ROBERT E. HOWARD OMBRE DAL TEMPO (1994) INDICE L'EROE DAI MILLE VOLTI di Gianfranco de Turris NELLA FORESTA DI VILLEFERE...
39 downloads
1136 Views
964KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ROBERT E. HOWARD OMBRE DAL TEMPO (1994) INDICE L'EROE DAI MILLE VOLTI di Gianfranco de Turris NELLA FORESTA DI VILLEFERE LA RAZZA PERDUTA IL SERPENTE DEL SOGNO LA IENA LA VOCE DI EL-LIL I FIGLI DELLA NOTTE GLI DEI DI BAL-SAGOTH LA COSA SUL TETTO IL POPOLO DELL'OSCURITÀ L'UOMO PER TERRA IL CUORE DEL VECCHIO GARFIELD L'ABITATORE DELL'ANELLO LA LUNA DI ZAMBEBWEI L'ABITO A SCACCHI NON SCAVATEMI LA FOSSA LA CASA DI ARABU L'EROE DAI MILLE VOLTI Uno studioso americano, ignorato in Italia negli Anni Settanta in quanto si poneva accanto a Mircea Eliade per la metodologia con cui studiava il mito, e riscoperto soltanto tra la fine degli Anni Ottanta e l'inizio degli Anni Novanta, mi riferisco a Joseph Campbell, ha intitolato una delle sue opere più importanti e famose L'eroe dai mille volti. Si tratta di una indagine approfondita e parallela fra diverse mitologie per individuare i tratti profondi comuni dell'archetipo dell'"eroe". Mille volti, adatti ai più disparati luoghi, tempi e circostanze, ma un'unica sostanza di fondo. Elementi essenziali che, al di là dei tratti esteriori, si trasmettono idéntici nelle più varie culture. La figura dell'"eroe", senza scomodare Thomas Carlyle, è
fondamentale in ogni civiltà, in qualunque modo la si voglia aggettivare e su qualunque sfondo la si voglia ritagliare. Con buona pace di Bertold Brecht, le cui parole ("Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi") sono state strumentalizzate per fini politici da chi aveva interesse a demolire eticamente le nazioni che si volevano mantenere deboli e arrendevoli interiormente, il simbolo dell"'eroe" è sempre stato presente sia a Oriente che a Occidente, sia nei Paesi capitalisti o liberal-democratici che dir si voglia, sia nei Paesi marx-leninisti o del "socialismo reale". Mutano forse le "ragioni" per venire definiti ufficialmente "eroi", ma non certo la figura in sé. Da una parte vi saranno stati gli "eroi" per motivi militari e civili, dall'altra - più ipocritamente - gli "eroi del lavoro", oppure, quando sorsero all'orizzonte personaggi come il Che in America Latina, o il generale Giap in Estremo Oriente, che entrarono subito nell'immaginario collettivo dell'intellighenzia "progressista" e dei "contestatori" del Sessantotto, eccoli tramutati in "eroi del popolo" perché, armi alla mano, combattevano per il riscatto dei sottosviluppati contro l'aggressione economico-militare capitalista e occidentale. Tutto ciò ormai non è noto, ma notissimo, soltanto che in precedenza la "guerra delle parole" era a vantaggio di chi tendeva a far credere che la realtà fosse ben diversa. Così come è notissimo, proprio sulla scorta delle analisi di Campbell ed Eliade, che il mito è giunto degradato ma non annullato sin nella nostra società, ed ha assunto contorni insospettabili ma non certo indiscernibili per chi riesce a riconoscerlo e ad analizzarlo. E uno di questi miti è appunto l'"eroe" di cui non si può fare a meno, quale figura con cui confrontarsi, da ammirare e da cui trarre insegnamento, conforto e spinta per operare, quasi un modello di comportamento. Una necessità riaffermata con chiarezza - dopo tante falsità e menzogne - anche da un filosofo italiano come Stefano Zecchi nel suo recente Sillabario del nuovo millennio (1993). Certo, spesso quelli moderni, soprattutto quelli che fanno presa sui giovani, sono "eroi" ben diversi dai classici, almeno sino ad un passato anche recente, ma la loro "struttura" archetipica e la loro "funzione" è sempre la medesima. Possono essere cantanti e gruppi rock, attori del cinema o divi del piccolo schermo, calciatori o top model, figure del "bel mondo" o protagonisti dei fumetti e personaggi di telenovelas... Addirittura l'"eroe" di un mondo privo di valori, alla ricerca della propria identità, senza punti di riferimento, confuso a tal grado da non sapere più cosa è bene e cosa è male, può assumere connotati del tutto negativi (il che è una cosa assai diversa dall'"antieroe"): e così assurgono a questo simbolo giovani
assassini dei propri genitori, efferati serial killer, autori di delitti atroci... Tutte queste considerazioni e altre ancora mi sono venute in mente leggendo la presente antologia di racconti howardiani, sedici storie che spaziano lungo tutto l'arco della carriera dello scrittore americano, da quelle degli esordi, pubblicate a 18 anni nel 1925, a quelle uscite postume dopo la sua morte avvenuta nel 1936 (una è addirittura del 1952) e che dimostrano una grande maturità. Racconti in cui finalmente il protagonista non è Conan: l'aver ideato il Cimmero, summa di tutti i suoi eroi, è stato infatti con riferimento ai lettori ed al suo successo presso il pubblico - paradossalmente un enorme handicap per lo scrittore, dato che ha messo in ombra quasi tutto il resto della sua narrativa, non meno valida. Howard è Conan, e si dimentica il resto. Questa antologia vi pone rimedio ed offre una carrellata di luoghi, tempi e situazioni a dimostrazione della poliedricità dell'autore texano (conosciuta, ma poco documentata) con due elementi però comuni: l'"eroe dai mille volti" e la vena orrorifica. Da cui il tema conduttore: l'eroe alle prese con l'aspetto oscuro della realtà e della pararealtà. La lettura di questi racconti di varia lunghezza in ordine cronologico dimostra anche l'evolversi delle qualità letterarie di Robert Howard, sia dal punto di vista stilistico che narrativo: da trame semplici a più complesse, e da uno stile vivace ma grezzo ad uno fatto di frasi brevi ma sontuose. Di quale scrittore è stato detto che era "tutto aggettivi"? Mi sembra che la definizione si adatti a pennello nel nostro caso: si può affermare che in Howard ogni nome ha il suo aggettivo qualificativo che ne determina splendidamente le caratteristiche, spesso andando a pescare (nell'originale) termini desueti o tipicamente americani che non sempre è facile volgere in italiano senza ripetizioni (che al lettore possono dare un senso di frettolosa sciatteria che non è per nulla dell'autore). Basti leggere le ultime storie di questa raccolta per rendersene conto: The Moon of Zambebwei (1935), Dig Me No Grave (1937) e soprattutto The House of Arabu (1952). Frasi come "Gli occhi di Gimil-ishbi non erano più umani del riflesso della luce di fuochi in pozze sotterranee nere come l'inchiostro", o "Da qualche parte nella notte un uccello senza nome stridette aspramente; il suono era più umano del bisbigliare del sacerdote, che adesso non era più forte dello strisciare di una vipera nel fango", mi pare rendano bene quel che intendo dire. La Francia dei secoli scorsi (In the Forest of Villefere, 1925), l'Africa (The Dream Snake, 1928; The Hyena, 1928; The Voice of El-Lil, 1930),
l'antica Britannia (The Lost Race, 1927), che prolunga il suo retaggio ancestrale sino ai nostri giorni (The Children of the Night, 1931; People of the Dark, 1932), una misteriosa isola nei mari del passato (The Gods of BalSagoth, 1931), il West ottocentesco (The Man on the Ground, 1933; Old Garfield's Heart, 1933; The Dead Remember, 1937), la Louisiana colonizzata dai francesi (The Moon of Zambebwei, 1935), gli Anni Trenta forse in uno degli Stati "puritani" come la Nuova Inghilterra (The Thing on the Roof, 1932; The Haunter of the Ring, 1934; Dig Me No Grave, 1937), infine l'antica Mesopotamia (The House of Arabu, 1952): in tutti questi differenti luoghi e tempi la fantasia inesauribile di Robert Howard fa muovere i suoi eroi e li fa confrontare con il sovrannaturale, con il tenebroso, con il mistero. È evidente che le sue ascendenze letterarie non sono soltanto London, Burroughs, Lovecraft, come è stato scritto, ma di certo anche Rider Haggard e Merritt. L'esotismo, le città perdute nel deserto, le donne belle ed esotiche, le divinità orripilanti frequenti nelle sue trame, stanno a provarlo. Il Nemico sarà così di volta in volta un uomo trasformatosi in bestia (In the Forest of Villefere, The Hyena), esseri provenienti da sogni (The Dream Snake) o evocati da inimmaginabili e malefiche antichità (The Thing on the Roof, The Haunter of the Ring, Dig Me No Grave), creature innaturali (The Moon of Zambebwei), stregoni e i loro poteri (Old Garfield's Heart, The Voice of El-Lil, The Gods of Bal-Sagoth, The House of Arabu), maledizioni (The Dead Remember) e infine l'uomo stesso nelle sue passate forme degenerate (The Lost Race, People of the Dark, The Children of the Night), o anche contemporanee ma mosse da sentimenti più forti della morte (The Man on the Ground). Il comportamento dell'eroe howardiano di fronte all'avversario, umano, diabolico o divino che sia, è quello dell'eroe tradizionale: lo affronta, con la spada o le formule magiche questo non importa. L'atteggiamento è di reazione, è attivo, anche in quelle storie tipicamente "alla Lovecraft", in cui certo l'agire dei personaggi del Maestro di Providence sarebbe stato diverso. Si pensi ai quattro racconti più o meno legati agli appartenenti al Wanderer's Club, cui aderisce "la deriva dell'umanità: viaggiatori eccentrici e ogni sorta d'individuo i cui sentieri si trovano al di fuori delle vie battute dalla vita". Vie terrene, ma anche ultraterrene. A veder bene tra le righe di The Children of the Night, The Thing on the Roof, The Haunter of the Ring e Dig Me No Grave Howard potrebbe aver adombrato nelle descrizioni di alcuni personaggi del Club stesso qualche scrittore di quel "circolo lovecraftiano" di cui faceva parte. O'Donnel potrebbe essere lui
stesso, ad esempio, e dietro quel Clemants "alto, smilzo, silenzioso quasi al punto di essere taciturno, le cui feroci lotte con la povertà durante la giovinezza gli avevano solcato il volto oltre gli anni che veramente aveva", non potrebbe esservi proprio HPL? Anche se in questi casi il finale è lovecraftianamente scontato, il pericolo, il male, l'entità giunta dalle tenebre viene in un certo qual senso affrontata a viso aperto, pur se è nelle storie più decisamente fantastiche, ambientate nell'antica Britannia o nell'ancor più antica Mesopotamia, che si staglia nettamente l'eroe tipico di Howard: sarà il celta Caroruc (The Lost Race), sarà il gaelico Turlogh O'Brien (The Gods of Bal-Sagoth), sarà il Conan dei Predoni che invoca Crom, chiara anticipazione del Cimmero (People of the Dark), sarà Pyrrhas, l'indoeuropeo che crede in Ymir, giunto a Nippur (The House of Arabu). Essi rappresentano quell'inno alla barbarie e al primitivismo che lo scrittore texano contrapponeva alla civilizzazione, un po' sulla scia di Jack London ma da un punto di vista "ideologico" opposto. Soltanto essi riescono ad apparire vivi e veri nella elementarietà delle loro emozioni e dei loro sentimenti. Il richiamo ancestrale è così profondo e connaturato in noi, uomini moderni, che in determinate situazioni, giunge a dire Howard, regrediamo in questa primordialità. È sufficiente un colpo in testa con una particolare mazza per rivivere l'epoca dei pitti (The Children of the Night), la caduta da una scala in una caverna per ritornare all'età in cui britanni e celti si combattevano (People of the Dark), mentre l'odio e la rabbia e il desiderio di vendetta fanno crollare i freni inibitori di persone colte (The Moon of Zambebwei), anche malvage (The Haunter ofthe Ring), persino di antichi barbari (The House of Arabu) e addirittura consentono ad un uomo di non rendersi conto di essere morto (The Man on the Ground). Quésti personaggi eroici da un lato seguono la trafila di molti protagonisti della narrativa popolare da che mondo è mondo: ad esempio, sono presi da travolgenti passioni (People of the Dark) o restano fedelissimi ad amori perduti (The Moon of Zambebwei, le cui righe conclusive - "La fine di Zambebwei ha significato la fine per loro. Però è l'inizio della vita per noi" - non sono da meno di quelle di Via col vento); da un altro lato sono disincantati come Turlogh per il quale regni e imperi sono "come la nebbia sul mare", sono "sogni e fantasmi e fumo" (The Gods of Bal-Sagoth), oppure anelano ad una libertà personale che è senz'altro più semplice, ma anche migliore degli orpelli e dei compromessi di una "civiltà" - foss'anche solo antica ma sempre "civiltà" - come è per Pyrrhas: "Il suo ritorno?... ad un
popolo demoniaco che strisciava sotto i piedi di sacerdoti e re; ad una città marcia per gli intrighi e gli osceni misteri; ad una razza aliena che non si fidava di lui; ad una donna che lo odiava. Girando nuovamente il cavallo si diresse verso Occidente, verso le terre aperte, spalancando le braccia in un ampio gesto di rinuncia e di esultanza per la libertà. Il peso della vita gli cadde di dosso come un mantello. La sua criniera si agitò nel vento e sulla piana di Shumir echeggiò un suono che non si era mai udito prima... la possente, elementare, irragionevole risata di un barbaro libero" (The House of Arabu). In tutti o quasi i personaggi howardiani, eroi o meno che siano, si sentono due profondissimi imperativi: l'orgoglio di essere uomo e il senso di appartenenza ad una stirpe, al punto da disprezzare le altre che nulla hanno di umano o vengono sentite come totalmente aliene, ovvero da provare cameratismo e familiarità tra rappresentanti di razze diverse (ad esempio britanni e celti) di fronte al nemico (The Children of the Night). Addirittura un rozzo cowboy, Jim Gordon, colpito da una maledizione, scrive al fratello: "Qualsiasi cosa mi prenda mi troverà in piedi e con la pistola spianata. Ce l'ho sempre messa tutta contro qualsiasi cosa viva, e non mi capiterà il contrario con una morta. Me ne andrò combattendo, qualunque cosa accada" (The Dead Remember). E dice il biondo britanno allo scuro celta, prima di combattere il comune avversario che poco ha di umano: "Veneriamo dèi diversi, ma tutti gli dèi amano gli uomini coraggiosi. Forse ci incontreremo nuovamente, oltre le Tenebre" (People of the Dark). È il criterio di "umanità", insomma, il discrimine: è questo il motivo per cui la creatura portata dall'Africa tra le paludi del Mississippi provoca tanto orrore: perché è - lovecraftianamente (si pensi ad Arthur Jermin) - "una mostruosità, una violazione di un'accettata legge di natura", "una blasfemità contro natura", uno dei "resti di un'epoca preistorica ormai scomparsa, quando la natura sperimentava con la materia e la vita assumeva molte forme mostruose" (The Moon of Zambebwei). Come non vedere dunque in queste figure di barbari non civilizzati lo stesso Howard? Un "gentiluomo del sud, galante e conservatore" (G. Lippi), un uomo "timido, solitario, introverso, topo da biblioteca, quieto, moralmente irreprensibile, strettamente rispettoso delle leggi" (L.S. de Camp), che a Cross Plains, millecinquecento abitanti, proprio nel centro del Texas, tra il 1924 e il 1936, riuscì a svincolarsi dai limiti del tempo e dello spazio con la propria immaginazione, ambientando in tutte le epoche e in tutti i continenti affascinanti avventure per il suo "eroe dai mille volti". Pirati,
spadaccini, cowboy, pugili, barbari, esploratori, marinai, guerrieri e re di antichissime epoche... Mille volti per uno solo: il suo. Ma... Ma tutta questa galleria di personaggi esaltanti, non ci ricorda forse qualcosa, o meglio qualcuno? Non ci fu per caso un altro scrittore, anch'egli un viaggiatore immobile, un avventuriero della fantasia, che seduto alla sua scrivania diede vita ad una serie infinita di trame nelle più disparate parti del mondo, nei più diversi momenti storici, che fecero la gioia di innumerevoli generazioni di giovani lettori? Non era per caso uno scrittore italiano? Non si chiamava forse Emilio Salgari? Ma certo! Per singolare che questo fatto possa apparire, esiste un collegamento ideale fra il Cavalier Emilio, "bassotto tarchiatello, i neri occhi lampeggianti di intelligenza" (come lo descrisse il direttore di un giornale dell'epoca), vissuto nell'Italietta post-risorgimentale, ed il massiccio Bob, nato e cresciuto nel Profondo Sud dell'America della Depressione. Non tanto il comune suicidio (Salgari si tagliò gola e ventre con un rasoio il 25 aprile 1911 a 49 anni; Howard si sparò alla testa con la sua Colt 380 l'11 giugno 1936 a 30 anni) secondo lo stile dei loro stessi eroi, entrambi spinti da depressioni nervose, angoscia esistenziale e senso d'impotenza, quanto per il genere della loro narrativa fantastica, esotica e avventurosa, le motivazioni che li spingevano a creare a getto continuo, la qualità della loro scrittura, i personaggi che uscivano dalla loro penna "titanici e ammalianti" (B. Traversetti). Il piccolo veronese e il grosso texano producevano racconti su racconti, romanzi su romanzi spinti dall'urgenza: certo degli editori e delle riviste, certo della necessità di denaro, ma ancora più certo della loro immaginazione ribollente, desiderosa di rompere i lacci che la tenevano bloccata a Cross Plains o a Torino per ricreare le "altre vite", quelle che avrebbero voluto vivere anch'essi e non soltanto far vivere ai loro lettori, nell'Era Hyboriana o nella Malesia, nell'antica Britannia o nei Caraibi, insieme a Conan o a Sandokan, a Bran Mak Morn o al Corsaro Nero. Due vite insospettabilmente quasi parallele, come spesso succede per chi s'inoltra nei sentieri della fantasia più sfrenata che, in pratica, sono sempre gli stessi, quando li fa percorrere da un eroe che ha mille volti ed uno solo. In fondo, anche noi abbiamo avuto una specie di Howard casalingo con i baffi a manubrio, quattro figli ed una moglie in manicomio; così come gli americani hanno avuto un Salgari precoce, muscoloso, mal visto dai suoi concittadini, ossessionato dalla figura materna. Entrambi ci hanno fatto sognare e continueranno a farlo ancora.
Gianfranco de Turris NELLA FORESTA DI VILLEFERE Il sole era tramontato. Le grandi ombre coprirono rapidamente la foresta. Nel bizzarro crepuscolo di un giorno d'estate inoltrata, vidi il sentiero davanti a me proseguire tra i possenti alberi e svanire. Rabbrividii e diedi tremante un'occhiata alle mie spalle. Il villaggio più vicino si trovava molte miglia più indietro... miglia avanti il prossimo. Mentre avanzavo mi guardavo a destra ed a sinistra ed ogni tanto anche dietro. E di lì a poco mi fermai bruscamente afferrando il mio stocco quando un rumore di fuscelli spezzati annunciò l'avvicinarsi di qualche piccolo animale. O era un animale grande? Però il sentiero continuava ed io lo seguii perché, in vero, non avevo altra possibilità. Mentre proseguivo riflettei: I miei stessi pensieri mi guideranno, se non sarò attento. Che cosa ci può essere in questa foresta, se non le creature che l'abitano, cervi e simili? Ohibò, le sciocche leggende di questi contadini! E così andai avanti ed il crepuscolo divenne sera. Le stelle iniziarono a brillare e le foglie degli alberi mormoravano nella debole brezza. Poi mi fermai bruscamente e la spada mi balzò nella mano, perché proprio davanti a me, oltre una curva del sentiero, qualcuno stava cantando. Non riuscivo a distinguere le parole, ma l'accento era strano, quasi barbaro. Mi portai dietro un grosso albero ed un freddo sudore imperlò la mia fronte. Poi il cantore si rivelò alla vista, un uomo alto e sottile, vago nella luce crepuscolare. Mi strinsi nelle spalle. Un uomo era qualcosa che non temevo. Balzai fuori, la punta dell'arma sollevata. «Altolà!» Non mostrò alcuna sorpresa. «Di grazia, maneggia la tua lama con attenzione, amico,» disse. Vergognandomi in qualche modo, abbassai la spada. «Sono nuovo di questa foresta,» dissi con tono di scusa. «Ho sentito storie di banditi. Vi chiedo perdono. Dove si trova la strada per Villefere?» «Corbleu, l'avete superata,» rispose. «Dovete aver preso una biforcazione a destra prima di qui. Ci sto andando. Se vorrete accettare la mia compagnia, vi guiderò.» Esitai. Eppure, per quale motivo avrei dovuto esitare?
«Perché no, certamente. Il mio nome è de Montour, della Normandia.» «Ed io sono Carolous le Loup.» «No!», arretrai stupito. Mi guardò attonito. «Perdonatemi,» dissi; «il nome è strano, per via di quel lupo...» «La mia è sempre stata una famiglia di grandi cacciatori,» rispose. Non mi offrì la mano. «Mi perdonerete se vi fisso,» dissi mentre camminavamo lungo il sentiero, «ma non riesco quasi a vedere il vostro viso con questo buio.» Percepii che stava ridendo, sebbene non emise alcun suono. «C'è ben poco da vedere,» rispose. Mi avvicinai e poi balzai all'indietro, i capelli ritti. «Una maschera!», esclamai. «Perché portate una maschera, m'sieu?» «È un voto,» esclamò lui. «Nello sfuggire ad un branco di cani giurai che se fossi riuscito a cavarmela avrei portato una maschera per un certo tempo.» «Cani, m'sieu?» «Lupi,» rispose rapidamente. «Ho detto lupi.» Camminammo in silenzio per un po' e poi il mio compagno disse: «Sono sorpreso che voi camminiate in questi boschi di notte. Poche persone vengono da queste parti persino di giorno.» «Ho fretta di raggiungere il confine,» risposi. «È stato firmato un trattato con gli Inglesi, ed il Duca di Borgogna deve essere informato. La gente del villaggio ha cercato di dissuadermi. Hanno parlato di un... lupo che si suppone infesti questi boschi.» «Qui il sentiero porta a Villefere,» disse lui ed io vidi una pista stretta e tortuosa che non avevo notato quando ero passato precedentemente. Conduceva in mezzo all'oscurità degli alberi. Rabbrividii. «Desiderate tornare al villaggio?» «No!», esclamai. «No, no! Guidatemi.» Il sentiero era così stretto che camminammo in fila indiana, lui davanti. L'osservai. Era più alto, molto più alto di me, e magro, segaligno. Indossava un abito di foggia vagamente spagnola. Un lungo stocco ondeggiava al suo fianco. Camminava con lunghi e facili passi, senza fare alcun rumore. Poi iniziò a parlare di viaggi e di avventure. Parlò di molte lande e mari che aveva visto e di molte cose strane. Così parlammo e proseguimmo sempre più in profondità nella foresta. Ritenni che fosse Francese, eppure aveva un accento molto strano che
non era né francese né spagnolo né inglese, e neppure simile ad alcuna lingua che avessi mai sentito. Alcune parole le farfugliava stranamente ed altre non riusciva a pronunciarle affatto. «Questo sentiero è usato spesso, vero?», chiesi. «Non da molti,» rispose e rise silenziosamente. Rabbrividii. Era molto buio e le foglie mormoravano all'unisono tra i rami. «Un dèmone infesta questa foresta,» dissi. «Così dicono i contadini,» rispose lui, «però l'ho percorsa spesso e non ho mai visto il suo muso.» Poi iniziò a parlare di strane creature della notte, e la luna si levò e le ombre scivolarono tra gli alberi. Guardò la luna. «Facciamo presto!», disse lui. «Dobbiamo raggiungere la nostra destinazione prima che la luna raggiunga lo zenit.» Ci affrettammo lungo il sentiero. «Dicono,» feci io, «che un lupo mannaro infesti questi boschi.» «Può darsi,» disse lui, e discutemmo molto riguardo a questo fatto. «Le vecchie affermano,» disse lui, «che se un lupo mannaro è ucciso mentre è in forma di lupo, allora è morto definitivamente, ma se viene ucciso in forma di uomo, allora la sua mezza anima perseguiterà l'uccisore per l'eternità. Però affrettatevi, la luna è prossima allo zenit.» Giungemmo in una piccola radura illuminata dalla luna e lo straniero si fermò. «Fermiamoci un attimo,» disse lui. «No, proseguiamo,» lo incitai. «Non mi piace questo luogo.» Rise senza emettere alcun suono. «Perché?» disse lui, «Questa è una bella radura. E buona come sala per un banchetto, e molte volte ho banchettato qui. Ah, ah, ah! Guardate, vi mostrerò una danza.» Ed iniziò a saltellare da una parte all'altra, di tanto in tanto portando il capo all'indietro e ridendo silenziosamente. Pensai: quest'uomo è matto. Mentre danzava il suo strano ballo mi guardai attorno. Il sentiero vi giungeva, ma si fermava nella radura. «Venite,» dissi io, «dobbiamo proseguire. Non sentite l'acre odore di pelo che aleggia nella radura? I lupi si annidano in questo posto. Forse sono qui intorno e magari adesso stanno scivolando verso di noi.» Si mise a quattro zampe, saltando più alto della mia testa e mi venne incontro con uno strano movimento furtivo. «Questa danza è detta la Danza del Lupo,» disse lui, e mi si rizzarono i capelli.
«State indietro!» Arretrai. Con un grido che mandò echi vibranti, lo strano individuo balzò contro di me e sebbene avesse una spada appesa al fianco non la estrasse. Il mio stocco era sguainato a metà quando mi afferrò il braccio e mi scagliò a terra. Lo trascinai giù con me e urtammo assieme il terreno. Liberandomi una mano gli strappai la maschera. Un grido d'orrore eruppe dalle mie labbra. Occhi bestiali brillavano sotto quella maschera, zanne bianche scintillavano alla luce della luna. Il volto era quello di un lupo. In un attimo le zanne furono sulla mia gola. Mani artigliate mi strapparono la spada dalle mani. Colpii quella faccia orribile con i pugni, ma le sue mascelle erano serrate sulla mia spalla, i suoi artigli laceravano la mia gola. Poi mi ritrovai sulla schiena. Il mondo stava svanendo. Colpii alla cieca. La mia mano si abbatté e poi si chiuse automaticamente attorno all'elsa del pugnale che non ero riuscito a raggiungere. Lo estrassi e colpii. Emise uno stridìo terribile e semi umano. Poi mi rimisi in piedi, libero. Ai miei piedi giaceva il lupo mannaro. Mi chinai, sollevando il pugnale, poi mi fermai e guardai in alto. La luna stava per raggiungere lo zenit. Se uccidevo la creatura in forma umana il suo terrificante spirito mi avrebbe perseguitato per sempre. Mi sedetti ed attesi. La cosa mi fissava con occhi fiammeggianti da lupo. Le lunghe membra tenaci sembrarono accorciarsi, piegarsi; peli sembrarono crescere su di loro. Temendo la pazzia, presi la spada della cosa e la feci a pezzi. Poi gettai via l'arma e fuggii. Titolo originale: In the Forest of Villefere (Weird Tales, agosto 1925) LA RAZZA PERDUTA Coruruc lanciò preoccupate occhiate intorno a se ed affrettò il passo. Non era un codardo, ma quel luogo non gli piaceva affatto. Alti alberi crescevano tutt'intorno, i loro cupi rami che bloccavano la luce del sole. Il sentiero indistinto si snodava attorno ai quei tronchi, a volte costeggiando il bordo di un burrone dove Coruruc poteva osservare in basso le cime degli alberi sottostanti. Di tanto in tanto, attraverso uno squarcio nella foresta, riusciva a vedere in lontananza le cupe colline che annunciavano la catena montuosa molto più ad Occidente, le Montagne della Cornovaglia. Era tra quelle montagne che Buruc il Crudele, capo di una banda di bri-
ganti, si presumeva si nascondesse in attesa di calare sulle vittime che passavano da quelle parti. Coruruc spostò la presa sulla sua lancia ed affrettò il passo. La sua fretta non era dovuta solamente alla minaccia del fuorilegge, ma anche al fatto che desiderava nuovamente ritornare nella sua terra nativa. Era stato lontano, in missione segreta presso le selvagge tribù della Cornovaglia; e sebbene il suo compito fosse stato adempiuto con più o meno successo, era impaziente di uscire dal loro inospitale paese. Era stato un viaggio lungo e stancante, e Coruruc aveva ancora quasi tutta l'intera Britannia da attraversare. Lanciò un'occhiata di avversione attorno a sé. Desiderava rivedere i piacevoli boschi con i cervi scorrazzanti e gli uccelli cinguettanti ai quali era abituato. Desiderava rivedere le alte scogliere bianche dove il mare azzurro si frangeva allegramente. La foresta che Coruruc stava attraversando sembrava disabitata. Non c'erano né uccelli né animali; e neppure aveva visto alcun segno di presenza umana. I suoi compagni erano rimasti presso la selvaggia corte del re della Cornovaglia, apprezzando la sua rozza ospitalità senza desiderare di andarsene. Però Coruruc non era contento. Così li aveva lasciati proseguire nei loro piaceri e si era messo in marcia da solo. Coruruc possedeva un figura notevole. Alto circa un metro e ottanta, dal fisico forte ed asciutto e dagli occhi grigi, era un puro britanno ma non un puro celta, i lunghi capelli biondi rivelavano in lui e nella sua razza una traccia dei belgi. Indossava una pelle di cervo abilmente cucita, perché i Celti non avevano ancora perfezionato i ruvidi tessuti che tessevano e la maggior parte di quel popolo preferiva le pelli dei cervi. Coruruc era armato con un lungo arco di legno di tasso, fabbricato senza particolare mestiere, ma comunque un'arma efficiente; un lungo spadone di bronzo con un fodero di pelle di daino, un lungo pugnale anch'esso di bronzo ed un piccolo scudo rotondo bordato da una striscia di bronzo e coperto da robusta pelle di bufalo. Un rozzo elmetto di bronzo era calzato sul suo capo. Emblemi sbiaditi erano dipinti in blu sulle braccia e sulle guance. Il suo viso privo di barba era del tipo britannico superiore, aperto, schietto, la scaltra pratica determinazione del nordico unita al noncurante coraggio e la sognatrice abilità artistica dei Celti. Così Coruruc percorreva il sentiero della foresta, cautamente, pronto a fuggire o combattere, ma preferendo nessuna delle due soluzioni. Il sentiero si allontanò dal burrone, scomparendo attorno ad un grande
albero. E dall'altro lato della pianta, Coruruc udì i suoni di una lotta. Scivolando cautamente in avanti e domandandosi se avesse visto alcuni degli elfi e dei nani che si riteneva infestassero quei boschi, fece capolino da dietro l'enorme pianta. A pochi passi di distanza Coruruc vide una strana scena: Un grosso lupo si trovava con la schiena a ridosso di un altro grande albero, bloccato, il sangue che colava da squarci attorno alla spalla; di fronte a lui, accucciata e pronta a balzare, il guerriero vide una grande pantera. Coruruc si chiese il perché di quella battaglia. Non molto spesso i signori della foresta si affrontavano in duello. Ed inoltre era perplesso dai ringhi provenienti dal grande gatto. Erano selvaggi, bramosi di sangue, eppure contenevano una strana nota di paura; e la bestia sembrava esitasse a saltare. Perché Coruruc scelse di prendere le parti del lupo, neppure egli stesso avrebbe potuto spiegarlo. Senza dubbio era semplicemente l'avventata cavalleria del celta, un'ammirazione per l'intrepido atteggiamento del lupo contro il suo molto più potente avversario. Sia come sia, Coruruc, dimenticando l'arco ed optando per la soluzione più avventata, sguainò la spada e balzò di fronte alla pantera. Però non ebbe modo di usare la sua arma. Il felino, i cui nervi sembravano già in qualche modo scossi, emise un soffio di stupore e scomparve tra gli alberi così rapidamente che Coruruc si chiese se avesse veramente visto una pantera. Si girò verso il lupo, chiedendosi se si sarebbe avventato su di lui. Lo stava fissando, mezzo accucciato; lentamente l'animale arretrò di pochi metri, poi si girò e se andò con uno strano passo strascicato. Mentre il guerriero lo osservava svanire nella foresta, venne colto da un'inquietante sensazione; aveva visto moltissimi lupi, li aveva cacciati ed era stato cacciato, ma non aveva mai visto un lupo simile prima d'ora. Coruruc esitò e poi s'incamminò cautamente dietro al lupo, seguendo le tracce che erano chiaramente visibili nel soffice terreno argilloso. Non si affrettò, accontentandosi semplicemente di seguire le tracce. Dopo poco, Coruruc si fermò bruscamente, i capelli sulla nuca che sembrarono rizzarsi. Solamente le tracce delle zampe posteriori si vedevano: il lupo stava camminando in posizione eretta. Si guardò ansiosamente attorno. Non si udiva alcun suono; la foresta era silente. Coruruc provò un impulso di voltarsi e mettere la maggior distanza possibile tra lui e quel mistero, ma la sua curiosità celtica non glielo permise. Seguì le tracce. Ma queste s'interruppero completamente. Sotto un grande albero le tracce svanivano. Coruruc sentì il sudore gelido bagnargli
la fronte. Che tipo di luogo era questa foresta? Era stato sviato e poi sfuggito a qualche mostro dei boschi, inumano e sovrannaturale, che cercava di intrappolarlo? Coruruc arretrò, la spada sollevata, il suo coraggio che non gli permetteva di correre, ma desiderando grandemente di farlo. E così ritornò all'albero dove aveva visto il lupo la prima volta. Il sentiero che aveva seguito conduceva anche in un'altra direzione, e Coruruc la prese, quasi correndo per la fretta di allontanarsi da un lupo che camminava su due zampe e che era svanito nel nulla. La pista si snodava più noiosamente che mai, comparendo e scomparendo nello spazio di una dozzina di passi, ma fu un bene per Coruruc che fosse così, perché in questo modo poté udire le voci degli uomini che sopraggiungevano dal sentiero davanti a lui prima che potessero vederlo. Si attaccò ad un enorme albero che faceva sporgere i suoi rami sul sentiero e si sistemò, appiattito contro il grande tronco, lungo un ramo molto ampio. Tre uomini stavano percorrendo il sentiero delle foresta. Uno era un grosso tizio corpulento, ben oltre il metro e ottanta, con una lunga barba rossa e una folta chioma di capelli dello stesso colore. I suoi occhi erano, per contrasto, nerissimi. Indossava una pelle di cervo ed era armato di una grande spada. Degli altri due, uno era un furfante smilzo dallo sguardo bieco e con un occhio solo, e l'altro era un uomo piccolo ed avvizzito, che scrutava odiosamente furtivo con entrambi gli occhietti. Coruruc li riconobbe dalle descrizioni che gli abitanti della Cornovaglia gli avevano fornito alternate ad imprecazioni, e fu per l'eccitazione di avere una vista migliore del peggiore assassino della Britannia che il guerriero scivolò dal ramo dell'albero e piombò al suolo direttamente in mezzo a loro. Si rimise in piedi all'istante, la spada sguainata. Non si poteva aspettare pietà; perché sapeva che l'uomo dai capelli rossi era Buruc il Crudele, il flagello della Cornovaglia. Il capo dei banditi emise una violenta imprecazione e liberò la grande spada. Evitò l'affondo furioso del britanno con un rapido balzo all'indietro e poi la battaglia incominciò. Buruc attaccò il guerriero dal davanti, cercando di abbatterlo al suolo con il suo semplice peso; intanto il bandito smilzo e orbo scivolò di lato, cercando di attaccare Coruruc alle spalle. L'uomo più piccolo era arretrato fino al bordo della foresta. La bella arte della scherma era sconosciuta a questi primi spadaccini. Erano fendenti, attacchi di taglio e di punta, tutto il peso del braccio che accompagnava ogni
colpo. I terrificanti fendenti che si abbattevano sullo scudo di Coruruc abbatterono il guerriero al suolo, ed il bandito smilzo dall'occhio solo si avventò per finirlo. Coruruc rotolò di lato senza alzarsi, tagliò le gambe del bandito dal basso e lo infilzò mentre cadeva, poi si mosse di lato e si alzò in piedi, giusto in tempo per evitare la spada di Buruc. Sollevò nuovamente lo scudo per bloccare a mezz'aria la spada del bandito, la deviò è ruotò la sua con tutta la forza che aveva. La testa di Buruc venne spiccata dalle spalle. Poi Coruruc, girandosi, vide il bandito avvizzito intrufolarsi nella foresta. Corse dietro di lui, ma l'uomo era svanito tra gli alberi. Conoscendo l'inutilità di tentare un inseguimento, Coruruc si girò e corse lungo il sentiero. Non sapeva se ci fossero altri banditi in quella direzione, ma sapeva che se voleva uscire dalla foresta doveva farlo rapidamente. Senza dubbio il bandito fuggito avrebbe richiamato tutti i suoi compagni e ben presto avrebbero iniziato a battere la foresta alla sua caccia. Dopo aver corso per un po' lungo la pista e non vedendo alcun segno degli avversari, Coruruc si fermò e salì in cima al ramo più alto di un grande albero che torreggiava sui suoi simili. Un oceano di foglie sembrò circondarlo da ogni lato. Ad Ovest tutto ciò che poteva vedere erano le colline che aveva evitato. A Nord, in lontananza, si ergevano altre colline; a Sud si estendeva la foresta come un mare infinito. Ma ad Est, lontano, poteva appena distinguere la linea che segnava il diradarsi degli alberi e la comparsa delle fertili pianure. Miglia e miglia distanti, non sapeva quante, ma significava un viaggio più piacevole, villaggi di uomini, gente della sua razza. Fu sorpreso di riuscire a vedere così lontano, ma l'albero su cui si trovava era un gigante della sua specie. Prima di iniziare la discesa, Coruruc diede una rapida occhiata intorno a sé. Riuscì a distinguere la incerta traccia del sentiero che aveva percorso e che si snodava verso Oriente; e riuscì a vedere altri sentieri che si congiungevano o che si allontanavano. Poi un luccichio attirò la sua attenzione. Coruruc fissò una radura ad una certa distanza sul sentiero e vide, poco dopo, un gruppo di uomini entrarvi e svanire. Qua e là, su ogni sentiero, colse i bagliori di equipaggiamenti, l'ondeggiare delle foglie. Così quel farabutto dai piccoli occhi furtivi aveva già allertato i banditi. Erano tutti attorno a lui; era praticamente circondato. Un debole scoppio di urla selvagge dal sentiero alle sue spalle fece trasalire Coruruc. Dunque avevano già creato un cordone attorno al luogo del combattimento ed avevano scoperto che era fuggito. Se non fosse andato
via rapidamente sarebbe stato catturato. Era oltre il cordone, ma i banditi erano tutti attorno a lui. Rapidamente Coruruc scivolò giù dall'albero ed entrò silenziosamente nella foresta. Poi iniziò la caccia più eccitante cui Coruruc avesse mai preso parte; perché era lui la preda e gli uomini i cacciatori. Scivolando acquattato da un cespuglio all'altro e da un albero all'altro, adesso correndo rapidamente, adesso piegato al coperto, Coruruc fuggì sempre verso Oriente; non osava girare nel timore di essere spinto indietro nella foresta. A volte era costretto a modificare il suo percorso; infatti, raramente il guerriero riuscì a percorrere una via retta, ma cercò sempre di proseguire verso Est. Alle volte si accucciava tra i cespugli o si stendeva lungo qualche ramo fronzuto, e vide i banditi passargli così vicini che avrebbe potuto toccarli. Una volta o due lo videro e Coruruc fuggì, balzando sopra tronchi e cespugli, sfrecciando qua e là tra gli alberi; e li eluse sempre. Fu durante una di queste fughe a rotta di collo che notò di essere entrato in una gola tra piccole colline delle quali non si era accorto e, dando un'occhiata alle sue spalle, vide che gli inseguitori si erano fermati in piena vista. Senza fermarsi a riflettere su di un fatto così strano, aggirò un grande masso, sentì una liana o qualcosa di simile intrappolargli il piede e cadde lungo disteso a terra. Contemporaneamente qualcosa colpì il capo del giovane facendolo svenire. Quando Coruruc riprese i sensi, scoprì di essere stato legato mani e piedi. Veniva trascinato su di un terreno accidentato. Si guardò attorno. Degli uomini lo stavano portando a spalla, ma uomini che non aveva mai visto prima. Il più alto raggiungeva appena il metro e venti, erano di costituzione minuta e dalla carnagione molto scura. I loro occhi erano neri; e la maggior parte di loro erano piegati in avanti, come se avessero passato un vita acquattati e nascosti; e scrutavano furtivamente ovunque. Erano armati di piccoli archi, frecce, lance e pugnali, tutti non con la punta in bronzo rozzamente lavorato, ma di ossidiana e di selce della più squisita manifattura. Indossavano pelli di coniglio e di altri piccoli animali finemente lavorate ed una specie di panno ruvido; e molti erano tatuati dalla testa ai piedi di ocra e blu. Dovevano essere circa venti in tutto. Che razza di uomini erano quelli? Coruruc non ne aveva mai visti di simili. Stavano scendendo lungo una burrone sui cui fianchi si ergevano ripide pareti. Dopo poco sembrarono giungere ad un muro liscio dove la gola sembrava interrompersi bruscamente. Qui, ad un ordine di uno di essi che
sembrava avere il comando, posarono giù il britanno; ed afferrato un grosso macigno lo spostarono di lato. Si aprì una piccola caverna che sembrava svanire nel ventre della terra; poi gli strani uomini presero il britanno ed avanzarono. I capelli di Coruruc si rizzarono sulla nuca al pensiero di essere portato in quella caverna dall'aspetto spaventoso. Che razza di uomini erano? In tutta la Britannia ed Alba, in Cornovaglia o in Irlanda, Coruruc non aveva mai visto uomini simili. Piccoli uomini dall'aspetto di nani che abitavano sottoterra. Un sudore gelido comparve sulla fronte del giovane. Sicuramente erano quei nani maligni di cui avevano parlato gli abitanti della Cornovaglia, che di giorno vivevano nelle loro caverne e di notte uscivano per derubare e bruciare le capanne e persino massacrarne gli occupanti se ne avevano la possibilità! Ne potete ancora sentire parlare tutt'oggi, se visitate la Cornovaglia. Gli uomini, se tali si potevano considerare, lo portarono nella caverna, mentre altri, una volta entrati, rimisero il macigno al suo posto. Per un momento l'oscurità fu completa e poi delle torce iniziarono a brillare, in lontananza. Ed in seguito ad un richiamo si mossero. Altri uomini delle caverne avanzarono con delle torce. Coruruc si guardò attorno. Le fiaccole spandevano un vago bagliore sulla scena. Alle volte una, alle volte l'altra delle pareti della caverna comparivano per un istante, ed il britanno si rese vagamente conto che erano ricoperte di pitture eseguite rozzamente, eppure con una certa abilità che la sua razza non poteva eguagliare. Però il soffitto rimase sempre invisibile. Coruruc intuì che quella che sembrava un piccola caverna era divenuta parte di una grotta dalle dimensioni sorprendenti. Alla debole luce delle torce, quello strano popolo si muoveva, andava e veniva, silenziosamente, come ombre di un fioco passato. Coruruc sentì le corde o le funi che lo legavano allentarsi. Venne sollevato in piedi. «Vieni avanti», disse una voce, che parlava la lingua della sua razza, e il giovane sentì la punta di una lancia toccargli la nuca. Ed in avanti Coruruc si mosse, sentendo i sandali sfregare sul pavimento di pietra della caverna fino a quando giunsero ad un punto dove il pavimento si alzava. La pendenza era forte e la roccia così scivolosa che Coruruc non sarebbe riuscito a scalarla da solo. Però i suoi catturatori lo spinsero e lo tirarono ed il britanno vide che lunghe liane erano state fatte scendere da qualche punto in cima al pendio.
Quegli strani uomini le afferrarono, e poggiando i piedi contro la roccia viscida la scalarono rapidamente. Quando i suoi piedi trovarono nuovamente un superficie piana, la caverna fece una svolta e Coruruc si ritrovò nel mezzo di una scena illuminata dal fuoco che lo lasciò senza fiato. La caverna confluiva in una grotta così vasta da risultare quasi incredibile. Le possenti mura si ergevano a formare un grande soffitto arcuato che svaniva nell'oscurità. Il pavimento era piano dappertutto ed attraverso di esso scorreva un fiume: un fiume sotterraneo. Fluiva da una parete per svanire silenzioso sotto l'altra. Un ponte arcuato in pietra che sembrava naturale attraversava la corrente. Tutt'attorno alle pareti della grande caverna, di forma rozzamente circolare, si aprivano piccole grotte e di fronte ad ognuna ardeva un fuoco. Più in alto si trovavano altre aperture, disposte in maniera regolare, una fila sull'altra. Sicuramente esseri umani non avrebbero potuto costruire una simile città. Persone entravano ed uscivano dalle grotte che si affacciavano sul pavimento della caverna principale, indaffarate in quelle che sembravano faccende giornaliere. Uomini parlavano tra loro e riparavano armi, mentre altri erano intenti a pescare nel fiume; donne attizzavano i fuochi o preparavano indumenti; e sarebbe potuto effettivamente sembrare un qualsiasi villaggio della Britannia a giudicare dalle loro occupazioni. Ma tutto colpì Coruruc come estremamente irreale; lo strano luogo, il piccolo, silenzioso popolo intento ai suoi lavori, il fiume che scorreva silenzioso in mezzo a tutto. Poi quella gente si accorse del prigioniero e si radunò attorno a lui. Non ci furono le grida, i maltrattamenti o le offese che solitamente i selvaggi riservano ai loro, prigionieri, quando i piccoli uomini si avvicinarono a Coruruc squadrandolo silenziosamente con malevoli e lupeschi sguardi. Il guerriero rabbrividì, suo malgrado. Però i suoi catturatori lo spinsero attraverso la calca, portandolo davanti a loro. Nei pressi della riva del fiume si fermarono e si allontanarono radunandosi in cérchio. Due grandi pire baluginavano e scoppiettavano davanti a Coruruc e qualcosa si trovava in mezzo a loro. Il britanno fissò il suo sguardo e poco dopo distinse l'oggetto. Un alto scranno di pietra, simile ad un trono; e su di esso sedeva un uomo anziano con una lunga barba bianca, silente, immobile, ma con occhi neri che scintillavano come quelli di un lupo.
Il vecchio era abbigliato con una specie di lunga tunica fluente. Una mano simile ad un artiglio, dalle dita magre e contorte e dalle unghie simili agli artigli di un falco, poggiava sul bracciolo. L'altra mano era nascosta dall'abito. La luce dei fuochi danzava e ondeggiava; ora il vecchio si distingueva chiaramente, il naso adunco simile ad un becco e la lunga barba erano in rilievo; adesso sembrava svanire fino a divenire invisibile allo sguardo del britanno, eccetto per i suoi occhi scintillanti. «Parla Britanno!» Le parole giunsero all'improvviso, forti, chiare, senza alcun accenno di età. «Parla, che cosa hai da dire?» Coruruc, colto di sorpresa, balbettò e disse, «Chi, chi... che razza di popolo siete? Perché mi avete preso prigioniero? Siete elfi?» «Noi siamo Pitti,» fu la secca risposta. «Pitti!» Coruruc aveva udito storie di questo antico popolo dai britanni gaelici; alcuni dicevano che essi si celavano ancora nelle colline della Siluria, ma... «Ho combattuto i Pitti in Caledonia,» protestò il Britanno; «sono bassi, ma tozzi e malformati; niente affatto come voi!» «Quelli non sono veri Pitti,» fu la severa replica. «Guardati intorno, britanno,» fece un gesto con il braccio, «tu vedi i resti di una razza che sta scomparendo; una razza, che un tempo dominava la Britannia da mare a mare.» Coruruc sgranò gli occhi, confuso. «Ascolta, Britanno,» continuò la voce; «ascolta, barbaro, mentre ti narro la storia di una razza perduta.» Il fuoco danzò e scoppiettò, lanciando vaghi riflessi sulle pareti torreggianti e sulle acque fluenti. La voce del vecchio echeggiò in tutta la possente caverna. «Il nostro popolo giunse da Sud. Oltre le isole, oltre il Mare Interno. Oltre le montagne coperte di neve, dove alcuni rimasero, per frenare qualunque nemico che volesse seguirci. Nelle fertili pianure giungemmo. Ci distribuimmo su tutto il territorio. Ricchi e prosperi divenimmo. Poi due re governarono la terra e quello che vinse scacciò lo sconfitto. Così molti di noi costruirono delle imbarcazioni e fecero vela verso le lontane scogliere che scintillavano bianche sotto il sole. Trovammo una bella terra dalle fertili pianure. Trovammo una razza di barbari dai capelli rossi che viveva nelle caverne. Potenti giganti, dai grandi corpi e dalle piccole menti. «Costruimmo le nostre capanne di canniccio. Coltivammo il suolo. Ab-
battemmo la foresta. Ricacciammo i giganti dai capelli rossi nei boschi. Sempre più indietro li ricacciammo fino a quando, alla fine, non fuggirono sulle montagne dell'Ovest e sulle montagne del Nord. Eravamo ricchi. Prosperavamo. «Poi,» e la voce del vecchio tremò per la rabbia e per l'odio fino a quando non sembrò riverberare per tutta la caverna, «poi vennero i Celti. Dalle isole ad Occidente, nelle loro rozze imbarcazioni di vimini, vennero. Sbarcarono ad Ovest, ma non si accontentarono dell'Ovest. Marciarono verso Oriente e conquistarono le fertili pianure. Combattemmo. Loro erano più forti. Erano fieri combattenti armati di armi di bronzo, mentre noi avevamo solo armi di selce. «Fummo scacciati. Ci resero schiavi. Ci spinsero nella foresta. Alcuni di noi fuggirono sulle montagne dell'Ovest. Molti sulle montagne del Nord. Si unirono con i giganti dai capelli rossi che sconfiggemmo così tanto tempo prima e divennero una razza di nani mostruosi, perdendo tutte le arti della pace e mantenendo solamente la capacità di combattere. «Però alcuni di noi giurarono che non avrebbero mai abbandonato la terra per la quale avevano combattuto. Ma i Celti ci incalzavano. Erano molti, e molti ne arrivavano. Così ci rifugiammo nelle caverne, nelle gole, nelle grotte. Noi che avevamo sempre abitato in capanne luminose, che avevamo sempre coltivato la terra, imparammo a vivere come animali in caverne dove non arrivava mai il sole. E caverne trovammo, di cui questa è la più grande; ed altre ne costruimmo. «Tu, Britanno,» la voce divenne un grido ed un lungo braccio venne puntato come un'accusa, «tu e la tua razza! Voi avete reso una libera e prospera nazione un popolo di topi! Noi che non siamo mai fuggiti, che vivevamo all'aria aperta e sotto il sole vicino al mare dove giungevano i mercanti, noi dobbiamo fuggire come animali braccati e seppellirci come talpe! Ma di notte! Ah, allora ci prendiamo la nostra vendetta! È allora che scivoliamo fuori dai nostri nascondigli, gole e caverne con torce e pugnali! Guarda, britanno!» E seguendo il gesto, Coruruc vide un palo rotondo fatto con qualche tipo di legno molto duro, infisso in una buca nel pavimento di pietra, vicino alla sponda del fiume. Il pavimento attorno al buco era annerito come da vecchi fuochi. Coruruc fissò, senza capire. Anzi comprendeva poco di ciò che era accaduto. Che questa gente fosse del tutto umana, non ne era molto sicuro. Aveva udito così tante storie su questo "piccolo popolo". Gli tornarono in
mente storie delle loro gesta, del loro odio per la razza degli uomini e della loro malevolenza. Non capiva quasi di stare fissando uno dei misteri dei tempi antichi. Che le storie che gli antichi gaelici narravano sui Pitti, già distorte, lo sarebbero state ancora di più con il passare del tempo, per divenire le storie degli elfi, dei nani, dei troll e delle fate, dapprima accettate, poi rifiutate, interamente, dalla razza umana, proprio come i mostruosi neandertaliani erano divenuti goblin e orchi. Ma di ciò Coruruc non sapeva nulla e neppure gli importava, ed il vecchio parlò nuovamente. «Là, là, Britanno,» esultò, indicando il palo, «là pagherai! Un misero pagamento per il debito che la tua razza deve alla mia, ma al massimo del suo prezzo.» L'esultanza del vecchio sarebbe stata malevola, tranne per un certo elevato proposito nel suo volto. Era sincero. Credeva di prendersi solo la giusta vendetta; e sembrava simile a qualche nobile patriota di una grande causa persa. «Ma io sono un Britanno!», farfugliò Coruruc. «Non è stato il mio popolo che fece esiliare la tua razza! Furono i gaelici, dall'Irlanda. Io sono un Britanno ed il mio popolo giunse dalla Gallia solo cento anni fa. Conquistammo i gaelici e li spingemmo nel Galles, Erin e Caledonia, così come loro scacciarono la tua razza.» «Non importa!» Il vecchio capo era in piedi. «Un Celta è un Celta. Britanno o gaelico, non fa alcuna differenza. Se non erano gaelici sarebbero stati britanni. Ogni Celta che cade nelle nostre mani deve pagare, che sia un guerriero, donna, fanciullo o re. Prendetelo e legatelo al palo.» In un istante Coruruc fu legato al palo e vide, con orrore, che i Pitti stavano accumulando legna ai suoi piedi. «E quando sarai bruciato a sufficienza, Britanno,» disse il vecchio, «questo pugnale che ha bevuto il sangue di cento Britanni, estinguerà la sua sete nel tuo.» «Ma io non ho mai fatto del male ad un Pitto!», gemette Coruruc, lottando con le corde che lo legavano. «Tu paghi non per ciò che hai fatto, ma per ciò che la tua razza ha compiuto,» rispose seccamente il vecchio. «Ricordo bene le imprese che compirono i Celti quando sbarcarono per la prima volta in Britannia... le grida dei massacrati, le urla delle ragazze violentate, il fumo dei villaggi in fiamme, i saccheggi.» Coruruc sentì i corti capelli della nuca rizzarsi. Quando i Celti sbarcarono per la prima volta in Britannia! Era più di cinquecento anni prima!
E la sua curiosità celtica non gli avrebbe permesso di stare fermo, persino legato al palo con i Pitti che si apprestavano a dare fuoco alle fascine attorno a lui. «Non puoi ricordare quelle cose. Sono accadute ere fa.» Il vecchio lo guardò severamente. «Ed io sono vecchio di ere. Nella mia giovinezza ero un cacciatore di streghe, ed una vecchia strega mi maledisse mentre si contorceva al palo del rogo. Disse che avrei vissuto fino a quando l'ultimo figlio della razza dei Pitti non sarebbe morto. Che avrei visto quella che un tempo era una potente nazione cadere nell'oblio ed allora - solo allora - l'avrei seguita. Perché quella strega mi lanciò la maledizione della vita eterna.» Poi la voce del vecchio crebbe fino a riempire la caverna. «Però la maledizione in sé non era nulla. Le parole non possono ferire, non possono fare nulla ad un uomo. Io vivo. E cento generazioni ho visto passare e svanire, ed ancora altre cento ne vedrò. Che cos'è il tempo? Il sole sorge e tramonta ed un altro giorno è caduto nell'oblio. Gli uomini osservano il sole e regolano la loro vita su di esso. Si uniscono al tempo in ogni cosa. Contano i minuti che li spingono verso l'eternità. Gli uomini sono sopravvissuti ai secoli prima che iniziassero a considerare il tempo. Il tempo è una creazione dell'uomo. L'eternità è opera degli dèi. In questa caverna non esiste una cosa simile al tempo. Non ci sono stelle, non c'è sole. Al di fuori è il tempo; all'interno è eternità. Noi non contiamo il tempo. Nulla segna il trascorrere delle ore. I giovani escono. Vedono il sole, le stelle. Riconoscono il tempo. E muoiono. Ero giovane quando entrai in questa caverna. Non l'ho mai lasciata. Come tu conti il tempo, potrei aver vissuto qui mille anni; oppure un'ora. Quando non è legata dal tempo, la mente, l'anima, chiamala come vuoi, può conquistare il corpo. E i saggi della mia razza, nella mia giovinezza, sapevano più di quanto il mondo esterno imparerà mai. Quando sento che il mio corpo inizia ad indebolirsi prendo la pozione magica, che solo a me è conosciuta, di tutto il mondo. Non fornisce immortalità; quella è opera della sola mente; ma ricostruisce il corpo. La razza dei Pitti scompare; si scioglie come neve sulle montagne. E quando l'ultimo se ne sarà andato, questo pugnale mi libererà dal mondo.» Poi, con un improvviso cambio di tono: «Accendete le fascine!» La mente di Coruruc stava vacillando del tutto. Non aveva affatto capito ciò che aveva appena udito. Era certo di stare impazzendo: e ciò che vide il minuto dopo lo convinse di ciò.
Attraverso la calca giunse un lupo: ed egli riconobbe che si trattava del lupo che aveva salvato dalla pantera nei pressi del burrone nella foresta! Strano, quanto lontano ed indietro nel tempo sembrava tutto ciò! Sì, era lo stesso lupo. Che appariva strano, dall'andatura zoppicante. Poi la creatura si alzò eretta e sollevò le zampe anteriori sopra il capo. Di quale orrore indicibile si trattava? Poi la testa del lupo ricadde all'indietro svelando un volto umano. Il volto di un Pitto; uno dei primi "lupi mannari". L'uomo uscì dalla pelle di lupo ed avanzò, dicendo qualcosa. Un Pitto che era sul punto di dare fuoco alla legna attorno ai piedi del Britanno allontanò la torcia ed esitò. Il Pitto-lupo si mosse in avanti ed iniziò a parlare al capo, usando la lingua celtica, evidentemente a beneficio del prigioniero. (Coruruc fu sorpreso di udire così tanti parlare la sua lingua, senza riflettere sulla sua relativa semplicità, e sull'abilità dei Pitti.) «Cosa succede?», chiese il Pitto che aveva assunto il ruolo del lupo. «Un uomo che non lo merita sta per essere messo al rogo!» «Cosa?», esclamò fieramente il vecchio, afferrando la lunga barba. «Chi sei tu per andare contro ad un usanza antichissima?» «Incontrai una pantera,» rispose l'altro, «e questo Britanno rischiò la sua vita per salvare la mia. Può forse un Pitto mostrare ingratitudine?» E mentre il vecchio esitava, evidentemente spinto da un lato dalla sua fanatica bramosia di vendetta e dall'altra dall'altrettanto fiero orgoglio della sua razza, il Pitto proruppe in un selvaggio discorso, nella sua lingua. Alla fine il vecchio capo annuì. «Un Pitto paga sempre i suoi debiti,» disse con impressionante maestosità. «E neppure mai un Pitto dimentica. Slegatelo. Nessun Celta potrà mai dire che un Pitto ha mostrato ingratitudine.» Coruruc venne liberato, e mentre, come un uomo stordito, cercava di farfugliare la sua gratitudine, il capo fece cenno di allontanarsi. «Un Pitto non dimentica mai un nemico, e sempre ricorda un gesto amichevole,» replicò. «Vieni,» mormorò l'amico Pitto di Coruruc, tirandolo per il braccio. Lo condusse lungo una grotta che portava lontano dalla caverna principale. E mentre avanzavano Coruruc si voltò, per vedere il vecchio capo seduto sul suo trono di pietra, gli occhi scintillanti come se sembrasse fissare lontano attraverso le glorie perdute del tempo; su entrambi i lati i fuochi ondeggiavano e scoppiettavano. Una figura grandiosa, il re di una razza perduta.
Coruruc venne guidato dal suo nuovo amico per molto tempo. Alla fine uscirono, ed il Britanno vide il cielo stellato sopra di sé. «Da quella parte si trova un villaggio della tua gente,» disse il Pitto, indicando, «dove troverai il benvenuto fino a quando non vorrai riprendere il tuo viaggio di nuovo.» E poi diede dei doni al Celta; abiti di tessuto e di pelle di cervo finemente lavorata, cinture ingemmate, un bell'arco di corno con frecce dalla punta abilmente ornata di ossidiana. Del cibo. Le armi di Coruruc gli vennero restituite. «Ancora un momento», disse il Britanno, mentre il Pitto si voltava e stava per andarsene. «Ho seguito le tue tracce nella foresta. Poi sono svanite.» C'era un tono di domanda nella sua voce. Il Pitto rise debolmente. «Sono balzato sui rami dell'albero. Se avessi alzato lo sguardo, mi avresti visto. Se mai desideri un amico, lo troverai sempre in Berula, capo dei Pitti di Alba.» Si girò e comparve. E Coruruc s'incammino alla luce della luna verso il villaggio celtico. Titolo originale: The Lost Race (Weird Tales, gennaio 1927) IL SERPENTE DEL SOGNO La nottata era stranamente tranquilla. Mentre sedevamo nell'ampia veranda, fissando i vasti prati ombrosi, il silenzio dell'ora entrò nei nostri spiriti e per lungo tempo nessuno parlò. Poi dalle lontane ed offuscate montagne che orlavano il cielo orientale iniziò a risplendere una debole foschia e poco dopo una grande luna dorata si levò, spandendo una radiosità spettrale sulla landa e delineando nettamente le oscure macchie d'ombra che erano gli alberi. Una brezza leggera giunse bisbigliando da Est e l'erba non falciata ondeggiò di fronte ad essa in lunghe onde sinuose, appena visibili alla luce della luna; e dal gruppo sulla veranda giunse un rapido gemito, un acuto respiro che ci fece voltare tutti e fissare. Faming era chinato in avanti, stringendo i braccioli della sua sedia, il viso strano e pallido nella luce spettrale; un sottile filo di sangue colava dal labbro nel quale aveva piantato i denti. Stupiti, lo guardammo, poi sobbalzò improvvisamente emettendo una breve risata ringhiante.
«Non c'è bisogno di fissarmi scioccamente come un branco di pecore!», disse irritato e s'interruppe bruscamente. Sedemmo stupefatti, senza quasi neppure sapere che tipo di risposta dare ed all'improvviso sbottò nuovamente. «Adesso immagino che farei meglio a raccontare tutta la storia altrimenti andrete via e mi considererete un lunatico. Non interrompetemi, nessuno di voi! Voglio levarmi questa cosa dalla mente. Sapete tutti che non sono un uomo dotato di molta immaginazione; però c'è una cosa, una pura invenzione dell'immaginazione, che mi perseguita da quando ero bambino. Un sogno!» Si rannicchiò ben bene nella sedia mentre mormorava «Un sogno! Per Dio, che sogno! La prima volta... no, non riesco a ricordare la prima volta... Ho sognato questa cosa diabolica fin da quando riesco a ricordare. Beh, ecco: c'è una specie di capanno che sta in cima ad una collina nel mezzo di una vasta prateria - non dissimile da questa tenuta; però questa scena si svolge in Africa. Ed io vivo là con una specie di servo, un Indù. Perché io sia là non è chiaro alla mia mente conscia, sebbene nei miei sogni sia sempre consapevole della ragione. Come un uomo di un sogno, ricordo la mia vita passata (una vita che non corrisponde in alcun modo alla mia vita conscia), ma quando sono sveglio il mio subconscio è incapace di trasmettere queste impressioni. Tuttavia, credo di essere un fuggitivo dalla giustizia ed anche l'Indù è un fuggitivo. Di come il capanno sia arrivato là non sono mai in grado di ricordare, e neppure conosco in quale parte dell'Africa si trovi, sebbene tutte queste cose siano conosciute al mio io del sogno. Il capanno è piccolo e con pochissime stanze, ed è situato sulla cima della collina, come ho già detto. Attorno non ci sono altre colline e la prateria si estende fino all'orizzonte in ogni direzione; l'erba è alta fino al ginocchio in alcuni punti, fino alla vita in altri. «Ora il sogno si apre sempre mentre sto risalendo la collina, proprio mentre il sole inizia a tramontare. Sto portando un fucile rotto e sono stato via per cacciare, me lo ricordo chiaramente -sognando. Ma mai da sveglio. È come se un sipario venisse improvvisamente sollevato ed iniziasse una rappresentazione; o come se fossi improvvisamente trasferito nel corpo e nella vita di un altro uomo, ricordando il passato di quella vita, senza conoscere nessun'altra esistenza. E questa è la parte infernale di tutto ciò! Come sapete, la maggior parte di noi sognando è, nel profondo della propria coscienza, consapevole di stare sognando. Non importa quanto orribile possa diventare il sogno, sappiamo che si tratta di un sogno, e perciò la pazzia o la possibile morte è evitata. Però in questo particolare sogno non
esiste una simile conoscenza. Vi dico che è così vivido, così completo in ogni dettaglio, che alle volte mi chiedo se quella non sia la mia reale esistenza e questo un sogno! Ma no; perché allora sarei dovuto morire anni fa. «Come stavo dicendo, giungo in cima alla collina, e la prima cosa di cui mi rendo conto che è fuori dall'ordinario, è una specie di pista che percorre la collina in maniera irregolare; cioè, l'erba è schiacciata come se qualcosa di pesante vi fosse stato trascinato sopra. Però non vi porgo una speciale attenzione perché sto pensando, con una certa irritazione, che il fucile rotto che sto portando è la mia unica arma e che adesso devo abbandonare la caccia fino a quando non potrò procurarmene un altro. «Vedete, ricordo pensieri ed impressioni del sogno stesso, degli accadimenti del sogno; sono le memorie che il sogno che "io" ho avuto, di quell'altra esistenza onirica che non sono in grado di ricordare. Dunque. Arrivo in cima alla collina ed entro nel capanno. Le porte sono aperte e l'Indù non è in casa. Però la stanza principale è sottosopra; le sedie sono rotte, un tavolo è rovesciato. Il pugnale indù è sul pavimento, ma non c'è sangue in alcun posto. «Nei miei sogni non ricordo mai gli altri sogni, come alle volte capita a qualcuno. È sempre il primo sogno, la prima volta. Sperimento sempre le stesse sensazioni nei miei sogni, con una forza così vivida come se fosse la prima volta che sogno. È così. Non sono in grado di capirlo. L'Indù è sparito, ma (così rifletto in mezzo alla stanza in disordine) che cosa se l'è portato via? Fosse stata una banda di negri avrebbero saccheggiato il capanno e lo avrebbero probabilmente bruciato. Se fosse stato un leone, il luogo sarebbe stato macchiato di sangue. Poi all'improvviso ricordo la traccia che risaliva la collina, ed una mano gelida mi percorre la spina dorsale; perché istantaneamente l'intera faccenda mi si chiarisce: la cosa che è sbucata dalla prateria ed ha portato la rovina nel capanno non poteva essere altro che un gigantesco serpente. E mentre penso alle dimensioni della traccia, fredde gocce di sudore imperlano la mia fronte ed il fucile rotto mi trema nella mano. «Quindi mi precipito verso la porta in preda ad un panico selvaggio con il solo pensiero di affrettarmi verso la costa. Però il sole è tramontato ed il crepuscolo avanza lentamente lungo la prateria. Ed in qualche punto là fuori, nascosto nell'erba alta, si cela quella cosa spaventosa... quell'orrore. Dio!» L'esclamazione eruppe dalle sue labbra con una tale intensità che noi tutti sobbalzammo, non comprendendo la tensione che avevamo rag-
giunto. Ci fu un attimo di silenzio, poi continuò: «Così sprango le porte e le finestre, accendo la lampada che ho ed aspetto al centro della stanza. E sono immobile come una statua... in attesa... in ascolto. Dopo un po' si leva la luna e la sua scarsa luce filtra attraverso le finestre. Ed io rimango immobile al centro della stanza; la notte è molto tranquilla - simile a questa; di tanto in tanto la brezza bisbiglia tra l'erba ed ogni volta sobbalzo e serro le mani fino a piantarmi le unghie nella carne ed il sangue mi gocciola lungo i polsi... e rimango là ad attendere ed ascoltare ma quella notte non viene!» La frase giunse improvvisa ed esplosiva, ed un sospiro involontario giunse dal resto di noi; un rilascio della tensione. «Sono determinato, se supero la notte, ad avviarmi verso la costa al più presto il mattino successivo, sfidando la sorte là fuori nella cupa prateria... con lui. Ma al mattino non oso. Non so in quale direzione sia andato il mostro; e non oso rischiare di imbattermi in lui all'aperto, disarmato come sono. Così, come in un labirinto, rimango nel capanno, e sempre i miei occhi si rivolgono al sole che scende incessantemente lungo il cielo verso l'orizzonte. Ah, Dio! se solo potessi fermare il sole nel cielo!» L'uomo era preda di qualche terribile potere; le sue parole le afferravamo appena. «Poi il sole scende dal cielo e le lunghe ombre grigie avanzano nella prateria. Stordito dalla paura, ho sprangato le porte e le finestre ed ho acceso la lampada molto prima che l'ultimo debole bagliore del tramonto svanisse. La luce che filtra dalle finestre può attirare il mostro, ma non oso stare al buio. E nuovamente rimango al centro della stanza... in attesa.» Ci fu un'interruzione fremente. Poi continuò, appena sopra il bisbiglio, inumidendosi le labbra: «Non so per quanto tempo rimango là; il Tempo ha cessato di esistere ed ogni secondo è un eone; ogni minuto un'eternità, che si estende verso eternità senza fine. Poi, Dio! Che cos'è quello?» Si piegò in avanti, la luce della luna che delineava il suo viso in una maschera di chi ascolta così spaventosa, che ognuno di noi rabbrividì e gettò una rapida occhiata oltre le spalle. «Questa volta non è la brezza notturna,» sussurrò. «Qualcosa fa frusciare l'erba, come se un enorme, lungo peso flessibile fosse trascinato in mezzo ad essa. Il frusciare continua oltre il capanno e poi cessa - di fronte alla porta; i suoi cardini scricchiolano... scricchiolano! La porta inizia e rigonfiarsi verso l'interno... un poco... poi sempre più!» Le braccia dell'uomo erano distese davanti a lui, come se puntellassero fortemente contro qualco-
sa, ed il suo fiato usciva in ansiti veloci. «E so che dovrei appoggiarmi contro la porta e tenerla chiusa, ma non lo faccio, non posso muovermi. Rimango lì, come una pecora in attesa di essere macellata... ma la porta tiene!» Di nuovo quel sospiro, espressione di sensazioni represse. Si passò una mano tremante sulla fronte. «E rimango per tutta la notte al centro della stanza, immobile come una statua, se non per voltarmi lentamente quando il frusciare dell'erba indica il suo aggirarsi attorno alla casa. Tengo persino gli occhi nella direzione del suono, morbido e sinistro. Alle volte cessa per un istante o per diversi minuti, e poi non riesco quasi più a respirare a causa della terribile ossessione che mi fa ritenere che il serpente sia riuscito in qualche modo ad entrare nel capanno, così mi agito e vago da una parte all'altra, terribilmente timoroso di fare rumore sebbene non sappia perché, ma sempre con la sensazione che quella cosa sia alle mie spalle. Poi il suono inizia nuovamente ed io mi gelo immobile. «Questo è il solo momento in cui la mia consapevolezza, che guida le mie ore di veglia, sempre e in ogni modo squarcia il velo del sogno. Io non sono mai, nel sogno, consapevole che si tratti di un sogno, ma, in maniera in un certo qual modo distaccata, la mia altra mente riconosce certi fatti e li passa al mio - dovrei dire "ego"? - dormiente. Cioè, la mia personalità è per un istante veramente doppia ed in un certo modo separata, come sono separate le braccia destra e sinistra, mentre ricompone le parti in una stessa entità. La mia mente sognante non ha cognizione della mia mente superiore; allo stesso tempo l'altra mente è subordinata, ed il subconscio ha il controllo completo ad un livello tale che non riconosce neppure l'esistenza dell'altra. Però la mente conscia, adesso dormiente, è consapevole delle lievi onde di pensiero emanate dalla mente sognante. Capisco di non avere reso questo concetto perfettamente chiaro, ma rimane il fatto che io so che la mia mente, cosciente e non cosciente, è prossima alla rovina. La mia paurosa ossessione, mentre mi trovo nel sogno, è che il serpente si sollevi e mi scruti dalla finestra. Ed io so, nel sogno, che se ciò accadesse impazzirei. Ed è così vivida l'impressione impartita alla mia mente conscia, adesso dormiente, che le onde del pensiero agitano gli oscuri mari del sonno, ed in qualche modo posso percepire la mia sanità mentale vacillare nel sogno. Barcolla ed ondeggia avanti e indietro fino a che il movimento prende un aspetto fisico e nel mio sogno sto ondeggiando da una parte all'altra. Non sempre la sensazione è la stessa, ma vi dico che se quell'orrore dovesse mai sollevare la sua terribile forma e guardarmi, che se mai dovessi vedere la terrificante cosa nel mio sogno, diventerei completamente
pazzo.» Ci fu un inquieto movimento tra noi altri. «Dio! Quale prospettiva!», mormorò. «Essere pazzo e sognare sempre lo stesso sogno, notte e giorno! Ma io sono là ed i secoli passano, ed alla fine una fioca luce grigia inizia e filtrare attraverso le finestre ed il fruscio cessa in lontananza, e poco dopo un sole rosso e scarno scala il cielo orientale. Quindi mi giro e mi guardo allo specchio - i miei capelli sono divenuti perfettamente bianchi. Barcollo fino alla porta e la spalanco. Non si vede nulla tranne un'ampia traccia che si allontana dalla collina attraverso l'erba nella direzione opposta che dovrei prendere per arrivare alla costa. E con lo strillo di una risata da maniaco mi precipito lungo la collina e corro attraverso la prateria. Corro fino a cadere esausto, poi rimango disteso fino a quando non riesco a rialzarmi ed a proseguire. «Riesco ad avanzare per tutto il giorno con uno sforzo sovrumano, spronato dall'orrore dietro di me. E sempre quando mi spingo in avanti sulle gambe indebolite, sempre mentre sono disteso ad ansimare, guardo il sole con una terribile bramosia. Come rapidamente viaggia il sole quando un uomo corre per la sua vita! È una corsa persa in partenza, lo capisco quando vedo il sole affondare verso l'orizzonte e le colline che dovevo raggiungere prima del tramonto non sembrano essersi affatto avvicinate.» La sua voce si era affievolita ed istintivamente ci sporgemmo verso di lui; stava stringendo i braccioli della sedia ed il sangue gli gocciolava dalle labbra. «Poi il sole tramonta ed arrivano le ombre ed io vacillo, cado e mi rialzo e proseguo ancora. E rido, rido, rido! Poi smetto, perché si leva la luna e trasforma la prateria in una fantasmatica ed argentea prospettiva. La luce è bianca sulla terra sebbene la luna stessa sia color del sangue. Ed io mi volto verso la direzione da cui stavo venendo... e lontano... lontano...» Tutti noi ci sporgemmo ancora di più verso di lui, i capelli ritti; la sua voce ci giunse come un sussurro spettrale - «lontano... io... vedo... l'erba... ondeggiare. Non c'è vento, ma l'erba alta si divide ed ondeggia alla luce della luna in una stretta linea sinuosa... lontana, ma più vicina ad ogni istante.» La sua voce si affievolì. Qualcuno ruppe la quiete che seguì: «E poi...?» «Poi mi sveglio. Non ho ancora mai visto l'orrendo mostro. Però questo è il sogno che mi ossessiona, e dal quale mi sono svegliato urlando durante la mia infanzia, e madido di gelido sudore nell'età adulta. Lo sogno ad intervalli irregolari ed ogni volta, ultimamente...» Esitò, e poi continuò: «Ogni volta, ultimamente, la cosa si è fatta più vicina... sempre più vicina...
l'ondeggiare dell'erba che segna il suo avanzare si avvicina a me in ogni sogno; e quando mi raggiungerà...» Si fermò bruscamente, poi, senza dire una parola, si alzò di scatto ed entrò in casa. Il resto di noi rimase silenziosamente seduto per un po', poi lo seguimmo perché si era fatto tardi. Quanto abbia dormito non lo so, ma mi svegliai all'improvviso con l'impressione che da qualche parte nella casa qualcuno avesse riso a lungo, sonoramente e malignamente, come la risata di un pazzo. Alzandomi, chiedendomi se avessi solo sognato, corsi verso la porta della mia stanza nel momento stesso in cui un urlo veramente orribile echeggiò attraverso la casa. Immediatamente il luogo si animò delle altre persone che erano state svegliate, e tutti ci affrettammo verso il luogo da cui ci era sembrato fossero giunti i suoni, verso la stanza di Faming. Faming giaceva morto sul pavimento, dove sembrava essere caduto a causa di qualche lotta terribile. Non c'era alcun segno su di lui, ma' il suo volto era orribilmente distorto; come il viso di un uomo che fosse stato schiacciato da qualche forza sovrumana... come quella di qualche gigantesco serpente. Titolo originale: The Dream Snake (Weird Tales, febbraio 1928) LA IENA Fin dalla prima volta che vidi Senecoza, lo stregone, non mi fidai di lui, e dalla vaga diffidenza l'idea si mutò gradatamente in odio. Ero da poco arrivato sulla Costa Orientale, nuovo dei costumi africani, ed in qualche modo incline a seguire i miei impulsi, e possedevo una gran quantità di curiosità. Dato che venivo dalla Virginia, l'istinto della razza e del pregiudizio erano forti in me, e senza dubbio la sensazione d'inferiorità che Senecoza m'ispirava costantemente aveva molto a che fare con la mia antipatia verso di lui. Era sorprendentemente alto ed allampanato. Era alto quasi due metri, e così muscolosa era la sua snella figura che pesava buoni cento chili. Il suo peso sembrava incredibile quando si osservava quella figura allampanata, ma era tutto muscoli - uno snello gigante nero. I suoi lineamenti non erano quelli di un puro negro. Sembravano più quelli di un Berbero che di un
Bantu, con l'alta fronte sporgente, il naso sottile e labbra diritte e fini. Però i suoi capelli erano crespi come quelli dei Boscimani ed il suo colore era più scuro di quello dei Masai. Infatti, la sua pelle lucida aveva una sfumatura diversa da quella dei nativi, e credo che appartenesse ad una tribù diversa. Noi della fattoria lo vedevamo raramente. Poi, senza preavviso, si trovava in mezzo a noi o lo vedevamo avanzare attraverso l'erba alta fino alla spalla del veldt, alle volte da solo, altre volte seguito a rispettosa distanza da molti dei Masai più selvaggi che si radunavano lontano dagli edifici, stringendo le loro lance nervosamente ed osservando tutti con sospetto. Lo stregone avrebbe salutato con grazia cerimoniosa; i suoi modi era deferentemente cortesi, ma in qualche modo era come se "mi accarezzasse contropelo", se capite cosa voglio dire. Avevo sempre una vaga sensazione che il nero ci stesse prendendo in giro. Stava di fronte a noi, un nudo gigante bronzeo; scambiava pochi e semplici oggetti, come un pentolino di rame, collane o un moschetto barattato; riferiva le parole di qualche capo e poi se ne andava. Non mi piaceva. Ed essendo giovane ed impetuoso ne parlai con Ludtvik Strolvaus, un parente molto alla lontana, un decimo cugino o simili, presso la cui fattoria-stazione commerciale mi trovavo. Però Ludtvik ridacchiò sotto la barba bionda e disse che lo stregone era un tipo a posto. «È potente tra i nativi, vero. Tutti lo temono. Però amico dei bianchi. Ja.» Ludtvik risiedeva da molto tempo nella Costa Orientale; conosceva i nativi e conosceva il grasso bestiame australiano che allevava, però aveva poca immaginazione. Gli edifici della fattoria si trovavano nel mezzo di una palizzata, su di una specie di pendio, e dominavano chilometri e chilometri della migliore terra da pascolo dell'Africa. La staccionata era grande, ben predisposta per la difesa. La maggior parte del migliaio di animali di proprietà dei mio cugino poteva essere fatto confluire al suo interno in caso di rivolta dei Masai. Ludtvik era smodatamente orgoglioso del suo bestiame. «Adesso mille,» mi avrebbe detto, il suo volto rotondo illuminato, «adesso mille. Ma dopo, ah! Diecimila ed altri diecimila. Questo è un buon inizio, ma solo un inizio. Ja.» Devo confessare che provavo ben poca eccitazione per il bestiame. I nativi lo facevano pascolare e lo accudivano; tutto ciò che Ludtvik ed io do-
vevamo fare era di andare in giro e dare ordini. Quello era il lavoro che preferiva, ed io lo lasciavo quasi interamente a lui. La mia attività principale consisteva nel cavalcare nel veldt da solo o seguito da un portatore, con un fucile. Non che sia mai riuscito ad abbattere molta selvaggina. In primo luogo ero un pessimo tiratore; difficilmente sarei riuscito a centrare un elefante a breve distanza. In secondo luogo, mi sembrava un peccato sparare a così tante creature. Un'antilope della boscaglia sarebbe potuta sbucare di fronte a me ed io sarei rimasto a sedere ad osservarla, ammirando la snella figura affusolata, eccitato dalla bellezza aggraziata della creatura, mentre il mio fucile giaceva ozioso sul pomolo della sella. Il ragazzo del luogo che mi seguiva come portatore d'arma iniziò a sospettare che stessi deliberatamente evitando di sparare, e cominciò, in modo velato, a spargere derisori commenti sul mio atteggiamento femminile. Ero giovane e tenevo in conto persino le opinioni di un nativo; il che è molto sciocco. I suoi commenti mi colpirono nell'orgoglio ed un giorno lo scaraventai giù da cavallo e lo picchiai finché non invocò pietà. Da quel momento le mie azioni non furono più messe in discussione. Però mi sentivo ancora inferiore quando mi trovavo in presenza dello stregone. Non riuscivo a far parlare di lui gli altri nativi. Tutto ciò che riuscivo a tirare loro fuori era un spaventato roteare di occhi, gesticolazioni che indicavano paura e vaghe informazioni che lo stregone abitava fra le tribù a qualche distanza nell'interno. L'opinione generale sembrava essere che Senecoza fosse un uomo che era meglio lasciare stare. Un incidente fece prendere al mistero riguardante quell'uomo, così sembrò, una forma piuttosto sinistra. Nella maniera misteriosa in cui in Africa viaggiano le notizie, e delle quali l'uomo bianco viene a conoscenza assai raramente, apprendemmo che Senecoza ed un piccolo capo avevano avuto qualche tipo di dissidio. La notizia era vaga e sembrava non avere alcun fondamento speciale. Però poco tempo dopo quel capo venne ritrovato semi divorato dalle iene. La cosa, di per sé, non era strana, ma il terrore con cui i nativi ascoltarono la notizia, lo era. Il capo era nulla per loro; infatti era quasi descritto come una sorta di "cattivo", ma la sua morte li sembrò riempire di paura che era poco lontana dalla pazzia omicida. Quando i neri raggiungono un certo livello di terrore diventano pericolosi come una pantera spinta in un angolo. La volta successiva che Senecoza chiamò, si alzarono e fuggirono in massa e non tornarono fino a quando non se fu andato.
