aaron Marsh, con la voce attutita dalla distanza e dal temporale, la pioggia che batte ininterrotta sul tetto, un'auto che passa in Dumaine Street. Sembra infinitamente più lontano, non solo al piano di sotto. Dopo pochi minuti la sua tazza è vuota, resta sul fondo solo qualche fogliolina nera. Presto lo sente che risale le scale, e quando rimette piede in cucina porta con sé un vecchio libro polvero-
so rilegato in tela nera con tracce sbiadite d'oro sulla copertina e sul dorso. «Avevo ragione», dice. «Weicker. Der Seelenvogel in der alten Literatur und Kunst.» Aaron alza il libro così che lei lo veda. «Qui c'è parecchio sugli uccelli come spiriti della morte e immagini di morte, immagini dell'anima, psicopompi e quant'altro...» Smette di parlare sfogliando le vecchie fragili pagine. «E corvi?» chiede Lucrece. «Quasi tutti i corvidi. Corvi, corvi imperiali, cornacchie... molti di loro sono spesso presentati come uccelli della morte. Ah sì, ecco.» Attacca a leggere a voce alta, seguendo il testo con un dito. «'In habentibus symbolum facilis est transitus.'» «Non so il latino», lo interrompe lei. Aaron la guarda severamente, uno sguardo molto professorale, come se l'avesse scoperta senza compito o a passare biglietti in classe. Poi si scusa e ripete traducendo. «Per coloro che possiedono il simbolo il passaggio è agevole.» Si ferma, poi aggiunge, come una nota al testo; «Il passaggio tra la terra dei vivi e quella dei morti». «E il simbolo che cos'è», chiede Lucrece, ma lui alza le spalle. «Dipende. Potrebbe essere molte cose.» Torna al libro. «Qui Weicker riporta qualcosa, un frammento di leggenda a suo parere di origine ungherese o valacca.» Ora Aaron legge lentamente, traducendo via via. «'Costoro ritenevano un tempo che quando una persona moriva un corvo ne conduceva l'anima nel mondo dei morti. Ma talvolta accade qualcosa di così brutto che viene trasportata anche una terribile tristezza e l'anima non può riposare. Allora a volte il corvo può riportare l'anima nella terra dei vivi per compiere vendetta sui responsabili del suo tormento. «'Finché lo spirito si vendica solo dei responsabili, il corvo lo protegge da ogni male ed è invulnerabile a qualsiasi uomo o bestia o altro spirito maligno. Ma se lo spirito devia da questo rigido cammino, il corvo può essere costretto ad abbandonarlo, e lo spirito resterà a vagare da solo nel mondo dei vivi per sempre, come uno spettro.'» Aaron si punta il dito alla base del naso, con la forza dell'abitudine, sistemandosi occhiali che ora non ha, mentre chiude il libro e lo depone sul tavolo tra loro. «E dunque», conclude, «in questo caso immagino che il simbolo sia il dolore dell'anima e il legame di questo dolore con i viventi.» «Gesù», mormora Lucrece, con lo sguardo fisso sul librone nero di Aaron Marsh.
«È solo una favola, Lucrece. Questa stessa gente è convinta che le anime dei suicidi tornino come vampiri.» Per un solo secondo sente l'impulso di dirgli di più, di raccontargli tutti i particolari dell'apparizione di Jared nell'appartamento e dei pensieri che lei ha letto nella mente di uccello del corvo. Sente il desiderio che qualcun altro, chiunque altro, conosca le cose che lei ha visto e sentito. Quel secondo passa. Potrebbe non esserci molto tempo, se vuole aiutare Jared. «Grazie, professore», dice, scostando la sedia dal tavolo. «Sei stato molto gentile a cercare di aiutarmi, e mi dispiace molto di avervi svegliato, te e Nathan...» «Una favola, Lucrece. Nient'altro», ribadisce lui. Lei gli sorride, ma quel sorriso sembra una smorfia di nausea. «Adesso devo andare», dice. Per un momento lui appare incerto, come se stesse pensando di chiamare un medico o la polizia. Ma lei lo supera dirigendosi verso il corridoio e lui la segue, mormorando qualcosa a proposito del temporale, qualcosa che ha sentito alla radio. Insieme scendono la scala cigolante e ripassano davanti al dodo tarmato nella sua prigione di vetro e acero. Aaron le apre la porta mentre lei indossa l'impermeabile ancora bagnato e recupera l'ombrello. «Sta' attenta», le dice mentre lei varca la soglia, uscendo nella pioggia che il vento soffia sotto la tettoia. «È solo una favola», gli risponde lei. Lui annuisce, un breve gesto ottimista del capo che dice: vorrei almeno credere che lo dici convinta. «Andrà tutto bene.» Poi le dice addio e la porta dell'Occhio di Horus si richiude con un tintinnio della campanella, e Lucrece è sola sulla strada bagnata, con l'alba che si avvicina. Il giorno non è spuntato neanche da un'ora, e se Frank Gray ha avuto risvegli peggiori dopo una sbronza, la testa gli fa troppo male per potersene ricordare. Al volante c'è il suo partner. Quando l'auto della polizia svolta da Canal in St. Charles, la pioggia sbatte con tanta violenza contro il parabrezza che gli sembra strano che non lo schianti. Gli sembra di avere la testa altrettanto fragile, come se qualche semplice goccia d'acqua potesse mandargliela in mille pezzi. Lo stomaco gli va su e giù come le raffiche intermittenti del vento. «Cristo, Wally», dice, e la voce che gli sale nella testa rimbalza contro le pareti del suo cranio di cristallo. «Vedi un po' se ti riesce di evitarne un
paio, di quelle buche, okay?» Wallace Thibodeaux, un nero massiccio dai capelli grigi più anziano di lui di dieci anni, è suo partner ormai da oltre un anno. E Wallace Thibodeaux odia i poliziotti che bevono quasi quanto odia i poliziotti sporchi. A Frank lo ha detto più di una volta. «Allora, che cos'era ieri sera, Frank?» gli chiede Wallace, forzando lo sguardo tra la pioggia, togliendo con una mano un po' dell'acqua che si è condensata all'interno del parabrezza. «Benzina e trementina? Acqua Velva corretta con Drano?» Frank guarda le case con le colonne bianche che fiancheggiano la strada, seminascoste dalla pioggia battente, e risponde con un grugnito. «Be'», prosegue Wallace, «se ti è rimasto qualcosa in corpo da vomitare, farai bene a farlo prima che arriviamo al parco, perché ho la sensazione che non sarà bello.» «Sto bene», dice Frank, e si massaggia il punto in mezzo agli occhi che gli martella più forte. «Sì, si vede che stai bene. Chi ti vede dice subito: come sta bene Frank.» Un tram li sorpassa, una sagoma sfocata di rosso e verde e di ruote che girano, e Frank emette un lamento. «Guidi come una vecchietta», dice. «Ti fai superare pure dai tram.» «Frank, non vedo un cazzo. Casomai non te ne fossi accorto, siamo in mezzo a un fottuto uragano.» Frank ricorda di aver perso conoscenza davanti alla televisione, ricorda il canale delle previsioni del tempo e la graziosa spirale bianca di nuvole nelle foto del Golfo del Messico scattate dal satellite. «Ah già», geme. Per qualche minuto è in dormiveglia. Quando si riprende, stanno passando per Tulane, con la sua facciata di rispettabilità eretta come uno schermo contro la corruzione e il lento irresistibile marciume che stringe da tutti i lati. Wallace accosta dietro una Honda color pomodoro e parcheggia, guarda verso l'altro marciapiede, oltre i binari del tram, verso l'ingresso di Audubon Park. Ci sono già quattro autopattuglie in sosta sul lato del fiume St. Charles, e probabilmente ce ne saranno altre all'interno del parco. La pioggia sfoca le loro luci lampeggianti trasformandole in qualcosa su cui Frank non riesce a mantenere lo sguardo. «Sei sicuro di star bene, Frank?» chiede Wallace, abbottonandosi l'impermeabile. «Non mi va di dover dare spiegazioni su perché vai vomitando sulla scena del delitto.» Per tutta risposta Frank apre lo sportello ed entra in quello che a prima
vista sembrerebbe un muro compatto d'acqua, un diluvio di cui Noè andrebbe fiero. Pochi secondi ed è bagnato fradicio fino all'osso. Ma la doccia fredda lo fa sentire un po' più vivo, e pensa che forse tutto sommato può farcela. Wallace ha l'ombrello, ma la pioggia arriva anche là sotto. Attraversano il tratto di terreno, sguazzando fino alla caviglia nelle pozzanghere e nei canali di scolo in piena, e si fermano presso una delle auto di pattuglia. L'agente al volante abbassa di due dita il vetro del finestrino. «Siamo arrivati prima del coroner?» chiede Wallace all'uomo in macchina. Frank alza la testa verso la pioggia, apre la bocca e tira fuori la lingua come quando era piccolo. Ma la pioggia non ha il sapore che lui ricorda, sa vagamente di petrolio, di chimica, e la sputa sull'asfalto. «Sì, penso di sì», risponde l'agente. «Ma devo avvertirvi, se non lo avete già saputo: è un macello. Davvero, una cosa che fa veramente rivoltare lo stomaco. Meno male che piove e che non c'è il sole, capisci che cosa intendo dire?» «Sì», dice Wallace, «capisco che cosa intendi dire.» Frank sputa ancora ma il saporaccio chimico della pioggia gli resta attaccato alla bocca come l'unto del pollo fritto. Il poliziotto richiude il finestrino e Frank segue Wallace nel parco, in mezzo ai pilastrini in muratura che fiancheggiano l'ingresso. Il diluvio sta cominciando a ridursi a un semplice acquazzone continuo. La fontana è solo a una trentina di metri all'interno del parco, marmo e cemento e un nudo centrale, una figura femminile in bronzo in equilibrio su una sfera anch'essa di bronzo, con le braccia spalancate come se fosse stata lei a evocare questo temporale per qualche fine segreto. Ai lati della fontana vi sono due putti in bronzo, bimbetti nudi a cavalcioni di due tartarughe, uno a destra e uno a sinistra della donna. La fontana è già stata transennata con il nastro giallo di plastica della polizia, teso attorno a un anello irregolare di sostegni di legno. Il nastro svolazza al vento, sul punto di spezzarsi da un momento all'altro e di spiccare il volo risucchiato dalla voracità della tempesta. Frank e Wallace mostrano il distintivo. Uno degli agenti di servizio annuisce e si fa da parte proprio nel momento in cui una raffica particolarmente violenta aggredisce l'ombrello di Wallace e lo rovescia come un guanto. «Cazzo», esclama lui, e Frank fa una risatina che gli rimbomba in testa. «Tanto ti stavi bagnando lo stesso, Wally.»
Ma Wallace guarda in cagnesco l'ombrello rovinato e lo getta a terra, dove l'oggetto si scuote tutto e se ne rotola via inseguito dal vento. L'ombrello nero fa venire in mente a Frank una sorta di bizzarro pipistrello alieno. Distoglie lo sguardo, scavalca il nastro giallo e dà una prima occhiata a ciò che li sta aspettando nella fontana. «Gesù...» Wallace si volta dall'altra parte, si copre la bocca con le mani e comincia a tossire. Ma Frank non riesce a staccare gli occhi dall'acqua arrossata e dai pezzi che vi galleggiano dentro. «Da non crederci, eh?» Frank si limita ad annuire, non si volta a vedere chi ha parlato. «Chi è arrivato qui per primo?» domanda deglutendo con uno sforzo, ricacciando giù l'acido nauseabondo che gli sale in gola. È solo questione di tempo, ma almeno potrà dire di aver provato a resistere, e forse Wallace gli riconoscerà di averci provato. «Io e il mio partner. Non abbiamo toccato niente», dice il poliziotto. «Certo che con tutta questa dannata pioggia non so se questo avrà troppa importanza.» «Chi ha fatto la chiamata?» chiede Frank, morsicandosi con forza il labbro inferiore, un piccolo dolore contro lo stomaco che si rivolta. «Quello lì», risponde l'agente, indicando al di là della fontana un uomo anziano con un impermeabile costoso e un paio di galosce verdi. È seduto su una delle panchine di ferro del parco e tiene al guinzaglio un chihuahua. Anche il cane ha un impermeabile, di plastica color giallo banana. I due sono completamente circondati da poliziotti con l'ombrello, stretti protettivamente sopra il vecchio e il cagnolino. «Ha chiamato il 911 una mezz'ora fa.» Frank alza la mano per zittire l'agente e si avvicina di un passo alla fontana. «Non mi pagano abbastanza per questa merda», dice Wallace dietro di lui, ma Frank non è capace di distogliere lo sguardo dall'acqua, che ha il colore del Kool-Aid alla ciliegia. Sembra quasi uno di quegli stereogrammi tridimensionali, un collage insensato di rossi neri e bianchi, che se lo guardi in un certo modo potrebbe risolversi in qualcosa di umano, qualcosa che potrebbe essere stato umano. Un groppo grigioazzurro di budella, uno straccio di capelli neri che sembra una colonia di strane alghe, frammenti vari che quasi danno un senso all'insieme. «Ci sono dei sacchi di plastica laggiù», dice il poliziotto facendo cenno verso la quercia contorta che sta dall'altro lato della fontana. «C'è rimasto
attaccato del sangue e della roba, per cui penso che il killer deve averli usati per portare fin qui questo macello e scaricarlo nella fontana.» Qualcuno tira Frank per una manica. Lui sobbalza leggermente, ma è solo Wallace, che continua a coprirsi con una mano bocca e naso, e guarda la fontana solo di sfuggita. «Fermati un momento, Frank, okay? Datti una calmata. Stai diventando verde...» Lui scaccia la mano di Wallace. Ancora un solo passo verso il bordo della fontana, e ora sta guardando direttamente in quel brodo di pioggia e carne, ossa e midollo, organi e muscoli a tocchi come residui di macelleria. Il vento soffia così forte che per un momento Frank pensa che adesso se lo porterà via come un giornale vecchio e lo lascerà impigliato tra i rami spogli di un albero o lo spingerà in alto sopra la città, via da quella cosa atroce sparpagliata davanti ai suoi occhi. Ma quando le raffiche si calmano lui è ancora lì. «Gesù, Frank. Per favore...» geme Wallace. Frank sbatte le palpebre, si toglie l'acqua inquinata dagli occhi. È allora che si accorge della scritta scarabocchiata sul bordo della fontana, le lettere inclinate scritte con qualcosa di nero e untuoso, qualcosa che il temporale non riesce a lavar via. Lettere larghe più di un palmo, così che deve spostarsi torno torno alla fontana per leggerle tutte. Wallace gli sta dietro, imprecando contro di lui e contro quello schifo di tempo e contro quel lurido figlio di puttana che è stato capace di fare a pezzi uno e di lasciare i pezzi a galleggiare in un parco pubblico. «Poe», dice Frank. Finalmente riesce a distogliere lo sguardo, come se avesse superato una sorta di esame. Guarda in alto, attraverso i rami scossi dal vento, verso le nuvole nere che galoppano in cielo. «Che cazzo dici?» L'ultima parola si trasforma in un conato e Wallace è costretto a girarsi dall'altra parte. «'Al mattino lui mi lascerà'», comincia Frank, ripetendo quello che ha letto sul graffito nero-petrolio, e recita ricorrendo ai ricordi della scuola. «È Poe. Ti ricordi Il corvo? Di Edgar Allan Poe? 'Al mattino lui mi lascerà, così come già sono fuggite le Speranze'.» «Come...» comincia Wallace e subito si ferma, inghiotte prima di poter finire. «Come dici tu, Franklin.» Poi si allontana dalla fontana, supera il cordone di nastro giallo e vomita nell'erba. Frank non si muove, non stacca gli occhi dalle nuvole. Di punto in bianco si è reso conto che la testa non gli fa più male.
Nella cucina della sua grande casa sul fiume l'uomo che oggi è Jordan finisce la sua colazione di carne in scatola e purè di mais in scatola ascoltando la radio. La vecchia Sony portatile sul bancone è l'unica radio che ha in casa, e l'ha accuratamente incartata in tre fogli sovrapposti di alluminio, ha tracciato in rosso e nero, con pennarelli indelebili, i simboli appropriati sull'alluminio, e adesso sa di essere assolutamente al sicuro dai pericoli di segnali vaganti o raggi cosmici amplificati o onde telepatiche subliminali che possano arrivargli dall'Esterno. La tiene sempre sintonizzata sui 90.7 perché il jazz è l'unica musica che gli piace, l'unica musica che non subisce, ne è abbastanza sicuro, la Loro influenza. Adesso però sta ascoltando il notiziario, soprattutto servizi sulla tempesta tropicale che sta per trasformarsi in uragano. Uragano Michael. Pensa a come sarà appropriato, il cielo vendicatore che spazza il Golfo del Messico verso la turpe Babilonia di New Orleans. Se credesse davvero in Dio o negli dei, potrebbe vedere la tempesta come un contributo divino mandato a contrastare la cosa-uccello nero dei suoi sogni e delle sue visioni. Ma non è credente, e dunque dovrà accontentarsi della metafora e della sua astratta consolazione. Jordan raccoglie un'altra forchettata del giallo mais dolce e ascolta la pacata voce maschile che riferisce della scoperta, all'alba, di un corpo in Audubon Park. Niente particolari. Nemmeno un fiato sul tempo e la perizia che ha impiegato sul ragazzo, ma Jordan ha finito per abituarsi a questo genere di sciatteria. Hanno paura di dire la verità, hanno paura di spaventare le masse che vivono ignare tra la Loro invasione e la sua resistenza. «Nostre fonti riferiscono che il cadavere presentava gravi mutilazioni, ma al momento la polizia di New Orleans non conferma né smentisce l'informazione. Non si è espressa neanche sull'esistenza o meno di una possibile connessione tra questo delitto e gli omicidi dello Squartatore di Bourbon Street.» Questo provoca un cauto sorriso in Jordan, un sorriso soddisfatto che lo fa un po' vergognare. Qualcuno se n'è accorto, pensa. Per quanto cerchino di coprire la cosa, c'è sempre qualcuno che se ne accorge. «Una notizia che potrebbe essere collegata alla precedente», dice il cronista. «Questa mattina, nella sua casa di Metairie, è stato trovato il corpo senza vita del detective James Unger della divisione Omicidi del Sesto Distretto, morto in seguito a un singolo colpo di arma da fuoco alla testa. Fonti vicine alla polizia riferiscono che il detective Unger potrebbe essersi
tolto la vita in seguito al suicidio del suo partner, avvenuto cinque giorni fa, ma non è stata esclusa l'ipotesi che si tratti di omicidio. I due detective erano stati gli autori dell'arresto di Jared Poe, condannato per gli efferati delitti detti dello Squartatore di Bourbon Street. «Sport. Oggi i Saints hanno perso la prima partita di anticipo di stagione...» Jordan si alza e spegne la radio. Resta in piedi accanto al banco della cucina ascoltando il cuore che gli batte nel petto, e si sente la testa leggera e pesante al tempo stesso. Che cos'è questa increspatura nel gioco? Tutti e due morti, i detective che così abilmente e involontariamente hanno sviato ogni sospetto da Jordan, che hanno abboccato agli indizi che lui ha lasciato nell'appartamento di Ursulines Street. Sono stati valorosi soldati nella sua guerra. Hanno tolto dalla strada Jared Poe. Hanno preso quel fottuto killer pervertito, pensa Jordan. Ecco che cosa hanno fatto. Sa che avrebbe dovuto prevederlo. Sporche meschine rappresaglie per le sue azioni recenti, e sicuramente collegate alle visioni della cosa nera alata sopra la città. La cosa che ora è tanto vicina che lui può sentirla, sente che osserva ogni sua mossa. Ritorsione per la morte di Jared Poe. Hanno perso il Loro prezioso evangelista, e qualcuno ha dovuto pagarla. «Cazzo», mormora Jordan con voce malferma, e si guarda le mani. Sono diventate bianchissime e tremano, ma non saprebbe dire se è paura o eccitazione per il fatto che la sua campagna ha attirato allo scoperto forze così potenti. Forse è fierezza, perché Loro lo temono così tanto. Lui Li ha colpiti così duramente e Loro non hanno nemmeno cercato di prendere da lui la Loro libbra di carne, e hanno colpito invece pedine innocenti e ignare. Uomini inconsapevolmente al suo servizio, soldati che hanno assorbito il primo fuoco dell'attacco, concedendogli un po' di tempo in più. Alla fine sarà tutto una questione di tempi. Questo lo sa. Jordan si allontana dalla radio e comincia a sparecchiare la tavola. Alle undici la Tempesta Tropicale Michael si è trasformata in Uragano Michael e le stazioni radiofoniche e televisive hanno cominciato a parlare di piani di evacuazione, interrompendo soap operas e talk show per dare conto della costante avanzata della perturbazione verso ovest attraverso il Golfo. Immagini da satellite di una grande spirale bianca con un occhio di ciclope blu-oceano, un vasto sistema di nuvole e vento e pioggia battente, che si sta abbattendo sul Mississippi e verso il delta in Louisiana, le paludi
e il vasto, sporco fiume, tutte le città sui canali con strade allagate e linee del telefono interrotte. Perfino gli oscuri antichi poteri annidati tra i ceppi marci dei cipressi e i tetti del Vieux Carré prendono atto di questa forza e si puntellano in attesa del suo arrivo. 7 Il mondo si sta disfacendo, pensa Frank Gray. L'idea gli fa una tale paura che cerca di dirsi che si tratta solo di una frase che ha sentito dire una volta a qualcuno, non qualcosa di cui è responsabile lui. Ma non è questo ciò che sente, mentre è al fianco del suo partner nella cucina del detective James Unger, con la tempesta che si scatena a raffiche intermittenti al di là delle mura inconsistenti della casa di Metairie. Nelle ultime ventiquattr'ore il mondo ha cominciato a disfarsi addosso a Frank come un vecchio maglione, un paio di fili smagliati lasciati così troppo a lungo e ora il tutto se ne sta andando a puttane. Qualcosa che ha avuto inizio con il ragazzino nel bar, forse, il pompino nel cesso finito male, il primo passo su una pista contorta che in qualche modo lo ha condotto qui. «Bisogna che ci diamo una mossa», dice Wallace. Frank si volta verso di lui. Wallace appare spaventato, nauseato, stanco di questa lunga giornata di sangue e vento che è solo a metà. «Non so nemmeno che cazzo ci facciamo noi due qui.» Questo in effetti è vero. Ma quando è arrivata la comunicazione con la notizia su Unger, Frank ha dovuto vedere di persona, al diavolo la giurisdizione. Sapeva quanto fosse stata importante la testimonianza di Jim Unger nella condanna dell'uomo a cui la polizia di New Orleans aveva attribuito gli omicidi di Bourbon Street. E ora Unger è lì, steso sul pavimento della sua cucina con il cervello schizzato come tapioca in giro sul linoleum. «Che diavolo è successo qui, Wally?» chiede Frank, ma Wallace sospira e continua a guardare dalla finestra schiantata. La cucina è allagata dalla pioggia spinta dal vento. «Cristo, Frank, il caso non è nostro. Non è un problema nostro capire che cosa significa.» «Forse», dice Frank. «Non c'è un cazzo di forse, qui, Frank. Questo non è territorio nostro e Unger non è un caso nostro.»
Frank torna a guardare il corpo sul pavimento, ancora semiseduto sulla sedia che si è rovesciata all'indietro, con le ginocchia nude che puntano verso il soffitto e il calcio della pistola che gli spunta da quello che resta della bocca. «Abbiamo già abbastanza guai per conto nostro a doverci occupare di quella merda della fontana.» «Ma rifletti un attimo, Wally...» Ma Wallace lo ha preso per un braccio e lo sta già portando fuori della casa, oltre i poliziotti di Jefferson Parish dall'aria annoiata e l'ambulanza nel vialetto, fino alla loro auto, parcheggiata lungo il marciapiede. «Non ti era neanche simpatico, quel povero bastardo, Frank», dice Wallace aprendo lo sportello. Frank è ancora sotto la pioggia, e guarda la casa, cercando di assemblare mentalmente i pezzi. Cercando di trovare la soluzione alle contraddizioni più palesi e alle più evidenti coincidenze che gli rimbalzano nella testa. Alla fine dà ascolto a Wallace che gli dice di sbrigarsi a montare in quella dannata macchina, apre la portiera di destra e si sistema al suo posto mentre la Ford si mette rumorosamente in moto. «Allora, vuoi dirmi di che cosa si tratta?» chiede Wallace, allontanandosi dalla casa del morto. I tergicristallo entrano in azione, oscillando da un lato all'altro del parabrezza come ali scheletriche, ma sotto quel diluvio è come se non ci fossero. «Non ne sono sicuro», risponde Frank. «Coraggio, Frank. Non farti pregare. Sono gelato e fradicio fino al culo e non sono in vena di preghiere, oggi.» Tutto il mondo si sta disfacendo come un vecchio maglione, pensa di nuovo Frank. Nonostante la prudenza, i calcoli paranoici che per tanto tempo ha impiegato per tenerlo insieme. «Tu pensi che lo Squartatore fosse Jared Poe?» chiede a Wallace mentre si fermano a un semaforo rosso. «Se io...» comincia Wallace. Poi il segnale cambia, una chiazza confusa di verde smeraldo attraverso la pioggia. Attraversano l'incrocio con prudenza, diretti verso la I-10 e verso il centro. «Ah, ecco», dice Wallace, passando una mano sul vetro appannato. «Tu pensi che il fatto che Jim Unger si è fatto fuori ha a che vedere con la storia di questa mattina.» Frank vorrebbe fumare, ma sa che Wallace sta cercando di smettere, e allora non prende il pacchetto quasi finito di Lucky Strike che tiene nel taschino.
«Primo», dice, «Poe va in prigione e gli omicidi non cessano. Cioè, va bene, cessano: per quanto tempo? Una settimana, un mese?» «Mai sentito parlare di omicidi per emulazione, Frank?» «Lo pensavo anch'io. Ma la storia della poesia che hanno trovato con il cadavere di Benjamin DuBois non è mai arrivata alla stampa.» «Non ti seguo, Franklin», dice Wallace mentre la Ford si immette sulla rampa di accesso alla superstrada. «Merda, non vedo un cazzo.» «Accanto al corpo di DuBois c'era una copia del Corvo di Edgar Allan Poe. Alcuni versi erano segnati...» «Vuoi dire che quella merda scritta sulla fontana era della stessa poesia?» «Già», risponde Frank. «Esattamente.» «E ti chiedi come faccia l'imitatore a sapere della poesia del caso DuBois.» Frank tira fuori il pacchetto dalla tasca e spinge l'accendisigari del cruscotto. «Scusami, eh», dice, ma Wallace scuote la testa. «È passato... quanto?... una settimana da quando Poe è stato ucciso ad Angola, giusto?» prosegue Frank, togliendo una sigaretta dal pacchetto e rimettendolo in tasca. «Sì», risponde Wallace aprendo di uno spiraglio il finestrino. Nell'abitacolo l'aria fa un rumore forte e fastidioso, e tutti e due sobbalzano alle gocce gelate di pioggia risucchiate all'interno dell'auto. «È esatto.» «E subito il giorno dopo Vince Norris si taglia la gola. Vince Norris era il partner di Jim Unger.» «Vince Norris era anche matto come un cavallo, Frank.» Wallace si massaggia l'orecchio destro con l'indice. «Poi questa mattina troviamo il corpo nel parco...» «Se vuoi chiamarlo corpo», dice Wallace passando di nuovo la mano sul parabrezza. «... e vicino un verso dal Corvo, e neanche un'ora dopo veniamo a sapere che Jim Unger è morto.» «E allora adesso stai pensando che dopo tutto non fu quell'attore a sparare al presidente Lincoln.» L'accendino scatta e Frank accende la Lucky Strike sulla rovente spirale arancione. «Sei il tipo più sarcastico che abbia mai conosciuto, Wally», dice, cercando di farsi sentire come se non avesse paura, come se niente di questa merda riuscisse a passare oltre le sue difese. Frank butta fuori il fumo e
guarda il diluvio, le nuvole, gli alberi scossi dal vento. Il vento fa sobbalzare la Ford, ed è evidente che Wallace ha difficoltà a tenerla in strada. «E una delle mie migliori qualità», dice Wallace sogghignando. «Mi impedisce di finire a ciucciarmi la mia canna, come il detective Unger che ci ha appena lasciato.» Frank aspira un'altra boccata profonda dalla sigaretta e guarda le nuvole, ricordando la forma che aveva la tempesta nelle fotografie da satellite del canale delle previsioni. Quando Jared apre gli occhi il corvo gli sta appollaiato sulla spalla, stretto al suo viso come se volesse rubargli un po' di calore corporeo, calore che non ha. «Dove siamo?» chiede all'uccello. Il corvo fa un breve verso gutturale. Piove ancora. Jared comincia a pensare che forse piove da sempre, e che i ricordi che ha del sole sono irreali quanto i ricordi che ha della vita. Non ha dormito, ma ha come l'impressione di aver sognato. Non ricorda di aver lasciato la siepe di oleandri a Metairie, ma i segnali stradali gli dicono che è tornato nel Quartiere Francese. Il selciato della via luccica sotto un dito d'acqua, un fiume stretto e rettilineo alimentato dal cielo e dai tombini e dalle cascate di cristallo che piovono dai tetti. Vorrebbe sdraiarsi in mezzo alla strada, immagina l'acqua che se lo porta via in piccoli pezzi, separando corpo e mente, tutto il dolore, finché non resti altro che una macchia d'unto iridescente. In breve sarà cancellata anche quella. «Ehi, signore!» grida qualcuno. Jared vede una faccia nera che lo guarda dalla finestra di un primo piano. La faccia oscilla e ondeggia dentro un riquadro buio incorniciato di stucchi rosa, e poi l'uomo grida di nuovo. «È matto a starsene sotto questa pioggia? Non ha sentito che arriva l'uragano?» Sono così matto che non sono riuscito nemmeno a rimanere morto, pensa Jared. Che cosa c'è da aspettarsi da uno zombie che non ha avuto nemmeno il buonsenso di rimanere morto? «E com'è che è vestito così? Non è mica carnevale, sa? Ehi, il suo uccello si sta bagnando tutto!» Jared fa un gesto con la mano all'uomo, si gira dall'altra parte. La pioggia scorre sul lattice nero del frac di Benny e si disperde nel fiume, sgocciola dalla maschera da pagliaccio che Jared non ricorda di aver rimesso. Attraversa sguazzando il marciapiede e si ferma sotto l'esiguo riparo dell'insegna di un negozio che vende erbe e pozioni vudù. Nel negozio non ci
sono luci accese. Jared resta lì per qualche momento, osservando la propria immagine riflessa nella vetrina. Scrutando nel profondo di quella tenebra, a lungo rimasi, dubitando, temendo.. Jared tocca il mento aguzzo del volto di cuoio che copre il suo. Il riflesso segue il suo esempio. «L'acqua se la porterà via, signore!» grida l'uomo alla finestra dietro di lui, e poi scoppia a ridere, una risata rozza che è un raglio. «Michael si porterà via tutti e due fino al mare!» Passa una lunga auto nera, solcando il fiume che scende per Toulouse Street, inondando il marciapiede e Jared. Si volta, coglie una breve immagine del conducente attraverso il finestrino della Oldsmobile. Il viso è magro, smunto, con due guance scavate da affamato; un viso che scuote la sua pigra memoria, e ora Jared sa perché è tornato al Quartiere Francese. Sa il nome da assegnare alla faccia: John Henry Harrod, il procuratore distrettuale che ha diretto personalmente l'accusa, l'uomo che sedeva dall'altra parte dell'aula del tribunale e ha costruito la sua condanna inchiodando insieme pezzi di coincidenza e di menzogna mentre l'assassino di Benny se ne andava in giro per le strade, impunito, assolto, libero di uccidere ancora. La Oldsmobile svolta in un viale privato e Jared e il corvo j sono nuovamente soli. Per il momento, almeno, l'uomo alla finestra sembra aver perso interesse per loro. «Scommetto che nemmeno quel figlio di puttana lì è nel programma, vero?» chiede Jared al corvo. Sa già qual è la risposta prima ancora che questo gliela dia. «Allora facciamo un'altra piccola deviazione mentre tu ti decidi a capire chi diavolo c'è, invece.» L'uccello risponde con un cra-cra che spacca i timpani. «A me sta bene. Grazie per aver trovato quello stronzo, al resto posso pensarci io.» Alza la mano e scaccia il corvo dalla spalla. L'uccello svolazza per qualche istante sotto la tettoia e poi spicca il volo tra la pioggia verso i tetti. «Ehi, amico! Il tuo uccello se ne va!» grida la faccia alla finestra. Jared la ignora, si avvia verso il punto dove ha svoltato l'automobile, un cancello di ferro nero lungo un alto muro di mattoni. Jared si afferra alle sbarre e vi schiaccia contro il viso, scruta al di là di un boschetto di banani e rododendri sbatacchiati dal vento. Riesce a vedere la Oldsmobile, ora vuota, parcheggiata davanti a una casetta quasi completamente nascosta dalla vege-
tazione del giardino. Il rumore umido delle grandi foglie tropicali sbattute dal vento sembra il disperato dibattersi delle pinne di un animale marino arenato che sente la morte nell'aria che lo soffoca. Proprio come una prigione, pensa. L'idea lo fa arretrare dalle sbarre. Nossignore. Non proprio come una prigione. Niente sarà mai più proprio come una prigione. Scavalca il muro: fa meno fatica a scalarlo che a pensarci, un problema che risolve senza chiedersi né sapere come. Ma arriva in cima un po' fuori di equilibrio, scivola, e si accorge troppo tardi che qualcuno ha preso la precauzione di coronare il muro di cocci aguzzi di bottiglia, denti traslucidi conficcati nelle loro gengive di cemento, vetro che gli taglia le mani mentre cade. Piomba su uno degli arbusti di rododendro. C'è uno squarcio profondo nel palmo della mano destra, e un buco che gli attraversa la sinistra. Il sangue ne esce come da due stimmate e scolora immediatamente per la pioggia, diluito prima di sgocciolare sulle larghe foglie verdi e la terra nera e melmosa. Un fantasma che sanguina, pensa. A che cazzo dovrebbe servire una cosa del genere? Stringe i pugni, schiaccia forte contro il dolore. Le grandi fronde sopra la sua testa concedono un po' di riparo dalla tempesta e Jared resta lì sdraiato finché trova la volontà di alzarsi, la volontà di proseguire. Lo aiuta il ricordo del volto magro nella Oldsmobile nera, il volto nell'aula di giustizia, e allora fissa il cielo nella sua collera e pensa a John Harrod. Alla fine, inevitabilmente, chiamarono Lucrece al banco dei testimoni. Inizialmente, quando i suoi avvocati avevano suggerito di farla deporre per far luce sulla sua personalità, Jared si era opposto nettamente. Quando glielo avevano riproposto, aveva minacciato di cambiare la sua dichiarazione da non colpevole a colpevole se continuavano a parlarne. Non aveva nessuna intenzione di sottoporla a quel tormento. «E poi», aveva aggiunto amaramente, «sarebbe un altro mostro da esporre in questo fottuto baraccone. Che cosa vale la parola di un mostro in difesa di un altro mostro?» E così alla fine era stata l'accusa a portare Lucrece in mezzo alla pista, il procuratore distrettuale John H. Harrod, che nel 1991 aveva appoggiato la candidatura di David Duke, ex Ku Klux Klan, a governatore della Louisiana. Che più recentemente era stato alleato politico di Ralph Reed e della sua Coalizione Cristiana e che si era spinto a impegnarsi a fare «piazza pulita» nel Quartiere Francese. Naturalmente non aveva fatto molto in direzione di questo impegno: appena un paio di irruzioni in locali porno messe
in scena a uso e consumo dei media, l'arresto di un bottegaio che vendeva pipe di vetro, qualche puttana e qualche travestito in più per una notte in guardina. Innocui gesti simbolici amplificati dalla stampa e niente di più, finché uno dei casi di omicidio più importanti nella ricca storia criminale della città gli era caduto giusto in grembo. Una catena di brutali omicidi apparentemente commessi dalla stessa persona, un uomo che una radio locale aveva già definito «un pornografo della peggior specie, mascherato da artista». Il fatto che tutte le vittime fossero travestiti o transessuali rendeva la faccenda un po' delicata. Dopo tutto, Harrod non poteva farsi vedere come il difensore di quella razza di pervertiti che aveva promesso di spazzar via dalla città. Ma era bastato un piccolo trucco logico per sistemare la cosa. Il fatto stesso che New Orleans desse asilo a quella sorta di deviati che attiravano predatori sessuali come Jared Poe era la prova necessaria e sufficiente che in città andava fatta pulizia. E Lucrece era solo altra acqua al suo mulino politico, un'altra vita che poteva rovinare in nome dei sani valori familiari. E così la mise alla sbarra, ultimo teste dell'accusa prima di formulare le conclusioni contro Jared Poe. I suoi avvocati si opposero, sostenendo che Lucrece era irrilevante e prevenuta e ancora troppo colpita dalla perdita del fratello per poter essere di aiuto ad alcuno. Il giudice respinse l'obiezione della difesa. Lucrece fece quello che le dissero di fare, giurò sulla Bibbia in cui non credeva, sedette a testa alta e si sforzò di presentare una faccia coraggiosa a John Harrod. Harrod indugiò qualche momento sulle sue carte, fingendo di riflettere su qualche dettaglio, dando tempo alla giuria di studiarsi bene Lucrece. Era vestita nel modo più sobrio che le consentiva il suo guardaroba: un semplice abito nero con una gonna lunga, i capelli raccolti ordinatamente in uno chignon. Aveva tolto l'onnipresente nero dalle unghie e dalle labbra e non portava nessuno dei suoi gioielli abituali, tranne un semplice anello di granato che le aveva regalato Benny anni prima. Jared si sentì disgustato e in collera nel vederla messa in mostra in quel modo, sforzarsi di apparire normale agli occhi di un mucchio di normali pezzi di merda che avevano già deciso nella loro mente ristretta che cosa pensare di lei. Nel vederla attraversare quell'inferno per cercare di salvargli il culo quando quel processo era comunque una buffonata. Scattò in piedi, divincolandosi da uno dei suoi avvocati. «Non farlo, Lucrece, ti prego», gridò, ma il giudice già picchiava con il suo martelletto, richiamando all'ordine. Fu afferrato, rimesso a sedere di
forza. «Qualunque cosa tu dica», la scongiurò Jared, «le daranno il significato che vogliono loro! Sentiranno quello che vorranno sentire! Non puoi salvarmi!» «Oh, Jared», mormorò lei, prossima alle lacrime, e a quel punto il giudice minacciò di far portare via Jared dall'aula se non si fosse controllato. Questo bastò a zittirlo, il pensiero di Lucrece lasciata sola con Harrod, sola con le sue subdole domande e allusioni, e nessuno a cui fregasse un cazzo di quello che lui le diceva o le faceva. Harrod lanciò un'occhiata a Jared e sorrise, e Jared dovette mordersi a sangue il labbro per impedirsi di mandarlo a farsi fottere. «Allora», esordì Harrod, raddrizzandosi il nodo della cravatta, «signorina DuBois. Lei è la sorella del defunto, giusto?» Lucrece deglutì e, a voce bassissima, rispose: «Sì». «Mi scusi, signorina DuBois, ma non l'ho sentita bene, e temo che anche il resto della corte non l'abbia udita. Potrebbe ripetere la risposta?» «Ho detto di sì», disse Lucrece, e Harrod annuì. «Grazie, signorina DuBois. Ma per la verità lei non è sempre stata la sorella di Benjamin DuBois, non è vero? Non è nata come sua sorella.» Questa volta Lucrece non rispose, portò nervosamente lo sguardo sulle mani e poi verso l'aula affollata. «Signorina DuBois? Vuole che le ripeta la domanda?» «No», rispose lei. «Ho sentito.» «Ma non mi ha risposto, signorina DuBois.» Harrod si avvicinò di un passo al banco. «Lei è nata come sorella di Benjamin DuBois?» «Credo che sia questione di opinioni», rispose Lucrece. «Non è vero che il nome che le ha dato sua madre alla nascita, il suo nome di battesimo, è Lucas Wesley DuBois?» «Ho cambiato il nome. Legalmente.» «Sì, quando ha smesso di essere il fratello di Benjamin DuBois e ha deciso di diventare sua sorella», disse Harrod, guardando verso il banco dei giurati. «Signor Harrod, sono un transessuale. Sono stata sottoposta a un intervento chirurgico anni fa. È per questo che Jared è sotto processo? Per il mio cambiamento di sesso?» Ci fu uno scoppio di risa nervoso tra il pubblico e Harrod sorrise di nuovo, annuì e tornò a voltarsi verso Lucrece. «No, signorina DuBois. Volevo solo accertarmi che questi uomini e que-
ste donne capissero bene il suo rapporto con il deceduto, tutto qui.» «Sono sempre stata la sorella di Benny», disse Lucrece. Parlando direttamente ai giurati, Harrod replicò: «Credo che sia questione di opinioni». Fu ripagato da un secondo scoppio di risate. «Ora, signorina DuBois, come definirebbe il suo rapporto con l'imputato?» Lucrece esitò un istante, consapevole che ogni domanda era un trabocchetto, ogni risposta un'arma che sarebbe stata usata contro Jared. «Jared è mio cognato e mio amico.» «Suo cognato?» «Era...» Lucrece si interruppe, prese fiato, e continuò. «È il marito di mio fratello.» «Non legalmente, signorina DuBois», precisò Harrod. «Perché il matrimonio tra due uomini, tra due omosessuali, non è legale nello stato della Louisiana. Quindi non è possibile che Jared Poe sia suo cognato, le pare?» Harvey Etienne, uno dei due avvocati di Jared, si alzò e fece obiezione. «Vostro onore», disse picchiando sul tavolo la matita, «queste domande sono irrilevanti. Se non vado errato, il matrimonio tra omosessuali non è all'ordine del giorno in questo processo.» Il giudice si accigliò e fissò con aria grave Harvey Etienne attraverso le sue spesse bifocali. «Non vedo niente di male nel permettere all'accusa di portare avanti questa linea di interrogatorio, purché il signor Harrod arrivi al punto.» «Cosa che farò al più presto, vostro onore», assicurò John Harrod. «Allora proceda, signor Harrod», disse il giudice, e Harvey Etienne tornò a sedersi. «Dunque... suo fratello e il signor Poe non erano sposati...» «Benny e Jared erano sposati», ringhiò Lucrece, interrompendo Harrod. «Non me ne frega un cazzo di quello che dice uno Stato di merda, erano sposati!» «Signorina DuBois», disse il giudice, protendendo verso Lucrece la sua mole ammantata dalla toga, «la diffido caldamente dall'usare questo linguaggio nella mia aula.» «Mi scusi», disse lei, all'apparenza per niente pentita. Harrod riprese, dopo un colpetto di tosse. «Dunque, signorina DuBois, lei potrebbe dire che rispettava la relazione tra suo fratello e il signor Poe così come rispetta qualsiasi matrimonio legale?» «Certamente potrei dirlo. Lo dico.»