Tra il timore dei neri, lo squartamento del capo da parte delle iene e lo stregone, mi sembrava di vedere un qualche tipo di vaga connessione. Però non riuscivo ad afferrare quell'idea intangibile. Dopo non molto quell'idea venne rafforzata da un altro incidente. Mi ero spinto a cavallo molto all'interno del veldt, accompagnato dal mio servo. Mentre eravamo fermi per far riposare i cavalli nei pressi di un kopje vidi in cima ad esso una iena che ci osservava. Piuttosto sorpreso, perché questi animali non sono soliti avvicinarsi così coraggiosamente agli esseri umani durante il giorno, alzai il fucile per prendere una buona mira, dato che avevo sempre odiato quelle creature, quando il mio servo mi afferrò il braccio. «No sparare, buana! No sparare!», esclamò in fretta, balbettando a precipizio nella sua lingua, che io non conoscevo. «Cosa c'è?», chiesi impaziente. Il ragazzo continuò a balbettare ed a tirarmi per il braccio fino a quando non compresi che la iena rappresentava un qualche tipo di animalefeticcio. «Oh, va bene,» cedetti, abbassando il fucile proprio mentre la iena si girava e si celava alla vista. Qualcosa, riguardo quella bestia smilza e ripugnante e la sua dinoccolata eppure aggraziata andatura leggera, mi colpì il senso dell'umorismo con un ridicolo paragone. Ridendo indicai l'animale e dissi: «Quella sembra l'imitazione sotto forma di iena di Senecoza, lo stregone.» La mia semplice affermazione sembrò gettare il nativo in uno stato di terribile paura, ancora maggiore del solito. Voltò il suo pony e schizzò via nella generica direzione della fattoria, voltandosi per guardarmi con il viso terrorizzato. Seccato, lo seguii. E mentre cavalcavo pensai. Iene, uno stregone, un capo dilaniato, un gruppo di nativi terrorizzati; qual era il nesso? Mi scervellai, ma ero nuovo dell'Africa; ero giovane ed impaziente e poco dopo, con una infastidita stretta di spalle, dimenticai tutto il problema. La volta successiva che Senecoza venne alla fattoria fece in modo di fermarsi proprio di fronte a me. Per un fugace istante i suoi occhi scintillanti si fissarono nei miei. E mio malgrado rabbrividii ed arretrai, involontariamente, provando quasi le stesse cose che sente un uomo quando fissa, inatteso, gli occhi di un serpente. Non c'era nulla di tangibile, nulla sulla cui base potevo iniziare un litigio, ma si trattava di una minaccia chiara. Prima che la mia pugnace nordicità potesse imporsi nuovamente, se n'era
andato. Non dissi nulla. Però sapevo che Senecoza mi odiava per qualche ragione, e che stava architettando la mia morte. Il perché mi era sconosciuto. Da parte mia, la diffidenza si tramutò in un'ira selvaggia, che successivamente divenne odio. E fu allora che Ellen Farel giunse alla fattoria. Perché avesse scelto un ranch nell'Africa Orientale come luogo per riposarsi dalla vita di società di New York non lo so. L'Africa non è il posto per una donna. Questo è ciò che Ludtvik, di cui era anche cugino, le disse, ma fu anche molto contento di vederla. Quanto a me, le ragazze non mi avevano mai interessato molto; di solito mi sentivo uno sciocco in loro presenza e fui contento di essere fuori. Però c'erano pochi bianchi nei paraggi ed io ero stanco della compagnia di Ludtvik. Ellen si trovava sull'ampia veranda quando la vidi la prima volta, una snella e bella giovane donna, dalle guance rosee, i capelli color dell'oro e grandi occhi grigi. Era sorprendentemente attraente abbigliata con pantaloni da cavallerizza, fasce mollettiere, giacca ed un casco leggero. Mi sentivo estremamente goffo, impolverato e stupido mentre mi trovavo sul mio asciutto pony africano e la fissavo. Lei vide un giovane tarchiato di media altezza, dai capelli color sabbia, occhi in cui predominava una specie di grigio; un ragazzo ordinario, impacciato, che indossava polverosi abiti per cavalcare ed un cinturone da cui pendeva, su di un lato, una vecchia Colt di grosso calibro e dall'altro un lungo coltello da caccia dall'aspetto sinistro. Smontai da cavallo e lei avanzò verso di me, la mano protesa. «Sono Ellen,» disse, «e tu sei Steve, vero? Il cugino Ludtvik mi ha parlato di te.» Ci stringemmo la mano e rimasi sorpreso dal brivido che quel semplice tocco mi aveva provocato. Lei era entusiasta della fattoria. Era entusiasta di ogni cosa. Raramente avevo visto qualcuno con maggiore vigore, arguzia, maggiore gioia nel fare qualunque cosa. Brillava tutta di spirito e di allegria. Ludtvik le diede il cavallo migliore del ranch, ed entrambi cavalcammo attorno alla fattoria e nel veldt. I neri la interessavano molto. Avevano timore di lei, non essendo abituati alla vista di donne bianche. Sarebbe scesa da cavallo ed avrebbe giocato con i bambini se glielo avessi permesso. Non riusciva a capire perché dovesse trattare i neri come la polvere sotto le scarpe. Discutemmo a lungo a
riguardo. Non riuscivo a convincerla, così le dissi brutalmente che non ne sapeva nulla e che doveva fare come le dicevo. Lei sporse le graziose labbra e mi chiamò tiranno e poi si diresse verso il veldt come un antilope, ridendo di me da sopra la spalla, i capelli scarmigliati dal vento. Tiranno! Ero il suo schiavo fin dal primo momento. In qualche modo l'idea d'innamorarmi non mi entrò mai nella mente. Non era il fatto che lei fosse di diversi anni più vecchia di me, o che avesse un fidanzato (diversi, io credo) a New York. Semplicemente, l'adoravo; la sua presenza m'inebriava e non riuscivo a pensare ad una esistenza migliore e desiderabile che servirla come uno schiavo devoto. Un giorno stavo riparando una sella quando mi venne incontro di corsa. «Oh, Steve!», mi chiamò; «laggiù c'è il selvaggio dall'aspetto più romantico di tutti! Vieni, presto, e dimmi come si chiama.» Mi condusse fuori dalla veranda. «Eccolo là,» disse, indicando ingenuamente. Le braccia conserte, la testa orgogliosa all'indietro, si trovava Senecoza. Ludtvik, che gli stava parlando, non prestò attenzione alla ragazza fino a quando non ebbe finito di trattare i suoi affari con lo stregone; poi, girandosi, le prese il braccio ed entrarono assieme in casa. Mi ritrovai nuovamente faccia a faccia con il selvaggio; però questa volta non stava guardando me. Con un'ira che stava quasi diventando pazzia, vidi che stava fissando la ragazza. C'era un'espressione nei suoi occhi da serpente... Nello stesso istante estrassi la pistola e la spianai. La mano mi tremava come una foglia per l'intensità della furia. Certo, dovevo sparare a Senecoza come ad un serpente qual era, sparargli e crivellarlo di colpi, sparargli e ridurlo in poltiglia! Quell'espressione fugace svanì dai suoi occhi che ora erano fissi su di me. Distaccati, sembravano inumani nella loro calma sardonica. Ed io non riuscii a premere il grilletto. Per un momento ci fronteggiammo, poi si girò e si allontanò, una figura magnifica, mentre io lo fissavo e ringhiavo con furia impotente. Mi sedetti sulla veranda. Che uomo misterioso era quel selvaggio! Quali strani poteri possedeva? Avevo ragione, mi chiesi, ad interpretare quell'espressione fuggevole mentre fissava la ragazza? Mi sembrava, nella mia giovinezza e incoscienza, incredibile che un nero, non importa quale fosse il suo rango, potesse guardare una donna bianca in quel modo. Però, la co-
sa più sorprendente di tutte era: perché non ero riuscito a sparargli? Sobbalzai quando una mano mi sfiorò il braccio. «A cosa stai pensando, Steve?», chiese Ellen, ridendo. Poi, prima che io potessi in alcun modo replicare. «Quel capo, o qualunque cosa sia, non è proprio uno splendido tipo di selvaggio? Ci ha invitati al suo kraal; è così che lo chiamate, vero? È da qualche parte nel veldt, e noi ci stiamo andando.» «No!», esclamai violentemente, balzando in piedi. «Perché, Steve,» gemette lei, ritraendosi, «Come sei sgarbato! Quello sì che è un perfetto gentiluomo, vero, cugino Ludtvik?» «Ja», annuì Ludtvik placidamente, «andiamo al suo kraal molto presto, forse. Uno stregone potente, quel selvaggio. Il suo capo ha forse buoni scambi.» «No!», ripetei furiosamente. «Andrò io, se proprio qualcuno deve farlo! Ellen non si avvicinerà a quella bestia!» «Beh, questa è proprio bella!», osservò Ellen, piuttosto indignata. «Immagino che tu sia il mio capo, vero signorino?» Nonostante tutta la sua dolcezza aveva una mente indipendente. Nonostante tutto ciò che potei fare, decisero di andare al villaggio dello stregone il giorno dopo. Quella sera la ragazza venne da me, mentre ero seduto sulla veranda sotto la luce della luna, e si sedette sul bracciolo della mia sedia. «Non sei in collera con me, vero, Steve?», mi disse malinconicamente mettendomi un braccio attorno alle spalle. «Vero che non sei infuriato?» Infuriato? Sì, reso pazzo furioso dal tocco del suo morbido corpo... una simile folle devozione che solo uno schiavo può provare. Desideravo strisciare nella polvere ai suoi piedi e baciarle le scarpe delicate. Impareranno mai le donne gli effetti che hanno sugli uomini? Le presi la mano con fare esitante e la premetti contro le mie labbra. Credo che avesse percepito parte della mia devozione. «Caro Steve,» mormorò lei, e quelle parole erano come carezze, «vieni, camminiamo sotto la luna.» Passeggiamo oltre la palizzata. Avrei dovuto oppormi, perché non avevo altre armi con me che il grosso pugnale turco che portavo ed usavo come arma da caccia, ma lei desiderava così. «Parlami di questo Senecoza,» mi chiese, ed io fui contento di quella opportunità. Poi pensai: cosa potrei dirle? Che le iene avevano divorato un piccolo capo tribù dei Masai? Che i nativi temevano lo stregone? Che l'a-
veva guardata? Poi la ragazza gridò quando dall'erba alta balzò fuori una figura non ben definita, semi nascosta nel chiarore lunare. Sentii una forma pesante e pelosa abbattersi sulle mie spalle; zanne acute affondare nel mio braccio sollevato. Caddi a terra, lottando con terrore disperato. La mia giacca venne fatta a brandelli e le zanne furono alla mia gola prima che trovassi ed estraessi il mio coltello e colpissi alla cieca, selvaggiamente. Sentii la lama penetrare nel mio avversario, e poi, come un'ombra, se ne andò. Mi alzai barcollando, piuttosto scosso. La ragazza mi sostenne e mi aiutò. «Cosa era?», gemette, facendomi appoggiare alla palizzata. «Una iena,» risposi. «L'ho riconosciuta dall'odore. Però non ho mai sentito di una che attaccasse in questa maniera.» Ellen rabbrividì. Più tardi, dopo che la ferita al braccio fu bendata, lei venne da me e mi disse con voce incredibilmente sottomessa: «Steve, ho deciso che non andrò al villaggio, se non vuoi che lo faccia.» Dopo che la ferita al braccio si fu rimarginata, Ellen ed io riprendemmo le nostre cavalcate, come era da attendersi. Un giorno ci eravamo avventurati piuttosto in profondità nel veldt e lei mi sfidò ad una corsa. Il suo cavallo distanziò facilmente il mio, e lei si fermò e mi aspettò, ridendo. Si era fermata su di una specie di kopje ed indicò un gruppo di alberi ad una certa distanza. «Alberi!», disse allegra. «Andiamo fin laggiù. Ci sono così pochi alberi nel veldt.» E mentre si allontanava, io seguii una specie di istintivo avvertimento, allentai la sicura della pistola che avevo nella fondina ed estrassi il coltello, infilandolo nello stivale così da nasconderlo completamente. Eravamo a circa metà distanza dal gruppo di alberi quando dall'erba alta attorno a noi sbucarono Senecoza e circa venti guerrieri. Uno afferrò le briglie della ragazza e gli altri si gettarono su di me. Quello che aveva afferrato Ellen cadde con un proiettile in mezzo agli occhi, ed un altro si accasciò al mio secondo colpo. Poi una clava lanciata mi sbalzò dalla sella semi svenuto, e mentre i neri si avventavano su di me vidi il cavallo di Ellen, imbizzarrito dalla puntura di una lancia maneggiata incautamente, nitrire, impennarsi, disperdere i neri che lo trattenevano e schizzare via di gran carriera, il morso tra i denti. Vidi Senecoza balzare sul mio cavallo ed inseguirlo, lanciando un ordine selvaggio da sopra le spalle; poi entrambi svanirono oltre il kopje.
I guerrieri mi legarono mani e piedi e mi portarono in mezzo al gruppo di alberi. Qui sorgeva una capanna - una di quelle dei nativi, di paglia e canne. La vista di quel luogo mi fece rabbrividire. Sembrava in agguato, repellente ed indescrivibilmente malevola tra gli alberi; suggeriva orribili ed osceni riti vudù. Non so spiegarmi il perché, ma la vista di quella capanna, solitaria e nascosta, lontana da un villaggio od una tribù, mi ha sempre suggerito un orrore senza nome. Forse è perché solo un nero impazzito, od uno così criminale da essere stato esiliato dalla sua stessa tribù potrebbe vivere in quel modo. Mi gettarono a terra di fronte alla capanna. «Quando Senecoza torna con la ragazza,» dissero, «tu entrerai.» E risero come dèmoni. Poi, lasciando un loro compagno a controllare che non fuggissi, se ne andarono. Il nero rimasto mi diede dei calci rabbiosi; era un nero dall'aspetto bestiale, armato di moschetto. «Loro vanno a uccidere uomini bianchi, sciocco!», mi derise. «Loro vanno ai ranch e stazioni commerciali, per primo quello di sciocco Inglese.» Voleva dire Smith, il proprietario di una fattoria vicina. E proseguì fornendomi i dettagli. Senecoza aveva ideato il piano, si gloriò. Avrebbero ricacciato tutti i bianchi fino alla costa. «Senecoza è più di uomo,» si vantò. «Tu vedrai, uomo bianco,» abbassando la voce e guardandosi attorno da sotto la sua fronte bassa e sporgente; «tu vedrai la magia di Senecoza.» E sorrise, scoprendo denti affilati come punte. «Cannibale!», rispose. «Un uomo di Senecoza.» «Che non ucciderà alcun uomo bianco.», lo derisi. Mi guardò selvaggiamente. «Io ucciderò te, uomo bianco.» «Non oserai.» «Questo è vero,» ammise, aggiungendo irosamente: «Senecoza ti ucciderà lui stesso.» Nello stesso istante Ellen stava cavalcando all'impazzata, guadagnando terreno sullo stregone, ma incapace di dirigersi verso la fattoria perché l'uomo si era frapposto a quella direzione e la stava obbligando a dirigersi verso il veldt. Il nero mi slegò. La sua linea di ragionamento era facile da capire; assurdamente facile. Non poteva uccidere un prigioniero dello stregone, però poteva ammazzarlo per impedirgli la fuga. Ed era follemente assetato di
sangue. Arretrando, sollevò a metà il suo moschetto osservandomi come un serpente osserva un coniglio. Dovette essere circa in quel momento, come mi narrò più tardi, che il cavallo di Ellen inciampò e la sbalzò di sella. Prima che potesse rialzarsi, il nero era balzato dal suo cavallo e l'aveva afferrata. Ellen gridò e lottò, ma Senecoza la serrò, sopraffacendola e ridendo di lei. Strappando a strisce la sua giacca, le legò le mani ed i piedi, rimontò a cavallo e tornò indietro, trasportando la ragazza semi svenuta sulla sella davanti a sé. Di fronte alla capanna mi alzai lentamente. Mi sfregai le braccia dove le corde mi avevano stretto, mi avvicinai un poco al nero, mi stirai, mi chinai e mi sfregai le gambe; poi, con lo slancio di un felino, mi avventai su di lui, il mio coltello estratto dallo stivale. Il moschetto sparò e la pallottola sibilò sopra la mia testa mentre afferravo la canna e mi avvicinavo al mio avversario. In un corpo a corpo non sarei stato un problema per quel gigante nero; però avevo il coltello. Avvinghiati strettamente eravamo troppo vicini perché potesse usare il moschetto come clava. Perse tempo nel cercare di compiere quella mossa, e con uno slancio disperato lo sbilanciai e gli piantai fino all'elsa il pugnale nel petto. Lo estrassi; non avevo altre armi, perché non riuscii a trovare munizioni per il moschetto. Non avevo assolutamente idea da che parte fosse fuggita Ellen. Pensai che si fosse diretta verso il ranch, e così presi anch'io quella direzione. Smith doveva essere avvertito. I guerrieri erano molto avanti a me. Forse in quel momento stavano già strisciando attorno all'ignara fattoria. Non avevo coperto neppure un quarto della distanza quando il tambureggiare di zoccoli mi fece voltare il capo. Il cavallo di Ellen stava galoppando nella mia direzione, senza cavaliere. Lo afferrai per le briglie mentre mi superava e riuscii a fermarlo. La situazione era chiara. La ragazza o aveva trovato un posto sicuro ed aveva lasciato libero il cavallo, oppure, il che era molto più probabile, era stata catturata, il cavallo era scappato e stava fuggendo verso la fattoria come questi animali sono soliti fare. Afferrai la sella, balzai in groppa e feci volare la mia cavalcatura verso il ranch di Smith. Erano solo pochi chilometri; Smith non doveva essere massacrato da quei diavoli neri, ed io dovevo trovare un'arma se volevo salvare la ragazza da Senecoza. A meno di un chilometro da Smith incrociai i predoni ed attraversai le loro schiere come fumo. Gli operai di Smith furono sorpresi da un cavaliere scarmigliato al galoppo sfrenato verso la palizzata che gridava, «Masai!
Masai! Una scorreria, imbecilli!», che afferrò un fucile e si allontanò nuovamente. Così quando i selvaggi giunsero, trovarono tutti pronti ad attenderli e ricevettero un benvenuto così caloroso che dopo un tentativo misero la coda tra le gambe e fuggirono nuovamente nel veldt. Io stavo cavalcando come non avevo mai fatto prima. La giumenta era quasi esausta, però io la spronavo senza pietà. Avanti, avanti! Puntai verso l'unico posto che conoscevo con certezza. La capanna in mezzo agli alberi. Ritenevo che lo stregone sarebbe ritornato là. E molto prima che la capanna comparisse alla vista, un cavaliere sfrecciò dall'erba, incrociando ad angolo retto la mia strada, ed i nostri cavalli, urtandosi violentemente, crollarono entrambi esausti al suolo. «Steve!» Era un grido di gioia mescolato a paura. Ellen era distesa a terra, legata mani e piedi, fissandomi selvaggiamente mentre mi rialzavo. Senecoza sopraggiunse di corsa, il suo lungo coltello che brillava sotto il sole. Combattemmo a lungo... di taglio, guardia e parate, la mia ferocia ed agilità che contrastava la sua crudeltà ed abilità. Dopo un affondo terribile diretto contro di me, io lo colpii di punta aprendogli una ferita nel braccio, e poi con una rapida presa e torsione lo disarmai. Però prima che potessi sfruttare il mio vantaggio, Senecoza balzò lontano e svanì. Afferrai la ragazza, le tagliai i legami e lei si strinse a me, povera piccola, fino a quando non la sollevai e la portai verso i cavalli. Però non avevamo ancora finito con Senecoza. Doveva avere un fucile nascosto da qualche parte tra i cespugli, perché la prima cosa che seppi di lui fu quando un proiettile sibilò a trenta centimetri dalla mia testa. Afferrai le briglie e solo allora mi resi conto che la giumenta era temporaneamente fuori combattimento per la stanchezza. Era esausta. Feci salire Ellen sull'altro cavallo. «Vai alla fattoria,» le ordinai. «I predoni sono all'esterno, ma riuscirai a superarli. Cavalca stando bassa e velocemente!» «E tu, Steve?» «Vai, vai!», ordinai, facendo voltare il cavallo e spronandolo a partire. L'animale sfrecciò via, con Ellen che mi osservava disperata da oltre la spalla. Poi presi il fucile ed una manciata di cartucce che avevo preso da Smith e mi tuffai nei cespugli. E durante il caldo giorno africano, Senecoza ed io giocammo a nascondino. Strisciando, scivolando dentro e fuori i miseri cespugli del veldt, accucciati nell'erba alta, ci scambiammo colpi reci-
procamente. Un movimento dell'erba, lo spezzarsi di un ramoscello, il fruscio degli steli, e subito giungeva a cercarti un proiettile, seguito da un altro in risposta. Io non avevo che poche cartucce e le sparavo con attenzione, ma poco dopo infilai nel fucile - una carabina di grosso calibro a retrocarica - l'ultima rimasta, perché non avevo avuto il modo di scegliere quando presi l'arma. Mi accucciai al coperto e scrutai per vedere se il nero si tradiva con qualche movenza incauta. Non un suono, neppure uno stormire tra l'erba. Lontano, nel veldt, una iena fece sentire la sua diabolica risata ed altre risposero, più vicine. Un sudore freddo gocciolò dalla mia fronte. Cosa era stato? Il tambureggiare degli zoccoli di numerosi cavalli! Che i predoni stessero ritornando? Arrischiai di dare un occhiata ed avrei voluto urlare dalla gioia. Almeno venti uomini stavano sciamando verso di me, uomini bianchi, uomini della fattoria, e da vanti a tutti cavalcava Ellen! Erano ancora ad una certa distanza. Mi slanciai da dietro un alto cespuglio e mi alzai, agitando la mano per attirare la loro attenzione. Loro gridarono ed indicarono qualcosa dietro di me. Mi girai di scatto e vidi, ad una decina di metri di distanza, un'enorme iena muoversi furtiva verso di me. Rapidamente mi guardai attorno nel veldt. Da qualche parte laggiù, nascosto dalle erbe rigogliose, si celava Senecoza. Un colpo avrebbe tradito la mia posizione - ed io non avevo che una sola cartuccia rimasta. Il gruppo che mi stava venendo a salvare era ancora fuori tiro. Guardai nuovamente la iena. Stava ancora affrettandosi vero di me. Non c'erano dubbi sulle sue intenzioni. I suoi occhi brillavano come quelli di un dèmone dell'inferno ed una cicatrice sulla spalla indicava che si trattava della stessa bestia che mi aveva già attaccato una volta. Poi una specie di orrore s'impadronì di me, e poggiando il fucile da caccia all'elefante sul gomito, mandai il mio ultimo proiettile a schiantarsi contro quella creatura bestiale. Con un grido che sembrò possedere una terribile nota umana dentro, di sé, la iena si girò e fuggì tra i cespugli, barcollando mentre correva. E fu in quel momento che il gruppo mandato ad aiutarmi si strinse attorno a me. Una scarica di colpi si abbatté sui cespugli dai quali Senecoza aveva sparato il suo ultimo colpo. Non giunse replica. «Abbiamo schiacciato quel serpente,» affermò il cugino Ludtvik, il suo accento boero accresciuto dall'eccitazione. E ci disperdemmo nel veldt in ordine sparso, setacciandone ogni centimetro con attenzione.
Non trovammo però alcuna traccia dello stregone. Scoprimmo un fucile, scarico, con diversi bossoli attorno ad esso, e (il che era molto strano) tracce di iena che si allontanavano dal fucile. Sentii i capelli sulla nuca rizzarsi per un orrore impalpabile. Ci guardammo reciprocamente e non dicemmo una parola, quando per tacito accordo seguimmo la traccia della iena. La percorremmo mentre si snodava qua e là tra l'erba alta fino alle spalle, mostrando come avesse potuto avvicinarsi a me nello stesso modo in cui una tigre incalza la sua vittima. Prendemmo il sentiero che la creatura aveva percorso e che ritornava verso il cespuglio dove le avevo sparato. Chiazze di sangue indicavano la direzione che aveva seguito. La seguimmo. «Porta verso la capanna dello stregone,» mormorò un inglese. «Questo, signori, è un dannato mistero.» Ed il cugino Ludtvik ordinò ad Ellen di stare indietro, lasciando due uomini con lei. Seguimmo la pista oltre il kopje fino alla macchia d'alberi. Conduceva diritta verso la porta della capanna. Circondammo cautamente l'edificio, ma nessuna traccia ne usciva. Era lì dentro. Con i fucili pronti, forzammo la rozza porta. Nessuna traccia usciva dalla capanna e nessun'altra era presente se non quella della iena. Eppure dentro la capanna non c'era nessun animale; sul pavimento di terra battuta, con un proiettile nel petto nero, era disteso Senecoza, lo stregone. Titolo originale: The Hyena (Weird Tales, marzo 1928) LA VOCE DI EL-LIL Muskat, come molti altri porti, è un rifugio per i vagabondi di molte nazioni che recano con sé i loro costumi tribali e le loro peculiarità. Turchi stanno gomito a gomito con i greci ed arabi litigano con gli indù. Le lingue di mezzo Oriente risuonano nei bazar impregnati di odori grevi. Sicché non sembrò tanto assurdo udire, mentre mi appoggiavo al bancone di un bar gestito da un ammiccante eurasiatico, le note musicali di un gong cinese risuonare tra il pigro ronzio del traffico del luogo. Non c'era di sicuro nulla di così impressionante in quei toni soavi da far sobbalzare il grosso
inglese di fianco a me che imprecò e mi rovesciò il suo whiskey e soda sulla manica. Si scusò e rimproverò la sua goffaggine con delle oneste bestemmie, però vidi che era scosso. M'interessava, come sempre m'interessano tipi come quello - era alto, oltre un metro e ottanta, spalle larghe, fianchi stretti, arti massicci, il perfetto combattente; viso abbronzato, occhi azzurri e capelli fulvi. La sua razza è vecchia quanto l'Europa ed il tizio stesso faceva venire in mente vaghi personaggi leggendari - Engisto, Hereward, Cedrik nati giramondo e combattenti dall'originale ceppo barbarico. Vidi, inoltre, che era dell'umore per parlare. Mi presentai, ordinai da bere ed attesi. Il mio interlocutore mi ringraziò, borbottò qualcosa tra sé, tracannò il suo liquore rapidamente e parlò di getto: «Vi starete chiedendo perché un uomo adulto dovrebbe essere così improvvisamente turbato da una cosa così piccola... beh, ammetto che quel dannato gong mi ha fatto sobbalzare. È quello sciocco di Yotai Lao che porta i suoi puzzolenti bastoncini d'incenso e i suoi Buddha in una onesta città... per mezzo penny potrei comprare qualche fanatico musulmano che gli tagli quella sua gola gialla ed affondi il suo insopportabile gong nel golfo. E vi dirò perché odio quella cosa. «Il mio nome,» disse, «è Bill Kirby. Fu a Gibuti, nel golfo di Aden, che incontrai John Conrad. Un giovane del New England, magro, dagli occhi penetranti - un professore, nonostante l'età. Ed anche vittima di un'ossessione, come molti del suo tipo. Studiava gli insetti, ed era uno di questi in particolare che lo aveva portato sulla Costa dell'Africa Orientale; o piuttosto, la speranza di trovare quel dannato insetto, perché non lo trovò mai. Era quasi irreale vedere il ragazzo infiammarsi d'entusiasmo quando parlava del suo argomento preferito. Senza dubbio avrebbe potuto insegnarmi molto di quanto dovrei conoscere, ma gli insetti non sono le cose per cui vado pazzo, e lui parlava, sognava e pensava a poco d'altro, all'inizio... «Beh, facevamo una bella coppia. Lui aveva denaro ed ambizioni ed io un po' di esperienza ed un piede vagabondo. Mettemmo su un piccolo, modesto, ma efficiente safari e ci avventurammo nell'interno del Somaliland. Adesso sentite dire che a tutt'oggi questo paese è stato completamente esplorato, ma io posso provare che quell'affermazione è falsa. Trovammo cose che nessun uomo bianco aveva mai sognato di vedere. «Avevamo viaggiato per la maggior parte del mese ed eravamo in quella parte del paese che sapevo essere sconosciuta al comune esploratore. Il veldt e le foreste di rovi davano spazio a quella che sembrava vera giungla
ed i nativi che vedemmo avevano le labbra tumide, le fronti basse e dentature canine - non certo come i somali. Continuammo ad avanzare, ed i nostri portatori ed ascari iniziarono a mormorare tra loro. Alcuni dei negri si erano intrattenuti amichevolmente con loro ed avevano raccontato storie che li rendevano titubanti a proseguire. Apertamente gli uomini non parlavano con me o Conrad riguardo a ciò, ma avevamo un servitore, un meticcio chiamato Selim, ed io gli dissi di cercare di saperne qualcosa. Quella notte venne nella mia tenda. Avevamo piantato un campo in una specie di grande radura ed avevamo eretto una difesa di rovi perché i leoni stavano facendo un gran putiferio tra i cespugli. «"Padrone," disse nell'inglese bastardo di cui andava così fiero, "uomini neri spaventare portatori e ascari con cattive storie ju-ju. Loro dire di potente maledizione ju-ju in paese noi andare, e..." «Si fermò di colpo, sbiancò e la mia testa si girò. Dall'oscurità, dall'intricata foresta a sud, giungeva fioca una voce ammaliante. Era simile all'eco di un eco, eppure stranamente chiara, profonda, vibrante, melodiosa. Uscii dalla tenda e vidi Conrad in piedi davanti al fuoco, teso e nervoso come un cane da caccia. «"Lo avete sentito?", chiese. "Che cos'era?" «"Tamburi dei nativi," risposi... però entrambi sapevamo che mentivo. Il brusio ed il chiacchiericcio dei nostri portatori attorno ai loro fuochi era cessato come se fossero tutti morti all'improvviso. «Per quella notte non udimmo altro, ma il mattino dopo ci trovammo abbandonati. I boys avevano levato l'accampamento con tutto il bagaglio su cui avevano potuto mettere le mani. Tenemmo un consiglio di guerra, Conrad, Selim ed io. Il meticcio aveva una fifa blu, ma l'orgoglio del suo sangue bianco lo spingeva ad andare avanti. «"Cosa facciamo adesso?", chiesi a Conrad. "Abbiamo le armi ed abbastanza scorte da permetterci ragionevolmente di raggiungere la costa." «"Ascoltate!", sollevò una mano. Dalla savana tambureggiò nuovamente quell'ammaliante sussurro. "Andremo avanti. Non mi fermerò fino a quando non conoscerò ciò che produce quel suono. Non ho mai sentito nulla di simile prima d'ora." «"La giungla spolperà le nostre dannate ossa," dissi. Conrad scosse il capo. «"Ascoltate!", disse. «Era come un richiamo. Ci penetrava nel sangue. Ci attirava come la musica del fachiro attira il cobra. Sapevo che era folle. Però non obiettai.
Raccogliemmo la maggior parte del nostro equipaggiamento e ci incamminammo. Ogni notte costruivamo una difesa con i rovi e ci sedevamo al suo interno mentre i grossi gatti miagolavano e ringhiavano all'esterno. E sempre più chiara, mentre avanzavamo sempre più in profondità nell'intrico della foresta, udivamo quella voce. Era profonda, soave, musicale. Ti faceva sognare strane cose; era carica di un'età enorme. Le prime glorie dei tempi antichi sussurravano nel suo incalzare. Aveva raccolto nella sua risonanza tutto il desiderio ed il mistero della vita; tutta l'anima magica dell'Oriente. Mi destai nel cuore della notte per ascoltare i suoi echeggianti mormorii e dormii per sognare di minareti innalzati verso il cielo, di lunghe schiere inchinate di adoratori dalla pelle scura, di troni sfarzosi dai baldacchini purpurei e di tonanti carri dorati. «Conrad aveva finalmente qualcosa che rivaleggiava con i suoi interessi per quegli infernali insetti. Non parlava molto; cacciava gli insetti in maniera assente. Per tutto il giorno sembrava essere in uno stato di perenne ascolto e, quando le profonde note dorate si snodavano nella giungla, si tendeva come un cane da caccia sulla pista, mentre nei suoi occhi si rifletteva uno sguardo strano per un professore civilizzato. Per Giove, è curioso vedere un qualche antico istinto primitivo intrufolarsi sotto la maschera di un freddo scienziato e toccare il rosso flusso della vita dietro di essa! Era una esperienza nuova e strana per Conrad; qui c'era qualcosa che non riusciva a spiegare con la sua nuova, esangue psicologia. «Beh, continuammo a vagare in quella folle ricerca... perché è la maledizione dell'uomo bianco andare fino all'Inferno per soddisfare la propria curiosità. Poi, nella grigia luce di un'alba precoce il campo venne invaso. Non ci fu lotta. Fummo semplicemente sommersi dal loro numero. Probabilmente dovevano essersi avvicinati furtivamente ed averci circondato da tutti i lati; perché la prima cosa che vidi fu il campo pieno di figure fantastiche ed una mezza dozzina di lance puntate alla gola. M'irritò terribilmente arrendermi senza neppure sparare un colpo, ma non c'era modo di fare altrimenti, ed imprecai contro me stesso per non aver mantenuto una maggiore sorveglianza. Avremmo dovuto aspettarci una cosa del genere, con quel diabolico ritmo che veniva da sud. «Dovevano essere almeno cento, e mi vennero i brividi quando li osservai da vicino. Non erano negri e non erano arabi. Erano uomini asciutti di media altezza, dalla carnagione leggermente giallastra, gli occhi scuri e grossi nasi. Non avevano barba e le loro teste erano perfettamente rasate. Indossavano una specie di tunica, chiusa in vita da un ampia cintura di
cuoio e sandali. Inoltre portavano uno bizzarro tipo di elmetto in ferro, appuntito in cima, aperto sul davanti e che ai lati scendeva sulla nuca fin quasi alle spalle. Avevano grandi scudi quadrati bordati di metallo ed erano armati con lance dalla lama stretta, archi dalla strana forma e frecce, oltre a corte spade diritte di un tipo che non avevo mai visto prima... o almeno fino a quel momento. «Legarono Conrad e me mani e piedi e macellarono Selim sul momento, sgozzandolo come un maiale, mentre scalciava ed ululava. Uno spettacolo orribile... Conrad per poco non svenne e devo dire che pure io impallidii un poco. Poi si mossero nella direzione verso cui ci stavamo dirigendo, facendoci camminare in mezzo a loro, con le mani legate dietro la schiena e le lance che ci minacciavano. Portarono anche il nostro scarso equipaggiamento, ma dal modo con cui trasportavano le nostre armi non credo che sapessero a cosa servissero. A malapena qualche parola era stata scambiata tra quegli uomini, e quando mi rivolsi a loro in vari dialetti ricevetti in risposta il punzecchiare di una punta di lancia. Il loro silenzio era un po' spettrale e nel complesso orribile. Mi sembrava di essere stato catturato da una banda di fantasmi. «Non sapevo cosa pensare di loro. Avevano l'aspetto dell'Oriente attorno a loro, ma di nessun Oriente con cui avevo familiarità, se mi capite. L'Africa appartiene all'Oriente, ma non è la stessa cosa. Non sembravano più africani di quanto lo potesse sembrare un cinese. È difficile da spiegare. Però dirò questo: Tokyo è orientale così come lo è Benares, però Benares simboleggia una fase diversa dell'Oriente, più vecchia, mentre Pechino ne rappresenta ancora un'altra, ancora più antica. Questi uomini appartenevano ad un Oriente che non avevo mai conosciuto; facevano parte di un Est più antico della Persia - più antico dell'Assiria - più antico di Babilonia! Lo percepivo attorno a loro come un aura e rabbrividii per l'abisso di tempo che simboleggiavano. Ma al contempo tutto ciò mi affascinava. Sotto le volte gotiche di una giungla primitiva, spinto dalle lance di silenziosi Orientali la cui stirpe era stata dimenticata solo Dio sa da quanti eoni, un uomo può ben iniziare a fantasticare. Quasi mi chiesi se queste persone fossero reali, oppure gli spettri di guerrieri morti da quattromila anni! «Gli alberi iniziarono a diradarsi ed il terreno a salire. Finalmente giungemmo ad una specie di strapiombo e vedemmo qualcosa che ci fece rimanere a bocca aperta. Stavamo osservando una grande vallata interamente circondata da alte e ripide pareti attraverso le quali diversi torrenti avevano scavato stretti canyon che alimentavano un lago piuttosto grande al
centro della valle. In mezzo al lago si trovava un'isola e sull'isola un tempio e sulla riva opposta del lago una città! E non era affatto un villaggio di fango e bambù dei nativi. Sembrava di pietra, di un colore giallo-bruno. «La città era circondata da mura e consisteva di case squadrate dal tetto piatto, alte apparentemente tre o quattro piani. Tutte le sponde del lago erano coltivate ed i campi erano verdi e floridi, alimentati da canali artificiali. Avevano un sistema di irrigazione che mi stupì. Però la cosa più sorprendente era il tempio sull'isola. «Boccheggiai, rimasi senza fiato e strabuzzai gli occhi. Era la Torre di Babele in persona! Né alta né grossa come me la sarei immaginata, ma alta circa dieci piani, e tetra e massiccia proprio come nelle raffigurazioni, con la stessa intangibile impressione di malvagità sospesa su di essa. «Poi, mentre eravamo là, da quella enorme massa di pietra giunse attraverso il lago quel profondo e risonante rombo - adesso chiaro e vicino - e le pareti stesse sembrarono tremare per le vibrazioni di quell'aria carica di musica. Rivolsi una rapida occhiata a Conrad; sembrava completamente disorientato. Apparteneva a quella categoria di scienziati che pretendono di avere l'intero universo classificato ed incasellato, con ogni cosa nel suo esatto posto. Per Giove! Li mette fuori combattimento il trovarsi di fronte al "paradossale-inspiegabile-non-potrebbe-esistere" più di quanto avvenga per un tizio comune come voi e me, che non possiede così tante idee preconcette sulle cose in generale. «I soldati ci scortarono lungo una scalinata intagliata nella solida roccia della parete, ed attraversammo campi irrigati dove uomini dalla testa rasata e donne dagli occhi scuri interruppero il loro lavoro per fissarci con occhiate incuriosite. Ci portarono fino ad un grande cancello con i rinforzi di ferro dove un piccolo drappello di soldati, equipaggiato come i nostri catturatori, li fermò: dopo un breve scambio di battute fummo scortati dentro la città. Era molto simile a qualsiasi altra città dell'Oriente - uomini, donne e bambini in frenetico movimento, intenti a discutere, comprare e vendere. Però tutto sommato aveva lo stesso effetto di lontananza, di enorme antichità. Non riuscivo a classificare l'architettura più di quanto riuscissi a comprendere il linguaggio. L'unica cosa a cui riuscivo a pensare, mentre fissavo quei tozzi edifici squadrati, erano le capanne che certe bastarde popolazioni d'infima casta costruivano nella valle dell'Eufrate in Mesopotamia. Capanne che potevano essere una degradata evoluzione dell'architettura di quella strana città africana. «I nostri catturatori ci portarono direttamente verso l'edificio più grande
della città, e mentre marciavamo lungo le vie scoprimmo che le case e le pareti non erano in realtà fatte di pietra, ma di una sorta di mattoni. Fummo condotti in una specie di enorme edificio con colonne davanti alle quali erano schierate file di soldati silenziosi, e portati di fronte ad una piattaforma da cui partivano ampi gradini. Guerrieri armati erano disposti dietro e su entrambi i lati di un trono, uno scriba era sistemato di fianco, e ragazze con abiti di piume di struzzo erano mollemente distese sugli ampi gradini, e sul trono sedeva un diavolo dagli occhi cupi che, unico tra tutti gli uomini di quella fantastica città, portava i capelli lunghi. Aveva la barba nera, indossava una specie di corona e sfoggiava la più arrogante e crudele delle facce che avessi mai visto su di un uomo. Uno sceicco arabo od un pascià turco erano degli agnellini nei suoi confronti. Mi ricordava l'idea che qualche artista aveva avuto di Baldassarre o dei Faraoni - un re che era più di un re nella sua stessa concezione ed agli occhi del suo popolo - un re che era allo stesso tempo re, supremo sacerdote e dio. «La nostra scorta si prostrò prontamente davanti a lui battendo la fronte sulle stuoie distese sul pavimento fino a quando il re non rivolse una languida parola allo scriba che fece loro cenno di alzarsi. Si sollevarono, ed il capo iniziò una lunga tiritera rivolto al re, mentre lo scriba scalfiva come un matto una tavoletta d'argilla e Conrad ed io eravamo lì impalati a bocca aperta come una coppia di dannati idioti, chiedendoci che cosa stesse dicendo. Poi udii ripetutamente una parola, ed ogni volta che veniva pronunciata il capo della scorta indicava noi due. La parola suonava come "Akkadi", ed improvvisamente il mio cervello turbinò di fronte a ciò che poteva significare. Non poteva essere... eppure lo era! «Non volendo interrompere la conversazione e magari rischiare di perdere la mia maledetta testa non dissi nulla, ed alla fine il re fece un cenno e parlò, i soldati si inchinarono nuovamente e ci afferrarono portandoci rudemente dalla sala del trono ad un corridoio a colonne, poi attraverso un enorme sala fino ad una piccola cella dove ci spinsero dentro e sprangarono la porta. C'era solo una pesante panca ed una finestra, chiusa molto bene. «"Per l'amor del cielo, Bill," esclamò Conrad, "chi avrebbe mai potuto immaginare qualcosa di simile? È come un incubo... o una storia delle Mille e Una Notte! Dove siamo? Chi è questa gente?" «"Non mi crederesti", dissi, "però... hai mai sentito parlare dell'antico impero sumero?" «"Sicuro; fiorì in Mesopotamia circa quattromila anni fa. Però cosa... per
Giove!", s'interruppe bruscamente, fissandomi con occhi spalancati quando il collegamento lo colpì. «"E lascio a te la spiegazione di cosa ci facciano in Africa Orientale i discendenti di un regno dell'Asia Minore", dissi cercando la mia pipa, "però deve essere così... i Sumeri costruivano le loro città con mattoni cotti al sole. Ho visto uomini fare mattoni ed impilarli a seccare lungo le sponde del lago. Il fango è sorprendentemente simile a quello che si trova nelle valli del Tigri o dell'Eufrate. Molto probabilmente è il motivo per cui questa gente si è sistemata qui. I Sumeri scrivevano su tavolette d'argilla graffiandone la superficie con qualcosa di appuntito proprio come quel tizio stava facendo nella sala del trono. «"E poi osserva le loro armi, abiti e fisionomia. Ho visto le loro opere d'arte incise nella pietra e sui vasi e mi ero chiesto se quei grossi nasi facessero parte dei loro visi o dei loro elmetti. E guarda quel tempio nel lago! Una replica in piccolo del tempio eretto al dio El-Lil a Nippur... che probabilmente diede origine al mito della Torre di Babele. «"Però la prova decisiva è il fatto che ci abbiano considerati Akkadi. Il loro impero venne conquistato e soggiogato da Sargon degli Akkadi nel 2750 a.C. Se questi sono i discendenti di un gruppo che fuggì di fronte ai conquistatori, è naturale che, bloccati in questo posto e separati dal resto del mondo, siano giunti a chiamare tutti gli stranieri Akkadi, proprio come certe isolate nazioni dell'Oriente chiamano tutti noi europei Franchi, in ricordo dei guerrieri di Carlo Martello che li sconfissero a Tours." «"Come ti spieghi il fatto che a tutt'oggi non siano ancora stati scoperti?" «"Beh, se qualche uomo bianco è stato qui prima d'ora, loro avranno usato molta attenzione affinché non se ne andasse di qua a raccontare la loro storia. Dubito che si muovano molto; probabilmente credono che il mondo esterno sia pieno di Akkadi assetati di sangue." «In quel momento si aprì la porta della nostra cella ed entrò una giovane e snella fanciulla, vestita solo con un gonnellino di seta ed un pettorale dorato. Ci portò del cibo e del vino, ed io notai come indugiasse con il suo sguardo su Conrad. E con mia sorpresa ci parlò in un buon somalo. «"Dove siamo?", chiesi. "Che cosa hanno intenzione di fare? Chi sei tu?" «"Io sono Naluna, la danzatrice di El-Lil," rispose la ragazza - e lo sembrava veramente - flessuosa come una pantera femmina qual era. "Mi spiace vedervi in questo luogo; nessun Akkade se ne va via di qui, vivo." «"Bella gente amichevole," grugnii io, ma al contempo felice di aver
trovato qualcuno con il quale parlare e capirsi. "E qual è il nome di questa città?" «"Questa è Eridu," disse lei. "I nostri antenati giunsero qui molto tempo fa dall'antica Sumeria, molte lune ad oriente. Furono scacciati da un re grande e potente, Sargon degli Akkadi... gente del deserto. Però i nostri antenati non volevano diventare schiavi come altri dei loro, così fuggirono a migliaia in un unico grande gruppo, ed attraversarono molti strani e selvaggi paesi prima di giungere in questa terra." «Oltre ciò le sue conoscenze erano molto vaghe e mescolate a miti ed improbabili leggende. Conrad ed io ne discutemmo successivamente, chiedendoci se i vecchi Sumeri fossero arrivati seguendo la costa occidentale dell'Arabia ed attraversando il Mar Rosso all'incirca dove oggi si trova Moka, o se attraversarono l'istmo di Suez scendendo poi lungo il lato africano. Io propendo di più per questa seconda ipotesi. Probabilmente gli Egiziani li incontrarono mentre giungevano dall'Asia Minore, e li scacciarono verso sud. Conrad pensava che potessero aver compiuto la maggior parte del viaggio sull'acqua perché, disse lui, il Golfo Persico si trovava quasi duecento chilometri più distante di dove è adesso, e la vecchia Eridu era una città portuale. Però proprio in qual momento qualcos'altro mi passò per la mente. «"Dove hai imparato a parlare il somalo?", chiesi a Naluna. «"Quand'ero piccola," rispose lei, "uscii dalla valle e finii nella giungla dove una banda di predoni negri mi catturò. Mi vendettero ad una tribù che viveva vicino alla costa e trascorsi la mia infanzia tra di loro. Però quando divenni una ragazza mi ricordai di Eridu ed un giorno rubai un cammello ed attraversai molte leghe di veldt e di giungla arrivando infine nella città che mi vide nascere. In tutta Eridu solo io sono capace di parlare un lingua che non sia la mia, tranne gli schiavi negri... ma loro non parlano affatto, perché tagliamo loro la lingua quando li catturiamo. La gente di Eridu non va oltre la giungla e non commercia con le genti di colore che alle volte vengono contro di noi, se non per prendere qualche schiavo." «Le chiesi perché avevano ucciso il nostro servitore e lei disse che ad Eridu era proibita l'unione tra bianchi e neri e che al frutto di tale unione non era permesso vivere. Quella gente non aveva apprezzato il colore della pelle del poveretto. «Naluna poté dirci poco della storia della città dalla sua fondazione, tranne gli eventi accaduti a sua memoria, che riguardavano principalmente sporadiche razzie di una tribù di cannibali che viveva nella giungla a sud,
piccoli intrighi della corte e del tempio, cattivi raccolti e cose simili - lo scopo della vita di una donna in Oriente è sempre molto simile, sia che si trovi nel palazzo di Akbar, di Ciro o di Assurbanipal. Però appresi che il nome del re era Sostoras e che era allo stesso tempo supremo sacerdote e re - proprio come lo erano i regnanti nella vecchia Sumeria, quattromila anni prima. El-Lil era il loro dio e dimorava nel tempio nel lago ed il profondo rimbombo che avevamo udito era, così disse Naluna, la voce del dio. «Alla fine si alzò per andarsene, lanciando un'occhiata malinconica verso Conrad che sedeva come un uomo in trance... per una volta i suoi dannati insetti che non gli affollavano la mente. «"Beh," dissi io, "cosa ne pensi, giovanotto?" «"È incredibile," disse lui, scuotendo il capo. "È assurdo... una tribù civilizzata che ha vissuto qui per quattromila anni e non è mai avanzata oltre il livello dei suoi antenati." "Sei vittima della fissa del progresso," gli dissi cinicamente caricando la pipa di tabacco. "Stai pensando alla crescita fulminea del tuo paese. Non puoi generalizzare sull'Oriente con il punto di vista dell'occidentale. Cosa dire allora del famoso lungo sonno della Cina? E per quanto riguarda questi qua, dimentichi che non sono una tribù, ma la parte finale di una civiltà che è durata più a lungo di qualunque altra da allora. Avevano superato il culmine del loro progresso già migliaia di anni fa. Senza rapporti con il mondo esterno e senza nuovo sangue che li stimolasse, questa gente sta lentamente regredendo lungo la scala dell'evoluzione. Scommetto che la loro arte e cultura sono di molto inferiori a quelle dei loro antenati." «"Allora perché non sono passati alla barbarie completa?" «"Forse è successo, a tutti gli effetti pratici," risposi, iniziando ad aspirare dalla mia vecchia pipa. "Non mi danno molto l'impressione di essere l'esempio migliore di discendenza da una antica ed onorevole civiltà. Però ricorda che crebbero lentamente e la loro regressione è destinata ad essere ugualmente lenta. La cultura sumera era insolitamente virile. La sua influenza è sentita tutt'oggi in Asia Minore. I Sumeri avevano la loro civiltà mentre i nostri giovani antenati se la vedevano con orsi delle caverne e tigri dai denti a sciabola, tanto per fare un esempio. Od almeno gli Europei non avevano superato le prime tappe sulla via del progresso, chiunque fossero i loro vicini animali. La vecchia Eridu era un porto marino di rilievo fin dal 6500 a.C. Da allora al 2750 a.C. è un bel po' di tempo per qualunque impero. Quale altra civiltà è durata a lungo come quella sumera? La
dinastia degli Akkadi instaurata da Sargon durò duecento anni prima di essere rovesciata da un altro popolo semitico, i Babilonesi, che presero in prestito la loro cultura dagli Akkadi-Sumeri, proprio come i Romani più tardi ottennero la loro dai Greci; la dinastia Elamitica-Kassita soppiantò l'originale Babilonese, seguita da quella Assira e dalla Caldea... beh, conosci la rapida successione delle dinastie nell'Asia Minore, un popolo semita che ne rovesciava un altro, fino a quando i veri conquistatori apparvero all'orizzonte orientale - i Medi ed i Persiani - destinati a durare appena un po' più a lungo delle loro vittime. «"Confronta ciascuno di quei reami sfuggenti con il lungo regno di sogno degli antichi Sumeri presemitici! Noi pensiamo che l'Età Minoica di Creta sia molto indietro nel tempo, ma l'impero Sumero di Erech stava già iniziando a decadere prima dell'ascesa al potere della Nippur sumerica, prima che gli antenati dei Cretesi emergessero dall'Età Neolitica. I Sumeri avevano qualcosa di cui i successivi Hamiti, Semiti ed Ariani erano sprovvisti. Avevano la stabilità. Crescevano lentamente, e se lasciati in pace sarebbero decaduti altrettanto lentamente, come sta accadendo a questa gente. Però noto che questi un progresso l'hanno conseguito... hai notato le loro armi? «"I vecchi Sumeri appartenevano all'Età del Bronzo. Gli Assiri furono i primi ad usare il ferro per qualcosa che non fosse ornamenti. Invece questi tizi hanno imparato a lavorare i minerali ferrosi, oserei dire." «"Però il mistero dei Sumeri permane ancora," s'intromise Conrad. "Chi sono? Da dove sono venuti? Alcuni esperti sostengono che fossero di origine Dravidica, affini ai Baschi..." «"Non me la danno a bere, ragazzo," dissi io. "Persino ammettendo il possibile mescolamento di sangue ariano o turaniano nei discendenti dravidici, puoi renderti conto con un'occhiata che questa gente non appartiene alla stessa razza." «"Però il loro linguaggio..." iniziò a controbattere Conrad, il che è un buon modo per passare il tempo mentre aspetti di essere messo in pentola, ma non porta a nulla se non a rafforzare le tue idee originali. «Naluna ritornò nuovamente verso il tramonto con dell'altro cibo, e questa volta si sedette vicino a Conrad e lo osservò mentre mangiava. Vedendola seduta in quel modo, i gomiti sulle ginocchia ed il mento sul palmo delle mani, che lo divorava con i suoi grandi e luminosi occhi scuri, dissi al professore in inglese, così che lei non potesse capire: "La ragazza è completamente cotta di te; falle un po' di corte. Lei è la nostra unica spe-
ranza." «Lui arrossì come una scolaretta. "Ho una fidanzata negli Stati Uniti." «"Al diavolo la tua fidanzata," dissi. "È la tua fidanzata che ci permetterà di continuare ad avere le nostre maledette testacce sulle spalle? Ti dico che quella ragazza è cotta di te. Chiedile cosa ci faranno." «Obbedì e Naluna disse: "Il vostro destino è nelle mani di El-Lil." «"E nella testa di Sostoras," borbottai io. "Naluna, cosa ne è stato delle armi che ci sono state prese?" «Lei replicò che erano state appese nel tempio di El-Lil come trofei di vittoria. Nessuno dei Sumeri era consapevole della loro funzione. Le chiesi se i nativi che alle volte avevano combattuto avessero mai usato armi da fuoco e lei disse di no. Potevo facilmente crederle, dato che c'erano molte tribù selvagge in queste terre che raramente avevano visto anche un solo bianco. Però sembrava incredibile che alcuni degli Arabi che avevano depredato in lungo e in largo la Somalia per mille anni non si fossero imbattuti in Eridu e non l'avessero attaccata. Ma si rivelò una cosa vera... proprio una di quelle particolari coincidenze e stranezze del caso, come i lupi ed i gatti selvatici che si trovano ancora nello stato di New York, o quelle strane genti pre-ariane che si incontrano in certe piccole comunità delle colline di Connaught e di Galway. Sono sicuro che grosse razzie di schiavi siano passate a pochi chilometri da Eridu, eppure gli Arabi non l'avevano mai scoperta né avevano lasciato in essa impresso il significato delle armi da fuoco. «Così dissi a Conrad: "Falle un po' di corte, testa di legno! Se riesci a persuaderla di passarci un'arma, avremo alméno una leale possibilità." «Così Conrad si fece coraggio ed iniziò a parlare a Naluna in maniera piuttosto nervosa. Come se la sia cavata, non posso dirlo, perché aveva ben poco del Don Giovanni, ma Naluna si rannicchiò contro il ragazzo, con suo grande imbarazzo, ascoltando il suo. incespicante somalo con l'anima riflessa negli occhi. Nell'Oriente sbocciò improvvisamente ed inaspettato l'amore. «Tuttavia una voce perentoria fuori dalla cella fece sobbalzare Naluna e la costrinse ad affrettarsi, ma mentre usciva strinse la mano di Conrad e gli sussurrò qualcosa nell'orecchio che non riuscimmo a capire, ma che sembrò molto passionale. «Poco dopo che fu uscita, la cella si aprì nuovamente e comparve una fila di silenziosi guerrieri dalla carnagione scura. Una specie di capo, che gli altri appellavano Gorat, ci fece cenno di uscire. Poi prendemmo un lungo
corridoio sostenuto da colonne e fiocamente illuminato, perfettamente silenzioso se non per il sottile sfregamento dei loro sandali ed il calpestio dei nostri stivali sul pavimento di mattonelle. Ogni tanto una torcia ardeva sul muro o in una nicchia delle colonne illuminando vagamente la via. Alla fine uscimmo nelle strade vuote delle città silenziosa. Nessuna sentinella pattugliava le vie o le mura, nessuna luce proveniva dall'interno delle case dai tetti piatti. Era come camminare per le strade di una città fantasma. Se ogni notte di Eridu fosse simile a questa o se la gente stesse in casa perché si trattava di un evento speciale e terrificante, non ne avevo assolutamente idea. «Seguimmo il percorso verso il lago. Poi attraversammo un piccolo cancello nelle mura - sul quale notai, con un leggero brivido, che era scolpito un teschio ghignante - e ci ritrovammo fuori dalla città. Un'ampia scalinata conduceva alla sponda del lago e le lance alle nostre schiene ci guidarono lungo di essa. Là ci attendeva una barca, una strana cosa dalla prua alta il cui prototipo doveva aver solcato il Golfo Persico ai tempi della vecchia Eridu. «Quattro negri erano ai remi e quando aprirono la bocca vidi che le loro lingue erano state mozzate di netto. Fummo fatti salire sulla barca, le nostre guardie salirono anch'esse ed iniziammo uno strano viaggio. Ci muovevamo sul lago silenzioso come in un sogno la cui quiete era rotta solo dal basso sciabordio dei lunghi ed affusolati remi dai bordi dorati che s'immergevano nelle acque. Le stelle punteggiavano l'abisso blu scuro del lago con chiazze argentee. I negri nudi e muti tuffavano i remi scintillanti ed i silenziosi guerrieri sedevano di fronte e dietro di noi con le loro lance, elmi e scudi. Era come il sogno di qualche favolosa città dei tempi di Harun-al-Rashid o di Soliman-ben-Daud, ed io pensai di come dannatamente incongruenti fossimo Conrad ed io in quello scenario con i nostri stivali e gli abiti cachi laceri e sporchi. «Sbarcammo sull'isola e vedemmo che era circondata da una muraglia che si ergeva dal bordo dell'acqua ed era interrotta da ampie rampe di scale che attorniavano l'intera isola. Tutto l'insieme sembrava più antico persino della città... i Sumeri dovevano aver costruito il tempio subito dopo aver scoperto la valle, prima ancora di iniziare ad erigere la città stessa. «Salimmo i gradini consumati dal passaggio di un numero incalcolabile di piedi, fino ad un enorme paio di porte in ferro nel tempio, e qui Gorat poggiò per terra la sua lancia e lo scudo e si prostrò e batté la testa sulla grande soglia. Qualcuno doveva stare osservando da uno spioncino, perché
dalla sommità della torre risuonò una profonda nota dorata e le porte si spalancarono silenziosamente rivelando un ingresso fiocamente illuminato dalla luce di alcune torce. Gorat si rialzò e ci fece da guida, noi lo seguimmo con quelle maledette lance che ci punzecchiavano la schiena. Salimmo una rampa di scale e giungemmo ad una serie di gallerie costruite all'interno di ciascun livello e che si snodavano tutt'attorno verso l'alto. Alzando lo sguardo, la torre sembrava molto più alta e più grande di quanto lo fosse dall'esterno e la vaga tetraggine semi illuminata, il silenzio ed il mistero mi fecero rabbrividire. Il viso di Conrad brillava bianco nella semioscurità. Le ombre di epoche passate si affollavano attorno a noi, caotiche ed orribili, e sentii come se gli spettri di tutti i sacerdoti e delle loro vittime che avevano percorso quelle gallerie per quattromila anni fossero al nostro fianco. Le vaste ali di dèi oscuri e dimenticati si libravano sopra quell'odioso mucchio di antichità. «Giungemmo all'ultimo piano. Là si ergevano tre cerchi di alte colonne, uno dentro l'altro - e devo dire che per essere colonne fatte con mattoni cotti al sole erano curiosamente simmetriche. Però non possedevano, per esempio, alcuna della grazia e della evidente bellezza dell'architettura greca. Questa era cupa, tetra, mostruosa - qualcosa di simile all'egiziana, non proprio così massiccia, ma comunque più formidabile nella sua asprezza un'architettura simboleggiante un'epoca in cui gli uomini erano ancora all'ombra dell'alba della Creazione e sognavano di divinità mostruose. «Sopra il cerchio di colonne più interno, si trovava un tetto a volta, quasi una cupola. Come avessero fatto a costruirlo o come fossero riusciti ad anticipare i costruttori romani di così tanto tempo, non sono in grado di dirlo, perché era una differenza sorprendente dal resto del loro stile architettonico, ma era lì. E da quel tetto a cupola pendeva un grande oggetto rotondo e luccicante che catturava la luce delle stelle in una rete argentea. In quel momento seppi che cosa avevamo seguito per così tanti chilometri! Era un grande gong... la voce di El-Lil. Sembrava fatto di giada, ma ancora adesso non ne sono troppo sicuro. Però, qualunque cosa fosse, era il simbolo sul quale la fede ed il culto dei Sumeri dipendeva - il simbolo principale del dio stesso. E seppi che Naluna aveva ragione quando ci disse che i suoi antenati lo avevano portato con loro in quel lungo viaggio estenuante, ere fa, quando fuggirono di fronte ai selvaggi predoni di Sargon. E per quanti eoni prima di quel tempo oscuro deve essere rimasto appeso nel tempio di El-Lil a Nippur, Erech o la Vecchia Eridu, facendo risuonare la sua dolce minaccia o promessa sulle sognanti valli dell'Eufrate od attraverso la spu-
ma verde del Golfo Persico! «Ci fecero fermare proprio all'interno del primo anello di colonne e da qualche parte tra le ombre, simile ad un ombra stessa del passato, giunse il vecchio Sostoras, il re-sacerdote di Eridu. Indossava una lunga veste verde ricoperta di scaglie simili alla pelle di un serpente che guizzava e scintillava ad ogni suo passo. Sul capo portava un copricapo di piume ondeggianti ed in mano teneva una mazza dorata dal lungo manico. «Colpì leggermente il gong, ed ondate dorate di suoni fluirono su di noi come un maroso soffocante nella sua dolcezza esotica. Poi comparve Naluna. Non seppi mai se comparve da dietro le colonne o da qualche botola nel pavimento. Un momento lo spazio di fronte al gong era vuoto, quello successivo lei stava danzando come un raggio di luna su di uno specchio d'acqua. Indossava leggerissimi veli scintillanti che a malapena coprivano il suo corpo sinuoso e le membra snelle. E Naluna danzò davanti a Sostoras ed El-Lil, come donne della sua razza avevano danzato nella vecchia Sumeria quattromila anni prima. «Non riesco a descrivere quella danza. Mi fa gelare e vibrare ed ardere dentro. Udii il respiro di Conrad uscire in rantoli e lo vidi tremare come una canna al vento. Da qualche parte giungeva una musica che era antica quando Babilonia era giovane, musica elementale come il fuoco negli occhi di una tigre femmina e inumana, come una notte africana. E Naluna danzava. Il suo ballo era un turbinio di fuoco e di vento, di passione e di tutte le forze degli elementi. Traeva i principi fondamentali dalle cose basilari, primarie, ricombinandoli in un unico movimento turbinante. Restringeva il significato dell'universo alla punta di un pugnale, ed i suoi piedi fluttuanti ed il corpo lucente intessevano i labirinti di quell'unico Pensiero centrale. La sua danza stordiva, esaltava, faceva impazzire ed ipnotizzava. «E mentre lei danzava e piroettava, era l'Essenza degli elementi, una e anche parte di tutti i possenti impulsi e delle potenze dormienti o mobili il sole, la luna, le stelle, il cieco aggrovigliarsi di radici nascoste alla luce, il fuoco dalla fornace, le scintille dall'incudine, l'alito del daino, gli artigli dell'aquila. Naluna danzava ed il suo ballo era il Tempo e l'Eternità, l'impulso della Creazione e l'impulso della Morte; nascita e distruzione allo stesso tempo, vecchiaia e fanciullezza insieme. «La mia mente confusa si rifiutava di cogliere altre impressioni; la ragazza si confondeva in un turbinante lampo di fuoco bianco davanti ai miei occhi annebbiati; poi Sostoras fece emettere alla Voce una nota leggera e Naluna cadde ai suoi piedi, una tremante ombra bianca. In quel momento
la luna stava iniziando a brillare oltre le cime ad Oriente. «I guerrieri afferrarono Conrad e me, legarono me ad una delle colonne esterne e trascinarono Conrad dentro il cerchio più interno, legandolo ad una colonna direttamente di fronte al grande gong. Ed io vidi Naluna, pallida nel bagliore crescente, fissarlo tesa e poi lanciare un occhiata piena di significato verso di me mentre svaniva fra le tetre colonne scure. «Il vecchio Sostoras fece un cenno e dalle ombre sopraggiunse un avvizzito schiavo negro che sembrava incredibilmente anziano. Possedeva i tratti consunti e lo sguardo vacuo di un sordomuto, ed il re-sacerdote gli passò la mazza dorata. Poi Sostoras arretrò e si mise al mio fianco, mentre Gorat si inchinava ed arretrava di un passo imitato dai suoi guerrieri. In effetti, sembravano maledettamente ansiosi di allontanarsi il più possibile dal sinistro cerchio di colonne. «Ci fu un teso momento di attesa. Scrutai verso il lago, fino alle alte pareti spoglie che circondavano la valle, verso la città silenziosa che si stendeva sotto la luna crescente. Era come una città morta. L'intera scena appariva irreale, come se Conrad ed io fossimo stati trasportati in un altro pianeta o indietro in un'epoca sepolta e dimenticata. Poi il negro muto colpì il gong. «Dapprima fu un basso e dolce mormorio, quello che fluì dai sicuri colpi di mazza del nero. Però crebbe rapidamente d'intensità. Il suono intenso, aumentato, divenne lacerante... crebbe fino a divenire insopportabile. Era più di un semplice suono. Il sordomuto evocava un tipo di vibrazione che entrava in ogni nervo e lo lacerava. Crebbe sempre più forte fino a quando non provai che la cosa più desiderabile al mondo era la sordità completa, essere come quel muto dagli occhi spenti che né udiva né percepiva il castigo del suono che stava creando. Eppure vidi del sudore imperlargli la fronte scimmiesca. Sicuramente qualche tuono di quel cataclisma cerebrale riecheggiava nella sua stessa anima. El-Lil ci parlò e la morte era nella sua voce. Sicuramente, se uno dei terribili dèi oscuri delle epoche passate avesse potuto parlare, avrebbe parlato proprio con quella lingua! Non c'era misericordia, pietà o debolezza nel suo ruggito. Era l'affermazione di un dio cannibale per il quale l'umanità non era altro che un giocattolo od una marionetta da far ballare con i fili. «Il suono può diventare troppo basso, troppo acuto o troppo forte da poter essere percepito dall'orecchio umano. Non così era per la Voce di ElLil, creata in qualche epoca inumana quando oscuri stregoni sapevano come distruggere il cervello, il corpo e l'anima. La sua profondità era insop-
portabile, il suo volume era insopportabile, eppure l'orecchio e l'animo erano profondamente sensibili alla sua risonanza e non divenivano pietosamente insensibili ed intorpiditi. E la sua terribile dolcezza era oltre la sopportazione umana; ci sommergeva in una soffocante ondata sonora dotata però di aguzze zanne dorate. Gemetti e mi divincolai in un'agonia fisica. Dietro di me mi resi conto che persino il vecchio Sostoras si copriva le orecchie con le mani e che Gorat strisciava al suolo, schiacciando il viso sul pavimento. «E se aveva questo effetto su di me, che mi trovavo appena all'interno del magico cerchio delle colonne e su quei Sumeri che erano appena oltre l'anello, chissà cosa stava facendo a Conrad, che era all'interno della parte centrale e sotto quel tetto a volta che amplificava ogni nota? «Fino al giorno della sua morte, Conrad non sarà mai più vicino alla follia ed alla morte di quanto lo fu allora. Legato, si contorceva come un serpente con la schiena spezzata; il suo viso era orribilmente distorto, i suoi occhi dilatati e la schiuma gli contornava le labbra livide. Però in quell'inferno di agonizzante suono dorato non potevo udire nulla... potevo solo vedere la sua bocca spalancata e le sue flaccide labbra schiumanti aperte e vibranti come quelle di un imbecille. Però sapevo che stava ululando come un cane morente. «O, come erano più misericordiosi i pugnali sacrificali dei Semiti. Persino la lurida fornace di Moloch era migliore della morte promessa da quella vibrazione lacerante e squarciante che armava con artigli velenosi le onde sonore. Sentivo il mio cervello fragile come un bicchiere ghiacciato. Sapevo che ancora pochi secondi in più di quella tortura ed il cervello di Conrad si sarebbe frantumato come un calice di cristallo e che lui sarebbe morto nel nero delirio della pazzia più assoluta. Poi qualcosa mi riportò indietro dai labirinti in cui ero precipitato. Era la presa sicura di una piccola mano sulla mia, dietro la colonna alla quale ero stato legato. Sentii tirare le corde come se la lama di un coltello fosse fatta passare dietro i legacci e poi le mie mani furono libere. Sentii premere qualcosa nella mano ed una feroce esultanza s'impadronì di me. Avrei riconosciuto il familiare calcio zigrinato della mia Webley .44 tra mille! «Agii con una rapidità che colse di sorpresa tutti quanti. Mi allontanai dalla colonna ed abbattei il negro muto con un proiettile nel cervello, mi girai e sparai nella pancia del vecchio Sostoras. Questi cadde schizzando sangue ed io vomitai una raffica diritto in mezzo allo stupefatto gruppo di soldati. A quella distanza non potevo mancarli. Tre caddero e gli altri si
svegliarono e si dispersero come uno stormo di uccelli. In un secondo il luogo fu deserto tranne che per Conrad, Naluna e me e gli uomini sul pavimento. Era come un sogno, gli echi degli spari che ancora rimbombavano e l'acre odore della polvere da sparo e del sangue che tagliava l'aria. «La ragazza liberò Conrad che cadde sul pavimento lamentandosi come un imbecille morente. Lo scossi, ma aveva uno sguardo fisso negli occhi e stava schiumando come un cane idrofobo, così lo sollevai, gli passai un braccio sotto il suo e mi diressi verso le scale. Non eravamo ancora fuori dai guai, anzi. Scendemmo quelle ampie gallerie scure e tortuose aspettandoci ad ogni istante un'imboscata, ma i soldati dovevano ancora essere spaventati a morte, perché uscimmo da quel tempio infernale senza alcuna interferenza. Conrad collassò proprio oltre il portale di ferro ed io cercai di dirgli qualcosa, ma non riusciva né a parlare né a sentire. Mi rivolsi a Naluna. «"Non puoi fare niente per lui?" «I suoi occhi s'illuminarono alla luce della luna. "Non ho sfidato il mio popolo ed il mio dio tradendo il mio culto e la mia razza per nulla! Ho rubato l'arma di fuoco e fumo e ti ho liberato, non è vero? Lo amo ed ora non lo perderò di certo!" «Schizzò verso il tempio e ne uscì quasi istantaneamente con una brocca di vino. Affermò che aveva poteri magici. Non ci credo. Ritengo che Conrad stesse semplicemente soffrendo di un specie di trauma per essere stato troppo vicino a quello spaventoso rumore, e che l'acqua del lago avrebbe sortito gli stessi effetti del vino. Però Naluna versò quel liquido tra le labbra dell'uomo rovesciandogliene anche un po' sulla testa, e ben presto Conrad gemette ed imprecò. «"Visto!", strillò trionfante la ragazza, "Il vino magico ha scacciato l'incantesimo che El-Lil aveva lanciato su di lui!" Poi gli serrò le braccia attorno al collo e lo baciò vigorosamente. «"Mio Dio, Bill," gemette lui, mettendosi a sedere e stringendosi il capo, "che razza di incubo è mai questo?" «"Ce la fai a camminare vecchio mio?", gli chiesi, "Credo che abbiamo smosso un bel vespaio e che faremmo meglio a squagliarcela da qui." «"Cercherò." Si alzò barcollando, con Naluna ad aiutarlo. Udii un fruscio sinistro e un sussurro provenire dalla nera bocca del tempio e ritenni che i guerrieri ed i sacerdoti si stessero facendo coraggio per attaccarci. Scendemmo i gradini in tutta fretta fin dove erano attraccata la barca che ci avevano portato sull'isola. Neppure i rematori negri erano rimasti. Un'ascia
ed uno scudo erano sul fondo dell'imbarcazione ed io presi l'ascia ed aprii dei buchi sul fondo delle altre barche che erano legate vicino alla nostra. «Nel frattempo il grande gong aveva iniziato a tuonare nuovamente e Conrad gemette e tremò ogni volta che una cadenza sonora gli stimolava i nervi. Questa volta si trattava di un segnale d'allarme ed io vidi luci accendersi nella città ed udii un improvvisa serie di grida provenire dal lago. Qualcosa sibilò soffocato accanto alla mia testa e si immerse nell'acqua. Una rapida occhiata mi mostrò Gorat sulla soglia del tempio che tendeva il suo pesante arco. Balzai nella barca, Naluna aiutò Conrad a salire e ci allontanammo in tutta fretta accompagnati da molte altre frecce scagliate da quel simpaticone di Gorat, una delle quali strappò una ciocca di capelli dalla bella chioma di Naluna. «Mi misi ai remi mentre Naluna si sistemò al timone e Conrad, molto provato, si distese sul fondo della barca. Vedemmo una flottiglia di imbarcazioni uscire dalla città e quando un raggio di luna ci rese visibili, esplose un urlo di ira concentrata che mi gelò il sangue nelle vene. Ci dirigevamo verso la riva opposta del lago ed avevamo un forte vantaggio, però in questo modo eravamo costretti a circumnavigare l'isola e l'avevamo appena lasciata a poppa quando da dietro qualche angolo uscì una scialuppa con sei guerrieri... vidi Gorat a prua con quei suoi maledetti uomini. «Non avevo cartucce di scorta così giocai tutte le mie carte e Conrad, piuttosto verde in volto, prese lo scudo e lo issò a poppa, il che fu la nostra salvezza, perché Gorat rimase a portata d'arco per tutto il tempo che impiegammo ad attraversare il lago e riempì di frecce quello scudo tanto da farlo sembrare un dannato porcospino. Avreste potuto pensare che ne avessero avuto abbastanza dopo il macello che avevo compiuto sul tetto, ma erano alla nostra caccia come cani dietro una lepre. «Avevamo un discreto vantaggio su di loro, ma i cinque rematori di Gorat lanciavano la sua imbarcazione sull'acqua come un cavallo da corsa e quando sbarcammo sulla riva non erano a più di una mezza dozzina di balzi dietro di noi. Mentre uscivamo dalla barca vidi che potevamo resistere combattendo sulla riva ed essere abbattuti in uno scontro frontale, oppure essere trafitti come conigli mentre correvamo. Dissi a Naluna di correre, ma lei rise ed estrasse un pugnale... proprio la compagna degna di un uomo, quella ragazza! «Gorat e la sua ciurma sbarcarono con un inferno di grida ed agitando i remi... sciamarono sull'acqua come un gruppo di pirati sanguinari e così iniziò la battaglia! Gorat ebbe la fortuna dalla sua alla prima mossa, perché
lo mancai ed uccisi l'uomo dietro di lui. Il cane batté a vuoto ed io mollai la Webley ed afferrai l'ascia proprio mentre si avvicinavano. Per Giove! Mi ribolle ancora il sangue al pensiero della violenza estremamente incerta di quel combattimento! Li affrontammo nell'acqua fino al ginocchio, corpo a corpo, petto contro petto! «Conrad spaccò la testa ad uno con una pietra che aveva preso dall'acqua, mentre con la coda dell'occhio, nello stesso momento in cui sferravo un colpo alla testa di Gorat, vidi Naluna balzare come una pantera su di un altro e cadere entrambi in un turbinio di gambe ed un lampo d'acciaio. La spada di Gorat stava cercando la mia vita, ma io la spinsi di lato con l'ascia e lui perse l'equilibrio e cadde, perché il fondo del lago era di solida pietra ed insidioso come il peccato. «Uno dei guerrieri mi si avventò contro con la lancia, ma inciampò sul compagno che Conrad aveva ucciso, perse l'elmo ed io gli schiantai il cranio prima che riuscisse a riprendere l'equilibrio. Gorat si era rialzato e mi cercava, mentre l'altro stava facendo oscillare la spada in entrambe le mani per un colpo mortale, ma non colpì mai perché Conrad, raccolta la lancia caduta, lo infilzò da dietro come un tordo. «La punta della spada di Gorat mi graffiò le costole quando affondò cercando il mio cuore, ma io mi girai di lato ed il suo braccio alzato si ruppe come un ramo marcio sotto il mio colpo, salvandogli però la vita. Era audace... erano tutti audaci, altrimenti non si sarebbero mai avventati contro la mia pistola. Gorat balzò come una tigre assetata di sangue, sferrando un colpo verso la mia testa. Mi abbassai ed evitai la forza piena del colpo, ma non del tutto. Mi procurò un taglio di dieci centimetri nel cuoio capelluto scoprendo l'osso... qui c'è la cicatrice che lo prova. Il sangue mi accecò ed io risposi come un leone ferito, alla cieca ed in maniera terribile, e per puro caso colpii il bersaglio. Sentii l'ascia spaccare il metallo e l'osso, il manico mi si spezzò tra le mani e Gorat cadde morto ai miei piedi in un orribile ammasso di sangue e cervello. «Mi scossi il sangue dagli occhi e mi guardai attorno alla ricerca dei miei compagni. Conrad stava aiutando Naluna ad alzarsi e lei mi sembrò ondeggiare un poco. Aveva del sangue sul petto, ma poteva provenire dal pugnale insanguinato che stringeva in una mano imbrattata fino al polso. Dio, era un po' nauseante a ripensarci adesso! L'acqua attorno a noi era ricoperta di cadaveri ed orribilmente rossa. Naluna indicò il lago quando vide avvicinarsi le barche da Eridu, ancora piuttosto lontane, ma veloci. Ci guidò di corsa lontano dalla riva. La mia ferita stava sanguinando come so-
lo un taglio alla testa poteva sanguinare, ma non ero ancora indebolito. Mi scossi il sangue dagli occhi, vidi Naluna barcollare mentre correva così cercai di cingerla con un braccio per sostenerla, ma lei mi scacciò. «Stava avanzando verso la parete rocciosa che raggiungemmo ormai senza fiato. Naluna si appoggiò a Conrad ed indicò verso l'alto con mano tremante, ansimando con grandi respiri. Capii cosa voleva dire. Una scala di corda portava verso l'alto. Feci salire Naluna per prima, seguita da Conrad. Io andai per ultimo tirandomi indietro la corda. Eravamo a circa metà strada quando le barche giunsero a riva ed i guerrieri sciamarono sulla spiaggia, scagliando frecce mentre correvano. Ma eravamo all'ombra delle pareti che rendeva la loro mira incerta e la maggior parte dei dardi caddero prima o si spezzarono sulle rocce. Uno mi colpì al braccio sinistro, ma lo strappai e non mi fermai a congratularmi con il tiratore per il suo occhio. «Una volta oltre il bordo della parete, strappai la scala di corda e la tagliai, poi mi voltai in tempo per vedere Naluna barcollare e crollare tra le braccia di Conrad. La deponemmo gentilmente sull'erba, ma anche un uomo con un occhio solo poteva vedere che stava per morire. Le tolsi il sangue dal petto e la fissai a bocca aperta. Solo una donna con un grande amore poteva aver corso così tanto e scalare quella parete con una ferita simile a quella che la ragazza aveva sotto il cuore. «Conrad le poggiò la testa sulle sue ginocchia e cercò di balbettare qualche parola, ma lei, debolmente, strinse le braccia attorno al suo collo e gli abbassò il viso contro il suo. «"Non piangere per me, amor mio," disse lei mentre la sua voce si affievoliva ad un bisbiglio. "Tu sei stato mio in precedenza, come lo sarai ancora. Nelle capanne di fango del Vecchio Fiume, prima che nascesse Sumeria, quando curavamo le greggi, eravamo una cosa sola. Nei palazzi della Vecchia Eridu, prima che dall'oriente giungessero i barbari, ci amammo. Sì, sulle sponde di questo stesso lago abbiamo veleggiato in epoche passate, vivendo ed amando, tu ed io. Così non piangere, amor mio, perché cosa è una piccola vita quando ne abbiamo conosciute così tante ed altrettante ne conosceremo? Ed in ciascuna tu sarai mio ed io tua. «"Però non indugiare oltre. Ascolta! Dal basso ruggiscono per il vostro sangue. Però dato che la scala è distrutta c'è solo un'altra strada dalla quale possono salire in cima alla parete... il luogo dal quale ti portarono nella valle. Affrettati! Riattraverseranno il lago, scaleranno la parete e ti inseguiranno, ma riuscirai a sfuggirgli se sarai rapido. E quando udrai la Voce di El-Lil, ricordati, viva o morta, Naluna ti ama con un amore più grande di
qualunque dio. «"Però un favore ti chiedo," mormorò Naluna, le labbra pesanti piegate all'ingiù come quelle di un fanciullo addormentato. «Premi, ti imploro, le tue labbra sulle mie, mio padrone, prima che le ombre mi inghiottano completamente; poi lasciami qui e vai e non piangere, o amore mio, perché che cosa è... una... piccola... vita... per... noi... che... ci... siamo... amati... in... così... tanti..." «Conrad pianse come uno sciocco neonato e così pure io, per Giuda, e spaccherò la stupida testa del primo somaro che mi prenderà in giro per questo! La lasciammo con le braccia conserte sul petto ed un sorriso sul suo bel viso, e se c'è un paradiso per i Cristiani, lei è là con i migliori di loro, lo giuro. «Beh, corremmo sotto la luce della luna e le mie ferite stavano ancora sanguinando ed ero quasi sul punto di svenire. Tutto ciò che mi faceva proseguire era una specie di istinto animalesco alla sopravvivenza, credo, perché se mai fui più vicino a distendermi a terra e morire, fu allora. Avevamo percorso oltre un chilometro quando i Sumeri giocarono la loro ultima carta. Credo che avessero capito che gli eravamo sfuggiti di mano ed avevamo troppo vantaggio per poter essere catturati. «Comunque, all'improvviso quel dannato gong iniziò a tuonare. Provai l'impulso di ululare come un cane rabbioso. Questa volta era un suono diverso. Non avevo mai visto od udito prima d'ora un gong le cui note potessero produrre così tanti significati. Era una chiamata subdola... un richiamo allettante, ma anche un comando perentorio a ritornare. Minacciava e prometteva allo stesso tempo; se la sua attrazione era stata grande in precedenza, quando eravamo in quella torre di Babele e sperimentavamo il suo potere completo, adesso era quasi irresistibile. Era ipnotico. Adesso so cosa prova un uccello quando viene ammaliato dal serpente e di come il serpente stesso si senta quando il fachiro suona il suo flauto. Non riesco neppure a farvi iniziare a comprendere il sopraffacente magnetismo di quel richiamo. Vi faceva desiderare di contorcersi ed artigliare l'aria e ritornare indietro di corsa, cieco ed urlante, come una lepre si getta tra le fauci del pitone. Dovetti lottare come un uomo lotta per la sua anima. «Per quanto riguarda Conrad, quel richiamo lo aveva tra le sue grinfie. Si fermò ed ondeggiò come un ubriaco. «"È inutile," borbottò con voce incerta. "Tira i fili del mio cuore; ha imbrigliato la mia mente ed il mio spirito; racchiude tutti i malvagi allettamenti dell'universo. Devo tornare."