«Perché a suo parere l'unione omosessuale tra il suo defunto fratello Benjamin e il signor Poe era sacra quanto qualsiasi matrimonio sanzionato dallo Stato, giusto?» «Sì», sibilò Lucrece. Harvey Etienne trattenne Jared posandogli una mano sulla spalla. «Mi dica, signorina DuBois, lei ritiene che l'adulterio costituirebbe una violazione di quell'unione?» Il quesito colse Lucrece alla sprovvista. «Come?» «Si limiti a rispondere alla mia domanda, signorina DuBois», disse Harrod, ora vicinissimo a lei. «Ritiene che un matrimonio, anche un matrimonio omosessuale illegale come quello di suo fratello, sarebbe stato violato da un peccato di adulterio?» «Che cosa sta cercando di farmi dire, signor Harrod?» «La sola cosa al mondo che voglio da lei, signorina DuBois, è una risposta diretta alla mia domanda.» Lo fissò per un momento in silenzio. Jared vedeva lo sforzo che faceva Lucrece per respirare, il fuoco che divampava nei suoi occhi verdi. Harvey gli strinse più forte la mano sulla spalla. «Perché se lei ritiene davvero sacra quell'unione, signorina DuBois, sono molto curioso di sapere come giustifica la sua relazione con il signor Poe.» John Harrod aveva appoggiato una mano sul balaustrino del banco dei testimoni, e con le sopracciglia inarcate e un sorrisetto di trionfo sulle labbra aspettava con aria soddisfatta la risposta. Si chinò verso Lucrece e parlò sottovoce ma in modo da farsi sentire da tutta l'aula. «Sto aspettando, signorina DuBois. Sono sicuro che tutti i presenti aspettano di udire la sua risposta.» «Obiezione, Vostro onore», esclamò Harvey Etienne, balzando in piedi ma senza togliere la mano dalla spalla di Jared. «La domanda non è pertinente e mira a mettere in cattiva luce la testimone, e inoltre lo Stato non ha presentato alcuna prova per sostenere un'accusa del genere.» «Coraggio, signorina DuBois», insisté Harrod con un grande sorriso. «Ci dica la verità. Non le chiedo altro. Solo che ci dica la verità.» «Vostro onore!» tuonò Harvey Etienne, e il corpulento giudice picchiò una serie di colpi ravvicinati con il martelletto, una sorta di raffica di mitra. Si passò la mano sudata sul viso e con un'espressione esasperata si rivolse a Harrod. «Voglio sperare che questo conduca da qualche parte, signor Harrod.» «Dritto al movente, Vostro onore.» Quindi, guardando al di sopra della
spalla Jared e i suoi difensori, aggiunse: «E ho anche dei testimoni. Testimoni che confermeranno l'esistenza di una relazione sessuale non solo tra Lucrece DuBois e Jared Poe, ma anche tra la signorina DuBois e il suo stesso fratello». «Lurido, schifoso figlio di puttana», disse Lucrece. Sporgendosi appena un poco in avanti dal banco dei testimoni, gli sputò in faccia. Nell'aula cadde improvviso il silenzio dello choc. «Questo è molto significativo, signorina DuBois», disse infine Harrod, prendendo il fazzoletto dalla tasca, «venendo da quel conclamato sodomita che è lei.» Jared si avventò sul tavolo trascinandosi dietro Harvey Etienne, e la sala eruppe in un finimondo di grida e flash. «Lasciala in pace, bastardo di merda», urlò Jared al di sopra del pandemonio. «Cazzo, lasciala in pace o ti ammazzo!» Etienne riusciva a trattenerlo a fatica sul tavolo, mandando all'aria le sue carte. Una lussuosa ventiquattrore piombò a terra e nell'urto sul pavimento di marmo si spalancò vomitando in giro altri documenti. Altre mani piovvero su di lui, tirandolo indietro verso la sedia dove si pretendeva che restasse seduto fermo e tranquillo mentre John Henry Harrod mentiva e alterava la verità piegandola ai suoi scopi, mentre faceva del male a Lucrece. Harrod spostò l'attenzione da Lucrece e fece un passo cauto verso Jared. «È la verità, no, signor Poe? È la verità che lei ha ucciso Benjamin DuBois perché aveva deciso che in realtà lei voleva sua sorella e perché i due non riuscivano a togliersi le mani di dosso? Lei era geloso, vero, signor Poe?» «Basta!» urlava Lucrece dal suo banco. «Vi prego, fatelo tacere!» Jared si divincolò, piombò a capofitto dall'altra parte del tavolo, e subito fu di nuovo in piedi. Colse per un attimo l'immagine di uno dei poliziotti di servizio e sentì uno schianto improvviso alla base del cranio. Si accasciò sentendo solo il suono del pianto di Lucrece e, molto più lontano, il battere del martello di legno del giudice. Il penitenziario di Angola si trova in fondo alla State Highway 66 su una stretta ansa del Mississippi, circondato da tre lati da acque profonde e infide e dal quarto dalle aspre colline di Yunica, infestate dai serpenti. Settemila ettari di deserto della Louisiana destinati alla punizione e alla riabilitazione di malvagi, di folli e di uomini semplicemente troppo stupidi per non farsi prendere.
Come in gran parte della Louisiana, in gran parte del Sud, qui il tempo si è quasi fermato. Angola non è cambiata dal giorno del 1868 in cui aprì i suoi cancelli, nemmeno tre anni dopo che i Confederati si arresero ad Appomattox. Una vasta piantagione di cotone e di soia sulle rive del fiume, nascosta al resto del mondo da una distesa praticamente impenetrabile di querce e pini, un mondo con i suoi segreti, le sue leggi e i suoi rituali di morte. Jared Poe arrivò ad Angola in un'afosa giornata di ottobre, un pomeriggio ancora appesantito dal caldo dell'estate, ma il cielo era di un vivido blu autunnale. Quando il pullman attraversò il cancello centrale, Jared si girò a guardare la strada da cui erano arrivati, sforzandosi di cogliere, in mezzo a una nuvola di gas di scarico e polvere rossa, un'ultima inutile visione della libertà perduta. Alla giuria erano bastate due ore per dichiararlo colpevole dell'omicidio di Benny, due ore per decidere come e dove Jared avrebbe trascorso l'ultima parte della sua vita. Il giudice impiegò ancora meno per decidere come questa sarebbe finita. Il braccio della morte non era lontano dall'ingresso principale, subito dopo le torri di guardia quattro e cinque, quattro mura di cemento dello stesso verde marcio del gelato al pistacchio o del sapone Irish Spring. Jared si chiese se fossero sempre state di quel colore o se era stato il sole spietato del delta a sbiadirle come faceva con gli uomini. Al suo arrivo non corrispose niente di particolare, un torpido cerimoniale di catene e chiavi e moduli da compilare che si concluse con l'accompagnamento di Jared alla sua cella attraverso una successione di sei porte sbarrate; sopra una di queste qualcuno aveva scritto GIRONE DELLA MORTE con la vernice rossa, casomai, pensò lui, qualcuno potesse pensare di essere in un luogo diverso. Lasciate ogni speranza o voi che entrate, e tutta quella bella merda. L'aria nel blocco delle celle puzzava vagamente di vomito, disinfettanti e fumo di sigarette. Alla fine lo chiusero nella cella, due metri per due e mezzo, che sarebbe stata la sua ultima dimora. «Ci si abitua», disse la guardia chiudendo la porta, e la serratura elettronica scattò bloccandola solidamente. Jared rimase seduto in silenzio per i primi cinque minuti, guardandosi le scarpe di corredo, aspettando che almeno una piccola parte dell'incubo cominciasse a sembrargli reale. Quando dalla cella accanto una voce sussurrò il suo nome, si alzò dalla branda e si avvicinò alle sbarre. «Qualcuno mi ha parlato?»
«Sì, ti ho parlato io, frocio», rispose la voce con un forte accento ispanico. «Tu sei quel pezzo di merda di Poe, vero? Quel culo rotto figlio di puttana che abbiamo visto in televisione, vero?» «Già», rispose Jared. «Devo essere io.» «Bene, stammi a sentire. Qua dentro divi della televisione non ce ne sono. Giù a New Orleans potevi anche essere un fottuto re del vudù, ma qua non sei altro che un altro pezzo di carne bianca che aspetta il suo turno per farsi un giro su Gertie. Comprende?» Qualcuno dal fondo della fila di celle gridò: «Perché non chiudi quel cazzo di bocca, Gonzalez? Ho un cazzo di mal di testa e sento solo quella tua bocca fottuta che non la smette di blaterare laggiù». «Ehi, amico! Vaffanculo!» «No, Gonzalez, vaffanculo tu! Vaffanculo tu e quella zoccola mangiaburritos di tua madre!» Jared tornò alla branda e si mise a sedere, ascoltò finché Gonzalez e l'altro si stancarono di insultarsi, poi ascoltò gli altri suoni, tutti i suoni imprigionati in quella scatola di cemento. Alla fine cominciò a stilare mentalmente la lista dei metodi con cui qualcuno poteva togliersi la vita là dentro se davvero l'avesse voluto, se alla fine non c'era più alcuna sana alternativa. Si fermò a quindici. Le lunghe settimane divennero mesi, i giorni arrancavano con il passo di un bruco, ma comunque molti erano passati e Jared non era in grado di spiegarsi come la monotona routine di televisione e pasti insapori avesse potuto divorarsi così tanto tempo. Aveva il permesso di lasciare la cella solo per brevi docce e per le visite degli avvocati, che facevano vaghe promesse a proposito dell'appello. Lucrece venne una sola volta e lui le fece giurare che non sarebbe tornata mai più. Non importava quanta speranza potesse aver colto nella sua voce, non voleva saperne. «Cristo, Jared», gli aveva detto lei, «non ce la faccio a lasciarti qui a marcire.» «Né tu né io abbiamo molta scelta al riguardo. Ti voglio bene, Lucrece, ma ti scongiuro di non venire più.» E aveva riappeso il ricevitore. Non c'era spazio per la speranza, in quella latrina. Questo doveva servire a ricordarti quella scritta rossa all'ingresso, lo scherzo di qualche analfabeta, un'allusione a Dante sicuramente accidentale, ma Jared aveva imparato da tempo che intenzione e messaggio non sempre vanno di pari passo.
Jared aveva anche tre brevi uscite alla settimana dall'edificio color pistacchio, una manciata di minuti nel cortile da dove poteva guardare, attraverso il reticolato, le colline boscose dall'altra parte, o il cielo deserto sopra la testa, prima che la guardia lo riportasse dentro. Un giorno era mezzo addormentato in branda, stava rileggendo un paperback malridotto di Clive Barker e il sonno lo aveva preso, quando Gonzalez lo chiamò, un richiamo soffocato attraverso il cemento. Jared si alzò e prese il pezzetto di metallo lucidato che poteva sporgere tra le sbarre come uno specchietto in modo da vedere Ruben Gonzalez mentre si parlavano. «Ehi, amico. Hanno preso Hector.» Jared fissò il riflesso sfocato del viso del suo vicino nella superficie graffiata e ammaccata dello specchio. «Quando?» domandò Jared, perché era previsto che lo domandasse, non perché gliene fregasse qualcosa. Hector Montoni era stato condannato per violenza carnale su dodici bambini a Baton Rouge e Biloxi, e per l'omicidio degli ultimi tre. Ognuno degli stupri li aveva filmati con una videocamera. «Giusto un quarto d'ora fa», rispose Ruben. «Ormai è là. Ormai è nella casa della morte.» Gonzalez si allontanò dalle sbarre, uscendo dalla visuale dello specchietto di Jared. Per un po' mormorò qualche preghiera in spagnolo. Jared tornò al suo letto e riprese il libro; aveva letto un solo paragrafo quando Ruben riprese a chiamarlo. Questa volta Jared lasciò perdere lo specchietto. Accese una sigaretta e si sedette a terra accanto alle sbarre. «Duemila volt», disse Ruben Gonzalez. «Mica pochi, eh? Un bel po' di roba da scaricare in corpo a uno, eh?» «Già», rispose Jared. «Dicono che ti fa dei buchi in corpo, amico. Dicono che ti schizza dalle palle degli occhi come fulmini e ti spara via la punta delle dita. Porco cazzo, ma non gli basterebbe di spararci in testa e amen? Qualcosa di un poco più umanitario.» «Umano», lo corresse Jared. «Qualcosa di un poco più umano.» «Ma vaffanculo, ricchione di merda. Tu te ne stai seduto bello tranquillo, amico, come un fottuto pezzo di ghiaccio perché ci hai gli avvocati che stanno maneggiando per te, vero? Perché non li hai ancora usati tutti i tuoi appelli.» «Forse», rispose Jared, e tirò un'altra boccata dalla sigaretta, soffiando poi il fumo tra le sbarre.
«Forse? Che cazzo di stronzata da macho sarebbe, forse?» «Forse non me ne frega un cazzo, ecco tutto.» Dall'altra parte della parete Ruben fece una risata, per niente allegra. «Sì, giusto. Te ne fregherà quando verranno a trascinarti quel culo rotto sul furgone e ti porteranno alla casa della morte. Allora non dirai forse, stronzo.» «Forse no», disse Jared, e schiacciò sul pavimento il mozzicone della sigaretta. «Inculati, amico.» Ruben Gonzalez rimase zitto per un po', cinque o dieci minuti, e poi Jared sentì che aveva ripreso a pregare e tornò al suo libro. Qualche mese dopo Jared Poe fu condotto per l'ultima volta nel cortile. Era un torrido pomeriggio di fine agosto, pieno di zanzare e della minaccia della pioggia, con i nuvoloni neri che si accumulavano verso Weyanoke e il confine di stato più a nord. Rimase accanto al reticolato a guardare le nuvole, senza fumare, solo immettendo l'aria più pulita nei polmoni, lavandosi un po' il corpo dalla prigione nell'aria che profumava di pini e di sole. E poi la guardia scomparve, non era mai successo, e Jared fu lasciato solo. Per la prima volta da quando il giudice aveva letto la sentenza Jared sentì una fitta gelata di paura nelle viscere, il diffondersi improvviso della pelle d'oca sulle braccia nude. Rimase con le spalle alla rete osservando l'ingresso buio che portava al braccio della morte. Gli sbadigliava in faccia come una bocca aperta, la bocca sdentata di qualcosa di antico capace di inghiottire un uomo tutto intero senza lasciare altra traccia di lui che la sua assenza. Quando il cubano spuntò da quel buco nero Jared capì che era una trappola. Non aveva la minima idea di chi fosse quell'omone, che cosa potesse esserci tra loro, ma sapeva che era una trappola. L'uomo si fermò un momento sulla soglia, guardando Jared dall'altra parte della spianata di ghiaia. I suoi occhi neri erano pieni di qualcosa che andava al di là dell'odio, qualcosa che era rimasta rintanata a lungo nel buio di quello sguardo, ingrassandosi di brutti ricordi. Ancor prima di vedere il lampo di acciaio del cucchiaio arrotato nella mano dell'uomo, capì che il cubano era lì per ucciderlo. «Perché?» chiese Jared. L'uomo sollevò un poco la testa, allargò le narici come se stesse annusando l'aria per trovare l'odore di Jared, per essere sicuro di aver individuato l'oggetto giusto per il suo odio e il danno che po-
teva fare. «Tu sei Poe. Tu sei quel bastardo rotto in culo che ha ammazzato tutta quella gente a New Orleans», disse. Ormai da tempo Jared era troppo avvezzo alla presunzione della sua colpevolezza, alla negazione ottusa della sua innocenza, per pensare di contraddire il cubano. «Sono Jared Poe», disse. «Tu hai ucciso mio fratello», proseguì l'uomo, e si avvicinò di un passo a Jared. «Hai ammazzato il mio fratellino e lo hai buttato nel fiume come immondizia in pasto ai pesci.» Jared intravide la guardia che osservava seminascosto nell'ingresso, pallida figura in penombra, gli occhi stregati da quanto stava per accadere, troppo stregati per poter distogliere lo sguardo. «Io non ho ucciso tuo fratello», rispose Jared, sorpreso da quanto calma suonasse la sua voce, quanto ferma, con la morte a un passo. «Lo so che non mi crederai, ma io non ho ucciso nessuno.» «Bugiardo!» ringhiò l'altro, sputando le parole come un boccone amaro, e poi mormorò dell'altro in spagnolo, qualcosa che Jared non capì. Si mosse rapido, e anche se Jared avesse avuto voglia di scappare, anche se quello che aveva detto a Ruben Gonzalez in tutti quei mesi fossero state menzogne, non avrebbe avuto dove fuggire. E così Jared fece mezzo passo all'indietro e si preparò. Il rudimentale coltello del cubano lo raggiunse appena sopra l'ombelico, e con un piccolo schiocco gli penetrò pelle e muscolo e raggiunse gli organi vitali interni. Il cubano tirò fuori la lama e la immerse una seconda volta. Le ginocchia di Jared cedettero. Sentì il sangue che sgorgava caldo attraverso la T-shirt, colava inzuppandogli i jeans, scorreva come piscio lungo la gamba. Lo vide rosso e denso sulla mano dell'uomo, e sparso in chiazze scure sul bianco della ghiaia. «Non ho ucciso nessuno», mormorò Jared crollando al suolo. «Non ho ucciso nessuno.» «Come no, amico», ghignò il cubano. «È per questo che mettono i bastardi qua dentro, perché non hanno fatto niente.» Si voltò e si allontanò, lasciando Jared in ginocchio nella polvere e nel sangue, con la vita che gli scorreva dal buco nella pancia. Alzò lo sguardo una sola volta. Il cubano era scomparso e la guardia era ancora nell'ombra che osservava sorridendo. Jared cadde sul fianco, cominciando a sentire il dolore al ventre attraverso lo choc, e dopo un po' qualcuno chiamò il medi-
co. Immagina che qualcuno nella sua condizione attuale - se qualcuno si è mai trovato davvero in quella assurda condizione - tornerebbe ad Angola a uccidere il cubano. Jared non ne vede l'utilità. Il cubano era una forza della natura come lo è questa tempesta, una causa accidentale che gli ha tolto la vita prima che potesse farlo lo stato della Louisiana. Soprattutto, però, non può pensare di uccidere il cubano perché non sa dargli colpa per averlo ammazzato. Il cubano credeva sinceramente di stare uccidendo l'uomo che aveva torturato a morte suo fratello. Al suo posto, Jared avrebbe fatto - farebbe - lo stesso. Jared è sul tetto del piccolo cottage dietro il muro di cinta sormontato dai vetri. Il tetto ha solo una lieve pendenza, e c'è un lucernario che dev'essere stato aggiunto abbastanza di recente. La pioggia cade su di lui, mille minuscoli martelli ogni secondo, e dilaga attorno ai suoi piedi verso la grondaia debordante. Tuoni e lampi danzano sopra la città. Jared si inginocchia accanto al lucernario e guarda dentro. In una stanza tinta del colore delle violette appassite, John Harrod sta inculando una ragazza nera. È aggrappata con tutte e due le mani alle lenzuola di seta e sobbalza in sintonia con le spinte di Harrod. Ha la bocca aperta, ma Jared non la sente per il frastuono della tempesta. Le labbra di Harrod sono ripiegate all'indietro mostrando la perfetta dentatura bianca, e ne spunta l'estremità della lingua come un mollusco che stia uscendo dal suo guscio. Il corvo si posa sul lucernario e rivolge un sonoro verso a Jared, così forte che si sente nonostante il ruggito del temporale. Il vento li scuote tutti e due, minaccia di spiccarli dal tetto e scaraventarli sulla parte più alta dell'edificio, di appiattirli come foglie secche o fogli di giornale contro il vecchio muro di mattoni. «Che cazzo vuoi?» ringhia Jared da dietro la maschera, un ringhio che assomiglia all'ansimare di Harrod di sotto. Il corvo stringe le ali al corpo, si rannicchia contro il vetro, rendendosi bersaglio più piccolo per il vento. «Devo farlo», le dice. «Non posso permettere che questo pezzo di merda la faccia franca.» E poi sente Lucrece, la sua voce nitida come se fossero ancora insieme nell'appartamento, come se lei gli stesse davanti e non ci fosse il vento a strappare via le parole. «Questo non ti riporterà Benny», dice lei, e il grosso uccello nero china
la testa da un lato. «E così adesso sei una fottuta ventriloqua?» Il corvo perde la presa e slitta di un palmo sul vetro scivoloso. «Non ha importanza.» Jared non sa più se sta parlando al corvo o a Lucrece o a tutt'e due, e tutto sommato non gli importa. «Per colpa di Harrod, il mostro che ha ucciso Benny è ancora in circolazione...» «Non puoi farlo», dice Lucrece mentre il corvo si sforza di mantenere l'equilibrio sul lucernario, scivolando sulla lastra. «Uccidere Harrod non farà altro che rendere un mostro anche te, Jared.» Lui ride, all'idea che possa essere così fottutamente ingenua dopo tutto quello che ha visto, dopo la vita che ha vissuto e la morte di suo fratello. La risata gli fa bene, come se stesse espellendo qualcosa di velenoso, qualcosa che gli brucia nel profondo delle viscere. «Prova a pensarci, bimba. Ti sei guardata allo specchio di recente? Siamo tutti dei mostri.» «Non puoi farlo, Jared», ripete lei. Con un braccio spinge via il corvo, dando una mano al vento. L'uccello si sperde svolazzando nel cielo tempestoso. Jared sfonda il lucernario, un solo pugno e va in briciole, facilmente quanto aveva immaginato. Il vetro e l'acqua piovono su Harrod e la sua puttana. Poi piomba giù anche Jared. Tocca terra in piedi accanto al letto. La donna si è già messa a urlare. Schegge di vetro le si sono infilzate nella schiena e nelle natiche, e cerca freneticamente di trascinarsi lontano da Harrod, strisciando a forza di unghie verso la testata di vimini del letto. Harrod si volta verso Jared, con i calzoni alle caviglie e il pene umido che ciondola nel suo preservativo, già inflaccidito, rattrappito come una lumaca cosparsa di sale. «Almeno il goldone te lo metti, lurido porco», dice Jared. Sta ancora ridendo, un risolino quasi isterico ora, quello che si è liberato dentro di lui sta ancora uscendo, una furia che si è portata con sé nella fossa e ritorno, e la risata non sembra avere meno senso di tutto il resto. «Non vuoi rischiare di beccarti l'Aids. Quella è una morte da froci.» «Chi... chi... chi...» balbetta Harrod con una faccia completamente stravolta dallo stupore. «Risposta sbagliata», sogghigna Jared e dà uno spintone a Harrod, gli piazza una mano sul petto nudo e lo scaraventa all'indietro contro un tavolino da toeletta. Bottiglie di profumo e stick di rossetto rotolano a terra. Una delle bottiglie si rompe e la stanza è invasa istantaneamente da un
greve odore funereo di fiori. «Chi...» ripete Harrod. Ha alzato un braccio per proteggersi il viso. «È duro a capire, eh, signor Harrod?» «Fuori di qui!» strilla la ragazza sul letto. «Fuori di qui, stronzo! Chiamo la polizia, cazzo!» Jared la ignora e passa oltre il letto. Harrod è rannicchiato davanti al tavolino, non ha più dove fuggire. Ha il fiato grosso, irregolare. «Guardami, John Harrod», dice Jared. Sta facendo uno sforzo per smettere di ridere, si morde la lingua, ma anche questo gli accresce l'ilarità. Harrod lo fissa con due occhi terrorizzati da dietro lo scudo degli avambracci pelosi, e questo è un divertimento assolutamente irresistibile. «Conosco una poesia, John Harrod. Una semplice poesiola da bambini che mi ha insegnato la mia mamma. Non ti faranno paura le poesiole da bambini, no?» «Fuori di casa mia!» urla la donna dietro di lui. Harrod non dice una parola. «Tre corvi stavano sopra una pianta, Erano neri anche più del carbone. Si volta uno e fa la domanda: Come si fa per mangiare un boccone?» «Ho detto fuori di casa mia, brutto stronzo! Immediatamente!» Jared sente cigolare le molle del letto alle sue spalle. Si tende e sferra un pugno a Harrod, sente l'osso del naso dell'uomo che si spezza. Il sangue gli cola sul mento, cade in vivide chiazze sul lucido parquet. Harrod annaspa e unisce le mani per proteggersi il viso ferito. «Scusami, ma tu non stavi attento. Non ho tutta la giornata a disposizione. C'è un uragano in arrivo...» «Chi diavolo sei?» mormora Harrod. La sua voce ha il suono più pieno di paura che Jared abbia mai sentito, un genere di paura complesso, soffocato, che gratifica Jared. «Ecco, questo è il problema, vero? Ma dov'ero arrivato?» Jared si gratta la testa come l'Uomo di Latta del Mago di Oz. «Che cosa vuoi?» implora Harrod. «Ti scongiuro, dimmi che cosa cazzo vuoi!» Jared finisce la poesia:
«C'era un cavallo nel campo laggiù, Quest'oggi è morto e l'hanno fatto a tocchi. Se ci arriviamo prima che non ci sia più, A uno a uno gli caviamo gli occhi.» Harrod scoppia a piangere. Jared gli si inginocchia accanto fingendo costernazione. «Gesù, è una cosa terribile da insegnare a un bambino, non ti pare?» Harrod fa un suono soffocato e guarda il sangue che ha sulle mani. «Forse se invece mi avesse letto la Bibbia come sicuramente avrà fatto tua madre con te, forse sarei diventato una persona perbene come te, John Harrod.» «Sta bene, pezzo di merda, ne ho abbastanza di queste stronzate!» Jared si volta verso la donna nuda sul letto nel momento in cui lei fa fuoco con la grossa doppietta che ha tra le mani. Sulle lenzuola scompigliate sono sparse cartucce come caramelle. Jared si lascia cadere a terra e rotola allontanandosi dal letto, e da Harrod. La detonazione risuona assordante nella piccola camera da letto, un tuono intrappolato che cerca di uscire. Jared sa di essere stato colpito prima ancora di arrestare il suo movimento. Si alza barcollando mentre lei ricarica, espellendo le cartucce esaurite e infilandone altre due. Ha un buco nel fianco grosso come un'arancia, e avverte una zaffata proveniente dalle sue stesse viscere squarciate. «Cristo santo, Harrod, ma dove l'hai trovata, questa troia?» Jared si tuffa verso il letto. La donna solleva l'arma, prende la mira lungo la doppia canna, ma una frazione di secondo dopo lui le strappa il fucile dalle mani. Lei caccia un altro urlo e scivola a terra. «Lei non c'entra, signora, per cui stia fuori dai coglioni e non si farà male.» Cogliendo l'occasione, Harrod scalciando si libera dai calzoni e si precipita verso la porta. È scomparso prima che Jared possa fare altro che imprecare verso il suo pallido, magro, fuggitivo culo. John Harrod sbatte la porta dietro di sé uscendo dal cottage, il pied-àterre dove da tre anni insedia la successione delle sue donne, soprattutto nere e latine. La tempesta lo assale immediatamente, lo spintona di lato. Lui scivola sui gradini dell'ingresso e finisce nel fango tra la Oldsmobile e la casa. Le orecchie gli ronzano ancora per lo sparo e ha la bocca piena di
sangue per il naso rotto. Lo prende quasi il panico quando fa per prendere le chiavi dalla tasca e si accorge che la tasca non c'è perché non ci sono nemmeno i pantaloni, ma poi ricorda il mazzo di riserva infilato sopra il parasole. Si mette al volante e chiude lo sportello lasciando fuori la tempesta e quel pazzo figlio di puttana con la sua maschera bianca da carnevale. John Harrod abbassa il parasole e le chiavi gli piovono sul grembo nudo, il freddo del metallo sulla coscia nuda. Al primo tentativo cerca di infilare nell'accensione la chiave del portabagagli, e impiega qualche momento a trovare quella giusta. Il suo cuore scandisce i secondi come in un conteggio alla rovescia. Poi sente un secco rumore stridente e cerca di vedere al di là della pioggia che si rovescia sul parabrezza. Sul cofano dell'auto c'è un grosso uccello nero, e lo sta fissando. Tre corvi stavano sopra una pianta, Erano neri anche più del carbone... «Oh, Dio», mormora. Gira la chiave nell'accensione e pesta sull'acceleratore. Il motore si mette in funzione per un attimo, poi tossisce, singhiozza e tace. Il corvo apre le ali e gracchia forte, saltella verso di lui, picchia con il becco il parabrezza. Harrod gira di nuovo la chiave, spinge fino in fondo il pedale. Questa volta il motore dà solo un paio di fievoli colpetti di tosse prima di ammutolirsi. L'Oldsmobile comincia a riempirsi dell'odore della benzina, e lui capisce di avere ingolfato il motore. Quando guarda di nuovo fuori l'uccello non c'è più. Harrod emette un sospiro teso di sollievo e si dice di calmarsi. Non può in nessun modo essere riuscito a togliere il fucile di mano a Tonya senza farsi sparare in faccia, pensa. Non devi fare altro che calmarti, adesso. E allora qualcosa di scuro piomba dal cielo e atterra sul cofano della Olds. L'auto ondeggia violentemente per l'impatto. Dove pochi secondi prima c'era l'uccello, ora sta l'uomo con la maschera bianca ghignante, e punta il Remington direttamente contro la testa di Harrod. A uno a uno gli caviamo gli occhi. Harrod strilla, spalanca la bocca e strilla come strilla una donna, mentre l'uomo capovolge la doppietta e la sbatte con il calcio sul parabrezza. Il vetro si crepa, il reticolo dei frammenti si allarga, e al secondo colpo cede, inondando Harold di briciole di cristallo di sicurezza. La pioggia e il vento si gettano nel varco. Harrod allunga la mano verso la .38 che tiene nascosta sotto il sedile.
«Benjamin DuBois», urla l'uomo al di sopra dell'urlo del vento. Si è accoccolato e fissa Harrod attraverso il buco che ha fatto nel parabrezza. «Che cosa ti dice questo nome, vigliacco fottuto?» «Mi dice che tu sei un figlio di puttana morto», risponde Harrod. Spinge il revolver attraverso il buco e tira il grilletto, con la canna a un palmo dalla faccia dell'uomo. «Fottiti», ringhia Harrod togliendosi il sangue dagli occhi, sbattendo le palpebre in mezzo a una nebbia rossa che offusca tutto. L'uomo con la maschera ora è in ginocchio, si copre la faccia con una mano; il sangue gli cola tra le dita, cade sul cofano della macchina. «Adesso, testa di cazzo, adesso forse me lo dici che cazzo vuoi.» L'uomo abbassa lentamente la mano, e c'è un foro preciso nella maschera, proprio in mezzo agli occhi. Il sangue scorre dalle fessure per gli occhi della maschera come lacrime. «Che tu mi aspetti, Harrod», dice l'uomo puntando di nuovo il fucile. «Che tu sia lì ad aspettarmi quando tornerò all'inferno.» L'ultima cosa che John Henry Harrod vede è la canna del Remington 870P che entra nel buco nel parabrezza, le gocce di pioggia luccicanti sull'acciaio. Chiude gli occhi prima del tuono. Jared è rannicchiato sul cofano dell'automobile nera, con il dito ancora stretto al grilletto del fucile. Non ha mai creduto che potesse esistere un dolore forte come quello che sente dietro gli occhi, il dolore atroce che gli riempie il cranio. Al confronto, il colpo che ha ricevuto nel cottage non è niente, un fastidio trascurabile paragonato al dolore che sente nella testa. Si muove e il mondo gli ruota intorno. Rimane immobile. Ma quel figlio di puttana è morto. Piccola consolazione, un'aspirina contro un'amputazione. Jared piega la testa da un lato e vede il mozzicone del collo di Harrod, pochi centimetri scheggiati di colonna vertebrale che spuntano dalle spalle morte e poi niente, nient'altro che il liquido impasto che cola dal soffitto dell'auto. Tutto, all'interno dell'Oldsmobile, sembra coperto da una sottile foschia cremisi, una nebbia di sangue e materia cerebrale e ossa polverizzate. L'unica cosa che riesce a riconoscere per umana è un orecchio rimasto appiccicato al poggiatesta semidistrutto del sedile del conducente. Jared sente il corvo prima di vederlo, il rauco gracchiare che penetra l'ululato del vento prima che l'uccello si posi davanti a lui. Il corvo lo guarda per un momento, poi dà un colpo secco al cofano dell'auto con il pugnale
di ebano del suo becco. «Devi andar via di qui», dice Lucrece, e il corvo becca di nuovo il metallo. «È morto, Lucrece, l'ho ucciso», bisbiglia al corvo. «È morto.» «Ora questo non ha importanza, Jared», replica Lucrece, e ora la sua voce è concitata, spaventata. «Presto arriverà la polizia. Non possono trovarti qui. Alzati. Devi muoverti...» Chiude gli occhi. L'immagine del lampo della pistola è ancora appostata lì, una chiazza arancione nel buio stinto. Lucrece non dice altro. Quando riapre gli occhi il corvo non c'è più. Le sue beccate insistenti hanno lasciato una piccola ammaccatura nel cofano, una scaglia di vernice è saltata e si vede il grigio sottostante. Jared si morde la lingua per combattere il dolore e si trascina giù dall'auto. Lucrece è seduta sola al tavolo della cucina quando sente dei passi nell'appartamento. Da due ore stringe tra le mani una penna nera, una penna che ha trovato sul letto quando è tornata dall'Occhio di Horus. È ancora stupita che abbia funzionato, che il ponte tra il corvo e Jared sia stato abbastanza forte, che lei sia stata abbastanza forte da stabilire un vero e proprio contatto telepatico. Posto che si trattasse semplicemente di telepatia. L'unica cosa di cui Lucrece è realmente certa in questo momento è il terribile senso di vertigine e di vuoto disarmante che lo sforzo le ha lasciato. Di questo e del sollievo che ha provato a risentire la voce di Jared. «Sono qui», lo chiama, spingendo indietro la sedia. Sente altri passi e un frullo di ali, e cerca di alzarsi ma deve sostenersi a un angolo del tavolo. Cristo, mi si dev'essere spezzato qualcosa nel cervello, pensa, ricacciando indietro un'ondata improvvisa di nausea. Dalla camera da letto arriva un rumore di vetri rotti e un'imprecazione di Jared. «Forza, micia», si dice. Questa volta riesce ad arrivare fino alla porta del soggiorno prima di doversi fermare e appoggiare al muro per non piombare a terra. «La prossima volta portati un dannato cellulare, Jared Poe», dice, e si mette a ridere, ma è una risata sorda, ansiosa. «Non credo proprio di aver voglia di rifare questo trucco.» Qualche altro passo e ce la fa a entrare nella camera da letto. Jared è sdraiato bocconi sul letto a baldacchino e il corvo è sopra di lui, fedele come un cane da guardia da telefilm. L'uccello dà un'occhiata a Lucrece e lancia un verso.
Gesù, quanto sangue, pensa lei, e le torna come un lampo la visione della prima volta che è entrata nella stanza dopo la morte di Benny, non è così brutto, ma lo è abbastanza. Abbastanza da innescare un déjà vu in agguato che la lascia ancora più tremante e disorientata. «Non sono morto», gracchia Jared, come chi si sveglia da una sbronza davvero pesante e teme che la sua stessa voce possa spaccare il mondo. «Non sono ancora morto.» «Shhh... non parlare, Jared.» Si sforza di non far sentire la paura che ha, di non distogliere lo sguardo. Ma dietro la sua testa si apre un buco così grande che potrebbe entrarci tutto un pugno, un orlo scheggiato di osso bianco incrostato di sangue secco e capelli, da cui cola materia grigia. Lucrece si siede sul letto accanto a lui. Gli prende la mano e lui gliela stringe, la stringe forte da farle male, ma lei non dice niente. Ricambia la stretta più forte che può, e il corvo la guarda con aria di approvazione. «Non è brutta come sembra», dice Jared, cercando di ridere, ma è assalito dalla tosse. «Non dovevi», dice Lucrece. Si accorge che sta piangendo solo ora che sente una goccia salata all'angolo della bocca. «Il corvo è qui per proteggerti, Jared. Ma non può farlo se tu...» «Ma quelli sono morti», la interrompe Jared. Poi si gira appena un poco sul fianco, così che Lucrece può vedere la maschera che gli copre ancora il viso e il punto il cui il proiettile è penetrato: un piccolo foro nero non più grande di una monetina. I capillari degli occhi si sono spezzati, il bianco della sclera è diventato rosso, le pupille sono dilatate al massimo. Quegli occhi spaventosi e la maschera, ma non è rimasto niente in cui lei possa riconoscere Jared. Solo la sua voce, e anche quella sembra in qualche modo cambiata, più vecchia, e prosciugata di una parte della collera, ma quanto è rimasto è molto più oscuro. Molto più minaccioso. «E non me ne pento. Non me ne frega un cazzo di quello che avrei dovuto fare... non me ne pento.» «Non c'è bisogno che te ne penta, Jared», dice lei, e vorrebbe non star piangendo, vorrebbe che lui non la vedesse piangere. «Ma la persona che ha ucciso Benny è ancora in circolazione, ed è per questo che sei tornato. Non per farti sfondare quella testa di matto cercando di appianare vecchie questioni con tutto il dannato mondo.» «L'uccello non è stato di molto aiuto nemmeno con la questione principale», dice lui, e chiude gli occhi, e lei è contenta di non doverli guardare, si vergogna di sentirsi sollevata, ma è sollevata lo stesso.
«Non è colpa sua», dice Lucrece. «Penso che ci sia qualcosa di storto nel killer. Qualcosa che fa da intralcio.» «Questo lo hai già detto», mormora Jared. «La notte scorsa.» «Stamattina la polizia ne ha trovato un altro. Un corpo nella fontana di Audubon Park. Non hanno dato troppi particolari, ma è lui, Jared. So che è lui.» «Io non sono un cazzo di detective, Lucrece. Non lo so come si trova un serial killer. Io ero solo un fotografo...» «E allora devi trovare qualcuno che è un detective. Il poliziotto che si occupa di questo nuovo delitto, forse lui...» Improvvisamente la stretta di Jared si allenta, sbatte le palpebre. «Jared? Che succede?» «Forse sto morendo.» La risposta è così sommessa che lei coglie a stento la sua voce al di sopra del vento che ulula lungo Ursulines Street. «Forse ho rovinato tutto, e questa era l'unica occasione che avevo.» Il corvo gracchia di nuovo e Lucrece si fa più vicina a Jared. Gli scosta i capelli dal viso, e quando fa per togliergli la maschera lui ha un sussulto, si irrigidisce, ma non la ferma. «Non ti farò male, Jared.» Sotto la maschera il volto di Jared è rigato di materia uscita dalla sua testa e di sporco, e tutti e due gli occhi sono pesti e lividi. Dal naso ha perso sangue, che si è incrostato attorno alle narici. «Ti ripulisco un po', solo questo.» Lucrece guarda il corvo posato al fianco di Jared. Riesce ancora a sentirne i pensieri. Segue le sue istruzioni alla lettera, muovendosi lentamente, e Jared la lascia fare. L'incisione sulla schiena, la cicatrice a forma di corvo, le brucia come quando era fresca e cominciava appena a sanarsi. «Ti aiuteremo, tutt'e due. E troverai quel bastardo che ha ucciso Benny.» «In un modo o nell'altro», mormora Jared. «In un modo o nell'altro», ripete Lucrece, e lascia cadere la maschera distrutta sul pavimento della camera da letto. 8 La brutta scena in Audubon Park era il perfetto inizio di merda di una perfetta giornata di merda. Sono le tre passate e il mal di testa ha ritrovato Frank, anche se è già sgusciato due volte in bagno per un sorso dalla bottiglia di Jack Daniel's che tiene sempre al sicuro nel suo armadietto. Altri-
menti se n'è stato seduto alla scrivania da quando lui e Wallace sono tornati da Metairie, fingendo di portare un po' avanti le scartoffie della giornata, il rapporto sull'omicidio di Audubon Park e altra roba che avrebbe dovuto finire da giorni. Gli sembra di avere, al posto della testa, un melone troppo maturo sul punto di scoppiare per il peso eccessivo. «Pensi davvero di saltarla, la festicciola di stasera nella camera degli orrori?» chiede Wallace. Frank apre un occhio, fissa al di là della macchina per scrivere e la catasta di rapporti non terminati e di carta carbone. Al confronto la scrivania di Wallace è un esempio di ordine ossessivo, più simile al banco di una zitella bibliotecaria che al tavolo di un poliziotto. La sola vista di quelle pile di fogli patologicamente ordinate e delle matite temperate di fresco infilate in un boccale souvenir di Saints fa venire voglia a Frank di tirare un cazzotto sul muso del collega. «Credo che tu e la Tierney ce la farete a sostenere quella fottuta autopsia senza di me», dice. Wallace si stringe nelle spalle. «Cazzo, non so neanche che cosa è rimasto per farci l'autopsia, Frank. Voglio dire, che altro c'è da tagliare in quel casino?» Frank versa tre pastiglie di Maalox alla ciliegia da una bottiglietta di plastica, quattro aspirine extraforti da un'altra, le ficca in bocca tutt'e sette insieme e le mastica. «Frank, che schifo», commenta Wallace, e si rimette a battere a macchina. Ogni volta che una lettera tocca la carta Frank pensa che quella è l'ultima goccia che gli farà scoppiare la testa. «Cristo, Wally. Quella roba non può aspettare?» «Non ho intenzione di rimanere indietro con tutte queste stronzate solo perché tu hai il mal di testa, Frank.» «Apprezzo la sensibilità di quella gran testa di cazzo che sei, Wally», dice Frank con la bocca piena di polvere di aspirine e antiacido. Chiude di nuovo gli occhi e butta giù il boccone. «Comunque», riprende Wallace, «se arriva l'ordine di evacuazione, nessuno farà altro che uscire sguazzando là fuori.» Questa mattina il Centro Nazionale Uragani ha diramato un preavviso in gran parte della Louisiana del sudest, dalla costa fino alla zona interna di Baton Rouge. Michael è atteso tra la mezzanotte e l'una, a meno che per un colpo di fortuna l'uragano non decida di prendersela con il Texas orientale. «Si può sempre sperare», mormora Frank. Ha la bocca come se avesse appena mangiato una manciata di gesso aromatizzato alla ciliegia. Decide che è passato abbastanza tempo dall'ultimo sorso, e che gliene spetta un al-
tro. «Vado a vomitare», comunica alzandosi, e Wallace annuisce senza smettere di battere sulla tastiera della sua vecchia Royal. «Grazie per l'interessamento.» «Figurati, Franklin», dice Wallace e aziona la leva per andare a capo. Il carrello tintinna e sbatte violentemente verso sinistra. «Un giorno o l'altro quella vecchia merda ti farà fuori tutte le dita, Wally», avverte Frank, e si avvia barcollando verso la toilette. L'odore soffocante di piscio misto a quello delle pastiglie verdi di deodorante brucia nelle narici di Frank. Per alcuni precari momenti pensa che forse vomiterà davvero. Si appoggia al lavandino e studia la faccia nello specchio. È da ieri che non si rade, e ha la pelle del colore delle ostriche crude. Piccole gocce di sudore gli imperlano la fronte e il labbro superiore, e ha due borse sotto gli occhi che potrebbero passare per lividi. «Non hai un gran bell'aspetto, Frankie», dice, e ruota la manopola dell'acqua calda. Il rubinetto fa un fischio seguito da qualche rutto poco simpatico prima di mettersi a sputacchiare un'acqua gelata e rugginosa. Frank tuffa le mani nel lavandino e si spruzza il viso con quella roba. L'odore è di fango, ma la sensazione sulla pelle è gradevole. Quando torna a guardare nello specchio, però, non può dire che il suo aspetto sia molto migliore, solo più bagnato. «Sei proprio una schifezza», dichiara. «Ecco che cosa sei.» Toglie la bottiglia di bourbon da un quarto dalla tasca interna del blazer e svita il tappo. «Salute», dice, brindando al povero disgraziato nello specchio. È a questo punto che vede l'uccello, appollaiato in cima a una delle cabine, che lo sta osservando. Un enorme corvo nero come uscito da un vecchio film dell'orrore della Hammer. Frank si lascia quasi sfuggire la bottiglia di mano. «Ho bisogno di parlare con lei, Frank Gray.» Per un solo attimo Frank pensa che quelle parole le abbia pronunciate l'uccello, il lungo attimo che impiega a voltarsi e a vedere l'uomo vestito di nero seduto sotto l'unica piccola finestra del locale. L'uomo porta un cappuccio integrale di cuoio, con le cerniere aperte al posto degli occhi e della bocca e un taglio per il naso. Frank ricorda di aver visto qualcosa del genere una volta in una rivista sadomaso. «Chi cazzo...?» Frank porta la mano verso la pistola, ma si arresta a metà quando l'uomo estrae il fucile da sotto il soprabito e lo carica.