«E così iniziò ad arretrare, barcollando, da dove eravamo venuti... verso la dorata menzogna che volteggiava su di noi nella giungla. Però io pensai alla fanciulla Naluna, che aveva sacrificato la sua vita per salvarci da quell'abominio e venni colto da una strana furia. «"Bada!", gridai. "Non devi farlo, maledetto sciocco! Sei completamente fuori di senno! Non te lo permetterò, capito!" «Però lui non mi prestò attenzione, passandomi accanto con occhi simili a quelli di un uomo in trance, così glielo sferrai... un onesto gancio destro alla mascella che lo stese a terra definitivamente. Me lo issai sulle spalle e ripresi la mia strada e fortunatamente fu dopo quasi un'ora che rinvenne, piuttosto rinsavito, ringraziandomi. «Beh, non vedemmo mai più nessuno di quelli di Eridu. Se ci abbiano seguito oppure no, non ne ho idea. Non saremmo comunque riusciti ad allontanarci più rapidamente di quanto facemmo, perché stavamo sfuggendo all'ossessionante, orribile, dolce mormorio che ci inseguiva da sud. Giungemmo finalmente nel punto dove avevamo nascosto il nostro bagaglio e poi, armati e scarsamente equipaggiati, iniziammo il lungo viaggio verso la costa. Forse avrete letto o sentito qualcosa riguardo due viaggiatori emaciati raccolti da una spedizione di caccia all'elefante nell'interno del Somaliland, storditi ed incoerenti per le sofferenze subite. Beh, che eravamo quasi sul punto di lasciarci la pelle lo ammetto, però eravamo perfettamente sani di mente. La parte incoerente fu quando cercammo di raccontare la nostra storia e quei dannati idioti non ci vollero credere. Ci diedero pacche sulle spalle e ci parlarono con toni soavi, versandoci whiskey e soda. Ben presto decidemmo di stare zitti, avendo capito che altrimenti ci avrebbero considerati solamente dei bugiardi o lunatici. Ci riportarono a Gibuti, ed entrambi ne avevamo avuto abbastanza dell'Africa per un po'. Presi una nave per l'India, mentre Conrad andò dall'altra parte... non vedeva l'ora di ritornare nel New England, dove spero abbia sposato quella piccola americana e viva felice. Un ragazzo fantastico, nonostante quei suoi dannati insetti. «Per quanto riguarda me, adesso non riesco più a sentire alcun tipo di gong senza trasalire. Durante tutto quel lungo viaggio estenuante non riuscii mai a respirare tranquillo fino a quando non fummo oltre il raggio sonoro di quella Voce spettrale. Non si può mai dire ciò che una cosa simile può fare alla tua mente. Fa veramente diventare folli le tue idee razionali. «Alle volte, nei sogni, odo ancora quel diabolico gong e vedo quell'antica, silenziosa e sinistra città con la Torre di Babele in quella valle da incu-
bo. Alle volte mi chiedo se non mi stia tuttora chiamando attraverso gli anni. Ma queste sono solo sciocchezze. Comunque, le cose sono andate così e se non mi credete non vi biasimerò affatto.» Però io preferisco credere a Bill Kirby, perché conosco la sua razza, da Engisto in avanti, e so che lui è come tutti gli altri... sincero, aggressivo, profano, instancabile, sentimentale e leale, un vero fratello degli erranti, combattivi, avventurosi Figli dell'Uomo. Titolo originale: The Voice of El-Lil (Oriental Tales, ottobre-novembre 1930) I FIGLI DELLA NOTTE C'erano, mi ricordo, sei di noi nello studio bizzarramente arredato di Conrad, con le sue eccentriche reliquie provenienti da ogni parte del mondo ed i lunghi scaffali colmi di libri che andavano dall'edizione della Mandrake Press di Boccaccio fino ad un Missale Romanum stampato a Venezia nel 1740, rilegato con pannelli di legno di quercia chiusi da fibbie. Clemants ed il Professor Kirowan avevano appena intrapreso una vivace discussione antropologica: Clemants sosteneva la teoria di una razza alpina separata e distinta, mentre il professore ribadiva che questa cosiddetta razza era semplicemente una derivazione da un originario ceppo ariano, probabilmente il risultato di un mescolamento tra le razze meridionali o mediterranee e le genti nordiche. «E come,» chiese Clemants, «spiegheresti il loro brachicefalismo? I Mediterranei avevano il capo allungato come gli Ariani: come è possibile che il mescolamento tra queste genti dolicocefale abbia dato origine ad un tipo intermedio dalla testa larga?» «Alcune condizioni particolari potrebbero apportare un cambiamento in una razza originariamente dal capo allungato,» disse bruscamente Kirowan. «Boaz ha dimostrato, per esempio, che nel caso degli immigrati in America, la forma del cranio spesso cambia in una generazione. E Flinders Petrie ha mostrato a sua volta che i Lombardi passarono da un cranio allungato ad uno arrotondato in pochi secoli.» «Però cosa ha prodotto questi cambiamenti?» «Molto è ancora sconosciuto alla scienza,» rispose Kirowan, «e non dobbiamo essere dogmatici. Nessuno conosce, ancora, perché la gente di discendenza britannica od irlandese tenda a crescere così insolitamente alta
nel distretto australiano di Darling - steli di granturco, così vengono chiamati - o del perché la gente nel New England della stessa discendenza generalmente possiede una struttura mandibolare più sottile dopo poche generazioni. L'universo è pieno dell'inspiegabile.» «E pertanto del poco interessante, secondo Machen,» rise Taveral. Conrad scosse il capo. «Devo dissentire. Per me ciò che è sconosciuto risulta la cosa più allettante ed affascinante.» «Il che spiega, senza dubbio, tutte le opere di stregoneria e di demonologia che vedo nei tuoi scaffali,» disse Ketrick, rivolgendo un gesto della mano alle file di libri. Fatemi parlare di Ketrick. Ciascuno di noi sei apparteneva alla stessa progenie - per così dire, di discendenza britanna od americana di origine britannica. Per britannico includo tutti gli abitanti naturali delle isole omonime. Rappresentavamo varie razze di sangue inglese e celtico, ma sostanzialmente queste stirpi erano, dopo tutto, la stessa. Tranne Ketrick: per me quell'uomo era sempre parso stranamente alieno. Era nei suoi occhi che questa differenza si mostrava esteriormente. Erano di una specie di color ambra, quasi gialli, e leggermente obliqui. Alle volte, quando si osservava il suo viso da una certa angolatura, sembravano simili a quelli di un cinese. Anche altri oltre a me avevano notato questi tratti, così inusuali in un uomo di puri discendenti anglosassoni. Le solite pseudo-teorie che ascrivevano i suoi occhi a mandorla a qualche influenza prenatale erano stati discussi, e ricordo che il Professor Hendrik Booler una volta osservò che Ketrick rappresentava indubbiamente un atavismo, una reversione del tipo verso un qualche oscuro e distante antenato di sangue mongolo... una sorta di bizzarra reversione, dato che nessuno della sua famiglia mostrava simili tratti. Ketrick apparteneva al ramo gallese dei Cetrics del Sussex, e la sua discendenza è dimostrata nel Libro dei Pari. Là è possibile conoscere il lignaggio della sua famiglia, che si estende ininterrotta dai giorni di Canuto. Neppure la più piccola traccia di mescolamento con sangue mongoloide compare nella genealogia, e come sarebbe potuto accadere una cosa simile nell'antica Inghilterra sassone? Perché Ketrick era la forma moderna di Cedric, e sebbene quel ramo della famiglia fuggì nel Galles di fronte all'invasione danese, i suoi discendenti maschi sposarono sempre famiglie inglesi delle marche di confine, rimanendo una pura linea dei potenti Cedric del Sussex... sassoni quasi puri. E per quanto riguarda l'uomo, questo difetto nei suoi occhi, se di difetto si può parlare, è la sua unica anormalità,
tranne per un occasionale e leggera pronuncia blesa. È una persona molto intellettuale ed un buon compagno, se non fosse per una lieve freddezza ed una piuttosto incallita indifferenza che potrebbe servirgli a mascherare una natura estremamente sensibile. Facendo riferimento alla sua osservazione dissi con una risata: «Conrad ricerca l'occulto ed il mistico come certi uomini inseguono l'avventura sentimentale; i suoi scaffali sono affollati da ogni varietà di deliziosi incubi.» Il nostro ospite annuì. «Troverete un gran numero di piatti prelibati Machen, Poe, Blackwood, Maturin - guardate, là c'è una pietanza rara Orridi Misteri, del Marchese di Grosse - l'edizione originale del diciottesimo secolo.» Taverel controllò gli scaffali. «I racconti del bizzarro sembrano gareggiare con i lavori sulla stregoneria, vudu e magia nera.» Vero; gli storici ed i cronisti sono spesso noiosi; i tessitori di storie mai... i maestri, voglio dire. Un sacrificio vudu può essere descritto in maniera così noiosa da privarlo di. tutta la sua reale fantasia, lasciandolo semplicemente un sordido assassinio. Ammetto che pochi scrittori toccano i veri culmini dell'orrore... la maggior parte delle loro opere sono troppo concrete, dotate di troppe delle dimensioni e forme terrestri. Ma in racconti come La Caduta della Casa degli Usher di Poe, il Sigillo Nero di Machen ed Il Richiamo di Cthulhu di Lovecraft - a mio parere tre capolavori della narrativa dell'orrore - il lettore è portato negli oscuri ed esterni reami dell'immaginazione. «Ma guardate là,» continuò, «stretto tra l'incubo di Huysmans ed il Castello d'Otranto di Walpole - i Culti Innominabili di Von Junzt. Ecco un libro da tenervi svegli la notte!» «L'ho letto,» disse Taverel, «e sono convinto che quell'uomo sia pazzo. Il suo lavoro è simile alla conversazione di un esaltato... per un po' si svolge con sorprendente chiarezza poi, all'improvviso, s'immerge nella vaghezza ed in digressioni sconnesse.» Conrad scosse il capo. «Hai mai pensato che forse è la sua stessa sanità mentale che lo porta a scrivere in quel modo? Che magari non osi mettere su carta tutto ciò che conosce? Che le sue vaghe supposizioni siano oscuri e misteriosi suggerimenti, chiavi dell'enigma, per coloro che sanno?» «Sciocchezze!» Questo venne da Kirowan. «Stai forse insinuando che qualcuno dei culti da incubo riportati da Von Junzt sopravviva ai giorni nostri... se mai sono esistiti se non nel cervello balzano di un poeta e filosofo lunatico?»
«Non solo lui ha usato significati nascosti,» rispose Conrad. «Se controlli diversi lavori di certi grandi poeti puoi trovare doppi sensi. Nel passato gli uomini sono incappati in segreti cosmici ed hanno fornito al mondo alcuni loro dettagli con parole enigmatiche. Ti ricordi il riferimento di Von Junzt ad una "città nel deserto"? E cosa ne pensi del verso di Flecker: Non proseguire oltre! Dicono gli uomini che tra le pietre del deserto ancora fiorisce una rosa Ma senza scarlatto sono le sue foglie... e dal suo cuore nessun profumo si sparge. «Gli uomini possono incappare in cose segrete, ma Von Junzt ha scavato a fondo in misteri proibiti. Lui fu uno dei pochi uomini, per esempio, che poté leggere il Necronomicon nella traduzione originale in greco.» Taverel si strinse nelle spalle ed il Professor Kirowan, sebbene sbuffasse e soffiasse malignamente nella sua pipa, non replicò direttamente; perché sia lui che Conrad avevano studiato la versione latina di quel libro, ed avevano scoperto cose a cui neppure uno scienziato dal sangue freddo poteva dare una risposta oppure confutare. «Bene,» disse poco dopo, «supponiamo di ammettere la precedente esistenza di culti adoratori di alcune spaventose divinità senza nome e di entità come Cthulhu, Yog Sothoth, Tsathoggua, Gol-goroth e simili. Non riesco a far credere alla mia intelligenza che sopravvissuti di simili culti si celino a tutt'oggi in oscuri angoli della terra.» Con nostra sorpresa, fu Clemants che rispose. Era un uomo alto, smilzo, silenzioso quasi al punto di essere taciturno, e le feroci lotte con la povertà durante la sua giovinezza gli avevano solcato il volto oltre gli anni che realmente aveva. Come molti altri artisti, viveva una doppia esistenza letteraria: i suoi romanzi avventurosi gli permettevano di avere entrate generose, e la sua posizione editoriale ne Il piede fesso gli consentiva la piena espressione artistica. Il piede fesso era una rivista di poesia i cui bizzarri contenuti avevano spesso sollevato lo sconvolto interesse dei critici conservatori. «Vi ricordate che Von Junzt fa menzione di un cosiddetto culto di Bran,» disse Clemants, riempiendo la sua pipa con un tipo di tabacco trinciato particolarmente offensivo per le nari. «Mi sembra di aver sentito te e Taverel discuterne, una volta.» «Da ciò che ho capito dalle sue allusioni,» sbottò Kirowan, «Von Junzt
include questo particolare culto tra quelli ancora esistenti. Assurdo.» Clemants scosse nuovamente il capo. «Quando ero giovane e frequentavo una certa università, avevo come compagno di stanza un ragazzo povero ed ambizioso quanto me. Se vi dicessi il suo nome vi sorprenderei. Sebbene provenisse da una antica famiglia scozzese di Galloway, era chiaramente di razza non ariana. «Che questo rimanga tra di noi, capite. Però il mio compagno di stanza parlava nel sonno. Iniziai ad ascoltare ed a unire i suoi indistinti biascichi. E da quei borbottii udii per la prima volta dell'antico culto menzionato da Von Junzt; del re che governava l'Impero Oscuro, a sua volta rinascita di un impero ancora più antico e più malvagio che risaliva all'Età della Pietra; e della grande caverna senza nome dove si trova l'Uomo Scuro... l'immagine di Bran Mak Morn, resa come se fosse viva da un maestro scultore mentre il grande re era ancora vivo, ed al quale ogni adoratore di Bran compie un pellegrinaggio almeno una volta nella sua vita. Sì, quel culto sopravvive al giorno d'oggi tra i discendenti del popolo di Bran... una corrente silenziosa e sconosciuta continua a scorrere nel grande oceano della vita, nell'attesa che l'immagine di pietra del grande Bran inizi nuovamente a respirare e ritorni improvvisamente alla vita, per poi confluire dalla grande caverna e ricostruire il loro impero perduto.» «E qual era il popolo di quell'impero?», chiese Ketrick. «I Pitti.» rispose Taverel, «Senza dubbio le genti conosciute in seguito come i selvaggi Pitti di Galloway erano prevalentemente di razza celtica una mescolanza di gaelici, cimbri, aborigeni e probabilmente elementi teutonici. Se avessero preso il loro nome dalla razza più antica o lo avessero ceduto, è una questione ancora irrisolta. Però quando Von Junzt parla dei Pitti si riferisce specificatamente alle piccole e scure genti mangiatrici di aglio e dal sangue mediterraneo, che portarono la cultura neolitica in Britannia. Furono loro infatti i primi colonizzatori di quella terra, e diedero origine alle storie degli spiriti della terra e dei goblin.» «Non sono d'accordo con quest'ultima affermazione,» disse Conrad. «Quelle leggende conferiscono deformità e inumanità d'aspetto ai personaggi. Non c'era nulla nei Pitti che potesse suscitare un simile orrore e repulsione nei popoli ariani. Credo che i mediterranei siano stati preceduti da tipi mongoloidi, molto in basso nella scala dell'evoluzione, da cui queste storie...» «Quasi vero,» s'intromise Kirowan, «ma difficilmente credo che precedettero quelli che tu chiami Pitti, in Britannia. Riscontriamo leggende ri-
guardanti i troll ed i nani in tutto il continente, ed io sono incline a credere che sia il popolo ariano sia quello mediterraneo portarono con loro queste storie dal Continente. Questi mongoloidi primitivi dovevano essere di aspetto estremamente inumano.» «Comunque,» disse Conrad, «qui c'è una mazza di selce donatami da un minatore che lo ha scoperto nelle colline gallesi, di cui non è mai stata data una completa spiegazione. È ovviamente di fattura neolitica non ordinaria. Guardate come è piccola, comparata a molti strumenti di quel periodo; quasi un giocattolo; eppure è sorprendentemente pesante e senza dubbio poteva infliggere un colpo mortale. Ho aggiustato il manico io stesso, e sareste sorpresi di sapere come è stato difficile modellarlo della giusta forma e bilanciarlo rispetto alla testa.» Osservammo l'oggetto. Era ben fatto, liscio quasi come gli altri resti del neolitico che avevo visto, eppure, come aveva detto Conrad, era stranamente differente. Le sue ridotte dimensioni erano inquietanti in modo singolare perché non aveva l'aspetto di un giocattolo, assolutamente. Era sinistro tanto quanto un coltello sacrificale azteco. Conrad aveva modellato il manico in quercia con rara abilità, e nell'intagliarlo per adattarsi alla testa era riuscito a dargli lo stesso aspetto innaturale posseduto dalla mazza stessa. Aveva persino copiato la fattura primitiva, fissando la testa nella fessura del manico con delle strisce di cuoio grezzo. «Perbacco!» Taverel mosse un goffo passo verso un immaginario antagonista e per poco non frantumò un costoso vaso Shang. «Il bilanciamento di questa cosa è tutto spostato; devo riadattare tutti i miei meccanismi di postura e di equilibrio per maneggiarlo.» «Fammelo vedere.» Ketrick prese l'oggetto e ci giocò, cercando di cogliere i segreti della sua corretta impugnatura. Alla fine, in qualche modo irritato, lo sollevò e colpì violentemente uno scudo appeso al muro lì vicino. Io mi trovavo di fianco ad esso; vidi la diabolica mazza torcersi nella mano di Ketrick come un serpente vivo, ed il suo braccio fuoriuscire dalla traiettoria; udì un grido di allarmato avvertimento... poi l'oscurità mi colse nel momento dell'impatto della mazza con la mia testa. Lentamente ritornai in me. Dapprima provai l'ottusa sensazione di cecità e la totale mancanza di conoscenza di dove mi trovassi e di chi fossi; poi la vaga consapevolezza della vita e dell'essere e di qualcosa di duro che mi premeva sulle costole. Infine la foschia si schiarì e mi ripresi completamente.
Mi trovavo disteso sulla schiena in mezzo a dei cespugli e la mia testa pulsava ferocemente. Inoltre i miei capelli erano impastati e macchiati di sangue, perché il cuoio capelluto era stato ferito. I miei occhi percorsero il corpo e le gambe, nudi se non per una fascia di pelle di cervo attorno ai fianchi e sandali dello stesso materiale, e non trovarono alcun'altra ferita. Ciò che premeva così spiacevolmente sulle costole era la mia ascia, sulla quale ero caduto. Poi un orribile balbettio colpì le mie orecchie e mi riportò dolorosamente alla completa consapevolezza. Il rumore era appena simile ad un linguaggio, ma nessun tipo di linguaggio a cui l'uomo è avvezzo. Suonava molto simile al ripetuto sibilare di numerosi grandi serpenti. Mi guardai attorno. Giacevo in una grande e cupa foresta. Il luogo era avvolto dalle ombre, così che persino in pieno giorno era molto scuro. Sì... la foresta era buia, fredda, silente, gigantesca e completamente spettrale. Poi gettai lo sguardo verso una radura. Vidi una carneficina. Cinque uomini giacevano a terra... anzi, ciò che un tempo erano stati cinque uomini. Mentre osservavo le loro orribili mutilazioni la mia anima si rivoltò. E tutt'attorno erano raccolte le... Cose. Erano umani, di qualche tipo, sebbene non li consideri tali. Erano bassi e tozzi, con ampie teste troppo larghe per i loro corpi ossuti. I loro capelli erano serpentini e filamentosi, i loro visi ampi e piatti, dai nasi schiacciati e dagli occhi minacciosamente obliqui, con una sottile fessura come bocca, ed orecchie appuntite. Indossavano pelli di animali, come me, ma queste pelli erano rozzamente conciate. Portavano piccoli archi e frecce dalla punta di selce, coltelli di selce e bastoni. E parlavano tra loro in un linguaggio orribile come loro stessi, una lingua sibilante da rettile che mi riempì di terrore e di ripugnanza. Oh, li odiai mentre giacevo disteso; il mio cervello si infiammò di furore al calor bianco. Ed in quel momento ricordai. Eravamo a caccia, noi sei giovani del Popolo della Spada, ed avevamo vagato in profondità nella cupa foresta che la nostra gente di solito evita. Stanchi per l'inseguimento, ci eravamo fermati per riposare; a me era stata affidata la prima veglia, perché di questi tempi, nessun riposo era sicuro senza sorveglianza. Adesso la vergogna e la repulsione scuotevano tutto il mio essere. Avevo dormito... avevo tradito i miei compagni. Ed ora loro giacevano mutilati e dilaniati... massacrati nel sonno da vermi che non avevano mai osato ergersi di fronte a loro ad armi pari. Io, Aryara, avevo tradito il mio compito. Sicuro... ora ricordavo. Avevo dormito, e nel mezzo del sogno di una
caccia, fuoco e scintille erano esplose nella mia testa ed ero piombato in una oscurità maggiore, dove non vi erano sogni. E adesso la punizione. Quelli che si erano mossi furtivamente nella densa foresta mi avevano colpito lasciandomi privo di sensi, e non si erano fermati per mutilarmi. Credendomi morto si erano affrettati rapidamente a compiere il loro macabro lavoro. Adesso forse si erano dimenticati di me. Mi ero seduto un po' in disparte dagli altri, e quando venni colpito, caddi per metà sotto alcuni cespugli. Però ben presto si sarebbero ricordati di me. Non avrei più cacciato, non avrei più danzato nei balli di caccia, d'amore e di guerra, non avrei mai più rivisto le capanne di canna del Popolo della Spada. Però non avevo alcun desiderio di fuggire e ritornare dal mio popolo. Avrei dovuto svignarmela con il mio racconto di infamia e di disgrazia? Avrei dovuto ascoltare le parole di scherno che la mia tribù mi avrebbe rivolto, vedere le ragazze puntare le loro dita accusatorie verso il giovane che dormendo consegnò i suoi compagni ai coltelli dei vermi? Le lacrime riempirono i miei occhi e lentamente l'odio montò nel mio petto e nella mia mente. Non avrei mai portato la spada che contraddistingueva il guerriero. Non avrei mai trionfato sui nemici degni di questo nome e non sarei morto gloriosamente sotto le frecce dei Pitti o le asce del Popolo del Lupo o del Popolo del Fiume. Avrei invece incontrato la morte sotto la moltitudine nauseante che i Pitti tanto tempo prima avevano spinto nelle loro tane della foresta come ratti. E la furia cieca mi colse ed asciugò le lacrime, sostituendole con un lampo di furia berserkr. Se simili rettili dovevano causare la mia caduta, avrei fatto in modo che fosse ricordata per lungo tempo... se simili bestie avevano ricordi. Muovendomi silenziosamente, mi spostai fino a quando la mano non giunse sul manico dell'ascia; poi invocai Il-marinen e balzai in piedi come una tigre. E con il balzo di una tigre mi ritrovai in mezzo ai miei nemici sfondando un cranio piatto come un uomo sfonda la testa di un serpente. Un improvviso clamore di paura selvaggia eruppe dalle mie vittime che per un istante si strinsero attorno a me colpendomi. Un coltello mi ferì al petto, ma non ci badai. Una foschia purpurea mi ondeggiava davanti agli occhi ed il mio corpo ed i miei arti si muovevano in perfetto accordo con il cervello in lotta. Ringhiando, fendendo e colpendo ero una tigre in mezzo ai rettili. In un istante si allontanarono e fuggirono, lasciandomi cavalcare una mezza dozzina di corpi subumani. Però non ero sazio. Fui subito alle calcagna di quello più alto, la cui testa mi arrivava proba-
bilmente alla spalla, e che sembrava essere il loro capo. Fuggì lungo una specie di discesa, squittendo come una mostruosa lucertola, e quando gli fui alle spalle, si tuffò come un serpente tra i cespugli. Però io fui troppo rapido per lui e lo trascinai fuori macellandolo nella maniera più cruenta possibile. Ed attraverso i cespugli vidi il sentiero che stava cercando di raggiungere... una traccia che si snodava fra gli alberi, quasi troppo stretta da permettere ad uomo normale di percorrerla. Mozzai l'odiosa testa della mia vittima, e portandola nella sinistra presi il sinuoso sentiero reggendo l'ascia arrossata nella destra. Adesso, mentre avanzavo rapidamente lungo il sentiero con il sangue dalla giugulare mozzata del mio nemico che mi gocciolava sui piedi ad ogni passo, pensai a quelli che a cui stavo dando la caccia. Sicuro... li consideravamo così infimi, che li cacciavamo di giorno nella foresta che infestavano. Come essi stessi si definissero, nessuno l'aveva mai saputo, perché nessuno della nostra tribù aveva mai imparato l'odioso bisbiglio sibilante che usavano come linguaggio; piuttosto li chiamavamo i Figli della Notte. Ed erano effettivamente creature notturne, perché si muovevano furtivamente nel fitto dell'oscura foresta ed in rifugi sotterranei, uscendo dalle colline solo quando i loro conquistatori dormivano. Era di notte che compivano le loro immonde gesta... il rapido volo di una freccia dalla punta di selce od il rapimento di un bambino allontanatosi dal villaggio. Però era per molto più di questo che li nominammo in quel modo; erano, davvero, una razza della notte e dell'oscurità, l'antica ombra terrorizzante di età passate. Perché queste creature erano molto antiche e rappresentavano un'epoca trascorsa. Un tempo avevano invaso e dominato questa landa, ed erano state spinte a nascondersi nell'oscurità dagli scuri e feroci piccoli Pitti, contro i quali adesso combattevamo noi, e che li odiavano e detestavano altrettanto selvaggiamente di quanto lo faccia il mio popolo. I Pitti erano diversi da noi nell'aspetto generale, essendo più bassi di statura e dai capelli, occhi e carnagione scuri, mentre noi eravamo alti e possenti, con i capelli biondi e gli occhi chiari. Ma, alla fin fine, erano stati forgiati nello stesso stampo. Questi Figli della Notte a noi non sembravano umani, con i loro deformi corpi naneschi, la pelle gialla ed i volti orrendi. Sì... erano rettili... vermi. E la mia mente fu sul punto di esplodere per l'ira quando pensai che erano questi vermi quelli contro i quali stavo per saziare la mia ascia e perire. Puah! Non c'è gloria nell'uccidere i serpenti o morire per i loro morsi. Tut-
ta quest'ira e la fiera delusione si rivolsero verso l'oggetto del mio odio, e con la foschia vermiglia che ondeggiava davanti a me, giurai su tutti gli dèi conosciuti che avrei portato prima di morire tale rossa distruzione e lasciato un terribile ricordo nelle menti dei sopravvissuti. La mia gente non mi avrebbe onorato, data la considerazione che avevano per i Figli della Notte. Però quei Figli che avrei lasciato in vita si sarebbero ricordati di me ad avrebbero rabbrividito. Così giurai, stringendo selvaggiamente la mia ascia di bronzo dal manico di quercia ed assicurata fortemente da cinghie di cuoio grezzo. Poi udii davanti a me un orribile mormorio sibilante ed un odore nauseabondo filtrò attraverso gli alberi, umano, eppure meno che umano. Pochi istanti dopo emersi dalle ombre profonde in un ampio spazio aperto. Non avevo mai visto prima un villaggio dei Figli della Notte. Si trattava di un gruppo di cupole di terra con bassi ingressi sprofondati nel suolo; abitazioni squallide, metà sopra e metà sotto la terra. E sapevo, dai racconti dei vecchi guerrieri, che queste abitazioni erano collegate da corridoi nel sottosuolo, così da rendere l'intero villaggio simile ad un formicaio o ad un sistema di tane di serpi. E mi chiesi se altri passaggi non corressero sotto il villaggio per emergere a molta distanza da esso. Davanti alle cupole era radunato un folto gruppo di creature che sibilavano e mormoravano con grande velocità. Avevo affrettato la mia andatura e ora irruppi allo scoperto, correndo con l'agilità della mia razza. Un clamore selvaggio si levò da quella plebaglia quando videro il vendicatore, alto, coperto di sangue e dagli occhi fiammeggianti, che balzava fuori dalla foresta; ed io gridai ferocemente lanciando la testa che stillava gocce vermiglie in mezzo a loro e balzando come una tigre ferita nel mucchio. Oh, per loro adesso non c'era scampo! Avrebbero anche potuto prendere i loro passaggi sotterranei, ma io li avrei seguiti, persino nelle viscere dell'inferno. Sapevano che dovevano uccidermi e si strinsero attorno a me, in più di cento, per farlo. Non ci fu alcun selvaggio lampo di gloria nella mia mente, come ci sarebbe stato contro nemici degni di questo nome. Però l'antica follia berserkr della mia razza era nelle mie vene e l'odore del sangue e della distruzione nelle mie narici. Non seppi quanti ne massacrai. Seppi solo che si affollarono attorno a me in una massa vibrante e sferzante simili a serpi attorno ad un lupo, ed io colpii fino a quando il filo dell'ascia si piegò e l'ascia stessa non divenne
altro che un bastone; ed io schiantai crani, mozzai teste, frantumai ossa, e sparsi sangue e cervello in un unico rosso sacrificio ad Il-marinen, dio del Popolo della Spada. Sanguinando da cinquanta ferite, accecato da un taglio sugli occhi, sentii un coltello di selce piantarsi profondamente nel fianco e nello stesso istante un bastone aprirmi il cuoio capelluto. Caddi in ginocchio, ma mi alzai immediatamente di scatto e vidi, in una spessa nebbia scarlatta, un cerchio di visi ghignanti, gli occhi a mandorla. Attaccai come colpisce una tigre morente e le facce esplosero in una rovina cremisi. E mentre mi accasciavo sbilanciato dalla furia del mio attacco, una mano artigliata si strinse attorno alla mia gola ed una lama di selce si piantò tra le costole e venne rigirata velenosamente. Caddi di nuovo sotto una pioggia di colpi, ma l'uomo con il coltello era sotto di me e con la mano sinistra lo trovai e gli spezzai il collo prima che potesse scivolare via. La mia vita stava svanendo rapida; attraverso il sibilare e l'ululare dei Figli della Notte potevo udire la voce di Il-marinen. Poi, ancora una volta, mi alzai ostinatamente in mezzo a un vero mulinare di lance e di bastoni. Non riuscivo più a vedere i miei avversari, persino nella nebbia scarlatta. Però ero in grado di percepire i loro colpi e sapevo che si affollavano attorno a me. Puntai i piedi, strinsi il manico viscido della mia ascia con entrambe le mani ed invocando Il-marinen ancora una volta sollevai l'ascia e lasciai partire un ultimo, terrificante, colpo. E devo essere morto in piedi, perché non provai alcuna sensazione di caduta; persino mentre sapevo, con un ultimo guizzo selvaggio, di uccidere, persino quando sentii i crani sfondarsi sotto la mia ascia, l'oscurità giunse accompagnata dall'oblio. Rinvenni improvvisamente. Ero mezzo reclinato su di una grossa poltrona e Conrad mi stava versando addosso dell'acqua. Mi faceva male la testa ed un rivoletto di sangue si era quasi seccato sul mio viso. Kirowan, Taverel e Clemants erano tutti attorno a me, ansiosi, mentre Ketrick mi era proprio di fronte con ancora in mano la mazza, il suo volto atteggiato ad una gentile preoccupazione che i suoi occhi non mostravano. Ed alla vista di quegli occhi maledetti una rossa follia si destò in me. «Ecco,» stava dicendo Conrad, «ve l'avevo detto che sarebbe rinvenuto in un momento; appena una scalfittura. Ha preso botte peggiori. Tutto a posto, vero, O'Donnel?» Lo spinsi di lato, e con un unico basso ringhio d'odio mi lanciai verso Ketrick. Preso completamente alla sprovvista non ebbe alcuna opportunità
di difendersi. Le mie mani si serrarono attorno alla sua gola ed insieme ci schiantammo su un divano che andò in pezzi. Gli altri gridarono stupefatti e terrorizzati e balzarono a separarci... o piuttosto a strapparmi dalla mia vittima, perché gli occhi a mandorla di Ketrick stavano già iniziando a fuoriuscire dalle orbite. «Per l'amor di Dio, O'Donnel,» esclamò Conrad cercando di spezzare la mia presa, «cosa ti è preso? Ketrick non aveva intenzione di colpirti... lascialo andare, idiota!» Venni quasi sopraffatto da un'ira feroce verso quegli uomini che erano miei amici, uomini della mia stessa tribù, ed imprecai contro di loro e la loro cecità quando finalmente riuscirono a strappare le mie dita che strangolavano la gola di Ketrick. L'uomo si mise a sedere ed a tossire, ed esplorò i segni blu che le mie dita gli avevano lasciato, mentre io mi infuriavo ed imprecavo, riuscendo per poco a sconfiggere gli sforzi congiunti dei quattro che mi trattenevano. «Pazzi!», gridai. «Lasciatemi andare! Lasciatemi svolgere il compito di uomo della tribù! Voi ciechi e pazzi! Non m'importa affatto del meschino colpo che mi ha dato... lui ed i suoi hanno messo a segno colpi ben più forti di quello contro di me, in epoche passate. Pazzi, lui ha il segno della bestia... del rettile... dei vermi che sterminammo secoli fa! Devo distruggerlo, calpestarlo, ripulire la terra della sua maledetta lordura!» Deliravo e lottavo in quel modo, e Conrad bisbigliò da dietro la spalla rivolto a Ketrick: «Vattene subito! È fuori di testa! La sua mente è sconvolta! Vattene lontano da lui.» Adesso scruto le antiche albe sognanti e le colline e le fitte foreste, e rifletto. In qualche modo il colpo di quell'antica maledetta mazza mi ha riportato indietro in un'altra epoca ed in un'altra vita. Mentre ero Aryara non avevo cognizione di nessun'altra esistenza. Non era un sogno; era uno strano frammento di realtà dove io, John O'Donnel, un tempo vissi e morii. E nel quale sono stato rimandato indietro attraverso il vuoto del tempo e dello spazio da un colpo fortuito. Il tempo ed i tempi non sono altro che ingranaggi imperfetti e stridenti, dimentichi gli uni degli altri. Occasionalmente - oh molto di rado! - questi ingranaggi combaciano; i pezzi del mosaico si fondono momentaneamente tra loro e forniscono agli uomini deboli bagliori oltre il velo di questa cecità quotidiana che chiamiamo realtà. Io sono John O'Donnel ed ero Aryara, che sognava sogni di gloria bellica e di caccia e di banchetti, ed invece morì su di un cumulo scarlatto di sue vittime in qualche epoca perduta. Però in quale tempo e dove?
All'ultima domanda posso rispondere per voi. Le montagne ed i fiumi cambiano i loro profili; i paesaggi mutano; ma le colline no. Adesso le sto osservando e le ricordo non solo con gli occhi di John O'Donnel, ma anche con quelli di Aryara. Sono cambiate pochissimo. Solo la grande foresta si è ristretta e diminuita, ed in molti, molti posti è completamente svanita. Però qui, tra queste stesse colline visse, combatté ed amò Aryara, ed in quella foresta laggiù morì. Kirowan si sbagliava. I piccoli, feroci e scuri Pitti non furono i primi uomini ad abitare le Isole. Ci furono esseri prima di loro... sicuro, i Figli della Notte. Leggende... perché i Figli non ci erano sconosciuti quando giungemmo in quella che adesso è l'isola di Britannia. Li avevamo incontrati prima, ere prima. Avevamo già creato i nostri miti a loro riguardo. E li ritrovammo in Britannia, dove neppure i Pitti erano riusciti a sterminarli completamente. E neppure i Pitti stessi, come invece credono in tanti, ci avevano preceduto di molti secoli. Li sospingemmo davanti a noi mentre avanzavamo, in quella lunga migrazione dall'Oriente. Io, Aryara, conoscevo degli anziani che avevano affrontato quella marcia secolare; che erano stati portati tra le braccia di donne dai capelli biondi per chilometri e chilometri di foreste e di pianure, e che da giovani avevano marciato come avanguardia degli invasori. Per quanto riguarda l'epoca... non sono in grado di dirlo. Però io, Aryara, ero sicuramente un ariano e la mia gente ariana... membri di una delle migliaia di migrazioni sconosciute e dimenticate che sparpagliarono tribù dai capelli biondi e dagli occhi azzurri in tutto il mondo. I Celti non furono i primi a giungere nell'Europa occidentale. Io, Aryara, ero dello stesso sangue ed aspetto degli uomini che saccheggiarono Roma, ma la mia era un stirpe molto più antica. Della lingua che parlavo, nessuna eco rimane nella mente cosciente di John O'Donnel, ma sapevo che l'idioma di Aryara stava all'antico celtico come l'antico celtico sta al gaelico moderno. Il-marinen! Ricordo il dio che invocai, l'antico, antichissimo dio che lavorava i metalli... allora era il bronzo. Perché Il-marinen era uno degli dèi fondamentali degli Ariani, dai quali nacquero molti altri dèi; e divenne Wieland e Vulcano nell'età del ferro. Però per Aryara era Il-marinen. Ed Aryara... era un membro di una delle molte tribù e delle innumerevoli migrazioni. Non solo il Popolo della Spada giunse o si stabilì in Britannia. Il Popolo del Fiume giunse prima di noi ed il Popolo del Lupo arrivò dopo. Però erano Ariani come noi, dagli occhi chiari, alti e biondi. Li combattemmo, per le ragioni per cui le varie stirpi di Ariani hanno sempre com-
battuto le une contro le altre, proprio come gli Achei si sono sempre combattuti tra loro, proprio come i Celti ed i Germani si scannavano a vicenda; sì, come gli Elleni ed i Persiani, un tempo un unico popolo della stessa discendenza, divisisi per due differenti strade nel lungo viaggio per poi incontrarsi secoli dopo ad inondare di sangue la Grecia e l'Asia Minore. Adesso capisco, tutto questo non lo conoscevo come Aryara. Io, Aryara, non conoscevo nulla di queste migrazioni della mia razza per il mondo. Sapevo soltanto che il mio era un popolo di conquistatori, che un secolo prima i miei antenati avevano abitato nelle grandi e lontane pianure ad oriente, pianure popolate da genti fiere dai capelli biondi e dagli occhi chiari, giunte da migrazioni più vecchie e più nuove e che si combattevano selvaggiamente e senza pietà, secondo il vecchio, illogico costume del popolo ariano. Questo sapeva Aryara, ed io, John O'Donnel, che conosco molto di più e molto di meno di quanto io, Aryara, conoscevo, ho unito il sapere di queste entità separate e sono giunto a conclusioni che avrebbero sorpreso molti noti scienziati e storici. Eppure questo fatto è ben noto; gli Ariani decaddero rapidamente in popolazioni sedentarie e pacifiche. La loro vera esistenza era nomade; quando si stabilizzarono in una vita agricola, lastricarono la via per la loro caduta; e quando si rinchiusero all'interno delle mura delle città sigillarono il loro destino. Perché io, Aryara, ricordo le storie dei vecchi... di come i Figli della Spada durante quel lungo viaggio trovarono villaggi di gente dalla pelle bianca e dai capelli biondi che erano migrati verso Occidente secoli prima ed avevano abbandonato la vita nomade per vivere tra le genti dalla carnagione scura che mangiavano aglio e ricavavano il loro sostentamento dalla terra. Ed i vecchi narrano di come fossero miti e deboli, e di come facilmente caddero di fronte alle lame di bronzo del Popolo della Spada. Vedete... non è questa l'intera storia dei Figli di Ario espressa in poche parole? Guardate... come rapidamente i Persiani hanno seguito i Medi; i Greci i Persiani; i Romani i Greci; ed i Germani i Romani. Sicuro, ed i Norvegesi seguirono alle tribù germaniche quando divennero fiacche dopo un secolo o poco più di pace e di tranquillità, spogliandole del bottino che avevano depredato nelle terre meridionali. Però fatemi parlare di Ketrick. Ah... i capelli sulla nuca mi si rizzano al solo sentire quel nome. Una reversione verso il tipo... non di qualche puro Cinese o Mongolo moderno. I Danesi spinsero i suoi antenati nelle colline del Galles; e là, in qualche secolo del Medioevo ed in qualche ignobile modo, quella maledetta corruzione aborigena si insinuò nel puro sangue
sassone della linea celtica, per giacere dormiente così a lungo! I Celti del Galles non si unirono con i Figli più di quanto lo fecero i Pitti. Però dovettero rimanere dei superstiti... vermi celati in quelle cupe colline sopravvissuti al loro tempo ed alla loro epoca. Ai tempi di Aryara erano scarsamente umani. Che cosa poteva aver prodotto in quella razza un millennio di regressione? Quale oscena figura s'introdusse nel castello dei Ketrick in qualche notte dimenticata, o si levò dal crepuscolo per afferrare qualche donna della famiglia, che vagava tra le colline? La mia mente si ritrae di fronte ad una simile immagine. Però questo io so: ci devono essere stati dei sopravvissuti di quella immonda epoca di rettili quando i Ketrick giunsero nel Galles. Ci potrebbero ancora essere. Però questo bimbo sostituito, questo trovatello dell'oscurità, questo orrore che porta il nobile nome dei Ketrick, ha su di sé il marchio del serpente, e fintanto che non sarà distrutto per me non ci sarà pace. Ora che so cosa egli è in realtà, inquina l'aria pura e lascia la traccia viscosa della serpe sulla terra verde. Il suono del suo accento bleso, della sua voce sibilante mi riempiono di un orrore strisciante e la vista dei suoi occhi a mandorla m'ispira follia. Perché io provengo da una razza regale, e come tale Ketrick rappresenta un insulto continuo ed una minaccia, come un serpente fra i piedi. La mia è una razza regale, sebbene ora si sia degradata e sia caduta in rovina con il continuo mescolamento con le razze conquistate. Le ondate di sangue straniero hanno scurito i miei capelli e la mia pelle, ma possiedo ancora la signorile statura e gli occhi azzurri di un Ariano regale. E come i miei antenati... come me, Aryara... distrussero la feccia che tremava sotto i nostri talloni, così io, John O'Donnel, sterminerò quella creatura strisciante, il frutto mostruoso della sinuosa corruzione che ha dormito sconosciuta per così tanto tempo nelle pure vene sassoni, le vestigia di quella creatura-serpe lasciata ad insultare i Figli di Ario. Dicono che il colpo ricevuto mi abbia sconvolto la mente; io so solo che mi ha aperto gli occhi. Il mio antico nemico passeggia spesso nella brughiera, da solo, attratto, sebbene lui non lo sappia, da impulsi ancestrali. Ed in una di queste solitarie passeggiate lo incontrerò, e quando lo incontrerò gli spezzerò quel suo immondo collo con le mie mani, come io, Aryara, spezzai il collo delle oscene creature della notte tanto, tanto, tempo fa. Poi potranno pure prendermi ed appendermi al capestro se lo vorranno. Non sono cieco, se i miei amici lo sono. E agli occhi dell'antico dio ariano,
se non agli occhi ciechi degli uomini, avrò dimostrato fedeltà alla mia tribù. Titolo originale: The Children of the Night (Weird Tales, aprile-maggio 1931) GLI DEI DI BAL-SAGOTH 1. Spade nella tempesta La folgore ferì gli occhi di Turlogh O'Brien ed il suo piede scivolò su di una chiazza di sangue mentre barcollava sul ponte ondeggiante. Il clangore dell'acciaio rivaleggiava il rombo del tuono e le grida di morte tagliavano il mugghiare delle onde e del vento. I lampi incessanti illuminavano i cadaveri distesi e rossastri, le gigantesche figure cornute che ruggivano e colpivano come enormi dèmoni nella tempesta notturna, la grande prua appuntita che torreggiava sopra di loro. L'azione fu rapida e disperata; in quella momentanea luce, un viso barbuto e feroce brillò davanti a Turlogh e la sua veloce ascia guizzò, spaccandolo fino al mento. Nella breve e totale oscurità che seguì il lampo, un colpo invisibile spazzò via l'elmetto dal capo di Turlogh che rispose selvaggiamente a quell'assalto, sentendo l'ascia affondare nella carne ed udendo un uomo urlare. Nuovamente esplosero i fuochi del cielo tempestoso, mostrando al Gaelico il cerchio di visi selvaggi, il filo dell'acciaio lucente che lo incalzava. La schiena contro l'albero maestro, Turlogh parò e rispose ai colpi; poi attraverso il caos della battaglia una gran voce tuonò ed in un fulmineo istante il Gaelico colse la fugace immagine di una figura gigantesca - di un viso stranamente familiare. Poi.il mondo esplose in una tenebra chiazzata di rosso. I sensi ritornarono lentamente. Turlogh fu dapprima consapevole di un movimento ondeggiante, oscillante di tutto il suo corpo, che non poteva controllare. Poi un sordo pulsare della testa lo torturò e Turlogh cercò di portare le mani al capo. Fu in quel momento che si rese conto di essere stato legato mani e piedi... un'esperienza non del tutto estranea per lui. Schiarita la vista, si accorse di essere stato legato all'albero maestro del drakkar i cui guerrieri lo avevano catturato. Perché lo avessero risparmiato non riusciva a capirlo, giacché se lo conoscevano anche solo minimamente sape-
vano che era un fuorilegge... bandito dal suo clan che non avrebbe pagato alcun riscatto neppure per salvarlo dagli stessi abissi dell'Inferno. Il vento era calato di molto, ma il mare era ancora mosso e scagliava la lunga nave come un fuscello dalla profondità alla cresta spumeggiante delle onde. Una rotonda luna argentea, che faceva capolino dalle nubi sfrangiate, illuminava i flutti agitati. Il Gaelico, cresciuto nella selvaggia costa occidentale dell'Irlanda, sapeva che la nave serpentina era danneggiata. Lo poteva intuire dal modo in cui avanzava, affondando nella schiuma, sbandando al sollevarsi dell'onda. Beh, la tempesta che aveva infuriato su quelle acque meridionali sarebbe stata sufficiente a danneggiare persino imbarcazioni più solide di quelle costruite da questi vichinghi. Lo stesso fortunale aveva colpito il vascello franco sul quale Turlogh era imbarcato come passeggero, facendogli perdere la rotta e spingendolo ancora più a sud. I giorni e le notti erano stati un cieco caos ululante nel quale la nave era stata sospinta, volando come un uccello ferito nella tempesta. E nel culmine della tempesta una prua aguzza aveva torreggiato tra le basse e grevi nubi al di sopra della nave più piccola e larga, ed i rampini d'arrembaggio l'avevano assalita. Senza dubbio questi norvegesi erano lupi, e la sete di sangue che ardeva nei loro cuori non era umana. Nel terrore e nel mugghio della tempesta balzarono ululando verso il massacro, e mentre il cielo rabbioso scagliava loro addosso tutta la sua furia ed ogni sussulto delle onde impazzite minacciava di inghiottire entrambi i vascelli, questi lupi di mare saziarono il loro furore all'estremo... veri figli del mare, le cui gesta più selvagge trovavano eco nei loro stessi petti. Era stato un massacro piuttosto che una lotta - essendo il celta l'unico combattente a bordo della nave condannata - ed ora egli ricordava la strana familiarità del viso che aveva osservato di sfuggita proprio prima di essere abbattuto. Chi...? «Salute, mio coraggioso dalcassiano, è da lungo tempo che non ci incontriamo!» Turlogh fissò l'uomo che si ergeva di fronte a lui, i piedi puntellati contro l'ondeggiare del ponte. Possedeva una statura incredibile, una buona mezza testa più alto di Turlogh che già da sé superava tranquillamente il metro e ottanta. Le gambe dell'uomo erano simili a colonne, le braccia di quercia e ferro. La sua barba era di colore oro vivo, identico ai massicci bracciali che indossava. Una cotta di armatura a scaglie si aggiungeva al suo aspetto bellicoso, così come l'elmo cornuto sembrava aumentarne l'altezza. Però non vi era ira nei calmi occhi grigi che osservavano tranquilli quelli ardenti d'azzurro del Gaelico.
«Athelstane il Sassone!» «Sì... è passato molto tempo da quando mi regalasti questa,» e il gigante indicò una sottile cicatrice bianca sulla tempia. «Sembra che il destino ci riservi di doverci incontrare in notti tempestose... la prima volta incrociammo il nostro acciaio la notte in cui bruciasti lo skalli di Thorfel. Poi caddi sotto la tua ascia e mi salvasti dai Pitti di Brogar... l'unico di tutti i seguaci di Thorfel. Stanotte sono stato io ad abbatterti.» Toccò la grande spada a due mani fissata sulle spalle e Turlogh imprecò. «No, non mi insultare,» disse Athelstane con un'espressione addolorata. «Avrei potuto ucciderti nella lotta... invece colpii con il piatto della spada, ma sapendo che voi irlandesi avete delle zucche maledettamente dure, colpii con entrambe le mani. Sei rimasto privo di sensi per ore. Lodbrog avrebbe voluto ucciderti con il resto dell'equipaggio della nave mercantile, ma io ho richiesto la tua vita. Però i vichinghi hanno accettato di risparmiarti solo a condizione di tenerti legato all'albero maestro. Ti conoscono da tempo.» «Dove siamo?» «Non chiedermelo. La tempesta ci ha spinti molto fuori rotta. Stavamo navigando per assalire le coste spagnole, quando il caso ci fece imbattere nel vostro vascello. Ovviamente, non ci facemmo sfuggire l'opportunità, ma il bottino è stato scarso. Adesso stiamo navigando seguendo la corrente, senza sapere dove ci condurrà. La barra del timone è danneggiata e l'intera nave è storpiata. Potremmo benissimo navigare sull'orlo stesso del mondo per quanto ne posso sapere. Giura di unirti a noi e ti libererò.» «Giurerei di unirmi alle schiere dell'Inferno!», ringhiò Turlogh. «Piuttosto affonderò con questa nave e dormirò per l'eternità sotto i verdi flutti, legato a questo albero. Il mio unico rimpianto è quello di non poter mandare altri lupi dei mari ad unirsi agli altri cento e passa che ho già mandato in Purgatorio!» «Bene, bene,» disse Athelstane tollerante, «un uomo deve anche mangiare... ecco... almeno ti libererò le mani... adesso, affonda i denti in questo pezzo di carne.» Turlogh piegò il capo verso il grosso taglio e famelicamente ne strappò un pezzo. Il Sassone lo osservò per un momento, poi si girò. Un uomo strano, rifletté Turlogh, questo rinnegato Sassone che cacciava con un branco di lupi del nord... un guerriero selvaggio in battaglia, ma con tracce di gentilezza nel suo comportamento che lo rendevano diverso dagli uomini ai quali si era unito.
La nave vacillò, cieca, nella notte, ed Athelstane, ritornando con un grosso corno pieno di birra spumeggiante, fece osservare che le nubi si stavano radunando nuovamente, oscurando la ribollente superficie del mare. Lasciò libere le mani del Gaelico, ma Turlogh era saldamente legato all'albero da corde attorno alle gambe ed al corpo. I predoni non prestavano alcuna attenzione al prigioniero; erano troppo occupati ad evitare che la nave danneggiata affondasse sotto i loro piedi. Dopo un po' Turlogh credette di poter cogliere un profondo ruggito che sovrastava il rumore delle onde. Cresceva in volume e persino gli ottusi norvegesi lo udirono quando la nave sobbalzò come un cavallo spronato, tendendo tutto il fasciame. Come per magia le nubi, in attesa dell'alba, si aprirono da ogni lato, mostrando un'enorme distesa di acqua grigia agitata ed una lunga linea di frangenti proprio a dritta. Oltre la vibrante follia della barriera si trovava la terra, apparentemente un'isola. Il ruggito aumentò fino ad assumere proporzioni assordanti, mentre la lunga nave, nella morsa della corrente, procedeva rapida verso la sua fine. Turlogh vide Lodbrog precipitarsi in giro, la sua lunga barba che ondeggiava al vento mentre stringeva i pugni e tuonava inutili comandi. Athelstane giunse di corsa sul ponte. «Ben poca speranza per tutti noi,» ringhiò mentre tagliava i legami del Gaelico, «però tu ne avrai tanta quanto gli altri...» Turlogh fu libero. «Dov'è la mia ascia?» «Là nella rastrelliera. Ma per il sangue di Thor, uomo,» si stupì il grande sassone, «non vorrai appesantirti adesso...» Turlogh aveva afferrato l'ascia e la sicurezza fluì come vino nelle sue vene al tocco familiare del manico sottile ed aggraziato. Quell'ascia faceva parte di lui come la sua mano destra; se doveva morire desiderava farlo con l'ascia stretta in mano. La fissò rapido alla cintura. Era stato completamente spogliato dell'armatura quando era stato catturato. «Gli squali infestano queste acque,» disse Athelstane, preparandosi a liberarsi della sua armatura. «Se dobbiamo nuotare...» La nave andò a sbattere con uno schianto che spezzò gli alberi e fece vibrare la prua come vetro. La polena a forma di drago venne scagliata alta nel cielo e gli uomini caddero come birilli dal ponte inclinato. Rimase in equilibrio un momento vibrando come se fosse viva, poi scivolò dalla barriera sommersa ed affondò in un accecante turbinio di schiuma. Turlogh aveva abbandonato il ponte con un lungo tuffo che lo aveva portato lontano. Emerse nel tumulto, lottò con le onde per un folle istante,
poi afferrò un rottame del naufragio che le onde avevano portato fino lì. Mentre vi saliva sopra una figura lo urtò ed affondò. Turlogh tuffò il braccio in profondità, afferrò un cinturone e sollevò l'uomo issandolo sulla sua zattera improvvisata. Perché in quell'istante aveva riconosciuto il Sassone Athelstane, ancora appesantito dall'armatura che non aveva avuto il tempo di levarsi. L'uomo sembrava stordito. Giaceva floscio, le gambe molli. Turlogh ricordò quella cavalcata tra la barriera come un incubo caotico. La marea li sommerse facendo affondare la loro fragile imbarcazione per poi sputarla verso il cielo. Non c'era nulla da fare se non resistere e sperare nella fortuna. E Turlogh resistette, tenendo il Sassone con una mano e la zattera con l'altra, mentre sembrava che le sue dita si sarebbero spezzate per lo sforzo. Cento volte furono sul punto di essere sommersi; poi grazie a qualche miracolo passarono, navigando in acque relativamente calme e Turlogh vide una pinna snella tagliare la superficie ad un centinaio di metri di distanza. Si avvicinò e Turlogh liberò la sua ascia e colpì. Immediatamente le acque si tinsero di rosso ed un accorrere di forme sinuose fece ondeggiare la zattera. Mentre gli squali sbranavano il loro compagno, Turlogh, pagaiando con le mani, spinse la rozza imbarcazione verso riva fino a quando non riuscì a sentire il fondo. Avanzò a fatica sino alla spiaggia trascinando il Sassone; poi, sebbene fosse fatto d'acciaio, Turlogh O'Brien si accasciò esausto e subito si addormentò profondamente. 2. Gli dei dall'Abisso Turlogh non dormì a lungo. Quando si destò il sole era appena sorto sul mare. Il Gaelico si alzò sentendosi riposato come se avesse dormito tutta la notte e si guardò attorno. L'ampia spiaggia era leggermente inclinata partendo dal mare fino ad una ondeggiante distesa di alberi giganteschi. Non sembrava esserci alcun sottobosco, ma gli enormi tronchi erano così ravvicinati tra loro, che la vista di Turlogh non riusciva a penetrare la giungla. Athelstane era poco distante, su di una lingua di sabbia che si protendeva nel mare. L'enorme Sassone era chino sulla sua grande spada e fissava verso la scogliera. Qua e là sulla spiaggia erano distese delle rigide figure lambite dalle onde. Un improvviso ghigno di soddisfazione spuntò sulle labbra di Turlogh. Ai suoi piedi si trovava un vero dono degli dei; un vichingo morto accanto a lui, completamente vestito del suo elmo e del corpetto di cotta di maglia che non aveva avuto il tempo di levarsi quando la nave era affondata, e
Turlogh vide che si trattava proprio del suo equipaggiamento. Persino il piccolo scudo rotondo legato sulla schiena del norvegese era il suo. Turlogh si fermò a riflettere su come il tutto fosse divenuto proprietà di un solo uomo, ma poi spogliò il morto ed indossò il semplice elmo rotondo e la cotta di maglia nera. Così armato risalì la spiaggia verso Athelstane, gli occhi scintillanti in maniera sgradevole. Il Sassone si girò quando si avvicinò. «Salve, Gaelico,» lo salutò. «Noi due, di tutta la ciurma della nave di Lodbrog, siamo gli unici rimasti in vita. Il vorace mare verde se li è bevuti tutti. Per Thor, ti devo la vita! Con il peso della mia maglia di ferro ed il taglio in testa che mi sono procurato contro il parapetto, sarei certamente stato cibo per gli squali se non fosse stato per te. Sembra come un sogno adesso.» «Mi hai salvato la vita,» ringhiò Turlogh, «io ho salvato la tua. Adesso il debito è saldato, i conti sono regolati, perciò alza la spada e facciamola finita.» Athelstane lo fissò stupito. «Desideri combattermi? Perché... Cosa...?» «Odio la tua razza così come odio Satana!», ruggì il Gaelico, una sfumatura di follia nei suoi occhi fiammeggianti, «I tuoi lupi hanno depredato il mio popolo per cinquecento anni! Le fumanti rovine delle regioni meridionali, i mari di sangue versato chiedono vendetta! Le urla di mille ragazze violentate risuonano nelle mie orecchie, notte e giorno! Come vorrei che il Nord avesse un solo petto da fendere con la mia ascia!» «Ma io non sono un norvegese,» borbottò preoccupato il gigante. «Maggiore disonore su di te, rinnegato,» strillò il furibondo Gaelico, «Difenditi se non vuoi che ti massacri a sangue freddo!» «Tutto ciò non mi aggrada,» protestò Athelstane, sollevando la possente lama, i suoi occhi grigi seri ma impavidi. «La gente dice la verità quando afferma che in te alberga la follia.» Le parole cessarono quando gli uomini si prepararono ad affrontare un'azione mortale. Il Gaelico si avvicinò al suo avversario rannicchiato come una pantera, gli occhi in fiamme. Il Sassone attese l'assalto con le gambe ben divaricate, la spada sollevata alta con entrambe le mani. Erano l'ascia e lo scudo di Turlogh contro lo spadone di Athelstane; in un duello un solo colpo poteva far finire la tenzone in favore di uno o dell'altro. Come due enormi animali della giungla recitavano il loro cauto gioco di morte, poi... Proprio mentre i muscoli di Turlogh si tendevano per un balzo mortale, un suono spaventoso squarciò il silenzio! Entrambi gli uomini sobbalzaro-
no e si ritrassero. Dal cuore della foresta dietro di loro si levò un urlo spaventoso ed inumano. Acuto, eppure fortissimo, si levò sempre più sonoro fino a quando non cessò sulla nota più alta come il trionfo di un dèmone, come l'urlo di qualche orco truculento e maligno sopra la sua preda umana. «Per il sangue di Thor!», gemette il Sassone, abbassando la punta della spada, «Cos'è stato?» Turlogh scosse il capo. Persino i suoi nervi d'acciaio erano leggermente scossi. «Qualche dèmone della foresta. Questa è una terra strana in un mare altrettanto strano. Forse Satana in persona regna in questo luogo, e questa è la porta dell'Inferno.» Athelstane sembrava perplesso. Era più pagano che cristiano, ed i suoi diavoli erano diavoli pagani. Non per questo però erano meno terribili. «Beh,» disse il Sassone, «sospendiamo la nostra faccenda fino a quando non avremo scoperto di che cosa si tratta. Due lame sono meglio di una, sia contro uomo che dèmone...» Un grido selvaggio l'interruppe bruscamente. Questa volta si trattava di una voce umana, raggelante nel suo orrore e disperazione. Nello stesso instante si udì il rapido calpestio di piedi e la massiccia corsa di qualche corpo pesante attraverso gli alberi. I guerrieri si voltarono verso il suono e dalle ombre profonde sbucò, come una foglia bianca soffiata dal vento, una donna seminuda. I suoi capelli sciolti la incoronavano come una fiamma d'oro, le gambe lattee brillavano nel sole mattutino, i suoi occhi ardevano di frenetico terrore. E dietro di lei... Persino i capelli di Turlogh si rizzarono. La cosa che inseguiva la ragazza in fuga non era né uomo né bestia. Nella forma somigliava ad un uccello, ma un uccello che il resto del mondo non aveva più conosciuto da secoli. Torreggiava alto quasi quattro metri, e la testa malvagia dai crudeli occhi rossi e lo spietato becco ricurvo era grossa quanto quella di un cavallo. Il lungo collo arcuato era più spesso della coscia di un uomo e le enormi zampe dotate di artigli avrebbero potuto afferrare la ragazza in fuga come un'aquila afferra un passero. Turlogh vide tutto ciò con un'occhiata, quando balzò tra il mostro e la sua preda, che si accasciò sulla spiaggia con un grido. Il mostro torreggiava come una montagna di morte, ed il malvagio becco dardeggiò verso il basso addentando lo scudo sollevato di Turlogh e facendolo barcollare per l'impatto. Nello stesso istante l'uomo colpì, ma l'ascia affilata affondò innocua in una spessa massa di irte piume. Nuovamente il beccò si mosse fulmineo verso il Gaelico e solo un balzo di lato gli salvò la vita. Fu allora
che Athelstane intervenne e, puntando bene i piedi, sferrò un colpo con la sua grande spada e tutta la sua forza. La possente lama tranciò di netto una delle zampe, simili a tronchi d'albero, proprio sotto il ginocchio e con un grido abominevole il mostro si rovesciò di lato, sbattendo selvaggiamente le corte e pesanti ali. Turlogh piantò la punta posteriore della sua ascia tra i fiammeggianti occhi rossi e l'uccello gigantesco scalciò convulsamente e poi si irrigidì. «Per il sangue di Thor!» I grigi occhi di Athelstane stavano avvampando di ardore per la battaglia, «Siamo veramente giunti sull'orlo del mondo...» «Controlla la foresta nel caso ne venga fuori un altro,» ordinò Turlogh mentre si voltava verso la donna che si era rialzata ed ansimava, gli occhi spalancati per lo stupore. Era un giovane e splendido animale: alta, snella, flessuosa e formosa. Il suo unico indumento era un trasparente pezzo di seta avvolto con negligenza attorno alla vita. Però nonostante l'abito ridotto suggerisse l'idea della selvaggia, la sua pelle era candida come la neve, i capelli sciolti dell'oro più puro e gli occhi grigi. La ragazza parlò molto velocemente, balbettando nella lingua dei norvegesi, come se non la parlasse da molti anni. «Voi... chi sono voi uomini? Quando arrivati? Cosa fare su Isola degli Dei?» «Per il sangue di Thor!», borbottò il Sassone; «appartiene alla nostra stirpe!» «Non alla mia!», sbottò Turlogh, incapace persino in quel momento di dimenticare il suo odio per la gente del Nord. La ragazza osservò incuriosita i due. «Il mondo deve essere cambiato molto da quando lo lasciai,» disse, evidentemente di nuovo nel pieno controllo di sé, «altrimenti come si spiegherebbe che il lupo ed il toro cacciano insieme? A giudicare dai capelli neri tu sei un Gaelico, mentre tu, grosso uomo, quando parli farfugli in un modo che non può essere altro che sassone.» «Siamo due esuli,» rispose Turlogh. «Vedi questi cadaveri sulla spiaggia? Erano l'equipaggio del drakkar che ci ha portati qui, spinto dalla tempesta. Quest'uomo, Athelstane, un tempo del Wessex, era un guerriero su quella nave ed io un prigioniero. Mi chiamo Turlogh Dubh, un tempo capo del Clan na O'Brien. Chi sei tu e quale terra è questa?» «Questa è la landa più antica del mondo,» rispose la ragazza, «Roma, l'Egitto, il Catai, non solo altro che infanti di fronte ad essa. Io sono Brunilde, figlia del figlio di Rane Thorfin, delle Orcadi, e fino a pochi giorni
fa regina di questo antico regno.» Turlogh fissò incerto Athelstane. Tutto questo sapeva di stregoneria. «Dopo ciò che abbiamo appena visto,» borbottò il gigante, «sono pronto a credere a qualunque cosa. Però sei tu veramente la figliola rapita del figlio di Rane Thorfin?» «Certo!», strillò la ragazza, «lo sono! Fui rapita quando Tostig il Pazzo depredò le Orcadi e bruciò i possedimenti di Rane approfittando della sua assenza...» «E poi Tostig svanì dalla faccia della terra... o del mare!», la interruppe Athelstane. «Egli era un pazzo, in verità. Veleggiai con lui per saccheggiare delle navi, molti anni fa, quando non ero altro che un ragazzo.» «E la sua pazzia mi portò su questa isola,» rispose Brunilde; «perché dopo aver assalito le sponde dell'Inghilterra, il fuoco nella sua mente lo spinse verso mari sconosciuti... a sud, sempre più a sud, fino a quando persino i feroci lupi che comandava iniziarono a rumoreggiare. Poi una tempesta ci spinse sulla scogliera, anche se da un'altra parte di quest'isola, demolendo il drakkar così come il vostro fu distrutto la scorsa notte. Tostig e tutti i suoi robusti uomini perirono tra i flutti, ma io mi aggrappai a rottami del naufragio ed il capriccio degli dèi mi portò a riva, mezza morta. Avevo quindici anni allora. È stato dieci anni fa. «Trovai un popolo strano e terribile che abitava qui, una razza dalla pelle bruna che conosceva molti oscuri segreti della magia. Mi trovarono svenuta sulla spiaggia, e poiché ero la prima bianca che avessero mai visto, i loro sacerdoti profetarono che fossi una dea donata loro dal mare, che essi adorano. Così mi misero nel tempio assieme agli altri loro dèi bizzarri e mi riverirono. Poi il loro supremo sacerdote, il vecchio Gothan - che sia maledetto il suo nome! - mi insegnò molte cose strane e spaventose. Ben presto appresi la loro lingua e molti dei misteri riservati ai sacerdoti. E mentre diventavo una donna, il desiderio per il potere si destò in me; perché le genti del Nord sono fatte per dominare i popoli della terra, e non è per la figlia di un re dei mari sedere timidamente in un tempio ed accettare le offerte di frutti e fiori ed i sacrifici umani!» Si fermò per un momento, gli occhi in fiamme. Sembrava veramente la degna figlia della fiera razza cui diceva di appartenere. «Bene,» continuò, «c'era uno che mi amava... Kotar, un giovane capo. Insieme a lui complottai e finalmente mi ribellai e spezzai il giogo del vecchio Gothan. Quella fu una selvaggia stagione di intrighi e contro intrighi, ribellioni e sanguinosi massacri! Uomini e donne morirono come mosche e
le vie di Bal-Sagoth divennero fiumi di sangue... ma alla fine trionfammo, Kotar ed io! La dinastia di Angar giunse alla fine in una notte di sangue e di furore ed io regnai sovrana sull'Isola degli Dei, regina e dea!» Si era sollevata in tutta la sua altezza, il viso bellissimo acceso di fiero orgoglio, il petto ansimante. Turlogh fu allo stesso tempo affascinato e disgustato. Aveva visto dominatori sorgere e cadere, e tra le righe della breve narrazione di Brunilde lesse lo spargimento di sangue ed il massacro, la crudeltà ed il tradimento, percependo la spietatezza di fondo di quella giovane donna. «Però se eri la regina,» le chiese, «come mai ti troviamo nella foresta del tuo dominio cacciata da questo mostro, come una giovane servetta fuggiasca?» Brunilde si morse il labbro ed un rossore irato le salì alle guance. «Cos'è che fa cadere ogni donna, qualunque sia la sua posizione? Mi fidavo di un uomo... Kotar, il mio amante, con il quale condividevo il potere. Mi tradì; dopo averlo portato fino alle cariche più alte del regno, vicine alle mie, scoprii che faceva segretamente l'amore con un'altra ragazza. Li ho uccisi entrambi!» Turlogh rise freddamente: «Sei una vera Brunilde! E cosa accadde dopo?» «Kotar era amato dalla gente. Gothan la fece insorgere. Commisi il mio più grave errore quando lasciai in vita quel vecchio. Eppure non osavo ucciderlo. Bene, Gothan si ribellò contro di me, così come io avevo fatto contro di lui, ed i guerrieri si rivoltarono, uccidendo quelli che mi erano rimasti fedeli. Mi fecero prigioniera, ma non osarono uccidermi; perché, dopo tutto, ero una dea, loro credevano. Così, prima dell'alba, temendo che la gente potesse cambiare nuovamente idea e mi restituisse i poteri, Gothan mi fece portare alla laguna che separa questa parte dell'isola dall'altra. I sacerdoti mi traghettarono in barca attraverso la laguna e mi lasciarono, nuda ed indifesa, al mio destino.» «E quel destino era... questo?» Athelstane toccò l'enorme carcassa con un piede. Brunilde rabbrividì. «Innumerevoli ere fa, dicono le leggende, esistevano molti di questi mostri sull'isola. Combattevano contro la gente di BalSagoth e li divoravano a centinaia. Però alla fine furono tutti sterminati nella parte principale dell'isola, mentre su questo lato della laguna morirono tutti tranne questo, che ha abitato qui per secoli. Nei tempi passati gruppi di uomini gli diedero la caccia, ma egli era il più grande degli uc-
celli-diavolo ed uccise tutti coloro che lo affrontarono. Così i sacerdoti lo fecero dio e gli lasciarono questa parte dell'isola. Nessuno viene qui tranne quelli portati come sacrificio... come me. Non poteva ritornare alla parte principale dell'isola perché la laguna pullula di grandi squali che avrebbero fatto a pezzi persino lui. «Per un po' riuscii ad eluderlo muovendomi furtivamente tra gli alberi, ma alla fine riuscì a scovarmi... e voi conoscete il resto della storia. Vi devo la vita. Ed ora cosa farete di me?» Athelstane guardò Turlogh ed il Gaelico fece spallucce. «Cosa possiamo fare, se non morire di fame in questa foresta?» «Ve lo dirò io!», gridò la ragazza con voce squillante, gli occhi nuovamente infiammati sotto il rapido lavorio della sua mente acuta. «C'è una vecchia leggenda tra questa gente... di uomini di ferro venuti dal mare e della caduta della città di Bal-Sagoth! Voi, con le vostre cotte di maglia e gli elmi, sembrerete uomini di ferro per questa gente che non sa nulla di armature! Avete ucciso Groth-golka, il dio-uccello... siete venuti dal mare come me... la gente vi vedrà come dèi. Venite con me ed aiutatemi a riconquistare il mio regno! Sarete i miei bracci destri ed accumulerete onori! Splendidi abiti, palazzi favolosi, le ragazze più belle saranno vostre!» Le promesse di Brunilde scivolarono sulla mente di Turlogh senza lasciare traccia, ma il folle splendore della proposta lo intrigava. Desiderava fortemente vedere quella strana città di cui aveva parlato, ed il pensiero di due guerrieri e di una ragazza opposti ad un'intera nazione per una corona mosse i fili più reconditi della sua anima di cavaliere errante celta. «Va bene,» disse. «E tu, Athelstane, cosa ne dici?» «La mia pancia è vuota,» ringhiò il gigante. «Portami dove si trova del cibo ed io mi aprirò la strada a suon di fendenti attraverso un'orda di sacerdoti e guerrieri.» «Conducici alla città!», disse Turlogh a Brunilde. «Evviva!», gridò la donna, alzando verso il cielo le bianche braccia in segno di selvaggia esultanza. «Adesso andiamo a far tremare Gothan, Ska e Gelka! Con voi al mio fianco riprenderò la corona che mi strapparono, e questa volta non risparmierò i miei nemici! Getterò il vecchio Gothan giù dal bastione più alto, anche se le urla dei suoi dèmoni dovessero far tremare le viscere stesse della terra! E vedremo se il dio Gol-goroth resisterà di fronte alla spada che ha mozzato la gamba di Groth-golka. Adesso taglia la testa dalla carcassa, così che il popolo possa sapere che avete sconfitto il dio-uccello. Adesso seguitemi, perché il sole sta scalando il cielo ed io
questa notte voglio dormire nel mio palazzo!» I tre entrarono fra le ombre della maestosa foresta. I rami intrecciati a centinaia di metri sopra le loro teste, affievolivano e rendevano strana e opaca la poca luce solare che riusciva a filtrare. Non videro alcuna forma di vita al di fuori di occasionali uccelli dal piumaggio sgargiante od una enorme scimmia. Quegli animali, disse Brunilde, erano sopravvissuti di un'epoca passata, innocui tranne se attaccati. Poco dopo la vegetazione mutò, gli alberi si diradarono e rimpicciolirono e frutta di ogni tipo fu visibile tra i rami. Mentre avanzavano, Brunilde disse ai guerrieri quali di quei frutti prendere e mangiare. Turlogh rimase piuttosto soddisfatto dai frutti, mentre Athelstane, sebbene ne avesse mangiati in quantità enorme, ne provò uno scarso gusto. La frutta era un alimento leggero per un uomo avvezzo a cose molto più sostanziose che formavano la sua dieta regolare. Persino tra gli ingordi danesi, la capacità del sassone di mangiare carne e bere birra era ammirata. «Guardate!», gridò improvvisamente Brunilde fermandosi ed indicando. «Le guglie di Bal-Sagoth!» Attraverso gli alberi i guerrieri colsero un bagliore bianco ed abbacinante, apparentemente molto lontano. C'era un'impressione illusoria di bastioni torreggianti, alti nell'aria, con nubi frastagliate sospese attorno ad essi. Quella vista destò strani sogni nelle mistiche profondità dell'animo del Gaelico, e persino Athelstane rimase silenzioso come se anch'egli fosse stato colpito dalla bellezza pagana e dal mistero di quella scena. Avanzarono così nella foresta, una volta perdendo di vista la lontana città quando le cime degli alberi ostruivano la vista, un'altra rivedendola nuovamente. Finalmente sbucarono sulle basse sponde digradanti di un'ampia laguna azzurra e la bellezza del paesaggio esplose ai loro occhi. Sulla riva opposta il terreno saliva con lunghe e leggere ondulazioni che si frangevano come grandi e lente onde ai piedi di una catena di colline azzurre distanti pochi chilometri. Queste ampie ondulazioni erano coperte da erba alta e da molti gruppi di alberi, mentre per chilometri, su entrambi i lati, si vedevano curvare in lontananza le strisce di fitta foresta che Brunilde disse circondavano l'intera isola. E tra queste sognanti colline azzurre si ergeva l'antichissima città di Bal-Sagoth, con le sue bianche mura e le torri di zaffiro stagliate contro il cielo mattutino. L'impressione di grande distanza era stata un'illusione. «Non è un regno per il quale vale la pena di lottare?», gridò Brunilde, la voce vibrante. «In fretta adesso... leghiamo assieme questi tronchi secchi e
costruiamo una zattera. Non sopravviveremmo un istante se nuotassimo in queste acque infestate dagli squali.» In quel mentre una figura sbucò dall'erba alta sulla riva opposta... un uomo nudo dalla pelle bruna, che li fissò per un momento, a bocca aperta. Poi, quando Athelstane gridò e sollevò la macabra testa di Groth-golka, l'uomo emise un grido di stupore e corse via veloce come un antilope. «Uno schiavo che Gothan ha lasciato per vedere se cercavo di nuotare attraverso la laguna,» disse Brunilde con rabbiosa soddisfazione. «Lasciamolo correre fino in città a raccontare... ma affrettiamoci ad attraversare la laguna prima che Gothan possa arrivare e ci impedisca di passare.» Turlogh ed Athelstane erano già al lavoro. Un certo numero di alberi morti erano sparsi nelle vicinanze e di questi tagliarono i rami e li legarono assieme con lunghe liane. In poco tempo avevano costruito una zattera rozza e poco maneggevole, ma in grado di farli attraversare la laguna. Brunilde emise un franco respiro di sollievo quando sbarcarono sull'altra sponda. «Andiamo direttamente alla città,» disse lei. «Lo schiavo l'avrà già raggiunta, ed in questo momento ci staranno tutti osservando dalle mura. Un'azione baldanzosa è la nostra unica mossa. Per il martello di Thor, come mi piacerebbe poter vedere la faccia di Gothan nel momento in cui lo schiavo gli riferisce che Brunilde sta ritornando con due strani guerrieri e la testa di colui al quale era stata offerta come sacrificio!» «Perché non hai ucciso Gothan quando ne hai avuto la possibilità?», chiese Athelstane. Brunilde scosse il capo, i suoi occhi offuscati da qualcosa affine alla paura: «Più facile a dirsi che a farsi. Metà del popolo odia Gothan, l'altra metà lo ama, e tutti lo temono. I più anziani della città dicono che fosse vecchio quando loro erano bambini. Il popolo lo crede più un dio che un sacerdote, ed io stessa l'ho visto operare cose terribili e misteriose, oltre il potere di un uomo comune. «No, quando non ero altro che un fantoccio nelle sue mani, giunsi solo alla superficie dei suoi misteri, eppure vidi cose che mi gelarono il sangue: strane ombre scivolare lungo le mura a mezzanotte, e brancolando lungo neri corridoi sotterranei nel cuore della notte udii suoni blasfemi e percepii la presenza di creature orripilanti. Ed una volta ascoltai terribili ululati sbavanti della Cosa senza nome che Gothan tiene incatenata nelle viscere delle colline sulle quali poggia la città di Bal-Sagoth.» Brunilde rabbrividì.