«Per favore», dice l'uomo. «Di queste stronzate oggi ne ho avute a sufficienza. Voglio solo parlare con lei, lo giuro.» «Gesù», mormora Frank, scoccando un'occhiata alla porta, a cinque metri almeno. Non potrebbe mai arrivarci prima che l'altro gli faccia saltare la testa. «Da quella porta potrebbe entrare qualcuno da un momento all'altro. Che cosa farà, allora?» «Ci penseremo quando succederà», risponde l'uomo. «Non mi va l'idea di farmi sparare perché qualcuno deve pisciare.» «E allora sbrighiamo in fretta la cosa, detective.» «Gesù», ripete Frank. «Ma ci crede che nelle ultime ventiquattr'ore questa è la seconda volta che qualcuno mi punta un'arma in un cesso?» «Lei sta indagando sul delitto di Audubon Park di questa mattina, è vero?» L'uomo si alza lentamente, sempre puntando la canna della doppietta al petto di Frank. Il corvo gracchia e sbatte le ali. «È suo quell'uccello, sì?» chiede Frank lanciando un altro sguardo al corvo. «Più o meno. Ora risponda alla domanda.» «Sì, è stato dato a me e al mio partner. Sicuro. Ora le dispiace puntare quel cazzo di cannone da qualche altra parte?» La canna non si sposta di un centimetro, e Frank cerca di concentrarsi sul fatto che lui è un poliziotto, non uno stronzo qualsiasi terrorizzato sotto il tiro di un fucile da caccia. Nota che sotto il giubbotto l'uomo non porta camicia. Non ha nemmeno le scarpe. Indossa un paio di pantaloni neri laceri che un tempo dovevano essere belli. Ai suoi piedi c'è una pozza dell'acqua che gli sta sgocciolando di dosso. «Lei pensa che si tratti dello Squartatore di Bourbon Street, vero?» dice l'uomo, ma Frank sta guardando la finestrella. Troppo piccola e troppo lontana dalla strada perché possa essere arrivato di là. E poi è chiusa dall'interno. La pioggia batte sul vetro sporco di polvere e di tracce di mosche. «Lei che cosa pensa?» «Penso che sta cercando di prendere tempo.» «No, sto solo cercando di capire come cazzo ha fatto ad arrivare fin qui senza che nessuno l'abbia visto. Lei e quell'uccello non siete decisamente tipi da passare inosservati.» «È una storia lunga e, mi creda, non se la berrebbe se gliela raccontassi. Adesso risponda alla domanda, detective. Lei pensa che il cadavere nel parco questa mattina sia una vittima dello Squartatore o no?» Frank accenna lentamente di sì con la testa. «Forse. Aspetto di vedere
che cosa dice l'autopsia.» «Dunque pensa che lo Squartatore sia ancora in giro? Che Jared Poe non era affatto il killer?» Frank coglie una breve vampata di collera nella voce dell'uomo, come un lampo di sole sulla lama di un coltello. «Non è precisamente quello che ho detto.» «Ma è quello che pensa?» ringhia l'uomo, e il corvo manda un altro verso. Frank sospira e guarda la bottiglia di Jack Daniel's che gli trema nella mano. «Le dispiace se prima ne bevo un sorso?» chiede, e l'uomo gli fa cenno di accomodarsi. Coraggio in bottiglia. In questo momento è esattamente quello che gli serve, perché è maledettamente sicuro che quel tipo non lo lascerà andarsene via sulle sue gambe, per quante risposte voglia dare alle sue domande. Frank depone la bottiglia sul bordo del lavandino e si passa il dorso della mano sulla bocca. «Pensavamo che potesse essere solo un imitatore», dice. «Potrebbe ancora esserlo. Non ho lavorato al caso Poe né a nessuno degli omicidi dello Squartatore. Questa merda mi è nuova.» Ora si accorge delle gocce di sangue che hanno preso a cadere da sotto il lungo soprabito dell'uomo, un filo rosso che si mescola alla pozza di pioggia sulle mattonelle sudicie del pavimento. «Perde sangue.» Frank indica le gocce. «Perché non mi dice chi diavolo è? Forse posso aiutarla.» «Noi due stiamo cercando entrambi lo stesso assassino, Frank Gray», dice l'uomo con il cappuccio di cuoio. «E francamente non me ne frega un cazzo di chi di noi lo trova per primo. Ma voglio che lei sappia questo: Jared Poe non ha ucciso nessuno. Né Benjamin DuBois né nessun altro.» «È sicuro?» risponde Frank, guardando di nuovo la porta, cercando di farsi venire in mente un modo per guadagnare ancora un po' di tempo. «Lei ha bisogno di un medico.» «No, detective. Ho bisogno di un becchino.» La porta del bagno si apre e il corvo manda un grido, spicca il volo e sembra quasi riempire l'intero locale con il suono delle sue ali. Frank si tuffa al riparo verso una delle cabine, portando la mano alla pistola. La porta del cesso si spalanca e lui picchia il ginocchio contro il bordo di porcellana della tazza. Si acquatta, aspettando che il matto con la maschera prema il grilletto, aspettando il tuono di morte del fucile.
«Che cazzo stai facendo qua dentro, Frank?» chiama Wallace sbirciando con cautela nella cabina. «Con chi parlavi?» Il cuore di Frank gli rimbomba nelle orecchie come un tamburo e ogni cellula del suo corpo è zeppa di adrenalina. Da settimane non si sentiva così lucido. Scuote la testa e rimette la pistola nella fondina sotto il braccio. «Se non lo hai visto, meglio che tengo la bocca chiusa, Wally», dice. «Non metterti a tirarmi fuori stronzate come il delirium tremens, Franklin. Abbiamo già buttato giù troppa merda, ci manca solo che ti metti a vedere i fantasmi nella cameretta dei bambini.» Wallace si china per aiutare Frank a rialzarsi. «È appena arrivato l'ordine di evacuare l'intero dannato distretto. Tutti quanti.» «Splendido», mormora Frank. Strappa un pezzo di carta igienica dal rotolo per pulirsi la mano che ha appoggiato a qualcosa di untuoso sul pavimento. «Non è tutto. E a quest'altra roba non ci crederai. Hanno appena trovato il procuratore distrettuale a St. Ann seduto al volante della sua auto con la testa saltata via. Qualcuno gli ha scaricato addosso tutt'e due le canne.» Frank deve mettersi in fretta a sedere, altrimenti sa che finirà a terra. Si siede sulla tazza, tenendo sempre la carta igienica in mano, e fissa il suo partner. La doppietta, pensa, e poi, senza interruzione: Vince Norris e poi Jim Unger. E ora John Harrod... Stiamo cercando entrambi lo stesso assassino, ha detto l'uomo dal cappuccio nero, l'uomo del corvo. L'uomo che dev'essere entrato attraverso quel cazzo di muro. «Sarà una lunga nottata, Franklin», dice Wallace. «Magari potresti metterti un po' di caffè in corpo, finché c'è tempo. Ne ho appena fatto.» «Sì», risponde Frank. Sente ancora il rumore delle ali del corvo, il frullo vellutato forte come la tempesta. «Mi sembra una buona idea, Wally.» Jared è ritto sul tetto e guarda in direzione del fiume, verso il punto il cui il fiume si nasconde dietro la cortina fredda e incolore della pioggia. Il suo corpo fende l'uragano come la prua di una nave, c'è qualcosa dentro di lui di ancora più grande, più selvaggio del demone turbinante dell'acqua e del vento. Tiene il corvo vicino al corpo, proteggendolo dalle raffiche. «Nessuno è stato ucciso», dice. Lucrece è lì da qualche parte, e approva, ma lui non ha bisogno di risposta. Non gli è rimasto altro da fare che aspettare e sperare che il detective prima o poi lo conduca all'uomo che ha ucci-
so Benny. Il vento urla. Jared accarezza le lisce penne dell'uccello con le mani fasciate di garza. *** Frank sta riempiendo un bicchierino di plastica dal bricco bruciante del caffè di Wallace quando il telefono sulla scrivania squilla. Lo lascia suonare altre due volte, poi una quarta, assaggiando il liquido amaro, prima di staccare il ricevitore. «Sì», risponde. Per un secondo dall'altra parte c'è solo il silenzio. «Pronto.» «Gray?» chiede una voce. «Il detective Frank Gray?» È una voce maschile - Frank ne è certo - ma acuta, morbida, quasi androgina. Si chiede se non sia distorta elettronicamente. Depone il bicchiere sul bordo della scrivania. Il sapore del caffè è quasi pessimo quanto lui si aspettava. «Sì», risponde. «Sono proprio io. Che cosa posso fare per lei?» Frank sente una specie di fruscio secco, come di carta appallottolata lentamente tra due palmi callosi. L'interlocutore inspira rumorosamente, un respiro brusco, irregolare. «Il poliziotto omosessuale che era alla fontana stamattina?» L'uomo indugia sulla parola - «omo-sess-uale» - e Frank sente un velo di sudore coprirgli istantaneamente tutto il corpo, la sensazione fredda, strisciante, come un ragno di ghiaccio che gli si arrampica lungo la spina dorsale. «Che cosa vuoi, amico?» «Parlare.» Dal ricevitore arriva di nuovo quel crepitio secco. «Sì, bene, in questo momento non sono in vena di conversazioni, quindi se non vieni al punto entro cinque secondi metto giù.» «Non credo che lo farai», dice l'uomo. «E come mai, amico?» chiede Frank. Il sudore sta cominciando a gelarlo. Un'altra pausa, poi: «'Al mattino lui mi lascerà, così come già sono fuggite le Speranze'», dice sottovoce l'uomo. «Gesù», mormora Frank. «Ma chi cazzo sei?» Di nuovo quel fruscio. «'Stupefatto dal silenzio interrotto da una risposta così pronta, Senza dubbio, mi dissi, Quanto dice è tutto il suo sapere...'» «Senti, stronzo. O mi dici chi sei o riappendo in questo stesso istante.»
«No», dice quello, e a Frank sembra di vederlo sorridere. «No, non lo farai. Perché io sono l'uomo, vero, Frank Gray? Non il povero Jared Poe. Io. Sono io l'uomo.» «Sei quel fottuto con la maschera?» «Io non porto maschere. Solo Loro hanno bisogno di maschere. Io non ho niente da nascondere.» «Adesso riattacco.» «Non credo. Se fossi in te ascolterei. A meno che non vuoi che le fotografie finiscano alla stampa.» «Prego?» chiede Frank e si siede sulla sua poltroncina. Non c'è traccia di Wallace, che è andato in fondo alla sala per un aggiornamento sull'uragano. «Non farmi dire sconcezze, detective. Non mi piace dover parlare così. Dire quelle cose ad alta voce. Ma ci sono le foto. Ci sono state tantissime opportunità...» «Stammi a sentire, pezzo di merda...» «Mi chiamo Lethe», precisa l'altro. «Joseph Lethe. Il corpo che avete trovato stamattina, quello era opera mia.» Frank si allontana di scatto il ricevitore dall'orecchio, come se si fosse appena accorto che brulica di qualche contagio schifoso, lo tiene a un palmo dalla faccia e guarda verso la schiera disordinata di scrivanie e macchine per scrivere. Il suo telefono non è collegato, e anche se lo fosse non ci sarebbe il tempo per rintracciare la chiamata. Ci sono state tantissime opportunità, ha detto l'uomo. «Cazzo», mormora, e riporta esitante il telefono all'orecchio. «Che cosa vuoi?» «Che bravo ragazzo», dice l'uomo. «Tu vuoi conoscere la verità, vero Frank?» «Stai dicendo che hai messo tu il corpo nella fontana?» «Oh, sto dicendo molto di più, detective. Ma non ora. Non al telefono.» L'uomo chiamato Joseph Lethe dà a Frank un indirizzo e un'ora, e Frank segna l'appuntamento su un tovagliolino usato. «Inutile dirti di venire da solo, Frank. E di non parlare a nessuno della nostra piccola conversazione.» «Sì. C'è un accidente di uragano in arrivo, lo sai?» «Non ha importanza. Non posso aspettare ancora», dice l'uomo. «Ma sta' allegro. Diventerai un eroe. Quanti poliziotti froci diventano eroi? Dovresti essere contento.»
«Perché?» chiede Frank. Una grossa goccia di sudore gli cade dalla fronte sul piano della scrivania. «Perché sono stanco. Questo è tutto. È passato tanto tempo e ora sono stanco. Adesso voglio smettere. Oltre tutto Loro sanno chi sono, no? Che senso avrebbe continuare?» «Ma perché io?» «Perché sei un così bravo ragazzo, Frank. Perché...» La voce si smorza, tace per il tempo in cui il cuore di Frank batte otto volte e salta un battito. «Signor Lethe? È ancora lì?» «C'è stato un fulmine, qui. Lo hai sentito?» Ora la voce dell'uomo sembra diversa. La sicurezza, il divertimento maligno sono scomparsi, al loro posto c'è un senso di distanza, una malinconica incertezza. «Quando ero bambino fui colpito da un fulmine», dice. «Fui colpito...» «Non capisco», lo interrompe Frank. «È importante?» Vede Wallace che rientra dal salone; guarda diritto verso Frank scuotendo la testa. «Non lo è?» chiede Joseph Lethe, lo chiede come se la risposta gli servisse davvero. Poi la linea cade e Frank riappende il ricevitore. «Non ti farà piacere sentirlo», gli dice Wallace, sedendosi alla sua scrivania, di fronte a quella di Frank. «Se i capoccioni dell'ufficio meteorologico hanno ragione, tra un po' dovremo metterci a cercare un lavoro, perché quando Michael avrà finito di fare i suoi comodi New Orleans potrebbe non esistere nemmeno più.» «Già. Senti, Wally», dice Frank, alzandosi poco sicuro che le gambe lo reggeranno, ma lo reggono. «Al telefono era mia sorella. C'è un'emergenza in famiglia e devo andare. Ci rivediamo qui più tardi.» Frank prende l'impermeabile dall'attaccapanni vicino al termosifone, dove è rimasto ad asciugare da quando sono tornati da Metairie. «Non mi avevi mai detto che avevi una sorella, Frank.» «Non siamo molto vicini», risponde Frank, già a mezza strada verso la porta. «Non contarmi palle, Franklin. Non dirmi niente se non ti chiedo...» Ma Frank è già fuori e ci sono altre voci, gente che si prepara all'uragano, e non sente più quello che Wallace gli sta dicendo. Mentre si avvia all'automobile gli viene in mente perché il nome di Joseph Lethe gli suonava familiare. Qualcosa che gli avevano fatto leggere al liceo, un libro di mitologia greca che nominava i cinque fiumi che dividevano l'oltretomba dal mondo dei vivi. Uno di questi era il Lete, il fiume dell'oblio.
Joseph Lethe toglie il cappuccio di carta che ha messo sul microfono per proteggersi da germi e cybornani. Riappende la cornetta sul telefono a gettone, appallottola la carta e la lascia cadere sull'asfalto bagnato del parcheggio. Il vento la agguanta prima che tocchi il suolo e se la porta via. Segue con lo sguardo il suo volo, mentre sale oltre i tetti delle poche auto parcheggiate davanti al K&B, verso il cielo basso e opprimente. «Fui colpito», ripete, chiedendosi tra quanto tempo cadrà un altro fulmine. «Fui colpito.» Ed è vero. Quando era bambino, non ancora otto anni, e viveva con i suoi a Houma. Mai mettersi sotto un albero quando c'è il temporale, aveva detto il nonno. Glielo aveva ripetuto un'infinità di volte. Ma una volta c'era stato il temporale e lui se n'era dimenticato e si era riparato sotto una quercia. Il fuoco bianco era sceso e aveva spaccato in due l'albero, lo aveva aperto a metà e si era disperso nel terreno attraverso di lui. Ricorda ancora l'istante in cui era stato pieno di fuoco. Era rinvenuto qualche tempo dopo, steso sotto la pioggia, e qualcuno gli stava sopra e continuava a chiedergli il suo nome. Lo sai come ti chiami, figliolo? Sai dirmi il tuo nome? Ma il fulmine gli aveva lasciato qualcosa dentro, qualcosa di piccolo e duro dentro la sua testa, e lui non riusciva a ricordare il proprio nome. Sapeva altre cose, però. Cose nuove che il fulmine aveva voluto fargli sapere. Ma il suo nome no. Quello faceva parte del prezzo, il nome. E dopo di allora non aveva potuto più portare l'orologio, e quando c'era lui nei paraggi gli aghi delle bussole facevano strane cose. Non lo disse ai suoi, fece promettere all'uomo che gli chiedeva il nome di non dirlo, perché stava bene e non c'era bisogno di dirlo a loro, che bisogno c'era? Ma loro capirono che da quel giorno era diverso. Lo guardavano con un'espressione diversa e gli parlavano con un tono diverso. Una vecchia nera - Julianna, che vendeva i pomodori alla mamma - disse che dopo quella cosa non stava più bene. Disse alla mamma che c'era qualcosa di brutto dentro di lui e che lei conosceva un uomo del vudù giù nelle paludi che poteva rimetterlo a posto. Quella era stata l'ultima volta che la mamma aveva comprato da Julianna i suoi grandi pomodori rossi, o quelli verdi da friggere. Ma la mamma lo guardava in modo diverso, come se sapesse che tutto quello che la vecchia aveva detto era vero. Verrà, lo sbirro finocchio, pensa. Non perché gli importi davvero chi sono io, ma perché ha paura di quello che so e di quello che potrei fare con quello che so. Lo stesso motivo per cui Loro hanno paura di me. Perché io sono l'uomo...
Una Volkswagen rossa passa rumoreggiando accanto al telefono, spruzzando l'acqua fangosa del parcheggio allagato sulle scarpe di Joseph Lethe. La guarda che si allontana, resta lì inespressivo, con l'acqua che gli penetra attraverso le calze fino ai piedi. Poi si passa le mani sull'impermeabile e, al sicuro della propria consapevolezza e determinazione, al sicuro dalle nere ali aperte sulla città che annega, attraversa Napoleon Avenue verso la sua auto. *** Lucrece è seduta sul divano del soggiorno, sfogliando uno dei vecchi fumetti di Sandman di Benny. Non c'è altro da fare, e dunque se ne sta lì da quasi un'ora fingendo di leggere i fumetti del fratello morto. Ma ha difficoltà a seguire la storia, qualcosa a proposito del Re dei Sogni alla ricerca, con la sorellina matta, del fratello perduto. E c'è un corvo di nome Matthew. Ma non le riesce di dare un senso alla vicenda da un album al successivo: ha la testa troppo piena di Jared, troppo piena dell'attesa. Prima aveva la radio accesa, ma non trasmettevano musica, solo la tiritera infinita dell'uragano, e così alla fine l'ha spenta. Non c'è niente che abbia davvero bisogno di sapere sulla tempesta che non senta già attraverso le pareti dell'appartamento. Non che possa fuggire via, unirsi all'esodo che dal Quartiere Francese è già cominciato. E così preferisce ignorare gli ultimi dati e cifre, grazie lo stesso, velocità del vento e impatto previsto, ondata di marea. Piuttosto mette su un CD, Remnants of a Deeper Purity dei Black Tape for a Blue Girl. Violini e tastiere non l'aiutano a rilassarsi come aveva sperato, ma per il temporale sono un fondale sonoro migliore delle voci allarmate alla radio. La musica la intorpidisce, e pensa che potrebbe provare a dormire un po'. Sono passati quasi due giorni dall'ultima volta che ha dormito o mangiato o ha fatto un bagno. Ma Jared è da qualche parte là fuori, per cui di dormire non se ne parla. Deve farsi forza per impedirsi di mandare la mente a cercarlo ogni cinque minuti. Il naso ha cominciato a sanguinarle ogni tanto, e le fa ancora male la testa dall'ultima volta. Bussano con forza alla porta. Lucrece sobbalza, lancia quasi un grido. Ma probabilmente sarà solo la polizia, o la Croce Rossa o qualcuno del genere, qualcuno che viene a dirle che deve abbandonare la casa, e lei non sa bene come farà a convincerli che non può. Che deve rimanere lì, dev'essere lì per Jared, chi se ne frega di quel dannato uragano.
Depone il fumetto e si alza dal divano, lisciando meccanicamente le pieghe dell'abito nero. Da fuori bussano ancora, con impazienza, e Lucrece grida verso la porta: «Un minuto!» Crollavo il capo, quasi assopito, quando d'un tratto bussarono... «Gesù, ragazza mia. Lascia perdere per un momento quella vecchia stronzata, va bene?» mormora tra sé, e si avvia verso la porta. Frank impiega quasi mezz'ora per raggiungere l'indirizzo in Tchoupitoulas Street che gli ha dato Joseph Lethe. Le strade sono allagate e già si vedono i camion e i soldati in tuta mimetica della guardia nazionale ai blocchi stradali. Il distintivo lo fa passare, ma il vento sbatacchia come un giocattolo la sua automobile. Guidare in mezzo alla tormenta è come correre in un incubo, fuggendo qualcosa di enorme e terribile che ti sta alle spalle e guadagna terreno, e i tuoi piedi pesano almeno dieci chili l'uno. Solo che in questo sogno vi sono anche, da aggirare, alberi caduti e cavi elettrici abbattuti, auto in panne e incidenti. E così invece dei quindici minuti che l'uomo al telefono gli ha dato, Frank consuma mezz'ora. E poi, arrivato sul posto, all'indirizzo non c'è altro che un lotto di terreno vuoto invaso dalle erbacce, con solo un albero secco che lo separa dalla strada. Frank ferma lungo il marciapiede e resta seduto a fissare l'albero, imprecando contro quella fottuta tempesta e la sua fottuta sfortuna. La luce abbagliante di un fulmine che scocca in quel momento illumina qualcosa di argenteo che, fissato al tronco della pianta, svolazza furiosamente al vento. Sono stato colpito... Frank scende dall'auto. La tempesta lo assale, vorrebbe trascinarlo via artigliandogli i vestiti e i capelli con invisibili dita di vento, come se non volesse lasciargli vedere quello che è inchiodato all'albero. Ma è solo un palloncino sgonfio; a suo tempo era a forma di cuore e sopra si può ancora leggere PER SEMPRE in grosse lettere rosse. Il palloncino è stato squarciato, appiattito, e gli è stata pinzata una busta a soffietto plastificata. Frank strappa via il sacchetto. Anche il palloncino si stacca ed è divorato all'istante dal vento. L'uragano vorrebbe togliergli di mano anche la busta di plastica mentre lui torna verso l'auto, già inzuppato fin dentro l'impermeabile. All'interno della macchina l'ululato del vento è attutito. Come da un silenziatore, pensa Frank, mettendo la sicura allo sportello. La busta contiene tre fogli gialli piegati, strappati da un quadernone a ri-
ghe. Frank li sfila, li apre, spiana le pagine sul sedile. La carta è umida ma non ha importanza perché il testo è scritto a matita ed è solo un altro indirizzo e un altro orario, un posto in Millaudon Street, dall'altra parte di Audubon Park. «Cazzo», sibila, tirando una sonora manata al cruscotto. Pensa a quel giorno di anni fa nel caseggiato di Iberville, quando Linda Getty stava morendo dissanguata mentre lui continuava a urlare «Dieci-tredici» nel microfono della radio. Ricorda che nessuno gli rispose, solo perché Linda era lesbica e tutti la volevano fuori dai piedi. E se tutto quello, la telefonata, il bastardo nel bagno della centrale, tutto, era solo un maledetto scherzo? O peggio: e se loro sapevano? Un ramo dell'albero secco si spezza e piomba sul suo parabrezza, lasciando un graffio di un palmo nel vetro prima che il vento se lo porti via. Frank gira la chiave nell'accensione, rimette in moto e si allontana veloce dal lotto deserto prima che l'uragano gli tiri addosso l'intera pianta. Stai diventando paranoico, Frank. «Forse sì», si dice, e fa un'ampia conversione su Tchoupitoulas, puntando a ovest verso il parco. «E forse no.» Il suono della sua voce è pieno di coraggio e di certezza, lo mostra determinato e sicuro come tutti i poliziotti dei telefilm della sua infanzia. Ma la paura che gli riempie la pancia e il formicolio sulla nuca la raccontano diversamente. E una voce minuta ma stridula dal profondo gli dice di tagliare la corda finché è in tempo, che c'è un cazzo di uragano in arrivo, Cristo, nessuno gli rinfaccerà se per il momento lascia perdere questa cosa. A meno che non vuoi che le fotografie finiscano alla stampa, ha detto la voce al telefono. Frank non crede che esistano fotografie, ma non può esserne sicuro al cento per cento. Sa che alla fine non ha scelta, che la sua apprensione non serve a niente, è irrilevante. Che farà quello che Joseph Lethe gli dirà di fare perché la sua vita è diventata un segreto, un segreto che può spezzargli le gambe, un segreto che ora gli viene puntato alla tempia. Spinge lo sguardo oltre il parabrezza, mentre i tergicristallo oscillano inutilmente, e segue i raggi incerti dei suoi fari. «Ti prego, dimmi che cosa vuoi», mormora Lucrece, maledicendo la paura che sente nella sua voce. La mano nel guanto di lattice la schiaffeggia di nuovo, così forte che la sua bocca è piena di sangue. Se lo lascia scorrere lungo il mento piuttosto che inghiottirlo. Il sapore del suo sangue le ha sempre fatto schifo.
«Le domande le faccio io a te», dice l'uomo. «Così è la regola.» L'uomo con gli occhi del colore della pietra è inginocchiato sopra di lei, e controlla i nodi che ha fatto con la corda bianca di nylon, che le legano stretti polsi e caviglie. Ha una pistola che le preme con forza contro il punto molle sotto lo sterno. «Lo so chi sei», gli dice. Lui si ferma e la guarda da sotto i capelli unti che continuano a piovergli sugli occhi. Se li scosta di nuovo, scoprendo il volto magro, affilato come un'accetta. Appare eccitato e ansioso, e gli tremano le mani. «Sei lo squilibrato figlio di puttana che ha ucciso mio fratello», continua Lucrece. «Sono molto di più di questo», replica l'uomo, e un sorrisetto nervoso, timido, si disegna lentamente sul suo viso. «Ma tu sai già anche questo, vero? Ne sono sicuro. Loro ti hanno detto tutto di me.» «Jared è morto per colpa tua», sussurra lei, irrigidendosi nell'attesa che la mano colpisca di nuovo. Ma l'uomo si limita a sorridere un po' di più e poi si copre la bocca con le dita inguantate della mano libera, come se si fosse accorto d'un tratto che sta sorridendo e non volesse farsi vedere da lei, non volesse farle vedere la sua eccitazione, il piacere che sta ricavando da questa scena. Muove la mano, lentamente, e ora non sorride più. «Ti hanno detto anche che non doveva essere tuo fratello? Ti hanno detto che dovevi essere tu e che io ho fatto, diciamo così, un po' di casino?» Lucrece chiude gli occhi, non vuole credere a quello che sta sentendo, ma sa che sta dicendo la verità. Quante volte ha desiderato essere al posto di Benny, sa bene che se ci fosse stata lei almeno Benny avrebbe avuto ancora Jared. E ora questo pazzo le sta dicendo che quella era la sua intenzione. «Ma è a questo che servono le seconde occasioni, giusto, Lucas?» le chiede, e il modo in cui pronuncia quel nome è quasi come un altro schiaffo, quasi altrettanto bruciante. «Tu sei già morto.» La parola le fa bene, uscendo dalla sua bocca, sfiorandole le labbra spaccate e gonfie. «Non hai idea di quello che hai messo in moto, né di quando finirà.» L'uomo si china su di lei. Lucrece non apre gli occhi ma lo sente a pochi centimetri dalla sua faccia, sente il suo fiato che sa di collutorio e denti guasti. «È questo che ti hanno detto Loro, Lucas DuBois? Ti hanno detto che
ero solo uno squilibrato serial killer che gli tira con i transessuali e i bambini in biancheria femminile?» Lei non risponde e non apre nemmeno gli occhi, e lui la colpisce di nuovo, così forte questa volta che le ronzano le orecchie. «Rispondimi, bastardo senza cazzo!» «Sei morto», dice lei, e lui colpisce. «No, no, no!» Infierisce sopra di lei come una tempesta, come se tutta la furia selvaggia dell'uragano si fosse distillata e riversata in questo uomo magro, folle. Lei ignora il dolore che sente alla testa e va dentro di lui, cerca di entrare dentro di lui così come è riuscita a raggiungere Jared e il corvo. Quando la sua mente sfiora quella di lui, Lucrece caccia un urlo. C'è qualcosa in agguato nel profondo del suo cranio, un serpente fatto di fuoco vivo, una massa pulsante di calor bianco che si avventa contro di lei e lascia un solco combusto nei suoi pensieri là dove passa. Il corpo di Lucrece si irrigidisce come un pezzo di legno, si inarca; si morde la lingua lacerandola. «Io sono il luogo dove tutto ciò si arresta, Lucas. Io sono lo scudo che si erge per l'ordine contro il Loro caos. Contro il tuo caos, Lucas DuBois.» Ma ora quelle parole fluttuano e si allontanano da lei, respinte dalla carica che l'ha raggiunta dal crogiolo arroventato del cervello dell'uomo. Il ricordo di un potere folgorante capace di spaccare alberi come fuscelli e incenerire ossa, qualcosa di più di un ricordo. Qualcosa di più rovente di una stella che serpeggia dentro di lei, attraverso ogni cellula del suo corpo, che si insinua tra le sue molecole, tra le particelle subatomiche del suo organismo, finché non si può più dire qual è Lucrece e quale la cosa che scaturisce dalla mente dell'uomo. Spalanca gli occhi. Lui incombe sopra di lei, fuoco e vapore sgorgano da ogni orifizio del suo cranio. Si rovesciano come scorie magmatiche dalle sue labbra, gli fluiscono come lava dalle orecchie, le ricadono crepitando sulla pelle. Impossibile tirarsi indietro, spezzare il contatto con questa mente ustionante. Lucrece inarca la schiena, sente lo scricchiolio delle vertebre che stridono una contro l'altra. «Io sono il fiume», dice lui, e quegli occhi forsennati ora sono orribilmente vicini. Ma l'ultimo pensiero di Lucrece prima di perdere conoscenza non è per questo mostro, quest'uomo infettato dall'elettricità e dalla follia. Il suo ultimo pensiero è per Jared; fa un piccolo buco, un minuscolo forellino, in mezzo al fuoco e spinge il pensiero lontano da sé, caricandolo della
forza strappata alla furia del folle. Poi non c'è più niente, solo il fruscio di fondo e la grazia del buio. *** Joseph Lethe arretra veloce dalla cosa che si fa chiamare Lucrece DuBois, la cosa che con tanta perizia Loro hanno costruito con carne di maschio a imitazione di una femmina. È senza fiato e impaurito; è inutile negare che ha sentito la cosa introdursi dentro di lui, che ne ha sentito la mente sudicia premersi fremendo contro la sua prima di mettersi a urlare e a dibattersi sul pavimento, con la schiuma alla bocca. Gli stava leggendo i pensieri, l'anima. Ma là dentro c'era qualcosa che la cosa non si aspettava, qualcosa che lo ha schermato difendendolo dalla sua attenzione invasiva, aliena. Qualcosa che ha reagito e ha ridotto la cosa all'impotenza, all'incoscienza, forse alla morte. Stringe più forte il calcio d'acciaio della pistola e preme la corta canna tra le mammelle artificiali della cosa. «Hai fatto il passo più lungo della gamba, eh?» ansima. «Non sei furbo nemmeno la metà di quanto pensi.» Adesso se n'è andata, quella parte della cosa che gli aveva aperto la mente forzandola come una grigia ostrica del Golfo, ma lui la sente ancora. Come un residuo appiccicoso e dolciastro lasciato a fermentare dentro la sua testa, e gli prude in punti che sa non potrà mai raggiungere e grattare. Joseph Lethe sente qualcosa di freddo e innegabile, qualcosa che non sentiva da tanto tempo, qualcosa che lui pensava di poter infliggere soltanto, mai subire. Si sente violentato. E allora scarta il nome Joseph Lethe e torna a essere Jordan, nella speranza che il cambiamento lo lasci più pulito, ma la cosa non funziona. Con cautela Jordan preme due dita riluttanti contro la gola del transessuale. La pulsazione è debolissima, irregolare, ma c'è, la cosa è ancora viva. «Che cosa volevi farmi, stronzo? Mi hai toccato», e la pressione del dito sul grilletto aumenta impercettibilmente. «Mi hai contaminato.» Vorrebbe vuotare tutto il caricatore in quel cuore nero velenoso. Forse allora si sentirebbe in pari. La vendetta non serve a molto, ma sa che non potrà mai liberarsi di quell'essenza pullulante, inumana che la cosa gli ha innestato dentro, e allora forse dovrà accontentarsi della vendetta. «Io sono il fiume», sussurra, come una preghiera, e la canna della pistola si muove lentamente dallo spazio tra i seni a un punto sotto il mento della
cosa. «Io sono il veicolo di tutto ciò che è puro, e tu mi hai insozzato.» Ma non può ucciderla, non ancora, non qui. Sono ancora troppe le cose che deve dirgli degli incubi e della creatura dalle ali nere che lo insegue attraverso il cielo. E ha ancora un ruolo importante da svolgere nella trappola che ha preparato al poliziotto frocio. Morirà, sì, ma più tardi, lentamente, altrove. Per il momento dovrà accontentarsi di altro. Qualcosa di più sottile, pensa. «Qualcosa di più poetico», dice. Jordan usa la canna della pistola per scostare la camicia della cosa. Le mani inguantate ne scoprono l'ingegnoso, ingannevole sesso. Sente risvegliarsi il pene nei calzoni e si morde la punta della lingua. Non ha mai fatto una cosa del genere, mai, nemmeno una volta. Non si è mai lasciato turlupinare dalla Loro mascheratura e quindi non c'è mai stato alcun rischio di quel genere di contatto, di quel genere di debolezza. Sa da sempre che questo fa parte dei Loro trucchi, come le fauci frangiate di una pianta carnivora spalancate in attesa della mosca. Ma questo è diverso, si dice Jordan. Non ha niente a che fare con il desiderio, con qualcosa di vile come la lussuria. Sarà un messaggio per Loro: che non potranno più violentarlo, che allo stupro risponderà con lo stupro. È ingegnoso, davvero. E prenderà le precauzioni del caso per difendersi da tutto ciò che dentro la cosa possa mirare a lui, da tutti i virus e cybornani che potrebbero avere installato nella cosa nelle fasi finali della sua ricostruzione. «Io sono il fiume», ripete, e il dito posato sul grilletto comincia a rilassarsi. Jared e il corvo osservano Frank Gray dal portico anteriore di una casa abbandonata in Millaudon Street. Dall'altro lato della strada il detective impreca e strappa un secondo palloncino di plastica dal tronco di un albero di pecan. Poi lottando contro la tormenta rimonta in macchina. «Il killer sta giocando con lui, vero?» chiede Jared, e il corvo gli risponde sottovoce. Solo la testa dell'uccello spunta dal bavero della giacca che era stata di Benny. «Lo tiene occupato. Gli getta delle esche...» Ed ecco che Jared sente Lucrece, la sente così forte e chiara che la forza della voce lo scaglia all'indietro di qualche passo, mandandolo a urtare contro le assi che sbarrano la porta d'ingresso della vecchia casa. Una voce priva di suono che lo invade, priva anche di parole, solo uno schiacciante lampo di Lucrece, Lucrece che soffre e teme per lui, che lo avverte. Ma poi
passa. Jared si accascia, tremando, contro le tavole consumate alle sue spalle, scosso e sudato sotto il cappuccio di pelle con cui ha coperto il cranio devastato dal proiettile. «Lucrece», mormora. Poi il corvo lancia un verso, si agita impaziente dentro la giacca di lattice. Jared alza lo sguardo in tempo per vedere che l'auto di Frank Gray si sta allontanando verso nord lungo Millaudon Street. «Se lo perdo adesso potrei non avere un'altra occasione», dice Jared. Il verso del corvo sembra condividere quell'opinione. L'auto del detective è già solo una coppia di luci di posizione tremolanti nella pioggia. «Cristo, Lucrece, sta' attenta», dice lui. «E grazie.» Esce dal portico verso l'uragano. Il secondo biglietto ha condotto Frank a un supermercato in un tratto dissestato di Magazine Street. Tutte le vetrine sono state coperte da fogli di compensato giallo-marrone e il luogo appare deserto, abbandonato da tempo da proprietari e dipendenti in fuga davanti all'uragano. Più furbi di me, pensa, e scorge un terzo involto di plastica argentata inchiodato a una delle tavole di legno. Vede che c'è anche un pacchetto di carta marrone. Due volte il vento gli fa perdere l'equilibrio, andando e tornando dal negozio, e lo getta in mezzo alla strada inondata. C'è più di un palmo di acqua grigia e schiumante che scorre lungo Magazine Street, e quando torna all'auto è così fradicio che sembra abbia nuotato anziché camminare. Siede al volante con un'altra busta di plastica tolta da un altro palloncino squarciato. Questo dice CONGRATULAZIONI! in un agile corsivo. Frank lo getta sul sedile posteriore e fa un profondo respiro prima di aprire la busta. Questo è l'ultimo, giura a se stesso. Se qua dentro non c'è qualcosa di veramente convincente, questo gioco dell'oca idiota finisce qui. Dentro la busta c'è un altro sacchetto di plastica, e qui non c'è solo un biglietto. C'è anche un dito indice, tagliato di netto all'altezza della nocca, con un liscio frammento di osso bianco che sporge da un'estremità e un'unghia laccata di nero dall'altra. «Cristo», mormora Frank aprendo il pacchetto ed estraendone con cautela il biglietto ripiegato. Sulla carta gialla rigata c'è del sangue non ancora secco, ancora appiccicoso al tatto, e gli resta sulle dita mentre apre la pagina. C'è l'indirizzo successivo con la solita grafia. «Nel caso dubiti di me», è scritto in cima.
Frank ripiega la lettera e la lascia ricadere nel sacchetto con il dito, rimette il tutto nella busta di carta e infila la busta sotto il sedile. Lontano dagli occhi lontano dal cuore. «Sì, proprio», mormora, uscendo in retromarcia dal parcheggio del supermercato. «Chi l'ha inventata non è mai stato seduto sopra un dannato dito umano mozzato.» Innesta la marcia e si avvia per quell'affluente di fortuna del Mississippi che è diventata Magazine Street. Lucrece si sveglia lentissimamente, emerge per gradi quasi impercettibili da un sogno con Aaron Marsh e l'Occhio di Horus, un sogno con il dodo impagliato nella sua vetrina. Solo che nel sogno il dodo era quello di Alice nel Paese delle Meraviglie, quello dell'illustrazione di John Tenniel, con le mani e il bastone da passeggio. E non era più nella sua bacheca ma ritto accanto a lei e Aaron, e guardava la pioggia dalla vetrina del negozio. «La corsa è finita», diceva Aaron, e Lucrece: «Più bagnata che mai. Mi sembra di non poter più asciugarmi». E il dodo, con grande solennità, picchiando il bastone sul pavimento: «Tutti hanno vinto, e tutti devono avere un premio». Lucrece sta per chiedere al dodo se il ditale che ha in tasca possa andare, se sia un premio sufficiente, quando l'odore di ammoniaca la fa svegliare tossendo. Apre gli occhi e c'è una luce abbagliante molto vicina, tanto che sente il calore della lampada infocata. La sensazione bruciante le fa ricordare com'è stato toccare la mente dell'uomo, l'uomo che è entrato con la forza nel suo appartamento, l'uomo che ha ucciso Benny. Dimentica il sogno e ricorda il flusso ustionante che scaturiva dalla sua mente, ricorda le sue mani su di lei, l'assoluta negatività della sua anima. Tossisce ancora, con la gola arida e bruciante come carta vetrata. Poi una cannuccia di plastica le viene ficcata tra le labbra. «Bevi», dice l'uomo. È in piedi, vicinissimo. La cannuccia le batte insistente contro i denti, le punge le gengive. «Bevi», ripete. Lei succhia e la bocca le si riempie di acqua tiepida. Inghiotte e sente un po' di giovamento, allora ne succhia un'altra boccata. «Basta», dice lui, e allontana la cannuccia, che si porta dietro un filo denso di saliva dalle labbra di Lucrece, ricadendole sul mento. I suoi polsi sono ancora stretti insieme, legati a qualcosa sopra la sua testa; penzola nuda sotto la luce violenta. Le braccia hanno perso completa-
mente la sensibilità per il peso del suo corpo. Tende le gambe e la punta dei piedi sfiora un pavimento duro e freddo, come una gettata di cemento grezzo. «Stavo giusto dicendo che è un peccato che non ci sia tempo per farlo come si deve», riprende l'uomo. Sembra che la luce si muova, giocando sopra il suo corpo. «Stavo giusto dicendo che sei un bel premio.» L'aria odora di polvere e di pioggia lontana, di muffa e di stracci unti. L'ammoniaca le brucia ancora nelle narici. Sente l'urlo della tempesta, fuori, ma ora il suono sembra lontanissimo. «Dove sono?» chiede. Il suono della sua voce le fa lo stesso effetto della gola arsa. «Dove io voglio che tu sia, Lucas. Sei al nesso, al cuore della trappola.» «Quello non è il mio nome», protesta rauca, ma lui la ignora. «Potrei apprendere delle cose da te, se ci fosse più tempo. Se avessi il tempo di seguire le procedure giuste. Ma lui sarà qui tra breve e io non ho quasi ancora cominciato.» Non ha importanza che lei non abbia idea di che cosa intenda dire. Quello che ha importanza è che ha tutte le intenzioni di ucciderla. È un predatore e lei è la sua preda scelta, denudata e appesa per essere squartata come un maiale che aspetta la lama che gli reciderà la carotide. Non c'è altro che le occorra sapere. «Niente di tutto questo è come pensi tu», gli dice. «Non è necessario che tu lo faccia di nuovo.» «Oh, questo è esattamente quello che penso io», ribatte lui. Riesce quasi a vederlo, ritto nell'ombra al di là della luce, macchia di buio più scuro in vaga forma di uomo. «Ormai è tardi per altre bugie. Ti ho visto la schiena mentre stavo... Ti ho visto la schiena. La cicatrice.» «Piccolo ficcanaso di merda». Lucrece si accorge che ha difficoltà a tirare fuori il fiato, che sta lentamente soffocando, come in una crocifissione. Dev'essere appesa lì da ore. «Parlami dell'uccello, Lucas. Io ho sognato l'uccello nero, e tu hai il suo marchio sulla schiena.» «Vuoi sapere dell'uccello nero?» risponde lei, boccheggiando per raccogliere l'aria che le serve a formulare le parole, a non perdere i sensi. «Posso dirti tutto dell'uccello nero. Tirami giù di qui e ti dirò tutto di quel fottuto uccello nero.» «Questo non posso farlo», risponde lui severo, in tono di rimprovero. «Lo sai bene, Lucas, non posso rischiare. Non c'è tempo.»