«Ci sono molti dèi a Bal-Sagoth, ma il più grande di tutti è Gol-goroth, il dio delle tenebre che dimora perennemente nel Tempio delle Ombre. Quando rovesciai il potere di Gothan, proibii l'adorazione di Gol-goroth e feci giurare ai suoi sacerdoti fedeltà verso l'unica vera divinità, A-ala, la figlia del mare... me stessa. Ordinai a uomini robusti di prendere pesanti martelli ed abbattere l'immagine di Gol-goroth, ma i loro colpi fracassarono solo i martelli ed inflissero strane ferite agli uomini che li brandivano. Gol-goroth era indistruttibile e non mostrava alcuna scalfittura. Così desistetti e chiusi le porte del Tempio delle Ombre che vennero aperte solo quando fui rovesciata e Gothan, che si era rifugiato nei luoghi segreti della città, ritornò al suo tempio. Allora, nuovamente Gol-goroth regnò nel pieno del suo terrore, e gli idoli di A-ala furono abbattuti nel Tempio del Mare, mentre i sacerdoti di A-ala morirono ululando sugli altari lordi di sangue di fronte al dio nero. Ma ora vedremo!» «Sei proprio una vera Valchiria,» sbottò Athelstane. «Però tre contro una nazione hanno poche probabilità di avere successo... specialmente contro un popolo come questo, che deve sicuramente essere composto tutto da streghe e maghi.» «Bah!», gridò Brunilde sprezzante, «Ci sono molti stregoni, questo è vero, ma sebbene la gente ci sia aliena, a modo suo è semplicemente sciocca, così come lo è in tutte le nazioni. Quando Gothan mi condusse prigioniera lungo le strade mi sputarono addosso. Adesso si ribelleranno contro Ska, il nuovo re che Gothan ha dato loro, quando vedranno rinascere nuovamente la mia stella! Ci stiamo avvicinando alle porte della città... siate sfrontati, ma attenti!» Avevano asceso i lunghi pendii ondulati e non erano molto distanti dalle mura che si ergevano immense verso il cielo. Di sicuro, pensò Turlogh, dèi pagani costruirono questa città. Le mura sembravano di marmo e con i loro bastioni ricoperti di fregi e le sottili torri di guardia, faceva scomparire la memoria di città come Roma, Damasco e Bisanzio. Un'ampia strada bianca e tortuosa conduceva dai livelli più bassi del pianoro fin davanti ai cancelli, e mentre risalivano la strada i tre avventurieri sentirono centinaia di occhi fissi su di loro con feroce intensità. Le mura sembravano deserte; poteva benissimo essere una città morta. Però l'impatto di quegli occhi fissi era percepibile. Si ritrovarono davanti a portali massicci, che agli occhi stupiti dei guerrieri sembravano essere di argento cesellato. «Questo sì che è il prezzo del riscatto di un imperatore!» borbottò Athel-
stane, gli occhi in fiamme. «Per il sangue di Thor, se avessi solo una banda di robusti pirati ed una nave per portare via il bottino!» «Bussate al portale e poi arretrate, per evitare che vi cada qualcosa addosso,» disse Brunilde ed il rombo dell'ascia di Turlogh sui portali destò echi tra le colline dormienti. Poi i tre arretrarono di alcuni passi ed improvvisamente i possenti cancelli si aprirono verso l'interno rivelando uno strano assembramento di persone. I due guerrieri bianchi osservavano una parata di splendore barbarico. Una folla di uomini alti, magri e dalla pelle scura si trovava ai cancelli. I loro unici abiti erano perizomi di seta, la cui fine tessitura contrastava stranamente con la quasi totale nudità di chi l'indossava. Alte piume ondeggianti dai molti colori ornavano le loro teste, e bracciali e cavigliere d'oro e d'argento, tempestati di gemme scintillanti, completavano le loro ornamentazioni. Non indossavano alcun tipo di armatura, ma ciascuno portava uno scudo leggero sul braccio sinistro, fatto di legno duro lucidato e bordato d'argento. Le loro armi erano lance dalla punta sottile, piccole accette e pugnali, tutti di fine acciaio. Evidentemente quei guerrieri si basavano più sulla velocità e l'abilità che sulla forza bruta. Di fronte a questa banda si trovavano tre uomini che attirarono istantaneamente l'attenzione. Uno era un guerriero smilzo dal volto di falco, alto quasi quanto Athelstane, che portava attorno al collo una grande catena d'oro a cui era sospeso un curioso simbolo di giada. Un altro era giovane, dallo sguardo malvagio; un'impressionante accozzaglia di colori nel suo mantello di piume di pappagallo che pendeva dalle spalle. Il terzo non aveva nulla che lo distinguesse dal resto della folla se non la sua strana personalità. Non indossava alcun mantello né portava armi. Il suo unico indumento era un semplice perizoma. Era molto vecchio; solo lui di tutta la folla portava la barba, che era bianca come i lunghi capelli che gli scendevano sulle spalle. Era molto alto e magro; ed i suoi grandi occhi scuri ardevano di un fuoco nascosto. Turlogh lo riconobbe senza che gli venisse detto: si trattava di Gothan, sacerdote del Dio Nero. Il vecchio trasudava una vera e propria aura di antichità e di mistero. I grandi occhi erano come finestre di qualche tempio dimenticato, dietro le quali, come spettri, passavano i suoi pensieri oscuri e terribili. Turlogh percepì che Gothan aveva scrutato troppo in profondità nei segreti proibiti per rimanere completamente umano. Era passato attraverso porte che lo avevano tagliato fuori dai sogni, dai desideri e dalle emozioni degli ordinari mortali. Fissando in quelle pupille fisse, Turlogh si sentì accapponare la pelle, come se avesse
guardato negli occhi di un grande serpente. Poi un'occhiata verso l'alto gli mostrò che le mura erano affollate da persone silenziose dagli occhi scuri. Il palcoscenico era stato predisposto; tutto era pronto per il rapido dramma di sangue. Turlogh sentì aumentare il battito per la feroce euforia e gli occhi di Athelstane iniziarono ad ardere di luce cattiva. Brunilde avanzò sfrontatamente a testa alta, la sua splendida figura vibrante. I guerrieri bianchi non potevano ovviamente capire cosa si stavano dicendo la donna e gli altri tranne quello che potevano capire dai gesti e dalle espressioni, ma più tardi Brunilde narrò la conversazione quasi parola per parola. «Bene, popolo di Bal-Sagoth,» disse lei pronunciando lentamente le parole, «cosa avete da dire alla vostra dea che avete deriso ed oltraggiato?» «Cosa vuoi, falsa?», esclamò l'uomo alto, Ska, il re messo da Gothan; «tu che ti sei fatta beffe dei costumi dei nostri antenati, che hai disobbedito alle leggi di Bal-Sagoth, le più antiche del mondo, che hai assassinato il tuo amante e profanato il tempio di Gol-goroth? Tu sei stata condannata dalla legge, dal re e dal dio e portata nella cupa foresta oltre la laguna...» «Ed io, che sono parimenti una dea e più grande di qualunque altro dio,» rispose beffarda Brunilde, «sono ritornata dal regno del terrore con la testa di Groth-golka!» Ad un suo comando, Athelstane sollevò la testa dal grande becco ed un basso mormorio percorse le mura, teso dalla paura e dallo stupore. «Chi sono questi uomini?» Ska rivolse uno sguardo preoccupato verso i due guerrieri. «Essi sono gli uomini di ferro venuti dal mare!», rispose Brunilde con voce chiara che venne portata lontana; «gli esseri venuti in risposta alla vecchia profezia per rovesciare la città di Bal-Sagoth, il cui popolo è traditore ed i cui sacerdoti sono falsi!» A quelle parole il mormorio spaventato eruppe nuovamente lungo tutte le mura, fino a quando Gothan alzò la sua testa da avvoltoio ed il popolo si zittì ritraendosi di fronte al gelido sguardo dei suoi occhi terribili. Ska osservò confuso, la sua ambizione che lottava con la paura superstiziosa. Turlogh, fissando da vicino Gothan, credette di leggere sotto la maschera imperscrutabile del vecchio sacerdote. Perché nonostante tutta la sua saggezza inumana, Gothan aveva dei limiti. Questo ritorno improvviso di colei che aveva creduto ormai eliminata e l'apparizione dei giganti dalla
pelle bianca che l'accompagnavano, Turlogh ritenne a ragione che avesse colto Gothan di sorpresa. Non c'era stato tempo per preparare un'accoglienza adeguata. La gente aveva già iniziato a mormorare nelle strade contro la durezza del breve regno di Ska. Avevano sempre creduto nella divinità di Brunilde; adesso lei era tornata con due uomini alti del suo stesso colore di pelle, portando il macabro trofeo che segnava la conquista di un altro dei loro dèi, e la gente era titubante. Qualunque piccolo evento poteva far rivolgere la corrente da una parte o dall'altra. «Popolo di Bal-Sagoth!», gridò all'improvviso Brunilde, arretrando e sollevando le braccia, fissando i volti che la osservavano dall'alto. «Vi offro di allontanare il destino prima che sia troppo tardi! Mi avete scacciata e mi avete sputato addosso; vi siete rivolti a dèi più tenebrosi di me! Eppure perdonerò tutto ciò se ritornerete e giurerete obbedienza a me! Una volta mi avete oltraggiata... mi avete chiamata sanguinaria e crudele! Vero, sono stata una regina dura... ma Ska è stato da meno? Voi dite che staffilavo la gente con fruste di cuoio... Ska ha forse usato piume di pappagallo? «Una vergine moriva sul mio altare all'alta marea di ogni luna... ma giovinetti e fanciulle muoiono al salire e scendere, al sorgere ed al tramonto di ogni luna davanti a Gol-goroth, sul cui altare palpita sempre un cuore umano fresco! Ska non è altro che un'ombra! Il vostro vero signore è Gothan, appollaiato sulla città come un avvoltoio! Un tempo eravate un popolo potente; le vostre navi dominavano i mari. Ora siete un relitto che sta affondando rapidamente! Sciocchi! Morirete tutti sull'altare di Gol-goroth prima che Gothan muoia, ed egli camminerà solitario tra le silenziose rovine di Bal-Sagoth! «Guardatelo!», la voce di Brunilde si alzò fino a divenire uno strillo, quando venne presa da una frenesia ispirata, e persino Turlogh, per il quale le parole erano inintelligibili, rabbrividì. «Guardatelo, là come uno spirito del male dal passato! Egli non è neppure umano! Ve lo dico, è uno spettro malvagio, la cui barba è lorda del sangue di milioni di sacrifici... un diavolo incarnato giunto dalle nebbie dei tempi, venuto per distruggere la gente di Bal-Sagoth! «Scegliete adesso! Sollevatevi contro l'antico dèmone ed i suoi dei blasfemi, ricevete nuovamente la vostra legittima regina e dea e otterrete di nuovo parte della vostra grandezza passata. Rifiutate, e l'antica profezia verrà adempiuta ed il sole tramonterà sulle silenziose rovine di BalSagoth!» Infiammato dalle sue vibranti parole, un giovane guerriero con l'insegna
di capo balzò sul parapetto e gridò: «Salute, A-ala! Abbasso gli dèi sanguinari!» Tra la moltitudine molti raccolsero il grido e l'acciaio cozzò quando ebbe inizio una serie di scontri. La folla sui bastioni e nelle strade si sollevò e turbinò, mentre Ska fissava torvo e disorientato. Brunilde, trattenendo i suoi compagni che vibravano per l'impazienza di entrare in azione, gridò: «Fermi! Che nessun uomo sferri ancora un colpo! Popolo di Bal-Sagoth, è tradizione sin dall'alba dei tempi, che un re debba lottare per la sua corona! Lasciate che Ska incroci l'acciaio con uno di questi guerrieri! Se Ska vince, m'inginocchierò davanti a lui e potrà mozzarmi la testa! Se Ska perde, allora mi accetterete come vostra legittima regina e dea!» Un possente ruggito di approvazione eruppe dalle mura quando la gente smise di azzuffarsi, piuttosto contenta di passare la responsabilità ai loro governanti. «Combatterai, Ska?», chiese Brunilde rivolgendosi beffardamente al re. «Oppure mi consegnerai la tua testa senza ulteriori discussioni?» «Sgualdrina!», ululò Ska, quasi impazzito, «Userò i crani di quegli sciocchi come coppe per le mie libagioni e poi ti squarterò tra due alberi piegati!» Gothan gli poggiò una mano sul braccio mormorandogli qualcosa nell'orecchio, ma Ska aveva raggiunto il punto in cui era sordo a qualunque cosa se non alla sua furia. Aveva scoperto che la sua ambizione aveva fatto svanire la parte del mero pupazzo che danzava al comando di Gothan; adesso persino la vuota inezia del suo dominio gli stava sfuggendo di mano, e quella ragazzina lo rendeva ridicolo di fronte al suo popolo. Ska divenne, a tutti gli effetti pratici, pazzo furioso. Brunilde si rivolse ai suoi due alleati. «Uno di voi due deve combattere contro Ska.» «Fai che sia io!», incalzò Turlogh, gli occhi danzanti per la brama della battaglia. «Ha l'aspetto di un uomo scattante come un gatto selvatico ed Athelstane, sebbene sia un vero toro in fatto di forza, è troppo lento per questo tipo di lavoretti...» «Lento!», eruppe Athelstane con tono di rimprovero. «Lo sai, Turlogh, che per un uomo del mio peso...» «Basta,» li interruppe Brunilde. «Ska deve scegliere da sé.» La donna parlò a Ska, che la fissò per un istante con gli occhi iniettati di sangue, poi indicò Athelstane, il quale sorrise di cupa soddisfazione e gettata di lato la testa dell'uccello si slacciò la spada. Turlogh imprecò ed arre-
trò. Il re aveva deciso che avrebbe avuto maggiori possibilità contro quell'enorme bufalo in forma umana dall'aspetto lento, piuttosto che contro il guerriero simile a una tigre e dai capelli neri, la cui rapidità felina era evidente. «Questo Ska è senza armatura,» borbottò il Sassone. «Devo togliere anch'io la mia cotta di maglia e l'elmo così da lottare ad armi pari...» «No!», gridò Brunilde. «La tua armatura è la tua unica possibilità! Ti dico che questo falso re combatte con la velocità di una folgore estiva! Sarà già difficile per te combatterlo così. Tieni la tua armatura, ti dico!» «Bene, bene,» borbottò Athelstane, «La terrò... la terrò. Anche se continuo a dire che non è molto giusto. Adesso fallo venire e mettiamo fine a tutto ciò.» L'enorme Sassone avanzò pesantemente verso il suo avversario che si rannicchiò cauto muovendosi in cerchio a debita distanza. Athelstane sollevò di fronte a sé la sua grande spada con entrambe le mani, la punta rivolta verso l'alto, l'elsa appena al di sotto del mento, in una posizione tale da permettergli di sferrare un colpo a destra o a sinistra o parare un attacco improvviso. Ska aveva gettato di lato il suo scudo, il suo istinto guerresco gli diceva che sarebbe stato inutile contro il colpo di quella pesante lama. Nella destra reggeva la sottile lancia come un uomo impugna una freccetta, nella sinistra un'accetta leggera ed affilata. Aveva intenzione di condurre un combattimento veloce e guizzante, e la sua tattica era buona. Però Ska, non avendo mai incontrato un'armatura prima d'ora, compì un errore fatale nel considerarla un abito od un ornamento attraverso il quale le sue armi sarebbero penetrate. Poi balzò in avanti cercando di colpire il volto di Athelstane con la lancia. Il Sassone parò con facilità ed istantaneamente sferrò un tremendo colpo di taglio verso le gambe di Ska. Il re saltò in alto evitando la lama sibilante, ed a mezz'aria colpì la testa piegata di Athelstane con l'accetta. L'arma leggera si frantumò sull'elmo del vichingo e Ska balzò all'indietro, fuori portata, con un ululato assetato di sangue. Poi fu la volta di Athelstane di attaccare con inaspettata rapidità, simile ad un toro alla carica, e di fronte a quel terribile assalto Ska, sorpreso dalla rottura della sua ascia, venne colto con la guardia abbassata... imbambolato. Il re colse una visione fulminea del gigante torreggiante sopra di lui come un'onda inesorabile, ed invece di arretrare attaccò con un rabbioso colpo di punta. Quello fu il suo ultimo errore. La lancia protesa scivolò in-
nocua sulla cotta del Sassone ed in quello stesso istante lo spadone si abbatté con un colpo che il re non poté evitare. La forza di quell'impatto lo scagliò lontano, come un uomo scaraventato via da un toro in carica. Ad una dozzina di passi di distanza cadde Ska, re di Bal-Sagoth, e giacque spezzato e morto in una nauseante orgia di sangue e budella. La folla rimase a bocca aperta, zittita dalla prodezza di quell'impresa. «Mozzagli la testa!», gridò Brunilde, i suoi occhi fiammeggianti mentre stringeva così forte le mani che le unghie le si piantarono nei palmi. «Impala la testa di quella carogna sulla punta della tua spada così da portarla con noi oltre le porte della città in segno di vittoria!» Però Athelstane scosse il capo pulendo la spada: «No, era un uomo coraggioso e non mutilerò il suo cadavere. Ciò che ho compiuto non è una grande impresa, perché lui era nudo ed io in armatura. Avessi fatto come volevo io, il combattimento sarebbe andato diversamente.» Turlogh gettò un'occhiata verso la gente raccolta sulle mura. Si era ripresa dallo stupore e adesso sollevava un grande ruggito: «A-ala! Onore alla vera dea!» Ed i guerrieri alle porte si inginocchiarono e piegarono la fronte nella polvere davanti a Brunilde, la quale si erse in tutta la sua altezza, il petto che ondeggiava con fiero trionfo. Veramente, pensò Turlogh, lei era più di una regina... era una vera guerriera, una Valchiria, come aveva detto Athelstane. Poi la regina si mosse di lato e strappando la catena d'oro con il simbolo di giada dal collo del defunto Ska, la sollevò in alto e gridò: «Popolo di Bal-Sagoth, avete visto come il vostro falso re è morto davanti a questo gigante dalla barba dorata, che essendo di ferro non mostra neppure un graffio! Scegliete adesso... mi accogliete di vostra spontanea volontà?» «Sì, ti accogliamo!», rispose la moltitudine con un grande urlo. «Ritorna al tuo popolo, o grande ed onnipotente regina!» Brunilde sorrise sardonicamente. «Venite,» disse rivolta ai guerrieri; «si stanno flagellando da soli in una vera e propria frenesia di amore e di lealtà, avendo già dimenticato il loro tradimento. La memoria della plebe è corta!» Sì, pensò Turlogh, mentre al fianco di Brunilde lui ed il Sassone oltrepassavano il possente portale in mezzo a file di capi prostrati; sì, la memoria della plebe è molto corta. Infatti, solo pochi giorni erano passati da quando avevano strillato altrettanto selvaggiamente per Ska, il liberatore... poche ore erano passate da quando Ska si era assiso sul trono, padrone della vita e della morte, ed il popolo s'inchinava ai suoi piedi. Adesso... Tur-
logh rivolse un'occhiata al cadavere mutilato che giaceva abbandonato e dimenticato davanti ai portali d'argento. L'ombra di un avvoltoio che volava in cerchio cadde su di lui. Il clamore della moltitudine riempì le orecchie di Turlogh ed egli sorrise con un sorriso amaro. Le grandi porte si chiusero dietro i tre avventurieri e Turlogh vide un'ampia strada bianca che si stendeva di fronte a lui. Altre vie minori s'irraggiavano da quella principale. I due guerrieri colsero un'impressione caotica e confusa di edifici dalle grandi pietre bianche attaccati gli uni agli altri; di torri slanciate verso il cielo e di ampi palazzi fronteggiati da scalinate. Turlogh immaginò che dovesse esserci un sistema preciso con il quale la città era stata costruita, ma a lui tutto sembrava un ammasso di pietre, di metallo e di legno lucido, senza ordine o ragione. I suoi occhi sconcertati cercarono nuovamente la strada. Lungo tutto il percorso si snodava una massa di umanità dalla quale si levava un ritmico suono tonante. Migliaia di uomini e donne, nudi ed adorni di piume variopinte, erano inginocchiati e si prostravano in avanti toccando le lastre di marmo con le fronti per poi rialzarsi con le braccia sollevate in alto, muovendosi tutti perfettamente all'unisono, come il piegarsi ed il sollevarsi dell'erba alta davanti al vento. Ed a tempo con i loro inchini emettevano una cantilena monotona che diminuiva e poi si gonfiava in un'estasi frenetica. Così il popolo capriccioso accolse di nuovo la dea A-ala. Appena oltre le porte Brunilde si fermò e da lei corse il giovane capo che per primo aveva levato il grido di rivolta sulle mura. S'inginocchiò e le baciò i piedi nudi, dicendo: «O, grande regina e dea, voi sapete che Zomar vi è sempre stato fedele! Voi sapete di come combattei per voi e di come a malapena sfuggii all'altare di Gol-goroth per la vostra causa!» «Mi siete stato effettivamente fedele, Zomar,» rispose Brunilde nel linguaggio formale richiesto in simili occasioni, «e la vostra fedeltà sarà ricompensata. D'ora in avanti sarete comandante della mia guardia del corpo.» Poi aggiunse con un tono di voce più basso: «Raccogli un gruppo dei tuoi seguaci e di coloro che hanno sposato la mia causa per tutto il tempo, e portali a palazzo. Non mi fido del popolo più di quanto sia dovuto!» Improvvisamente Athelstane, non comprendendo la conversazione, s'intromise: «Dov'è il vecchio con la barba?» Turlogh sobbalzò e si guardò attorno. Si era quasi dimenticato dello stregone. Non l'aveva visto andarsene... eppure era sparito! Brunilde rise mestamente.
«Se l'è svignata per tramare altri guai nell'ombra. Lui e Gelka sono svaniti quando Ska è caduto. Egli possiede modi segreti per andare e venire e nessuno è in grado di controllarlo. Dimentichiamoci di lui per ora; però fate bene attenzione... presto avremo un sacco di tempo per occuparcene!» Poi i capi portarono un palanchino finemente scolpito e riccamente ornato sostenuto da due robusti schiavi, e Brunilde vi entrò dicendo ai suoi due compagni: «Hanno paura di toccarvi, ma chiedono se desiderate essere portati. Credo che sia meglio che camminiate fiancheggiandomi.» «Per il sangue di Thor!», borbottò Athelstane, mettendosi in spalla l'enorme spada che non aveva mai rinfoderato. «Non sono un bambino! Spaccherò il cranio dell'uomo che cercherà di portarmi!» E così, Brunilde, figlia del figlio di Rane Thorfin delle Orcadi, dea del mare, regina dell'antichissima Bal-Sagoth, si mosse lungo la grande strada bianca. Sorretta da due schiavi avanzava, con un gigante bianco dall'acciaio nudo che camminava a gran passi su ciascun lato ed una processione di capi dietro, mentre la moltitudine si allargava a destra e sinistra lasciando un'ampia corsia per farla passare. Trombe dorate suonarono una fanfara di trionfo, i tamburi rullarono, i canti dei fedeli echeggiarono fino al cielo risonante. Sicuramente in questa profusione di gloria, in questa sfilata di splendore barbarico, l'animo orgoglioso della ragazza del nord bevve a sazietà e s'inebriò di orgoglio imperiale. Gli occhi di Athelstane ardevano di semplice delizia di fronte a questa magnificenza pagana, mentre invece per il guerriero dell'Ovest dai capelli neri sembrava che persino nel più sonoro clamore del trionfo, le trombe, i tamburi e le grida svanissero nella polvere dimenticata e nel silenzio dell'eternità. Regni ed imperi passano come la nebbia sul mare, pensò Turlogh; la gente grida e celebra il trionfo dimentica che proprio durante le gozzoviglie delle feste di Baldassarre, i Medi sfondarono i cancelli di Babilonia. Anche adesso, l'ombra della fine si librava sopra quella città e la lenta onda dell'oblio lambiva i piedi di quella razza incurante. Assorto in questo strano umore, Turlogh O'Brien avanzava accanto al palanchino, e gli sembrò che lui ed Athelstane stessero camminando in una città morta, attraverso schiere di vacui spettri che salutavano una regina fantasma. 3. La caduta degli dèi La notte era calata sull'antica città di Bal-Sagoth. Turlogh, Athelstane e Brunilde sedevano da soli in una stanza del palazzo interno. La regina era
semi reclinata su di un divano di seta, mentre gli uomini sedevano su sedie di mogano, intenti sulle vivande che giovani schiave avevano servito loro su piatti d'oro. Le pareti della stanza, come quelle di tutto il palazzo, erano di marmo con volute dorate. Il soffitto era di lapislazzuli ed il pavimento di piastrelle di marmo bordate d'argento. Pesanti arazzi di velluto decoravano le pareti assieme a cuscini di seta; divani di pregevole fattura, sedie di mogano e tavoli erano sparsi per la stanza con noncurante profusione. «Quanto darei per un corno di birra, ma questo vino non è affatto aspro per il palato,» disse Athelstane svuotando con gusto una caraffa d'oro. «Brunilde, ci hai ingannati. Ci hai fatto intendere che ci sarebbe stato da combattere duramente per riottenere la tua corona... ed invece ho sferrato un solo colpo e la mia spada è assetata come l'ascia di Turlogh che non ha bevuto affatto. Abbiamo battuto sui portali e la gente si è inginocchiata ed ha iniziato ad adorarci senza aggiungere altro. E fino a poco fa eravamo accanto al tuo trono nel salone del palazzo, mentre parlavi alla folla che veniva e batteva la fronte sul pavimento davanti a te... per Thor, non ho mai sentito un simile vociare e ciarlare! Mi fischiano ancora adesso le orecchie... cosa dicevano? E dov'è quel vecchio stregone di Gothan?» «Il tuo acciaio avrà modo di bere a sazietà, Sassone,» rispose cupamente la ragazza, poggiando il mento sulle mani e fissando i guerrieri con profondi occhi preoccupati. «Se aveste giocato d'azzardo con città e corone come ho fatto io, sapreste che prendere un trono può essere più facile che mantenerlo. La nostra improvvisa apparizione con la testa del dio-uccello, la tua uccisione di Ska, ci hanno conquistato il popolo. Per quanto riguarda il resto... ho tenuto udienza nel palazzo come hai visto, ed anche se non capivi, la gente che veniva inchinandosi a frotte mi assicurava della sua assoluta fedeltà... ah! Li ho graziosamente perdonati tutti, ma non sono una sciocca. Quando avranno tempo per pensare, inizieranno nuovamente a lamentarsi. Gothan si cela da qualche parte nelle ombre, complottando contro tutti noi, potete esserne certi. Questa città è crivellata da passaggi segreti e da corridoi sotterranei conosciuti solo ai sacerdoti. Persino io, che ne ho attraversati alcuni quando ero il fantoccio di Gothan, non so dove cercare le porte segrete, dato che Gothan mi condusse sempre bendata. «Solo ora credo di avere la situazione in pugno. Il popolo vi vede con maggiore timore di quanto veda me. Credono che armature ed elmi siano parte dei vostri corpi e che siate invulnerabili. Non avete notato come timidamente toccavano le vostre cotte di maglia mentre passavamo in mezzo alla folla, e lo stupore sui loro visi quando sentivano che erano di fer-
ro?» «È un popolo molto saggio sotto certi aspetti e molto sciocco sotto altri,» disse Turlogh. «Chi sono e da dove vengono?» «Sono così vecchi,» rispose Brunilde, «che le loro più antiche leggende non forniscono alcun suggerimento riguardo la loro origine. Ere fa facevano parte di un grande impero che si estendeva sulle molte isole di questo mare. Però alcune di queste sprofondarono e svanirono assieme alle loro città e genti. Poi dei selvaggi dalla pelle rossa li assalirono, ed un'isola dopo l'altra cadde di fronte a loro. Alla fine solo quest'isola non venne conquistata e la gente è divenuta debole ed ha dimenticato molte delle antiche arti. A causa della mancanza di porti verso cui navigare le galere marcirono nei moli, essi stessi crollati. A memoria d'uomo, nessun figlio di BalSagoth ha più navigato i mari. Ad intervalli irregolari il popolo rosso cala sull'Isola degli Dei attraversando il mare sulle sue lunghe canoe da guerra dai teschi d'orso ghignanti sulle prue. Le isole abitate da questi uomini rossi che secoli fa massacrarono la gente che viveva qui non sono molto lontane, secondo la stima che potrebbe fare un vichingo su di un viaggio per mare, ma non si vedono perché sono oltre l'orizzonte. Li abbiamo sempre battuti e ricacciati; non possono scalare le nostre mura, tuttavia essi vengono ancora, e la paura delle loro incursioni aleggia sempre sull'isola. «Però non sono loro che temo; è Gothan, che in questo momento sta scivolando come un serpente disgustoso attraverso i suoi scuri passaggi, oppure sta creando abominii in qualcuna delle sue stanze segrete. Nelle caverne nelle viscere delle colline verso cui conducono i passaggi, egli opera magie terrificanti e blasfeme. La sua materia sono le bestie - serpenti, ragni e grandi scimmie; ed anche uomini - prigionieri del popolo rosso e disgraziati della sua stessa razza. Nel profondo delle sue lugubri caverne, crea bestie dagli uomini e mezzi uomini dalle bestie, mescolando animalità ed umanità in creazioni da incubo. Nessun uomo osa supporre quali orrori siano scaturiti dalle tenebre, o quali forme terrificanti e blasfeme siano venute alla luce durante tutti i secoli in cui Gothan ha operato i suoi abominii; perché egli non è come gli altri uomini: ha scoperto il segreto della vita eterna. Egli ha portato in vita una orribile creatura che persino lui teme, quella farfugliante, micidiale Cosa senza nome che tiene incatenata nella caverna più remota, di cui nessun piede umano, se non il suo, ha mai calpestato il suolo. La scatenerebbe contro di me se osasse... «Ma si è fatto tardi e voglio dormire. Sarò nella stanza accanto a questa che non ha altra apertura se non quella porta. Non terrò con me neppure
una schiava, perché non mi fido completamente di nessuno di questo popolo. Voi dividerete questa stanza e, sebbene la porta che dà all'esterno è chiusa, è meglio che uno di voi monti la guardia mentre l'altro dorme. Zomar e le sue guardie pattugliano i corridoi esterni, però mi sentirò più sicura con due uomini del mio stesso sangue tra me ed il resto della città.» Si alzò e, con una strana occhiata indugiante rivolta a Turlogh, entrò nella sua stanza e chiuse la porta dietro di sé. Athelstane si stirò e sbadigliò. «Bene, Turlogh,» disse pigramente, «le fortune degli uomini sono instabili come il mare. La notte scorsa ero lo spadaccino scelto di una banda di pirati e tu un prigioniero. Questa mattina eravamo dei reietti perduti che balzavano uno alla gola dell'altro. Adesso siamo compagni d'arme e bracci destri di una regina. E tu, credo, sei destinato a divenire un re.» «Cosa?» «Beh, non hai notato lo sguardo che ti ha rivolto la ragazza delle Orcadi? Credimi, c'era ben più dell'amicizia in quell'occhiata che si è soffermata sui tuoi riccioli neri e quel tuo viso abbronzato. Ti dico...» «Basta.» La voce di Turlogh era aspra come una vecchia ferita. «Le donne al potere sono lupi dalle zanne scoperte. Fu il rancore di una donna che...» Si fermò. «Bene, bene,» replicò Athelstane tollerante, «ci sono più donne buone che cattive. Lo so... furono gli intrighi di una donna a farti bandire. Beh, dobbiamo essere due bravi camerati. Anch'io sono un fuorilegge. Se la mia faccia dovesse comparire nel Wessex, ben presto guarderei il paesaggio da un robusto ramo di quercia.» «Cosa ti ha portato sul sentiero dei vichinghi? I Sassoni hanno dimenticato a tal punto le rotte dell'oceano, che Re Alfredo è stato costretto ad usare pirati frisoni per costruire ed equipaggiare la sua flotta quando combatté i Danesi.» Athelstane si strinse nelle possenti spalle ed iniziò ad affilare il suo pugnale. «Provavo un desiderio struggente per il mare anche quando, nel Wessex, ero un ragazzino dai capelli arruffati. Ero ancora un ragazzo quando uccisi un giovane eorl e fuggii dalla vendetta della sua gente. Trovai rifugio nelle Orcadi e le abitudini dei vichinghi furono assai più di mio gradimento di quelle della mia gente. Però ritornai per combattere contro Canuto, e quando l'Inghilterra venne sottomessa al suo dominio, egli mi diede il comando delle sue milizie contadine. Ciò rese i danesi gelosi, perché l'onore era sta-
to dato ad un Sassone che aveva combattuto contro di loro, ma anche i Sassoni, ricordando che un tempo ero fuggito dal Wessex macchiato dal disonore, mormoravano che ero stato troppo favorito dai conquistatori. Beh, un thane sassone ed un jarl danese in una notte di festa mi assalirono con parole feroci ed io persi il controllo e li uccisi entrambi. «Così l'Inghilterra... divenne... nuovamente... una... terra... proibita... per... me. Presi... ancora... una... volta... la... via... dei... vichinghi...» Le parole di Athelstane scemarono. La sua mano scivolò inerte dal grembo e la pietra per affilare ed il pugnale caddero sul pavimento. La sua testa si piegò in avanti appoggiandosi sull'ampio petto e gli si chiusero gli occhi. «Troppo vino,» brontolò Turlogh. «Lasciamolo dormire; farò io la guardia.» Eppure persino mentre parlava, il Gaelico si rese conto di essere preda di uno strano rilassamento. Sprofondò nell'ampia sedia. I suoi occhi erano pesanti ed il sonno gli velò la mente nonostante i suoi sforzi contrari. E mentre era lì seduto, rimase vittima di una strana visione da incubo. Uno dei pesanti arazzi sulla parete opposta alla porta venne scostato violentemente e da dietro di esso sbucò una figura paurosa che iniziò a strisciare pesantemente nella stanza. Turlogh la osservava apatico, consapevole di stare sognando ed allo stesso tempo meravigliandosi della stranezza di quel sogno. La cosa era grottescamente simile ad un uomo nodoso e curvo nel fisico, ma il suo viso era bestiale. Mise in mostra zanne giallastre, mentre avanzava silenziosamente verso di lui e da sotto sopracciglia spioventi piccoli occhi rossi brillavano demonicamente. Eppure c'era qualcosa di umano in quell'aspetto; non era né scimmia né uomo, ma una creatura innaturale, composta orribilmente da entrambi. La terribile apparizione si fermò di fronte a Turlogh e quando le dita contorte si strinsero attorno alla sua gola, il Gaelico si rese improvvisamente e paurosamente conto che non si trattava di un sogno, ma di una diabolica realtà. Con uno slancio disperato spezzò le catene invisibili che lo trattenevano e si slanciò dalla sedia. Le dita brancolanti mancarono il bersaglio della sua gola, ma rapido com'era, Turlogh non poté evitare il rapido allungo di quelle braccia pelose, ed il momento dopo stava rotolando sul pavimento in un abbraccio mortale con il mostro, i cui muscoli erano simili ad acciaio flessibile. La paurosa lotta venne combattuta in un silenzio rotto esclusivamente dal sibilo di fiati ansimanti. L'avambraccio sinistro di Turlogh era puntella-
to sotto il mento scimmiesco per tenere lontane le terribili zanne dalla sua gola, attorno alla quale si erano serrate le dita del mostro. Athelstane continuava a dormire sulla sua sedia, la testa reclinata in avanti. Turlogh cercò di chiamarlo, ma quelle mani che lo strangolavano gli avevano bloccato la voce... lo stavano rapidamente soffocando a morte. La stanza galleggiava in una nebbia rossa davanti ai suoi occhi dilatati. La mano destra, stretta in un maglio di ferro, picchiava disperatamente contro quel volto pauroso chinato su di lui; i denti bestiali si frantumarono sotto quei colpi ed il sangue lo investì, ma ancora gli occhi rossi lo fissavano maligni e le dita artigliate affondavano sempre più fino a quando un tintinnio nelle orecchie di Turlogh annunciò la dipartita della sua anima. Persino mentre affondava nella semi-incoscienza, la sua mano cadendo colpì qualcosa che il suo combattivo cervello intontito riconobbe come il pugnale che Athelstane aveva lasciato scivolare sul pavimento. Alla cieca, con un gesto morente, Turlogh colpì e sentì improvvisamente allentare la stretta delle dita. Sentendo ritornare la vita e la potenza, l'uomo si alzò, e con il suo assalitore sotto di sé affondò il pugnale fino a quando l'ottuso orrore non giacque immobile con i grandi occhi sbarrati. Il Gaelico si rimise barcollando in piedi, stordito ed ansimante, tremando in tutto il corpo. Inalò grandi boccate d'aria e la sua confusione mentale lentamente svanì. Sangue gocciolava in abbondanza dalle ferite sulla gola. Notò con stupore che il Sassone era ancora profondamente addormentato. Ed improvvisamente iniziò a provare nuovamente quelle ondate di stanchezza innaturale e di rilassamento che già prima lo avevano reso inerme. Prendendo la sua ascia scacciò con difficoltà quella sensazione ed avanzò verso l'arazzo dal quale era sbucato l'uomo-scimmia. Simile ad un'onda invisibile, un subdolo potere emanato da quell'arazzo lo colpì, e con gambe appesantite si sforzò di avanzare nella stanza. Si trovò di fronte al tendaggio e sentì il potere di una terrificante volontà malvagia percuoterlo, minacciare la sua stessa anima, promettendo di renderlo schiavo nel corpo e nella mente. Due volte sollevò la mano e due volte la fece cadere inerte lungo il fianco. Poi, per la terza volta compì un possente sforzo e strappò letteralmente l'arazzo dalla parete. Per un fulmineo istante vide di sfuggita l'immagine di una figura bizzarra, seminuda, con indosso un mantello di piume di pappagallo ed un copricapo di piume ondeggianti. Poi, quando percepì la piena potenza ipnotica di quegli occhi fiammeggianti, chiuse i suoi e colpì alla cieca. Sentì l'ascia affondare in profondità; poi riaprì gli occhi e fissò la figura silenziosa che giaceva ai suoi piedi, la testa spaccata
in una larga chiazza cremisi. A quel punto Athelstane si destò improvvisamente sollevando il capo, gli occhi brucianti e stupiti, la spada sguainata. «Cosa...?», farfugliò, guatando selvaggiamente. «Turlogh, in nome di Thor, cosa è successo? Per il sangue di Thor! Quello è un sacerdote, ma cos'è quella cosa morta laggiù?» «Uno dei diavoli di questa città maledetta,» rispose Turlogh, liberando la sua ascia. «Credo che Gothan abbia nuovamente fallito. Questo era dietro uno degli arazzi e ci ha stregati a nostra insaputa. Ha usato contro di noi l'incantesimo del sonno...» «Sì, ho dormito,» annuì confuso il Sassone. «Ma come ha fatto a...» «Ci deve essere una porta segreta dietro questi arazzi, sebbene non riesca a trovarla...» «Ascolta!» Dalla stanza dove dormiva la regina giunse un indistinto suono confuso, che nella sua stessa debolezza sembrava carico di orribili potenzialità. «Brunilde!», gridò Turlogh. La risposta giunse sotto forma di uno strano gorgoglio. Il Gaelico si avventò contro la porta. Era serrata. Mentre sollevava la sua ascia per spaccare l'uscio, Athelstane lo spinse di lato e gettò tutto il suo peso contro di essa. I pannelli si sfondarono ed attraverso quelle rovine Athelstane si precipitò nella stanza. Un ruggito eruppe dalle sue labbra. Da sopra la spalla del Sassone, Turlogh colse una visione delirante. Brunilde, regina di Bal-Sagoth, tremava inerme a mezz'aria, stretta nelle grinfie dell'ombra nera di un incubo. Però quando la grande figura nera rivolse freddi occhi fiammeggianti verso di loro, Turlogh vide che si trattava di una creatura vivente. Come un uomo si ergeva su due gambe simili a tronchi d'albero, ma il suo profilo ed il viso non erano di un uomo, o animale o dèmone. Questo, percepì Turlogh, era l'orrore che persino Gothan aveva esitato a scatenare sui suoi nemici; l'arcidemone che quel sacerdote diabolico aveva portato alla vita nelle sue orribili caverne nascoste. Quali spaventose conoscenze erano state necessarie, quali orripilanti mescolanze di cose umane e bestiali con forme senza nome da tenebrosi abissi cosmici? Tenuta come un bimbo in fasce, Brunilde tremava, gli occhi ardenti di orrore, e quando la Cosa tolse una mano deforme dalla gola bianca della donna per difendersi, un grido di sconvolgente terrore eruppe dalle pallide labbra della ragazza. Athelstane, il primo ad entrare nella stanza, era avvantaggiato rispetto al Gaelico. La figura nera incombeva sul gigante sas-
sone rimpicciolendolo ed oscurandolo, ma Athelstane, stringendo l'elsa con entrambe le mani, compì un affondo verso l'alto. Lo spadone sprofondò per oltre metà della sua lunghezza nel corpo nero, uscendone macchiata di cremisi quando il mostro arretrò. Si scatenò un pandemonio infernale di suoni, e gli echi di quel grido terribile rimbombarono per tutto il palazzo assordando chi li udì. Turlogh stava balzando nel combattimento, l'ascia sollevata, quando il dèmone lasciò la ragazza e voltandosi fuggì dalla stanza, svanendo in una buia apertura che adesso era spalancata nella parete. Athelstane, chiaramente in preda alla frenesia del berserkr, si precipitò dietro la creatura. Turlogh fece per seguirlo, ma Brunilde, alzandosi, gettò le sue bianche braccia attorno al Gaelico in una presa che persino lui poteva difficilmente spezzare. «No!», gridò lei, gli occhi illuminati dal terrore, «non seguirli in quel corridoio spaventoso! Deve portare all'Inferno stesso! Il Sassone non tornerà più! Non condividere anche tu il suo destino!» «Lasciami, donna!», ruggì Turlogh, in preda alla frenesia, lottando per liberarsi senza farle del male. «Il mio compagno sta forse combattendo per la vita!» «Attendi fino a quando non avrò chiamato la mia guardia!», implorò lei, ma Turlogh si staccò dalla donna e, mentre balzava attraverso la porta segreta, Brunilde colpì il gong di giada fino a quando l'intero palazzo non ne echeggiò. Un sonoro calpestio iniziò nel corridoio e la voce di Zomar gridò: «O mia regina, siete in pericolo? Dobbiamo sfondare la porta?» «Affrettatevi!», urlò lei, mentre correva verso l'altra porta della camera, spalancandola. Turlogh, balzando incurante nel corridoio, corse per alcuni momenti nell'oscurità, ascoltando davanti a sé il muggito di dolore del mostro ferito e le grida feroci e possenti del vichingo. Poi questi rumori svanirono in lontananza quando giunse in uno stretto passaggio illuminato fiocamente da torce incassate in nicchie. A faccia in giù sul pavimento era disteso un uomo dalla pelle scura con indosso piume grigie, il cranio sfondato come un guscio d'uovo. Per quanto tempo Turlogh O'Brien seguì il tortuoso passaggio dell'oscuro corridoio non lo seppe mai. Altri passaggi più piccoli si aprivano su ciascun lato, ma lui si tenne su quello principale. Finalmente superò un'arcata e giunse in una enorme stanza molto strana. Tetre colonne massicce sostenevano un soffitto celato dalle ombre. Era così alto che sembrava una nube arcuata contro il cielo di mezzanotte. Tur-
logh vide che si trattava di un tempio. Dietro ad un altare nero chiazzato di rosso, torreggiava una figura possente, sinistra ed abominevole. Il dio Golgoroth! Sicuramente doveva trattarsi di lui. Però Turlogh degnò di una sola occhiata la colossale figura che dominava là nell'ombra. Davanti a lui si presentava una strana scena. Athelstane era chino sulla sua grande spada e fissava le due figure distese in un'orgia purpurea ai suoi piedi. Qualunque oscuro incantesimo avesse dato vita a quella Cosa Nera, era bastato un solo colpo di acciaio inglese per rispedirla nel limbo da cui era venuta. Il mostro giaceva sopra la sua ultima vittima... un uomo magro dalla barba bianca, i cui occhi erano profondamente malvagi, persino nella morte. «Gothan!», esclamò lo stupefatto Gaelico. «Sì, il sacerdote... sono stato proprio alle calcagna di questo troll, o qualunque cosa sia, per tutto il corridoio, ma nonostante la sua mole correva come un cervo. Una volta un tizio con un mantello di piume ha cercato di fermarlo, ma gli ha sfondato il cranio e non si è neppure fermato un istante. Alla fine sbucammo in questo tempio e mi avvicinai al mostro con la spada sollevata per il colpo mortale. Però, per il sangue di Thor, quando vide il vecchio accanto a quell'altare emise un terribile ululato e lo fece a pezzi morendo insieme a lui nello stesso istante, prima che potessi raggiungerlo e colpirlo.» Turlogh fissò l'enorme creatura senza forma. Osservandola direttamente non riusciva a stimarne la natura. Colse solo la caotica impressione di una grande massa e di una malvagità inumana. Adesso giaceva come una vasta ombra che macchiava il pavimento di marmo. Sicuramente ali oscure da abissi senza luna avevano assistito alla sua nascita, e lugubri anime di dèmoni senza nome erano entrate nel suo essere. In quel mentre Brunilde sbucò dall'oscuro corridoio, seguita da Zomar e le sue guardie. E da porte esterne e angoli segreti altri giunsero silenziosi guerrieri e sacerdoti dai mantelli piumati - fino a quando una grande folla si radunò nel Tempio delle Tenebre. Un grido feroce eruppe dalle labbra della regina quando vide ciò che era successo. I suoi occhi ardevano terribili ed era in preda ad una strana follia. «Finalmente!», strillò, toccando con disprezzo il cadavere del suo arcinemico con il tacco. «Finalmente sono la vera padrona di Bal-Sagoth! I segreti delle vie nascoste sono miei ora, e la barba del vecchio Gothan è lorda del suo stesso sangue!» Sollevò le braccia in un gesto di terribile trionfo e corse verso il lugubre idolo, strillando esultanti insulti, come una pazza. Ed in quell'istante il
tempio venne scosso da un tremore! La colossale immagine ondeggiò verso l'esterno e poi precipitò improvvisamente in avanti, come cade un'alta torre. Turlogh gridò e balzò verso Brunilde, ma contemporaneamente, con un rombo simile all'esplosione di un pianeta, il dio Gol-goroth si abbatté sulla donna condannata, rimasta paralizzata. La possente immagine si frantumò in migliaia di grossi frammenti cancellando per sempre dalla vista degli uomini Brunilde, figlia del figlio di Rane Thorfin, regina di BalSagoth. Da sotto le rovine fluì lentamente un ampio fiotto cremisi. Guerrieri e sacerdoti rimasero paralizzati, assordati dallo schianto di quella caduta, storditi dalla strana catastrofe. Una mano gelida sfiorò la spina dorsale di Turlogh. Che quella enorme massa fosse stata spinta in avanti dalla mano di un morto? Mentre correva verso l'idolo, al Gaelico era sembrato che le fattezze inumane avessero per un istante assunto i tratti di quelle del morto Gothan! Mentre tutti rimanevano senza parole, Gelka, l'accolito, vide e colse la sua opportunità. «Gol-goroth ha parlato!», strillò. «Ha schiacciato la falsa dea! Ella non era altro che una malvagia mortale! Ed anche questi stranieri sono mortali! Guardate... sanguina!» Le dita del sacerdote puntarono verso il sangue rappreso sulla gola di Turlogh ed un ruggito selvaggio si levò dalla folla. Stordita e confusa dalla rapidità ed enormità degli ultimi eventi, la moltitudine era simile a dei lupi impazziti, pronta a cancellare dubbi e paure in un'esplosione di violenza. Gelka balzò su Turlogh, l'accetta luccicante, mentre un coltello nella mano di un suo accolito affondò nella schiena di Zomar. Turlogh non comprese il grido, ma capì che l'aria era piena di pericolo per Athelstane e per lui. Affrontò l'assalto di Gelka con un colpo che trapassò le piume ondeggianti ed il cranio sottostante, poi una mezza dozzina di lance si abbatterono sul suo scudo ed una marea di corpi lo spinse contro un grande pilastro. Subito dopo Athelstane, più lento nel realizzare e rimasto a bocca aperta per il fulmineo istante in cui era accaduto quell'evento, si destò in un'esplosione di furia terribile. Con un ruggito assordante, fece volteggiare il suo spadone in un gigantesco arco. La lama sibilante mozzò una testa, penetrò attraverso un torace ed affondò in profondità in una spina dorsale. I tre corpi caddero uno addosso all'altro e, persino nella follia della lotta, gli uomini urlarono di fronte alla grandiosità di quel singolo colpo. Però, simile ad una scura e cieca ondata di furia, gli inferociti abitanti di Bal-Sagoth si rovesciarono sui loro nemici. Le guardie della regina morta,
intrappolate dalla calca, morirono senza la possibilità di sferrare un colpo. Invece, l'aver ragione dei due guerrieri bianchi non era una cosa altrettanto facile. Schiena contro schiena, sferravano colpi e contrattaccavano; la spada di Athelstane era una folgore mortale; l'ascia di Turlogh una saetta. Stretti da un mare di ringhianti facce scure e dal lampeggiare dell'acciaio, si aprirono lentamente un varco verso una porta. La massa stessa degli attaccanti ostacolava i guerrieri di Bal-Sagoth, perché non avevano spazio per guidare i loro colpi, mentre le armi dei due marinai mantenevano aperto un cerchio di sangue di fronte a loro. Ammonticchiando un macabro cumulo di cadaveri mentre avanzavano, i due compagni si aprirono lentamente la strada attraverso la folla ringhiante. Il Tempio delle Tenebre, testimone di molti fatti cruenti, era inondato dal sangue versato come un rosso sacrificio ai suoi dèi distrutti. Le pesanti armi dei guerrieri bianchi portarono una spaventosa distruzione tra gli avversari nudi, mentre le armature dei due protessero le loro vite. Però le loro braccia, gambe e volti erano tagliati e feriti dai frenetici colpi dell'acciaio dei nemici, e sembrava che il loro semplice numero li avrebbe sopraffatti prima che potessero raggiungere la porta. Invece la raggiunsero e combatterono disperatamente fino a quando i guerrieri scuri, non più in grado di assalirli da tutti i lati, arretrarono per respirare un po', lasciando un rosso cumulo di corpi straziati di fronte alla soglia. Ed in quello stesso istante i due balzarono nel corridoio, ed afferrata la grande porta di bronzo la richiusero sbattendola in faccia ai guerrieri che saltavano ululanti per impedirlo. Athelstane, puntellando le sue possenti gambe, la tenne chiusa contrastando lo sforzo combinato dei guerrieri, fino a quando Turlogh non ebbe avuto il tempo di trovare il catenaccio e di farlo scivolare al suo posto. «Thor!», ansimò il Sassone scuotendosi il sangue dal viso in una pioggia rossa. «Questo è quello che si chiama un combattimento corpo a corpo! Cosa facciamo adesso, Turlogh?» «Nel corridoio, presto!» sbottò il Gaelico, «prima che ci piombino addosso da quella parte e ci intrappolino come topi contro questa porta. Per Satana, l'intera città deve essere in tumulto! Ascolta che ruggito!» In verità, mentre correvano lungo il tenebroso corridoio, sembrò loro che tutta Bal-Sagoth fosse in preda alla ribellione ed alla guerra civile. Da ogni parte giungeva il clangore dell'acciaio, le grida degli uomini e le urla delle donne, cui faceva da sottofondo un ululato spaventoso. Un livido lucore divenne visibile in fondo al corridoio, e proprio quando Turlogh, che era in
testa, girò un angolo e sbucò in un cortile aperto, una figura indistinta balzò contro di lui ed un'arma pesante cadde con forza inaspettata sul suo scudo facendolo quasi cadere. Però anche mentre barcollava, il Gaelico rispose al colpo e la punta superiore della sua ascia affondò sotto il cuore dell'attaccante che cadde ai suoi piedi. Nel bagliore che illuminava ogni cosa, Turlogh vide che la sua vittima era diversa dai guerrieri scuri con i quali si era da poco battuto. Quest'uomo era nudo, dai muscoli possenti e con la pelle di un rosso ramato piuttosto che marrone. La pesante mascella animalesca, la bassa fronte inclinata non mostrava nulla dell'intelligenza e raffinatezza del popolo scuro, ma solo una feroce brutalità. Una pesante clava da guerra, rozzamente intagliata, giaceva accanto al cadavere. «Per Thor!», esclamò, Athelstane, «la città è in fiamme!» Turlogh alzò lo sguardo. Si trovavano su di una specie di cortile sopraelevato, dal quale ampi gradini scendevano verso le strade, e da questo punto di osservazione favorevole avevano una vista totale della terrificante fine di Bal-Sagoth. Le fiamme lingueggiavano pazzamente sempre più alte offuscando la luna, e nel rosso bagliore minuscole figure correvano freneticamente per ogni dove, cadendo e morendo come marionette danzanti al suono degli Dei Neri. Attraverso il ruggito delle fiamme e lo schianto dei muri che cadevano, si levavano grida di morte ed urla di macabro trionfo. La città era formicolante di diavoli nudi dalla pelle ramata che bruciavano, violentavano e massacravano in un unico rosso carnevale di follia. Gli uomini rossi delle isole! A migliaia erano sbarcati di notte sull'Isola degli Dei, e se grazie al tradimento o solo furtivamente fossero riusciti a superare le mura, i due compagni non lo seppero mai, ma ora quei barbari infuriavano attraverso le vie lastricate di cadaveri, saziando la loro sete di sangue nell'olocausto e nel massacro totale. Non che tutte le figure straziate che giacevano nelle strade divenute fiumi cremisi fossero scure; la gente della città condannata combatteva con disperato coraggio, ma in minor numero e colti di sorpresa, il loro coraggio era inutile. Gli uomini rossi erano come tigri assetate di sangue. «E adesso cosa, Turlogh!», strillò Athelstane, la barba irta, gli occhi fiammeggianti quando la follia della scena infiammò una uguale passione nella sua anima fiera. «Il mondo sta per crollare! Gettiamoci nel cuore della lotta e saziamo il nostro acciaio prima di morire! Per chi dovremmo combattere... i rossi o gli scuri?» «Fermo!», sbottò il Gaelico. «Ciascuno dei due popoli ci taglierebbe la gola. Dobbiamo aprirci combattendo la via fino alle porta, e che il Diavolo
se li porti tutti. Non abbiamo amici qui. Da questa parte... lungo queste scale. Attraverso i tetti, in quella direzione, vedo l'arcata di un portale.» I due compagni balzarono lungo le scale, presero una via stretta appena sotto e corsero rapidamente nella direzione che Turlogh aveva indicato. Attorno a loro scorreva la rossa inondazione del massacro. Adesso uno spesso fumo velava ogni cosa e nella tenebra i gruppi si fondevano caoticamente, si contorcevano e si disperdevano, deturpando il lastricato infranto con figure insanguinate. Era come un incubo in cui figure demoniache saltavano e balzavano, sbucando improvvisamente nella foschia venata di fuoco e svanendo altrettanto improvvisamente. Le fiamme da ciascun lato della via che fiancheggiavano, strinavano i capelli dei guerrieri mentre correvano. Tetti crollavano con rombi spaventosi e mura rovinavano riempiendo l'aria di morte volante. Uomini colpivano alla cieca in mezzo al fumo ed i due marinai li abbattevano e non seppero mai se la loro pelle fosse rossa o marrone. Poi una nuova nota si levò da quel cataclisma d'orrore. Accecati dal fumo, confusi dalle strade tortuose, gli uomini rossi furono presi nella trappola da loro stessi preparata. Il fuoco è imparziale; può bruciare sia chi lo appicca sia la vittima designata; ed un muro che crolla è cieco. Gli uomini rossi abbandonarono le loro prede e corsero ululando per ogni dove come animali cercando di fuggire; molti, trovando questa cosa inutile, si voltarono in una ultima irragionevole tempesta di follia come fa una tigre accecata, e resero i loro ultimi istanti di vita un'esplosione di purpurea carneficina. Turlogh, con l'infallibile senso della direzione che acquisiscono gli uomini che vivono come il lupo, corse verso il punto dove sapeva si trovava un portale; eppure nel dedalo di vie e tra le cortine di fumo, il dubbio lo assalì. Dalla tenebra screziata di fiamme di fronte a lui echeggiò un grido di terrore. Una ragazza nuda brancolò ciecamente e cadde ai piedi di Turlogh, il sangue che usciva copioso dal seno mutilato. Un diavolo ululante e lordo di sangue alle calcagna della ragazza, le tirò indietro la testa e la sgozzò, una frazione di secondo prima che l'ascia di Turlogh gli staccasse la testa dalle spalle e la mandasse a roteare ghignante lungo la via. Ed in quell'istante un'improvvisa folata di vento dissolse le spire di fumo ed i due compagni videro il cancello aperto davanti a loro, brulicante di guerrieri rossi. Un urlo feroce, una corsa fulminea, un folle istante di vulcanica violenza che cosparse di cadaveri il portale, ed entrambi uscirono ed iniziarono a correre lungo i pendii, verso la lontana foresta e la spiaggia oltre
questa. Davanti a loro il cielo si stava arrossando annunciando l'alba; dietro di loro si levava il tumulto della città condannata, tale da far tremare l'animo. Fuggirono come creature braccate, cercando di tanto in tanto breve riparo tra i molti boschetti per evitare gruppi di selvaggi che correvano verso la città. L'intera isola sembrava brulicare di essi; i capi dovevano aver attinto da tutte le isole nel raggio di centinaia di chilometri per un attacco di quella potenza. Ed alla fine i due compagni raggiunsero la striscia di foresta e respirarono profondamente quando giunsero sulla spiaggia, trovandola abbandonata se non per una gran quantità di lunghe canoe di guerra decorate da teschi. Athelstane sedette ed inspirò profondamente. «Per il sangue di Thor! Cosa facciamo adesso? Cosa possiamo fare se non nasconderci tra questi boschi fino a quando questi diavoli rossi non ci scopriranno?» «Aiutami a mettere in acqua questa canoa,» disse secco Turlogh. «Sfideremo la sorte sul mare aper...» «Là!» Athelstane balzò in piedi, indicando, «Per il sangue di Thor, una nave!» Il sole stava sorgendo, scintillando all'orizzonte come una grande moneta dorata. E dipinta nel sole navigava un'imbarcazione dall'alta poppa. I due compagni balzarono sulla canoa più vicina, la misero in acqua e remarono come forsennati, gridando ed agitando i loro remi per attirare l'attenzione dell'equipaggio. Muscoli possenti portarono la lunga e snella imbarcazione ad una velocità incredibile, e fu dopo non molto tempo che la nave si fermò e permise loro di affiancarli. Uomini dal volto scuro, con indosso cotte di maglia, scrutavano dal parapetto. «Spagnoli,» borbottò Athelstane. «Se mi riconoscono tanto valeva che rimanessi sull'isola!» Però salì la scaletta senza esitazioni ed i due vagabondi fronteggiarono l'uomo magro e dal viso serio, la cui armatura lo identificava come un cavaliere delle Asturie. Si rivolse loro in spagnolo e Turlogh gli rispose, perché il Gaelico, come molti della sua razza, era naturalmente portato verso le lingue ed aveva viaggiato lontano e parlava molti idiomi. Con poche parole il dalcassiano narrò la loro storia e spiegò la grande colonna di fumo che dall'isola si srotolava nell'aria del mattino. «Digli che c'è da prendere un riscatto da re,» s'intromise Athelstane. «Digli dei cancelli d'argento, Turlogh.» Però quando il Gaelico parlò del grande bottino nella città condannata, il
comandante scosse il capo. «Buoni signori, non abbiamo il tempo per recuperarlo né gli uomini per farlo. Questi diavoli rossi che descrivete, difficilmente rinunceranno a qualcosa - anche se inutile per loro - senza una feroce battaglia, e né il mio tempo né la mia forza è di mia proprietà. Sono Don Roderigo del Cortez di Castiglia, e questa nave, il Frate Grigio, fa parte della flotta che salpò per dare battaglia ai corsari moreschi. Alcuni giorni addietro fummo separati dal resto della flotta durante una scaramuccia sul mare, e la tempesta ci fece allontanare molto dalla nostra rotta designata. Ancora adesso stiamo mettendocela tutta per riunirci alla flotta, se riusciremo a trovarla; in caso contrario, assaliremo gli infedeli al meglio delle nostre possibilità. Serviamo Dio ed il re, e non possiamo fermarci per del vile metallo come suggerite. Però siate i benvenuti a bordo di questa nave. Abbiamo bisogno di combattenti quali voi sembrate essere. Non ve ne pentirete se desiderate unirvi a noi e sferrare un colpo per la Cristianità, contro i musulmani.» In quel naso affilato e nei profondi occhi scuri, come nel plumbeo volto ascetico, Turlogh lesse il fanatico, l'inossidabile paladino, il cavaliere errante. Il Gaelico parlò ad Athelstane: «Quest'uomo è matto, ma c'è da menare le mani e strane terre da visitare; comunque non abbiamo altra scelta.» «Un posto vale l'altro per uomini senza padrone e vagabondi,» sentenziò l'enorme Sassone. «Digli che lo seguiremo fino all'Inferno e che bruceremo la coda del Diavolo se c'è una qualunque possibilità di fare del bottino.» 4. Impero Turlogh ed Athelstane erano chini sul parapetto, fissando l'Isola degli Dei che rimpiccioliva rapidamente e dalla quale si levava una colonna di fumo appesantita dai fantasmi di mille secoli e dalle ombre e dai misteri di un impero dimenticato, ed Athelstane imprecò come solo un Sassone può fare. «Un riscatto da re... e dopo tutto quel massacro... nessun bottino!» Turlogh scosse il capo. «Abbiamo visto un regno antico cadere... abbiamo visto gli ultimi resti del più antico impero del mondo inghiottiti dalle fiamme e dagli abissi dell'oblio e la barbarie sollevare la sua testa bruta sopra quelle rovine. Così passa la gloria e lo splendore e la porpora imperiale... in fiamme rosse e fumo giallo.»
«Però neppure un po' di bottino...», insistette il vichingo. Nuovamente Turlogh scosse il capo. «Ho portato via con me la più rara delle gemme dell'isola... qualcosa per la quale uomini e donne sono morti e le strade si sono imbrattate di sangue.» Estrasse dalla cintura un piccolo oggetto... un simbolo di giada curiosamente intagliato. «L'emblema della sovranità!», esclamò Athelstane. «Sì... mentre Brunilde lottava con me per impedirmi di seguirti nel corridoio, questa cosa si impigliò nella mia cotta di maglia e le venne strappata dalla catena d'oro che la teneva.» «Colui che lo detiene è il re di Bal-Sagoth,» rimuginò il possente Sassone. «Come ti avevo predetto, Turlogh, tu sei un re!» Turlogh rise con una sfumatura amara ed indicò la grande colonna di fumo fluttuante che galleggiava lontana nel cielo lungo l'orizzonte. «Sicuro... un regno della morte... un impero di spettri e di fumo. Io sono Ard-Righ di una città fantasma... sono Re Turlogh di Bal-Sagoth, ed il mio regno sta svanendo nel cielo del mattino. E questo vale per tutti gli altri imperi del mondo... sogni e fantasmi e fumo.» Titolo originale: The Gods of Bal-Sagoth (Weird Tales, ottobre 1931) LA COSA SUL TETTO Nella notte si muovono pesanti Con i loro passi da elefanti; Di terrore tremo tutto Ritirato nel mio letto. Colossali ali alzate Sulle cupole elevate Calpestate tutte tremanti Dai loro zoccoli da mastodonti. Justin Geoffrey: Giunti da un'Antica Terra Lasciatemi iniziare col dire che fui sorpreso quando Tussmann mi chiamò. Non eravamo mai stati molto amici; l'istinto mercenario di quell'uomo mi ripugnava; e dalla nostra aspra controversia di tre anni prima, quando tentò di screditare il mio Testimonianze della Cultura Nahua nello Yuca-
tan, frutto di anni di attenta ricerca, i nostri rapporti erano stati affatto cordiali. Tuttavia, lo ricevetti e trovai i suoi modi spicci e bruschi, ma anche piuttosto distratti come se la sua antipatia nei miei confronti fosse stata messa da parte da qualche autentica passione che lo aveva catturato. Il motivo della sua visita fu rapidamente espresso. Desiderava il mio aiuto per ottenere un volume: la prima edizione dei Culti Innominabili di Von Junzt - quella conosciuta come il Libro Nero, non a causa del colore, ma per i suoi oscuri contenuti. Era come se mi avesse chiesto la traduzione originale in greco del Necronomicon. Sebbene dal mio ritorno dallo Yucatan avessi praticamente votato quasi tutto il mio tempo alla raccolta di libri, non avevo incontrato alcun indizio che quel libro, nell'edizione di Dusseldorf, esistesse ancora. Una parola su questo raro lavoro. La sua estrema ambiguità in alcuni punti, unita al suo tema incredibile, lo ha per lungo tempo fatto ritenere i deliri di un maniaco e l'autore venne bollato con il marchio della follia. Rimane però il fatto che molte delle sue asserzioni rimasero senza risposta, e che egli spese tutti i quarantacinque anni della sua vita indagando in luoghi misteriosi e scoprendo segreti e cose terribili. Non molti volumi vennero stampati della prima edizione, e parecchi di questi furono bruciati dai loro proprietari terrorizzati quando Von Junzt venne trovato strangolato in maniera misteriosa nella sua camera, chiusa dall'interno e sprangata, una notte del 1840, sei mesi dopo essere ritornato da un viaggio segreto in Mongolia. Cinque anni dopo, uno stampatore londinese, un certo Bridewall, piratò l'opera e ne fece uscire una sensazionalistica edizione a basso prezzo, piena di grottesche xilografie ed infarcita di refusi, traduzioni errate e dai soliti errori di una stampa a buon mercato e poco curata. Questo fatto screditò ulteriormente il lavoro originale e gli editori ed il pubblico si dimenticarono del libro fino al 1909, quando la Golden Goblin Press di New York ne fece uscire una nuova edizione. Fu un lavoro così attentamente spurgato che un quarto completo dell'argomento originale venne escluso; il libro era elegantemente rilegato e decorato con le squisite e stranamente fantasiose illustrazioni di Diego Vasquez. Quell'edizione era stata destinata al grande pubblico, ma l'istinto artistico degli editori sconfissero quel fine dato che i costi di stampa del libro divennero così elevati che furono costretti a porlo in vendita ad un prezzo proibitivo. Stavo spiegando tutto ciò a Tussmann quando m'interruppe bruscamente
per dire che non era del tutto a digiuno della materia. Uno dei libri della Golden Goblin faceva bella figura nella sua libreria, disse, e fu in quello che trovò un passo che destò il suo interesse. Se fossi riuscito a procurargli una copia dell'edizione originale del 1839 mi avrebbe ripagato profumatamente; ben sapendo, aggiunse, che sarebbe stato inutile offrirmi del denaro: in cambio del disturbo nei suoi confronti avrebbe ritrattato completamente le sue precedenti accuse riguardo le mie ricerche nello Yucatan, e mi avrebbe offerto scuse complete sullo Scientific News. Devo ammettere che fui sorpreso di udire ciò, e compresi che se la cosa aveva così grande interesse per Tussmann da fargli fare certe concessioni, doveva effettivamente essere di estrema importanza. Risposi che avevo sufficientemente confutato le sue accuse agli occhi del mondo e che non avevo alcun desiderio di metterlo in una posizione umiliante, ma che avrei fatto tutto il possibile per procurargli ciò che desiderava. Mi ringraziò repentinamente e se ne andò dicendo, in modo piuttosto vago, che sperava di trovare la spiegazione completa di qualcosa nel Libro Nero che era stata evidentemente trascurata nell'edizione successiva. Mi misi al lavoro, scrivendo lettere ad amici, colleghi e librai in tutto il mondo, e ben presto scoprii di essermi caricato di un'impresa niente affatto trascurabile. Passarono tre mesi prima che i miei sforzi fossero coronati dal successo, ma almeno, grazie all'aiuto del Professor James Clement di Richmond, Virginia, fui in grado di ottenere ciò che desideravo. Avvertii Tussmann ed egli venne a Londra con il primo treno. I suoi occhi ardevano di avidità quando fissò lo spesso volume polveroso dalla pesante copertina in pelle e le arrugginite chiusure in ferro, e le sue dita tremavano con impazienza mentre sfogliavano le pagine ingiallite dal tempo. E quando lanciò un grido acuto e sbatté il pugno sul tavolo, seppi che aveva trovato ciò che cercava. «Ascoltate!», ordinò, e mi lesse un passaggio che narrava di un tempio molto, molto antico nella giungla dell'Honduras, dove veniva adorato uno strano dio da parte di una vecchia tribù che si estinse prima dell'arrivo degli spagnoli. E Tussmann lesse ad alta voce della mummia che in vita era stata l'ultimo gran sacerdote di quel popolo scomparso, e che ora sì trovava in una stanza scavata nella solida roccia della parete contro cui era stato costruito il tempio. Attorno al collo avvizzito di quella mummia si trovava una catena di rame, e su quella catena un grande gioiello rosso scolpito a forma di rospo. Quel gioiello, continuava a dire Von Junzt, era la chiave al tesoro che giaceva nascosto in una profonda cripta sotterranea sotto l'altare
del tempio. Gli occhi di Tussmann s'infiammarono. «Io ho visto quel tempio! Sono stato di fronte a quell'altare. Ho visto l'ingresso sigillato della camera nella quale, dicono i nativi, giace la mummia del sacerdote. È un tempio molto curioso, niente affatto simile alle rovine preistoriche indiane di quanto queste lo siano con le costruzioni della moderna America Latina. Gli indigeni dei paraggi negano ogni precedente connessione con quel luogo; dicono che chi costruì quel tempio apparteneva ad una razza diversa dalla loro e che risiedeva là quando i loro antenati giunsero nel paese. Credo che sia la vestigia di qualche civiltà da tempo scomparsa che iniziò a decadere migliaia di anni prima dell'arrivo degli spagnoli. «Avrei voluto entrare nella camera sigillata, ma non ne avevo né il tempo né gli attrezzi per un simile lavoro. Mi stavo affrettando verso la costa, dopo essere stato ferito ad un piede da un accidentale colpo di fucile, e m'imbattei in quel posto per puro caso. «Avevo organizzato di darci un'altra occhiata, ma le circostanze me l'hanno impedito... ora però non permetterò a niente o nessuno di frapporsi ad esso! Lessi per caso un passaggio dell'edizione della Golden Goblin di questo libro che descriveva il tempio. Però non c'era altro; la mummia veniva solo appena citata. Interessato, ottenni una delle traduzioni di Bridewall, ma mi trovai di fronte ad un muro di sconcertanti errori. A causa di qualche irritante svista, il traduttore aveva persino sbagliato la posizione del Tempio del Rospo, come viene definito da Von Junzt, situandolo in Guatemala invece che in Honduras. La descrizione generale è errata, il gioiello viene menzionato, come pure il fatto che sia una "chiave". Ma una chiave di cosa, l'edizione di Bridewall non lo dice. Sentivo di essere sulla pista giusta per una vera scoperta, a meno che Von Junzt non fosse, come molti sostengono, un pazzo. Però quell'uomo si recò effettivamente in Honduras, è un fatto ben testimoniato, e nessuno poteva descrivere in maniera così vivida il tempio - così come fa lui nel Libro Nero - a meno che non l'abbia visto di persona. Di come abbia fatto a sapere del gioiello, è più di quanto io possa dire. Gli indigeni che mi raccontarono della mummia non parlarono affatto di un gioiello. Posso solo credere che Von Junzt trovò il modo di entrare in quella cripta sigillata... quell'uomo aveva modi misteriosi per conoscere cose nascoste. «Per quanto ne sappia, solo un altro bianco ha visto il Tempio del Rospo oltre a Von Junzt e me... l'esploratore spagnolo Juan Gonzalles, che compì
una parziale esplorazione di quel paese nel 1793. Egli cita, brevemente, un curioso tempio diverso dalla maggior parte delle rovine indigene, e parla scetticamente di una leggenda comune tra i nativi riguardo "qualcosa d'insolito" nascosto sotto il tempio. Sono certo che faceva riferimento al Tempio del Rospo. «Domani farò vela per il Centro America. Tenetevi il libro; non mi serve più. Questa volta andrò preparato ed intenzionato a trovare ciò che si cela in quel tempio, anche se dovessi demolirlo. Non può essere meno di un'enorme quantità d'oro! Gli Spagnoli, come che sia, non lo trovarono; quando arrivarono in Centro America, il Tempio del Rospo era deserto; loro cercavano indiani vivi dalla cui tortura potevano estorcere oro; non mummie di popoli dimenticati. Però io voglio avere quel tesoro.» Così dicendo Tussmann se ne andò. Mi sedetti ed aprii il libro nel punto dove il mio ospite aveva interrotto la lettura e rimasi seduto fino a mezzanotte, avvolto dalle curiose, disordinate ed alle volte totalmente ambigue spiegazioni di Von Junzt. E scoprii cose riguardanti il Tempio del Rospo che m'inquietarono così tanto che il mattino dopo tentai di mettermi in contatto con Tussmann, solo per scoprire che era già partito. Passarono diversi mesi, e ricevetti una lettera da Tussmann che mi chiedeva di venire a trascorrere alcuni giorni con lui nella sua tenuta del Sussex; mi chiedeva inoltre di portare con me il Libro Nero. Arrivai alla proprietà, piuttosto isolata, di Tussmann appena dopo il tramonto. Viveva quasi in una condizione feudale, la sua grande casa ricoperta d'edera e gli ampi prati circondati da alte mura di pietra. Mentre avanzavo lungo il viale bordato da siepi che portava dal cancello alla casa, notai che il luogo non era stato tenuto molto bene durante l'assenza del suo padrone. Erbacce crescevano rigogliose tra gli alberi quasi soffocando il prato. Tra alcuni cespugli incolti nei pressi del muro esterno, udii quello che apparentemente doveva essere un cavallo od un bue muoversi in maniera goffa e pesante. Udii chiaramente il rumore dello zoccolo sulla pietra. Un servo che mi guardava sospettosamente m'introdusse, ed io trovai Tussmann che camminava avanti e indietro nel suo studio, simile ad un leone in gabbia. La sua gigantesca figura si era snellita, più severa da quando l'avevo visto l'ultima volta; il viso era abbronzato dal sole dei tropici. Sul suo volto risoluto c'era un maggior numero di rughe profonde ed i suoi occhi ardevano più intensamente che mai. Un'ira covata e perplessa sembrava sottolineare le sue maniere. «Bene, Tussmann,» lo salutai, «qual è l'esito? Avete trovato l'oro?»