«E allora non posso aiutarti», ansima lei. «Mi spiace. Ti toccherà sbrigartela da solo per sapere chi è.» Inspira un'altra faticosa boccata d'aria. «Sta arrivando, non manca molto.» «Non ho paura né di te né di nessuno di Loro», sbuffa l'uomo, ma lei sente che non è vero. Che è terrorizzato. «Non mi indurrai a lasciarti andare cercando di spaventarmi.» Ora lei può sentire il sapore, di quella paura. Poiché è così maledettamente deliziosa, così dolce e matura, e forse è l'unico assaggio che mai avrà di giustizia, Lucrece dice semplicemente: «Il corvo è la sua vendetta, pezzo di merda, e tu sei la sua vittima». Si aspetta una reazione immediata, un castigo istantaneo somministrato in cambio della verità che lui non avrebbe voluto sentire, un coltello o un ago in cambio della sua sincerità. Ma l'uomo è rimasto immobile dietro la fonte della luce. Lo sente respirare. «Ci sono cose che cadono dal cielo», dice l'uomo. «Cose sanguinanti, scintillanti, cadono dal cielo e il tessuto stesso dell'umanità ne è alterato. E Loro pretendono che io me ne stia a guardare senza far niente? Davvero pensano che non c'è un solo uomo che possa opporsi a Loro?» «Tu sei pazzo», mormora Lucrece, e sa che se non la finisce in fretta lei comincerà a piangere. Il dolore è assolutamente troppo e lei ha troppa paura di morire da sola in quel posto buio e puzzolente. E non vuole che quel figlio di puttana che ha ucciso Benny la veda piangere. «Non parlare a me di vendetta, Lucas DuBois. Io sono la vendetta del mondo intero contro le Loro atrocità.» «No», gracchia lei, e inghiotte, scuotendo la testa, desiderando di avere la forza di ridere, la forza di mostrargli quanto sia comico. «No, tu sei solo uno squallido testa di cazzo squilibrato che prova piacere a uccidere. Questo è tutto. Non sei altro e non sarai mai altro.» Si sente, adesso, un rumore di metallo su metallo, il tintinnio di piccole cose appuntite, e Lucrece chiude gli occhi perché non vuole vedere. Quando le fasce esterne di pioggia di Michael hanno attraversato la barriera delle Chandeleur Islands la tempesta è diventata un mostro anche secondo gli standard mostruosi degli uragani. Il suo turbinante corpo ciclonico copre la terra dalla foce del fiume Pascagoula fino all'estremità sudorientale della Louisiana. Nato in qualche punto al largo della costa occidentale dell'Africa, si è sviluppato da un embrione di perturbazione, un feto disorganizzato di piovaschi e temporali, e ha cavalcato gli alisei per più
di quindicimila chilometri fino al Golfo del Messico. Ora è pronto a scaricare la sua furia contro il delta del Mississippi. Nel tardo pomeriggio si hanno venti sostenuti con punte di oltre trecento chilometri orari, e Michael è stato promosso a uragano di categoria cinque. All'altezza del suo occhio calmo Michael ha sollevato un monte di acqua di mare alto mezzo metro e di quasi ottanta chilometri di diametro, uno sconvolgimento temporalesco sollevato dalla zona di pressione violentemente bassa che punta, per cominciare, verso il delta già ingolfato dalle piogge, verso le paludi di cipressi e le piccole città appena al di sopra del livello del mare. E verso New Orleans, il rosso centro del bersaglio alla fine della sua lunga odissea attraverso l'Atlantico. Alle 16:53 un piccolo battello per la pesca dei gamberi, l'Eloisa, finito nel mezzo della tempesta, chiede aiuto per radio da un punto nel Breton Sound al largo di Fort St. Philip. Il comandante riferisce che il barometro di bordo dà una pressione di 26.10 pollici; tre giorni dopo lui e i due uomini dell'equipaggio saranno trovati a galleggiare nel Golfo, ma il suo rapporto verrà registrato dai meteorologi come la pressione più bassa mai riscontrata nell'emisfero occidentale. Alle 16:57 un aereo da ricognizione che segue l'uragano, lanciando il suo carico di sonde strumentali nell'occhio del ciclone, riferisce nervosamente di un'ombra gigantesca, «come un immenso uccello nero», che lambisce le acque relativamente calme del centro della perturbazione. Il pilota e l'equipaggio ridimensioneranno l'episodio parlando di un errore, forse solo l'ombra del loro stesso apparecchio o uno scherzo delle nuvole. Alle 17:03, un satellite meteorologico in orbita geostazionaria a cinquantacinque chilometri sopra il Golfo trasmette immagini a colori di un'altra ombra, una macchia nera come inchiostro di china che in seguito prenderà il nome, in un rapporto interno della NHC, di «anomalia del corvo». Meno di trenta secondi dopo il computer del satellite vomita un torrente frenetico, insensato di dati, e poi tace definitivamente. Michael piroetta, imparziale come un cancro, inarrestabile come il fato, il dorso biancoargenteo voltato verso il cielo e il ventre nerolivido esposto verso il volto di un mondo irato e impotente. E una terribile notte furibonda scende sui vivi e i morti della città di New Orleans. 9 Il sesto biglietto prometteva a Frank che sarebbe stato l'ultimo. Lo ha
condotto al rudere desolato di una vecchia fabbrica sul fiume, un imponente edificio in pietra costruito prima della fine del secolo e ora abbandonato ai topi e ai senzatetto, ai neri pipistrelli pelosi e agli elementi. Parcheggia su un vasto spiazzo di cemento spaccato dalle erbacce, ora allagato come tutto il resto, una foresta sommersa di denti di leone, ortiche e insalata matta sul margine delle rovine dello stabilimento. Frank deve lottare per aprire la portiera dell'auto, battendosi contro il fervore delle raffiche, e poi lottando ancora per richiuderla. Per un momento l'uragano ha la meglio su di lui, lo schiaccia ridotto all'impotenza contro l'automobile, niente di più che un altro detrito alla mercé del ciclone. Si protegge gli occhi dalla pioggia pungente e da tutte le porcherie che vorticano nell'aria e alza lo sguardo verso la carcassa industriale che si apre davanti a lui, i muri cadenti e le alte ciminiere di mattoni che si stagliano contro la sagoma del Greater New Orleans Bridge e, più in là, contro il muro nero-blu del cuore turbolento dell'uragano. La vista di tanta terribile maestà che cala sulla città basta quasi a fargli dimenticare se stesso e quello che lo sta aspettando dentro la vecchia fabbrica. Quasi. Un uomo potrebbe impazzire, pensa, sostenendo lo sguardo senza volto di un'entità come quella, costretto a riconoscere una potenza così grande. Qualcosa attraversa l'aria sfiorandogli la guancia sinistra, gli incide un taglio profondo e scompare, e il vento lecca avido il volto insanguinato di Frank. Si trascina lungo la fiancata scivolosa dell'auto. Ondate minuscole si infrangono contro le gambe dei suoi pantaloni. Una lastra di lamiera ondulata sfreccia ruotando sopra la sua testa, ghigliottina arrugginita in rotazione perpetua, e Frank coglie il messaggio: Resta qui fuori ancora un po' e sei un uomo morto. E così stringe i denti da bravo poliziotto e tira avanti. Sono meno di venti metri alla porta più vicina di ingresso alla fabbrica, ma la tempesta continua a dargli lo sgambetto, e una volta si taglia il palmo della destra su una bottiglia rotta di vino che nasconde i suoi denti di squalo appena sotto il pelo dell'acqua. Finalmente raggiunge l'edificio, solidi mattoni e cemento a cui sostenersi. Una porta di ferro scrostata ciondola sui cardini pronta a essere sradicata da un momento all'altro e risucchiata nel maelstrom. Frank riesce a socchiuderla di uno spiraglio e immediatamente il vento gli strappa la maniglia di mano e la sbatte contro il muro. Varca la soglia e la tormenta lo lascia andare, fiduciosa che il riparo della fabbrica non potrà durare più di tanto. Frank si ferma appena entrato, ha di fronte un buio così assoluto che per contrasto il prematuro crepuscolo che lo inquadra dalle spalle nel vano del-
la porta sembra una luce sfolgorante. Ha ancora i piedi immersi in diversi centimetri di acqua gelida, ma almeno è protetto dal vento e dalla pioggia battente, e il rumore della tempesta è attutito dalle spesse mura: ora è solo un rombo lontano e continuo. Porta la mano sotto la giacca fradicia d'acqua ed estrae la Beretta 92-F dalla fondina ascellare. Il taglio nella mano gli fa male e sanguina come un figlio di puttana, ma per il momento non può farci niente. Naturale, doveva essere la mano destra, figurarsi se poteva mai cadere sulla sinistra. Sfila la torcia elettrica dalla tasca posteriore, non aspettandosi affatto che funzioni, aspettandosi di trovarla piena d'acqua, con le batterie annegate. E invece, quando spinge il bottone, un fioco fascio di luce colpisce quella grande buia pozzanghera che è il pavimento. Solleva un po' il raggio e c'è un arco di mattoni a pochi passi da un lato, dove il fondo in salita resta più asciutto. «Farai meglio a essere nei paraggi, stronzo», dice. La sua voce risuona minuscola nella vasta tomba del fabbricato. Oltrepassa l'arco. Dall'altra parte c'è un po' più di luce, sfumature vellutate di un grigio solo di pochi gradi più chiaro del nero, ma è sempre un miglioramento. C'è una fila di alti finestroni lungo il fianco sud della costruzione, il lato che si affaccia sul fiume e verso il ciclone in arrivo, e le ultime tracce della luce del giorno filtrano fino al pavimento attraverso l'aria ispessita dalla lunga permanenza nella fabbrica. Frank fa scorrere il fascio di luce lungo il muro adiacente all'arco e vede una scala di ferro dall'aria malferma imbullonata ai mattoni, che si perde nel buio verso il piano superiore del fabbricato. «Ehi!» grida. Dall'alto immediatamente risponde un frenetico sbattere di ali; solo piccioni, o forse rondini annidate tra le travi del tetto, ma la sua mente corre inevitabilmente al grosso corvo nero che il tizio con la maschera aveva con sé. Un paio di piume attraversano ondeggiando pigramente il fascio della sua torcia e si depositano sul pavimento di cemento. Quando gli uccelli si sono acquietati, Frank tende l'orecchio per capire se non è solo, se Joseph Lethe lo sta aspettando nell'ombra. «Senti, stronzo! Sono stufo di giocare a nascondino con la tua faccia di merda!» Non c'è risposta, nessuna risposta umana, solo l'incessante muggito della tempesta e, dentro, la voce più impalpabile della vecchia fabbrica. «Gesù», mormora. Con la luce puntata davanti ai piedi e il calcio della Beretta stretto nella mano che gli fa male, Frank Gray comincia a salire la
scaletta. In cima c'è un piccolo ballatoio, una piattaforma quadrata di acciaio e cemento pericolosamente inclinata da un lato, e una ringhiera quasi completamente smangiata dalla ruggine. Mettendovi il piede Frank si rende conto di trovarsi almeno a quindici o venti metri dal suolo. I finestroni di fronte sembrano ondeggiare dall'altro lato di un vuoto senza fondo. Attraverso i vetri lerci e rotti vede i tetti di costruzioni più basse lungo la riva settentrionale del Mississippi e anche lo stesso fiume in piena, simile a un serpente incredibilmente gigantesco, e le scaglie sono l'acqua agitata increspata di schiuma bianca. Ma Frank distoglie lo sguardo; c'è già troppa merda da tenere a bada senza doversi preoccupare di cosa succederà quando il fiume deborderà dagli argini. Nel muro c'è una porta d'acciaio antincendio. Quando la spinge, la porta si apre con un forte cigolio. Quello che vede dalla soglia lo spinge quasi a scendere a precipizio, urlando, per la scala pericolante: un riflettore fissato a un cavalietto rivela con la sua luce violenta un corpo mutilato sospeso per i polsi a un gancio. Le gambe esangui del cadavere sono spalancate in una larga V capovolta, le caviglie legate ciascuna con un cordino bianco di nylon assicurato a un moschettone metallico infisso nel pavimento. Il corpo è stato completamente eviscerato, squartato dai genitali al mento, e sul pavimento imbevuto di sangue sotto i suoi piedi sono sparsi organi e viscere, tratti bluastri di intestino e masse carnose più scure che non gli è possibile identificare. La cavità addominale è vuota, un guscio svuotato di muscolo e cartilagine e osso. Sul pavimento vi sono letteralmente secchi di sangue che si sta coagulando, secchi di plastica pieni fino all'orlo e, dietro il riflettore, un tavolino coperto di strumenti chirurgici e strisce di carne e di pelle. Nei punti in cui non è coperta di sangue e materia organica, la pelle del cadavere è del colore del gesso in polvere. Ma almeno non può vederne il viso. La testa è rovesciata all'indietro, e gli occhi morti, se mai sono stati lasciati nelle loro orbite, fissano verso l'alto, oltre il soffitto. È impossibile per lui dire se si tratta di un corpo maschile o femminile. Frank inghiotte con forza e si asciuga la fronte sudata con il dorso della mano che tiene la torcia. Non ha vomitato davanti alla scena della fontana di Audubon Park e di sicuro non vomiterà adesso. «Lethe?» chiama. Non udendo alcuna risposta, dice: «Lo so che sei ancora qui». C'è un movimento alla sua sinistra, poi qualcosa di velocissimo che lui riesce a cogliere per un attimo con la coda dell'occhio. Frank non perde
tempo a controllare il bersaglio o a prendere la mira. Reagendo sull'onda della paura e dell'adrenalina, fa fuoco tre volte con la Beretta. Le pallottole da nove millimetri non colpiscono altro che il muro di mattoni e gli spari gli lasciano un ronzio nelle orecchie. «Cazzo», mormora, e sente i passi che si avvicinano veloci dietro di lui e il duro e freddo metallo premuto contro la sua tempia prima che possa girarsi. «E finita, detective. Ho vinto io.» Frank riconosce la voce della telefonata. «Butta la pistola e fai un passo indietro.» «Se butto la pistola sono morto.» «Sei già morto, detective, appena lo decido io. Ora lascia cadere quella stramaledetta pistola e anche la pila e fai esattamente quello che ti ho detto. Un passo indietro.» Frank lascia che la Beretta scivoli dalla sua mano insanguinata toccando rumorosamente il pavimento, lascia la torcia e il vetro va in frantumi. Fa un passo indietro. La canna della pistola premuta contro la testa si muove con lui. «Adesso girati e guarda», dice la voce. «A che cazzo di scopo? Vuoi vedermi spaventato? È per questo? Perché se è questo che ti serve, ce l'hai già.» «Voglio vederti morto, frocio», dice la voce, la voce leziosa, effeminata, che ora gli parla dritto dentro l'orecchio. «Voglio vederti morto e condannato per i tuoi crimini contro la tua stessa virilità. Girati e guarda, Frank Gray.» Frank si volta, lentamente, verso il corpo macellato dallo squilibrato. «Questo non ha il minimo senso, Lethe», dice, cercando di non far trasparire la paura dalla voce. Potrebbe esserci ancora una possibilità di uscirne vivo, se riesce a mantenere la calma, se riesce a conservare il sangue freddo. «Adesso sono Jordan», dice l'uomo, e gli gira intorno mettendoglisi di fronte, ma senza spostare di un millimetro la canna della pistola. È una figura assolutamente comune, più giovane di quanto Frank pensasse e a suo modo quasi bello, in quella sua magrezza da eroinomane. Probabilmente non corrisponde affatto al profilo del serial killer che immagina l'FBI. «Ma sei lo stesso con cui ho parlato al telefono, quello che ha lasciato i messaggi che mi hanno portato qui, giusto? L'uomo che diceva di essere stanco e di volersi fermare?» «Sì», risponde l'altro sottovoce.
«E allora? Era solo una menzogna per attirarmi qui?» «Non c'è niente qui che tu debba capire, detective. Assolutamente niente. Tu non sei innocente.» E l'uomo che è diventato Jordan preme il grilletto e per Frank Gray il mondo finisce d'un tratto nel boato del tuono. Jordan si inginocchia accanto al corpo inerte del poliziotto e gli preme due dita inguantate sulla gola, alla ricerca di un battito che già sa che non troverà. Quindi esamina le bruciature nere alla tempia, solleva un lembo staccato di cute e capelli già impregnati di sangue e studia per un momento il foro del proiettile. Non aveva mai ucciso nessuno che non mostrasse almeno i sintomi di comportamento della trasgressione sessuale. E nemmeno adesso, pensa dopo qualche istante di muta riflessione. Quest'uomo ha fatto sesso con altri uomini, e non è questa una violazione del proprio genere? Jordan annuisce, rassicurato. Pone la sua pistola nella mano destra di Frank Gray, piega il palmo del detective attorno al calcio dell'arma e infila con cura l'indice dentro il ponticello del grilletto. Usa la sinistra dell'uomo per aggiungere qualche altra impronta digitale sulla canna d'acciaio, e poi raccoglie la Beretta e si allontana dal corpo. Guarda ora il transessuale sventrato ora la forma supina del poliziotto, come uno scultore che ammira il pezzo appena finito. E in effetti non è molto differente, si dice, la minuziosa orchestrazione del materiale nella disposizione che meglio soddisfi le sue esigenze. Quello che la polizia troverà qui, anche quello soddisferà le sue esigenze, perfettamente come con il corpo di Benjamin DuBois, perfettamente come con le prove lasciate nell'appartamento di Jared Poe un anno fa: un'impronta digitale raccolta con un pezzo di scotch da un cucchiaio, un paio di pagine di poesia. E questo è assai più impegnativo, assai più elaborato. Esserci riuscito in questo modo gli dà una vertigine di fierezza. Ma non è finita ancora, non del tutto. Resta un ultimo piccolo tocco da aggiungere per amore di coerenza. Jordan si siede nello spazio tra i piedi del detective e la chiazza bagnata e densa sotto la carcassa del secondo gemello DuBois ed estrae un pennarello nero da una tasca della camicia. Ormai ha imparato a memoria tutto il poemetto, tutti i suoi centootto versi, e questa è un'altra cosa di cui si sente fiero, mentre si curva sul pavimento che ha provveduto in precedenza a spazzare. Scrive i versi nel modo più chiaro possibile.
Cupa Disperazione ritornò, e non la dolce speranza che aveva osato abiurare - La triste risposta: «Mai più!» Quando ha finito, Jordan ritorna al corpo di Frank Gray, gli piazza il pennarello nella sinistra e gli stringe attorno le dita. Due piccioni con una fava, pensa, e il pensiero lo fa sorridere. E bello essere così in gamba. Ormai perderanno tutti le sue tracce. Anche se i poliziotti pensano che Jared Poe era colpevole, lui sa che hanno cominciato a cercare un secondo killer per spiegare gli omicidi che rientrano nello stile dello Squartatore verificatisi dopo il viaggio di sola andata di Poe ad Angola. E un frocio di poliziotto morto è il soggetto ideale. Poco prima di arrivare all'appartamento di Ursulines, Jordan ha imbucato una lettera al Times-Picayune, la confessione in cui Frank Gray si accusava del delitto di sodomia e degli omicidi. E l'uccello assassino mandato dagli altri nei suoi sogni e visioni, anche lui perderà le sue tracce ora che è stato tagliato il legame tra lui e questo mondo. Ha visto chiaramente la cicatrice sulla schiena nuda del transessuale. Senza un tramite vivente quell'essere perderà la sua pista e sarà costretto a tornare da Loro a mani vuote. Ma, per sicurezza, lui cambierà aria. C'è una carta stradale del sudest nel cassetto del cruscotto della sua auto, e ha segnato Memphis e Dallas, Atlanta e Birmingham. I suoi calcoli non sono ancora completati del tutto, ma almeno una di queste città andrà bene per la sua opera. Quando Loro si renderanno conto di quello che è accaduto, di quanto lo hanno ancora una volta sottovalutato, lui sarà lontano chilometri e chilometri, nascosto dalle mura di un'altra città e dalle sillabe di un altro nome. Jordan guarda di nuovo il cadavere sventrato e ricorda quello che ha detto alla cosa prima di ucciderla. E stato veramente un peccato che non avesse più tempo. Erano tante le cose che quello avrebbe potuto rivelargli se solo ci fosse stato il tempo di impiegare tecniche più raffinate. Ma poi il suo pensiero torna a quelle altre città, quelle altre città su altri fiumi. Lascia salire lo sguardo più in alto, al di sopra del corpo e dell'aureola bianca incandescente del riflettore. Verso la cima del mattatoio che questa sala è diventata, ci sono finestre oscurate, finestre pitturate di nero decenni fa. Avrò tutto il tempo che mi occorre, pensa. E il mondo, quando avrò finito, sarà semplice e compatto come quelle lastre, altrettanto perfettamente, razionalmente opaco. Ma poi l'ombra di qualcosa di immenso, di alato, si stende sopra la fila di finestroni, l'ombra di qualcosa di un nero cento volte più nero di qual-
siasi tono di tinta, più nero di quanto l'occhio umano possa mai vedere. Il colore dell'assenza, pensa Jordan, mentre la finestra esplode e una pioggia di schegge color ebano lo ricopre. *** Già mentre piomba verso il suolo e verso l'uomo colto nell'unica zona di luce, Jared sa di essere arrivato troppo tardi, che la tempesta e le ferite lo hanno rallentato tanto che un'occasione cruciale è saltata, che qualcosa è andata orribilmente e completamente male. E poi vede il suo volto, il volto pallido di Lucrece che lo fissa attraverso il torrente affilato di schegge di vetro, e i suoi occhi sono morti, e lo fissano con il loro sguardo cieco dalla testa del cadavere. Nell'attimo che impiega a raggiungere il fondo vede il resto, vede quello che le è stato fatto e il corpo del detective ucciso, e la scritta tracciata sul pavimento. Tocca terra morbido come un gatto, cadendo su mani e piedi mentre gli ultimi pezzi della finestra spaccata finiscono in polvere attorno a lui. L'uomo magro, spaventato, è caduto, graffiato e tagliato da cento diverse ferite, e cerca di sgattaiolare via da Jared dibattendosi sul pavimento di cemento. Il corvo supera Jared sbattendo le ali, missile vivente di penne nere, e si getta sul killer in fuga. «No!» urla l'uomo mentre Jared si rialza. «No, vi ho fermati!» Il corvo lo ha raggiunto e gli sta beccando ferocemente braccia e mani che ha alzato a proteggersi il viso. Jared guarda ancora Lucrece e sente che se qualcosa in lui era rimasto, oltre alla rabbia pura, anche un esile barlume di luce, la vista di lei penzolante gliel'ha bruciata per sempre. «Non potrò mai ucciderti abbastanza lentamente», dice rivolto all'uomo che ha assassinato Benny, che ha ammazzato Lucrece, l'uomo che per lui non ha ancora un nome. «Abbastanza lentamente da ripagarti per la metà di quello che hai fatto a me e alle persone che amavo.» L'uomo si sbraccia freneticamente per allontanare il corvo e si trascina per qualche altro passo verso la porta aperta. «Ma ti faccio una promessa, pezzo di merda. Puoi essere certo che ci proverò.» Improvvisamente Jared vede l'acciaio della semiautomatica luccicare tra le mani graffiate e sanguinanti dell'uomo, vede il suo indice stretto attorno al grilletto. Prima che possa lanciare un avvertimento, la pistola fa fuoco e
il corvo si accascia in un mucchietto di ossa spezzate e penne intrise di sangue. L'uccello ha un sussulto e la pistola spara di nuovo, portandogli via la testa. È come se quell'ignota semivita che animava le cellule di Jared, quell'ignota forza che lo ha tratto dalla tomba e lo ha fatto andare avanti per due giorni fosse d'un tratto revocata, troncati i fili della marionetta con un taglio netto. Jared cade, senza fiato, in ginocchio. «Ho detto no!» Ora l'uomo urla a pieni polmoni, dalle labbra spruzzano gocce di saliva. «Vi ho battuto! Vi ho battuto», e dalla pistola parte un terzo colpo, e quello che resta del corvo schizza in due o tre direzioni diverse. La vista di Jared si appanna e comincia a oscurarsi ai margini. Lotta disperatamente con la cerniera sul retro del cappuccio di pelle, ma è incastrata. Finalmente il tessuto si strappa, si lacera lungo una cucitura debole, e lui si sfila la maschera e crolla in avanti, si rannicchia in una palla fetale sul cemento disseminato di vetro, patetica cosa dolente fatta di carne morta incapace di morire. L'uomo con la pistola ride, una spaventosa risata isterica che dice tutto quello che è possibile dire sulla follia senza usare una sola parola. Stacca lo sguardo dal corvo, persuaso che sia totalmente, irrimediabilmente morto, e punta l'arma su Jared. «Che cosa devo fare perché cominciate a prendermi sul serio?» urla. «Per farvi capire che non potete vincere? Che non mi fermerete mai?» Poi getta uno sguardo al volto devastato di Jared e lentamente il ricordo si disegna sui suoi lineamenti stravolti. «Oh», dice, e la sua voce si svuota all'istante di ogni ilarità. Si allontana di un passo da Jared. «No. Non sei lui. Lui è morto.» Jared apre la bocca per dire all'uomo di andare a farsi fottere, di ficcarsela nel culo la sua pistola, ma quello che ne viene fuori è solo un suono secco e strozzato. «Ci sono delle regole», dice l'uomo incredulo, stupefatto. «Ci sono regole che nemmeno Loro possono violare, regole che legano perfino le Loro mani. Jared Poe è morto, e i morti restano morti. «Non ho idea di che trucco sia questo, amico mio. Ma non funzionerà. Te lo dico io.» Preme il grilletto e pianta una pallottola nel torace di Jared. Le costole si frantumano, si trasformano in schegge di shrapnel che gli trafiggono il cuore e i polmoni. Jared rotola sulla schiena, sputando boccate di sangue arterioso. «Io conosco le regole.»