«Non ho trovato neppure un grammo d'oro,» ringhiò. «Tutta la faccenda era una burla... beh, non proprio tutta. Entrai nella stanza sigillata e trovai la mummia...» «E il gioiello?» esclamai. Estrasse qualcosa dalla tasca e me lo porse. Fissai incuriosito la cosa che teneva in mano. Si trattava di un grande gioiello, chiaro e trasparente come cristallo, ma di un sinistro color cremisi, intagliato, proprio come aveva affermato Von Junzt, a forma di rospo. Rabbrividii involontariamente; l'immagine era particolarmente ripugnante. Rivolsi la mia attenzione alla pesante catena di rame lavorata in modo bizzarro a cui era appeso. «Cosa sono questi segni incisi sulla catena?» chiesi incuriosito. «Non saprei,» replicò Tussmann. «Credevo che forse voi potevate saperlo. Vi trovo una vaga rassomiglianza con certi geroglifici parzialmente cancellati di un monolito conosciuto come la Pietra Nera nelle montagne dell'Ungheria. Non sono stato in grado di decifrarli.» «Raccontatemi del vostro viaggio,» lo spronai, e con in mano i nostri whiskey e soda, iniziò a parlare, anche se con una strana riluttanza. «Senza molte difficoltà trovai nuovamente il tempio, sebbene si trovi in una regione solitaria e scarsamente abitata. È stato edificato contro una liscia parete di pietra, in una valle deserta, sconosciuta alle mappe ed agli esploratori. Non tenterò di effettuare una stima della sua antichità, ma è costruito da una sorta di basalto insolitamente duro, di un tipo che non ho mai visto da nessuna altra parte, e la sua estrema usura suggerisce un età incredibile. «La maggior parte delle colonne che formano la facciata sono in rovina, emergendo in tronconi distrutti dalle basi logore, simili ai denti sparsi e rotti di una strega ghignante. Le mura esterne stanno sgretolandosi, ma le pareti interne e le colonne che sostengono quel po' di tetto che rimane sono intatte, tali da resistere per altri mille anni, così come le mura della stanza interna. «La sala principale è larga e circolare, con il pavimento composto da grandi quadrati di pietra. Nel centro si erge l'altare, semplicemente un enorme blocco rotondo dello stesso materiale, lavorato in modo bizzarro. Proprio dietro l'altare, nella solida parete di pietra che forma il muro posteriore della stanza, si trova la camera ricavata nella parete dello strapiombo e sigillata dove riposa la mummia dell'ultimo sacerdote del tempio. «Entrai nella cripta senza molte difficoltà e trovai la mummia esattamen-
te come riferito dal Libro Nero. Sebbene fosse in perfetto stato di conservazione non fui in grado di classificarla. Le fattezze avvizzite ed il contorno generale del cranio suggerivano certe popolazioni degradate e bastarde del basso Egitto, ed io sono sicuro che il sacerdote fosse un membro di una razza più affine ai caucasici che agli indiani. Oltre a ciò, non posso formulare alcun altra affermazione positiva. «Però il gioiello era là, la catena avvolta attorno al collo rinsecchito.» Da quel punto il racconto di Tussmann divenne così ambiguo che ebbi difficoltà a seguirlo e mi chiesi se il sole dei tropici non gli avesse cotto il cervello. In qualche modo, grazie al gioiello, aveva aperto una porta nascosta nell'altare... come esattamente, non lo disse in modo chiaro, e mi colpì il fatto che neppure lui capisse effettivamente l'azione della chiavegioiello. Però l'apertura della porta segreta aveva avuto un pessimo effetto sui robusti tipacci al suo seguito. Si rifiutarono - lo dissero chiaro - di seguirlo attraverso quella nera apertura spalancata, apparsa così misteriosamente quando la gemma aveva toccato l'altare. Tussmann entrò da solo con la pistola e la torcia elettrica, trovando una stretta scala che apparentemente si snodava giù verso le viscere della terra. La seguì e poco dopo giunse in un ampio corridoio, nella cui oscurità il sottile raggio di luce della torcia venne quasi inghiottito. Mentre raccontava queste cose disse con strano fastidio di un rospo che balzellò davanti a lui, appena oltre il cerchio di luce, per tutto il tempo che rimase sotto terra. Proseguendo lungo gallerie umide e scalinate che erano pozzi di solida oscurità, giunse finalmente ad una pesante porta scolpita con disegni fantastici, che lui sentì doveva essere la cripta al cui interno era nascosto l'oro degli antichi adoratori. Premette il gioiello a forma di rospo contro la porta in diversi posti e alla fine la porta si spalancò. «Ed il tesoro?», m'intromisi ansioso. Tussmann rise con selvaggia autoironia. «Non c'era alcun oro là dentro, neppure gemme preziose... nulla...» - esitò - «nulla che potessi portare via con me.» Nuovamente la sua narrazione cadde nel vago. Capii che aveva lasciato il tempio piuttosto in fretta senza cercare ulteriormente il presunto tesoro. Aveva avuto intenzione di portare la mummia via con sé, disse, in modo da presentarla in qualche museo, ma quando emerse dal cunicolo non riuscì più a trovarla e pensò che i suoi uomini, per una superstiziosa avversione nell'avere un simile compagno nel viaggio di ritorno verso la costa, l'avessero gettata in qualche pozzo o caverna.
«E così,» concluse. «Sono nuovamente in Inghilterra senza essere più ricco di quando l'ho lasciata.» «Avete il gioiello,» gli rammentai. «Sicuramente deve avere un grande valore.» Lo guardò quasi con favore, ma anche con una sorta di feroce avidità, quasi ossessiva. «Lo definireste un rubino?», chiese. Scossi il capo. «Non sono in grado di classificarlo.» «Neppure io. Però fatemi vedere il libro.» Girò lentamente le pesanti pagine, le sue labbra che si muovevano mentre leggeva. Alle volte scuoteva il capo come se fosse perplesso e notai che si soffermò a lungo su di una certa riga. «Quest'uomo andò molto al fondo di cose proibite,» disse lui, «non devo stupirmi che il suo destino sia stato così strano e misterioso. Deve aver avuto qualche presagio della sua fine... qui egli mette in guardia gli uomini di non disturbare le cose che dormono.» Tussmann sembrò perduto nei suoi pensieri per alcuni momenti. «Sì, cose che dormono,» borbottò, «che sembrano morte, ma che giacciono solo in attesa di qualcuno sciocco e cieco che le desti... Avrei dovuto leggere oltre nel Libro Nero... ed avrei dovuto chiudere la porta quando lasciai la cripta... ma ho la chiave e la conserverò in barba all'inferno.» Si destò dai suoi sogni ad occhi aperti e fu sul punto di parlare quando si fermò di colpo. Da qualche parte al piano di sopra era giunto uno strano suono. «Cosa è stato?», mi fissò. Scossi il capo mentre Tussmann corse alla porta e chiamò un servo. L'uomo entrò pochi istanti dopo. Era piuttosto pallido. «Eri al piano di sopra?», ringhiò Tussmann. «Sì, signore.» «Hai sentito qualcosa?», chiese bruscamente Tussmann in maniera quasi minacciosa ed accusatoria. «Sì, signore,» rispose l'uomo con uno sguardo perplesso sul viso. «Cosa hai sentito?» La domanda era piuttosto un ringhio. «Beh, signore,» l'uomo rise in tono di scusa, «voi direte che sono un po' svanito, temo, ma a dire la verità, signore, è sembrato come se un cavallo passeggiasse sul tetto!» Un lampo di assoluta follia avvampò negli occhi di Tussmann. «Tu, stupido!», strillò. «Fuori di qui!» L'uomo arretrò stupito e Tus-
smann afferrò lo scintillante gioiello a forma di rospo. «Sono stato uno sciocco!», delirò. «Non ho letto sino in fondo... ed avrei dovuto chiudere la porta... però, in nome del cielo, la chiave è mia e la conserverò in barba ad uomo o demonio.» E con queste strane parole si girò ed andò al piano di sopra. Un momento dopo la porta della sua stanza si richiuse di schianto ed un servo, bussando timidamente, ne ricavò solo un osceno ordine di andarsene seguito da una sinistra minaccia verbale di sparare a chiunque avesse cercato di entrare nella stanza. Se non fosse stato così tardi avrei lasciato la casa, perché era certo che Tussmann fosse completamente impazzito. Invece, mi ritirai in una stanza che un servo spaventato mi mostrò, ma non andai a dormire. Aprii le pagine del Libro Nero nel punto dove aveva letto Tussmann. Si capiva chiaramente questo, a meno che l'uomo non fosse completamente squilibrato: aveva scoperto qualcosa d'inatteso nel Tempio del Rospo. Qualcosa d'innaturale riguardo l'apertura della porta nell'altare aveva spaventato i suoi uomini, e nella cripta sotterranea Tussmann aveva trovato qualcosa che non aveva pensato di trovare. Ed io credo che lo abbia seguito dal Centro America, e che la ragione per questa persecuzione sia il gioiello che lui chiamava la Chiave. Cercando degli indizi nel volume di Von Junzt, lessi nuovamente del Tempio del Rospo, dello strano popolo pre-indio che celebrava i propri culti in quel luogo, e dell'enorme, ghignante, tentacolare mostruosità dotata di zoccoli che essi adoravano. Tussmann aveva detto che non aveva letto a sufficienza quando aveva visto per la prima volta il libro. Riflettendo su questa sua frase misteriosa giunsi alla riga su cui aveva fissato la sua attenzione... segnata dall'unghia del pollice. Mi sembrava essere un'altra delle molte ambiguità di Von Junzt, perché recitava semplicemente che il dio del tempio era il tesoro del tempio. Poi venni colto dall'oscura implicazione del suggerimento, ed un sudore freddo imperlò la mia fronte. La Chiave del Tesoro! Ed il tesoro del tempio era il dio del tempio! E Cose che dormono possono risvegliarsi all'apertura della porta della loro prigione! Mi alzai di scatto, innervosito da una intollerabile sensazione, ed in quel momento qualcosa lacerò la quiete e l'urlo di morte di un essere umano trafisse le mie orecchie. In un istante fui fuori dalla stanza, e mentre correvo su per le scale udii suoni che da allora mi fecero dubitare della mia sanità mentale. Davanti al-
la porta di Tussmann mi fermai, tentando di girare il pomolo con mano tremante. La porta era chiusa a chiave e mentre esitavo udii dall'interno provenire una risata acuta e orribile e poi un disgustoso suono di spiaccicamento, come se una grande massa gelatinosa venisse forzata attraverso una finestra. Il suono cessò e posso giurare di aver udito un debole battito di ali gigantesche. Poi il silenzio. Raccogliendo i miei nervi scossi, sfondai la porta. Un puzzo fortissimo e disgustoso fluttuava come una nebbia giallastra. Ansando per la nausea entrai. La stanza era in rovina, ma non mancava nulla tranne quel gioiello cremisi a forma di rospo che Tussmann chiamava la Chiave, e che non fu mai trovato. Una schifosa e inspiegabile melma macchiava il davanzale della finestra, e al centro della stanza giaceva Tussmann, la testa schiacciata ed appiattita; e sulla rossa rovina del cranio e del viso, la netta impronta di un enorme zoccolo. Titolo originale: The Thing on the Roof (Weird Tales, febbraio 1932) IL POPOLO DELL'OSCURITÀ Andai alla Caverna di Dagon per uccidere Richard Brent. Percorsi i foschi viali fiancheggiati dagli alberi torreggianti ed il mio umore ben si adattava all'aspetto sinistro e primitivo della scena. La strada per raggiungere la Caverna di Dagon è sempre buia perché i possenti rami e le spesse foglie bloccano il sole, ed inoltre l'incupimento della mia stessa anima rendeva le ombre ancora più inquietanti e tetre di quanto lo fossero naturalmente. Non molto più avanti udii il lento sciabordio delle onde contro le alte scogliere, ma il mare non era visibile, celato dalla spessa foresta di querce. L'oscurità e la desolata nudità di ciò che mi circondava stringeva la mia anima ansiosa, mentre passavo sotto quei rami antichi... quando sbucai in una stretta radura e vidi l'imboccatura dell'antica caverna davanti a me. Mi fermai, controllando l'esterno della grotta e i tetri rami delle querce silenti. L'uomo che odiavo non era giunto prima di me! Ero in tempo per portare a termine il mio lugubre intento. Per un momento la mia risolutezza vacillò poi, come un'onda, fui pervaso dal profumo di Eleanor Bland, una visione di fluenti capelli dorati e profondi occhi grigi, mutevoli e magici come il mare. Serrai i pugni sino a farne sbiancare le nocche, ed istintivamente
toccai la malvagia pistola a tamburo il cui peso gonfiava la tasca della mia giacca. Però riguardo a Richard Brent, ero certo di avergli già strappato quella donna, il cui desiderio rendeva le ore di veglia un tormento ed il sonno una tortura. Chi era che lei amava? Lei stessa non l'avrebbe detto; non credevo che lo sapesse. Fai in modo che uno di noi due sparisca, pensavo, e lei si sarebbe rivolta all'altro. Ed io stavo andando a semplificare la faccenda per lei... e per me stesso. Per caso avevo udito il mio biondo rivale inglese dire che aveva intenzione di andare alla solitaria Caverna di Dagon in una oziosa esplorazione... da solo. Per natura non sono un criminale. Nacqui e crebbi in un paese aspro, ed ho vissuto la maggior parte della mia vita nei duri confini del mondo, dove un uomo prendeva ciò che voleva, se poteva, e la pietà era una virtù poco conosciuta. Però fu un tormento che mi lacerava giorno e notte che mi spingeva a togliere la vita a Richard Brent. Ho vissuto duramente e violentemente, forse. Quando venni sopraffatto dall'amore anch'esso fu fiero e violento. Forse non ero completamente sano di mente, in quell'amore per Eleanor Bland e nel mio odio per Richard Brent. In qualunque altra circostanza sarei stato ben lieto di definirlo mio amico... un bel giovane, slanciato, robusto, dagli occhi chiari e forte. Però adesso lui si frapponeva tra me e ciò che desideravo, e doveva morire. Entrai nell'oscurità della caverna e mi fermai. Non avevo mai visitato la Caverna di Dagon prima d'allora, eppure una spaesata sensazione di strana familiarità mi turbò, quando osservai l'alto soffitto a volta, le lisce pareti di pietra ed il pavimento polveroso. Mi strinsi nelle spalle, incapace di classificare quella sfuggevole sensazione; senza dubbio era evocato da una somiglianza con le caverne del montagnoso Sud-Ovest americano dove nacqui e trascorsi la mia infanzia. Eppure sapevo di non aver mai visto una caverna come quella, il cui aspetto regolare diede origine a leggende sul fatto che non si trattasse di una grotta naturale, ma fosse stata invece ricavata dalla solida roccia, ere addietro, dalle minute mani del misterioso Piccolo Popolo, gli esseri preistorici delle leggende britanniche. Tutte le campagne circostanti pullulavano di queste storie dell'antico folklore. I contadini erano prevalentemente celti; qui gli invasori sassoni non avevano mai dominato e le leggende andavano indietro nel tempo, in questa campagna coltivata da tempi immemorabili, più di qualunque altra in Inghilterra... indietro, oltre la venuta dei Sassoni certamente, e ancora più in-
dietro, prima dell'arrivo dei romani, a quei giorni incredibilmente antichi quando i nativi britanni combattevano contro i pirati irlandesi dai capelli neri. Il Piccolo Popolo, ovviamente, ebbe la sua parte nelle leggende. Esse narrano che questa caverna fu una delle loro ultime roccaforti contro i conquistatori celti, e suggeriva di passaggi perduti e da tempo crollati o bloccati, che collegavano la grotta con una rete di passaggi sotterranei che crivellavano le colline. Con queste riflessioni momentanee che competevano pigramente nella mia mente insieme a ben più cupi ragionamenti, attraversai la sala più esterna della caverna ed entrai in uno stretto tunnel che sapevo, da precedenti descrizioni, essere il collegamento con un sala più grande. Era un passaggio buio, ma non troppo scuro da non permettermi di distinguere i vaghi e scoloriti contorni di misteriosi graffiti sulle pareti di pietra. Mi arrischiai ad accendere la torcia elettrica e li esaminai più da vicino. Persino così sbiaditi mi ripugnarono, con i loro personaggi anormali e ributtanti. Sicuramente nessuna creatura della specie umana come la conosciamo tracciò quelle grottesche oscenità. Il Piccolo Popolo... mi chiesi se gli antropologi avessero ragione nel sostenere la teoria di una tozza razza aborigena mongoloide, così in basso nella scala evolutiva da essere scarsamente umana, ma che possedeva una distinta, seppure ripugnante, cultura propria. Erano svaniti di fronte alle razze degli invasori, dice la teoria, fornendo la base di tutte le leggende ariane dei troll, degli elfi, dei nani e delle streghe. Vivendo fin dall'inizio in caverne, questi aborigeni si erano ritirati sempre più all'interno delle colline di fronte all'avanzata dei conquistatori, svanendo infine interamente, sebbene le fantasticherie del folklore ritengano che a tutt'oggi i loro discendenti vivano nei luoghi più remoti nelle profondità delle colline, repellenti sopravvissuti di un'età passata. Spensi la torcia ed attraversai il tunnel, uscendo da una specie di porta che sembrava troppo simmetrica per essere opera della natura. Stavo osservando una vasta caverna in penombra, ad un livello in qualche modo più basso di quello della sala esterna, e nuovamente rabbrividii con uno strano senso alieno di familiarità. Una breve rampa di gradini conduceva dal tunnel fino al pavimento della caverna... gradini piccoli, troppo piccoli per normali piedi umani, scavati nella solida roccia. I loro bordi erano fortemente consunti, dal tempo o dall'uso. Iniziai a scendere... improvvisamente mi scivolò il piede. Seppi istintivamente ciò che stava per accadere -
faceva tutto parte di quella strana sensazione di familiarità - però non riuscì a mantenere l'equilibrio. Caddi a capofitto dai gradini e colpii il pavimento di pietra con uno schianto che mi fece perdere i sensi... Lentamente ripresi conoscenza, con la testa pulsante ed una sensazione di stupore. Portai una mano al capo e la ritrovai imbrattata di sangue. Avevo ricevuto un colpo oppure ero caduto, ma i miei sensi erano stati così completamente annebbiati che la mia mente era assolutamente vuota. Dove fossi, chi fossi, non lo sapevo. Mi guardai attorno, sbattendo le palpebre nella fioca luce, e vidi che mi trovavo in un'ampia caverna polverosa. Mi alzai alla base di una corta rampa di scalini che portavano verso l'alto ad un qualche tipo di tunnel. Feci scorrere la mano sbalordita attraverso i corti capelli neri ed i miei occhi vagarono sopra le massicce braccia nude ed il possente torace. Indossavo, notai distrattamente, una specie di gonnellino dalla cui cintura pendeva un fodero vuoto ed ai piedi portavo dei sandali di cuoio. Poi vidi un oggetto a terra di fronte a me e mi piegai per raccoglierlo. Era una pesante spada di ferro, la cui larga lama era macchiata di scuro. Le mie dita si strinsero istintivamente attorno all'elsa con la familiarità del lungo uso. Poi, all'improvviso, mi ricordai e risi al pensiero di come una semplice caduta aveva potuto rendere me, Conan dei predoni, così completamente instupidito. Sicuro, in quel momento tutto mi ritornò in mente. Era stata una scorreria contro i britanni, sulle cui coste calavamo di continuo con torce e spade dall'isola chiamata Eire-ann. Noi gaelici dai capelli scuri eravamo piombati all'improvviso su di un villaggio costiero con le nostre lunghe e basse navi, e ne era seguita una tempestosa battaglia, i britanni alla fine avevano interrotto il feroce combattimento e si erano ritirati, guerrieri, donne e bambini, nelle profonde ombre della foresta di querce dove raramente osavamo seguirli. Io invece li avevo seguiti, perché c'era una ragazza dei miei nemici che desideravo con ardente passione, una snella, leggera, giovane creatura dai fluenti capelli dorati e profondi occhi grigi, mutevoli e magici come il mare. Tamera era il suo nome... lo conoscevo bene, perché c'era anche commercio tra le nostre razze oltre che la guerra, ed io ero stato nel villaggio dei britanni come un pacifico visitatore nei rari momenti di tregua. Vidi il suo corpo seminudo sfrecciare tra gli alberi mentre correva con la rapidità di un daino e la seguii, ansando per la feroce bramosia. Sotto la scura ombra delle querce contorte fuggiva con me alle calcagna, mentre alle nostre spalle svanivano le grida del massacro ed il clangore delle spade.
Poi corremmo in un silenzio rotto solamente dal suo rapido ed affannato ansare, ed io ero così vicino a lei quando sbucammo in una stretta radura davanti ad una caverna dalla tetra imboccatura, che afferrai le sue svolazzanti trecce dorate con una mano possente. La ragazza si accasciò con un gemito disperato ed in quel momento un grido fece eco al suo lamento ed io mi girai rapidamente per affrontare un furioso giovane britanno sbucato dagli alberi, con negli occhi la luce della disperazione. «Vertorige!», gemette la ragazza, la sua voce divenuta un singhiozzo, ed una rabbia ancora più feroce crebbe in me, perché sapevo che il ragazzo era innamorato della giovane donna. «Fuggi nella foresta, Tamera!», gridò, e balzò verso di me come una pantera, la sua ascia di bronzo che turbinava come una ruota lucente attorno al suo capo. E poi risuonò il clangore della lotta ed il pesante ansimare del combattimento. Il britanno era alto quanto me, ma mentre lui era smilzo, io ero massiccio. Il vantaggio della pura forza muscolare era dalla mia parte, e ben presto il mio avversario fu sulla difensiva, cercando disperatamente di parare i miei pesanti colpi con la sua ascia. Martellando la sua guardia come fa un fabbro sull'incudine, lo pressai senza tregua portandolo irresistibilmente davanti a me. Il suo petto ansava, il suo fiato fuoriusciva in faticosi singulti, il sangue gocciolava dalla testa, dal petto e dalle cosce dove la mia lama sibilante gli aveva lacerato la pelle e per poco non l'aveva trafitto. Mentre raddoppiavo i colpi e lui si piegava sotto di loro come un virgulto nella tempesta, udii la ragazza gridare: «Vertorige! Vertorige! La caverna. Nella caverna!» Vidi il volto del giovane impallidire per un terrore maggiore di quello provocato dalla mia spada affilata. «Non laggiù!», ansimò. «Meglio una morte pulita! In nome di Ilmarinen, ragazza, corri nella foresta e salvati!» «Non ti abbandonerò!», strillò lei. «La caverna; è la nostra unica speranza!» La vidi superarci di scatto come uno svolazzante sbuffo bianco e svanire nella grotta. Con un grido di disperazione il giovane sferrò un attacco selvaggio e disperato che per poco non mi spaccò il cranio. Mentre barcollavo sotto il colpo che ero riuscito a malapena a parare, il britanno fuggì via balzando nella caverna dietro la ragazza e svanendo nell'oscurità. Con un grido furioso che invocava tutti i miei cupi dèi gaelici, balzai incurante dietro di loro senza considerare che il britanno poteva celarsi oltre
l'ingresso ed uccidermi mentre entravo. Però una rapida occhiata mi fece notare la sala era vuota ed uno sbuffo bianco che spariva attraverso un ingresso buio nella parete posteriore. Corsi attraverso la caverna e mi fermai bruscamente quando un'ascia sbucò dall'oscurità dell'ingresso e sibilò pericolosamente vicina alla mia testa dai neri capelli. Arretrai rapidamente. Adesso il vantaggio era con Vertorige, che si trovava nella stretta imboccatura del corridoio dove io potevo appena avvicinarmi senza espormi al colpo devastante della sua ascia. Ero quasi sul punto di schiumare per la furia, e la vista di uno snella figura eburnea tra le ombre profonde dietro il guerriero mi fece quasi impazzire. Attaccai selvaggiamente, ma stancamente, colpendo con cattiveria il mio avversario ed allontanandomi dai suoi colpi. Volevo spingerlo a fargli sferrare un colpo ampio, per poi evitarlo e trapassarlo prima che potesse riprendere l'equilibrio. All'aperto potevo batterlo con la semplice forza dei miei pesanti colpi, ma qui potevo solo usare la punta ed ero svantaggiato; ho sempre preferito il taglio. Però ero ostinato; se non potevo avvicinarmi a lui per il colpo finale, né lui né la ragazza potevano sfuggirmi fintanto che tenevo bloccato il tunnel. Dovette essere la consapevolezza di questo fatto che spinse l'azione della ragazza, perché disse qualcosa a Vertorige riguardo la ricerca di un'altra via d'uscita, e sebbene questi gridasse con forza proibendole di avventurarsi lontano nell'oscurità, Tamera si girò e corse rapidamente lungo il tunnel svanendo nelle ombre. La mia ira crebbe in maniera impressionante e per poco non mi feci spaccare il cranio nella foga di abbattere il mio avversario prima che la ragazza trovasse un modo per fuggire. Poi la caverna echeggiò con un grido terribile e Vertorige urlò come un uomo colpito a morte, il volto cinereo nella fioca luce. Si voltò precipitosamente, come se si fosse dimenticato di me e della mia spada, e corse lungo il tunnel come un indemoniato strillando il nome di Tamera. Da lontano, come se giungesse dalle viscere del suolo, mi sembrò di udire il grido di risposta di lei mescolato ad uno strano clamore sibilante che mi elettrizzò con un innominabile, ma istintivo orrore. Poi cadde il silenzio, rotto solamente dai gridi disperati di Vertorige che si allontanavano sempre più in profondità nella terra. Riprendendo il controllo di me stesso balzai nella galleria e corsi dietro al britanno con la stessa foga con cui lui aveva seguito la ragazza. E per rendermi giustizia, sebbene sia un corsaro dalle mani arrossate di sangue,
l'abbattere il mio rivale prendendolo alle spalle era lungi dalla mia mente quanto la scoperta di quale terribile creatura avesse Tamera nelle sue grinfie. Mentre correvo notai distrattamente che i lati del tunnel erano scarabocchiati con figure mostruose, e compresi immediatamente e sinistramente che questa doveva essere la terrificante Caverna dei Figli della Notte, le cui storie avevano attraversato lo stretto braccio di mare per risuonare orribilmente nelle orecchie dei Gaelici. Il terrore nei miei confronti doveva aver spinto Tamera nella caverna evitata dalla sua gente, dove si diceva fossero celati i sopravvissuti di quella lugubre razza che abitava questa landa prima dell'arrivo dei Pitti e dei Britanni e che era fuggita davanti a loro nelle sconosciute caverne delle colline. Davanti a me il tunnel si aprì in una vasta sala, e vidi la bianca forma di Vertorige baluginare momentaneamente nella semi oscurità per poi svanire in quello che sembrava l'ingresso di un corridoio dal lato opposto all'imboccatura del tunnel che avevo appena attraversato. All'improvviso da là risuonò un grido breve e feroce seguito dallo schianto di un potente colpo mescolato alle grida isteriche di una ragazza e ad una cacofonia di sibili serpentini che mi fecero drizzare i capelli sulla nuca. E proprio in quell'istante uscii dal tunnel in piena corsa e compresi troppo tardi che il pavimento della caverna si trovava a una certa distanza sotto il livello del passaggio. I miei piedi mancarono i piccoli gradini e mi schiantai terribilmente sul solido pavimento di pietra. Adesso, mentre mi trovavo nella semioscurità strofinandomi la testa indolenzita, mi ritornò tutto in mente, ed ora stavo fissando ferocemente la grande sala verso il nero e misterioso corridoio nel quale Tamera ed il suo innamorato erano spariti e sul quale gravava un silenzio simile ad un sudario. Stringendo la spada, attraversai cautamente la grande caverna silenziosa e scrutai nel corridoio. I miei occhi incontrarono solamente un'oscurità più densa. Entrai, cercando di squarciare il buio e, mentre i miei piedi scivolavano su di un'ampia macchia umida sul pavimento di pietra, le mie narici fiutarono l'aspro ed acre odore del sangue fresco. Qualcuno o qualcosa era morto in quel punto, o il giovane britanno od il suo sconosciuto assalitore. Rimasi lì incerto sul da farsi, con tutte le paure sovrannaturali retaggio dei Gaelici che sorgevano nella mia anima primitiva. Potevo voltarmi ed andarmene da quei labirinti maledetti, uscire alla limpida luce del sole e verso il chiaro mare blu dove i miei compagni, senza dubbio, mi attende-
vano impazientemente dopo la razzia sui Britanni. Perché avrei dovuto rischiare la mia vita tra quelle lugubri spelonche? Ero roso dalla curiosità di conoscere quale tipo di creature infestassero la caverna, quelle chiamate i Figli della Notte dai Britanni, ma nella mia curiosità c'era anche l'amore per la ragazza dai capelli biondi che mi spingeva lungo quel tunnel oscuro... e di amore per lei si trattava, a modo mio, perché sarei stato gentile con lei e l'avrei portata via con me sulla mia isola. Camminai silenziosamente lungo il corridoio, la lama pronta. Che tipo di creature fossero i Figli della Notte, non avevo idea, però le storie dei Britanni avevano affibbiato loro una precisa natura inumana. L'oscurità si richiuse attorno a me mentre avanzavo, fino a quando non mi mossi nel buio più completo. La mia mano sinistra brancolante incontrò un'apertura stranamente intagliata ed in quell'istante qualcosa sibilò come una vipera accanto a me e colpì con ferocia la mia coscia. Risposi selvaggiamente e sentii la mia lama andare a segno e qualcosa cadere ai miei piedi e morire. Quale creatura avessi ucciso nell'oscurità non potevo sapere, ma doveva essere stata almeno parzialmente umana perché il taglio poco profondo che mi aveva procurato nella coscia era stato fatto con una lama di qualche tipo, e non da zanne od artigli. E sudai freddo per l'orrore, lo sanno gli dèi il motivo, perché la voce sibilante della Creatura non era simile ad alcuna lingua umana che avessi mai udito. Ed ora nell'oscurità di fronte a me udii ripetersi quel suono mescolato ad orribili rumori striscianti, come se il numero delle creature-rettile si stesse avvicinando. Entrai rapidamente nell'ingresso che la mia mano brancolante aveva scoperto e fui quasi sul punto di ripetere la mia caduta a capofitto, perché invece di portare ad un altro corridoio in piano, l'ingresso dava su di una rampa di gradini minuscoli dai quali scesi faticosamente, ma con furia. Riprendendo l'equilibrio proseguii cautamente, tastando alla cieca lungo i lati della discesa per sostenermi. Mi sembrava di scendere nelle viscere stesse della terra, ma non osai tornare indietro. All'improvviso, molto sotto di me, colsi il luccichio di una debole luce bizzarra. Continuai ad avanzare, per forza, giungendo ad un punto dove il passaggio si apriva in un'altra grande camera a volta; e lì mi ritrassi, stupefatto. Al centro della sala si ergeva un cupo altare nero; era stato coperto interamente con una specie di sostanza fosforescente, così da farlo brillare debolmente e fornire una specie di illuminazione alla caverna ombrosa. Torreggiante dietro l'altare, su di un piedistallo formato da teschi umani, si
trovava un misterioso oggetto nero, inciso da misteriosi geroglifici. La Pietra Nera! L'antica, antichissima Pietra davanti alla quale, dicevano i Britanni, s'inchinavano i Figli della Notte in macabra adorazione e la cui origine si perdeva nell'oscura foschia di un passato orribilmente lontano. Un tempo, dice la leggenda, si ergeva in quel lugubre cerchio di monoliti chiamato Stonehenge, prima che i suoi seguaci fossero dispersi come pula davanti agli archi dei Pitti. Però io gli rivolsi solo una fugace occhiata rabbrividita. Due figure erano distese, legate con corde di pelle, sul nero altare splendente. Una era Tamera; l'altra era Vertorige, sporco di sangue e scarmigliato. La sua ascia di bronzo incrostata di sangue rappreso, si trovava vicino all'altare. E davanti alla pietra luccicante era accucciato l'Orrore. Sebbene non avessi mai visto alcuno di questi demoniaci aborigeni, sapevo chi fosse quella cosa, e rabbrividii. Era una specie di uomo, ma così in basso nello stadio evolutivo che la sua distorta umanità era più orribile della sua bestialità. Eretto, non sarebbe arrivato ad un metro e mezzo di altezza. Il suo corpo era inagrissimo e deformato, la testa sproporzionatamente larga. Lisci capelli serpentini ricadevano sopra un volto inumano e squadrato dalle flaccide labbra frementi che scoprivano zanne giallastre, un naso camuso e grandi occhi a mandorla giallastri. Sapevo che la creatura doveva essere in grado di vedere al buio come un gatto. Secoli di appostamenti in oscure caverne avevano dotato quella razza di attributi inumani e terribili. Però la caratteristica più ripugnante era la sua pelle: a scaglie, gialla e chiazzata, simile a quella di un serpente. Un perizoma fatto di vera pelle di serpente gli circondava i lombi e le sue mani artigliate stringevano una corta lancia dalla punta di pietra ed una mazza di selce lucida dall'aspetto sinistro. Era così intento ad osservare con cupidigia i suoi prigionieri che evidentemente non si era accorto della mia furtiva discesa. Mentre esitavo tra le ombre del passaggio, molto in alto sopra di me udii un sinistro fruscio soffocato che mi gelò il sangue nelle vene. I Figli stavano scivolando lungo il cunicolo dietro di me. Ero intrappolato. Vidi altri ingressi che si aprivano nella sala ed agii, comprendendo che un'alleanza con Vertorige era la nostra unica speranza. Sebbene fossimo nemici eravamo anche uomini, fusi nello stesso stampo, intrappolati nella tana di quelle mostruosità indescrivibili. Mentre avanzavo oltre il passaggio, l'orrore accanto all'altare piegò il capo di scatto e mi fissò. Mentre si alzava balzai in avanti e lui crollò,
schizzando sangue quando la mia pesante spada spaccò il suo cuore da rettile. Però persino mentre moriva, diede voce ad un grido abominevole che echeggiò fino in cima al passaggio. Con fretta disperata tagliai i legami di Vertorige e lo misi in piedi. Poi mi rivolsi a Tamera che in quella terribile circostanza non si ritrasse da me, fissandomi con occhi imploranti e dilatati dal terrore. Vertorige non sprecò alcun tempo in parole, comprendendo che il caso ci aveva resi alleati. Afferrò la sua ascia mentre io liberavo la ragazza. «Non possiamo andare su per il passaggio,» spiegò svelto; «avremo l'intero gruppo su di noi rapidamente. Hanno catturato Tamera mentre cercava una via d'uscita e mi hanno sopraffatto con il loro numero quando la seguii. Ci hanno trascinati qui e tutti gli altri tranne quella carogna si sono dispersi... per portare notizia del sacrificio in tutte le loro tane, senza dubbio. Solo Il-marinen sa quanti della mia gente, rapiti di notte, sono morti su quell'altare. Dobbiamo tentare la sorte in uno di questi passaggi... tutti conducono all'inferno! Seguimi!» Afferrando la mano di Tamera corse rapidamente verso il tunnel più vicino ed io lo seguii. Un'occhiata alla sala prima che una svolta del corridoio la celasse alla vista, mostrò una rivoltante orda che fuoriusciva dal passaggio. Il tunnel s'inclinava ripidamente verso l'alto, all'improvviso davanti a noi vedemmo una lama di luce grigia. Però l'istante successivo le nostre grida di speranza si mutarono in imprecazioni di cocente delusione. Sicuro, era la luce del giorno quella che filtrava attraverso una fenditura nella volta del soffitto, ma lontana, troppo lontana per essere raggiunta. Dietro di noi il gruppo iniziò ad esultare. Ed io mi fermai. «Salvati, se puoi,» ringhiai. «Io mi fermo qui. Loro possono vedere al buio ed io no. Ma qui almeno li posso vedere. Vai!» Però anche Vertorige si fermò. «Non serve essere cacciati come ratti verso la nostra fine. Non c'è via di scampo. Affrontiamo il nostro fato come veri uomini.» Tamera lanciò un grido torcendosi le mani, ma si strinse al suo innamorato. «Stai dietro di me con la ragazza,» grugnii io. «Quando cado, spaccale il cranio con la tua ascia per evitare che la catturino viva una seconda volta. Poi vendi la tua vita nella maniera più cara possibile, perché qui non c'è nessuno che ci può vendicare.» I suoi occhi penetranti mi fissarono interamente. «Veneriamo dèi diversi, predone,» disse Vertorige, «ma tutti gli dèi a-
mano gli uomini coraggiosi. Forse ci incontreremo nuovamente, oltre le Tenebre.» «Salute e addio, Britanno!», ringhiai, e le nostre destre si strinsero come morse d'acciaio. «Salute e addio, Gaelico!» E mi voltai mentre un'orda mostruosa sciamò dal tunnel ed eruppe nella fioca luce, un incubo turbinante di filacciosi capelli serpentini, labbra schiumose ed occhi baluginanti. Tuonando il mio grido di battaglia balzai per affrontarli e la mia pesante spada cantò mandando a roteare una testa ghignante da un paio di spalle in una arcuata fontana di sangue. Mi furono addosso. Lottai come una belva impazzita combatte, ed ad ogni colpo fendevo carne ed ossa ed il sangue spruzzava in una pioggia purpurea. Poi mentre si accalcavano ed io soccombevo sotto il puro peso del loro numero, un grido feroce tagliò lo strepitio e l'ascia di Vertorige cantò sopra di me, spargendo sangue e cervello come fosse acqua. La pressione si allentò ed io mi rimisi barcollando in piedi, calpestando i corpi frementi sotto i miei piedi. «Una scala dietro di noi!», stava gridando il Britanno. «Semi nascosta in un angolo del muro! Deve condurre alla aperto! Su, in nome di Ilmarinen!» Così arretrammo, combattendo passo dopo passo. I vermi lottavano come diavoli assetati di sangue, scalando sopra i corpi dei caduti per graffiare e colpire. Entrambi grondavamo sangue ad ogni gradino quando raggiungemmo l'imboccatura del passaggio, nel quale Tamera ci aveva preceduti. Strillando come dèmoni, i Figli della Notte si ammassarono per trascinarci verso il basso. Il passaggio non era illuminato come il corridoio e diveniva sempre più scuro mentre ascendevamo, ma i nostri nemici potevano solo giungere dal davanti. Per gli dèi, li massacrammo fino a quando la scala fu ricoperta di cadaveri maciullati ed i Figli schiumavano come lupi impazziti! Poi, improvvisamente, abbandonarono la lotta e scesero di corsa i gradini. «Quale portento è mai questo?», rantolò Vertorige, scuotendo il sudore sanguinolento dagli occhi. «Su per il passaggio, in fretta!», ansimai. «Hanno intenzione di usare qualche altra scala e di prenderci dall'alto!» Così corremmo su quei maledetti gradini scivolando ed inciampando, e mentre superavamo una nera galleria che si apriva nel passaggio, da lontano udimmo un pauroso ululato. Un istante più tardi emergemmo dal pas-
saggio in un corridoio tortuoso, fiocamente illuminato da una debole luce grigia che filtrava dall'alto, mentre da qualche parte nelle viscere della terra mi sembrò di udire il tuono di acqua che scorreva. Ci affrettammo lungo il corridoio e quando lo imboccammo un grosso peso si abbatté sulle mie spalle facendomi cadere lungo disteso, mentre una mazza mi colpiva ripetutamente sulla testa mandando cupi lampi rossi di dolore al mio cervello. Con una spinta vulcanica strappai di dosso il mio assalitore, lo portai sotto di me e gli lacerai la gola a mani nude. E le sue zanne si serrarono sul mio braccio in un morso di agonia. Alzandomi, vidi che Tamera e Vertorige erano scomparsi dalla vista. Ero rimasto un po' indietro, e loro avevano proseguito senza accorgersi del dèmone che mi era balzato sulle spalle. Senza dubbio pensavano che fossi ancora dietro di loro. Feci una dozzina di passi poi mi fermai. Il corridoio si divideva ed io non sapevo quale via avessero preso i miei compagni. Alla cieca presi il passaggio di sinistra ed avanzi nella semioscurità. Ero debole per la fatica e la perdita di sangue, intontito e dolorante per i colpi che avevo ricevuto. Solo il pensiero di Tamera mi fece ostinatamente continuare. Adesso potevo ascoltare distintamente il suono di un torrente invisibile. Che non mi trovassi molto in profondità era evidente dalla fioca luce che filtrava da qualche punto in alto, ed io mi aspettai da un momento all'altro d'incontrare qualche altra scala. Quando accadde però, mi fermai colto da una cupa disperazione; invece di salire, la scala portava verso il basso. Da qualche parte alle mie spalle udii debolmente gli ululati del branco e scesi, tuffandomi nell'oscurità più assoluta. Giunsi finalmente in piano ed avanzai alla cieca. Avevo perso ogni fiducia di fuggire, e speravo solo di trovare Tamera - se lei ed il suo innamorato non avessero trovato una via d'uscita - e di morire con lei. Il tuono dell'acqua corrente adesso era sopra la mia testa, ed il tunnel era fangoso ed umido. Gocce d'acqua mi cadevano sul capo e seppi che stavo passando sotto il fiume. Poi inciampai nuovamente su dei gradini intagliati nella pietra, e questi portavano verso l'alto. Mi arrampicai nella maniera più veloce che le mie ferite indolenzite mi permettevano... ed avevo subito ferite a sufficiènza da uccidere un uomo comune. Salii, sempre più in alto, ed improvvisamente la luce del giorno eruppe su di me attraverso una spaccatura nella solida roccia. Avanzai nello sfolgorio del sole. Mi trovavo su di una cengia, in alto sopra le veloci acque di un fiume che scorreva a velocità incredibile tra pareti torreggianti. La sporgenza di roccia su cui mi trovavo era vicino alla cima della collina; la salvezza era a portata del mio braccio. Però esitai e
tale era il mio amore per la ragazza dai capelli d'oro che ero pronto a ripercorrere i miei passi attraverso il nero passaggio nella folle speranza di ritrovarla. Poi rimasi di stucco. Dall'altra parte del fiume vidi un'altra spaccatura nella parete che mi fronteggiava, con una cengia simile a quella su cui mi trovavo, ma più lunga. Senza dubbio nei tempi antichi qualche tipo di ponte primitivo collegava le due sporgenze... probabilmente prima che il tunnel fosse scavato sotto il letto del fiume. Adesso stavo osservano due figure emergere su quel bordo... una ferita, impolverata, zoppicante che stringeva un'ascia insanguinata; l'altra snella, bianca e femminea. Vertorige e Tamera! Avevano preso l'altro corridoio al bivio ed avevano evidentemente seguito le aperture del tunnel per emergere come avevo fatto io, eccetto che io avevo preso la svolta a sinistra ed ero passato direttamente sotto il fiume. Ed ora vedevo che si trovavano in una trappola. Da quel lato la parete si elevava per almeno altri quindici metri in più rispetto al mio lato, ed era così liscia che persino un ragno avrebbe avuto difficoltà a scalarla. C'erano solo due modi di fuggire da quella cengia: ritornare nei corridoi infestati dai dèmoni, o direttamente giù nel fiume che infuriava molto più sotto. Vidi Vertorige fissare la ripida parete e poi verso il basso, e scuotere il capo desolato. Tamera gli strinse le braccia al collo e sebbene non potessi udire le loro voci a causa del rombo del fiume, li vidi sorridere e poi, insieme, avviarsi verso il bordo della piattaforma. E dalla fenditura sciamò una massa immonda quando gli orribili rettili uscirono frementi dall'oscurità e rimasero a sbattere le palpebre alla luce del sole come creature della notte quali esse erano. Strinsi l'elsa della spada nell'agonia della mia inutilità fino a quando il sangue non gocciolò da sotto le unghie. Perché il branco non aveva seguito me invece dei miei compagni? I Figli esitarono un istante ed i due Britanni li fronteggiavano, poi, con una risata Vertorige scagliò la sua ascia lontano, nel fiume impetuoso e voltandosi afferrò Tamera in un ultimo abbraccio. Insieme balzarono oltre il bordo e sempre avvinghiati l'uno nelle braccia dell'altro piombarono di sotto, colpendo l'acqua che spumeggiava follemente e che sembrò sollevarsi per incontrarli, e svanirono. Ed il fiume selvaggio continuò ciecamente a scorrere, mostro insensato che tuonava lungo le pareti echeggianti. Rimasi impietrito per un momento, poi, come un uomo in trance, mi girai, afferrai il bordo della parete sopra di me e stancamente mi issai sulla cima, ascoltando come in un sogno sfocato il ruggito del fiume sottostante.
Mi alzai di scatto, stringendomi intontito la testa pulsante sulla quale si era raggrumato il sangue secco. Fissai selvaggiamente attorno a me. Avevo scalato la parete... no, per la folgore di Crom, ero ancora nella caverna! Cercai la mia spada... La nebbia si dissipò e mi guardai attorno stordito, orientandomi nello spazio e nel tempo. Ero ai piedi delle scale lungo le quali ero caduto. Io che ero stato Conan il predone, ero John O'Brien. Quel grottesco interludio era stato tutto un sogno? Poteva un semplice sogno risultare così vivido? Persino nei sogni, spesso sappiamo di stare sognando, ma Conan il predone non aveva cognizione di nessun'altra esistenza. Inoltre, egli ricordava la sua vita passata come la ricorda un uomo vivo, sebbene con la mente conscia di John O'Brien quella memoria era svanita nella polvere e nella nebbia. Però le avventure di Conan nella Caverna dei Figli della Notte rimanevano chiaramente impresse nella mente di John O'Brien. Scrutai nella cupa sala verso l'ingresso del tunnel nel quale Vertorige aveva seguito la ragazza. Però cercai invano, trovando solo la nuda e spoglia parete della caverna. Attraversai la sala, accesi la torcia elettrica - miracolosamente intatta dopo la caduta - ed iniziai a tastare il muro. Ah! Trasalii come se avessi preso la scossa! Esattamente dove sarebbe dovuta trovarsi l'entrata, le mie dita individuarono una differenza nel materiale, una sezione più ruvida del resto della parete. Fui convinto che si trattasse di un lavoro relativamente moderno; il passaggio era stato murato. Spinsi contro quel punto, usando tutta la mia forza, e mi sembrò che la sezione stesse per cedere. Arretrai, ed inspirando profondamente mi lanciai a peso morto contro di essa, forte di tutta la potenza dei miei giganteschi muscoli. Il fragile muro si frantumò con uno schianto sonoro ed io mi catapultai attraverso sotto una pioggia di sassi e di frammenti di mattoni. Mi rialzai, emettendo un grido acuto. Mi trovavo in un tunnel e questa volta non potei non riconoscere quella sensazione di rassomiglianza. Qui Vertorige aveva abbattuto per la prima volta i malefici Figli, mentre trascinavano via Tamera, e qui dove mi trovavo adesso il pavimento era stato bagnato di sangue. Camminai lungo il corridoio come un uomo in trance. Ben presto sarei dovuto arrivare all'apertura sulla sinistra... sì, ecco lo strano portale scolpito, all'imboccatura del quale uccisi l'essere invisibile che si era levato dall'oscurità al mio fianco. Rabbrividii per un momento. Era possibile che resti di quella razza immonda potessero ancora nascondersi insidiosamente in quelle remote caverne?
Mi girai verso l'ingresso e la mia luce illuminò un lungo passaggio in discesa, con minuscoli gradini intagliati nella solida pietra. Lungo questa scalinata Conan il predone era sceso brancolando, e lungo la stessa andai io, John O'Brien, con ricordi di quell'altra vita che riempivano la mia mente di vaghi fantasmi. Nessuna luce brillava davanti a me, ma giunsi in quella grande e cupa caverna che avevo conosciuto anticamente e rabbrividii quando vidi il tetro altare nero risaltare nel bagliore della torcia. Adesso nessuna figura legata si contorceva lì sopra, nessun orrore accucciato bramava di fronte ad esso. E neppure la piramide di teschi sosteneva la Pietra Nera davanti alla quale razze sconosciute si erano inchinate prima che l'Egitto nascesse agli albori del tempo. Soltanto uno sporco cumulo di polvere si trovava dove i teschi avevano sostenuto quella cosa infernale. No, quello non era stato un sogno: io ero John O'Brien, ma ero stato Conan dei predoni in quell'altra vita, e quel cupo interludio un breve episodio di realtà che avevo rivissuto. Entrai nel passaggio lungo il quale eravamo fuggiti illuminato da una lama di luce di fronte a me, e vidi il grigiore luminoso che scendeva dall'alto... proprio come in quell'altra età perduta. Qui il Britanno ed io, Conan, ci eravamo voltati con le spalle al muro. Distolsi lo sguardo dall'antica frattura in alto nel soffitto a volta, e cercai la scalinata. Eccola, seminascosta da un angolo della parete. Salii, ricordando come duramente Vertorige ed io l'avevamo percorsa così tante epoche prima, con l'orda sibilante e schiumante alle nostre calcagna. Mi sentii teso per il timore mentre mi avvicinavo alla scura entrata spalancata attraverso la quale il branco aveva cercato di tagliarci la via. Avevo spento la torcia quando ero entrato nel corridoio fiocamente illuminato più sotto, ed ora fissavo al pozzo di oscurità che si apriva sulle scale. E con un grido arretrai, quasi perdendo l'equilibrio sui gradini consunti. Sudando nella semioscurità accesi la torcia e diressi il suo raggio nella misteriosa apertura, il revolver in mano. Vidi solamente le arrotondate e nude pareti di un piccolo tunnel simile ad un condotto, e risi nervosamente. La mia immaginazione stava correndo sfrenata; potevo giurare che maligni occhi giallastri mi avevano fissato terribilmente dall'oscurità e che qualcosa di strisciante era fuggito lungo il tunnel. Ero uno sciocco a permettere che queste fantasie mi turbassero. I Figli della Notte erano spariti da lungo tempo da quelle caverne; un'abominevole razza senza nome più vicina al serpente che all'uomo era passata secoli prima nell'oblio dal quale era strisciata fuori negli oscuri albori della
terra. Uscii dal passaggio ed entrai nel corridoio tortuoso che, ricordavo, era più illuminato. Qui, dalle ombre, una creatura nascosta mi era balzata sulle spalle mentre i miei compagni fuggivano, inconsapevoli. Che uomo selvaggio era stato Conan, per continuare dopo aver ricevuto simili terribili ferite! Sicuro, a quel tempo tutti gli uomini erano d'acciaio. Giunsi nel luogo dove il tunnel biforcava e come prima presi la via a sinistra ed arrivai al passaggio che scendeva. Lo percorsi, cercando di ascoltare il ruggito del fiume, ma non lo udii. Nuovamente l'oscurità si richiuse sul corridoio, così fui costretto a ricorrere nuovamente alla mia torcia elettrica nel timore di perdere l'appoggio e piombare verso la mia fine. Oh, io, John O'Brien, non sono certo così sicuro di piede come lo ero io, Conan il predone; no, e neppure così felinamente potente e veloce. Ben presto giunsi al livello inferiore e nuovamente percepii l'umidità che denotava la mia posizione sotto il letto del fiume, ma tuttavia non riuscii ad ascoltare lo scorrere dell'acqua. Ed infatti sapevo che qualunque possente fiume fosse scorso ruggendo verso il mare in quei tempi antichi, non c'era alcun corso d'acqua simile oggigiorno tra le colline. Mi fermai, illuminando attorno con la mia torcia. Mi trovavo in un grosso tunnel, non molto alto, ma largo. Altri passaggi più piccoli si diramavano da esso e mi chiesi della rete che apparentemente traforava le colline. Non sono in grado di descrivere il cupo e tetro effetto di quei corridoi scuri e bassi nel cuore della terra. Sopra ogni cosa aleggiava un senso opprimente d'inenarrabile antichità. Perché il piccolo popolo aveva scavato queste misteriose cripte, ed in quale epoca oscura? Erano queste caverne il loro ultimo rifugio dalle incalzanti ondate dell'umanità, oppure il loro castello da tempi immemorabili? Scossi il capo perplesso; avevo visto la bestialità dei Figli, eppure in qualche modo erano anche stati in grado di scavare quelle gallerie e camere che potevano far esitare i moderni ingegneri. Persino supponendo che avessero completato un'opera iniziata dalla natura, si trattava comunque di un lavoro magnifico per una razza di aborigeni nani. Improvvisamente mi resi conto che mi stavo soffermando più a lungo in quei tetri passaggi di quanto avrei dovuto, ed iniziai a cercare i gradini lungo i quali Conan era asceso. Li trovai e, percorrendoli, respirai profondamente di sollievo quando il bagliore improvviso della luce diurna riempì il passaggio. Giunsi sulla sporgenza, adesso consumata fino ad essere divenuta poco più che un rigonfiamento sulla parete. E vidi, molto sotto di
me, il grande fiume che aveva ruggito come un mostro imprigionato tra le ripide pareti del suo stretto canyon e che adesso si era ridotto nel corso degli eoni ad un sottile torrentello gocciolante silenzioso tra le rocce nel suo cammino verso il mare. Sicuro, la superficie della terra cambia; i fiumi si gonfiano e si riducono, le montagne si sollevano e cadono, i laghi si asciugano, i continenti mutano; ma sotto la terra l'opera di perdute e misteriose mani dorme inattaccata dal trascorrere del Tempo. Il loro lavoro, certo, ma cosa dire delle mani che innalzarono tali opere? Si celavano anch'esse nel cuore profondo delle colline? Per quanto tempo rimasi lì, perso in evanescenti speculazioni, non lo so, ma all'improvviso, fissando l'altra cengia ridotta e consunta, arretrai nell'ingresso alle mie spalle. Due figure sbucarono sulla sporgenza ed io rimasi a bocca aperta nel vedere che si trattava di Richard Brent e di Eleanor Bland. Adesso ricordavo il perché ero giunto alla caverna e la mia mano, istintivamente, cercò il revolver nella tasca. Non mi avevano visto. Però io potevo vedere loro, ed ascoltarli tranquillamente, poiché adesso nessun fiume ruggente rombava tra le due cengie. «Grazie al cielo, Eleanor,» stava dicendo Brent, «sono felice che tu abbia deciso di venire con me. Chi avrebbe immaginato che c'era qualcosa di vero nelle vecchie storie delle comari riguardo ai passaggi nascosti nella caverna? Mi chiedo come quella sezione della parete sia potuta crollare. Credo di aver sentito uno schianto proprio mentre entravamo nella grotta più esterna. Credi che qualche vagabondo sia entrato nella caverna prima di noi e lo abbia aperto?» «Non saprei,» rispose lei. «Ricordo... oh, non so. Sembra quasi come se fossi già stata qui, o abbia sognato di esserci. Mi sembra di ricordare debolmente, come in un incubo lontano, di correre, correre, correre senza fine attraverso questi oscuri corridoi con orribili creature alle mie spalle...» «C'ero anch'io?», chiese scherzando Brent. «Sì, ed anche John,» rispose lei. «Però tu non eri Richard Brent e John non era John O'Brien. No, ed io non ero Eleanor Bland, neppure. Oh, è così vago e lontano che non posso descriverlo. È confuso e vago e terribile.» «Capisco, un poco,» disse Brent inaspettatamente. «Da quando siamo arrivati nel punto dove il muro è crollato rivelando quel vecchio passaggio, ho provato una sensazione di familiarità con questo luogo. C'era orrore e pericolo e battaglia... ed anche amore.» Avanzò fino al bordo della sporgenza per osservare l'orrido, ed Eleanor
all'improvviso gridò bruscamente afferrandolo in una presa convulsa. «No, Richard, no! Stringimi, oh stringimi forte!» La prese tra le braccia. «Perché, Eleanor, cara, cosa ti prende?» «Nulla,» balbettò lei, ma si strinse ancora di più a lui ed io vidi che stava tremando. «Solo una strana sensazione... una paura stordente, come se stessi cadendo da una grande altezza. Non andare verso il bordo, Dick; mi spaventa.» «Non lo farò, cara,» rispose lui, portandola ancora più vicina a sé e continuando in maniera esitante: «Eleanor, c'è qualcosa che volevo chiederti da molto tempo... beh, non ho la capacità di esporre le cose in maniera elegante. Ti amo, Eleanor: ti ho sempre amata. Lo sai. Però se tu non mi ami mi farò da parte e non ti disturberò mai più. Solo, ti prego, dimmi in un modo o nell'altro, perché non posso sopportarlo più. Sono io o è l'americano?» «Sei tu, Dick,» rispose lei, nascondendo il viso sulla sua spalla. «Sei sempre stato tu, sebbene non lo sapessi. Stimo molto John O'Brien. Non sapevo chi di voi due amassi veramente. Però oggi quando attraversavamo quegli orribili corridoi e salivamo quelle scalinate paurose, ed ora, quando ho pensato per qualche strano motivo che stavamo cadendo dalla piattaforma, ho compreso che sei tu quello che amo... che ti ho sempre amato, per più vite oltre questa. Sempre!» Le loro labbra s'incontrarono ed io vidi la testa dorata cullata sulle spalle dell'inglese. Le mie labbra erano secche, il mio cuore gelido, eppure la mia anima era in pace. Appartenevano l'uno all'altra. Eoni prima avevano vissuto e si erano amati, ed a causa di quell'amore avevano sofferto ed erano morti. Ed io, Conan, li avevo condotti a quel destino. Li vidi voltarsi verso la spaccatura, abbracciati, poi udii Tamera - voglio dire Eleanor - gridare e ritrarsi entrambi. E dalla fenditura emerse un orrore fremente, una creatura nauseante, sconvolgente, che sbatteva gli occhi nella limpida luce del giorno. Sì, la conoscevo da tempo... la vestigia di un'epoca perduta che giungeva fremendo con la sua forma orrenda dall'oscurità dannata della Terra per reclamare il suo. Vidi cosa tremila anni di regressione potevano produrre in una razza disgustosa fin dall'inizio, e rabbrividii. Ed istintivamente seppi che in tutto il mondo era l'unica del suo tipo, un mostro sopravvissuto. Dio solo sa per quanti secoli aveva sguazzato nel fango della sua umida tana sotterranea. Prima che i Figli svanissero, la razza doveva aver perduto tutta la rassomiglianza umana, vivendo come facevano, la vita del rettile. La cosa era più
simile ad un serpente gigante di qualunque altra cosa, ma possedeva gambe abortite e braccia sinuose con artigli ad uncino. Strisciava sulla pancia, agitando labbra chiazzate di nero e scoprendo zanne simili ad aghi che ero sicuro dovevano gocciolare veleno. Sibilò quando sollevò la testa spaventosa in cima ad un collo orrendamente lungo, mentre i suoi gialli occhi a mandorla scintillavano con tutto l'orrore che si genera nei neri covi sotto la terra. Conoscevo quegli occhi che avevano brillato rivolti verso di me dal nero tunnel che si apriva sulle scale. Per qualche ragione la creatura era fuggita da me, probabilmente perché temeva la mia luce, ed era ragionevole che fosse l'unica rimasta nelle caverne, altrimenti sarei stato assalito nell'oscurità. Se non fosse stato per quella creatura, i passaggi potevano essere attraversati con sicurezza. Adesso la creatura serpentina strisciava verso gli umani intrappolati sulla cengia. Brent aveva spinto Eleanor dietro di sé ed era rimasto, cinereo in viso, a proteggerla nel miglior modo che poteva. E ringraziai silenziosamente che io, John O'Brien, potevo ripagare il debito che io, Conan il predone, dovevo da molto tempo a quei due innamorati. Il mostro si sollevò e Brent, con freddo coraggio, balzò per affrontarlo a mani nude. Prendendo rapidamente la mira, feci fuoco una sola volta. Lo sparo echeggiò come il tuono del giudizio universale tra le pareti torreggianti e l'Orrore, con un orripilante grido umano, ondeggiò selvaggiamente, barcollò e precipitò intrecciandosi e vibrando come un pitone ferito, dopo essere rotolando oltre il bordo della sporgenza, cadendo come un sasso sulle rocce sottostanti. Titolo originale: People of the Dark (Strange Tales, giugno 1932) L'UOMO PER TERRA Cal Reynolds mosse il bolo di tabacco dall'altro lato della bocca mentre mirava lungo la canna azzurro opaco del suo Winchester. Le mandibole masticavano metodicamente; il loro movimento s'interruppe solo quando trovò il bersaglio. S'irrigidì in una posa immobile; poi il suo dito si piegò sul grilletto. Lo schianto dello sparo mandò gli echi a risuonare tra le colline, e come un eco ancora più forte giunse un colpo di risposta. Reynolds si abbassò di scatto, schiacciando il corpo longilineo contro il suolo, sudando
leggermente. Una scheggia grigia saltò da una delle rocce vicine alla sua testa, il proiettile rimbalzò sibilando verso l'alto. Reynolds rabbrividì involontariamente. Il suono era mortale quanto quello di un serpente a sonagli invisibile. Cautamente, si alzò a sufficienza per scrutare tra le rocce davanti a sé. Separato dal suo rifugio da un ampio e piatto macchione di erba mesquite e fichi d'India, si ergeva un cumulo di massi simile a quello dietro cui era accucciato. Tra quei massi si levava un sottile sbuffo di fumo biancastro. L'attento occhio di Reynolds, addestrato alle distanze battute dal sole, individuò un piccolo cerchio di acciaio azzurro opaco che brillava tra le rocce. Quell'anello era la bocca di un fucile. La faida tra Cal Reynolds ed Esaù Brill era stata lunga, per essere una faida texana. Su, nelle montagne del Kentucky, le guerre tra famiglie possono andare avanti per generazioni, ma le condizioni geografiche ed il temperamento umano del Sud-Ovest non portavano ad ostilità di lunga durata. Le faide si concludevano generalmente con spaventosa rapidità e determinazione. Il palcoscenico era un saloon, le strade di una piccola città piena di cowboy o gli spazi aperti. I tiri dei cecchini appostati fra i lauri erano sostituiti dal tuonare ravvicinato delle sei-colpi e dal ronzio lontano dei fucili a pallettoni che decidevano le questioni rapidamente, in un modo o nell'altro. Il caso di Cal Reynolds e di Esaù Brill era però qualcosa di fuori dal comune. In primo luogo la faida riguardava soltanto loro due. Né amici, né parenti erano coinvolti. Nessuno, inclusi i protagonisti, sapevano come fosse iniziata. Cal Reynolds sapeva appena che aveva odiato Esaù Brill per la maggior parte della sua vita, e che per Brill era la stessa cosa. Un tempo, da ragazzi, si erano scontrati con la violenza e l'intensità di giovani puma rivali. Da quel primo incontro Reynolds uscì con una cicatrice da coltello sulle costole e Brill con un occhio menomato per sempre. Non aveva risolto nulla. Si erano battuti in una sanguinosa e spasmodica lotta senza vinti né vincitori e nessuno dei due aveva provato alcun desiderio di "stringersi la mano e fare pace". Quella era un'ipocrisia sviluppata dalla civiltà, dove gli uomini non hanno il fegato di combattere fino alla morte. Dopo che un uomo ha provato il coltello del suo avversario graffiargli le ossa, il pollice dell'avversario che gli scava selvaggiamente l'occhio, i tacchi dell'avversario piantati sulla bocca, è scarsamente incline a perdonare e dimenticare, indifferente al valore originario della questione. Così Reynolds e Brill portarono il loro reciproco odio nell'età adulta, e
in quanto mandriani che lavoravano per ranch rivali, ne conseguì che trovarono molte opportunità per portare avanti la loro guerra personale. Reynolds rubava bestiame dal padrone di Brill, e Brill ricambiava la cortesia. Ognuno s'infuriava contro la tattica dell'altro e si considerava giustificato nel voler eliminare il suo nemico in ogni modo possibile. Brill sorprese Reynolds senza pistola una notte in un saloon di Cow Wells, e solo una vergognosa fuga dalla porta posteriore, con i proiettili che abbaiavano dietro i suoi talloni, salvò la pellaccia di Reynolds! Un altra volta, Reynolds, disteso in un chaparral, sbalzò di sella bellamente il suo nemico a cinquecento metri di distanza con un colpo del suo .30.30, e, se non fosse stato per l'inopportuno arrivo di corriere di linea, la faida si sarebbe conclusa là, con Reynolds che decise, a causa della presenza di quel testimone, di rinunciare alla sua intenzione originale di lasciare il nascondiglio e si spaccare a colpi di calcio di fucile la testa del ferito. Brill si riprese da quella ferita, dato che possedeva la vitalità di un toro, come tutta la sua vigorosa stirpe di persone d'acciaio temprato al sole, e non appena si rimise in piedi venne per stendere l'uomo che gli aveva teso l'agguato. Adesso dopo questi attacchi e scaramucce, i nemici si fronteggiavano l'un l'altro a tiro di fucile, tra le colline solitarie dove era difficile essere interrotti. Per più di un'ora erano rimasti distesi tra le rocce, sparando ad ogni accenno di movimento. Nessuno aveva centrato il bersaglio, sebbene il doppio colpo da .30 avesse sibilato pericolosamente vicino. In ciascuna delle tempie di Reynolds un lieve pulsare batteva da far impazzire. Il sole picchiava e la camicia era zuppa di sudore. Moscerini ronzavano attorno alla sua testa, gli andavano sugli occhi e l'uomo imprecò velenosamente. I suoi capelli sudati erano appiccicati alla testa; gli occhi gli bruciavano a causa del riverbero del sole e la canna del fucile era calda tra le sue mani callose. La gamba destra si stava intorpidendo e Reynolds la mosse cautamente, imprecando al tintinnio dello sperone, sebbene sapesse che Brill non poteva sentirlo. Tutto questo disagio aggiungeva benzina al fuoco della sua ira. Senza alcun ragionamento conscio attribuì tutte queste sofferenze al suo nemico. Il sole picchiava stordente sul suo sombrero ed i suoi pensieri erano leggermente confusi. Faceva più caldo che nelle fornaci dell'inferno tra quelle rocce nude. La sua lingua secca si carezzò le labbra riarse.
Nella confusione della sua mente ardeva l'odio per Esaù Brill. Era divenuto più che un'emozione: era un ossessione, un incubo mostruoso. Quando arretrò per lo schiocco del fucile di Brill, non fu per la paura della morte, ma perché il pensiero di morire per mano del suo nemico era un orrore intollerabile che faceva oscillare il suo cervello con una rossa frenesia. Avrebbe gettato al vento la sua vita senza pensarci, se così facendo fosse riuscito a mandare Brill all'inferno appena tre secondi prima di andarci lui. Non analizzò queste sensazioni. Gli uomini che vivono grazie al lavoro delle loro mani hanno poco tempo per l'autoanalisi. Non era più consapevole della qualità del suo odio per Esaù Brill di quanto fosse conscio della presenza delle sue mani e piedi. Era parte del suo essere, e più che parte: lo avviluppava, lo inghiottiva; la sua mente ed il suo corpo non erano altro la manifestazione materiale. Lui era l'odio; era l'intera anima e spirito di esso. Libero dalle stagnanti e snervanti catene della sofisticazione e dell'intellettualità, il suoi istinti si levarono liberamente dalla nuda primitività. E da questi istinti si cristallizzava un'astrazione quasi tangibile... un odio troppo forte persino da essere distrutto dalla morte; un odio potente a sufficienza da incarnare se stesso in se stesso, senza l'aiuto o la necessità della sostanza materiale. Per circa un quarto d'ora nessuno dei due fucili aveva parlato. Con l'istinto mortale del serpente a sonagli raggomitolato tra le rocce ad impregnarsi di veleno grazie ai raggi del sole, gli avversari erano distesi, ciascuno attendendo il momento opportuno, giocando ad un gioco di resistenza fino a quando i nervi tesi di uno o dell'altro non si sarebbero spezzati. Fu Esaù Brill che si spezzò. Non che il suo collasso prese la forma di una qualsiasi follia selvaggia o di una esplosione di nervi. Il cauto istinto del primitivo era troppo forte in lui per questo tipo di cose. Però, improvvisamente, strillando un'imprecazione, si issò su di un gomito e sparò alla cieca verso il groviglio di rocce che celavano il suo nemico. Solo la parte superiore del braccio e l'angolo della spalla dalla camicia blu furono visibili per un istante. Fu sufficiente. In quell'attimo Cal Reynolds premette il grilletto ed un urlo agghiacciante gli disse che il suo proiettile aveva centrato il bersaglio. E di fronte al dolore animale espresso da quel grido la ragione e gli istinti di sopravvivenza furono spazzati via da una folle ondata di gioia terribile. Non esultò balzando in piedi; ma scoprì i denti in un sorriso lupesco e sollevò involontariamente il capo. Un istinto improvviso lo fece abbassare di nuovo. Fu il caso che lo rovinò. Proprio mentre si abbassava, echeggiò il colpo di risposta di Brill.
Cal Reynolds non lo udì perché simultaneamente al suono qualcosa esplose nel suo cranio, facendolo piombare nella totale oscurità, interrotta brevemente da scintille rossastre. Il buio fu solo momentaneo. Cal Reynolds si guardò attorno selvaggiamente, realizzando con un spasmodico shock di essere disteso allo scoperto. L'impatto del colpo lo aveva fatto rotolare lontano dalle rocce, ed in quel brevissimo istante comprese che non era stato un colpo diretto. Il caso aveva voluto che il proiettile rimbalzasse su di una pietra, apparentemente scalfendogli il cranio nella traiettoria. Questo però non aveva importanza. Ciò che contava era che lui si trovava adesso in piena vista, dove Esaù Brill poteva imbottirlo di piombo. Un'occhiata disperata gli mostrò il fucile che giaceva a poca distanza. Era caduto di traverso su di una roccia con il calcio puntato contro il suolo e la canna verso l'alto. Un'altra occhiata gli mostrò il suo nemico in piedi tra le rocce che lo avevano nascosto. Con quell'unica occhiata Cal Reynolds raccolse i dettagli della figura alta e sottile: i pantaloni sporchi sformati dal peso della sei-colpi nella fondina, le gambe infilate in stivali di cuoio consunti; il filo cremisi sulla spalla della camicia blu, appiccicata al corpo per il sudore; i capelli neri arruffati dai quali il sudore colava sul volto non sbarbato. Colse il giallastro luccichio dei denti macchiati dal tabacco in un sorriso selvaggio. Il fumo usciva ancora dal fucile tra le mani di Brill. Quei dettagli così familiari e così odiati risaltarono con stupefacente chiarezza durante quel velocissimo istante in cui Reynolds lottò follemente contro le catene invisibili che Sembravano bloccarlo a terra. Persino mentre pensava alla paralisi che un colpo di striscio al capo poteva provocare, qualcosa sembrò scattare e lui si rotolò libero. Rotolare è un termine improprio: sembrò quasi scattare verso il fucile che giaceva sulla roccia, così leggere sentiva le sue membra. Terminando dietro la pietra afferrò l'arma. Non dovette neppure sollevarla. Era puntata esattamente verso l'uomo che adesso si stava avvicinando. La sua mano venne momentaneamente fermata dallo strano comportamento di Esaù Brill. Invece di sparare o di balzare dietro un riparo, l'uomo gli si mosse incontro, il fucile nell'incavo del braccio, quel dannato ghigno ancora sulle labbra non sbarbate. Era impazzito? Non riusciva a vedere che il suo nemico era nuovamente in piedi, pieno di vita e con un fucile puntato verso il suo cuore? Brill non sembrava guardare lui, ma piuttosto di lato, nel luogo dove Reynolds era rimasto disteso fino ad un
momento prima. Senza cercare ulteriori spiegazioni riguardo al comportamento del suo avversario, Cal Reynolds premette il grilletto. Assieme al rabbioso colpo di rinculo, un brandello bluastro balzò dall'ampio petto di Brill che barcollò all'indietro, la bocca spalancata. E lo sguardo sul suo viso fece gelare nuovamente Reynolds. Esaù Brill proveniva da una razza che combatteva fino all'ultimo. Nulla era più certo che sarebbe caduto sparando alla cieca fino a quando l'ultimo rosso frammento di vita non lo avesse abbandonato. Appena il feroce trionfo venne spazzato via dal suo volto dallo schianto dello sparo, fu sostituito da una orribile espressione di stordita sorpresa. Non si mosse per sollevare il fucile, che invece gli scivolò dalla presa, e neppure si strinse la ferita. Spalancando le mani in maniera strana, stordita, inerme, piroettò all'indietro su gambe che scalciavano debolmente, i suoi lineamenti congelati in una maschera di stupida meraviglia che fece fremere di orrore cosmico il suo spettatore. Attraverso le labbra aperte fuoriuscì un fiotto di sangue che macchiò la camicia sudata. E come un albero che ondeggia e si protende improvvisamente verso il suolo, Esaù Brill cadde di schianto tra l'erba mesquite e giacque immobile. Cal Reynolds si alzò, lasciando il fucile dove stava. La dolce collina ricoperta d'erba ondeggiava indistinta e nebulosa al suo sguardo. Persino il cielo ed il sole sfolgorante avevano un aspetto irreale ed offuscato. Ma una felicità selvaggia era nel suo cuore. La lunga faida almeno era terminata, avesse o meno ricevuto una ferita mortale, aveva mandato Esaù Brill a tracciare la via dell'inferno prima di lui. Poi sobbalzò violentemente quando il suo sguardo andò al punto dove era rotolato dopo essere stato colpito. Fissò; i suoi occhi gli stavano giocando dei brutti scherzi? Laggiù tra l'erba era disteso Esaù Brill, morto... ma a pochi passi di distanza era disteso un altro corpo. Rigido per la sorpresa, Reynolds fissò la figura longilinea, grottescamente accasciata accanto alle rocce. Era distesa in parte su di un fianco, come se vi fosse stata portata da qualche cieca convulsione, le braccia distese, le dita rattrappite come se cercassero di afferrare qualcosa a tentoni. I corti capelli color sabbia erano schizzati di sangue e da un raccapricciante foro nella tempia stava colando lentamente il cervello. Da un angolo della bocca scivolava un sottile filo di succo di tabacco che macchiava il polveroso fazzolettone al collo. E mentre guardava, una terribile familiarità si fece evidente. Conosceva
l'aria di quelle polsiere di cuoio luccicanti; conosceva con paurosa certezza quali mani avevano serrato quel cinturone; il gusto di quel succo di tabacco era ancora nel suo palato. In un breve distruttivo istante, Cal Reynolds seppe che stava guardando il suo stesso corpo senza vita. E con la consapevolezza giunse il vero oblio. Titolo originale: The Man on the Ground (Weird Tales, luglio 1933) IL CUORE DEL VECCHIO GARFIELD Ero seduto nella veranda quando mio nonno uscì zoppicando ed affondò nella sua sedia preferita dal sedile imbottito, iniziando a riempire di tabacco la pipa di pannocchia di granturco. «Credevo che fossi andato al ballo,» disse. «Sto aspettando il dottor Blaine,» risposi, «Sto andando dal vecchio Garfield con lui.» Mio nonno succhiò la pipa per un po' prima di parlare nuovamente. «Il vecchio Jim è conciato male?» «Doc dice che non ce la farà.» «Chi si prende cura di lui?» «Joe Braxton... contro il volere di Garfield. Però qualcuno deve stare con lui.» Mio nonno succhiò la pipa rumorosamente ed osservò il lampo di calore giocherellare lontano, in alto sulle colline; poi disse: «Credi che il vecchio Jim sia il più grande bugiardo della contea, vero?» «Racconta delle belle storie,» ammisi io. «Alcune delle cose a cui lui afferma di aver preso parte, devono essere accadute ancora prima che nascesse.» «Giunsi dal Tennessee in Texas nel 1870,» disse bruscamente mio nonno. «Ho visto questa città di Lost Knob crescere dal nulla. Non c'era neppure uno spaccio quando vi arrivai. Però il vecchio Jim Garfield era qui e viveva nello stesso posto in cui vive ora, solo che allora era una capanna di tronchi. Non sembra un giorno più vecchio adesso di quanto lo fosse la prima volta che lo vidi.» «Non mi hai mai detto queste cose prima,» dissi un po' sorpreso. «Sapevo che li avresti considerati i vaneggiamenti di un anziano,» rispo-
se. «Il vecchio Jim è stato il primo uomo bianco a stabilirsi in questo paese. Ha costruito la sua capanna a circa ottanta chilometri ad ovest della frontiera. Dio solo sa come fece, perché allora queste colline brulicavano di Comanche. «Ricordo la prima volta che lo vidi. Persino allora lo chiamavano "il vecchio Jim" «Mi ricordo che mi raccontava le stesse storie che ha narrato a te... della battaglia di San Jacinto quando era appena un ragazzo, e di come cavalcò insieme a Ewen Gameron e Jack Hayes. Solo che io gli credevo, e tu no.» «È stato molto tempo fa...», protestai. «L'ultima scorreria indiana in questa regione è stata nel 1874,» disse mio nonno, assorto nei suoi ricordi. «Presi parte a quella battaglia, come pure il vecchio Jim. Lo vidi buttar giù il vecchio Coda Gialla dal suo mustang a settecento metri con un fucile da bisonti. «Ma prima di quello fui con lui in uno scontro vicino alla sorgente del torrente della Locusta. Una banda di Comanche scese lungo il Mesquital, saccheggiando e bruciando, attraversò le colline e ritornò lungo il torrente ed un nostro esploratore era proprio alle loro calcagna. Arrivammo anche noi, ed il resto se la filò attraverso la prateria a piedi. Però tre dei nostri ragazzi furono uccisi e Jim Garfield si prese un colpo di lancia nel petto. «Era una ferita orribile. Era disteso come se fosse morto, e sembrava certo che nessuno potesse sopravvivere dopo una ferita del genere. Però un vecchio indiano sbucò dai cespugli e noi gli puntammo addosso i fucili, ma lui ci fece il segno di pace e ci parlò in spagnolo. Non so perché i ragazzi non gli spararono subito, il sangue ci ribolliva dopo lo scontro e le uccisioni, ma qualcosa in lui ci impedì di premere il grilletto. Disse che non era un Comanche, ma un vecchio amico di Garfield e che lo voleva aiutare. Ci chiese di portare Jim fino ad una macchia di mesquite e di lasciarlo solo con lui, ed ancora oggi non so perché lo facemmo, ma lo facemmo. Fu una cosa terribile... il ferito gemeva e implorava dell'acqua, i cadaveri dallo sguardo sbarrato sparsi nel campo, la notte che si avvicinava e nessun modo di sapere se gli indiani sarebbero tornati dopo il calare del buio. «Ci accampammo là perché i cavalli erano stanchi e montammo la guardia tutta la notte, ma i Comanche non tornarono. Non so cosa accadde tra i mesquite dove si trovava il corpo di Jim Garfield, perché non vidi mai più quello strano indiano, ma durante la notte continuai a sentire uno strano gemito che non era quello di un uomo morente, ed un gufo emise il suo ri-
chiamo da mezzanotte fino all'alba. «Ed al sorgere del sole Jim Garfield giunse camminando dal mesquite, pallido e macilento, ma vivo e già la ferita al petto si era richiusa ed iniziava a guarire. E da allora non ha mai fatto parola di quella ferita e neppure dello scontro, e neanche dello strano indiano che arrivò e se ne andò in maniera così misteriosa. E non è invecchiato neanche un po'; adesso ha l'aspetto che aveva allora... di un uomo di circa cinquant'anni.» Nel silenzio che seguì, si udì un'auto scoppiettare lungo la strada e due fasci di luce tagliare l'oscurità del crepuscolo. «Ecco il dottor Blaine,» dissi. «Quando torno ti dirò come sta Garfield.» Doc Blaine fu pronto con le sue previsioni mentre percorrevamo i quasi cinque chilometri di colline coperte di querce che si estendevano tra Lost Knob e la fattoria di Garfield. «Sarei sorpreso di trovarlo vivo,» disse, «malridotto com'è. Un uomo della sua età dovrebbe cercare di avere più buon senso invece di cercare di domare un puledro.» «Non sembra così vecchio,» osservai. «Ne farà cinquanta il prossimo compleanno,» rispose Doc Blaine. «L'ho conosco da sempre, e doveva avere almeno cinquant'anni quando lo vidi per la prima volta. Il suo aspetto è ingannevole.» L'abitazione del vecchio Garfield era una reliquia del passato. Le assi della casa bassa e tozza non avevano mai conosciuto la pittura. I recinti del frutteto e per i cavalli erano fatti da stecconate. Il vecchio Jim giaceva sul suo rozzo letto, sommariamente ma efficacemente curato dall'uomo che Doc Blaine aveva assunto nonostante le proteste dell'anziano. Mentre lo osservavo rimasi nuovamente impressionato dalla sua evidente vitalità. Il fisico era curvo ma non avvizzito, le gambe fornite di muscoli guizzanti. Il collo robusto ed il viso, per quanto fossero tirati a causa della sofferenza, possedevano un apparente ed innata virilità. I suoi occhi, per quanto parzialmente vitrei per il dolore, ardevano dello stesso inequivocabile elemento. «Ha delirato,» disse stolidamente Joe Braxton. «Il primo uomo bianco in questa regione,» bofonchiò il vecchio Jim, divenendo incomprensibile. «Colline su cui nessun uomo bianco aveva mai messo piede prima. Sto diventando vecchio. Devo fermarmi. Non riesco più a muovermi come ero solito. Devo fermarmi qui. Un buon posto prima che si riempisse di mandriani ed allevatori. Visitai questi posti con Ewen Cameron. I messicani gli spararono. Maledetti!»
Il dottor Blaine scosse il capo. «È tutto rotto dentro. Non passerà la notte.» Inaspettatamente Garfield sollevò il capo e ci fissò con occhi limpidi. «Sbagliato, Doc,» sibilò, il fiato che fischiava per il dolore. «Vivrò. Cos'è un osso rotto e delle budella ritorte? Nulla! È il cuore che conta. Fintanto che il cuore continua a pompare un uomo non può morire. Il mio cuore è solido. Lo ascolti! Lo senta!» Brancolò dolorosamente alla ricerca del polso di Doc Blaine, gli portò la mano sul petto e la tenne là, fissando il volto del dottore con avida intensità. «È una dinamo regolare, vero?», ansimò. «Più robusto di un motore a benzina!» Blaine mi chiamò. «Poggia la tua mano qui,» disse, ponendo la mia mano sul petto scoperto del vecchio. «Ha una rimarchevole attività cardiaca.» Notai, alla luce della lampada a cherosene, una grande cicatrice livida, come quella prodotta da una lancia dalla punta di selce. Poggiai la mano direttamente sulla cicatrice e dalle labbra mi sfuggì una esclamazione. Sotto la mia mano il cuore del vecchio Jim Garfield pulsava, ma il battito non era simile a nessun altro che avessi mai osservato. La sua potenza era sorprendente; le costole vibravano sotto quel pulsare ritmico. Sembrava più la vibrazione di una dinamo che l'azione di un organo umano. Potevo sentire la sua straordinaria vitalità irraggiarsi dal petto, risalire lungo la mia mano ed il braccio, fino a quando il mio stesso cuore sembrò aumentare il suo battito come in riposta. «Non posso morire,» sbottò il vecchio Jim. «Non fintanto che il mio cuore si trova nel petto. Solo una pallottola nel cervello può uccidermi. E persino allora non sarei completamente morto, fintanto che mi batte il cuore nel petto. Anche se questo cuore non è esattamente mio. Appartiene ad Uomo Spettro, il capo Lipan. Era il cuore di un dio che i Lipan adoravano prima che i Comanche li scacciassero dalle loro colline native. «Conobbi Uomo Spettro lungo il Rio Grande, quando ero con Ewen Cameron. Una volta gli salvai la vita dai Messicani. Strinsi i legami di un wampum fantasma tra lui e me... il wampum che nessun uomo tranne io e lui possiamo vedere o sentire. Venne quando seppe che avevo bisogno di lui, durante quello scontro alla sorgente del torrente della Locusta, quando mi procurai questa cicatrice. «Ero morto come lo può essere un uomo. Il mio cuore spaccato a metà, come quello di un manzo macellato.
«Tutta la notte Uomo Spettro compì delle magie, richiamando la mia anima dalla terra degli spiriti. Ricordo un poco quel viaggio. Era scuro e grigio ed io mi libravo in mezzo a della nebbia opaca, ed udii i morti ululare e superarmi nella nebbia. Però Uomo Spettro mi riportò indietro. «Prese ciò che era rimasto del mio cuore mortale ed al suo posto mi mise nel petto il cuore del dio. Però quel cuore è suo, e quando non ne avrò più bisogno tornerà a riprenderselo. Mi ha mantenuto vivo e forte per la durata della vita di un uomo. L'invecchiamento non mi può toccare. Cosa importa se questi sciocchi attorno a me mi chiamano vecchio bugiardo? Ciò che so, so. Ma ascoltate!» Le sue dita divennero artigli che strinsero fortemente il polso di Doc Blaine. I suoi vecchi occhi, vecchi eppure stranamente giovani, ardevano fieri come quelli di un'aquila sotto le sopracciglia cespugliose. «Se per qualche disgrazia dovessi morire, adesso o dopo, promettetemi questo! Apritemi il petto e prendete il cuore che Uomo Spettro mi ha prestato così tanto tempo fa! È suo. E fintanto che batte nel mio corpo, il mio spirito sarà legato a quel corpo, anche se la mia testa fosse ridotta come un uovo schiacciato sotto un piede! Una cosa vivente in un corpo che marcisce! Promettete!» «Va bene, lo prometto,» replicò il dottor Blaine per accontentarlo, ed il vecchio Jim Garfield si ridistese con un sibilante gemito di sollievo. Quella notte non morì, e neppure quella successiva, e neanche quella dopo. Ricordo bene quel giorno, perché fu quello in cui mi scontrai con Jack Kirby. La gente sopporta un sacco di cose da un bullo, piuttosto di spargere sangue. Poiché nessuno aveva mai voluto prendersi la rogna di ucciderlo, Kirby pensava che l'intera contea avesse paura di lui. Aveva comprato dei manzi da mio padre, e quando mio padre andò per prendere i soldi, Kirby gli disse che aveva dato il denaro a me... il che era una bugia. Andai a cercare Kirby, e lo incontrai in uno spaccio clandestino di alcolici dove si vantava di essere un duro, raccontando alla gente che mi avrebbe dato un bella lezione e che mi avrebbe fatto dire di avermi dato il denaro, e che me lo ero infilato in saccoccia. Quando lo sentii dire queste cose vidi rosso e mi avventai su di lui con un coltello da mandriano, e gli ferii il volto, il collo, il fianco, petto e pancia, e l'unica cosa che gli salvò la vita fu il fatto che la folla mi staccò da lui. Ci fu un'udienza preliminare e fui accusato di aggressione, ed il processo venne indetto per la successiva sessione della corte. Kirby era robusto co-
me doveva esserlo un bullo di campagna e si riprese giurando vendetta, perché era molto fiero del suo aspetto, sebbene solo Dio sa perché, ed io lo avevo mutilato in maniera permanente. E mentre Jack Kirby si riprendeva, così faceva anche il vecchio Garfield, tra lo stupore generale, specie quello di Doc Blaine. Ricordo bene la notte in cui il dottore mi riportò alla fattoria del vecchio Jim Garfield. Mi trovavo nel locale di Shifty Corlan cercando di bere abbastanza della brodaglia che lui chiamava birra per provarci un po' di gusto, quando entrò Doc Blaine e mi persuase ad andare con lui. Mentre percorrevamo la strada tortuosa con la macchina del dottore, gli chiesi: «Perché avete insistito tanto che venissi con voi proprio questa notte? Questa non è una visita, vero?» «No,» rispose. «Non riusciresti ad uccidere il vecchio Jim neppure con una mazza di quercia. Si è ripreso completamente da ferite che avrebbero ucciso un bue. A dire la verità, Jack Kirby è a Lost Knob e va dicendo in giro che ti sparerà non appena ti vede.» «E allora, per grazia di Dio!», esclamai irritato. «Adesso tutti penseranno che io abbia lasciato la città perché avevo paura di lui. Girate la macchina e riportatemi indietro, dannazione!» «Sii ragionevole,» disse il dottore. «Tutti sanno che non hai paura di Kirby. Nessuno ha paura di lui, ora. Il suo bluff è stato scoperto ed è per questo che ce l'ha così tanto con te. Però adesso non puoi permetterti di avere altri guai con lui, ed il processò non è tra molto.» Risi e dissi: «Beh, se mi sta cercando così tanto mi troverà altrettanto facilmente dal vecchio Garfield come in città, perché Shifty Corlan ha sentito dire dove andavamo. E Shifty mi odia da quando l'ho spennato con quel baratto di cavalli lo scorso autunno. Dirà a Kirby dove sono andato.» «Non ci ho affatto pensato,» disse Doc Blaine preoccupato. «Al diavolo, non importa,» lo consigliai. «Kirby non ha abbastanza fegato per fare nulla se non il pallone gonfiato.» Invece mi sbagliavo. Pizzicate la vanità di un bullo e lo avrete toccato in un punto vitale. Il vecchio Jim non era ancora andato a dormire quando arrivammo da lui. Era seduto sulla soglia della sua malandata veranda che dava nella stanza che era allo stesso tempo salotto e camera da letto, fumando la sua vecchia pipa di granturco e cercando di leggere un giornale alla luce della sua lampada a cherosene. Tutte le porte e le finestre erano spalancate per cercare del refrigerio e gli insetti che ronzavano attorno alla lampada e nel-
la casa non sembravano disturbarlo. Sedemmo e parlammo del tempo... che non è una cosa così sciocca come qualcuno potrebbe supporre, in un paese dove i mezzi di sussistenza di un uomo dipendevano dal sole e dalla pioggia e dalla benevolenza del vento e della siccità. Il discorso si spostò poi verso altri argomenti affini, poi dopo un po' Doc Blaine parlò schiettamente di qualcosa che aveva in mente. «Jim,» disse, «la notte in cui pensai che stavate per morire, avete bofonchiato un sacco di cose riguardo al vostro cuore e di un indiano che ve lo avrebbe imprestato. Quanto di quel racconto era dovuto al delirio?» «Nulla, Doc,» disse Garfield tirando su dalla pipa. «Era la pura verità. Uomo Spettro, il sacerdote Lipan degli Dei della Notte, sostituì il mio vecchio cuore spaccato con uno di qualcosa che adorava. Non ne sono sicuro neppure io di che cosa fosse... qualcosa di molto lontano, disse lui. Ma, essendo un dio, può stare senza cuore per un po'. Però quando morirò - se mai dovessi avere la testa spaccata così che la mia coscienza venga distrutta - il cuore deve essere restituito ad Uomo Spettro.» «Volete dire che siete serio riguardo al fatto di estrarvi il cuore?», domandò Doc Blaine. «Deve essere così,» rispose il vecchio Garfield. «Una cosa viva in una morta è contrario all'ordine della natura. Questo è ciò che disse Uomo Spettro.» «Chi diavolo era Uomo Spettro?» «Ve l'ho detto. Uno stregone dei Lipan, che vivevano in questa regione prima dell'arrivo dei Comanche dalle Staked Plains da dove li scacciarono verso sud, oltre il Rio Grande. Io ero loro amico. Credo che Uomo Spettro sia l'unico ancora vivo.» «Vivo? Adesso?» «Non lo so,» confessò il vecchio Jim. «Non so se sia vivo o morto. Non so se fosse vivo quando venne da me dopo lo scontro al torrente della Locusta, o persino se fosse vivo quando lo conobbi, più a sud. Vivo per come noi intendiamo la vita, voglio dire.» «Che sciocchezza è mai questa?», chiese il dottor Blaine a disagio, ed io provai un leggero brivido nella nuca. Fuori tutto era quieto: le stelle e le ombre scure dei boschi di querce. La lampada proiettava l'ombra grottesca del vecchio Garfield sulla parete, tanto da non farla sembrare completamente umana, e le sue parole erano strane, come le parole udite in un incubo. «Sapevo che non mi avreste capito,» disse il vecchio Jim. «Non lo capi-
sco io stesso, e non conosco i termini adatti per spiegare certe cose che provo e che conosco senza comprenderle. I Lipan erano affini agli Apache, e gli Apache impararono strane cose curiose dai Pueblo. Uomo Spettro era - questo è tutto ciò che posso dire - vivo o morto non lo so, ma lui era. Anzi, lui è.» «Siete voi o sono io il pazzo?», chiese Doc Blaine. «Beh,» disse il vecchio Jim, «Vi dirò anche questo... Uomo Spettro conobbe Coronado.» «Matto come un cavallo!», mormorò Doc Blaine. Poi sollevò il capo. «Cos'è stato?» «Un cavallo che sta arrivando dalla strada,» dissi io. «Sembra che si sia fermato.» Come uno sciocco mi affacciai sulla soglia e rimasi visibile stagliato dalla luce dietro di me. Vidi di sfuggita una sagoma indistinta che riconobbi essere quella di un uomo a cavallo; poi Doc Blaine urlò: «Attento!» e si gettò su di me. Cademmo entrambi distesi a terra. Nello stesso istante udii il secco schianto di un colpo di fucile ed il vecchio Garfield grugnì e cadde pesantemente. «Jack Kirby!», strillò Doc Blaine. «Ha ucciso Jim!» Mi rialzai, ascoltando lo scalpicciare di zoccoli in ritirata, afferrai la doppietta di Jim dalla parete, corsi avventatamente sul portico malconcio e feci partire entrambi i colpi verso la figura in fuga, sfocata alla luce delle stelle. La carica era troppo leggera per uccidere a quella distanza, ma i pallini da caccia colpirono il cavallo e lo fecero imbizzarrire. L'animale scartò, precipitandosi a testa bassa contro una staccionata e proseguì lungo il frutteto, ed il ramo di un pesco fece cadere il cavaliere dalla sella. Non si mosse più dopo che ebbe colpito il suolo. Corsi fino là e lo guardai. Era proprio Jack Kirby, ed il suo collo era spezzato come un ramo marcio. Lo lasciai dov'era e corsi di nuovo in casa. Doc Blaine aveva disteso il vecchio Garfield su di una panca che aveva preso dal portico: il volto del dottore era il più pallido che avessi mai visto. Il vecchio Jim aveva un aspetto orribile; era stato colpito da un proiettile di un vecchio fucile calibro 45 ed a quella distanza la pesante palla gli aveva letteralmente scoperchiato il cranio. Il viso era una maschera di sangue e di cervello. Si trovava proprio dietro di me, povero vecchio diavolo, ed aveva fermato il proiettile diretto a me. Il dottor Blaine stava tremando, sebbene quello non dovesse essere affatto uno spettacolo inconsueto per lui.
«Lo definireste morto?», chiese. «Questo lo dovete dire voi,» risposi. «Però persino uno sprovveduto potrebbe dire che è morto.» «È morto,» disse Doc Blaine con una voce tesa e innaturale. «Sta già sopraggiungendo il rigor mortis. Ma ascolta il suo cuore!» Lo feci e gridai. La carne era già fredda e umida; ma sotto di essa quel cuore misterioso batteva regolarmente, come una dinamo in una casa deserta. Il sangue non scorreva più nelle vene; eppure il cuore batteva, batteva, batteva, come il pulsare dell'Eternità. «Una cosa vivente in un qualcosa di morto,» mormorò Doc Blaine, il volto imperlato da sudore freddo. «Questo è contrario alla natura. Manterrò la promessa che gli feci. Mi assumerò la completa responsabilità. Questa è una cosa troppo mostruosa per essere ignorata.» I nostri strumenti furono un coltellaccio da macellaio ed un seghetto per metalli. Fuori ormai soltanto le stelle osservavano le nere ombre delle querce ed il morto che era disteso nel frutteto. Dentro, la vecchia lampada guizzava, proiettando strane ombre in movimento, tremolanti e rannicchiate negli angoli e facendo scintillare il sangue sul pavimento e la figura chiazzata di rosso sulla panca. L'unico suono dentro la casa era lo scricchiolio della sega sull'osso; fuori un gufo iniziò ad emettere il suo verso in maniera bizzarra. Doc Blaine infilò una mano macchiata di rosso nell'apertura che aveva praticato ed estrasse un pulsante oggetto purpureo che attrasse la luce della lampada. Con un grido soffocato si ritrasse e la cosa gli scivolò dalle dita e piombò sul tavolo. Gridai anch'io involontariamente. Perché l'oggetto non cadde con il soffice colpo di un pezzo di carne, come avrebbe dovuto cadere una parte di corpo umano. Emise un pesante tonfo sul tavolo. Spinto da un impulso irresistibile mi chinai e cautamente raccolsi il cuore del vecchio Garfield. Sembrava fragile, rigido, duro come acciaio o pietra, ma più liscio di entrambi. Nella forma e nelle dimensioni era la copia esatta di un cuore umano, ma era viscido e liscio e la sua superficie cremisi rifletteva la luce come un gioiello più scintillante di qualunque rubino; e nella mia mano pulsava potentemente, mandando vibranti radiazioni di energia lungo il braccio fino a quando il mio stesso cuore sembrò gonfiarsi e prorompere in risposta. Era potere cosmico, oltre la mia comprensione, concentrato nelle fattezze di un cuore umano. Mi colse il pensiero che fossi di fronte ad una dinamo della vita, il punto più vicino all'immortalità che sia possibile per il deperibile corpo umano,
la materializzazione di un segreto cosmico più meraviglioso della favolosa fontana cercata da Ponce de Leon. La mia anima venne attratta in quel luccichio non di questa terra ed all'improvviso desiderai ardentemente che battesse e pulsasse nel mio petto al posto di quel miserabile cuore di muscoli e tessuti che avevo. Doc Blaine sbraitò incoerentemente. Mi girai. Il rumore prodotto dal suo arrivo non era stato maggiore di quello di un sussurro del vento notturno tra il granturco. Là, sulla soglia, si ergeva alto, scuro, imperscrutabile... un guerriero indiano, con le pitture di guerra, il copricapo, i pantaloni ed i mocassini dei tempi andati. I suoi occhi scuri ardevano come fuochi scintillanti nelle profondità insondabili di laghi neri. Silenziosamente allungò la mano ed io vi feci cadere il cuore di Jim Garfield. Poi, senza dire una parola, si girò e s'incamminò nella notte. Ma quando Doc Blaine ed io uscimmo di corsa nel giardino, un istante dopo, non c'era alcun segno di un essere umano. Era svanito come un fantasma notturno e solo qualcosa che sembrava un gufo era in volo, svanendo alla vista stagliato contro la luna crescente. Titolo originale: Old Garfield's Hearth (Weird Tales, dicembre 1933) L'ABITATORE DELL'ANELLO Quando entrai nello studio di John Kirowan, ero troppo assorto nei miei pensieri da notare subito l'aspetto stravolto del suo visitatore, un corpulento giovanotto di bell'aspetto da me ben conosciuto. «Salve, Kirowan,» salutai. «Salve Gordon. È da un po' che non ci si vede. Come sta Evelyn?» E prima che potesse rispondere, ancora sull'onda dell'entusiasmo che mi aveva condotto là, esclamai: «Guardate qua, gente, ho qualcosa che vi farà rimanere a bocca aperta! L'ho preso da quel ladrone di Ahmed Mektub e l'ho anche pagato salato, ma ne vale la pena. Guardate!» Da sotto il cappotto estrassi il pugnale afgano dal manico ingioiellato che mi aveva affascinato come collezionista di armi rare. Kirowan, conoscendo la mia passione, mostrò solo un gentile interesse, ma l'effetto su Gordon fu sorprendente. Con un urlo strozzato balzò in piedi ed arretrò, mandando a sbattere la sedia sul pavimento. I pugni serrati ed il volto livido, mi fronteggiò gridando: «Stai indietro! Vattene via, altrimenti...»
Mi bloccai di colpo. «In nome del...», iniziai stupefatto quando Gordon, con un altro stupefacente cambio di umore, si accasciò su di una sedia ed affondò il capo tra le mani. Vidi le sue grosse spalle tremare. Passai lo sguardo impotente da lui a Kirowan, che sembrava altrettanto stupito. «È ubriaco?», chiesi. Kirowan scosse il capo e, riempiendo un bicchiere di brandy, lo offrì al suo ospite. Gordon alzò lo sguardo con occhi stravolti, prese il bicchiere e ne inghiottì il contenuto come se fosse stato un uomo mezzo morto di sete. Poi si raddrizzò e ci guardò con aria vergognosa. «Mi spiace di essermi lasciato andare, O'Donnel,» disse. «È stato per lo shock inaspettato di vederti estrarre quel coltello.» «Beh,» replicai abbastanza disgustato, «suppongo che avrai pensato che stavo per infilzarti!» «Sì!» Poi, di fronte alla mia espressione sul viso, completamente assente, aggiunse: «Oh, non l'ho effettivamente pensato; almeno non sono giunto a quella conclusione grazie a alcun processo logico. È stato semplicemente il cieco e primitivo istinto di un uomo perseguitato, contro il quale può essere rivolta la mano di qualunque persona.» Le sue strane parole e la disperazione con cui le pronunciò, mandarono un singolare brivido d'indicibile apprensione lungo la mia spina dorsale. «Di cosa stai parlando?», domandai a disagio. «Perseguitato? Per cosa? Non hai mai commesso un crimine in vita tua.» «Non in questa vita, forse,» borbottò lui. «Cosa vuoi dire?» «E se la punizione per un oscuro delitto commesso in una vita precedente mi stesse perseguitando?», sussurrò. «Sono idiozie,» sbuffai. «Oh, davvero?», esclamò lui, colpito. «Non hai mai sentito parlare di mio bisnonno, Sir Richard Gordon di Argyle?» «Certo; ma questo cosa ha che fare con...» «Hai visto il suo ritratto: non mi assomiglia?» «Beh, sì,» ammisi io, «tranne che la tua espressione è sincera ed onesta, mentre la sua è furba e crudele.» «Assassinò sua moglie,» rispose Gordon. «Supponiamo che la teoria della reincarnazione sia vera. Perché un uomo non dovrebbe soffrire in una vita per un crimine commesso in un'altra?» «Vuoi dire che credi di essere la reincarnazione del tuo bisnonno? Di
tutte le fantasticherie... beh, dato che lui uccise sua moglie suppongo che tu ti aspetti che Evelyn uccida te!» Pronunciai quest'ultima frase con bruciante sarcasmo, mentre pensavo a quella dolce e gentile ragazza che Gordon aveva sposato. La sua risposta mi stordì. «Mia moglie,» disse lentamente, «ha cercato di uccidermi tre volte nella scorsa settimana.» A questa affermazione non seguì risposta. Fissai impotente John Kirowan. Lui sedeva nella sua solita posizione, il mento appoggiato sulle sue mani forti e magre; il volto pallido era immobile, ma i suoi occhi scuri brillavano d'interesse. Nel silenzio udii un orologio ticchettare come una campana a morto. «Raccontaci tutta la storia, Gordon,» suggerì Kirowan, e la sua calma voce regolare era come il coltello che taglia una cappio, dando sollievo ad una tensione irreale. «Sapete che siamo sposati da meno di un anno,» iniziò Gordon, tuffandosi nel suo racconto come se stesse per scoppiare per la foga; le sue parole si accavallavano ed inciampavano le une sulle altre. «Tutte le coppie hanno le loro discussioni, ovviamente, ma non avevamo mai avuto alcun vero litigio, Evelyn è la ragazza con il miglior carattere del mondo. «La prima cosa fuori dall'ordinario accadde circa una settimana fa. Eravamo andati in montagna ed avevamo lasciato la macchina e stavamo vagabondando alla ricerca di fiori selvatici. Giungemmo ad un ripido pendio, alto una decina di metri, ed Evelyn richiamò la mia attenzione sui fiori che crescevano fitti alla base. Stavo guardando oltre il bordo chiedendomi se fossi riuscito a scendere giù senza strapparmi tutti i vestiti, quando ricevetti una violenta spinta da dietro che mi fece cadere. «Se fosse stata una parete verticale mi sarei rotto il collo. Comunque rotolai giù, scivolando e capitombolando, e raggiunsi il fondo graffiato, contuso e con gli abiti a pezzi. Alzai lo sguardo e vidi Evelyn che fissava in basso, apparentemente terrorizzata. «"Oh, Jim!", gridò. "Ti sei fatto male? Come hai fatto a cadere?" «Stavo quasi per dirle che non era una cosa da farsi quella di portare a certi estremi uno scherzo, ma rimasi in silenzio. Decisi che probabilmente era inciampata casualmente contro di me e che sicuramente non sapeva di essere stata lei ad avermi fatto cadere giù dal pendio. «Così ci risi su e tornammo a casa. Evelyn mi dedicò un sacco di attenzioni, insistendo nel pulirmi i graffi con la tintura di iodio e facendomi un sacco di raccomandazioni sulla mia sbadataggine! Non avevo il coraggio
di dirle che era colpa sua. «Però quattro giorni dopo, accadde il secondo fatto. Stavo camminando lungo il nostro vialetto d'accesso quando la vidi arrivare con l'automobile. Andai sul prato per falla passare, dato che non c'è alcun marciapiede lungo il vialetto. Mi sorrise mentre si avvicinava, rallentando l'auto come se volesse parlarmi. Poi, proprio prima di raggiungermi, la sua espressione mutò orribilmente. Senza preavviso la macchina balzò verso di me come una cosa viva, mentre Evelyn premeva sull'acceleratore. Solo un frenetico balzo all'indietro mi salvò dall'essere travolto. L'auto schizzò sul prato e si schiantò contro un albero. Corsi verso il mezzo e trovai Evelyn in stato confusionale ed isterico, ma illesa. Balbettava di aver perso il controllo dell'auto. «La portai in casa e chiamai il dottor Donnelly. Lui non trovò nulla di serio ed attribuì lo stordimento allo spavento ad allo shock. In mezz'ora Evelyn era ritornata alla normalità, ma da allora si rifiutò di guidare nuovamente. Strano a dirsi, sembrava meno spaventata per il suo incidente che per il mio. Pareva vagamente consapevole di sapere che per poco non mi aveva investito e divenne nuovamente isterica quando ne parlò. Eppure sembrava considerare appurato il fatto che io sapessi che la macchina le fosse sfuggita al controllo. Però vidi chiaramente che aveva sterzato verso di me e so che cercò deliberatamente di colpirmi... perché, solo Dio lo sa. «Ancora la mia mente si rifiutava di seguire la direzione in cui si stava inoltrando. Evelyn non aveva mai dato segni di alcuna debolezza psicologica o di "nervi"; è sempre stata una ragazza equilibrata, sana e naturale. Però iniziai a credere che fosse soggetta ad attacchi di follia. Molti di noi hanno provato l'impulso di saltare da alti palazzi. Ed alle volte una persona prova una cieca, infantile e totalmente irragionevole spinta a fare del male a qualcuno. Prendiamo una pistola ed improvvisamente entra nella nostra mente il pensiero di come sarebbe facile mandare il nostro amico, che siede sorridente ed inconsapevole, all'eternità con il tocco di un grilletto. Ovviamente non lo facciamo, ma l'impulso è là. Così pensai che forse la mancanza di disciplina mentale rendeva Evelyn soggetta a questi scatti, che fosse incapace di controllarli.» «Assurdo,» lo interruppi io. «La conosco da quando era una bambina. Se mai possiede simili caratteristiche, le deve aver sviluppate dopo averti sposato.» Fu un'osservazione infelice. Gordon la colse con un disperato lampo negli occhi. «È proprio questo... dato che mi ha sposato! È una maledizione...
una oscura, spaventosa maledizione, che striscia come un serpente dal passato! Ve lo dico, io ero Richard Gordon e lei... lei era Lady Elizabeth, la moglie assassinata!» La sua voce si affievolì in un mormorio da far gelare il sangue. Rabbrividii; era una cosa terribile guardare la rovina di un così brillante cervello, e proprio questo ero certo di stare osservando in James Gordon. Come o perché, o per quale tremenda sorte fosse accaduto non potevo dirlo, ma ero certo che l'uomo fosse diventato matto. «Hai parlato di tre tentativi,» disse nuovamente la voce di John Kirowan, calma e sicura tra quelle proliferanti ragnatele dell'orrore e dell'irrealtà. «Guardate qui!» Gordon sollevò il braccio, tirò su la manica e mostrò una fasciatura, il cui segreto significato era intollerabile. «Questa mattina andai in bagno cercando il mio rasoio,» disse. «Vi trovai Evelyn proprio sul punto di usare il mio miglior strumento per radermi per qualche uso tipicamente femminile... tagliare un modello di stoffa o qualcosa di simile. Come molte donne, non sembra comprendere la differenza tra un rasoio ed un coltello da macellaio od un paio di forbici. «Ero un po' irritato e le dissi: "Evelyn, quante volte ti ho detto di non usare il mio rasoio per quelle cose? Dammelo; ti darò il mio coltellino." «"Mi spiace, Jim," mi disse. "Non sapevo che avrebbe danneggiato il rasoio. Eccolo." «Avanzò tenendo il rasoio aperto verso di me. Allungai il braccio per prenderlo... poi qualcosa mi avvertì. Fu lo stesso sguardo nei suoi occhi, proprio come avevo visto quel giorno in cui quasi mi investì con l'auto. Fu quello che mi salvò la vita, perché istintivamente alzai la mano, proprio mentre mi colpiva verso la gola con tutta la sua forza. La lama mi ferì al braccio come vedete, prima che riuscissi a bloccarle il polso. Per un istante Evelyn lottò contro di me come una creatura selvaggia; il suo corpo snello era teso come l'acciaio sotto le mie mani. Poi si afflosciò e lo sguardo nei suoi occhi venne sostituito da una strana espressione stordita. Il rasoio le scivolò dalle dita. «La lasciai e lei rimase ad ondeggiare come se stesse per svenire. Andai al lavandino - la mia ferita stava sanguinando tremendamente - e la cosa successiva che udii fu Evelyn che urlava e si piegava su di me. «"Jim!", gridò. "Come hai fatto a tagliarti in maniera così terribile?"» Gordon scosse il capo e sospirò pesantemente. «Immagino che fossi un po' sconvolto. Persi il mio autocontrollo.
«"Non continuare con questa commedia, Evelyn," dissi. "Lo sa solo Dio cosa ti è preso, ma tu sai bene quanto me che hai cercato di uccidermi tre volte nell'ultima settimana." «Lei si ritrasse come se l'avessi colpita, stringendosi il petto e fissandomi come se fossi uno spettro. Non disse una parola... e quello che dissi io non lo ricordo. Però quando finii la lasciai là, in piedi, bianca ed immobile come una statua di marmo. Mi feci bendare il braccio in una farmacia e venni qui, non sapendo che altro fare. «Kirowan... O'Donnel... dannazione! O mia moglie è soggetta ad attacchi di follia...» Si strozzò con le parole. «No, non riesco a crederlo. Solitamente i suoi occhi sono troppo limpidi ed equilibrati... troppo sani. Ma ogni volta che ha un'opportunità di farmi del male, sembra diventare temporaneamente una maniaca.» Gordon batté il pugno sul palmo in segno d'impotenza e di angoscia. «Però non è pazzia! Ho lavorato in un reparto di psicopatici ed ho visto ogni forma di squilibrio mentale. Mia moglie non è pazza!» «Allora cosa...», iniziai, ma Gordon rivolse occhi stravolti su di me. «Rimane una sola alternativa,» rispose. «È la vecchia maledizione... che giunge dai giorni in cui camminai sulla terra con un cuore nero come il più oscuro degli abissi dell'inferno e compii malvagità agli occhi degli uomini e di Dio. Lei sa, tramite fugaci immagini di ricordi. Lei ha visto prima... ha colto immagini di cose proibite nel momentaneo sollevarsi del velo che blocca la vita dalla vita. Lei era Elizabeth Douglas, la sfortunata sposa di Richard Gordon che lui assassinò in un raptus di gelosia, e che ora si prende la sua vendetta. Dovrò morire per mano sua, come deve essere. E lei...», piegò il capo tra le mani. «Un momento.» Fu nuovamente Kirowan. «Hai detto di uno strano sguardo negli occhi di tua moglie. Che tipo di sguardo? Era di delirio maniacale?» Gordon scosse il capo. «Era di completa assenza. Tutta la vita e l'intelligenza semplicemente svanite, lasciandole gli occhi come neri pozzi di vuoto.» Kirowan annuì e pose una domanda apparentemente irrilevante. «Hai dei nemici?» «Non che io sappia.» «Ti dimentichi di Joseph Roelocke,» dissi io. «Non riesco ad immaginare quell'elegantone sofisticato prendersi il disturbo di farti effettivamente del male, ma ho una certa idea che se potesse arrecarti fastidio senza alcu-
no sforzo fisico da parte sua, lo farebbe molto volentieri.» Kirowan rivolse verso di me uno sguardo che era divenuto improvvisamente penetrante. «E chi è questo Joseph Roelocke?» «Un giovane bellimbusto che s'intromise nella vita di Evelyn e per un po' non le diede quasi tregua. Però alla fine lei ritornò di corsa al suo primo amore... il qui presente Gordon. Roelocke la prese piuttosto male. Perché, nonostante tutta la sua affabilità c'è una traccia di violenza e di passione in quell'uomo che potrebbe aver quasi preso il sopravvento sulla sua infernale indolenza ed indifferenza blasé.» «Oh, non c'è nulla da dire contro Roelocke,» m'interruppe impaziente Gordon. «Devi sapere che Evelyn non lo ha mai amato in realtà. Era semplicemente e temporaneamente affascinata dalla sua romantica aria latina.» «Non proprio latina, Jim,» protestai. «Roelocke ha un aspetto straniero, ma non è latino. È quasi orientale.» «Beh, che cosa ha che fare Roelocke con questa faccenda?» Gordon ringhiò con l'irascibilità dei nervi a fior di pelle. «È stato amichevole, come lo può essere un uomo da quando Evelyn ed io ci siamo sposati. Infatti, solo una settimana fa le ha mandato un anello, che secondo lui rappresentava un'offerta di pace ed un tardivo regalo di nozze; disse che dopo tutto, il fatto che Evelyn l'avesse piantato in asso era stata una sfortuna maggiore per lei di quanto non la fosse stata per lui... quel somaro presuntuoso!» «Un anello?» Kirowan era improvvisamente sorto alla vita; era come se qualcosa di solido e duro come l'acciaio fosse risuonato dentro di lui. «Che tipo di anello?» «Oh, un anello fantastico... di rame, a forma di serpente scaglioso avvolto tre volte su se stesso, con la coda in bocca ed occhi di pietre preziose gialle. Suppongo che l'abbia preso da qualche parte in Ungheria.» «Ha viaggiato molto in Ungheria?» Gordon sembrò sorpreso di fronte a questa domanda, ma rispose: «Beh, sembrerebbe che quell'uomo sia stato dappertutto. Io lo considero il viziato figlio di un milionario. Che io sappia, non ha mai svolto alcun tipo di lavoro.» «È un grande studioso,» m'intromisi io. «Sono stato molte volte nel suo appartamento e non ho mai visto una tale collezione di libri...» Gordon scattò in piedi imprecando: «Siamo diventati tutti pazzi?», gridò. «Sono venuto qui nella speranza di ricevere aiuto... e voi vi mettete a parlare di Joseph Roelocke. Andrò dal dottor Donnelly...»
«Aspetta!» Kirowan allungò una mano per fermarlo. «Se non ti spiace andremo a casa tua. Vorrei parlare con tua moglie.» Gordon accondiscese silenziosamente. Impaziente ed ossessionato da tetri presentimenti, non sapeva da che parte girarsi ed accoglieva qualunque cosa che gli promettesse aiuto. Ci recammo alla casa con la sua auto e ben poche parole vennero scambiate lungo il percorso. Gordon era immerso in cupe rimuginazioni e Kirowan si era ritirato in qualche strano e distaccato dominio di pensiero oltre la mia comprensione. Seduto come una statua, i suoi vividi occhi scuri fissavano lo spazio, ma non assenti, piuttosto come qualcuno che cerca interessato in qualche regno lontano. Sebbene considerassi quell'uomo come il mio migliore amico conoscevo molto poco del suo passato. Era entrato nella mia vita altrettanto bruscamente e non annunciato come Joseph Roelocke era entrato in quella di Evelyn Ash. Lo incontrai al Club dei Giramondo, che è composto dalla deriva dell'umanità: viaggiatori, eccentrici e ogni altra sorta d'individuo i cui sentieri si trovano al di fuori dalle vie battute della vita. Ero stato attratto da lui ed incuriosito dai suoi strani poteri e profonde conoscenze. Sapevo appena che era la pecora nera di una nobile famiglia irlandese, il figlio minore, e che aveva percorso molti strani sentieri. Il riferimento da parte di Gordon all'Ungheria aveva colpito una corda della mia memoria; una fase della sua vita che Kirowan una volta si era lasciato sfuggire in maniera molto frammentaria. Sapevo solamente che un tempo aveva sofferto un grande dolore ed un terribile torto, e questo era accaduto in Ungheria. Però la natura dell'episodio mi era sconosciuta. A casa di Gordon, Evelyn ci incontrò molto tranquilla, rivelando la sua inquietudine interna solo dalle sue maniere eccessivamente misurate. Vidi lo sguardo supplicante che rivolse a suo marito. Era una ragazza snella dalla voce gentile, i cui occhi scuri erano sempre vibranti ed accesi d'emozione. Che quella bambina volesse assassinare suo marito? L'idea era mostruosa. Fui nuovamente convinto che James Gordon fosse impazzito. Seguendo Kirowan, cercammo d'intavolare una discussione leggera, come se fossimo giunti casualmente, però capii che Evelyn non si fece ingannare. La nostra conversazione suonava falsa e vuota e poco dopo Kirowan disse: «Signora Gordon, avete un bellissimo anello. Vi spiace se gli do un'occhiata?» «Dovrò darvi la mia mano,» rise lei. «Oggi ho cercato di toglierlo, ma
non vuole saperne di sfilarsi.» Allungò la mano snella e bianca per permettere l'esame di Kirowan, il cui viso rimase immobile mentre osservava il serpente di metallo che si avvolgeva attorno al dito sottile della donna. Non lo toccò. Io stesso ero consapevole di un'inspiegabile repulsione. C'era qualcosa di quasi osceno in quel rettile di rame fosco avvolto attorno al bianco dito della ragazza. «Ha un aspetto malvagio, vero?» La giovane rabbrividì involontariamente. «All'inizio mi piaceva, però ora riesco appena a sopportare di guardarlo. Se riesco a sfilarmelo ho intenzione di restituirlo a Joseph... il signor Roelocke.» Kirowan fu sul punto di replicare, qualcosa, allorché suonò il campanello. Gordon fece un balzo come se fosse stato colpito, ed Evelyn si alzò rapidamente. «Vado io, Jim... so chi è.» Un istante dopo ritornò con due amici comuni, la vecchia inseparabile coppia formata dal dottor Donnelly, la cui figura corpulenta, le maniere gioviali e la voce tonante erano accoppiate ad un cervello acuto come pochi altri della sua professione, e da Bill Bain, più anziano, magro, tenace, acidamente arguto. Entrambi erano vecchi amici della famiglia Ash. Il dottor Donnelly aveva portato al mondo Evelyn, e Bain era sempre stato lo Zio Bill per lei. «Salve, Jim! Salve, signor Kirowan!», ruggì Donnelly. «Ehi, O'Donnel, non avrete mica qualche arma da fuoco con voi? L'ultima volta mi avete quasi decapitato nel mostrarmi una vecchia pistola a pietra focaia che doveva essere scarica...» «Dottor Donnelly!» Ci voltammo tutti. Evelyn era accanto ad un grande tavolo, stringendolo come se lo usasse come sostegno. Era pallida in viso. Il nostro scherzare cessò immediatamente. Nell'aria si creò un'improvvisa tensione. «Dottor Donnelly,» ripeté lei, sforzandosi di mantenere la voce ferma, «Ho chiamato voi e lo Zio Bill... per lo stesso motivo che ha spinto Jim a far venire il signor Kirowan e Michael. C'è una cosa che Jim ed io non riusciamo più a risolvere da soli. C'è qualcosa tra noi due... qualcosa di oscuro, spaventoso e terribile.» «Di cosa stai parlando, ragazza mia?» Tutta l'allegria era sparita dalla possente voce di Donnelly. «Mio marito...» Singhiozzò, poi proseguì ciecamente: «Mio marito mi ha accusata di aver cercato di assassinarlo.»
Il silenzio che cadde fu rotto dall'esplosione improvvisa ed energica di Bain. I suoi occhi ardevano ed i suoi pugni tremavano. «Tu, cuccioletto!» strillò rivolto a Gordon. «Ti riempirò di pugni...» «Siediti, Bill!» L'enorme mano di Donnelly ricacciò il suo compagno più piccolo sulla sedia. «Non serve inalberarsi. Vai avanti, cara.» «Abbiamo bisogno di aiuto. Non possiamo proseguire da soli.» Un ombra attraversò il suo volto grazioso. «Questa mattina Jim si è procurato un brutto taglio al braccio. Lui ha detto che sono stata io. Non lo so. Gli stavo porgendo il rasoio. Poi devo essere svenuta. O almeno ogni cosa mi svanì da davanti agli occhi. Quando rinvenni, Jim si stava lavando la ferita nel lavandino... e... e mi ha accusata di aver cercato di ucciderlo.» «Cosa, quel folle!», abbaiò il bellicoso Bain. «Non ha senno a sufficienza per sapere che se lo hai tagliato è stato un incidente?» «Stai zitto, mi fai il favore?», sbuffò Donnelly. «Cara, hai detto che sei svenuta? Questo non è da te.» «Ultimamente ho avuto brevi momenti di svenimento,» rispose lei. «La prima volta è stato quando eravamo in montagna e Jim cadde dal dirupo. Eravamo sul bordo... poi ogni cosa divenne nera e quando mi si schiarì la vista, Jim stava rotolando lungo il pendio.» Rabbrividì di fronte a quel ricordo. «Poi quando persi il controllo dell'auto che si schiantò contro l'albero. Vi ricordate... Jim vi chiamò.» Il dottor Donnelly annuì pesantemente con il capo. «Non mi ricordo che tu abbia mai avuto attacchi di svenimento prima d'ora.» «Però Jim dice che l'ho spinto oltre il bordo del dirupo!», strillò lei istericamente. «Dice che ho cercato di investirlo con la macchina! Dice che l'ho tagliato di proposito con il rasoio!» Il dottor Donnelly si girò perplesso verso l'infelice Gordon. «Cosa hai da dire, figliolo?» «Dio mi aiuti,» sbottò dolorosamente Gordon, «è vero!» «Cosa, tu cane mentitore!» Fu Bain che parlò, balzando nuovamente in piedi. «Se vuoi il divorzio, perché non cerchi di ottenerlo in maniera decente, invece di fare ricorso a questi miserabili mezzucci...» «Accidenti!», ruggì Gordon, scattando in avanti e perdendo completamente il controllo di sé. «Se direte ancora una cosa simile vi strapperò la giugulare!» Evelyn urlò; Donnelly afferrò con energia Bain e lo ricacciò in maniera
niente affatto gentile nella sua sedia, mentre Kirowan poggiò leggermente una mano sulla spalla di Gordon. L'uomo sembrò accartocciarsi su se stesso. Affondò nella sua sedia ed allungò le mani in un gesto brancolante verso sua moglie. «Evelyn,» disse, la sua voce profonda per le complesse emozioni, «tu sai che ti amo. Mi sento come un cane. Però, che Dio mi aiuti, è tutto vero. Se continuiamo così, sarò un uomo morto e tu...» «Non dirlo!», gridò lei. «So che non mi mentiresti, Jim. Se dici che ho cercato di ucciderti, so che l'ho fatto. Però ti giuro, Jim, non l'ho fatto consciamente. Oh, sto diventando pazza! Ecco perché i miei sogni sono stati così assurdi e spaventosi ultimamente...» «Di cosa avete sognato, signora Gordon?», chiese gentilmente Kirowan. La donna si strinse le tempie con le mani e fissò ottusamente verso di lui, come se avesse compreso solo a metà. «Una cosa nera,» mormorò. «Un'orribile cosa nera e senza volto che compie gesti minacciosi e borbotta ed agita i suoi artigli sopra di me con mani scimmiesche. La sogno ogni notte. E durante il giorno cerco di uccidere l'unico uomo che ho sempre amato. Sto impazzendo! Forse sono già pazza e non so di esserlo.» «Calmati, tesoro.» Per il dottor Donnelly, con tutta la sua scienza era solo un altro caso di isteria femminile. La sua voce realistica sembrò calmarla, e la giovane sospirò passandosi una mano stanca attraverso i riccioli umidi. «Ne parleremo e tutto andrà a posto,» disse il medico estraendo uno spesso sigaro dalla tasca della giacca. «Dammi un fiammifero, cara.» Lei iniziò automaticamente a cercare attorno al tavolo ed altrettanto meccanicamente Gordon disse: «Ci sono dei fiammiferi nel cassetto, Evelyn.» La donna aprì il cassetto ed iniziò a rovistare, quando improvvisamente, come se fosse stato colpito dal ricordo e dall'intuizione, Gordon balzò in piedi, il viso sbiancato, e gridò: «No, no! Non aprire quel cassetto... no...» Proprio nel momento in cui dava voce a quel grido di avvertimento, Evelyn s'irrigidì come se avesse sentito qualcosa nel cassetto. Il mutamento della sua espressione ci gelò tutti, persino Kirowan. La vivida intelligenza svanì dai suoi occhi come una fiamma spenta e poi sopraggiunse lo sguardo che Gordon aveva descritto come assente. Il termine era efficace. I suoi bellissimi occhi erano scuri pozzi di vuoto, come se la sua anima si fosse ritirata dietro di essi.
La mano di Evelyn uscì dal cassetto impugnando una pistola e sparò a bruciapelo. Gordon piroettò con un gemito e cadde, il sangue che fuoriusciva dalla testa. Per un istante la donna guardò istupidita, la pistola fumante in mano, come un improvviso destarsi da un incubo. Poi il suo selvaggio grido di dolore ci ferì le orecchie. «Oh, Dio, l'ho ucciso! Jim! Jim!» Lo raggiunse prima di noialtri, gettandosi in ginocchio e cullando la testa insanguinata tra le braccia, mentre piangeva con insopportabile passione d'orrore e di dolore. Il vuoto era scomparso dai suoi occhi; erano vivi e dilatati dal rimorso e dal terrore. Stavo per avvicinarmi al mio amico a terra insieme a Donnelly e Bain, ma Kirowan mi prese per un braccio. Il suo viso non era più immobile; i suoi occhi scintillavano di controllata ferocia. «Lascia che se ne occupino loro!», ringhiò. «Siamo cacciatori, non guaritori! Portami a casa di Joseph Roelocke!» Non obiettai. Andammo là con l'auto di Gordon. Io guidavo e qualcosa attorno al cupo viso del mio compagno mi fece spingere la macchina spericolatamente nel traffico. Avevo la sensazione di far parte di una tragedia che stava precipitando a tutta velocità verso un terribile epilogo. Portai l'auto a fermarsi con stridore di freni di fronte al marciapiede dell'edificio dove viveva Roelocke, in un bizzarro appartamento che dominava la città. L'ascensore stesso che ci portava verso il cielo sembrava possedere qualcosa dell'impulso che spingeva Kirowan a far presto. Indicai la porta di Roelocke ed il mio compagno la spalancò senza bussare facendosi strada a spallate. Io gli ero appresso. Roelocke, con indosso una vestaglia cinese di seta decorata con dei draghi, era disteso su di un divano, fumando rapidamente una sigaretta. Si sedette, rovesciando un bicchiere di vino che si trovava insieme ad una bottiglia mezza vuota vicino al suo gomito. Prima che Kirowan potesse parlare, io eruppi con le nostre notizie. «Hanno sparato a James Gordon!» Roelocke scattò in piedi. «Sparato? Quando? Quando lei lo ha ucciso?» «Lei?», lo fissai stupefatto. «Come facevate a sapere...» Con mano d'acciaio Kirowan mi scostò di lato e, mentre i due uomini si fronteggiavano, vidi il lampo di riconoscimento accendersi sul viso di Roelocke. Facevano un forte contrasto; Kirowan, alto, pallido a causa di qualche rovente passione; Roelocke magro, oscuramente bello, con l'arco saraceno delle sopracciglia sottili al di sopra degli occhi neri. Compresi
che qualunque altra cosa sarebbe avvenuta si trovava tra questi due uomini. Non erano degli sconosciuti; potevo percepire quasi tangibilmente l'odio che aleggiava tra loro due. «John Kirowan!», mormorò debolmente Roelocke. «Ti ricordi di me, dunque, Yosef Vrolok!» Solo un controllo ferreo mantenne ferma la voce di Kirowan. L'altro si limitò a fissarlo senza parlare. «Anni fa,» disse deliberatamente Kirowan, «quando a Budapest ci dedicavamo insieme allo studio di oscuri misteri, vidi dove ti stavi dirigendo e mi trassi indietro; non avrei disceso le oscene profondità dell'occultismo proibito e della demonologia nelle quali tu sei finito. E perché non ho voluto, mi hai disprezzato e mi hai rubato l'unica donna che abbia mai amato; me l'hai messa contro grazie alle tue spregevoli arti, e poi l'hai degradata e corrotta, facendola affondare nella tua stessa immonda lordura. Allora ti avrei ucciso con le mie mani, Yosef Vrolok - vampiro di nome e di fatto ma le tue arti ti proteggono dalla vendetta fisica. Però finalmente ti sei intrappolato da solo!» La voce di Kirowan si levò in feroce esultanza. Tutti i suoi freni culturali erano stati spazzati via, lasciando un uomo primitivo, elementare, infuriato e malignamente compiaciuto di fronte ad un odiato nemico. «Cercavi la distruzione di James Gordon e di sua moglie, perché lei inconsapevolmente è sfuggita alla tua trappola; tu...» Roelocke alzò le spalle e rise. «Tu sei pazzo. Non vedo i Gordon da settimane. Perché mi accusi dei loro problemi familiari?» Kirowan ringhiò. «Bugiardo come sempre. Cosa hai detto non appena O'Donnel ti ha riferito che avevano sparato a Gordon? 'Quando lei lo ha ucciso?' Ti aspettavi di sentire che la ragazza avesse ucciso suo marito. I tuoi poteri psichici ti hanno segnalato che l'epilogo era vicino. Eri nervoso in attesa di notizie del successo del tuo piano diabolico. «Però non ho bisogno di conferme orali per riconoscere il tuo marchio. Lo seppi non appena vidi l'anello al dito di Evelyn Gordon; l'anello che lei non riusciva a sfilare; l'antico anello maledetto di Thoth-amon, tramandato da orribili culti stregoneschi dai tempi della dimenticata Stygia. Sapevo che l'anello era tuo, e sapevo grazie a quali spaventosi riti ne eri venuto in possesso. E conosco i suoi poteri. Una volta che lei lo avesse messo al dito, nella sua innocenza ed ignoranza, sarebbe stata in tuo potere. Grazie alla tua magia nera hai evocato quell'oscuro spirito elementale, l'abitatore dell'anello, dagli abissi della Notte e dei Tempi. Qui nella tua stanza maledetta hai compiuto riti indicibili per far uscire lo spirito di Evelyn Gordon
dal suo corpo e far sì che il suo corpo fosse posseduto da quello spirito senza dio, proveniente dall'esterno dell'universo umano. «Lei era troppo pulita e pura, l'amore per suo marito troppo forte, per permettere a quel demonio di prendere pieno e permanente possesso del suo corpo; solo per brevi istanti poteva spingere nel nulla lo spirito della donna ed animare la sua forma. Ma ciò era sufficiente per il tuo scopo. Però hai portato la rovina su di te grazie alla tua vendetta!» La voce di Kirowan si levò in un sibilo felino. «Qual è stato il prezzo richiesto dal dèmone che hai richiamato degli Inferi? Ah, tu tremi! Yosef Vrolok non è il solo uomo ad aver imparato segreti proibiti! Dopo aver lasciato l'Ungheria, un uomo distrutto, ripresi nuovamente gli studi delle arti nere, per intrappolarti, tu serpente raggomitolato! Esplorai le rovine dello Zimbabwe, le sperdute montagne della Mongolia interna e le giungle dimenticate delle isole dei mari del sud. Imparai cose che fecero ammalare la mia anima così da rinunciare per sempre all'occultismo... ma imparai dello spirito nero che procura la morte con le mani di un amato e che è controllato da un maestro della magia. «Però, Yosef Vrolok, tu non sei un adepto! Non hai il potere di controllare il dèmone che hai invocato. Ed hai venduto la tua anima!» L'ungherese si strappò il colletto come se fosse un nodo scorsoio. Il suo viso era cambiato, come se una maschera fosse caduta; sembrava molto più vecchio. «Menti!», ansimò. «Non gli ho promesso la mia di anima...» «Non mento!» Lo strillo di Kirowan era scioccante nella sua selvaggia esultanza. «Conosco il prezzo che un uomo deve pagare per chiamare la forma senza nome che percorre gli abissi delle Tenebre. Guarda! Là nell'angolo dietro di te! Una cieca cosa senza nome sta ridendo... si sta facendo beffe di te! Ha soddisfatto il patto, ed è venuta per te, Yosef Vrolok!» «No! No!», urlò Vrolok strappando definitivamente il colletto penzolante dalla gola sudata. La sua compostezza era crollata e la sua demoralizzazione era disgustosa da vedere. «Ti dico che non era la mia anima... gli promisi un'anima, ma non la mia... deve prendere quella della ragazza, o di James Gordon...» «Pazzo!», ruggì Kirowan. «Credi che egli possa prendere l'anima di un innocente? Che non sappia che è fuori della sua portata? La ragazza ed il giovane li poteva uccidere; ma le loro anime non poteva prenderle o consegnartele. Però la tua anima nera non è oltre la sua portata e così avrà la
sua ricompensa. Guarda! Si sta materializzando dietro di te! Sta crescendo dall'aria stessa!» Era l'ipnosi suscitata dalle ardenti parole di Kirowan che mi fecero rabbrividire e gelare e sentire un brivido freddo non appartenente a questa terra che pervadeva la stanza? Era il gioco di luci e ombre che sembrava produrre l'effetto di un'immagine scura ed antropomorfa sulla parete dietro l'ungherese? No, in nome del cielo! Cresceva, si gonfiava... Vrolok non si era voltato. Fissava Kirowan con occhi che gli uscivano dalle orbite, i capelli ritti sul capo, il sudore che gocciolava dal volto livido. Il grido di Kirowan mandò brividi lungo la mia spina dorsale. «Guarda dietro di te, pazzo! Lo vedo! È venuto! È qui! La sua bocca orrenda è spalancata in una risata terribile! Le sue zampe deformi si allungano verso di te!» E finalmente Vrolok si girò con un urlo spaventoso, sollevando le braccia sopra la testa in un gesto di selvaggia disperazione. E per un allucinante istante l'uomo fu oscurato da un'enorme ombra nera... Kirowan mi prese per un braccio e fuggimmo da quella stanza maledetta, ciechi per l'orrore. Lo stesso giornale che riportava in un breve articolo come James Gordon fosse rimasto vittima di una ferita di striscio alla testa, a causa di un colpo accidentale di pistola nella sua abitazione, dava invece ampio risalto alla morte improvvisa di Joseph Roelocke, il ricco ed eccentrico uomo di mondo nel suo sontuoso appartamento... apparentemente a causa di un attacco di cuore. Lo lessi a colazione, mentre bevevo una tazza dietro l'altra di caffè nero con mano non troppo ferma, anche dopo tutta una notte. Dall'altra parte del tavolo, di fronte a me, pure Kirowan sembrava non mostrare appetito. Rimuginava come se stesse vagando nuovamente attraverso gli anni passati. «La fantasiosa teoria di Gordon sulla reincarnazione era piuttosto avventata,» dissi alla fine. «Però i fatti reali si sono rivelati ancora più incredibili. Dimmi, Kirowan, l'ultima scena è stata frutto dell'ipnosi? È stato il potere delle tue parole che mi hanno fatto sembrare di vedere un nero orrore crescere dal nulla e risucchiare l'anima di Yosef Vrolok dal suo corpo?» Il mio amico scosse il capo. «Nessun ipnotismo umano avrebbe potuto suggestionare quel diavolo dal cuore nero. No; vi sono esseri che sono aldilà della comprensione dell'umanità comune, figure perverse di una malvagità transcosmica. Uno di quelli era appunto ciò con cui ha avuto a che fare Vrolok.» «Ma come ha potuto richiedere la sua anima?», insistetti. «Se era stato
effettivamente stipulato un simile ed orribile patto, la cosa non aveva adempiuto alla sua parte, perché James Gordon non era morto, ma solo svenuto.» «Vrolok non lo sapeva,» rispose Kirowan. «Credeva che Gordon fosse morto ed io l'ho convinto che lui stesso fosse stato intrappolato e condannato. A causa della sua demoralizzazione è facilmente caduto preda della creatura che aveva evocato. Che, ovviamente, era sempre in attesa di un momento di debolezza da parte di Vrolok. Le potenze delle Tenebre non scendono mai onestamente a patti con gli esseri umani; colui che tratta con loro viene sempre beffato, alla fine.» «È un incubo folle,» mormorai. «Però mi sembra che soprattutto tu, al di sopra di ogni altra cosa, abbia causato la morte di Vrolok.» «È gratificante pensarci,» rispose Kirowan. «Adesso Evelyn Gordon è salva; ed è una piccola ricompensa per ciò che Vrolok fece ad un'altra ragazza, anni fa, in un paese lontano.» Titolo originale: The Haunter of the Ring (Weird Tales, giugno 1934) LA LUNA DI ZAMBEBWEI 1. L'orrore tra i pini Il silenzio della pineta si stendeva come un drappo opprimente sull'animo di Bristol McGrath. Le ombre nere sembravano fisse, immobili come il peso della superstizione che avvolgeva questa remota zona dimenticata. Vaghi terrori ancestrali si agitarono nel profondo della mente di McGrath; perché egli era nato nella pineta, e sedici anni di peregrinazioni per il mondo non avevano cancellato quelle ombre. Le storie paurose per le quali da bambino aveva rabbrividito, mormorarono nuovamente nella sua coscienza; storie di forme scure che abitavano le radure di notte... Maledicendo quei ricordi infantili, McGrath affrettò il passo. Lo scuro sentiero si snodava tortuosamente tra spesse mura di alberi giganti. Non c'era da meravigliarsi che non fosse riuscito ad assumere nessuno nel lontano villaggio sul fiume per condurlo ai possedimenti dei Ballville. La strada era impercorribile per i veicoli, soffocata da ceppi marci ed erbacce. E davanti a lui curvava bruscamente. McGrath si bloccò, immobilizzandosi. Il silenzio era stato finalmente
rotto in una maniera da procurargli un freddo brivido sul dorso delle mani. Perché il suono era stato senza alcun dubbio il gemito di un essere umano in agonia. McGrath rimase immobile solo per un istante. Poi scivolò lungo la curva del sentiero con il silenzioso passo di una pantera in caccia. Un revolver blu acciaio a canna corta blu acciaio era comparso come per magia nella sua mano destra. La sinistra involontariamente stretta a pugno nella tasca, sul foglietto di carta responsabile della sua presenza in quella cupa foresta. Quel foglietto era una disperata e misteriosa richiesta di aiuto; era firmata dal peggior nemico di McGrath, e conteneva il nome di una donna morta da molto tempo. McGrath superò la curva nel sentiero, ogni nervo teso ed all'erta, aspettandosi qualunque cosa... tranne ciò che effettivamente vide. I suoi occhi allarmati si soffermarono per un istante sul macabro oggetto e poi scrutarono le mura della foresta. Nulla si muoveva. Una dozzina di passi oltre il sentiero la visibilità svaniva in un crepuscolo spettrale, dove qualunque cosa poteva celarsi non vista. McGrath s'inginocchiò accanto alla figura distesa sul sentiero davanti a lui. Si trattava di un uomo, con braccia e gambe divaricate e legate a quattro paletti conficcati profondamente nel suolo compatto; un uomo dalla carnagione scura e la barba nera, il naso a becco. «Ahmed!», borbottò McGrath. «Il servitore arabo dei Ballville! Dio!» Perché non erano le corde che lo legavano a causare lo sguardo fisso negli occhi dell'arabo. Una persona più debole di McGrath si sarebbe potuta sentire male di fronte alle mutilazioni che affilati coltelli avevano procurato al corpo di quell'uomo. McGrath riconobbe la mano di un esperto nell'arte della tortura. Eppure una scintilla di vita ardeva ancora nel robusto fisico dell'arabo. Gli occhi grigi di McGrath divennero più cupi quando notò la posizione del corpo della vittima e la sua mente volò indietro ad un'altra tetra giungla, e ad un negro mezzo morto per le frustate legato a dei paletti su di un sentiero, quale avvertimento per il bianco che osava invadere una terra proibita. Tagliò le corde e mosse il morente in una posizione più confortevole. Era tutto ciò che poteva fare. Vide il delirio scemare momentaneamente negli occhi iniettati di sangue, vide che c'era un barlume di riconoscimento. Grumi di schiuma rossastra schizzarono sulla barba macchiata. Le labbra tremarono senza emettere alcun suono, e McGrath vide di sfuggita il moncone sanguinolento di una lingua mozzata. Le dita dalle unghie nere iniziarono a scrivere nella polvere. Tremarono
artigliando qua e là, ma con uno scopo. McGrath si chinò maggiormente, teso per l'interesse, e vide linee contorte crescere sotto le dita frementi. Con l'ultimo sforzo di una volontà d'acciaio, l'arabo stava tracciando un messaggio nell'alfabeto della sua lingua. McGrath riconobbe il nome: "Richard Balville"; era seguito da "pericolo" e la mano ondeggiò debolmente verso il sentiero; poi - e McGrath s'irrigidì convulsamente - "Constance". Uno sforzo finale del dito tracciò "John De Al..." Improvvisamente la figura sanguinante venne scossa da un ultimo spasmo d'agonia; la mano magra e vigorosa si contrasse spasmodicamente e poi ricadde senza vita. Ahmed ibn Suleyman era oltre la vendetta o la pietà. McGrath si alzò spolverandosi le mani, consapevole della tesa immobilità del lugubre bosco attorno a lui; consapevole di un debole fruscio nelle sue profondità che non era causato da alcun tipo di brezza. Guardò la figura straziata con pietà involontaria, sebbene conoscesse bene la perfidia del cuore dell'arabo, una nera malvagità che aveva uguagliato quella del suo padrone, Richard Ball ville. Beh, sembrava che il padrone e l'uomo avessero finalmente incontrato un loro simile in quanto a malvagità umana. Ma chi, o cosa? Per cento anni i Ballville avevano regnato come sovrani assoluti su questa landa remota, dapprima sulle loro ampie piantagioni di centinaia di schiavi, e più tardi sui loro remissivi discendenti. Richard, l'ultimo dei Ballville, aveva esercitato altrettanta autorità su quelle vaste pinete come qualunque dei suoi autoritari antenati. Eppure era da questa terra dove gli uomini si erano prostrati di fronte ai Ballville, che giungeva il frenetico grido di paura, un telegramma che McGrath stringeva nella tasca. Il silenzio, più sinistro di qualunque suono, seguì il fruscio. McGrath sapeva di essere osservato; sapeva che il punto dove giaceva il corpo di Ahmed era il confine invisibile che era stato tracciato per lui. Riteneva che gli sarebbe stato permesso di voltarsi e ritornare sui suoi passi, indisturbato, fino al lontano villaggio. Sapeva che se continuava, la morte lo avrebbe colto improvvisa ed invisibile. Voltandosi, si avviò lungo la via da cui era venuto. Svoltò e proseguì fino dopo aver superato una seconda svolta. Poi si fermò, in ascolto. Tutto era silente. Rapidamente estrasse il foglio dalla tasca, lo distese per eliminargli le pieghe e lesse, nuovamente, gli scarabocchi contorti dell'uomo che odiava maggiormente sulla terra: Bristol: se ami ancora Constance Brand, per l'amor di Dio dimentica il
tuo odio e vieni alla tenuta Ballville più rapidamente che se avessi un diavolo alle calcagna. Richard Ballville Era tutto. Il telegramma lo aveva raggiunto in quella lontana città dell'Ovest dove McGrath risiedeva dal suo ritorno dall'Africa. Lo avrebbe ignorato, se non fosse stato perché era stata nominata Constance Brand. Quel nome aveva mandato una soffocante ed agonizzante pulsazione di stupore attraverso la sua anima, lo aveva spinto a precipitarsi verso la sua terra natia con il treno e l'aereo, come se, effettivamente, il demonio gli stesse alle calcagna. Era il nome di colei che credeva morta da tre anni; il nome dell'unica donna che Bristol McGrath avesse mai amato. Riponendo il telegramma, lasciò il sentiero e si diresse a Occidente, spingendo la sua possente figura tra gli alberi serrati. I suoi piedi facevano pochissimo rumore sui cumuli di aghi di pino. Il suo avanzare era quasi del tutto silenzioso. Non per nulla aveva trascorso la sua fanciullezza nel paese dei grandi pini. Trecento metri dalla vecchia strada giunse nel punto che cercava... un antico sentiero parallelo alla via. Soffocato da nuovi virgulti, era poco più che una traccia attraverso la fitta pineta. McGrath sapeva che correva fino alle spalle della residenza dei Ballville; non riteneva che i segreti osservatori lo stessero sorvegliando. Per quale motivo potevano sapere che lui se lo ricordava? Si affrettò verso Sud, le orecchie tese per captare ogni suono. La vista da sola non dava affidamento in quella foresta. La casa, si ricordava, adesso non era lontana. Stava passando attraverso quelli che al tempo del nonno di Richard erano stati campi, e che terminavano a ridosso dell'ampio giardino che circondava il maniero. Però per mezzo secolo erano stati abbandonati all'avanzare della foresta. Poi McGrath osservò la residenza, l'accenno di una solida struttura oltre le cime degli alberi di fronte a sé. E quasi simultaneamente il suo cuore gli balzò in gola quando un grido di umana angoscia tagliò il silenzio. Non poteva dire se quell'urlo appartenesse ad una donna o ad un uomo, ed i suoi pensieri che potesse trattarsi di una donna gli misero le ali ai piedi durante l'imprudente corsa verso l'edificio che si ergeva tetro proprio oltre la rada bordura degli alberi. I giovani pini avevano persino invaso quelli che un tempo erano prati generosi. Tutto quel luogo aveva un aspetto di decadenza. Dietro il manie-
ro, i granai e gli edifici connessi che un tempo ospitavano le famiglie degli schiavi, stavano cadendo in rovina. La residenza stessa sembrava vacillare sopra lo sfasciume, un gigante scricchiolante roso dai topi e marcio, pronto a crollare per qualunque evento inatteso. Con il furtivo passo della tigre, Bristol McGrath si avvicinò ad una finestra sul lato della casa. Da quella finestra uscivano suoni che erano un affronto per la luce solare che filtrava dagli alberi ed uno strisciante orrore per la mente. Facendosi coraggio per ciò che avrebbe potuto vedere, scrutò all'interno. 2. Torturato a morte McGrath stava osservando una grande stanza polverosa che un tempo, prima della guerra, poteva essere stata usata come sala da ballo; il suo alto soffitto era ricoperto di ragnatele, i suoi ricchi pannelli di quercia anneriti e sporchi. Però il fuoco ardeva nel grande camino... un piccolo fuoco, grande appena per arroventare il sottile bastone metallico che vi si trovava infilato. Però fu solo dopo un po' che Bristol McGrath vide il fuoco e la cosa che vi brillava tra le braci. I suoi occhi erano fissi, come per effetto di un incantesimo, sul padrone del maniero, e nuovamente vide un uomo morente. Una pesante trave era stata inchiodata alla parete di pannelli in quercia, e da questa sporgeva un rozza traversa. Da questa traversa Richard Ballville penzolava attaccato per i polsi con delle corde. Le dita dei piedi sfioravano appena il pavimento allettante, invitandolo ad allungare il corpo in continuazione per lo sforzo di alleviare la dolorosa tensione nelle braccia. Le corde avevano tagliato in profondità nei polsi; il sangue gocciolava lungo le braccia; le mani erano nere e gonfie quasi da scoppiare. Era nudo tranne che per i pantaloni, e McGrath vide che il ferro incandescente era già stato orribilmente usato. C'erano motivi a sufficienza che giustificavano il pallore mortale dell'uomo appeso, le fredde perle dell'agonia sulla sua pelle. Solo una feroce vitalità gli aveva permesso di sopravvivere fino ad allora a quelle spaventose bruciature sugli arti e sul corpo. Sul petto era stato marchiato uno strano simbolo... una mano gelida si posò sulla spina dorsale di McGrath. Perché aveva riconosciuto quel simbolo, ed ancora una volta la sua memoria volò attraverso il mondo e gli anni fino ad una giungla nera, cupa ed orribile dove i tamburi rullavano nelle tenebre squarciate dal fuoco, e sacerdoti nudi di un culto ripugnante tracciavano un simbolo terrificante sulla carne umana tremante.
Tra il camino e l'uomo morente era accovacciato un possente negro vestito solo di un paio di pantaloni stracciati ed infangati. La schiena era rivolta alla finestra e presentava un impressionante paio di spalle. La testa affusolata era sistemata tozzamente tra quelle spalle gigantesche, simile a quella di una rana, e sembrava osservare avidamente il volto dell'uomo sulla traversa. Gli occhi arrossati di Richard Ballville erano simili a quelli di un animale torturato, ma erano pienamente sani e lucidi; ardevano di disperata vitalità. Alzò il capo dolorosamente ed il sud sguardo spazzò la stanza. All'esterno, dalla finestra, istintivamente McGrath si abbassò. Non sapeva se Ballville l'avesse visto o meno. L'uomo non mostrò segni che tradissero la presenza dell'osservatore al bestiale negro che lo sorvegliava. Poi il bruto girò il capo verso il fuoco, allungò un lungo braccio scimmiesco verso un ferro incandescente... e gli occhi di Ballville avvamparono di un feroce ed urgente significato che chi guardava non poté confondere. McGrath non aveva bisogno del segnale doloroso della testa martoriata che accompagnò lo sguardo. Con un balzo felino superò la finestra ed entrò nella stanza, proprio mentre il negro, sorpreso, si alzava in piedi, girandosi con scimmiesca agilità. McGrath non aveva estratto la pistola. Non osava rischiare di sparare un colpo che poteva attirare su di sé altri avversari. Un coltellaccio era appeso alla cintura che sosteneva i pantaloni infangati e laceri. Sembrò balzare come una cosa viva nella mani del negro mentre si voltava. Però nelle mani di McGrath brillò un pugnale afgano ricurvo che lo aveva servito egregiamente in molte battaglie passate. Conoscendo il vantaggio di un attacco istantaneo e spietato, non si fermò. I suoi piedi sfiorarono appena il pavimento prima di farlo avventare sull'attonito negro. Un grido inarticolato eruppe dalle spesse labbra rosse. Gli occhi rotearono selvaggiamente, il coltellaccio si sollevò per poi sibilare in avanti con la velocità di un cobra all'attacco, che avrebbe squartato un uomo i cui muscoli non fossero stati d'acciaio come quelli di Bristol McGrath. Però il negro barcollò involontariamente all'indietro quando colpì, e quel gesto istintivo rallentò il colpo quel tanto che bastava a McGrath per evitarlo con una torsione fulminea del busto. La lunga lama sibilò sotto l'ascella, fendendo tessuto e pelle... e nello stesso istante il pugnale afgano squarciò la nera gola taurina. Non ci fu alcun grido, ma solo un gorgoglio soffocato quando l'uomo
cadde, sputando sangue. McGrath era balzato via come fa il lupo dopo aver inferto il colpo mortale. Senza emozioni osservò il suo operato. Il negro era già morto, metà della testa staccata dal corpo. Quel colpo di taglio inferto da lato che sgozzava in silenzio, mozzando la gola fino alla spina dorsale, era il colpo preferito dagli irsuti montanari che infestano le zone rupestri sovrastanti il Passo Khyber. Meno di una dozzina di uomini bianchi erano mai riusciti ad apprenderlo. Bristol McGrath era uno di loro. McGrath si girò verso Richard Ballville. Schiuma gocciolava sul petto nudo ed ustionato, e sangue fuoriusciva dalle labbra. McGrath temette che Ballville avesse subito le stesse mutilazioni che avevano reso Ahmed muto; però erano solo il dolore e lo shock che bloccavano la lingua di Ballville. McGrath tagliò le corde e lo posò delicatamente su di un vecchio divano consunto lì vicino. Il corpo magro e muscoloso di Ballville tremava come corde d'acciaio tese sotto le mani di McGrath. L'uomo tossì, trovando la voce. «Sapevo che saresti venuto!», gemette, vibrando al contatto del divano contro la pelle bruciata. «Ti ho odiato per anni, ma sapevo...» La voce di McGrath era aspra come lo stridio dell'acciaio. «Cosa volevi dire quando hai fatto il nome di Constance Brand? Lei è morta.» Un orrendo sorriso storse le labbra sottili. «No, non è morta! Ma lo sarà presto, se non ti sbrighi. Presto! Del brandy! Là sul tavolo... quella bestia non l'ha bevuto tutto.» McGrath gli portò la bottiglia alle labbra; Ballville bevve avidamente. McGrath si meravigliò di fronte ai nervi d'acciaio dell'uomo. Era ovvio che si trovava in una spaventosa agonia. Avrebbe dovuto urlare in un delirio di dolore. Invece, si aggrappava all'equilibrio mentale e parlava lucidamente, sebbene la sua voce fosse un gracchiare faticoso. «Non mi è rimasto molto tempo,» bofonchiò. «Non interrompermi. Risparmia le tue maledizioni per dopo. Entrambi amavamo Constance Brand. Lei amava te. Tre anni fa sparì. I suoi abiti vennero ritrovati sulla sponda di un fiume. Il suo corpo non venne mai rinvenuto. Tu andasti in Africa per annegare il tuo dolore; io mi ritirai nella tenuta dei miei avi e divenni un recluso. «Ciò che non sapevi - ciò che il mondo non sapeva - era che Constance Brand venne con me! No, lei non affogò. Quello stratagemma fu una mia idea. Per tre anni Constance Brand ha vissuto in questa casa!» Emise un'orribile risata. «Oh, non guardarmi con quell'aria così sorpresa, Bristol. Lei non è venuta di sua spontanea volontà. Ti amava troppo. La rapii e la
portai qui con la forza... Bristol!» La sua voce si levò ad uno stridio frenetico. «Se mi uccidi non saprai mai dove si trova!» Le mani convulse che si erano serrate sulla sua robusta gola si rilassarono e la lucidità ritornò negli occhi arrossati di Bristol McGrath. «Vai avanti,» mormorò con una voce che neppure lui riconobbe. «Non potevo evitarlo,» ansimò l'uomo morente. «Lei era l'unica donna che abbia mai amato... oh, non sogghignare, Bristol. Le altre non contavano. La portai qui dove ero un re. Non poteva fuggire, non poteva avere notizie dal mondo esterno. Nessuno vive in questa antica regione tranne i negri discendenti degli schiavi posseduti dalla mia famiglia. La mia parola è... era... la loro unica legge. «Giuro che non le ho fatto del male. La tenevo solo prigioniera, cercando di forzarla a sposarmi. Non la volevo in nessuna altra maniera. Ero folle, ma non potevo farci niente. Provengo da una razza di autocrati che prendevano ciò che volevano, senza riconoscere alcuna legge se non i loro desideri. Lo sai. Lo capisci. Anche tu provieni dalla stesso stampo. «Constance mi odia, se ciò ti può consolare, maledetto te. Ed è anche forte. Credevo di riuscire a piegare il suo spirito. Però non vi riuscii, non senza la frusta, e non potevo sopportare l'idea di usarla.» Ghignò sinistramente verso il ringhio selvaggio che si levò spontaneo dalle labbra di McGrath. Gli occhi di quell'uomo massiccio erano carboni ardenti; le sue mani serrate in magli di ferro. Uno spasmo scosse Ballville e sangue gli uscì dalle labbra. Il suo ghigno svanì e proseguì concitatamente. «Tutto andò bene fino a quando il diavolo non mi suggerì di chiamare John De Albor. Lo incontrai a Vienna, anni fa. È originario dell'Africa Orientale... un demonio in forma umana! Vide Constance... bramandola come solo un uomo del suo tipo può fare. Quando finalmente compresi ciò, cercai di ucciderlo. Fu allora che scoprii che era più forte di me; che era divenuto lui il padrone dei negri... i miei negri, per i quali la mia parola era sempre stata legge. Rivelò loro il suo culto diabolico...» «Voodoo,» mormorò involontariamente McGrath. «No! Il Voodoo è cosa da bambini a confronto di questa oscura diavoleria. Guarda il simbolo sul mio petto, dove De Albor me lo ha inciso con un ferro rovente. Sei stato in Africa. Conosci il marchio di Zambebwei. «De Albor ha fatto rivoltare i miei negri contro di me. Cercai di fuggire con Constance ed Ahmed. I miei stessi neri mi circondarono. Riuscii a far arrivare un telegramma fino al villaggio grazie ad un uomo che mi era ri-
masto fedele... sospettavano di lui e lo torturarono fino a quando non lo ammise. John De Albor mi portò la sua testa. «Prima della fine nascosi Constance in un luogo dove nessuno la troverà mai, tranne te. De Albor torturò Ahmed fino a quando non disse che avevo mandato a chiamare un amico della ragazza per aiutarci. Poi De Albor mandò i suoi uomini lungo la strada con ciò che era rimasto di Ahmed, come un avvertimento se fossi venuto. Fu questa mattina che ci catturarono; nascosi Constance ieri notte. Neppure Ahmed sapeva dove. De Albor mi ha torturato per farmi confessare...», le mani dell'uomo morente si strinsero, ed una luce fiera e intensa arse nei suoi occhi. McGrath seppe che neppure tutti i tormenti di tutti gli inferni avrebbero potuto estorcere quel segreto dalle ferree labbra di Ballville. «Era il minimo che potessi fare,» disse, la voce roca per le emozioni contrastanti. «Ho vissuto in maniera infernale per tre anni a causa tua... come pure Constance. Meriti di morire. Se non stessi già morendo, ti ucciderei io stesso.» «Maledetto, credi che voglia il tuo perdono?», gemette il moribondo. «Sono contento che tu abbia sofferto. Se Constance non avesse bisogno del tuo aiuto mi piacerebbe vederti morire come sto morendo io adesso... e ti aspetterò all'inferno. Però basta adesso. De Albor mi ha lasciato per un po' per andare lungo la strada ed assicurarsi che Ahmed sia morto. Così quella bestia decise di tracannare il mio brandy e di torturarmi un po' per conto suo. «Adesso ascolta... Constance è nascosta nella Caverna Perduta. Nessun uomo su questa terra ne conosce l'esistenza tranne te e me... neppure i negri. Tempo fa misi una porta di ferro all'ingresso ed uccisi l'uomo che fece il lavoro; così il segreto è salvo. Non c'è chiave. Devi aprirla agendo su certe sporgenze.» Fu sempre più difficile per l'uomo pronunciare le parole in maniera intellegibile. Il sudore gli gocciolava dalla fronte e i tendini delle braccia tremavano. «Fai scorrere le dita lungo il bordo della porta fino a quando non troverai tre protuberanze che formano un triangolo. Non puoi vederle; devi sentirle con il tatto. Premile in senso antiorario tre volte, girando. Poi tira la sbarra. La porta si aprirà. Prendi Constance e lotta per fuggire. Se capisci che stanno per prenderti, sparale! Non lasciare che cada nella mani di quella bestia oscura...» La voce si levò come un grido, schiuma macchiò le livide labbra treman-
ti e Richard Ballville quasi si sollevò in piedi per poi ricadere inerte all'indietro. La volontà ferrea che aveva animato quel corpo martoriato si era finalmente spezzata, come un cavo teso. McGrath osservò la figura immobile, la sua mente un maelstrom di emozioni in subbuglio, poi si girò, fissando, ogni nervo fremente, la pistola che gli era balzata in mano. 3. Il Sacerdote Nero Un uomo si stagliava sulla soglia che si apriva sulla grande sala esterna... un uomo alto che indossava un singolare abito straniero. Portava un turbante ed una tunica di seta stretta da una cintura dai colori vivaci. Ai piedi babucce turche. La pelle non era molto più scura di quella di McGrath, i lineamenti tipicamente orientali nonostante i pesanti occhiali che indossava. «Chi diavolo sei?», domandò McGrath, tenendolo sotto tiro. «Alì ibn Suleyman, effendi,» rispose l'altro in perfetto arabo. «Sono venuto in questo luogo demoniaco alla richiesta di mio fratello, Ahmed ibn Suleyman, la cui anima possa essere liberata dal Profeta. La lettera mi arrivò a New Orleans. Mi affrettai per venire qui. Ed ecco, nascosto nei boschi, vidi uomini neri trascinare il cadavere di mio fratello sino al fiume. Venni qui per cercare il suo padrone.» McGrath indicò in silenzio il morto. L'arabo chinò il capo in nobile rispetto. «Mio fratello lo amava,» disse. «Avrò vendetta per mio fratello e per il padrone di mio fratello. Effendi, fatemi venire con voi.» «Va bene.» McGrath bruciava dall'impazienza. Conosceva la fanatica lealtà al loro clan degli arabi, sapeva che una delle qualità positive di Ahmed era stata le fiera devozione per il farabutto che serviva. «Seguimi.» Con un'ultima occhiata al signore del maniero ed al corpo del negro riverso come un sacrificio umano di fronte ad esso, McGrath lasciò la camera della tortura. Proprio in questo modo, rifletté, uno dei re-guerrieri antenati di Ballville doveva essere morto nelle epoche passate, con uno schiavo ucciso ai suoi piedi per servire lo spirito del suo padrone nell'aldilà. Con l'arabo alle calcagna, McGrath emerse nella pineta circostante, addormentata nel caldo oppressivo del mezzogiorno. Alle sue orecchie un lontano suono pulsante era trasportato debolmente da un vagante alito di brezza. Suonava come il rullare di un lontanissimo tamburo.