Il colpo seguente si immerge nel ventre di Jared e gli spappola la spina dorsale. «Per quanto Loro le pieghino e le spezzino, per quanto Loro cerchino di frodare l'ordine naturale... Io sono puro di mente e di corpo, e conosco quelle dannate regole!» Jared vomita un altro groppo di sangue e fissa impotente quell'ometto vaneggiante. Apre la bocca e le parole gli escono lentamente, sgorgando da lui in un denso fiotto rosso. «E allora uccidimi», rantola. «Se... se conosci le regole... allora uccidimi.» L'uomo si morde incerto il labbro. Jared vede il pomo di Adamo andargli su e giù mentre inghiotte. Si china e appoggia la pistola alla fronte di Jared, preme la canna due dita sopra il foro che la pistola di Harrod gli ha già fatto nella faccia. «No», dice un attimo dopo. «Non è per questo che sei qui. Tu eri qui per uccidermi, ma non ci sei riuscito.» La pistola si allontana mentre lui torna a raddrizzarsi. «Qualunque cosa tu sia veramente, ho bisogno di sapere le cose che tu sai. Ho bisogno di sapere dell'uccello e delle visioni che Loro mi hanno mandato.» Gli occhi dell'uomo sembra quasi che brillino, come un bambino che guarda un sacchetto pieno di caramelle o qualcuno sull'orlo di un abisso che ha appena afferrato il concetto di senza fondo. Mette la sicura alla pistola e se la infila nella cintura dei calzoni. E poi c'è il teso schiocco di corde che si spezzano e l'uomo alza lo sguardo, oltre Jared, e comincia a urlare. *** Lucrece non ha modo di sapere per quanto tempo sia andata alla deriva in quei luoghi grigi, minuti o settimane, galleggiando senza peso tra nebbie color cartapesta, nebbie fredde che odorano vagamente di brina e di fiori pressati. Non esiste un su e un giù, qui, e c'è solo il più remoto senso del suo corpo. A momenti si ricorda di se stessa, o richiama la memoria di se stessa, e si tocca esitante il viso con la punta delle dita per assicurarsi di esserci ancora. C'è una leggera sensazione di qualcosa che tira in direzione dei suoi piedi, e questo è tutto ciò che potrebbe passare per senso della direzione. Quando scruta da quella parte, quando forza lo sguardo per cercare di ve-
dere qualcosa attraverso gli impalpabili brandelli di nebbia, pensa che forse potrebbe esserci una luce lì in fondo, lontano. Sembra del calore, un morbido punto vagamente pulsante in un luogo in cui tutti gli altri punti sono uguali. E sarebbe così facile arrivarci, lo sa, precipitare attraverso millenni e distanze al di là della percezione, lasciarsi inghiottire così come tutto è destinato, alla fine, a essere inghiottito. Rinunciare alla pena e al peso di essere, in cambio di un brillante, fulgido momento di pace prima dell'oblio. Lucrece incrocia le braccia sul petto, ritira le ginocchia contro il corpo e distoglie lo sguardo. «Un cumulo di stronzate da hippie», dice, e la sua voce sembra colmare l'intero universo, tutto lo spazio vuoto ansioso di essere riempito, la malinconica nebbia invidiosa della luce e del suo robusto appetito. Per un istante o un'ora la luce divampa, la immerge nell'onda del suo conforto, dolce cascata di calore piena di promesse. Lucrece chiude gli occhi, o ricorda soltanto come si chiudono gli occhi, ricordando Benny e Jared, ricordando l'uomo e i suoi strumenti aguzzi e affilati, e scuote la testa. «No», dice. «Puoi tenertelo. Adesso non voglio.» Il tepore scompare e c'è uno stormire improvviso, come una pioggia di foglie autunnali. Qualcosa si sfrega bruscamente contro il suo viso, qualcosa di ammuffito e secco che la solletica e la fa ritrarre, e quando Lucrece riapre gli occhi si trova in un fitto di alberi morti e rinsecchiti. La nebbia si accalca da ogni lato, si contorce come una nuvola temporalesca di un altro pianeta, come se questa fosse solo una tenuissima oasi e potesse essere annullata da un momento all'altro. Ma almeno ha un terreno solido sotto i piedi, anche se è solo una terra arida e crepata che non ha mai conosciuto pioggia. Una brezza soffia tra i rami e li fa stormire, solleva una polvere cinerea che si deposita su Lucrece come un sudario. E gli alberi sono pieni di corvi. Cento, mille paia di occhi d'oro, occhi come perle di giada, che la guardano, pazienti come il tempo. «Rimandatemi indietro», dice lei, non chiedendolo, ordinandolo, senza badare se si sente la rabbia nella sua voce, l'acido disprezzo. «Rimandatemi indietro ad aiutare Jared.» Si voltano tutti come un sol corvo, rilasciandola dal loro sguardo, e insieme puntano gli occhi verso i rami più alti del più alto degli alberi. Lucrece guarda con loro e vede quello a cui si sono rivolti, posato al di sopra di tutti loro: un corvo così nero, così inverosimilmente enorme che potreb-
be essere il prototipo primo, l'incarnazione del tempo vestito di arruffate penne nere. Nei suoi occhi bruciano cento milioni di anni di luce solare e di luce stellare. E conosce il nome di lei. «Ho il diritto di chiederlo», dice Lucrece. Il grande uccello apre le ali e un grido roco si alza da tutti gli altri, un grido che Lucrece riconosce come una risata, una risata amara e maligna per la sua temerarietà, per aver preteso ciò che spetta a loro soltanto concedere. Distoglie lo sguardo, incapace di sostenere il suono e lo sguardo di quegli occhi antichi, penetranti. Abbassa lo sguardo sui propri piedi nudi e impolverati. Ora c'è qualcosa a terra, davanti a lei, un grumo a stento riconoscibile di sangue secco e piume, e capisce che è la carcassa del corvo di Jared. Il grande uccello richiude le ali, tacitando gli altri, e lei ne sente la voce dentro la testa. Uno di noi è già morto per tuo fratello, dice. Un solo sacrificio è sufficiente per la sua anima. Lei non risponde, può solo continuare a guardare il corvo morto ai suoi piedi, cercando di ricordare ciò che Aaron Marsh ha letto nell'antico libro tedesco, senza trovare il coraggio neppure di domandarsi cosa ne sia stato di Jared se il suo corvo è stato ucciso. Non ne daremo un altro. «Per coloro che possiedono il simbolo», dice Lucrece, «il passaggio è agevole.» Si costringe ad alzare lo sguardo, a guardare dritto in quegli occhi giudicanti, e di nuovo la corte di corvi schiamazza e gracchia il suo disappunto. «Per coloro che possiedono il simbolo il passaggio è agevole», ripete, e si volta per mostrare la cicatrice che ha sul dorso. Ora strepitano tutti, voci d'uccello furiose, offese, levate in confusione e oltraggio, una rabbia che è pari alla sua. Lucrece sa che deve evitare di affrontarli di nuovo. Li immagina che calano su di lei, vede le lame dei loro becchi e le fruste delle loro ali castigare la sua impudenza. Ma già sa cosa vuol dire essere fatta a brani, e ci sono cose che teme di più. Allora ti prenderò io stesso, donna, e la faremo finita. Ma se fallisci... «Non fallirò», replica lei. Senza alcun preavviso, l'aspro terreno si apre silenziosamente sotto i suoi piedi. Lucrece precipita, retta da forti ali nere che hanno fatto questo viaggio innumerevoli volte. Passano attraverso il fuoco e luoghi di gelo che non hanno mai conosciuto la luce, sorvolano fameliche atrocità senza
nome che vorrebbero ghermirli con artigli di ferro e d'avorio. E alla fine Lucrece non ha il tempo di pentirsi o di temere per se stessa, solo il tempo di prepararsi a quello che l'aspetta al termine del tragitto. Lucrece alza la testa e apre gli occhi, e l'uomo che si dà i nomi dei fiumi riempie i polmoni e urla, e ancora e ancora. I nodi che con tanta cura aveva stretto si stanno sciogliendo, le corde si liberano, spezzate come cotone da cucito. Un momento ancora e le mani e le caviglie sono libere e lei tocca il suolo. Jared è riuscito a girarsi sul dorso e anche lui può vederla, lei e il corvo, grande come un corvo imperiale, più grande, grande come un avvoltoio, appollaiato sulla sua spalla. L'uomo cerca di muoversi ma le gambe paralizzate non rispondono e non può far altro che guardare mentre gli organi ammucchiati ai piedi di lei cominciano a palpitare e a scivolare verso Lucrece. Anche il sangue risale, deborda dai secchi e fluisce attraverso il pavimento come una rossa marea che si ritira. Tutto risale come sospeso a fili invisibili, spettacolo di marionette di orrore puro. Tutto ciò che l'uomo le ha cavato, ogni brano di carne e ogni goccia di sangue, si trasforma in una viva nuvola turbinante, che si leva a riempire la cavità svuotata del corpo di Lucrece. Rovescia la testa all'indietro e il suono che scaturisce dalla sua bocca fa sembrare l'urlo del killer un sussurro insignificante. Quando l'aria è libera di lei, quando Lucrece è tornata intera, lo squarcio che hanno aperto gli scalpelli e le seghe si richiude, torna integro modellato da una carne che è diventata fluida e impenetrabile come acqua. Cade in ginocchio, ansimando, e il killer estrae la Beretta e toglie la sicura. «Lucrece!» grida Jared, ma la pistola fa fuoco prima che lei possa muoversi, aprendole un buco nella spalla sinistra. Il corvo gigantesco si alza in aria e con due colpi d'ala si porta al sicuro nell'ombra, e Jared vede il foro del proiettile richiudersi davanti ai suoi occhi. Lucrece si alza, e le sue labbra sono tese all'indietro scoprendo il bianco dei denti in un terribile ghigno inumano, un sorriso animalesco per l'uomo che ancora le punta contro la sua inutile arma. «Dovrai trovare di meglio, Jordan», dice. «Dovrai trovare molto, molto di meglio di questo.» Lui preme di nuovo il grilletto e il lato destro della faccia di Lucrece si disintegra in uno spruzzo di sangue e schegge di osso, una distruzione che svanisce quasi con la velocità con cui si è prodotta. Lucrece scuote la testa
e prende fiato; il sorriso non è mai scomparso dalle sue labbra. «Ti è piaciuto il trucchetto, Jordan?» Fa un passo verso di lui. «Ferma!» grida lui. «Fermati in questo preciso cazzo di momento.» Ora punta la pistola su Jared. «Oh, fottitene», dice Jared. «Fai finire questa stronzata, Lucrece. Falla finita.» «Non puoi ucciderlo, Jordan. E non puoi uccidere neanche me.» Prima che l'uomo possa muoversi lei gli toglie la pistola di mano e la scaglia lontano nel buio, fuori del cerchio di luce del riflettore. «Non ucciderai più nessuno. Mai più.» Lucrece afferra l'uomo per la camicia e lo solleva da terra. Lo tiene sospeso a un palmo dal suolo, a scalciare contro il nulla. «Come ti sembra?» gli chiede. «Che effetto fa penzolare con la vita nelle mani di qualcun altro?» «Io sono il fiume...» attacca stridulo. Lei lo schiaffeggia con tanta forza che il labbro superiore si spacca e gli incisivi si spezzano all'altezza della gengiva. «No, Jordan», lo corregge lei. «Ma tutto questo lo abbiamo già passato e non mi va ripeterlo ancora. Francamente non fa più alcuna differenza come la pensi tu.» Lo lascia cadere, ma prima che l'uomo possa fuggire lo afferra per il colletto e lo scaraventa a terra accanto a Jared. Con un lamento cerca di strisciare via, ma Lucrece lo immobilizza. «Credo che dobbiamo farlo insieme, Jared», dice Lucrece. «Altrimenti uno di noi due è fregato.» Dall'ombra il corvo lancia un roco verso di conferma. Tutt'intorno la tempesta ulula e ruggisce. La pioggia gelida entra dalle finestre rotte e i muri della vecchia fabbrica hanno cominciato a oscillare e a gemere sotto la spinta del vento. «Grazie di essere tornata da me, Lucrece», dice Jared mentre lei comincia a stendere Jared sul cemento. «Non eri tenuta...» «Invece sì, Jared», risponde lei. «Invece sì.» Mentre la fabbrica che ha resistito più di un secolo sotto il sole torrido del delta comincia a disfarsi attorno a loro, mentre il pavimento sprofonda sotto di loro e le mura cedono alla furia dell'uragano, spremono via la vita dall'uomo che li ha privati della cosa che amavano più di ogni altra. Soddisfatto, il corvo si alza nella notte dilaniata dal ciclone, e il cerchio si chiude nell'urlo del metallo contorto e nel fragore dei mattoni che franano.
10 Attraverso l'occhio ciclopico dell'uragano, Lucrece porta il corpo di Jared lontano dalle rovine della fabbrica crollata. Segue il corvo che vola alto sopra la città devastata, supera le auto rovesciate e i corpi abbandonati degli annegati. Quando raggiungono Prytania Street, Benny li sta aspettando davanti ai cancelli di Lafayette n. 1. Sorride gentilmente, lo stesso sorriso gentile che Lucrece ha conservato dentro di sé per tanto tempo, salvandolo nell'imperfetto album dei ricordi della sua mente. Benny si china a baciare Jared, preme le labbra su quelle del suo amore. Gli occhi di Jared si aprono e le lacrime gli scorrono grate lungo le guance. «È finita?» domanda. Benny annuisce. «È finita.» Ora Benjamin DuBois bacia sulla guancia sua sorella e i tre si avviano insieme oltre le altre tombe, tra tutti gli altri nomi scolpiti nel marmo e nel granito, pietre levigate dal tempo e dal pianto. Fuori delle mura cadenti del cimitero, mentre l'occhio turbinante di Michael raggiunge la città, la zona di calma del ciclone passa, e per gli sfortunati viventi la lunga notte di pioggia e di angoscia ha inizio. Epilogo Amsterdam, un anno dopo Aaron Marsh mangiucchia un pezzo di torta mentre sfoglia un volume di ornitologia in olandese, lingua che sta studiando da autodidatta. Ha un piccolo appartamento sopra Prinsengracht con una bella veduta del canale, se si sporge dalla finestra e torce un po' il collo. Il cielo pomeridiano è come una grigia lana umida. La pioggia autunnale intermittente spruzza il vetro spesso della finestra. Ha finito per affezionarsi a questo posto. Aaron ha lasciato New Orleans la sera prima che l'Uragano Michael colpisse, portandosi dietro solo il dodo nella sua grossa custodia da viaggio di velluto, a bordo di un Greyhound, l'unico mezzo di trasporto che a quanto pare non si ferma mai. Dapprima è arrivato solo a Birmingham, in Alabama, dove si è fermato presso amici osservando da lontano la distruzione della sua città di adozione. Ha provato scarsissime emozioni, anche quando ha saputo della devastazione totale dell'Occhio di Horus. L'acqua si era
portata via praticamente tutto, distruggendo quanto si era lasciata dietro. Ma l'assicurazione che aveva sul negozio era piuttosto buona, e quanto ha incassato potrebbe bastargli per tutta la vita, purché non viva troppo a lungo. Le uniche cose che gli è dispiaciuto veramente perdere sono i libri. Si era accorto che non aveva alcun desiderio di tornare. E ancor meno ne ha avuto quando una settimana dopo ha letto sul giornale dei due cadaveri scoperti in un magazzino presso il fiume. Erano su un piano alto, e la piena non li aveva portati via. Di morti, ovviamente, ce n'erano dappertutto, ma questi avevano richiamato l'attenzione della stampa quando uno dei due era stato identificato come il poliziotto che avrebbe confessato i nuovi delitti dello Squartatore. C'è stato comunque qualche dubbio sulla confessione del poliziotto. Diversi suoi colleghi hanno testimoniato che era un bravo detective, solido, che potevano fornire un alibi per tutte le date degli omicidi, che la grafia delle lettere non era neppure la sua. Il sospetto è caduto sull'altro cadavere: è venuto fuori che era proprietario di un palazzo a Riverside pieno di resti sotto vetro, roba veramente disgustosa. Il poliziotto ha avuto un funerale da eroe. Sull'altro stanno ancora indagando. Grazie a un paio di tenaci gruppi attivisti omosessuali e a un giornalista del Times-Picayune, Jared Poe è stato definitivamente e pubblicamente dichiarato innocente dei delitti dello Squartatore di Bourbon Street. Quando lo ha saputo, Aaron ha rivolto un pensiero alla bella, infelice Lucrece DuBois e alla sua strana visita all'alba al negozio. Si è chiesto che cosa ne sia stato di lei, in mezzo a tutto questo sconquasso. Ma in generale, però, si è comportato da quel vecchio egoista che è, andandosene dove gli piaceva, accontentando solo se stesso, mettendo in ordine i pezzi della sua vita. È approdato qui ad Amsterdam e pensa che qui resterà. Tap. Tap. Tap. La pioggia dev'essersi fatta più forte. Aaron alza lo sguardo alla finestra, e la mano gli si paralizza nel gesto di girare una pagina. E solo un piccolo corvo, ma lo sta guardando come se avesse una faccenda urgente da sbrigare qui, e forse è così. Anche da lontano Aaron vede che porta nel becco un rotolino di carta. Si alza lentamente, si avvicina alla finestra ed esita solo un momento prima di girare la maniglia. La finestra si apre e l'uccello salta dentro, guardandolo quasi con l'aria di volersi scusare, come per dire, lo so che sto bagnando dappertutto, mi fermo solo un minuto... «Fa' come se fossi a casa tua», dice lui, tendendo la mano. Il corvo lascia
cadere il rotolo nel palmo rugoso di Aaron come sollevato per aver portato a termine la commissione, stende le ali e scuote le penne, guardandosi attorno. Sta appena cominciando a mostrarsi a suo agio quando gli occhi gli cadono sul dodo impagliato nella sua lucida vetrina. Il corvo lancia un unico verso strozzato di orrore, fa un balzo all'indietro e scompare in un frullo nero dalla finestra aperta. «Oh, be'», mormora Aaron, e svolge il foglio di carta. Riconosce immediatamente la calligrafia fluente: Lucrece DuBois è venuta tante volte da lui con le sue liste degli acquisti. Ci sono solo cinque parole, e non c'è spazio per altro, in un inchiostro del colore del sangue secco. Ma sono cinque parole che si porterà dietro fino alla fine dei suoi giorni. Talvolta le fiabe diventano realtà. FINE