«Andiamo!» McGrath avanzò con grandi falcate attraverso il gruppo delle costruzioni vicine e si tuffò nel bosco che sorgeva dietro di loro. Anche qui, un tempo, si stendevano i campi che avevano fatto la fortuna degli aristocratici Ballville; ma ormai erano abbandonati da molti anni. I sentieri si disperdevano senza meta attraverso l'aspra vegetazione fino a quando la crescente densità degli alberi disse agli intrusi che si trovavano in una foresta che non aveva mai conosciuto l'ascia di un boscaiolo. McGrath cercò un sentiero. Le memorie impresse nell'infanzia sono sempre presenti. I ricordi rimangono sepolti da eventi successivi, ma infallibili nonostante il trascorrere degli anni. McGrath trovò il sentiero che cercava, una pista appena segnata, serpeggiante attraverso gli alberi. I due uomini furono costretti a camminare in fila indiana; i rami graffiavano i loro abiti, i loro piedi affondavano in un tappeto di aghi di pino. Il territorio tendeva gradualmente a scendere. Ai pini subentrarono i cipressi soffocati dal sottobosco. Schiumose pozze di acqua stagnante scintillavano sotto gli alberi. Grosse rane gracchiavano, le zanzare ronzavano con esasperante insistenza attorno a loro. Nuovamente il distante rullio di tamburi vibrò nei boschi. McGrath si scosse il sudore dagli occhi. Quel tamburo gli portava ricordi che ben si adattavano ad un ambiente così tetro. I pensieri si rivolsero alla orrenda cicatrice marchiata con il fuoco sul petto nudo di Richard Ballville. Ballville aveva creduto che lui, McGrath, conoscesse il significato di quel marchio; ma non era così. Sapeva che preannunciava oscuro terrore e follia, ma non ne conosceva il significato completo. Solo un'altra volta prima d'allora aveva visto quel simbolo, nella terra infestata dal terrore di Zambebwei, nella quale pochi uomini bianchi si erano mai avventurati e dalla quale solo un uomo ne era uscito vivo. Bristol McGrath era quell'uomo, ed egli aveva solamente scalfito la superficie di quella terra di giungle abissali e nere paludi. Non era stato in grado di spingersi sufficientemente in profondità in quel regno proibito sia per provare o per confutare le spaventose storie che gli uomini mormoravano riguardo un antico culto sopravvissuto all'epoca preistorica, l'adorazione di una mostruosità la cui forma violava un'accettata legge di natura. Molto poco aveva visto, ma ciò che vide lo riempì di un tale orrore rabbrividente che alle volte ritornava ancora adesso durante purpurei incubi. Gli uomini non si erano scambiati alcuna parola da quando avevano lasciato il maniero. McGrath avanzava deciso tra la vegetazione che soffocava il sentiero. Un grasso serpente mocassino dalla coda tozza serpeggiò
sotto i suoi piedi e svanì. L'acqua non doveva essere lontana; pochi passi dopo la rivelarono. Si trovavano sulla sponda di un malsano acquitrino fangoso dal quale si levava un miasma di sostanza vegetale in putrefazione. I cipressi la oscuravano. Il sentiero terminava sulla riva. La palude si estendeva infinita, perdendosi alla vista molto rapidamente nell'oscurità crepuscolare. «Cosa facciamo adesso, effendi?», chiese Alì. «Dobbiamo nuotare in questa palude?» «È piena di acquitrini senza fondo,» rispose McGrath. «Sarebbe un suicidio per un uomo entrarvici. Neppure i negri di questi boschi hanno mai tentato di attraversarla. Però esiste una via per raggiungere la collina che si trova in mezzo alla palude. La puoi appena notare, fra i rami dei cipressi, vedi? Anni fa, quando Ballville ed io eravamo ragazzi - ed amici - scoprimmo un sentiero indiano molto, molto vecchio, una strada sommersa segreta che portava alla collina. C'è una caverna in quella collina, ed una donna imprigionata nella grotta. Sto andando là. Vuoi seguirmi o vuoi aspettarmi qui? Il sentiero è pericoloso.» «Verrò, effendi,» rispose l'arabo. McGrath annuì con fare di apprezzamento ed iniziò a scrutare gli alberi attorno a sé. Poco dopo trovò ciò che stava cercando: un leggero segnavia su di un enorme cipresso, una vecchia tacca, quasi impercettibile. Poi, con sicurezza, avanzò nella palude a fianco dell'albero. Lui stesso aveva inciso quel segno tanto tempo prima. L'acqua schiumosa gli superò le suole delle scarpe, ma non risalì oltre. Si trovava su di una roccia piatta, o piuttosto un cumulo di pietre, di cui quella in cima era appena sotto il pelo dell'acqua stagnante. Localizzato un certo cipresso nodoso, lontano tra le ombre dell'acquitrino, iniziò a camminare direttamente verso di esso, spaziando con attenzione i passi, ciascuno dei quali lo portava su di una roccia invisibile sotto l'acqua sporca. Alì ibn Suleyman lo seguì imitandone i movimenti. Avanzarono attraverso la palude, seguendo gli alberi segnati che fungevano da indicatori. McGrath si chiese nuovamente il motivo che aveva spinto gli antichi costruttori del sentiero a portare da lontano queste grandi rocce ed affondarle come palafitte nella fanghiglia. Il lavoro doveva essere stato stupendo, richiedendo un notevole sforzo ingegneristico. Perché gli indiani avevano realizzato quel percorso accidentato fino all'Isola Perduta? Sicuramente l'isola, e la caverna, avevano qualche significato religioso per i pellerossa; o forse era il loro rifugio contro qualche avversario più poten-
te. Avanzavano lentamente; un passo falso significava un tuffo nella melma paludosa, in un pantano instabile che poteva inghiottire un uomo vivo. L'isola si ergeva dagli alberi davanti a loro... un piccolo poggio, circondato da una spiaggia soffocata dalla vegetazione. Attraverso il fogliame era visibile la parete di pietra che si alzava ripida dalla spiaggia fino ad una altezza di quindici o venti metri. Era molto simile ad un blocco di granito che sorgeva da un piatto bordo sabbioso. Il picco era quasi del tutto privo di vegetazione. McGrath era pallido, il suo respiro accelerato. Mentre posavano piede sulla striscia di spiaggia, Alì, con uno sguardo di commiserazione, tirò fuori una fiaschetta dalla tasca. «Bevi un po' di brandy, effendi,» lo esortò passandosi la lingua sulle labbra, alla maniera orientale. «Vi aiuterà.» McGrath sapeva che Alì aveva creduto la sua evidente agitazione frutto della spossatezza. Però era poco consapevole dei suoi recenti sforzi. Erano le emozioni che infuriavano in lui... il pensiero di Constance Brand, le cui forme bellissime avevano ossessionato i suoi sogni inquieti per tre terribili anni. Bevve un lungo sorso del liquore, sentendone appena il gusto, e restituì la fiaschetta. «Andiamo!» Il battito del suo cuore era soffocante ed attutiva il tamburo lontano, mentre s'infilava attraverso la vegetazione fittissima alla base della parete. Sulla roccia grigia, al di sopra della massa verde, apparve un curioso simbolo inciso, come lo aveva visto anni prima quando la scoperta condusse lui e Richard Ballville alla caverna nascosta. Strappò via i rampicanti e le fronde appese e trattenne il fiato alla vista della pesante porta in ferro incassata nella stretta imboccatura che si apriva nella parete di granito. Le dita di McGrath tremavano mentre tastavano il metallo e dietro di sé poteva sentire Alì respirare pesantemente. Parte dell'eccitazione del bianco si era trasferita all'arabo. Le mani di McGrath trovarono le tre sporgenze che formavano i vertici di un triangolo... semplici rigonfiamenti che non apparivano alla vista. Controllando i suoi nervi eccitati, premette le protuberanze come Ballville lo aveva istruito e le sentì cedere leggermente alla terza pressione. Poi, trattenendo il fiato, afferrò la sbarra che era stata saldata al centro della porta e spinse. Dolcemente, su cardini oliati, il massiccio portale si spalancò. Stavano osservando un'ampia galleria che terminava con un'altra porta,
questa volta una grata d'acciaio. Il tunnel non era buio; era pulito e spazioso ed il soffitto era stato forato per permettere alla luce di entrare, i buchi coperti con schermi per tenere lontani rettili ed insetti. Però attraverso la grata McGrath vide qualcosa che lo fece correre lungo il tunnel, il suo cuore che quasi gli scoppiava nel petto. Alì lo seguì da vicino. La grata non era chiusa a chiave. Si aprì verso l'esterno sotto le sue dita. Rimase immobile, quasi stordito per l'impatto di una simile emozione. Gli occhi di McGrath furono abbacinati da un lampo aureo, un raggio di sole che scendeva dal soffitto traforato e colpiva con un fuoco soffuso la gloriosa profusione di capelli dorati, fluenti sopra il braccio latteo su cui poggiava la testa bellissima, china sul tavolo di quercia. «Constance!» Fu un grido di desiderio e di struggimento quello che eruppe dalle sue labbra livide. Facendo eco a quel richiamo, la ragazza si alzò fissando stupefatta, le mani sulle tempie, i capelli scintillanti ondulati sopra le spalle. Allo sguardo confuso di McGrath, la ragazza sembrò fluttuare in un'aureola di luce dorata. «Bristol! Bristol McGrath!»,ella rispose al suo richiamo con un disperato grido d'incredulità. Poi fu nella sua dolce stretta, le braccia bianche serrate attorno a lui in un abbraccio convulso, come se temesse che egli fosse solo un fantasma che poteva svanire all'improvviso. In quel momento il mondo cessò di esistere per Bristol McGrath. Era come se fosse stato cieco sordo e muto per tutto l'universo. Il suo cervello intontito era solamente consapevole della donna tra le sue braccia, i suoi sensi inebriati della dolcezza e della fragranza di lei, la sua anima stordita dalla sopraffacente consapevolezza di aver realizzato un sogno che aveva creduto morto e svanito per sempre. Quando riuscì nuovamente a connettere, si scosse come un uomo uscito da una trance e si guardò attorno instupidito. Si trovava in un'ampia camera, scavata nella solida roccia. Come il tunnel, era illuminata dall'alto e l'aria era fresca e pulita. C'erano sedie, tavoli ed un'amaca, tappeti sul pavimento di roccia, scatolette di cibo e dell'acqua. Ballville non aveva mancato di provvedere al comfort della sua prigioniera. McGrath si girò verso l'arabo e lo vide oltre la grata. Per riguardo non si era intromesso nel loro incontro. «Tre anni!», stava singhiozzando la ragazza. «Tre anni ho atteso, sapevo che saresti venuto! Lo sapevo! Però dobbiamo fare attenzione, mio caro. Richard ti ucciderà se ti scopre... ci ucciderà entrambi!»
«Ormai non potrà più uccidere nessuno,» rispose McGrath. «Comunque, dobbiamo andarcene da qui.» Gli occhi della ragazza avvamparono di un nuovo terrore. «Sì! John De Albor! Ballville lo temeva. Ecco perché mi ha rinchiusa qui dentro. Ha detto che ti ha mandato a cercare. Ero in pena per te...» «Alì!», chiamò McGrath. «Vieni. Adesso dobbiamo andarcene da qui e faremmo meglio a portare con noi dell'acqua e del cibo. Forse dovremmo nasconderci nella palude per...» Improvvisamente Constance strillò, staccandosi dalle braccia del suo innamorato. E McGrath, gelato dall'improvvisa e terribile paura nei suoi occhi spalancati, sentì la scossa del sordo impatto di un colpo violento alla base del cranio. Non perse conoscenza, ma venne colto da una strana paralisi. Si afflosciò come un sacco vuoto sul pavimento di pietra e giacque disteso come morto, fissando impotente la scena che riempiva di furia la sua mente... Constance che si dibatteva disperatamente nella presa dell'uomo conosciuto come Alì ibn Suleyman, adesso terribilmente trasformato. L'uomo si era levato il turbante e gli occhiali. E nel tenebroso biancore dei suoi occhi, McGrath lesse la verità con le sue orribili implicazioni... quell'uomo non era un arabo. Era un negroide mezzosangue. Eppure parte del suo sangue doveva essere arabo, perché c'era una leggera apparenza semitica nei suoi tratti, e questa apparenza, insieme agli abiti orientali e la perfetta recitazione della parte, lo aveva fatto sembrare genuinamente arabo. Però adesso ogni maschera era stata levata e l'origine negroide era prevalente; persino la sua voce, che aveva parlato il sonoro arabo, adesso aveva il tono profondo e gutturale del negro. «Lo avete ucciso!», singhiozzò istericamente le ragazza, cercando vanamente di liberarsi dalla presa di quelle dita crudeli che le imprigionavano i bianchi polsi. «Non è ancora morto,» rise il meticcio. «Lo sciocco ha bevuto del brandy drogato... una droga che si trova solo nelle giungle di Zambebwei. Rimane inattiva nell'organismo fino a quando non viene attivata da un violento colpo su di un centro nervoso.» «Vi prego, fate qualcosa per lui!», lo implorò lei. L'uomo rise brutalmente. «Perché dovrei? Ha servito il mio scopo. Lasciarlo disteso lì fino a quando gli insetti della palude non lo avranno spolpato. Mi piacerebbe poterlo osservare... ma saremo molto lontani prima che cali la notte.» I suoi occhi sfavillarono con la bestiale gratificazione del possesso. La vista di
quella bellezza bianca che si dibatteva nella sua presa sembrò destare in quell'uomo tutta la lussuria della giungla. L'ira di McGrath e la sua agonia trovarono espressione solo nei suoi occhi iniettati di sangue. Non poteva muovere né mani né piedi. «È stato un bene che ritornassi da solo al maniero,» rise il mezzosangue. «Mi sono avvicinato furtivamente alla finestra mentre questo sciocco parlava con Richard Ballville. Mi venne l'idea di farmi condurre da lui nel luogo dove eri nascosta. Non avrei mai sospettato che esistesse un nascondiglio nella palude. Avevo la tunica dell'arabo, le babucce ed il turbante; avevo pensato che prima o poi mi sarebbero tornati utili. Gli occhiali mi aiutarono, pure. Non fu difficile farmi passare per un arabo. Quest'uomo non aveva mai visto John De Albor. Sono nato in Africa Orientale e sono cresciuto come schiavo nella casa di un arabo... prima di fuggire e vagare fino a Zambebwei. «Ma basta adesso. Dobbiamo andare. Il tamburo ha rullato per tutto il giorno. I negri sono impazienti. Ho promesso loro un sacrificio a Zemba. Avevo intenzione di usare l'arabo, ma quando ebbi finito di torturarlo per estorcergli le informazioni che desideravo, non era più adatto al sacrificio. Beh, lasciamoli battere i loro stupidi tamburi. A loro piacerebbe avere te come Sposa di Zemba, ma non sanno che ti ho trovata. Ho una barca a motore nascosta lungo il fiume, a sette chilometri da qui...» «Pazzo!», strillò Constance, dibattendosi con veemenza. «Credi di poter portare una ragazza bianca lungo il fiume come una schiava?» «Ho una droga che ti farà sembrare come morta,» disse lui. «Starai sul fondo della barca, coperta da alcuni sacchi. Quando mi imbarcherò sul piroscafo che ci porterà lontano da queste sponde, tu starai nella mia cabina in un grosso baule ben ventilato. Non ti accorgerai affatto delle scomodità del viaggio. Ti risveglierai in Africa...» Si stava frugando nella camicia, e perciò dovette necessariamente trattenere la ragazza con una mano sola. Con un grido disperato ed una torsione frenetica, Constance si liberò dalla stretta e corse lungo il tunnel. John De Albor si precipitò dietro di lei, mugghiando. Una foschia rossa fluttuò di fronte agli occhi disperati di McGrath. La ragazza sarebbe morta nella palude, a meno che non ricordasse il percorso... o forse era la morte ciò che cercava, preferendola al destino che il diabolico negro le aveva previsto. Erano entrambi svaniti alla vista, fuori dalla galleria; ma improvvisamente Constance urlò nuovamente con una nuova intensità. Alle orecchie di McGrath giunse un eccitato vociare di suoni gutturali negroidi.
L'accento di De Albor si levò in rabbiosa protesta. Constance stava singhiozzando istericamente. Le voci si stavano allontanando. McGrath colse una vaga immagine di un gruppo di figure attraversare le vegetazione quando passarono davanti all'imboccatura della galleria. Vide Constance trascinata via da una mezza dozzina di giganti neri, tipici abitanti della pineta, seguiti da John De Albor, le mani eloquenti nell'esprimere il suo dissenso. Solo quella fugace visione tra le fronde, e poi l'ingresso del tunnel si spalancò vuoto ed il suono dell'acqua smossa scemò attraverso la palude. 4. La brama del Dio Nero Nell'incombente silenzio della caverna, Bristol McGrath giaceva fissando senza espressione verso l'alto, la sua anima un inferno tumultuoso. Stupido, stupido, ad essere stato sorpreso così facilmente! Eppure, come avrebbe potuto sapere? Non aveva mai visto De Albor; aveva creduto che fosse un negro purosangue. Ballville lo aveva definito una bestia nera, ma si doveva riferire alla sua anima. De Albor, se non fosse stato per la tenebra traditrice dei suoi occhi, poteva passare ovunque per un uomo bianco. La presenza di quei negri significava una cosa sola: avevano seguito lui e De Albor ed avevano catturato Constance quando era uscita dalla caverna. L'evidente timore di De Albor aveva un terribile significato; aveva detto che i negri volevano sacrificare Constance... ed ora lei si trovava nelle loro mani. «Dio!» La parola eruppe dalla labbra di McGrath, sorprendente nel silenzio e sorprendente per chi l'aveva pronunciata. Era elettrizzato; fino a pochi momenti prima era stato muto. Però ora aveva scoperto che poteva muovere le labbra, la lingua. La vita stava lentamente tornando nelle sue membra morte; formicolavano come se fossero state addormentate. Freneticamente incoraggiò quel lento flusso. Laboriosamente iniziò dalle estremità, le dita, le mani, i polsi ed infine, con un impeto di selvaggio trionfo, le braccia e le gambe. Forse la diabolica droga di De Albor aveva perso una parte del suo potere per l'età. Forse l'insolita forza vitale di McGrath aveva fatto svanire gli effetti come non sarebbe stato possibile per un altro uomo. La porta del tunnel non era stata richiusa e McGrath sapeva perché; non volevano tenere lontani gli insetti che ben presto avrebbero fatto sparire un corpo indifeso; già stavano sciamando attraverso la porta, un'orda disgustosa.
Finalmente McGrath si alzò in piedi, barcollando come un ubriaco, ma la sua vitalità aumentava sempre di più ogni secondo. Quando uscì vacillando dalla caverna, nessuna cosa vivente incontrò il suo sguardo. Erano passate alcune ore da quando i negri se ne erano andati con la loro preda. Si sforzò di ascoltare il tamburo. Era silente. La quiete si levava come un'invisibile foschia nera attorno a lui. Barcollando percorse la pista di rocce che portava al terreno asciutto. I negri avevano riportato la prigioniera al maniero della morte o nel profondo della pineta? Le loro tracce erano fitte nel fango: una mezza dozzina di paia di piedi nudi e storti, le affusolate impronte delle scarpe di Constance, il segno delle babucce turche di De Albor. Le seguì con crescente difficoltà quando il terreno salì e si indurì. Non si sarebbe accorto del punto in cui il gruppo si era allontanato dall'incerto sentiero, se non fosse stato per l'ondeggiare di un pezzettino di seta nella debole brezza. Constance aveva sfregato contro il tronco di un albero in quel punto, e la ruvida corteccia aveva strappato un frammento del suo vestito. La banda si era dapprima diretta verso Est, verso il maniero. Nel punto in cui penzolava il frammento di seta aveva voltato bruscamente verso Sud. Gli aghi di pino ammassati non mostravano alcuna traccia, ma rampicanti e ramoscelli smossi e piegati indicavano la loro via, fino a quando McGrath, seguendo quei segni, non giunse ad un'altra pista che portava a Sud. Qua e là c'erano delle chiazze paludose, e queste mostravano le impronte di piedi, nudi e calzati. McGrath si affrettò lungo il sentiero, la pistola in mano, finalmente tornato in pieno possesso delle sue facoltà. Il suo viso era torvo e pallido. De Albor non aveva avuto l'opportunità di disarmarlo dopo averlo percosso con quel colpo a tradimento. Sia il mezzosangue che i negri della pineta lo credevano disteso e inerme nella Caverna Perduta. Quello, almeno, giocava a suo vantaggio. Continuò a tenere invano allertato l'udito per cogliere il suono del tamburo che aveva ascoltato all'inizio della giornata. Quel silenzio non lo rassicurò. Nei sacrifici voodoo i tamburi avrebbero tuonato, ma McGrath sapeva avere di fronte qualcosa ancora più antico ed abominevole. Il voodoo era, a confronto, una religione giovane dopo tutto, nata sulle colline di Haiti. Dietro la schiuma del voodoo si celavano le truci religioni africane, simili a pareti di granito osservate attraverso una cortina di fronde verdi. Il voodoo era un poppante piagnucolante se comparato al nero colosso immemorabile che aveva sollevato la sua terribile figura nella terra
più antica attraverso età incalcolabili, Zambebwei! Bastò quel nome, simboleggiante l'orrore e la paura, a far rabbrividire McGrath. Era più del nome di un paese e della misteriosa tribù che abitava quella regione; significava qualcosa di terribilmente antico e malvagio, qualcosa che era sopravvissuto alla sua epoca naturale... una religione della Notte ed una divinità il cui nome era Morte ed Orrore. Non aveva visto alcuna capanna dei negri. Sapeva che queste si trovavano, per la maggior parte, molto più a Est ed a Sud, raccogliendosi lungo le rive del fiume e dei suoi tributari. Era l'istinto dell'uomo di colore quello di costruire la sua abitazione accanto ad un fiume, come aveva fatto lungo il Congo, lungo il Nilo ed il Niger fin dalla grigia alba dei Tempi. Zambebwei! Quella parola vibrava come il rullo di un tam-tam nella mente di Bristol McGrath. L'anima dell'uomo di colore non era cambiata attraverso secoli addormentati. Il cambiamento poteva avvenire nel clangore delle strade cittadine, nei crudi ritmi di Harlem; ma le paludi del Mississippi non erano troppo diverse da quelle del Congo per poter apportare una qualsiasi grande mutazione nello spirito di una razza che era vecchia prima ancora che il primo re bianco intrecciasse la paglia del tetto per la sua capanna di canne. Seguendo quel sentiero tortuoso nella luce crepuscolare dei grandi pini, McGrath non provò meraviglia nel suo animo che neri e viscidi tentacoli dalle profondità dell'Africa si fossero allungati attraverso il mondo dando origine ad incubi in una terra straniera. Certe condizioni naturali producono certi effetti, danno nascita a certe pestilenze del corpo o della mente, indifferentemente dalla loro posizione geografica. Le pinete fluviali erano a loro modo abissali quanto le trasudanti giungle africane. Il percorso del sentiero era lontano dal fiume. La terra si alzava molto gradatamente e tutti i segni della palude erano svaniti. Il sentiero si allargava, mostrando segni di uso frequente. McGrath divenne nervoso. In qualunque momento avrebbe potuto incontrare qualcuno. Si tuffò nella fitta vegetazione lungo i bordi del sentiero e si aprì la strada, ogni movimento che risuonava sonoro come un colpo di cannone alle sue orecchie acute. Sudando per la tensione nervosa, poco dopo giunse ad un sentiero minore che si snodava tortuosamente nella generale direzione verso cui desiderava andare. Le pinete erano attraversate da sentieri simili. Lo seguì con maggiore facilità e più furtivo di prima e poco dopo, giungendo ad una curva, vide che si univa al sentiero principale. Nei pressi del
punto di incontro sorgeva una piccola capanna di tronchi e tra lui e la capanna era accovacciato un grosso negro. L'uomo era nascosto dietro il tronco di un enorme pino accanto al sentiero più stretto, e guardava verso la capanna. Ovviamente stava spiando qualcuno, e fu subito chiaro di chi si trattasse quando John De Albor venne alla porta e fissò senza speranza lungo l'ampio sentiero. La sentinella nera s'irrigidì e portò le dita alla bocca come se volesse emettere un fischio che doveva essere udito molto lontano, ma De Albor fece spallucce con fare impotente e ritornò nuovamente nella capanna. Il negro si rilassò, sebbene non allentasse la sua vigilanza. Cosa ciò volesse significare, McGrath non lo sapeva, e neppure si fermò a riflettere. Alla vista di De Albor una foschia rossa tramutò la luce del sole in sangue, nel quale il corpo scuro davanti a lui galleggiava come uno spettro d'ebano. Una pantera sulle tracce della sua vittima avrebbe fatto altrettanto rumore di quello che fece McGrath avvicinandosi sul sentiero verso il negro seduto. Era consapevole di non provare alcuna particolare animosità verso quell'uomo, che era semplicemente un ostacolo nel suo cammino verso la vendetta. Fissando la capanna, l'uomo di colore non udì il furtivo approccio. Ignaro di tutto non si mosse o si girò... fino a quando il calcio della pistola si abbatté sul suo capo lanuginoso con un impatto che gli fece perdere i sensi e cadere tra gli aghi di pino. McGrath si piegò sopra la sua vittima immobile, ascoltando. Non udì alcun suono provenire dai dintorni... ma improvvisamente, lontano, si levò un urlo prolungato che tremò e scemò. Il sangue di McGrath gli si gelò nelle vene. Solo una volta prima di allora aveva udito quel suono... nelle basse colline coperte di foreste che orlavano i confini della proibita Zambebwei; i suoi portatori negri erano diventati color della cenere e si erano prostrati faccia a terra. Cosa fosse, McGrath non lo sapeva; e le spiegazioni offerte dai tremanti nativi erano state troppo mostruose da poter essere accettate da una mente razionale. La chiamavano la voce del dio di Zambebwei. Spinto all'azione, McGrath si precipitò sul sentiero e si scagliò contro la porta posteriore della capanna. Non sapeva quanti negri ci fossero all'interno; a lui non importava. Era incurante e fuori di sé per il dolore e la furia. La porta si schiantò verso l'interno sotto l'impatto. McGrath atterrò in piedi, accucciato, la pistola spianata, le labbra arricciate. Ma solo un uomo lo fronteggiava... John De Albor, che balzò in piedi
con un grido di stupore. La pistola cadde dalle dita di McGrath. Né piombo né acciaio potevano soddisfare il suo odio, adesso. Doveva essere a mani nude, sfogliando all'indietro le pagine della civiltà, fino ai rosseggianti albori dei primordi. Con un ringhio che era meno il grido di un uomo e più il grugnito di un leone alla carica, le feroci mani di McGrath si serrarono attorno alla gola del mezzosangue. De Albor venne scagliato all'indietro dal tremendo impatto ed i due uomini si abbatterono entrambi su di una brandina, distruggendola. Mentre rotolavano sul pavimento di terra battuta, McGrath si preparò ad uccidere il suo nemico a mani nude. Il mezzosangue era un uomo alto, slanciato e forte. Però contro un uomo bianco travolto dalla furia non aveva scampo. Venne scagliato avanti e indietro come un sacco di paglia, picchiato e sbattuto selvaggiamente contro il pavimento, e le dita di ferro che stavano schiacciando la sua gola affondarono sempre più fino a quando la lingua sporse dalle labbra bluastre spalancate e gli occhi fuoriuscirono dalla testa. Con la morte a non più di un palmo di distanza dal mezzosangue, qualche traccia di sanità mentale ritornò in McGrath. Scosse il capo come un toro stordito; mollò di poco la sua terribile morsa e ringhiò: «Dov'è la ragazza? Subito, prima che ti uccida!» De Albor ebbe un conato e lottò per riprendere fiato, il volto cinereo. «I negri!», ansimò. «L'hanno presa perché diventi la Sposa di Zemba! Non ho potuto evitarlo. Essi richiedono un sacrificio. Ho offerto loro la tua persona, ma hanno risposto che eri paralizzato e saresti morto comunque... sono più furbi di quanto pensassi. Mi sono venuti dietro fino al maniero dal punto dove abbiamo lasciato l'arabo sulla strada... seguendoci poi dal maniero all'isola. «Non sono più controllabili... impazziti per la bramosia di sangue. Persino io, che conosco i negri come nessun altro, ho dimenticato che neppure un sacerdote di Zambebwei è in grado di controllarli quando il fuoco dell'adorazione scorre nelle loro vene. Io sono il loro sacerdote e padrone... eppure quando ho cercato di salvare la ragazza, mi hanno costretto a stare in questa capanna ed hanno messo un uomo a sorvegliarmi fino a quando il sacrificio non sarà completato. Devi averlo ucciso quello là fuori; altrimenti non ti avrebbe mai fatto entrare qui dentro.» Con un freddo ghigno, McGrath raccolse la pistola. «Sei venuto qui come amico di Richard Ballville,» disse freddamente. «Per impossessarti di Constance Brand hai reso i negri degli adoratori del
demonio. Meriti la morte per questo. Quando le autorità europee che governano l'Africa catturano un sacerdote di Zambebwei, lo impiccano. Hai ammesso di essere un sacerdote. La tua vita è perduta anche per questo. Però è a causa dei tuoi infernali insegnamenti che Constance Brand sta per morire, ed è per questa ragione che sto per bruciarti le cervella.» John De Albor si ritrasse. «Lei non è ancora morta,» gemette, grosse gocce di sudore che colavano dal suo volto cinereo. «Non morirà fino a quando la luna non sarà alta nel cielo, sopra i pini. Stanotte è luna piena, la Luna di Zambebwei. Non uccidermi. Soltanto io posso salvarla. So di aver sbagliato prima. Però se andrò da loro, apparendo all'improvviso e senza avviso, essi crederanno che sia stato in grado di fuggire dalla capanna senza essere visto dalla sentinella grazie a poteri sovrannaturali. Ciò rinnoverà il mio prestigio. «Tu non puoi salvarla. Potresti sparare ad alcuni negri, ma ce ne saranno ancora un gran numero per uccidere te... e lei. Però ho un piano... sì, io sono un sacerdote di Zambebwei. Da ragazzo fuggii dal mio padrone arabo e vagai lontano fino a quando giunsi nella terra di Zambebwei. Là crebbi e divenni un uomo ed un sacerdote, abitandovi fino a quando il mio sangue bianco mi fece nuovamente tornare al mondo per apprendere le vie dell'uomo bianco. Quando giunsi in America portai uno Zemba con me... non posso dirti come. «Lascia che salvi Constance Brand!» Stava artigliando McGrath, scuotendolo come se fosse in preda alla febbre. «L'amo, anche se tu ami lei. Mi comporterò onestamente con entrambi voi, lo giuro! Lascia che la salvi! Potremo batterci per lei più tardi, e ti ucciderò se potrò.» La sincerità di quella affermazione influenzò McGrath più di qualunque altra cosa che il mezzosangue avesse potuto dire. Era un azzardo disperato... però dopo tutto, Constance non sarebbe stata peggio con John De Albor vivo di quanto lo fosse adesso. Sarebbe morta prima di mezzanotte a meno che non venisse fatto qualcosa rapidamente. «Dov'è il luogo del sacrificio?», chiese McGrath. «Cinque chilometri da qui, in una radura,» rispose De Albor. «A sud del sentiero che gira oltre la capanna. Tutti i negri sono riuniti là tranne la mia guardia e pochi altri che sorvegliano il sentiero oltre la capanna. Sono sparpagliati lungo la pista, il più vicino non può vedere questa baracca, ma può udire il fischio sonoro e penetrante con il quale questa gente comunica. «Il mio piano è questo. Tu aspetterai qui nel capanno o nel bosco, come
preferisci. Io eviterò le sentinelle sulla pista e comparirò improvvisamente davanti ai negri nella Casa di Zemba. Un'apparizione improvvisa li impressionerà profondamente, come ho detto. So di non poterli persuadere ad abbandonare i loro propositi, ma li farò rimandare il sacrificio a poco prima dell'alba. E prima di allora avrò fatto in modo di prendere la ragazza e fuggire con lei. Ritornerò al tuo nascondiglio e ci faremo strada combattendo insieme.» McGrath rise. «Mi credi un completo idiota? Manderesti i tuoi negri ad ammazzarmi, mentre tu porteresti via Constance come volevi. Verrò con te. Mi nasconderò al bordo della radura, per aiutarti nel caso ne avessi bisogno. E se farai qualche mossa falsa, ti acciufferò, se proprio devo prendere qualcuno.» I tenebrosi occhi del mezzosangue brillarono, ma annuì condiscendendo. «Aiutami a portare la sentinella nella capanna,» disse McGrath. «Rinvenire presto. Lo legheremo e lo imbavaglieremo e lo lasceremo qui.» Il sole stava tramontando ed il crepuscolo avanzava furtivo sulle pinete quando McGrath ed il suo strano compagno avanzarono pian piano attraverso i boschi pieni di ombre. Avevano fatto un ampio cerchio verso Ovest per evitare le sentinelle sul sentiero, ed ora stavano seguendo i molti viottoli che si snodavano nella foresta. Il silenzio regnava davanti a loro, e McGrath lo fece notare. «Zemba è un dio del silenzio,» mormorò De Albor. «Dal tramonto all'alba nella notte della luna piena nessun tamburo batte. Se un cane abbaia, deve essere ammazzato; se un bambino piange, deve essere ucciso. Il silenzio serra le bocche della gente fino a quando Zemba ruggisce. Solo la sua voce si leva nella notte della Luna di Zemba.» McGrath rabbrividì. Quell'orrenda divinità era, ovviamente, uno spirito intangibile, incarnato soltanto nella leggenda; ma De Albor ne parlava come se si trattasse di una cosa viva. Poche stelle apparvero, e le ombre strisciarono nel fitto bosco oscurando i tronchi degli alberi che si fusero assieme nelle tenebre. McGrath sapeva che non dovevano essere lontani dalla Casa di Zemba. Percepiva la vicina presenza di una massa di persone, sebbene non udisse nulla. De Albor, davanti a lui, si fermò all'improvviso, accucciandosi. McGrath si fermò cercando di penetrare la circostante cortina di rami intrecciati. «Cosa è stato?», mormorò il bianco prendendo la pistola. De Albor scosse il capo, alzandosi. McGrath non poteva vedere la pietra che aveva in mano, raccolta da terra mentre si chinava.
«Hai sentito qualcosa?», domandò McGrath. De Albor gli fece cenno di chinarsi, come se volesse mormorargli qualcosa nell'orecchio. Sorpreso con la guardia abbassata, McGrath si piegò verso di lui... ed in quel momento intuì le intenzioni traditrici dell'africano, ma era troppo tardi. La pietra nella mano di De Albor si abbatté terribile sulla tempia dell'uomo bianco. McGrath cadde come un bue macellato, e De Albor fuggì lungo il sentiero, svanendo come uno spettro nell'oscurità. 5. La Voce di Zemba Nell'oscurità del sentiero del bosco, McGrath finalmente si destò e si alzò malfermo in piedi. Quel colpo disperato avrebbe potuto sfondare il cranio di un uomo il cui fisico e vitalità non erano quelli di un toro. La testa gli pulsava e c'era del sangue rappreso sulla tempia; però la sua sensazione più forte era di cocente disprezzo verso se stesso per essere caduto nuovamente vittima di John De Albor. Eppure chi avrebbe sospettato quella mossa? Sapeva che De Albor lo avrebbe ucciso se avesse potuto, ma non si era aspettato un attacco prima del salvataggio di Constance. Quell'uomo era pericoloso ed imprevedibile come un cobra. Che tutte le sue richieste pressanti per permettergli di salvare Constance non fossero state altro che uno stratagemma per sfuggire alla morte per mano di McGrath? Fissò stordito le stelle che brillavano attraverso i rami color ebano e sospirò di sollievo nel vedere che la luna non era ancora sorta. La pineta era buia come solo le pinete possono essere, con un'oscurità quasi tangibile, simile ad una sostanza che poteva essere tagliata con un coltello. McGrath aveva motivo di essere grato per la sua robusta costituzione. Due volte nella stessa giornata John De Albor lo aveva messo nel sacco, e due volte la struttura d'acciaio del bianco era sopravvissuta all'attacco. La pistola era ancora nella fondina come pure il pugnale nel fodero. De Albor non si era trattenuto a perquisirlo, non si era fermato per un secondo colpo con cui finirlo. Forse, c'era stato un accenno di panico nelle azioni dell'africano. Beh, questo non cambiava di molto le cose. McGrath era certo che De Albor avrebbe tentato di salvare la ragazza. E McGrath intendeva essere là, sia per agire da solo, sia per aiutare il mezzosangue. Non c'era tempo per vecchi rancori con la vita della ragazza in pericolo. Avanzò brancolando nell'oscurità, spronato da un bagliore crescente ad Oriente. Giunse alla radura quasi prima di accorgersene. La luna spuntava dai
rami bassi, color rosso sangue, alta a sufficienza da illuminare il bosco e la massa di negri accovacciati in un vasto semicerchio attorno alla radura, fronteggianti la luna. I loro occhi imbambolati scintillavano lattei fra le ombre, i lineamenti simili a maschere grottesche. Nessuno parlava. Nessuna testa si girò verso i cespugli dietro i quali era accucciato. Si era vagamente atteso falò ardenti, un altare macchiato di sangue, tamburi e le cantilene di adoratori impazziti; quello sarebbe stato il voodoo. Ma questo non era voodoo, ed esisteva un abisso tra i due culti. Non c'erano fuochi, nessun altare. Però il respiro sibilava attraverso i denti serrati. In una terra lontana aveva cercato invano di osservare i rituali di Zambebwei; adesso ne era spettatore ad appena sessanta chilometri dal luogo in cui era nato. Al centro della radura il terreno si alzava leggermente fino ad una spianata. Su di essa si trovava un pesante palo rinforzato in ferro che non era altro che il tronco appuntito di un enorme pino piantato in profondità nel terreno. E c'era qualcosa di vivo incatenato a quel palo... qualcosa che costrinse McGrath a trattenere il fiato colto da un orribile incredulità. Stava osservando un dio di Zambebwei. Leggende avevano parlato di simili creature, racconti assurdi che uscivano dai confini di quel paese proibito, ripetuti da tremanti nativi intorno ai fuochi nella giungla, arrivati fino alle orecchie degli scettici mercanti bianchi. McGrath non aveva mai veramente creduto a quelle storie, sebbene fosse andato a cercare l'essere che descrivevano. Perché narravano di una creatura che era una blasfemia contro-natura... un'animale che bramava cibo alieno alla specie cui apparteneva. La cosa incatenata al palo era uno scimmione, ma di un tipo di cui il mondo intero non aveva mai neppure sognato, persino negli incubi. La sua ispida pelliccia grigia era screziata di un argento che brillava nella luna crescente; sembrava gigantesco mentre era accucciato diabolicamente sulle zampe posteriori. In piedi, sulle curve gambe nodose, sarebbe stato alto quanto un uomo e molto più ampio e massiccio. Però le sue dita prensili erano armate di artigli simili a quelli di una tigre... non le pesanti unghie spuntate delle normali scimmie antropomorfe, ma i crudeli artigli ricurvi come una scimitarra dei grandi carnivori. Il muso era simile a quello di un gorilla, la fronte bassa, le narici appiattite, privo di mento; però quando ringhiò il suo ampio naso piatto si arricciò come quello di un grande felino e la bocca cavernosa scoprì zanne simili a sciabole, le zanne di un'animale da preda. Quella era Zemba, la creatura sacra alla gente di Zambebwei...
una mostruosità, una violazione di un'accettata legge di natura... una scimmia carnivora. Gli uomini avevano riso di fronte a questa storia, come i cacciatori, zoologi e mercanti. Però adesso McGrath sapeva che simili creature abitavano la tenebrosa Zambebwei ed erano adorate, come l'uomo primitivo tende ad adorare un oscenità ed una perversione della natura. Oppure un sopravvissuto delle epoche passate: ecco ciò che erano gli scimmioni mangiatori di carne di Zambebwei... sopravvissuti di epoche dimenticate, resti di un'età preistorica ormai scomparsa, quando la natura sperimentava con la materia e la vita assunse molte forme mostruose. La vista di quella mostruosità riempì McGrath di repulsione; era orrenda, una reminiscenza di quel passato brutale e velato d'orrore dal quale l'umanità uscì strisciando così dolorosamente, eoni fa. Quella cosa era un affronto alla sanità mentale; apparteneva alla polvere dell'oblio assieme al dinosauro, il mastodonte e la tigre dai denti a sciabola. Sembrava massiccio oltre la statura delle bestie moderne... modellato secondo il progetto di un'altra età, quando tutte le cose erano forgiate in uno stampo più possente. Si chiese se il revolver al fianco avrebbe avuto qualche effetto su di lui; si chiese con quali oscuri e subdoli mezzi John De Albor avesse portato quel mostro da Zambebwei fino a queste pinete. Però qualcosa stava accadendo nella radura, annunciata dall'agitarsi della catena del bruto quando allungò la sua testa da incubo. Dalle ombre degli alberi giunse una fila di negri, uomini e donne, giovani, nudi, eccetto per un mantello di pelle di scimmia e piume di pappagallo gettato sopra le spalle di ognuno. Altri regali portati da John De Albor, indubbiamente. Formarono un semicerchio a debita distanza dal bruto incatenato e s'inginocchiarono, prostrando il capo a terra di fronte allo scimmione. La movenza venne ripetuta per tre volte. Poi, alzandosi, formarono due file, uomini e donne che si fronteggiavano, ed iniziarono una danzare; ma solo per eufemismo si poteva definire una danza. Muovevano appena i piedi, anche se tutte le altre parti del corpo erano in continuo moto, torcendosi, ruotando, vibrando. I movimenti ritmici e misurati non avevano alcun legame con le danze voodoo di cui McGrath era stato testimone. Questa danza era inquietantemente arcaica nella sua evocazione, sebbene ancor più depravata e bestiale... nude passioni primitive che prendevano forma in una cinica perversione di movimento. Nessun suono proveniva dai danzatori o dai fedeli accovacciati attorno al cerchio di alberi. Però lo scimmione, apparentemente infuriato dal con-
tinuo movimento, sollevò il capo ed emise nella notte il terrificante richiamo che McGrath aveva udito già una volta prima di quel giorno... l'aveva ascoltato fra le colline che circondavano la tenebrosa Zambebwei. Il mostro si precipitò sino alla fine della sua pesante catena, schiumando e digrignando le zanne, ed i danzatori fuggirono come pula spazzata via da una raffica di vento. Si sparpagliarono in tutte le direzioni... e fu allora che McGrath trasalì nel suo nascondiglio, riuscendo a malapena a soffocare un grido. Dalle cupe ombre era sbucata una figura che scintillava bronzea in contrasto con le forme nere accanto a lui. Si trattava di John De Albor, nudo eccetto per un mantello di piume brillanti e sul capo un cerchietto d'oro che poteva essere stato forgiato ad Atlantide. In mano portava un bastone dorato che era lo scettro dei supremi sacerdoti di Zambebwei. Dietro di lui veniva una pietosa figura, alla vista della quale la foresta illuminata dalla luna iniziò a turbinare davanti agli occhi di McGrath. Constance era stata drogata. Il suo viso era quello di una sonnambula; non sembrava essere conscia del pericolo o del fatto di essere nuda. Camminava come un robot, rispondendo meccanicamente allo sprone della corda legata attorno al collo bianco. L'altro capo della corda era nella mano di John De Albor, che per metà la guidava, per metà la trascinava verso l'orrore accucciato al centro della spianata. Il viso di De Albor era cinereo alla luce della luna che adesso riempiva la radura di argento fuso. Il sudore imperlava la sua pelle. I suoi occhi brillavano di paura e spietata determinazione. Ed in un impressionante momento McGrath seppe che l'uomo aveva fallito, che era stato incapace di salvare Constance e che ora, per salvare la propria vita dai seguaci sospettosi, doveva lui stesso portare la ragazza al cruento sacrificio. Nessun suono di parole proveniva dai fedeli, ma un sibilante inspirare d'aria attraverso spesse labbra, e le file di corpi neri che ondeggiavano come canne al vento. La grande scimmia balzò in piedi, il suo volto una diabolica maschera sbavante; ululò con spaventosa brama, digrignando le lunghe zanne, desiderose di affondare in quella soffice carne bianca e nel sangue caldo. Tirò la catena allo spasimo ed il robusto palo tremò. McGrath, tra i cespugli, rimase immobile, paralizzato dall'imminenza dell'orrore. In quel mentre John De Albor si spostò alle spalle della ragazza indifesa e con una forte spinta la mandò a piroettare in avanti facendola precipitare direttamente a terra sotto gli artigli del mostro. E simultaneamente McGrath agì. La sua mossa fu istintiva piuttosto che
conscia. La sua .44 comparve in mano e parlò, e la grande scimmia, strillando come un uomo colpito a morte, roteò, stringendosi la testa con le mani deformi. La folla rimase immobile per un istante, strabuzzando gli occhi bianchi, la bocca aperta. Poi prima che qualcuno potesse muoversi, lo scimmione, il sangue che colava dalla testa, si girò, afferrò la catena con entrambe le mani e la spezzò con un colpo che torse e schiantò i pesanti anelli come se fossero stati di carta. John De Albor si trovava proprio di fronte al bruto impazzito, paralizzato. Zemba ruggì e balzò e l'africano cadde sotto di lui, sventrato dagli artigli affilati come rasoi, il capo ridotto ad una poltiglia sanguinolenta da un colpo della grande zampa. Famelico, il mostro caricò i fedeli, artigliando e squarciando e colpendo, ululando in maniera intollerabile. Zambebwei parlò, e la morte era nei suoi muggiti. Urlando, strillando, lottando, i negri si accalcarono gli uni sugli altri nella loro folle fuga. Uomini e donne vennero abbattuti da quegli artigli taglienti, smembrati da quelle zanne digrignanti. Era un rosso dramma primordiale... distruzione, follia sanguinaria e confusione, lo spirito primitivo incarnato nelle zanne e negli artigli impazziti ed intenti nel massacro. Sangue e cervello inondarono la terra, cadaveri neri, arti e frammenti di corpi imbrattarono la radura illuminata dalla luna in macabri mucchi prima che l'ultimo di quei disgraziati che urlavano trovasse rifugio tra gli alberi. I suoni della loro goffa fuga terrorizzata svanirono. McGrath era balzato fuori dal suo nascondiglio quasi nello stesso momento in cui aveva sparato. Ignorato dai negri terrorizzati e lui stesso scarsamente consapevole del massacro che avveniva attorno a sé, corse nella radura verso la pietosa figura bianca che giaceva accasciata accanto al palo rinforzato in ferro. «Constance!», gridò, portandosela al petto. Languidamente, la ragazza aprì gli occhi velati. La teneva stretta, incurante delle urla e della devastazione che infuriava attorno a loro. Pian piano il riconoscimento crebbe in quei begli occhi. «Bristol!», mormorò incoerentemente. Poi gridò, si strinse a lui singhiozzando istericamente. «Bristol! Mi hanno detto che eri morto! I negri! Quegli orribili negri! Mi uccideranno! Uccideranno anche De Albor, ma egli ha promesso loro di sacrificare...» «Su, piccola, su!» Calmò i frenetici tremiti della ragazza. «Va tutto bene adesso...» Improvvisamente fissò quella ghignante maschera insanguinata
di incubo e di morte. La grande scimmia aveva cessato di squartare le sue vittime e stava scivolando verso la coppia ancora in vita al centro della radura. Il sangue colava lento dalla ferita alla testa che l'aveva fatta impazzire. McGrath balzò verso il mostro, facendo da scudo alla ragazza prostrata; la sua pistola vomitò fiamme, imbottendo di piombo il possente petto della bestia alla carica. Questa avanzò, e la sicurezza dell'uomo svanì. Aveva mandato un colpo dopo l'altro a colpire gli organi vitali del mostro, ma questo non si era fermato. Poi scagliò la pistola scarica in pieno su quel volto grottesco, ma senza effetto. Barcollando e roteando il bruto lo afferrò nelle sue grinfie. Mentre le braccia gigantesche si serravano su McGrath, schiacciandolo, l'uomo perse ogni speranza, ma seguì il suo istinto di combattente fino all'ultimo, e piantò fino all'elsa il pugnale nel ventre peloso. Però nello stesso momento in cui colpiva, sentì un fremito percorrere la gigantesca figura. Le grandi braccia si abbassarono... e McGrath venne scagliato a terra in un ultimo spasmo di morte del mostro, poi la cosa ondeggiò, la sua faccia una maschera di morte. Morto in piedi, si accasciò, rovesciandosi a terra, tremò ed infine rimase immobile. Neppure uno scimmione antropofago di Zambebwei poteva sopravvivere ad una scarica a bruciapelo di confetti di piombo. Mentre l'uomo si alzava barcollando, Constance si alzò e si precipitò tra le sua braccia, piangendo istericamente. «Va tutto bene adesso, Constance,» ansimò lui, stringendola forte a sé. «Lo Zemba è morto; De Albor è morto; Ballville è morto; i negri sono fuggiti. Non c'è nulla che ci impedisca adesso di andarcene. La Luna di Zambebwei ha significato la fine per loro. Però è l'inizio della vita per noi.» Titolo originale: The Moon of Zambebwei (Weird Tales, febbraio 1935, con il titolo The Grisly Horror) L'ABITO A SCACCHI Dodge City, Kansas 3 novembre 1877 Signor William L. Gordon,
Antioch, Texas Caro Bill, ti scrivo perché ho la sensazione che non starò più a lungo in questo mondo. Ciò può sorprenderti, perché sai che ero in buona salute quando partii con la mandria, e non sono ammalato per quanto ne sappia, ma lo stesso credo di essere un uomo morto. Prima che ti dica perché la pensi così, ti racconterò il resto di quello che ho da dirti, e cioè che giungemmo a Dodge City senza problemi con la mandria che contava 3.400 capi, ed il capo mandriano, John Elston, ricevette venti dollari a testa dal signor R.J. Blane, ma Joe Richards, uno dei ragazzi, venne ucciso da un manzo nei pressi dell'attraversamento del Canadian. Sua sorella, moglie di Dick Westfall, vive vicino a Seguin e vorrei che andassi da lei e le dicessi del fratello. John Elston le sta mandando la sella, le briglie, la pistola ed i soldi. Ed ora, Bill, cercherò di dirti perché so di stare per andarmene. Ti ricordi lo scorso agosto, poco prima che partissi per il Kansas con la mandria, che trovarono il Vecchio Joel, un tempo lo schiavo del colonnello Henry, e la sua donna morti... quelli che vivevano in quel boschetto di querce lungo il torrente Zavalla. Sai che chiamavano la donna Jezebel, e la gente dice che fosse una strega. Era una ragazza meticcia molto più giovane di Joel. Prevedeva il futuro, e persino alcuni bianchi avevano paura di lei. Non ho mai creduto molto a quelle storie. Beh, quando stavamo radunando il bestiame per affrontare il viaggio, mi trovavo vicino allo Zavalla verso il crepuscolo ed il mio cavallo era stanco, io avevo fame e così decisi di fermarmi da Joel e farmi cucinare qualcosa da mangiare dalla sua donna. Così andai alla sua capanna nel mezzo del boschetto di querce, e Joel stava tagliando della legna per cucinare della carne che Jezebel stava cucinando su di un fuoco all'aperto. Ricordo che la donna indossava un vestito a scacchi rossi e verdi. Non potrò certo dimenticarlo. Mi dissero di smontare e così feci, e mi sedetti e mangiai un'ottima cena, poi Joel tirò fuori una bottiglia di tequila e ne bevemmo, ed io dissi che potevo batterlo ai dadi. Mi chiese se avevo dei dadi ed io dissi di no, e lui disse che aveva dei dadi e che avremmo scommesso cinque centesimi a punto. Così iniziammo a giocare ai dadi, a bere tequila ed io mi sbronzai bene ed ero impaziente di andare, ma Joel mi aveva vinto tutto il denaro, che e-
rano circa cinque dollari e settantacinque centesimi. Questo mi fece arrabbiare e gli dissi che mi sarei fatto un'altra bevuta e poi avrei preso il mio cavallo e me ne sarei andato. Però lui disse che la bottiglia era vuota, ed io gli dissi di prenderne un'altra. Lui disse che non ne aveva più ed io mi arrabbiai ancora di più ed iniziai ad imprecare e ad insultarlo, perché ero parecchio ubriaco. Jezebel venne alla porta della capanna e cercò di farmi salire in sella, ma io le dissi che ero un uomo libero, bianco, di ventuno anni, e di badare a lei, perché non sapevo che farmene di ragazze meticce così svelte. Allora Joel si arrabbiò e disse, sì, che aveva dell'altra tequila nella capanna, ma che non me ne avrebbe dato un sorso neppure se stessi morendo di sete. Così io dissi: «Dannato, mi hai fatto ubriacare, mi hai preso il denaro con dadi truccati ed ora mi stai insultando. Ho visto impiccare dei negri per molto meno.» Lui disse: «Tu non puoi mangiare la mia carne e bere il mio liquore e poi dire che i miei dadi sono truccati. Nessun uomo bianco può farlo. Io sono un duro quanto lo sei tu.» Io dissi: «All'inferno la tua anima nera, ti riempirò di calci.» Lui disse: «Uomo bianco, tu non prenderai a calci nessuno.» Poi prese il coltello con cui aveva tagliato la carne e corse verso di me. Tirai fuori la mia pistola e gli sparai due volte nella pancia. Cadde e gli sparai di nuovo, questa volta in testa. Allora Jezebel arrivò di corsa strillando ed imprecando, impugnando un vecchio moschetto ad avancarica. Me lo puntò addosso e premette il grilletto, ma la capsula esplose senza sparare la pallottola ed io le urlai di andarsene altrimenti l'avrei uccisa. Però la donna corse verso di me e roteò il moschetto come una clava. Lo schivai, ma mi colpì comunque di striscio graffiandomi la pelle della tempia, ed io puntai la mia pistola contro il suo petto e premetti il grilletto. Il colpo la fece arretrare barcollando di alcuni passi, poi piroettò e cadde a terra con le mani al petto ed il sangue che le scorreva tra le dita. Mi avvicinai con la pistola in mano e rimasi a guardarla, imprecando contro di lei che alzò lo sguardo e disse: «Hai ucciso Joel ed hai ucciso me, ma per Dio, non vivrai per vantartene; ti maledico in nome del grande serpente, della palude nera e del gallo bianco. Prima che il giorno nasca nuovamente tu starai marchiando le mucche del diavolo all'inferno. Vedrai, verrò da te quando il tempo sarà maturo.» Poi il sangue le uscì dalla bocca e Jezebel ricadde all'indietro e seppi che
era morta. Poi mi spaventai e, sobrio, presi il mio cavallo e me ne andai. Nessuno mi aveva visto ed il giorno dopo dissi ai ragazzi che quel graffio sulla tempia me l'ero fatto quando il mio cavallo mi aveva fatto sbattere contro il ramo di un albero. Nessuno avrebbe saputo che ero stato io ad ammazzare i due, e non te lo starei dicendo ora se solo sapessi che non mi resta molto da vivere. Quella maledizione mi perseguita e non c'è modo di evitarla. Lungo tutta la pista potevo sentire qualcosa che mi seguiva. Prima che arrivassimo al Red River, una mattina trovai un serpente a sonagli raggomitolato nel mio stivale e dopo quella volta dormii sempre con gli stivali. Poi quando stavamo attraversando il Canadian, che era abbastanza in piena e quindi dovevo cavalcare lentamente, la mandria iniziò a sbandare senza alcun motivo, ed io fui preso nella confusione. Il mio cavallo annegò e lo sarei anch'io se Steve Kirby non mi vi avesse gettato una corda e mi avesse trascinato fuori in mezzo alle mucche impazzite. Poi una notte uno degli aiutanti stava pulendo un fucile da bisonti che sparò accidentalmente e mi fece un buco nel cappello. Da quella volta i ragazzi iniziarono a scherzare ed a dire che ero uno iettatore. Però dopo che attraversammo il Canadian, il bestiame fu preso dal panico nella notte più limpida e tranquilla che abbia mai visto. In quel momento stavo cavalcando con la mandria e non vidi o sentii nulla che potesse aver fatto iniziare quel panico, ma uno dei ragazzi disse di aver udito in un boschetto di pioppi, appena prima del caos, un suono basso simile ad un gemito e di aver visto una strana luce blu brillare in quel posto. Comunque, i manzi impazzirono così all'improvviso ed inaspettatamente che per poco non mi travolsero ed io dovetti cavalcare come un forsennato. C'erano manzi dietro di me e su entrambi i lati, e se non avessi avuto il cavallo più veloce che fosse mai stato allevato nel Texas meridionale, mi avrebbe calpestato riducendomi in poltiglia. Beh, alla fine mi allontanai dal grosso e passammo tutto il giorno successivo a radunare la mandria. Fu allora che Joe Richards fu ucciso. Eravamo nella prateria guidando un gruppo di manzi, quando all'improvviso, senza alcuna ragione apparente, il mio cavallo emise un terribile nitrito di dolore, si impennò e cadde all'indietro trascinandomi con lui. Balzai a terra appena in tempo per evitare di essere schiacciato e poi un grosso manzo muggì e venne verso di me. Non c'era un albero più grande di un cespuglio nei paraggi, così cercai di estrarre la pistola, ma in qualche modo il cane si impigliò sotto la cintura e
non riuscivo a liberarlo. Il manzo impazzito non era a più di dieci balzi da me, quando Joe Richards lo prese al lazo, ma il suo cavallo, inesperto, venne spinto a terra lateralmente. Mentre cadeva Joe cercò di allontanarsi, ma lo sperone si incastrò nello straccale dietro alla sella e l'istante dopo il manzo lo aveva trapassato di netto con entrambe le corna. Fu uno spettacolo orribile. In quel momento avevo liberato la pistola e sparai al manzo, ma Joe era morto. Era sbudellato in maniera terribile. Lo seppellimmo dove era caduto e mettemmo una croce di legno e John Elston incise il nome e la data con il suo coltello da caccia. Dopo di ciò i ragazzi non scherzarono più sul fatto che ero uno iettatore. Non mi parlarono più molto ed io rimasi con me stesso, anche se solo il Signore sa che non era colpa mia, da come posso vederla io. Beh, arrivammo a Dodge City e vendemmo i manzi. E ieri notte ho sognato di vedere Jezebel, reale proprio come vedo la pistola al mio fianco. Sorrideva come il diavolo in persona e disse qualcosa che non sono riuscito a capire, ma indicava me e credo di sapere cosa volesse dire. Bill, non mi vedrai mai più, sono un uomo morto. Non so come me ne andrò via, ma sento che non vivrò per vedere un'altra alba. Così ti scrivo questa lettera per farti sapere di questa storia e riconosco di essere stato uno sciocco, ma mi sembra come se fossi appena diventato cieco e non abbia alcuna via tracciata da seguire. Comunque, qualsiasi cosa mi prenda mi troverà in piedi e con la pistola spianata. Ce l'ho sempre messa tutta contro qualsiasi cosa viva, e non mi capiterà il contrario con una morta. Me ne andrò combattendo, qualunque cosa accada. Tengo la base della fondina allacciata, e pulisco ed olio la mia pistola ogni giorno. E, Bill, alle volte credo di stare diventando pazzo, ma suppongo sia solo il pensare ed il sognare così tanto di Jezebel; infatti sto usando una tua vecchia camicia come straccio per pulire, sai, quella camicia a scacchi bianchi e neri che hai preso lo scorso Natale a San Antonio, ma alle volte quando pulisco la pistola non sembrano più bianchi e neri. Diventano rossi e verdi, proprio del colore del vestito che Jezebel indossava quando la ammazzai. Tuo fratello, Jim. Deposizione di John Elston, 4 novembre 1877
Il mio nome è John Elston. Sono il soprintendente del ranch del signor J.J. Connolly nella Contea di Gonzales, Texas. Ero il capo carovana della mandria in cui era impiegato Jim Gordon. Dividevo con lui la stessa stanza d'albergo. La mattina del tre novembre sembrava di malumore e non aveva molta voglia di parlare. Non aveva voglia di uscire con me, ma disse che avrebbe scritto una lettera. Non l'ho più visto fino a questa notte. Entrai nella stanza per prendere qualcosa e lui stava pulendo la sua Colt .45. Risi, e scherzando gli chiesi se avesse paura di Bat Masterson e lui disse: «John, ciò di cui ho paura non è umano, ma me ne andrò sparando se posso.» Risi e gli chiesi di che cosa avesse paura, e lui disse: «Di una ragazza meticcia morta da quattro mesi.» Pensai che fosse ubriaco, e me ne andai. Non so che ora fosse, ma era dopo il tramonto. Non l'ho più visto vivo dopo allora. Verso mezzanotte stavo passando davanti al saloon del Gran Capo quando udii uno sparo ed un sacco di gente accorrere nel saloon. Sentii qualcuno dire che avevano sparato ad un uomo. Entrai con tutti gli altri ed andai nella stanza sul retro. Un uomo era disteso sulla soglia, con le gambe nel vicolo ed il corpo sulla porta. Era ricoperto di sangue, ma dalla corporatura e dai vestiti lo riconobbi come Jim Gordon. Era morto. Non l'ho visto ammazzare e non so nulla oltre a quello che ho già detto. Deposizione di Mike O'Donnell Il mio nome è Michael Joseph O'Donnell. Sono il barista notturno del saloon del Gran Capo. Pochi minuti prima di mezzanotte ho notato un cowboy che parlava con Sam Grimes proprio fuori dal saloon. Sembravano discutere. Dopo un po' il cowboy entrò e si fece un bicchiere di whiskey al bancone. Lo notai perché portava una pistola mentre gli altri non avevano le loro in vista, e perché aveva un aspetto agitato e pallido. Sembrava ubriaco, ma non credo che lo fosse. Non ho mai visto un uomo con un aspetto come il suo. Dopo non ho più badato molto a lui perché ero molto impegnato a seguire il bar. Suppongo che deve essere andato nella stanza sul retro. Circa a mezzanotte ho sentito un colpo di pistola nella stanza sul retro e Tom Allison uscirne fuori gridando che avevano sparato ad un uomo. Sono stato il primo a raggiungerlo. Era disteso in parte sulla porta ed in parte nel vicolo.
Ho visto che indossava un cinturone ed una fondina decorata alla messicana e credetti che fosse lo stesso uomo che avevo notato poco prima. La mano destra era praticamente amputata, ridotta ad una massa di brandelli sanguinolenti. La testa era spappolata in un modo che non ho mai visto causato da un colpo di pistola. Era morto quando sono arrivato ed è mia opinione che sia morto all'istante. Mentre eravamo attorno a lui, un uomo che conoscevo essere John Elston si fece largo tra la calca e disse: «Mio Dio, è Jim Gordon!» Deposizione del vice-sceriffo Grimes Il mio nome è Sam Grimes. Sono un vice-sceriffo della Contea di Ford, Kansas. Incontrai il deceduto, Jim Gordon, davanti al saloon del Gran Capo circa venti minuti prima di mezzanotte del 3 novembre. Vidi che portava la pistola, così lo fermai e gli chiesi perché portasse con sé l'arma, e se non sapesse che era una cosa contro la legge. Disse che la portava per protezione. Gli dissi che se era in pericolo era mio compito proteggerlo e che faceva meglio a riportare la pistola in albergo e lasciarla là fino a quando non se ne fosse andato dalla città, perché riconobbi dai suoi abiti che era un cowboy dal Texas. Rise e disse: «Sceriffo, neppure Wyatt Earp potrebbe proteggermi dal mio destino!» Entrò nel saloon. Credetti che fosse malato e fuori di testa, così non lo arrestai. Pensai che forse si sarebbe fatto una bevuta e poi sarebbe andato a portare l'arma al suo albergo come gli avevo chiesto. Continuai ad osservarlo per vedere che non avesse qualche cattiva intenzione nei confronti di qualcuno nel saloon, ma lui non badò a nessuno, bevve un bicchiere al bar ed andò nella saletta posteriore. Pochi minuti dopo ne uscì un uomo gridando che qualcuno era stato ucciso. Andai subito nella stanza sul retro, arrivandovi proprio mentre Mike O'Donnell si stava piegando verso l'uomo che io credo fosse lo stesso che avevo avvicinato in strada. Era stato ucciso dall'esplosione della pistola che aveva in mano. Non so a chi stesse sparando, se a qualcuno. Non trovai nessuno nel vicolo e nessuno aveva visto l'omicidio tranne Tom Allison. Trovai pezzi della pistola che era esplosa, insieme al fondo della canna, che diedi al coroner. Deposizione di Tom Allison
Il mio nome è Thomas Allison. Sono un conducente impiegato dalla McFarlane & Company. La notte del tre novembre, mi trovavo al saloon del Gran Capo. Non notai il deceduto quando entrò. C'era un sacco di gente nel saloon. Avevo bevuto parecchio ma non ero ubriaco. Vidi "Grizzly" Gullins, un cacciatore di bufali, che si avvicinava all'ingresso del saloon. Avevo avuto dei guai con lui, e sapevo che era un tipo poco raccomandabile. Era ubriaco ed io non volevo avere problemi. Decisi di andarmene dall'uscita posteriore. Entrai nella saletta sul retro e vidi un uomo seduto ad un tavolo con la testa fra le mani. Non gli badai, ma andai alla porta posteriore che era chiusa dall'interno. Sollevai il paletto, aprii la porta e feci per uscire. Poi vidi una donna di fronte a me. La luce che usciva dalla porta aperta nel vicolo era debole, ma la vidi abbastanza chiaramente da poter affermare che si trattava di una donna negra. Non so come fosse vestita. Non era pura nera, ma di un marroncino o giallastro. Posso dire questo in quella scarsa luce. Rimasi così sorpreso che mi fermai bruscamente e lei mi parlò e disse: «Vai a dire a Jim Gordon che sono venuta per lui.» Io dissi: «Chi diavolo sei tu e chi è Jim Gordon?» Lerdisse: «L'uomo nella stanza sul retro seduto al tavolo; digli che sono venuta!» Qualcosa mi fece rabbrividire dappertutto, non so dire perché. Mi voltai e rientrai nella stanza e dissi: «Sei tu Jim Gordon?» L'uomo al tavolo alzò lo sguardo e vidi che la sua faccia era pallida e stravolta. Dissi: «Qualcuno vuole vederti.» Lui disse: «Chi vuole vedermi, straniero?» Io dissi: «Una donna meticcia, là all'ingresso posteriore.» Con ciò si alzò di scatto dalla sedia facendola cadere insieme al tavolo. Pensai che fosse matto e mi allontanai da lui. I suoi occhi erano spiritati. Emise una specie di grido strozzato e corse verso la porta aperta. Lo vidi fissare nel vicolo e credo di aver udito una risata dall'oscurità. Poi l'uomo gridò di nuovo ed estrasse la pistola e sparò contro qualcuno che non potevo vedere. Ci fu un lampo che mi accecò, seguito da una terribile detonazione, e quando il fumo di dissipò un poco vidi un uomo disteso sulla porta con la testa ed il corpo coperti di sangue. Le cervella stavano colando fuori e c'era sangue su tutta la sua mano destra. Corsi davanti al saloon gridando verso il barista. Non so se stava sparando alla donna o no, o se qualcuno abbia risposto al fuoco. Non ho udito che un colpo, quando la pistola è esplosa.
Referto del coroner Noi, giuria del coroner, avendo aperto un'inchiesta sui resti di James A. Gordon di Antioch, Texas, abbiamo raggiunto il verdetto di morte per colpo di pistola accidentale, causato dall'esplosione dell'arma del deceduto, avendo lo stesso apparentemente dimenticato di rimuovere uno straccetto per la pulizia dalla canna dopo averla pulita. Frammenti del tessuto bruciato sono stati trovati nella canna. Erano chiaramente un pezzo di abito femminile a scacchi rossi e verdi. Firmato: J.S. Ordley, coroner, Richard Donovan, Ezra Blaine, Joseph T. Decker, Jack Wiltshaw, Alexander V. Williams Titolo originale: The Dead Remember (Argosy, 15 agosto 1936) NON SCAVATEMI LA FOSSA Il rimbombo del mio battente all'antica che riverberava stranamente in tutta la casa mi destò da un sonno inquieto ed ossessionato dagli incubi. Scrutai fuori dalla finestra. All'ultima luce della luna calante il viso pallido del mio amico John Conrad mi fissava. «Kirowan, posso salire?» La sua voce era scossa e tesa. «Certamente!» Balzai fuori dal letto ed indossai una vestaglia, mentre lo udii entrare dalla porta d'ingresso e salire le scale. Un momento dopo era di fronte a me, ed alla luce che avevo acceso vidi le sue mani tremare e notai l'innaturale pallore del suo viso. «Il vecchio John Grimlan è morto un'ora fa,» disse bruscamente. «Davvero? Non sapevo che stesse male.» «È stato un attacco improvviso e virulento di natura molto particolare, una specie di crisi in qualche modo affine all'epilessia. Era vittima di simili attacchi negli ultimi anni, lo sai.» Annuii. Sapevo qualcosa del vecchio che viveva come un eremita nella
grande e tetra casa sulla collina; effettivamente, una volta avevo assistito ad una delle sue strane crisi e rimasi sgomento di fronte alle convulsioni, ululati e lamenti del poveretto che si era rotolato a terra come un serpente ferito, farfugliando terribili maledizioni ed oscure blasfemie fino a quando la sua voce non divenne un urlo senza parole che riempì le sue labbra di schiuma. Vedendo tutto ciò, capii perché la gente nei tempi passati ritenesse queste vittime uomini posseduti dal demonio. «...qualche caratteristica ereditaria,» stava dicendo Conrad. «Il vecchio John cadde senza dubbio vittima di qualche debolezza interiore causata da qualche orrenda malattia, forse l'eredità di un remoto antenato... talvolta queste cose accadono. Oppure... beh, lo sai che il vecchio John curiosò nelle più misteriose località della terra e visitò tutto l'Oriente, da giovane. È altamente probabile che si sia infettato con qualche oscuro morbo durante i suoi viaggi. Ci sono ancora molte malattie non classificate in Africa e nell'Oriente.» «Però,» dissi io, «non mi hai detto la ragione di questa tua visita improvvisa a quest'ora impossibile... perché mi sembra che sia passata la mezzanotte.» Il mio amico sembrò piuttosto confuso. «Beh, il fatto è che John Grimlan è morto da solo, tranne che per la mia presenza. Si è rifiutato di ricevere alcun aiuto medico e proprio negli ultimi istanti, quando era ormai evidente che stava per morire, ed io ero pronto ad andare a cercare qualche forma di aiuto nonostante il suo volere contrario, iniziò ad ululare ed a gridare in un modo tale che non potei rifiutare i suoi disperati appelli... che erano quelli di non essere lasciato a morire da solo. «Ho visto morire uomini,» aggiunse Conrad, asciugandosi il sudore dalla fronte pallida, «però la morte di John Grimlan è stata la più spaventosa cui abbia mai assistito.» «Ha sofferto molto?» «Sembrava provare un grande dolore fisico, ma era per la maggior parte soffocato da qualche mostruosa sofferenza mentale o psichica. La paura nei suoi occhi dilatati e le sue urla trascendevano ogni concepibile orrore terrestre. Te lo giuro, Kirowan, lo spavento di Grimlan era maggiore e più profondo di qualunque altra paura ordinaria dell'Aldilà mostrata da un uomo che avesse vissuto una vita malvagia.» Mi mossi inquieto. Le oscure implicazioni di quest'ultima affermazione mandarono un brivido di timore indescrivibile lungo la mia spina dorsale.
«So che i contadini hanno sempre affermato che nella sua giovinezza vendette l'anima al Diavolo, e che i suoi improvvisi attacchi epilettici erano semplicemente un segno visibile del potere del Demonio su di lui; però simili chiacchiere sono sciocche, ovviamente, ed appartengono al Medioevo. Sappiamo tutti che la vita di John Grimlan è stata particolarmente cattiva e malvagia, persino negli ultimi tempi. A ragione era universalmente detestato e temuto, perché non ho mai sentito che fece almeno una singola buona azione. Tu eri il suo unico amico.» «Ed era un'amicizia strana,» disse Conrad. «Ero attratto da Grimlan a causa dei suoi insoliti poteri, perché nonostante le sua natura bestiale, John era un uomo di istruzione elevata, profondamente colto. Aveva studiato in profondità l'occulto e lo conobbi la prima volta per questo fatto; perché, se ti ricordi, anch'io sono sempre stato fortemente interessato a quella linea di ricerca. «Però in questa, come in altre cose, Grimlan era malvagio e perverso. Aveva ignorato il lato bianco dell'occulto ed aveva scavato nelle parti più oscure, più cupe... l'adorazione del demonio, il voodoo e lo Shintoismo. La sua conoscenza di queste terribili arti e scienze era immensa e sacrilega. Ed ascoltarlo quando parlava dei suoi esperimenti e delle sue ricerche portava a conoscere tali orrori e cose ripugnanti, come solo un rettile velenoso può ispirare. Perché non c'erano segreti nei quali non si fosse interessato, mentre di altri accennava solamente persino con me. Ti dico, Kirowan, è facile ridere delle storie dell'oscuro mondo dell'ignoto quando uno si trova in piacevole compagnia sotto il sole splendente, ma devi sederti durante le ore più buie nella bizzarra e silenziosa biblioteca di John Grimlan ad osservare gli antichi volumi ammuffiti ed ascoltare i suoi spaventosi racconti come facevo io, e la tua lingua di sarebbe attaccata al palato dal terrore puro, come è accaduto alla mia, ed il sovrannaturale ti sarebbe sembrato molto reale e vicino... come sembrava a me!» «Ma in nome di Dio, uomo!», strillai, perché la tensione stava divenendo insopportabile; «vieni al punto e dimmi cosa vuoi da me.» «Voglio che tu venga con me a casa di John Grimlan e mi aiuti a portare a termine le sue assurde istruzioni riguardo il suo cadavere.» Non avevo alcuna propensione per l'avventura però mi vestii rapidamente, un occasionale fremito di premonizione che mi scuoteva. Una volta completamente vestito seguii Conrad fuori di casa lungo la via silenziosa che portava alla casa di John Grimlan. La strada si snodava su per la collina e lungo tutto il percorso, guardando su davanti a me, potei vedere quella
grande e cupa magione appollaiata come un uccello malvagio sulla cima della collina stagliarsi nera e tetra contro le stelle. Ad occidente pulsava un'unica debole macchia rossa dove la giovane luna era appena tramontata dietro le basse colline nere. La notte intera sembrava piena di fiorente malvagità ed il persistente fruscio di ali di pipistrello in alto nel cielo fece sussultare e vibrare i miei nervi tesi. Per soffocare il rapido martellare del mio cuore, dissi: «Condividi anche tu l'opinione di molti che John Grimlan fosse pazzo?» Avanzammo di numerosi passi prima che Conrad mi rispondesse, apparentemente con strana riluttanza, «Tranne che per un incidente, direi che nessun altro uomo sia mai stato più sano di mente. Però una notte nel suo studio sembrò improvvisamente spezzare tutti i legami della ragione. «Avevamo discusso per ore del suo argomento preferito - la magia nera quando gridò improvvisamente, mentre il suo viso si illuminava di uno strano e sacrilego bagliore: "Perché dovrei stare qui seduto a balbettare di simili idiozie infantili con te? Questi rituali voodoo... questi sacrifici shintoisti... serpenti piumati... capri senza corna... culti del leopardo nero... puah! Sozzura e polvere che il vento spazza via! Feccia del vero Ignoto... i misteri profondi! Solo echi dall'Abisso! «'Ti potrei narrare cose che distruggerebbero il tuo meschino cervello! Potrei sussurrarti nell'orecchio nomi che ti farebbero avvizzire come uno stelo bruciato! Cosa ne sai tu di Yog-Sathoth, di Kathulos e delle città sepolte sotto il mare? Nessuno di questi nomi è mai incluso nelle tue mitologie. Neppure nei tuoi sogni hai mai immaginato le nere mura ciclopiche di Koth o tremato di fronte ai venti velenosi che soffiano da Yuggoth! «"Però non ti spazzerò via da questa vita con la mia oscura saggezza! Non posso aspettarmi che il tuo infantile cervello sopporti ciò che il mio ospita. Se tu avessi la mia stessa età... se avessi visto ciò che ho visto io, regni sgretolarsi e generazioni svanire... se avessi raccolto come grano maturo gli oscuri segreti dei secoli..." «Stava delirando, il suo viso illuminato selvaggiamente e assai poco umano nell'aspetto, quando all'improvviso, notando la mia evidente perplessità, eruppe in un'orribile risata stridula. «"Dio!", strillò con una voce ed un accento a me ignoti, "Me pare de averti impaurito, ed in ventate non è da meravigliarsi poiché non sei che uno nudo selvaggio ne le arti de la vita, dopo tutto. Tu credi che sia vecchio, eh? Perché tu, stupido zotico, cadresti morto se ti svelassi le generazioni di uomini che ho conosciuto..."
«Però a questo punto venni sopraffatto da un tale orrore che fuggii da lui come se fosse stato un serpente velenoso e la sua violenta risata diabolica mi seguì sin fuori dalla casa tenebrosa. Alcuni giorni dopo ricevetti una lettera di scuse per le sue maniere che ascriveva candidamente - troppo candidamente - a droghe. Non gli credetti, ma rinnovai la nostra amicizia, sebbene dopo alcune esitazioni.» «Sembra proprio follia completa,» mormorai io. «Sì,» ammise Conrad, esitante. «Però... Kirowan, hai mai visto qualcuno che conoscesse John Grimlan da giovane?» Scossi il capo. «Mi è costato molta fatica fare indagini su di lui in maniera discreta,» disse Conrad. «Ha vissuto qui - con l'eccezione di misteriose assenze spesso di alcuni mesi ogni volta - per venti anni. Gli abitanti più anziani lo ricordano perfettamente quando venne in città e s'insediò nella vecchia casa sulla collina, e tutti dicono che negli anni seguenti non sembrò invecchiare in maniera percettibile. Quando arrivò qui il suo aspetto era lo stesso di adesso - o meglio, di prima, al momento della sua morte - l'aspetto di un uomo sulla cinquantina. «Incontrai il vecchio Von Boehnk a Vienna, il quale mi disse che quando da giovane studiava a Berlino, cinquant'anni prima, conobbe Grimlan. Von Boehnk espresse stupore nel sapere che il vecchio fosse ancora vivo; disse infatti che all'epoca, Grimlan sembrava avere circa cinquant'anni di età.» Emisi un esclamazione d'incredulità rendendomi conto delle implicazioni verso cui si stava dirigendo la conversazione. «Assurdo! Il Professor Von Boehnk ha più di ottant'anni, e probabilmente l'età lo porta a commettere degli errori. Deve aver confuso quell'uomo con un altro.» Eppure mentre parlavo la mia pelle si accapponò spiacevolmente ed i capelli sulla nuca mi si rizzarono. «Beh,» si strinse nelle spalle Conrad, «eccoci alla casa.» L'enorme edificio si levava minacciosamente di fronte a noi, e quando raggiungemmo la porta d'ingresso un vento errabondo gemette attraverso gli alberi vicini ed io sobbalzai scioccamente quando udii di nuovo lo spettrale battito delle ali del pipistrello. Conrad girò una grossa chiave in una serratura antica, e quando entrammo un soffio gelido ci colpì come l'alito di una tomba - ammuffito e freddo. Rabbrividii. Brancolammo attraverso l'ingresso buio fino ad uno studio e qui Conrad accese una candela, perché la casa non era dotata di luce elettrica o di gas.
Mi guardai attorno temendo ciò che la luce potesse svelare, ma la stanza, dai pesanti tendaggi e dagli arredi bizzarri, era vuota se non per la nostra presenza. «Dove... dov'è lui?», chiesi con un debole bisbiglio da una gola divenuta secca. «Al piano di sopra,» rispose Conrad a bassa voce, dimostrando che il silenzio ed il mistero della casa avevano stregato anche lui. «Al piano di sopra, nella biblioteca, dove è morto.» Involontariamente alzai lo sguardo. Da qualche parte sopra le nostre teste il solitario padrone di questa cupa magione era disteso per il suo ultimo sonno... silente, il volto bianco atteggiato ad una ghignante maschera di morte. Il panico s'impadronì di me e dovetti lottare per controllarlo. Dopo tutto era semplicemente il cadavere di un vecchio malvagio che non poteva più fare del male a nessuno... questo ragionamento risuonava vuoto nella mia mente come le parole di un bambino spaventato che cerca di rassicurarsi. Mi voltai verso Conrad. Aveva estratto da una tasca interna una busta ingiallita dal tempo. «Questa,» disse, rimuovendo dalla busta numerose pagine di pergamena scritta fittamente e anch'essa ingiallita, «è, a tutti gli effetti, l'ultima parola di John Grimlan, anche se solo Dio sa quanti anni fa sia stata scritta. Me la diede dieci anni fa, immediatamente dopo il suo ritorno dalla Mongolia. Fu poco dopo quel viaggio che ebbe il primo attacco. «Grimlan mi diede questa busta sigillata e mi fece giurare che l'avrei nascosta attentamente, e che non l'avrei aperta fino a quando non sarebbe morto. Solo allora avrei dovuto leggerne il contenuto e seguirne alla lettera le istruzioni. Inoltre mi fece giurare che, non importa cosa lui avrebbe detto o fatto dopo avermi consegnato la busta, avrei dovuto proseguire come ordinato la prima volta.. "Perché," mi disse con uno spaventoso sorriso, "la carne è debole, ma io sono un uomo di parola, e sebbene possa in un momento di debolezza desiderare di ritrattare, è troppo, troppo tardi ormai. Tu non potrai mai capire la questione, ma dovrai fare come ti ho detto."» «Ebbene?» «Ebbene...» Conrad si deterse nuovamente la fronte, «stanotte mentre era disteso e si contorceva in preda agli spasmi dell'agonia, i suoi ululati senza parole erano mescolati a frenetici ammonimenti nei miei confronti di portargli la busta e di distruggerla davanti ai suoi occhi! E mentre farfugliava queste cose, si sforzò d'issarsi sui gomiti e con gli occhi sbarrati ed i
capelli ritti sul capo gridò contro di me in una maniera da far gelare il sangue. Mi strillò di distruggere la busta, di non aprirla; ed una volta ululò nel suo delirio che dovevo fare a pezzi il suo corpo e spargerne i resti ai quattro venti del cielo!» Un'incontrollata esclamazione di orrore mi sfuggì dalle labbra secche. «Alla fine,» continuò Conrad, «cedetti. Ricordando i suoi ordini di dieci anni prima, all'inizio mi opposi, ma poi, quando le sue urla divennero insopportabilmente disperate, mi girai per andare a prendere la busta anche se ciò significava lasciarlo da solo. Però mentre mi voltavo, con un'ultima spaventosa convulsione nella quale schiuma arrossata di sangue sgorgò dalle sue labbra frementi, la vita abbandonò il suo corpo contorto in un unico grande spasmo.» Armeggiò con i fogli di pergamena. «Voglio portare a termine la mia promessa. Le istruzioni contenute qui sembrano fantastiche e possono essere i capricci di una mente alterata, ma ho dato la mia parola. In breve si tratta di mettere il cadavere sul grande tavolo di ebano nero nella biblioteca attorniato da sette candele nere accese. Le porte e le finestre devono essere chiuse ermeticamente. Poi, nell'oscurità che precede l'alba, devo leggere la formula, incantesimo o magia che è contenuta in una busta sigillata più piccola all'interno della prima e che non ho ancora aperto.» «E questo è tutto?», strillai. «Nessuna indicazione riguardo il lascito delle sue fortune, la proprietà... o il suo cadavere?» «Nulla. Nel suo testamento, che ho visto da qualche altra parte, lascia la proprietà ed il suo patrimonio ad un certo gentiluomo orientale chiamato nel documento... Malik Tous!» «Cosa!», gridai, scosso fin nell'anima. «Conrad, questa è follia pura! Malik Tous... buon Dio! Nessun uomo mortale si è mai chiamato in quel modo! Quello è l'appellativo dell'orrendo dio adorato dai misteriosi Yezidis... quelli del Monte Alamout il Maledetto... le cui Otto Torri d'Ottone sorgono nel misterioso deserto dell'Asia centrale. Il suo simbolo idolatrato è il pavone d'ottone. Ed i maomettani, che odiano i suoi devoti adoratori del demonio, dicono che sia l'essenza del male di tutto l'universo... il principe delle Tenebre... Ahriman... l'antico Serpente... il vero Satana! E tu dici che Grimlan nomina questo mitico dèmone nel suo testamento?» «È la verità.» La gola di Conrad era secca. «E guarda... ha scarabocchiato una strana frase nell'angolo della pergamena: "Non scavatemi una fossa; non ne avrò bisogno."»
Nuovamente un brivido mi percorse la spina dorsale. «In nome di Dio,» gridai in una specie di frenesia, «vediamo di concludere questa incredibile vicenda!» «Credo che un goccio possa aiutare,» rispose Conrad, umettandosi le labbra. «Mi sembra di aver visto Grimlan cercare del vino in quell'armadietto...» Si chinò verso la porta ornata e scolpita di un armadietto in mogano, e con un po' di difficoltà la aprì. «Qui non c'è vino,» disse deluso, «e non ho mai avuto tanto bisogno di stimolanti come... e questo cos'è?» Tirò fuori un rotolo di pergamena, polveroso, ingiallito e ricoperto di ragnatele. Ogni cosa in quella casa sembrava, ai miei sensi nervosi ed eccitati, carica di misteriosi significati ed importanza, e mi sporsi oltre la spalla di Conrad mentre la srotolava. «È un almanacco nobiliare,» disse, «quelli delle cronistoria delle nascite, morti e così via, come erano solite conservare le vecchie famiglie nel sedicesimo secolo e prima.» «Qual è il nome?» chiesi. Scrutò gli scarabocchi sbiaditi, sforzandosi di comprendere lo scritto arcaico e scolorito. «G-r-y-m... ho capito... Grymlann, ovviamente. È la registrazione della famiglia del vecchio John - i Grymlann del Feudo della Brughiera del Rospo, Suffolk - che nome bizzarro per una tenuta! Guarda l'ultima annotazione.» Leggemmo assieme, «John Grymlann, nato il 10 marzo 1680.» E poi gridammo entrambi. Sotto quella riga era scritto, di fresco, con una strana scrittura scarabocchiata, «Morto il 10 marzo 1930.» Al di sotto c'era un sigillo di cera nera raffigurante uno strano disegno, simile ad un pavone con la coda spiegata. Conrad mi fissò senza parlare, tutto il colorito svanito dal suo viso. Mi scossi con la furia generata dalla paura. «Questa è lo scherzo di un folle!», gridai. «La scena è stata predisposta con tale e tanta cura che gli attori hanno superato se stessi. Chiunque essi siano, hanno assommato così tanti effetti incredibili da annullarli. È tutto molto stupido, un noioso dramma degli inganni.» E persino mentre parlavo il sudore gelido bagnò il mio corpo e tremai come se avessi la febbre. Con un gesto silenzioso Conrad si girò verso le scale prendendo una grossa candela da un tavolo di mogano. «Era sottinteso, suppongo,» sussurrò, «che dovessi affrontare questa
spaventosa faccenda da solo; però non ne avevo il coraggio morale, ed ora sono contento di non averlo avuto.» Un orrore immobile covava sulla casa silenziosa mentre salivamo le scale. Una debole brezza soffiò da qualche parte e fece frusciare le pesanti tende di velluto, e vidi furtive dita artigliate scostare i tendaggi ed avidi occhi rossi fissi su di noi. Una volta credetti di udire l'indistinto calpestio di piedi mostruosi provenire da qualche parte sopra di noi, ma doveva essere stato il pesante battito del mio cuore. Le scale portavano ad un ampio corridoio scuro nel quale la nostra flebile candela gettava un debole bagliore che illuminava appena i nostri volti pallidi rendendo, a confronto, le ombre più scure. Ci fermammo di fronte ad una pesante porta, ed udii Conrad inspirare intensamente come fa un uomo quando si prepara fisicamente o mentalmente. Strinsi involontariamente i pugni fino a quando le unghie non si conficcarono nei palmi; poi Conrad spalancò l'uscio. Un grido acuto gli sfuggì dalle labbra. La candela gli cadde dalle dita inerti e si spense. La biblioteca di John Grimlan era sfolgorante di luce sebbene l'intera casa fosse stata al buio quando vi entrammo. La luce proveniva da sette candele nere disposte ad intervalli regolari attorno al grande tavolo di ebano. Sul tavolo, tra le candele... mi ero preparato a quella vista. Però adesso, davanti alla misteriosa illuminazione ed alla vista della cosa sul tavolo, la mia fermezza per poco non svanì. John Grimlan era stato poco attraente in vita; da morto era orribile. Sì, era orribile persino con il volto pietosamente coperto dalla stessa curiosa veste di seta decorata con fantastici disegni raffiguranti uccelli, che copriva tutto il suo corpo tranne che le mani deformi e simili ad artigli e gli avvizziti piedi nudi. Un suono soffocato giunse da Conrad. «Mio Dio!», mormorò; «cosa è successo? Ho disteso il suo corpo sul tavolo ed ho disposto le candele attorno ad esso, ma non le ho accese e neppure ho coperto il corpo con quella veste! E c'erano delle pantofole ai suoi piedi quando lo lasciai...» Si fermò di all'improvviso. Non eravamo soli nella camera ardente. All'inizio non l'avevamo visto perché sedeva nella grande poltrona nell'angolo più lontano, così immobile che sembrava far parte delle ombre gettate dalle pesanti tende. Quando i miei occhi caddero su di lui venni colto da un tremito violento, ed una sensazione simile alla nausea mi sconvolse il fondo dello stomaco. La mia prima impressione fu di vividi occhi gialli ed obliqui che ci fissavano senza sbattere le palpebre. Poi l'uomo si
alzò e fece un profondo salaam, e vedemmo che si trattava di un orientale. Adesso, quando cerco di delinearlo con chiarezza nella mia mente, non riesco a ritrovare alcuna immagine chiara di quell'uomo. Ricordo solo quegli occhi penetranti e la fantastica veste gialla che indossava. Restituimmo meccanicamente il saluto e l'uomo parlò con una voce bassa e raffinata, «Signori, perdonatemi! Mi sono preso la libertà di accendere le candele... ma credo che dovremmo procedere con le disposizioni riguardanti il nostro comune amico.» Rivolse un lieve gesto verso la forma silenziosa sul tavolo. Conrad annuì, evidentemente incapace di parlare. Il pensiero sfrecciò nelle nostre menti nello stesso istante: anche a quest'uomo doveva essere stata consegnata una busta sigillata... ma come aveva fatto a raggiungere così rapidamente la casa di Grimlan? John Grimlan era morto da non più di due ore, e per quanto era a nostra conoscenza nessuno sapeva del suo decesso se non noi due. E come aveva fatto ad entrare nella casa chiusa e sprangata? L'intera faccenda era grottesca ed irreale all'estremo. Non ci eravamo neppure presentati od avevamo chiesto allo straniero come si chiamasse. L'uomo prese concretamente in mano la situazione, e così, sotto l'influsso dell'orrore e dell'illusione, fummo noi che ci muovemmo storditi obbedendo involontariamente ai suoi suggerimenti pronunciati con tono basso e rispettoso. Mi ritrovai sul lato sinistro del tavolo ad osservare Conrad con in mezzo lo spaventoso fardello. L'orientale era fermo, le braccia conserte ed il capo chino, al capo del tavolo, e neppure allora mi colpì il fatto che fosse strano che ci fosse lui in quella posizione invece di Conrad che doveva leggere ciò che Grimlan aveva scritto. Il mio sguardo venne attirato dal ricamo in seta nera sul petto della veste dello straniero... una figura curiosa, in qualche modo rassomigliante ad un pavone ed allo stesso tempo un pipistrello od un drago volante. Notai con un fremito che lo stesso disegno era ricamato sul drappo che copriva il cadavere. Le porte erano state chiuse a chiave, le finestre bloccate. Conrad, con mano tremante, aprì la busta interna e spiegò i fogli di pergamena che vi erano racchiusi. Sembravano molto più antichi di quelli che contenevano le istruzioni per Conrad nella busta più grande. Conrad iniziò a leggere con voce monotona che aveva un effetto ipnotizzante su chi ascoltava; così dopo un po' le candele sembrarono affievolirsi sotto il mio sguardo e la stanza ed i suoi occupanti fluttuare strani e mostruosi, velati e distorti come in una allucinazione. La maggior parte di ciò che lesse erano
farfugliamenti; non significavano nulla; eppure il loro suono e lo stile arcaico mi riempirono di un orrore intollerabile. «A codesto contratto registrato altrove, io, John Grymlann, juro ne lo Nome de lo Senza Nome de mantenere bona fede. Perciò io ora scrivo co lo sangue codeste parole, pronunziate da me in codesta cupa & silente sala ne la morta città de Koth, a cui niuno homo mortale è mai giunto tranne me. Codeste stesse parole ora da me scritte dovrian esser lette sopra lo meo corpo a lo tempo stabilito pel adempiere a la parte mea de codesto contratto che io iscrivo de mia libera sponte & consapevolezza, in piena sanitate de mente a cinquanta anni de età in codesto anno 1680, A.D. Inizia ora lo incantamento: «Prima che fosse l'homo, erano li Antichi, & anche in quello tempo il loro signore abitava ne le tenebre in cui se uno homo pone lo pede suo più non puote tornare su li passi sua.» Le parole si mescolavano ad un farfugliare barbarico mentre Conrad s'imbatteva in una lingua a lui non familiare... una parlata che suggeriva apparentemente il fenicio, ma vibrante con il tocco di un'odiosa antichità oltre ogni altra lingua terrena conosciuta. Una delle candele vibrò e si spense. Mi mossi per riaccenderla, ma un gesto del silenzioso orientale mi bloccò. I suoi occhi bruciarono nei miei, poi si rivolsero nuovamente verso la forma immobile distesa sul tavolo. Il manoscritto era nuovamente tornato al suo inglese arcaico. «...Et lo mortale che giunto in codesta nera cittadella de Koth & favella co lo suo Oscuro Signore lo cui viso è celato, pel uno prezzo puote ottenere desii mondani ch'egli brama, ricchezza & conoscenza oltre misura & vita ben oltre quella mortale de ducento et cinquanta anni.» Nuovamente la voce di Conrad si affievolì in suoni gutturali poco familiari. Un'altra candela si spense. «...Non permettere a codesto mortale di ritirarsi quando lo tempo de pagamento scade & li fochi de lo Inferno prenderanno possesso de la vita sua come segno de lo rendiconto. Poiché codesto Principe de le Tenebre avrà a la fine ciò che è a egli dovuto & frodato non verrà. Codeste cose abbiamo promesso, codeste cose dovranno essere consegnate. Augantha ne shuba...» Al primo suono di questo accento barbaro una fredda stretta di terrore si strinse attorno alla mia gola. I miei occhi frenetici si fissarono sulle candele e non fui sorpreso di vederne un'altra spegnersi. Eppure non c'era neppure un accenno di corrente d'aria che potesse muovere le pesanti tende nere.
La voce di Conrad tremò; si passò una mano sulla gola, momentaneamente soffocato. Gli occhi dell'orientale non mutarono mai. «...Tra li figli de li homini strane ombre sempre se aggirano. Li homini colgono tracce de li loro artigli, ma no li piedi che li tracciano. Sopra de le anime de li homini se librano grandi ali nere. Ma uno solo Maestro Oscuro esiste che li homini appellano Satana & Belzebù & Apolleon & Ahriman & Malik Tous...» Nebbie di orrore m'inghiottirono. Ero appena conscio della voce biascicante di Conrad ancora e ancora, sia in inglese sia in quell'altra lingua spaventosa il cui significato orrendo osavo appena immaginare. E con la paura allo stato puro che mi serrava il cuore, vidi le candele spegnersi, una alla volta. E con ciascuna di esse, mentre l'oscurità avanzava attorno a noi, il mio orrore aumentava. Non riuscivo a parlare, non potevo muovermi; i miei occhi dilatati erano fissi con angosciosa intensità sull'ultima candela rimasta. Il silenzioso orientale all'estremità di quel macabro tavolo faceva parte della mia paura. Non si era mosso, non aveva parlato, ma sotto le sue palpebre cascanti i suoi occhi ardevano di diabolico trionfo; sapevo che sotto quell'imperscrutabile esteriorità stava diabolicamente gioendo... ma perché... perché? Però sapevo che nel momento in cui lo spegnimento dell'ultima candela avrebbe immerso la stanza nella più completa oscurità, qualche abominevole fatto senza nome avrebbe avuto luogo. Conrad stava per raggiungere la fine. La sua voce si levò verso il culmine in un crescendo continuo. «Si appropinqua ora lo momento de lo pagamento. Li corvi stanno volando. Li pipistrelli volano contro lo cielo. Ci sono teschi ne le stelle. Codesta anima & corpore sono promessi et devono essere consegnati. Et non a la polvere et non a li elementi da cui sgorga la vita...» La candela ondeggiò leggermente. Cercai di gridare, ma la mia bocca si aprì in un muto balbettio. Cercai di fuggire, ma rimasi immobile, incapace persino di chiudere gli occhi. «...Li abissi si spalancano & lo debito sarà pagato. La luce svanisce, giungono le ombre. Non v'ha bene ma male; non luce ma tenebra; non speranza ma fine...» Un gemito vuoto risuonò nella stanza. Sembrava provenire dalla cosa coperta dal drappo sul tavolo! Il drappo si contorse spasmodicamente. «Oh, ali ne la nera oscuritate!» Sobbalzai violentemente; un debole fruscio risuonò tra le ombre addensate. L'agitarsi dei tendaggi neri? Sembrava simile al fruscio di ali gigante-
sche. «Oh, rossi occhi ne le ombre! Ciò che è promesso, ciò che è scritto co lo sangue è adempiuto! La luce è inghiottita da la oscuritate! Ya - Koth!» L'ultima candela si spense all'improvviso ed un terrificante grido inumano, che non proveniva dalle mie labbra o da quelle di Conrad, eruppe insopportabile. L'orrore mi sopraffece come una nera onda gelata; nella cieca oscurità sentii me stesso urlare in maniera terribile. Poi con un turbinio ed un grande fruscio di ali, qualcosa spazzò la stanza, scagliando in aria le tende e rovesciando sedie e tavoli facendoli schiantare sul pavimento. Per un istante un odore insopportabile bruciò le nostre narici, un basso e orrendo risolino ci sbeffeggiò nell'oscurità; poi il silenzio calò come un drappo funebre. In qualche modo Conrad trovò una candela e la accese. Il debole bagliore ci mostrò la stanza in una confusione spaventosa... ci mostrò i nostri reciproci volti spettrali... e ci mostrò il nero tavolo d'ebano... vuoto! Le porte e le finestre erano sbarrate come lo erano all'inizio, ma l'orientale era sparito... e così pure il cadavere di John Grimlan. Urlando come indemoniati abbattemmo la porta e fuggimmo freneticamente giù per le ripide scale dove l'oscurità sembrava stringersi con fredde dita nere. Mentre ci precipitavamo nell'ingresso al piano terra, un sinistro bagliore tagliò l'oscurità e l'odore del legno bruciato ci riempì le narici. La porta resistette momentaneamente ai nostri frenetici assalti, poi cedette e ci precipitammo all'esterno, sotto il cielo stellato. Dietro di noi le fiamme lingueggiavano con un ruggito schioccante mentre fuggivamo giù dalla collina. Conrad, dando un'occhiata alle spalle si fermò all'improvviso, si girò ed allungò il suo braccio come un pazzo urlando, «Vendette anima e corpo a Malik Tous, che è Satana, duecento cinquant'anni fa! Questa era la notte del pagamento... e mio Dio... guarda! Guarda! Il Diavolo si è preso ciò che gli appartiene!» Guardai, gelato dal terrore. Le fiamme avevano avviluppato l'intera casa con stupefacente rapidità, ed ora la grande massa si stagliava contro il cielo tenebroso in un inferno cremisi. E sopra l'olocausto si librava una gigantesca ombra nera, simile ad un mostruoso pipistrello, e nelle sue nere grinfie era stretta una piccola cosa bianca, simile al corpo di un uomo che penzolava flaccido. Poi, mentre urlavamo dal terrore, se ne andò ed i nostri sguardi fissi videro solo i muri vibranti ed il tetto in fiamme che crollò tra le fiamme con un ruggito spaventoso.
Titolo originale: Dig Me No Grave (Weird Tales, febbraio 1937) LA CASA DI ARABU Verso la casa da cui nessuno esce, Verso la strada da cui non vi è ritorno, Verso la casa i cui abitanti sono privi della luce, Il luogo dove la polvere è il loro nutrimento, il loro cibo è il fango, Essi non godono di alcuna luce, vivendo nella profonda oscurità, Tutto ciò di cui sono vestiti, come uccelli, sono abiti di piume, Dove, sopra cancelli e chiavistelli, la polvere è dispersa. Leggenda babilonese di Ishtar «Colui che ha visto uno spirito della notte, è colui che ascolta i sussurri di coloro che vivono nell'oscurità» Strane parole da mormorarsi nel salone delle feste di Naram-ninub, in mezzo alla melodia dei liuti, il picchiettio delle fontane e le risate argentine delle donne. La grande sala attestava la ricchezza del suo proprietario, non solo per le grandi dimensioni, ma per lo sfarzo delle sue decorazioni. Le pareti scintillanti offrivano una stupefacente varietà di colori - smalti blu, rossi ed arancio messi in risalto da riquadri di oro martellato. L'aria era pregna d'incenso mescolato alla fragranza di boccioli esotici che giungeva dai giardini esterni. I convitati, nobili di Nippur adorni di sete, erano adagiati su cuscini di velluto, bevevano vino versato da brocche d'alabastro, e carezzavano quei balocchi dipinti ed ingioiellati che la ricchezza di Naram-ninub aveva portato da tutte le parti dell'Oriente. Ve n'erano una ventina di queste bellezze: le loro braccia eburnee guizzanti mentre danzavano oppure splendenti come avorio tra i cuscini dove giacevano distese. Una tiara ingioiellata sistemata su di una lucida massa di capelli neri come la notte, un bracciale d'oro massiccio tempestato di gemme, orecchini di giada lavorata... questi erano i loro unici abiti. La loro fragranza era inebriante. Senza pudori nelle loro danze, festose e amoreggianti, le loro lievi risate riempivano la sala con rivoli di suoni argentini. Su di un'ampia piattaforma colma di cuscini era reclinato il dispensatore della festa, intento ad accarezzare sensualmente i riccioli lucidi di una snella araba distesa sul morbido ventre accanto a lui. L'apparente languore
sibaritico dell'uomo era tradito dal vitale luccichio dei suoi occhi scuri mentre controllavano gli ospiti. Era robusto, con una corta barba nero-blu: un semita... uno dei molti che giungevano annualmente a Shumir. Tranne una eccezione, tutti i suoi ospiti erano shumiri dal capo e dal mento rasati. I loro corpi erano abbigliati in maniera lussuosa, i loro lineamenti levigati e placidi. L'eccezione in mezzo ad essi formava un formidabile contrasto. Più alto dei shumiri, non aveva nulla della loro morbida eleganza. Era stato forgiato secondo i criteri di una Natura spietata. Il suo fisico era quello del primitivo e non dell'atleta civilizzato. Era un'incarnazione della Potenza, rude, dura, animalesca... nelle gambe robuste, il collo massiccio, il grande arco del petto, le solide ed ampie spalle. Sotto la sua dorata chioma arruffata gli occhi erano come ghiaccio azzurro. I lineamenti fortemente incisi riflettevano l'aura selvaggia che il suo fisico suggeriva. Attorno a lui non c'era nulla dell'ozio misurato degli altri ospiti, ma una brutale franchezza in ogni azione. Dove gli altri centellinavano, lui beveva in grandi sorsate. Loro piluccavano stuzzichini, mentre lui prendeva pezzi interi con le mani e strappava la carne con i denti. Eppure la sua fronte era corrucciata, l'espressione preoccupata. I suoi occhi magnetici erano meditabondi. Per questo il Principe Ibi-Engur mormorò nuovamente nell'orecchio di Naram-ninub: «Il nobile Pyrrhas ha per caso udito il sussurro delle creature della notte?» Naram-ninub guardò il suo amico con una certa preoccupazione. «Venite, mio signore,» disse, «siete stranamente turbato. Qualcuno qui presente vi ha forse recato offesa?» Pyrrhas si destò come da qualche oscura meditazione e scosse il capo. «Niente affatto, amico; se sembro distratto è perché un'ombra si libra sopra la mia mente.» Il suo accento era barbaro, ma il tono della voce era forte e vibrante. Gli altri lo fissarono con interesse. Era il generale dei mercenari di Eannatum, un Argive la cui saga era epica. «Si tratta di una donna, nobile Pyrrhas?», chiese il Principe Enakalli con una risata. Pyrrhas lo fissò con il suo sguardo tenebroso ed il principe provò un brivido gelido percorrergli la schiena. «Sì, è una donna,» borbottò l'Argive. «Una che mi perseguita nei sogni e fluttua come un'ombra tra me e la luna. Nei miei sogni sento i suoi denti affondare nel collo e mi desto ed odo lo sbattere delle ali ed il verso di un gufo.» Il silenzio cadde sopra il gruppo sulla piattaforma. Solo nella grande sala
sottostante si levava il vociare allegro delle conversazioni, l'arpeggiare dei liuti e la risata sonora, con una nota curiosa, di una fanciulla. «È stato colpito da una maledizione,» mormorò la ragazza araba. Naram-ninub la zittì con un gesto ed era sul punto di dire qualcosa quando Ibi-Engur parlò: «Mio signore Pyrrhas, questa faccenda ha un che di misterioso, come la vendetta di un dio. Avete fatto qualcosa che abbia offeso una divinità?» Naram-ninub si morse il labbro infastidito. Era risaputo che nella sua recente campagna contro Erech, l'Argive aveva abbattuto un prete di Anu nel suo tempio. La testa dalla folta chioma di Pyrrhas si alzò e fissò Ibi-Engur come se fosse indeciso se attribuire l'osservazione a malizia o a mancanza si tatto. Il principe iniziò ad impallidire, ma la snella ragazza araba si mise in ginocchio ed afferrò il braccio di Naram-ninub. «Guardate Belibna!» Indicò la ragazza che aveva riso così sfrenatamente un istante prima. I suoi compagni si stavano allontanando preoccupati da quella giovane donna. Lei non parlò o neppure sembrò vederli. Gettò all'indietro la testa ingioiellata e la sua risata stridula risuonò nel salone delle feste. Il suo corpo snello ondeggiò avanti e indietro, i braccialetti tintinnanti e stridenti allo stesso tempo quando sollevò le braccia candide. I suoi occhi scuri brillarono di una luce selvaggia, le labbra rosse si atteggiarono ad un'innaturale allegria. «La mano di Arabu è su di lei,» bisbigliò a disagio la ragazza araba. «Belibna!» Naram-ninub la chiamò bruscamente. La sola risposta che ottenne fu un'altra esplosione di risa sfrenate, poi la ragazza gridò in maniera stridula: «Verso la casa delle tenebre, la dimora di Malia; verso la strada da cui non c'è ritorno; oh, Apsu, come amaro è il tuo vino!» La voce della ragazza si spezzò in un grido terribile e balzando dai cuscini saltò sulla piattaforma con un pugnale in mano. Cortigiani ed invitati strillarono e si affrettarono caoticamente ad allontanarsi. Ma fu verso Pyrrhas che si diresse Belibna, il viso bellissimo stravolto da una maschera d'ira. L'Argive le afferrò il polso e l'abnorme forza della pazzia fu inutile contro i muscoli d'acciaio del barbaro. La scagliò lontano da sé, sui gradini ricoperti di cuscini, dove la giovane giacque in una massa accartocciata, il pugnale piantato nel suo cuore mentre cadeva. Il mormorio della conversazione, cessato improvvisamente, riprese di nuovo quando le guardie portarono via il corpo e le danzatrici dipinte ritornarono sui loro cuscini. Pyrrhas si girò e, preso il suo ampio mantello
cremisi da uno schiavo, se lo gettò sulle spalle. «Rimanete, amico mio,» lo implorò Naram-ninub. «Non permettete che queste piccole faccende interferiscano con i nostri festeggiamenti. La follia è una cosa comune.» Pyrrhas scosse irritato il capo. «No, sono stanco di bere e di rimpinzarmi. Andrò a casa mia.» «Allora il festino è finito,» dichiarò il semita, alzandosi e battendo le mani. «La mia lettiga personale ti porterà alla casa che il re ti ha dato... no, dimentico che detesti di essere portato a spalle da altri uomini. Allora ti scorterò io stesso a casa tua. Miei signori, ci accompagnerete?» «Camminare come uomini comuni?», balbettò il Principe Urilishu. «In nome di Enlil, verrò. Sarà una rara novità. Però devo avere uno schiavo che regga lo strascico del mio vestito, altrimenti lo trascinerei nella polvere della strada. Venite, amici, andiamo a vedere la casa del nobile Pyrrhas, per Ishtar!» «Un uomo strano,» borbottò Ibi-Engur rivolgendosi a Libitishbi, mentre la comitiva usciva dal grande palazzo e scendeva le scale dai larghi gradini sorvegliati da leoni di bronzo. «Cammina per la strada, senza scorta, come un vero mercante.» «Stai attento,» mormorò l'altro. «Egli è rapido ad adirarsi, ed è tenuto in grande considerazione da Eannatum.» «Eppure anche il favorito del re farebbe meglio a stare attento a non offendere il dio Anu,» replicò Ibi-Engur con voce altrettanto cauta. Il gruppo stava procedendo tranquillamente lungo l'ampia strada bianca, fissati a bocca aperta dalla gente comune che chinava le teste rasate mentre passavano. Il sole non era sorto da molto, ma la gente di Nippur era già desta. L'andirivieni tra le bancarelle dove i venditori mettevano in mostra le loro mercanzie era notevole: un panorama mutevole, fatto di artigiani, commercianti, schiavi, prostitute e soldati dagli elmetti di bronzo. Là un mercante usciva dal suo magazzino, una secca figura in una sobria veste di lana ed un mantello bianco; là si affrettava uno schiavo con una tunica di lino; là passeggiava una monella truccata la cui corta gonna con gli spacchi metteva in mostra ad ogni passo i suoi fianchi snelli. Sopra tutti, il blu del cielo, imbiancato dal calore del sole crescente. Le brillanti superfici degli edifici scintillavano. Avevano i tetti piatti, alcuni erano alti tre o quattro piani. Nippur era una città dai mattoni seccati al sole, ma le sue facciate smaltate la rendevano un tumulto di colori vivaci. Da qualche parte un sacerdote stava cantilenando: «Oh, Babbat, il giusto
solleva verso di te il suo capo...» Pyrrhas imprecò sottovoce. Stavano passando accanto al grande tempio di Enlil, che torreggiava per quasi cento metri nell'immutabile cielo azzurro. «La torre si staglia contro il cielo come se ne facesse parte,» imprecò, scostando una ciocca sudata dalla fronte. «Il cielo è smaltato, e questo è un mondo creato dall'uomo.» «No, amico,» obiettò Naram-ninub. «Ea creò il mondo dal corpo di Tiamat.» «Io dico che gli uomini costruirono Shumir!», esclamò Pyrrhas, il vino bevuto che gli offuscava gli occhi. «Una terra piatta - una landa piatta come una tavola - con fiumi e città dipinte su di essa ed un cielo di smalto blu sopra ogni cosa. Per Ymir, io nacqui in una terra che costruirono gli dèi! Ci sono grandi montagne blu, con in mezzo valli distese come lunghe ombre, e picchi nevosi scintillanti al sole. I fiumi scorrono spumeggianti ed in perenne tumulto dalle cime e le ampie foglie degli alberi si scuotono al forte vento.» «Anch'io nacqui in una terra vasta, Pyrrhas,» rispose il semita. «Di notte il deserto si stende bianco e terribile sotto la luna, e di giorno si allunga in una scura infinità sotto il sole. Però è nelle brulicanti città degli uomini, questi alveari di bronzo e di oro, di smalti e di umanità, che si trovano ricchezze e gloria.» Pyrrhas era sul punto di parlare, quando degli alti lamenti attrassero la sua attenzione. Lungo la via stava giungendo una processione che portava una lettiga scolpita e decorata sulla quale giaceva una figura coperta di fiori. Era seguita da un corteo di giovani donne dai succinti vestiti lacerati ed i capelli neri scarmigliati. Si battevano il petto nudo e gridavano: «Ailanu! Thammuz è morto!» La folla nella strada fece eco alle grida. La lettiga passò ondeggiando sulle spalle dei portatori; tra l'alta pila di fiori brillavano gli occhi dipinti di un'immagine scolpita. Le grida dei fedeli echeggiarono lungo la via, svanendo in lontananza. Pyrrhas si strinse nelle poderose spalle. «Ben presto danzeranno e salteranno e grideranno, "Adonis è vivo!", e le ragazzine che adesso ululano così disperatamente si daranno agli uomini nelle strade per l'esaltazione. Quanti dèi ci sono, per l'inferno?» Naram-ninub indicò la grande ziggurat di Enlil, che dominava sulle altre come il brutto sogno di un dio folle. «Vedi i sette gradoni: quello più basso nero, il successivo di smalto ros-
so, il terzo blu, il quarto arancione, il quinto giallo, mentre il sesto è laminato d'argento ed il settimo è di oro puro che sfolgora sotto il sole? Ogni gradone del tempio simboleggia una divinità: il sole, la luna ed i cinque pianeti che Enlil e la sua tribù hanno posto nel cielo come loro simboli. Però Enlil è più grande di tutti, e Nippur è la sua città favorita.» «Più grande di Anu?», borbottò Pyrrhas rammentando un tempio in fiamme ed un sacerdote morente esalare una minaccia terribile. «Qual è la gamba più importante di un tripode?», ribatté Naram-ninub. Pyrrhas aprì la bocca per replicare, poi balzò all'indietro imprecando, la sua spada lampeggiante sguainata. Proprio sotto i suoi piedi si levò un serpente, la lingua biforcuta guizzante come una saetta rossa. «Cosa succede, amico mio?» Naram-ninub e i principi lo fissarono con sorpresa. «Cos'è questo?», imprecò. «Non vedete quel serpente sotto i vostri piedi? Fatevi da parte e fatemi sferrare un bel colpo...» La sua voce si spezzò ed i suoi occhi si annebbiarono per il dubbio. «Se n'è andato,» mormorò. «Non ho visto nulla,» disse Naram-ninub, e gli altri scossero le loro teste scambiandosi occhiate stupite. L'Argive si passò una mano sugli occhi, scuotendo il capo. «Forse è il vino,» borbottò. «Eppure c'era una vipera, lo giuro in nome di Ymir. Sono stato maledetto.» Gli altri si allontanarono da lui, fissandolo stranamente. C'era sempre stata inquietudine nell'animo di Pyrrhas l'Argive, a perseguitare i suoi sogni e condurlo nelle sue lunghe peregrinazioni. Lo aveva portato dalle montagne azzurre della sua razza verso Sud, nelle fertili valli e pianure bagnate dal mare dove sorgevano le capanne dei Micenei; poi da lì nell'isola di Creta dove, in una rozza città di pietra grezza e legno, un popolo di pescatori dalla pelle scura barattava con le navi egiziane; con quelle navi era andato in Egitto, dove gli uomini lavoravano sotto la frusta per erigere le prime piramidi, e dove, nelle fila dei mercenari dalla pelle bianca, gli Shardana, apprese le arti della guerra. Però la sua smania di girovagare lo portò nuovamente sul mare, fino ad un villaggio dalle mura di fango sulle coste dell'Asia chiamato Troia, da dove si spostò a Sud, nel saccheggio e nel massacro della Palestina i cui abitanti originari furono calpestati dai barbari Caananiti provenienti dall'Oriente. Così, per vie tortuose, giunse finalmente nelle piane di Shumir, dove una città combatteva l'altra ed i sacerdoti di una miriade di dèi rivali intrigavano e complottava-
no, come avevano fatto dall'alba dei Tempi e come avrebbero fatto per i secoli seguenti, fino all'ascesa di una oscura città di frontiera chiamata Babilonia che esaltò il suo dio Merodach sopra tutti gli altri come BalMarduk, il conquistatore di Tiamat. Il semplice riassunto della saga di Pyrrhas l'Argive è annacquato e insignificante; non riesce a catturare gli echi dei fasti roboanti che si accavallano per il suo intero svolgimento: le feste, le gozzoviglie, le guerre, lo scontro ed il frantumarsi delle navi e l'assalto dei carri da guerra. Sarà sufficiente dire che l'onore dei re fu concesso all'Argive, e che in tutta la Mesopotamia non vi era alcun uomo più temuto di questo barbaro dalla chioma dorata, la cui perizia in guerra e furia spezzò le schiere di Erech sul campo ed il giogo di Erech dal collo di Nippur. Da un capanna tra i monti ad un palazzo di giada e d'avorio, la saga aveva condotto Pyrrhas. Eppure i cupi sogni semianimaleschi che riempivano i suoi sonni quando dormiva da giovane su di una pila di pelli di lupo nella capanna di suo padre non erano nulla di tanto strano e mostruoso confrontati con i sogni che lo ossessionavano sui divani di seta nel palazzo di Nippur dalle torri turchesi. E fu da questi sogni che Pyrrhas si destò improvvisamente. Nessuna lampada ardeva nella sua stanza e la luna non si era ancora levata, ma il chiarore delle stelle filtrava debolmente attraverso la finestra. Ed in questa luce qualcosa si mosse e prese forma. Era la vaga sagoma di una figura snella, il baluginio di un occhio. All'improvviso la notte si abbatté oppressivamente calda ed immobile. Pyrrhas udì il pulsare del suo sangue nelle vene. Perché temere una donna nascosta nella camera? Però nessuna forma femminile era mai stata così felinamente flessuosa; nessun occhio di donna bruciava mai così nell'oscurità. Con un ringhio soffocato l'uomo balzò dal suo giaciglio e la spada sibilò quando tagliò l'aria... ma solo quella. Qualcosa di simile ad una risata beffarda gli raggiunse le orecchie, ma la figura era svanita. Una ragazza entrò velocemente con un lume. «Amytis! L'ho vista! Questa volta non era un sogno! Ha riso di me dalla finestra!» Amytis tremò mentre poggiava il lume su di un tavolo d'ebano. Era una creatura levigata e sensuale dagli occhi dalle lunghe ciglia e le palpebre pesanti, le labbra passionali ed una cascata di riccioli neri. Mentre era là, nuda, la voluttà della sua figura avrebbe eccitato anche il più spossato dei debosciati. Dono di Eannatum, la ragazza odiava Pyrrhas, e lui lo sapeva,
ma trovava una rabbiosa gratificazione nel possederla. Però ora l'odio della ragazza era soffocato dal terrore. «Era Lilitu!», balbettò. «Ti ha designato come sua preda! Lei è lo spirito della notte, la compagna di Ardat Lili. Essi dimorano nella Casa di Arabu. Sei stato maledetto!» Le mani di Pyrrhas erano bagnate di sudore; ghiaccio fuso sembrava scorrere lentamente nelle sue vene al posto del sangue. «A chi mi devo rivolgere? I sacerdoti mi odiano e mi temono da quando ho bruciato il tempio di Anu.» «C'è un uomo che non è legato alla religione e che potrebbe aiutarti,» balbettò lei. «Allora dimmi chi è!» Pyrrhas era galvanizzato e tremava con scalpitante impazienza. «Il suo nome, ragazza! Il suo nome!» Però, di fronte a questo segno di debolezza, la malizia ritornò in lei: aveva rivelato ciò che aveva in mente, in preda al panico per il sovrannaturale. Adesso si era nuovamente destata in lei tutto il suo spirito di vendetta. «L'ho dimenticato,» rispose insolentemente,: suoi occhi che brillavano con rancore. «Sgualdrina!» Ansando per la violenza della sua collera, Pyrrhas la afferrò attraverso il giaciglio per i folti ricci. Prendendo il cinturone della spada, la colpì con forza selvaggia, trattenendo il corpo tremante e nudo con l'altra mano. Ogni colpo era simile all'impatto della frusta di un mandriano. Era così disorientato dalla furia, mentre la ragazza era resa così incoerente dal dolore, che inizialmente non capì che Amytis stava strillando un nome con la voce tesa allo spasimo. Quando ebbe finalmente capito, Pyrrhas la scagliò lontano da sé, facendola cadere come un fagotto singhiozzante sul pavimento coperto di stuoie. Tremando ed ansando per l'eccesso di collera. Pyrrhas gettò di lato il cinturone e fissò Amytis. «Gimil-ishbi, eh?» «Sì!», piagnucolò lei, strisciando al suolo nella sua torturante angoscia. «Era un sacerdote di Enlil fino a quando non si diede alla stregoneria e venne bandito. Ahhh, svengo! Vengo meno! Pietà! Pietà!» «E dove posso trovarlo?», domandò Pyrrhas. «Al tumulo di Enzu, ad Ovest della città. Oh, Enlil, sono stata scorticata viva! Muoio!» Allontanandosi da lei, rapidamente Pyrrhas indossò i suoi abiti e l'armatura senza neppure chiamare uno schiavo per aiutarlo. Uscì di casa, passando in mezzo ai servi addormentati senza svegliarli e prese il migliore
dei suoi cavalli. Di questi ve n'erano forse una ventina in tutta Nippur, di proprietà del re e dei suoi nobili più facoltosi; erano tutti stati acquistati dalle tribù selvagge molto a Nord, oltre il Caspio, che in epoche successive gli uomini avrebbero chiamato Sciti. Ciascuna cavalcatura rappresentava una vera fortuna. Pyrrhas mise le briglie all'imponente animale ed assicurò la sella, un semplice panno imbottito, decorato e riccamente ornato. I soldati ai cancelli della città rimasero a bocca aperta nel vederlo quando si fermò ed ordinò loro di aprire i grandi portali di bronzo, ma s'inchinarono ed obbedirono senza discutere. Il suo mantello cremisi fluttuò dietro di lui quando galoppò attraverso di essi. «Enlil!», imprecò un soldato. «L'Argive ha bevuto troppo del vino egiziano di Naram-ninub.» «No,» rispose un altro; «hai visto il suo viso, così pallido, e le sua mani che tremavano stringendo le redini? È stato toccato dagli dèi, e forse sta andando verso la Casa di Arabu.» Scuotendo dubbiosamente le loro teste con l'elmetto, ascoltarono il rumore degli zoccoli svanire verso Occidente. A Nord, Sud ed Est di Nippur, capanne di contadini, villaggi e palmeti punteggiavano la piana solcata dal reticolo di canali che univano i fiumi. Ma ad Ovest, verso l'Eufrate, la terra era deserta e silenziosa, solamente una distesa bruciata che narrava di villaggi passati. Poche lune prima, predoni erano sciamati dal deserto in un'ondata che aveva spazzato i vigneti e le capanne e si era infranta contro le vacillanti mura di Nippur. Pyrrhas rammentò i combattimenti lungo le mura e la battaglia sulla pianura, quando la sortita a capo delle sue falangi aveva spezzato l'assedio ed aveva costretto i predoni ad una fuga precipitosa fin oltre il Grande Fiume, Poi la pianura si era arrossata dal sangue ed annerita per il fumo. Adesso era già screziata di verde quando il grano, abbandonato dall'uomo, aveva iniziato a germogliare. Ma i contadini che avevano piantato quel grano erano andati nella terra del crepuscolo e dell'oscurità. Già il flusso da distretti più popolosi si stava riversando nel deserto creato dall'uomo. Pochi mesi, un anno al massimo, e la campagna avrebbe nuovamente assunto il tipico aspetto della pianura mesopotamica, brulicante di villaggi e quadrettata da piccoli campi più simili a giardini che a fattorie. Gli uomini avrebbero coperto le cicatrici che altri uomini avevano causato e avrebbero dimenticato sino a quando i predoni non fossero usciti di nuovo dal deserto. Però ora la pianura era spoglia e silenziosa, i canali ostruiti, rovinati e vuoti.
Qua e là si levavano i resti di palmeti e rovine crollate di ville e di palazzi di campagna. Ancora oltre, appena visibile sotto le stelle, si ergeva la misteriosa collinetta conosciuta come il tumulo di Enzu... la luna. Non era una collina naturale, ma quali mani l'avessero costruita e per quale ragione, nessuno lo sapeva. Prima che Nippur venisse fondata il tumulo si levava sulla pianura, e le mani senza nome che le avevano dato forma erano svanite nella polvere del tempo. Verso questa Pyrrhas girò la testa del cavallo. E nella città che aveva lasciato, Amytis abbandonò furtivamente il palazzo di Pyrrhas e prese una via tortuosa verso una certa destinazione segreta. Camminava piuttosto rigida, zoppicando e fermandosi di frequente per accarezzare delicatamente la sua persona, lamentandosi per le ferite. Però nonostante zoppicasse, imprecasse e piangesse, riuscì finalmente a raggiungere la sua destinazione e si trovò di fronte ad un uomo la cui ricchezza e potenza era grande a Nippur. Lo sguardo dell'uomo era interrogativo. «È andato al Tumulo della Luna, per parlare con Gimil-ishbi,» disse la ragazza. «Lilitu è venuta da lui nuovamente questa notte,» aggiunse rabbrividendo e dimenticando momentaneamente il dolore e la collera. «È stato veramente maledetto.» «Dai sacerdoti di Anu?» Gli occhi dell'uomo si strinsero diventando una fessura. «Così lui sospetta.» «E tu?» «Io? Non lo so, né mi importa.» «Ti sei mai chiesta perché ti pago per spiarlo?», le domandò. La ragazza fece spallucce. «Mi pagate bene; questo mi basta.» «Perché va da Gimil-ishbi?» «Gli ho detto che quel rinnegato potrebbe essere in grado di aiutarlo contro Lilitu.» Un'ira improvvisa rese cupamente sinistro il viso dell'uomo. «Credevo lo odiassi.» La ragazza si ritrasse di fronte alla minaccia nella voce. «Ho parlato del negromante prima di pensarci, e poi mi ha costretta a fare il suo nome, che sia maledetto; non potrò sedermi bene per settimane!» Il suo rancore la fece rimanere momentaneamente senza voce. L'uomo la ignorò, intento nelle sue cupe meditazioni. Alla fine si alzò con improvvisa determinazione. «Ho atteso troppo a lungo,» mormorò come qualcuno che esprime a vo-
ce alta i suoi pensieri. «I dèmoni si divertono con lui mentre io sono qui a rosicchiarmi le unghie e coloro che cospirano con me diventano impazienti e sospettosi. Solo Enlil sa quale consiglio fornirà Gimil-ishbi. Quando sorgerà la luna cavalcherò fuori città e cercherò l'Argive nella pianura. Un colpo inatteso... non sospetterà di nulla fino a quando la mia spada non lo avrà trapassato. Una lama di bronzo è più efficace dei poteri delle Tenebre. Sono stato uno sciocco a fidarmi persino di un demonio.» Amytis gemette per il terrore e si sostenne ai tendaggi di velluto. «Voi? Voi?» Le labbra della giovane atteggiarono una domanda troppo terribile da poter essere espressa. «Sì!» Le accordò un'occhiata di cupo divertimento. Con un gemito di terrore Amytis si precipitò oltre la porta ornata di tende, le sue sofferenze dimenticate per la paura. Se la caverna fosse stata scavata dall'uomo o dalla Natura, nessuno lo sapeva. Comunque le pareti, pavimento e soffitto erano simmetrici e composti da blocchi di pietra verdastra che non si trovavano da nessuna altra parte in quel piatto territorio. Qualunque fosse la causa e l'origine, adesso l'uomo la occupava. Una lampada penzolava dal soffitto in pietra, gettando una bizzarra luce nella camera e sul cranio calvo dell'uomo che sedeva chino su di un rotolo di pergamena disteso sul tavolo di pietra di fronte a lui. Alzò lo sguardo quando un passo rapido e sicuro risuonò sui gradini di pietra che conducevano alla sua dimora. L'istante successivo un'alta figura si erse distintamente sulla soglia. L'uomo seduto al tavolo di pietra scrutò la figura con avido interesse. Pyrrhas indossava un usbergo di cuoio nero e scaglie di rame; i suoi gambali d'ottone brillavano alla luce della lampada. L'ampio mantello cremisi, tenuto allentato attorno alla figura, non nascondeva la lunga elsa che sporgeva dalle sue pieghe. In ombra, a causa del elmo bronzeo e cornuto, gli occhi dell'Argive scintillavano gelidi. Così il guerriero fronteggiò il saggio. Gimil-ishbi era molto vecchio. Non c'erano note di sangue semita nelle sue vene rinsecchite. La testa calva era rotonda come quella di un avvoltoio ed il suo grande naso sporgeva come il becco di un rapace. I suoi occhi erano obliqui, una rarità persino tra i shumiri purosangue, ed erano neri e brillanti come perle. Mentre gli occhi di Pyrrhas erano profondissimi, come gli abissi blu e le nubi in movimento e le ombre, quelli di Gimil-ishbi erano opachi come giaietto ed immutabili. La bocca era un taglio il cui sor-
riso era peggiore del suo ringhio. Indossava una semplice tunica nera, ed i suoi piedi, calzati di sandali di stoffa, sembravano stranamente deformi. Pyrrhas provò un curioso formicolio tra le scapole quando osservò quei piedi e distolse lo sguardo, rivolgendolo nuovamente al volto sinistro. «Degnatevi di entrare nella mia umile dimora, guerriero.» La voce era delicata e suadente, risuonando strana da quelle aspre labbra sottili. «Vorrei potervi offrire cibo e bevande, ma temo che il cibo che mangio ed il vino che bevo troverebbero scarso gradimento da parte vostra.» Rise debolmente come per un'oscura facezia. «Non sono venuto per bere o mangiare,» rispose Pyrrhas bruscamente, avvicinandosi al tavolo. «Sono venuto per acquistare un amuleto contro i diavoli.» «Per acquistare?» L'Argive vuotò una borsa di monete d'oro sulla superficie di pietra; queste brillarono opache alla luce del lume. La risata di Gimil-ishbi fu simile al fruscio di un serpente nell'erba secca. «Cos'è questa porcheria gialla per me? Parli di diavoli e mi porti polvere che il vento spazza via.» «Polvere?» Pyrrhas si accigliò. Gimil-ishbi posò le mani sul mucchio scintillante e rise; da qualche parte nella notte, un gufo emise il suo verso. Il sacerdote sollevò le mani. Sotto si trovava un mucchietto di polvere gialla che luccicava opaco alla luce del lume. Un vento improvviso soffiò lungo i gradini facendo oscillare il lume e spazzando via il mucchietto dorato; per un istante l'aria fu abbagliata e risplendette di luccicanti particelle. Pyrrhas imprecò; la sua armatura venne spruzzata di polvere gialla; scintillava tra le scaglie del suo usbergo. «Polvere che il vento spazza via,» mormorò il sacerdote. «Siediti, Pyrrhas di Nippur, e conversiamo tra di noi.» Pyrrhas si guardò attorno nella piccola stanza; vide le ordinate pile di tavolette di argilla lungo le pareti ed i rotoli di papiro sopra di queste. Poi si sedette sulla panca in pietra di fronte al sacerdote, muovendo bruscamente il cinturone della spada così da portare l'elsa di fronte a sé. «Sei lontano dalla culla del tuo popolo,» disse Gimil-ishbi. «Sei il primo vagabondo dai capelli dorati a percorrere le piane di Shumir.» «Ho vagato in molte lande,» borbottò l'Argive, «ma che gli avvoltoi possano banchettare con le mie ossa se non ho mai visto una razza più diabolica di questa od una terra governata ed assillata da così tanti dèi e demo-
ni.» Il suo sguardo era fisso, affascinato, sulle mani di Gimil-ishbi; queste erano lunghe, strette, bianche e forti, le mani di un giovane. Il loro contrasto con l'aspetto di avanzata età del sacerdote era vagamente inquietante. «Ad ogni città i suoi dèi ed i loro sacerdoti,» rispose Gimil-ishbi; «e tutti falsi. Cosa contano dèi le cui fortune dipendono dagli uomini? Dietro tutti gli dèi degli uomini, dietro la originaria trinità di Ea, Anu ed Enlil, si celano gli dèi primordiali, immutati dalle guerre o dalle ambizioni degli uomini. L'uomo nega ciò che non vede. I sacerdoti di Eridu, che è sacra ad Ea ed alla luce, non sono più ciechi di quelli di Nippur, che è consacrata ad Enlil, che essi credono il signore delle Tenebre. Però lui è solo il dio dell'oscurità di cui sognano gli uomini, non delle vere Tenebre che si celano dietro tutti i sogni e copre le orribili e vere divinità. Ebbi una fugace apparizione di questa verità quando ero un sacerdote di Enlil, perciò mi scacciarono. Ah! Come mi fisserebbero stupiti se sapessero quanti dei loro fedeli vengono furtivamente da me di notte, così come sei giunto tu.» «Non vado furtivamente da nessuno!», si incollerì istantaneamente l'Argive. «Sono venuto per comprare un amuleto. Dimmi il tuo prezzo e vai al diavolo.» «Non essere adirato,» sorrise il sacerdote. «Dimmi perché sei venuto.» «Se sei così maledettamente saggio dovresti già saperlo,» ringhiò l'Argive, niente affatto placato. Poi il suo sguardo si offuscò quando ritornò a parlare della sua tormentata vicenda. «Qualche stregone mi ha fatto il malocchio,» borbottò. «Mentre facevo ritorno dal mio trionfo su Erech, il mio cavallo da guerra nitrì e scartò. Qualcosa che nessuno vide tranne me. Poi i miei sogni divennero strani e mostruosi. Nell'oscurità della mia camera, frusciarono ali e piedi camminarono furtivi. Ieri una donna ad una festa impazzì e cercò di accoltellarmi. Più tardi un serpente sbucò dal nulla e cercò di colpirmi. Infine questa notte, l'essere chiamato Lilitu venne nella mia camera e mi schernì con una terribile risata...». «Lilitu?» Gli occhi del sacerdote si accesero di un debole fuoco; il suo viso scheletrico si atteggiò ad uno spettrale sorriso. «In verità guerriero, stanno cercando la tua rovina nella Casa di Arabu. La tua spada non può sconfiggere lei od il suo compagno, Ardat Lili. Nel buio della notte i suoi denti troveranno la tua gola. La sua risata ti distruggerà le orecchie ed i suoi baci ardenti ti faranno avvizzire come una foglia morta soffiata dai caldi venti del deserto. Pazzia e dissoluzione saranno il tuo destino e tu discenderai nella Casa di Arabu, da cui nessuno ritorna.»
Pyrrhas si mosse inquieto, imprecando incoerentemente tra sé. «Cosa posso offrirti oltre all'oro?», ringhiò. «Molto!», gli occhi neri brillarono; il taglio della bocca si contorse in una gioia inspiegabile. «Però sono io che devo stabilire il prezzo dopo che ti avrò fornito l'aiuto che cerchi.» Pyrrhas acconsentì con un gesto impaziente. «Chi sono gli uomini più sapienti della terra?», chiese improvvisamente il saggio. «I sacerdoti egizi, che scrissero sulle pergamene Jà,» rispose l'Argive. Gimil-ishbi scosse il capo; la sua ombra cadde sulla parete simile a quella di un grande avvoltoio appollaiato su di una vittima morente. «Nessuno è più saggio dei sacerdoti di Tiamat, che gli sciocchi credono morta tempo fa sotto la spada di Ea. Tiamat è immortale; ella regna nelle ombre; ella allargale sue ali nere sui suoi adoratori.» «Non li conosco,» borbottò a disagio Pyrrhas. «Le città degli uomini non li conoscono; però i luoghi desolati sì, le paludi colme di canne, i deserti pietrosi, le colline e le caverne. Per loro rubano gli alati dalla Casa di Arabu.» «Credevo che nessuno venisse da quella Casa,» disse l'Argive. «Nessun umano ritorna da là. Però i servi di Tiamat vanno e vengono a loro piacimento.» Pyrrhas era silenzioso, meditando sul regno dei morti così come lo immaginavano i shumiri: un'enorme caverna polverosa, scura e silenziosa, nella quale vagavano per l'eternità le anime dei morti, prive di tutti gli attributi umani, tristi e senza affetti, ricordando le loro vite passate solo per odiare tutti gli uomini in vita, le loro imprese e sogni. «Ti aiuterò,» mormorò il sacerdote. Pyrrhas sollevò il capo cinto dall'elmo e lo fissò. Gli occhi di Gimil-ishbi non erano più umani del riflesso della luce di fuochi in pozze sotterranee nere come l'inchiostro. Le sue labbra risucchiarono l'aria quasi stesse godendo di tutte le miserie ed i dolori dell'umanità. Pyrrhas lo odiava come un uomo odia il serpente nascosto nell'oscurità. «Aiutami e stabilisci il tuo prezzo,» disse l'Argive. Gimil-ishbi chiuse le mani e poi le riaprì, e nel palmo si trovava uno scrigno d'oro il cui coperchio era chiuso da un fermo ingioiellato. Alzò il coperchio e Pyrrhas vide che lo scrigno era pieno di polvere grigia. Rabbrividì senza saperne il perché. «Questa polvere finissima, un tempo era il cranio del primo re di Ur,»
disse Gimil-ishbi. «Quando egli morì, come persino i negromanti devono, nascose il suo corpo grazie a tutte le sue arti. Però io trovai le sue ossa sbriciolate e nelle tenebre che le sovrastavano combattei con la sua anima come un uomo lotta con un pitone nella notte. Il mio bottino fu il suo teschio, che conteneva segreti più oscuri di quelli che si trovano negli inferi dell'Egitto. «Con questa polvere di morto tu intrappolerai Lilitu. Dirigiti rapidamente in un luogo chiuso - una caverna od una stanza - no, la villa in rovina che si trova tra questo posto e la città farà alla bisogna. Spargi la polvere in linee sottili attraverso la soglia e le finestre; non lasciare scoperto più di un palmo in larghezza. Poi distenditi come se dormissi. Quando Lilitu entrerà, come farà, recita le parole che ti insegnerò. Da quel momento tu sarai il suo padrone, fino a quando non la libererai ripetendo l'incantesimo al contrario. Non puoi ucciderla, ma puoi costringerla a giurare di lasciarti in pace. Falla giurare sulle mammelle di Tiamat. Adesso avvicinati e ti sussurrerò la formula dell'incantesimo.» Da qualche parte nella notte, un uccello senza nome stridette aspramente; il suono era più umano del bisbigliare del sacerdote, che adesso non era più forte dello strisciare di una vipera nel fango. Si ritrasse, il taglio della sua bocca contorto in un macabro sorriso. L'Argive rimase seduto per un istante simile ad una statua di bronzo. Le loro ombre si stagliarono assieme sulla parete con l'aspetto di un avvoltoio appollaiato fronteggiante uno strano mostro cornuto. Pyrrhas prese lo scrigno e si alzò, avvolgendo il mantello cremisi attorno alla sua tetra figura, l'elmo cornuto che forniva l'illusione di un'altezza anormale. «Ed il prezzo?» Le mani di Gimil-ishbi divennero artigli tremanti per la bramosia. «Sangue! Una vita!» «Quale vita?» «Una qualunque! Così che il sangue sgorghi e ci sia paura e agonia, uno spirito strappato della sua carne vibrante! Ho un solo prezzo per ogni cosa... una vita umana! La morte è la mia estasi; sazierò la mia anima sulla morte! Uomo, fanciulla, o bambino. Hai giurato. Mantieni fede alla tua promessa! Una vita! Una vita umana!» «Sicuro, una vita!» La spada di Pyrrhas tagliò l'aria in un arco lampeggiante e la testa da avvoltoio di Gimil-ishbi cadde sul tavolo di pietra. Il corpo si sollevò verso l'alto spruzzando sangue nero, poi si accasciò sulla
pietra. La testa rotolò lungo la superficie e cadde sordamente sul pavimento, i lineamenti fissi verso l'alto, congelati in una maschera di orribile sorpresa. All'esterno risuonò un nitrito terrorizzato quando lo stallone di Pyrrhas spezzò le redini e sfrecciò impazzito nella pianura. Dalla sala illuminata fiocamente, dalle tavolette dai misteriosi caratteri cuneiformi, dai papiri dagli oscuri geroglifici e dai resti del misterioso sacerdote, fuggì Pyrrhas. Mentre risaliva le scale intagliate ed emergeva alla luce delle stelle, dubitò del suo stesso raziocinio. Lontano, sulla pianura, stava sorgendo una luna rosso opaca, cupa e livida. Un caldo opprimente ed il silenzio stringevano quel luogo. Pyrrhas sentì il sudore freddo imperlargli la pelle; il sangue era una lenta corrente di ghiaccio nelle sue vene; la lingua era incollata al palato. L'armatura lo opprimeva ed il suo mantello era simile ad una rete avvolgente. Imprecando incoerentemente se lo strappò di dosso; sudando e tremando si liberò dell'armatura, pezzo per pezzo e la gettò via. In preda alla sua paura abissale era ritornato allo stato primitivo. La maschera della civiltà era svanita. Nudo tranne che per un perizoma e la spada cinta sui fianchi, si mosse lungo la pianura portando lo scrigno dorato sotto il braccio. Nessun suono disturbava il silenzio d'attesa quando giunse alla villa in rovina, le cui mura si ergevano barcollanti tra cumuli di macerie. Una sola stanza rimaneva in piedi tra quella rovina generale, lasciata praticamente intatta per qualche capriccio del caso. Solo la porta era stata divelta dai cardini di bronzo. Pyrrhas entrò. La luce della luna lo seguì e profuse una debole luminescenza oltre l'ingresso. C'erano tre finestre, chiuse con sbarre d'oro. Con parsimonia sparse una sottile linea grigia attraverso la soglia. A ciascuna finestra venne riservato un trattamento simile. Poi gettando di lato lo scrigno vuoto, si distese su di un piano rialzato, spoglio e avvolto dalle ombre. Il suo irragionevole orrore era sotto controllo. Lui, che era stato il cacciatore, adesso era la preda. La trappola era predisposta, e Pyrrhas attese la sua vittima con la pazienza dell'uomo primitivo. Non dovette attendere molto. Qualcosa sferzò l'aria all'esterno e l'ombra di grandi ali attraversò il portale illuminato dalla luna. Ci fu un momento di teso silenzio nel quale Pyrrhas udì il tonante impatto del suo cuore contro le costole. Poi una forma scura si stagliò sull'apertura. Rimase visibile per un flebile istante, poi svanì dalla vista. La creatura era entrata; il dèmone della notte era nella stanza. La mano di Pyrrhas si serrò sulla spada mentre si alzava di scatto dalla
piattaforma. La sua voce crepitò nel silenzio quando tuonò l'oscura e misteriosa invocazione sussurratagli dal sacerdote morto. La risposta giunse sotto forma di un grido di terrore; ci fu un rapido calpestio di piedi nudi, poi una pesante caduta e qualcosa si contorse e tremò fra le ombre del pavimento. Mentre Pyrrhas imprecava contro l'oscurità che gli impediva di vedere, la luna stagliò un bordo cremisi oltre il battente di una finestra, simile ad un folletto che scrutava attraverso un'apertura, ed una cascata di luce fusa percorse il pavimento. Nel pallido bagliore l'Argive vide la sua vittima. Però non si trattava di un dèmone femmina quello che tremava là. Era una creatura simile ad un maschio, snella, nuda, dalla pelle tenebrosa. Non differiva dall'umanità negli attributi se non per l'inquietante elasticità degli arti, il luccichio fisso dei suoi occhi. Strisciava come se fosse in agonia, schiumando dalla bocca e contorcendo il corpo in posizioni impossibili. Con un urlo sanguinario, Pyrrhas corse verso la figura ed affondò la sua spada nel corpo che si contorceva. La punta tintinnò sul pavimento di pietra ed un ululato spaventoso eruppe dalle labbra frementi, ma quello fu l'unico effetto apparente del colpo. L'Argive liberò la spada con uno strattone e rimase stupito di non vedere sangue sull'acciaio, né alcuna ferita nel corpo tenebroso. Si girò quando al grido del suo prigioniero, dall'esterno, rispose come un eco un altro grido. Proprio fuori dalla soglia incantata si ergeva una donna, nuda, flessuosa, tenebrosa, con grandi occhi ardenti in un volto senz'anima. L'essere sul pavimento cessò di contorcersi, ed il sangue di Pyrrhas si mutò in ghiaccio. «Lilitu!» Lei fremette sulla soglia, come se fosse trattenuta da una barriera invisibile. I suoi occhi erano eloquenti, parlavano d'odio; bramavano terribilmente il sangue di quell'uomo e la sua vita. Lei parlò, e l'effetto di una voce umana emessa da quella bellissima bocca inumana fu più terrificante di quanto lo sarebbe stato se un animale selvaggio avesse parlato una lingua dell'uomo. «Hai intrappolato il mio compagno! Tu osi torturare Ardat Lili, davanti al quale tremano gli dèi! Oh, tu dovrai ululare di dolore per questo! Sarai fatto a pezzi un osso alla volta, muscolo per muscolo, vena per vena! Liberalo! Recita le parole e liberalo, se non vuoi che questo destino ti venga riservato!» «Parole!», rispose Pyrrhas con amara ferocia. «Mi hai dato la caccia come un segugio. Adesso non puoi attraversare quella linea senza cadere nel-
le mie mani come è caduto il tuo compagno. Vieni nella stanza, cagna delle tenebre, e fatti carezzare come accarezzo il tuo amante... così!... e così!... e così!» Ardat Lili schiumò ed ululò sotto il morso dell'acciaio affilato e Lilitu strillò protestando follemente, battendo con le mani come contro una barriera invisibile. «Smettila! Smettila! Oh, se solo potessi raggiungerti! Come ti ridurrei ad un mutilato zoppo e cieco! Basta! Chiedi ciò che vuoi, ed io lo farò!» «Così va bene,» grugnì cupamente l'Argive. «Non posso togliere la vita a questa creatura, ma sembra che possa fargli del male, e a meno che tu non esaudisca completamente le mie richieste, gli procurerò più dolore di quanto abbia mai immaginato potesse esistere al mondo.» «Chiedi! Chiedi!», lo incalzò la donna dèmone, agitandosi per l'impazienza. «Perché mi avete perseguitato? Che cosa ho fatto per meritarmi il vostro odio?» «Odio?» Lei tirò indietro la testa. «Cosa sono i figli degli uomini che noi Shuala dovremmo amare od odiare? Quando il destino è liberato, colpisce alla cieca.» «Allora chi, o cosa, ha scatenato la condanna di Lilitu su di me?» «Uno che vive nella Casa di Arabu.» «Perché, in nome di Ymir?», imprecò Pyrrhas. «Perché i morti dovrebbero odiarmi?» Si fermò, ricordando un sacerdote che morì gorgogliando maledizioni. «I morti colpiscono al comando dei vivi. Qualcuno che si muove sotto la luce del sole parlò nella notte con qualcuno che abita a Shuala.» «Chi?» «Non lo so.» «Menti, sgualdrina! È il sacerdote di Anu, e tu lo proteggi. Per questa menzogna il tuo amante ululerà sotto il bacio dell'acciaio...» «Macellaio!», strillò Lilitu. «Ferma la tua mano! Giuro in nome delle mammelle di Tiamat, la mia Signora, che non conosco la risposta a ciò che mi chiedi. Chi sono i sacerdoti di Anu per fare loro da scudo? Li squarterei tutti... come farei con te, se solo potessi averti! Libera il mio compagno, e ti condurrò nella Casa delle Tenebre stessa, dove potrai strappare la verità dall'orribile bocca dei suoi abitatori, se ne hai il coraggio!» «Andrò,» disse Pyrrhas, «ma lascerò qui Ardat Lili come ostaggio. Se ti comporterai falsamente con me, egli tremerà su questo pavimento incanta-
to per tutta l'eternità.» Lilitu pianse con furia, strillando: «Nessun dèmone di Shuala è più crudele di te. Affrettati in nome di Apsu!» Ringuainando la spada, Pyrrhas oltrepassò la soglia. Lei gli afferrò il polso con dita simili ad acciaio rivestito di velluto, gridando qualcosa in una strana lingua inumana. Istantaneamente il cielo illuminato dalla luna e la pianura svanirono in un flusso di agghiacciante oscurità. Ci fu la sensazione di precipitare attraverso un vuoto di gelo intollerabile, di un ruggito nelle orecchie dell'Argive come quello di venti titanici. Poi i suoi piedi toccarono del terreno solido; la stabilità seguì quell'istante caotico, simile al momento di dissoluzione che unisce o separa due stati d'essere simili in consistenza, ma più dissimili fra loro del giorno e della notte. Pyrrhas sapeva che in quell'istante aveva attraversato un abisso inimmaginabile e che si trovava su sponde mai prima toccate da piedi di esseri umani viventi. Le dita di Lilitu strinsero il suo polso, ma egli non riusciva a vederla. Si trovava in una oscurità la cui qualità non aveva mai incontrato. Era quasi tangibilmente soffice e pervadeva ed inglobava ogni cosa. Stando in mezzo ad essa non era facile persino immaginare la luce del sole e i fiumi splendenti e l'erba cantare nel vento. Quelle cose appartenevano ad un altro mondo... un mondo perduto e dimenticato nella polvere di milioni di secoli. Il mondo della vita e della luce era un capriccio del caso... una scintilla luminosa che brillava momentaneamente in un universo di polvere e d'ombra. Le tenebre ed il silenzio erano lo stato naturale del cosmo, non la luce ed i rumori della Vita. Non c'era da meravigliarsi che i morti odiassero i vivi, i quali disturbavano la grigia immobilità dell'Infinito con le loro trillanti risate. Le dita di Lilitu lo trascinarono attraverso tenebre abissali. Pyrrhas ebbe la vaga sensazione di trovarsi in una caverna titanica, troppo grande per essere concepita. Percepiva le pareti e la volta anche se non poteva vederli, e neppure raggiungerli; sembravano arretrare mentre lui avanzava, eppure c'era sempre la sensazione della loro presenza. Alle volte i suoi piedi agitavano qualcosa che lui sperava fosse solo polvere. C'era un odore di polvere in quella oscurità; si sentivano gli odori della putrefazione e della muffa. Pyrrhas vide luci muoversi come lucciole nelle tenebre. Eppure non erano luci perché egli ne conosceva la luminosità. Erano piuttosto simili a chiazze di minore oscurità, che sembravano brillare solo per contrasto con l'inglobante tenebra che esse mettevano in risalto senza illuminare. Lenta-
mente, laboriosamente, strisciavano nella notte eterna. Una si avvicinò molto alla coppia, ed i capelli di Pyrrhas si rizzarono ed afferrò la spada. Però Lilitu non vi badò mentre lo faceva affrettare. La fioca chiazza brillò vicino a lui per un istante; illuminò vagamente un viso ombroso, debolmente umano, ma anche stranamente simile ad un uccello. L'esistenza divenne una cosa vaga e contorta per Pyrrhas, in cui gli sembrò di viaggiare per mille anni in una tenebra di polvere e putrefazione, tirato e guidato dalla mano della donna dèmone. Poi le udì il fiato sibilare tra i denti, e Lilitu si fermò. Davanti a loro brillava un altro di quegli strani globi di luce. Pyrrhas non poté dire se illuminasse un uomo od un uccello. La creatura era eretta come un essere umano, ma era dotata di piume grigie... almeno esse erano più simili a piume che ad ogni altra cosa. I lineamenti non erano più umani di quanto lo fossero di volatile. «Questo è l'abitatore di Shuala che ha scagliato su di te la maledizione dei morti,» sussurrò Lilitu. «Chiedigli il nome di colui che ti odia sulla terra.» «Dimmi il nome del mio nemico!», domandò Pyrrhas, tremando al suono della sua stessa voce che bisbigliava tetra ed inquietante attraverso la tenebra priva di eco. Gli occhi del morto bruciarono rossi, e la creatura si mosse verso l'uomo con un fruscio di penne, un lungo bagliore di luce comparve sulla sua mano sollevata. Pyrrhas arretrò, cercando la sua spada, ma Lilitu sibilò: «No, usa questa!», e Pyrrhas sentì un'elsa toccargli le dita. Stava stringendo una scimitarra dalla lama ricurva a forma di luna crescente che scintillava come un arco di fuoco bianco. Parò il colpo della creatura alata e scintille piovvero nell'oscurità, bruciandolo come tizzoni ardenti. Le tenebre lo avvolsero come un manto nero; il bagliore del mostro piumato lo sconcertava e lo stupiva. Era come combattere contro un'ombra nel labirinto di un incubo. Solo grazie al vivido bagliore della lama del suo avversario, Pyrrhas riusciva a mantenere il contatto. Tre volte risuonò la morte nelle sue orecchie quando deviò l'arma appena in tempo, poi la sua lama ricurva tagliò l'oscurità e graffiò la spalla dell'altro. Con un sibilo stridente la creatura fece cadere la sua arma e si accasciò, un liquido latteo che fuoriusciva dalla ferita aperta. Pyrrhas sollevò nuovamente la scimitarra, ma la creatura gemette con una voce che non era più umana dello stormire di cespugli scossi dal vento uno contro l'altro: «Naram-ninub, il bisnipote del mio bisnipote! Grazie ad arti nere
egli parlò e mi comandò attraverso l'abisso!» «Naram-ninub!» Pyrrhas rimase bloccato per lo stupore; la scimitarra gli venne strappata dalle mani. Nuovamente le dita di Lilitu si bloccarono sul suo polso. Nuovamente il buio venne sommerso nella tenebra profonda e venti ululanti soffiarono tra le sfere. Pyrrhas barcollò alla luce della luna nei pressi della villa in rovina, ondeggiando per lo stordimento della trasmutazione. Accanto a lui, i denti di Lilitu brillavano tra le rosse labbra arricciate. Afferrandole i folti riccioli sul collo, la scosse selvaggiamente, così come avrebbe scosso una donna mortale. «Meretrice dell'Inferno! Quale follia ha instillato nel mio cervello la tua magia?» «Nessuna follia!», rise lei, scostando di lato la mano che la stringeva. «Sei stato nella Casa di Arabu e ne sei ritornato. Hai parlato e sconfitto con la spada di Apsu l'ombra di un uomo morto da lunghi secoli.» «Allora non era un sogno della pazzia! Ma Naram-ninub...» Si fermò in preda a pensieri confusi. «Perché, fra tutti gli uomini di Nippur è sempre stato il mio più leale amico!» «Amico?», lo derise lei. «Cos'è l'amicizia, se non un'allettante pretesa per trascorrere piacevolmente un'ora spensierata?» «Ma perché, in nome di Ymir?» «Che importanza hanno per me i meschini intrighi degli uomini?», esclamò irritata Lilitu. «Però ora ricordo che uomini di Erech, avvolti da mantelli, s'intrufolano di notte nel palazzo di Naram-ninub.» «Ymir!», come un improvviso lampo di luce, Pyrrhas vide la verità con spietata chiarezza. «Avrebbe venduto Nippur ad Erech e per prima cosa doveva mettermi fuori combattimento, perché le schiere di Nippur non possono resistere senza di me! Oh, cane, fa che il mio pugnale trovi il tuo cuore!» «Mantieni la tua promessa!» L'insistenza di Lilitu soffocò la sua furia. «Io ho mantenuto la mia. Ti ho condotto dove nessun uomo vivente è mai stato e ti ho riportato indietro incolume. Ho tradito gli abitanti delle tenebre e fatto una cosa per la quale Tiamat mi legherà nuda su di una graticola arroventata per sette volte sette giorni. Recita le parole per liberare Ardat Lili!» Ancora assorto per il tradimento di Naram-ninub, Pyrrhas recitò l'incantesimo. Con un sonoro sospiro di sollievo, l'uomo dèmone si alzò dal pavimento di pietra e giunse sotto la luna. L'Argive era in piedi con la mano
sulla spada ed il capo chino, perso in cupi pensieri. Gli occhi di Lilitu lampeggiarono un rapido messaggio verso il suo compagno. Furtivamente iniziarono a muoversi verso l'uomo distratto. Qualche istinto primitivo gli fece sollevare di scatto il capo. Si stavano stringendo su di lui, i loro occhi ardenti sotto la luce della luna, le loro dita che lo cercavano. Immediatamente comprese il suo errore; si era dimenticato di far loro giurare una tregua con lui; nessuna promessa li tratteneva dalla sua carne. Con sibili felini attaccarono, ma ancora più rapidamente il barbaro balzò di lato e corse disperatamente verso la lontana città. Troppo intensamente assetati del suo sangue per fare uso della stregoneria, i due dèmoni lo inseguirono. La paura mise le ali ai piedi di Pyrrhas, ma molto vicino dietro di sé udì il rapido scalpiccio dei loro piedi, il loro ansimante respiro. Un improvviso tuonare di zoccoli risuonò di fronte all'Argive che, sbucando da un miserabile gruppo di palme scheletriche, per poco non carambolò contro un cavaliere che cavalcava come il vento, un lungo bagliore argenteo in mano. Con un'imprecazione di stupore il cavaliere fece impennare il destriero. Pyrrhas vide torreggiare sopra di lui un possente corpo in una cotta di maglia di ferro, un paio di occhi ardenti che lo guatavano da sotto un elmo a cupola, una corta barba nera. «Tu, cane!», strillò furiosamente. «Maledetto, sei venuto a completare con la spada ciò che è stato iniziato dalla tua magia nera?» Il cavallo s'impennò selvaggiamente quando Pyrrhas gli balzò addosso e ne catturò le briglie. Imprecando furioso e lottando per mantenere l'equilibrio, Naram-ninub colpì la testa del suo attaccante, ma Pyrrhas parò il colpo e sferrò un mortale attacco di punta. La lama venne deviata dal corsaletto e trapassò la mascella del semita. Naram-ninub urlò e cadde dal destriero slanciato in avanti, sputando sangue. La gamba gli si spezzò quando cadde pesantemente a terra, ed il suo grido venne echeggiato da un ululato carico di malignità proveniente dal boschetto avvolto dall'oscurità. Senza trascinare a terra il cavallo impennato, Pyrrhas gli balzò in sella e lo fece voltare. Naram-ninub stava gemendo e tremando al suolo, e mentre Pyrrhas guardava, due ombre sfrecciarono dal boschetto oscuro e si avvinghiarono alla forma prostrata. Un urlo terribile eruppe dalle labbra di Naram-ninub a cui rispose una risata ancora più spaventosa. Sangue nell'aria notturna; di esso si sarebbero nutrite le creature della notte, selvagge come cani idrofobi, senza badare alla differenza tra gli uomini. L'Argive fuggì verso la città, poi esitò scosso da una feroce avversione. La terra piatta si stendeva tranquilla sotto la luna e la rozza piramide di En-
lil si ergeva verso le stelle. Dietro di lui si trovava il suo nemico che stava saziando le zanne degli orrori che egli stesso aveva richiamato dall'Inferno. La via per Nippur era libera, per il suo ritorno. Il suo ritorno?... ad un popolo demoniaco che strisciava sotto i piedi di sacerdoti e re; ad una città marcia per gli intrighi e gli osceni misteri; ad una razza aliena che non si fidava di lui; ad una donna che lo odiava. Girando nuovamente il cavallo si diresse verso Occidente, verso le terre aperte, spalancando le braccia in un ampio gesto di rinuncia e di esultanza per la libertà. Il peso della vita gli cadde di dosso come un mantello. La sua criniera si agitò nel vento e sulla piana di Shumir echeggiò un suono che non si era mai udito prima... la possente, elementare, irragionevole risata di un barbaro libero. Titolo originale: The House of Arabu (Avon Fantasy Reader, n. 18, 1952, con il titolo The Witch from Hell's Kitchen) FINE